Impackt 1/2003

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Spedizione in a. p. - 45% art. 2 comma 20/b legge 662/96 Filiale di Milano - Taxe perçue (Tassa riscossa) CMP2 Roserio Milano (â‚Ź 11)


Plike Plastic like

Plike

4 colori versione Mono e Bipatinata 4 grammature e buste coordinate Gruppo Cordenons SpA www.gruppocordenons.com

Stampato su Plike White 330 g/m2

“Mr Plike� Design: Daniele Papuli


Beauty case

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Sonia Pedrazzini, Marco Senaldi

creare mascara che si evolvono con le ciglia, fard che sono anche creme anti-age, ombretti che catturano la luce, e infinite altre innovazioni. Il packaging del prodotto di bellezza, a sua volta, rappresenta una specie di make-up del make-up, un valore cosmetico aggiunto al prodotto di cosmesi, ed è per questo tanto più interessante seguirne le evoluzioni e gli snodi. Di nuovo, non sarà certo un caso che gli artisti contemporanei più intuitivi siano passati da una poetica rude dei corpi ad una estetica soffice e seduttiva che ha spesso fatto del packaging del cosmetico la sua fonte di ispirazione: è il caso delle opere di Sylvie Fleury, in cui l’attrazione fatale verso il mondo del maquillage diventa una specie di ossessione irresistibile, e dove anche le carcasse di auto diventano color rossetto. È proprio in questo mondo che il corpo si storicizza e si socializza, e si “mette in faccia” la storia.

Vanity Case, 1998 Sylvie Fleury Courtesy: Art&Public - Ginevra

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"Il corpo, mentre si socializza, si storicizza: si prende in faccia la storia". Queste parole, pronunciate durante un’intervista rilasciata poco prima di morire (nel 2002) dal sociologo francese Pierre Bourdieu, introducono efficacemente al tema di questo terzo numero di IMPACKT. Il cosmetico, il prodotto di bellezza, il maquillage, nelle società contemporanee costituisce uno strumento indispensabile di distinzione sociale, ma proprio per questo motivo non ha, paradossalmente, solo una funzione di “bellezza”. Esso invece assolve al duplice compito, da un lato di autentica “costruzione” (“making-up” appunto) delle identità individuali, dall’altro di diffusione degli atteggiamenti estetici che vanno a determinare il gusto dominante di un’intera epoca. Quello del cosmetico è dunque un universo esteso non solo nelle dimensioni (che vanno dalla coorte di prodotti di bellezza e cura del viso e del corpo, al loro packaging, al discorso pubblicitario che vi orbita intorno), ma anche nel tempo, dato che è una costante antropologica antichissima (i primi trucchi noti risalgono alla civiltà egizia). Ma soprattutto non è un universo statico, anzi, è una vera carta di tornasole che riflette con precisione il mondo in cui si sviluppa e si diffonde. Tutto ciò è evidente già oggi: se ancora pochi decenni fa il maquillage serviva principalmente per perfezionare il volto muliebre, tramite prodotti che nella loro essenza erano cambiati pochissimo dall’antichità, attualmente la tecnologia è arrivata a


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Beauty case

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Sonia Pedrazzini, Marco Senaldi

"While it socialises, the body becomes history: it takes history in the face". These words, expressed by French sociologist Pierre Bourdieu during an interview given shortly before his death (in 2002), neatly encapsulate the theme of this third issue of IMPACKT. In contemporary societies, cosmetics, beauty products, and makeup constitute an essential tool of social distinction, but paradoxically, this is also why cosmetics are not solely used for the purposes of "beauty." Indeed, cosmetics play a dual role. On the one hand, maquillage is a clever sort of construction (in the sense of “makingup� ) of individual identities, while it is also the extension of aesthetic attitudes that eventually determine the dominant preferences of an entire generation. The world of cosmetics is therefore extensive not only in its breadth (its products take in a veritable squadron of beauty supplies and body and face care products, along with all the related packaging

and advertising issues), but also in its age, considering that it is an age-old anthropological constant (the first recorded use of makeup dates back to the Egyptians). But perhaps most important of all, this is not a static universe. On the contrary, it is an effective litmus paper that accurately reflects the world in which it develops and evolves. All this is clear today. Just a few decades ago, makeup was essentially used to perfect the feminine visage with products whose ingredients had remained practically unchanged since antiquity. Today, technology has begun creating new mascaras that evolve to suit the eyelashes, foundations that double as anti-ageing creams, eye shadows that capture light, as well as infinite other innovations. Packaging these new beauty products also represents a sort of makeup for makeup, a cosmetic value added to the cosmetic product. This is why it becomes so much more interesting to track its evolution and its twists and turns. Indeed, it is no surprise that the more insightful contemporary artists have switched from a crude poetic of bodies to a soft and seductive beauty that has often looked to cosmetics packaging for inspiration. For instance, take the work of Sylvie Fleury, whose fatal attraction to the world of makeup has become a sort of irresistible obsession, and where even the chassis of cars can yield a new shade of lipstick. This is the world where the body socialises and makes history, and where it takes history in the face.



GUIDA TURISTICA ATTRAVERSO I PANORAMI REALI E MENTALI DEL PACKAGING TOURIST GUIDE TO THE REAL AND SPIRITUAL LANDSCAPES OF PACKAGING

I N

Q U E S T O

N U M E


istruzioni per l’uso Beauty Case Sonia Pedrazzini, Marco Senaldi

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container Fetichic Massimo Canevacci

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design box A Story

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identi-kit Giovanna Ricotta -Body Beauty Baci Marco Senaldi

book box 111 44

R O - 1 / 0 3

flash Nudo di donna Fair and White 46

show box Tom Friedman Andrea Bellini

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warning! The Kinder Identity Slavoj Zizek

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warning! Rimmel Marco Senaldi

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design box Scatoloni da Trucco Maria Gallo

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shopping bag L’Assenzio Daniela Ranieri

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psychopackaging Non c’è Trucco Non c’è Inganno Antonio Piotti

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… e ancora market release Lush 80 Bakic 108

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tools A Scuola di Packaging: Università degli Studi di Parma

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tools Make up di Scena 104 Elisabetta Larice

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Le nostre copertine Front cover Elaborazione grafica Impackt, da Nuova Enciclopedia della donna, Editoriale Bortolotti, Bergamo.

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shopping bag Razza di Packaging Elena Piccinelli

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identi-kit Valerie Bernard: Lo Yin del Packaging Cosmetico Sonia Pedrazzini

tools Human Packaging Raul Montanari

Back cover Sylvie Fleury Skincrime 2 (Givenchy 601) detail 1997 - Compressed car, enamel Courtesy: the artist and Galerie Hauser & Wirth & Presenhuber, Zurich

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Si ringraziano Michelangelo Spinelli, Lino Baldini

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E S A C

User instructions Beauty Case Sonia Pedrazzini, Marco Senaldi

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Container Fetichic Massimo Canevacci

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identi-kit Valerie Bernard: The Yin of Cosmetic Packaging Sonia Pedrazzini shopping bag What a Package! Elena Piccinelli

tools Human Packaging Raul Montanari design box A Story

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identi-kit Giovanna Ricotta Body Beauty Kisses 102 Marco Senaldi

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tools Make up in the movies 106 Elisabetta Larice book box 111

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tools At the School of Packaging University of Parma psychopackaging No making up no deception Antonio Piotti

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‌ and more market release Lush 80 Bakic 108

52 flash Nudo di donna Fair and White cream

show box Tom Friedman Andrea Bellini

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warning! The Kinder Identity Slavoj Zizek

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warning! Rimmel Marco Senaldi

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design box Boxes of make-up Maria Gallo

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shopping bag The Absinth Daniela Ranieri

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Our covers Front cover Graphic reworking by Impackt, from Nuova Enciclopedia della donna, Editoriale Bortolotti, Bergamo.

Back cover Sylvie Fleury Skincrime 2 (Givenchy 601) detail 1997 - Compressed car, enamel Courtesy: the artist and Galerie Hauser & Wirth & Presenhuber, Zurich Thanks to Michelangelo Spinelli, Lino Baldini


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Segreteria di redazione Segreteria Ufficio tecnico

Progetto grafico

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Periodicità: Abbonamento per un anno:

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Advertising Manager Sonia Pedrazzini, Marco Senaldi (info.impackt@libero.it)

Condirettore Luciana Guidotti

Ricerca immagini e fotografia Erica Ghisalberti

Andrea Bellini, Massimo Canevacci, Maria Gallo, Elisabetta Larice, Raoul Montanari, Antonio Piotti, Daniela Ranieri, Slavoj Zizek

Daniela Binario, Elena Piccinelli, Ado Sattanino Ilaria Molteni Leila Cobianchi Massimo Conti

Erica Ghisalberti, Vincenzo De Rosa

Vincenzo De Rosa (Studio Grafico Page - Novate - MI)

Traduzioni Dominic Ronayne, Katy Moore, Alan Tankard

Lastre e Stampa Àncora S.r.l. - via B. Crespi 30, 20159, Milano

1/2003 - anno 2 Registrazione del Tribunale di Milano n. 14 del 14/01/2002. Iscrizione nel Registro degli Operatori Comunicazione n. 4028

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quadrimestrale Italia Euro 25 - Estero Euro 50

La riproduzione totale o parziale degli articoli e delle illustrazioni pubblicati su questa rivista è permessa previa autorizzazione della Direzione. La Direzione non assume responsabilità per le opinioni espresse dagli autori dei testi redazionali e pubblicitari

Edizioni Dativo Srl Via B. Crespi, 30/2 - 20159 Milano Tel. 02/69007733 - Fax 02/69007664 impackt@dativo.it http://www.dativo.it Bruno Nazzani (sales@dativo.it)

La copertina di Impackt è stampata su carta Plike 330 g Gruppo Cordenons

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Stefano Lavorini

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colophon


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FETICHIC Il narcisismo della merce, ovvero l’imballaggio visuale come metamorfosi del packaging Massimo Canevacci

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Fetish-merce A São Paulo del Brasile, durante una mia ricerca sulla comunicazione urbana nella metà dei ’90, ho fotografato una pubblicità, in cui si afferma un conflitto tra due codici: quello visivo e quello scritto. E proprio dalla loro asimmetria e, si potrebbe dire anche, dal loro urto si sollecita una maggiore attenzione da parte del pubblico. Infatti, il giovane bello e sensuale - è disteso su un letto; ha un’espressione molto languida, quasi femminea, con il capo reclinato e il corpo nudo, eccetto il punto cruciale dove indossa le mutande Mash. Potremmo dire corpo imballato dalle Mash o, detto in un altro modo, Mash esercita il ruolo del packaging… Le gambe sono leggermente divaricate per dare maggiore risalto proprio al sesso che si trova in primo piano, nel centro messo a fuoco dallo sguardo dello spettatore; gli occhi guardano in camera, cioè fissano direttamente e sfacciatamente il pubblico ideale. La foto raggiunge una notevole forza erotica che potrebbe essere quasi eccessiva e comunque orientata su un codice “tradizionale” (quello basato per l’appunto solo sul sex appeal). A questo punto entra in azione il

secondo codice - quello scritto - a gettare acqua nel fuoco eccessivo del messaggio visuale. La scritta parte dalla spalla superiore per lasciare ben esposto il doppio sguardo incrociato di occhi e sesso. E dice: “A boa embalagem valoriza o produto”(Un buon imballaggio valorizza il prodotto). La sua resa ironica è immediata e spiazzante. Il doppio senso, infatti, produce un immancabile sorriso da parte del lettore e l’effetto comico libera l’eccesso di erotismo sfacciato legato all’equazione imballaggio = mutanda; prodotto = sesso. Cioè l’eccesso di carica erotica iniziale (codice visuale) è stemperato attraverso l’ironia dal messaggio finale (codice scritto). Tuttavia questa analisi è ancora parziale. Mi spiego: il corpo del ragazzo e le mutande sembrano appartenere a ordini diversi (uno organico e l’altro inorganico). Eppure così non è, ed è quasi banale doverlo riconoscere. Ovvero, entrambe sono parti di una fotografia e quindi corpo e mutande sono entrambi parte del mondo inorganico. Forse sarebbe meglio dire che entrambi i codici appartengono a una tendenza della



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comunicazione contemporanea, secondo la quale le tradizionali dicotomie fra organico e inorganico sono obsolete, in quanto entrambi i livelli sono assorbiti dalla potenza delle nuove merci visuali. È questo il tema del feticismo che, inseritosi del tutto a suo agio nella comunicazione visuale - e quindi diventando feticismo visuale - si diffonde in modalità irresistibili che sono nello stesso tempo del tutto organiche e del tutto inorganiche. Anzi, tramutatosi in fetish - come vedremo - acquisisce una potenza da indicatore della contemporaneità globale/locale. Ricordo che è proprio del feticismo considerare animate le cose inanimate ovvero, detto in altri termini, non esiste “cosa” che non sia animata. Piena di movimento, di essere, di biografia e persino di biologia. Questa è la cosa feticista: questo il fetish mercevisuale. Di conseguenza nel frame fotografia, corpo e mutande appartengono a un medesimo ordine. Sono entrambi feticci. Feticci ordinati.

Narcisismo Sebbene condivisibile, anche questa, è una prima parzialissima conclusione. La zona oscura si allarga successivamente. Una conclusione plausibile, infatti, ci farebbe concludere che la foto sollecita quella che sarebbe la cultura del narcisismo. Il fatto è che le merci, e in particolare le merci-visuali hanno un corpo, una pelle, una carne. Una storia di vita che “nasce” nella produzione, vive i suoi primi mesi nella vendita, poi cresce, si fa adolescente, cambia sostanza e posizione, fino a diventare adulta, nel pieno delle sue forze semiotiche e della sua capacità di attrazione. Infine inizia il declino, più o meno rapido: può essere venduta e acquisire una nuova giovinezza o una nuova identità, persino nuove funzioni; essere decontestualizzata e diventare opera d’arte o di collezione; essere gettata via e riciclata; essere rubata o svolgere solo valore d’uso; essere smontata e riassemblata in un montaggio infinito. Oppure morire definitivamente e sappiamo bene


abolisco la distinzione corpo-cosa, in quanto da un lato il corpo si cosifica e dall’altro la cosa si fa corporea - il “vero” (cioè etnograficamente vero) carattere narcisista non è emesso dal corpo-foto, bensì dalle mutande-foto. Il carattere narcisista della contemporaneità, caratterizzata dall’espansione sterminata (eXterminata = che non ha termine) delle nuove merci-visuali, appartiene in primo luogo ed essenzialmente alle merci-visuali stesse. Se spostiamo l’ottica - e il packaging gira intorno alla comunicazione visuale per cui entra dentro un’etnografia ottica dell’osservazione, il narcisismo contemporaneo è radicalmente diverso da quello tradizionale. Voglio dire che si espande come un blob inarrestabile e che si è appiccicato da tempo al corpo delle merci. L’effetto rimbalzo sta qui. La pulsione è emessa dalla carne sessuata delle mutandine. Essa seleziona il suo partner potenziale, per poi ritornare visibilmente ad investire di una carica libidica forte la sua intra-soggettività, la sua corporalità. Quella delle mutande. Sono le mutande, quindi, a manifestare la più profonda istanza narcisista. I passanti - come possibili acquirenti o semplicemente come impossibili-non-consumatori di linguaggi visuali - sono lo strumento necessario per ottenere il feed-back che si rovescia sulla cosa esposta e la immerge nel senso oceanico del piacere incontinente dei panorami ottici. La cosa immersa nel piacere oceanico dei panorami ottici… La merce-visuale, grazie all’inarrestabile potere delle nuove forme di feticismo poli-sessuato, trionfa come multiforme, polimorfa, perversa soggettività del

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qual è il cimitero delle merci. Tutto questo processo - in gran parte legato quello che chiamiamo genericamente post-industriale - ha proprio nella produzione-consumocomunicazione di merci-visuali il suo momento di differenza da quello propriamente industriale (o moderno). Ma c’è qualcosa di più “perturbante” - qualcosa che ci appare così straniero e che a poco a poco e in modi sconcertanti ci si avvicina sempre di più fino a diventare qualcosa di troppo familiare. E questo eccesso di familiarità diventa insopportabile e a volte quasi inesprimibile. Ecco il narcisimo. Con tale termine si individua un tipo di personalità che non riesce a investire (“bagnare”) con la sua pulsione l’altro. La carica oggettuale - non trovando soddisfacenti dislocazioni nella persona amata o sedotta - rimbalza sull’altro e ritorna sul soggetto stesso. La sua difficoltà di relazione attesta che l’investimento è per sé, riconduce al suo sé oggettualizzato. E allora vorrei tornare alla mia foto iniziale. In prima istanza la figura narcisista sembrerebbe appartenere al giovane, alla pienezza sensuale del suo corpo esposto, quasi dimenticando (potenza della fotografia) che per l’appunto la sua è un cartellone-immagine. Nel gioco degli sguardi - quello suo e quello di ogni passante - si attuerebbe un investimento libidico che ha proprio il panorama corporale (bodyscape) come focus. Ma non è così. Almeno, non è solo così… Se risalgo alla “natura” organicoinorganica delle merci visuali contemporanee - di conseguenza se

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narcisimo comunicazionale. È lei che si bagna costantemente di un potere ottico sessuato che le ritorna addosso come illimitato piacere. Sex appeal del mouse La teoria antropologica del narcisismo visuale focalizza e concerne le merci-feticcio espresse nella loro (in)organicità dello sguardo. Questo è anche il regno del fetish. E d'altronde cos’è il packaging se non la pelle della “cosa”, la pelle di una cosa-soggetto, cosa-individua che si offre al potere seduttivo degli sguardi elargendo al massimo grado il suo sex appeal inorganico? Ovvero, la pelle della cosa si tratta come qualsiasi altra pelle. Si seduce, si trucca, si imbelletta, si veste, indossa vestimenti e orpelli, utilizza l’arte del grafismo corporeo per attirare la sua e altrui eccitabilità. Il packaging è la nuova pelle della cosa, è la sua pelle-visuale (visualskin) che indossa i più imprevedibili codici per catturare sguardi. In doppio-triplo-multiplo senso, il packaging è una rete di sguardi: si getta sugli occhi per afferrarli e imbrigliare i possibili o impossibili clienti passanti; si intesse tra fili di occhiate-occhiaie che filano un tessuto impalpabile quanto concretissimo di panorami ottici; si appiccica per catturare ogni insetto che vola senza che l’abbia messa a fuoco; rimbalza sugli occhiali a specchio dello spettatore/trice, apparentemente difesa e indifferente, per accendersi sul suo stesso corpo, corpo di cosa ardente e seduttivo che emana lo spettro multicolor e fetish del narcisismo-delle-merci Osserviamo con attenzione il sito Dior. Il titolo è Fetichic. Un intreccio ibrido di feticismo e chic: ormai per le

cose-Dior e per i suoi potenziali clienti non è più sufficiente il semplice fetish. Esso si deve intrecciare con qualcosa di più raffinato e per questo seduttivo. Il radical-chic anni ’70 sta ai caratteri sociali emergenti come il feti-chic sta alle ottiche comunicazionali emerse nei primi anni 2000. La scritta dice: move the cursor over the picture to see a description of our product [muovere il cursore sull’immagine per vedere la descrizione del nostro prodotto] E cosa è il cursore se non il nesso inestricabile di mouse-dita-occhimente-corpo che agisce simultaneamente tra i pixel della schermata e quelli della retina? E così il cursore ha il potere di animare le cose, di sciogliere i linguaggi rappresi, di muovere i sensi e i significati. FETICHIC BAG In ribbed suede calfskin, beige [in cuoio scamosciato e rigato, beige] Allora appare chiaro allo sguardo di chiunque che il packaging attuale non è più solamente (direi semplicemente) il tradizionale rivestimento della cosa. Tutte le cose appena nominate hanno una necessità - una spinta interiore - a modificarsi. A muoversi. Il sito (ancora un altro web) di Dior è una pelle-di-pixel che ricopre secondo strategie luccicanti e mobili e interattive l’esposizionedenudamento delle cose, delle sue cose più pregiate e chic. Il rivestimento del prodotto - della merce-visuale - non è più solo quella che osserviamo nelle nostre escursioni attraverso lo shopping tradizionale. Il sito è una ulteriore mutazione del packaging. È un packaging di pixel. Un pixelling. La pelle-di-pixel riveste e illumina di


sguardi il denudamento delle mercivisuali. Si osservi la Dior Funky Folklore: anche il funky può essere riabilitato dalla sua matrice folcloristica e diventare un io altro. “Un’altra io”. Oppure il Chi è Madina, articolazione individuale multicromatica di Madina come una pluralità di soggetti racchiusi da un imballaggio pixellato, che sussurra: restiamo in contatto - truccati con noi… L’essere in contatto è dato dal visore, come i trucchi. Infine la figura che espone obbliquamente un corpetto ultra-fetish e ultra-chic : reggiseno come armature, sovraesposto su un corpetto pieno di legacci, per seni pronti a caricare, a sfondare ogni possibile resistenza ottica di chi osserva, seni-armati e appagati di se stessi, indifferenti a chiunque li possa comprare, seni conchiusi in un corpo femminile senza volto, indifferente alla soggettività tradizionale perché ora l’unico individuo presente è quello esposto: un seno impossibile. Non coperto, un seno ricoperto di qualcosa che lo rende sadianamente offensivo e irragiungibile. Autoappagato della sua espansione materica. Seno-narciso.

Massimo Canevacci, antropologo, ha pubblicato fra l’altro Antropologia della comunicazione visuale, (2001) e P.J. (2002), entrambi da Meltemi editore; dirige la rivista Avatar.

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L’astuccio dell’anima Un’ultima considerazione. Già Walter Benjamin aveva osservato come verso la metà dell’800 a Parigi si era diffusa una nuova moda: “È quasi impossibile trovare ancora qualcosa per cui il XIX secolo non abbia inventato una custodia: orologi da tasca, pantofole, uova, termometri, carte da gioco. E in mancanza di custodie, fodere, tappeti, rivestimenti e coperture”. Per cui la stessa forma dell’abitare è un

“guscio”, la “casa come custodia dell’uomo” collocato lì dentro “così profondamente da far pensare all’interno di un astuccio per compassi in cui lo strumento è incastonato di solito in profonde scanalature di velluto viola con tutti i suoi accessori”. Da qui la sua osservazione che le cose hanno una loro fisiognomica, come animali o esseri umani, e chi colleziona cose - o se ne impossessa a qualsiasi titolo esercita questa arte. O mania, nel suo significato sacro. La fisiognomica come contorno dell’essere. Il packaging eredita la custodia del XIX secolo, esponendo al di fuori il senso di ciò che prima era solo racchiuso. Da qui il suo valore aggiunto e il suo intreccio tra organico e inorganico. Il pixelling favorisce il transito ulteriore oltre la dicotomia materiale-immateriale. Le sfere tattili e ottiche scorrono attraverso un web-packaging che ha nella composizione di pixel la sua unità di memoria e di immagine. Non solo. All’inizio del suo “capitolo” sul collezionista, Benjamin mette questa citazione di un autore (a me) sconosciuto che ha la capacità di cogliere il senso teologicamente materialistico del suo tempo. “Je crois … à mon âme: la Chose” [“Io credo… alla mia anima: la Cosa”] (Léon Deubel, Œuvre, Paris, 1929, p. 195). La stessa frase è sussurrata da Mash e da Dior … sussurro udibile appena si svela il packaging.

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FETICHIC The narcissism of merchandise, or wrapping as the metamorphosis of packaging

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Massimo Canevacci

Fetish-merchandise I photographed an advertisement in São Paulo, Brazil, during my research into urban communication in the mid-1990s; it demonstrates the conflict between two codes: the visual and the written. It is by their very asymmetry and, one could also say, their clash that they attract greater attention from the public. The young man, beautiful and sensual, is stretched out on a bed; he has a languid, almost feminine expression, his head inclined and his body naked, except at the critical spot where he is wearing Mash pants. We could say that his body is wrapped in Mash or, to put it another way, Mash is performing the role of packaging… The legs are slightly apart, to give greater impact to the sex which is right in the foreground, centrally focussed by the gaze of the spectator; the eyes are looking into the camera, staring directly and insolently at the ideal public. The photograph achieves considerable erotic strength which could be considered almost excessive and therefore oriented towards a “traditional” code (that which is based solely on sex appeal). At this point the second code - the written comes into play to pour cold water onto the immoderate fire of the visual message. The written element starts from the upper section, the better to leave exposed the double impact of

eyes and sex. It reads: A boa embalagem valoriza o produto [Good packaging enhances the product] Its ironic message is immediate and unsettling. The double meaning produces an involuntary smile on the part of the reader and the comic effect tempers the effect of excessive insolent eroticism linked to the packaging equation packaging = pants; product = sex. Thus the excess of the initial erotic charge (visual code) is neutralised by the irony of the final message (written code). Yet this is only a partial analysis. Let me explain: the boy’s body and the pants seem to belong to different orders (one organic and the other inorganic). Yet this is not so, and it is almost trite to have to recognise it. Or rather, both are parts of one photograph and thus body and pants both belong to the inorganic world. Perhaps it would be better to say that both codes are part of a trend of contemporary communication, according to which the traditional dichotomies between organic and inorganic are obsolete, in that both levels are absorbed by the power of new visual merchandise. This is the theme of fetishism which, inserting itself easily into visual communication - and therefore becoming visual fetishism - as we shall see acquires a power as an indicator of global/local contemporaneousness. Remember that it is fetishism to think of inanimate objects as animate or, to put it another way, there are no ‘things’ which are not animate. Full of movement, of being, of biography and even of biology. This is fetishism: this is the visual merchandise fetish. Consequently, within the frame of the photograph, body and pants belong to the same order. They are both fetishes. Well-ordered fetishes.


