Tab leaux Vivants A cura di Dario Molinari
Incontro con l’artista
Liceo Artistico “Volta” Pavia
Tab leaux Vivants Incontro con l’artista
a cura di Dario Molinari
Liceo Artistico “Volta” Pavia
un progetto a cura di Dario Molinari progetto grafico Riccardo Paracchini Dario Molinari
Comune di Pavia “Assessorato Istruzione e Politiche Giovanili”
Volta Istituto d’Istruzione Superiore Pavia
indice
Introduzione, di Franca Bottaro… ………………………………………………………… 6 Tableaux Vivants, di Dario Molinari… …………………………………………………… 8 Incontri, di Giovanna Storti………………………………………………………………… 12 INCONTRO CON L’ARTISTA Francis Bacon……………………………………………………………………………… 14 Umberto Boccioni… ……………………………………………………………………… 22 Paul Cézanne… …………………………………………………………………………… 28 Marc Chagall… …………………………………………………………………………… 36 Gustav Klimt… …………………………………………………………………………… 42 Fernand Léger … ………………………………………………………………………… 48 Tamara de Lempicka… …………………………………………………………………… 54 Roy Lichtenstein … ……………………………………………………………………… 60 Henri Matisse… …………………………………………………………………………… 64 Amedeo Modigliani… …………………………………………………………………… 70 Edvard Munch… ………………………………………………………………………… 78 Pablo Picasso… …………………………………………………………………………… 84 Vincent Van Gogh… ……………………………………………………………………… 94 Andy Warhol… ………………………………………………………………………… 104
“Nei sogni e nell’arte, non esiste l’impossibile.”
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ual è il pittore che più mi rappresenta? Davvero se mi facessero una simile domanda non riuscirei a rispondere di getto. Mi piace l’arte, mi piacciono gli artisti, mi piace questo mondo fatto di espressività: tanti pittori per un verso o per l’altro mi comunicano emozioni e tutte diverse, a volte contrastanti. Da ragazza mi ha affascinato Henri De Toulouse Lautrec e tuttora nutro per lui particolare predilezione e non so dire cosa di più mi colpisce: la sua personalità, la sua pittura, il modo di rappresentare il suo mondo, il modo di viverlo. Mi piacerebbe sedermi al tavolo del bistrot e osservarlo disegnare sulla tovaglia, guardare la mano che coglie il guizzo di un ricciolo, una nuca, catturare la luce frantumarla in colori improbabili, chiedergli del suo essere uomo, della diversità, forse della sua fatica di vivere. I miei alunni, attraverso i loro particolari Tableaux vivants, sono riusciti a cogliere l’attimo, a valicare la realtà entrare nell’immaginario. Lo hanno fatto con studio, con metodo, con grande fatica. Non si è trattato solo di un divertissement pedagogico, ma di un metodo che ha saputo coniugare il gesto pittorico all’identità di ognuno, ha saputo far emergere le capacità di analisi, di critica, in un continuo rimando di reale e virtuale capace di costruire legami emozionali forti e performanti. Guardate queste opere con gli occhi della mente, proiettatevi in questi mondi ri-costruiti e domandatevi anche voi “Che pittore vorrei essere?”. Scoprirete percorsi affascinanti. Un grazie particolare al curatore del progetto Prof. Molinari e alla Prof.ssa Storti per la consulenza sulle interviste. Ai miei studenti dico solo che, ancora una volta, sono orgogliosa di loro. Il Dirigente Scolastico Arch. Franca Bottaro
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Tab leaux Vivants
di Dario Molinari
Non c’è via più sicura per evadere dal mondo, che l’arte; ma non c’è legame più sicuro con esso che l’arte. Johann Wolfgang Goethe, Le affinità elettive, 1809 L’arte, questo prolungamento della foresta delle vostre vene, che si effonde, fuori dal corpo, nell’infinito dello spazio e del tempo. Filippo Tommaso Marinetti, Manifesto tecnico della letteratura futurista, 1912
el celebre film “Sogni” di Akira Kurosawa, il protagonista, ammirando le opere di Van Gogh durante una visita al museo, si ritrova proiettato “come in un sogno” nel mondo dell’artista e dei suoi dipinti. Dopo aver attraversato materialmente le sue opere, correndo attraverso campi di grano, strade costeggiate da filari di cipressi, il ponte di Langlois, lo incontra una prima volta sotto il sole cocente della Provenza. Lo ritroverà, una seconda volta, mentre si incammina per un campo di grano dove un folle volo di corvi annuncia visivamente il suo suicidio. Il protagonista, ritornato nella realtà, non può che togliersi il cappello con rispetto, ammirazione e venerazione per un uomo arrivato così vicino al sole da bruciarsi e cadere. L’incontro con quell’artista lo ha cambiato per sempre e nulla potrà più essere come prima. Questo episodio di grande fascino estetico, riprende un desiderio inconscio: ritrovarsi nel quadro di un artista amato profondamente, per vedere il mondo col filtro dei suoi occhi, per trasfigurare la realtà nel suo segno e nel suo stile. Avendo immaginato spesso questo motivo, ho provato a condividerlo a un gruppo di allievi, per esplorare cosa potesse significare per loro “incontrare” un artista del passato. La sfida era questa: 8
indagare il mondo di un pittore del secolo scorso, immergendosi totalmente nel suo stile, a costo di perdere la propria identità e i propri riferimenti, ciascuno lavorando ad un autoritratto, utilizzando il linguaggio dell’artista chiamato in causa. Per iniziare questo viaggio era necessaria una porta di passaggio, una “Porta regale” per dirla con Florenskij, che potesse metterci in comunicazione con un altro mondo, sottraendoci al nostro spazio presente. Ma si può viaggiare nel tempo? Andare su e giù dal presente al futuro e dal presente al passato? Con l’immaginazione e la memoria sì. È possibile soprattutto con i sogni e l’arte, quando la mente esce dai suoi parametri abituali inizia un viaggio ricco di fascino, in una circolarità dove i punti d’orientamento svaniscono. Nei sogni e nella follia non esiste l’impossibile, non esiste la connessione tra causa ed effetto, non esiste la forza di gravitazione, sicché muoversi nel futuro o nel passato è una delle caratteristiche dello stato sognante e artistico. Punto di arrivo del nostro sogno è la formalizzazione definitiva di questo percorso. Ogni allievo dopo un iter di studi e approfondimenti dedicati all’artista prescelto (si va da Bacon a Chagall, da Boccioni a Andy Warhol), ha realizzato una tela di grandi dimensioni. Nella dipinto l’allievo si è autoritratto mentre volge le spalle a un’opera moderna. Il suo ritratto, rivolto invece verso lo spettatore, risulta incorniciato nel quadro che ha alle spalle. In questo “quadro, nel quadro” avviene il rito di passaggio: il volto del giovane pittore ci viene restituito attraverso una trasformazione,
“Sogni”, regia di Akira Kurosawa, 1990
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“Cronache di Narnia”: il viaggio del veliero, regia di Michael Apted, 2010
quella imposta dello stile dell’artista di riferimento. In un gioco di specchi, il volto dell’allievo si mimetizza, si confonde, si perde nel quadro. A riportarci al tempo reale, fuori dal “quadro magico” è lo spazio che ruota intorno all’opera: il resto del corpo dipinto fuori dal quadro e la stanza, ovviamente, sono dipinti con una tecnica realistica e oggettiva, per sottolineare il contrasto tra la dimensione ‘onirica’ e quella reale. L’iter progettuale che precede la realizzazione della tela è ampiamente documentato. Si tratta di approfondimenti, citazioni, studi che analizzano il tema dello scambio continuo tra due mondi, il presente e il passato, lo spazio reale e quello della finzione, quello delle cose “presunte vere”, quello della veglia e quello del sogno… Questi studi si presentano quasi come opere originali, che giocano ancora una volta con i codici del linguaggio, poiché in alcuni casi la riproduzione di un’opera del Novecento viene realizzata, attraverso un tableau vivant, con il mezzo fotografico anziché con quello originale della pittura. O, ancora, “false” fotografie provano l’avvenuto incontro dei nostri allievi con i maestri del secolo scorso. Si tratta, in questo caso, di perfetti ritocchi digitali e collage fotografici, realizzati a partire da documenti d’epoca che ritraggono gli artisti nel loro studio accanto ai nostri esploratori. Se non bastasse questa prova, i nostri studenti possono esibire “vere” interviste raccolte durante quegli “incontri” post-mortem, ricche di rivelazioni e scoperte per capire ancora una volta cosa si prova a entrare nel tempo e nella mente di un genio della pittura moderna. 10
Francesca Lucca, “Omaggio a Boccioni”
Incontri di Giovanna Storti
ncontro con l’artista è un progetto nato all’interno di una classe articolata in due indirizzi differenti: Discipline Pittoriche e Beni Culturali. È stato posto sin dall’inizio, accanto agli obiettivi squisitamente didattici, quello, affatto scontato e altrettanto importante, dell’educare alla collaborazione. Il percorso ha previsto momenti differenti, accomunati dal coniugare studio teorico e pratica laboratoriale. In una prima fase, dalla lettura sono scaturiti stimoli, riflessioni, approfondimenti e rielaborazioni.
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In un secondo momento, si è lasciato libero gioco alla fantasia degli alunni, permettendo loro un approccio meno scolastico con gli artisti. Il gruppo di Beni Culturali ha ideato delle interviste con pittori del passato, immaginando coinvolti anche i compagni dell’altro indirizzo. L’ultima fatica è stata prevalentemente pratica: le interviste dovevano essere adattate alle esigenze tipografiche (non piu di 4000 caratteri!) rispettando i tempi. A conclusione posso dire che Incontro con l’artista ha rappresentato un momento importante di verifica e maturazione, un’esperienza ricca e arricchente sia per gli studenti che per i docenti.
