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Plike
4 colori versione Mono e Bipatinata 4 grammature e buste coordinate Gruppo Cordenons SpA www.gruppocordenons.com
Stampato su Plike White 330 g/m2
“Mr Plike� Design: Daniele Papuli
Edizioni Dativo Srl, via Benigno Crespi 30/2, 20159 Milano tel.+39 0269007733, fax +39 0269007664, www.dativo.it
Il Packaging del Pulito
user instructions
Sonia Pedrazzini, Marco Senaldi
La storia dei consumi moderni non è dissociabile da quella dei prodotti per la pulizia. Quest’ultima, perciò, si è andata costituendo come uno dei miti fondativi della società consumista. E’ alla religione della pulizia che sono stati dedicati gli sforzi di intere generazioni di pubblicitari, di produttori, di industrie ecc. - ma senza dubbio essa non avrebbe raggiunto lo statuto rispettabile che possiede, se non fosse stata resa visibile e tangibile - se, da semplice quanto astratto concetto igienico, non si fosse incarnata in prodotti, detersivi, polveri, liquidi, creme, gel, che ne hanno reso palpabile la metafora e persino lo spirito. E questi stessi prodotti non sarebbero stati niente, a loro volta, se non si fossero presentati nelle nostre case forniti dei segni indispensabili al loro riconoscimento, se si fossero manifestati alla folla dei miscredenti senza le stigmate dell’autenticità fornite dai loro contenitori, flaconi e fustini. L’imballaggio dei detersivi ha svolto, quindi, l’indiscutibile funzione di segno e di certificazione del mito. E se il packaging in generale ha giocato un ruolo importante nel modellare l’immaginario sociale, in particolare il packaging dei prodotti di pulizia è stato l’avanguardia di questo fenomeno, e, insieme, il suo banco di prova più efficace.
Questo numero di Impackt è dedicato al “packaging del pulito” per ripercorrerne la storia, il senso e i significati attraverso le analisi di studiosi della pubblicità come Vanni Codeluppi, di packaging designer come Giulio Vinaccia, o di rappresentanti del mondo delle grandi aziende di settore come Henkel. Non si può infine tralasciare il fatto che le confezioni dei detersivi hanno costituito un’iconografia contemporanea il cui riflesso è evidente in opere d’arte come quelle di Haim Steinbach, nelle fotografie di Roy Arden, e nei calembour visivi della giovane artista italiana Chiara.
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Il Solista The Soloist photo by Tamar Matza
user instructions
Clean Packaging Sonia Pedrazzini, Marco Senaldi
This issue of Impackt is dedicated to “clean packaging� to follow its history, its sense and meaning through the analysis of advertising experts like Vanni Codeluppi, packaging designers such as Giulio Vinaccia, or representatives from the world of the large companies in the sector such as Henkel. Finally, one cannot neglect the fact that the detergent packs have built up a contemporary iconography reflected in works of art like those of Haim Steinbach, the photos of Roy Arden, the visual calembours of the young Italian artist Chiara.
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The history of modern consumption cannot be separated from that of cleaning products. The latter thus has become one of the founding myths of the consumer society. Entire generations of advertisers, producers, concerns etc have dedicated their efforts to the religion of cleaning and cleanliness - but without a doubt they would not have attained the respectable status they have reached, if the subject had not been made visible and tangible - if from a simple and abstract concept hygiene had not been incarnated into products, detergents, powders, liquids, creams, gels that have made the metaphor and even the spirit palpable. And in turn these products wouldn’t have been anything, had they not been presented in our homes accompanied by indispensable signs allowing them to be recognized, if they had been shown to the crowd of unbelievers without the stigmata of authenticity given by their containers, flacons and tins. The packaging of detergents hence has performed the unquestionable function of sign and certification of the myth. And if packaging in general has played an important role in modelling social images, in particular the packaging of cleaning products has been in the forefront of this phenomenon and, alongside this, its most effective test bed.