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seduced - recoils from the other and returns to the subject him/herself. This difficulty in relationship shows that the investment is in the subject himself, bringing it back to his objectualised self. And now I would like to go back to my initial photo. In the first instance the narcissistic figure would seem to be connected to the youth, to the sensual fullness of the exposed body, almost forgetting (the power of the photograph) that his is really a posterimage. In the play of the gaze - both his and that of the passer-by - a libidinous investment is realised which has its own bodyscape as focus. But it is not like this. At least, it is not only like this… If I go back to the organic-inorganic ‘nature’ of contemporary visual merchandise - consequently if I get rid of the body-object distinction, in that on the one hand the body becomes an object and on the other the object becomes a body - the “true” (that is, ethnographically true) narcissistic character is not transmitted by the body-photograph, but rather by the pants-photo. The narcissistic character of contemoraneousness, characterised by exterminate expansion (eXterminate = having no end) of the new visual merchandise, belonging in the first place and essentially to the visual merchandise itself. If we change the focus - and packaging comes into the realm of visual communication when we enter an ethnographic focus - of observation, contemporary narcissism is radically different from the traditional form. I want to say that it expands like an unstoppable blob which for a long time has been stuck to the body of the merchandise. The rebound effect is here. The drive is emitted by the sexed flesh of the pants. It selects its potential partner, to then turn back visibly to invest its intrasubjectivity, its corporality, with a strong libidinous

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Narcissism Although it can be shared, this too is a very biased first conclusion. The obscure area subsequently widens. A plausible conclusion, in fact, would lead us to conclude that the photo attracts what would be the culture of narcissism. The fact is that merchandise, and especially visual merchandise, has a body, skin, flesh. A story of life which is ‘born’ in production, lives its first few months on sale then grows, becomes an adolescent, changes substance and position, until it becomes adult, in the fullness of its semiotic strength and its ability to attract. Finally, the decline begins, more or less quickly: to be sold and acquire new youthfulness or a new identity, even new functions; to be decontextualised and become a work of art or a collectable object; to be thrown away and recycled; to be stolen or carry out only the function of use value; to be dismantled and reconstituted into an infinite assembly. Or to die definitively, and we know very well what the cemetery of merchandise is. In this production-consumption-communication cycle of visual merchandise, this whole process largely linked to what is generically known as postindustrial - demonstrates its difference from the industrial (or modern) process. But there is something more “disturbing” something which seems foreign to us and which little by little, and disconcertingly, is coming ever closer until it becomes something too familiar. And this excess of familiarity becomes intolerable and sometimes unexplainable. This is narcissism. This word identifies a type of personality which is unable to invest (“bathe”) another with its drive. The objectual load - finding no satisfactory placement in the person loved or

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charge. That of the pants. It is the pants, therefore, which manifest the strongest narcissistic plea. Passers-by - as possible purchasers or simply as impossible-non-consumers of visual languages are the instruments necessary to obtain the feedback which capsizes on the exposed object and immerses it in the oceanic sense of incontinent pleasure of optical panoramas. The object immersed in the oceanic pleasure of optical panoramas… The visual merchandise, thanks to the unstoppable power of the new forms of poly-sexed fetishism, triumphs as the multiform, polymorph, perverse subjectivity of communicational narcissism. It is this which is constantly bathed by a sexed optical power which is reflected as limitless pleasure. Sex appeal of the mouse The anthropological theory of visual narcissism focuses on and is concerned with fetishmerchandise expressed in the (in)organicity of the glance . This is also the realm of the fetish. And on the other hand, what is packaging if not the skin of the ‘thing’, the skin of an objectperson, an object-individual which offers itself to the seductive power of the glance, broadening its inorganic sex-appeal to the greatest possible extent? Or, the skin of the object is treated as any other kind of skin. One seduces, makes up, embellishes, dresses, wears clothes and tinsel, uses the art of body design to attract ones own and other people’s excitability. Packaging is the new skin of an object, it is its visual skin which wears the most unexpected codes to capture the attention. In a double-triple-multiple way, packaging is a network of looks: it hits the eyes to

grab them and halt the possible or impossible passing customers; it weaves itself among the threads of glances-eye sockets which weave an impalpable fabric replete with optical panoramas; it sticks to capture every insect which flies without subjecting it to the flame; it reflects from the mirrored sunglasses of the spectator, appearing protected or indifferent , to be ignited on its own body, the body of a burning and seductive thing which gives off the multi-colored spectrum and fetish of the narcissism-ofmerchandise. Let us look closely at the Dior site. The title is Fetichic. A hybrid blend of fetishism and chic: already for Dior-objects and their potential customers the simple fetish is no longer enough. It must be interwoven with something more sophisticated and, because of this, seductive. The radical-chic of the 1970s was to the emergent social characters what the feti-chic is to the communicational view which has emerged in the early years of the 21st century. The script says: move the cursor over the picture to see a description of our product. And what is the cursor if not the inextricable mouse-finger-eye-mind-body link which acts simultaneously between the pixels on the screen and those of the retina? Thus the cursor has the power to animate things, to unravel the tangled languages, to move the senses and meanings. FETICHIC BAG Is ribbed suede calfskin, beige So it seems clear to anyone’s eyes that present-day packaging is not only (or simply) the traditional covering of an object. All the objects just mentioned have a need - an internal impetus - to change themselves. To move. The Dior site (yet another network) is a skin-of-pixels which covers,


container

according to twinkling, moving, interactive strategies, the exposure-denuding of things, its most precious and chic things. The covering of the product - the visual merchandise - is not only what we see in our trips through traditional shopping. The website is a further change to packaging. It is pixel-packaging. Pixelling. The skin-of-pixels clothes and brings to light the unclothing of visual merchandise. We see it in Dior Funky Folklore: even the funky can be rehabilitated from its matrix of folklore and become an alter ego. “An alter ego”. Or Chi è Madina (Who is Madina), Madina’s multicolored individual articulation as a plurality of subjects enclosed within pixelled packaging, which whispers: let’s keep in contact - made up with us… The being in contact is given by the face, like make-up. Finally, the figure which shows an ultra-fetish, ultra-chic bodice: a brassiere as armour, shown over a bodice covered in lace, for ready-to-load busts, to break down any optical resistance in the observer, armoured busts satisfied with themselves, indifferent to anyone who could buy them, busts enclosed in a faceless female body, indifferent to traditional subjectivity because now the only individual present is the one exposed: an impossible breast. Not covered, a bust dressed in something which makes it offensive and unachievable. Selfsatisfied with its materialistic expansion. Breastnarcissism.

Massimo Canevacci, anthropoligist, has published, among other things, Antropologia della comunicazione visuale, (2001) and P.J. (2002), both published by Meltemi; he is the director of Avatar magazine.

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The packet of the soul A last consideration. Walter Benjamin observed how around the mid-1800s a new fashion was spreading through Paris: “It is almost impossible nowadays to find something for which the 19th

century has not invented a holder: pocket watches, slippers, eggs, thermometers, playing cards. And if not a holder, then covers, cloths, coverings, lids”. For those for whom a place to live is a “shell”, the “house as a holder for man” is linked within himself “so profoundly that it makes one think of the inside of a box for compasses in which the instrument is usually encased in a deep lining of purple velvet with all its accessories”. His observation is that objects have their own physiognomy, like animals or human beings, and those who collect objects - or bestow a name on them - are exploiting this artifice. Or mania, in its sacred meaning. Physiognomy as an outline of the being. Packaging is the heir of the 19th century holder, exposing to the world the sense of what used to be only enclosed. It gives it added value and its interweaving between organic and inorganic. Pixelling encourages a further transition beyond the material-immaterial dichotomy. The tactile and optical spheres run through webpackaging which has within its pixel composition its unit of memory and image. And not only that. At the beginning of his “chapter” on collecting, Benjamin included this quotation from an unknown (to me) writer which manages to convey the theologically materialistic feeling of the times. “Je crois … à mon âme : la Chose” [“I believe… in my soul. The Thing”] (Léon Deubel, Œuvre, Paris, 1929, p. 195 ). The same phrase is whispered by Mash and Dior … an audible whisper the packaging barely shows.

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Valerie Bernard: Lo Yin del Packaging Cosmetico. La forza

Sonia Pedrazzini


creativa di una designer francese dal gusto nipponico

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È strano, ma in un settore come quello del cosmetico, prevalentemente dedicato alle donne, sono soprattutto designer maschi a progettare le forme dei contenitori dei prodotti - un paradosso abbastanza inspiegabile. Senza voler essere sessisti, è invece molto probabile che un designer donna abbia maggiore sensibilità estetica e maggior competenza funzionale, dato che, alla fine, è soprattutto lei la diretta utilizzatrice di questi prodotti. Tra le poche progettiste di packaging cosmetico, Valérie Bernard si distingue per l’invenzione di design insieme raffinati ed essenziali. Il suo studio di progettazione, lo StudioKA, quasi tutto al femminile, è il luogo in cui si concretizzano i sogni "estetici" di molte donne e di non pochi uomini. Parigina di nascita, Valérie ha cominciato molto presto la sua attività professionale, indirizzandosi verso la grafica e il packaging design. Dopo alcuni anni e la realizzazione di progetti per aziende cosmetiche tra cui Hanorah, Hérmes, Sonia Rykel, si è recata in Giappone per allargare i suoi orizzonti culturali e professionali, e ha lavorato per Kobayashi Kose, per cui ha realizzato logo, shopping bag e imballaggi per cosmetici. Al ritorno ha aperto il suo studio, mettendo a frutto l'esperienza e la specializzazione acquisita. Oggi vanta tra i suoi clienti Annayake, Guerlain, Lancaster, Yves Rocher, Shiseido.

In che modo gli interessi della tua famiglia (madre e fratello artisti, papà architetto) ti hanno orientato professionalmente? Penso che l'estro artistico appartenga alla mia famiglia, anche se ognuno di noi possiede una personalità diversa. Io avevo molta inclinazione per i lavori manuali, la pittura, il cucito, la musica; mi interessava anche lo studio e la ricerca delle piante, oppure mi vedevo artigiano d’arte. Dopo aver superato vari concorsi sono stata ammessa alla Scuola di Arti Applicate. Ed eccomi dunque sulle tracce dei miei genitori... ma a quel tempo i miei interessi non erano ancora precisi e fino alla fine della scuola non avevo un'idea chiara di cosa avrei potuto fare con la mia formazione un po’ generica d’arte grafica. Come mai ad un certo punto ti sei dedicata proprio al packaging per cosmetici? Dopo il diploma sono stata accettata come praticante presso lo studio Alain Demourgues e là ci fu la rivelazione. Il mestiere di designer di flaconi di profumo era la sintesi di tutte le mie passioni: l’arte, il piacere per le belle cose, il design, la tecnica, il bozzetto, la tipografia, la carta. Un ambito, all’epoca, senza limiti e senza restrizioni: nella creazione dei profumi tutto era permesso. In seguito mi sono appassionata al mestiere, e ho lavorato a Parigi per quattro anni presso Desgrippes e associati.



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Lì ho appreso la mia professione in modo totale. Questo è un lavoro estremamente completo, attraente e sempre diverso; essere presente nella vita di tutte le donne, far parte dei loro segreti di bellezza, partecipare ad abbellire il loro ambiente, mi dà molte soddisfazioni. Dopo vent’ anni di lavoro non sono ancora stanca. Più tardi sono partita per il Giappone, per ritrovare la mia personalità, dare un senso a ciò che volevo fare, guadagnare in conoscenza. Ho lavorato per un anno e mezzo come dipendente presso Kose Corporation e al ritorno ho organizzato una mia società nel settore cosmetico. Raccontaci di uno dei tuoi progetti più significativi. Vorrei parlarti contemporaneamente di tutti i progetti, poiché su ciascuno di essi abbiamo passato molte ore mettendoci molta passione, ma qualcuno spicca maggiormente: Bourjois, per esempio, per cui ho disegnato i flaconi da gel-doccia con la piccola sfera dorata e i piccoli mono fard a forma di guance o palpebre. Questo è stato uno dei miei più grandi successi sul mercato. Un soggetto “alla parigina”; 100% di puro piacere! Poi i progetti Yves Rocher; una lunga storia e una grande armonia con questa società che è stata tra i miei primi clienti. Abbiamo disegnato quasi tutta la gamma di prodotti per il viso! Tra gli altri Sérum végétal un progetto di design completo: forma, packaging, tipografia, colore, per il quale ci siamo battuti per fare accettare il color rosso come codice per indicare le pelli “mature”. Oggi il rosso è diventato un colore estremamente utilizzato nei prodotti anti-età e di seduzione.

Per Pacific in Corea abbiamo creato la marca di profumo Espoir che supporta ora quattro gamme diverse. Questo progetto e stato una bella avventura dal punto di vista culturale e relazionale. Il concetto: semplicemente la gioia di vivere, il sorriso… Che dire di più... che con questo progetto abbiamo ottenuto il gran premio di design in Corea! Per te cosa conta di più in un progetto di packaging cosmetico, la forma esteriore del contenitore, la sua funzione, la grafica, la sua relazione col consumatore…? Questo dipende da cosa vuole il cliente. La funzionalità e una valida coerenza concettuale del flacone e della grafica, faranno di un design un prodotto vincente portando il cliente a identificarsi con il progetto. Il design e il colore saranno colti dal cliente in prima istanza, dunque dovranno avere un forte impatto visivo, egli ne dovrà essere completamente attratto. La grafica deve essere efficace, chiara, istruttiva e integrare tutti gli aspetti legali e normativi. L'acquisto del prodotto, poi, si protrarrà a lungo nel tempo se il suo impiego, la sua funzionalità, la sua ergonomia verranno apprezzati nell'uso quotidiano. In conclusione ogni elemento ha la sua specificità e deve essere efficace nel suo settore. In generale, il design che creiamo nel nostro studio è estremamente femminile. La nostra idea è di un design “anti-informatico”: modelliamo le forme in modo da portare piacere, ergonomia, in modo che le donne si ritrovino nell’oggetto. Il piacere dei sensi, il tatto e il colore sono fattori estremamente importanti in questo settore della bellezza. Il risultato che la cliente attende, deve trovarsi già nel packaging.



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Come ha influenzato il tuo lavoro il tuo lungo soggiorno giapponese? Il soggiorno in Giappone mi ha permesso di trovare la mia identità e di specializzarmi professionalmente nel design dei prodotti di cura per il corpo; i giapponesi sono dei precursori in questo campo; da una decina di anni ormai tutti i paesi del mondo seguono gli avanzamenti tecnologici e d'avanguardia del Giappone. Questo sapere mi è servito per ritagliarmi un posto a Parigi rivendicando certe acquisizioni in materia di cosmetica giapponese. La conoscenza di questo mercato, la passione per il paese, la sua filosofia, mi permettono un approccio diverso e danno un tocco speciale ai miei progetti.

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Quali sono secondo te le tendenze future nel cosmetic packaging? E’ una domanda difficile: con la “crisi” le consumatrici hanno voglia di essere rassicurate; è di ritorno una certa tendenza al cocooning mentre tutti proclamano l'affermazione del nomadismo, per esempio, nel packaging, con i prodotti monodose di Prada. Oggi c'è una forte domanda di progetti concreti: nell'ambito del prodotto curativo, a paragone del settore del profumo, le tendenze risaltano meno facilmente e i prodotti devono prima di tutto essere efficaci. Penso che il design tornerà a considerare il lavoro sulle forme: da un lato forme più organiche, dall’altro il ritorno del quadrato. Penso anche che certi marchi riprenderanno quei settori un po’ abbandonati del mercato più selettivo con dei veri prodotti di lusso.

Quando lavori a un packaging, qual è la tua metodologia di progetto? Spesso riceviamo un brief marketing che serve a definire il progetto sul piano del prodotto, del consumatore, del concetto, etc. Con queste indicazioni creiamo dei “concept boards" , delle immagini, che aiutano a inquadrare il soggetto, i suoi codici estetici, formali, cromatici, attorno cui si disegnano i prodotti. Dopo la scelta del cliente, diamo volume ai disegni scelti realizzando dei modelli in poliuretano oppure dei disegni 3D. In seguito elaboriamo i progetti scelti per realizzare i modelli sui quali saranno applicati i colori. Rapporti tra azienda e creativo…spesso conflittuali, talvolta esilaranti…Qual è la tua diretta esperienza? Il brief e il progetto costituiscono la differenza tra una grande società e una piccola struttura. Ma entrambi sono esigenti. Si lavora e si parla con due o al massimo tre persone e dunque il tipo di comunicazione è lo stesso. La comunicazione e il rapporto con il cliente è molto importante. Non bisogna avere paura, comunque, di accettare un cliente importante. Ogni lavoro merita un’attenzione speciale, dato che il cliente ha già espresso la volontà di rivolgersi a un designer. Di conseguenza, per me ogni nuovo cliente è sempre una sfida interessante ed eccitante. Quali consigli daresti a un giovane packaging designer? Siate voi stessi come creativi e tenete i piedi per terra per portare a buon fine il vostro progetto! Sonia Pedrazzini è designer e si occupa di cultura del packaging.



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Valerie Bernard: The Yin of Cosmetic Packaging The creative power of a French designer with Japanese flair.

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Strange but true, but in an industry such as cosmetics - highly centred on women - the predominant force in designing product containers and packaging seem to be men - a fairly inexplicable paradox. With seeming sexist, it would seem to be more logical that female designers would have greater aesthetic sensitivity and more practical knowledge, considering that, in the end, she is the one who will be using the products. Among the few female designers in the cosmetics packaging sector, Valérie Bernard is notable for her unique ability to come up with elegant and essential designs. StudioKA, her design studio, is almost entirely made up of women and is the place where the aesthetic desires of many women, and not a few men, are realised. A native of Paris, Valérie embarked on her professional career at a young age, specialising in graphic arts and packaging design. After a few years accruing valuable experience designing for cosmetics companies such as Hanorah, Hérmes, and Sonia Rykel, the designer took off for Japan to expand her cultural and professional horizons. There, Valérie worked for Kobayashi Kose, for whose company she created the trademark, shopping bag and cosmetics packaging. After returning to France and on the strength of the experience and specialisation gained, Valérie opened her own studio. Today, she can count Annayake,

Guerlain, Lancaster, Yves Rocher, and Shiseido as her clients. How did your family's interests (mother and brother both artists, father an architect) influence your own professional choices? I think that there is a definite artistic streak in my family, even though each of us has a very different personality. I was quite interested in manual creativity, painting, needlework, music; I was also interested in botany and the study of plants. I fancied myself more as a craftsman of art. After winning a string of competitions, I was admitted to the School of Applied Arts. And here I am today, following in the footsteps of my parents … but at that time, my interests were still not so clear-cut and when I gained my diploma, I still wasn't sure what I could have done with my fairly generic training in graphic arts. What made you decide to break into the work of cosmetics packaging? After earning my diploma, I was accepted as an apprentice at the Alain Demourgues studio and this is when I had my epiphany. The profession of fragrance bottle designer synthesizes all my greatest passions: art, a love for aesthetics, design, technology, sketching, printing, the paper. At that time, the industry was unlimited and wholly boundless: in the creation of perfumes, anything and everything goes! Afterwards, I became more deeply involved in the profession and I worked at the Paris studio, Desgrippes and Associates, for four years. This experience gave me the chance to learn all aspects of the profession. It is a multifaceted profession, fascinating and always different. There is infinite satisfaction to be had in becoming a fixture in every woman's life, playing an important role in her beauty secrets, and helping to make her world more beautiful. After twenty years in the


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business, I have still not tired of it. After Desgrippes, I left for Japan. I needed to find myself, give meaning to what I was doing, and gain knowledge. I worked for a year and half as an employee at Kose Corporation and when I returned, I founded my own company in the cosmetics sector. Describe for us one of your most important designs. Well, I'd like to talk about all of my designs since so many years and so much hard work goes into each one of them. However, a few stand out among the rest: for example, I designed the shower gel bottles with the tiny gold ball and the little individual blush compacts in the shape of cheeks or eyelids for Bourjois. This was one of my biggest market successes. A Parisian subject; one hundred percent delight! Then, there are the Yves Rocher designs. I have a long history and unique compatibility with this company, which also happens to be one of my first clients. We designed almost the entire range of facial products together. Take the design for SÊrum vegetal for example: I handled the shape, packaging, printing, and color. Here, we worked hard to have red accepted as a symbol for more "mature" skin types. Today, red has become a popular color in age-defying products and in seduction. For Pacific in Korea, we created the Espoir perfume name that today includes four different product lines. This design was a wonderful adventure from a cultural and social perspective. The concept was pure joie de vivre, a smile ‌ What's more, this project earned us the grand prize for design in Korea!

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How has your work been influenced by your long stay in Japan? Japan helped me find my identity and my professional specialisation in the design of body care products. The Japanese are absolute pioneers in this field. For the past decade or so, the world has been following on the heels of the technological and innovative advancements made in Japan. This specific experience and expertise served me well; I was able to carve myself a niche in Paris, by using the knowledge I gained in the Japanese cosmetics industry. The understanding of this market and my love for the country and its philosophy have given me a very unique approach and lend a special touch to my designs.

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What do you believe counts most in a cosmetics packaging design, the outward appearance of the package, its purpose, the graphics, or its interaction with the consumer ‌? This depends on what the customer wants. The

convenience and the convincing conceptual uniformity of the bottle and the graphics can transform a mere design into a winning product by persuading the customer to identify with the design. The customer immediately notices the design and the color; therefore, these should have a strong visual impact. The customer must be attracted by it at first glance. The graphics have to be effective, clear, and informative while also including all the legal and regulatory requirements. Then, the customer will continue to purchase the product if its use, functionality, and comfort are valued in daily life. In short, every element has a specific role to play and must be effective in its own sector. Overall, the designs we create in our studio is particularly feminine. Our idea is to create a "ad-hoc" design. We create shapes to bring pleasure and comfort; women can identify with our designs. The sensory pleasure, the feel in the hand and the color are extremely important factors in the beauty industry. The result that the customer expects has to be found in the packaging first.


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What future trends do you see influencing the cosmetics packaging? Oh, this is a tough question. One result of the economic "crisis" is that consumers want to be reassured; I see the need for cocooning rising while many companies are encouraging "nomadism" in packaging: take Prada's single-use products for example. Today we are seeing a great demand for "genuine" designs. Unlike the fragrance sector, trends are harder to identify in the body and face care product sector. Products must be above all effective. I think that design will come full circle to put more emphasis on the shapes: we'll be seeing more organic shapes and at the same time, the return of the square. I also think that certain brands will become interested in the previously abandoned, upscale market with truly luxurious products.

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What design methodology do you use when you work on packaging for a product? We often receive a marketing brief that helps define the design in terms of the product, its target consumer, and the concept. We use this background to create "concept boards", images, that help profile the subject and crack the aesthetic, formal, and chromatic codes, which form the basis of the product design. After the client makes his or her choice, we elaborate on the designs selected, creating polyurethane mock-ups

or 3D models. After this, we develop the final design in order to realise models where the colors will be applied. Describe the relationship between the company and the designer‌ conflicting, exhilarating? What is your personal experience? The brief and the design constitute the difference between a large company and a small organization. However, both make demands. I work alongside and speak with two, maybe three people in the company, and therefore, the type of communication is essentially the same. Communications and customer relations are very important. There is no reason to be afraid to accept a major customer. Each job deserves special attention seeing that the customer has already expressed the desire to hire a designer. As a result, I believe that every new customer represents an exciting and motivating challenge. What advice would you give to a young packaging designer? Be true innovators and keep your feet planted firmly on the ground to bring your design to a successful conclusion!

Sonia Pedrazzini is a designer involved with the culture of packaging.


Il nostro non è un

semplice lavoro di macchine, piuttosto si sostanzia nell’abilità di interpretare le esigenze degli utilizzatori. Su questo fondamento si è costruita la Cartografica Pusterla che con il passare degli anni è cresciuta fino all’acquisizione della francese Coffrets Creation.

S O L O A S T U C C I E S C AT O L E R I V E S T I T E Rafforza così la propria posizione nel comparto delle confezioni di lusso: cristalli e porcellane, vini e liquori, profumi e cosmetici. Tutto questo significa rapidità di risposta, creatività, flessibilità, adattabilità della produzione, per un’offerta di qualità che spazia dagli astucci di cartoncino

Via A. Pusterla, 4 21040 Venegono Inferiore Varese - Italia tel. +39.0331.856500 fax +39.0331.865335 info@cartograficapusterla.com

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e polipropilene, alle scatole e ai cofanetti rivestiti.

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Razza di Packaging Poche sorprese eclatanti, grande ricchezza di materiali e ausili, cura estrema del dettaglio e maestria nella realizzazione tecnica. Sono i caratteri del packaging che “veste” le ultime nomination al premio Accademia del Profumo, rendendolo elegante e sofisticato. Ma, guardando più da vicino… Elena Piccinelli


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Roberto Cavalli Distributore: ITF SpA Produttore: ICR SpA Essenza: Dragoco Packaging design: Exergue

Dopo la nuova età del lusso (lo ricordate? L’hanno celebrata qualche anno fa su tutte le riviste i sociologhi dei consumi) e dell’esagerazione (ma poi sono arrivate le esperte di bon ton a spiegarci come distinguere i veri chic dai volgari nuovi ricchi), ecco aprirsi l’era dell’eleganza (per non ingenerare equivoci precisiamo che oggi per “era” si intende al massimo un anno solare). Stavolta non lo abbiamo letto da nessuna parte, ma viene da pensarlo guardando i 15 prodotti femminili e i 13 maschili in concorso al premio Accademia del Profumo del 2003 (si tratta, dunque, di fragranze lanciate nel 2002). Tramontate le suggestioni New Age, metabolizzata la nascita dei profumi per Lui (e poi di quelli Unisex e poi, nuovamente, individuati per genere: per Lei e per Lui, niente pasticci!), appaiono ormai déjà-vu anche i primi e coraggiosi esperimenti sul packaging, fatti di materiali alternativi (plastica e metallo in primis) e cromatismi inediti (dalla trasparenza ai metallizzati)… E ora? Le confezioni dei profumi in concorso sono allineate, l’una accanto all’altra, sullo scaffale e, più che stupire, colpiscono per la loro perfezione. Fatta di cristalli e cellulosa vergine, di

L’Or de Torrente Distributore: Selective Beauty Produttore: Parfumers Workshop Essenza. Takasago Packaging design: Hervè Van der Straeten

dettagli curati con pignoleria, eccellenza nella riproduzione dei colori e generosa elargizione di complementi e finiture “alto di gamma”, suggerisce eleganza estrema: quella – per intenderci – che ci si aspetta dalle griffe, dai veri ricchi, dalle vetrine sfarzose delle capitali della moda. Ricchezza senza contenuto? Forse, ammesso che la ricchezza sia altro da se stessa, più che epifania del successo. Piuttosto, allora, “contenuto della ricchezza”, che si esprime, appunto, nel pregio della materia prima, della tecnica di confezione, della cura “artigianale” del particolare, ovvero di ciò che distingue un oggetto esclusivo. Con, più che mai, quel mirabile senso dell’armonia e dell’equilibrio che il gusto comune attribuisce all’Eleganza Vera. A tutto questo fanno da contraltare qualche eccezione e alcune bizzarrie e “trovate” degne di commento (qui di seguito, rigorosamente NON in ordine alfabetico). D’obbligo il cenno - e non è un dettaglio – alle note sovente originali delle fragranze, tutte interessanti. Che spesso affidano a una punta di amaro inaspettato il compito di risvegliare il cuore e i sensi intorpiditi dagli aromi.

