CAPITOLO 18
Don Domenico Valente e Santa Croce tra guerra e dopoguerra
NOTE AL CAP. 18
274. Le notizie su Don Valente sono tratte, oltre che dalla documentazione presente in archivio parrocchiale, da una pubblicazione appositamente uscita nel 1960 per ricordarne il suo 25° di presenza a Santa Croce.
Le sorelle Chemin Lucia e Luigia morirono entrambe in tarda età nel 1916. Angelica Buttafava, vedova di Chemin Marco, morì nel 1918, mentre Chemin Teresa nel 1935. Alcuni ricorderanno Chemin Enrico, morto nel 1955, e le sorelle Maria, morta nel 1957, e Ida, morta nel 1970.
275. Il quaderno è stato lasciato, dopo la morte di Don Domenico, dalla sorella Pia alle zie dello scrivente, il quale ne è attualmente in possesso. 276. Chiariamo che il sistema meccanico di trasmissione è semplice e diretto, come nel clavicembalo e nel pianoforte: il tasto abbassa, per mezzo di una stecca, li ventilabri che consentono il passaggio dell’aria all’interno della canna. 277. Il somiere è l’apparato più complesso dell’organo, perchè in esso si conclude ogni movimento di trasmissione e da esso le canne ricevono direttamento l’aria che dà loro la voce. È quindi una specie di “camera d’aria” che ha lo scopo di ricevere l’aria compressa per distribuirla direttamente alle canne. V. C. Moretti, L’Organo italiano, Casa musicale Eco Monza, 1973. 278. I resti del bersagliere Basso Giulio, disperso in Russia, dopo anni di ricerca da parte della sorella Marcella, furono ritrovati in Ucraina; riportati in Italia, con una solenne cerimonia nella chiesa di Santa Croce Bigolina, il 13 febbraio 2000, hanno trovato finalmente riposo nella tomba di famiglia del cimitero di Fontaniva. 279. È doveroso ricordare l’opera educativa e di volontariato prestata senza risparmio dalla sig. na Moschin, affabile e materna figura di maestra, che per molti anni visse a Santa Croce, abitando nel vecchio edificio delle Scuole Elementari. 280. La famiglia dei Chemin, insigni benefattori della Parrocchia, si trasferì a Santa Croce da Cartigliano nella seconda metà dell’Ottocento. pag.
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A sinistra: Don Domenico Valente con il fratello, anch’egli Sacerdote, e le tre sorelle Suore. Sotto: il viale lungo la roggia Michela abbellito dalle acacie e dalle panchine volute da Don Domenico. In basso: Don Domenico tra i bambini della Scuola Materna delle classi 1954, 1955, 1956.
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Don Domenico Valente e Santa Croce tra guerra e dopoguerra
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In basso: la facciata dell’Oratorio di San Gaetano a Ca’ Micheli, recentemente restaurato.
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Gli Oratori a Santa Croce
L’oratorio di San Gaetano a Ca’ Micheli Com’era abitudine dei nobili, anche i Michiel281, una volta stabilita la loro residenza a Santa Croce, decisero di erigere un Oratorio per loro comodo, per non dovere spostarsi a sentir messa nelle parrocchiali di Fontaniva o di Santa Croce. Richiesero pertanto dapprima l’autorizzazione del Doge Pietro Grimani, il quale, con ducale datata 30 gennaio 1744, concesse loro “d’erigere un pubblico Oratorio sopra fondo proprio nella contrada di Santa Croce Bigolina, distretto di Cittadella, per celebrarvi la Santa Messa, ben meritando questa pubblica condiscendenza per esser la loro abitazione distante due miglia e mezzo dalla chiesa parrocchiale, per la qualità delle strade e per il danno che ne risentono i vicini abitanti di restar talvolta privi nei giorni festivi della Santa Messa medesima, a condizione però che vi precedano le solite licenze ecclesiastiche…”. Ovviamente i fratelli Michiel, il 12 febbraio 1744, presentarono supplica anche al Vescovo di Vicenza Marino Priuli, di poter “fabbricare… sopra fondo nostro proprio, nelle pertinenze di Santa Croce Bigolina…
dentro i limiti della Parrocchiale di Fontaniva per nostra particolar divozione una chiesa ovvero Pubblico Oratorio sotto la venerazione della Gloriosa Vergine Maria del Carmine… assicurandoLa che sarà da noi provveduta… per la… necessaria manutenzione, riparazione e provvisione delle Sacre Suppellettili…”. Lo stesso giorno il Vescovo di Vicenza incaricava l’Arciprete di Onara, Don Giovanni Battista Salvioni, allora Vicario Foraneo da cui dipendevano Fontaniva e Santa Croce, di recarsi in sopralluogo e verificare se il sito fosse decoroso per la costruzione di una chiesa e se questo portasse pregiudizio ai diritti della parrocchia di Fontaniva. Nella risposta il Vicario avrebbe dovuto allegare anche il progetto dell’Oratorio. Il 13 febbraio, con una celerità quasi stupefacente per quei tempi (e anche per i nostri), l’Arciprete di Onara scriveva al Vescovo che era tutto in regola e questi, a sua volta, concedeva la licenza di erigere la chiesa, delegando Mons. Salvioni a benedire la prima pietra e a sorvegliare che tutto si svolgesse secondo i canoni. Terminata la costruzione in breve tempo, il 13 novembre il Vicario di Onara pag.
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inviava una lettera al Vescovo, affermando di aver trovato tutto “in ottima disposizione”, soprattutto per quanto riguardava i paramenti e gli arredi sacri e chiedendo l’autorizzazione a benedire la chiesa per il giorno della Madonna della Salute, desiderando Alvise Michiel essere presente alla cerimonia. Intanto, il 15 novembre, i Michiel, con atto notarile, si impegnarono a dotare l’Oratorio di una rendita annua di cinque ducati d’argento e dieci grossi. Finalmente, il 19 novembre, il Vescovo autorizzava il Vicario Foraneo di Onara, o in sua assenza l’Arciprete di Fontaniva Don Macario Antonio Disconzi, a benedire il nuovo Oratorio secondo la formula del Rituale Romano, con facoltà per i Michiel di potere poi farvi celebrare la Messa da qualunque sacerdote avesse l’autorizzazione a celebrare dalla Curia, “eccettuati però i giorni solenni di Pasqua di Resurrezione, Pentecoste, Natale ed Epifania… ed altri giorni più solenni dell’anno, nei quali proibiamo a qualunque Sacerdote di ivi celebrare sotto pena di sospensione a divinis… intendendo anche che nei giorni festivi non si possa celebrare se non dopo la Messa Parrocchiale, o almeno senza suonare alcuna campanella pag.
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sotto la stessa pena… ”. Due giorni dopo, festa della Madonna della Salute, l’Oratorio fu quindi benedetto dall’Arciprete di Onara. Nel 1754 fu dotato di un reliquiario contenente reliquie di San Gregorio Barbarigo, del legno della Santa Croce, della veste di San Pio V, di San Luigi e di San Gaetano Thiene. Dopo i Michiel, l’Oratorio passò in proprietà, insieme con il palazzo e la campagna, dell’Arciduchessa Maria Beatrice d’Este che, nel 1810, vi fece trasportare, per un certo periodo, le ceneri del padre Ercole Rinaldo III d’Este. Lo ricorda ancor oggi la lapide posta sul lato sinistro, che reca la seguente iscrizione: “MEMORIAE HERCULIS RINALDII III ATESTINI MUTINAE REGIS ET MIRANDULAE DUCIS QUI AB AVITA SEDE INSTABILI HUMANARUM RERUM EVENTU DEPULSUS PIE DECESSIT TARVISII XVII KAL. NOV. A. D. MDCCCIII DUM ANNOS AGERET LXXV MENSES X DIES XXIV MARIA BEATRIX ATESTINA ARCHIDUX AUSTRIAE FILIA ET HERES EX TESTAMENTO PATRIS AMANTISSIMI CINERES HUC TRANSFERRI ET TITULUM APPONI IUSSIT XII KAL. SEXTILES ANNO MDCCCX”.
In basso: il grazioso campanile dell’Oratorio di Ca’ Micheli in una foto realizzata in epoca precedente al restauro.
(= In memoria di Ercole Rinaldo III d’Este, Re di Modena e comandante militare di Mirandola, che cacciato dalla sede dei padri per l’instabile evolversi delle cose umane282, piamente morì a Treviso il 15 ottobre del 1803 all’età di 75 anni, mesi dieci e giorni 24. Maria Beatrice d’Este, Arciduchessa d’Austria, figlia ed erede per testamento fece trasferire qui le ceneri dell’amatissimo padre e pose questa lapide il 20 maggio dell’anno 1810)283. L’Oratorio, dedicato, come si è visto, alla Vergine del Carmine, fu posto in seguito sotto la protezione di San Gaetano, la cui festa una volta si celebrava con una messa solenne il 7 agosto e, per un certo periodo,
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Gli Oratori a Santa Croce
si fece anche una sagra. Fu sempre proprietà privata dei vari padroni della villa, finché, per interessamento della Pro Loco di Santa Croce, fu acquistato negli anni ’80 dal Comune di Cittadella e finalmente restaurato nel 1999. La costruzione, di stile barocco, presenta linee davvero armoniose, snellite, sul fianco sinistro, da un piccolo e grazioso campanile. All’interno, colpiscono il pavimento del coro, con fregi a mosaico di marmo a vivi colori, e in particolare le tre statue di stupenda fattura, in marmo di Carrara, che troneggiano sull’altare maggiore e rappresentano la Madonna, San Gaetano e San Luigi.
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A sinistra: interno dell’Oratorio di San Martino presso Villa Kofler (foto di Cesare Gerolimetto). In basso: cortile di Villa Kofler. (foto di Cesare Gerolimetto).
L’Oratorio di San Martino in Villa Kofler L’attuale Villa Kofler fu fatta costruire dai nobili veneziani Tron284, che intorno al 1700 vi fecero erigere un Oratorio privato, dedicato a San Martino. Ne divenne poi proprietario il Conte Antonio Remondini di Bassano del Grappa, che risulta dai documenti essersi interessato attivamente a Santa Croce e ai suoi problemi285. Proprio per risparmiare agli abitanti vicini l’incomodo di recarsi d’inverno alla Chiesa parrocchiale, anche a causa dell’impraticabilità delle strade, egli chiese, nel 1784, di poter rendere pubblico l’Oratorio, aprendo sulla strada una porta, che esiste ancora. Il 21 dicembre, ottenuto il consenso dal Senato Veneziano, il Conte scriveva al Cancelliere Episcopale, pregandolo di fargli avere anche la licenza del Vescovo e di estendere al massimo le festività di utilizzo della cappella, e ciò soprattutto a causa della lontananza della chiesa parrocchiale e di ogni altra. La Curia inviò in sopralluogo il Parroco di Tezze, Don Pietro Giupponi, nella cui giurisdizione ecclesiastica rientrava ancora Santa Croce; questi, il 4 gennaio 1785, fece sapere di aver ritrovato l’Oratorio “molto nobilmente
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Gli Oratori a Santa Croce
eretto di ben saldo muro… con una porta… su la via publica… e… potrà servire di molto comodo al caso della assistenza agli infermi al momento di soministrare la SS.ma Comunione, per cui non posso altro che lodare la pietà de’ detti Nobili Signori…”. L’Oratorio fu dotato dal Conte Remondini di una rendita annua di dieci ducati e il 7 gennaio il Vescovo concedeva il privilegio di renderlo pubblico e incaricava il Parroco di Tezze di benedirlo solennemente. Le intenzioni del Conte sarebbero state quelle di intitolarlo a San Martino, e così lo nomina Don Antonio Santacatterina, ma in effetti nel decreto vescovile e nelle visite pastorali non si accenna ad un Santo titolare. Attualmente l’Oratorio viene utilizzato una volta all’anno, per celebrarvi la Messa durante le Rogazioni.
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L’Oratorio (ora demolito) di San Francesco Proprio al centro del Paese, come ricorderà chi ha una certa età, all’incrocio tra la via principale e l’attuale via Michela, si trovava l’Oratorio più antico di Santa Croce, risalente al quattordicesimo secolo, detto di San Francesco. Faceva parte del Convento dei Francescani ed era un piccolo gioiello. Non ho trovato su di esso documenti, se non i soliti accenni dell’avvenuto sopralluogo dei Cancellieri Vescovili durante le visite pastorali e un diploma del Vescovo di Vicenza Mons. Farina, datato 10 giugno 1865, nel quale si dichiara che è stato visitato “secondo il Ceremoniale prescritto dai Sacri Canoni l’Oratorio pubblico intitolato all’Immacolata Concezione di Maria Santissima” e che è stata trovata “ogni cosa in ordine ed esattezza, per cui abbiamo decretato e decretiamo che venga rilasciato dalla nostra Curia il presente Decreto di piena soddisfazione al Sig. Paolo Bertoncello proprietario del suddetto Oratorio…”. Dal punto di vista della ricchezza storica di Santa Croce, fu una vera e propria disgrazia la distruzione dell’Oratorio per consentire nei primi anni Sessanta l’allargamento e l’asfalpag.