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Andrea Asuni incontra Francis Bacon con un’intervista di Luca Frattola
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na grigia giornata d’autunno, una di quelle in cui è facile assopirsi. Nella tranquillità della mia casa suona il telefono. Mi giunge la notizia che Bacon ha accettato di conoscermi. Il giorno successivo sono subito in viaggio con Andrea, un compagno del liceo artistico; in comune abbiamo una passione per l’artista di Dublino. Dopo estenuanti ore di auto, arriviamo nella sua vecchia casa di Millais a Cromwell Palace, in Inghilterra, dove si trova il suo studio. Suoniamo alla porta, finalmente ci apre. Entro e la prima cosa che noto è un mucchio disordinato di pennelli e tavolozze sparsi per la stanza: con molta probabilità stava dipingendo. Mi presento e parliamo per pochi minuti del più e del meno. Intanto Andrea si concentra sui quadri, li osserva, li studia, sembra rapito. Lui è un giovane pittore e più che dalle parole è attratto dalle immagini, dalle tele, dagli strumenti di lavoro. Dopo aver rotto il ghiaccio, inizio a conversare con lui.
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Qual è stato il suo primo approccio con la pittura? Ti racconterò un episodio a riguardo. Nel ’27 ero a Parigi: era in calendario una mostra di Picasso e decisi di andare a vederla. Me lo ricordo come se fosse ieri: i quadri erano esposti alla galleria Rosenberg. Fu proprio in quel momento che decisi di fare il pittore. Interessante… E il suo stile di pittura come è nato? È nato da un quadro che vidi anni fa al castello di Chantilly. È il ‘Massacro degli innocenti’ di Nicolas Poussin. Mi colpì particolarmente il grido della madre che difende il figlio dalla spada di un soldato romano. Secondo me, il più bel grido mai dipinto prima.
Documentandomi ho letto del fallimento professionale del ’36… All’epoca cercai di esporre i miei lavori alla galleria Surrealista e, nonostante tutto il mio impegno, i miei lavori non furono accettati. Aprii gli occhi e capii che il mio talento si esprimeva in una pittura più realista. Nel ’40 distrusse molte sue opere, perché? Quello fu un periodo molto difficile della mia vita, molto snervante. Non so ancora adesso spiegare il perché di quel gesto. Finalmente arrivò il 1945, cosa accadde? Per la mia immensa gioia la Lefevre Gallery di Londra espose il mio ‘Three studies for figures at the base of crucifixion’. Qui mi si aprì la strada verso il successo. Lei è venuto anche in Italia, come si è trovato? 16
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Jorge Lewinsky, Francis Bacon, Portrait, Londra, 1967, Courtesy of the National Portrait Gallery, Londra
Era il 1954 quando fui chiamato a rappresentare l’Inghilterra alla Biennale di Venezia. È stata una bella esperienza. Ad averne ancora l’occasione lo rifarei. I ritratti li realizza in presenza del modello? E dove trova ispirazione? No, non dipingo mai in presenza di persone. In questo modo mi sento più libero, diciamo che sono più inventivo. Quanto all’ispirazione, bastava che mi guardassi in giro nel bar che avevo preso a frequentare con grande assiduità: era piuttosto accogliente e l’essere circondato da persone, sentire i loro discorsi, vedere il viavai di gente mi faceva sentire protetto e a mio agio. Ma ormai è molto tempo che non esco più di casa: parlando con lei mi è venuta un po’ di nostalgia e magari potrei farci ancora un salto uno di questi giorni. Mi dispiace deluderla, mr. Bacon, ma quel bar non c’è più. Com’è possibile? Cosa c’è al suo posto? Hanno costruito un internet-point, quel quartiere voleva stare al passo con il nuovo secolo. Il nuovo secolo è iniziato più di cinquant’anni fa, dici cose senza senso! E poi che diavolo sarebbe questo internet-point? Come hanno potuto fare una cosa del genere? Togliendo quel bar hanno tolto un pezzo di storia, la memoria non va cancellata, siamo solo un impasto di carne e sangue se non sopravvivono almeno le tracce del nostro passato…Scusami, sto divagando troppo… Non si preoccupi, mi dica piuttosto se ha qualche rimpianto, ripensando alla sua carriera… L’unico mio rimpianto è quello di non essere mai riuscito a rappresentare il sorriso nei miei quadri. Il sorriso è… Suona ancora il telefono, incredulo guardo attorno a me, non vedo nient’altro che la mia stanza e penso “possibile che sia stato solo un sogno? Devo chiamare Andrea…”
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Andrea dentro “Triptych”, 1976/2012
Francesca Lucca incontra Umberto Boccioni con un’intervista di Beatrice Giardiello
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to per incontrare l’artista futurista Umberto Boccioni. È il 16 agosto 1916. Ancora poche ore e il suo cavallo lo disarcionerà. Cadendo batterà la testa contro i sassi della strada. Sverrà rimanendo con un piede impigliato in una staffa. Nessuno vedrà la scena. Il suo cavallo si calmerà poco dopo, con un saltello passerà su una cunetta a cercare l’erba buona, trascinando il suo cavaliere esanime con i capelli insanguinati. Morrà poco dopo all’ospedale di Verona. Non so che ore sono, ma in questa piccola stradina vicino a Chievo scorgo un bellissimo tramonto che sembra annunciare la fine prematura dell’artista. Ma eccolo arrivare, è ancora pieno di vita, ha la divisa da ufficiale dell’esercito. Prima che io possa salutarlo mi precede con un sorriso dolcissimo. Poi mi incalza con tante domande. Ma non dovevo essere io l’intervistatrice? Mi chiede del futuro, ovviamente. Ha saputo che vengo dal 2012, quindi
vuole sapere se la fede nel futuro era ben riposta. Se le guerre, i cambiamenti politici, se la radio e le cineprese hanno davvero cambiato lo spazio e il tempo avvicinando fra loro i continenti. È per questo che dipinge e combatte. A questo punto lo interrompo, e gli chiedo della guerra. «Solo un anno fa – inizia a raccontare –, quando l’Italia entrò in guerra, mi arruolai insieme a un gruppo di artisti futuristi: eravamo interventisti e volevamo glorificare la guerra e le nobili idee che la promuovevano, ma purtroppo scoprii presto i limiti della mia scelta: la realtà mi si manifestò nei suoi aspetti più miseri, mi fece ricredere e ancora adesso accuso il colpo di quella rivelazione, quindi preferirei non dilungarmi su questo argomento».
Ma in cosa consisteva esattamente il Futurismo? Era una celebrazione della velocità, del dinamismo. Naturalmente dal punto di vista stilistico noi artisti fummo influenzati dal cubismo, che ci permetteva di suddividere la superficie pittorica in tanti piani dando una prospettiva spaziale. Filippo Tommaso Marinetti ha rivoluzionato la sua vita. Che tipo di rapporto ha avuto con lui? Fu lui il creatore del Futurismo. Inoltre lanciò le serate futuriste, spettacoli teatrali in cui noi artisti esponevamo i nostri manifesti davanti a una folla che spesso ci colpiva con lanci di ortaggi . In uno degli incontri più riusciti, Marinetti presentò il Manifesto della Basilica di San Marco in cui propose di “colmare i piccoli canali puzzolenti con le macerie dei vecchi palazzi crollanti” per preparare la nascita di una Venezia industriale che potesse dominare il mare Adriatico. È da cinque anni ormai che non ho più sue notizie: nel 1911 partì, allo scoppio della guerra in Libia, come corrispondente di 24
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un quotidiano francese. Una delle sue opere più belle è ‘Visioni Simultanee’, come la spiegherebbe lei? È anche una delle mie opere preferite. Nell’insieme i colori creano lucentezza e audacia mentre vengono limitati da linee spigolose e marcate. Ho voluto rendere l’idea del caos e del chiasso infernale che si sente dall’appartamento di una donna, rivolto sulla strada. I colori sono davvero una grande invenzione, con essi ho potuto sfruttare lo spazio per creare un effetto quasi multistrato. Tutti i movimenti e i rumori della strada rimbalzano all’interno, mentre il movimento e la realtà degli oggetti si proiettano all’esterno. È come se lo spettatore si trovasse veramente nel cuore pulsante della città. Viva l’operaio, l’urbanizzazione, l’epoca tecnico-industriale! Che cosa ne pensa della figura della donna? Per me la figura femminile ha sempre avuto molta importanza, forse anche perché sono stato cresciuto da due donne. Le ho sempre presentate come figure eleganti, dolci e delicate, ma anche dai risvolti sensuali. C’è un soggetto che dipinge con maggiore piacere? In questi ultimi anni ho scoperto di avere una passione per i cavalli, animali selvaggi ed indomabili. Un cavallo è come un’automobile ruggente. Un futuro che si realizza imprevisto e sorprendente, che nelle sue manifestazioni sconvolge i significati tradizionali e dimostra di essere simbolo stesso di quel dinamismo al quale il Futurismo inneggia. Ringraziandolo e salutandolo torno al mio tempo, pensando al suo futuro così breve e alla fama che verrà. Il sole ormai è sceso. Ho ancora in mente lo sguardo contento e pieno di speranze con cui mi ha congedato… Addio. 26
Francesca dentro “Visioni simultanee”, 1911/2012
Lena Trydal incontra Paul Cézanne con un’intervista di Giorgia Garlaschini
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o e Lena stavamo trascorrendo una vacanza studio ad Aix, in Provenza. Una fresca mattina di primavera ci siamo verso una radura dove sapevamo che Cézanne amava posizionare il suo cavalletto per studiare meglio la montagna di Saint-Victoire. Lungo la salita che porta alla collina, troviamo il museo-studio di Cézanne. Siamo in anticipo di un’ora, la biglietteria è ancora chiusa; tuttavia una porta secondaria sul retro ci consente di accedere all’interno. Tutto è fermo come lo aveva lasciato il maestro. Ci sembra tuttavia che un’ombra si aggiri per lo studio... L’ombra del maestro, ne siamo certe. Ci facciamo coraggio e azzardiamo una domanda… Monsieur Cézanne, è lei? Ma certo, chi altri dovrei essere? Voi piuttosto. Chi siete?
