Impackt 1/2005

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1/2005 € 11,00


mother & son po up gr life or sf on en rd co

da ogni albero nasce un albero Per il Gruppo Cordenons, Cartiere da 4 generazioni, la cura dell'ambiente è una priorità. Dal 1990 l'impegno per la preservazione ambientale si è realizzato con la Fondazione del Parco botanico Saussurea a Courmayeur e aderendo al progetto Trust The Forest con l'adozione di 3.000 Km2 di Foresta pluviale in Gabon. Gruppo Cordenons dedica alla ricerca e sviluppo di carte particolari per editoria, packaging, corrispondenza, pubblicità gran parte delle proprie risorse.

Graphic design: Maurizio Milani

www.gruppocordenons.com


credits

Questo numero è stato realizzato con il contributo di This issue has been created with the contribution of

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II copertina

III copertina

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photo by Erica Ghisalberti


Il Packaging è Comunicazione

user instructions

Sonia Pedrazzini, Marco Senaldi

Il packaging è comunicazione non tanto perché ci parla (o ci urla) dallo scaffale, si manifesta con la sua fisicità, ci seduce e ci convince. È comunicazione soprattutto perché è in grado di attivare un rapporto esplicito e diretto con l’utilizzatore; incanala empatia ed emozione, riesce a creare un legame mentale, oltre che sociale e storico. L’effetto psicologico che un pack può avere su di noi dipende non solo dalla sua dimensione grafica e strutturale ma anche, e forse soprattutto, dall’utilizzo, sempre più dichiarato e creativo, che se ne fa all’interno di situazioni mediali e comunicative come quelle della pubblicità o del marketing. Oggi, a decretare il successo di un imballaggio serve qualcosa che va oltre l’imballaggio stesso; deve essere presente, cioè, un territorio evocativo ed emozionale costruito ad hoc, in cui questi sia parte attiva e integrata, un sistema assai più ampio che comprende anche il nostro immaginario, i bisogni reali, il prodotto contenuto, il produttore, la marca. Così ha saputo fare, ad esempio, Tetra Pak, che per promuovere i suoi imballi ha generato un contesto comunicativo molto speciale e tramite

la pubblicità e le campagne stampa ha stabilito un dialogo diretto con la gente comune informandola di quanto i suoi contenitori proteggano e siano preziosi alleati della qualità. Gestire l’aspetto comunicativo del packaging non è cosa semplice, ne abbiamo quindi parlato con chi lo fa di mestiere e conosce le sottili logiche che muovono i mercati e le merci; abbiamo intervistato due grandi agenzie internazionali di strategic e brand design: RobilantAssociati e Pentagram. Ma, alla fine, cosa comunica il packaging? Potenzialmente tutto: dai prodotti del “made in Italy”, visti e narrati da Maria Gallo, alla musica, rappresentata da alcuni originali esempi di confezioni per CD. Dalla paura - esorcizzata dagli “imballaggi antifobia” dei designer svedesi Propeller - ai libri, quelli redatti ed “impacchettati” dai talentuosi di Fabrica. Dall’arte, glamour, evanescente e contemporanea di personaggi come Rob Pruitt, all’estetica che caratterizza gli imballi delle merci di culto, secondo le riflessioni di Fulvio Carmagnola. Fino al nulla, cioè fino alla comunicazione dell’immaterialità, analizzata e raccontata dagli esempi che per noi ha individuato Carlo Branzaglia. 1/05 3


user instructions

Packaging is Communication Sonia Pedrazzini, Marco Senaldi

Packaging is communication not so much because it speaks (or shouts) at us from the shelves, it manifests itself with all of its physical nature and seduces and convinces us. It is communication aboveall because it is capable of activating an explicit and direct relation with the user; it channels empathy and emotion, it manages to create a mental link as well as a social and historical one. The psychological effect that a pack might have on us depends not only on its graphic and structural dimension but also and perhaps aboveall from the use, evermore declared and creative, that is made of it within medial and communicative situations like that of advertising and marketing. Nowadays, to decree the success of a packaging item, something is needed that reaches beyond the packaging itself; an evocative and emotional world built ad hoc also needs to be present, the packaging item being an active and integral part of the same, a much broader system also including our own imagery, our real needs, the product contained, the producer, the brand.

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This is what for example Tetra Pak has been able to do, that for promoting its packaging items has generated a highly special

communicative context and through advertising and press campaign managed to set up a direct dialogue with the public, informing them to what degree its containers protect and are precious allies of quality. Running the communicative side of packaging is no simple matter, hence we spoke to those that who do it for a living and who know the subtle logic that moves markets and merchandise; we interviewed two big international strategic and brand design agencies: RobilantAssociati and Pentagram. But finally, when it comes down to it, what does packaging communicate? Potentially everything: from Italian products, seen and narrated by Maria Gallo, to music, represented by some original examples of CD cases. From fear - exorcised by the “packaging antiphobia” of the Swedish designers Propeller - to books, those edited and “packed” by the talented Fabrica. From the fleeting and contemporary art and glamour of personalities such as Rob Pruitt, to the aesthetics that feature on the packaging of cult merchandise, this according to the reflections of Fulvio Carmagnola. Up to nothing, or that is up to the communication of immaterialness, analysed and recounted by the examples that Carlo Branzaglia has chosen for us.


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GUIDA TURISTICA ATTRAVERSO I PANORAMI REALI E MENTALI DEL PACKAGING TO URIST GUIDE TO THE REAL AND SPIRITUAL LANDSCAPES OF PACKAGING

I N

Q U E S T O

N U M E


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identi-kit Rob Pruitt: la Magia dei Segni Marco Senaldi

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identi-kit A colazione da Tiffany O. Jünke, F. Nieddu

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shopping bag Storie di Packaging O. Jünke, F. Nieddu

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new! Graphic Design Day

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music box Progetti Sonori Charlotte Rivers

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identi-kit Branding versus Packaging Sonia Pedrazzini

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warning! Capire le Cose 100 Marco Senaldi school box Master in Packaging Design IED 110 tools Libri come Film e Film come Libri 114 Gabriele Ilarietti show box LʼOpera dʼArte tra lʼIpermercato e Piazza Affari 116 Marco Senaldi

R O - 1 / 0 5

tools I Packaging Editoriali di Fabbrica 122 warning! LʼOggetto che Non cʼè Carlo Branzaglia

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shopping bag La Bontà Protetta Sonia Pedrazzini

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design box Disegnare le Proprie Paure container Made in Italy Maria Gallo

70

74

book box 125

Le nostre copertine Front cover Photo archivio Tetra pak Back cover Rob Pruitt Panda and Bamboo, 1999 Courtesy: Gavin Brown’s enterprise, New York

I L PA C K A G I N G È C O M U N I C A Z I O N E

user instructions Il Packaging è Comunicazione S. Pedrazzini, M. Senaldi

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user instructions Packaging is Communication S. Pedrazzini, M. Senaldi

PA C K A G I N G

IS

C O M M U N I C AT I O N

identi-kit Breakfast at Tiffanyʼs O. Jünke, F. Nieddu new! Graphic Design Day

4

warning! Understanding things Marco Senaldi

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school box Master in Packaging Design IED

24

music box Sound Projects Charlotte Rivers

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identi-kit Branding versus Packaging Sonia Pedrazzini

46

warning! The object that isnʼt there Carlo Branzaglia

55

shopping bag Protected goodness Sonia Pedrazzini

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design box Designing your own fears

tools Books like Films and Films like Books Gabriele Ilarietti show box The work of art between the Hypermarket and the Stock Exchang Marco Senaldi

112

114

120

tools Packaging for Publishing by Fabrica

124

book box

125

72

container Made in Italy Maria Gallo

80

identi-kit Rob Pruitt: the Magic of Signs Marco Senaldi

88

Front cover Photo archivio Tetra pak Back cover

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Panda and Bamboo, 1999 Courtesy: Gavin Brown’s enterprise, New York

Our covers

Rob Pruitt

shopping bag Packaging stories O. Jünke, F. Nieddu

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Direzione editoriale

Hanno collaborato

Redazione

Segreteria Ufficio tecnico

Progetto grafico

Impaginazione

Numero

Periodicità: Abbonamento per 3 numeri:

Redazione, Direzione, Amministrazione, Diffusione e Pubblicità

Product manager Sonia Pedrazzini, Marco Senaldi (info.impackt@libero.it)

Condirettore Luciana Guidotti

Ricerca immagini e fotografia Erica Ghisalberti

Maria Gallo, Gabriele Ilarietti Olav Jünke, Francalma Nieddu Daniela Binario, Elena Piccinelli, Marta Piergiovanni, Ado Sattanino Leila Cobianchi Massimo Conti

Erica Ghisalberti, Vincenzo De Rosa

Vincenzo De Rosa (Studio Grafico Page - Novate - MI)

Traduzioni Dominic Ronayne, Katy Moore,

Lastre e stampa Àncora S.r.l. - via B. Crespi 30, 20159, Milano

1/2005 - anno 4 Registrazione del Tribunale di Milano n. 14 del 14/01/2002. Iscrizione nel Registro degli Operatori Comunicazione n. 4028

Spedizione in a.p.- 45%- art. 2 comma 20/b legge 662/96 Filiale di Milano 1 copia Euro 11 - Arretrati Euro 22

semestrale Italia Euro 25 - Estero Euro 50

La riproduzione totale o parziale degli articoli e delle illustrazioni pubblicati su questa rivista è permessa previa autorizzazione della Direzione. La Direzione non assume responsabilità per le opinioni espresse dagli autori dei testi redazionali e pubblicitari

Edizioni Dativo Srl Via B. Crespi, 30/2 - 20159 Milano Tel. 02/69007733 - Fax 02/69007664 impackt@dativo.it http://www.dativo.it Armando Lavorini (sales@dativo.it)

La copertina di Impackt è stampata su carta Natural Evolution 280 g Gruppo Cordenons

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Stefano Lavorini

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colophon


identi-kit

Colazione da Tiffany Intervista a Paula Scher, partner dello studio Pentagram, che ha ridefinito il packaging di un simbolo del lusso: Tiffany.

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Olav J端nke e Francalma Nieddu


Il congresso GraphicEurope Berlin 2004 è stato l’occasione per incontrare Paula Scher - partner di Pentagram New York - e per parlare sia dell’attività creativa dello studio che del modo di fare packaging oggi. Lo studio Pentagram è stato fondato a Londra nel 1972 da cinque soci: Colin Forbes, Theo Crosby, Kenneth Grance, Alan Fletcher e Mervyn Kurlansky. Con sedi a New York, San Francisco, Austin, Berlino, rappresenta la storia di un modello professionale più che di uno stile progettuale. Non emerge un’unica visione globale né una teoria unificatrice dell’architettura, del design e della grafica, tutti settori in cui opera con successo. A contare sono le idee, lo spirito collaborativo come principio pragmatico del lavoro, supportato dallo spirito imprenditoriale e il continuo avvicendarsi di partner (attualmente sono diciannove) con cui sviluppare innovazione, idee e prodotti.

Pentagram ha nel suo portfolio clienti nomi come: Philips, Pantone, Autogrill, Boots, Swatch, Virgin Atlantic, Getty images, Phaidon edizioni, Damiani gioielli, Nike. Paula Scher è partner di Pentagram dal 1991 per cui ha sviluppato sistemi di corporate image, branding, packaging. È una personalità eclettica che negli anni ‘70 ha cominciato a lavorare come designer grafico per le case discografiche Atlantic e CBS, e nel 1984 ha aperto il suo studio a New York insieme a Koppel. Ha vinto molti premi e prestigiosi riconoscimenti come il Chrysler Award per l’innovazione nel design nel 2000, e suoi lavori sono presenti nelle collezioni permanenti di vari musei, come il MOMA di New York e il Centre Pompidou di Parigi. Make It Bigger è il titolo della monografia sulla sua carriera pubblicata, nel 2002, da Princeton Architectural.


identi-kit

Qual è il futuro della comunicazione nel packaging, tenendo conto che prodotto e confezione saranno sempre più integrati? Il ruolo della comunicazione nel packaging cambierà, è un processo già avviato. Marchi, prodotti e imprese saranno percepiti dai consumatori allo stesso modo. Ogni comunicazione sarà vista ugualmente con la stessa rilevanza, avrà una stessa “aura”. Un negozio sarà uguale ad un prodotto, come un packaging ad un direct mailing o ad una segnaletica. Per il designer, l’insieme di competenze necessarie sarà sempre più multidisciplinare e collaborativo. I progettisti dovranno essere capaci di sviluppare sia concetti bidimensionali che tridimensionali, usando contemporaneamente media interattivi, immagini, suoni e tecnologia. I designer del futuro saranno quelli capaci di pensare su scale dimensionali diverse e in modo unitario.

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Il lavoro di Pentagram è il risultato di stili differenti dovuti alle singole personalità dei partner o deriva da un unico tipo di approccio al progetto? Sono presenti entrambi gli aspetti. Per Pentagram l’obiettivo è tenere sempre alta la qualità formale. In un progetto eleviamo il livello estetico e poi arricchiamo ulteriormente il risultato con qualcosa di più. Per noi il design non è solo uno strumento di lavoro, è anche un contenuto in se stesso.

…e parlando in particolare di packaging? Partiamo sempre dall’identità dell’impresa e da questa deriviamo il packaging adatto. Il packaging, oltre a sperimentare lʼuso di nuovi materiali, tenderà a ricercare anche nuove forme derivanti da tali sperimentazioni? Sicuramente sì. Ma spesso i budget sono così limitati che non è possibile cambiare né i materiali né la forma degli imballaggi, costringendo a lavorare solo sulla superficie con interventi grafici. Un altro problema è testare i nuovi concetti di packaging; i focus group non forniscono mai una risposta realistica, risulta negativo quello che è diverso da ciò che si conosce. Forse basterebbe solo mettere un prodotto sullo scaffale e chiedere ad un gruppo di potenziali acquirenti cosa ne pensa, la risposta potrebbe essere semplicemente: “guarda questo packaging come è cool!” Ed è proprio questo che


bisogna fare, renderlo “cool” con qualche particolare che lo differenzi da prodotti simili o che ne migliori le prestazioni. Come quegli yogurt che, per pochi centesimi in più, regalano un CD musicale inserito nel coperchio della confezione? Esattamente: è sempre lo stesso prodotto, ma offerto in maniera più accattivante. Fare packaging oggi è come fare un film, ti deve affascinare, deve raccontare una storia.


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identi-kit

Pentagram cerca di convincere i suoi clienti a decisioni più coraggiose, che portino a sperimentare nuove soluzioni fino a rischiare di cambiare un processo produttivo? Lo facciamo sempre e, a volte, ci riusciamo. Molto spesso siamo noi stessi i risk manager [coloro che si prendono le responsabilità produttive, n.d.r.]. Mediante la comparazione con i prodotti concorrenti, mostriamo il valore, le possibilità insite nell’intraprendere nuove direttive e nuove strategie.

sia l’immagine coordinata per Citibank che quella di varie istituzioni culturali, fino a lavorare sul packaging per i gelati. Con una varietà di approcci che dipendono dal progetto.

Il lavoro di Pentagram è organizzato secondo specializzazioni crescenti, dal packaging allʼimmagine coordinata. Tu stessa sei specializzata in lavori di tipo istituzionale come quelli per le associazioni culturali, teatri e musei... Lavoriamo sempre in team e personalmente non mi occupo solo di istituzioni culturali, ma di immagine coordinata, packaging, prodotti editoriali ed altro; ad esempio seguo

Una prova tangibile di questa forma collaborativa l’abbiamo avuta, quando, alla richiesta di immagini da pubblicare fatta a Paula Scher, corrispondeva una risposta immediata da tutte le sedi. Per capire meglio come è stata applicata la filosofia progettuale di Pentagram in tutte le sue declinazioni, ecco in dettaglio alcuni progetti sviluppati da Paula e il suo team di New York.

Come dobbiamo immaginare i 19 partner di Pentagram nel mondo? Ognuno lavora con un proprio team e tutti collaborano sia a rafforzare l’immagine di Pentagram che a dare risposte coerenti alle richieste e ai bisogni del cliente.

Öola è una catena di negozi che vende dolci svedesi nei centri commerciali americani. L’azienda voleva entrare nel mercato con il nome di Sweetwave ma Paula Scher, chiamata nel 1988 a disegnarne i punti vendita, considera tale nome non attraente e poco adatto al consumatore americano e, per definire il nuovo marchio e la grafica, consiglia invece di giocare sulle origini europee dell’azienda. Il nome inventato öola diventa la base per la storia dell’identità visiva. Il suono scandinavo, le forme geometriche e l’umlaut, diventano il motivo centrale per la definizione


Il nostro non è un

semplice lavoro di macchine, piuttosto si sostanzia nell’abilità di interpretare le esigenze degli utilizzatori. Su questo fondamento si è costruita la Cartografica Pusterla che con il passare degli anni è cresciuta fino all’acquisizione della francese Coffrets Creation.

S O L O A S T U C C I E S C AT O L E R I V E S T I T E Rafforza così la propria posizione nel comparto delle confezioni di lusso: cristalli e porcellane, vini e liquori, profumi e cosmetici. Tutto questo significa rapidità di risposta, creatività, flessibilità, adattabilità della produzione, per un’offerta di qualità che spazia dagli astucci di cartoncino

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identi-kit

dell’identità. Le promozioni nel punto vendita, gli espositori e il packaging, sono composti da forme geometriche e utilizzano il nero, il bianco, il grigio e i colori primari nel genere De Stijl, lo stile modernista olandese di inizio secolo. Nel 2003 Pentagram ha sviluppato i nuovi standard d’identità per i negozi di lusso Tiffany & Co. Seppur considerato tradizionalmente il massimo del prestigio nella vendita degli articoli da regalo, Tiffany ha sentito il bisogno di riaffermare e di rinnovare il proprio marchio per l’aumento della competizione nel mercato del lusso. Pentagram ha ridefinito il logo e poi dato stabilità alla nuova identità sia attraverso il packaging e i vari materiali di corporate image, sia tramite la pubblicità. I nuovi standard puntano

sulla familiare e nascosta forza del marchio Tiffany: la “piccola scatola blu”. Buste e scatole sono state ridisegnate con un forte senso di eleganza e di lusso. Il logo è stampato assemblando caratteri tipografici in metallo con un raffinato effetto artigianale. L’interno e l’esterno delle scatole sono ricoperti da una particolare carta a finitura opaca. Il blu del marchio (registrato) molto vicino ad un azzurro è stato reso più caldo ed è stato usato tantissimo nelle campagne pubblicitarie su rotocalco, la più recente delle quali mostra un’unica piccola scatola Tiffany al centro della pagina, posizionata come se fosse essa stessa un oggetto prezioso, prima che qualcuno sveli il pregiato dono che contiene. La leggendaria marca di moda americana Perry Ellis, richiamava un’idea di prodotto fin troppo minimalista. Dovendo essere rilanciata, chiede a Paula Scher di ridisegnare il logo e l’identità grafica in modo da rappresentare la nuova direzione intrapresa dal marchio con il rinvigorire la linea di abbigliamento dallo stilista Patrick Robinson. Con un lavoro complementare la nuova identità di marca proposta dalla Scher presenta Perry Ellis come una sofisticata alternativa di prodotto di moda. Il nuovo logo comunica la classicità del marchio nel nuovo stile. Le etichette e i cartellini, con il loro logo decentrato, catturano ed esprimono lo spirito individualista della più recente linea di abbigliamento presentata nella collezione invernale del 2004.



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Dani Black è un nuovo marchio lanciato nel 2005, creato apposta per il distributore di scarpe Schwartz & Benjamin, presente da più di 80 anni sul mercato. Paula Scher ed il suo team sviluppano un’identità accessibile, contemporanea e attraente adatta a donne dai 25 ai 50 anni. Il nome Dani Black (derivante da una parte del cognome, Schwartz, nero) conferisce al marchio un’aria semplice e familiare. La grafica è chiara, moderna e giovanile, con un logo definito da un unico tipo di lettering nei colori blu e verde. Il marchio è composto da forme triangolari che formano un tenue monogramma “DB”; le forme appuntite implicano un senso di direzione che riflette l’aspirazione alla qualità. Pentagram ha dato nuova forma anche a Godiva Chocolatier, la celebre cioccolateria belga dagli anni ’60 di proprietà della società Campbell. Poiché una ricerca aveva evidenziato che la gente possedeva un’idea molto generica di quel marchio e che le soluzioni di packaging e visual merchandising coesistenti nel panorama dei punti vendita erano poco organiche, Pentagram, questa volta rappresentato dal partner Michael Bierut, ha rivalutato ed ottimizzato il marchio utilizzando tre principali componenti visuali: un disegno rappresentante Lady Godiva a cavallo, le parole “Godiva Chocolatier” e la palette di colori nero e oro. I nuovi parametri sono stati applicati al packaging, alle comunicazioni commerciali, alla pubblicità e alle presentazioni dei punti vendita in tutto il mondo. Un’indicazione dell’avvenuto riconoscimento da parte degli acquirenti è stato il commento “looks just like Godiva, only more so”, sembra proprio Godiva, anzi anche di più...


identi-kit

Breakfast at Tiffany’s An interview with Paula Scher, a partner in the Pentagram studio, responsible for restyling the packaging for a symbol of luxury: Tiffany’s. Olav Jünke and Francalma Nieddu

The GraphicEurope Berlin 2004 congress offered us the chance to meet Paula Scher - a partner in Pentagram, New York - and to talk about the creative activities of the studio and modern packaging trends. The Pentagram studio was set up in London in 1972 by five partners: Colin Forbes, Theo Crosby, Kenneth Grance, Alan Fletcher and Mervyn Kurlansky. Now with offices in New York, San Francisco, Austin and Berlin, it represents the story of a professional model rather than a given style of design. No single global vision emerges, nor a single theory unifying architecture, design and graphics, all sectors in which the studio operates with great success. What counts are the ideas and the spirit of collaboration that act as the pragmatic principle behind each job, supported by an entrepreneurial spirit and the continual coming and going of new partners (currently numbering nineteen) with whom to develop innovation, ideas and products. Pentagram’s portfolio includes names such as: Philips, Pantone, Autogrill, Boots, Swatch, Virgin Atlantic, Getty images, Phaidon, Damiani and Nike.

Is Pentagramʼs work the result of different styles due to the individual characters of the partners or does it derive from a single approach to the project? It’s a bit of both. The goal for Pentagram is to ensure top formal quality is always maintained. With each new project, we set out to raise the aesthetic level and then enrich it further with something extra. For us, design isn’t just a worktool, it’s also a content in its own right. …and what about packaging in particular? We always start from the identity of the company and hence develop the right packaging.

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Do you believe that packaging, as well as experimenting with the use of new materials, will tend to find new forms as a result of these experiments? Most definitely, yes. But the budgets are often so tight that it’s not possible to change either the materials or the shape of the packaging, forcing people to work on the surface only with new

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Paula Scher has been a Pentagram partner since 1991 and has developed corporate image, branding and packaging systems. She has an eclectic character: back in the ‘70s she started working as a graphic designer for the Atlantic and CBS record companies, then she opened her own studio in New York together with Koppel in 1984. She has won many awards and prestigious recognition, such as the Chrysler Award for innovation in design in 2000, and some of her works are found in the permanent collections of various museums, including the MOMA in New York and the Centre Pompidou in Paris. Make It Bigger is the title of the book describing her career published in 2002 by Princeton Architectural.

How do you see the future of communication in packaging, bearing in mind the fact that product and pack are becoming more and more integrated? The role of communication in packaging will change. Indeed, the process is already underway. Brands, products and companies will all be perceived in the same way by the consumers. Each communication will be seen as having the same relevance and will have the same “aura”. A store will be equal to a product, just as packaging to a direct mailing or a sign. From a designer’s point of view, the combination of skills needed will become increasingly multidisciplinary and collaborative. Designers will be expected to have the ability to develop both 2D and 3D concepts, using interactive media, images, sound and technology all at the same time. Tomorrow’s designers must be capable of thinking on different dimensional scales and as a single unit.


identi-kit graphics. Another problem is that of testing new packaging concepts; focus groups never really provide a realistic answer, as anything that differs from what one already is familiar with usually gets a negative response. Perhaps we should simply place a product on the shelf and ask a few potential buyers what they think; the answer could well be: “Look at this packaging, isn’t it cool!” And this is exactly what we should do, make it cool thanks to a few details that make it stand out from similar products or that improve its performance. Just like those yoghurts that, costing just a few cents more, offer a free music CD in the lid? Exactly: it’s always the same product, but offered in a new, more attractive manner. To create packaging today is like making a film: you have to fascinate the public, you have to tell a story. Does Pentagram try to convince its clients to take bolder decisions leading to trying out new solutions to the point that they risk changing a production process? We always do this and sometimes we manage it. Very often, we ourselves are the risk managers. By making comparisons with competing products, we show the value and the potential available by taking a new direction and adopting new strategies.

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Pentagramʼs work is organised along growing areas of specialisation, from packaging to the coordinated image. You yourself have specialised in institutional projects, such as those for the cultural associations, theatres and museums... We always work as a team and, personally, I don’t just deal with cultural institutions, but also coordinated image, packaging, publishing products and many others; for example, I’ve been involved in the co-ordinated image for Citibank as well as for various cultural institutions, not to mention icecream packaging. A variety of different approaches depending on the product itself. How should we imagine the 19 partners of Pentagram around the world? Everyone works with his/her own team and all collaborate closely both to strengthen the image of Pentagram and to provide coherent answers to our customers’ needs and requests.

We saw tangible proof of this form of collaboration when we asked Paula Scher for images for publication: there was an immediate response from all the studios. To get a better idea of how Pentagram’s design philosophy has been applied in all aspects, here are details of some projects developed by Paula and her New York team. Öola is a chain of stores selling Swedish confectionery in American shopping malls. The company wished to enter the market using the name Sweetwave, but Paula Scher, asked in 1988 to design the sales outlets, felt that the name wasn’t attractive enough and not really suitable for the American consumer. To define a new brand and the graphics, she advised them to play on the European origins of the company. The invented name - öola - became the basis for the story of the visual identity. The Scandinavian sound, the geometric shapes and the umlaut are the central motif for the definition of the identity. Promotions in the sales outlets, displays and packaging have geometric forms and use black, white, grey and primary colors typical of De Stijl, the Dutch modernist style from the early 1900s. In 2003 Pentagram developed new identity standards for the Tiffany & Co. luxury stores. Although traditionally considered to be the top prestigious store for the sale of giftware, Tiffany felt the need to strengthen and renew its brand due to an increase in competition in the luxury market. Pentagram restyled the logo and then established the new identity via the packaging and the various corporate image materials, as well as through advertising. The new standards focus on the familiar and hidden strengths of the Tiffany brand: the “small blue box”. Bags and boxes have been redesigned to create a strong sense of elegance and luxury. The logo is printed by assembling the fonts in metal with an elegant crafted effect. The inside and outside of the boxes are covered by a smart matt finish paper. The blue of this brand (registered, very close to sky blue) has been rendered warmer and used massively in the ad campaigns, with roto printing, the most recent of which shows a single small Tiffany box in the centre of the page, placed there as though a precious object, even before anyone starts to unwrap the valuable gift it contains.


identi-kit The legendary Perry Ellis fashion brand in the USA produced the idea of a product that was too minimalist. Given that the brand needed to be relaunched, they asked Paula Scher to redesign the logo and graphic identity to represent the brand’s new direction, strengthening the Patrick Robinson line of clothing. With a complementary job, the new brand identity proposed by Scher presents Perry Ellis as a sophisticated alternative in fashion products. The new logo communicates the classic nature of the brand in the new style. The labels and signs, with their off-centre logo, attract attention and express the individualist spirit of this new line presented in the 2004 Winter collection. Dani Black is a new brand launched in 2005 and created especially for Schwartz & Benjamin shoe distributors, on the market for more than 80 years. Paula Scher and her team have developed an accessible identity that’s contemporary and attractive, suitable for women aged 25 to 50. The name Dani Black (partly derived from the surname, Schwartz = black) gives the brand a simple, familiar feel. The graphics are clear, modern and

young, with a logo defined by a single type of lettering in blue and green. The brand consists of triangular shapes forming a soft monogram: “DB”. The pointed shapes imply a sense of direction, reflecting the company’s aspiration to quality. Pentagram has also given a new look to Godiva Chocolatier, the famous Belgian chocolate company owned by Campbell since the ’60s. A market survey found that the public had a very generic idea of the brand and the various packaging and visual merchandising solutions in the sales outlets were not well co-ordinated, so Pentagram, this time represented by the partner Michael Bierut, enhanced and optimised the brand by using three main visual components: a design representing Lady Godiva on horseback, the words “Godiva Chocolatier” and the use of black and gold. The new parameters have been applied to the packaging, the commercial communications, advertising and presentation in the sales outlets throughout the world. Proof of the improved recognition by buyers is the comment “looks just like Godiva, only more so”...