Gloria di Cacharel Distributore: Parfums et Beauté Italia Produttore: Cacharel Essenza: Firmenich Packaging design: Annegret Beier

Glamourous Distributore: Parfums et Beautè Italia Produttore: Parfums et Beautè Italia Essenza: Firmenich Packaging design: Ralph Lauren


Materiali (nel segno della tradizione) - Quasi nessun esperimento con materiali “sintetici” (plastiche) o “alternativi” (il metallo per esempio, piuttosto che, come in passato, gomma, cuoio o pietre per i complementi di chiusura). In passerella domina il vetro, perlopiù trasparente e cristallino, talvolta satinato o serigrafato, a cui è affidato anche il compito di esprimere quel particolare tipo di ricchezza che dimora nella “quantità”: di boccette pesanti ne vediamo diverse, ma il nuovo Gucci, coerentemente con lo stile della casa, “esagera” più degli altri. Pressa o fermacarte? (design Tom Ford, vetro Saint Gobain, astuccio Autajon, pompa Pfeiffer). Fra tanta classicità, ecco subito tre eccezioni di spicco: il fantastico kitsch di metallo che contiene i due Versace (d’oro per Lei, d’argento per Lui), e il blister di plastica lattigginosa che racchiude un altrettanto plastico Calvin Klein, l’unico a proseguire sulla strada della sperimentazione. E la terza? È l’energetica sfera di metallo che racchiude un ferreo Boss in Motion dal cuore aranciato. Ma dove si schiaccia? Sotto!

Chic Carolina Herrera Distributore: Puig Italia Produttore: Puig Italia Essenza: Jacques Cavallier, Alberto Morillas, Ann Gottlieb Packaging design: Fabien Baron

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Ardenbeauty Distributore: Elizabeth Arden Produttore: Elizabeth Arden Essenza: IFF Packaging design: Elizabeth Arden

La Perla Creation Distributore: Morris Profumi Produttore: Morris Profumi Essenza: Dragoco Packaging design: K Design - Paris

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Sensi Distributore: Helena Rubinstein Italia Produttore: Giorgio Armani Essenza: Firmenich Packaging design: Baron & Baron

Colori (il trionfo della tecnica) – Dopo il tripudio di blu nell’edizione scorsa, sul nostro scaffale neppure un astuccio “indossa” questo colore. Nei femminili domina la fustella chiara, bianca o beige-dorata, con le relative sfumature; nei maschili lo “scuro” sobrio ed elegante (grigio, marrone e affini), con la rilevante eccezione di tre magnifici bianchi (Thierry Mugler, Calvin Klein e Tommy Hilfiger) e un colore squillante (il giallo metallizzato di Pure Cedrat). Ma che cura nella scelta dei pigmenti e quale maestria nella stampa! Nei femminili ciò è particolarmente evidente nello splendido Dior Addict, piuttosto che in Cavalli ed Estée Lauder; ma è soprattutto nei maschili che si fa notare, probabilmente per contrasto, a causa della minor varietà di stili e di giochi che movimentano i relativi packaging. D’obbligo menzionare il bordò-melanzana Givenchy, i contrasti luminosi di Pure Cedrat (Azzaro) e il bronzo sbalzato in argento di Mémoire (Nina Ricci). Ma anche lo squillante arancione che fa capolino dall’astuccio grigio e dalla sfera metallica di Boss, citazione della Boss Orange Label che marca l’ultima collezione causal per il tempo libero.


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Colori 2 (la vendetta) – Il blu assente dalle fustelle ricompare in Dior Addict, come elemento dominante della boccetta col tappo nero e oro: un packaging complesso, bell’esempio di opulenta eleganza alla francese, riattualizzata con gusto moderno. Ed è un altro celeberrimo marchio d’oltralpe, Yves Saint Laurent, a impiegare il vetro colorato per il suo ultimo lancio. È quello marrone di M7, che riesce a valorizzare insieme la trasparenza del materiale e le potenzialità di una tinta non facile (packaging design: Doug Lloyd per Tom Ford). Qui la luce viene non dal tappo dal suggestivo interno asimmetrico, ma dalla piatta frette argentata.

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Colori 3 (coccodrilli) – A fianco del coccodrillo sempreverde che distingue l’abbigliamento sportivo della casa, Lacoste crea un nuovo coccodrillo per la collezione Club Homme e lo tinge d’argento a sottolinearne la classe e l’eleganza. A sua volta, l’abito figlia un profumo dalla boccetta rigorosa e dalla fustella forte e senza fronzoli, che naturalmente riproduce il coccodrillo…

Eau Torride Distributore: Parfums Givenchy Produttore: Parfums Givenchy Essenza: Quest Packaging design: Saint Gobain et Pochet Axilone Plastique

Gucci eau de parfum Distributore: Cosmopolitan Cosmetics Produttore: Gucci Parfums Essenza: Givaudan Roure Packaging design: Autajon

Serialità (compensazioni) – Se alla qualità aggiungiamo la quantità, otteniamo forse un “effetto ricchezza” (in fondo il denaro cos’è, se non vuota quantità…) e sicuramente un effetto sorpresa. La reiterazione della forma e del colore caratterizza il packaging di Chic (Carolina Herrera), che si sviluppa, alla maniera delle bamboline russe, come incastro successivo di elementi identici e sempre più piccoli. Così, l’astuccio bianco che si apre a libro, incorniciato di plastica rossa, dischiude un astuccio bianco a libro (filmato e fermato da un’apposita cornice di cartone, oltre che dall’altra, di plastica rossa)… che, finalmente, disvela la purissima trasparenza del flacone minimale dai profili rosati e dalla pompa invisibile. Bello il contrasto fra gli angoli squadrati della boccetta a parallelepipedo, con il tappo solidale dal cuore rosso, e le curve delicate della couche interna, ingentilita da un lieve rialzo sulla spalla. Overpackaging o opportuna compensazione dello stile iperessenziale?

Versace Jeans Couture - Woman Distributore: Giver Profumi Produttore: Versace Profumi Essenza: Firmenich Packaging design: Versace

Pleasure Intense Distributore: Estée Lauder Produttore: Estée Lauder Essenza: Firmenich Packaging design: Lab. Creativi Estée Lauder


Dissolvenze (la fine del marchio?) – Fra i femminili in concorso, Glamorous di Ralph Lauren ha rinunciato a qualsiasi tipo di scritta sulla boccetta, nome compreso (così, ormai, faran tutti!). Anche Roberto Cavalli affida la propria identità ad altri - inconfondibili elementi del concept (la firma, quasi invisibile, va scoperta fra le pieghe del decoro del vetro), mentre Eau Torride si limita a incidere il proprio nome sul tappo con una sovrapposizione di trasparenze. Infine, Versace Jeans Couture e Murmure di Van Cleef & Arpels (design by Sté Curiosity) lo fanno cercare: in entrambi i casi lo troveremo inciso in verticale lungo l’elemento di metallo che lo decora in lunghezza. E nei profumi maschili? Anche Yves Saint Laurent e Crave di Calvin Klein scommettono sulla riconoscibilità della boccetta senza nome (e non v’è dubbio che entrambi ci riusciranno; guardare per credere). Esagerazioni (kitsch con stile) Menzione d’obbligo alla ricchezza dell’astuccio Cavalli: rigido e materico, grigio dall’interno floccato di rosa, con la copertina ad anta

trattata in modo da conferire particolari effetti ottici e tattili, è protetto da un’ulteriore custodia zebrata, che valorizza il brand e gli altri elementi della comunicazione. Realizzato in tessuto-non-tessuto a marchio Tyvek® DuPont, laminato dalla tedesca BC-O e trasformato da Cartografica Pusterla, si apre a libro trasformandosi in nicchia per la flessuosa boccetta serpentina dalla sottile testa a sfera, con blocco di sicurezza e “collier” in stile. Così esagerato da essere bello. Altro “kitsch” di pregio, un po’ Picasso e un po’ Dalì, il packaging del dittico firmato Gai Mattiolo. That's Amore! diventa XXX Kisses e veste i colori forti della passione. Le due metà nera e rossa per Lui e per Lei (è il cartone che le distingue) in realtà sono due interi, autosufficienti ancorché complementari. Accostando i tappi formano una larga bocca sensuale, ricomposta nella confezione Duo dall’astuccio verde acido. Gioie e colori di coppia. Buon ultimo, lo scintillio “cult” di Versace, nella versione femminile con pavé di diamanti, e maschile rivestita di smeraldi. Divertente, orientaleggiante, luminoso, esuberante, inconfondibile gioco di

Murmure Distributore: YSL Beauté Produttore: Van Cleef & Arpels Essenza: Firmenich Packaging design: Sté Curiosity Kenzo Parfum d’Eté Distributore: Kenzo Parfums Italia Produttore: Kenzo Parfums Essenza: IFF Packaging design: Tipi

That’s amore! Gai Mattiolo XXX Kisses Lui Distributore: ITF SpA Produttore: Essenza Firmenich Packaging design: Les Gitanes

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Dior Addict Distributore: Christian Dior Parfums Produttore: Christian Dior Parfums Essenza: Firmenich Packaging design: Christian Dior Parfums

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plastiche e luci. E le fragranze? “Easy-chic” per lei e “sexy and celan” per lui. I flaconi metallizzati sono di Candiani la pompa Valois e l’astuccio, realizzato con cartoncino Iggesund Paperboard, è firmato Cartografica Pusterla.

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Leggiadria (senza commenti) – In mezzo a cotanti “muscoli” concettuali e sensitivi, la delicata leggiadria di Pleasures Intense spicca per contrasto, richiamando una sfera di piaceri meno strillati e non per questo meno intensi. Armonia di forme, proporzioni e colori, l’elegante boccetta si distingue per l’antropomorfismo stilizzato, segnato da un alto “collo” che sostiene il tappo tondeggiante. Frutto del lavoro del dipartimento creativo Estée Lauder, il packaging di questo profumo “si è ispirato alla bellezza perfetta del liquido trasparente eppure vividamente colorato”, tingendo l’eleganza e semplicità della silhouette di vetro di un intenso viola fucsia che vira verso il nulla (mentre sulla fustella si trasforma in rosa corallo). Per “comunicare con intensità gioia e piacere”. Del tutto differente per stile, Eau

Armani Mania Distributore: Helena Rubinstein Italia Produttore: Giorgio Armani Essenza: Quest Packaging design: Baron & Baron

Torride di Givenchy esibisce, oltre a una scatola splendida di bianchi e di colore (l’anima viola all’interno e la fuga di rossi sul cartoncino perlato), la stessa sensibilità per il potere evocativo della trasparenza. Dell’immagine stampata come dietro un vetro, della pura boccetta, dell’ampio tappo cilindrico da cui sprigiona un cuore vibrante di calde cromie (le stesse della confezione esterna). Varie (ed eventuali) - L’argomento packaging è virtualmente inesauribile. Ci limitiamo a qualche altro appunto su aspetti, secondo noi, degni di nota. • Con Parfum d’Été Kenzo resta fedele alla sua poetica e, dopo il papavero, propone una delicata foglia piatta. Che - e ci vuole del coraggio - non sta in piedi da sola ma deve essere riposta nell’apposito astuccio interno di cartone verde. • Pure Cedrat (Azzaro) assume fino in fondo il compito di interpretare il cedro che ispira fragranza e packaging, e lo fa senza timidezze. Oltre alla splendida fustella e alla boccetta squadrata, si fa notare il tappo di gomma grigia.

Pure Cedrat - Azzaro Collection Distributore: Monarimport Produttore: Loris Azzaro Cologne - Thierry Parfums Mugler Distributore: Monarimport Essenza: Charabot Packaging design: Produttore: Thierry Federico Restrepo Mugler Parfums Essenza: Firmenich Packaging design: Thierry Mugle

Time Krizia Uomo Distributore: Morris Profumi Produttore: Morris Profumi Essenza: Mane & Fils Packaging design: Ede Art


• Givenchy, altro simbolo della profumeria di classe, gioca tutta la capacità d’impatto sul tappo esagerato (pari a due terzi dell’altezza complessiva della bottiglia) dal colore elegante. Esibito al limite della sfacciataggine il foro erogatore metallico, a cui corrisponde, sul retro, il relativo bottone. La consistenza e il peso dei materiali, oltre alla realizzazione impeccabile, ne sottolineano l’alto profilo. • Piccolo, tondeggiante, dal mirabile “copricapo” di metallo dorato che allude al déco a cui fa da contraltare la fiamma di foglie che sale dal fianco destro. L’Or de Torrente riesce a comporre con maestria elementi romantici e fiabeschi senza perdere l’equilibrio, ottenendo una boccetta da sogno (come, peraltro, la brochure). Design: Hervè Van der Straeten. • Ancora qualche parola su Crave, davvero alternativo nel complesso e nel dettaglio. Colori, giochi di trasparenze e opacità, contrasti cromatici valorizzano le straordinarie possibilità espressive della plastica. Per non parlare della struttura interna del flacone, dalla spalla avveniristica,

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Sempiterni (la forza della marca) Grandi classici, i packaging degli altri profumi in concorso hanno conquistato la nomination innanzitutto con la forza d’impatto del marchio. Oltre a presentare, ciascun, un “quid” in più: il colore rosa di Gloria Cacharel (St. Gobain Desjonqueres, Valois, Seidel e Rexam per la boccetta; Autajon per l’astuccio), l’abbondante e femminilissima testimonial di ardenbeauty, la catenella di metallo con il ciondolo che firma l’ultima fragranza La Perla (Pochet, Ars Metallo e Valois per la boccetta; Litostampa per l’astuccio), la riconoscibilità del logo in Tommy e del marchio in Time Krizia Uomo, che ripropone tutti gli elementi il “suo” packaging tipico (Heinz Glass, Valois, Amba; astuccio Isem). D’obbligo, infine, citare Cologne di Thierry Mugler, che interpreta la suggestiva immagine della casa con la texture e i colori dell’astuccio, la potenza evocatrice

Givenchy pour homme Distributore: Parfums Givenchy Produttore: Parfums Givenchy Essenza: Firmenich Packaging design: Saint Gobain et Pochet MBF

Versace Jeans Couture - Man Distributore: Giver Profumi Produttore: Versace Profumi Essenza: Firmenich Packaging design: Versace

Lacoste pour Homme Distributore: P&G Prestige Beautè Produttore: Hugo Boss Essenza: Quest Packaging design: Aesthete

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Mémoire d’Homme Nina Ricci Distributore: Puig Beauty & Fashion Produttore: Nina Ricci Essenza: Quest Packaging design: Aesthete

che si vede e non si vede. Buon ultimo, il blister, alternativo al cartoncino, che completa un pack degno di nota.

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della boccetta dalla spalla scesa e il logo misterioso, un po’ primitivo e un po’ futurista. Ultimo curioso dettaglio: nella scatola troviamo la pompa completa di pulsante erogatore da montare al momento dell’uso, e una piccola busta corredata con gli indirizzi autoadesivi dei rappresentanti nei principali Paesi, a cui inviare la cartolina compilata con i propri dati anagrafici. Aperture (annotazione di chiusura) Diversi profumi sono difficili da “aprire”; impossibile non notare la cosa. Ora l’astuccio è talmente complesso che occorre un paziente lavoro per sciogliere gli incastri e accedere alla boccetta; ora l’erogatore è sapientemente nascosto dal cabochon o magari

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Crave Distributore: Unilever Cosmetics International Produttore: Calvin Klein Essenza: IFF Packaging design: Baron & Baron

Boss In Motion Distributore: P&G Prestige Beauté Produttore: Huog Boss Essenza: IFF Packaging design: P&G Prestigi Beautè

bloccato dalla sicurezza, e fino all’ultimo “vuoi vedere che non ci riesco”? Saranno conseguenze non volute della sempre maggior complessità dell’imballaggio, oppure una sorta di gioco per adulti, che nella sfera ludica del profumo ha trovato un suo logico contesto? Personalmente, amo essere stupita, da una fragranza inaspettata come da un meccanismo misterioso. Non mi piace, invece, passata la sorpresa, dover continuare a "trafficare" per aprire una confezione: quale che sia l’intenzione dell’autore, sembra difettosa, e poi ho paura di romperla. Dunque? Che fare? Provare prima di acquistare! Elena Piccinelli, giornalista di packaging, scrive su ItaliaImballaggio.

Tommy Hilfiger T for Him Distributore: Aramis Produttore: Estée Lauder Companies Essenza: Firmenich Packaging design: Dip. Creativo: Aramis Estée Lauder

M7 Distributore: YSL Beauté Produttore: YSL Essenza: Firmenich: Packaging design Doug Lloyd


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What a Package! Few sensational surprises, plenty of opulent materials and add-ons, utmost attention to the details and impeccable manufacturing. These are the characteristics of the packaging that dresses the recent nominations to the Accademia del Profumo Prize, making it elegant and polished. But, let's take a closer look… Elena Piccinelli

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Materials (the keyword is tradition) - A near complete lack of experimentation with "synthetic" (plastic) or "alternative" materials (metal, for instance, or the rubber, leather, or stone used in the past in some bottle tops). The runway was dominated by glass, mainly transparent or opalescent, a few etched or silkfinished models, which also play the role of expressing that particular brand of opulence that resides in "quantity." There were quite a few weighty bottles, but the new Gucci fragrance reflecting the current philosophy at the maison -

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After the new age of luxury (remember that? Consumer sociologists were talking about it a few years ago in all the magazines) and exaggeration (then the connoisseurs of bon ton arrived on the scene to instruct us how to tell real chic from boorish nouveau riche), now we are seeing the dawning of the age of elegance (to avoid misunderstandings, remember that "age" means at the most, one calendar year). This time we didn't just read it, but have to believe it's true looking at the 15 women's and 13 men's fragrances competing in the Accademia del Profumo Award 2003 (all participating products were launched in 2002). At this point, the New Age influence is on the wane; we've digested the new fragrances for Him (along with the unisex models and those identified by gender: for Her and for Him, you can't go wrong!) and even these "brave" experiments in packaging seem déjà-vu. This year's fragrances display alternative materials (plastic and metal first and foremost) and fresh new colours (from transparent to metallics)… and what else? The perfume packages in the competition are lined up in a row on the display, and though not particularly surprising, they are

striking for their sheer perfection. Made of crystal and virgin cellulose, with precise details, excellence in the reproduction of colors and a lavish dose of "up-market" complements and finishes that suggest pure elegance. The kind of elegance you'd expect from designer labels, authentic affluence, what you'd see in the splendid shop windows in the fashion capitals. Luxury without boundaries? Perhaps, provided that the opulence is more than an end, more than an epiphany of success. Rather, then, "luxury contents," which is expressed in the quality of the raw materials, superb packaging technology, "handcrafted" precision in the details. In short, what makes an object truly exclusive. With that admirable sense of harmony and equilibrium that, now more than ever, public opinion puts down as Real Elegance. All this corresponds to some exceptions and some oddities and "finds" worthy of comment (here on in, we remind that this is absolutely NOT in alphabetical order). De rigeur, a mention - and not a minor point - of the original scents of the fragrances, each one fascinating. This year, we find frequent use an unexpected note of sharpness to awaken the heart and the senses, numbed by the heady aromas.


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is possibly more over the top than the others. Perfume or paperweight? (design by Tom Ford, glass by Saint Gobain, box by Autajon, spray pump by Pfeiffer). Amidst all this classic styling, here are three outstanding exceptions: the fantastic metallic kitsch that holds two Versace fragrances (gold for Her, silver for Him) and the milky blister pack that envelops a likewise plastic Calvin Klein, the only product to go the way of experimentation. And number three? This would be the bouncy metal sphere that encloses a steely Boss in Motion with a bright orange core. Hey, where do you spray it? Underneath! Colors (technological triumphs) - After a euphoria of blue in last year's edition, our product shelf displays nary a package in this colour. Women's fragrances are dominated by transparent, white or golden-beige boxes, in every possible hue; in men's fragrances, we are seeing a series of staid and elegant "dark" colors (grey, brown and the like), with the patent exception of three magnificent white boxes (Thierry Mugler, Calvin Klein and Tommy Hilfiger) and one dazzling color (the metallic yellow of Pure Cedrat). But, wow, what care was taken in choosing the colors and what ingenuity in the printing! This is particularly evident in the women's scents: take a look at the splendid Dior Addict, Cavalli and Estée Lauder; but the men's fragrances really make the most of eyecatching graphics, probably by contrast, to make up for the limited variety of styles and effects that enliven the packaging. We can't neglect to mention the deep plum burgundy of Givenchy, the gleaming contrasts of Pure Cedrat (Azzaro) and the silver embossed bronze of Mémoire (Nina Ricci). Then there's the cheeky orange peeking out of the sleek grey case and the metallic sphere, in the

perfume designed to accompany the Boss Orange Label line, the most recent casual wear collection. Colors 2 (the comeback) - The blue that was absent from the boxes makes its reappearance in Dior Addict, as a prevailing element of the black and gold crowned bottle: complicated packaging, a classic example of sumptuous French elegance, updated to please modern tastes. Plus, another illustrious name from over the Alps, Yves Saint Laurent, has also used colored glass for its most recent scent. The tawny glass of M7 enhances the transparency of the material and unleashes the potential of a challenging color) (packaging design: Doug Lloyd for Tom Ford). Here, the luminosity comes not from the suggestive asymmetrical cap, but from the silvery frette. Colors 3 (alligators) - Alongside the brilliant green alligator, quintessential symbol of casual sportswear, Lacoste has created a new alligator for its Club Homme collection, giving it the sparkle of a silvery sheen to emphasize its style and grace. Soon after, the clothing line conceived a perfume with an austere bottle and strong and no-frills box, which naturally, bears the ubiquitous alligator… Standards (compensations) - If we add quantity to quality, we usually obtain an "expensive effect" (besides, what is money anyway if not empty quantity…) and surely the element of surprise. Repetition of the shape and the color characterises the packaging of Chic (Carolina Herrera), which is designed like those Russian nesting dolls, fitting one into the next and growing progressively smaller. The red plastic edged white case opens like a book to reveal a second white case (sheathed in plastic and


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fastened by a cardboard frame plus more red edging)… that finally discloses the pure transparency of the minimalist bottle with pinkhued trim and hidden pump. The contrast between the squared off angles of the rectangular bottle, the red heart-shaped top, and the delicate contours of the internal couche, softened by a slightly rounded shoulder, is truly stunning. A case of overpackaging or appropriate compensation for the ultra-essential style? Fading away (the end of the brand?) - Of the women's fragrances in the competition, Glamorous by Ralph Lauren eliminated any trace of lettering on the bottle, including the name (others are sure to follow ). Even Roberto Cavalli uses other unmistakeable signs of his fashion concept to denote his perfume (the label is practically invisible, tucked in between the decorative pleats of glass), while the name of Eau Torride is simply etched on the bottle top with an effect of overlapping transparencies. Finally, Versace Jeans Couture and Murmure by Van Cleef & Arpels (design by Sté Curiosity) make you look for it: in both cases, we detected the name engraved vertically on the decorative metal element along the bottle's length. And the men's perfumes? Yves Saint Laurent and Crave by Calvin Klein both wager on the recognizability of their nameless bottles (and there is little doubt that both succeed: seeing is believing).

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Embodiment of grace (no comment ) - In the midst of so many conceptual and sensory "muscle flexing", the delicate gracefulness of Pleasures Intense stands out, arousing a sphere of pleasures less strident, though equally powerful. A harmony of forms, proportions and colours, the elegant bottle is a winner for its stylised anthropomorphism, marked by a long "throat" that sustains the rounded cap. Developed by the creative department at Estée Lauder, this perfume

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Exaggerations (or kitsch with flair) - Impossible to overlook the lavishness of the Cavalli perfume box: rigid and substantial, with a pinkflecked grey interior and an especially treated "door" to lend optical and tactile effects. It is protected by yet another zebra-striped case that enhances the brand and other distinctive

Cavalli elements. Made with the special nonwoven Tyvek® fabric by DuPont, laminated by the German company BC-O and transformed by Cartografica Pusterla, the box opens like a book, becoming a nest for the sinuous serpentine bottle, with a slender rounded head, special safety lock and stylish choker. So completely over the top, yet utterly gorgeous. Another precious kitsch, part Picasso and part Dalì, is the diptych packaging by Gai Mattiolo. That's Amore! becomes XXX Kisses and dresses in the potent colors of passion. Two halves, red and black for Her and Him (the box distinguishes the genders), are really two wholes, completely independent, though refreshingly complementary. Putting the spray pumps together forms a full sensual mouth, recomposed in the acid-green Duo package. Little delights and the colors of love. Last of all, the "cult" appeal of Versace, in the female version with diamond pavè and the male version dressed in emeralds. An amusing, slightly oriental, radiant, high-spirited, unique effect of plastic and lights. And the fragrances? “Easy-chic” for Her and “Sexy and clean” for Him. The metal bottles are by Candiani, the spray pump by Valois and the Iggesund Paperboard cardboard box was designed by Cartografica Pusterla.


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packaging was "inspired by the perfect beauty of the liquid, either transparent or vividly colored," giving the elegance and simplicity of a glass silhouette a deep fuchsia blush that gradually pales (the color becomes salmon pink on the box). To "express yourself with intensity, joy and pleasure." Completely different in its style, Eau Torride by Givenchy shows off a splendid white box punctuated with color (a violet lining inside the box and the red seams on the pearled cardboard) as well as the same sensitivity for harnessing the power of transparency. The image printed like the back of a mirror, the minimal bottle, and the large cylindrical cap that releases a pulsating core of warm colors (echoing the colors of the box).