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Lena nell'atelier des Lauves en Provence, 2012
“Ecco il mio studio. Nessuno vi entra tranne me; ma poiché sei un’amica, ci andremo insieme.” Paul Cézanne
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Io sono Giorgia e questa è la mia amica Lena: ci chiedevamo se sarebbe disposto a dedicarci del tempo per rispondere a qualche domanda.... Va bene, posso rispondervi, ma gradirei fare in fretta, ho veramente poco tempo. Cercheremo di essere rapide. Uno dei dipinti che amiamo molto è ‘Donna con caffettiera’, può svelarci l’identità di questa donna? (Si rabbuia, ndr.) In effetti sono state fatte diverse supposizioni fatte sull’identità della donna: alcuni hanno detto che era mia madre, altri mia moglie, ma la verità è che ho deciso di rappresentare una delle nostre domestiche durante un momento di pausa dalle sue mansioni giornaliere. Mi è sempre piaciuto rappresentare persone comuni nei miei dipinti. Non ha mai provato a dipingere prendendo spunto da modelle? Modelle? Assolutamente mai! Non mi ha mai affascinato l’idea di rappresentare delle persone che non
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conosco, persone di cui non so nulla, né gli stati d’animo, né le emozioni e le sensazioni. Raffigurando amici, parenti, famigliari, persone con cui vivo giornalmente, riesco ad esprimere al meglio i sentimenti. Sua moglie sarà stata uno dei suoi soggetti favoriti allora! Mia moglie l’ho conosciuta durante un viaggio a Parigi: era una modella, era splendida, e me ne sono innamorato subito. Non sono mai riuscito a capire a fondo le donne, e con lei ho sbagliato tutto sin dall’inizio. Il nostro era un matrimonio felice, dal quale abbiamo avuto una splendida figlia, non siamo mai stati in grado di comprenderci l’un l’altro. Io amavo la vita in Provenza, lei avrebbe vissuto costantemente nel caos cittadino. Ecco, forse è proprio qui che ho fatto lo sbaglio più grande, non l’ho mai ascoltata abbastanza; una volta sposati, l’ho obbligata a trasferirsi al sud della Francia, dove ha vissuto tristemente. Non ha mai sorriso molto, anzi, non sorrideva affatto. E anche nei dipinti, per quanto provassi a rappresentarla felice non mi riusciva. Aveva sempre questo velo di tristezza che non l’abbandonava mai. Ma adesso basta parlare di lei, mi intristisce alquanto la cosa. Ci spiace di aver toccato un tasto dolente. Torniamo alle sue opere. Lena da parecchi mesi le sta studiando: pensi che ha voluto raffigurarsi accanto a una delle sue tele dedicate alla montagna di Saint-Victoire! Quale versione? Ne ho dipinte così tante che non me le ricordo tutte… Saint-Victoire è il mio totem, il mio mantra, il mio salmo segreto… A pochi passi da qui, potrete raggiungere un posto tranquillo, è un belvedere da dove si gode una splendida vista sulla mia montagna. Saint-Victoire ha aiutato la mia pittura a ordinare sensazioni in solide pennellate, in colore e struttura. Con queste parole, lei ci ispira! Ma non vada a dipingere in quel posto con il cattivo tempo… Il mio destino è segnato: morirò dipingendo, voi lo sapete ed io anche. Lei si rende conto che molte persone oggi la definiscono un genio della pittura? Un genio? Io? Ma dico, siamo matti? Non sono assolutamente un genio! Dopo essere entrato al collegio Bourbon, ho avuto mille ripensamenti per sette lunghissimi anni, durante i quali mi sono sempre chiesto se fare l’artista fosse il mio lavoro! Ho sempre sognato, durante quegli anni, di andare a vivere a Parigi, ma non ho mai avuto il coraggio di chiedere a mio padre il denaro per fare questo viaggio. È stato un rimorso che mi porto tutt’ora… Ci distraiamo un attimo guardandoci attorno, e non appena rivolgiamo lo sguardo verso il punto in cui fino a poco prima c’era Cézanne non lo ritroviamo più… La nostra visita nell’atelier des Lauves è terminata. Confuse, emozionate prendiamo la strada che porta verso il Terrain de Peintres: oggi si chiama così quel belvedere caro al maestro di Aix. Hanno voluto dedicarglielo, un riconoscimento al suo amore per questi luoghi, dipinti fino all’ultimo respiro. Cézanne morì nell’ottobre del 1906, mentre dipingeva en plein air. Fu sorpreso da un temporale. Riportato a casa da un contadino su un carretto scoperto, semicosciente e in preda a una violenta polmonite, morì pochi giorni dopo senza aver potuto riprendere i pennelli in mano. 34
Lena dentro “La montagne-Victoir”, 1890/2012
Ambra Grilli incontra Marc Chagall con un’intervista di Giulia Ottini
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iungo esausta davanti ai possenti battenti della cattedrale di Reims, dove Chagall sta realizzando le vetrate. Mi sistemo i capelli. I viaggi attraverso il tempo mi scombussolano sempre. Entro in chiesa e mi dirigo verso il pittore. Devo ricordarmi che siamo nel 1974, non devo fare domande su ciò che non ha ancora realizzato. Eccolo, si volta, mi sorride come se mi stesse aspettando… Buongiorno Monsieur Chagall, sono la studentessa che le ha telefonato per un’intervista, si ricorda? Certo che mi ricordo! Possiamo incominciare se vuoi. E dammi pure del tu! Sì grazie! Allora… quando hai iniziato ad interessarti all’arte? A 19 anni, ho iniziato a studiare con l’unico pittore che viveva a Viterbsk. Dopodiché ho frequentato l’Accademia Russa di Belle Arti a San Pietroburgo, dove conobbi artisti di ogni scuola e stile. Nel 1911 ti sei trasferito a Parigi per essere più vicino alla comunità artistica di Montpar-
“Mia soltanto è la patria della mia anima. Vi posso entrare senza passaporto e mi sento a casaâ€?.
Marc Chagall
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nasse: quale influenza ha avuto su di te? Lì ho stretto amicizia con Apollinaire, Lèger e Delaunay che mi fecero conoscere il Fauvismo e il Cubismo. Hai subito altre influenze? Sì, nel 1912 a la ‘Ruche’ fui affascinato dalla pittura di Archipenko, Modigliani, Braque e Matisse. Poi imparai la semplicità delle forme dalla pittura russa. E, grazie alla corrente del Tachisme, il mio colore diventò elemento libero indipendente dalla forma. Lei, scusami… tu sei stato definito dalla critica un pittore fauve, espressionista, surrealista e cubista, ti ritrovi in queste definizioni? Fauve, espressionista e surrealista mi sta bene… ma cubista! Che màngino, quando hanno fame, le loro pere quadrate sulle loro tavole triangolari! Mi sembra di capire che non sei molto d’accordo, quindi. Se posso permettermi mi sembra di ricordare che tu chiedesti ad Apollinaire di presentarti un cubista per eccellenza, Picasso: per quale motivo, se non amavi quel genere di pittura? Perché ero curioso. Mi nutrivo costantemente di nuove correnti artistiche, per assemblarle con la mia, in modo tale da rinnovarmi e migliorarmi. Il tuo rapporto con la religione è molto particolare: mi puoi spiegare in che modo? Beh! Come ho dichiarato in un’intervista, io mi definisco un mistico. Non vado in chiesa o in sinagoga, per me lavorare è pregare. E la presenza nelle tue tele di tanti animali come capre, uccelli e maiali come si spiega? Questa mia predilezione per gli animali proviene dall’infanzia: mio nonno era un macellaio, perciò ho sempre vissuto a stretto contatto con gli animali da cortile. Erano i miei compagni di gioco e ricordo che sapevano parlare, posso giurartelo. A causa della morte di tua moglie entrasti in un periodo di depressione durante il quale smettesti di dipingere: come riuscisti ad uscirne? Uscii dalla depressione grazie a Virginia Haggard e prendendo nuove commissioni. Che cosa cambiò, in campo artistico, dopo il tuo periodo di depressione? Riscoprii colori liberi e brillanti: le mie opere erano dedicate all’amore e alla gioia di vivere. Ma non solo, perché mi cimentai anche in altre materie artistiche. Terminando l’intervista, Chagall mi confida che mentre dipinge ha la sensazione che suo padre e sua madre seguano il suo lavoro standoi dietro le sue spalle. Sensazione che, ancora lui non sa, lo accompagnerà per tutta la vita e le cui radici affondano, ancora una volta, nell’infanzia ormai lontana di Viterbsk.
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Ambra dentro “I maghi”, 1968
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Nissle Cassandra incontra Gustav Klimt con un’intervista di Silvia Manfredi
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i trovo a Vienna, un giorno di fine estate del 1915. Nella Vienna del Secessionismo si respira l’aria del cambiamento. Sono venuta a trovare Cassandra, siamo compagne di studi in un liceo artistico. Da un mese lei prende lezioni di pittura dall’artista più chiacchierato di Vienna, Gustav Klimt. Perché non cogliere l’occasione per fare un’intervista? Attraverso uno splendido giardino ed entro nell’atelier. Sullo sfondo si muovono due modelle seminude, soggetti prediletti dall’artista. La cosa mi imbarazza. Al contrario Cassandra sembra a suo agio: si deve essere ormai abituata. Sono preoccupata e ansiosa: tutti qui sanno quanto poco Gustav ami parlare di sé e ancora non riesco bene a capacitarmi del perché mi abbia accettato. Klimt mi ‘accoglie’ a malincuore nel suo
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Martina Ielo, 2011
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atelier. È imponente, suscita un timore reverenziale, di quelli che sono suscitati solo da uomini con una profonda spiritualità. Mi sistemo sulla poltrona, faccio un profondo respiro, attivo il registratore (che l’artista guarda con una perplessità appena percettibile, riuscendo a mantenere la sua aria noncurante) e mi preparo per la prima domanda. A sorpresa, però, è lui il primo a rompere il silenzio. «Proprio non capisco perché tutti vogliano sapere di me. Le mostre e i palazzi... e il mio stesso studio sono pieni di pezzi di me. Non credo nella mia anima ci sia nulla di più interessante di quello che si vede nei miei quadri. Guardi i miei dipinti e vi rintracci ciò che sono e cosa voglio!». Bell’inizio, davvero, lei sa come mettere a proprio agio i giornalisti! Ma non ci speri, questa intervista ho intenzione di farla lo stesso. E comunque, mi creda, troverà alcune informazioni interessanti anche per lei. Va bene, ormai ho accettato. I suoi genitori hanno influito sulla sua formazione artistica? Sì, in fondo l’iscrizione alla Scuola d’arte e mestieri e la mia attitudine decorativa derivano da mio padre orafo. E mia madre mi ha trasmesso l’amore per la musica lirica. Trovo che i miei lavori siano
molto ‘lirici’. Cosa mi dice di suo fratello Ernst? Sta cercando di farmi parlare della sua morte? Non desidero esporre così la mia interiorità. Va bene. Parliamo di influenze, innanzitutto quella bizantina: oro, colori, decorazione. Uno storico moderno ha definito le sue opere “incastro musivo di linee e colori”, è d’accordo? Sì, soprattutto sull’incastro. È quello cui le mie raffigurazioni puntano: completarsi l’una con l’altra, il corpo umano con l’astratto e il decorativo. Un po’ di horror vacui, quindi? Gi spazi vuoti sono poco scenici. Ma alcune immagini riempiono anche il vuoto attorno a sé. Pensi a ‘Il bacio’ o a ‘Speranza II’. Parliamo di arte giapponese. Che cosa penserebbe se le dicessi che nel futuro saranno i suoi quadri a ispirare gli artisti giapponesi? Se artisti giapponesi si ispirassero a me ne sarei fiero, l’arte giapponese mi ha sempre affascinato, erotismo, poesia, eleganza... Spero però che l’arte guardi sempre avanti , senza pensare agli artisti passati.