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Il graphic design come strumento di innovazione competitiva. A Bologna una giornata dedicata al ruolo strategico della grafica. Coordinata da Carlo Branzaglia (direttore di Artlab), il 24 febbraio scorso si è tenuto a Bologna, presso l’Aula Magna della Fondazione Aldini Valeriani, il primo Graphic Design Day, sul tema Il graphic design come strumento di innovazione competitiva, patrocinato dall’ADI Emilia Romagna (Associazione per il Disegno Industriale) e dalla rivista Artlab, in collaborazione con l’Istituto di Cultura Germanica di Bologna. Il tutto è stato promosso dalla Fondazione Aldini Valeriani all’interno del progetto e del corso “Intermedia designer”, promosso dalla Provincia di Bologna e dal Fondo Sociale Europeo. La giornata ha proposto una serie di

appuntamenti ed esposizioni relativi alla pianificazione strategica degli elementi di comunicazione, quella che in Italia viene chiamata “grafica”. Il Graphic Design Day, relativamente agli argomenti evocati, si è articolato su tre appuntamenti. Come momento principale, nel pomeriggio, si è tenuto un convegno internazionale nel quale, attraverso case histories, sono state affrontate le problematiche relative al graphic design come valore economico e strumento di innovazione sul mercato: dal punto di vista dell’azienda, del progettista/consulente, del designer inserito in dinamiche aziendali, del gestore, dell’ente

pubblico di riferimento. Al convegno, introdotto da Massimo Iosa Ghini (presidente dell’ADI Emilia Romagna), hanno partecipato: Omar Vulpinari (direttore del Dipartimento Comunicazione Visiva di Fabrica, del Gruppo Benetton), Massimo Pitis (presidente del Beda, Bureau europeo delle associazioni di design) e Henning Horn (direttore del Design Center Stuttgart). In mattinata si è svolto un seminario di presentazione delle entità che offrono servizi e networking nel campo del graphic design, cui si è aggiunta una relazione, tenuta da Marco Paglia (progettista di Siemens VDO), riferita alla gestione dell’impresa creativa.


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Infine, è stata organizzata una multivisione, dal titolo On e off. Grafica nuova, che ha raccontato le professionalità più giovani r verificato l’effettiva vivacità di proposte emergenti confrontate con il rigore metodologico che il mestiere presuppone. Durante il convegno, Branzaglia ha tenuto a sottolineare come la pianificazione strategica degli elementi di comunicazione sia uno dei cardini su cui poggia la trasmissione dei valori di un ente, privato o pubblico che sia, posizionando la marca di cui si va a occupare. Il graphic design, quindi, occupandosi dei marchi e dei sistemi che regolano la messa a norma di tutte le occorrenze comunicative dell’emittente, è un momento fondamentale, soprattutto quando, come oggi, è necessario usare modalità e supporti di comunicazione estremamente differenziati, che obbligano alla ricerca di guidelines duttili ma riconoscibili. D’altra parte non si può essere insensibili alle sollecitazioni di un immaginario in costante mutamento: altro compito della progettazione grafica, allora, è quello di cogliere sul nascere, magari fuori dal mainstream, i germi dei mutamenti nelle atmosfere visuali. Inoltre, quando parliamo di graphic design, bisogna ricordare, come ha detto Henning Horn, che stiamo parlando del processo che porta a creare una relazione visuale fra termini apparentemente scollegati (idee, simboli, parole, immagini …), in modo tale che l’insieme interessi e comunichi. Quando parliamo di comunicazione, ci riferiamo al processo di creare contatto con una audience desiderata, per farle giungere un messaggio. Creare impatto, attrarre l’attenzione e coinvolgere l’audience è, allora, il modo nel quale il design contribuisce alle strategie economiche di un’impresa.


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Graphic Design as a tool for competitive innovation. At Bologna a day dedicated to the strategic role of graphics.

Coordinated by Carlo Branzaglia (director of Artlab), 24th February last witnessed the first Graphic Design Day, held in the lecture hall of the Aldini Valeriani Foundation, based around the subject The graphic design as a tool of competitive innovation. The event was sponsored by ADI (Industrial Design Association) Emilia Romagna and by the magazine Artlab, in cooperation with the Institut for German Culture of Bologna. All this promoted by the Aldini Valeriani Foundation within the project and course “Intermedia designer”, promoted by the Province of Bologna and the European Social Fund. The day saw a series of encounters and expositions on the strategic planning of elements of communication, covering the area that in Italy is known as “grafica”. The subjects of the Graphic Design Day were divided up into three encounters. The main event, held in the afternoon, was an international conference where the question of the use of graphic design as an economic value and tool of innovation on the market was tackled presenting case histories: these seen from the point of view of the concern, from that of the planner/consultant, from the designer acting from within the concern, from the administrator, or from that of the competent public body. Those taking part at the conference, coordinated by Carlo Branzaglia and introduced by Massimo Iosa Ghini (president of ADI Emilia Romagna) included: Omar Vulpinari (director of the Department of Visual Communication of Fabrica, Benetton Group), Massimo Pitis (president of Beda, European Bureau of Design Associations) and Henning Horn (head of the Design Center Stuttgart).

A presentation seminar of the bodies that offer services and networking in the graphic design field was held in the morning, including a talk given by Marco Paglia (Siemens VDO designer), covering management of the creative concern. Lastly, a multivision session was organized, entitled On and Off. Grafica nuova, that dealt with new professional figures, taking a look at the verve of emerging positions seen against the methodological rigour demanded by the trade. During the conference, Branzaglia highlighted how the transmission of the value of a concern, whether the organization be public or private, hinges among other things on strategic planning of communication elements in positioning the brand in question. Hence graphic design, dealing with brands and systems that regulate the standardisation of all the communicative circumstances of the emitter, plays a fundamental part, aboveall considering that today a broad variety of communication

modes and media are required and that oblige one to seek malleable yet recognisable guidelines. On the other hand one cannot be indifferent to the pressure of a world of imagery in a continuous state of flux: another task of graphic design hence is that of registering the germs of change in the visual world in the making, and this even beyond the mainstream. As well as that, when we speak of graphic design, one should remember, as Henning Horn said, that we are speaking of a process that leads to the creation of a visual relation between apparently unconnected terms (ideas, symbols, words, images…) in order that the same arouse interest and communicate. When we speak of communication, we refer to the process of creating contact with the target audience to ensure that a message reaches them. By creating impact, drawing attention and involving the audience is hence the way in which design contributes to the economic strategies of an enterprise.



Progetti Il packaging dei CD musicali. Idee e progetti


Sonori

Charlotte Rivers

da vedere e da toccare, non solo da ascoltare.


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È dimostrato: la musica pop è l’area della produzione culturale con cui la gente identifica gli eventi e i periodi della propria vita e che, di conseguenza, sente “appartenerle” di più. Come conseguenza il packaging per la musica è una delle poche aree del disegno grafico capace di coinvolgere il grande pubblico. La combinazione di questi interessi e la natura sperimentale, spesso irriverente, delle copertine di molti album, ha fatto in modo che questi “contenitori” diventassero i riferimenti culturali di un’epoca; si pensi alla copertina di Sergent Pepper di Peter Blake o a quella di Andy Warhol per i Velvet Underground. Ma tutto questo potrebbe cambiare se il download dei file digitali via Internet si imporrà definitivamente come mezzo di diffusione della musica. Quando ho scritto CD Art, agli inizi del 2003, parlavo dell’imminente arrivo della musica digitale e, di fatto, due anni dopo, ha avuto una diffusione eccezionale. Alcune stime recenti mostrano che, nel corso dell’ultimo anno, negli Stati Uniti e in Europa, più di duecento milioni di tracce audio sono state legalmente

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acquistate on-line, dieci volte di più dell’anno precedente. Queste cifre continueranno sicuramente a crescere e, di conseguenza, gli artisti e le case discografiche dovranno lavorare duramente per incoraggiare i consumatori ad acquistare CD e vinili. Come ha detto il designer londinese Nat Hunter dell’agenzia Airside: «Di questi tempi la copertina di un album è più importante che mai. Si può scaricare qualunque cosa da Internet, ma se la copertina è bella c’è un buon motivo per comprarsela». In definitiva significa che, per quelli che disegnano il packaging dei CD, la materia si fa sempre più stimolante. A causa delle dimensioni ridotte, la piccola confezione di un CD deve assolvere a due ruoli: farsi notare sul punto vendita e rappresentare bene, a livello visivo, la musica che contiene. Questo compito, naturalmente, spetta al designer, il quale, per prima cosa, dovrà affrontare il progetto di un vero e proprio prodotto industriale, e dovrà chiedersi, per esempio, come verrà fabbricata la confezione, come si aprirà e si chiuderà, etc. E in un secondo tempo dovrà occuparsi anche del progetto editoriale, seguire


il progetto grafico dei libretti interni, il layout tipografico e così via. È una vera sfida, sia a livello di design grafico-bidimensionale che di quello tridimensionale. Dal punto di vista dell’imballaggio, prima di tutto si può notare che, sebbene vengano create sempre maggiori alternative al classico “jewel case” di plastica, un tale contenitore, difficile da aprire e facile da rompere, resta ancora la scelta standard. Questo non ha comunque impedito ai designer di continuare a sperimentare nuove possibilità, e quindi, sia che si producano scatole in tinta unita o trasparenti, che venga omesso il libretto interno per esaltare al massimo un’estetica pulita e minimalista, oppure che i dischetti trovino alloggiamento in una gran varietà di buste e di end cards, queste semplici variazioni aiutano comunque a distinguere un imballo tradizionale da un packaging particolare, e valorizzano l’esperienza dei consumatori offrendo loro qualcosa di più di un semplice CD in una scatola di plastica.

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case” di plastica può diventare un prodotto più attraente, ma il Digipak di cartoncino, nei suoi vari formati, sta diventando un valido sostituto, sempre più popolare e pratico. La copertina di cartone con all’interno il sostegno per il CD in plastica, si rifà alla vecchia custodia degli LP ed è un formato di gran lunga più versatile della classica custodia rigida. Il supporto in cui viene alloggiato il disco è disponibile in una varietà di colori e può essere posizionato nel centro, o sulla destra o sulla sinistra. Si può aprire in un attimo, in varie combinazioni da quattro a dieci o anche più facciate e apposite fessure o tasche possono contenere i vari libretti; il formato che si rinchiude su se stesso, può contenere una gran varietà di immagini continue o di

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Per la collezione Colette, i designer francesi Work in Progress hanno creato un pack dal design semplice, che però esalta grandemente l’effetto minimalista del “jewel case” trasparente tramite la stampa a un solo colore del testo in Helvetica presente su ogni copertina e facendo in modo di cambiare colore del carattere per ogni album successivo (1). Anche i londinesi Milk hanno usato “jewel case” standard, ma li hanno lasciati a tinta unita, creando poi delle apposite buste trasparenti per alloggiarli e su cui stampare i testi necessari (2). Quindi, con un po’ di immaginazione l’economico “jewel

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scritte. Un ottimo esempio di tutto ciò è il lavoro dei designer londinesi NonFormat per le copertine dei due album realizzati per l’artista Barry 7. In entrambi i casi hanno usato un Digipak di cartoncino stampato, ruvido da un lato e liscio dall’altro, suddiviso in sei facciate e con il CD sistemato alla fine. L’immagine, che si può vedere completamente solo quando la confezione è completamente aperta, è stata stampata sul lato ruvido, per donare al pack una decisa tattilità, che si manifesta anche grazie a zone stampate con inchiostro bianco lucido (3). Il designer francese Rik Bas Backer ha sfruttato un differente formato di Digipak per l’album creato dalla casa di moda A.P.C. La foto panoramica del giardino botanico di San Francisco è stata usata come copertina e all’interno il CD è stato posizionato al centro (4). Molti designer usano anche materiali come il cartone grezzo. La “fisicità” di questi materiali evoca un’idea di autenticità. Bruce Licher, fondatore dell’Indipendent Project Press negli Stati Uniti, è sia un musicista sia un designer, i suoi packaging per CD con lettere in rilievo sul cartone sono diventati sinonimo delle pubblicazioni della sua band, i Savage Republic. Una versione più diffusa di questa è il Digifile; è dello stesso formato del Digipak, ma consiste unicamente


nell’involucro di cartone e, al posto del supporto di plastica, ha tagli e fessure per disco e libretti. L’Eco-Wallet suggerisce ai designer o agli artisti eco-consapevoli anche la possibilità di una confezione, al tempo stesso pratica e “responsabile”, inoltre, le copertine in Tyvek, d’uso relativamente recente, diventano sempre più popolari in quanto hanno dimostrato di offrire un elevato livello di protezione del disco. Oggi, molti fattori fanno ritenere che ci sia una grande uniformità nel design delle copertine degli album musicali. Non ultimo il grande controllo delle case discografiche su

ogni aspetto che riguarda l’immagine di una band, proprio come se si trattasse della gestione di un marchio. Il design delle copertine degli album più commerciali viene realizzato seguendo le indicazioni del mercato: immagini degli artisti ritoccate e ingentilite, e caratteri tipografici prevalentemente bold. Detto questo, ci sono molti designer e case discografiche - soprattutto quelle indipendenti - che, quando devono lavorare sul packaging e sulla grafica, vogliono spingere molto in là i limiti del progetto. Se consideriamo l’aspetto più grafico del design, troviamo che i designer stanno sperimentando sempre di più, usano molto la fotografia creativa e l’illustrazione unita a media di vario tipo, per creare immagini che sono l’opposto di band inconsistenti e prive di ispirazione. I designer londinesi Big Active hanno usato molta fotografia in bianco e nero per illustrare il libretto dell’album Live it Like You Love it dei The Charlatans (5). Un’illustrazione dell’artista francese Laurent Fetis è

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stata usata sull’album di Hideki Kaji (6) e l’opera dell’artista britannico Thomas Barwick è stata usata per il packaging dell’album del giapponese Where Chu (7). D’altra parte, su una copertina realizzata dai designer londinesi Yacht Associates per i The Black Dog with Black Sifichi, è stata usata l’immagine di carne cruda per impressionare e turbare (8), mentre in contrasto, una sbalorditiva foto sexy è stata usata sul packaging

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dell’album mix del lussuoso albergo parigino, l’Hotel Costes, progettato da WA75 (9). Tutte queste copertine, sebbene differenti, sono buoni esempi di come la grafica possa aggiungere qualcosa in più a un album. Alla fine, il packaging della musica è buono quanto la musica che contiene, ma, progettando imballaggi più creativi e “sensoriali”, capaci di ampliare l’esperienza del consumatore, i progettisti possono trovare una via


creativa di successo, seppur commerciale, ed evitare il pericolo che questi tipi di imballi divengano oggetti superati e poco attuali. Benché stia diventando sempre più popolare scaricare la musica on line, ci auguriamo che i consumatori desiderino ancora acquistare i CD per la loro “veste” e che siano ancora curiosi di avvicinarsi a quel sorprendente “vaso di Pandora”, che vogliano ancora aprire

“materialmente” una confezione, ascoltare un nuovo album e dare un’occhiata al libretto dei testi e delle immagini. Il CD fornisce una “esperienza di consumo” lenta. La “stretta morsa” del jewel case e il libretto all’interno, ripiegato in maniera maniacale, indicano che l’ascoltatore appassionato deve darsi davvero molto da fare per attingere immagini e informazioni, ma il fatto che esistano di fatto elementi così complessi, offre ai progettisti l’opportunità di creare un oggetto memorabile e caratteristico. I lavori fin qui esposti, dimostrano fino a che punto la vista e il tatto possano essere sfruttati con successo per la creazione di un prodotto dal forte impatto sensoriale, che vada oltre l’aspetto più comunemente associato alla musica, cioè il senso dell’udito; servono inoltre a confermare quanto il packaging dei CD sia l’espressione visiva di un’idea preziosa. Qui e adesso.

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Charlotte Rivers, autrice di vari libri di design tra cui: Identify. Building Brand Through Letterheads, Logos and Business Cards; CD Art; Innovation in CD Packaging Design; di prossima pubblicazione Type Specific. Collabora a numerose riviste internazionali ed è stata coeditore di Lab magazine. Vive e lavora a Londra.

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Sound Projects Music CD packaging. Ideas and projects to be seen and touched and not only to be listened to. Charlotte Rivers

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Popular music is arguably the one area of cultural production with which people most closely identify events or periods in their lives, and which they feel ‘belongs’ to them. As a result music packaging is one of the few areas of graphic design that the public at large take interest in. The combination of this interest and the experimental, often irreverent nature of many album covers has meant that they have become defining cultural objects of their eras; think Peter Blake’s Sgt. Pepper’s cover, or Andy Warhol’s Velvet Underground. But all this could change if digital downloads succeed as the primary source of music. When I wrote CD Art in early 2003 I talked about the imminent arrival of digital music which, two years on has very much arrived. Recent figures show that over 200million tracks were legally bought online across the US and Europe in the last year, up tenfold on the previous year. These figures are sure to continue to rise, and as a consequence artists and record labels are having to work harder to encourage consumers to buy music on CD and Vinyl. As London based designer Nat Hunter of agency Airside said: “An album cover is more important than ever these days. You can download

everything from the Internet but if the cover is great, there’s a reason to buy it.” Ultimately this means that for those designing CD packages it has become ever more challenging. With its inherent size and dimension, the small CD package has to perform two roles; one, standout in a retail environment, and two be a visual interpretation of the music inside. This task of course lies with the designer who is faced firstly with a product design challenge: How is the pack fabricated? How does it open and close? And secondly an editorial design challenge; art direction within the inserted booklets, typographic layout and so on. It is a two and three dimensional design challenge. If we look at the packaging side of things first we can see that although increasingly alternatives to the standard plastic jewel case are being created, this difficult to open and easy to break case remains the standard option. However, this has not stopped designers experimenting with it. Whether it be having them produced in solid or transparent colours, omitting the booklet altogether to take full advantage of its clear, minimalist aesthetic or housing it in a variety of slip cases and end cards, the simple changes help set them apart from the average CD package and enhance the consumer experience by giving them something more that just a CD in a plastic box. For the Colette collection French designers Work in Progress created a simple design that maximizes the minimalist effect of the transparent jewel case by screen-printing one colour Helvetica type onto each cover changing the colour of the type on


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each successive album (1). London designers Milk also used the standard jewel case but had them produced in one solid colour and then created transparent slip cases in which to house the jewel cases and on which to print the necessary text (2). So, with a little imagination the cheap plastic jewel case can become a more attractive product, but the card based Digipak in its various formats is becoming an increasingly popular and practical replacement to the jewel case. The one-piece board stock cover with plastic CD tray closely replicates the gatefold LP and is a far more flexible format to work with than the jewel case. The tray in which the disc sits is available in a variety of colours and can be placed in the centre, or to the left or right. It can fold out into anything from four to ten (or more?) panels in various combinations and die cut slots or pockets allow for the inclusion of booklets, and the long, wrap around format allows for continuous panoramic imagery or type to be applied to the cover. A great example of this is the work of London designers Non-Format on two album covers created for artist Barry 7. Both use six panel, white reverse card Digipaks with a smooth and rough side, with the CD sitting on the end panel. The imagery, that is fully realised when the package is completely opened, has been printed on the rough side to add a tactile quality to the package especially teamed with areas of glossy white ink printing (3). French designer Rik Bas Backer has taken advantage of a different Digipak format for an album created by fashion house A.P.C. A

panoramic photograph of the San Francisco botanical gardens has been used on the cover with the CD sitting inside on the central panel (4). Many designers also use materials such as uncoated board. The tactility of such material conjures up notions of authenticity. Bruce Licher, founder of the Independent Project Press in the US, is both a musician and designer whose board based letter press CD packages have become synonymous with his band’s, Savage Republic, releases. A more mainstream version of this is the Digifile. It is of the same format as the Digipak but is made solely from board, and instead of the plastic trays has die-cut slots for the disc and booklets. The Eco-Wallet provides the environmentally conscious designer or artist with a packaging option that is both practical and

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responsible, and the relatively new use of Tyvek covers could prove increasingly popular as tests have shown that the material provides a higher level of disc protection. Today, a number of factors contribute to what some perceive as a growing homogenisation in album cover design, not least the strict management by record labels of every aspect of a band’s visual identity, as though they were a corporate brand. Cover art on mainstream pop releases is a largely market driven affair - re-touched, polished pictures of the artist and bold type. That said there are many designers and record labels, typically the independents, willing to push the boundaries when it comes to creating artwork and packaging. If we look at the second part of the design challenge the artwork - we find that designers are becoming increasingly experimental and more and more are using creative photography, mixed media and illustration for imagery as opposed to uninspiring vacuous band shots. London designers Big Active have used great black and white photography in the booklet that accompanied The Charlatans album, Live It Like You Love It (5). Illustration by French artist Laurent Fetis has been used on Hideki Kaji’s album (6) and the work of British artist Thomas Barwick has been used throughout the album packaged for Japanese singer Where Chu (7). On a different note raw meat has been used to shock on a cover for The Black Dog with Black Sifichi created by London designers Yacht Associates (8), and in contrast sexy, stunning photography has been

used throughout the album packaging of a mix album by luxury Parisian hotel Hotel Costes, designed by WA75 (9). All of these covers, though different, are great examples of how artwork can add something extra to an album. Ultimately music packaging is only as good as the music inside, but by extending the experience that the consumer gets from CD packaging and making it a more creative and tactile experience designers may successfully be able to find a genuinely marketable and creative way to prevent CD packaging becoming a thing of the past. Although the download is becoming more popular one hopes that consumers will still want to purchase the CD package itself, that they will still want the whole Pandora’s box like experience of opening of a package, listening to a new album and flicking through a booklet of words and imagery. The CD provides a slow ‘user experience’. The tight clasp of the jewel case, and the fiddly, folded booklet inside, mean that the fan must work to extract the imagery and information. But the intricacy of that packaging itself provides designers with the opportunity to create a memorable, distinctive piece of design. The work shown here demonstrates the extent to which the successful exploitation of the senses of sight and touch can create a fuller and lasting experience around a product more commonly associated with another sense - hearing - and will go a long way to helping the music package remain a visual expression of a valuable notion; the here and now.

Charlotte Rivers is the author of various design books: Identify. Building Brand Through Letterheads, Logos and Business Cards; CD Art; Innovation in CD Packaging Design; and soon to be published Type Specific. She has also contributed to a number of international magazines and was a co-editor at Lab magazine. She lives and works in London.



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Branding versus Packaging Dal packaging alla comunicazione, dallo stile (italiano) ai valori di marca, dall’intuizione alla progettazione. Pensieri, parole, opere e “ammissioni” di Maurizio di Robilant.

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Sonia Pedrazzini

Una delle maggiori realtà italiane di Strategic Brand Design si chiama RobilantAssociati. Creata nel 1984 da Maurizio di Robilant, ha sede a Milano in una suggestiva ed elegante ex fabbrica di cioccolato. L’agenzia si occupa di strategic brand design e, grazie ad una conoscenza approfondita dei mercati, si è affermata nell’ambito della consulenza, sino a divenire uno dei maggiori riferimenti per la creazione, il restyling, il riposizionamento, la definizione dei valori di marca, abbracciando tutti gli aspetti relativi alla comunicazione di un marchio, dalla sua creazione alla corretta applicazione, dal posizionamento strategico alla sua comunicazione visiva. Tra i suoi principali clienti RobilantAssociati annovera, fra gli altri, Gruppo Fiat, Candy, Amadori,

Berlucchi, Bacardi, Unilever, Heineken, Martini, Illy Caffè, Henkel. Maurizio di Robilant, da designer a brand manager: come si è sviluppata la sua carriera e come è arrivato a realizzare lʼagenzia che porta il suo nome? Nasco come designer grafico. Trascorro alcuni anni a New York, dove con Massimo Vignelli ho imparato “l’abc” del mestiere. Dopo un’esperienza alla Olivetti insieme a Walter Ballmer, che con la sua impostazione tradizionale, quasi svizzera, mi ha dato modo di approfondire nuovi aspetti di questo lavoro, ho aperto il mio primo studio di grafica tradizionale. Successivamente, prima di fondare nel 1984 questa agenzia, ho collaborato per tre anni con Giò Rossi: sono stati anni molto utili, in cui


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photo by Erica Ghisalberti

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ho associato la visione “corporate” e quella di prodotto, ampliando le prospettive sulla funzione del nostro lavoro in termini di creazione del valore. In che senso? Il nostro è un lavoro di grandissima responsabilità, che può fare la fortuna o meno di una azienda. All’inizio degli anni ’80 questo non era chiaro, poi, tra la metà degli anni ‘80 e i primi anni ’90, la nostra professione è diventata strategica, ed oggi l’importanza di ciò che facciamo è capita, anche se non del tutto riconosciuta. E’ fondamentale sottolineare che oggi questo mestiere è diviso: da una parte ci sono i grafici tradizionali, dall’altra quelli che sono diventati “partner”

delle aziende per cui lavorano, che conoscono le logiche del mercato e dell’impresa e che aiutano il cliente a riposizionarsi. RobilantAssociati rientra in questa realtà: forniamo una consulenza strategica, realizzando progetti caratterizzati da un forte senso della concretezza e del valore. Oggi, in un momento in cui è la fusione di competenze diverse che porta arricchimento all’azienda, anche la nostra professione deve reinventarsi e noi dobbiamo ricollocarci, ridisegnare il modo di lavorare e il modo in cui forniamo le nostre competenze, perché il nostro lavoro non può essere giudicato semplicemente in base a quanto vale un’ora di design.


tessiture e fare in modo che tutto questo diventi innovazione. Poi possiamo anche lasciare ai cinesi la realizzazione.

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Questo per ciò che riguarda la “brand Italia”; e il secondo aspetto? Oggi che, nel valore finanziario di un’azienda, si inizia a considerare anche il valore della marca, ci troviamo di fronte ad un oggetto di importanza inestimabile - la marca appunto - che viene valutato finanziariamente, ma che in realtà è legato principalmente alla sua capacità di creare emozione. Noi, come brand designer, dobbiamo gestire l’emozionalità delle marche, dobbiamo capirle e potenziarle; in quanto italiani, abbiamo la capacità di essere vicini alle emozioni e di saperle vivere. Facciamo parte di un paese complesso, con una storia complessa... siamo gli unici ad aver avuto tante capitali e quindi altrettanti centri di eccellenza, di musica, di arte, di cultura... In Italia c’è un buongusto di massa che non esiste altrove. Da ragazzino pensavo che il Bello fosse un bene delle classi abbienti, in realtà è un bisogno di tutti; vivere in un brutto posto, abitare in brutte case, stare in brutte città, fa male alla vita. La gente ha bisogno di bellezza e noi italiani abbiamo la fortuna di percepirla come nessun altro.

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Che ruolo ha il progetto di packaging allʼinterno dellʼagenzia? Non amo la parola packaging, trovo che sia inflazionata; “packaging” sono le scatolette, e il mondo è pieno di gente che fa packaging. Per noi, il packaging è uno degli strumenti di comunicazione della marca, che comunica attraverso i propri prodotti. Tante volte, però, è lo strumento fondamentale, quindi lo consideriamo un rappresentante dei valori di marca da declinarsi in base all’ambito di utilizzo. Facciamo molto packaging,

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Eccellenza creativa, qualità assoluta e stile italiano, questi i tratti salienti della filosofia di RobilantAssociati. Cosa si intende per “Stile italiano” e perché unʼagenzia di taglio internazionale come la vostra ha deciso di comunicare e sottolineare proprio lʼitalianità parlando addirittura di “brand Italia”? Direi che ci sono due aspetti; la marca “Italia” è l’impegno sociale e politico che vorrei intraprendere personalmente; mi piacerebbe aiutare questo paese a ridefinire i contenuti per poi dargli un’immagine, valorizzando ciò che possiede. Si pensi alla teoria delle tre T di Richard Florida [autore di The Rise of the Creative Class, Basic Books, 2002]: Tecnologia, Talento e Tolleranza, in rapporto a quella che lui definisce “la nuova classe creativa”, che poi è quella che determina dove avverrà lo sviluppo economico, dove le imprese andranno a trovare la gente. Perché ormai non è più la gente che segue le aziende ma il contrario. Proprio per questo, città che una volta erano considerate sottosviluppate culturalmente, come Austin, in Texas, stanno diventando punti di eccellenza mondiale. Secondo questo criterio, allora, il posizionamento dell’Italia è drammatico e, per un paese che si è sempre definito creativo, addirittura imbarazzante. C’è un grave problema politico; questo paese deve ricominciare a considerare gli straordinari talenti che avrebbe ma che non vengono più incentivati in termini di innovazione, deve tornare innovativo a 360°. Abbiamo città e luoghi che hanno unicità e talenti specifici; dovremmo allora essere capaci di creare dei poli di eccellenza mondiale; avere gente che viene da tutto il mondo a studiare la nostra maiolica, i nostri vetri, le nostre


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perché lavoriamo sulla coerenza di marca, e lo utilizziamo come strumento di comunicazione di quei valori che rendono il tale oggetto prezioso e desiderabile e, in qualche modo, dotato di una buona reputazione.

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Una volta lei disse che fare solo il “packaging designer” oggi è un poʼ limitativo; nel senso che è il “brand designer” a possedere una visione più ampia e articolata? Sì, il che non vuole togliere niente alla complessità del packaging designer. E’ importante essere capaci di utilizzare la forma, il materiale, la stampa, tutto ciò che concorre a definire meglio la personalità di un prodotto per renderlo unico ed efficacemente comunicativo. L’imballaggio ha moltissimi aspetti che richiedono ad un professionista di saper gestire anche altri ambiti come la logistica, la conduzione presso terzi, ecc. perché il packaging non può nascere slegato da un contesto. Come lavorate in agenzia? Come si sviluppa un progetto, a partire dal rapporto con il cliente… Dirò una cosa molto banale: nessun cliente è uguale e tutti i clienti sono uguali. Ci sono clienti che non sono interessanti, che ci chiamano per un progetto veloce, che non possono permettersi di rischiare. Poi ci sono quei clienti che amano la sfida, che hanno voglia di provare ed è con questi il lavoro diventa più interessante e immaginifico; allora si immaginano prodotti nuovi, si creano riposizionamenti, si azzardano scenari. Uno degli aspetti fondamentali resta comunque l’intuizione. Tutti noi l’abbiamo, ma chi lavora in ambiti creativi la considera sana, sa che non sbaglia mai, che ha un potenziale enorme. Le decisioni importanti si prendono con la pancia,

non con la testa. Noi portiamo l’intuizione nell’impresa. Anche l’imprenditore può avere delle ottime intuizioni, ma non può fare a meno di verificarle con un approccio analitico. I creativi, invece, sono abituati a lavorare con l’intuizione, non si pongono il problema se vada verificata o meno. Avere un’intuizione è già un bel risultato. Spesso l’intuizione mi si presenta dopo dieci minuti che sto parlando con il cliente, è un cortocircuito che mette insieme le informazioni che lui mi sta dando e la soluzione ideale alle sue richieste. Raramente è sbagliata. Ed è incredibile, perché ci si rende conto che l’intuizione nasce da sola; è l’ascoltare un processo che non governiamo ma di cui abbiamo imparato ad essere testimoni. L’intuizione è la consapevolezza di una cosa di cui non sei l’autore, ma il “lettore”. Intanto il mestiere del designer si fa sempre più difficile... Si è un po’ appiattito. Una volta eravamo in pochi, oggi siamo in tanti e la globalizzazione ci ha fatti diventare milioni. Di conseguenza ci sono anche problemi di “protezione” e di originalità; è difficile assicurare un cliente che quello che gli sto dando è davvero unico, perché non so se in Nuova Zelanda o in Giappone c’è qualcuno che sta facendo la stessa cosa; e mi è capitato. Quando poi succedono cose eclatanti, magari nel campo della tecnologia o dei materiali, è possibile che più designer abbiano la stessa intuizione e che propongano la stessa - o simile - innovazione. Quando abbiamo iniziato, e Giò Rossi prima di me, eravamo visti come dei maghi, le aziende ci consideravano in grado di innovare, avevano “bisogno” di noi. Oggi questo non esiste più; c’è inflazione di creativi e il rischio è quello di diventare noi stessi beni di consumo.