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Various (and sundry) - the world of packaging is all but limitless. Here, we will suffice to make some notes on features that we found particularly worth mentioning. • With Parfum d’Été, Kenzo remains faithful to his philosophy and, after the poppy, now proposes a delicate flat leaf. We tip our hat to Kenzo's courage: the bottle does not stand up on its own, but must be nestled into its green cardboard box. • Pure Cedrat (Azzaro) has undertaken to fully interpret the cedar that inspires both the

fragrance and the packaging and does so without trepidation. Alongside the splendid box and the square bottle, the grey rubber cap calls attention. • Givenchy, another icon of posh perfumery, bets heavily on the star quality of the elegant and oversize cap (which makes up two-thirds of the total height of the bottle). The cheeky metal atomizer (whose button is on the back) is just this side of chutzpah. The solidity and weight of the materials, in addition to the impeccable craftsmanship, underscore the high-quality. • Small and gently rounded with a charming gilded metal "crown" that alludes to Art Deco and is counterbalanced by the leafy flame ascending the right side of the bottle. L’Or de Torrente succeeds in masterfully pulling together romantic and fairy tale elements without being syrupy. The result is a fabulous bottle (just like in the brochure). Design: Hervè Van der Straeten. • One more word about Crave, truly "alternative" in its overall design and in the details. Colors, alternating transparency and opacity, and chromatic contrasts reveal the extraordinary expressive potential offered by plastic. Not to mention the shape of the bottle, with its futuristic line that is visible and yet indistinguishable. Last but not least, the innovative blister pack finishes the look of a very remarkable package.


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Perennial favorites (the strength of a strong brand) - The great classic names, the packaging of other perfumes in the competition have earned the nomination primarily thanks to the asset of brand recognition. In addition to presenting a little something extra: the pink color of Cacharel's Gloria (St. Gobain Desjonqueres, Valois, Seidel and Rexam for the bottle; Autajon for the box), the generous and ultra-feminine testimonial of ardenbeauty, the metal chain with the pendent adorning the latest La Perla fragrance (Pochet, Ars Metallo and Valois for the bottle; Litostampa for the box), the recognizability of the logo of Tommy and the trademark of Time Krizia Uomo, which reintroduces all the elements of its typical packaging (Heinz Glass, Valois, Amba; box by Isem). We can't neglect to mention Cologne by Thierry Mugler that interprets the suggestive coziness of home in the texture and color of the box, the evocative power of the bottle with its sloped shoulders and the enigmatic logo, slightly primitive and at the same time, futuristic. A final curious detail: tucked inside the box is the atomizer, complete with spray pump to attach when you need it, along with a small envelope containing self-adhesive address labels of the representatives in the major countries, where you can send a postcard filled out with your personal information.

Openings (closing remarks) - Quite a few perfumes often prove difficult to open; it is impossible not to notice this tiresome fact. Now, the box has become so complicated that you need the patience of a saint to undo all the clips and closures and get at the bottle. Other times, the atomizer is cleverly hidden by the cabochon or has a safety lock. The process becomes a quest: "confound if I can't do this!" Are these perhaps the unwelcome consequences of the growing complexity of packaging, or a sort of adult game that in the perfume learning curve has found its most logical context? Personally, I delight in being astonished, equally by an unanticipated fragrance as by a mysterious mechanism. What I don't like is to have to continue toiling to open the package once the surprise is revealed: whatever the intention of the designer, it seems defective, and I am afraid to break something. So? What to do? Try before buying!

Elena Piccinelli, packaging journalist, writes on ItaliaImballaggio.

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A Scuola di Packaging

Università degli Studi di Parma

"Dato che sempre più spesso le decisioni di acquisto di beni di consumo vengono prese sul punto vendita, è il look (la confezione) che si impone e comunica direttamente con il consumatore, cercando di trasmettere i valori e i punti di forza del prodotto o della marca che i pack stessi rappresentano". Con questi assunti si presenta al pubblico il Corso di Laurea in Scienza e Tecnologia del Packaging, attivato dall’Università degli Studi di Parma, presso la Facoltà di Scienza Matematiche, Fisiche e Naturali, e presieduto dal professor Angelo Montenero. Un corso praticamente unico in Italia, nazione peraltro all’avanguardia mondiale nella

produzione industriale del packaging, settore che occupa circa 100.000 persone con una produzione annua di 14 milioni di tonnellate di prodotti per un valore di 31 mila miliardi di vecchie lire. Proprio in Italia, però, troppo spesso, la preparazione accademica resta scollata dalla realtà produttiva: per ovviare a questa mancanza, il corso attivato a Parma fornisce un’adeguata preparazione di base nelle varie discipline chimiche, fisiche, matematiche, informatiche, ma prevede anche un tirocinio finale presso un’industria o un ente statale. La preparazione chimica privilegia la relazione tra struttura e proprietà dei

materiali per imballaggio (vetro, metalli, carta, cartone, polimeri) e l’interazione di questi con i prodotti contenuti. Su questa solida base scientifica si innesta un ampio spettro di competenze legate a materie specifiche che coprono settori disciplinari molto eterogenei – basti pensare che i corsi di insegnamento spaziano da Gestione Aziendale e Marketing Industriale, a Microbiologia, a Chimica dei prodotti Cosmetici, fino a includere discipline laterali ma non meno importanti come Diritto Industriale. Per maggiori informazioni è consultabile il sito dell’Università www.unipr.it

At Packaging School

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University of Parma "In view of the fact that now more than ever, consumers are making their purchase decisions directly at the retail sales point, the look (the package) is taking precedence and is beginning to communicate with the consumer, in a bid to convey the values and the strengths of the product or the brand that the packaging represents". These assumptions make up the basis for the

Degree Course in Packaging Science and Technology, instituted at the University of Parma in its Department of Mathematical, Physical, and Natural Sciences and supervised by Professor Angelo Montenero. This is the only course of its kind in Italy, a nation that sets the standards for international industrial packaging production, a sector that employs some


Shopping Bag Sylvie Fleury courtesy Art&Public, Geneve, 1995

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(glass, metals, paper, cardboard, polymers) and the interaction of these materials with the products contained inside the packaging. This solid scientific foundation forms the basis for a wide spectrum of additional skills related to specific subjects dealing with a range of sectors. The syllabus includes Business Management and Industrial Marketing, Microbiology, Chemistry of Cosmetics Products, and even includes ancillary but no less important subjects such as Industrial Law. For more information, visit the university's website at www.unipr.it

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100,000 people and boasts an annual production of 14 million tons of material for a total value of 31 thousand billion of our former Italian lire. Still, too often, even in Italy, academic preparation is completely unconnected from the manufacturing world: to attenuate this shortcoming, the course instituted in Parma provides the groundwork on the related chemical, physical, mathematical and computer subject areas while also requiring the student to do an internship at an industry or staterun organization. Studies into chemistry give precedence to the relationship between the structure and the properties of packaging materials


Non c’è trucco non c’è inganno Il trucco non mente quasi mai, anche se inganna sempre


Antonio Piotti


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La parola “trucco” nasconde un significato sinistro e fuorviante. Essa rimanda a una procedura ingannevole, a una mistificazione, ci fa intendere che c’è una verità autentica, una realtà, al di sopra della quale viene stesa una sorta di maschera con lo scopo di nascondere le imperfezioni del reale e di contribuire a migliorare l’aspetto del soggetto, falsificandolo. A causa di questo, che io ritengo una sorta di retaggio cattolico, il nostro atteggiamento nei confronti della cosmesi resta profondamente ambivalente: da una parte ne rimaniamo soggiogati ed affascinati, dall’altra la consideriamo una sorta di camuffamento che nasconde il vero Sé del soggetto dallo sguardo degli altri, un segno di debolezza, trasmesso attraverso un’impropria dimostrazione di forza.

noi perveniamo ad una definizione di noi stessi (rispondiamo alla domanda “chi sono io?”) solo attraverso una serie di identificazioni successive, come se, per sapere chi siamo, dovessimo semplicemente mostrare la gallery fotografica di tutte le persone che abbiamo incontrato, amato, odiato, desiderato ed invidiato fin dalla nostra infanzia; una gallery dalla quale non sono ovviamente escluse le persone immaginarie: gli attori dei film, le pop star, gli idoli televisivi con i quali ci siamo identificati. Ecco: noi siamo la sommatoria di una serie di immagini portate dentro di noi, siamo questa sommatoria in un modo tutto nostro e magari originale, ma siamo appunto questa pluralità di soggetti psichici differenti all’interno dei quali è semplicemente stupido chiedere quale sia quello autentico.

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NEL TRUCCO NON È BELLO CIÒ CHE PIACE, MA CIÒ CHE RISPONDE A PRECISE ESIGENZE SOCIALI.

Le cose tuttavia non sono affatto così semplici: basterà poco per accorgersi che questo vero Sé che starebbe sotto la maschera è esso stesso una finzione e una mascheratura (un po’ come, nell’agricoltura biologica, il frutto “vero e naturale” sembra contrapporsi al frutto “finto ed artificiale” prodotto attraverso il trucco dei pesticidi e dei conservanti chimici ma, in realtà, sappiamo benissimo che il processo di produzione cosiddetto biologico è anch’esso basato su una serie di tecniche e di procedure che devono portare il prodotto a prestarsi alla grande distribuzione e che l’uso del termine “autentico” è qui fortemente discutibile, tanto più dopo che molti scandali hanno messo in luce la falsità di alcune produzioni che si fregiavano dell’etichetta biologica). Che cosa sarebbe infatti questo vero Sé del soggetto? Freud sostiene che

Se le cose stanno così allora qual è il compito svolto dal trucco? Cosa otteniamo truccandoci? Semplicemente decidiamo di far vivere per un certo lasso di tempo una delle tante “persone psichiche” che compongono la nostra identità, la facciamo vivere perché essa svolga il suo compito che può essere tanto quello di suscitare ammirazione e desiderio (come accade nella nostra raffinata società occidentale) quanto quello di segnalare un’intenzione aggressiva o un intento minaccioso come accadeva in alcune società tradizionali. Non appena l’intento seduttivo o quello minaccioso vengono meno, anche la personalità suscitata può ritornarsene in buon ordine al suo posto in mezzo alle altre senza bisogno che essa appaia come prevalente. Così, allora, il trucco non mente quasi


IN THE CASE OF MAKEUP, BEAUTY MEETS PRECISE SOCIAL NEEDS.


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mai, anche se inganna sempre. Non mente perché rispecchia sempre un aspetto del soggetto; inganna sempre perché ipostatizza questo aspetto facendo sì che esso prevalga su tutti gli altri e dando la falsa illusione che esso sia l'unico. Il guerriero non è solo guerriero ma anche contadino, padre, etc. la donna non è solo femme fatale ma anche madre, casalinga, compagna, etc. Tuttavia, anche questo non basta per dirci cosa significhi veramente oggi truccarsi e, soprattutto, se questa operazione sia ancora possibile: se è vero infatti che il trucco non è una semplice falsificazione da contrapporre alla verità, ma rappresenta sempre e soltanto una delle possibilità del soggetto che si trucca, bisogna anche aggiungere che questa operazione per avere senso deve essere socialmente

come in nessuna altra cosa, non è bello ciò che piace ma ciò che risponde a delle precise esigenze sociali. La sua efficacia seduttiva dipende dalla cultura di appartenenza: i trucchi delle donne appartenenti a società primitive sono per noi mostruosi ma affascinano i membri di quelle stesse società, e l’esperienza non è mai esportabile. La femme fatale e il guerriero, appartengono a dei modelli prodotti da un sistema culturale cui il soggetto si ispira quando decide di truccarsi, ma cosa succede quando questi modelli smettono di esistere? Quando il sistema sociale non offre più punti di riferimento che non siano obversi (che non rappresentino altro che lo sguardo stesso del soggetto)? Succede che truccarsi diventa impossibile perché non esiste più alcun sistema codificato di

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QUANDO TRUCCARSI DIVENTA IMPOSSIBILE, IL VOLTO SI COPRE DI TRACCE MISTERIOSE.

codificata. Non c’è niente che meglio del trucco rappresenti l’ordine simbolico di appartenenza, non c’è niente di meno esportabile, e non c’è niente di più caratterizzante. Ed in effetti il maquillage, a differenza dell’opera d’arte, non può nutrirsi semplicemente dell’energia creativa del soggetto, ma deve trarre la sua fonte di ispirazione principale da una serie di esperienze ben codificate, ci si trucca seguendo un modello definito e l’abilità della messa in atto si misura sulla base dell’efficacia sociale che esso dimostra. Il trucco è cioè una pratica simbolica e non immaginaria. Si comprende bene tutto questo quando si riflette su come sia facile per chiunque registrare la pacchianeria di un trucco eccessivo, come se ognuno di noi possedesse a questo riguardo un canone estetico ben definito ed assolutamente rigoroso. Nel trucco,

riferimento, perché non si sa più cosa dire, quali sentimenti suscitare e a chi rivolgersi. Succede che si passa dal trucco al non-trucco, dalla comunicazione seduttiva alla seduzione della non-comunicazione. Va perduta la distinzione di genere e il volto del soggetto non rimane vuoto o senza trucco ma si lascia coprire da una serie di tracce misteriose il cui mistero deriva dal fatto che sono come un linguaggio senza codice, una serie di immagini senza senso, come nel dripping di Pollock: c’è ancora un quadro ma è un nonquadro, di cui permane soltanto il gesto - come se si scrivessero ideogrammi incomprensibili per il puro gusto di lasciare un segno sulla carta. Antonio Piotti, psicologo,ha pubblicato (con M. Senaldi) Lo Spirito e gli Ultracorpi, Franco Angeli 1999 e Maccarone m’hai Provocato, Bulzoni, 2002.


IF MAKING UP BECOMES IMPOSSIBLE, THE FACE IS COVERED WITH MYSTERIOUS SIGNS.


psychopackaging

No making up no deception Makeup almost never lie, though they always deceive

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Antonio Piotti

The word " makeup" conceals an inauspicious and misleading significance. It conjures up a superficial process, an outward transformation, leading us to believe that there is another truth, a reality, hidden underneath what is applied like a mask to veil the imperfections of reality and to enhance the appearance of the wearer by falsifying it. Due to this masquerade, which I hold to be a sort of universal legacy, our attitude toward makeup has remained deeply ambivalent. On the one hand, we are left pleasantly surprised and charmed, while at the same time, we view it as a camouflage that hides the true Self of the wearer from the eyes of onlookers, a sign of weakness conveyed through an inappropriate show of strength. In reality, things aren't quite so simple. It doesn't take much to figure out that this true Self under the mask of makeup is itself a charade and a disguise (a little bit like the "natural and genuine" fruits and vegetables grown with biological farming methods, as opposed to the "imitation and artificial" fruits and vegetables grown using pesticide " makeup " and chemical preservatives. Of course, in truth, we recognise that so-called "biological farming methods" are equally based on a series of techniques and procedures that yield a product

suitable for large scale distribution; use of the term "genuine" here is questionable, even more so after a spate of scandals shed light on the spuriousness of some producers brandishing the biological label). Who or what exactly is this true Self of the wearer? Freud holds that we can reach a definition of ourselves (in response to the query, "who am I?") only after a series of successive identifications. This means that in order to know who we are, we have to look back on a photo gallery of all the people we have ever met, loved, loathed, desired, or envied from our early childhood to the present. Clearly, such a gallery would also include fantasy personages: Hollywood actors, pop stars, television heartthrobs, and others we have identified with over the years. So, we are simply a summation of a series of images deep inside ourselves. We are a very personal and original end product, in the same way that we are a fusion of different spiritual beings. It is simply preposterous to ask who or which is the real one. If this is really how it stands, then what purpose do makeup serve? What end do we achieve by making ourselves up? The answer is simple: for a certain period of time, we decide to bring to life one of the many "spiritual selves" that comprise our identity; we animate it to have it perform a specific function, which may be to elicit admiration and desire (which is true in our western societies) or denote an aggressive or a threatening intention, as was the practice in traditional societies. As soon as the seductive purpose or the threatening objective loses importance, the personality drawn out can return to its place among the others, without it remaining dominant over the personas.


psychopackaging

the old adage "beauty is in the eye of the beholder" become "beauty is what meets precise social needs." Its seductive power depends on the culture where it is used. The makeup used by women in the more primitive societies charm the members of their groups, and yet are viewed as grotesque in ours. The experience is rarely exported with success. The femme fatale and the warrior are models produced by a cultural system that guides the wearer in applying makeup. But what happens when these models cease to exist? When the social system no longer provides points of reference that are not obverse (which don't represent anything but the gaze of the wearer)? The result is that makeup becomes impossible to use because there is no set reference system; we are left without expressive means, we don't know what feelings to stir up nor who to refer to. Another result is that we switch from makeup to non-makeup, from communicating seduction to the seduction of non-communication. The distinction of the gender is lost and the face of the wearer is not left empty or without paint and powder, but allows itself to be covered by mysterious signs whose mystery lies in the fact that theirs is a language without classification, a series of senseless images, like Pollock's famous dripping paintings: the art work is still there, but it is a non-painting, where only the gesture remains – as if incomprehensible ideograms were written for the pure delight of leaving a sign on the paper.

Antonio Piotti, psychologist, has published (with M. Senaldi) Lo Spirito e gli Ultracorpi, Franco Angeli 1999 and Maccarone m’hai Provocato, Bulzoni, 2002. 1/03

So, then, makeup almost never lies, although it always deceives. It doesn't lie because it always reflects a true aspect of the wearer; it always deceives because it incarnates a single aspect, allowing it to prevail over all the others and giving the false impression that this is the only one. The warrior is not only a warrior: he is also a farmer, father or other figure; a woman is not only a femme fatale; she may also be a mother, housewife, or companion. Nevertheless, it is still not sufficient to explain what it really means to apply makeup and, in particular, if this process is still possible today. If it's true that makeup is not a simple falsification to disguise the truth, but always and only represent one of the personalities of the person using them, then we must remember that in order for this process to have any sense, it must be socially defined. makeup is an unparalleled way to represent the symbolic order of belonging: there is nothing less easily exported and nothing more characterising. And in fact, unlike works of art, maquillage cannot feed simply off the creative energy of the wearer; it must draw its source of principal inspiration from a series of well-defined experiences. We apply makeup by following a definite model and the success of the action is measured on the basis of the social efficiency that it achieves. Applying makeup is a symbolic and real practice. All this is much more understandable when we reflect on how easy it is for anybody to notice the showiness of excessive makeup, as if each one of us possessed a specific and absolutely iron-clad set of aesthetic rules. In the case of makeup, like no other product, does

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Tom Friedman Le infinite morti e risurrezioni degli oggetti Andrea Bellini

Sotto lo sguardo di Tom Friedman il mondo delle cose inanimate sembra riorganizzarsi magicamente per partecipare ad un ennesimo party delle possibilità, ad una festa brillante di travestimenti. Questo artista del Missouri ha il dono di una visione surreale, iperbolica, protesa a cambiare sistematicamente i connotati degli oggetti, ad esplorarne

nuove soluzioni formali e cromatiche, tipico di personalità come Tony Cragg. Tuttavia la poetica dell’artista americano va ben oltre l’idea di trasformare l’oggetto in segno, ed è molto lontana dalla problematica del “frammento” e del riciclaggio di materiale industriale. Più che ad un determinato risultato formale Friedman è interessato al processo

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Il packaging diviso per sé stesso e moltiplicato dall’arte. Packaging divided by itself and multiplied by art.

tutte le potenzialità espressive. Anche solo sfogliando il prezioso catalogo stampato in occasione della sua mostra personale presso la Fondazione Prada (24 ottobre - 15 dicembre, 2002), si ha la sensazione che tutta la cultura oggettuale degli ultimi vent’anni compia - con questo artista - la sua avventura più estrema e raffinata. Parte del processo immaginativo di Tom Friedman, infatti, affonda le proprie radici nella scultura inglese degli anni Ottanta. Si pensi, ad esempio, al modo di accostare elementi in plastica di vario genere per dar vita a

attraverso cui l’opera si compone: si tratta ogni volta di un procedimento tecnicamente esibito, chiaro e verificabile. Tutti i suoi lavori mostrano ciò che l’oggetto è inizialmente, la modalità attraverso cui si trasforma ed infine ciò che diventa. Questi diversi momenti sono collegati tra loro da un determinato procedimento logico, come accade in un sillogismo aritstotelico, ma si tratta di una logica di crescita circolare, che tende a tornare su se stessa. L’opera dell’artista americano non è altro che il diagramma di questa logica

costruttiva, attraverso la quale l’oggetto si sviluppa nello spazio. Questo genere di operatività investe modalità ed ambiti molto diversi tra loro, per illustrare i quali potremmo fare riferimento anche solo ai materiali provenienti dal mondo del packaging. Cominciamo, ad esempio, dalle confezioni. Il suo primo lavoro su una scatola risale al 1991: si tratta del contenitore di pagliette abrasive di marca Brillo, le cui scritte sono state cancellate dall’artista strofinando tutte le pagliette contenute nella confezione. Se in questo caso la scatola è diventata anonima grazie all’abrasione, in un’altra opera (Senza Titolo,1996) Friedman ha realizzato una costruzione con gli spigoli di cartone di vari prodotti da lui stesso utilizzati nel corso di un anno, in una sorta di autobiografica alimentare sotto forma di prisma geometrizzante (Senza titolo, 1996). In Senza titolo del 1999, l’artista ha tagliato in microscopici quadratini nove confezioni di cereali di marca Total, e combinandoli tra loro ha ottenuto un’unica grande scatola di 80 cm x 54 x 17, del tutto simile a quelle di partenza. Con il medesimo procedimento, in Senza titolo del 2002, ha ritagliato in quadratini una confezione di


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cereali Lucky Charms che poi ha ricomposto a formare quattro scatole di dimensioni più piccole. In Open (2002), al contrario, la scatola è stata tagliata lasciando solo gli spigoli e gli angoli, per cui è rimasta semplicemente la struttura perimetrale, come fosse il suo scheletro. Utilizzando ancora confezioni di prodotti di consumo, Friedman ha realizzato nel 2002 una complessa struttura aerea, nella quale al caos di scritte e immagini di prodotti si alternano fotografie di personaggi famosi, in una sorta di rappresentazione carnevalesca dello star system contemporaneo. In un lavoro recente ha poi incollato palline di polistirolo bianche sull’intera superficie di un cartone da imballaggio anonimo, creando un oggetto quasi vivo, intento a trasudare una nebbiolina bianca (Untitled, 2002). Nell’immaginazione dell’artista il packaging è quindi esploso, cancellato, moltiplicato, ingigantito, diviene motivo formale ed anche autobiografico, fino ad incarnare la perfetta metafora del caos attuale. Lo sguardo dell’artista americano si posa inoltre su altri materiali tipici dell’imballaggio, come il polistirolo o le “noccioline” antiurto rosa. Lavorando un blocco di polistirolo Friedman

ha ottenuto ad esempio una sagoma del proprio corpo in piedi, un candido autoritratto miniaturizzato. Con un procedimento simile, per via di togliere, ha ricavato una torre appuntita che si erge per 60 cm sopra un mucchio circolare di palline bianche. Incollando tra loro le tipiche noccioline da imballaggio rosa, quelle a forma di “S”, ha poi costruito un cubo perfetto di 56 cm x 56 x 56. Facendo ricorso al packaging egli riesce insomma a ripercorrere l’intero sviluppo dell’arte degli ultimi quarant’anni, dalla Pop art al minimalismo, fino a fare il verso a Richard Long, con una forma circolare disposta sul pavimento e composta da tanti involucri di cannucce di plastica (Senza titolo, 1998). L’accelerazione immaginativa di Tom Friedman dona insomma nuova vita agli oggetti, li sposta da un bordo all’altro del destino, mostrandone i talenti nascosti, le qualità insospettabili. Il piacere che deriva dall’incontro con i suoi lavori è infatti un piacere di natura conoscitiva, riassumibile nell’emozione di scoprire la vita sotterranea degli oggetti e le potenzialità illimitate della materia.

Andrea Bellini è critico d'arte e curatore. Scrive per Flash Art.



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Tom Friedman The infinite demise and resurrection of objects Andrea Bellini

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Under the magical spell of Tom Friedman, the world of inanimate objects seems to take on a new identity, becoming part of yet another celebration of possibilities, a dazzling masquerade. The Missouri-born artist has the gift of the surreal, a larger-than-life vision that systematically transforms the meaning of objects to probe the depth of their expressive potential. Leafing through the rich catalogue printed especially for his solo exhibition at the Fondazione Prada (from 24 October to 15 December 2002), one has the impression that object culture of the past twenty years fulfils its most outrageous and sophisticated adventure with this artist. Part of Tom Friedman's creative process is rooted in English sculpture of the eighties. His background is evident in his penchant for combining unrelated plastic elements in order to give life to new formal and chromatic solutions, typical of artists such as Tony Cragg. However, the philosophy behind the work of the American artist is much more than just transforming the object into a symbol, just as it is quite removed from the question of the "fragment" and recycling industrial materials. Beyond the concrete formal result, Friedman is interested in the methodology whereby the work is created: each time, it is a process that is technically clear, verifiable and demonstrable. All of his works illustrate exactly what the object started out as, the means by which it was transformed, and finally, what it has become. The phases are connected together by a definite and logical procedure, like Aristotelian syllogism, but it is a


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circular logic, that tends to close onto itself. The work of the American artist is none other than a physical representation of this logic, by means of which the object develops in space. This type of work uses a host of methods and situations, to illustrate which ones we make reference to, even only to materials originating from the world of packaging. Let's begin with the packages, for instance. Friedman's first work using product packaging dates back to 1991. The artist took a box of Brillo scouring pads and rubbed out the writing on the box using the pads contained inside. While in this work, the box was rendered anonymous by the scouring action, a subsequent work (Untitled) in 1996 glorified product identity. Friedman built a structure using the corners of the product packages he used over a year's time, creating a sort of dietary autobiography in the form of a geometric prism (Untitled, 1996). In Untitled of 1999, Friedman cut nine Total cereal boxes into tiny squares and reassembled them to make a single box measuring 80 x 54 x 17 cm. The artist used a similar procedure in his Untitled of 2002, dissecting a Lucky Charms cereal box into tiny squares, but this time putting the pieces back together to make four smaller boxes. Then, in Open (2002), he cut apart the box to leave only the corners and seams, which left practically only the skeletal outer structure. Taking consumer product packaging to another level in 2002, Friedman conceived a complex flying structure, where likenesses of celebrities alternate in a frenzied vortex of product slogans and images, in a sort of farcical view of the contemporary star system. In a recent work, he glued balls of white Styrofoam to the inside and outside surfaces of

an ordinary packing box, creating a highly energized object, intent on oozing a little white cloud (Untitled, 2002). In the artist's imagination, packaging bursts open; it is erased, multiplied, and enlarged, becoming the formal motif as well as an autobiographical statement. For him, packaging embodies the ultimate metaphor for modern-day madness. Friedman also turns his attention to other materials typical of packaging, such as Styrofoam or pink packaging peanuts. Taking a block of Styrofoam, the artist carved an outline of his own body while standing, a candid miniaturized self-portrait. Using a similar procedure, Friedman crafted a pointed tower rising 60 cm over a rounded mound of tiny white balls. By gluing together the ubiquitous S-shaped pink packaging peanuts, Friedman constructed a perfect cube, measuring 56 cm on each side. Using packaging materials, the American artist is able to retrace the entire evolution of art of the past forty years, touching on movements from Pop Art to Minimalism, right up to his tribute to Richard Long's footprint art, with a circular pattern laid out on the floor and made up of hundreds of plastic straw wrappers (Untitled, 1998). The imaginative acceleration of Tom Friedman injects new life into objects, moving them from one side of destiny to the other, revealing their hidden potential, previously unimaginable possibilities. The pleasure you feel when viewing his works is a cognitive pleasure, encapsulated in the thrill of discovering the concealed energy of objects and the unlimited potential of materials. Andrea Bellini is art critic and curator. He writes for Flash Art.