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In basso: l’unica foto esistente del trecentesco Oratorio detto di San Francesco che sorgeva nell’angolo nord-est del Convento (dove ora sono le tre aiole davanti al bar) e demolito negli anni Sessanta.
tatura della strada. Senz’altro, se ci fosse stata una maggiore sensibilità, si sarebbero potute trovare altre soluzioni. Meraviglia che allora gli Enti preposti abbiano dato il permesso alla demolizione, anche se in quegli anni, in nome del progresso, scomparvero o furono compromesse un po’ dappertutto molte importanti testimonianze antiche.
In basso: sullo sfondo di questa foto degli anni Cinquanta si può vedere l’ingresso dell’antico Oratorio di San Bellino (è la porta sovrastata da una decorazione triangolare) che esisteva all’interno della porzione del palazzo dei Bigolini demolita negli anni Sessanta.
L’Oratorio (ora demolito) di San Bellino in Via Volto La riscoperta della devozione al Santo e la costruzione di un nuovo capitello Nella parte ovest del vecchio palazzo dei Bigolini, demolito negli anni Sessanta, si trovava l’Oratorio di San Bellino. Si dice che la devozione al Santo abbia avuto origine dal suo passaggio per Santa Croce, forse per visitare il Monastero di Santa Lucia di Brenta, allora famoso, quando egli si recò a Fontaniva per far da garante al trattato di pace firmato nel 1147 tra Padovani, Veronesi, Vicentini e Trevisani. In effetti la venerazione per San Belli-
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Gli Oratori a Santa Croce
no, proclamato più tardi compatrono della parrocchia, ha radici molto profonde a Santa Croce. Già nella richiesta al Doge di separazione da Tezze si parla dell’ esistenza di una sua antica reliquia (v. cap. 9). Sul soffitto della chiesa parrocchiale, come si è detto, un dipinto ne raffigura il martirio e a San Bellino è dedicata la campana più piccola. A Lui, nella seconda metà degli anni Settanta, è stata intitolata anche una via. Ma vediamo chi era San Bellino, secondo quanto scrive il canonico G. A. Scalabrini286. Nato nel 1090 da famiglia tedesca nella Sassonia inferiore sulle sponde pag.
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del Baltico, per le sue virtù fu nominato vescovo già nella sua terra. Nel 1144 si recò a Roma, mentre a Padova il clero non sapeva accordarsi sull’elezione del successore del vescovo Sinibaldo. Il Papa allora non permise più che Bellino ritornasse in Germania, ma lo nominò Vescovo di Padova. Qui egli promosse la carità fra i sacerdoti, perfezionò l’organizzazione delle parrocchie, favorì l’emancipazione dei “servi della gleba”, collaborò per l’affermazione delle libertà comunali. Ma ebbe a patire anche molte sofferenze e si creò molti nemici, volendo recuperare, a favore dei poveri, molti beni della Chiesa padovana usurpati dagli arroganti signorotti locali, in particolare i Capovacca, che lo denunciarono al Papa. Bellino vinse la causa e ciò rese più rabbiosi i suoi nemici, che si determinarono ad assassinarlo. Infatti, dopo essere stato a Fontaniva quale garante, insieme agli altri Vescovi del Veneto, della pace firmata il 28 marzo 1147, alla fine dello stesso anno, mentre si trovava presso Fratta Polesine in viaggio per Roma, il Vescovo Bellino fu assalito dai sicari dei Capovacca, che gli aizzarono contro i loro cani mastini e, fattolo cadere da cavallo, lo trucidarono. Gli abitanti di Fratta, udito quanto pag.
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era accaduto, trasportarono con tutti gli onori il corpo e lo sepellirono collocandolo in un’urna di marmo nella chiesa di San Giacomo. Cominciarono ad affluire i pellegrini alla sua tomba e molti furono i miracoli ottenuti per sua intercessione, tanto che il Papa Eugenio III lo proclamò Santo. Attorno al 1171 vi fu una grande inondazione del Po, che distrusse anche la chiesa di San Giacomo e la sepoltura di SanBellino restò insabbiata, così che se ne perse memoria. Si intraprese poi la bonifica di quelle terre e fu un certo Giovanni dalla Fratta a ritrovare, mentre arava il suo campo nel 1288, l’arca del Santo Vescovo. Egli voleva portarla ovviamente a Fratta, ma per quanti sforzi facesse utilizzando anche la forza di molti buoi, non gli riuscì di smuoverla di un centimetro. Alla fine ebbe l’ispirazione di far trascinare l’arca da due giovani giovenche e queste, senza alcuna difficoltà, si diressero verso l’antica pieve di San Martino di Variano e, arrivate davanti alla porta della chiesa, si fermarono nè fu più possibile farle muovere. Il contadino che le seguiva piantò allora a terra la frusta fatta con legno di pero e subito questa mise radici e germogliò con foglie trasformandosi
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Gli Oratori a Santa Croce
in un fioritissimo albero di pero. Fu chiaro allora a tutti che nella Chiesa di San Martino doveva trovare riposo il corpo del Santo. Da allora San Martino in Variano fu denominato San Bellino, e così si chiama ancor oggi. San Bellino riprese a far miracoli, guarendo soprattutto chi era affetto dal mal di rabbia per il morso di un cane, quasi a voler dimostrare che Lui, assalito e gettato a terra dai mastini dei suoi nemici, era divenuto rimedio e salute contro questo terribile male; anzi, la chiave arroventata della porta della sua chiesa aveva la stessa virtù di preservare gli animali dalla rabbia e la comunicava ad altre simili chiavi. Ecco perchè San Bellino viene sempre raffigurato con un cane ai piedi e le chiavi appese al pastorale. Legata a questa tradizione è anche un’usanza tramandata oralmente dagli anziani di Santa Croce, secondo i quali per capire se un cane era malato di rabbia, bastava farlo passare davanti all’Oratorio di San Bellino: se l’animale passava tranquillamente significava che esso era sano, altrimenti voleva dire che era infetto per la rabbia. A Santa Croce la devozione al Santo Vescovo di Padova continuò ad essere tenuta viva dai Parroci fino alla scom-
parsa di Don Domenico Valente, poi fu lasciata cadere. L’idea di recuperare la tradizione in onore di San Bellino non poteva venire che a due “anziani” particolarmente sensibili alla memoria storica di Santa Croce Bigolina: Isidoro Basso e Dino Campagnolo. Su iniziativa della Pro Loco, fra i cui compiti principali c’è proprio quello di rivalutare le tradizioni e la storia di Santa Croce, si è creato un angolo che potesse accogliere l’immagine del Santo, proprio in Via Volto, a pochi metri dal luogo dove sorgeva l’antico Oratorio. Il piccolo spazio disponibile è stato sistemato con piante ed aiole, la vecchia fontana è stata abbellita. Al centro è stato piantato un albero adulto di “oppio” (acero campestre), donato da Giovanni Prandin, i cui rami sono stati opportunamente intrecciati a forma di nicchia, nella quale è stato posto uno splendido tempietto in rovere, lavorato dall’abile artigiano Ottorino Bizzotto. In esso è stata collocata un’artistica statua in ceramica del Santo, opera del prof. Domenico Polloniato di Nove, che si è ispirato per la raffigurazione alla pala d’altare posta nella Chiesa di San Bellino. Si è voluto così riprendere anche l’anpag.
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tichissima tradizione dell’albero sacro, tipica della nostra campagna, risalente a tempi immemorabili e “cristianizzata” poi dalla Chiesa. Non dimentichiamo che, durante le rogazioni, le croci di legno da spargere sui campi e sui tetti delle case venivano benedette proprio sotto un albero che sosteneva un’immagine sacra287. Per saperne di più su San Bellino, erano stati intanto presi contatti con l’omonima Parrocchia, in provincia di Rovigo, dove, come si è detto, è sepolto il Santo. Il Parroco, Don Bruno Segala, donò cortesemente alla Parrocchia di Santa Croce una reliquia del Santo Vescovo, che è anche l’unica ora esistente, contenente un frammento delle ossa. Con una solenne celebrazione, officiata dal Parroco Don Antonio Schiavo e dal suo predecessore Don Giantonio Cogo, a cui ha partecipato numerosissima la Comunità, alla presenza di una delegazione dei Comuni di San Bellino e di Cittadella e di Mons. Marcello Rossi, già Arciprete di Fontaniva, domenica 13 settembre 1998 è stato benedetto il capitello al Santo compatrono di Santa Croce. Ora c’è da augurarsi che San Bellino, la cui festa ricorre il 26 novembre, non torni ancora una volta ad essere dimenticato. pag.
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Sotto: l’albero sacro eretto nel 1992 dalla Pro Loco di Santa Croce per ripristinare il culto di San Bellino. In basso: il dipinto esistente sul soffitto della Chiesa di Santa Croce che ricorda il martirio del Santo.
Sotto: il Prof. Domenico Polloniato con il figlio autori della splendida statua. In basso: Isidoro Basso e Dino Campagnolo gli instancabili fautori dell’iniziativa di recupero del culto al Santo, all’opera durante la costruzione del nuovo capitello di San Bellino.
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Gli Oratori a Santa Croce
NOTE ALL’ APPENDICE I 281. La documentazione relativa agli Oratori di Ca’ Micheli e di Villa Kofler è conservata negli Archivi della Curia di Vicenza. 282. Ercole Rinaldo III d’Este perse il ducato nel 1796, allorchè anche Modena entrò a far parte della repubblica cispadana creata da Napoleone. 283. D. M. Rossi, op. cit., p. 406-409. 284. I Tron appartenevano alle “case nuove” e potevano vantare una nobiltà meno antica dei patrizi delle “case vecchie”; ciò non toglie che essi avessero un grande potere a Venezia (Niccolò Tron fu doge dal 1471 al 1473) ed estesi possedimenti sulla terraferma. Da loro prende nome la roggia “Trona” che passa sotto la villa. 285. Nel cimitero di Santa Croce fu sepolta Laura Bellavitis, morta il 4 maggio 1849, vedova del Conte Antonio Remondini. La ricorda tuttora una lapide murata nel pilastro destro d’ingresso al Cimitero. 286. G. A. Scalabrini, Notizia degli uomini e donne illustri per santità e azioni cristiane che per origine o permanenza hanno illustrato la città e stato di Ferrara, Biblioteca Comunale Ariostea di Ferrara, in: “San Bellino La storia ritrovata”, Biblioteca Comunale Comune di S. Bellino, 1991. 287. Per un approfondimento su questo argomento, si veda G. Franceschetto, “Immagini del sacro e capitelli nell’Alta Padovana, in Cittadella, Saggi storici”, cit., pag. 173 - 206. Alberi sacri sorgevano una volta numerosi anche a Santa Croce. Ora ne resta uno, dedicato al Sacro Cuore, in Via Santa Lucia ed un altro in Via Ca’ Micheli.
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I Parroci di Santa Croce Bigolina 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14
Don Francesco De Pretto Don Giuseppe Pettenoni Don Andrea Compostella Don Francesco Bonato Don Girolamo Zannonanto Don Angelo Costantini Don Sante Vangelista Don Antonio Santacatterina Don Silvio Mozzato Don Domenico Valente Don Tarcisio Biasin Don Luciano Giacomuzzi Don Giantonio Cogo Don Antonio Schiavo
Dall’anno
All’anno
1795 1808 1822 1844 1867 1869 1896 1904 1928 1935 1962 1979 1986 1997
1806 1821 1843 1866 1868 1896 1903 1927 1934 1962 1979 1986 1997
Gli Economi Spirituali di Santa Croce Bigolina 1 2 3 4 5 6 7
Don Francesco De Pretto Don Giuseppe Pettenoni Don Andrea Compostella Don Gio. Batta Ongaro Don Gaetano Danieli Don Antonio Bonato Don Giovanni Pasinato
8
Don Sebastiano Centofante
9
Don Davide Disconzi
I Cappellani 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 pag.