Qual è la differenza tra il marketing che si fa in azienda e quello proposto dalle agenzie di design strategico? Nelle aziende oggi si fa poco marketing, inteso nel senso classico del termine. Non c’è tempo e ci sono tante altre cose contingenti da fare. Quindi, nella maggior parte dei casi, i marketing manager aziendali fanno gestione, cioè coordinano le attività di comunicazione intorno ai prodotti e alle marche di quell’impresa. Il marketing, nato come l’anima creativa delle aziende, è sempre più spesso demandato all’esterno, e le agenzie come la nostra sono dei buoni partner nella visione della marca e nel posizionamento sul mercato.

professioni non sono più così separate, cambiano continuamente l’una nell’altra. Per questo non credo che il futuro sia fatto di specializzazione, almeno non per i creativi. E’ utile avere delle basi solide, ma poi bisogna prepararsi a fare cose diverse, avere la testa aperta. Infine, il design e la comunicazione sono un comparto che ha a che vedere con tutto e non c’è azione strategica nelle aziende che non implichi anche un’azione di design, a qualunque livello. Quindi c’è davvero bisogno di designer, ma l’importante è capire dove e con quale ruolo.

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Come ci si confronta con le sfide del mercato globale? La globalizzazione è al tempo stesso il diavolo e l’acqua santa. Da un lato tende ad appiattire tutto sulle culture più forti, più ricche, più facili e quindi più desiderate, ma, d’altro canto, ha portato un interesse maggiore verso la diversità; il sistema permette ai prodotti locali di accedere a mercati più grandi e quindi le merci di nicchia e più tipiche possono essere conosciute e apprezzate. In questo modo il locale ha la possibilità di diventare globale, e questo mi pare molto interessante e mi auguro che, alla fine, questa sia la modalità vincente, perché la gente è curiosa e nel mondo post-industriale si ha voglia, tempo e denaro per arricchire la propria conoscenza del mondo anche attraverso i prodotti.

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Che consigli darebbe ai giovani progettisti, designer, o aspiranti tali? Che se uno ha del talento lo deve seguire ad occhi chiusi. Bisogna lasciarsi andare al proprio talento. E per quanto riguarda la professione va considerata come un oggetto dinamico, guardata nel suo divenire, anche perché al giorno d’oggi le



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Bacardi Bay. Il bello di creare dal niente Uno dei progetti di RobilantAssociati che ben rappresenta come il packaging sia comunicazione è il Bacardi Bay, il “ready to drink” lanciato sul mercato da Bacardi Martini. Con questo lavoro l’agenzia ha potuto dare ampio spazio alla propria intuizione e creatività ed ha potuto contare su un partner dalle ampie visuali, con cui è stato possibile impostare gli ambiti e le caratteristiche di un progetto fin dalle sue iniziali premesse. Infatti, a seguito di un’approfondita ricerca di mercato, che indicava una sensibile crescita del consumo dei succhi di frutta e delle bevande non frizzanti, è stata creata la nuova bibita - un mix di frutta e rum a basso contenuto alcolico al gusto di frutta non gassato - e, contemporaneamente, è stato messo a punto il progetto di RobilantAssociati che riguardava lo studio completo dell’identità del prodotto: dalla forma del vetro, al brand, all’identità visiva, fino alla scelta del nome. Per sottolineare il gusto pieno e denso della bevanda, derivante dall’elevato contenuto di frutta, è stata scelta una bottiglia dalle forme morbide, mentre per dare un’immagine fortemente originale e caratterizzante si è giocato sull’assimetria dell’etichetta e della collaretta usando il colore nero per evocare contemporaneità e allo stesso tempo indicare la “premiumness” del prodotto. Particolare attenzione è stata posta anche alla chiusura della bottiglia, per cui è stato utilizzato un tappo a vite invece dell’abituale tappo a corona, un segno di autentica differenziazione. Nel complesso, il packaging e l’immagine di Bacardi Bay, pensati per un pubblico giovane e alla moda, risultano originali e impattanti e allo stesso tempo continuano a rappresentare l’autorevolezza e la credibilità dei prodotti Bacardi.

Bacardi Bay. Itʼs great creating from nothing

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One of the projects of RobilantAssociati that well represents how packaging is communication is Bacardi Bay, the “ready to drink” launched on the market by Bacardi Martini. With this work the agency has been able to give great space to its intuition and creativity and has been able to count on a partner with a broad-sweeping view and with whom they were able to fix the settings and the characteristics of a projects right from its outset. In fact, following an in-depth market study, that indicated a considerable growth in the consumption of fruit juices and non fizzy beverages, a new drink has been created - a mix of fruit and rum with a low alcohol content with a fruity taste - and at the same time, the RobilantAssociati project has been set up that concerns the complete study of the product identity: from the shape of the glass, to the brand, to the visual identity, up to choosing its name. To highlight the full and dense taste of the drink, deriving from its high fruit content, a smoothly shaped bottle was chosen, while to give a strongly original image to characterize the product, the asymmetry of the label and the collar was played using the color black to evoke its contemporariness and at the same time indicate the “premiumness” of the product. Special attention was also paid to the bottle closure, for which a screw cap instead of the usual crown cap was used, a mark of authentic differentiation. Overall the packaging and the image of Bacardi Bay, thought up for a young fashionable public, are original and important and at the same time continue to represent the authoritive standing and the credibility of Bacardi products.


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Branding versus Packaging From packaging to communication, from (Italian) style to the values of the brand, from intuition to design. Thoughts, words, works and “admissions” of Maurizio di Robilant. Sonia Pedrazzini

One of the major Italian concerns of Strategic Brand Design is called RobilantAssociati. Created in 1984 by Maurizio di Robilant, it is based in Milan in an evocative and elegant former chocolate factor. The agency deals with strategic brand design, and thanks to an in-depth knowledge of the markets, it has enjoyed success in the field of consultancy, up to becoming one of the main references for the creation, restyling, repositioning and definition of brand values, embracing all the aspects concerning brand communication, from its creation to its correct application, from its strategic positioning to its visual communication. Among its main customers RobilantAssociati can count, among others, Gruppo Fiat, Candy, Amadori, Berlucchi, Bacardi, Unilever, Heineken, Martini, Illy Caffè, Henkel.

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Maurizio di Robilant, from designer to brand manager: how did your career develope and how did you get to creating the agency that bears your name? I started up as a graphic designer. I spent some years in New York where with Massimo Vignelli I learnt the “abc” of the trade. After an experience with Olivetti along with Walter Ballmer who, with his traditional almost Swiss way of working, gave me the chance to go further into new aspects of this work, I opened my first studio for traditional graphics. Following on from that, before founding this agency in 1984, I worked for three years with Giò Rossi: these were very useful years, in which I began associating the “corporate” vision to that of the product, broadening the perspective as to the function of our work in terms of creation of value. What do you mean exactly? Ours is a job of really great responsibility, that can make or break an enterprise. At the beginning of the eighties this was not clear, then, between the mid eighties and the beginning of the nineties our

profession became strategic, and today the importance of what we do is understood, even if not entirely recognised. It is fundamental to underline that today this trade is different: on the one side of things there are the traditional graphic designers, on the other those that have become “partners” of the firms that they work for, that know the logic of the market and of enterprise and that help their client to gain a higher positioning. RobilantAssociati is part of this reality: we provide strategic consultancy, creating projects featuring a strong sense of concreteness and value. Nowadays, at a time when it is the merging of different skills that leads to enrichment of the company, even our profession has had to renew itself and we have to take up a new position, redesign our mode of working and our mode of offering our skills and expertise, because our job cannot be simply judged on the basis of how much an hour of design is worth. Creative excellence, absolute quality and Italian style, these are the key features of the philosophy of RobilantAssociati. What do you mean by “Italian Style” and why has an agency of an international standing like yours decided to communicate and underline its own Italian nature even speaking of “brand Italy”? I should say there are two aspects; the brand “Italy” is the social and political commitment that I would personally like to undertake; I would like to help this country to redefine its contents to then give it an image, valorize what it possesses. One should think of the theory of the three Ts of Richard Florida [author of The Rise of the Creative Class, Basic Books, 2002]:Technology, Talent and Tolerance, in relation to what he defines as “the new creative class”, and which is that which will determine where economic development will take place, where the companies will go to get the people. Because it is no longer the people that follow the concern but the contrary. For this very


identi-kit reason, towns that were once considered underdeveloped, like Austin in Texas, are becoming world points of excellence. According to these criterion hence, Italy’s positioning is dramatic and, for a country that has always defined itself as creative, even embarrassing. There are serious political problems; this country has to go back to considering the extraordinary talents it indeed surely has, but that are no longer incentivated in terms of innovation, it has to go back to being innovative all round. We have cities, towns and places that are unique and that have specific talents; we should hence be capable of creating world poles of excellence; have people who come from the world over to study our majolica, our glass, our textiles and see to it that all this becomes innovation. We can then leave the manufacturing side to the Chinese. This as far as “brand Italy” is concerned; and the second aspect? Now that, in rating the financial value of a concern, one begins to also consider the value of the brand, we find ourselves facing an object of inestimable importance - the brand that is - that is rated financially but that in actual fact is tied to its capacity to create emotion. We as brand designers have to administer the emotional side of the brand, we have to understand it and strengthen it; inasmuch as Italian we have the capacity to be close to the emotions and to be able to live them out. We are part of a complex country, with a complex history… we are the only ones to have had so many capitals and the same number of centres of excellence, of music, art, culture… In Italy there is a mass good taste that you don’t find elsewhere. As a boy I thought that beauty was a thing for the well-to-do, in reality it is a need of all; living in an ugly place, in ugly houses, in an ugly city, harms life. The people need beauty and we Italians are lucky enough to be able to perceive it like nobody else does.

Once you said merely being a “packaging designer” these days is a bit limiting; is it that you mean the “brand designer” has a broader and more articulated view of things? Yes, while I don’t want to in any way detract from the complexity of the packaging designer. Being able to use shape, material, print, all that contributes to better define the personality of a products to render it unique and effectively communicative is important. Packaging has many aspects that also require a professional to be able to handle other areas, like logistics, run a service, etc, because packaging cannot come into being outside its given context.

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How do you work in the agency? How do you develop a project, starting with your client relations… I will say something that sounds very banal: no client is the same as another yet all clients are the same. There are clients who are uninteresting, that call us for a quick project, that cannot afford to take risks. Then there are those clients who love a challenge, that want to try things out and it is with these that the work becomes interesting and highly imaginative; that’s when you get to imagine new products, that’s when products are repositioned, scenarios hazarded. One of the fundamental aspects though is intuition. We all have it, but those that work in creative areas consider it healthy, he knows it is never wrong, that it has enormous potential. The important decisions are gut decisions, they are not made using your head. We bring intuition to the company. The entrepreneur can have an excellent intuition, but he is forced to verify it with an analytical approach. Creative people in turn are used to work with intuition, they don’t even wonder whether it should be verified or not. Having an intuition is already a

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What role does the packaging project have inside the company? I don’t love the word packaging, I find it’s a bit overused and overrated; “packaging” is boxes and tins, and the world is full of people that “do” packaging. For us packaging is one of the tools

for brand communication, that communicates through its own products. At times though it is a fundamental tool, hence we consider it as a representative of brand values to be declined in terms of where and how it is used. We do lots of packaging, because we work on brand coherence, and we use it as a tool for communicating those values that make the said object precious and desirable and, in some way, provided with a good reputation.


identi-kit good result. Very often the intuition comes to me ten minutes into talking with the client, it is a short circuit that links up the information he is giving me and the ideal solution to his demands. It is rarely wrong. And it is incredible, because one realises that intuition comes into being on its own; it is listening to a process we do not govern but that we have learned to witness. Intuition is the awareness of a thing of which you are not author, but “reader”.

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Meanwhile the job of designer gets more and more difficult… Yes, things have flattened off somewhat. Once we were few and now we are many, and globalisation has turned us into millions. This produces problems of “protection” or originality; it is difficult to assure a client that what I am giving him is truly unique, because there may be someone in New Zealand or Japan doing the same thing; and this has happened. When striking things occur, perhaps in the field of technology or materials, it may be that several designers have had the same intuition and are proposing the same - or similarinnovation. When we started up, and Giò Rossi before me, they thought we were wizards, the companies considered us capable of innovating, they “needed” us. Today things are no longer like that; there is a glut of designers and now we too risk becoming commodities. Whatʼs the difference between the marketing that is done in companies and that offered by strategic design agencies? Nowadays little marketing, meant in the classic sense, is done in companies. There’s no time and there are a lot of other pressing things that need getting on with. Hence in most cases the company marketing managers administer, that is they coordinate communication activities around the product and the company brand. Marketing, that came into being as the creative spirit of the concern, is evermore farmed out, and companies like our own are good partners in brand vision and market rating. How does one square up to the challenges of the global market? Globalisation harbours two conflicting aspects. On the one hand it tends to flatten everything

onto the level of the strongest, richest, easiest and hence most desired cultures, but on the other hand it has led to a greater interest in diversity; the system allows local producers to access the larger markets and hence niche and more typical products can get themselves known and appreciated. Thus local has the possibility of becoming global, and this seems to me very interesting and I hope that in the end this will be how things go, because people are curious and in the post industrial world people have the will, the time and the money to gain more knowledge of the world through its products. What advice would you give to young and/or aspiring designers? That if you’ve got talent you have to follow it with your eyes shut. One should let oneself go to ones own talent. And as far as the profession is concerned it should be considered as a dynamic object, seen as being in a continuous state of flux, also because these days the professions are no longer that separate from each other, they merge into each other continuously. Indeed I don’t think the future is made of specialisation, at least not for designers. It is useful to have a solid base, but you have to then be prepared to do different things, keep your mind open. Lastly, design and communication are a segment that deals with everything and there is no strategic action in firms that does not imply a design action, at any level. Hence there really is need for designers, but the important things is to understand where and in what role.


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L’OGGETTO CHE NON C’È Smaterializzazione e dematerializzazione. Comunicazione, grafica e packaging dei servizi e dei prodotti immateriali. Carlo Branzaglia

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Non è probabilmente il caso di andare a scomodare Les Immateriaux, la grande mostra organizzata dal filosofo della postmodernità, Jean Francois Lyotard, nel 1985 presso il Centre Pompidou di Parigi. È però da rimarcare l’evidente durata, in senso temporale, della riflessione sulla dematerializzazione/smaterializzazione del mondo che ci circonda. Una questione che, di volta in volta, è stata affrontata sotto diversi punti di vista, anche in relazione alla vastità dell’universo al qual essa si può applicare: dai prodotti di consumo divenuti servizi, alle meraviglie dell’entertainment informatizzato. Anche se spesso usati anche in maniera non specialistica, smaterializzazione e dematerializzazione non sono tuttavia affatto termini sinonimici: l’uno definisce l’effettiva scomparsa della materia, l’altro la sua progressiva riduzione. Se il secondo può essere più facilmente applicato al design dei prodotti soggetti all’evoluzione delle tecnologie informatiche (pensiamo ai nostri telefonini, ad esempio), l’altro interessa massicciamente il progetto di comunicazione, o, preferiremmo dire, il progetto grafico. Non abbiamo bisogno, credo, di portare immediatamente esemplificazioni: è ben chiaro che da un lato usufruiamo di prodotti che non hanno configurazione materica alcuna, salvo comunque essere percepibili per almeno uno dei nostri sensi (le suonerie del telefonino, ad esempio); e dall’altro ci troviamo di fronte a supporti che, se non specificamente “didascalizzati”, possono di fatto contenere le cose più svariate: dalla guida di un museo a un programma informatico, come accade per i nostri cd (e dvd). L’assenza di questo parametro fondamentale, la materia, non può essere considerato una assoluta novità. O meglio: possiamo cercare tracce di soluzioni progettuali in assetti consolidati della comunicazione progettata. Non possiamo certo partire dalle fonti dicendo che un marchio è esso stesso espressione di valori immateriali; ma per lo meno possiamo annotare come la grafica dei servizi abbia sempre dovuto dialogare con una offerta non tangibile, ma solamente esperibile (spesso nel tempo). Il settore dei servizi propone da tempo una gamma variegata di situazioni la cui esperibilità per l’appunto non è affatto immediata, anche se talora consistente. La promozione turistica può infatti essere confermata da una reale, ma successiva, esperienze; ma la riconoscibilità di prodotti (come li chiamiamo tuttavia) bancari e assicurativi ha un grado di controllo ben più articolato, nel tempo di fruizione e nella varietà di prestazioni offerte. Certo questo tipo di proposte non ha mai dovuto pensare al problema della comunicazione come un problema di confezione: pieghevoli, folder, foglietti volanti hanno sempre


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Chialab, catalogo elettronico mostra Iconopathia, Museo Ken Damy, 1996

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degnamente svolto il loro ruolo. Ma sicuramente siamo di fronte ad un redesign nell’offerta di tali servizi (così come sovente siamo di fronte al redesign dell’oggetto/libro o dell’oggetto/rivista) che si basa su una metafora del contenere, designare e connotare divenuta necessaria nel momento in cui è esploso un mercato di oggetti opachi (per dirla con Manzini), che non tradiscono contenuti e funzionamenti (cd e dvd); di oggetti-servizio, che servono per ottenere risultati o esperienze (plug-in, schede, chip); di gadget elettronici, usati spesso promozionalmente per guarnire la nostra già complessa vita di consumatori di segni senza neanche la scusa di una funzione specifica (di nuovo, le suonerie). Se vogliamo, la metafora del contenere ha preso la scena: e, metaforicamente, esemplifichiamo questa ipotesi con il bel design delle scatole di Poste Italiane, realizzato, come tutta l’immagine coordinata, da Fragile nel 1999. Dematerializzazione e smaterializzazione sotto questo aspetto hanno un minimo comun denominatore: la necessità di rendere percepibile, e addirittura manipolabile (ovvero, ergonomico) un oggetto e un servizio altrimenti passibili di una miniaturizzazione non compatibile alle dimensioni umane (il primo) e di una incomprensibilità di funzioni, destinazioni, affiliazioni emotive (il secondo). E allora il primo parametro sono, un’altra volta, i nostri sensi, e non tanto la vista, ovvio strumento privilegiato per il nostro orientamento nel mondo, ma proprio il tatto, suggerito o coinvolto direttamente: ovvero proprio quel senso che l’immaterialità ci fa perdere in maniera più sensibile. Forse non è un caso (forse, per carità) che alcune confezioni della fase ancestrale dell’informatica di consumo, ovvero dei porta - floppy disk impiegati come catalogo elettronico o portfolio professionale, abbiano appunto un forte retaggio materico, di una matericità rude, “povera”, in un certo senso ostentata dall’uso non solo del materiale medesimo, ma dall’evocazione cromatica, ad esempio. Sono due probabili esempi il cartone ondulato da Chialab per Iconopathia, catalogo della mostra al Museo Ken Damy nel 1996; quello pressato di una autopresentazione di LCD Graphics (oggi, non a caso suffisso sostituito da “Intermedia Agency”.) più o meno dello stesso anno. Se si è insistito sul forse, è perché è tuttavia vero che spesso, con una certa intensità peraltro negli anni successivi, si è al contrario voluto molto insistere sulla artificialità dei neonanti supporti (il cd Rom, ad esempio). Le scatole dell’archivio informatizzato dell’agenzia statunitense Charles S. Anderson Design (1998) sono il plastica verdina trasparente, imbustate in sacchetti di plastica antistatica, assolutamente artificiale e “tecnica”; mentre i contenitori dei cd destinati alla stampa prodotti dalla Playstation sul finire degli anni Novanta sono delle semplici coclee piatte, semitrasparenti, in colori assolutamente pop (giallo limone, fucsia…). Tuttavia,


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Charles S. Anderson Design, pack per CdRom d’archivio lavori, 1998

mentre nel primo caso l’artificialità tecnica del materiale è evidentemente connessa alla funzionalità estrema dello stesso, funzionalità interna peraltro al lavoro dell’agenzia; nel secondo siamo all’acchiappo dell’opinion leader, sensibile a voluttà estetiche e ironie colorate. Più dello stesso pubblico di riferimento, a dire il vero, vista la paccottiglia media che gira sulle confezioni dei videogiochi. Ma questo è una affermazione da radical chic: come ogni segmento merceologico che si rispetti, gli alti volumi di vendita, la necessità di essere riconoscibili, la frammentazione in fasce di acquirenti fanno sì che tutte le armi debbano essere impiegate, e per armi intendiamo soprattutto assetti iconografici e stili visuali. In un senso e nell’altro: alcuni pack sono assolutamente innovativi, come quello progettato da Yeo Design per Spectre (1998). E non dimentichiamo il contributo forte, in termini non solo di pack ma anche di marchi e di game design, dato da The Designers Republic a Wipeout (nelle diverse edizioni), che all’inizio della saga ha contribuito non poco a lanciare un’atmosfera visuale che potremmo definire “techno”, grazie anche a colonne sonore intriganti a base di Prodigy & C. Un ottimo esempio di come il graphic design diventi un elemento sempre più complesso in nome di una importanza dell’elemento stilistico nella configurazione, oltre che nella confezione, del prodotto: un tema conosciuto, quello della individuazione di elementi formali e cromatici che delineino una vera e propria “tavolozza” identificando di fatto una atmosfera, che si traduca anche in un comportamento e in un consumo. Con tutta l’ambiguità che questa operazione comporta, sospesa com’è fra la individuazione di emergenze sottoculturali (la parola funziona ancora benissimo) sempre più scaltre e le mire di un mercato che attraverso i segni delle medesime (ripuliti a dovere, ovvio) rinnova il patrimonio di offerta comunicativa ammiccando a target in fieri. Un ottimo esempio, anche se forse un po’ tirato per i capelli, pure delle procedure intermediali (o meglio sarebbe dire multimodali) che pure rappresentano un refrain conosciuto nel dibattito disciplinare dell’ultimo decennio. E che sono anche lo


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Yueo Design, packaging videogiochi Spectre, 1998

onedotzero, pack volume Motion Blur, Laurence King, 2004

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specchio di una comunicazione che non può più fare a meno di una moltitudine di media, o più in generale di occorrenze, per estendere il concetto anche agli eventi. Ma se torniamo rapidamente al pack, dobbiamo anche dire che tutto ciò si fronteggia brutalmente con una logica di merchandising estremo, ormai abituato a orchestrare filiere di prodotti complessi che proprio nel caso dei videogiochi dimostrano tutta la propria estensione (dai cartoni animati ai Game Boy e alle console, agli oggettini promozionali e ai co-marketing con le patatine, per dire). E d’altra parte, non è assolutamente detto che tanto clamore contribuisca a favorire il rinnovamento dei linguaggi progettuali: basta guardare la comunque elevatissima percentuale, per qualsivoglia cd, di custodie standard in plastica con retro nero e fronte trasparente - sulla quale Harta Design ha deciso di ironizzare nel suo calendarietto 2005 e che sono state la bestia nera dei graphic designer italiani alle prese con l’industria discografica mainstream, assolutamente deficitaria (per il timore - scarsamente fondato - dei costi) nei confronti di quella indipendente più attenta sia ai percorsi sonori che a quelli visuali. C’è però un altro spazio utile per la riflessione che tragga spunto proprio dal redesign accennato in precedenza nei confronti di contenitori consolidati delle informazioni: in primis, della forma codex, il libro insomma, invenzione superba nella gestione dei contenuti. Tale redesign, nel momento in cui i supporti si meticciano, diventa sempre più orientato sull’idea del contenitore. Certo, i motivi saranno anche ovvi, e vanno ricercati in questioni di funzionalità, indubbiamente. Ma di nuovo sembra assai forte questa idea del contenere, e proteggere, un supporto che è duraturo ma esile, come quello informatico, assieme ad un altro sicuramente più fragile ma più pesante, come quello cartaceo. Non ci si dilungherà qui sulle relazioni fra i due, né sulle loro possibilità di collaborazione; è altro tema. Ma è intrigante il caso di Motion Blur, ad esempio, volume (con dvd,


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ovviamente) stampato da Laurence King nel 2004 e prodotto / progettato da Onedotzero, etichetta (potremmo chiamarla così) produttrice nell’ambito dei cross media (musica + video + animazione + web, a casaccio; + stampa, evidentemente). Custodia in gomma, parzialmente fustellata, con taglio ricavato nella costola ad ospitare il dvd. Come anche i “cofanetti” (come altro definirli) progettati da Bianca negli ultimi anni per Banca Popolare di Milano. Questa logica però ci potrebbe portare molto lontano. Quanto ci hanno riempito la testa nell’ultimo decennio con l’idea che il prodotto sia anche, o forse soprattutto, servizio? E dunque debba evocare, contenere, suggerire (o quant’altro) una serie di ulteriori opzioni, magari esperienziali, altro refrain connesso all’utilizzo del tempo oltre che dello spazio nell’interazione con gli oggetti? Onde, ne possiamo desumere che qualunque packaging debba incominciare a tener conto che non si tratta solo di ostentare degnamente il proprio contenuto, ma anche di saperne indicare le connotazioni. E il problema non è solo del packaging, ovviamente. Sfida non facile, pur se aiutata da incalzanti implementazioni tecnologiche, e anche filosofiche. Primo, perché alle prese col mass market la via prioritaria è sempre quella della gadgettizzazione. Secondo, perché sarebbe carino capire se poi al cliente gli interessa tanto, questo “ambaradan” di servizi, che si traducono in complessità sconvenienti per risultati risibili. In questo mondo già complesso, dove il tempo è diventato ormai moneta preziosa.

Carlo Branzaglia, Insegna all’Accademia di Belle Arti di Bologna; è docente incaricato al Politecnico di Milano. Ha pubblicato recentemente Marginali. Iconografie delle culture alternative, Roma, Castelvecchi, 2004. Collabora a OHT e D La Repubblica delle Donne. E’ direttore editoriale del trimestrale Artlab.