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Gustav Klimt, “Ritratto di Adele Bloch-Bauer I”, 1907
Proseguiamo: qual è il suo rapporto con la psicanalisi? Certamente non tutto il mio lavoro è esclusivamente estetico, i miei dipinti riflettono una dimensione interiore oscura, ermetica, legata al sogno. A proposito: nelle sue opere ‘Bisce d’acqua’ rappresenta due donne-sirene: il serpente e l’acqua sono indicati da Freud come simboli sessuali. Ovvio. Si tratta di rappresentazioni saffiche e sensuali, vivono in un universo puramente femminile, da cui l’uomo è escluso con violenza. Le sirene sono fatali per il maschio. Lei, invece, nella vita si è guardato bene dallo stare lontano dalle ‘sirene’, girano voci secondo cui lei avrebbe sparso per il mondo ben 14 figli. Scrive per caso per un giornale di pettegolezzi? Finiamola qui. Venite, vi accompagno nel mio giardino, un luogo dove trascorro il tempo necessario a rigenerarmi. La seguiamo… Grazie per la sua disponibilità. Sì, beh, dispiacere mio.
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Cassandra dentro “Bisce d’acqua I”, 1907/2012
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Yoanna Blagova incontra Fernand Léger con un’intervista di Giulia Ottini
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opo tanta fatica giungo finalmente ai cancelli del Paradiso, nella zona riservata agli artisti: una guardia mi fa entrare e mi conduce dall’anima del pittore francese Fernand Léger. Buongiorno monsieur Léger, sono una studentessa del liceo artistico, le volevo fare un paio di domande, in quanto sono stata incaricata dai miei insegnanti di svolgere un’intervista sul suo operato artistico, me lo permette? Hai fatto molta strada, risponderò alle tue domande. Già da bambino dimostrava interesse nel campo artistico? Sì, ho sempre dimostrato molto interesse verso l’arte. A soli 17 anni frequentai l’Ecole des Arts Décoratifs e l’Académie Julian, due scuole artistiche. Nella sua carriera ha sempre creato opere di tipo cubista?
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No, le mie prime opere rientravano nell’orbita del tardo impressionismo, tuttavia ne distrussi la gran parte perché non ne ero soddisfatto. Quando si è orientato verso la pittura cubista? L’evento fondamentale fu la scoperta di Paul Cèzanne al Salon d’Automne. Fui affascinato e influenzato dalle sue riflessioni sul cilindro e la sfera e dalla sua attenzione alle forme e agli spazi. Aprì in me nuove prospettive formali. Ma mi confrontai anche con Picasso e Braque. Lei è stato uno degli artisti più importanti del ‘900, non solo per la sua personale interpretazione del cubismo, ma soprattutto perché è stato uno dei primi ad interessarsi al mondo industriale e agli elementi meccanici. Qual è la sua visione di questo mondo? L’artista si trasforma in un costruttore particolare, il cui obiettivo non è di realizzare un motore che funzioni, ma che obbedisca a leggi plastiche ed estetiche. In queste opere la presenza umana lascia spazio alle macchine, frutto del lavoro dell’uomo e della tecnologia e simbolo della Fernand Léger, civiltà del nuovo secolo. uis David”, 1948 “Homage tu Lo
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Sul cavalletto ha un ritratto di una ragazza che conosco… Da qualche tempo frequenta il mio studio Joanna, è una studentessa italiana, è ambiziosa e appassionata, ha posato il suo autoritratto sul mio cavalletto. Ora è uscita per comprare dei fiori: ci servono per una natura morta. Dunque… monsieur Léger siamo giunti all’ultima domanda.. Avanti, dimmi, ma… che sia l’ultima!
Ah! Sì, non si preoccupi! Le prometto che dopo la lascerò riposare in pace! Dopo la sua morte, sua moglie donò alla Francia un museo con le sue opere, lei è felice di questa scelta? Della mia morte non ricordo nulla, o quasi, e non mi interessa. Invece mia moglie ha fatto che cosa?! Come si è permessa?! Ah! Vedo che non è stato avvisato! Quindi mi sembra di capire che lei non sia molto d’accordo… No che non lo sono! Dimmi, secondo te per quale motivo ho creato dei quadri di difficile interpretazione? Io veramente non saprei! Perché le opere che ho prodotto sono gli specchi della mia anima, in loro ho riposto le mie sensazioni e i miei sentimenti interiori. Privati! Capisco… Beh… Che ci vuol fare? Ormai quel che è fatto è fatto… Approfitto della sua distrazione per congedarmi, prima che possa prendersela con me! Mentre mi allontano a passo spedito, mi volto e noto che l’ autore della ‘Grand Jolie’, è ancora pieno di rabbia. Strano, penso, non sapevo che anche in Paradiso ci si potesse arrabbiare! Chissà, magari finirà all’Inferno per colpa mia… 52
Yoanna dentro “La Grande Giulie”, 1945/2012
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Arianna Longo incontra Tamara de Lempicka con un’intervista di Giorgia Garlaschini
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entre passeggio per la strada una macchina d’epoca mi si accosta, l’autista scende, mi apre la portiera e mi fa salire a bordo: c’è una ragazza, il suo nome è Kizzette. Le chiedo dove siamo dirette, ma non ottengo risposta. La macchina ci lascia davanti a una bellissima casa. Mi fanno accomodare e mi introducono in una stanza dove, seduta su una poltrona, trovo una signora: mi ricorda una pittrice degli anni Venti. Bonjour madame! Lei somiglia tanto a Tamara de Lempicka! Sono io! Con chi ho il piacere di parlare? Mi chiamo Giorgia, sono italiana, non so bene come mai mi trovo qui… Posso approfittarne per farle qualche domanda? Sa, l’arte mi appassiona molto! Signorina sarà per me un piacere rilasciarle un’intervista, perdoni solo il mio italiano imperfetto. Dai miei studi so che è stata sua nonna ad introdurla alla carriera artistica: quando è diven-
tata mamma ha mai cercato di fare altrettanto con sua figlia? Ho provato più di una volta a cercare di avvicinare mia figlia Kizzette alla pittura, ritraendola, e rendendola partecipe del mio lavoro, ma tutto ciò non ha mai avuto successo. Ha preso da suo padre; entrambi non erano interessanti ai miei quadri. Come ha incontrato il suo ex marito? Lo conobbi ad una festa, organizzata da amici che avevamo in comune. Mi viene in mente la figuraccia che feci quella sera! Era una di quelle feste noiose, severe, dove l’etichetta è sempre da tenere a mente. Ma io mi presentai vestita da contadina polacca con un’oca al guinzaglio! È stato molto divertente, almeno per me! Come si concluse la sua storia d’amore con Tedeusz? All’età di trent’anni, dopo dodici anni di matrimonio mio marito mi ha lasciata. Per vendetta lasciai incompiuto il dipinto in cui lo stavo ritraendo, evitai di dipingere la sua mano sinistra, quella in cui doveva avere la fede nuziale. Credo fosse geloso del mio rapporto con D’Annunzio! D’Annunzio? E come ha fatto a conoscerlo? Gabriele lo conobbi nel 1926, mi fu presentato dalla Pignatelli, mi piaceva chiamarlo l’orribile nano in uniforme, non andammo d’accordo a lungo… il nostro rapporto si ruppe in modo molto infelice. Ha avuto una tormentata vita sentimentale, vero? Cos’è accaduto dopo che lei e suo marito vi siete separati? 56
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Sono diventata l’amante del Barone Kuffner, con il quale poi mi sposai nel 1933; mi piaceva uscire con un bell’uomo al mio fianco che mi diceva quanto ero bella e quanto era bella o grande la mia arte. Nel 1943 ci trasferimmo a New York, dove ho esposto e venduto numerose opere e dove purtroppo lui morì nel 1962. Deve essere stato difficile per lei essere artista negli anni ’50, quando le donne non erano molto considerate... A mio parere è difficile essere donne a questo mondo, e per essere artista ho dovuto lottare molto con la società in cui vivevo. Per poter sopravvivere una donna deve usare corpo e sessualità, il pensiero conta relativamente in un mondo opportunista e materialista. Insomma, io vivo ai margini della società, e le regole della società normale non si applicano a coloro che vivono ai margini. Per chi è come me, per chi vede il mondo da un’altra prospettiva, è difficile attenersi alle convenzioni che la realtà impone. All’ingresso, si sentono schiamazzi, e con mia grande sorpresa entra nella stanza Arianna. Bonjour Tamara! Scusa il ritardo, ho avuto alcune difficoltà con i mezzi di trasporto, come mi accade sempre. Figurati Arianna! Oggi il tempo per noi è assolutamente relativo e superfluo. Giorgia, conosci già la signorina? Sì, ci conosciamo di già... È una grande sorpresa per me vederla qui! Posso parlarle di una mostra che si chiama “Tableaux Vivants”, dove Arianna lavora sulla base di studi delle sue opere? Arianna, non mi avevi mai parlato prima di questa mostra… Bè…, come ti ho già detto, quella per le tue opere è una passione che mi è stata tramandata dai miei genitori, abbiamo numerose riproduzioni di tuoi dipinti in casa. Li ho guardati così tanto da sentirmi rapita, trascinata dentro le tue tele. Non ho mai pensato di raccontartelo perché mi imbarazzava l’idea di riprodurre i tuoi quadri, magari non ne sono all’altezza! Non capita spesso che una giovane artista del tuo tempo si appaska Tamara de Lempic elle sioni ai miei dipinti, oggi la fotografia e il video sono i linguaggi do“Ritratto Mademois33 19 minanti! Su quali opere ti sei basata per i lavori della mostra? Poum Rachou”, Principalmente ‘Potrait d’Arlette’, e successivamente ‘Ragazza con orsetto’. Il primo l’ho riprodotto nel mio quadro, dal secondo ho preso spunto per ritrarre mia sorella nella tela. Sono lavori che mi hanno impegnata e fatto gioire a lungo. Ottima scelta! Tra una chiacchiera e l’altra, entra Kizzette che ci comunica che la madre deve prepararsi per una conferenza sul cubismo e l’arte del ‘900. Decidiamo di congedarci, salutiamo le donne e con loro i fantasmi del secolo scorso… 58
Arianna dentro “Arlette Boucard aux Arums, 1931/2012
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Sara Bianchi incontra Roy Lichtenstein con un’intervista di Francesca Albiero
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l parco è sempre affollato, come al solito. Seduta su una panchina, leggo una monografia dedicata a Roy Lichtenstein: me l’ha prestata Joanna, un’amica pittrice che sta lavorando a una tela che la rappresenta accanto a un’opera di questo artista. I suoi quadri hanno un grande fascino, colori accesi, forme plastiche, penso che sarebbe interessante poterlo intervistare di persona… Detto, fatto. Come per magia me lo vedo comparire davanti: è un sogno o è realtà? Non voglio perdermi in queste domande e rischiare di farmelo scappare: fosse pure il suo fantasma, lo voglio intervistare. Mr. Lichtenstein, permette una domanda? A dire il vero sto andando di fretta, ma se è breve… Lei ha fatto studi artistici all’università dell’Ohio, vero?