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Don Giovanni Battista Crestani Don Giuseppe Pettenoni Don Domenico Lago Don Francesco Saccardo Don Antonio Sambugari Don Francesco Bonato Don Giuseppe Gervasio Don Giovanni Battista Ongaro Don Cristiano Valente Don Luigi Lionello Don Francesco Novelletto Don Sante Vangelista Don Sebastiano Centofante Don Ottorino Fracasso Don Florindo Ganassin Don Giuseppe Cailotto Don Davide Disconzi
da settembre 1794 da maggio 1806 da dicembre 1821 da aprile 1843 da settembre 1843 da novembre 1843 da giugno 1866 e da febbraio 1896 da novembre 1903 da gennaio 1927 dal 15 agosto 1934 dal febbraio 1962
ad aprile 1795 a maggio 1808 a settembre 1822 a settembre 1843 a novembre 1843 a gennaio 1843 a settembre 1869 ad agosto 1896 ad ottobre 1904 ad ottobre 1928 al 20 gennaio 1935 al giugno 1962
Dall’anno
All’anno
1798 1803 1808 1821 1827 1831 1834 1836 1845 1851 1854 1866 1896 1948 1952 dal gennaio 1959 dal dicembre 1959
1803 1808 1821 1827 1831 1834 1836 1845 1851 1854 1866 1896 1948 1952 1957 al dicembre 1959 al giugno 1962
APPENDICE 2
Elenco dei Parroci, degli Economi Spirituali, dei Cappellani, dei Sacerdoti, dei Religiosi e delle Religiose di Santa Croce Bigolina
Sacerdoti e religiosi originari di Santa Croce Bigolina Don Luigi Ferrari ordinato nel dicembre 1822, direttore delle Canossiane e cofondatore del Ricovero a Bassano; confessore della Beata Gaetana Sterni. Don Sante Vangelista ordinato nel 1865 Padre Giovanni Bordignon (dei Minori Francescani) ordinato il 29 luglio 1941 Don Guerrino Fantinato (dei Canonici Lateranensi) ordinato il 29 luglio 1942 Don Antonio Sgarbossa (dei Canonici Lateranensi) ordinato sul letto di morte a Roma, dove si spense il 24 gennaio 1948 Padre Luciano Castellan (dei Servi di Maria) ordinato nel giugno del 1951 Padre Alfredo Spigarolo (dei Missionari Saveriani) ordinato il 13 ottobre 1963 Diacono Mario Sgarbossa (della Pia SocietĂ San Gaetano) ordinato il 22 gennaio 1972
Religiose originarie di Santa Croce Bigolina Suor Gonzaga Andriolo Suor Carla Barrichello Suor Agata Boschetti Suor Rachele Citton Suor Anselma Fantinato Suor Emilia Fantinato Suor Flavia Fantinato Suor Giuseppa Fantinato Suor Giustina Fantinato Suor Ottavia Fantinato Suor Speranza Fantinato Suor Maria Geremia Suor Leonina Marsan
Suor Marcellina Marsan Suor Domitilla Martinello Suor Giorgina Martinello Suor AgostinaMerlo Suor AnastasiaRebellato Suor Fede Rebellato Suor Amalia Simioni Suor AntoninaSimonetto Suor Domenica Trento Suor Fiorina Trento Suor Ramonda Vangelista Suor Erminia Zonta
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LA LEGGENDA RITROVATA
BRISTOL BEAUFIGHTER Cacciabombardiere notturno prodotto dalla britannica Bristol. Era lungo 12,70 metri ed aveva un’apertura alare di 17,63 metri. Potenziato da due motori radiali da 1.794 CV ciascuno portava due o tre uomini di equipaggio ed era armato con 4 cannoni da 20 mm ed una mitragliatrice da 7,7 mm. Poteva trasportare due bombe da 119 kg. ad una velocità massima di 488 kmh.
DOUGLAS A-20 HAVOC Cacciabombardiere notturno. Prodotto in America dalla Douglas era lungo 14,63 metri ed aveva un’apertura alare di 18,69 metri. Potenziato da due motori radiali da 1.621 CV ciascuno portava tre uomini di equipaggio ed era armato con 4 cannoni da 20 mm e due mitragliatrici da 12,7 mm sul muso più due o tre mitragliatrici dorsali. Poteva trasportare fino a 1.815 kg. di bombe ad una velocità massima di 520 kmh. DOUGLAS A-26 INVADER Bombardiere notturno d’attacco. Prodotto in America dalla Douglas era lungo 15,24 metri ed aveva un’apertura alare di 21,35 metri. Potenziato da due motori radiali da 2.026 CV ciascuno portava tre uomini di equipaggio e poteva avere fino a 16 mitragliatrici da 12,7 mm sul muso più quattro mitragliatrici nelle torrette dorsale e ventrale. Poteva trasportare fino a 2.715 kg. di bombe. ad una velocità massima di 571 kmh. DE HAVILLAND MOSQUITO Bombardiere veloce d’attacco prodotto in Inghilterra caratterizzato dall’essere costruito completamente in legno Era lungo 12,45 metri ed aveva un’apertura alare di 16,51 metri. Potenziato da due motori in linea Rolls-Royce da 1.656 CV ciascuno portava due uomini di equipaggio ed era armato con 4 cannoni da 20 mm sul muso. Poteva trasportare fino a 680 kg. di bombe ad una velocità massima di 612 kmh.
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In basso: gli aeroplani utilizzati dai vari squadroni di “Pippo” erano principalmente di quattro tipi, tutti cacciabombardieri notturni bimotori pesantemente armati con capacità di bombardamento e attacco al suolo. Erano quasi sempre dipinti di nero opaco, per risultare invisibili nel volo notturno.
APPENDICE 3
Quando passava Pippo (di Giuliano Basso)
Fino a qualche anno fa anche a Santa Croce la seconda guerra mondiale era ancora oggetto dei racconti di quanti l’avevano vissuta in prima persona. Una figura immancabile nei racconti che affascinavano noi bambini era quella di “Pippo” un misterioso ed invisibile aereo che, durante la notte, passava sui nostri paesi bombardando e mitragliando ogni luce che fosse risultata visibile dall’alto. Quando “passava Pippo” tutte le misere luci in funzione nelle case di Santa Croce venivano spente, le tende tirate, le finestre sbarrate. Si narrava di qualcuno colpito dietro il pagliaio dove si era riparato per fumarsi una sigaretta convinto di non essere visto... e poi di gente ferita e uccisa dalle “bombette a farfalla”, che “Pippo” seminava in quantità durante le sue scorribande notturne. Le “bombette”, infatti, raramente scoppiavano all’impatto col suolo: erano in effetti delle vere mine antiuomo che si armavano durante la caduta e rimanevano là a terra, pronte ad esplodere e ad uccidere non appena toccate, come avvenne allorchè un ingenuo soldato tedesco, dopo averne raccolte qualche decina le portò all’interno del salone di villa Kofler, sede del Comando Te-
desco, e dicendo ai presenti, tra cui alcuni civili di Santa Croce, “non avere paura, non fare niente” le gettò sul grande tavolo al centro della sala provocando una vera carneficina. E poi ci fu chi, nell’intento di bonificare il proprio campo disseminato di questi minuscoli ma micidiali ordigni, rimase ferito ed a volte ucciso. La tecnica di bonifica, infatti, era alquanto rudimentale: una volta accertato che a terra ci fossero le piccole bombe veniva scavata una buca in fondo al campo; poi una lunga corda stesa attraverso il campo e trascinata da due persone che camminavano ad una distanza che si presupponeva sicura lungo le due “piantae” (i filari di viti) raccoglieva i piccoli ordigni e li spingeva verso il fondo del campo: qualche bomba, durante l’operazione, esplodeva ma la maggior parte veniva fatta cadere e sepolta nella profonda buca. Ma chi era, in realtà, il famoso “Pippo”? Grazie alle ricerche del vicentino Giuseppe Versolato autore dell’interessante volume “Bombardamenti Aerei Alleati nel Vicentino 1943-1945” siamo oggi in grado di identificare con precisione chi ci fosse dietro questo pseudonimo. pag.
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LA LEGGENDA RITROVATA
Nel periodo tra il 1943 ed il 1945 la 12a Forza Aerea americana disponeva di diverse unità di “Pippo”: erano gli squadroni di caccia notturna 414°, 415°, 416° e 417°, in quel periodo basati a Grosseto e poi a Pisa, che avevano in dotazione i bombardieri bimotori inglesi “Beaufighter”. C’era poi il 47° Gruppo da Bombardamento Leggero che utilizzava i bimotori americani “A-20 Havoc” e, alla fine del conflitto anche alcuni bimotori “A-26 Invader”. Anche l’aviazione inglese aveva i suoi “Pippo”, gli Squadroni 255°, 256°, 600° dotati dei velivoli, sempre bimotori, “Mosquito”. Tutti gli aerei impiegati erano dei cacciabombardieri, erano cioè in grado di bombardare e di mitragliare indifferentemente. Erano completamente dipinti di nero, per essere meno visibili di notte, ed essendo tutti bimotori erano caratterizzati dal tipico rumore vibrante originato dalla risonanza tra le due eliche, che tanto terrore incuteva nelle nostre famiglie. Sembra che il nome “Pippo” sia stato inventato e diffuso attraverso Radio Londra dagli stessi anglo-americani, nell’ambito di una vera e propria azione di guerra psicologica, avente pag.
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lo scopo di far credere alla popolazione ed al nemico che i numerosi aerei in volo ogni notte sopra tutto il nord dell’italia fossero in realtà un unico, imprendibile, velocissimo e terribile cavaliere nero alato. Lo spirito gogliardico e sbruffone dei piloti, quasi tutti poco più che ventenni, aggiungeva spesso qualcosa alla leggenda di “Pippo”, come quando le nostre campagne furono trovate disseminate di volantini, lanciati durante la notte, sui quali era scritto: “passa Renato perchè Pippo è ammalato”. In realtà la missione di queste unità aeree era definita “caccia libera notturna”: numerosi “Pippo” venivano sguinzagliati ogni notte, senza un bersaglio predefinito, su tutto il norditalia, dove erano ancora presenti le forze tedesche. Il territorio veniva diviso in aree di pattugliamento assegnate ad ogni singolo aereo che volava liberamente per cercare ed attaccare qualsiasi cosa si muovesse o avesse delle luci accese al fine di impedire spostamenti di mezzi, truppe, convogli ferroviari che spesso si muovevano solo di notte, e ritardare o impedire le riparazioni notturne dei danni a ponti, ferrovie ed infrastrutture causati giornalmente dagli attacchi dei “P-47”,
APPENDICE 3
Quando passava Pippo
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i cosiddetti “picchiatelli”. Oltre a mitragliare gli obbiettivi ogni “Pippo” disponeva di un’arma di tipo “terroristico”: le famigerate “bombe a farfalla”. Erano ordigni di piccole dimensioni (circa 1.800 grammi) stivati in un contenitore (cluster) a forma di bomba che ne conteneva circa un centinaio. Una volta sganciato il cluster si apriva in due metà e faceva uscire le submunizioni contenute al suo interno. Gli ordigni in fase di caduta, grazie ad un semplice dispositivo a molla, aprivano il loro involucro cilindrico che, scorrendo lungo un’asta flessibile costituita da un cavetto rigido di acciaio, andava a collocarsi nella parte superiore del cavetto stesso. A questo punto i due “coperchi” dell’involucro si disponevano come le pale di un’elica ed iniziavano a ruotare spinti dalla velocità di caduta, stabilizzando così la bomba nella discesa; le parti laterali dell’involucro, disposte ad “ali di farfalla” come un piccolo paracadute rallentavano la velocità di caduta dell’ordigno. La rotazione indotta nell’asta dalla “farfalla” causava anche lo svitamento della stessa dal coperchio della spoletta che così si armava, scoppiando pochi secondi dopo l’impatto al suolo.
Un meccanismo ad orologeria poteva consentire l’armamento (e lo scoppio) anche parecchie ore dopo la caduta. Una sensibilissima spoletta antimaneggio, infine, causava l’esplosione al minimo spostamento della bomba. È comprensibile, quindi come un’area disseminata di tali ordigni (come potevano essere una stazione ferroviaria o un ponte bombardati), diventasse assolutamente impossibile da riparare o da attraversare e come, di conseguenza, potessero venire ritardati i lavori di ricostruzione degli obiettivi attaccati. Qualche anno fa un nostro compaesano aveva rinvenuto nel Brenta alcuni strani e pesanti “pezzi di ferro” dalla forma cilindrica arrotondata; da appassionato giocatore di “cavapallino” aveva visto la possibilità, ripulendoli e lucidandoli, di ricavarne delle ottime bocce per questo gioco tipico dei nostri bar di una volta. Le aveva raccolte e depositate sul sedile posteriore della sua “Prinz” verde scuro e, per qualche giorno, se le era scarrozzate facendole vedere come un vero trofeo agli amici del bar. Fino a che, una domenica mattina, un anziano del paese di ritorno dalla “messa seconda” dopo aver posata la bici al muro del bar “da Ceca” per entrare e pag.
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LA LEGGENDA RITROVATA
bere la solita “ombreta” non fu costretto a passare tra il muro e la “Prinz” ad a sbirciare sul sedile dove facevano bella mostra i famosi trofei metallici. Non riuscì a bere l’ombreta ma la velocità con cui, dopo avere riconosciuto nei pezzi di ferro arruginiti le terribili “bombette di Pippo”, inforcò la bici ed imboccò Via Tre Case, fu degna del migliore Coppi. Fu così che il nostro campione di “cavapallino” si vide costretto a disfarsi degli
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In basso: una delle bombe a farfalla rinvenute lungo il Brenta negli anni ‘90; è perfettamente riconoscibile, anche se le alette della “farfalla” sono state parzialmente “mangiate” dalla ruggine.
ambìti ma pericolosi trofei, riportandoli in Brenta, dove li aveva trovati. La voce, però, era ormai circolata e chi scrive ebbe la possibilità di documentare con qualche foto l’attendibilità del racconto. Qualche giorno dopo, infatti, una unità di artificieri dell’Esercito provvedeva a far brillare le vecchie “bombette” facendo sentire ancora una volta a tutta Santa Croce la potente e tonante voce di “Pippo”.