Bianca, pack cofanetto Nono, BPM, 2000


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The Object that isn’t There Dissolution and dematerialisation. Communication, graphics and packaging of services and immaterial products. Carlo Branzaglia

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Perhaps there’s no need to go so far as to mention Le Immateriaux, the huge show organized by the philosopher of postmodernism, Jean Francois Lyotard, in 1985 at the Pompidou Center in Paris. However the considerable duration, in terms of time, of the reflection on dematerialisation/dissolution in the world that surrounds us is worth remarking on. A question that, as the case has had it, has been tackled from different points of view, this also due to the vastness of the universe to which it can be applied: from the consumer products that have become services, to the marvels of computerised entertainment. Even if often also used in a non specialist manner, dissolution and dematerialisation are all the same not to be considered synonyms: the former defines the actual disappearance of matter, the latter its progressive reduction. If the latter can be more easily applied to the design of products subject to the evolution of computer technologies (we only have to think of our cel phones for example), the former affects a vast area of the communications project, or as we would prefer to say, the graphics project. Examples shouldn’t be necessary: it is perfectly clear that on the one hand we make use of products that have no material configuration whatsoever, except for their being perceivable to at least one of our senses (cel phone ringers for example); and on the other hand we find ourselves

faced with media that, if not specifically “captioned”, might in fact contain the most varied of things: from a museum guide to a computer program, like our CDs (and DVDs). The absence of this fundamental parameter, the material, cannot be considered an absolute novelty. Or better: we can look for traces of project solutions in consolidated patterns of planned communication. We certainly cannot start from the sources saying that a brand is in itself the expression of a material value; but at least we can note how the graphics of service products has always had to dialogue with a product that is not tangible but only enactable (and this often over a period of time). For some time the service sector has been offering a varied range of situations whose enactment is not in fact immediate, even if it is at times consistent. Tourist promotion can in fact be confirmed by a real, albeit subsequent experience; but the recognisability of bank and insurance products (which is how we all the same call them) give us the opportunity of verifying and experiencing their actual consistency in the time over which we enjoy their use and in the variety of services offered. Certainly this type of proposal has never had to perceive the problem of communication as a problem of packaging: folders, brochures, circulars have always worthily performed their task. But we are surely in a phase of redesigning the offer of these services (as we often find ourselves in the phase of the redesign of the object/book or the object/magazine) that is based on a metaphor of containing, designing and connoting that has become necessary in that we are faced with the explosion of a market of opaque objects (to agree with contemporary Italian design theorist Ezio Manzini), that do not reveal their contents and function (CDs and DVDs); of service objects whose purpose is to attain results or experiences (plugins, boards, chips); of electronic gadgets, used


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often in a promotional way to accompany our already complex life as consumers of things, though without having the excuse of fulfilling a given function (once again the cel phone ringers). That is to say, the metaphor of containing has filled the stage: and as an example we can take the fine design of the Italian postal service boxes that, like the entire coordinated image, were created by Fragile in 1999. Here dematerialisation and dissolution have a minimal common denominator: they need to make an object or a service perceivable, or even allow them to be handled (meaning making it ergonomic), objects otherwise liable to a miniaturization incompatible with the human dimension (the former) or to incomprehensible series of functions, destinations, emotional affiliations (the latter). Thus, once again our senses constitute the first parameter and here it is not so much our sight, obviously privileged tool to help orientation in the world, but our sense of touch that is affected and directly involved: or that is that very sense that ceases in its function when faced with immaterialness. Perhaps it is not by chance that some packs in the ancestral phase of consumer informatics, or that is the floppy disk containers used as an electronic catalogue or professional portfolio, are so strongly immersed in the legacy of the material they are made of, in all its crudeness and “poverty”, in a certain sense flaunted not only in the use of the selfsame material, but also by what the very chosen color evokes, for example. Here the corrugated cardboard used by Chialab for Iconopathia, catalogue of the show at the Ken Damy Museum in 1996 and the pressed cardboard in a selfpresentation of LCD Graphics (today not by chance a suffix substituted by “Intermedia Agency”) more or less in the same year are two probable examples. If we have emphasised the ‘perhaps’, it is all the same true that often, with a certain intensity what is more in the years following the one we have just mentioned, on the contrary one can divine a

certain drive to emphasise the artificial nature of the newly created media (the CD Rom for example). The boxes of the computerised archive of the American Agency Charles S. Anderson Design (1998) are in green tinged transparent plastic, packed in antistatic plastic bags, absolutely artificial and “technical”; while the CD containers for printing Playstation products at the end of the nineties are simple flat spirals, semitransparent, in colors that are absolutely pop (lemon yellow, fuchsia…). All the same, while in the first instance the technical artificiality of the material is evidently related to the extreme function of the same, function what is more served within the workings of the agency; in the latter they are targeting the opinion leader, sensitive to aesthetic fancies and colored ironies. This even more so than the selfsame public to be true, seeing the average junk you find on videogame packs. But this is a radical chic statement: like every product sector worthy of its name, the high sales volumes, the need to be recognisable, the fragmentation of the range of purchasers mean that all weapons have to be used, and for weapons we aboveall mean iconographical and visual style. In one sense and in another: some packs are absolutely innovatory, like the project by Yeo Design for Spectre (1998). And let’s not forget the great contribution not only in terms of pack abut also of brand and game design given by The Designers Republic to Wipeout in its various editions, that in the beginning of the saga contributed to launching a visual atmosphere, that we might define as “techno” thanks also to an intriguing soundtrack based on Prodigy & C. An excellent example of how graphic design is becoming evermore complex, to underline importance of the stylistic element in the configuration as well as in the product packaging: a known theme, that of the location of formal and chromatic elements that delineate a true and proper “palette” that actually conjure up an atmosphere, that is translated into a behaviour and into a pattern of consumption. With all the


Carlo Branzaglia, Teaches at the Bologna Fine Arts Academy; he holds a chair at the Milan Polytechnic. He has recently published Marginali. Iconografie delle culture alternative, Roma, Castelvecchi, 2004. He contributed to OHT and La Repubblica delle Donne. He is publishing director of the quarterly magazine Artlab.

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container. Certainly the reasons may be obvious, and are undoubtedly to be found in questions of functionality. But again one has this idea of containing and protecting a medium that is durable but slender, like that of data carriers, along with another that is surely more fragile but heavier, like that of paper. We will not go into relations between the two here, nor their possibility of working together; this is another subject. But the case of Motion Blur is an intriguing one for example, the volume (obviously with DVD) , printed by Laurence King in 2004 and produced/designed by Onedotzero, producer label (it could be called such) in the field of cross media (music + video+ animation + web, at random; + print evidently). With a rubber, partially die-cut case, with a slit in the rib to host the DVD. The same going for the “caskets” (how else can you call them) designed by Bianca over the last few years for the Banca Popolare di Milano . This logic though could take us very far. Haven’t they been going on for the last decade with the idea that product is also or aboveall service? And hence it should evoke, contain, suggest (or whatever) a further series of options, rather experiential, another refrain related to the use of time as well as space in the interaction with objects? Hence, we can deduce that any packaging item has to begin to take into consideration that it is not only a question of fittingly showing off its contents, but also of being able to indicate the connotations of the same. And the problem is not only packaging obviously. No easy challenge, even if aided by pressing technological and also philosophical implementations. Firstly, because when tackling the mass market, the main approach always leads to a gadgetization. Secondly, because it would be interesting to know whether the customer is really interested in this array of services, that end up by adding inconvenient complexity while rendering limited results. In this world that is already complex, where even time has by now become a precious commodity.

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ambiguity that his operation entails, suspended as it is between the locating of evermore artful subcultural emergencies (the word still works well) and the aims of a market that through the signs of the same (properly cleaned up obviously) renews its wealth of communicative offers, tipping a wink at a target under formulation. Also an excellent example, even if a bit stretched, of the intermedial procedure (or one should say multimodal) that all the same has become a common refrain in the debate on the discipline over the last decade. And that also reflects a communication that cannot do without a broad array of media, or more in general of circumstances, this also to extend the concept to events. But if we rapidly go back to the pack, we must also say that all this is brutally tackled with an extreme logic of merchandising, by now used to orchestrating reams of complex products that in the very case of the videogames demonstrate the extent of range (from cartoons, to Game Boy, to the consoles, to the promotional gadgets and comarketing with potato chips, to give an example). On the other hand it doesn’t go to say that all this clamour contributes to favouring the design language: you only have to look at the high percentage, for any CD, of standard plastic cases with black backs and transparent facings. Feature around which Harta design has decided to ironically play on with its little calendar of 2005 and that were one of the pet hates of the Italian graphic designers in their grappling with the mainstream recording industry, absolutely lacking (for an illfounded fear of the costs) compared to the independent industry that pays greater attention to sound and visual procedures. There is though another space useful for reflection, that arises right from the redesign mentioned above of consolidated containers of information: first and foremost, the codex form, that is the book, superb invention in managing contents. This redesign, at the point where the media become hybridised, centres evermore on the idea of the

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La Bontà Protetta Il modello ideale di un “packaging comunicativo” è quello di un imballaggio che sa imporsi al di là del prodotto che contiene. Sembra una sfida impossibile, ma qualcuno è riuscito a vincerla. Il caso Tetra Pak. Sonia Pedrazzini Photo by Erica Ghisalberti


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L’imballaggio è uno strumento di informazione, di promozione, di seduzione: è il soggetto di un rapporto esplicito e diretto con l’utilizzatore - insomma è un creatore di empatia e di emozione. Tutto questo avviene sia tramite il design grafico e strutturale (che ne caratterizza l’aspetto esteriore) sia attraverso mezzi più eterogenei e complessi, come l’uso dei media, della pubblicità, del marketing. È così che il mero “imballaggio” si trasforma in “packaging”, e il packaging diventa parte di un sistema assai più ampio, che comprende contenuto, contenitore, marca, azienda. E poiché prodotto e immagine si integrano sempre di più, il packaging diventa quel filo rosso che ri-cuce, unisce e nello stesso tempo sottolinea, questi due elementi. Abbiamo pensato che Tetra Pak offrisse ottimi spunti di riflessione in questo senso, in quanto, oltre a essere uno dei più grandi produttori mondiali di imballaggi, ha fatto molto per conferire ai propri prodotti la massima espressività e comunicatività. Questa azienda, infatti, ha fatto comunicazione in modo speciale e dirompente perché ha avuto il coraggio di mostrare al grande pubblico le sue “scatole” come sono all’origine, nude, bianche, asettiche, trasformandole in un vero e proprio “simbolo” al punto che oggi tutti ormai sanno che “Tetra Pak protegge la bontà™”. Ne discutiamo con Philippe Illig, da tre anni Marketing Director di Tetra Pak Italiana SpA, ma attivo in azienda già dal 1987, prima in Francia e poi nella sede internazionale di Losanna.

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Lʼattività di marketing, in una realtà come quella di Tetra Pak, è senza dubbio complessa. Di cosa vi occupate esattamente? Considerato l’eccezionale sviluppo che l’azienda e i suoi prodotti hanno avuto negli ultimi anni, ci occupiamo di fornire assistenza ai clienti per incrementare le vendite; inoltre, poiché a Modena è situato il centro sviluppo dei sistemi asettici, è nostro compito far interfacciare il gruppo con il mercato italiano; infine, seguiamo la comunicazione del brand in quanto, da qualche anno, facciamo pubblicità sui nostri prodotti direttamente ai consumatori. Ma fare pubblicità a un contenitore è quanto meno insolito… Sì, ci sono pochi esempi di produttori di “imballaggi” che osano fare pubblicità ai loro prodotti. Abbiamo preso spunto dalla campagna della

“Intel Inside”: questa società non vende direttamente un prodotto, il computer, bensì un servizio, il software: un’idea di velocità, serietà, affidabilità. E se loro avevano creato “Intel Inside”, noi allora potevamo certo fare “Tetra Pak outside”, il che significa garanzia che il contenuto è protetto bene. Per questo, su più del 99% delle confezioni vendute in Italia (ne vendiamo più di 5 miliardi all’anno) abbiamo messo il bollino “Tetra Pak protegge la bontà™”. Questo messaggio, abbinato alla campagna pubblicitaria in Tv e sulla stampa, mette in atto una comunicazione di grande efficacia, capace di trasmettere l’idea che i contenitori Tetra Pak proteggono meglio di altri. Per di più questa operazione ha aiutato i nostri stessi clienti, perché hanno potuto affiancare il loro brand al nostro, creando una sinergia che ha rafforzato tutti.


La vostra comunicazione è stata tanto efficace che ormai si usa comunemente “tetra pak” come sinonimo di “cartone del latte” (o del succo, o del vino…); insomma, siete nellʼimmaginario collettivo. Certo, ed è per questo che dobbiamo difendere il nostro marchio sottolineando che Tetra Pak non è il nome generico di un contenitore, ma una marca. Inoltre, tutti i nostri contenitori hanno nomi propri: Tetra Brik®, Tetra Brik® Aseptic, Tetra Prisma®, Tetra Top®, Tetra Rex®. In azienda esistono funzioni addette al compito di salvaguardare il nostro marchio, perché dobbiamo difenderci dalle imitazioni - che si stanno diffondendo in molti mercati, per esempio la Cina - in quanto, se i concorrenti ci copiano, ma non realizzano prodotti affidabili come i nostri, potremmo subire conseguenze negative e svantaggi anche in termini di immagine. Cosa manca ad unʼimitazione per essere allʼaltezza di un vero contenitore Tetra Pak? Una brutta copia dei nostri contenitori è un imballaggio privo di quelle specifiche ideali a proteggere al meglio il contenuto. Soprattutto dobbiamo ricordare che Tetra Pak non è un contenitore, ma un’azienda che offre un sistema completo di imballaggio (contenitori, confezionatrici, macchine di fine linee, servizi diversi). Che rapporto intercorre il brand Tetra Pak e il brand di chi produce il contenuto? Il brand di chi produce il contenuto rimane per noi fondamentale. Ciò che la nostra comunicazione intende sottolineare è che qualunque sia il prodotto contenuto, esso verrà


conservato al meglio dai nostri imballaggi. Spesso, poi, sono gli stessi clienti a fare comunicazione utilizzando nelle loro pubblicità anche le nostre confezioni. D’altronde lavoriamo da sempre in stretta collaborazione con i vari marketing manager, dato che siamo in grado di offrire loro una visione trasversale e internazionale, oltre alla pratica e all’esperienza che abbiamo maturato per diverse categorie di prodotto. Il nostro motto, prima di essere “Tetra Pak protegge la bontà”, era “Tetra Pak, più di un contenitore”, proprio perché non siamo semplicemente venditori di contenitori, ma offriamo anche servizio tecnico, supporto marketing, aiuto nell’ambito del riciclo; ci impegniamo a osservare e capire cosa si può fare lungo tutta la catena della valorizzazione. Nel corso del tempo, le vostre confezioni hanno subito profonde modificazioni… Sì, soprattutto in relazione alle esigenze espresse dai singoli mercati nazionali, anche se le idee alla base del concept restano fondamentalmente quelle: la forma geometrica ideale, il tipo di carta e di plastica più adatte agli alimenti (a cominciare dal latte) che devono proteggere, e la saldatura del pacchetto attorno al liquido stesso. Questa idea, in particolare, venne alla moglie di Ruben Rausing, fondatore di Tetra Pak. La storia racconta che, dopo aver elaborato la famosa forma tetraedrica, il problema era come assicurare che le dosi di latte versato nelle confezioni fossero tutte uguali dato che, durante il riempimento, il latte tendeva a spumeggiare, ostacolando i tempi della meccanizzazione. Per caso, un giorno Rausing ne parlò con la moglie, e a lei venne l’idea della saldatura in

immersione, che poi si rivelò fattibile e che rivoluzionò il modo di imballare i liquidi. Il concept è sempre quello, ma poi ogni mercato ha le sue peculiarità... Dobbiamo considerare che tutto il processo di innovazione parte dai mercati. Si inizia a lavorare valutando quali siano i bisogni e le richieste più importanti, si consolidano e si precisano le varie domande a livello di cluster (l’insieme delle marche organizzate secondo macro-regioni, come Cina, Europa del Nord, ecc...) per poi indirizzare al gruppo Tetra Pak le esigenze specifiche dei vari mercati. Ci sono dei mercati che sono più affini tra loro, come per esempio Francia, Spagna, Italia e Germania, in cui predominano le vendite di latte UHT (a lunga conservazione), anche se in Italia il consumo del latte fresco è ancora del 40%, mentre in Spagna, è appena del 2% - con conseguenti differenze nelle specifiche del packaging. In Cina poi, poiché c’era la richiesta di un pack molto economico per il latte, abbiamo creato appositamente per loro una busta piatta, ovviamente non stand up ma che, a fronte di un investimento economico ridottissimo, mantiene e garantisce i nostri standard di asetticità. Oltre a rispondere alle richieste del mercato, Tetra Pak riesce anche a fare da traino nella realizzazione di nuovi prodotti e a creare nuove domande? Sicuramente. Anche noi facciamo direttamente analisi di mercato e dei consumatori, e condividiamo i dati con i nostri clienti, soprattutto per quanto riguarda latte e succhi di frutta - che coprono l’80% delle nostre vendite. E anche a noi capita di avere idee “un po’ da matti”,


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come quella che ci ha spinto a mettere olio d’oliva in un contenitore di cartone. Si sa che l’olio, non deve prendere luce, e quindi i contenitori Tetra Pak sono ideali. Questo argomento sarà fondamentale nelle strategie comunicative di un importante produttore spagnolo, che uscirà tra breve sul mercato con olio in scatola. “Idee da matti”, si diceva, ma anche imbustare il latte, cinquant’anni fa, o mettere il vino in scatola, sembrava una cosa azzardata. Per questo, però, bisogna individuare un cliente coraggioso, convinto di voler fare innovazione nel proprio settore, proprio come ha fatto Caviro, l’azienda proprietaria del vino Tavernello e Castellino. Fermamente convinti delle proprie idee, hanno investito in pubblicità per spiegare al consumatore perché mettere un vino da tavola in un contenitore di cartone: è pratico, protetto, conservato, infrangibile. L’azienda è riuscita così a posizionarsi in modo molto preciso e ad avere grande successo.

chi è esterno all’azienda non è facile sviluppare nuovi modelli. Inoltre, avendo a che fare con un mercato tanto ampio - vendiamo 100 miliardi di contenitori in tutto il mondo - siamo costretti a realizzare degli standard e non possiamo lavorare su disegno personalizzato. Per quanto riguarda la grafica, di solito è il cliente che viene con i suoi lay out e noi li realizziamo. Sempre a proposito di forme, che fine ha fatto il primo vecchio modello tetraedrico? È stato ormai superato dal parallelepipedo, tuttavia abbiamo un cliente che produce salsa e lo usa ancora per esportare i prodotti, perché è molto conveniente dal punto di vista economico.

Quindi quello che conta per voi non è solo produrre packaging e venderlo a chiunque, ma è soprattutto trovare il partner giusto. Dobbiamo per forza trovare il partner giusto, perché la partnership è la base per il successo.

Per quanto riguarda i prodotti contenuti nelle vostre confezioni, oltre a quelli liquidi come latte, succhi, acqua, vino, persino olio… vi state avvicinando anche ad alimenti “solidi”? Si, in Italia si trovano i legumi di Bonduelle. Entrare in un diverso settore alimentare ha richiesto uno sviluppo ulteriore dei materiali da imballaggio e, per adattarsi alla tipologia di prodotto “in pezzi”, ha visto anche il ritorno a una tecnologia più tradizionale di produzione del pacchetto, di riempimento del contenitore e poi di sterilizzazione.

Il design strutturale delle confezioni viene sempre sviluppato allʼinterno di Tetra Pak? E per quanto riguarda la parte grafica? Noi eseguiamo il progetto del contenitore, anche se talvolta capita che qualche cliente esprima richieste particolari sulla forma e provi a proporci qualcosa; ma per

E per il futuro? Prima, quello dei cibi solidi era un mercato nel quale non potevamo entrare ma ora si aprono nuove possibilità tecniche con la nostra confezione Tetra Pak: la carne, il pesce, le salse... In Italia anche quello dell’acqua minerale è un mercato immenso...


Parliamo infine di eco-compatibilità. Adesso sembra essere più chiaro come deve avvenire lo smaltimento dei vostri imballaggi, ma per un certo periodo non si sapeva tra quali materiali collocarli. Il riciclo è un questione articolata, in quanto ogni singola città, ogni comune, è responsabile della raccolta differenziata ed è il modo in cui ci si organizza localmente che determina alcune scelte. Ad esempio, alcune città raccolgono i nostri contenitori con la carta, altre con la plastica e altri materiali leggeri. Al fine di estendere la raccolta differenziata del cartone per bevande in tutta l’Italia, Tetra Pak ha siglato, a giugno 2003, un accordo con Comieco, Consorzio Nazionale per il Recupero e riciclo degli imballaggi a base Cellulosica: Comieco definisce le modalità di raccolta e, insieme a Tetra Pak, viene attivata una campagna di sensibilizzazione per i cittadini. Ad oggi, i cittadini italiani coinvolti sono circa 8 milioni. Inoltre, per valutare l’eco-compatibilità di un imballaggio è importante valutare l’impatto ambientale lungo tutto il ciclo di vita e non solo nel fine vita. Ciò significa fare analisi di LCA (Life Cicle Assessment) e valutare elementi quali: il consumo energetico, l’impatto sull’effetto serra, l’eutrofizzazione, l’acidificazione delle piogge… A differenza di quanto si potrebbe pensare, da una ricerca di LCA condotta dall’Università di Padova, i nostri contenitori (Tetra Brik® Aseptic e Tetra Rex®) sono risultati più ecocompatibili degli imballi di plastica (HDPE e PET). La nostra prossima sfida sarà appunto comunicare questo concetto al consumatore finale. Sonia Pedrazzini, è designer specializzata nel settore cosmetico. Si occupa di cultura del packaging.


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Protected Goodness The ideal model of “communicative packaging” is that of packaging that is able to impose itself over and beyond the product that it contains. It seems an impossible challenge, but someone has managed to win it. The case of Tetra Pak. Sonia Pedrazzini

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Packaging is a tool for information, promotion, seduction: it is the subject of an explicit and direct relation with the user - that is to say it creates empathy and emotion. All this occurs both through the graphic and the structural design (that characterises its outer appearance) both by way of more complex and heterogeneous means, like the use of the media, advertising and marketing. And thus its mere outer casing becomes packaging, and the packaging becomes part of a much broader system, that includes content, container, brand and company. And since product and image are evermore integrated, packaging becomes that lead thread that sews up, unites and at the same time underlines these two elements. We were of the idea that Tetra Pak offers an excellent source for reflection on this count, inasmuch as well as being one of the largest packaging producers in the world, the concern has done a lot to make is products highly expressive as well as communicative. This concern in fact has carried out communication in a special and explosive way because it has had the courage to show the general public its “boxes” as they originally are, bare, white, aseptic, turning them into a true and proper “symbol” to the point that all of us today know by now that “Tetra Pak protects what’s good™”. We talked this over with Philippe Illig, marketing director of Tetra Pak Italiana SpA for the last three years, but active in the company as far back as 1987, first in France and then in their international headquarters at Lausanne. The marketing activity in a concern like Tetra Pak, is without a doubt complex. How do you actually go about carrying out your task? Considering the exceptional growth the company and its products have had over the last few years, we are involved in providing assistance to our customers to increase sales; as well as that, since our development centre for aseptic systems is situated at Modena, our task is to interface the group with the Italian market; lastly, we follow brand

communication in that for some years now we have been advertising directly to the consumers on our products. But advertising on a pack is rather unusual… Yes there are few examples of packaging producers who actually dare to advertise their own products. We have followed on from the “Intel Inside” campaign: Intel doesn’t directly sell a product, but rather a service, the software: an idea of speed, solidity, reliability. And if they could create “Intel Inside”, we could certainly do a “Tetra Pak outside”, which means guaranteeing that the content is wellprotected. This is why, on more than 99% of packs sold in Italy (we sell over 5 billion a year) we have placed the stamp “Tetra Pak protects what’s good™”. This message, combined with an advertising and TV campaign, activates a highly effective communication, capable of transmitting the idea that the Tetra Pak containers protect better than other ones. What is more this operation has helped our very own customers, because they have been able to combine their brands with our own, creating a synergy that reinforces everyone. Your communication has been so successful that by now one commonly uses “Tetra Pak” as synonymous for “milk carton” (or juice or wine carton...); meaning you are part of the collective imagery. Certainly, and this is why we should defend our brand underlining that Tetra Pak is not a general name for a container, but a brand. As well as that, all our containers have their own name: Tetra Brik®, Tetra Brik® Aseptic, Tetra Prisma®, Tetra Top®, Tetra Rex®. In the company functions exist for safeguarding our brand, because we have to defend ourselves from imitations - that are spreading in many markets, for example in China - inasmuch as if our competitors copy us, but they don’t make reliable products like our own, we could also suffer negative consequences even in terms of image.


shopping bag What is missing in an imitation to bring it to level of a real Tetra Pak container? A poor copy of our containers is a packaging item devoid of those specific ideals for protecting the content at its best. We should aboveall remember that Tetra Pak is not a container, but it is a concern that offers a complete packaging system (containers, packaging machines, end of line machines, a series of services).

story goes that after having devised the famous tetrahedral shape, the problem was ensuring that the doses of milk poured into the pack were all the same given that, during filling the milk tended to foam, acting as an obstacle to the machine times. Chance had it that Rausing mentioned it to his wife, and she had the idea of immersion sealing, that then turned out to be feasible, revolutionising the way of packaging liquids.

What is the relation between the Tetra Pak brand and the brand that produces the contents? The brand that produces the contents is fundamental to us. What our communication wishes to underline is that whatever the product contained, it will be best preserved in our packaging. Very often it is our customers who also communicate using our pack in their advertising. What is more we have been working for a long time in close cooperation with the various marketing managers, given that we are capable of offering them a transversal and international as well as practical view together with

The concept is the same, but then each market has its own peculiarities... We have to consider that all the processes of innovation start from the market. One starts working rating what the most important needs and demands are, these are consolidated and the various demands at cluster level (all the brands organised according to macro regions, such as China, northern Europe, etc.) are laid out, to then send specific demands of the various markets on to Tetra Pak. There are markets that are very similar to each other, like for example those of France, Spain, Italy and

the experience that we have built up for various categories of products. Before “Tetra Pak protects what’s good” our motto was “Tetra Pak, more than a container”, for the very reason that we are not simple container sellers, but we offer a technical, support and marketing service and aid in terms of recycling; we commit ourselves to observing and understating what we can do along the entire valorisation chain.

Germany, where the sale of UHT (long-life) milk prevails, even if in Italy consumption of fresh milk is at 40% while in Spain it is only 2% - with the consequent differences in the packaging specifications. In China then, in that the demand was for a very economical milk pack, we have specially created a flat pouch for them, that is obviously not stand-up but that, while requiring meagre investment, still maintains and guarantees our aseptic standards.

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As well as responding to the demands of the market, does Tetra Pak also manage to lead the way in the creation of new products and create new demands? You can be sure of it. We too carry out direct market and consumer analysis, and share the data with our customers, aboveall as far as milk and fruit juices are concerned - that cover 80% of our sales. And we too

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During time your packs have undergone profound modifications… Yes, aboveall in relation to the needs expressed by the single national markets, even if the ideas at the basis of the concept are fundamentally the same: the ideal geometric shape, the type of paper and plastic most suited for foodstuffs (starting off with milk) that have to protect, and the sealing of the pack around the selfsame liquid. This idea, in particular, came to the wife of Ruben Rausing, fonder of Tetra Pak. The


shopping bag also get ideas “that are a bit crazy”, like when we put olive oil in a cardboard container. One knows that food oil should not come in contact with light and hence Tetra Pak containers are ideal. This point will be fundamental in the communication strategy of an important Spanish producer, who will soon be coming out with oil in cartons. “Crazy ideas”, it has been said, but pouching milk or boxing wine would have seemed pretty scary fifty years ago. For this though one has to find a brave customer, convinced about innovation in his own sector, just like what Caviro, owner of Tavernello and Castellino wine did. Firmly convinced of their own ideas, they invested in advertising to explain to the consumer why placing wine on the table in a carton is a good idea: it is practical, protected, preserved, infrangible. Thus the company has managed to position itself precisely and enjoy considerable success. Hence what counts for you is not only producing packaging and selling it to anyone, but it is aboveall finding the right partner. We have to find the right partner, because partnership is the basis for success.

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The structural design is always developed within Tetra Pak? What about the graphics? We design the container, even if at times some customers put in special demands as regards the shape and try to propose things to us; but it is not easy for people outside the concern to develop new models. As well as that, having to deal with a market as broad as it is - we sell 100 billion containers all around the world - we are compelled to create standards and we cannot work to customised design. As far as graphics are concerned, usually the customer comes with his layout and we go on to work from that. Still as regards shape, what happened to the first old tetrahedron? It has by now been surpassed by the parallelepiped, all the same we have a customer who produces sauces and who still uses it to export products, because it is very economical. As far as products contained in your packs are concerned, over and above liquids like milk, juices, water, wine and even oil… are you approaching “solid” foods?

Yes in Italy you can find Bonduelle pulses. Entering into a different food sector has required a further development of packaging material and, to suit the pack to products in “pieces”, we have had to go back to a more traditional technology for producing the pack, for filling the container and for sterilisation. And for the future? Beforehand we could not access the market for solid foods but now new technical possibilities are opening up with our Tetra Paks: for meat, fish, sauces.. In Italy the mineral water market is also immense… Letʼs lastly speak of eco-compatibility. It now seems clearer how in the future your packaging should be disposed of, but for some time it was difficult to place it in terms of materials. Recycling is a complex question, inasmuch as each single town or city, each single municipality, is responsible for segregated collection and it is the way that they organize locally that leads to certain choices being made. For example, some towns collect our containers with paper, others with plastic and others with light materials. So as to extend the segregated collection of drinks cartons throughout Italy, in 2003 Tetra Pak signed an agreement with Comieco, the National Italian Consortium for the Recovery and recycling of cellulose based packaging. Comieco defines the mode of collection, and along with Tetra Pak, a campaign to sensitise the public has been started up. To date the Italian citizens involved stand at around 8 million. As well as that, to rate the ecocompatibility of the packaging you need to rate the environmental impact of the packaging item along its entire lifecycle and not only at the end of the same. This means making LCAs (Life Cycle Assessments) and rating elements such as: energy consumption, the impact on the greenhouse effects, eutrophication, acidification of rain… As opposed to what one might think, from an LCA analysis carried out by the University of Padua, our containers (Tetra Brik® Aseptic e Tetra ®) turned out to be more ecocompatible than plastic packaging (HDPE and PET). Our coming challenge will in fact be that of communicating this concept to the end consumer. Sonia Pedrazzini is a designer specialised in the cosmetics sector. She deals with packaging culture.