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Sì, mi diplomai in Belle Arti per consolare i miei genitori. Alla fine degli anni ’50 realizzò quadri che ritraggono Michey Mouse e Donald Duck in stile espressionista. Come mai questa scelta? Per contrapposizione ai nudi femminili di Willem de Kooning e al loro erotismo, ma in realtà fu per tentare una strada nuova, dato che i miei ultimi quadri astratti non avevano dato l’esito che speravo. Attraverso le sue opere che messaggio volle trasmettere? Non sono molto certo del genere di messaggio sociale contenuto nella mia arte, ammesso che ve ne sia uno. Per la verità non intesi trasmettere messaggi, non sono interessato a divulgare tematiche che insegnino qualcosa alla gente o che cerchino, in qualche modo, di migliorare la società… Possiamo dire che i suoi quadri desrivono una realtà ‘fredda’? Quello che conta è rappresentarla ‘scientificamente’, vederla come un sistema compositivo, che richiede una precisa organizzazione. In poche parole, come racconterebbe le sue opere? Sono eleganze allusive di snobismi in equilibrio tra forme volgari e altre. Usano un’ironia che invita lo sguardo a distinguere micro differenze tra segni apparentemente analoghi. Parla mai di sentimenti e passioni? I miei sentimenti tendono all’iperbole. Nel loro eccedere, ci distraggono e smascherano la falsità della situazione. Sono interprete dell’altro. Sentimenti che ritroviamo ad esempio, nel quadro del 1963 ‘Drawning girl’, ora al Museo d’Arte di NY, giusto? Non amo parlare molto dei miei quadri, sono parodie sentimentali, tutto è finto e irreale. I miei quadri non coinvolgono lo spettatore, ed è giusto così. Non mi chieda troppo signorina. Ancora una domanda. Durante i suoi anni migliori si possono notare sensibili mutamenti della sua arte. È mutamento psicologico o artistico? Non saprei. Vanifico le anime dei miei personaggi. Adeguo al linguaggio surrealista un repertorio poetico e autobiografico. Nel salutarlo, sento una goccia sulla guancia senza capire da dove provenga. Ma la mia guancia è asciutta. Mi copro il viso con le mani per un attimo… e quando le tolgo mi ritrovo nel parco. Caspita! Mi sono addormentata! Il rumore del temporale che sta arrivando mi fa trasalire. Mentre corro a casa, mi chiedo se sia stato davvero un sogno… 62
Sara dentro “Drowining girl”, 1963
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Patrick Caruso incontra Henri Matisse con un’intervista di Edoardo Barbieri
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ggi ho finalmente la possibilità di visitare la mostra milanese dedicata ai pittori francesi attivi tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900. Ansioso di ammirare i capolavori esposti, mi affretto a raggiungere Palazzo Reale e, appena entrato, mi ritrovo circondato da opere d’arte di grande bellezza, procedo quindi la mia visita con curiosità. Passati circa trenta minuti dal mio arrivo, sono di fronte alla tela ‘Pesci rossi’ di Henri Matisse. Inizio a scrutarla attentamente nei suoi tratti, nelle sue linee, nei suoi intensi colori e il pensiero incomincia a perdersi e a viaggiare… Vengo interrotto però dalla voce di un uomo che richiama la mia attenzione: mi accorgo subito con grande stupore di non trovarmi più nella sede della mostra milanese, così mi volto verso la voce per avere spiegazioni e mi ritrovo di fronte Henri Matisse in persona. In preda a una grande confusione inizio a sudare, le gambe sembrano cedermi e non trovo una spiegazione
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plausibile per giustificare la mia vista. Mi sforzo comunque di dire qualcosa… È proprio lei? Voglio dire, mi trovo davanti a Matisse, il pittore?… Un attimo fa ero a Palazzo Reale, davanti al suo quadro e adesso… Non c’è da stupirsi, è la forza della pittura: quando dipingi con intensità infondi vita nelle cose. Quei pesci rossi ti hanno portato qua, non sei il primo; qualche giorno fa è arrivato anche Patrick, e da allora non fa altro che dipingere… Il maestro mi spiega che ci troviamo in una stanza d’albergo in Costa Azzurra. Passato qualche minuto necessario per tranquillizzarmi, gli propongo un’intervista. Con mio grande stupore, Matisse accetta entusiasta e mi accompagna sulla terrazza dell’albergo dove ci accomodiamo a un tavolino. Allora, signor Matisse, vorrei concentrarmi proprio sull’opera che mi ha portato da lei, ‘Pesci rossi’. Per quale motivo ha deciso di rappresentare un soggetto così insolito, per altro più volte rivisitato nel suo percorso artistico? Ho deciso di rappresentare dei pesci rossi per la sensazione che percepivo alla loro vista e per la possibilità che mi fornivano di sviluppare la grande forza espressiva del colore. Parlando di colore, è giusto dire che questo dipinto è ancora molto legato alla sua concezione fauvista della pittura, proprio come espressione dei sentimenti? Bè, certo. In quel periodo ero ancora molto legato al mio precedente percorso fauvista. Questo uso espressivo del colore ho sempre cercato di mantenerlo, seppur in maniera differente: mi sono sempre servito del colore come mezzo per esprimere le mie emozioni e non per riprodurre la natura. Quanto considera importante quest’opera all’interno della sua produzione fino ad oggi? Tutti i miei lavori sono parte di me e raccontano a loro modo anche il mio personale percorso artistico. ‘Pesci rossi’ mi riporta alla mente la mia giovinezza, in particolare, ai miei studi sull’arte giapponese, quindi ai miei viaggi per il mondo, enormi fonti di ispirazione per la mia arte. Gli sorrido garbatamente così lui approfitta della situazione per fare una pausa e offrirmi un bicchiere di rosato, tipico della Costa Azzurra. Accetto compiaciuto l’offerta ed assaporo con gusto, insieme all’artista, il vino. Osservando Matisse che si guarda attorno con piacere, gli domando quanto sia importante per lui la Costa Azzurra, dove trascorrerà gran parte della sua vita. Amo profondamente questi luoghi. In questo posto meraviglioso ho sempre trovato quella serenità interiore, fondamentale per la mia arte, quella stessa serenità che rappresento nelle mie opere attraverso la semplificazione delle forme. In ogni mia opera mi prefiggo di mettere ordine nel caos che ci circonda. Per questo devo esprimermi con chiarezza e semplicità. Il mio solo ideale è l’insieme. I dettagli, al contrario, diminuiscono la purezza delle linee, a discapito dell’intensità emotiva. So che lei è anche un collezionista. Sono a conoscenza del fatto che fino a qualche anno fa 66
Stop motion, “Pesci rossi”
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possedeva opere di Cézanne, Rodin, Van Gogh, Gauguin, che comprò da giovane… Però lei non sa come ho comprato quelle opere… Mi racconti, sono curioso… In quel periodo avevo qualche difficoltà economica. Mi ero appena sposato e non mi ero ancora affermato come artista, perciò per diventare collezionista ho dovuto vendere l’anello di fidanzamento di mia moglie, un magnifico zaffiro. Amèlie non mi ha mai perdonato quel gesto. Ho cercato di rimediare facendole qualche ritratto, però senza successo. Matisse ride di gusto dopo questa rivelazione e mi offre un secondo bicchiere di rosato. Capisco che l’intervista sta passando in secondo piano, quindi mi affretto a porgere all’artista l’ultima domanda… Signor Matisse, tenendo presente il suo trascorso artistico, quale opera considera il suo capolavoro? Per risponderti voglio mostrarti l’opera a cui sto lavorando adesso… (L’artista mi accompagna in una stanza che l’albergo gli ha concesso per proseguire il suo lavoro. Qui vedo una grande tela appoggiata al muro e vari schizzi tutto intorno. Nella stanza ci raggiunge anche Patrick, ndr.) Fino ad ora ho realizzato molte opere interessanti e piacevoli alla vista, però non credo di aver ancora realizzato un capolavoro. Questo, infatti, dovrebbe coniugare diverse arti, quali l’architettura, la pittura e la scultura in un’unica opera, la quale deve soddisfarmi pienamente e deve riassumere tutta la mia concezione e la mia esperienza artistica. Ti ho portato in questa stanza proprio perché è l’obiettivo che mi sono prefissato per la realizzazione di questa grande opera. Ora puoi vedere solo lo studio sulla pittura però, se sei curioso, uno di questi giorni potrai seguirmi in un paese poco distante da qui, chiamato Vence, dove ti spiegherò dettagliatamente la mia idea e ti risulterà più facile capirla. Nel frattempo mi offre l’ennesimo bicchiere di rosato e con un ultimo brindisi si conclude la mia conversazione con Henri Matisse. Nell’euforia della situazione avevo però tenuto in sospeso una domanda che adesso mi torna in mente con tutta la sua urgenza e preoccupazione: quando tornerò a casa, e soprattutto,…come? 68
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Patrick, dentro: “Pesci rossi”, 1911/1912
Martina Carnevale incontra Amedeo Modigliani con un’intervista di Melinda Papa
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aspita, che fatica. Questa macchina è davvero terribile! Ops, scusate. Io e Martina, la mia amica, studentessa di pittura, siamo appena scese da uno strano aggeggio: la Macchina del Tempo. Ebbene sì, pensate un po’ a cosa ci siamo sottoposte per fare questa intervista. Devo dire che sono un po’ emozionata. Ho fatto un salto indietro di più di 90 anni. Ed è tutto molto strano. È il 21 Gennaio del 1920 e siamo a Parigi, nella casa di Amedeo Modigliani. Lui è seduto alla sua scrivania e sorseggia un bicchiere di vino. Non penso sia il primo della giornata e nemmeno l’ultimo. Infatti è circondato da bottiglie. Piene e vuote. Ma ecco che ci ha viste. Ci saluta e noi facciamo altrettanto. Poi rompiamo il ghiaccio con la prima domanda.