In basso: lo schema di lancio delle “bombe a farfalla”
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Quando passava Pippo (di Giuliano Basso)
dopo lo sgancio l’aereo si solleva leggermente mentre il contenitore pieno di ordigni precipita come una normale bomba
una volta lontano dall’aereo il contenitore si apre lasciando cadere le bombette contenute l’involucro esterno di ogni bombetta si apre a petalo, formando una specie di paracadute che risale lungo lo stelo
durante la caduta le bombette con le “ali” aperte si sparpagliano sul terreno investendo una zona molto ampia
Il dispositivo delle “alette a farfalla” (a sinistra chiuso attorno alla bomba, a destra aperto) che, ruotando durante la caduta, provocava l’armamento della spoletta a tempo. Sopra: nel contenitore precipitato al suolo sono visibili le “bombette” parzialmente inesplose. pag.
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LA LEGGENDA RITROVATA
CONSOLIDATED B-24 LIBERATOR Costruito negli Stati Uniti in 18.442 esemplari, assieme al connazionale B-17 ed all’inglese Avro Lancaster costituì la spina dorsale dei bombardamenti alleati. Era lungo 20,47 metri ed aveva un’apertura alare di 33,53 metri. Potenziato da 4 motori radiali da 1.216 CV ciascuno era armato con complessive10 mitragliatrici da 12,7 mm. distribuite nelle varie postazioni difensive. Poteva trasportare fino a 4.000 kg. di bombe ad una velocità massima di 483 kmh. NORTH AMERICAN B-25 MITCHELL Eccezionale bombardiere medio con equipaggio di quattro uomini. Era lungo 15,54 metri ed aveva un’apertura alare di 20,60 metri. Potenziato da due motori radiali da 1.723 CV ciascuno era armato con 1 cannone da 16 mm sul muso e da complessive14 mitragliatrici da 12,7 mm. distribuite nelle varie postazioni difensive. Poteva trasportare fino a 1.450 kg. di bombe ad una velocità massima di 443 kmh. REPUBLIC P-47 THUNDERBOLT Chiamato “picchiatello” dalle nostre genti era un cacciabombardiere monoposto pesante prodotto negli Sati Uniti dalla Republic. Era lungo 11 metri ed aveva un’apertura alare di 12,42 metri. Il massiccio motore stellare sviluppava ben 2.568 CV . Era armato con 8 mitragliatrici alari da 12,7 mm. Poteva trasportare fino a 1.135 kg. di bombe ad una velocità massima di 689 kmh.
LOCKHEED P-38 LIGHTNING Cacciabombardiere monoposto prodotto in America dalla Lockheed e caratterizzato dall’architettura a doppia coda. Era lungo 11,52 metri ed aveva un’apertura alare di 15,85 metri. Potenziato da due motori turbocompressi da 1.443 CV ciascuno era armato con 1 cannone da 20 mm. e da quattro mitragliatrici da 12,7 mm. Poteva trasportare due bombe da 725 kg. ad una velocità massima di 666 kmh.
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In basso: i quattro tipi di aerei impiegati principalmente durante la seconda Guerra Mondiale nei bombardamenti sui ponti e sulle ferrovie del nostro territorio.
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Nel corso della Seconda Guerra Mondiale Santa Croce non fu mai, fortunatamente, teatro di azioni belliche. Gli enormi stormi costituiti da centinaia di bombardieri quadrimotori B-17 e B-24 che partendo dalle basi nel meridione dell’Italia passavano per ore sopra il nostro paese diretti in Germania costituivano sopratutto una curiosità per i bambini che, per un pò, cercavano di contarli e poi, annoiati, passavano ad altri giochi. La presenza del Comando Tedesco nel complesso di Villa Kofler poteva costituire un obiettivo piuttosto importante ma furono sopratutto i movimenti di veicoli legati a tale Comando che spesso attirarono dalle nostre parti le poco gradite “attenzioni” di “Pippo” di cui abbiamo narrato pocanzi. Verso la fine del conflitto nell’aprile 1945, però, con i Tedeschi in ritirata che attraversavano l’alta padovana diretti alla Valsugana ed al Brennero, le forze alleate avviarono una intensa campagna aerea avente lo scopo di tagliare le vie di comunicazione, ed impedire in ogni modo la ritirata delle truppe germaniche. Le missioni di bombardamento e mitragliamento erano generalmente affidate ai piloti brasiliani del “1° Squadron” ag-
gregato al 350° gruppo USAF con base a Pisa, equipaggiati con i possenti caccia P-47 Thunderbolt che la popolazione chiamava “picchiatelli”. I P-47 erano in grado di trasportare due bombe da 500 libbre ed erano armati con 8 mitragliatrici alari Browning M-12 da 12,7 mm dotate di complessivi 3.400 colpi. Durante la seconda parte della guerra i “picchiatelli” erano divenuti una visione consueta a Santa Croce dato che, nel corso dei quotidiani bombardamenti sul ponte ferroviario di Fontaniva, venivano ad iniziare la loro corsa di attacco proprio sopra il nostro paese. Come già detto, però, verso la seconda metà dell’aprile 1945 cominciarono le azioni anche contro zone a noi più vicine. Nel libro di Giuseppe Versolato, precedentemente citato, viene riportato, infatti, il rapporto di missione del quartier Generale del 304° wing (stormo) USAF dal quale si apprende che: “in data 24 aprile 1945 60 degli 84 aerei inviati in missione lanciarono 166 tonnellate di bombe da 1.000 libbre del tipo RDX sul ponte stradale di Friola con un buon risultato”: poche scarne parole per descrivere un’azione che, riletta nei rapporti dei singoli equipaggi partecipanti, risulta invece decisamente più pag.
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caotica e complessa. Si trattò di una azione massiccia, mai vista prima di allora nelle nostre zone e condotta con l’impiego di un gran numero dei potenti quadrimotori americani B-24 Liberator. L’attacco al ponte della Friola, già bombardato in precedenza e rimpiazzato dai tedeschi con una passerella posta poco più a monte, venne portato in quattro tempi dai 42 grossi velivoli americani decollati fra le 8.10 e le 8.30 da San Giovanni Salentino in provincia di Foggia che, in fase di avvicinamento al bersaglio, si erano divisi in due gruppi d’attacco. Ognuno dei due gruppi era formato da 3 “box” o sezioni di 7 aerei ciascuno (il “box” era una formazione stretta di 7 aerei disposti in modo che le mitragliatrici di ogni aereo petessero contribuire alla difesa di quelli vicini). I primi due “box” che attaccarono il ponte, a causa del malfunzionamento dell’apparato di puntamento del caposquadriglia, sganciarono le 78 bombe da 1.000 libbre fuori bersaglio: quelle dei primi sette aerei finirono poco più a sud del ponte mentre quelle dei sette aerei successivi finirono addirittura ad oltre un chilometro e mezzo di distanza in direzione sud (verso Santa pag.
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Croce). Erano le 12.09 del 24 aprile 1945. Forse furono queste le bombe che caddero, per errore, sui campi tra Santa Croce ed il Brenta? Lo vedremo più avanti. Il secondo gruppo di attacco ebbe maggior fortuna ed alle 12.23 colpì il ponte nella parte est con 74 bombe dello stesso tipo. Ma non era finita. Altri 42 bombardieri decollati da Stornara, sempre in provincia di Foggia, stavano arrivando: i primi 18 aeroplani attaccarono il ponte alle 12.28, sganciando 100 bombe da 1.000 libbre e colpendo in pieno nuovamente il ponte. L’unità successiva composta da 14 aerei sganciò alle 12.42 altre 80 bombe su Friola ma gli ordigni finirono una parte a 1.500 piedi a nord del ponte e una parte a 2.500 piedi a nord-ovest. I rimanenti 10 aerei sbagliarono completamente obiettivo e bombardarono una passerella sull’Astico poco a nord del ponte di Sarcedo. L’ora, le 12.09, e la data, il 25 aprile, sembrano coincidere con il racconto di alcuni testimoni che assistettero al bombardamento della campagna Kofler di Santa Croce Bigolina e sembrano far supporre che il bombardamento di Santa Croce forse fu solo frutto dell’errore di un bombardiere
APPENDICE 4
Bombe su Santa Croce
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poco preciso. Altri testimoni, invece, raccontano di un attacco mirato alle strade che portavano al Brenta eseguito dai “picchiatelli”, aerei monomotori decisamente diversi, e difficili da confondere con i grandi quadrimotori B-24. Purtroppo gli elementi di cui siamo in possesso non ci consentono di stabilire con precisione l’esatta dinamica dell’accaduto. Possiamo solo fare alcune considerazioni puramente teoriche. Grazie ai ricordi di Isidoro Basso che ha lavorato in quegli anni al riempimento dei crateri delle bombe, abbiamo potuto individuare su una foto aerea di Santa Croce, risalente al 1955, i punti di impatto degli ordigni (abbiamo scelto una foto piuttosto vecchia perchè in quegli anni lo stato dei luoghi era rimasto sostanzialmente invariato dal dopoguerra). Guardando lo schema ottenuto risulta, in effetti, difficile pensare che un attacco portato da bombardieri in picchiata, generalmente molto precisi, possa aver dato origine ad una dipersione così ampia degli ordigni. Per contro. nel corso delle escavazioni condotte nella Cava San Paolo negli anni Novanta veniva rinvenuta una bomba d’aereo inesplosa, quasi cer-
tamente una di quelle cadute in quel giorno. Chi scrive ha avuto modo di vedere e fotografare la bomba, chiaramente identificabile come “bomba di tipo GP da 500 libbre”, il tipo di bomba che normalmente imbarcavano i “picchiatelli”. Resta quindi ancora un’ombra di mistero su questo bombardamento che, fortunatamente, a parte una pioggia di schegge roventi caduta sul centro del paese insieme a qualche albero strappato dal Brenta e depositato perfettamente in piedi vicino al Patronato, ha lasciato come ricordo solo due profonde buche rotonde nella porzione di bosco gestita dalla Pro Santa Croce. Riteniamo interessante un’ultimo accenno al rapporto di missione riferito al 29 aprile 1945, riportato sempre nel libro di Versolato, che dice: “un altro “flight” (squadriglia) di 4 P-47 brasiliani attaccò una colonna di circa un centinaio di soldati che stavano attraversando il fiume Brenta poco a nord di Friola, uccidendone diversi, un secondo gruppo di 4 P-47 del 347° Squadron mitragliò, sempre nei pressi di Friola, una colonna motorizzata tedesca che stava attraversando il Brenta distruggendo 3 camionette, 1 mezzo semicingolato, 6 autocarri, pag.
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In basso: la bomba inesplosa rinvenuta negli anni ‘90 durante l’escavazione della Cava San Paolo a Santa Croce Bigolina. A destra: i crateri scavati dalle bombe cadute a Santa Croce nella ricostruzione effettuata sulla base dei ricordi di Isidoro Basso. I due contrassegni neri si riferiscono ai crateri tuttora esistenti.
2 mezzi trasporto truppa a 6 ruote, un carro armato e una carretta. Altre due carrette, 6 camion, un carro armato pesante e un mezzo trasporto truppa furono danneggiati. Alcuni soldati uccisi (in realtà furono colpiti anche dei civili). Uccisi anche alcuni cavalli da tiro. L’azione ebbe luogo alla 12.30. Nel corso dell’azione furono sparati 11.760 colpi di mitragliatrice calibro 12,7 mm.”. Era il 29 aprile 1945. La guerra era finita da cinque giorni.
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CASE SIMIONI
CHIESA VIA DEL BRENTA VOLTO
FORNACE
VIA BASSE DEL BRENTA
LA LEGGENDA RITROVATA
29 marzo 1945: i B-25J del 310째 Gruppo Bombardieri Medi USAAF hanno sganciato da pochi secondi il loro carico di bombe sul ponte di Carturo. Sullo sfondo si vede chiaramente il corso del Brenta che si snoda dalla Valsugana attraverso il territorio di Cittadella e Fontaniva.
NOVE CARTIGLIANO
FIUME BRENTA
STROPPARI
TEZZE V. KOFLER
S. CROCE
CASONI
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PONTE DI FONTANIVA
FONTANIVA
BATTISTEI
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La Storia arriva a Santa Croce lungo la Via Postumia
BASSANO
LAGHI
VIA POSTUMIA
CITTADELLA
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Le immagini di questa pagina mostrano la casa colonica ricavata dai Kofler nel complesso edilizio di Via Volto, antica dimora dei Bigolini. Le foto risalgono ai primi anni Settanta e mostrano il fabbricato prima degli interventi di sistemazione che lo hanno trasformato in abitazione privata.
APPENDICE ICONOGRAFICA
Cartoline dal passato
Nelle successive sei pagine: alcune delle cartoline ricordo di Santa Croce (rigorosamente stampate su carta fotografica) edite dalla cartoleria Toniolo tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta. Sono immagini ingenue che ci consentono oggi di riscoprire un mondo ormai scomparso e l’identità povera ma dignitosa del nostro paese. Nella terza cartolina, in particolare, si possono rivedere le armoniose ed eleganti proporzioni della vecchia piazza di fronte alla chiesa.