Packaging Design Il Master RSP Packaging Design si propone di formare professionisti esperti nella progettazione di packaging industriali. I partecipanti, al termine degli studi, potranno affrontare ogni tipo di progetto, relazionandosi con le diverse strutture e figure presenti nella filiera produttiva del “prodotto packaging” (aziende, fornitori di materiali, distributori…). Il percorso formativo, che prevede • l’acquisizione di conoscenze storico-criti che relative al packaging; • lo studio del ruolo del packaging nell’ambito della comunicazione aziendale contemporanea; • l’acquisizione di conoscenze tecnologiche sui diversi materiali (plastica, vetro, metallo, carta) e relativi processi produttivi; • lo studio degli aspetti normativi ed ecologici del packaging; • la progettazione di packaging realizzati con diversi materiali; è articolato su tre progetti condotti da docenti professionisti del packaging con un brief di ricerca coordinato con le aziende. 1° progetto: Plastic and Cosmetic Packaging 2° progetto: Paper Packaging 3° progetto: Glass and Food Packaging Inizio Master Gennaio 2006 Frequenza Full Time Italiano con traduzione in inglese. Coordinamento Sonia Pedrazzini – Maria Gallo

IED Arti Visive IED Design

Ufficio Master Istituto Europeo di Design, Via A. Sciesa 4 _ 20135 Milano Tel. +39.02.5796951 Fax. +39.02.5510374 master@milano.ied.it

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Disegnare le Proprie Paure Al FutureDesigndays Conference 2004 di Stoccolma il luogo in cui i designer riflettono sullo stato dell’arte della progettazione - si parlava di “paure” e di come queste possano influenzare il design. Tra i vari interventi è particolarmente interessante il lavoro dello studio svedese Propeller che ha dedicato un mese di lavoro a questo argomento, esaminando come la paura sia sempre presente a vari livelli nella vita di ognuno. Si vive in un costante stato di panico: dalla paura diffusa e generalmente condivisa del terrorismo, fino alle piccole angosce personali o alle ansie derivanti dal timore di perdere una persona cara. Chiedendo alla gente quale fosse la propria fobia, Propeller ha scoperto che si può avere paura addirittura di cose fluide, di essere mangiati o di oggetti asimmetrici; in poche parole, di qualunque cosa. Poiché la loro ricerca si fondava

Courtesy Propeller

sul fatto che le paure sono relative, e quindi anche il coraggio, hanno proposto alcuni packaging che potremmo definire sociali, perché pensati per aiutarci a superare le nostre grandi e piccole fobie quotidiane. Lo studio Propeller, fondato da Fredrik Magnusson nel 1995, è attivo nell’area dell’industrial design e ha realizzato prodotti per Asko, Doro, Electrolux, Microsoft, Scania ed Ikea, ma spesso ha sviluppato -

Courtesy Propeller

avvalendosi anche di designer esterni ed internazionali progetti e scenari futuri in modo indipendente per poi proporli successivamente alle aziende. Imballaggi anti fobia La paura può condizionare la vita, e determinare, quindi, lo sviluppo di nuovi prodotti pronti a rispondere al bisogno di rassicurazione? Per Propeller è possibile. Così, a partire dai materiali e dalle tecnologie tipiche dell’imballaggio, ha ipotizzato nuovi usi e nuove prestazioni affinché alcuni oggetti diventino più tranquillizzanti. Come il packaging di un profilattico da aprire con una mano sola e che risolve il duplice problema di non romperne il contenuto (prima paura) e di fare più in fretta (paura di fallire la prestazione). Sono i Fortune Condom, che, ispirandosi ai biscotti della fortuna cinesi, contenenti un piccolo messaggio augurale, mostrano in ogni confezione un disegno diverso per suggerire


alimentari, quando lo tocchi informa e rassicura se il prodotto è compatibile con le proprie allergie e intolleranze alimentari? Una sorta di “security card” che è un feedback per il consumatore, come il packaging delle gomme da masticare che reagisce cambiando colore se il prodotto è attaccato da batteri nocivi. O ancora, imballaggi a multiscomparti per mantenere i “pranzi pronti” a temperatura differenziata, con una parte

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adatta al riscaldamento nel microonde, la zona fredda per il gelato e quella temperata per l’insalata. Per rispondere alla paura dell’“ignoto virtuale” e alla fobia di non poter toccare, aprire, e quindi conoscere come è fatto un oggetto, un’altra proposta è quella di realizzare un programma 3D per gestire, ruotare, muovere i prodotti in vendita on line, per mostrare al meglio tutti i lati ed eventualmente per vedere anche all’interno degli involucri. La provocazione finale è il progetto di una pillola che, se si ha paura che la sveglia non suoni, aiuta ad alzarsi la mattina; ma come essere sicuri che non sia un placebo, visto che non è molto diversa da una semplice pastiglia di zucchero? Si tratta di un paradosso che forse giustifica tale provocazione: per superare le paure devi fidarti!

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quale può essere la posizione più propizia all’incontro. E per esorcizzare la paura di avere pochi e scarsi incontri sessuali, lo slogan è “a quando il prossimo?”. Per chi è ossessionato dalla possibile mancanza d’igiene o per la necessità che hanno alcuni malati di dosare nella maniera giusta e quando vogliono la propria razione di medicinali, ecco la confezione con pillole che si possono ingerire direttamente, senza bisogno di toccarle, grazie al blister pensato per contenere anche l’acqua necessaria per assumerle. E cosa dire del packaging Smile che, per non far rischiare di mangiare un prodotto scaduto o che abbia perso i suoi valori nutritivi, si attiva e, se va tutto bene, ti sorride? Oppure che, riconoscendo le patologie

Co ur tes yP ro pe lle r

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Designing your own fears At the FutureDesigndays Conference 2004, Stockholm - the place where designers reflect on the state of the art of design - “fear� was spoken about and to the extent this can influence design. Among the various presentations held, the work of the Swedish studio Propeller was particularly interesting, that dedicated a month of work to this subject, examining how fear is always present in the various levels in everyone’s life. One lives in a constant state of panic: from the widespread and generally shared fear of terrorism, up to small personal angsts or the anxiety deriving from the fear of losing a loved one. Asking people what their phobia was, Propeller discovered that you can even be afraid of fluids, of being eaten and of asymmetrical objects; in a few words of anything. In that their study was based on the fact that fears are relative, and hence the same going for

courage, they proposed some packaging that we could define as social, in that it is devised to help us get over our small and large fears. The Propeller studio, founded by Fredrik Magnusson in 1995, is active in the area of industrial design and has made products for Asko, Doro, Electrolux, Microsoft, Scania and Ikea, butalso availing itself of external and international designers - it has independently developed future projects and scenarios to then propose them to companies. Anti phobia packaging Can fear condition our lives, and hence determine the development of new products ready to respond to the need for reassurance? For Propeller this is the case. Thus starting from the materials and technologies typical to packaging, they have thought up new uses and new performances so that some objects become more tranquilising. Like for example the packaging of a condom to be opened with one hand only, that solves the double


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problem of not breaking its contents (first fear) and hurrying things up (fear of failure in performance). These are the Fortune Condoms that, inspired by the Chinese fortune cookies, contain a small wellwishing message, each pack bearing a different illustration to suggest what the most propitious position might be. And to exorcise the fear of having few and poor sexual encounters, the slogan is “when will the next time be?”. For those obsessed by the possible lack of hygiene or for the need that the sick have of correctly dosing their ration of medicine, here is the pack with pills that can be swallowed directly without having to touch them, thanks to the blister also devised to contain the water needed to take them. And what can we say of the Smile packaging that in order not to risk having you eat a product beyond its best before date and that has lost its nutritional values, becomes active, and if all is well it smiles at you? Or that recognising food pathologies, when you touch it it informs and reassures you that the product is compatible with

your allergies and food intolerances? A sort of “security card” that is feedback for the consumer, like the packaging of the chewing gum that reacts, changing color if the product has been attacked by harmful bacteria. Or again, multicompartment packaging for keeping “ready meals” at different temperatures, with a part suited for heating up in the microwave, a cold area for icecream and a temperate one for salad. To respond to the fear of the “virtual unknown” and of the phobia of not being able to touch, open and hence understand how an object is made, another proposal is that of creating a 3D program for handling, rotating, moving the products on sale on line, to show all their sides off and even look inside the packaging. The ultimate provocation is a pill that, if you fear the alarm clock might fail to ring, helps you to get up in the morning; but how can you be sure it isn’t a placebo, given that it doesn’t look that different from a simple sugar pill? Here we have a paradox that might justify this provocation: to get over ones fears you have to show trust!


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FATTO IN Il progetto del packaging oggi viene investito della responsabilità di comunicare l’origine e la storia delle merci. Dal mercato globale a quello locale, l’efficacia del “made in Italy” attraverso bottiglie, barattoli, portafiori e sacchetti di patatine fritte.

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naturalmente, nelle nostre case, cioé nel luogo più intimo e sensibile che conosciamo. La bottiglia di shampoo che abbiamo preso dallo scaffale della profumeria, una volta entrata in casa, resta sotto i nostri occhi per alcune settimane: continueremo a visualizzarla, se pur involontariamente, ogni volta che entreremo in bagno, e la sua immagine entrerà a far parte del nostro orizzonte quotidiano. Così il packaging, immagine e rappresentazione del prodotto, troverà un suo spazio costante nel nostro vissuto, mentre il prodotto “in sé” diventerà reale e tangibile solo durante l’uso. Ora, Guy Debord ci perdonerà (forse), dall’alto dei cieli, se usiamo le sue teorie per parlare di saponette e patatine, ma il concetto di spettacolo, rappresentazione sostitutiva della realtà, e il successo (preconizzato oltre trent’anni fa) che questo spettacolo avrebbe avuto nella nostra società, è un punto nodale per comprendere l’attuale attenzione verso il progetto packaging. È accaduto infatti che, una volta accertata la seducente supremazia della rappresentazione sulla realtà, lo spettacolo-packaging si sia trasformato in una sorta di tesoro comunicazionale, una ricca

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«… Ogni punto d’ognuno di noi coincideva con ogni punto di ognuno degli altri in un punto unico che era quello in cui stavamo tutti». In questo modo Italo Calvino parlava dell’Universo prima del Big Bang, nel racconto “Tutto in un punto” (Cosmicomiche). In fondo oggi potremmo usare le stesse parole per descrivere il mercato globale, quel luogo vasto, ma pur sempre concluso, in cui convivono e si affastellano, sempre più merci del tutto simili, se non proprio sovrapponibili. Cosa fare per illuminare questo “punto” affollato, per promuovere e differenziare i vari prodotti? Le aziende usano naturalmente la classica pubblicità, sia essa cartacea, televisiva o su web, uno strumento valido ma pur sempre un’esperienza temporanea, legata all’attimo in cui viene percepita. Mentre c’è qualcosa di più reale e costante nella vita del consumatore, che funziona, di fatto, come una pubblicità perenne: è il packaging, il luogo in cui s’incontrano lo sguardo (del consumatore), l’esistenza (del prodotto stesso), il contatto fisico (di entrambi). Dove si consuma questo rapporto così privato e diretto? In qualunque supermercato, negozio, centro commerciale del mondo e,


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cornucopia in grado di contenere e veicolare informazioni, valori e messaggi. Una parte importante di questo tesoro è peraltro rappresentato dal brand, il convitato di pietra che, su alcuni prodotti o in alcune fasi della vita di un prodotto, calibrandone adeguatamente la visibilità, viene utilizzato come strumento di precisione per segnare il territorio, fare proseliti, divulgare valori: attività decisamente appetitose per chiunque voglia trovare uno spazio o accendere un spot nel sovraffollato “punto” del mercato. Per questo lo spettacolo-packaging è diventato un mezzo di comunicazione privilegiato, non solo per soggetti dichiaratamente economici, come le aziende, ma anche per realtà più complesse e sfaccettate come le diverse culture e tradizioni nazionali. In anni passati si è parlato di imperialismo culturale, per descrivere la promozione planetaria dell’American way of life, realizzata

attraverso l’arte, la musica e le lattine di Coca Cola vendute in ogni continente. Oggi, l’esportazione di modelli culturali, finalizzati a un ritorno economico e d’immagine per gli stati promotori, non solo non è criticata, ma gli è stato trovato anche un nome politically correct: è il marketing delle nazioni. Un termine decisamente più appropriato alla situazione, perché con l’ingresso del gigante cinese nel mercato globale il bisogno principale di ogni nazione è diventato, secondo alcuni, la difesa dei sistemi economici locali, più che l’affermazione delle proprie specificità produttive e culturali. In realtà è difficile, e forse anche dannoso, separare i due termini della questione, tant’è vero che sia le piccole realtà territoriali che i grandi sistemi nazionali sentono il bisogno di marcare, in ogni senso, i propri prodotti con segni facilmente riconoscibili. Così il progetto del packaging oggi viene investito anche della responsabilità di comunicare l’origine


e la storia delle merci. Ma quando la tradizione culturale di un paese è troppo pesante e ingombrante rischia di restar fuori da qualunque packaging, a meno che non si riesca a far entrare secoli di storia in un barattolo. Possibile? A giudicare dal miracolo compiuto dall’Italia, potremmo azzardare una risposta positiva. Perché l’Italia, per qualche strano meccanismo del destino, è già riuscita a trasformare una semplice targhetta, con denominazione d’origine Made in Italy, in un brand potentissimo, in termini di valore simbolico. Quella targhetta ormai è dotata di vita propria e riesce a raccontare in un istante Leonardo da Vinci, il Colosseo, Giorgio Armani e perfino la Ferrari. È un potente feticcio, a cui aziende e politici s’inchinano religiosamente perché convinti del suo immenso potere taumaturgico sulle merci destinate all’export. Ora, se il grande Made in Italy riesce a occupare i pochi centimetri quadrati di una targhetta, perché non dovrebbe entrare in una bottiglia? Questo, in fondo, il tema affrontato dagli studenti del 4° anno dell’Isia di

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Faenza, in collaborazione con il Gruppo Bormioli Rocco. Con sensibilità, ironia (e un po’ di salutare sfrontatezza) gli studenti hanno tentato di dare un packaging adeguato ai prodotti tipici del Made in Italy, creando diverse collezioni di bottiglie e barattoli per vino, olio e conserve, destinate ai piccoli produttori di specialità italiane. Questi, non potendo sostenere l’investimento di un pack in vetro personalizzato, per presentare adeguatamente il proprio prodotto sul mercato estero potrebbero utilizzare delle forme base, caratterizzate da un “buon design”, da personalizzare poi con la propria etichetta. Sul corpo in vetro di bottiglie e barattoli gli studenti hanno tracciato perciò segni che parlano di ingegni antichi (l’acciottolato delle strade romane, la struttura architettonica dell’arco…), di arte contemporanea (il taglio di


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Fontana) e di design funzionalista (il solco salvagoccia, la base impilabile…) superando elegantemente la tentazione vernacolare. Ma l’Italia è pur sempre l’insieme di “cento città”, dunque perché fermarsi alla promozione di un generico Made in Italy quando, attraverso le merci, possiamo descrivere una geografia del territorio, ben più articolata? La Provincia di Torino, per esempio, ha promosso la creazione di una bottiglia che diventasse non solo un generico contenitore per i vini prodotti sul territorio torinese, ma anche una specie di premio, per vini prestigiosi e selezionati. Al packaging dunque ancora una volta l’arduo compito di garantire e comunicare ai consumatori, oltre al luogo d’origine della merce, anche l’eccellenza del prodotto. Inutile dire che la bottiglia, chiamata appunto Torino e disegnata da Giovanni crocchias e Tim Corvin (dell’agenzia londinese SieberHead) è diventata un vero e proprio trofeo. È un oggetto autorevole, perché deve comunicare cose importanti, ha un basamento evidente su cui è scolpito a rilievo il nome della provincia, ma gli autori hanno saputo rinunciare alla tradizionale simmetria, per affrontare coraggiosamente una forma dal

profilo scultoreo, quasi incerto, spesso mutevole. Ma non di solo vino vive il Made in Italy, ed ecco sbocciare, nel territorio del ponente ligure, la risorsa fiori, il cui referente primario è il Mercato dei Fiori di Sanremo. Lo studio della filiera produttiva e distributiva dei fiori è stato realizzato quest’anno nel “Workshop di Sanremo”, in sinergia con università, comunità locali e operatori economici, coinvolgendo alcuni studenti per la ricerca di un packaging che rinnovasse l’immagine del classico cadeau floreale. I progetti hanno tentato di ridisegnare il tradizionale mazzo di fiori restituendo a ogni fiore una dignità estetica tale da poter essere presentato singolarmente, nel punto vendita, in appositi espositori, grazie a packaging utili per la conservazione di questi romantici prodotti della natura. Talvolta le periferie dell’impero si divertono a sperimentare cose che l’impero, forse, non conoscerà mai. Così abbandonata la strada dei prodotti tipici, un produttore coraggioso ha deciso di creare delle patatine fritte “sarde”: le Crocchias. Simili a molti altri snack concorrenti, prodotti dalle grandi multinazionali, la “sardità” che differenzia queste


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patatine è concentrata tutta nel loro packaging. La materia prima in realtà proviene non solo dalla Sardegna ma anche dalla Germania; lavorazione e confezionamento sono però assolutamente sardi. Perciò eccoci davanti a un esempio di folclore rivisitato, di ironia archeologia applicata al progetto del packaging. Un famoso guerriero, che riposa sotto forma di bronzetto nuragico nel Museo Archeologico di Cagliari, è stato assoldato per testimoniare la “sardità” e la bontà delle patatine Crocchias: diventato fumetto, il guerriero brandisce non più armi ma un’innocua forchetta e uno scudo-

patatina. Forse l’Originale, a questa visione, avrà avuto sommovimenti inconsulti nella tomba, ma noi contemporanei sappiamo che sostituire le armi non è mai un crimine, anzi. Così come, “mettendo dei fiori nei loro cannoni”, qualcuno è riuscito perfino a cambiare la Storia, mettendo un po’ di design nei nostri packaging altri potrebbero cambiare il sovraffollato “punto” del mercato globale.

Maria Gallo, concept designer, coordinatrice del master in Packaging Design 2005 presso l’Istituto Europeo di Design (Milano).


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Made in Italy The packaging project has now been given the responsibility for communicating the origin and history of the product. From the global to the local market, the punch of “made in Italy” through bottles, cans, flower vases and crisp bags.

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“…Every point of every one of us coincided with every point of every one of the others in one point which was where we all were”. This is how Italo Calvino described the Universe prior to the Big Bang, in his short story “Tutto in un punto” (Cosmicomiche). Actually, we could use the same terms today to describe the global market, that immense, but anyway finite, space, in which an ever greater number of similar, if not interchangeable, products coexist and cumulate. What can be done to illuminate this crowded “point”, to promote and differentiate various products? Companies naturally use classic advertising, be it printed, on television or on the internet, a valid tool but anyway something fleeting, bound to the moment of perception. While there is something more real and constant in consumers’ lives, which indeed functions as permanent advertising: packaging, the place where the glance (of the consumer), the existence (of the product itself), the physical contact (of both) meet. Where is such a private and direct relationship consummated? In any supermarket, shop, shopping centre in the world and, naturally, in our homes, i.e. in the most private and sensitive place we know. The shampoo bottle we have taken from the shelf of the perfumery, once home, remains in full view for some weeks: we will continue to see it, though unawares, every time we go into the bathroom, and its image will become part of our daily horizon. So, packaging, image and product representation will find a permanent space of its own in our lives, while the product itself will only become real and tangible when we use it. Guy Debord will (perhaps) forgive us from up on high, if we use his theories to speak about soap and crisps, but the concept of spectacle, a substitute for reality, and the success (prophesied over thirty years ago) that this spectacle would have in our society, plays a crucial part in an understanding of the current interest in the packaging project. Indeed, it has happened that, once the seductive supremacy of representation over reality has been

ascertained, spectacle-packaging is transformed into a kind of communicational treasure, a rich cornucopia able to hold and bear information, values and messages. On the other hand, an important part of this treasure is represented by the brand, the silent dinner guest which, on some products or in some phases of the life of a product, and carefully doled out, is used as a precision tool in order to mark the territory, make converts, spread values: surely tempting activities for whoever wants to find room or light up a spot in an overcrowded “point” of the market. This is why spectacle-packaging has become a privileged means of communication, not just for explicitly economic subjects, like companies, but also for more complex and many-faceted realities such as various cultures and national traditions. In previous years we spoke of cultural imperialism, to describe the planetary promotion of the American way of life, achieved through art, music and the Coca Cola cans sold on every continent. Now the export of cultural models, whose purpose is an economic and image revival for the nations involved, is not only no longer criticised, but has also been given a politically correct name: the marketing of nations. A decidedly more appropriate term, as with the entrance of the Chinese giant into the global market the principal need of every nation has become, according to some, the defence of local economic systems, rather than the affirmation of one’s own productive and cultural specificity. Actually, it is difficult, and perhaps even harmful, to separate the two sides of the question, so much so that both small regional realities and large national organisations feel the need to mark, in every sense, their own products with easily recognisable signs. So, the packaging project is now also given the responsibility of communicating the origin and history of the product. But when the cultural history of a country is too heavy and voluminous it risks being left out of any packaging, unless you can get centuries of history


container base on which the name of the province is engraved in relief, but its creators managed to avoid traditional symmetry, in order to bravely tackle a shape which has something of sculpture, almost indistinct and often mutable. But Made in Italy is not just wine, and here we see the budding, in the west of Liguria, of the resource of flowers, whose primary reference is the Sanremo Flower Market. A study of the production and distribution of flowers was carried out this year at “Workshop di Sanremo” working in synergy with the university, local communities and financial companies, involving students in a search for packaging to freshen up the image of the classic gift of flowers. The project attempted to redesign the traditional bouquet of flowers giving each flower an aesthetic dignity such as it could be presented singly, in a shop, in appropriate display units, thanks to packaging useful for the preservation of these romantic products of nature. Sometimes the edges of the empire amuse themselves by experimenting with things that the empire, perhaps, will never know about. So, jumping off the typical product bandwagon, one brave manufacturer has decided to create “Sardinian” crisps “Le Crocchias”. Like many competitive snacks, produced by large multinationals, the “Sardinian-ness” which differentiates these crisps is wholly concentrated in their packaging. Indeed, the raw ingredients do not just come from Sardinia but from Germany too; production and packaging are, however, one hundred percent Sardinian. Therefore, here we have in front of our very eyes an example of revisited folklore, archaeological irony applied to the packaging project. A famous warrior, who lies in the form of a small nuraghic bronze in the Archeological Museum of Cagliari, has been enlisted to testify to the “Sardinian-ness” and the deliciousness of Crocchias crisps: turned into a cartoon character the warrior no longer brandishes a weapon but a harmless little fork and a crisp-shield. Perhaps the original warrior will be turning in his grave, but we moderns know that replacing arms is never a crime, quite the opposite. So, just as by “putting flowers in the barrels of their guns” somebody even managed to alter the course of history, adding a little design to our packaging could change the overcrowded “point” of the global market.

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Maria Gallo, concept designer, co-ordinator of the Master in Packaging Design 2005 at the Istituto Europeo di Design (Milan).

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into a can. Can it be done? Judging by the miracle which has taken place in Italy, we might hazard a positive answer. Because Italy, by some strange force of destiny, has already managed to transform a simple label, with the wording Made in Italy, into an extremely powerful brand, in terms of symbolic value. That label now has a life of its own and manages to recount in an instant Leonardo da Vinci, the Coliseum, Giorgio Armani and even Ferrari. It is a powerful fetish, before which companies and politicians bow down religiously, persuaded as they are of its immense miracle-performing power on products destined for export. Now, if the great Made in Italy manages to occupy the few square centimetres of a label, why shouldn’t it go on a bottle? This, fundamentally, is the theme dealt with by the 4th year students of the Isia in Faenza, together with the Gruppo Bormioli Rocco. With sensitivity, irony (and a small dose of healthy cheekiness) the students tried to find suitable packaging for typical Made in Italy products, creating various collections of bottles and cans for wine, oil and preserves, destined for small producers of Italian specialities. The latter, unable to invest in a personalised glass pack, could use basic forms characterised by “good design” to personalise with their own label, in order to successfully launch their product in the foreign market. On the body of the glass bottles and cans students drew symbols which recall ancient inventiveness (the cobbled Roman streets, the architecture of arches) contemporary art (Fontana’s slashed canvases) and functionalist design (the stackable base…) elegantly side-stepping the temptation to be vernacular. But Italy is still the sum of “a hundred cities”, so why stop at the promotion of a generic Made in Italy when, through products, we can describe a much more varied regional geography? The Province of Turin, for example, has promoted the creation of a bottle which becomes not just a generic container for wines produced in the region, but also a sort of prize, for prestigious and selected wines. Packaging is once more given the arduous task of guaranteeing and communicating not only the products’ origin, but also its excellence to consumers. It goes without saying that the bottle, named Torino, and designed by Giovanni Brunazzi and Tom Corvin (from the London SieberHead agency) has been a real triumph. It is an authoritative object as it has to communicate important things, it has a conspicuous


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Rob Pruitt: la Magia dei Segni Nelle mani dell’artista newyorkese le confezioni delle merci scintillano, diventano scrigni sfavillanti, si caricano di un magico plusvalore di senso.

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Marco Senaldi

Un Carton de Gerolsteiner, 1998


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Evian Fountain, 2000 Installazione, Palazzo delle Papesse, Siena


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Un Carton de San Benedetto 2003

Rob Pruitt (1965) è un artista originario di Washington e residente a Manhattan, che ha conosciuto un notevole successo all’inizio degli anni 90, e che ora, con installazioni che sanno unire attenzione all’aspetto pop delle merci e sottigliezza concettuale, sta riconquistando definitivamente la ribalta dell’arte internazionale. Dopo una iniziale collaborazione con Jack Early e una serie di mostre al limite della provocazione, Rob Pruitt ha individuato un percorso più personale e meditato. Una delle sue prime installazioni di questo “nuovo corso” fu una fontana riempita di acqua minerale e circondata da confezioni di Evian incrostate di brillantini. Pruitt stesso ha commentato l’opera dicendo che stava “riflettendo sull’idea del battesimo, del lavar via i propri peccati”. Una formidabile replica di quella installazione è stata esposta dalla galleria Franco Noero di Torino ad Artissima 2004, la fiera d’arte che si tiene annualmente negli spazi torinesi del Lingotto. Al 1999 risale la sua personale intitolata 101 Art Ideas You Can Do Yourself (101 idee artistiche che puoi realizzare da te). Le idee erano presentate sotto forma di libro di ricette, e andavano da cose molto semplici (n° 21 - riempire un bicchiere d’acqua e restare a guardarlo) ad azioni ripetitive o complesse (n° 52 numerare tutti i mattoni di una parete con gessetto). Attualmente questo lavoro è consultabile on-line sul sito www.e-flux.com/projects/pruitt, dove le 101 idee artistiche sono sfogliabili come un catalogo: la morale è che tutti possono farsi un’opera d’arte, è il suggerimento del contesto che conta davvero. Infine, Pruitt ha adottato il simbolo del panda come un suo nuovo logo personale: “per me, rappresenta una specie di controllo del danno di immagine, come il tentativo di dare di nuovo un mercato alla Perrier dopo che ci hanno trovato tracce di benzene, o ricominciare a vendere pneumatici Firestone dopo che alcuni sono scoppiati. Anch’io sono un personaggio redivivo, ma chiunque ama un panda. I panda sono le star di ogni zoo in cui si trovano”.


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Restando in bilico tra il livello comunicativo dei simboli commerciali, e la possibilità di trasformarli, mediante il glittering, la pittura, la collocazione, in metafore piacevolmente inutili, il lavoro di Rob Pruitt riesce a fornire un piacevole soddisfacimento visivo, senza smettere di farci riflettere.

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Ci puoi dire come hai iniziato la tua carriera artistica? Dopo essermi diplomato alla Parsons School of Design di New York, ho iniziato a lavorare per la Sonnabend Gallery, che era un ambiente fantastico. Ho incontrato e lavorato con delle persone interessantissime, compresa Ileana Sonnabend, e ho avuto la possibilità di fare la conoscenza degli artisti che adoravo, come Peter Halley, Haim Steinbach e Jeff Koons. In un certo senso questa è stata la mia università. E’ durante questo periodo che ho collaborato con Early, che è stato anche il mio compagno. Allora volevo che la nostra relazione fosse il più pubblica possibile, per ragioni politiche, ma in effetti non ero molto interessato ad una collaborazione artistica. Di fatto, io sono un control

Un Carton de Fiji 2002

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identi-kit Un carton de Perrier Citron 1999

freak [un ossessivo, n.d.r.] e ho sempre insistito a fare arte a modo mio, o a non farne del tutto. Qualʼera il tuo punto di partenza? Mi sembra che il tuo lavoro inizi dove il pop e il simulazionismo finiscono... Non saprei. Soprattutto, sono un fan della storia dell’arte. Non penso all’arte in modo lineare, cronologico, nei termini del riprendere qualcosa dove qualcos’altro ha avuto termine. Molto spesso ho semplicemente ripreso cose dalla storia dell’arte che mi piacciono particolarmente e che credo possano essere riproposte. Come ti comporti nei confronti dellʼattività artistica? Intendo dire, da dove trai lʼidea e gli spunti per il tuo lavoro? Prendo spunto dalla TV, andando a vedere film, guardando delle riviste, ascoltando musica, partecipando a feste e a sfilate di moda, leggendo le autobiografie delle celebrità, facendo shopping, guardando la CNN, leggendo i quotidiani, dai miei ricordi di infanzia e dai miei amici.

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Ad Artissima, la ormai nota Fiera dʼArte Contemporanea di Torino, nel novembre scorso, ho visto la tua installazione fatta con lʼacqua minerale Evian, che mi ha impressionato molto. Come hai realizzato quella installazione? Nasconde un qualche (segreto) significato? La fontana di acqua Evian è allo stesso tempo un’analisi sociale, un effetto spettacolare e un richiamo alla semplicità. Volevo celebrare la bellezza elementare dell’acqua e contemporaneamente indicare l’assurdità di vivere in un momento in cui una delle nostre risorse fondamentali è diventata tanto inquinata da dover diventare inevitabilmente una merce impacchettata.