Modigliani nel suo atelier con Martina, 1915
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Buongiorno maestro, ci scusi ma ci sentiamo molto strane in questo posto. Il 1920 è davvero così diverso dal 2012. Caspita, il 2012?! Sarò già morto… Pensi piuttosto che presto le sue opere troveranno posto nei libri di storia dell’arte, monsieur Modì! Difficile pensarlo ora, viste le mie condizioni di salute… Posso distrarla con un pensiero divertente? Tra parecchi anni una beffa clamorosa la renderà noto anche al grande pubblico che non frequenta le gallerie d’arte… Dimmi, di che si tratta… Ormai più di trent’anni fa… mi scusi, sarebbe meglio dire tra circa sessant’anni, nel mese di luglio del 1984, verranno ritrovate tre sculture nel fosso Mediceo, a Livorno. La critica le attribuirà a lei, senza alcun dubbio. Si faranno ricerche nel Fosso, dando peso ad una vecchia leggenda secondo la quale, in un momento di sconforto, lei avrebbe gettato proprio lì alcuni lavori, portandoli con una carriola. Una leggenda, la conosco… Qualche giorno più tardi si verrà a sapere di una gigantesca burla messa in atto da tre studenti universitari, i quali avrebbero abbozzato con un trapano elettrico tre teste riconducibili al suo stile, gettandole proprio dove si cercavano i suoi lavori. Lo scherzo si rivelerà più grande degli stessi autori e la notizia farà il giro del mondo, mettendo in ridicolo il mondo dell’arte e della critica. Passa il tempo, ma i critici non cambiano, anzi… (Ride interrotto da forti colpi di tosse, ndr.) Sta curando la sua tosse? È da quando sono bambino che soffro di malattie polmonari. Per questo fui costretto a casa tutti i giorni, ma ogni tanto mio nonno Isaac, appassionato di storia e filosofia, 73
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mi accompagnava nei musei sollecitando la mia creatività. Nasce così la sua passione per l’arte? Quando mi appassionai veramente alla pittura, mia madre mi mandò a frequentare lo studio del pittore livornese Guglielmo Micheli. Poi mi iscrissi alla Scuola Libera di Nudo di Firenze. Lì studiai i Macchiaioli e gli impressionisti italiani. A Venezia frequentai l’Accademia di Belle Arti. Qui, in occasione della Biennale, incontrai gli Impressionisti. Ma in Italia non aveva più nulla da imparare… Sì, volevo andare a Parigi e grazie a mia madre riuscii ad esaudire il mio sogno: mi iscrissi all’Accadémie Coralassi. A Montmartre incontrai Picasso, Derain, de Vlaminck, Van Dongen, Henri Laurens, Jacob e Apollinaire: finalmente sentii di essere al posto giusto al momento giusto. Ero ancora alla ricerca di uno stile personale. Volevo sorprenderli con uno stile tutto mio. Non riuscendo però a vendere nulla di quanto prodotto fino ad allora, iniziai una disperata, e ancora oggi non conclusa, ricerca di soldi. Ma poi, nell’ottobre del 1907 riuscii ad esporre al Salon d’Automne, dove ebbi l’occasione di ammirare molte opere di Cézanne. Esse mi affascinano e stimolarono moltissimo. Tornato in Francia, nel 1914 incontrai Paul Guillaume, un colto intellettuale che iniziò ad acquistare alcune delle mie opere e a pro-
muovere la mia arte. Quando ha conosciuto Jeanne? La conobbi nella primavera del 1917. Ci innamorammo. La mia arte era diventata più serena, sembrava risentire della presenza di Jeanne. Nel marzo 1918 mi annunciò di essere incinta. Partimmo con Zborowski per una vacanza Nizza dove il 29 novembre nacque la mia piccola. Io e mia moglie eravamo molto occupati, così Lunia Czechowska badava alla mia bambina. (Interviene Martina. Sembra davvero entusiasta, ndr.) Lunia Czechowska! Il ritratto di Lunia Czechowska è il mio preferito! Ne sto facendo una copia… Magari se mi facesse un autografo potrei fingere che sia suo e poi… (Scoppiamo a ridere, poi Martina continua, ndr.) Scherzi a parte, penso che Lunia Czechowska sia uno dei suoi soggetti più belli, a parte Jeanne, ovviamente… Grazie mille, Martina. Mi fa piacere che ci siano giovani del XXl secolo che ammirino così tanto le mie opere. (Dopo qualche secondo di silenzio faccio la mia ultima domanda, ndr.) Spesso lei non dipingeva gli occhi dei suoi soggetti. Come mai?
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(In quel momento interviene Jeanne. Con fatica, perché incinta di otto mesi, si avvicina dalla cucina, ndr.) Mi chiedevo sempre il motivo per cui mio marito non dipingesse mai gli occhi, nei suoi ritratti. Un giorno mi feci coraggio e glielo chiesi. Lui mi rispose: «Jeanne, dipingerò i tuoi occhi soltanto quando ti avrò vissuta veramente». E lo ha fatto nell’ultimo ritratto che mi ha fatto. Ecco la risposta alla tua domanda, cara giornalista.
Salutiamo Modì e Jeanne: lasciamo l’appartamento e mi dirigo a passo spedito verso la macchina del tempo. Non voglio trattenermi oltre perché purtroppo conosco già i tragici fatti che seguiranno. Poco dopo Zborowski annuncerà a Modigliani di essersi rivolto ad un medico che ne ordina l’immediato ricovero. Il 22 Gennaio Modigliani giunge all’Hôspital de la Charité in stato di incoscienza. Il 24 Gennaio muore di meningite tubercolare. Due giorni dopo Jeanne, incinta all’ottavo mese, si uccide gettandosi dalla finestra del quinto piano della casa natale. Solo nel 1930 i resti di Jeanne verranno tumulati accanto a quelli di Modigliani. Oggi riposano insieme nel cimitero parigino di Père Lachaise. 76
Martina dentro “Lunia Czechowska�, 1919/2012
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Francesca Salamone incontra Edvard Munch con un’intervista di Laura Francia
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ome ho già detto monsieur Munch veniamo da molto lontano e, se le cose stessero davvero al loro posto, noi per lei non esisteremmo e lei per noi a quest’ora sarebbe già morto. «La fine dei miei giorni? La morte? Conosco questa dimensione, so sempre di non essere da solo. Sapete che il pensiero della morte non mi ha mai lasciato un secondo nella mia vita? A partire dalla scomparsa di mia madre per tubercolosi quando avevo cinque anni. Mia sorella la seguì nove anni dopo: da allora c’è un’ombra su di me e in tutto quello che mi circonda. Ma mi sto dilungando. Incominciate pure». Quando si è appassionato all’arte per la prima volta? A sette anni iniziai a riprodurre i movimenti di alcune persone cieche incontrate per strada. Mia zia Karen era una pittrice. Dopo la morte di mia madre, lei si era presa cura di noi: cercò subito di farmi
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iscrivere da mio padre a dei corsi di pittura. Così un uccello da preda è entrato in me. I suoi arti sono penetrati nel mio cuore, il suo becco ha trafitto il mio petto e il battito delle sue ali ha offuscato il mio cervello. Quali sono le tematiche più significative dei suoi quadri? La morte, la malattia, la vita, l’amore sono ‘esami’ del mio ego, come direbbe Freud. Malattia e pazzia furono gli angeli custodi della mia culla. La morte di mia madre e di mia sorella mi perseguitano ancora. La pazzia trascinò mio padre in un’altra realtà. Tutto questo mi ha portato a vedere il
mondo attraverso un bicchiere di alcool. Sento le urla della mia anima che vuole uscire ogni volta che tocco un pennello. Non rappresento certo i particolari, nel dolore, altrimenti le mie opere si trasformerebbero in piccole tele con la cornice dorata destinate a ornare le pareti delle case borghesi. Non voglio neanche pensarci. E dell’amore cosa ci dice? L’amore tra i due sessi implica un rischio, un pericolo, soprattutto per l’identità maschile che viene quasi annientata dalla donna-mantide. Amavo Tulla Larsen, ma non volevo trasmetterle la tubercolosi e la mia malattia mentale. Dopo esserci lasciati, mutilandomi anche un dito con una pistola, iniziai a frequentare una delle modelle di Matisse, Eva Mundocci. Invece questo quadro, ‘Notte stellata’, come è nato? Mi sono ispirato alla scena finale di ‘John Gabriel Borkman’ di Ibsen. Avevo realizzato alcuni bozzetti e un programma di scena. Sembrava di vedere la mia vita illustrata a teatro. È una sorta di testamento spirituale. Nella pace relativa trovata in questa casa, sento sempre un presagio della 80
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mia vecchia macabra amica d’infanzia, la morte. Francesca, per quali ragioni ami la pittura di Edvard? Perché i suoi quadri sono molto emotivi e io sono emotiva! La sua angoscia mi spaventa e mi attrae. Le notti di stelle e di neve sono bellissime e spaventose insieme... Torniamo a lei monsieur Munch, cosa vede quando guarda i suoi quadri? Vedo il mio passato, i miei pensieri. Vedo il prossimo quadro, vedo mia madre, vedo la pazzia, vedo
l’ombra nera che incombe su tutto. Vedo tutto tranne quel quadro. Invece lei cosa vede nei miei quadri? Credo di vedere il momento in cui lei sta dipingendo, ma, se mi soffermo, mi sembra di essere lì dentro. Sento le urla, il silenzio incombente. Spero di riuscire a spiegarmi... Che consigli darebbe a dei giovani artisti come Francesca? Dovete farvi sentire anche con qualcosa di muto come un quadro. Niente vi può fermare quando volete mostrare quello che provate. Il vostro animo ve ne sarà grato.