Il pubblico The Audience photo by Tamar Matza
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GUIDA TURISTICA ATTRAVERSO I PANORAMI REALI E MENTALI DEL PACKAGING TOURIST GUIDE TO THE REAL AND SPIRITUAL LANDSCAPES OF PACKAGING
I N
Q U E S T O
N U M E
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tools Un Fustino in Testa Marco Senaldi
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container Bianco Ellenico 100 Xenofon Ritsopoulos, Rosa Serpico
design box Soap Opera Virginio Briatore
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identi-kit Chiara, Dolce Lavare Fabiola Naldi
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identi-kit Origami per mangiare 108
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tools Cetrioli e Politica 110 Maria Gallo
identi-kit Packaging Integral(e) Sonia Pedrazzini
market release Selina by Corpack 113
R O - 2 / 0 3 shopping bag Henkel: Un Marchio per Amico Sonia Pedrazzini
school box Esepac 116 Un Master in Packaging Design 116 44 Dialogo fra Due Scuole 118 Maria Gallo
design box L’Igloo del Buon Risveglio
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tools Roy Arden. Note sulle Foto Wal Mart
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warning! La Guerra del Pulito Marco Senaldi
60
psychopackaging La Mamma dell’Assassino Antonio Piotti
68
identi-kit Haim Steinbach Marco Senaldi
78
86
Le nostre copertine Front cover Supremely Black, 1985 Haim Steinbach Back cover Chiara Dolce Lavare 04, 1999 Ringraziamenti Nicola Delli Veneri Maurizio Finotto Massimo Minini Sergio Nessi I Partner di questo numero Gruppo Cordenons - II cop. Cartografica Pusterla - pag. 10 Gibo - pag. 23 IED - pag. 43 Gruppo Scandolara - pag. 115 Ipack Ima - III cop.
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design box Il Metodo Migliore
portfolio Tamar Matza 121
P U L I T O
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tools A Prova di Pubblicità Vanni Codeluppi
D E L
container Saluti dal Paese della Riesenwaschkraft Olav Jünke, Francalma Nieddu
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P A C K A G I N G
user instructions Il Packaging del Pulito Sonia Pedrazzini, Marco Senaldi
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C L E A N
P A C K A G I N G
user instructions Clean Packaging Sonia Pedrazzini, Marco Senaldi container Greetings from the Land of Riesenwaschkraft Olav JĂźnke, Francalma Nieddu design box Soap Opera Virginio Briatore identi-kit Chiara Sweet Washing Fabiola Naldi
4
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container Hellenic Whiteness 106 Xenofon Ritsopoulos, Rosa Serpico identi-kit Origami to Eat 109
31
tools Gherkins and Politics 112 Maria Gallo market release Selina by Corpack 114
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shopping bag Henkel: a Brand like a Friend Sonia Pedrazzini
50
tools Roy Arden
98
26
identi-kit Integral Packaging Sonia Pedrazzini
design box Good Morning Igloo
tools A Tub on my Head Marco Senaldi
school box Esepac 116 A Master in Packaging Design 116 Dialogue between two Schools 120 Maria Gallo 53 portfolio Tamar Matza 121 58 bookbox 127
warning! The War on Dirt Marco Senaldi
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psychopackaging The Killers’ Mum Antonio Piotti
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identi-kit Haim Steinbach Marco Senaldi
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design box The Best Method tools Testing Publicity Vanni Codeluppi
86
93
Our covers Front cover Supremely Black, 1985 Haim Steinbach Back cover Chiara Dolce Lavare 04, 1999 Thanks to Nicola Delli Veneri Maurizio Finotto Massimo Minini Sergio Nessi The Partners of this issue Gruppo Cordenons - II cop. Cartografica Pusterla - pag. 10 Gibo - pag. 23 IED - pag. 43 Gruppo Scandolara - pag. 115 Ipack Ima - III cop.