In un modo o nellʼaltro, il packaging è ricorrente nei tuoi lavori. Non è forse qualcosa che “sta a mezzo” tra i beni di consumo e la comunicazione di questi stessi beni? La seduzione è importante nel mio lavoro e il mondo della pubblicità e del packaging ha fatto della seduzione una scienza. Qualʼè la tua relazione artistica con il logo, la grafica, e la superficie degli oggetti? Nelle ultime opere hai impiegato materiali brillanti, come aggiunta ulteriore per sottolineare il messaggio sulla superficie della confezione. Non mi interessa affrontare lo spettatore con un linguaggio a lui estraneo. Mi stimola l’idea di parlare in un linguaggio visivo magari triviale per presentare però concetti inaspettati. Qualʼè il tuo rapporto - artistico, ma anche quotidiano - con i beni di consumo, il consumismo e in particolare con il packaging in quanto tale? Sono un consumatore eco-consapevole e un guidatore di Prius [la vettura della Toyota a motore ibrido, elettrico e a scoppio, a bassissimo impatto ambientale, assurta negli USA a modello di auto non inquinante in opposizione al SUV o Sport Utility Vehicle, n.d.r.]. E’ da questa posizione che guardo alla cultura consumistica, con molto disprezzo per gli eccessi dell’America, ma al tempo stesso sedotto e divertito. Per finire: sei uno “shopaholic” o il tuo lavoro ti salva dalla dipendenza al consumo? E, in poche parole, come vedi la società consumistica? Lʼarte può avere un ruolo allʼinterno della situazione sociale attuale? No, sono uno “shopaholic”, ma uno “shopaholic” parsimonioso. Credo davvero nel riciclare qualsiasi cosa che sia utile o bella. Ma allo stesso tempo vorrei comprarmi un Rolex se potessi permettermelo. Ne apprezzo molto la maestria artigianale e il design. Images: courtesy Gavin Brown’s enterprise, New York

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Un Carton d’Evian Nomad 2002


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Rob Pruitt: the Magic of Signs In the hands of the New York artist goods packs shine forth, they become sparkling caskets, charged with a magical surplus value of meaning. Marco Senaldi

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Rob Pruitt (1965) is an artist who comes from Washington based in Manhattan, who enjoyed a considerable success at the beginning of the 90s, and who now, with installations that combine attention to the pop side of merchandise and subtleness of concept, is definitively reconquering the stage of the international art scene. After an initial cooperation with Jack Early and a series of shows on the verge of provocation, Rob Pruitt has mapped out a more personal and meditated approach. One of his first installations in this “new approach” was a fountain full of mineral water and surrounded by Evian bottles covered with glitter. Pruitt himself commented the work saying that he was “reflecting on the idea of baptism, to wash away ones sins”. A formidable replica of this installation was placed on show at the Franco Noero gallery at the Turin Artissima 2004, the art fair that is held annually in the spaces of the Lingotto at Turin. In 1999 he held a one-man show called 101 Art Ideas You Can Do Yourself. The ideas were presented under the form of a recepé book and went from very simple things (n°21 - fill a glass of water and stay there looking at it) to repetitive and complex actions (n°52 - number

all the bricks in a wall with chalk). These works can currently be consulted on-line at the site www.eflux.com/projects/pruitt, where the 101 artistic ideas can be leafed through like a catalogue: the moral is that everyone can do their own masterpiece, it is the suggestion of the context that really counts. Lastly, Pruitt has adopted the symbol of a panda as his own personal logo: “”I see it as a kind of corporate damage control like trying to market Perrier after they found benzene in it, or Firestone tires after they exploded,” he said. “I was a reviled figure, but everybody loves a panda. They’re the stars of every zoo they’re in.” Teetering between the communicative level of commercial symbols and the possibility of transforming the same, through glitter, painting, their setting, into pleasantly useless metaphors, Rob Pruitt’s work manages to provide a complete visual satisfaction, while all the same continuing to allow us to reflect on things. Can you tell us how your artistic career began? I started my career after graduation from Parsons School of Design by taking a job at Sonnabend Gallery, which was such a super fantastic environment. I met and worked with so many fascinating people, including Ileana Sonnabend, and had the chance to get to know artists who I idolized, like Peter Halley and Haim Steinbach and Jeff Koons. In a way it was my graduate school. It was during this period that I collaborated with Early, who was also my boyfriend. I wanted our relationship to be very public, for political reasons, but I actually wasn't very interested in collaboration. In fact, I'm a control freak and insisted on doing the art my way or not at all.


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What was your starting point? It seems to me that your work starts where pop and simulationism finish‌ I don't know. I'm above all, a fan of art history. I don't think of art in a linear, chronological way, in terms of picking up where something else left off. Very often, I've simply repeated things from art history that I particularly like and believe bear repeating. How do you go about making art? What I mean is, where do you get the ideas and the inspiration for your work? I get my ideas from watching TV and going to the movies and looking at magazines and listening to music and going to parties and fashion shows and reading celebrity autobiographies and shopping at malls and watching CNN and reading the newspaper and from my memories of my childhood and from my friends. At Artissima, the by now wellknown Turin Contemporary Art Show, last November, I saw your installation made with Evian mineral water, that struck me a lot. How did you make the installation? Does it hide a (secret) meaning? The Evian fountain is equal parts social commentary, spectacle and simplicity. I wanted to celebrate the elemental beauty of water and at the same time address the absurdity of living at a moment in time when one of our most basic resources has become so polluted that it has by necessity become a packaged commodity.

In one way or another, packaging is recurrent in your work. Is it not something that stands midway (as a means) between consumer goods and the communication of the same goods? Seduction is important in my work and the world of advertising and packing has turned seduction into a science. What are your artistic relations with the logo, the graphics and the surfaces of objects? In your last works you used glitter as an added means for highlighting the message of the surface of the pack. I'm not interested in confronting the viewer with a foreign language. It excites me to speak in a visual vernacular to present unexpected concepts. What is your relationship - artistic but also everyday - with consumer goods, consumerism and in particular with packaging as much as such? I am Prius driving eco conscious consumer. It is from this position that I view consumer culture, with much disdain for America's excess, but fascination and amusement as well. To end up: are you a “shopaholic� or does your work save you from getting hooked on consumerism? And, in just a few words, how do you see the consumer society? Can art have a role within the current social situation? No, I am a shopaholic, but a thrift shopaholic. I really believe in recycling anything that is useful or beautiful. But at the same time, I would by a Rolex watch if I could afford it. I appreciate craftsmanship and design. 1/05 89


MAURO LOVI , LA CASA NELLA SCATOLA, COMIECO 2004 Con un testo di Philippe Daverio Un “libro oggetto” da aprire, smontare, ricostruire, leggere, guardare, fatto di disegni poetici e onirici che indagano l’archetipo della casa sovrapposto all’archetipo dell’imballaggio, ovvero la scatola di cartone. La scatola che custodisce il libro contiene una fustella di cartone che, tagliata e montata, diventa una casa. Text by Philippe Daverio An “object book” to open, dismantle, reconstruct, read and thumb through, consisting of drawings, poems and dreams that investigate the architype of the house seen as the architype of packaging, In other words, the cardboard box. The box containing the book also contains a die-cut board that, once cut and assembled, becomes a house.


Storie di Packaging Mr. Incredible e i suoi cereali. Lo yogurt Yalla!. Ritter il quadrato. Evian nella scatola. Queste e altre straordinarie storie di packaging. Testo e foto di Olav Jünke e Francalma Nieddu

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Gillo Dorfles, nella sua Introduzione al Disegno Industriale riconosce al packaging un valore nella cultura del design “che ha attinenza con la grafica e la pubblicità”. Oggi il packaging definisce la sua presenza nel mondo, oltre che per i suoi attributi, anche per i significati che assume, per il dialogo che instaura con l’utente, per la carica simbolica che sprigiona. E’ un oggetto della comunicazione, dell’estetica quotidiana e della sfera affettiva, è un attore che dà voce alle categorie valoriali della marca, agisce attraverso l’intreccio di contributi grafici, materici, formali e strutturali. L’idea del packaging per conservare un prodotto e renderlo trasportabile ma soprattutto attraente, riconoscibile


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e desiderabile non é un’invenzione recente. Fin dal mitico Eden, l’uomo ha imparato a riconoscere la frutta matura e buona da quella acerba o marcia tramite il suo colore. La banana verde, gialla, o marrone non ha bisogno di spiegazioni scritte né di data di scadenza. E l’arancia, anche se attraente nel colore, nel profumo e nella forma rappresenta il tipico packaging che si può aprire solo tramite il “trial & error”, cioè trovare la soluzione sbagliando, proprio come tanti packaging d’oggi. Munari, nel suo libro Good Design (1964), presentava le forme naturali della frutta come esempi per affrontare un buon progetto di packaging: protezione del contenuto, colore per contraddistinguerne il gusto, porzioni definite e forma accattivante. Nel packaging di oggi, l’essere attraente è di sicuro l’aspetto più importante, considerando che, al momento della scelta davanti allo scaffale nel supermercato, quello che un packaging deve comunicare in modo inconfondibile e istantaneo è proprio la peculiarità del prodotto che rappresenta. Detto in parole semplici: quando siamo nel punto vendita abbiamo già dimenticato gran parte della pubblicità, quindi decidiamo lì per lì. Per il 27% dei consumatori il packaging è la fonte di informazione più importante, per il 45% è il criterio più importante per ripetere un acquisto, e infine, per decidere dell’acquisto l’85% prende tra le mani il packaging. Ma quali sono gli ingredienti per un imballaggio di successo? Basta fare un giro nei supermercati europei per capire che ovunque c’è dell’incredibilmente malfatto, del benfatto ma noioso, ma ci sono anche prodotti che attirano subito la nostra attenzione e svegliano il nostro interesse, li desideriamo spontaneamente e, se siamo nell’umore giusto, li acquistiamo: in questo caso si è innescato il processo

A.I.D.A. : Attenzione > Interesse > Desiderio > Azione (cioè acquisto) ed è questa la classica formula di una comunicazione di marketing riuscita. Realizzare un effetto del genere, in un mondo dove migliaia di prodotti concorrono per catturare la nostra attenzione, sembra quasi un miracolo. E’ un lavoro da eroe, o meglio, da supereroe, come Mr. Incredibile, di recente apparso sulla confezione dei cereali Cini Minis di Nestlé in un supermercato di Amburgo. In questo caso, il packaging, raccontando la storia del mitico film Gli Incredibili (prodotto dagli studi di animazione Pixar e Disney) conferisce al prodotto una forte identità e un effetto-memoria per intere generazioni di padri e figli. Questo è un perfetto esempio di narrazione che vorremmo non finisca mai e siamo ben disposti ad accogliere il seguito della favola e il prodotto ad essa collegata. Più bella é la storia e più completa la vogliamo. Ne compriamo tutte le parti. Vediamo il film, ci affezioniamo agli eroi, compriamo i cereali e così via. Nell’ambito della comunicazione, una importante tendenza sarà quella di condividere storie che non devono necessariamente nascere dal marchio stesso, al contrario avranno più successo i marchi che oltrepasseranno il proprio territorio, che non si fermeranno solo alle informazioni sul proprio prodotto, ma che andranno oltre regalando un calore legato alle emozioni. Il cioccolato Ritter Sport è diventato un classico esempio di forte comunicazione attraverso il packaging. La soluzione che lo ha reso leader di mercato è apparentemente semplice: la tradizionale tavoletta di cioccolato, rettangolare e sottile, fu trasformata in quadrata e spessa, dando così l’impressione di una cosa più piccola, da mangiare al volo e senza


sensi di colpa. Erano sempre gli stessi cento grammi di cioccolato, ma uniti allo slogan: Quadratisch, praktisch, gut (quadrato, pratico, buono) ed ad un imballo facilmente apribile con una sola mano. Oggi Ritter Sport si è ulteriormente sviluppato, evoca storie nazionali: i Ritter chiamati Amarettini hanno un sapore italiano; Maple Walnut richiama le foreste canadesi e la Crème Caramel sa di Francia. Ecco di nuovo la tecnica di creare storie condivisibili da tutti. Un modo intelligente che arricchisce il packaging di contenuto e significato, un modo per vendere e rendere acquistabile il sogno di un viaggio lontano o di possibili alternative di vita.

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Le confezioni di tè potrebbero ph essere considerate ot o by prodotti a basso interesse: Er ica marchi confondibili che usano Gh isa sempre le stessi immagini e colori. lb er La storia del tè in questo modo non ti viene raccontata. Ma un diverso esempio ci viene da Marks & Spencer e da una particolare confezione di tè private label. L’intervento creativo sulla scatola è semplice ma efficace: le lettere che formano la parola tea, formalmente simili a quelle delle scritte sulle casse di legno che in passato arrivavano

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Il packaging è da tanto “uno di famiglia”. Nel caso della Nutella non ci sono dubbi, e così il suo quarantesimo compleanno diventa qualcosa da celebrare tutti insieme. Come regalo Nutella si è concessa un “maxi packaging” promozionale fuori da ogni standard. Senza usare appetite appeal (cioè senza bisogno di evocare l’aspetto appetitoso del prodotto), senza key visual (senza utilizzare una specifica chiave di lettura visiva), senza la solita posizione del logo. Ma il logo c’è, e contiene l’intero immaginario di un marchio amato; infatti, tutte le cinque versioni di etichetta, realizzate per la serie compleanno, lo collegano al mondo reale e lo confermano parte di un dominio culturale riconosciuto da molti che va oltre il prodotto “crema di nocciole e latte da spalmare”. Qui ci si avvicina all’ uso dei packaging Campbell Soup nell’ arte di Warhol, solo che stavolta al museo ci va il prodotto vero con le sue etichette in edizione limitata prodotte da artisti. E in questo caso il museo è il Museum für Angewandte Kunst Frankfurt ovvero il Museo di arti applicate di Francoforte.

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con i velieri da paesi lontani e sconosciuti, sono state fustellate in modo da creare delle finestre attraverso cui vedere le bustine dei filtri e riconoscere il gusto della bevanda dai loro diversi colori. E siccome la nostra mente è pronta a rispondere con associazioni mentali a questo ricordo, in un istante completiamo la storia e la facciamo nostra. E’ davvero una grande idea su una piccola scatola.

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Per avere successo in una nicchia di mercato, la mossa giusta può essere fare il contrario di ciò che si fa abitualmente in quel settore, come, ad esempio, alcune confezioni di yogurt reperite a Stoccolma che sembrano eludere i tipici “ingredienti visivi” di packaging simili. L’immagine di questa serie di prodotti è infatti quella di una piacevole bottiglia che ricorda molto da vicino le confezioni dei softdrink. A livello di grafica, i simboli che differenziano i vari gusti, appaiono piuttosto astratti e apparentemente privi di collegamento con i sapori contenuti, tuttavia possiedono un forte impatto emotivo. L’intera presentazione del marchio, dal logo Yoggi al nome del prodotto Yalla! , comunica allegria e leggerezza, e rende questo yogurt, per la qualità e la positività trasmessi, il miglior testimone di se stesso. Come dire: talvolta anche una buona dose di umorismo rende efficace la comunicazione sul packaging. Alle differenti abitudini di consumo un marchio può rispondere con differenti tipi di packaging. Ad esempio, può utilizzare diverse dimensioni a seconda se sia per la casa o per il viaggio; oppure può impiegare nuovi materiali in grado di rinnovarne l’aspetto. Così, la confezione in cartone argento-metallizzato, realizzata da Tetra Pak per Evian, è lo sviluppo riuscito di un innovativo imballaggio per l’acqua minerale: un

pack elegante ma anche attento al riciclo, e per chi lo utilizza rappresenta la scelta di darsi un atteggiamento molto cool e all’avanguardia: consumare acqua piuttosto che i soliti drink americani. Mentre in Italia la tipica forma sagomata della scatola di un panettone é la cosa più riconoscibile e il punto di forza per una comunicazione efficace, sembra che in Inghilterra, per vendere lo stesso prodotto, basti il solo nome. Da Conran a Londra, ad esempio, il famoso dolce natalizio italiano è venduto in una scatola la cui particolarità non risiede tanto nella forma del cartone, quanto nell’esagerato ingigantimento della parola “panettone” , portata quasi al limite della superficie e disposta lungo i quattro lati, tanto che la si può leggere completamente solo girando intorno ad essa oppure accostando tra loro altre confezioni. Anche se le forme del lettering sono esagerate, tuttavia esprimono un gusto raffinato e di alto livello, che esaltano la storia e riportano la memoria dei dolci tradizionali italiani. Avvicinando quattro scatole di panettone, l’effetto finale sullo scaffale sarà quello di un mega logo, di oltre un metro di lunghezza. Per sintetizzare e concludere, nel packaging i punti di forza per una riuscita comunicazione, sono: sia la credibilità e l’autenticità - che servono a confermare la forte identità del marchio - ma anche la capacità di evocare ricordi e memorie attraverso le piccole grandi storie che esso è in grado di raccontare.

Olav Jünke, designer grafico esperto di comunicazione, e Francalma Nieddu, designer ed esperta di design strategico, dirigono ad Amburgo lo studio di immagine coordinata e packaging ondesign.


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Packaging stories Mr. Incredible and his cereals. Yalla yoghurt! Ritter the square. Evian in its box. These the extraordinary stories of packaging. Text and photos by Olav Jünke and Francalma Nieddu

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Gillo Dorfles, in his Introduction to Industrial Design, recognises that packaging has a value in design culture ”that has to do with graphics and advertising“. Today, as well as by its attributes, the presence of packaging in the world, is defined by the meaning it takes on, for the dialogue it engages with the user, for the symbolic charge it emits. It is an object of communication, of daily aesthetics and of the sphere of affections, it is an actor that gives voice to the value categories of the brand, acting through a blend of graphic, material, formal and structural contributions. The idea of packaging for preserving the product and making it transportable but aboveall attractive, recognisable and desirable is not of recent invention. Right from the times of mythical Eden man has learnt to recognise ripe and mature fruit from green or rotten fruit by its color. The green, yellow or brown banana does not need explanations nor a “best before date”. And the orange, even if it has an attractive color, scent and shape stands as the typical type of packaging that you can only open through trial and error, finding the solution by getting it wrong, like in many packaging items today. Munari, in his book Good Design (1964), presents the natural shape of fruit as an examples of how to tackle a good packaging project: protection of the content, color for distinguishing taste, defined portions and appealing shape. In the packaging of today, being attractive is certainly the most important aspect, considering that, at the moment of choice in front of the

supermarket shelf, what the packaging has to communicate unequivocally and instantaneously is the very peculiarity of the product it represents. Said in simple terms: when we are at the salespoint we have already forgotten most of the advertising, hence we make our decision on the spot. For 27% of consumers, packaging is the most important source of information, for 45% it is the most important criterion for repeating a purchase, and lastly, to decide whether to purchase 85% pick up the pack and hold it in their hands. But what are the ingredients of a successful packaging item? You only have travel around the European supermarkets to understand that much packaging is incredibly badly done, some is well done but boring, but there are also products that immediately draw our attention and arouse our interest, we desire them spontaneously and, if we are in the right mood, we buy them: in this case the process of A.I.D.A. Attention > Interest > Desire > Action (that is purchase) is activated and this is the classic formula of a successful marketing communication. Creating an effect of this kind, in a world where thousands of products compete for our attention, seems nothing short of miraculous. It is the work of a hero, or better, of a superhero, like Mr. Incredible who recently appeared on the Nestlé Cini Minis cereal in a Hamburg supermarket. In this case, the packaging recounts the story of the mythical film The Incredibles (produced by the Pixar and Disney animation studios) conferring the product a strong identity, making it memorable for entire generations of fathers and sons. This is a perfect form of narration that we hope will go on forever and we would readily welcome the sequel to the tale and the product associated with the same. The better the story is the more complete we want it. We buy all the parts. We see the film, we get attached to the heroes, we buy the cereals and so on. In the field of communication, an important trend


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would be that of sharing stories that do not necessarily arise from the brand itself, on the contrary the brands that go beyond their own territory, that not only stop at the information on their own product, but that go further presenting a warmth linked to emotions will be more successful.

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The chocolate Ritter Sport has become a classic example of powerful communication through packaging. The solution that has made it market leader is apparently simple: the traditional bar of chocolate, rectangular and thin, was changed into a thick square, thus giving the impression of something smaller, to be eaten in a flash and without any feelings of guilt. The same hundred grams of chocolate, but with the slogan Quadratisch, praktisch, gut (square, practical, good) and with packaging that can be easily opened with one hand only. Today Ritter Sport has developed further, evoking stories of a national basis: The Ritter called Amarettini has an Italian flavour; Maple Walnut conjures up the Canadian forests and Crème Caramel has a flavour of France. Here is the new technique of creating stories that can be shared by all. An intelligent way that enriches packaging with content and meaning, a way that makes the dream of a trip far away or a possible alternative life sellable and purchasable. Packaging has long been one of the family. In the case of Nutella there is no doubt about it, and thus its fortieth birthday becomes something to celebrate together. As a gift Nutella has allowed itself a promotional, larger-than-life “maxi packaging”. Without using appetite appeal (that is without having to evoke appetising aspects of the product), without a visual key to guide its interpretation, without the usual position of the logo. But the logo is there all the same and contains all the imagery of a much-loved brand; in fact, all the five versions of the label, made for the birthday series, link it to a real world and confirm it as part of a cultural dominion recognised by many that goes way beyond “milk and walnut

spread”. Here we are getting close to the use of Warhol’s Campbell Soup packaging. Only this time round the real product has ended up in the museum with its limited edition label produced by artists. In this case the museum is the Museum für Angewandte Kunst Frankfurt, or that is the Frankfurt Museum of Applied Arts. Tea packs could be considered low interest products: brands that are easily confused with each other that always use the same imagery and color. This way though the history of tea is not recounted. But Marks & Spencer takes another approach with its special private label tea pack. The pack design is simple but effective: the letters that go to make up the word tea, formally similar to those written on the wooden boxes that in the past came with the sailing ships from far-off, unknown countries, have been diecut so as to create a window through which we can see the filter teabags and recognize the flavours by the different colors. Our mind is stimulated with mental associations, in an instant we complete the story and make it our own. A truly great idea on a small box. To enjoy success in a market niche, at times the right thing is to do the complete opposite of what is normally done in that sector, like for example some yoghurt packs got hold of in Stockholm that seem to elude the typical “visual ingredients” of similar packaging. The image of this series of products is in fact that of a pleasant bottle that closely resembles a soft drinks pack. At a graphic level, the symbols that differentiate the various tastes appear rather abstract and apparently unconnected to the flavours contained, all the same they possess a strong emotional impact. The entire presentation of the brand, from the Yoggi logo to the name of the product Yalla! communicates joy and lightness. Thanks to the quality and the positiveness transmitted it makes the yoghurt its own best testimonial. As if to say: at times even a good dose of humour makes the communication on the pack effective.


photo by Erica Ghisalberti

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A brand can respond to different consumption habits with different types of packaging. For example, it can be in different sizes depending whether it is for the home or for travel; or it can use new materials capable of renewing its appearance. Thus the pack in metalised silver cardboard, made by Tetra Pak for Evian, is the successful development of an innovative mineral water packaging: an elegant pack also conceived for recycling, and for those that use it, it stands as a choice of adopting a really cool, trendy approach: consume water rather than American soft drinks. While in Italy the typical shape of the box of panettone is its most recognisable part and the strongpoint of an effective communication, it seems that in the UK, to sell the same product you only need the name. At Conran in London for example, the famous Italian Christmas cake is sold in a box whose particular feature does not lie so much in the shape of the box but rather in the exaggerated enlargement of the word “panettone�, that stretches to the edges of the surface and that runs along the four sides of the pack. Even if the form of the letterings are exaggerated, all the same they express a very refined taste, a throwback to traditional Italian confectionery. Putting four panettone boxes together, the final effect on the shelf is that of a mega logo over one metre long. To sum up and conclude, in packaging the strongpoints for a successful communication are: both the credibility and authenticity - that help confirm the strong identity of the brand - but also the capacity to evoke recollections and memories through the little but great stories they are capable of telling. 1/05 99

Olav JĂźnke, graphic designer and communication expert, and Francalma Nieddu, designer and strategic design expert, direct ondesign, a coordinated image and packaging design studio in Hamburg.


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Capire le Cose In un mondo di oggetti seducenti, avvolti dai segni, decisi a farsi contemplare, non basta essere dei bravi consumatori; per capire il senso delle cose occorre conoscerne il valore estetico e indagarne le strutture concettuali. Marco Senaldi

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diversi (dal design alla riflessione filosofica, dalle abitudini alimentari all’arte contemporanea, al packaging) e indagarne teoreticamente le dinamiche all’interno della società. Oggi si può fare filosofia con un film, compiere operazioni artistiche progettando packaging o realizzare design culturale andando a mangiare sushi. Quella che una volta si chiamava “cultura materiale” (suppellettili, oggetti d’uso quotidiano, merci, mobili, architetture, elementi

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Secondo Fulvio Carmagnola docente di Educazione Estetica e autore fra l’altro di un appassionante Merci di Culto (con M. Ferraresi) l’attuale sfida culturale consiste nel parlare dell’estetica di ciò che ci circonda non meno seriamente e acutamente di quanto si possa fare di fronte a un capolavoro artistico. Educarsi all’estetica, formarsi un gusto, oggi non significa più costruirsi un sapere aristocratico, ma piuttosto riuscire a mettere sullo stesso piano gli artefatti culturali più


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simbolici...) evidenzia sempre di più aspetti immateriali e concettuali e ovunque si presenta in forma decisamente pervasiva. Negli ultimi anni siamo giunti a un tale livello di feticismo dell’aspetto immateriale dei nostri artefatti, da rendere necessario un nuovo approccio complessivo alle nostre pratiche, da quelle quotidiane a quelle più specifiche e particolari. Il packaging sembra sempre essere, da questo punto di vista, un campo in cui convergono tutte queste tendenze. Il packaging degli oggetti sembra costituire ormai un pezzo della cultura visiva che ci circonda; ci seduce, ci guida nellʼacquisto, ci informa sul prodotto. Da semplice pelle buona per tutti gli usi, è diventato un abito a volte anche sofisticato... Con il packaging le cose sembrano funzionare al contrario che per i famosi “vestiti dell’Imperatore”. Nel caso dei vestiti dell’Imperatore c’è un corpo sottostante e un vestito inesistente, mentre il packaging è il vestito evidente di un corpo inesistente. Quello che era il vestito, l’apparenza, è diventato il corpo, la sostanza. La critica dell’economia politica oggi dovrebbe mostrare questa inversione. Marx era il bambino che diceva “guardate che c’è un’apparenza inesistente”, che copre il corpo vero e proprio, il capitale. Oggi noi dovremmo dire: “Guardate che c’è un’essenza inesistente” e quindi dobbiamo indagare l’apparenza con cui si copre. Il gioco tra apparenza ed essenza non funziona più in termini marxiani, perché non c’è più il valore d’uso, che è diventato completamente immaginario (anche se lo era già ai tempi di Marx).

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È vero che il packaging svolge molte funzioni immateriali, ma per espletarle

abbisogna di un supporto fondamentalmente materiale. In Merci di culto parlavi di una “forza impersonale” che sembra modellare la forma delle cose, che potremmo, in senso lato, chiamare design, seguendo la quale i creativi operano più o meno consciamente. Secondo te, a che titolo il packaging fa parte della cultura materiale che gli artisti e i designer condividono? C’è una definizione di packaging ristretta e una più allargata, come ce n’è una ristretta e una allargata di design - e le due si incrociano. La definizione ristretta di design risale più o meno al 1856, quando a Londra viene edificato il Cristal Palace, e si collega all’intento di abbellire i prodotti del mondo industriale, scisso tra la bellezza dell’arte e la bruttezza del prodotto di serie. La missione strategica del designer è quella di decorare la merce e può farlo in due modi: o in termini di carrozzeria o in termini strutturali. Nel primo caso si prende una meccanica indifferente e la si ricopre con un bell’involucro (per esempio la macchina da scrivere Lexicon 80). Nel secondo, si estremizza l’aspetto meccanico stesso, come nel funzionalismo, secondo cui l’oggetto industriale ha una sua etica interna e solo esasperandone l’elemento funzionale si può arrivare alla bellezza. Così non si aggiunge una forma a qualcosa, ma si estremizza l’elemento di bellezza funzionale della cosa. Questa definizione è ristretta perché è di tipo sovrastrutturale, cioè distingue, come fa Marx, un elemento strutturale da uno formale, un aspetto funzionale corporeo e una veste incorporea fornita dal design che deve ricoprire quel corpo stesso, o travestendolo con una carrozzeria o investendolo di un elemento etico. La definizione allargata dice invece che esiste un


“sistema design” che, nelle sue elaborazioni, contamina tutto il resto; la bellezza si è spostata dal luogo esemplare dell’arte (in cui è restata fino alle avanguardie storiche) a quello degli oggetti, perché tutti gli oggetti tendono a essere disegnati, sia nell’aspetto materiale sia in quello immateriale. Questa è “l’estetizzazione del mondo della vita”: è il mondo della vita che è diventato in se stesso estetico, cioè aderente, in modo largo e pervasivo, a un concetto di gusto. Il packaging è la pelle della pelle; è un parossismo della pelle; è la superficie della superficie. Un oggetto la cui superficie è disegnata ha un involucro che è a sua volta disegnato. Il design e il packaging tendono a confondersi perché la pelle e la pellicola si schiacciano l’una sull’altra e la pelle diventa il vestito del corpo inesistente, cioè diventa un veicolo dei processi di valorizzazione. Il brand è allora un’operazione sia di design sia di

packaging e questi tre termini si schiacciano l’uno sull’altro e divengono le articolazioni di una medesima circostanza generale che si può chiamare “estetizzazione del mondo della vita” o valorizzazione della merce e dei beni immaginari. Nel mondo delle merci di culto - dal sigaro alla griffe di moda, dalla lampada di design alla stilografica - il packaging continua a rivestire una funzione protettiva, comunicativa, affabulativa, ma è anche una parte importante del processo di “cultualizzazione”. Sospetto che parte del fascino di una catena di successo come Starbucks Coffee derivi dal packaging dei loro prodotti. Sì, il packaging riveste un’attivissima parte nell’elevare un dato prodotto a livello cult. Questo è molto chiaro, ad esempio, nella cultura giapponese. Il

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packaging giapponese è premoderno, basti pensare alla raffinata pratica dell’incartare. Gli incartamenti giapponesi spingono alla cultualizzazione perché la funzione cade, e al suo posto si pone una dimensione di feticizzazione che valorizza l’effimero, in una visione quasi drammatica della caducità della merce. Altri esempi sono le bottiglie di acqua Evian, o Tynant, che sono oggetto di collezione e non più di uso. I collezionisti, come diceva Benjamin, arrivano al limite di non voler usare il prodotto per poterlo conservare. Nel collezionismo la funzione è superata in una sorta di nuova “aura” della merce; ne consegue che se si fa una collezione, in genere, conservare il packaging è importante. Sono dʼaccordo con te; ormai dovremmo parlare di una metafisica del packaging. Ma questo aspetto “spirituale” delle merci non rischia di confondere le cose...? Quello che sta crescendo a dismisura è il valore d’uso immaginario. Prendiamo l’esempio di un classico paio di scarpe alla moda modello sneakers. L’intervallo tra valore di scambio commerciale (mettiamo centocinquanta euro) ed effettivo prezzo della merce rispetto al lavoro necessario per produrla (attorno ai cinque euro) è coperto dalla dimensione dell’immaginario che è data dal brand, la cultualizzazione, la comunicazione, il design, il packaging, ecc., cioè da tutte quelle componenti formali che danno origine alla differenza tra cinque, che è l’effettivo tempo di lavoro, e centocinquanta, che è la misura del desiderio sociale. Forse potremmo addirittura dire che il continente dei beni di consumo si sta articolando in diversi sottosistemi. In alcuni, per esempio il cibo, il valore d’uso ha ancora una certa importanza. Negli altri, il valore d’uso

si rivela come immaginario rispetto all’aspetto di culto. Ma forse, se si pensa all’aspetto rituale del consumo di McDonald o del sushi, si può dire che anche nel cibo il valore d’uso inizia a non funzionare più da solo. Si può arrivare al paradosso che si compra del cibo, ma non lo si mangia perché è troppo bello? Anche in Occidente la pratica della presentazione raffinata dei piatti (vedi il caso del risotto alla foglia d’oro di Gualtiero Marchesi) rischia di trasformare un valore d’uso in valore immaginario. La conclusione è che stiamo andando verso l’anoressia, perché più i beni di consumo diventano immaginari, e meno ci viene voglia di usarli; si arriva a una forma di feticismo normalizzato in cui il packaging assume una grande importanza.… … le opere dʼarte, che tradizionalmente richiedevano un atteggiamento contemplativo, oggi devono essere usate e consumate dagli spettatori; invece, quelle cose che tradizionalmente erano caratterizzate dal valore dʼuso, oggi rischiano di diventare oggetto di collezione e quindi di contemplazione. Il packaging stesso è contemplativo, perché non è più solo un involucro fisico, ma è un insieme di linguaggi o di circostanze sempre incompleto. In tal senso le merci, come i pezzi di una collezione interminabile, non generano più piacere, ma godimento. Il collezionista infatti è uno che non prova piacere, ma godimento, perché non troverà mai l’ultimo pezzo della collezione, a cui tuttavia anela. Mettiamo il caso che, secondo i canoni estetici che abbiamo definito, tutti i packaging fossero esteticamente validi, non arriveremmo allora a una situazione di feticismo ingovernabile, schizofrenico? L’utopia del packaging perfetto


creerebbe un mondo estremamente noioso, perché sarebbe privo di differenze. Alla produzione seriale frammentata bisogna opporre la bellezza come idea regolativa. Ma questa funziona solo se non si realizza mai, come per il godimento. Un bel packaging funziona solo come frazione differente in un mondo brutto. Noi ci soddisfiamo implicitamente nel paragone tra la bellezza di un oggetto e la bruttezza degli altri, così emerge l’idea di gusto.