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The Kinder Identity Rompere l’involucro per guardare dentro il soggetto Slavoj Zizek

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Tra i prodotti per bambini più famosi in Europa ci sono i cosiddetti Ovetti Kinder, piccole uova di cioccolato vuote, avvolte in una carta stagnola a vivaci colori: dopo che si è strappato l’involucro e si è rotto il guscio di cioccolato, ci si trova dentro un giocattolino di plastica, o gli elementi per costruirselo da soli. Un bambino che compri l’ovetto di cioccolato, ne rompa nervosamente il guscio senza neanche mangiarlo, ma cercando invece il giocattolino nascosto, è forse la perfetta esemplificazione del motto d’amore coniato da uno psicoanalista come Jacques Lacan, secondo cui: “Io ti amo, ma, inspiegabilmente, amo in te qualcosa più di te stesso, e perciò ti distruggo”. Effettivamente, l’ovetto Kinder ha lo stesso significato di ciò che proprio Lacan chiamava l’objet petit a (l’ “oggetto a minuscola”), il piccolo oggetto che riem-


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pie il vuoto costitutivo del nostro desiderio, il tesoro misterioso celato nel cuore della cosa che desideriamo. Il vuoto effettivo che sta dentro l’ovetto di cioccolato rende palpabile la lacuna strutturale in forza della quale nessuna merce è “realmente Questo”, nessun prodotto soddisfa le aspettative che suscita. L’ovetto Kinder contiene quindi la formula tipica di tutti quei prodotti che promettono “di più” di ciò che effettivamente offrono (“Compra un registratore DVD e prendi 5 DVD gratis!”, o, in un modo ancor più diretto, “Compra questo dentifricio e avrai il 30% gratis!”, per non parlare del trucco standard tipico della bottiglia di Coca-cola (“Guarda sotto il tappo e scopri se hai vinto un premio, da un’altra Coca-cola gratis a una fuoriserie nuova di zecca!”). La funzione di questo “di più” è quella di riempire la mancanza di un “di meno”, di compensare il fatto che, per definizione, la merce non manterrà mai la sua (fantasmatica) promessa. In altri termini, la merce definitivamente “reale” sarebbe quella che non necessita di alcun altro supplemento, quella che semplicemente soddisfa ciò che promette – “prendi quello che compri, né più né meno”.

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Ora, non scorgiamo qui una chiara analogia fra la struttura appena descritta della merce e la struttura del moderno soggetto universale? Il classico soggetto universale dei Diritti Umani, non funziona un po’ come una sorta di ovetto Kinder? In Francia è ancora possibile comprare un dolcetto dal nome vagamente razzista di téte du negre, testa di negro; una torta di cioccolato a forma di palla, cava all’interno (“proprio come la stupida testa di un negro”). La risposta umanista-universalista alla téte du negre non sarà per caso qualcosa di simile all’ovetto Kinder? Infatti, nel caso degli individui umani, possiamo essere fatti di cioccolato bianco, di cioccolato al latte, di cioccolato fondente, con o senza nocciole - ma dentro c’è sempre lo stesso giochino di plastica (a differenza, in questo caso, dell’ovetto Kinder, che è sempre uguale fuori, ma che ha giochini sempre diversi dentro). Naturalmente, il giocattolino di plastica può essere letto in modi ideologicamente differenti: chi crede nei valori americani è segretamente convinto che, dopo che ci si è sbarazzati del cioccolato in tutte le sue varianti etniche, si incontra alla fine un giocattolo di plastica che somiglia ad un americano (anche se con ogni probabilità è made in China) - ossia: “nel profondo, sotto la pelle, tutti quanti vogliamo essere americani”. Una versione altrettanto umanista ma meno apertamente ideologica metterebbe le cose nei termini più neutrali del mistero: noi possiamo essere indefinitamente differenti, alcuni sono neri, altri bianchi, alcuni alti, altri donne o uomini, alcuni ricchi, altri poveri, eccetera eccetera - ma, nel nostro intimo, c’è sempre lo stesso equivalente morale del giocattolino di plastica, lo stesso je ne sais quoi, l’incognita X elusiva, che in qualche modo testimonia della dignità di fondo condivisa da tutti gli esseri umani - ossia, per citare L’uomo oltre l’uomo (Our Posthuman Future) di Francis Fukuyama:


Il nostro desiderio di uguaglianza implica che, una volta rimosse le caratteristiche accidentali o contingenti di una persona, ciò che rimane sia una qualità umana essenziale, degna di un certo rispetto - che chiameremo fattore X. Il colore della pelle, l’aspetto, la classe sociale, la ricchezza, il sesso, il livello culturale, e persino i talenti naturali di ognuno sono considerati casuali, e vengono relegati al ruolo di caratteristiche non essenziali … Ma in un contesto politico dobbiamo attribuire a tutti pari dignità sulla base del possesso del fattore X. (trad. it. Mondadori, 2002, p. 204)

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Per farla breve, ciò di cui Fukuyama ha paura è che, se ci occupiamo troppo della produzione dell’uovo di cioccolato, potremmo creare un ovetto senza il gioco di plastica dentro - in che senso? Fukuyama non ha tutti i torti nel sottolineare che è cruciale che si faccia esperienza delle nostre caratteristiche ‘naturali’ come di un che di contingente e fortuito: se il mio vicino è più intelligente o più bello di me, è perché è stato fortunato a nascere proprio così, e nemmeno i suoi genitori hanno potuto progettarlo esattamente in quel modo. Il paradosso filosofico è che, se togliamo via questo elemento di casualità fortuita, se le nostre caratteristiche ‘naturali’ diventano controllabili e regolabili dalla biogenetica e da altre manipolazioni scientifiche, ciò che va perso è proprio il Fattore X.

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C’è, naturalmente, anche un modo opposto per sfruttare l’esempio dell’ovetto Kinder: basta pensare al fatto che la copertura di cioccolato è sempre la stessa, mentre il giochino all’interno è sempre diverso (da cui il nome commerciale di Kinder sorpresa) - non è la stessa cosa con gli esseri umani? Possiamo sembrare tutti identici ma, dentro, c’è il mistero della nostra psiche, ognuno di noi racchiude un mondo interiore di proporzioni abissali. Il fatto è che l’X misteriosa, l’intimo tesoro del nostro essere, potrebbe anche rivelarsi come una mostruosità escrementizia. La metafora anale è qui pienamente giustificata: l’apparenza immediata dell’interiorità è un informe ammasso escrementizio. Il bambino piccolo che offre la sua cacca come un dono sta, in un certo senso, offrendo l’equivalente immediato del suo fattore X. La ben nota idea di Freud dell’escremento come forma primordiale di dono, di oggetto interno che il bambino offre ai genitori, non è così ingenua come potrebbe sembrare: il punto spesso trascurato è che questo pezzetto di me stesso offerto all’Altro oscilla radicalmente fra il Sublime e, non tanto il ridicolo, ma precisamente l’escrementizio. Questa è la ragione secondo cui, per Lacan, una delle caratteristiche che distingue l’uomo dagli animali è che, negli uomini, l’evacuazione delle feci diventa un problema: non perché abbiano un cattivo odore, ma perché provengono dalla nostra profonda interiorità. Ci vergogniamo delle feci perché, in esse, noi esponiamo/esteriorizziamo la nostra intimità più privata. Gli animali non hanno nessun problema con le feci perché non hanno un ‘dentro’ come gli uomini. Potremmo anche fare riferimento al filosofo austriaco Otto Weininger (autore di Sesso e carattere, morto suicida nel 1903) il quale, nei suoi frammenti postumi pubblicati sotto il titolo Ueber die letzten Dinge - Sulle cose ultime, designava la lava vulcanica come “der Dreck der Erde” (“le feci della Terra”). La lava viene da dentro il corpo, e questo dentro è malvagio, cri-


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minale: “l’interno dei corpi è delinquenziale”. Qui ci imbattiamo nella stessa ambiguità teorica del pene, organo dell’urinazione e della procreazione: quando il nostro interno è direttamente esteriorizzato, il risultato è disgustoso. La merda esteriorizzata è precisamente l’equivalente del mostro alieno che colonizza il corpo umano, penetrandolo e dominandolo da dentro, e che, nel momento topico di ogni film di fantascienza orrorifico, salta fuori dal corpo attraverso la bocca o direttamente dall’addome. Forse, anche più esemplare di Alien (Ridley Scott, 1978) è, da questo punto di vista Hidden, di Jack Sholder, in cui una creatura aliena vermiforme cacciata fuori da un corpo alla fine del film evoca direttamente associazioni anali: un gigantesco pezzo di merda, dato che l’alieno costringe gli umani che penetra a mangiare voracemente e a vomitare in un modo imbarazzante e disgustoso.

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Quindi, il Fattore X non solo garantisce l’identità soggiacente di soggetti differenti, ma anche l’identità continuativa dello stesso soggetto. Vent’anni fa, il National Geographic aveva pubblicato la famosa fotografia di una giovane donna afghana dai fieri e brillanti occhi verdi; nel 2001, la stessa donna fu identificata in Afghanistan - e benché il suo viso fosse mutato, fosse divenuto più scuro e la pelle raggrinzita e logorata dalle dure condizioni di vita e dal lavoro pesante, i suoi occhi intensi erano istantaneamente riconoscibili come fattore di continuità. Un tale riferimento al Fattore X potrebbe essere preso come l’argomento definitivo contro la moda: ciò che conta realmente è questo X, non il modo con cui è rivestito… Tuttavia, c’è un problema a proposito di questo famoso Fattore X. Due decenni orsono, il settimanale tedesco di sinistra Stern, fece un esperimento piuttosto crudele: pagò una coppia di barboni randagi, un uomo e una donna, che accettarono di farsi lavare a fondo, di farsi sbarbare e pettinare, e che poi furono consegnati ad acconciatori e a stilisti di moda; in seguito furono pubblicate due grandi foto in parallelo dello stesso individuo, da un lato nei suoi panni abituali di homeless, sporco e con la barba lunga, e dall’altro rivestito alla moda da uno stilista. Il risultato era effettivamente sconcertante: benché fosse chiaro che si aveva di fronte la stessa persona, l’effetto del vestito diverso, dell’acconciatura, ecc., faceva sì che la nostra convinzione - secondo cui, sotto apparenze diverse, ci sia sempre la stessa persona - venisse scossa. Non era solo l’apparenza ad essere diversa: l’effetto profondamente disturbante di questo cambio di apparenze era che noi, i lettori, in qualche modo percepivamo una personalità differente sotto quelle apparenze… Stern fu bombardato da lettere di protesta che accusavano il giornale di aver violato la dignità personale degli homeless, di averli umiliati, sottomettendoli a un gioco crudele - in effetti, ciò che l’esperimento aveva messo in discussione era precisamente la fede nel Fattore X, il nocciolo dell’identità che testimonia della nostra dignità e persiste sotto il variare delle apparenze superficiali. In breve, questo esperimento, in un modo quasi empirico, dimostra che noi tutti abbiamo una téte de negre, che il nucleo della nostra soggettività è un vuoto riempito dalle apparenze.


Slavoj Zizek è uno dei piÚ discussi filosofi contemporanei, vive tra Lubiana e gli Stati Uniti,dove sono stati pubblicati la maggior parte dei suoi saggi, tradotti anche in francese e tedesco; in italiano si possono leggere Il Grande Altro (Feltrinelli, 1999) e Benvenuti nel deserto del reale (Meltemi, 2002)


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The Kinder identity Break open the wrapper to look at what’s inside Slavoj Zizek

One of the most popular chocolate products on sale all around Europe are so-called Kinder Surprise, empty egg shells made of chocolate and wrapped up in lively-colored paper: after one unwraps the egg and cracks the chocolate shell open, one finds in it a small plastic toy (or small parts from which a toy is to be set together). A child who buys this chocolate egg often nervously unwraps it and just breaks the chocolate, not bothering to eat it at all, caring only about the toy in the center - is such a chocolate-lover not the perfect exemplification of Lacan's motto "I love you, but, inexplicably, I love something in you more than yourself, and, therefore, I destroy you".

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And, effectively, is this toy not what the famous French psychoanalyst Jacques Lacan called l'objet petit a ("das Object kleines a"), the small object filling in the central void of our desire, the mysterious hidden treasure in the center of the thing we desire. The material void in the center of the chocolate egg stands for the structural gap on account of which no commodity "really THAT", no product leaves up to the expectation it arises. The Kinder egg therefore provides the formula for all the products which promise "more" ("buy a DVD player and get 5 DVD's for free", or, in an even more direct form, more of the same - "buy this toothpaste and get one third more for free"), not to mention the standard trick with the Coca Cola bottle ("look on the inside of the metal cover and you may find that

you are the winner of one of the prizes, from another free Coke to a brand new car"). The function of this "more" is to fill in the lack of a "less" to compensate for the fact that, by definition, a merchandise never delivers on its (fantasmatic) promise. In other words, the ultimate "true" merchandise would be the one which would not need any supplement, the one which would simply fully deliver what it promises "you get what you paid for, neither less nor more". And is not there a clear homology between the above-described structure of the commodity and the structure of the modern universal subject? Does the subject of universal Human Rights also not function as a kind of Kinder chocolate egg? In France, it is still possible to buy a desert with the racist name la tete du negre /the nigger's head: a ball-like chocolate cake empty in its interior ("like the stupid nigger's head"). And would the humanistuniversalist reply to the tete du negre not be precisely something like a Kinder egg? So, with humans, it can be a white chocolate, a standard milk chocolate, a dark one, with or without nuts or raisins - but inside it, there is always the same plastic toy (in contrast to the Kinder eggs which are the same on the outside, while each has a different toy hidden inside). Of course, the hidden plastic toy can be given a specific ideological twist: those who believe in America are secretly convinced that, after one gets rid of the chocolate in all its ethnic variations, one always encounter a plastic toy which looks like an American (even if the toy is in all probability made in China) - "deep beneath our skin, we all want to be Americans". A less openly ideological humanist would have put it in more neutral terms of a mystery: we may be indefinitely different, some of us are black, others white, some tall, other small, some women, other men, some rich, others poor, etc.etc. - yet, deep inside us, there is the same moral equivalent of the plastic toy, the same je ne sais


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quoi, an elusive X which somehow accounts for the dignity shared by all humans - to quote Francis Fukuyama's Our Posthuman Future: "What the demand for equality of recognition implies is that when we strip all of a person's contingent and accidental characteristics away, there remains some essential human quality underneath that is worthy of a certain minimal level of respect - call it Factor X. Skin, color, looks, social class and wealth, gender, cultural background, and even one's natural talents are all accidents of birth relegated to the class of nonessential characteristics. ‌ But in the political realm we are required to respect people equally on the basis of their possession of Factor X" .

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And, to cut a long story short, what Fukuyama is afraid of is that, if we mess to much into the production of the chocolate egg, we might generate an egg without the plastic toy inside how? Fukuyama is quite right to emphasize that it is crucial that we experience our "natural" properties as a matter of contingency and luck: if my neighbor is more beautiful or intelligent than me, it is because he was lucky to be born like that, and even his parents could not have planned it that way. The philosophical paradox is that if we take away this element of lucky chance, if our "natural" properties become controlled and regulated by biogenetic and other scientific manipulations, we lose the Factor X. There is, of course, also the opposite way to exploit the example of Kinder eggs: why not focus on the fact that the chocolate cover is always the same, while the toy in the middle is always different (which is why the name of the product is Kinder Surprise) - is this not how it is with human beings? We may look similar, but inside, there is a mystery of our psyche, each of

us hides an inner wealth of abyssal proportions. This mysterious X, the inner treasure of our being, can also reveal itself as an excremental monstrosity. The anal association is here fully justified: the immediate appearance of the Inner is formless shit. The small child who gives his shit as a present is in a way giving the immediate equivalent of his Factor X. Freud's well-known idea of excrement as the primordial form of gift, of an innermost object that the small child gives to the parents, is thus not as naive as it may appear: the often overlooked point is that this piece of myself offered to the Other radically oscillates between the Sublime and - not the Ridiculous, but, precisely - the excremental. This is the reason why, for Lacan, one of the features which distinguishes man from animals is that, with humans, the disposal of shit becomes a problem: not because it has a bad smell, but because it came out from our innermost. We are ashamed of shit because, in it, we expose/externalize our innermost intimacy. Animals do not have a problem with it because they do not have an "interior" like humans. One should refer here to Otto Weininger, who (in his posthumous fragments published under the title Ueber die letzten Dinge) designated volcanic lava as "der Dreck der Erde." It comes from inside the body, and this inside is evil, criminal: "Das Innere des Koerpers ist sehr verbrecherisch." Here we encounter the same speculative ambiguity as with penis, organ of urination and procreativity: when our innermost is directly externalized, the result is disgusting. This externalized shit is precisely the equivalent of the alien monster that colonizes the human body, penetrating it and dominating it from within, and which, at the climactic moment of a sciencefiction horror movie, breaks out of the body through the mouth or directly through the chest. Perhaps even more exemplary than Ridley


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Scott's Alien is here Jack Sholder's Hidden, in which the worm-like alien creature forced out of the body at the film's end directly evokes anal associations: a gigantic piece of shit, since the alien compels humans penetrated by It to eat voraciously and belch in an embarrassingly disgusting way. The Factor X does not only guarantee the underlying identity of different subjects, but also the continuing identity of the same subject. Twenty years ago, National Geographic published the famous photo of a young Afghani woman with fierce bright yellow eyes; in 2001, the same woman was identified in Afghanistan although her face was changed, darker, the skin rough and worn out from difficult life and heavy work, her intense eyes were instantly recognizable as the factor of continuity. And is such a reference to Factor X not the ultimate argument against taking fashion seriously: what really matters is this X, not the way it is dressed up‌

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However, there is a problem with this Factor X. Two decades ago, the German Leftist weekly journal Stern made a rather cruel experiment: it paid a couple of destitute homeless man and woman who allowed themselves to be thoroughly washed, shaved and then delivered to the top designers and hairdressers; in one of its issues,

the journal then published two parallel large photos of each person, in his/her destitute homeless habit, dirty and with unshaved faces, and dressed up by a top designer. The result was effectively uncanny: although it was clear that we are dealing with the same person, the effect of the different dress etc. was that this belief of ours that, beneath the different appearance, there is one and the same person was shaken. It is not only the appearance which was different: the deeply disturbing effect of this change of appearances was that we, the spectators, somehow perceived a different personality beneath the appearances‌ Stern was bombarded by writers' letters accusing the journal of violating the homeless persons' dignity, of humiliating them, submitting them to a cruel joke - however, what was undermined by this experiment was precisely the belief in Factor X, in the kernel of identity which accounts for our dignity and persists through the change of appearances. In short, this experiment in a way empirically demonstrated that we all have a nigger's head that the core of our subjectivity is a void filled in by appearances.

Slavoj Zizek is one of the most controversial contemporary philosophers. He lives between Ljubjana and the United States, where most of his writings have been published, that have also been translated into French, German and some into Italian.


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rimmel

Il battito di ciglia dell’artista contemporaneo Marco Senaldi “…E dolce Venere di rimmel” F. De Gregori


This is about you, 1974 L’artista svizzero Urs Luthi en travesti The Swiss artist Urs Luthi en travesti


L’arte del corpo viene collegata per antonomasia all’idea di nudo, cioè di corpo non solo svestito ma anche spogliato, disadorno, svuotato di segni e simboli – quindi non decorato né “truccato”. Eppure, una delle prime performance che storicamente hanno segnato l’ingresso del corpo direttamente nell’alveo artistico, cioè la famosa Anthropométrie di Yves Klein (1960), consisteva non tanto nell’esibizione di corpi nudi di modelle, ma nel fatto che quei corpi erano ricoperti da un maquillage del tutto speciale, il famoso “blu klein”, un colore specifico rigorosamente brevettato dal suo inventore; i corpi-timbri imprimevano la loro silhouette sulla tela inchiostrati da questo colore. Recentemente, in un modo ironicamente postmoderno, Rachel Lachowitz, con una performance intitolata Red not Blue (1992, Shoshana Wayne Gallery, Santa Monica) ha rovesciato il latente maschilismo dell’opera di Klein, utilizzando al posto di una donna un modello maschio, il cui corpo è stato inchiostrato con il più classico dei trucchi femminili: il rossetto. Il rossetto riporta al tema del trucco del viso, ma nel viso, l’organo che è preposto per natura alla fruizione di

quelle che non a caso sono dette arti “visive” è l’occhio. Numerosi artisti si sono interessati al trasformismo ottenuto grazie al trucco, e a quello degli occhi in particolare: da Duchamp in versione Rrose Selavy, a Warhol in veste di drag queen. Giorgio Ciam ad esempio si era fatto fotografare in decine di camuffamenti diversi che ne stravolgevano l’identità; il francese Michel Journiac addirittura si era truccato con le fattezze del proprio padre e della propria madre; negli anni 80 e 90 Cindy Sherman ha impersonato decine di possibili “eroine” o “tipi antropologici” contemporanei, grazie ad abili camuffamenti. Ma la palma del makeup spetta senz’altro allo svizzero Urs Luthi, i cui ritratti fotografici en travesti sono un manifesto visuale sull’importanza del mascara nella definizione dell’identità. Qui storia del costume e storia delle arti contemporanee si incrociano. In effetti, osservando attentamente i ritratti di Luthi si coglie non solo l’ambiguità del maschio travestito da femmina, ma l’ambiguità propria della femmina nella sua versione “fatale”, nel suo travestimento “come se stessa”. La fine degli anni 60 e la prima metà degli anni 60, periodo a

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DA DUCHAMP A WARHOL, A URS LUTHI, L’OCCHIO È L’ORGANO DEL VEDERE E DELL’ESSERE VISTI.

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FROM DUCHAMP TO WARHOL TO URS LUTHI, THE EYE IS THE ORGAN OF SEEING AND OF BEING SEEN.

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Photo by Manola Marchesi


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cui appartiene il ritratto fotografico di Luthi, sono il decennio dell’occhio profondamente truccato, eccessivamente sottolineato, quasi patologicamente segnalato dalla sparizione pressocché totale del sopracciglio, e infine “marcato” sullo sfondo di bocche esangui e corpi ultrasottili, alla Twiggy. Certi ritratti della Mina dagli occhi ultrarimmellosi – forse anche per le necessità visuali di una tv allora per lo più in bianco e nero si spiegano nell’atmosfera estetica del tempo: l’occhio pesantemente ombrettato segna un’epoca in cui le identità si fanno meno certe, un’età di crisi e di ripensamento, in cui i visi tendono fatalmente al cliché del pierrot, candido personaggio della malinconia e dell’occhio languido, o alla bellezza stereotipata, e perciò ambigua, delle dive del muto o delle maschere giapponesi. Senza dubbio c’è un legame dichiarato tra ambito artistico e tendenze massmediali, come prova il fatto che le foto di artisti come Luthi, Klauke e Sieverding vennero esposte nel 1974 a fianco delle icone di divi ultratruccati come David Bowie, Brian Eno e Lou Reed. In un caso come

nell’altro, l’occhio bordato di rimmel è una messa in causa dell’identità, e una linea sottile, una eyeline verrebbe da dire, collega quelle icone ad altre più recenti, ai visi pallidi delle schiere di punk e soprattutto dark che segnano il passaggio dei decenni e l’occhio bistrato di Robert Smith, cantante dei Cure indica come un elemento della moda sia divenuto un distintivo di riconoscimento all’interno del variegato vocabolario somatico delle urban tribes. E’ solo più tardi, negli anni 80, che si verifica un ritorno all’ordine, una ri-

normalizzazione del volto, e insieme la sua elevazione sociale: lo avevano capito per primi proprio ex bad guys non a caso post-punk come Johnny Rotten, il cui famoso gruppo (succedaneo inevitabile dei mitici Sex Pistols), portava il nome di Public Image, e il cui primo album inalberava un volto di sconcertante “normalità” la stessa normalità “mimetica” che contraddistinguerà lo stile Talking Heads. Certo il trucco non scompare anzi, se ne generalizza l’impiego: ma alle faccione da carnevale dei Kiss o alle teste pelate color argento dei Rockets si sostituiscono il look calcolatissimo dei Roxy Music, le méches degli Spandau Ballet, o il kajal appena accennato sugli occhioni bambocceschi di Simon LeBon.