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Le ricorrenze importanti erano anche le uniche occasioni in cui ci si poteva permettere il lusso di qualche fotografia, ed è grazie a queste foto se oggi possiamo rivedere Santa Croce com’era allora. Questo corteo nuziale risale ai primi anni Sessanta e si snoda lungo il viale alberato che divideva via Chiesa dalla roggia Michela; a nord della strada, ancora in terra battuta, ci sono solo campi mentre a sud un’alta mura di sassi racchiude l’area del convento, già proprietà Dal Sasso.
L’unica casa, in primo piano a destra, è quella di Virginio, il sarto di Santa Croce. Alcune persone si affacciano lungo la strada nella speranza che dalle macchine degli invitati vengano lanciati in strada i tradizionali confetti, come si usava in quegli anni. Vicino al ponte sulla Michela si può notare il “laveo” l’attrezzo in legno usato dalle donne per inginocchiarsi lungo la roggia a lavare i panni. Alcuni carretti ed attrezzi agricoli sono parcheggiati vicino al fabbricato dei Dal Sasso dove aveva la propria officina un fabbro.
APPENDICE ICONOGRAFICA
Cartoline dal passato
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Siamo ormai nei mitici anni Sessanta, in pieno “boom” economico. La Storia arriva A Santa Croce arriva la “strada asfalto” che travolge e distrugge, a Santa Croce assieme al vialeVia alberato, lungo Postumia alla roggia la Michela e alla mura del Convento anche l’Oratorio di San Francesco. Appaiono i primi lampioni e cominciano ad essere costruite le prime case lungo via Chiesa (oggi Via Santa Croce). Il Bar, vero centro di vita sociale del paese, abbandona la vecchia sede, ormai inadeguata, e si sposta in un nuovo anonimo fabbricato costruito a pochi metri.
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Questa cartolina dei primi del Novecento fa parte di una serie di tre cartoline del paese volute e commissionate da Don Domenico Valente al fotografo Restelli di Cologna Veneta. L’immagine, fortemente sgranata in quanto realizzata con la tecnica litografica dell’epoca, mostra la “via principale”, il tratto di strada che, partendo dall’angolo nord-est del Convento e dopo aver attraversato il ponticello sulla Michela, si dirigeva verso via Roverate e via Tre case. Lungo questo tratto non esistevano costruzioni. Gi unici edifici visibili sul fondo sono, a partire da destra, la casa di Don Sebastiano Centofante, il palazzo della famiglia Chemin e la chiesetta della “Regina Pacis” costruita da Don Antonio Santacatterina. In primo piano, a destra, il fabbricato della “Casona” uno dei più vecchi nuclei edificati del paese in cui si trovava già il bar, come si può desumere dall’insegna dipinta sulla facciata. Al centro il ponticello in mattoni che scavalcava la roggia Michela. Sulla sinistra, dietro gli alberi in primo piano vi era un campo da bocce gestito dai proprietari del bar.
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Ancora una vista della via Centro risalente, però, agli anni Sessanta. L’edificazione ha ormai creato due fronti continui ai lati della strada. Il bar è diventato “l’Osteria al Centro” (meglio conosciuta come “bar da Mao”) e, all’ombra della sua tenda, alcuni giovani avventori, sotto lo sguardo dissenziente di un anziano, stanno probabilmente tramando l’ennesimo scherzo ai danni del “sior Ettore”, il severo barista di allora. Un motorino “Giulietta”, antesignano degli attuali scooters, fa bella mostra di sé davanti al portico che conduce nel cortile della “Casona”. Sono apparse le prime insegne pubblicitarie. ed il tipico disco giallo segnala l’esistenza del primo “posto telefonico pubblico” a Santa Croce Bigolina.
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È sempre la via Centro in una foto scattata lo stesso giorno di quella della pagina precedente. Vi si vede, tra l’altro, affacciata al cancello e con il suo cappello di paglia, la mitica “Nea” che molti ricorderanno per i suo caratteristico chiosco di frutta e dolciumi.
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I “sette pini� secolari che si ergevano maestosi dietro all’Oratorioarriva di San Francesco La Storia sopravvissero alla sua demolizione fino ai tardi anni Settanta, quando a Santa Croce la vecchiaiala ed iVia fulminiPostumia lungo li abbatterono definitivamente. Ancora una volta una cartolina della cartoleria Toniolo, pubblicata nel 1968, ci consegna una Santa Croce ormai scomparsa in cui vediamo le due ampie curve a senso unico che raccordavano via Chiesa con via Michela circoscrivendo la collinetta su cui svettavano le sette vetuste conifere.
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Ancora una veduta di via Centro (oggi via Michela) negli anni Sessanta. La Storia arriva In primo piano il Panificio con il tipico portabiciclette a Santa Croce che sopravvive anche ai giorni nostri. lungo la Via Postumia Lungo la strada si allineano i lampioni dell’illuminazione pubblica da poco installati.
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A sinistra: le aule della Dottrina Cristiana, costruite nel 1954 da Don Domenico Valente a ridosso del vecchio asilo Parrocchiale. Nel cortile che si era così venuto a creare era stato realizzato un cinema all’aperto (del quale si vede lo schermo dipinto sul fabbricato a sinistra) dove al sabato ed alla domenica sera, con un proiettore “16 mm” acquistato dal Parroco, venivano proiettati grandiosi film mitologici come “I Dieci Comandamenti” oppure “Quo Vadis” oltre alle coloratissime e popolari avventure dei vari “Maciste”, “Ercole” ed “Ursus”.
APPENDICE ICONOGRAFICA
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In basso: una numerosissima scolaresca tutta femminile risalente alla prima metà del Novecento, posa di fronte all’Asilo Parrocchiale assieme ad un giovane Don Domenico Valente ed alle insegnanti della scuola.
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Ancora una scolaresca risalente agli anni tra le due guerre.
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In quegli anni la Scuola Materna non aveva il problema della scarsitĂ di iscrizioni...
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Il nuovo Asilo Parrocchiale realizzato durante gli anni 1955-1956 da Don Domenico Valente con il contributo della famiglia Chemin a fianco del palazzo abitato dagli stessi Chemin. I bambini nel cortile sono quelli delle classi 1954, 1955 e 1956.
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Ancora la foto di un corteo nuziale ci consente di gettare uno sguardo nel passato di Santa Croce. Sullo sfondo, a sinistra, la casa costruita da Don Sebastiano Centofante con l’esterno elegantemente decorato. A destra, il palazzo dei Chemin e l’annessa casa colonica che sarà successivamente trasformata nell’attuale Scuola Materna.
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Un’altra cerimonia, questa volta un funerale, per ritornare ai tempi in cui via Tre Case La Storia arriva non era ancora asfaltata. Il corteo funebre segue la disposizione tradizionale a Santa Croce di quegli anni, con gli uomini del paese, alcuni avvolti lungo la Via Postumia nel tradizionale “tabarro�, allineati davanti su due lunghe file ai lati della strada e donne e bambini raggruppati dietro.
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In alto: gruppo familiare dei primi del Novecento. In basso: i numerosi abitanti del “Volto” si affollano attorno al gelataio, l’uomo con il camice e con la tromba in mano in piedi al centro della foto. Tutti hanno in mano un recipiente pieno di latte che il gelataio accettava come moneta, a volte assieme anche a uova, in cambio del gelato.
Altre due foto che illustrano gruppi familiari di Santa Croce. Degni di nota le acconciature ed i vestiti che denotano lo stato sociale delle persone ritratte. In quegli anni i nuclei famigliari (gavassi) erano notevolmente consistenti e abbracciavano diverse generazioni.
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Le “brentane”, così sono chiamate le piene del Brenta, hanno sempre influito profondamente nell’evoluzione del territorio delle “basse”. Le due foto a sinistra mostrano l’alluvione del 1959. In quell’anno il fiume distrusse le terre coltivate che la famiglia Fantin lavorava all’interno del suo alveo. La foto in basso mostra alcune delle pecore che i Fantin possedevano e che venivano fatte pascolare nel Brenta sotto la custodia di piccoli pastori. In tutte queste foto si può notare come in quell’epoca il letto del fiume si trovasse alla stessa quota della campagna circostante, ben più in alto, quindi, di quello attuale.
APPENDICE ICONOGRAFICA
Cartoline dal passato
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LA LEGGENDA RITROVATA
Foto aerea di Santa Croce ripresa nel1935. Gli unici edifici visibili, oltre al complesso della chiesa, sono l’attuale macelleria, la casa Mazzochin, vicino al Cimitero, la casa di Don Sebastiano Centofante ed il palazzo dei Chemin. pag.
362
APPENDICE ICONOGRAFICA
Ieri e oggi
La stessa zona ripresa nell’anno 2004. L’edificazione si è notevolmente sviluppata ed è mutata in maniera rilevante l’intera fisionomia del paese. pag.
363
LA LEGGENDA RITROVATA
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In basso: mappa del Catasto Austriaco (anno 1831). I fabbricati esistenti evidenziati in nero non raggiungono le cinquanta unitĂ , a fronte di una popolazione di oltre mille abitanti.
In basso: Carta Tecnica Regionale. Rilievo aerofotogrammetrico del territorio, realizzato dall’Ufficio Cartografico della Regione Veneto nell’anno 1974. A Santa Croce le case si sono notevolmente moltiplicate mentre la popolazione raggiunge a fatica le mille unità. Il confronto con la mappa austriaca consente di individuare gli edifici più vecchi del paese.
APPENDICE ICONOGRAFICA
Ieri e oggi
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LA LEGGENDA RITROVATA
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CAPITOLO 1
La Storia arriva a Santa Croce lungo la Via Postumia
In questa vista aerea del paese, ripresa da sud, risulta evidente, in primo piano, il complesso di Villa Michiel (Ca’ Micheli) dal tipico impianto caratterizzato da corpo centrale e barchesse laterali pag.
367
LA LEGGENDA RITROVATA
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368
Fotografia aerea di Santa Croce risalente al 1955. Il territorio agricolo è ancora caratterizzato dalla suddivisione in campi delimitati da filari di vigne (le piantae).
APPENDICE ICONOGRAFICA
Ieri e oggi
Lo stesso territorio in una foto aerea del 1979. I filari e le alberature hanno lasciato il posto alle coltivazioni a mais. Sul Brenta risultano evidenti i segni delle escavazioni selvagge.
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369
LA LEGGENDA RITROVATA
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370
APPENDICE ICONOGRAFICA
Ieri e oggi Antica mappa settecentesca che illustra il sistema di rogge derivate dal Brenta a valle di Bassano del Grappa. Vi si possono contare ben 6 molini, 2 seghe, un folo e 2 filarogi, tutti azionati dall’acqua. In basso a destra la roggia Michela, dopo aver aggirato il Convento, va ad azionare il molino e la sega di Santa Croce Bigolina.
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371
LA LEGGENDA RITROVATA
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A sinistra: mappa del 1769 conservata presso l’Archivio di Stato di Venezia che mostra il complesso del Convento Francescano. Sotto: mappa del Comune di Santa Croce risalente al periodo Napoleonico (Archivio di Stato di Padova). Nei riquadri ingranditi si legge ancora la denominazione di “Santa Lucia Vecchia” e si può intravedere il portico che univa le due parti del palazzo dei Bigolini.
CAPITOLO 1
La Storia arriva a Santa Croce lungo la Via Postumia
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LA LEGGENDA RITROVATA
Cartolina dei primi del secolo acquerellata a mano che mostra le Scuole Elementari e la Trattoria Fantin.
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CAPITOLO 1
La Storia arriva a Santa Croce lungo la Via Postumia
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LA LEGGENDA RITROVATA
C
irca 3300 anni fa in Veneto abitavano poche migliaia di persone: gli Euganei sulle colline e i Reti sulle montagne. In quel periodo le civiltà Cretesi e Mesopotamiche, in piena età del bronzo, attraversavano un periodo di grande declino. Forse proprio da quei luoghi partì la migrazione dei “Veneti”. I primi stanziamenti furono all’imbocco delle valli, collegate da una “pista” lungo tutta la pedemontana. Poi lungo i fiumi come l’Adige (Este) e il Brenta (Padova e Altichiero), dove in prossimità delle anse erano realizzate facili opere di difesa, e nei “villaggi arginati” tra i boschi di querce della pianura. Subito sopra la fascia delle risorgive, sorsero quelli di Cittadella e di Campagnalta ancora visibile si può vedere in località “le motte” tra San Martino di Lupari e Castello di Godego. A San Pietro in Gù è osservabile, in località Castellaro, una struttura analoga ma più piccola, una “terramare”; la sua datazione è incerta. Il villaggio era costituito da un fossato esterno, da un argine con sopra un’alta e fitta palizzata e un campo interno. Generalmente le capanne erano su palafitte con la parte esterna in legno e paglia.