Direzione editoriale
Hanno collaborato
Redazione
Segreteria Ufficio tecnico
Progetto grafico
Impaginazione
Numero
Periodicità: Abbonamento per 3 numeri:
Redazione, Direzione, Amministrazione, Diffusione e Pubblicità
Product manager Sonia Pedrazzini, Marco Senaldi (info.impackt@libero.it)
Condirettore Luciana Guidotti
Ricerca immagini e fotografia Erica Ghisalberti
Virginio Briatore, Vanni Codeluppi, Maria Gallo, Olav Jünke, Fabiola Naldi, Francalma Nieddu, Antonio Piotti, Xenofon Ritsopoulos, Rosa Serpico
Daniela Binario, Elena Piccinelli, Ado Sattanino Leila Cobianchi Massimo Conti
Erica Ghisalberti, Vincenzo De Rosa
Vincenzo De Rosa (Studio Grafico Page - Novate - MI)
Traduzioni Dominic Ronayne, Katy Moore, Alan Tankard
Lastre e stampa Àncora S.r.l. - via B. Crespi 30, 20159, Milano
2/2003 - anno 2 Registrazione del Tribunale di Milano n. 14 del 14/01/2002. Iscrizione nel Registro degli Operatori Comunicazione n. 4028
Spedizione in a.p.- 45%- art. 2 comma 20/b legge 662/96 Filiale di Milano 1 copia Euro 11 - Arretrati Euro 22
semestrale Italia Euro 25 - Estero Euro 50
La riproduzione totale o parziale degli articoli e delle illustrazioni pubblicati su questa rivista è permessa previa autorizzazione della Direzione. La Direzione non assume responsabilità per le opinioni espresse dagli autori dei testi redazionali e pubblicitari
Edizioni Dativo Srl Via B. Crespi, 30/2 - 20159 Milano Tel. 02/69007733 - Fax 02/69007664 impackt@dativo.it http://www.dativo.it Armando Lavorini (sales@dativo.it)
La copertina di Impackt è stampata su carta Stardream Diamond 285 g Gruppo Cordenons
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Stefano Lavorini
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Il nostro non è un
semplice lavoro di macchine, piuttosto si sostanzia nell’abilità di interpretare le esigenze degli utilizzatori. Su questo fondamento si è costruita la Cartografica Pusterla che con il passare degli anni è cresciuta fino all’acquisizione della francese Coffrets Creation.
S O L O A S T U C C I E S C AT O L E R I V E S T I T E Rafforza così la propria posizione nel comparto delle confezioni di lusso: cristalli e porcellane, vini e liquori, profumi e cosmetici. Tutto questo significa rapidità di risposta, creatività, flessibilità, adattabilità della produzione, per un’offerta di qualità che spazia dagli astucci di cartoncino
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Saluti dal Paese della
Riesenwaschkraft Tutti sanno che il paese della libertà e dell’avventura è la mitica Marlboro Country, in America. Per la Germania l’invito si modifica così: “Komm in’s Land der Riesenwaschkraft! Venite nel paese del Gigante Superlavante!” testo e foto Olav Jünke e Francalma Nieddu
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Questo almeno nella pubblicità di uno dei marchi di detersivi più conosciuti, il Weisser Riese (il Gigante Bianco). Ma la lingua tedesca è piena di riferimenti alle pulizie casalinghe. Cerchiamo di “mantenere il gilet bianco” (come coscienza pulita, di solito usata in forma di negazione). Non “laviamo i panni sporchi in pubblico” (non discutiamo di problemi privati davanti alla gente) ed evitiamo gli “affari sporchi”, che hanno una connotazione criminale. Ci troviamo in un paese in cui la pulizia è un valore culturale fino a diventare fobia nazionale dello sporco. Paesaggio tedesco con detersivi In prima fila Persil, Sunil, Omo, Ariel, e poi Spee, Dash, Tandil. Senza dubbio l’ “eroe” nazionale dei panni puliti si chiama Persil. Questo marchio è un vero leader da tutti i punti di vista. Oltre al particolare
aspetto cromatico ben riconoscibile, rosso, verde e bianco, vediamo una continuità nelle innovazioni di prodotto e del packaging in cui è sempre il primo - poi seguito naturalmente da tutti gli altri. La pubblicità televisiva in Germania offre un’immagine della famiglia perfetta, che gira in Mercedes e lava con Persil: “Da weiss man, was man hat” (“E sai cosa ottieni”). Lo slogan ripetuto tante volte diventa un modo di dire comune. Sotto l’aspetto grafico, quasi tutti i detersivi tentano di darci l’impressione di un prodotto molto tecnico, invece di semplice polvere di sapone bianca, e si danno le arie da piccole lavatrici pronte a fare tutto da sole. Negli ultimi 10 anni si può osservare una vera rivoluzione nel packaging dei detersivi originata dalla miniaturizzazione del prodotto grazie all’aumento della sua Waschkraft