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NEGLI ANNI 80 ANCHE L’IRRIDUCIBILE PUNK JOHNNY ROTTEN SI RIPULISCE LA FACCIA E SI TRUCCA DA GOOD GUY.

IN THE 80S EVEN THE IRREDUCIBLE PUNK JOHNNY ROTTEN WASHED HIS FACE, MAKING HIMSELF UP AS A GOOD GUY. 1/03 73


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L’imperativo cosmetico dagli anni 80 in poi diventa così il mat: secondo questo dettame, la pelle di ogni volto doveva essere necessariamente, indiscutibilmente, inderogabilmente opaca: ossia compatta, omogenea, monocroma (e sono cose tutte da sempre apprezzabili come canoni del bello, soprattutto muliebre) ma in particolare non-riflettente, ossia a tutti i costi non traslucida, e soprattutto attrezzata di occhi semplificati, fino ad arrivare alla sublime finzione del cosiddetto “trucco invisibile”, o “trucco acqua e sapone” (un difficilissimo make up grazie a cui, dopo ore di seduta dall’estetista, sembrava di “non essersi per nulla truccati”). Il motivo di tanta ostinazione è presto spiegato: gli anni 80 inaugurano una nuova sensibilità che vuol essere a tutti i costi raffinata e che aborre la cafonaggine, la pacchianeria, il cheap, anche a costo di ricadere (come è inevitabile) in quella tipica volgarità consistente nel cercar di nascondere maldestramente la volgarità stessa… Dunque, se è vera l’equivalenza per cui tutto ciò che è vistoso, lucido, riflettente, brillante = volgare, allora, per semplice rovesciamento sarà raffinato, chic, impeccabile, ricercato, solo ciò che non riflette ossia è mat. Un opaco che poi dilaga dal corpo ai suoi dintorni: e allora addio ai pavimenti tirati a cera dalle nonne e dalle tate, e sì ai pavimenti di pietra serena e di cotto umbro; addio alle paillettes e alle scarpe di vernice, e sì ai mocassini scamosciati Tod’s e alle giacche di lino taglio Armani, addio ai flatting e agli smalti brillanti, e vai con i mobili Ikea mordentati e le finiture opache in schiuma di gomma…

Implacabile, però, la moda compie il suo giro, ed ecco che recentemente le cose si sono invertite ancora una volta: timidamente ricompaiono trucchi ogni volta un po’ più accentuati, linee degli occhi che si ricaricano di mascara, ciglia che si allungano, e perfino i primi titubanti lustrini, anche da portare sul viso. Finché un bel dì qualche visagista opta decisamente per un “ritorno al bagnato”, ed è il trionfo del wet look: ricompaiono mascara addirittura sbavati da pseudo-lacrime (con buona pace del fatto che ottenere oggi questo effetto è un complesso lavoro di make-up, dato che la maggior parte dei mascara sono water-resistant), guance lustre come per una inattendibile sudata, occhi pesti e arrossati come da improbabile eroinomane. Ed è forse per questo che proprio oggi quando di nuovo le certezze, anche effimere, vanno rapidamente disfacendosi e le identità sono davvero, profondamente, in crisi tornano di moda quegli artisti che sembravano solo dei provocatori incomprensibili e che invece erano avanti di decenni sul gusto condiviso: come Bruce Nauman che nel 1967 si era alternativamente ripreso mentre si trucca il volto di bianco, di rosso, di giallo e di nero (Art Make-Up Films). Una riflessione su come sia difficile stabilire di che “razza sia” la nostra identità individuale e collettiva.

Marco Senaldi si occupa di estetica e arte contemporanea; ha recentemente pubblicato il saggio Enjoy! Il godimento estetico, Meltemi, 2003



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Rimmel The blink of the contemporary artist

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Marco Senaldi

Body art is bound up by antonomasia to the idea of the nude, i.e., not just the naked body, but the body stripped of its clothes, without adornment, without signs or symbols and therefore not decorated or “made-up”. And yet one of the first performances that historically marks the entrance of bodyart in the artistic world - the famous Anthropométrie by Yves Klein (1960) - consists not so much in the exhibition of nude models' bodies, but in the fact that those bodies were covered by a really special makeup, the famous “klein blue”, a specific color patented by its inventor. The body-stamps inked with this color impressed their silhouette on the canvases. More recently, in an ironically post-modern manner and with a performance titled Red not Blue (1992, Shoshana Wayne Gallery, Santa Monica), Rachel Lachowitz reversed the latent male chauvinism of Klein's work by using a male model instead of a woman and whose body was inked with the most classic of all female makeup: lipstick. In fact, the topical element is always and especially the face and, in the face, the organ that is, by its very nature, suited to enjoying what are called (not by chance) the “visual arts”: the eye. Numerous artists have shown an interest in the transformism possible thanks to makeup and eye makeup in particular: from Duchamp with Rrose Selavy to Warhol and the Drag Queen. Giorgio Ciam, for instance, was photographed in dozens of different disguises to upset his identity; Michel Journiac of France even made himself up to reflect the features of his father and his mother; in the '80s and '90s Cindy Sherman impersonated dozens of possible contemporary “heroines” or

“anthropologic types”, thanks to clever disguises. But the top prize for makeup must go to Urs Luthi of Switzerland, whose portrait photos of transvestites are visual proof of the importance of mascara in defining one's identity. This is where the history of costume and the history of contemporary art meet. Indeed, if one observes Luthi's portraits carefully, it's possible to appreciate not just the ambiguity of the male dressed up as a female, but also the ambiguity of the female herself in her “femme fatale” role, in a parody “as herself”. The late 60's and the first half of the 70s - the period to which Luthi's portraits belong - form the decade when the eye was heavily made up, with excessive outlining, almost pathologically highlighted by the virtual disappearance of the eyebrows, standing out on a background of blooddrained lips and ultra-thin bodies, such as Twiggy. Certain portraits of Mina in the 70s with mascara thick eyes perhaps also for specific visual needs for the mostly black and white TV of the day should be seen in the aesthetic context of the time: the heavily shadowed eye marks an age where identities are becoming less certain, an age of crisis and rethinking, where faces tend fatally to copy the Pierrot clichè - that candid character full of melancholy and a languid eye - or the stereotype beauty (and thus ambiguous beauty) of the goddesses of the silent screen or Japanese masks. There's no doubt that there's a clear link between the artistic world and mass media trends, as is proved by the fact that the photos of artists such as Luthi, Klauke and Sieverding were shown in 1974 alongside the icons of heavily made-up gods such as David Bowie, Brian Eno and Lou Reed. To quote just one example, the mascara outlined eye is a way of questioning identity and there's a thin line an eyeline one might say - connecting those icons to other, more recent ones, to the cohorts of punks and aboveall darks marking the passing of the decades and the eyeblacked eye of the singer


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flashy, reflecting and bright = vulgar, then by simply reversing this only things that do not reflect, i.e. are mat, will be refined, chic, impeccable, elegant. This attribute (mat) spreads from the body to its surroundings: no to highly waxed floors, yes to serene stone and terracotta floors; goodbye to sequins and patent shoes, yes to Tod’s suede moccasins and Armani-cut linen jackets; goodbye to flatting and shiny varnish and hello to stained Ikea furniture and mat latex foam finishes … But fashion must, needs be, turn full circle and so here we are: things have been reversed once again. The makeup of the past has slowly, shyly been making a come-back: faces are more defined, eyes are loaded with mascara, eyebrows are getting longer and there are the first hesitant sequins, even worn on the face. Then some brave beautician has decided to go for a “return to the wet-look”: mascaras have reappeared with pseudo-tears (forget the fact that a complex makeup job is needed in order to get this effect, given that most mascaras are water-resistant), shiny cheeks as though suddenly hot and sweaty, black eyes and red eyes like an improbable heroin addict. And it's perhaps for this very reason that today when people's certainties, even the most ephemeral, are quickly disappearing and identities are in deep, serious crisis those artists who once seemed merely misunderstood agents provocateurs are now back in vogue. They were, in fact, some two decades ahead of common trends. Such as Bruce Nauman who was variously portrayed in 1967 while painting his face white, red, yellow and black (Art Makeup Films). A reflection on how difficult it is to establish which “race” our individual and collective identity belongs to.

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Marco Senaldi is contemporary art critic and philosopher; he has recently published the essay Enjoy! Il godimento estetico, Meltemi, 2003.

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Robert Smith of the Cure shows how a fashion trend has been a distinctive feature within the variegated somatic vocabulary of the urban tribes. It's only later, in the 80s, that there's a return to order, a re-normalisation of the face and its social elevation at the same time: the first to realise this were the ex bad guys, not by chance post-punk figures such as Jonny Rotten, whose famous group (the inevitable successor to the legendary Sex Pistols) was called Public Image and whose first album cover bore a face of disarming “normality” the same “mimetic” normality that would distinguish the Talking Heads style. Of course, makeup didn't disappear completely, but rather its use was generalised: the look of the carnival faces of The Kiss or the shaved silver heads of The Rockets were replaced by the highly calculated look of Roxy Music, the highlights of Spandau Ballet or the faint kajal around the baby-like eyes of Simon LeBon. The cosmetic order from the 80s onwards was mat. According to this dictate, everyone's skin had to be mat, necessarily, indisputably and without exception: in other words, compact, even, singletoned (things that have always been appreciated as canons of beauty, especially in women). But especially non-shine, meaning that the skin must not at any cost be translucent, and, especially, equipped with simplified eyes to the point of reaching the sublime fiction of the so-called “invisible makeup” or “soap and water makeup” (a really hard makeup to achieve, thanks to which, after hours at the beautician's, one leaves looking as though “not made-up at all”). The reason for such obstinacy is easily explained: the 80s saw the advent of a new sensitiveness that wanted to be refined at all costs, abhorring vulgarity, flashiness, all things cheap, even at the price of falling (as was inevitable) into that type of vulgarity consistent with trying without success to disguise vulgarity itself … Therefore, while it may be true that all that's showy,


Scatoloni da trucco Maria Gallo

Parigi, rue St. Honoré. La strada ospita alcune delle vetrine più famose al mondo. Qui esibire nell’arredo del proprio negozio delle confezioni industriali, invece dei soliti luccicanti espositori, è come urlare una bestemmia in un luogo religioso. Perciò vedere degli scatoloni accatastati, nella

boutique monomarca del make up artist Stéphan Marais, è quanto meno un’esperienza inusuale. Anche in quanto il risultato, e probabilmente anche l’intenzione progettuale, non è di ricercato minimalismo. Sembra piuttosto di trovarsi nel bel mezzo di un viaggio a ritroso nella vita del prodotto.

Boxes of make-up

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Maria Gallo

Paris, rue St. Honoré. This fabled boulevard plays host to some of the most famous boutiques in the world. Here, putting industrial quality packaging in the fancy shop window instead of the usual gleaming display cases is like screaming obscenities in a house of worship. So, to see crates and boxes

L’allestimento sposta l’attenzione dal prodotto finito alla materia prima, racconta di un’anonima sostanza-merce, mitica e primordiale, che avrebbe originato tutti i cosmetici. All’inizio, insomma, ci sarebbe una “cosa”, una specie di madre di tutte le merci, che, più che produrre, contiene in sé tutti i

stacked prominently in make-up artist Stéphan Marais's boutique is an unusual sight to say the least. Also because the result, and probably the idea behind the stunt, is not studied minimalism. Rather, it would seem to lie smack in the middle of a backward exploration into the heart of the product. The décor shifts attention from the finished product to the raw materials, giving us a view of an anonymous merchandise-substance, mythical and elementary, that spawned all other cosmetics. Essentially, in the beginning, there


design box

prodotti del mondo. Di questa “cosa”, purtroppo, possiamo conoscere solo il contenitore neutro (le grandi scatole) non il contenuto. Ma l’apparenza inganna, e un negozio di cosmetici è, per definizione, il luogo del trucco, dello sberleffo alla realtà. Anche la boutique di Stéphan Marais ci prende in giro, afferma negando, urla tacendo. Convinti di trovarci in un negozio che “finalmente” non usa effetti speciali per attrarre il pubblico, che esalta i prodotti spegnendo i riflettori sul contenitore, ci accorgiamo d’essere entrati in questa boutique attratti dall’arredo, il vero iperpackaging delle merci, e di esserne usciti senza aver memorizzato neanche una confezione di smalto per le unghie. Maria Gallo è designer; scrive di packaging e di cultura degli oggetti per L’Unità.

Assured that we've finally discovered a shop that doesn't use special effects to attract the shopper and that valorizes its products by turning attention away from the package, we realise that we were attracted to the boutique because of its décor, the true hyper-packaging of the merchandise, and have left the store without having noticed even a single package of nail polish.

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Maria Gallo is a designer and writes on packaging and the culture of objects for L’Unità.

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must have been a "something," a sort of mother of all merchandise, that encloses within it, as opposed to producing, all the products of the world. Unfortunately, we can only learn about this "something" through its anonymous container (the large packing boxes) and not its contents. But appearances can deceive, and a cosmetics shop is by definition a place of "making up", a snigger in the face of reality. Stéphan Marais's boutique also pokes fun at us, confirming by denying, screaming out silently.


market release

Finalmente per Lui... ... perché anche gli uomini reclamano i loro cosmetici e quindi, Finalmente Lei, una crema da barba piena di erbe per calmare e curare la pelle. Si può usare anche come dopo barba e fa parte della nuova linea di prodotti creati da Lush che prevede anche una particolarissima maschera per il viso che è Bono come il pane. Si chiama infatti così perchè fatta con farina di segale, yogurt, sambuco, avocado, mandarino, il tutto in una base di pane nero e argilla. È pensata appositamente per gli uomini e, per conservarla, va tenuta in frigorifero, proprio come un cibo speciale. One man one cream è invece una vera e propria crema di bellezza dedicata a tutti quegli uomini che non amano questo genere di "cose da donna"...così possono anche usarla come dopo sole, prima o dopo la rasatura, come idratante e c'è chi addirittura la usa come gel per i capelli.

Finally for Him....

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... because men need their cosmetics, too. Voilà! Finalmente Lei, a shaving cream with natural herbs to soothe and care for his skin, which can also be used as an aftershave, the product is just one item in the new line of products created by Lush, which also includes an innovative facial mask, intriguingly called Bono come il pane (Good and natural). The name fits perfectly since the mask is made of rye flour, yoghurt, elder root, avocado, and tangerine, blended into a base of dark bread and clay. Designed especially for men, the product is stored in the refrigerator to keep it fresh, just like a gourmet food. One man one cream is an authentic beauty cream conceived for all those men who don't usually buy this sort of "female stuff." The cream can be used as an after-sun product, before and after shaving, or as a moisturizer. Some men even use it as an excellent hair gel.


L’Assenzio Stati alterati di corporeità nelle immagini pubblicitarie del cosmetico contemporaneo Daniela Ranieri


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Come leggere le relazioni tra packaging fisico del cosmetico e sue derive pubblicitarie, qual è il legame tra una merce di desiderio (quale è il maquillage) e l’immaginario che da essa esala? Non ci troviamo già in una condizione di Addiction da lipstick, uno stato dichiarato di dipendenza dal colore e dall’occulto della bellezza? John Galliano, creatore del profumo Hyptonic Poison – fluido rosso e liquoroso neo-baudelairiano – ha ideato la nuova campagna Dior, la cui resa fotografica è di Nick Knight. In un’atmosfera noir, débauche come un Toulouse-Lautrec, su uno sfondo stellato di goccioline di sudore glitter, rarefatto come aria di bordello, si staglia la doppia immagine della dipendente, schiava-padrona della propria bocca e della sua bellezza. Riflessa sullo sfondo-pozza di acque, stelle e umori, ella è perduta di sé, come Narciso. La foto della campagna è la negazione più evidente della concezione di un narcisismo mortificante e faustianamente indiscriminato e dell’idea del superfluo come regno dell’agio e del vuoto psichico. Nicola Squicciarino, in uno studio su La civetteria di Georg Simmel (Il profondo e la superficie, Armando ed., 1999), scrive: “malgrado l’illusione di libertà, l’atteggiamento di autosufficienza, il narcisista accetta la tirannia dell’opinione, non può vivere senza un pubblico di ammiratori”. Ma qui, non solo nell’essere Addicted e sedotti non c’è traccia dell’autocompiacimento del mostrarsi

agli altri (non c’è ombra di altri soggetti oltre la bocca-donna e il rossetto), ma per capire questo tipo di narcisismo bisognerebbe distaccarsi dalla visione vitalisticodionisiaca del corpo e della bellezza ed entrare nell’ottica del farsi cosa senziente. Ella, nella espressione/smorfia di piacere/dolore che dà la dipendenza, sa di non potersi raggiungere e, semmai, di potersi amare solo riflessa con quel rossetto, dopo il suo "bacio", una colata lavica che le incornicia il cratere-bocca. L’immagine al di qua dello specchio appare laterale, offrendo all’osservatore parte del profilo sinistro e allo specchio il destro; ma quella al di là è frontale rispetto allo sguardo di chi osserva: quindi la lei nello specchio è ruotata di 90' rispetto a quella reale: un chiaro riferimento alla ‘resistenza’ come un sentire ribelle persino alla violenza della rotazione speculare di 180°, che produce le note aberrazioni a-simmetriche dello specchio. Se non ci si può avvalere della tranquillità della simmetria, ed essendo costretti ad accontentarsi di una visione ideologicamente viziata, tanto vale rischiare l’oltraggio dello scontro, la rottura e l’incrocio delle traiettorie imposte. Ma allora da cosa è sedotta? Cosa intra-guarda? Le traiettorie dei due fasci di sguardi (fuori e dentro lo specchio) sono perpendicolari, non sovrapponibili, non generano l’intenso quanto pacifico scivolamento dell’incontro, ma l’incognita scintillante, raschiante, di una X. Narciso e Eco rievocati



come in una seduta spiritica, che si impossessano dello stesso corpo e in esso rincorrono l’impossibilità del desiderio. La natura vibrante della seduzione è enfatizzata da un effetto ‘mosso’, di immagine sovrapposta a se stessa, quasi sgranata, che dà l’idea di un pulsare interiore oltre che della virata verso destra del capo, come testimonia l’incollarsi di ciocche umide di capelli lungo l’ovale del viso e fin dentro la bocca. Questa, catturata nel suo film rosso lucido, è una bocca mutante, a seconda della luce che la investe producendo infiniti effetti nacré cangianti, che si sottomette alla potenza estatica della passione di sé (o dell’Avatar hard-inorganico di sé), come Santa Teresa d’Avila si sottometteva alla potenza divina. Una scritta tra le palpebre umide e socchiuse, vischiate, e la bocca stessa, (bocca semichiusa e semiaperta, dentro la quale non c’è parete di guance o soffitto di palato, né il termine tremulo del velopendulo, ma solo il buio della profondità, come un buco nero in cui si rischia di perdersi e disintegrarsi una volta accettato il compromesso lascivo del bacio o dell’ipnosi visiva) dichiara il motivo del rapimento estatico: ‘Dior Addict’, metà bianca, come i denti, e metà rossa, come l’afrodisiaco stick. La donna è sedotta dalla mercerossetto e da se-stessa-come-merce, come l’osservatore lo è da entrambe le merci e dalla seduzione suscitata dalla possibilità di automercificarsi a sua volta, acquistando e indossando la trasformante ed erotizzante

maschera labiale. In basso, illuminato dalla stessa luce proveniente da destra che accende le labbra ‘reali’ e ‘ferme’ di lei, appare lui – immobile nella sua fase di refrattarietà dopo essersi versato sulle labbra, come una pistola che abbia appena sparato la sua piccola morte – il rossetto ‘nudo’, svelato nel meccanismo del suo doppio packaging, fatto dal legame metallico tra il dorato supporto fisico dello stick (dentro il quale scivola il vero e proprio bastoncino di colore che viene usato – o che usa) e il ‘cappuccio’ blu e oro, squadrato e metallizzato come il duro acciaio, sovrastato da un pomello dorato e arrotondato che, per essere tolto a scoprire la nudità del rosso, necessita di una manualità altamente rituale ed erotica, che costringe a modificare ex novo le modalità di interagire con un rossetto. Sollevando la corazza seriosa e parallelepipeda del coperchio, infatti, appare l’abbaglio dell’oro, che nasconde a sua volta, catturato in una silenziosa potenzialità esplosiva, il fuoco del rouge. Lusso e lussuria, glacialità che ricopre moltiplicando e moltiplica coprendo l’effetto seduttivo e dirompente della passione. La fotografia torbida non lascia spazio a nessuna conciliazione ironica o parodistica: è tutto terribilmente vero e ‘serio’, senza l’indulgenza dell’autoreferenzialità pubblicitaria o del soft-core. L’ironia è invece l’impronta di Rouge Miroir di Givenchy, sebbene ancora sul tema del doppio e dello

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LA DONNA È SEDOTTA DALLA MERCE-ROSSETTO E DA SE-STESSA-COME-MERCE


THE WOMAN IS SEDUCED BY THE LIPSTICK MERCHANDISE AND BY HERSELF AS MERCHANDISE


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specchio, addirittura incorporato (nella forma ‘ad unghia’ tipica degli specchi dei camerini di prova delle boutique di alta moda) nel packaging del rossetto stesso, invitando la donna all’am-mirare (miroir come specchio) la lei che appare dopo l’incontro con il sangue-stick. Infatti, la figura femminile che, non a caso, guarda nella direzione dell’osservatore piuttosto che nello specchio, è una vampira, che in quanto tale non potrebbe comparirvi riflessa, a meno che non abbia bevuto un sangue nuovo, tecnologico e atavico insieme, un oltraggio rosso a tale legge dell’immagine fantasmatica. Nello specchietto si vede (o meglio vediamo, perché lei preferisce vederla attraverso noi e il nostro stupore) solo la bocca, da cui spuntano canini bianchissimi, irridentemente semiaperta, compiaciuta della sua sorsata quotidiana di rossetto-sangue e circondata dalla pelle, cioè dal nulla evanescente e diafano dell’edonistica non-morta. Mood esaltati e altalenanti sono infine le indicazioni, e gli effetti, dei prodotti conosciuti come "aromaterapici", che agiscono sui recettori olfattivi trasmettendo, a seconda delle

essenze naturali in essi presenti, sensazioni di rilassatezza o euforia; ma si tratta di prodotti da beauty-farm che comunicano un senso di lusso e di vita agiata che ha poco a che vedere con la simbologia profondamente evocativa – nel nome, nelle textures e nel packaging – dei prodotti-amuleti della cosmetica feticista. Per il make-up penso alla palette di ombretti Le 4 Ombres Euphoria di Chanel, che rimanda però a una troppo semplice equazione bellezza=felicità, benché, oltre ai tre ombretti allineati in tre sfumature di rosa, ci sia un nero profondo che li sovrasta e domina, costruendo il vertice di un triangolo in precario equilibrio (come la psiche dopo l’effimero effetto ‘Euphoria’). Ma il migliore, un monumento alla genialità del feticismo alterantecosmetico, è il lipstick di Sephora Urban Decay Dual, nella nuance Maniac-depressive, come dire: "Doppio decadimento urbano – o decadenza metropolitana duale – con sfumature maniaco-depressive". E qui siamo alla pura poesia etnopsico-fisico-industrial-decadentista… Daniela Ranieri si occupa dei rapporti tra corpo e make up, collabora con la cattedra di Antropologia dell’Università La Sapienza di Roma


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The Absinth Altered states of embodiment in advertising images used by today's cosmetic industry. Daniela Ranieri

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How to decipher the relationship between the external packaging of cosmetics and its advertising drift, understand the tie between a product of desire (such as make-up) and the imagery that it conjures up? Or are we already trapped in the vice of our addiction to lipstick, a declared state of dependency to color and beauty's hidden secrets? John Galliano, creator of Hypnotic Poison perfume – a Baudelairian deep red liquid - is also the mastermind behind the new Dior ad campaign, interpreted by the photographic prowess of Nick Knight. In a noir atmosphere, débauche like a Toulouse-Lautrec painting, on a background punctuated by drops of glittery perspiration, like the rarefied air of a brothel, stands the silhouette of the double image of the dependent woman, a master-slave to her own mouth and beauty. In the background reflection a pool of water, stars and moods, she is lost in herself like Narcissus. The photo of the ad campaign is a clear denial of the concept of a humiliating and Faust-like arbitrary narcissism and the idea of the superfluous as the reign of affluence and emotional emptiness. Nicola Squicciarino, in his study of Coquettishness by Georg Simmel (Il profondo e la superficie, Armando ed., 1999), writes: “despite the illusion of freedom, the posture of self-sufficiency, the narcissist accepts the tyranny of public opinion, cannot live without an audience of admirers." But here, not only in the state of being "addicted" and seduced, we find no trace of selfsatisfaction derived from showing off to others (there are no others in the scene apart from the woman's mouth and the lipstick). To understand this type of narcissism we have to distance ourselves from the self-centered and Dionysian view of the body and beauty and enter into the perspective of making oneself a thinking being. She, in the expression-grimace of pleasure-pain emblematic of

dependency, knows that she will never access her inner self and, at most, will be able to love only the part of her reflected in that lipstick, after its "kiss" on her lips, a surge of lava that sheathes the volcanic crater of her mouth. The image on this side of the mirror is shown sideways, giving the spectator a view of her left profile while she gives her right cheek to the mirror; but the image on the other side of the mirror faces the onlooker directly: so, the she in the mirror is rotated 90° with respect to the real image: a clear reference to the "resistance" like a rebellious reaction even to the power of the mirror-like 180° rotation, which produces the asymmetrical aberration of the mirror. When we can no longer take refuge in symmetric serenity and, forced to make do with a defective ideological vision, then we may as well risk the affront of the collision, the destruction, and the confrontation of two fixed trajectories. But then, who or what is seducing her? What is she getting a glimpse of? The trajectories of the two gazes (past and into the mirror) are perpendicular, not overlapping, and do not generate the intense yet peaceful shift of the meeting, but the scintillating, scathing unknown of an X. Narcissus and Echo are called forth as if in a séance, to take possession of the same body and use it to pursue the impossible quest for desire. The pulsating, living nature of seduction is heightened by an out-of-focus effect, achieved by repeatedly overlapping the same image. The graininess lends the idea of an interior pulsation which is enhanced by her head turning to the right, evidenced by the damp locks of hair tossed onto her long oval face and falling into her mouth. Captured in its shiny red coating, her mouth changes its appearance depending on how the light strikes it, producing infinite iridescent, opalescent effects. It is at the mercy of the rapturous power of love for oneself (or of the Avatar hard-inorganic of itself), like St. Theresa of Avila laid herself bare to the mercy of divine power. The copy written between the damp, watery and halfclosed eyelids and the shape of the mouth itself (between parted lips, we see no sign of the inside of the cheeks or the roof of the mouth, nor the trembling soft