Forse ciò che differenzia oggetto, cosa da cosa, merce da merce, è il modello estetico di riferimento, lʼarte elevata o la cultura di massa. La cultura è però come una forma di sensibilità generale che filtra dappertutto trasversalmente, senza distinguere più tra arte, pubblicità, cinema, packaging… ci sono delle icone, degli elementi formali s-definiti che transitano da una parte all’altra continuamente. Forse ogni estetica di riferimento si può usare in vari modi. Il pop si può usare in modo molto

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Non potremmo difenderci comprando solo il packaging, visto che in fondo la sostanza è sempre quella? Per quel che riguarda la “sostanza” soggiacente, anche le opposizioni del tipo apparenza/sostanza, vengono inglobate in una nuova apparenza. Prendiamo il caso di No-name, una brand creata da Carla Sozzani. Io credo di poter scegliere le merci belle (la sostanza) al di là della marca e di esercitare così la mia indipendenza di gusto, ma questa stessa operazione viene marchiata Noname... elegante, ma anche no. Lo si può usare tra virgolette o in modo letterale. Lo usi tra virgolette quando sei consapevole di esercitare un distacco, di non stare usandolo alla lettera, di stare mettendo tra te e l’oggetto una distanza riflessiva.

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Per concludere, sembrerebbe che riflessività e consapevolezza siano i veri elementi di un progetto (e di un prodotto) riuscito - ed anche la base di un gusto educato. Aggiungerei anche l’ironia; che da un lato è la virtù dei perdenti - come la chiamava Adorno - ma dall’altro è un gioco che allarga le maglie del potere, che pone tra sé e ciò che si sta facendo una distanza riflessiva che ci consente di pensare.

Fulvio Carmagnola insegna Educazione Estetica presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca; ha pubblicato fra l’altro Merci di culto (con M. Ferraresi), Castelvecchi 1999; Vezzi insulsi e frammenti di storia universale, Sossella Editore, 2001; La triste scienza, Meltemi, 2003; Sinopsi. Introduzione all’educazione estetica (con M. Senaldi), Guerini, 2005.

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...ossia una marca, un brand che negando se stesso si riafferma di nuovo! Esatto. Un altro esempio è Muji, una catena di negozi di cose per la casa con un bellissimo gusto minimal; non fanno franchising, trovi tutto disegnato senza firma, un-branded, ma la firma è diventata Muji stesso. Un altro caso ancora sono Droog Design, i designer olandesi di origine situazionista-neodadaista, che creano degli stravolgimenti e delle ricombinazioni, per cui l’aspetto sensoriale e quello concettuale dell’oggetto entrano in collisione; anche loro però sono diventati un vero e proprio marchio vendendo l’aspetto concettuale del packaging.


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Understanding Things In a world of seductive objects, wrapped in signs and making one think, it’s not enough to be a good consumer; to understand the sense of things one needs to know the aesthetic value and look into the conceptual structures.

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Marco Senaldi

According to Fulvio Carmagnola - professor of Aesthetic Education and author of the fascinating book Merci di Culto (co-author M. Ferraresi) among other publications - the current cultural challenge consists in talking about the aesthetics of what surrounds us no less seriously and critically than when one looks at a work of art. Today to learn about aesthetics and to form ones own tastes no longer means gaining an aristocratic knowledge, but rather to manage to place all manner of cultural artefacts on the same level (from design to philosophical reflections, from eating habits to contemporary art, and packaging) and to investigate the theory of the dynamics within society. Nowadays one can philosophise about films, be an artist when designing packaging or even create new cultural designs when eating sushi. What was once called “material culture” (ornaments, everyday objects, goods, furniture, architecture, symbolic elements...) now points more and more to the more immaterial and conceptual aspects and can be found everywhere in a strong pervasive form. In recent years we’ve reached such a level of fetishism for the immaterial aspects of our artefacts that a new general approach to our practices is needed, from daily habits to more specific, special ones. From this viewpoint, it would seem that packaging is always a field where these trends converge. The packaging of objects seems to be a part of the visual culture that surrounds us; it seduces us, it guides us in our purchases, it tells us about the product. From being a simple basic skin for all uses, it’s become a suit, and sometimes a very sophisticated one too... With packaging, things seem to be the contrary to the famous “Emperor’s new suit”. In the case of the Emperor’s suit, there was a body underneath and an non existent suit, while packaging is the all too evident suit for a non existent body. What was the suit, the

appearance, has become the body, the substance. Modern critics of political economy today should point out this reversal. Marx was the child who said “Look, there’s a non existent appearance”, covering the actual body, the capital. Today one should say: “Look, there’s a non existent essence” and so one should investigate the appearance covering it. This game of appearance and essence doesn’t work in Marxism terms, as there’s no longer the value of use, which has become completely that of image (even if it was already so in Marx’s day). Itʼs true that packaging carries out many immaterial functions, but to do so it needs a fundamentally material support. In Merci di Culto you speak about an “impersonal force” that seems to shape the form of things, that one could call design for want of a better word. Something that creative people adopt, whether theyʼre conscious of it or not. In your opinion, why can packaging claim to be part of the material culture shared by artists and designers alike? There’s a narrow definition of packaging and another broader one, just as there’s a narrow and a broader definition of design - and the two cross over. The narrow or strict definition of design dates back to roughly 1856, when the Crystal Palace was built in London, and is linked to the intention to embellish industrial products, the chasm between the beauty of art and the ugliness of mass production. The strategic mission of the designer is to decorate goods and he can do this in one of two ways: either in terms of the bodywork or in terms of the structure. In the first case, one takes a basic mechanical item and covers it with an attractive shell (e.g. the Lexicon 80 typewriter). In the second case, the mechanical aspect is made extreme, as happens in Functionalism, according to which the industrial object has its own internal aesthetics


warning! and it’s only by exaggerating the functional aspect that one can reach beauty. In other words, one doesn’t add a form to something, but the functional beauty of the thing is enhanced and made extreme. This definition is a strict one because it’s superstructural, i.e. it distinguishes a structural element from one of form, as Marx did, a functional body from an incorporeal suit thanks to the design required to cover the body or disguise it with a chassis or give it an ethical element. The broader definition, on the other hand, states that there is a “design system” that, in its various guises, contaminates all the rest; beauty has shifted from the exemplary standing of art (where it has always been until the recent past) to that of the objects, as all objects tend to be designed, both with regard to their material aspect and their immaterial one. This is the “aestheticising of the world of life”: the world of life has itself become aesthetic, i.e. it adheres to a concept of taste in a broad, pervasive manner. Packaging is the skin of the skin; it’s a paroxysm of the skin; it’s the surface of the surface. An object whose surface is already designed has a wrapping that is, in turn, designed. Design and packaging tend to get mixed up, as the skin and the film are crushed together and so the skin becomes the suit for a non existent body, i.e. it becomes a vehicle for the processes of product enhancement. The brand is thus an operation of both design and packaging, and these three terms are compressed and become the articulation of the same general circumstance that one could call “aestheticising the world of life” or enhancement of the goods and image goods.

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I agree. Perhaps now one should talk about the metaphysics of packaging. But doesnʼt this “spiritual” aspect of goods risk confusing the issue...? Something that’s growing exponentially is the value of use in terms of image. Let’s take the example of a classic pair of fashionable sneakers. The gap between the value of the commercial exchange (say one hundred and fifty Euros) and the effective price of the goods with respect to the cost of the labour needed to produce them (roughly five Euros) is covered by the dimension of the image thanks to the brand, the cultualisation, the communication, the design, the packaging, etc., i.e. all the formal components that give rise to the difference between the five (effective labour) and one hundred and fifty (the measure of social desire). Perhaps one could even say that the world of consumer goods is being divided into various subsystems. In some, for example food, the value of use is still of a certain importance. In others, the value of use is that of image with respect to the cult aspect. But perhaps, if one thinks of the ritual aspect of consumption at McDonald’s or in sushi bars, one could say that the trend is that the value of use, even of food, no longer works on its own. Is it possible that one day people will buy food, but not eat it because it’s too beautiful? In the Western world, too, the practice of presenting dishes that are, as it were, too beautiful to eat (see the case of Gualtiero Marchesi’s gold-leaf risotto) risks turning a value of use into a value of image. The conclusion is

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In the world of cult goods - from the cigar to designer fashion labels, from a designer lamp to the fountain pen - packaging continues to play a role of protection, communication and narration, but itʼs also an important part of the “cultualisation” process. I suspect that part of the fascination of a successful chain such as Starbucks Coffee derives from the packaging of their products. Yes, packaging plays an extremely active part in taking a given product to a cult level. This is quite obvious, for instance, in the Japanese culture. Japanese packaging is pre-modern: just think of

their refined practice of wrapping. Japanese wrapping strives for cultualisation, as the actual function declines in importance and in its place there is a dimension of fetishism that enhances the short-lived aspect in an almost dramatic vision of the transience of goods. Other examples are the bottles used for Evian water, or Tynant, which are now collectable items and no longer items for use. Collectors, as Benjamin said, reach the point where they don’t want to use the product in order to preserve it. With collecting, the function is surpassed by a sort of new “aura” of the goods; resulting in the situation where it’s important for collectors to keep the packaging in most cases.


warning! that we’re heading for anorexia, as the more consumer goods become image products, the less we are likely to want to use them; the result will be a form of standardised fetishism where the packaging assumes great importance.… … works of art, which have traditionally required a certain amount of contemplation, today should be used and consumed by the admirers; however, things that traditionally were characterised by a value of use now risk becoming collectables and thus for contemplation. Packaging itself is contemplative, because it’s not just a physical wrapping, but a combination of languages or circumstances that are always incomplete. In this sense, goods, like items in a never-ending collection, are no longer a cause for pleasure, but enjoyment. In fact, the collector is a type of person who doesn’t feel pleasure, but enjoyment, as he’ll never find the last item in the collection, though he longs for it.

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Letʼs imagine that, according to the aesthetic canons weʼve defined, all packaging is aesthetically valid: surely then weʼll reach a point of ungovernable, schizophrenic fetishism? The Utopia of the perfect packaging would create an extremely boring world, as there wouldn’t be any differences. Fragmented mass production needs to be offset by beauty as the governing idea. But this only works if it never happens, just like enjoyment. A good packaging solution only works well as a different fraction in an ugly world. We are implicitly satisfied by comparing the beauty of an object with the ugliness of others, and the idea of taste emerges from this. Couldnʼt we protect ourselves by buying just the packaging, given that the substance is always the same? As for the underlying “substance”, even opposites such as appearance/substance are engulfed in a new appearance. Just consider the case of No-name, a brand created by Carla Sozzani. It lets me believe that I can choose attractive goods (substance) without considering the brand and so practice my independence of taste, but this very operation is branded Noname...

...in other words a name, a brand that, by denying itself, reaffirms itself! Exactly. Another good example is Muji, a chain of stores selling household items with a wonderful minimal taste. There’s no franchising, everything is unbranded, but the signature has become Muji itself. Another case is that of Droog Design, the Dutch designers of a Situationist-Neo Dadaist origin, creating upsets and new combinations, where the sensorial and conceptual aspects of the object collide; however, they too have become a proper brand, selling the conceptual aspect of packaging. Perhaps what makes objects different, distinguishing one item from another, certain goods from others, is the aesthetic model used, whether this be high art or mass culture. Culture is, however, like a form of general sensitivity that filters throughout, without making any distinctions between art, advertising, cinema, packaging… these are icons, formal (un)defined elements that travel freely from one area to another all the time. Perhaps all aesthetic standards can be used in various ways. For example, Pop can be used elegantly, or not. You can use it between inverted commas and literally. You use it between inverted commas when you’re aware of detaching yourself, of not using it literally, of putting a reflective distance between yourself and the object. To conclude, it would seem that food for thought and awareness are the true elements of a successful design (and the product) - and also the basis for an educated taste. I’d add a pinch of irony, too. One the one hand, it’s the virtue of losers - as Adorno called it - while on the other it’s a game that opens the links of power, creating a chance for reflection between oneself and what one is doing, letting one think.

Fulvio Carmagnola teaches Aesthetic Education at Milan-Bicocca University; he has published several works including Merci di Culto (co-author M. Ferraresi), Castelvecchi 1999; Vezzi insulsi e frammenti di storia universale, Sossella Editore, 2001; La triste scienza, Meltemi, 2003; Sinopsi. Introduzione all’educazione estetica (co-author M. Senaldi), Guerini, 2005.



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A Scuola di Packaging

Istituto Europeo di Design Master in Packaging Design 2004

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L’Istituto Europeo di Design di Milano ha concluso felicemente il primo Master in Packaging Design e, a gennaio, ha inaugurato la seconda edizione del corso. Per quanto riguarda il primo anno accademico, gli studenti si sono cimentati in differenti progetti e sono stati coinvolti nello sviluppo di packaging di diversa natura: dall’imballaggio cosmetico svolto in stretta collaborazione con Lever Fabergè - al food packaging, sviluppato assieme a Formec Biffi; dal progetto di etichette e bottiglie per il vino con tanto di proposte brevettate e in corso di produzione - condotto assieme a Saint Gobain Vetri e all’Unione Produttori dell’Albeisa, fino allo studio delle tematiche ambientali e del riciclo realizzate insieme a Boxmarche e al Comieco. E proprio su quest’ultimo lavoro che i giovani designer, sotto la guida esperta

dell’architetto e designer Paolo Deganello, si sono lasciati maggiormente coinvolgere proponendo una rivisitazione, spesso estrema, del “bag in box”, la scatola in cartone, da tre o cinque litri, contente una busta di vino. Ecocompatibilità, ridefinizione dell’oggetto e del suo valore aggiunto e persino un po’di provocazione, sono stati gli ingredienti che hanno caratterizzato questi nuovi “dispensatori di vino”. Partendo dalla considerazione che questa tipologia di imballaggio è mal vista e poco accettata sulle tradizionali tavole italiane, gli studenti hanno voluto individuare altre possibilità “esistenziali” per un siffatto oggetto. A parte due studentesse, che si sono soffermate su modi alternativi di consumo del vino, gli altri studenti hanno analizzato le possibilità espressive di un tale oggetto sul desco domestico.

Giulia Drumbl ha ridotto le dimensioni dell’imballo e del contenuto (un litro circa di vino) e, con poche ma precise modifiche formali, ha trasformato leggermente la scatola rendendola più dinamica, ergonomica, invitante, ammiccante. Nello stesso tempo, tramite la grafica, ha fatto in modo che avesse una buona visibilità e commerciabilità sullo scaffale e sul punto vendita. Karina Rojas, dopo aver considerato la difficoltà di spillare il vino da un erogatore posto alla base della confezione, ha lavorato sulla possibilità di attingere il vino dall’alto, come da una normale bottiglia; ha quindi proposto un ingegnoso quanto semplice sistema per cui, tirando una particolare maniglia a cremagliera, la sacca interna si comprime costringendo il liquido a salire e a uscire da un bocchettone in alto. Interventi molto poetici e più estremi sono


stati quelli del giapponese Yuji Oda - che ha trasformato il tradizionale parallelepipedo in un morbido e curvilineo abito di cartone ottenuto da un foglio bidimensionale opportunamente fustellato, piegato e incollato; l’involucro è diventato quindi, nella sua totalità, una sorta di brocca con tanto di manico per versare più agevolmente il vino, oltre che per contenere, proteggere e irrigidire la sacca plastica - e quello di Luca Aragona che, partendo dall’idea di un blister, dopo diversi passaggi creativi, ha costruito un pack evocativo e dall’apparenza bizzarra. Invece di nascondere la sacca plastica contenente il vino, Luca le ha infatti dato una grande presenza visiva ed estetica facendola letteralmente fuoriuscire dall’involucro di cartone tramite appositi buchi e tagli. Così oltre all’impatto grafico e scenografico, la sacca si evidenzia anche ai fini di facilitare una successiva separazione e smaltimento. Il “bag in box” di Yesenia Rivera Abbiati è una scatola a sorpresa, un origami che si dispiega al momento dell’uso. A partire dalla forma convenzionale del parallelepipedo, tramite

particolari pieghe, tagli, fessure, la scatola si apre come un fiore e offre un accesso facilitato alla sacca del vino, divenendo una sorta di centrotavola, un oggetto di design giocoso e decorativo. Infine le proposte di Antigone Acconci e di Laura Rautaheimo. La prima ha preferito utilizzare i “bag in box” come elementi giocosi per costruire un totem estemporaneo da far accrescere impilando litri e litri di vino durante feste e raduni, mentre Laura, spingendosi ancora oltre, ha reinterpretato il vino come bibita più che bevanda da pasto, e ne ha proposto un consumo alternativo in bar e locali. Quindi, il suo “bag in box” è diventato non più un contenitore da tre o cinque litri, bensì un bicchiere semisferico, usa e getta, dal forte richiamo grafico e formale. Una confezione che ricorda molto da vicino il pack degli yogurt e dei dessert, come a voler proporre un nuovo modo, più soft, giovane e informale, di percepire questa bevanda. Tutti i progetti, oltre ad essere innovativi per il concept e il design, sono stati concepiti per avere un basso impatto ambientale, per indurre al riciclaggio o per facilitare lo smaltimento.

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Per informazioni Further info Master in Packaging Design. Istituto Europeo di Design Milano. www.ied.it tel. 02/5796951 fax 02/55012613. Contatti: Valérie Allen v.allen@milano.ied.it


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Packaging School

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Istituto Europeo di Design Master in Packaging Design 2004 The Istituto Europeo di Design in Milan has successfully completed its first Master in Packaging Design course and inaugurated the second edition of this course in January. The first academic year saw the students getting to grips with various projects and becoming involved in the development of different types of packaging: from cosmetics packaging - in close collaboration with Lever Fabergè - to food packaging, developed with Formec Biffi; from the design of labels and bottles for the wine sector, resulting in several patents, now in production - in conjunction with Saint Gobain Vetri and the Union of Albeisa Producers - to studies of environmental and recycling themes together with Boxmarche and Comieco. The young designers were especially absorbed by the latter, under the expert guidance of the architect and designer Paolo Deganello, proposing some often extreme redesigns of the “bag in box”: a box containing a 3 or 5 litre bag of wine. Eco-compatibility, redefinition of the object and its added value and even a bit of provocation are the ingredients characterising these new “wine dispensers”. Starting from the consideration that this type of packaging is not seen with favour and not really acceptable on the traditional Italian table, the students set out to discover other “existential” possibilities for such an object. Apart from two students, who dwelt on the alternatives for wine consumption, all the students analysed the expressive potential of such an object on the dinner table. Giulia Drumbl reduced the size of the pack and its contents (to roughly a litre of wine) and, using a few precise changes to the shape, converted the box slightly to make it more dynamic, ergonomic, inviting and attractive. At the same time, she used the graphics to ensure excellent visibility and

sales on the shelf and at the point of sale. Karina Rojas, having considered the difficulty of tapping the wine with a dispenser tap at the bottom of the box, looked at the possibility of drawing the wine from the top, just like an ordinary bottle; she went on to propose an ingenious yet simple system whereby the bag inside the box is compressed, forcing the liquid to rise and exit through a mouth at the top thanks to a clever rack handle device. Yuji Oda of Japan proposed a particularly poetic, highly extreme solution by converting the conventional parallelepiped into a soft, curvy carton cover obtained from a two-dimensional sheet that’s been suitably die cut, folded and glued; the overall wrapping thus becomes a sort of jug with even a handle for easier pouring of the wine, as well as containing, protecting and stiffening the plastic bag inside. Equally poetic and extreme was the design by Luca Aragona who, starting from the idea of a blister pack and developing this in several creative stages, built an evocative and apparently bizarre pack. Instead of hiding the plastic bag containing the wine, Luca gave it great visibility and aesthetic value by making it literally escape from the carton packaging through special holes and cuts. Thus, as well as the graphic and visual impact, the bag is also clearly identified for separation and disposal after use. The “bag in box” by Yesenia Rivera Abbiati is a box of surprises, a product of origami that unfolds upon use. Starting with the conventional parallelepiped, the box opens like a flower thanks to special folds, cuts and slots, offering easy access to the wine bag: the result is a sort of table decoration, a fun and decorative object of design. Finally, the designs proposed by Antigone Acconci and Laura Rautaheimo. Antigone preferred to use a series of “bag in box” packs as fun building blocks to create an impromptu totem, stacking one litre of wine on top of another during parties and meetings, while Laura went even further and reinterpreted wine as a beverage rather than something drunk during a meal, proposing alternative consumption in bars and clubs. Her “bag in box” was not, therefore, a container holding three or five litres, but a semicircular disposable glass with a definite shape and graphics. A pack that, close up, is very reminiscent of yoghurt and dessert packs, as though wanting to launch a new, softer, young and more casual way to perceive this drink. As well as being innovative in concept and design, all the projects were conceived to have a low environmental impact, to encourage people to recycle them and to make their disposal easier.


photo by Francalma Nieddu


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Libri come Film e Film come Libri Il packaging della “Special Extended Dvd Edition” della trilogia de Il Signore degli Anelli. Gabriele Illarietti

Finalmente è arrivata. La tanto attesa “Special Extended Dvd Edition” dell’ultimo capitolo della saga de Il Signore degli Anelli - Il ritorno del Re, è ormai sul mercato e da qualche mese fa bella mostra di sé nelle vetrine delle videoteche, sfoggiando una particolare confezione blu. Come già delle altre due parti del capolavoro di Peter Jackson, anche dell’ultima è stata realizzata un’“Extended Edition”, ricca di molti minuti aggiunti (in questo caso quasi 40), di un dettagliato Makingof, di una presentazione della Nuova Zelanda come “Terra di Mezzo” ideale, ma soprattutto

caratterizzata da un cofanetto dalle fattezze di antico tomo in pelle, con tanto di margini rinforzati in oro cesellato e rilegatura fatta a mano; ovviamente, il tutto merito di un bel lavoro di grafica e di packaging design. Questa confezione, insieme alle altre due “Extended Edition” de La compagnia

Books like Films and Films like Books The packaging of the “Special Extended Dvd Edition” of the trilogy The Lord of the Rings.

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Gabriele Illarietti

Here at last. The much longed for “Special Extended Dvd Edition” of the last chapter of the saga of The Lord of the Rings, The Return of the King, is now on the market and in the showcases of video shops in its special blue packaging. As with the other two instalments of Peter Jackson’s masterpiece, even for this latest one an “Extended Edition” has been created, enriched with many minutes of additional footage (in this case almost 40 minutes worth), a

dell’anello e de Le due torri, completa così, anche fisicamente, la famosa trilogia. Una meraviglia per gli appassionati del genere fantasy, che non solo possono godere della bella opera di Jackson in versione completa, ma che, soprattutto, possono avere tra le mani una serie di oggetti che sembrano usciti

detailed “the-making-of”, a presentation of New Zealand as the ideal “Middle-Earth”, but aboveall featuring a case appearing like the old leather hand bound tomes, its edges reinforced with chiselled gold; obviously all this is the merit of a fine graphic and packaging design work. This pack, along with the other two “Extended Editions” of The Fellowship of the Ring and The two Towers, thus also physically completes the famous trilogy. A marvel for fantasy film buffs, not only able to enjoy Jackson’s marvellous creation in the complete version, but aboveall able to lay their hands on a series of objects that seem to have come straight from the creative verve of J.R.R. Tolkien. A highly interesting packaging operation, because the search for the best suited commercial form for packaging the product makes the very characteristic features of the product itself with that of the world it represents stand out. The Lord of the Rings is a


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direttamente dall’inventiva di J.R.R. Tolkien. Questa operazione di packaging è assai interessante, perché, nel momento in cui cerca la forma commerciale più adeguata per la confezione di un prodotto, fa emergere gli aspetti caratteristici del prodotto stesso e del mondo che il prodotto rappresenta. Il Signore degli Anelli è una trilogia di genere fantasy, e quindi, quale migliore confezione di una che simuli tre antichi tomi dalla grafica e dal lettering anticati ad arte e con le copertine nei colori più tradizionali, verde, rosso e blu?. Ma c’è di più. I veri esperti della “Terra di Mezzo” non potranno fare a meno di godere di una simile confezione, perché ricrea, almeno visivamente, il gioco di rimandi che già l’opera di Tolkien cela. Nel libro, infatti,

tutta la vicenda e le appendici dell’autore portano a identificare il testo stesso con la storia narrata dal protagonista, Frodo Baggins, nel suo famoso diario, il Libro Rosso, che già fu del compianto Bilbo Baggins, e alla compilazione del quale, si dice, egli si dedicò negli ultimi anni della sua permanenza nella “Terra di Mezzo” prima di salpare dai Rifugi Oscuri con l’ultima nave. Ed ecco che così, ancora una volta, è necessario, per contenere tutta questa storia di libri, un contenitore in forma di libro, anche se questa volta frutto solo di un progetto grafico e di design. I packaging designer sono stati, in questo caso, certamente molto abili a catturare l’attenzione di tutti gli appassionati del genere, ma sono stati in grado di

Gabriele Illarietti si occupa di teoria critica; ha tradotto, insieme a Marco Senaldi, L’epidemia dell’immaginario di Slavoj Zizek, Meltemi, 2004.

only the result of a graphic design project. Here the packaging designers have certainly been very skilful in capturing the attention of all the fans of the genre, but they have also been capable of conquering all those who were not transfixed by cinema transposition of Tolkien’s world (like the author of these notes). The packs for this trilogy are successful examples of packaging inasmuch as the “substance” with which they are covered, over and beyond its physical appearance, evokes the same “imaginary substance” which its contents are made of. It is in these instances that the strength of a good project shines forth, that overcoming its simple communicative functions, manages to conjure up entire worlds, visually expressing fragments of the imaginary.

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Gabriele Illarietti is a critical theorist; along with Marco Senaldi he translated L’epidemia dell’immaginario by Slavoj Zizek, Meltemi, 2004.

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trilogy in the fantasy genre, and hence what better packaging than the simulation of three ancient tomes with deliberately antiquated lettering and graphics, with the covers in the highly traditional colors of green, red and blue? But there is more to it. The true experts of the “Middle-Earth” will indeed enjoy the pack, because it recreates, at least visually, the play on references that underlies Tolkien’s work. In the book in fact the entire story and the author’s appendixes lead to identifying the work itself with the story narrated by the protagonist, Frodo Baggins, in his famous diary, The Red Book, that previously belonged to the late lamented Bilbo Baggins, and who it is said dedicated the last years of his stay in the Middle-Earth to the writing of the same before setting sail from the Grey Havens on the last ship. And hence once more, a book-form container has been devised to contain this story of books, even if this time

conquistare anche quanti non sono riusciti a farsi coinvolgere e travolgere dalla trasposizione cinematografica del mondo di Tolkien (come l’autore di queste note). I cofanetti di questa trilogia sono esempi riusciti di packaging in quanto la “pelle” di cui sono ricoperti, al di là dell’aspetto fisico, evoca quella stessa “pelle immaginaria” di cui è fatto il loro contenuto. E’ in casi come questo che si vede tutta la forza di un buon progetto, che superando la semplice funzione comunicativa riesce a evocare mondi interi, esprimendo visivamente frammenti di immaginario.