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I “Veneti”, ricordati anche da Omero, erano bravi artigiani e si dedicavano più alla pastorizia che all’agricoltura erano esperti allevatori di cavalli venduti anche ai Greci per le gare olimpiche. Nel Brenta di Carmignano è stata trovata un’ascia in bronzo (l’unico utensile del tempo che permetteva la lavorazione del legno), a Grantorto un’urna funeraria. Sui bordi di un antico ramo del fiume, vicino alla zona umida di Bolzonella, sono state trovate punte di frecce e raschiatoi in selce. Potrebbe trattarsi del più antico luogo abitato della zona. Qui il Brenta doveva essere navigabile e si potevano raggiungere Padova o Altichiero con piroghe di tronchi scavati. Da Padova partiva il sentiero della lana che attraversava la nostra zona. Villaggio fortificato circondato da palizzate costruito frequentemente in zone palustri e rese inaccessibile dalle acque.
LA STORIA IN QUATTORDICI PAGINE
Euganei, Reti e Veneti
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LA LEGGENDA RITROVATA
A
nord del ponte di Friola sono presenti blocchi di conglomerato naturale (puddinghe) molto duri e di dimensioni notevoli. Affioramenti di questo materiale, di cui non si conosce ancora la genesi, sono visibili sul ramo, mezzo chilometro a nord del ponte. Queste strutture, in questa epoca, potevano costituire lo spartiacque che divideva il fiume in due come vuole la tradizione: il Medoacus Maior per San Pietro in Gu ed il Minor lungo il corso attuale. Forse seguendo vecchie piste di quelli che noi chiamiamo Paleoveneti, i Romani costruirono la via Postumia, che portava ad Aquileia, loro colonia dal 180 a.C. Era una strada militare e per mille anni fu percorsa da molti eserciti. Era l’asse di riferimento per la “centuriazione” delle nostre campagne: l’agro Cittadella-Bassano che dipendeva dal municipium di Padova. Strade e canali di scolo dividevano il territorio in appezzamenti quadrati di 710 m di lato (centuria), ulteriori suddivisioni portavano al lotto da assegnare in premio ai veterani alla fine delle campagne militari. Tutto il territorio fu centuriato e segni evidenti ne sono rimasti a Cittadella e a Fontaniva; meno a Grantorto che apparteneva ad un’altra centuriazione. Incerte le
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tracce di Carmignano e Pozzoleone. Coloni provenienti da vari territori e culture si stabilirono nella zona, disboscandola prima e costruendo poi un numero incredibile di canali e strade che modificarono drasticamente il paesaggio. La centuriazione si è conservata nel Cittadellese perché questo territorio poggia su un vecchio “terrazzo” Pleistocenico risparmiato dalle divagazioni fluviali che hanno invece interessato la destra Brenta fino alla zona di Grantorto. Degli edifici di allora non sono rimaste tracce. Sono stati invece rinvenute monete, anfore, macine per cereali, pesi per telaio e cippi; in particolare il cippo gromatico di Grantorto trovato nel Brenta. L’agro centuriato Romano: una perfetta organizzazione del territorio suddiviso in maniera precisa e regolare da una maglia di strade e canali spesso conservatasi fino ai giorni nostri.
LA STORIA IN QUATTORDICI PAGINE
Epoca Romana 200 a.C. - 476 d.C.
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LA LEGGENDA RITROVATA
I
bellicosi popoli nomadi che vivevano fuori dell’impero erano chiamati barbari dai romani. Cambiamenti del clima, il crollo dell’impero, tattiche militari o “spinte” da altri popoli favorirono le loro invasioni. La Postumia, costruita per permettere rapidi spostamenti degli eserciti romani e quindi difendere il territorio, finì col diventare la strada preferita da Vandali, Unni e Goti nelle loro incursioni. Specialmente la nostra zona, saccheggiata di continuo, in preda a carestie e pestilenze, letteralmente si spopolò per migrazioni verso le montagne e le lagune ridiventando il regno del bosco e della palude (terre vegre). Ne nacque una situazione di estrema insicurezza sociale destinata a durare secoli. I pochi coloni rimasti abbandonarono l’agricoltura per dedicarsi alla pastorizia che era l’attività dei popoli invasori. Solo i Longobardi si fermarono in Italia e vi arrivarono nel 568. Tracce evidenti dei loro insediamenti sono la località “Fara” e le chiese dedicate a San Giorgio e San Michele, mentre della loro lingua sono rimaste parole come: scafa, rosta, gripia, straco ecc. Le loro famiglie mantennero il controllo del territorio per alcuni secoli. pag.
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Forse, in concomitanza con una piena catastrofica, nel 589 il fiume Cismon, ex affluente del Piave, confluì nel Brenta raddoppiandone la portata. Una nota rima popolare dice: “El Brenta nol saria Brenta se non fusse el Cismon che el ghe dà un spinton”. Il Medoacus diventò Brenta che pare voglia dire “acqua di neve sciolta”. Alla fine del millennio i monaci Benedettini iniziarono la bonifica del territorio favorendo così il sorgere delle prime piccole comunità e un lento ritorno all’agricoltura. Un carro trainato da buoi: l’abitazione dei popoli nomadi, antesignano dei nostri camper.
LA STORIA IN QUATTORDICI PAGINE
Alto medioevo 477 - 900 d. C.
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LA LEGGENDA RITROVATA
C
essate le terribili invasioni degli Ungari che avevano sconfitto re Berengario I sul Brenta (tra Fontaniva e Cartigliano), gli imperatori Germanici favorirono i Vescovi assegnando loro la difesa del territorio. E proprio per difendersi dalle frequenti scorrerie vennero costruite torri e piccoli castelli, prima in legno, poi in muratura. Le terre “vegre”, paludose e incolte, erano riservate alla pastorizia che era l’attività più praticata: la lana veniva pestata nei “folli” e commercializzata anche a Padova sfruttando l’asse di comunicazione (l’arzere della regina) tra questa città e gli altipiani. Il nostro territorio, ancora poco popolato, era un bosco fitto abitato da lupi, cinghiali e numerosi altri animali. Iniziò un periodo di relativa sicurezza sociale che favorì l’agricoltura e lentamente sorse un nuovo paesaggio sulle tracce della centuriazione romana. La popolazione crebbe grazie anche all’aumento della produzione agricola dovuto a nuove tecniche d’aratura. Sorsero nuove costruzioni riutilizzando tutto il materiale dei ruderi tanto che dei vecchi edifici romani non rimane traccia. Si diffusero i mulini ad acqua e le fornaci per i mattoni e la calce ottenuta dalla calcinazione dei sassi del Brenta.
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Nel XII secolo i comuni di Padova, Vicenza e Treviso si contendono il territorio del Brenta a partire dal Bassanese. La pace di Fontaniva del 1147 mette provvisoriamente fine alla guerra. In questo periodo sorgono anche i nostri comuni rurali attorno alle loro chiese o ai castelli. Cittadella sorge nel 1220 ad opera del comune di Padova che ne fa edificare le mura, forse, sopra l’argine del villaggio paleoveneto. Il territorio, dominato dagli Ezzelini prima, dai Carraresi e dagli Scaligeri poi, fu per breve tempo anche di Gian Galeazzo Visconti. Questì tentò di usare il Brenta come arma da guerra. Furono iniziati i lavori per dirottare il fiume in un canalone a sud di Marostica con l’intento di allagare il territorio padovano ma l’ennesima “brentana” ne impedì la realizzazione. Sorgono i primi “casoni” con il tetto di paglia ed un foro al centro da dove esce il fumo del focolare; nell’unico ambiente interno convivono contadini ed animali.
LA STORIA IN QUATTORDICI PAGINE
Basso medioevo dopo il 1000
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LA LEGGENDA RITROVATA
I
n questo periodo i castelli medievali persero la loro funzione militare e le torri furono trasformate in colombare o abitazioni. Iniziò un lungo periodo di relativa pace che favorì la nascita di piccoli villaggi diffusi (ville). Restano le difficoltà legate al ciclo della terra che è proprietà di pochi: comuni, nobili e il clero. I nobili veneziani investono i loro capitali in vaste proprietà terriere introducendo nuove colture come il riso, i bachi da seta e più tardi, dopo la scoperta dell’America, il mais. La polenta diventa il piatto obbligato dei poveri contadini e la pellagra ne è la conseguenza. Il paesaggio si caratterizza per la veneta “piantà”: campi divisi da filari di viti sostenute da olmi e morari (gelsi) per la bachicoltura. Il tutto sotto il controllo dei fattori dei nobili che abitavano nella casa “dominicale”, un vero e proprio centro economico locale e, spesso, anche un centro di piacere. Il nome “villa” era dovuto alla vicinanza con il borgo (in latino villa); i nobili andavano a fare la “villeggiatura” e chi ci abitava tutto l’anno erano i “villani”. Il popolo non era ammesso alle decisioni importanti e la vita era limitata a “Ciesa-casa-vache”. pag.
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Tanto lavoro trasformerà il territorio in un paesaggio bello, ordinato, bucolico, ancora godibile in alcune zone delle nostre campagne. Le rogge del Brenta o di risorgiva concesse dai Provveditori ai Beni Inculti a scopo di irrigazione presero il nome dal nobile proprietario: Grimana, Rezzonica, Dolfina, Michela ecc. L’acqua impetuosa azionava mulini, magli, segherie, pile da riso ecc.; le omonime vie lo ricordano ancora. Dove serviva, sulle sponde del Brenta, venivano eseguiti piccoli argini di protezione in legno. La corrente portava zattere di legname dalla montagna alla pianura. Le sponde erano un tratturo per mandrie e greggi in transumanza dai pascoli alpini d’estate al litorale d’inverno. Il “casone” si organizza: casa e stalla sono due unità distinte anche se comunicanti; molti di questi edifici sopravviveranno anche se in forma più evoluta fino agli anni ‘30 del secolo scorso.
LA STORIA IN QUATTORDICI PAGINE
Periodo Veneziano 1405 - 1797
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LA LEGGENDA RITROVATA
D
opo l’umiliante fine della Serenissima (1797), ad un breve dominio Francese seguì quello Austriaco dal 1813 al 1866. Nel 1799 venne costruito il primo ponte a Fontaniva. Prima di allora il Brenta veniva guadato o attraversato su “passi” gestiti dal barcarolo. Lievi differenze dialettali testimoniano i ridotti scambi tra le rive. Le ghiaie portate dalle piene alzarono il letto del fiume tanto da rendere necessaria la costruzione di robusti argini sulla sponda destra a partire da Friola. La sponda sinistra era riparata dalla scarpata naturale. Gli argini, di ghiaia con fianchi rivestiti di grossi ciottoli, evitarono le inondazioni anche quando il letto del Brenta diventò, dopo il 1900, pensile nei pressi di Friola. Il fiume, più alto della pianura, portò più acqua alle risorgive aumentandone il numero e la portata. Le tasse erano pesanti, la giustizia severa e gli assassini erano condannati all’impiccagione. A Spessa di Carmignano c’era una forca. L’arrivo dei Savoia non modificò le condizioni di povertà estrema e, in soli 25 anni, un quarto della popolazione fu costretta all’emigrazione verso Brasile e Argentina prima, poi Australia, Francia, Svizzera , Belgio e Germania. pag.
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Questo fenomeno, iniziato nel 1870, continuò per cent’anni. A Carmignano la nuova cartiera limitò la fuga ma fu un fatto locale. La cartiera di Carmignano sorse su un’area di un mulino sull’omonima roggia Molina documentata fin dal 1310. Nel 1877 venne costruita la ferrovia Vicenza - Treviso che attraversava il Brenta su un nuovo ponte in ferro parallelo a quello in legno della strada statale.
Il tetto in paglia del “casone” è stato sostituito dai coppi. La stalla comunica direttamente con la cucina, mentre per salire alle camere da letto è spesso necessario passare per il cortile. Generalmente orientato a sud, è l’edificio rurale tipico delle nostre zone.
LA STORIA IN QUATTORDICI PAGINE
Dominio straniero e unità d’Italia 1798/1899
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LA LEGGENDA RITROVATA
I
l clima, lentamente, è divenuto più caldo. Le piazze si popolano di monumenti ai caduti a memoria della grande guerra e di tante giovani vite spezzate. Sorgono le prime industrie dei prefabbricati in cemento grazie alle pregiate ghiaie del Brenta. Si produce di tutto: recinzioni, lavabi, cessi, cisterne, porte, telai per finestre ecc. Non sappiamo se ciò dimostra la versatilità del materiale o la bravura degli operai. Fontaniva è il paese simbolo di questa attività. Il business dell’estrazione della ghiaia inizia nel 1920. Ricordiamo la seconda guerra: i rastrellamenti ad opera dei nazi-fascisti, le deportazioni nei “lager”, i bombardamenti del ponte di Fontaniva e della statale a opera degli anglo-americani con “Pippo” e la liberazione con la partecipazione dei partigiani. La nostra società da povera e contadina diventa industriale e ricca grazie sia alla laboriosità che alla libertà di poter costruire case e fabbriche ovunque. Lo sviluppo avviene su un tessuto urbano adatto all’agricoltura non predisposto alle nuove esigenze dove la campagna si confonde con l’abitato. Una palla al piede per il futuro perché • rende difficile e costosa la sistemazione della precaria rete viaria; pag.