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palate, only the dark black of the depth, like a black hole that threatens to swallow up and disintegrate once the lascivious kiss or the hypnotic gaze is accepted) makes clear what is the cause of this ecstatic abduction: "Dior Addict." Printed in white and red, like teeth the color of the aphrodisiacal lipstick. The woman is seduced by the lipstick merchandise and by herself as merchandise, just as the onlooker is seduced by both and by the seductive appeal of the possibility of giving oneself up as merchandise, by purchasing and wearing this transforming and eroticising mask for the lips. Lower on the page, illuminated by the same light that shines from the right and strikes the real and the reflected lips, we see it – stationary in its phase of repose after spreading itself on the lips, like a gun that has just shot its target – the "naked" lipstick, revealed in the mechanism of its double packaging, made of the metallic bond between the gilded tube for the stick (inside of which slides the actual lipstick that is used, or that uses) set beside the blue and gold cap, angular and metallic like tempered steel, crowned by a delicate rounded gold knob. Opening the package to reveal the nakedness of the red lipstick requires a sensually erotic gesture, forcing the wearer yet again to modify her customary relationship with a lipstick. In lifting the serious and rectangular cover, we are blinded by the dazzling brilliance of gold that hides the fiery red of the lipstick, held hostage in its silent potential explosiveness. Luxury and lasciviousness, iciness that covers by multiplying and multiplies by covering the seductive and explosive effect of passion. The murky photography leaves no room for irony or satirical reconciliation: it is all dreadfully realistic and serious, without the indulgence of advertising self-irony or soft-core. On the other hand, irony is the primary tool used by Rouge Miroir by Givenchy, repeating the theme of the double image and the mirror, this time incorporated into the packaging of the lipstick. With its rounded crown, typical of the mirrors installed in chi-chi boutique dressing rooms, the glass invites the woman to ad-mire (miroir like mirror) the reflected image of herself after her

encounter with the blood-red stick. Indeed, the female figure who, not accidentally, turns her gaze toward the onlooker and not the mirror, is a vampire. We all know that vampires have no reflection until they drink a fresh blood, in this case simultaneously technological and atavistic, a red affront to the law of the spectral image. The little mirror shows (or better, we see, because she prefers to see it by way of us and our surprise) only the mockingly half-open mouth where pearly-white and sharpened canines are revealed, self-satisfied in the daily ration of blood-lipstick and surrounded by white skin, or really the sort of evanescent and diaphanous nothingness of the hedonistic undead. Elation and roller-coaster changes in mood are the suggestions, and the effects, of the products grouped under the generic category of aromatherapy, which stimulate the olfactory receptors by transmitting sensations of relaxation or euphoria, depending on the natural essences they contain. However aromatherapy products are used mainly in beauty farms, and thus also convey a sense of luxury and affluence that has little to do with the symbolism – in the name, the textures and the packaging – of the charm-like products of obsessionoriented cosmetics. In make-up, I think of the palette of eye shadows in the Le 4 Ombres Euphoria by Chanel, that conjures up an overly simplistic beauty=happiness equation, since the three eye shadows in happy shades of pink are overshadowed and dominated by a fourth in deep black that, making up the top corner of precarious triangular balance (like the shaken psyche after the ephemeral Euphoria effect). But the very best, a tribute to the geniality of the disguise-cosmetics obsession, is the lipstick by Sephora Urban Decay Dual, in the Maniac-depressive nuance. And here we are, at the pure ethnic-physicalpsychological-industrial-decadents poetry …

Daniela Ranieri oversees the rapport between body and make-up and works closely with the Department of Anthropology at the University of Rome, La Sapienza.


Nudo di donna, 2002 Photo by Lucia Bargagli


FAIR AND WHITE, CREMA USATA DALLE DONNE DI COLORE PER SCHIARIRE IL VISO. QUANDO IL TRUCCO ESPRIME IL DESIDERIO DI ESSERE COME

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L’ALTRO PIUTTOSTO CHE QUELLO DI AFFERMARE IL PROPRIO SÉ.

FAIR AND WHITE, CREAM USED BY COLORED WOMEN TO LIGHTEN THE

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TONE OF THEIR FACE. WHEN MAKEUP EXPRESSES THE DESIRE TO BE LIKE THE OTHER RATHER THAN TO AFFIRM ONESELF.


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di Raul Montanari

quella sensazione, identica a quando appoggiavo la lingua alle pile della radio. I miei compagni di classe mi hanno spiegato che oltre a fare il militare, anzi prima ancora, mi sarebbe toccato farmi le seghe e andare con le ragazze. Mimavano gesti che non capivo. Cioè, li guardavo e li comprendevo con la testa, ma non li capivo ancora con il corpo. Tutto mi sembrava minaccioso. A casa mia madre e mio padre non si parlavano, e io passavo pomeriggi interi a immaginare come avrei potuto ucciderli). Penso che l’adolescenza si possa definire la prova critica del sistema. La pelle diventa un vero schifo: grassa, butterata di brufoli che mi schiacciavo davanti allo specchio, accanendomi contro quelli che si annidavano in certi angolini e pieghe di lato al naso, sotto il mento - dolorosissimi da strizzare, - lungo la linea curva delle occhiaie. I capelli sono diventati unti, il sudore ha preso un odore acido. Inutilità della barba, in un clima temperato come il nostro. La tenue armonia di linee della tarda infanzia è andata a catafascio: troppo magro, con la schiena un po’ storta, mi aggiravo sgraziato toccando oggetti e corpi con le mani fredde e sudate. Un disastro estetico e funzionale, di cui aspetto ancora una spiegazione. Quanto all’evoluzione degli organi genitali e alla folle iperproduzione di sperma, credo

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sostituzione sono traumi sopravvalutati. La comparsa e l’assestamento dei capelli sono ancora oggi ai miei occhi le metamorfosi più significative di quel periodo, insieme all’aumento delle dimensioni corporee e a una certa loro armonizzazione: testa più piccola, corpo più grande. Quando sudavo, sapevo di buono. Ho imparato abbastanza presto a tenermi pulito, anche se mi dedicavo di nascosto a pratiche come infilarmi un dito nel culo fino a sentire resistenza per poi annusarlo, e togliermi dal naso scaglie e concrezioni di muco che mangiavo. Mi avrebbe fatto orrore fare cose di questo genere con sederi o nasi altrui: il mio era un sistema di autoeliminazione e self-sniffing altamente entropico, una specie di gorgo o betoniera o buco nero emotivo. Verso i dieci-dodici anni il mio naso si è come rilevato, sbalzato dalla faccia. È diventato più grosso. (Ho cominciato a uccidere gli animali e a godere quando vedevo uccidere gli uomini, alla TV. Leggevo libri completamente fuori età, troppo presto o troppo tardi - per esempio, La vita interiore di Moravia a sette anni, credo. All’asilo ci sono andato solo tre giorni, poi mi ha punto una vespa e non ho più voluto tornarci. Una ragazzina seduta a cavalcioni sopra un muretto mi ha detto che se ci fossimo toccati con le lingue avremmo sentito la scossa elettrica. L’ho fatto, e non dimenticherò mai

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Quando sono nato pesavo tre chili e duecentodieci grammi. La mia maneggevolezza serviva alla perfezione la condizione di allora, era adeguata alla mia passività, alla necessità di essere manipolato da altri. A parte il problema mai risolto degli escrementi, la mia confezione di cucciolo umano non aveva difetti evidenti. Potevano girarmi e rigirarmi. Io frignavo un po’, ma questo aspetto acustico deve essere considerato secondario in un’ottica di puro packaging. La mia pelle era rosea e il ricambio dei suoi strati superficiali molto rapido. Le mucose, già sensibili, erano spesso arrossate e bruciavano. Non avevo denti. Un neonato con i denti ci farebbe orrore, anche senza l’esagerazione delle zanne di Baby Killer. (Guardavo molte cose del mio nuovo mondo, e ancora più ne ricordavo di quell’ecosistema liquido, ovattato, in cui ero vissuto finora. Sognavo caverne di carne, morbide stalattiti e stalagmiti, e sgomitate di organi interni. Spesso mi prendeva una strana malinconia, come un presagio all’alba). Nel periodo dalla nascita all’adolescenza, diciamo da zero a dodici anni, il mio aspetto è molto cambiato, ma nessuna delle trasformazioni che ha subito, piccole o grandi, mi è mai sembrata un peggioramento, un deterioramento di come stavo prima. Onestamente, la caduta dei denti da latte e la loro


Raul Montanari, scrittore, ha pubblicato tra l'altro: La perfezione (Feltrinelli,1994), Che cosa hai fatto (Baldini&Castoldi, 2001), Il buio divora la strada (Baldini&Castoldi 2002)

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che altri abbiano già detto tutto. (La prima volta sono venuto strusciandomi contro il cuscino, e poi molte ragazze mi hanno raccontato che era stato così anche per loro. Avevo visto sul Corriere la locandina di un film di vampiri: una bionda formosa era legata sopra un tavolo, un lenzuolo la copriva e si gonfiava in corrispondenza del seno. La ragazza fissava il buio, terrorizzata. Mentre andavo su e giù con la pancia aderente al cuscino mi sentivo al tempo stesso lei, mi sentivo il vampiro, mi sentivo quello che sarebbe accaduto, non lo so, la tortura, le cose che le avrebbero fatto. Mi sentivo anche il buio. Poi mi sono sentito io e basta, in una confusione di brividi e stupore, e in bagno ho visto il liquido vischioso, quasi trasparente, colare dalla punta del cazzo che tenevo coperta dalla pelle. Mancavano pochi giorni a Pasqua). La stabilità apparente dell’aspetto fisico e della generale plasticità e convenience del corpo, negli anni che vanno più o meno dai venti ai quaranta, è uno degli inganni più odiosi fra i tanti che massacrano la vita di un uomo. Per non parlare di quella di una donna. Le prime macchie cutanee cominciano a comparire, i capelli cadono o s’imbiancano, le variazioni di peso lasciano tracce indelebili: pelle floscia quando dimagrisci, un orrore quando ingrassi. Riesci a guardarti allo specchio solo facendo smorfie, come per

nasconderti dietro la tua stessa faccia. Ieri giocavi a pallone con i tuoi compagni di università, oggi corri per colpire la palla sfuggita a un bambino, nel parco, e scopri che tutto è cambiato: le caviglie sono rigide, il fiato corto. La coordinazione non c’è più. Il sudore prende un odore pesante, dolciastro. La respirazione peggiora, soprattutto di notte, e tu russi e svegli la tua compagna. Quando sei sveglio tu senti lei russare. Non cito malattie croniche e silenziose degenerazioni di organi interni. Il fuori basta a testimoniare la lenta e progressiva catastrofe del dentro. Il fuori è il dentro. I denti marciscono mentre gli occhi prendono la piega malinconica imposta dalle palpebre sempre più pesanti. (Ho rifiutato di penetrare con il cazzo il corpo di una donna fino a ventiquattro anni. Non so perché. Mi incuriosiva toccare ed entrare con le dita, con la lingua, ma il cazzo me lo tenevo per me, o lo sfregavo sulle parti del corpo che mi piacevano. Poi una notte una ragazza più grande di me ha minacciato di buttarmi fuori di casa se non glielo avessi infilato. “Se non lo fai la mia figa brontola” ha commentato, con aria imbronciata e pericolosa. Sono andato un po’ a casaccio, aiutato da lei, e ho scoperto che la linearità che mi ero immaginato fantasticando sull’atto si scomponeva in una serie di approssimazioni, di aggiustamenti, che alla fine

sdrammatizzavano il tutto. L’ho trovato più che altro divertente.) Adesso sono qui, e aspetto di morire. La pelle grigia della faccia pende sotto il mento. I capelli mi hanno salutato. La forza di gravità ha lentamente ridisegnato il mio corpo, e ora tutto tende verso il basso: le guance, il naso, gli angoli della bocca, i pettorali che in una stagione che mi si stringe nella memoria ho esibito su spiagge e campi da tennis. La sacca scrotale si è allungata, chiede attenzione proprio adesso che la sua funzionalità è ridotta a un ricordo. Non posso guardarmi da dietro, credo che comunque non gradirei lo spettacolo. Emano un odore a cui mi sono piano piano disabituato: mi sembra l’odore di un altro. Ti chiedo, mio dio che non esisti, se il peso dei tuoi errori o degli errori dei tuoi servi e funzionari e operai e burocrati e meccanici e architetti e ingegneri e designer e progettisti celesti non schiacci il tuo corpo immateriale curvandolo ancora più del mio, paralizzandoti da qui all’eternità, andata e ritorno, da sempre e per sempre, amen. (L’ultima volta che ho fatto l’amore con una donna non sapevo che fosse l’ultima. L’ultima volta che schizzerò le due gocce che ormai mi escono non saprò che è l’ultima. Continuo a sognare l’ufficio, il lavoro che facevo, e mio figlio dice che in certi giorni non parlo d’altro, per ore. Poi lui si rimette la giacca e se ne va.)


Prossima apertura GR, 1998 courtesy Luciano Inga-Pin photo by Tiziana Martoccia


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Human Packaging

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Raul Montanari

When I was born I weighed three kilos and two hundred and ten grams. My smallness was perfect for my condition then , it suited my passiveness, my need to be manipulated by others. Apart from the ongoing problem of excrement, my packaging as a human puppy had no obvious flaws. They could roll me this way and that. I grizzled a bit but this acoustic aspect must be considered a secondary factor from a pure packaging perspective. My skin was rosy and the surface layers were quickly shed. My already sensitive mucous membranes were often red and itchy. I had no teeth. A new born baby with teeth would horrify us, even if they weren’t the fangs of Baby Killer. (I observed a lot of things in my new world, and I remembered even more of that muffled liquid ecosystem, where I had lived up to then. I dreamed of caverns of flesh, soft stalactites and stalagmites, and the jostling of internal organs. Often I was seized by a peculiar melancholy, like a premonition of dawn). In the period between birth and adolescence, let’s say from zero to ten years, my looks changed a great deal, but none of the transformations they underwent, small or large, seemed to me to be a decline, a deterioration of how I was before. To be honest, losing milk teeth and teething are overrated traumas. The growth and settling of hair is still, to my mind, the most significant metamorphosis of that period, along with the increase in my body measurements and a kind of harmony they acquired: smaller head, bigger body. When I sweated, it smelled good. I learned quite early on to keep myself clean, even though secretly I would do things like stick my finger in my bottom as far as it would go and then sniff it, and remove flakes and concretions of mucous from my nose and then eat them. It would have horrified me to do these things with somebody else’s nose or

bottom: mine was a system of self-elimination and highly entropic self-sniffing, a kind of emotional maelstrom or concrete mixer or black hole. Between ten and twelve my nose sort of leapt out of my face. It got bigger. (I started to kill animals and enjoy seeing men killed on television. I read books suitable for any age but my own, too soon or too late, for example. The inner life by Moravia at age seven, I believe. I only went to nursery school for three days, then I was stung by a wasp and I refused to go back. A little girl sitting astride a low wall told me that if we touched each other with our tongues we would get an electric shock. I did it and will never forget the sensation, just like licking the radio battery. My classmates explained to me that when I went to do my military service, actually even earlier, I would have to jerk off and go with girls. They mimed gestures I couldn’t understand. That is, I watched them and understood them with my head but not with my whole body. Everything seemed threatening to me. At home my mother and father didn’t talk to one another and I spent whole afternoons imagining how I could do away with them). I think adolescence can be defined as the critical test of the system. The skin turns into something truly disgusting: oily, pockmarked with spots which I would squeeze in front of the mirror, repeatedly attacking the ones which lurked in certain small corners and folds beside my nose, under my chin extremely painful to squeeze- along the curve of the shadows under my eyes. My hair became greasy, my sweat began to smell sour. It was useless to keep a beard in a mild climate like ours. The gentle harmony of late childhood went down the drain: too skinny, with slightly curved shoulders, I went around clumsily knocking into objects and bodies with cold, sweaty hands. I was an aesthetic and functional disaster and I am still waiting for an explanation. As for the evolution of genital organs and the crazy overproduction of sperm, I believe other have


Raul Montanari, author, among other works has published: La perfezione (Feltrinelli,1994), Che cosa hai fatto (Baldini&Castoldi, 2001), Il buio divora la strada (Baldini&Castoldi 2002)

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(I refused to penetrate a woman until I was twenty four years old. I don’t know why. I was curious to touch and put my fingers and tongue inside her but I kept my dick to myself, or I rubbed it against the parts of the body I liked. Then one night a girl a bit older than me threatened to throw me out of the house if I didn’t put it in her. “If you don’t do it my *** will grumble” she said with a sulky and dangerous air. I did it a bit haphazardly, helped by her, and I discovered that the straightforwardness I had imagined when I dreamed of performing the act dissolved into a series of approximations and adjustments which eventually defused the whole thing. I found it amusing more than anything else. Now I am here waiting to die. The grey skin of my face hangs below my chin. My hair has gone for ever. The force of gravity has slowly remodelled my body and now everything is sliding downwards: cheeks, nose, the corners of my mouth, my pectorals, which once, at a time I hold dear in my memory, I showed off on beaches and tennis courts. My scrotum has stretched, requiring attention now when its use is reduced to mere memory. I cannot look at myself from behind, however I don’t believe I would enjoy the sight. I give off an odour which I have gradually grown unused to: it seems to be someone else’s smell. I ask you, dear God who doesn’t exist, if the weight of your errors or the errors of your servants and functionaries and factory workers and bureaucrats and mechanics and architects and engineers and designers and heavenly planners doesn’t crush your immaterial body bending it still more than mine, paralysing you from here to eternity, there and back, for ever and ever, amen. (The last time I made love to a woman I didn’t know it was the last time. The last time I spurt the few drops of semen I have left I will not know it is the last. I keep dreaming of the office, the work I did, and my son says that there are days I speak of nothing else, for hours on end. Then he puts on his jacket and leaves.)

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already said all there is to say. (I came for the first time by means of rubbing against my pillow, and many boys have told me it was the same for them. I had seen the playbill for a film about vampires in the newspaper: a curvaceous blonde was tied to a table covered by a sheet which swelled where her breasts were. The girl was staring into the darkness, terrorised. Moving up and down, with my belly stuck to the pillow, I felt I was her, I felt like a vampire, I felt what was going to happen, I don’t know, torture, the things they were going to do to her. I felt the darkness too. Then I just felt myself, in a chaos of shivers and amazement and in the bathroom I saw the slimy, almost clear liquid drip from the end of my dick which I kept covered by its skin. There were only a few days to go till Easter). The apparent permanence of the physical aspect and the body’s general flexibility and neatness, in the years more or less between twenty and forty, is one of the most hateful deceptions of all those which ruin the life of a man. Not to speak of the life of a woman. The first skin blemishes appear, hair falls out or turns grey, weight fluctuations leave indelible marks: flabby skin follows a diet, there is the horror when you put on weight. You can only bare to look at yourself in the mirror by pulling faces, as though you were hiding behind your own face. Yesterday you played football with your university companions, now you run to fetch the ball a child has lost in the park and you find out that everything has changed: ankles are stiff, breath short. You no longer have any coordination. Sweat smells bad, sweetish. You breathe worse, especially at night and you snore and wake up your partner. When you are awake you hear her snore. I won’t mention serious illnesses and the silent degeneration of internal organs. The outside is enough to bear witness to the slow and gradual catastrophe which is taking place within. Outside is inside. Teeth rot while eyes take on that melancholy look due to increasingly droopy eyelids.


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A Story .... Story è un negozio fuori dal comune. Si trova a Londra, a due passi da Spitalfield Market, è arredato in modo spartano e scenografico, con mobili e oggetti di recupero, trovati sapientemente qua e là. E spesso ospita mostre di giovani artisti contemporanei. Story propone tutto quello che è "bio", ecologico e derivante da riciclo creativo. E quindi, alimenti come la pasta, l'olio, il vino (rigorosamente senza conservanti e senza OGM); ma anche cosmetici home made, fatti in casa, non testati sugli animali, sempre freschi, senza chimica aggiunta; abiti realizzati con tessuti e fibre naturali oppure reinventati

utilizzando pezzi di vecchi vestiti, materiali e stoffe già esistenti; e ancora... gioielli ricavati da pezzi di vetro, vecchi bottoni, conchiglie spezzate; accessori come borse e cinture; piccoli elementi d'arredo, ricostruiti o semplicemente offerti come second hand. Insomma tutto quello che può essere riciclato (ma in modo assolutamente fantasioso ed originale) qui è il benvenuto e il bentrovato. In tutta questa "storia" il packaging è il protagonista assoluto, nel senso che i materiali da imballaggio, soprattutto la carta nella sua versione più grezza, sono utilizzati in modo consapevole e raffinato. I cosmetici, pur

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A Story .... Story is a truly unique shop. Located in London, it's just around the corner from the Spitalfield Market. The theatrical yet minimalist atmosphere features salvaged furniture and objects, found items from here and there. It is frequently the venue for art exhibitions to launch young contemporary artists. Story's shelves are stocked with everything "bio", ecological or products of creative recycling. So, the savvy shopper can get his or her fill of pastas, oils, and wines (all strictly free of preservatives and GMO's) along with innovative natural cosmetics, all homemade, fresh and free of chemical additives, and never tested on animals. Clothing at Story is fashioned with natural fibres and fabrics, or reinvented using parts of old clothes, materials or previously used fabrics. But there's more… jewellery crafted from pieces of glass, antique buttons, odd bits of shells; inventive accessories like bags and belts; small furnishing items, either

essendo venduti in contenitori di tipo standard, grazie all'etichetta e al cappuccio sul tappo, hanno una precisa caratterizzazione grafica che li rende assai trendy e visivamente "appetibili". Ogni cosa è accuratamente imballata e, all'acquisto, ogni prodotto subisce un vero e proprio trattamento speciale per quanto riguarda il confezionamento definitivo. Mani esperte imprigionano la cosa in sacchetti o buste o fogli di carta, attorcigliano e annodano fili o cordoncini e alla fine, dopo svariati minuti di accurata lavorazione, il pacchetto è realizzato così bene ed è così bello che aprirlo dispiace non poco. Il packaging ha di nuovo trionfato.

reconstructed or simply proffered to the customer as second hand. In short, whatever can be recycled (in a creative and original manner) is welcome here. In this whole "story," though, packaging takes centre stage. Product packaging materials, especially paper in its coarsest, roughest guises, are used skilfully and elegantly. Though sold in standard produced containers, the cosmetics have a clear-cut graphic feature rendered by the label or the spout on the cap that makes them very trendy and visually appealing. All the products are already perfectly packaged but once purchased, every item is treated to special procedure with regard to its final packaging. Expert hands secure the tiny treasure in small pouches, sachets or sheets of paper, twisting and wrapping it with strings and cords and finally, after a few minutes of careful handling, the package is readied so flawlessly and so beautifully that it is almost a shame to open it. Packaging has triumphed once again.


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Ring Installazione con performance Installation and performance Francesca Donati Studio, Milano 2002


Giovanna Ricotta - Body Beauty Baci Marco Senaldi

Ricetta Lei/Lui Ricetta Unisex installazione, 1997 Courtesy Placentia Arte, Piacenza


“Io parlo del corpo, ma per me il corpo è uno strumento più che un oggetto: io mi porto in giro, il corpo è una mia prosecuzione, è come una borsa, che porto con me; non posso svegliarmi e lasciarlo a letto…”.

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Corpo Uomo-DonnaErmafrodita installazione, Man-WomanHermafrodite body, installation Luciano Inga-Pin, Milano 1997

Così Giovanna Ricotta, giovane artista milanese adottiva, riassume il suo rapporto con il corpo e insieme la sua poetica, che spazia da performance di ispirazione cyber, a delicate installazioni di dolciumi di rossetto e cipria, a sculture-protesi in silicone e materiali hi-tech. La poetica del corpo, arrivata sulla scena dell’arte contemporanea con la body art negli anni ’70, viene qui profondamente rivisitata: non si tratta più del corpo come insostituibile sostegno del vissuto individuale, ma

di un corpo-oggetto decisamente spossessato e impersonale – “corpi perfetti da indossare come una seconda pelle in base ai gusti personali e alla moda del momento, a cui si andranno ad abbinare accessori simili a protesi in grado di modificarne l’aspetto” (Alessandra Galasso). Logicamente questa visione modifica anche il rapporto con il trucco: non si tratta di truccare in modi diversi lo stesso corpo per abbellirlo, è tutto il corpo che diviene un trucco sempre


come se fossero qualcosa di duraturo; li ho resi scultura, ho per esempio realizzato questi budini in pasta di rossetto: Budino per labbra, un’indicazione come per una performance virtuale che due individuipotrebbero compiere…”. In questa direzione va anche GR, la vera e propria griffe inventata da Giovanna per ipotetici prodotti di bellezza, che invece - poiché inutilizzabili - sono come sculture elevate all’altare del momentaneo desiderio.