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Francesca dentro “Notte stellata”, 1922/2012
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Katia Ignatova incontra Pablo Picasso con un’intervista di Valeria Magnani
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i sono persa per le strade di Mougins, ad un tratto scorgo un piccolo e vecchio caffè. All’interno sembra ci sia una festa in maschera, tutti sono vestiti con abiti degli anni Trenta. Provo a entrare e vengo accolta con diffidenza dai partecipanti. Seduto a un tavolo, noto un uomo travestito da Picasso. Sembra proprio il vero artista, ha occhi magnetici e scintillanti, capelli ancora neri ed è intento a ritrarre una giovane ragazza su un taccuino. Proprio in questo periodo sto raccogliendo delle informazioni su di lui e colgo l’occasione per fare qualche domanda a questo signore, sperando che sappia qualcosa di cui non sono ancora a conoscenza. Mi dirigo spedita verso di lui che, dopo qualche istante, si accorge della mia presenza, ma senza alzare gli occhi e le mani dal ritratto. Mi invita a sedere e senza indugiare troppo inizio la mia inchiesta.
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Autoritratto come Dora Maar, Katia Ignatova, 2011 (elaborazione digitale)
Buongiorno maestro, sono una studentessa del liceo artistico di Pavia. Mi chiedevo se era in possesso di qualche informazione inerente Picasso? Cara signorina… e se le dicessi che sono io Picasso? Che onore, maestro… Davvero non immaginavo… Allora permette che le faccia qualche domanda? Sì, ma dammi del tu. Ti sembro tanto vecchio? Certo che no. Ci provo. So che in questo periodo frequenti la giovane fotografa Dora Maar. Quale tipo di rapporto avete instaurato? Ci siamo conosciuti in un caffè di Parigi quattro anni fa e molto presto sono andato a vivere da lei. Ci ha presentati un mio amico, il poeta Paul Eluard. Lei era seduta al tavolo e giocherellava con un coltello. Se lo passava tra le dita della mano appoggiata sul tavolo. Quando sbagliava il guanto nero le si impregnava di rosso. Sangue… Che cosa ti ha ispirato in lei? Di sicuro questa ragazza non è l’unica che riesca ad ispirarmi in questo periodo, (mi strizza l’occhio, ndr.), ma questa è un’altra storia! Che cosa mi ispira? Non so, credo ci sia qualcosa di magnetico in lei: è per questo che continuo a ritrarla. Cambiamo argomento. Come mai hai deciso di accostarti al cubismo? Forse per l’impressione che mi ha suscitato la mostra dei bronzi iberici del IV o V secolo. Certamente ha inciso anche l’incontro con Georges Braque, che mi ha condotto a rinnegare il 86
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Picasso nel suo studio con Katia, Parigi 1965
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mio stile precedente. So che sei stato molto influenzato anche da Matisse: Pablo Picasso, in che modo? bola”, 1938 “Maya con la bam Io e Matisse non siamo proprio grandi amici, ma è stato anche grazie a un suo quadro che ho intrapreso questa avventura del cubismo! Mentre ero a casa sua, a Parigi, ho visto per la prima volta una statuetta africana. Il mattino seguente mi ritrovai nel mio studio insieme a Max Jacob immerso in un mare di disegni che ritraevano il volto di una donna con un solo occhio, un naso troppo lungo che si confondeva con la bocca e una ciocca di capelli sulla spalla. Ma questo risale a circa 30 anni fa. Questa vicenda come ha cambiato il tuo modo di dipingere? Senza rendermene conto mi sono rinchiuso nel mio studio senza più modelle. Per circa tre mesi ho passato tutto il mio tempo a realizzare un’unica grande tela. Mi ricordo che il pavimento mi si riempì di
schizzi. Quando ormai ero a metà del lavoro mi chiesi se la mia idea poteva essere compresa. Mi dispiace che la tua opera non sia stata capita subito. I tuoi genitori invece ti incoraggiavano? Il rapporto con tuo padre era intenso, vero? Se devo essere sincero, quando mi capita di ritrarre un uomo penso sempre a lui. Per me l’uomo è don Josè, e sarà così per sempre. Tutti gli uomini che disegno li vedo più o meno con i suoi lineamenti. Qual è il ricordo a cui è più legato? Come le ho già accennato, io e mio padre eravamo molto legati e il ricordo più bello riguarda proprio lui. È il ricordo di quando mi ha donato i suoi pennelli dicendomi che avrei potuto farne un uso migliore rispetto a quello che ne aveva fatto lui. Posso sapere qualcosa dalla tua modella? Per me non ci sono problemi, ma devi sentire Katia. (Katia mi autorizza a farle qualche domanda, ndr.)
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“Stop motion Picasso”, 2012
Come mai hai scelto di farti ritrarre da questo grande artista? A dire il vero è stato Pablo a chiedermi di farle da modella. Immagino che tu non sia di queste parti. Ho origini russe, ma ora vivo in Italia. Fin da piccola ho sviluppato un certo interesse per l’arte e un giorno ho deciso che avrei conosciuto Picasso. Sto realizzando anche un dipinto che si ispira alle suo
opere e quando lui ha scelto di ritrarmi non ho avuto esitazioni. Grazie maestro per il tempo che mi ha dedicato. Grazie a lei per la piacevole conversazione… Mentre mi allontano dal caffè, mi lascio alle spalle un’emozione grandissima. Subito però mi accorgo di aver dimenticato, nella fretta, il mio taccuino: corro indietro per cercarlo, ma del locale non vi è più traccia… Al suo posto, un anonimo fast food. 92
Katia, dentro “Maya con Bambola”, 1938/2012
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Gemma Bocchio incontra Vincent Van Gogh con un’intervista di Silvia Manfredi
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a professoressa di storia dell’arte non ha creduto a una sola parola del nostro racconto. Eppure è stato tutto così vero…Ci trovavamo in campagna, sopra di noi splendeva il cielo terso di tanti paesaggi impressionisti, nuvole bianche si rincorrevano su uno sfondo mosso di azzurri limpidi e freschi. Ci siamo infilati in una stradina stretta e appartata, parlando della scuola, degli amici. Parole frivole di un pomeriggio spensierato. A un certo punto abbiamo perso la nozione del tempo, i cellulari non avevano più campo. Mi sono guardata in giro e mi sembrava di non riconoscere più dove fossimo... Sì, i campi erano quelli, ma... sembravano più luminosi, più vivi. Era comparsa anche qualche distesa di grano che aspettava l’estate, avida di gialli dorati. Io e Gemma abbiamo fatto qualche passo, smarrite, la sensazione era quella di esserci allontanate troppo e di non sapere come
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fare a ritrovare la strada di casa… All’improvviso intravediamo in lontananza un uomo: di fronte ha un cavalletto da pittura, di quelli in uso nell’800... non sembra indossare abiti moderni, visto così da lontano, ma siamo in campagna, capita di incontrare vecchi con gli abiti che hanno indossato per una vita. Forse è un contadino. Ci avviciniamo per cercare di capire dove siamo e lo guardiamo meglio. Capelli rossi, barba rossa... inizia a ricordarci qualcuno... Non è che... Gli tocchiamo una spalla, lui si gira e ci permette di vedere il lato sinistro del suo volto che prima era nascosto. Un fazzoletto gli avvolge l’orecchio sinistro. Ci guardiamo incredule. Mi faccio coraggio e con voce tremante gli chiedo se sia davvero lui, il grande maestro, Van Gogh. Il cuore mi batte forte, Gemma è bianca come un cero. Dopo un lungo silenzio, che sembra infinito, sentiamo la sua voce. «Chi è lei? Come sa chi sono io? Viene dall’ospedale?», mi risponde. «Sa, credo che sia meglio non fare affidamento in alcun modo sul dottor Gachet. Mi sembra che sia più malato di me o almeno quanto me. Ora, quando un cieco guida un altro cieco, non andranno a finire tutti e due nel fosso? Per questo me ne sono andato, mi stia lontano per cortesia». Siamo sempre più sconcertate, ma a questo punto voglio andare fino in fondo. Assicuro il maestro che non siamo dipendenti dell’ospedale, ma studentesse, che stavamo camminando e anche se può sembrare assurdo non eravamo in Provenza e... ed era il 2012! «Ho capito, allora
– ci interrompe sicuro Van Gogh –. Siete pazze anche voi. Mi chiedo se esista ancora qualcuno di sano a questo mondo... D’altra parte dovevo capirlo subito, guardando i vostri strani abiti». Adesso siamo davvero confuse: come è possibile fare in due lo stesso sogno? E se davvero abbiamo davanti lui, il grande Vincent, come facciamo a metterlo a suo agio? È famoso per le sue reazioni incontrollate… All’improvviso mi viene un’idea e gli rispondo che forse sì, ha ragione, siamo un po’ pazze anche noi. «Mi fa piacere – risponde lui, a sorpresa –, io mi trovo a mio agio con i pazzi. Anche loro durante le crisi percepiscono suoni e voci strane, come me e vedono le cose trasformate». Gli facciamo notare che lui, però, ha trovato nell’arte un lenimento alla sua malattia. «È vero – conferma – quelli che sono in manicomio da molti anni, a mio parere, sono ormai completamente spenti, si sono come ripiegati su se stessi. Il mio lavoro, invece, mi preserverà in qualche misura da un tale pericolo. Tuttavia penso sia meglio stare alla larga dagli ospedali». Quando gli chiediamo se pensa, quindi, di essere guarito ci risponde che «non si guarisce dipingendo. Si guarisce stando dentro la natura. Qui la natura è straordinariamente bella. Dappertutto e in ogni luogo la cupola del cielo è di un azzurro mirabile, il sole ha una radiosità di zolfo pallido ed è dolce e incantevole come la combinazione dei celesti e dei gialli dei Vermeer. Ho deciso adesso, per partito preso, di non tracciare mai più un quadro col carboncino. Non serve a nulla: per dise-