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(forza lavante), parola inventata dal marketing e divenuta poi parte del lessico tedesco. Spariscono le tradizionali confezioni, grandi quanto mobiletti e che avevano una seconda vita come contenitori di giocattoli. La grande sfida, adesso, è diventata la capacità di condensare tutti i messaggi promozionali del prodotto sul suo packaging. Quest’ultimo deve risultare convincente e rappresentare un prodotto ugualmente efficace, anzi più efficace, di quello contenuto nella confezioni precedenti, tre volte più grandi - ciò che si tenta di mantenere il più grande possibile è ancora il logo del marchio. Per la prima volta, invece, si vedono detersivi che quasi non hanno l’inevitabile bianco significativo di purezza e pulito. Considerato che, da un marchio all’altro, la forma del packaging è più che intercambiabile, sono il logo e il lettering, l’aspetto principale rappresentativo della brand. Così, le forme angolari delle lettere esprimono competenza tecnica, il corsivo contornato e le gradazioni di colore danno identità dinamica e forte impatto visivo, a costo, spesso, della leggibilità e quindi della simpatia verso quel prodotto. Prodotti e personaggi Nel settore degli imballaggi, si sa, non si realizza una nuova forma che non sia anche realistica a livello economico. Però esistono esempi di grande successo di mercato dovuti principalmente ad una forma particolare del prodotto. WC-Ente [il nostro Anitra WC, Ndr] è uno di
questi. I suoi acquirenti si sono subito convinti che questa forma di bottiglia - a collo d’anatra, appunto - aiutava a pulire meglio il water. Ecco un caso di utilizzo della tecnica della personificazione, tramite cui il personaggio dell’anatra - una sorta di piccolo amico più che qualcosa di tecnico e impersonale - crea un immediato e profondo rapporto tra cliente e prodotto. Ma fin dall’inizio, la pubblicità per detersivi in Germania nasce con un personaggio, quello della “Donna Bianca” di Persil. La possibile identificazione con una donna, moglie e madre perfetta, quasi da favola, crea subito una motivazione forte nella scelta del marchio. In seguito, negli anni settanta Ariel introduce negli spot televisivi la figura di Klementine: una domestica con il grembiule di un bianco così ineccepibile da mettere in imbarazzo persino la padrona di casa e assolutamente autoritaria in merito al giusto metodo di lavaggio dei panni: Denn Ariel wäscht nicht nur sauber sondern rein! (Perché Ariel non li fa solo puliti, ma puri!). Klementine fa venir fuori la “coscienza sporca” delle casalinghe tedesche che non riescono ad ottenere una tale purezza. Un approccio molto tipico per il target tedesco di questi tempi. Ancora oggi ben il 95 % dei tedeschi ritiene che Ariel abbia come unico significato “detersivo”. Tornando al Weisser Riese (il Gigante Bianco), purtroppo, e forse anche per sbaglio, il personaggio del gigante gentile è sparito dal packaging. E’ rimasto il nome, ma si è persa l’idea
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di un genio della lampada che con la sua potenza in pochi attimi riesce a fare il bucato. Nei vecchi spot, una corda con i panni stesi di lunghezza infinita rappresentava la proverbiale Riesenwaschkraft (letteralmente “forza di lavaggio da gigante”) e il Gigante Bianco la sottolineava con la sua figura e con il suo slogan. Anche l’unione delle due Germanie porta con sé un nuovo personaggio nel reparto dei detersivi. Henkel, già nota per vari tipi di detergenti oltre che per il famosissimo Persil, introduce sul nuovo mercato nazionale, rinnovandolo, il detersivo per bucato Spee [il nostro General, Ndr] prima conosciuto solo nell’Est della Germania. Il nuovo detergente viene rafforzato, visivamente e concettualmente, con una volpe in stile cartone animato, a significare per il consumatore una scelta intelligente, economica e con i vantaggi di un prodotto di marchio Henkel. Un altro piccolo animale, la rana, porta al successo i prodotti della Erdal. Con una mossa apparentemente semplice, ma di grande efficacia simbolica, nasce un prodotto “verde” senza che vi sia nessun riferimento diretto all’argomento inquinamento e senza bisogno di pubblicizzare il prodotto dal punto di vista ecologico. L’icona della rana era già stata usata da Erdal per i suoi lucidi da scarpe: con i nuovi detergenti cambia solo il colore e Frosch diventa simbolo e nome della nuova linea di prodotti. Come funziona tutto ciò, qual è il segreto alchemico del marketing o