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aumenta le lunghezze e quindi i costi di esecuzione e di gestione delle reti fognarie, gas, ecc. eseguite, spesso, su tracciati obbligati ma non idonei (es. elettrodotti); • porta a una cementificazione eccessiva e diffusa con aumento del rischio idraulico; • il territorio perde la sua tipicità; • favorisce lo spreco del terreno. Nel Brenta, nonostante i ponti crollati, l’abbassamento delle falde, le cave mai ripristinate ecc. continua il business della ghiaia con dissesto dell’assetto idrogeologico dell’alto Brenta. Da emigranti diventiamo una zona di immigrati mentre il clima continua a cambiare. Cinquant’anni fa la famiglia era ancora patriarcale. Si viveva “in tanti” in case senza riscaldamento, senza acqua, senza gabinetto. L’elettricità era arrivata da poco; qualche radio, nessun elettrodomestico, pochi rumori. Le rare auto correvano su strade bianche dove, d’estate, si andava anche scalzi tra carri trainati da buoi, cavalli o asini. Non abbiamo alcun rimpianto per queste cose ma il nostro grande desiderio è quello di uno sviluppo etico e sostenibile che garantisca anche alle future generazioni le stesse nostre opportunità. •
LA STORIA IN QUATTORDICI PAGINE
1900/2000 un secolo di cambiamenti
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LA LEGGENDA RITROVATA
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A sinistra: Cascina Sant’Andrea, una delle sette costruite dai Kofler dopo la bonifica delle “basse”. Sotto: due suggestivi scorci del Brenta.
I COLORI DI SANTA CROCE
Foto di Cesare Gerolimetto
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LA LEGGENDA RITROVATA
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Lo splendido altare in marmo di Carrara all’interno dell’Oratorio di San Gaetano a Ca’ Micheli
CAPITOLO 1
La Storia arriva a Santa Croce lungo la Via Postumia
Il suggestivo cortiletto da cui si accede all’Oratorio di San Martino presso villa Kofler. Il ballatoio visibile in alto consentiva ai nobili proprietari della villa di accedere ad una porzione della chiesetta, chiusa da grate ed a loro riservata, senza entrare in contatto con i popolani.
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LA LEGGENDA RITROVATA
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Giochi di luci ed ombre e fascinose prospettive nei granai di Villa Kofler.
I COLORI DI SANTA CROCE
Foto di Cesare Gerolimetto
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LA LEGGENDA RITROVATA
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CAPITOLO 1
Villa Kofler: il “sèlese”, l’aia mattoni ricoperti di catrame LacuiinStoria arriva su venivano essiccate le granaglie.
a Santa Croce lungo la Via Postumia
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LA LEGGENDA RITROVATA
Come attraverso il periscopio di un sommergibile, l’”occhio” rivolto a nord dei granai di Villa Kofler inquadra l’imbocco della Valsugana.
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CAPITOLO 1
La Storia arriva a Santa Croce lungo la Via Postumia
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LA LEGGENDA RITROVATA
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Il campanile di Santa Croce si staglia contro le pendici del Grappa sovrastato da un cielo che sembra dipinto da Tiepolo.
CONCLUSIONE
A
nche se certamente resta ancora molto da dire, con la nostra storia ci fermiamo qui. Vogliamo, però, sperare che questa non sia una storia conclusa, altrimenti vorrebbe dire che sarebbe solo un’epigrafe per un paese moribondo. E se è vero che Santa Croce arriva oggi a malapena a mille abitanti e che da decenni è quasi ferma nel suo sviluppo edilizio ed economico, siamo convinti che nessuno dei suoi abitanti voglia neanche per un momento pensare che questa Comunità, dal passato così ricco, debba essere avviata ad una lenta ma inesorabile estinzione, dopo quanto hanno fatto per essa i nostri padri. Il presente lavoro, dunque, vuol essere anche un invito a tutti, soprattutto ai giovani, ad amare questo luogo e a darsi da fare, insieme, perché Santa Croce Bigolina sia sempre più una realtà viva e, pur nelle inevitabili difficoltà, possa offrire ai nostri figli, proprio qui, con adeguate strutture, la possibilità di un avvenire sereno e prospero, isprato agli intramontabili valori che hanno guidato chi ci ha preceduto. Piace pensare che, fra qualche decennio, altri riprenderanno questa ricerca da dove è stata lasciata, per integrarla e per raccontare ancora le memorabili e, ci auguriamo, belle vicende della piccola, grande storia di Santa Croce Bigolina. pag.
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LA LEGGENDA RITROVATA
Vi siete mai chiesti qual è il significato dei cognomi delle famiglie che abitano Santa Croce e dintorni? Ecco una risposta, anche se non completa, che ci viene da Dario Soranzo, noto studioso veneto, che ha pubblicato le sue ricerche sui “Cognomi dei Veneti” in fascicoli allegati ai quotidiani “Il Mattino di Padova”, “La Tribuna di Treviso” e “La Nuova Venezia” , dal “Dizionario dei cognomi italiani” di Emidio De Felice e dalle ricerche di U. Simionato in “Cognomi padovani e antiche famiglie di Padova e del suo territorio”.
Quando è nato il cognome? I cittadini romani avevano tre nomi: il primo, detto prenome, era personale e corrispondeva al nostro nome proprio; il secondo, il nome, derivava dal capostipite della famiglia e indicava a quale “gente” si apparteneva; il terzo, il cognome, equivaleva al nostro soprannome. Con la caduta dell’impero romano, l’usanza latina andò perduta, le persone cominciarono ad essere chiamate col loro semplice nome, e bisognerà aspettare l’epoca medievale prima che si arrivi ad attribuire un cognome per distinguere una persona dall’altra. L’origine del cognome può generalmente essere fatta risalire: - al nome del padre o di un antenato (ad es.: Alberti, Sandri, Martinello...); - ad antichi nomignoli, passati a soprannomi di famiglia diventati poi normali cognomi (ad es.: Bevilacqua, Gobbo, Bonomo, ...); - ai paesi di provenienza che, spesso, si presentano anche come semplice nome di città, di borgo o di località (ad es.: Bassani, Noventa, Pavan, Trevisan...); - ai mestieri svolti (ad es.: Fabris, Favaro, Marangon...); - a nomi di origine longobarda, germanica, greca, latina o anche ebraica.
pag.
402
APPENDICE 5
“Cio’, come te ciamito ti?”
Il significato di alcuni cognomi di S.Croce Bigolina e dintorni. Ecco da dove derivano o cosa vogliono dire i più comuni cognomi delle nostre famiglie, soprattutto se sono di origine veneta (ci scusiamo se qualcuno non troverà il suo; vuol dire che non siamo riusciti a trovarne l’origine): AGOSTINELLI:
può risalire sia al latini Augustus (favorito da buoni auspici) sia da Agostus (nato nel mese di agosto). La grande diffusione del nome fu dovuta al culto di San Agostino.
ALBERTI, ALBERTON, ALBERTONI: dal nome Alberto, che i Longobardi introdussero in Italia, ed è composto dalle parole germaniche “athala” (nobiltà di stirpe) e “bertha” (illustre, famoso).
ANDRETTA, ANDREATTA, ANDRIOLO:
da Andrea, nome di uno dei dodici Apostoli, che viene dal latino “Andreas” il quale a sua volta riprende la parola greca “andròs” (uomo).
ANTONELLO, ANTONIACOMI:
sono derivati dal nome Antonio, ed hanno conosciuto una larghissima diffusione dopo la morte del Santo, avvenuta nel 1231.
ANDRIOLO:
ha alla base il personale Andrea (uomo), diffusosi per il prestigio dell’apostolo, fratello di San Pietro.
BAGGIO:
la derivazione più probabile è quella
del latino “badius”, (bajo) colore rossastro scuro del mantello di certi cavalli; starebbe ad indicare quindi una persona dai capelli rosso-bruni.
BALLIN:
dal veneto “bala”, palla.
BARICHELLO:
pare probabile una derivazione dall’italiano antico “barica” (barile), di cui Barichello potrebbe essere il diminutivo maschile; si riferirebbe quindi a chi faceva il mestiere di bottaio.
BASSO:
dall’aggettivo “bassus”, basso, originariamente riferito alla statura.
BASTIANELLO:
deriva dal nome Sebastiano, di cui è diminutivo, e che significa “venerabile”.
BATTISTELLA:
da Battista, appellativo di San Giovanni, cugino di Gesù.
BELTRAMELLO:
avrebbe alla base il nome “Bertramus”, composta da “bertha” (famoso, splendente) e “hrabhan” (corvo). Giunto dalla Francia, il nome si sarebbe contaminato con forme italiane che presuppongono l’accostamento a Beltrame.
BENETELLO:
da Benetto, forma abbreviata di Benedetto, largamente popolare nel Medioevo con riferimento a San Benedetto da Norcia.
BERGAMIN:
richiama la provenienza dalla città lombarda di Bergamo. pag.
403
LA LEGGENDA RITROVATA
BERNARDI:
BOARO:
BERNO:
BONALDO:
è contrazione del nome proprio Bernardo.
BERTON, BERTONCELLO: alterato di “Berto” dal germanico “bertha” (famoso, illustre).
dal francone “Bonwald”, composto di “bon” (buono) e “vald” (regnare), cioè colui che è buon re.
BONAMIN:
appare in vari paesi d’Europa e pare accertata l’origine umoristica e canzonatoria del soprannome.
BIGOLIN:
BORDIGNON:
il cognome non esiste a Santa Croce, ma è comune a Galliera Veneta; vale comunque la pena di citarlo, visto che Santa Croce prende l’appellativo dalla famiglia dei nobili Bigolini. Bigolin viene dalla voce dialettale “bigolo”, il cui significato, confermato dall’accrescitivo “bigolon” sembra essere quello di sempliciotto, sciocco. Ricordiamo però che i Bigolini di Santa Croce avevano all’origine un altro cognome, quello di “De Mainardis” (che viene dal nome proprio Mainardo, che vuol dire “terribile per la sua forza”), e che il successivo epiteto fu loro dato poichè provenivano da Bigolino, una località in comune di Valdobbiadene.
BIZZOTTO:
dal nome germanico Albizo.
BODO:
di origine incerta, non si può escludere
404
dal soprannome di mestiere dell’ addetto alla custodia del bestiame.
può derivare da una variante di Bonomo, nome augurale dato con la speranza che il nuovo nato diventi un uomo buono; oppure potrebbe essere una variante di Bonamico, altro nome augurale di trasparente significato.
BEVILACQUA:
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che derivi dal germanico, col significato di messaggero.
da Bernardo, che risale ad un composto germanico “beran” (orso) e “hardu” (forte, valoroso). Viene reso popolare grazie alla devozione a San Bernardo di Chiaravalle (sec. XII).
dal termine “bordiglione”, che indica un tipo di filato; ma potrebbe anche voler dire “borgognone”, proveniente cioè dalla regione francese della Borgogna.
BOSCHETTI, BOSCO:
cognome connesso con il lavorare e con il vivere nei boschi. Come soprannome, può indicare anche una persona scontrosa.
BRAGAGNOLO:
il cognome potrebbe alludere al termine commerciale “bragagna”, che si riferisce al patteggiare il prezzo; alluderebbe quindi a chi faceva il mestiere di mediatore.
BROTTO:
forse dalla radice germanica “buri” (abitazione), oppure dalla voce veneta
APPENDICE 5
“Cio’, come te ciamito ti?”
“borra” (oggetto rotondo), o forse ancora dai nomi propri Bruccio o Brehus.
BUBBOLA:
probabilmente deriva dall’italiano “Bubbola” (upupa, nome di un uccello), quindi originariamente fu un soprannome.
BULLA:
forse un soprannome derivato dal nostro dialetto “bulo” (bellimbusto, smargiasso); ma può anche riferirsi al nome di due specie di conchiglie che in laguna si indicano come “bulo de mar”.
CAMPAGNARO, CAMPAGNOLO:
dall’ovvio significato riferentesi a chi abita o proviene dalla campagna.
CAPPELLARI:
indicava il fabbricante o venditore di cappelli.
CARNIELLO:
originario della regione alpina della Carnia, che a sua volta deve la sua denominazione alla tribù dei Galli Carni.
CARRARO:
la diffusione del cognome si spiega con l’importanza avuta in passato dal mestiere del “carraro”, costruttore di carri.
CASTELLAN:
da castello; nella nostra area rappresenta l’appellativo di chi è originario di Castelfranco.
CAVALLARO:
guardiano di cavalli.
CECCHIN:
da Cecco, a sua volta alterati di Francesco.
CELADINATO:
viene da “celada”, variante veneta di “celata”, antico tipo di elmo; può significare quindi “soldato”.
CERCHIARO:
si riferisce al mestiere di fabbricante di cerchi di botte.
CERVELLIN:
potrebbe venire dal diminutivo dialettale di cervello, ad indicare forse come soprannome una persona bizzarra o un po’ sventata.