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gnare bene bisogna incominciare il disegno con il colore, poi lavorare a lungo e lentamente». Mentre parla si agita, tracciando nervosamente dei segni dai colori brillanti e profondi allo stesso tempo. Ne approfittiamo per chiedergli altro sulla sua pittura, sui suoi maestri, ma non ci risponde, è preso dal suo lavoro, totalmente immerso. Poi all’improvviso ci dice di aver sentito le nostre domande, in particolare quelle su ciò che ispira i suoi disegni. «Beh, io ho avuto moltissime ispirazioni! – ci racconta-. All’inizio mi ha ispirato il realismo di Barbizon e di Mille, artisti che rappresentavano Vincent Van Gogh, la povertà dei contadini, della miseria... Sapete, io mi sono dedica“Autoritratto”, 1889 to molto ad aiutare i poveri: la vocazione missionaria è stata alla base della mia giovanile esperienza religiosa». Quando gli chiediamo se è ancora religioso ci risponde con entusiasmo: «Certamente sì. Credo in Dio. Non nel mondo. Il mondo è soltanto uno schizzo che gli è venuto male, non bisogna giudicarlo per questo». A questo punto facciamo un errore: gli chiediamo, a proposito della sua sensibilità verso la miseria umana della sua esperienza con Sien… Torniamo un attimo sulla miseria... è famosa la sua esperienza con Sien… «Come lo sa?! – ci interrompe bruscamente –. Quell’esperienza è privata e non so come lei lo sia venuta a sapere! Lo sapevo che eravate una mia visione. Tirare in ballo quella donna... Fa parte della mia giovinezza! È passato! La mia mente malata e i miei rimorsi». Per calmarlo gli chiediamo di tornarci a parlare delle sue influenze, dell’esperienza parigina. «Ah, già, sì, certo... – riprende, quasi sognante – per me non c’era che Parigi: per quanto difficile potesse essere la vita, l’aria francese mi liberava il cervello e mi faceva bene, un mondo di bene. A Parigi ho conosciuto gli impressionisti. All’inizio non mi hanno convinto, così imprecisi, così confusi..., poi però ne ho capito il valore e mi sono lasciato 98
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Courtesy Agostino Sacchi, 2012
Immagini dal cortometraggio “Bonjour Vincent�, 2012
ispirare da quei colori più chiari e caldi. Anche se non ho mai aderito pienamente al loro movimento. Così come non ho aderito al Simbolismo: mi è così cara la verità, cercarla e metterla in pratica, che credo avrei preferito rimanere un calzolaio piuttosto che un musicista dei colori». Ci accorgiamo che la sua pazienza sta per finire e prendiamo tempo per chiedergli le ultime cose, come un giudizio su un suo quadro che ci ha molto colpite: quello che raffigura un caffé di notte… «Mi diverte enormemente dipingere la notte – ci risponde –. Si usa di solito disegnare e dipingere il quadro di giorno, dopo uno schizzo approssimativo. Ma io trovo soddisfazione nel dipingere le cose immediatamente. Vale per molti dei miei quadri». Resta il tempo di un’ultima battuta per sapere se per questo quadro ha avuto qualche ispirazione particolare. «andate via, non riesco più a dipingere, – arrabbiandosi – non ho tempo per due ragazzine noiose e impiccione.» Poi tutto diventa nuovamente buio anche per noi, proprio come quella splendida notte parigina. E ci ritroviamo nello stesso punto in cui avevamo iniziato la nostra passeggiata. Lo abbiamo rivisto una sola volta, è venuto in classe durante una lezione dedicata proprio a lui. È entrato di soppiatto, è venuto a portarci dei fiori, forse per scusarsi di essere stato un po’ brusco quel giorno. Erano colti di fresco. Quando abbiamo sollevato gli occhi dai fiori, era già svanito… Per sempre! 102
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Gemma dentro “Caffé di notte”, 1888/2012
Alessandra Mortaruolo incontra Andy Warhol con un’intervista di Lucia Brunelli
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inalmente giungo nell’aldilà dopo un lungo e faticoso viaggio, vago alla ricerca dell’anima di mister Warhol. Una bizzarra acconciatura attrae la mia attenzione, capisco immediatamente che si tratta di lui… Hello mister Warhol, sono Lucia Brunelli, una ragazza iscritta al liceo artistico di Pavia. Le dovrei fare un’intervista per un progetto scolastico fuori dal tempo. La prego mister Warhol, ho fatto molta fatica per giungere fin qui! Io invece non ho fatto nessuna fatica, ci sono arrivato facilmente. Da morto, ovviamente. In fondo cos’è la vita? Ti ammali e muori. Tutto lì. Perciò non devi fare altro che tenerti occupato. Per questo ho scelto di fare l’artista. Pavia... l’ho già sentita. Oh si!, ora ricordo è già passata un’altra ragazza di Pavia, una giovane pittrice, Alessandra se non sbaglio. Ha dipinto qui per qualche tempo.. Abbiamo fatto anche
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delle foto insieme. Tornando a noi, se vuoi sapere tutto su di me non c’è che da guardare la superficie dei miei quadri e dei miei film. Comunque, chiedi pure! In vita lei era un collezionista. Perché gran parte delle opere che ha acquistato non hanno mai visto la luce del giorno? Comprare è molto più americano che pensare e io sono molto americano. Per questo non mi importa che molte delle opere che ho acquistato non abbiano visto la luce, l’importante è sapere di averle. Anche se, in effetti, ora non le ho più… Perché si è dedicato così intensamente al business? Perché già all’inizio della mia carriera avevo capito che il business era la miglior forma d’arte. Pensa che, dopo l’attentato che ho subito il 3 giugno 1968, mi sono reso conto che avevo organizzato un’impresa così dinamica che era capace di prosperare anche senza di me. Ecco! Le volevo chiedere come si è sentito dopo quel terribile episodio… Prima che mi sparassero ho sempre avuto la sensazione di guardare la vita in televisione, come fosse un film. l sospetto che stessi guardando la televisione. Nel preciso istante in cui mi spararono, ne ero sicuro. Dopo l’attentato tutto mi appariva come un sogno, non sapevo se ero ancora vivo o ero morto. Come descriverebbe se stesso? Esattamente come la mia arte. Io ho cercato, in vita, di essere la mia arte. Che cos’è che le piaceva di più del suo lavoro? La finzione. Tutta la realtà finisce per essere una finzione. Sulla mia tomba mi sarebbe piaciuto scrivere proprio questa parola. Da dove prendeva spunto per realizzare le sue opere? Guardavo in giro, o chiedevo ad amici. Non ho mai provato imbarazzo nel chiedere a qualcuno “secondo te che cosa dovrei dipingere?”. Una delle sue opere che mi ha colpito particolarmente è stata quella della Coca-Cola. Perché ha scelto di rappresentare un soggetto così semplice? L’America ha livellato i consumi: i più ricchi spesso comprano le stesse cose dei più poveri. Una CocaCola è una Coca-Cola. Nessuna somma di denaro ti può permettere una Coca-Cola migliore di quella che beve il barbone all’angolo della strada. A mio parere, quindi, la bottiglia di Coca-Cola ha un valore simbolico. Nel dipingere Marilyn, alcuni critici le rimproverarono di aver usato colori troppo accesi. Lei che cosa risponde? Volevo ritrarre la bellezza, e lei è bella. E quando qualcuno è bello, anche i colori devono essere belli. Finita l’intervista mi dirigo verso l’uscita dell’aldilà e, nel ricordarmi il lungo percorso che mi aspetta, mi viene in mente che dovrò avvisare i miei genitori che farò tardi! 106
Alessandra dentro “Marilyn�, 1964-2012
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atelier
sponsor…
I genitori degli allievi di 4BL Franca Bottaro
Autoforniture Minerva
Agostino Sacchi (Van Gogh) Mauro Casella Riccardo Paracchini Maria Cristina Alfieri (correzione testi)
San Martino Siccomario - Pavia
Massimiliano Bacheca e Luigi Pingitore (stampa catalogo) Gli amici di “Spazio Giovani” Barbara Giuseppe e Maurizio Susanna Caffetti Lucia Paderni Martina Ielo Cesa, Rita, Filomena e Beatrice (segreteria) La Fren e Myristica Fragrans (fotografia e rielaborazione digitale) Geotecnica di Augello Marco - Pavia VI.MA di Vitaloni Mario - Miradolo Terme Eurodiffusion srl - Cava Manara Maurizio e Andrea (Car-color) Ornella Azzan per Karnak Italia srl
ringraziamenti Mauro “Cascella�, pittore
Prof. Claudio Sala, costumi e sartoria
La Fren e Myristica Fragrans
Van Nogh
Riccardo Paracchini, nel san Sebastiano di Guido Reni
Volta Istituto d’Istruzione Superiore Pavia www.istitutovolta.it
maggio 2012
Attraverso un immaginario viaggio,
al la scoperta di alcuni linguaggi artistici, propri del le avanguardie del ‘9 0 0,
alcune classi del Liceo artistico “Volta� di Pavia hanno potuto incontrare e
conoscere alcuni maestri del secolo passato, vivendo un’esperienza ricca di fascino e suggestioni artistico-letterarie.
Le pagine di questo catalogo documentano
un percorso multimediale: pittura, fotograf ia, video, interviste post-mortem per scoprire
cosa si prova a entrare nel tempo e nel la mente di un genio del la pittura moderna.