Lista Droghe installazione Drug List, installation Luciano Inga-Pin, Milano,1998

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diverso, un make up definitivamente sostituibile, un “corto circuito semiotico fra ciò che siamo e quello che sembriamo”. E il maquillage quotidiano? “Quando ero giovane mi truccavo tantissimo, volevo ottenere un aspetto aggressivo… adesso mi trucco raramente, mi sembra una forma di imbruttimento anziché di abbellimento; credo più al maquillage come cura del corpo. Nel mio lavoro invece ho usato gel per capelli, rossetto, cipria, elementi effimeri,

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Giovanna Ricotta Body Beauty Kisses “I talk about the body, but for me, the body is more a tool than an object: I take myself out, my body is a continuation of myself; it is like a handbag, I carry it around with me. I can't wake up and leave it in bed…”. Marco Senaldi

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This is how Giovanna Ricotta, a young artist resident in Milan, sums up her relationship with the body as well as her art, which runs the gamut from cyber-inspired performances to graceful installations of candy-colored lipsticks and face powders to prosthesis sculptures in silicone and high-tech materials. Body-awareness, which made its debut on the contemporary art scene in the seventies with "body art", is exhaustively revisited here: the idea is not only the body as an irreplaceable support for individual experiences, but a markedly dispossessed and impersonal body-cum-object - "perfect bodies to wear like a second skin according to personal preferences and the

current fashion, paired up with accessories resembling artificial limbs that can completely modify the appearance” (Alessandra Galasso). Obviously, this vision also alters the relationship with make-up: we are not talking about using different make up techniques on the same body to make it beautiful; rather the entire body represents make-up that changes each time, becomes replaceable, a "semiotic short-circuit between what we are and what we appear to be." And everyday make-up? "When I was younger, I used to wear lots of make-up; I wanted to achieve an aggressive look. Today I rarely wear any make-up. Make-up seems the perfect way to make someone uglier instead of more beautiful. I believe in body care instead of cosmetics. In my work, I have used hair gels, lipsticks, face powders, and ephemeral products, as if they were durable and lasting. I made them into sculptures. For instance, I made these puddings using the base for lipstick: Pudding for the lips, a suggestion similar to a virtual performance that two individuals could present…" This is the approach taken by GR, a label conceived by Giovanna for imaginary beauty products that, because unusable, are like sculptures elevated to the altar of momentary desire.


identi-kit

Cabina 2300 L’artista durante una performance Cabina 2300. The artist during a performance. Ex-gasometro, Bovisa, Milano 2001


MAKE-UP di scena Elisabetta Larice

La storia dell’uomo è testimone di un uso ampio e costante del ricorso alla cosmesi. Già agli albori dell’ umanità il primitivo cospargeva il proprio corpo di colori per mimetizzarsi agli occhi delle belve e dei nemici. Oggi, dopo secoli, la scienza cosmetica ha raffinato gli strumenti e le finalità di questa pratica che, senza distinzione di età, appartenenza sociale, attività lavorativa, permette alle donne di esprimere palesemente la propria personalità o di sottolineare uno stato d’animo momentaneo e all’uomo concede, pur dovendo rimanere nei confini dell’invisibilità, di sentirsi rassicurato dal punto di vista estetico. Anche il cinema (come la televisione) ha colto le grandi potenzialità che il trucco offre, ricorrendo a “ritocchi” più o meno pesanti, per creare espressioni, caratterizzare

personaggi, inventare personalità. A volte il cinema pur avvalendosi delle potenzialità del trucco lo rende quasi, per un gioco di scena, impercettibile, mentre ne esaspera la funzione quando vuole comunicare esteriormente una dinamica di emozioni che si sprigionano dall’intimità dell’anima. È il caso per esempio del trucco utilizzato per i personaggi di Arancia Meccanica; i truccatori conferiscono ai Drughi un trucco stilizzato concentrandosi principalmente su quello del protagonista, Alex. La ciglia finta applicata sull’occhio destro rende lo sguardo implacabile e surreale facendo affiorare in superficie una personalità assetata di violenza. Il trucco quindi, aiutato da una magistrale scelta della colonna sonora, è uno degli elementi che contribuisce a plasmare il personaggio, Alex appunto, e a

definirlo sotto il profilo dell’innegabile violenza che l’uomo di Kubrick cova dentro di sé. Altre volte paradossalmente il cinema porta sulla scena il meccanismo del trucco e del travestimento in veste di soggetto, come accade in Tootsie di Sydney Pollack dove un attore disoccupato di Broadway (Dustin Hoffmann) raggiunge il successo travestendosi da donna. In questa occasione il trucco è l’elemento ipertrofico che scandisce la trama del film e attraverso il gioco e l’ironia giustifica una riflessione sul mestiere dell’attore carica di veleni satirici. Tonico, crema compatta, correttore sono i prodotti usati da Peg Boggs, l’entusiasta rappresentante Avon, in Edward mani di forbice, per preparare la strana creatura ad intervenire

Jack Nicholson trasformato in Joker nel film Batman; il trucco-maschera, che caratterizza il personaggio, non cancella, ma esalta, l’espressività dell’attore. Jack Nicholson transformed into Joker in the film Batman; the makeup-mask featuring the personality, does not cancel but heightens the expressiveness of the actor.


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come protagonista di un talkshow televisivo. Ospitare Edward nella propria casa dà a Peg, finalmente, la possibilità di poter parlare con l’irraggiungibile direttrice dell’azienda e di avere da lei importanti consigli su come utilizzare al meglio i prodotti di bellezza contenuti nella valigetta. Ed è ancora in un film di Tim Burton Batman che il problema dell'ideazione del make-up di Joker (Jack Nicholson), l’antagonista del Cavaliere Oscuro, si rivela di grande importanza sia per il personaggio che per l'attore. In questo caso l'obiettivo del makeup è stato dare un volto a Joker senza coprire il viso di Nicholson e nuocere alla sua espressività. Non è stato facile, i truccatori impiegavano almeno due ore per realizzare la trasformazione: 90 minuti per applicare i pezzi sul volto e colorarli, 20 minuti per

la parrucca verde e 10 minuti per il tocco finale. Tutto ciò ha influenzato fortemente anche la caratterizzazione del personaggio e Nicholson ha dovuto ridurre l'espressività in alcune scene per non scadere nel ridicolo. Per quanto riguarda il personaggio poi, va ricordato che Jack Napier, in seguito ad un combattimento con Batman, precipita in una cisterna contenente prodotti chimici tossici; ne uscirà col viso sfigurato da un diabolico sorriso. Trasformatosi in Joker, uno pseudo- artista omicida dai capelli verdi, dal viso cosparso di cerone bianco e dalle labbra color vermiglio, deciderà di sabotare i prodotti da trucco, rendendoli velenosi fino a far "morire dalle risate" i cittadini di Gotham. Per questo motivo, terrorizzati dal possibile malefico contagio cosmetico, i presentatori televisivi si

presenteranno davanti alle telecamere senza un velo di trucco, mostrando solo il loro pauroso aspetto reale. E anche per Nikita, nell’omonimo film di Luc Besson, l’opera di “trasformazione” incomincia davanti allo specchio. Condannata all’ergastolo con l’accusa di omicidio, Nikita viene prelevata dai servizi segreti francesi e addestrata a diventare un sicario. Il cambiamento di identità ne comporta anche uno fisico e mentre la protagonista dà inizio a questa metamorfosi, truccandosi le labbra, la voce della donna che l’aiuta nell’impresa le ricorda che solo due cose non conoscono limiti: la femminilità e i modi di abusarne!

Elisabetta Larice, si occupa di storia della fotografia e di linguaggi cinematografici.

In Edward mani di forbice, il make up rappresenta il collegamento emotivo che unisce la strana creatura all’intraprendente venditrice Avon. In Edward Scissorhands, makeup stands as the emotional connection that unites the strange creature to the enterprising saleswoman Avon.


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MAKE-UP in the movies

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Elisabetta Larice

A look back over the history of mankind gives us proof of the extensive and consistent use of cosmetics. As early as the dawn of humanity, primitive man adorned his body with colors as camouflage against the eyes of wild beasts and enemies. Today, after many centuries, cosmetic sciences have refined the tools and motivations behind this practice that has enabled women to manifestly express their personality or emphasize a temporary state of mind, regardless of age, social status, or occupation. And to men, make-up gives a feeling of confidence and security of their looks, while strictly remaining invisible. The cinema (similar to television) has also harnessed the great potential that make-up offers, making use of retouching to varying extents to create distinct expressions, portray characters, and invent personalities. At times, the cinema makes such skilful use of makeup, taking full advantage of the potential it offers, that it becomes almost imperceptible; at other times, make-up is exaggerated when the idea is to externalise a series of emotions harboured deep in the spirit of the character. A perfect case in point is the make-up used on the characters in A Clockwork Orange; the film's makeup artists created a stylised make-up for the Droogs, concentrating mainly on the make-up of the group leader and star, Alex. False eyelashes applied to his right eye only gives him a merciless and surreal expression, revealing an inner personality that hungers for violence. The make-up, along with a masterful choice of musical score, is one of the most important elements that shapes Alex's character and defines the undeniable

violence that Kubrick's vision of man harbours deep within him. In other instances, paradoxically, the film industry turns the chicanery of make-up and disguise into the underlying theme, as was hilariously the case in Sydney Pollack's Tootsie. In this film, an unemployed Broadway actor (Dustin Hoffmann) finds work only after disguising himself as a woman. On this occasion, make-up is the hypertrophic element that pronounces the theme of the film and uses humour and irony to make us reflect on the acting profession, loading the pill with clever satire. Tonics, compact creams, foundations and cover up are the tools of the trade of Peg Boggs, the hardworking, enthusiastic Avon lady in Edward Scissorhands. She plies her tools in preparing the strange creature for his invitation to appear on a television talk show. Having Edward in her home gives Peg, at long last, her chance to consult with the unapproachable manageress of the make-up conglomerate and gain her hallowed advice on how to use her beauty products to their highest


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the green-haired pseudo-homicidal artist with chalk white countenance and scarlet lips, decides to sabotage all make-up products, making them poisonous to the citizens of Gotham City, who would "die of laughter." Stricken with terror by the idea of this malign cosmetic contagion, television news anchors appear before the cameras without a trace of make-up, showing instead their true, frightening selves. Even in Nikita, Luc Besson's film, the work of transformation begins in front of a mirror. Sentenced to life imprisonment for alleged homicide, Nikita is taken by the French secret services and trained as an assassin. The identity change leads to a radical change in her appearance. While Nikita begins her metamorphosis by applying lipstick, the woman helping her in the altering endeavour reminds her that there just two things in life that know no limits: womanliness and the ways to exploit it!

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Elisabetta Larice, is an expert of photography and cinematographic expressions.

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potential. In another Tim Burton film, Batman, the sticky issue of how to accomplish believable make-up appears again, this time on the Joker (played by Jack Nicholson), the nemesis to the Black Knight. The make-up proved important for the character as well as for the actor. In this film, the make-up's objective was to give a face to the Joker without completely obscuring Nicholson's own and causing him to lose its natural expressiveness. No easy feat. Make-up artists spent at least two hours to achieve the transformation: 90 minutes to apply the pieces to his face and colour them, twenty minutes for the green wig and ten minutes for the final touches. All this strongly influenced the portrayal of the character and Nicholson had to restrain his expressiveness in some scenes to keep the film from sinking into absurdity. As regards the character, don't forget that the Joker, alias Jack Napier, after early tussle with Batman, plunges into a tank brimming with toxic chemicals; he emerges from the mire with his disfigured face frozen into a diabolical sneer. Once transformed into the Joker,


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L’imballaggio di Marca: Finzioni Supreme

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Dieter Bakic, Monaco

L’imballaggio viene acquistato dalle aziende, reso commerciale dal marchio, acquisito dai consumatori. Il Packaging deve esprimere il più possibile i requisiti del marchio - non solo mostrare un particolare livello di qualità, attenersi ad un determinato logo o ad un certo tipo di font e schema di colore, ma anche preannunciarne il messaggio e suscitare emozioni. Le aziende di marca mettono in evidenza proprio l’immaginario di questo specifico settore e dei suoi prodotti: i sogni e gli umori, le passioni e la moda, il lusso, la giovinezza, lo spirito del tempo. Il designer dovrà saperli trasformare nelle realtà della plastica e del vetro. Le case produttrici, stimolate dalla necessità di rispondere in modo opportuno alle tendenze, costrette a confrontarsi con l’aumento dei prodotti e con cicli di produzione sempre più brevi, devono quindi far fronte alla crescente importanza dell’aspetto commerciale per cui hanno iniziato a richiedere packaging già disegnati e sviluppati che aspettano solo di essere prodotti, riempiti e distribuiti. Per queste aziende, l’imballaggio standard, così chiamato, riduce considerevolmente i costi e i tempi di fornitura . Il nostro scopo, come progettisti

di “standard” consiste, con un approccio diverso, nell’eliminare la contraddizione tra l’imballaggio “già pronto” e il rispettivo prodotto cosmetico che dovrà impersonare, di volta in volta il desiderio, il piacere, il prestigio, oppure infondere tranquillità, rilassamento, o autostima. Io e il mio team siamo così arrivati alla conclusione di dover fornire di immaginario l’Idea Marchio nel senso platonico del termine. Abbiamo quindi selezionato e creato gli attributi tipici di un marchio, come il nome e il logo, e poi abbiamo ideato l’esperienza sensoriale ed emotiva che avrebbe dovuto evocare. Inoltre, mentre facevamo uso dei nostri imballaggi standard, anticipavamo la nascita di nuovi prodotti e il conseguente sviluppo consistente nell’ampliamento della linea . Abbiamo in questo modo voluto dimostrare come l’imballaggio standard, quando viene fatto con immaginazione e creatività, può sembrare il packaging di un prodotto di bellezza personalizzato . Il Luxepack è stato per noi una buona opportunità. Per presentare il nostro prodotto, e come linea guida per lo sviluppo del marchio, abbiamo creato tre temi principali - più propriamente dei “racconti”. Ogni racconto

consisteva in varie idee su più dimensioni. Le contraddizioni e le trasformazioni, quanto un tocco di humor, facevano parte di queste storie. • Blauer Engel rappresenta una donna classica e sensuale, una irresistibile seduttrice che coniuga il potere della bellezza femminile con l’ambizione maschile. Il simbolo del suo regno è l’oro, i suoi colori sono scuri e raffinati, come il rosso borgogna o il semplice nero vellutato. • Fluxus, giovane, solare e pieno di divertimento, è il coloratissimo viaggio a metà strada fra il mondo dei Manga e la Fiesta messicana. La storia di Fluxus è piena di metamorfosi fantastiche e scambi di ruolo, dove l’attenzione è catturata da oggetti piccoli ma quasi insolenti, sempre pronti a combinare qualche sorpresa. Il carattere poliedrico di queste eroine “camaleontiche” si riflette nei colori di gusto etnico e nei forti contrasti, di sicuro impatto. • Poetic Fairy è un territorio magico, abitato da bellezze pure e innocenti, con tratti da elfo, che giocano a nascondino; con un semplice cenno degli occhi, però, possono scatenare la confusione. La scena è graziosa e incantata come il Sogno d’una notte di mezza estate; ritmo e


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Dieter Bakic è designer ed imprenditore della DieterBakicDesign and DieterBakicEnterprises (Munich, Paris, New York)

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struttura compongono un insieme delicato, che può essere paragonato alle ali di una farfalla. L’atmosfera eterea, infine, è espressa dalle tonalità del bianco e dalle trasparenze. Partendo dalle storie Blauer Engel, Fluxus e Poetic Fairy abbiamo creato i rispettivi marchi-campione: Marlene, Fluxus e Invisible. Ciascun prodotto ha un elemento centrale originale, per esempio, il profumo che poi si amplia in una famiglia di prodotti diversi, come una linea per il trattamento, una linea trucco, o magari la sottomarca Oskar, una linea per la cosmesi maschile. Vorremmo convincere i potenziali clienti che le apparenze si possono trasformare in cose concrete e dimostrare le possibilità degli imballaggi standard. Crediamo, come scrisse il poeta americano Wallace Stevens che “… ciò che rende l’artistadesigner la figura importante che è, che è stato, o che dovrebbe essere, sta nel fatto che è proprio lui che crea il mondo in cui ci troviamo incessantemente coinvolti senza rendercene conto, ed è lui che ci offre quelle supreme finzioni della vita senza le quali saremmo incapaci di concepirla”. Infine, come in tutte le “supreme finzioni”, è la Bellezza che trascende il mondo e lo illumina.


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Brand Packaging: Supreme Fictions

consists of a set of ideas and has more than just one dimension to it. Contradictions and transformations are part of these stories as much as a touch of humor.

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by Dieter Bakic, Munich

Packaging is purchased by companies, marketed by brands, acquired by a consumer. Packaging has to express brand requirements as completely as possible - not only display a particular quality level, not just stick to a particular logo, lettertype, and color schemes but also herald the brand's message, and evoke emotions. Cosmetic brands visualize appearances inherent to this very specific industry and its products: dreams and moods, passion and fashion, luxury, youth, spirit of times. The packaging designer will have to merge the aforementioned appearances into the realities of plastic and glass. Driven by the need of a timely response to trends, challenged by an increasing amount of product launches and shorter product cycles, cosmetic companies are faced with a rising importance of the time-to-market factor. Consequently, they have started to look for already designed and developed packaging which is only waiting to be produced, filled, and distributed. This so-called standard packaging considerably reduces costs and lead times for cosmetic brands. Our goal, as standard packaging designers with a different approach, is to lift the contradiction between the prefabricated standard packaging and the respective cosmetic product which is the embodiment of desire and pleasure, or prestige, or calmness, or relaxation, or self-confidence. So my team and I came to the conclusion, that we needed to create an "appearance of the Brand Idea" in the full Platonic sense of the word. We selected and created attributes of a brand, such as name, logo, creation of sensory experience, evocation of emotion. Moreover, while making use of our standard packaging series, we consistently anticipated a brand's birth as well as its evolution by providing line extensions and diversifications. We wanted to demonstrate how standard packaging, when done imaginatively and creatively, can give the appearance of distinctive cosmetic brands The Luxepack trade show, which gathers the luxury industry and its suppliers, proved to be a good opportunity. We have created three lead themes - more appropriately called “tales” - as brand development guidelines for our product presentation. Each tale

• Blauer Engel represents a sensual classic woman and an irresistible seductress. She embodies the sheer power of female beauty mixed with masculine ambition. Second best will never be good enough for her. The core symbol of her reign is luxurious gold. Her colors are dark and lavish, like burgundy red or simply velvety black. • Fluxus, young, sassy and full of fun, it stands for a wild, colorful trip somewhere between a Manga comic and a Mexican festival. The story of Fluxus is full of fantastic transformations and role play. Cheeky little things play with touchy-feely elements and are always ready for exciting surprises. The twisted character of chameleon-like heroines is reflected in ethno-inspired colors with an impact on strong contrast. • Poetic Fairy, a fairyland, is inhabited by pure, elfish beauties who play hide and seek. With a wink they cause deliberate confusion in a cheerful and magical Midsummer Night’s Dream-like scenery. Structure and rhythm form a delicate appearance that can best be compared to the wings of a butterfly. The ethereal atmosphere is expressed in variations of white and transparent colors. Starting from the background stories Blauer Engel, Fluxus and Poetic Fairy we have created respective sample brands, Marlene, Fluxus, and Invisible. Every brand has an original core product, for example, a fragrance. From there on, this core product evolves into different product categories, such as skin care or color, or into a subbrand Oskar, a men’s skincare line. We want to bring the potential packaging buyer towards turning appearances into real things, eventually, to show him what is possible with the right approach to standard packaging. We feel, as the American poet Wallace Stevens wrote, that "...what makes the artist-designer the potent figure that he is, or was, or ought to be, is that he creates the world to which we turn incessantly and without knowing it and that he gives to life supreme fictions without which we are unable to conceive of it". And in all the "supreme fictions", it is Beauty which transcends the world and illuminates it. Dieter Bakic, of DieterBakicDesign and DieterBakicEnterprises (Munich, Paris, New York) is cosmetic packaging designer and entrepreneur.


book box

Packaging Prototypes 3 – Thinking Green Edward Denison, Guang Yu Ren, Rotovision 2001

Terzo capitolo nell’ideale antologia del packaging design d’avanguardia, dopo i precedenti due volumi dedicati ai prototipi di packaging più famosi. Qui si parla del futuro del packaging sostenibile: un tema quanto mai attuale, al centro anche delle recenti campagne di comunicazione del Conai. E qui si tocca con mano la possibilità per il packaging di cessare di essere l’angosciante generatore di sempre nuova e indistruttibile immondizia: tramite pallets di cartone compresso, di contenitori per fast food caldi in carta riciclabile, di sacchetti per la spazzatura completamente biodegradabili, e, udite udite, di coni di carta per contenere ice cream o altri cibi (ma non è la rivincita del tradizionale “coppo” di cui abbiamo parlato in Impackt, 1/ 2002?). Completa il volume una esauriente introduzione sulla nascita di un consumismo ecologicamente consapevole e sul ruolo strategico di un packaging design “sostenibile”.

Designers’ Self Promotion AAVV, HarperCollins, New York, 2002

It is always interesting to follow the developments taking place in contemporary design, because it holds surprises even for the industry's "enlightened". Still more interesting is to discover how designers and design studios market their services and focus the attention of their prospective clients. In a book brimming with concrete examples, some presentations are truly memorable: H55 studio (Singapore, Hanson Ho designer) proposes a blister package containing two inflatable balloons; the English Sprinter group have come up with an innovative storage box for their design post cards; the Swiss Walhalla shows their box-infobox;

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E’ sempre interessante seguire le evoluzioni del design contemporaneo, perché riserva sorprese anche agli addetti ai lavori. Ma ancor più interessante è scoprire in che modo i designer e gli studi di design vendono se stessi e i propri servizi e attirano l’attenzione dei loro possibili clienti. In un libro ricco di esempi concreti, sono indimenticabili le presentazioni dello studio H55

(Singapore, designer Hanson Ho) che propone un blister con dentro due palloncini gonfiabili; o gli inglesi Sprinter, che hanno realizzato un contenitore per le cartoline dei loro progetti, o gli svizzeri Walhalla, che creano una scatola-infobox, o il formalismo assolutamente superbo di Pentagram, famoso studio che vanta tra i suoi clienti l’agenzia di stampa Reuters e il quotidiano The Guardian. Molto spesso nei progetti tira un’aria retrò, altre volte una raffinata e molto controllata voglia di perfezionismo hi-tech: ma quasi dappertutto il packaging la fa da padrone.

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This is the latest book in the superlative anthology of revolutionary packaging design, following up on the first two volumes dedicated to the most famous packaging prototypes. This volume touches on the future of sustainable packaging, a highly contemporary topic and the focus of Conai's recent advertising campaign. Here, we are privy to the amazing potential of

packaging to cease to be the unwitting generator of increasingly new and indestructible rubbish. Some examples include development of new compressed cardboard pallets, recyclable hot fast food containers, completely biodegradable trash bags, and what's this? paper cones to hold ice cream and other foods (hey, isn't this the revenge of the traditional "cup" discussed in Impackt, issue 1, 2001?). Concluding the volume is a comprehensive foreword on the advent of a new brand of thinking consumerism and the strategic role of "sustainable" packaging design.


book box or the fabulous formalism of Pentagram, the fabled studio that counts among its clients the Reuters press agency and the London daily, The Guardian. Very often we can sense a definite retro feel in the designs; other times, an elegant and controlled need for high-tech perfectionism: but just about everywhere, packaging dominates.

La Triste Scienza,

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Fulvio Carmagnola, Meltemi, 2002

La “triste scienza di cui far dono all’amico” è quella sviluppata da Adorno nei Minima Moralia, diventati a loro volta un feticcio di culto da quando vennero citati da Battiato in una hit degli anni 80, Bandiera Bianca. Spaziando tra pop ed élite, dai quartieri “bene” a quelli malfamati della cultura contemporanea, Carmagnola ci offre una preziosa e aggiornata mappa per muoverci fra due categorie oggi al centro del dibattito teorico, il simbolico e l’immaginario. La tesi profonda del saggio è che questi due concetti costituiscono ormai le colonne d’Ercole dopo le quali comincia la “vera” realtà; in altri termini, nessuna interpretazione del reale è praticabile nelle attuali condizioni, se non riesce a confrontarsi con il livello simbolico, diremmo relativo alle tradizionali forme di rappresentazione, ma ancor più con il piano immaginario, che riguarda il territorio conteso dei consumi, dei media e delle merci, da cui oggi il pensiero teoretico non può più chiamarsi fuori.

The "sad science to present to a friend" describes the science developed by Adorno in his Minima Moralia, which consequently became a cult obsession when it was mentioned in Battiato's eighties' hit, Bandiera Bianca. Bridging the gap between pop and elite, the chi-chi neighbourhoods and the red-light districts of contemporary culture, Carmagnola offers us an indispensable and up-to-theminute map on how to move between two categories that lie at the centre of today's theoretical debate, the symbolic and the imaginary. The underlying theme of the book is that these two concepts make up the Pillars of Hercules, beyond which begins a "true" reality: in other words, no interpretation of reality can be made under present-day circumstances, unless it is compared with the symbolic level, we might say related to the traditional forms of representation, but even more with the imaginary scope that involves the territory of consumption, the media, and merchandise; the theoretical belief can longer opt out.

Zeropoli. Las Vegas, Città del Nulla Bruce Bégout, Bollati Boringhieri, 2002

Un’indagine sulla noncittà per eccellenza, Las Vegas, dove confluiscono seduzione commerciale e immaginario infantile, cattivo gusto e gigantismo, parchi di divertimento e hotel-casinò. Tuttavia, Las Vegas costituisce anche un prototipo urbano che indiscutibilmente rischia di divenire

il modello delle nostre “normali città”. Ad essa si ispirano di fatto non solo i progetti di recupero delle aree urbane degradate, non solo i grandi centri del divertimento spettacolare, ma anche i più circoscritti mall o centri commerciali nostrani, i quali, confrontati coll’archetipo americano, rivelano la loro vera origine e forse il loro destino. Nonostante oggi sia molto in voga l’idea che i punti vendita debbano soprattutto costituire dei momenti di esperienza gradevoli, Zeropoli ricorda che l’esperienza nella società spettacolare lasvegana è insieme la merce più pubblicizzata ma anche la risorsa più scarsa. An exploration into the quintessential un-city, Las Vegas, where commercial seduction and the puerile imagination come together and culminate in poor taste and enormity, amusement parks and hotel casinos. Still, Las Vegas also represents an urban prototype that presents the unquestionable risk of turning into a model for our "normal cities." Vegas has been used as a standard not only for redeveloping degraded urban areas, not only for great centres of shows and entertainment, but also for the smallest malls and home-grown shopping centres, which, when compared with the typical American model, reveal their true ancestry or perhaps their destiny. Today, though a notion has been gaining fashionability whereby retail stores should convey important, even pleasant experiences, Zeropoli reminds us that the experience in the spectacular Vegas society is both its most publicized merchandise as well as its scarcest resource.




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