CHIMINAZZO:
probabilmente ha alla base il nome proprio Clemente, del quale potrebbe essere un’alterazione (Clementinazzo).
COCCO:
è una voce familiare che oltre al significato di “uovo” ha anche la funzione di appellativo affettivo di bambini e persone care; potrebbe però anche essere un soprannome derivato da “cucco”, col significato di uomo molto vecchio, rimbambito.
CONTE, CONTE BONIN:
dal latino “comes”, (compagno). Non sembra indicare la trasmissione di un titolo, ma a identificare gli uomini del seguito dei nobili. “Bonin” è diminutivo di buono.
COSTA:
richiama una delle numerose località con questo nome. pag.
405
LA LEGGENDA RITROVATA
CUSINATO:
da “cusin” (cugino), derivato dal francese “cousin”, a sua volta deformazione del latino “consobrinus”.
DE TONI:
anche alla base di questo cognome c’è il nome Antonio (Di Antonio, dialettizzato).
DIDONE’:
all’origine di questo cognome potrebbe esserci il nome francese “Dieudonnè”, corrispondente all’italiano “Diodato”, il cui significato è “donato da Dio”.
FABRIS:
risale al soprannome di mestiere di fabbro.
dal nome “Gaspare”, derivato dall’iranico “Gathaspar” (splendente), riferito al Dio dell’Aria. Si diffonde da noi in riferimento al nome di uno dei Re Magi.
GEREMIA:
di origine ebraica, significa “esaltazione del Signore”.
GIARETTA:
dal germanico; la radice del nome significa: letizia, godere.
FANTIN, FANTINATO:
GNOATO:
dal sostantivo latino “infans” (fanciullo); nell’italiano antico indicava il bambino e poi il giovane, il servitore e infine il soldato a piedi.
FERRARO:
si riferisce al mestiere di fabbro ferraio.
FIOR:
dal latino “flos” (fiore).
FRIGO:
contrazione di “Agnolato”, che ha alla base il nome Angelo, con la variante veneta Agnolo.
GOLO:
viene dalla voce veneta “golo” (sensale).
GRIFALCONI:
deriva dall’accrescitivo dell’italiano antico “grifalco” (uccello da preda della famiglia dei falchi).
dal nome germanico “Federico”, composto da “frithu” (pace) e “ricija” (re), quindi: signore della pace.
GRIGOLON:
FURLAN:
diminutivo di Guido, dal longobardo “Wido” (legno, bosco, foresta).
che viene dal Friuli.
406
GASPARIN, GASPERIN, DE GASPERI:
potrebbe trattarsi del diminutivo dialettale veneto di “giara” (ghiaia); è tuttavia più probabile che derivi dall’italiano antico “giara” (grosso vaso).
FACCO:
pag.
FUSARO:
cognome esistente a Santa Croce nell’Ottocento, ora scomparso; si riferiva al mestiere di chi fabbricava o vendeva fusi per la filatura.
deriva dal nome greco Gregorio, che vuol dire intelligente.
GUIDOLIN:
APPENDICE 5
“Cio’, come te ciamito ti?”
LABADI:
ha alla base la parola “abate”, ma può anche avere il significato di “capo di una festa; chi dirige i balli in feste popolari”.
LAGO:
indica la provenienza da una delle molte località che prendono il nome dalla vicinanza di un lago.
LANZA:
dal veneto “lanza” (lancia).
LESSIO:
dal nome personale Alessio, che in greco significa “difensore, protettore”.
MERLO:
da “merlo”, che risale al latino “merula”; probabilmente deriva da un soprannome, già documentato nel Medioevo e utilizzato nei due significati opposti di ingenuo o furbo.
MILANI:
può derivare dal nome Emiliano oppure può riferirsi a chi proviene dalla capitale lombarda.
MION:
può derivare dalla forma abbreviata dei nomi Simeòn o Bartolomìo.
MORLIN:
di origine incerta, non si può escludere una derivazione dall’italiano antico “loro” (fascia, cinghia di cuoio).
probabilmente forma contratta di Morellin, variante di Moro, derivato da Maurus, che indicava l’abitante del Marocco, con riferimento ad una persona dalla pelle molto scura.
MARSAN:
MOSELE:
LORO:
forse da una contrazione di Marchesan, cioè originario delle Marche o dipendente, nel Medioevo, da un marchese.
MARTINELLO:
vezzeggiativo derivato dal nome Martino, che vuol dire “sacro al dio Marte”.
MAZZOCHIN:
variante di Mazzon, dal germanico “Mazo” o “Mado”, che deriva da “mathal” (onore).
MENEGON:
derivato dalla dialettizzazione del nome Domenico in Menego, di cui è l’accrescitivo.
alterato di Mosè, col significato di “salvatore, liberatore”.
MUNARI:
variante di “molinaro”, soprannome del mestiere di mugnaio.
NARDELLO:
diminutivo dal nome Nardo, a sua volta derivato dai nomi Bernardo o Leonardo.
NICHELE:
dal nome Nicola, che in greco significa “popolo che vince”.
NORDIO:
da un nome germanico; significa: che viene dal nord. pag.
407
LA LEGGENDA RITROVATA
OLIVO, OLIVETTO:
il punto di partenza da cui si sono formati questi cognomi, può essere l’oliva come frutto, con riferimento a chi le produce o le vende, o all’oliva come colore, riferito a persone di carnagione olivastra.
PANDIN:
forse abbreviazione di Pandolfin, dal nome Pandolfo, che vuol dire “guerriero valoroso che porta la bandiera”; potrebbe essere anche variante del nome Bandino, che vuol dire “bandiera”.
PAROLIN:
dal veneto “parolo” (paiolo), che a sua volta viene dal latino “pariolum”, che l’ha preso dal gallico “parium”; insomma, chi faceva il mestiere del calderaio.
PASIN, PASINATO:
PIVATO:
alterato di “Piva” (piffero), che risale al latino “pipa” (fischio); indica chi faceva il mestiere di zampognaro.
PRANDIN:
ha alla base il nome d i origine germanica Prando, corrispondente di Brando, che vuol dire “spada risplendente”.
RAMPAZZO:
dalla voce germanica “rampo”, che significa forte.
REBELLATO:
dal nome tedesco “rebe” (tralce, vite); indicava quindi chi faceva il vignaiolo.
PAN:
RIGATO
PAVAN:
padovano, che viene da Padova.
PETTENON, PETTENUZZO:
alterato dal veneto “petene” (pettine).
PIOVAN:
dal veneziano “piovan” (parroco). Il cognome appartiene alla serie dei soprannomi dati a persone in relazione di servizio
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PIOTTO:
probabilmente contrazione di “Pilotto” che viene dal latino e vuol dire “freccia”.
deriva da pace e si spiega con l’auspicio che il neonato porti in casa la pace.
deriva dal soprannome medievale “pane”, che indica una persona buona oppure si riferisce al mestiere di fornaio.
pag.
con autorità varie o in rapporto di parentela con persone del clero.
(cognome del vecchio gestore del bar centrale, soprannominato “Mao”): dal nome germanico Enrico, che significa dominatore della casa o della patria.
SANDRI:
ha alla base il nome Alessandro.
SARTORE:
chiaramente riferito al mestiere di sarto.
SCAPIN:
dal latino medievale “scabinus”, che indicava una categoria di funzionari minori del sistema giudiziario carolingio.
APPENDICE 5
“Cio’, come te ciamito ti?”
SCHIAVO:
risale all’aggettivo “sclavus” con cui si indicò nel passato chi apparteneva all’etnia slava.
TRENTIN:
SERAFIN:
che viene dal territorio o dalla città di Treviso.
nome di tradizione biblica, riferito alle creature angeliche dei Serafini.
SGARBOSSA:
connesso col verbo “sgarbare”, che definisce l’operazione di togliere le erbe.
originario di Trento o del Trentino.
TREVISAN:
VALLOTTO:
che viene da località situate in una valle.
VANGELISTA:
SIMEONI, SIMIONI, SIMONETTO: derivano dal nome Simeone.
da Evangelista, nome sorto dall’appellativo dei quattro autori dei Vangeli e in particolare di S.Giovanni Evangelista.
SPIGAROLO:
VIEL:
dovrebbe essere riferito a chi faceva il mestiere dello spigolatore, cioè del raccoglitore di spighe dopo la mietitura.
ha alla base il nome personale Vito, che riflette il longobardico Wido, dal quale si è formato il nome italiano Guido.
STOCCO:
VISENTIN:
nome di un’arma da punta con lama di media lunghezza, che presumibilmente richiama un soprannome di mestiere (armaiolo, soldato).
TESSAROLO:
dal mestiere di tessitore, in latino “texarius”.
TOFFANIN, TOFFOLI, DE TOFFOLI: derivato dal nome Cristoforo (colui che porta Cristo).
TONIOLO:
vezzeggiativo di Antonio.
TOSETTI:
ha alla base il soprannome “toso”, che continua il latino “tonsus” (tosato), con il significato estensivo di “ragazzo, giovane”.
che viene dal territorio o dalla città di Vicenza.
ZACCHIA:
può avere alla base il nome biblico del profeta Zaccaria, che significa “Dio si è ricordato”, oppure potrebbe essere una variante di Zaccheo, che ha lo stesso significato.
ZAMBOLIN, ZANON:
varianti che derivano dal nome Giovanni e dalla sua alterazione in Zanni.
ZONTA:
può essere un soprannome (che aggiunge) oppure potrebbe derivare dalla dialettizzazione del cognome Giunta, il quale a sua volta viene da Bonaggiunta, riferito a un figlio desiderato. pag.
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LA LEGGENDA RITROVATA
pag.
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BIBLIOGRAFIA
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RINGRAZIAMENTI
Non avrei mai potuto scrivere e pubblicare questo “libro” senza l’aiuto e la collaborazione di molti. Devo quindi rivolgere un vivo e sincero ringraziamento: - a Settimo Basso, Presidente della Pro Loco fino al 2002, e alla Pro Loco stessa, che mi hanno appoggiato e stimolato in questa iniziativa, contribuendo anche alle spese di ricerca; - all’architetto Giuliano Basso, che ha dedicato molto del suo tempo, e non solo, alla realizzazione grafica e all’apparato iconografico di questo lavoro. - al prof. Alberto Golin di Carmignano di Brenta, ricercatore infaticabile di documenti, senza la cui indispensabile consulenza mi sarei perso non solo tra le carte degli archivi, ma anche tra le calli di Venezia, e che, fra l’altro, ha il grandissimo merito di aver ritrovato il testamento di Alessandro Bigolino; - al Chiarissimo Professor Sante Bortolami, Docente di Storia Medievale all’Università di Padova e Autore di moltissimi testi e saggi storici, persona di profondissima cultura ma anche di straordinaria cortesia, che ha avuto la bontà e la pazienza di leggere e correggere, con preziosi suggerimenti, i capitoli riguardanti gli avvenimenti relativi al Medioevo e mi ha fornito inoltre inediti documenti, frutto delle sue ricerche; - alla dott.ssa Stefania Nicoletto di Padova, che gentilmente mi ha permesso con tutta calma di consultare e attingere alla sua tesi di laurea sulla Famiglia dei Bigolini; - a Luciano Bon di Grantorto, storico ed epigrafista per passione, che mi ha fatto conoscere il Prof. Bortolami e mi ha dato importanti indicazioni, interessandosi attivamente a questo lavoro; - all’ ex Sindaco di Cittadella, dott. Lucio Facco, e agli Assessori Comunali, che hanno reso più agevoli le pratiche con gli archivi; - a Mons. Mario Dalla Via, che con grande disponibilità e affabilità mi ha facilitato nella consultazione dei documenti conservati nell’Archivio della Curia; - a Don Giantonio Cogo, già Parroco di Santa Croce, promotore dei lavori di restauro della Chiesa e del campanile e del rifacimento del pavimento, che mi ha introdotto nell’archivio della Curia e mi ha consentito di rovistare per l’intero mese del luglio 1997 nell’archivio parrocchiale; - a Don Antonio Schiavo, attuale Parroco di Santa Croce, sempre disponibile a consentirmi la revisione di qualche documento; - al signor Oscar Carraro, responsabile della biblioteca del Convento dei Padri Francescani di Cittadella, che mi ha segnalato e messo a disposizione un lavoro inedito su quel Convento e sui rapporti con quello di S.Croce; - a tutti i paesani che hanno messo a disposizione le loro foto di famiglia; - a Cesare Gerolimetto, valente fotografo, che ha interpretato in maniera sapiente i colori di Santa Croce; - a Franco Lionello, editore cittadellese, che ci ha reso disponibile l’archivio fotografico Biblos; - al Gruppo Tam-Tam di Carmignano che ha realizzato l’inserto “La Storia in quattordici pagine” - a mio figlio Michele, che mi è stato utile collaboratore; - a quanti, in qualsiasi modo, hanno contribuito alla realizzazione di questo lavoro. Esprimo la mia più viva gratitudine, infine, a Sua Eccellenza Mons. Pietro Nonis, già Vescovo di Vicenza, che mi ha fatto l’onore di leggere e presentare questa ricerca.
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