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Lʼopera dʼarte tra lʼIpermercato e Piazza Affari Due mostre esplorano le nuove forme d’arte e i loro legami nascosti con l’economia e le merci contemporanee.

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Marco Senaldi

Nell’opinione comune il mondo delle merci e quello dell’arte appaiono nettamente distinti. Chi concepisce opere destinate ad essere contemplate disinteressatamente, non può, si pensa, essere distratto da preoccupazioni mercantili. Viceversa, chi ha l’onere della produzione e della vendita di un certo prodotto, non può certo permettersi di “perdere tempo” dietro ai sogni e alle pretese dell’arte. Forse però questo ragionamento nasconde più di quanto la sua ferma posizione non lasci trasparire. Ciò che infatti dà per scontato è appunto il fatto che stiamo parlando di due cose ben diverse e agevolmente distinguibili. Ma è ancora così? Prendiamo ad esempio una importante variabile mercantile come il prezzo. Come è noto esso rappresenta il valore monetario delle cose misurato in base a quanto i compratori sono disposti a offrire per averle, ed è quindi determinato dalla domanda e dall’offerta. Tuttavia, anche se solo ci guardiamo in giro, vediamo come praticamente qualunque prodotto all’interno del mercato iperconsumista che ci circonda detiene un prezzo che a volte pare

veramente stabilito “ad arte”. Perché, ad esempio, il prezzo della maggior parte dei prodotti di consumo non è mai tondo, ma è sempre del genere 9,99? Come è possibile che un passaggio aereo verso una capitale europea possa valere pochi euro o addirittura pochi centesimi? O, più seriamente, come è possibile che l’entrata in vigore della moneta unica, che sulla carta doveva rappresentare un notevole passo in avanti verso una benefica integrazione economica europea, si sia rivelata un formidabile fiasco, generando una imprevista contrazione dei consumi e una anarchia radicale dei prezzi? E’ evidente che la variabileprezzo non risponde più solo ai rigidi criteri stabiliti dal classico “mercato”. C’è qualcosa nell’economia che va oltre l’economia stessa. E di questo gli economisti più avanzati si sono accorti per tempo, tentando di descrivere il fenomeno in modi diversi: alcuni hanno parlato di capitalismo culturale, altri di economia dell’attenzione, altri di capitalismo di finzione, altri ancora di feeling economy; tutti neologismi che tendono a rimettere in discussione i fondamenti stessi della disciplina introducendo

parametri provenienti da altri campi. Dal canto suo anche l’arte si è accorta del fenomeno, e la prova sono due esposizioni recenti che trattano temi simili. La prima, Ipermercati dell’arte. Il consumo ironizzato, il consumo rappresentato, il consumo contestato (presso il Centro Arte Contemporanea Palazzo delle Papesse, Siena, ottobre 2004-gennaio 2005) era maggiormente focalizzata sull’argomento del consumo, e quindi le opere in mostra richiamavano esplicitamente in forma di critica o di imitazione - l’universo variegato delle merci. Numerosi gli esempi tratti dalla storia dell’arte recente: dall’immancabile zuppa Campbells’ di Warhol, alle compressioni di lattine di César, agli oggetti di consumo impacchettati da Christo. Dagli anni Novanta in poi si nota però da parte degli artisti una maggior confidenza con i meccanismi del marketing e i sottosistemi correlati del packaging, del graphic design, delle strategie del punto vendita: ne sono testimonianza i lavori di Antonio De Pascale, che fa il verso alla comunicazione ipermercantile del 3x2, o il duo


0100101110101101.org Nike Ground Fake Nike Infobox September 2003 Installation in Karlsplatz, Vienna Courtesy Fabio Paris Art Gallery

Bertozzi & Casoni, che rifanno in ceramica le celebri scatole di pagliette per piatti Brillo (già rese famose da Warhol), o gli uomini impacchettati e bell’e pronti di Dario Ghibaudo. Spicca per intelligenza e originalità il lavoro di Lucia Koch, che costruisce una specie di spazio espositivo con tanto di finestra che, a ben guardare, non è altro che l’interno, enormemente ingrandito, di una scatola di spaghetti. La seconda mostra invece, Interessi Zero! Strategie artistiche per un’economia in crisi (Galleria Civica di Trento, da marzo a maggio 2005) ragiona più in generale sulle interferenze fra arte e sistema economico. A volte queste interferenze hanno un impatto fortemente critico, come nel caso, ad esempio, di Minerva Cuevas, un’artista venezuelana diventata famosa per alcuni suoi lavori visivi in cui sovverte il logo di una famosa multinazionale agroalimentare americana, la Del Monte, spesso accusata di


Above: Minerva Cuevas, Del Monte Campaign, 2003 Under: Superflex, Guaranà Power, 2004

malversazioni e di discriminazioni nei paesi dell’America Latina, oppure trasforma il noto logo dell’acqua minerale Evian in un politico “egalité”. In realtà il suo lavoro è più complesso perché non si ferma all’aspetto visivo delle merci, ma si prolunga in un sito (irational.org) in cui è possibile per esempio falsificare codici a barre per realizzare una “spesa” a costo zero, ecc. dimostrando implicitamente che il packaging ha fra l’altro un valore ideologico ben preciso. Una simile negazione virale sta al centro del lavoro del collettivo Superflex che


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tende a realizzare dei prodotti in proprio, con tanto di etichetta, packaging, ecc., ribaltando la posizione subordinata del consumatore e tentando la strada dell’autarchia utopista. Apparentemente più camaleontico il lavoro del giapponese Takashi Murakami che arriva addirittura a prestare la propria opera creativa a una multinazionale del lusso come Luis Vuitton, realizzando per questa brand borsette inedite; oppure l’operazione del gruppo 0100101110101101.org che ha avuto molto successo con la proposta provocatoria di

creare una piazza intitolata alla brand Nike, paradossalmente assai credibile in un mondo attanagliato da sponsorizzazioni forzate e spesso insensate. Tuttavia, a osservare bene, in entrambi i casi abbiamo a che fare, più che con un’adesione acritica, con una parodia che risulta tanto più distorcente quanto meno lo sembra. Ritornando ai rapporti fra arte e mercato, possiamo dunque concludere dicendo che, anziché insistere sulle differenze che separano i due ambiti, è assai più proficuo

osservare come ciascuna sfera, considerata singolarmente, contiene al proprio interno degli elementi che la differenziano da se stessa (i criteri posteconomici del mercato, gli elementi mercantili dell’arte...). Il merito specifico dell’arte e degli artisti contemporanei in questo caso risiede non tanto nell’abilità di trarsi d’impaccio confezionando risposte esteticamente rassicuranti, ma certamente inutili - quanto nella capacità di articolare in simboli memorabili le domande che tutte queste contraddizioni fanno sorgere.


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The Work of Art between the Hypermarket and the Stock Exchange Two exhibitions explore the new forms of art and their hidden links with the economy and contemporary merchandising.

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Marco Senaldi

In common opinion the world of merchandise and that of art appear clearly distinct from each other. Those that conceive works for disinterested contemplation, cannot, one thinks, be distracted by commercial questions. Viceversa, those that have the honour of producing and selling a given product, certainly cannot afford to “waste time” following artistic dreams and pretensions. Perhaps though this apparent clarity of reasoning conceals more than it reveals. What in fact is here taken for granted is the fact that we are speaking of two things that are clearly different and easily distinguishable. But is this still the case? Let’s for example take an important commercial variable such as price. As is known price represents the monetary value of things measured on the basis of how much the buyers are prepared to offer in order to have them, and it is hence decided by supply and demand. All the same, we only have to look around us to see how practically any product within the hyperconsumistic market that surrounds us has a price that at times really seems to have been deliberately set. Why for examples is the price of

most of consumer products never round, but always say like 9.99? How is it possible that a plane trip to a European capital can be worth only a few Euros or even a few cents? Or more seriously, how is it possible that the coming into force of the single European currency, that on paper should have represented a considerable step forward towards a beneficial European economic integration, has ended up by being a formidable fiasco, generating a sudden contraction of consumption and a radical anarchy of prices? It is true that the price variable no longer only responds to the rigid criteria established by the classic “market”. There is something in the economy that goes beyond the selfsame economy. And the top economists already noticed this some time back, and have tried to describe the phenomenon in different ways: some have spoken of “cultural capitalism”, others of the “economy of attention”, others of “fake capitalism”, others again of the “feeling economy”; all neologisms that tend to question the very fundamentals of the discipline introducing parameters from other fields. For its part art too has noticed the phenomenon, and the proof is two recent shows that tackle similar subjects. The first, Ipermercati dell’arte. Il consumo ironizzato, il consumo rappresentato, il consumo contestato (at the Centro Arte Contemporanea Palazzo delle Papesse, Siena, October 2004-January 2005) focussed more on the subject of consumption, and hence the works on show explicitly conjured up - in a critical or imitative form - the varied universe of merchandise. Numerous the examples drawn from recent art history: from the ever-present Campbell’s Soup by Andy Warhol, to César’s compressed tin cans, to


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the consumer objects wrapped up by Christo. From the nineties onwards though one notes a greater confidence with the mechanisms of marketing and the subsystems correlated to packaging, to graphic design, to the salespoint strategies: this is borne witness to by the works of Antonio De Pascale, that ape the hypermarket 3x2 communication, or the Bertozzi & Casoni duo, who have remade the famous Brillo steel wool tins (already made famous by Warhol) in ceramics, or the ready-packed men by Dario Ghibaudo. Striking the intelligence and the originality of the work of Lucia Koch, who built a kind of exhibition space with window that, taking a closer look, is nothing other than the enormously enlarged insides of a spaghetti pack.

Going back to the relations between art and market, we can hence conclude by saying that, rather than insist on the differences that separate the two areas, it is a lot more advantageous to observe how each sphere, considered singly, contains within it elements which make it differ from itself (the post-economical criteria of the market, the mercantile elements of art…). The specific merit of contemporary art and artists in this case resides not so much in the ability to resolve things by finding answers that are aesthetically reassuring yet certainly useless but more in the capacity of turning all the questions that arise from these contradictions into memorable symbols.

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The second show, Zero Interest! Artistic Strategies for a economy under crisis (Galleria Civica di Trento, from March to May 2005) reasons more generally as to the interference between art and the economic system. At times this interference has a strongly critical impact, as in the case for example of Minerva Cuevas, a Venezuelan artist who has become famous for some of her visual works in which she subverts the logo of a famous American agrofood concern Del Monte, often accused of misappropriation and discrimination in the countries of Latin America, or who changes the well-known logo of Evian mineral water into a political “egalité”. In actual fact her work is a lot more complex because she does not stop at the visual aspect of the goods, but extends it to a site (irational.org) where it is for example possible to forge barcodes in order to do free shopping, etc. - demonstrating implicitly that

packaging among other things has a very precise ideological value. A similar viral negation stands at the basis of the the Superflex collective that creates its own products, complete with label, packaging etc, upturning the subordinate position of the consumer and attempting the way to an utopian economic self-sufficiency. More chameleon-like the work of the Japanese Takashi Murakami who has got to the point of making his creative work available to the luxury multinational Luis Vuitton, creating original bags for this brands; or the operation of 0100101110101101.org that was very successful with the provocative proposal for creating a piazza named after the Nike brand, paradoxically quite credible in a world gripped by compulsory and often absurd sponsorships. All the same, taking a good look, in both cases, more than an uncritical act of participation we are dealing with a parody that is all the more distorting the less it appears so.

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I Packaging Editoriali

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Il convegno Grafic Europe Berlin 2004, lo scorso ottobre, è stato l’occasione per incontrare Omar Vulpinari, direttore del Dipartimento di Comunicazione Visiva di Fabrica, il centro di Ricerca sulla Comunicazione del gruppo Benetton. Nello spazio dedicato ai prodotti editoriali, Vulpinari ha presentato il libro “2398gr.”, un testo comprendente anche un CD rom interattivo - che raccoglie espressioni creative relative al tema del cibo. Un libro particolare anche perché imballato in una vaschetta di alluminio per alimenti, e, nella versione deluxe, addirittura in una pirofila di ceramica realmente utilizzabile

per la cottura. Un altro interessante progetto editoriale descritto da Vulpinari è Mail Me. Si tratta dello sviluppo ampio e articolato di un vero e proprio contenitore di messaggi: dalla ricerca svolta per un’azienda spagnola produttrice di cassette postali, sono stati approfonditi nuovi concetti sul tema della “posta”. Giovani designer e artisti, non solo di Fabrica ma provenienti da tutto il mondo, hanno elaborato immagini, schizzi e idee e hanno dato vita al progetto Mail Me realizzando circa 200 cartoline realmente utilizzabili oltre a un libro vero e proprio che le riproduce tutte. Per completare il progetto, il libro-catalogo (edito da Electa)

comprensivo delle cartoline è stato imballato in una scatola pronta per essere spedita tramite posta. Vulpinari ha proseguito la sua esposizione parlando di come oggi i libri assumano sempre più una connotazione di oggetto, quando non addirittura di libri d’arte, e di come sempre più spesso possiedano una versione di lusso che utilizza materiali sempre più alternativi. Come esempio ha citato il libro Fabrica 10: From Order to Chaos and Back (la pubblicazione che documenta i primi dieci anni di attività di Fabrica ), che tuttavia, per quanto il progetto iniziale avesse previsto un libro con dieci copertine diverse, alla fine è stato realizzato mettendole sovrapposte tutte insieme per non creare troppi problemi di stoccaggio, di distribuzione e di assortimento in libreria ma soprattutto per non gonfiare esageratamente il prezzo al pubblico. Purtroppo, alla fine, il libro costa comunque tanto, ma questo perché ha 800 pagine stampate a 5 colori con 2500 immagini, è realizzato con una copertina telata, è fornito di DVD e ha una tiratura di sole 4000 copie. “Come il valore oggettuale del libro è sempre più importante, così è anche lo studio del packaging, e di conseguenza sale il prezzo al pubblico” ha aggiunto Vulpinari, “Mi piacerebbe che i prodotti editoriali fossero più economici


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di Fabrica

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ha una sua personalità inconfondibile, ma non può essere messo negli scaffali accanto agli altri e diventa un problema per chi vende e chi acquista. I librai sono scontentissimi perché questi libri sono così particolari che si rovinano subito, sono più costosi ed hanno bisogno di maggiore cura e protezione. Ma sopratutto hanno difficoltà ad esporli e dopo sono sempre costretti a buttarne qualche copia!” Allora forse, abbiamo azzardato noi, questo genere di libri necessiterebbe di un secondo packaging per proteggere il packaging primario? Vulpinari ha risposto ridendo: “Forse, perché il packaging è davvero importante per libri come questi, che sono qualcosa in più di un semplice contenuto testuale, che fanno comunicazione con il loro essere oggetto, con il contenitore stesso”.

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possibile. Penso soprattutto ai giovani, agli studenti, che dovrebbero essere i primi a poter accedere a prodotti editoriali e che spesso si vedono costretti a rinunciare all’acquisto proprio perché il libro è fatto, per esempio, con una copertina di acciaio ondulata, come il libro Spoon (edizioni Phaidon). D’altronde, l’arricchimento della forma, del packaging, oggi è un plus importante per vendere, fa sì che il libro abbia una migliore esposizione, un più forte potere attrattivo, una comunicazione più efficace. Ricordo un libro spagnolo con una sovraccoperta da cui sporgevano numerose ventose in modo da poterlo attaccare al muro, alla porta del frigo, al soffitto; ma un prodotto così difficilmente può essere impilato o posto su uno scaffale con gli altri libri. Per poterlo fare devi assolutamente togliere la sovraccoperta. Resta un unicum che


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Packaging for Publishing by Fabrica The Grafic Europe Berlin 2004 convention, held last October, was the occasion for meeting Omar Vulpinari, head of the Department of Visual Communication of Fabrica, the centre for communication research of the Benetton group. In the space dedicated to publishing products, Vulpinari presented the book “2398gr.” A work – also including an interactive CD rom – with a collection of creative expressions as regards food. A special book also because it comes packed in an aluminium food tray, and, in the deluxe version, in a ceramic baking dish that can be actually used for baking. Another interesting editorial project described by Vulpinari is Mail Me. This is a broad and complex development of a true and proper message container: by the study carried out for a Spanish concern that produces letterboxes, new concepts have been drawn out on the subject of “post”. Young designers and artist, not only from Fabrica but from all over the world, have devised images, sketches and ideas and have given life to the project Mail Me, creating around 200 postcards that can really be used as well as a true and proper book that reproduces all of them. To complete the project, a bookcatalogue (published by Electa) including postcards has been packed in a box ready to be sent by post. Vulpinari carried on speaking of how today books are evermore taking on the connotations of objects, if not as art books, and

how evermore often they possess a luxury version that use evermore alternative material. He cited the book Fabrica 10: From Order to Chaos and Back (the publication that documents the first ten years of the activity of Fabrica), that all the same, even while the initial project laid down one book with ten different covers, at the end it was made overlapping them, putting them all together so as to not create problems of storage, distribution and assortment in the bookshops but aboveall so as not to bloat the price to the public too much. Unfortunately, in the end, the book costs a lot anyway but this because it has 800 printed pages in 5 colors with 2500 images, it comes with a fabric cover, has a DVD with it and was only printed in 4000 copies. “Thus the object value of a book has become evermore important, the same also goes for the design of the packaging, and consequently the price to the public rises” Vulpinari adds, “I wish that publishing products were possibly more economical. I often think of the young, of students, that ought to be the first to be able to have access to publishing products and that

often can’t afford to buy because for example the book is made with a corrugated steel cover, like the Spoon book (edizioni Phaidon). Though all the same, the enriching of the shape, of the packaging, today is an important plus for selling, it means the book gets a better exposure, giving it a stronger appeal, a more effective communication. I remember a Spanish book with a dustcover with numerous suckers on it so as to be able to attach it to the wall, to the fridge door, to the ceiling; but a product like that could hardly be stacked or placed on a shelf with other books. To do that you would have to remove the dust cover. It remains an unicum that has its own unmistakeable personality, but it can’t be put on the shelf with other books and hence becomes a problem for those who sell and those who buy it. Booksellers are extremely unhappy because this type of book are so particular they get ruined straight away, they cost more and need greater care and protection. But aboveall they find it difficult to display them and after that they are always compelled to throw away the odd copy!”. Hence perhaps, we dared say, this type of book needs a second packaging to protect its primary one? Vulpinari’s reply was: “Perhaps indeed packaging is truly important for books like these, that are something more than a simple container of text, they communicate by their being object, by way of the container itself”.


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Progetto grafico Aiap (Associazione italiana progettazione per la comunicazione visiva)

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direttivo dell’Aiap; nelle sue parole, la grafica deve avere la capacità “di costruire un ponte tra i contenuti e le forme, e per farlo deve conoscere non solo i linguaggi espressivi più adeguati ma possedere una capacità di indagine e di controllo del significato dei messaggi”. In questo senso sulla rivista viene data rilevanza anche a temi e figure che esulano dall’argomento strettamente graphic design,

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La rivista è nata con lo scopo di diffondere la cultura e l’informazione del design grafico, per far crescere la qualità complessiva di un settore i cui confini sono costantemente usurpati e misconosciuti. L’intento è

quello di far scaturire un’accezione precisa di “professionalità” che accresca la consapevolezza intorno alla figura del graphic designer, sia da parte di quanti sono membri di questa categoria, sia da parte di chi si deve avvalere di determinate competenze. L’idea di grafica che la rivista vuole perseguire viene ben definita da Mario Piazza, redattore di Progetto grafico e presidente del consiglio


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ma che in qualche modo ne costituiscono il contesto, come per esempio, Otto Neurath, filosofo neo-positivista inventore del sistema Isotype, o i libri dell’avanguardia russa e sovietica, piuttosto che Laurence Sterne e il suo testo Vita e opinioni di Tristram Shandy pubblicato a Londra tra il 1760 e il 1767 e illustrato da William Hogart; in questo modo il pubblico a cui la rivista si rivolge è ben più ampio degli “addetti ai lavori” strettamente intesi, pur conservando una precisa impronta professionale e tematica. This magazine has been created with the purpose of spreading information on graphic design and a graphic design culture, this to enable the overall enhancement of a sector whose confines are being constantly usurped and disregarded. The intention is that of being able to formulate a precise definition of “professional” that enables a clearer delineation of the figure of graphic designer, both for those who are members of this category, and those that employ the skills of the same. The idea of graphics that the magazine wishes to pursue is well defined by Mario Piazza, editor of Progetto grafico and president of the board of directors of Aiap; in his words, graphics should have the capacity to “build a bridge between form and content, and to do the same not only does it have to be acquainted with the best suited expressive languages but it should also

possess a capacity to delve into and control the meaning of the messages”. Along these lines in the magazine importance is also given to subjects and figures that fall outside graphic design, but that in some way constitute part of context of the same, like for example Otto Neurath, neopositivist philosopher and inventor of the Isotype system, of the books of the Russian and Soviet avante garde, and Laurence Sterne and his work Life and opinions of Tristam Shandy published in London between 1760 and 1767 and illustrated by William Hogarth; in this way the public to which the magazine turns is a lot broader than those operating in the field in the strictest sense, while still all the same preserving a professional and thematic imprint. Package Design in Italy: Phase One RED sas, 2005

Finalmente il mercato editoriale italiano e internazionale vede l’uscita di un libro che raccoglie nelle sue pagine i migliori lavori di packaging ad opera dei creativi italiani quali Brunazzi & Associati, Carré Noir, No.parking, Dinamo Project, Morpheus, RBA Design. Il libro propone con disinvoltura uno straordinario ed inconfondibile stile “Made in Italy” tanto per i lavori contenuti, quanto per il design stesso del volume. Prefazione a cura di Giovanni Brunazzi,

docente di Design Industriale all’Università di Parma e di packaging al Politecnico di Torino. The Italian and international publishing market can finally witness the publishing of a book that within its pages collects together the best packaging work made by Italian designers such as Brunazzi & Associati, Carré Noir, No.parking, Dinamo Project, Morpheus, RBA Design. The book blithely proposes an extraordinary and unmistakeable Italian style in both the works contained and in the design of the selfsame volume. Preface by Giovanni Brunazzi, Industrial Design professor at the University of Parma and professor of packaging at the Turin Polytechnic. Package & Wrapping Graphics. From boxes, bottles, wrapping paper and accessories to display PIE books, Japan, 2004 Il volume comprende un’ampia rassegna di packaging di prodotti provenienti da ogni parte del mondo soprattutto da Asia, America ed Europa. Si tratta di imballaggi realizzati in materiali unici, speciali per la grafica, i colori e l’impatto comunicativo. Una selezione composta non solo da scatole e bottiglie ma anche da nastri, etichette, oggetti promozionali, accessori, regalistica, il tutto per far capire come il


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packaging sia anche e soprattutto supporto per il brand e l’immagine. La raccolta è suddivisa in tre sezioni principali: food (in particolare: cibo, dolci, tea, bevande alcoliche e soft drink), beauty (cosmetici, linee trattamento, profumi), living (oggettistica, abbigliamento, prodotti medicinali, altro). The volume includes a broad array of packaging of products from all parts of the world, aboveall from Asia, America and Europe. These are packaging items made in unique materials, special in their graphics, their colors and their communicative impact. A selection not only made up of boxes and bottles but also of tapes, labels, promo gadgets, accessories, gift items, all to enable one to understand how packaging is also and aboveall support for brand and image. The collection is divided up into three main sections: food (including: foodstuffs, confectionery, tea, alcoholic beverages and soft drinks), beauty (cosmetics, lines of treatment, perfumes), living (objects, clothing, medicinal products, other items).

Portogallo 1990/2004 Triennale di Milano, 2004

Questo è il catalogo dell’esposizione tenutasi quest’anno presso la Triennale di Milano in occasione della visita di stato del presidente del Portogallo in Italia. Si tratta di un’interessante lettura e sintesi dell’architettura e del design portoghesi dal 1990 al 2004, che sottolinea come queste

This is the catalogue of the show held this year at the Milan Triennale in occasion of the state visit of the President of Portugal to Italy. It is an interesting reading and synthesis of Portuguese design and architecture from 1990 to 2004, that underlines how these two disciplines now move on a single footing and how this blending process has been underway for some time now in Portugal. Changing States. Contemporary Art and Ideas in an Era of Globalisation inIVA (Institute of International Visual Arts), 2004 Questa antologia, che raccoglie il lavoro di più di 100 artisti e scrittori che hanno collaborato negli ultimi dieci anni con l’inIVA, descrive il mutevole paesaggio dell’arte contemporanea e della cultura nel complesso contesto dell’economia globale e delle politiche locali, fornendo un compendio di opere pionieristiche, di dibattiti e di idee riguardanti le recenti trasformazioni sociali, economiche e politiche. This anthology, that gathers together the work of more than 100 artists and writers who have worked in the last ten

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La descrizione dei concept e gli elementi di immagine coordinata, l’interior design, la

The description of concepts and elements of coordinated image, interior design, graphics, packaging at the basis of the creation of some of the most particular cafés, bars, patisseries and fast foods around the world. From interior design to menus, from kitchenware to calling cards, from the shopping bag to the personalised packs, all that could interest not only graphic and other designers but also anyone who is directly involved in running “sacred” places dedicated to food.

due discipline si muovano ormai su di un solo terreno e come già da tempo in Portogallo sia in atto un tale processo di commistione.

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Food Shop Graphics. Interiors and graphic applications of food and drink related retailers. PIE books, Japan, 2004

grafica, il packaging alla base della realizzazione di alcuni tra i più particolari ristoranti, caffè, bar, pasticcerie e fast food del mondo. Dall’allestimento dello spazio ai menù, dalle stoviglie ai biglietti da visita, dalle shopping bag alle confezioni personalizzate, tutto quanto possa interessare non solo grafici e designer ma anche chiunque sia direttamente coinvolto nella gestione di luoghi “sacri” dedicati al cibo.


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years with inIVA, describes the changing landscape of contemporary art and culture in the complex context of the world economy and local politics, providing a compendium of pioneer works, of debates and ideas on the recent social, economic and political changes. La cultura dei media Vilém Flusser, Bruno Mondadori, 2004

Un compendio interessante delle teorie dell’importante studioso della comunicazione e della cultura dell’immagine, che dà la possibilità di spaziare da un’interpretazione generale della società ad un’analisi del peso sempre più strutturalmente rilevante delle immagini e delle nuove tecnologie comunicative. An interesting compendium of the theories of the important scholars of communication and the image culture that enables one to range from a general interpretation of society to the analysis of the structurally ever greater weight of the image and of new communication technology.

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Città morte Mike Davis, Feltrinelli, 2004

In questo testo Mike Davis, il famoso teorico dell’urbanesimo radicale descrive lo stato di

angoscia post 11 Settembre che ha colpito paradossalmente l’utopia borghese di un ambiente urbano totalmente organizzato e sicuro, mostrando che questa insicurezza è invece costitutiva dell’approccio occidentale al territorio. In this work Mike Davis, the famous theoretician of radical urbanism describes the post 9/11 state of insecurity that has paradoxically struck the middle class utopia of an urban environment that is totally organized and safe, showing that this lack of security is in fact constituted by the western approach to the environment. Pianeta McTerra Vicente Verdù, Sperling & Kupfer, 2004

Con un approccio giornalistico, ma ricco di informazioni, il testo mette in luce come l’economia finzionale di oggi non si preoccupi più di prodotti materiali, ma si concentri sulla creazione di un’immagine del mondo. Quell’immagine che poi si espande dallo spazio dell’industria dello spettacolo ad ogni aspetto della vita quotidiana. With a journalist style approach, but rich in information, this work highlights how the fictional economy of today no longer worries about material products, but it concentrates on the creation of

an image of the world. The image that then expands from the space of showbusiness industry to every aspect of our daily life. Dalì. La retrospettiva del centenario Palazzo Grassi, Bompiani, 2004 Intendendo offrire un profilo esauriente di Salvador Dalì come uno dei grandi protagonisti dell’arte del Novecento, attraverso le opere più significative provenienti dai principali musei e collezioni del mondo, questa mostra si è avvalsa anche di un catalogo ricchissimo, lussuoso nelle immagini e dotato di apparati interessantissimi, che comprendono un’antologia degli scritti del grande artista e una bibliografia completa di scritti, volumi illustrati, cataloghi, film e produzioni teatrali, radiofoniche e televisive. Wishing to offer an exhaustive profile of Salvador Dali as one of the great protagonists of the art of the twentieth century, through the most important works from the main museums and collections around the world, this show was also accompanied by a very rich, sumptuous catalogue in terms of its images and with a highly interesting appendages, that include an anthology of the great artist and a bibliography full of writings, illustrated volumes, catalogues, films and theatre, TV and radio productions.


Impackt 2

9-02-2005

10:50

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COSMOPROF I N T E R N AT I O N A L P E R F U M E RY AND COSMETICS SHOWS

the next appointments in the world are:

LAS VEGAS 2 4 - 2 6 J U LY 2005

U.S.A.

BOLOGNA 1-4 APRIL 2005

S Ã O PA U L O 9-12 SEPTEMBER 2005

Italy

Brazil

HONG KONG 9-11 NOVEMBER 2005

MOSCOW 2 2 - 2 5 F E B R U A RY 2006

China

Russia

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S.P.A.

VIA FILARGO, 38 - 20143 MILAN (ITALY) - TEL. +39.02.796.420 - FAX +39.02.795.036/891.288.42 WEB: WWW.COSMOPROF.COM - E-MAIL: SOGECOS@COSMOPROF.IT



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