meglio del sistema-prodotto che sfrutta la tecnica della personificazione? Innanzitutto occorre facilitare l’identificazione da parte del fruitore: “questo prodotto fa per me”. Caratteristiche come la proverbiale furbizia della volpe o la sintonia con l’ambiente della rana vengono collegate al prodotto e diventano parti integranti dell’identità del marchio, fatti indubitabili. Si nota bene la grande differenza rispetto alle argomentazioni semplicemente scritte sul packaging o raffigurate nelle pubblicità. Inoltre, l’approccio emozionale delle persone al simpatico sorriso del Gigante Bianco o ancora di più ad un animale piccolo e indifeso (“l’effetto cucciolo”), è facile e veloce. Se prodotto, simbolo e messaggio raccontano la stessa storia, sarà di sicuro un successo. Oltre le frontiere Ma i detersivi sono un affare nazionale? In un certo senso pare proprio di sì. Fallimenti e successi di prodotti esportati da un paese all’altro o di prodotti multinazionali, la dicono lunga in proposito. Un fallimento quasi famoso nel settore dei detergenti è stato Der General (il Generale). Da un punto di vista tutto americano (paese d’origine del prodotto) sembrava logico lanciare sul mercato tedesco un prodotto con un’identità militare. Anche nella pubblicità televisiva, con musica militare vecchio stile nella colonna sonora, appariva un generale e lo
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spot culminava nel momento in cui sulle spalle della perfetta casalinga venivano attaccate le mostrine con i gradi da generale! Sono i momenti in cui non è troppo piacevole essere tedesco... Non sorprende che Der General sia sparito subito dal mercato per tornare, però, vestito da Meister Proper (Mastro Lindo, in Italia) che ha pur sempre l’aria autoritaria ma nella dose giusta per il target a cui è indirizzato. Alcuni prodotti, via via che vengono inseriti nel mercato, semplicemente perdono il significato iniziale del nome. Il detersivo dal bel nome Sunlight (luce di sole) diventava Sunlicht in un primo tempo, che significa luce con qualcosa di sconosciuto davanti; infine si trasformava in Sunil, termine totalmente privo di significato. La grafica del suo packaging continua ad integrare un elemento giallo come simbolo astratto del sole, eliminato nell’ultimo rilancio. Il passo verso il nome “Sun-il” si spiega come voluta somiglianza con “Pers-il”. Dash, è una forte espressione con valenza onomatopeica per persone di madrelingua inglese: pare proprio di sentire come un forte colpo sull’acqua. In altre lingue non fa lo stesso effetto, neanche in tedesco. Questo non ne frena il successo anche su mercati esteri, ma il marchio ha perso di valore emozionale. Perwoll o Perwool o Perlana ha trovato una soluzione trans-nazionale che funziona in molte lingue, in tedesco, come in inglese ed italiano senza perdere il messaggio centrale.
La magia dei detergenti Più che in altri casi, il packaging dei detergenti rappresenta il prodotto in un modo talmente forte che il cliente lo identifica con il prodotto stesso. Qui si può proprio dire “packaging uguale prodotto”. Anche se nel gergo del marketing i detersivi vengono definiti prodotti low interest, il consumatore si aspetta molto da loro - non solo i risultati promessi nelle infinite soap opera delle pubblicità televisive, come perfetta pulizia, ordine in casa, fino alla completa felicità della famiglia. In realtà, quello che si desidera, il vecchio sogno tipicamente tedesco, è quello in cui le pulizie di casa si fanno magicamente da sole - come nella favola tradizionale Die Heinzelmännchen von Köln (I folletti di Colonia) dove piccoli nani (gli Heinzelmännchen appunto) di nascosto fanno sparire sporco e disordine. In fondo è questo il magico aiuto che speriamo di ottenere con l’acquisto di un detergente o un detersivo: il fantasma buono che esce da confezioni e bottiglie e che fa tutti quei lavori che ci spezzano la schiena!
Olav Jünke, designer grafico esperto di comunicazione, è titolare dello studio ondesign di Amburgo che si occupa di immagine coordinata e packaging. Francalma Nieddu, designer ed esperta di design strategico, collabora con ondesign nello sviluppo di nuovi sistemi prodotto.
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Greetings from the Land of Riesenwaschkraft Everyone knows that the land of freedom and adventure is the mythical Marlboro Country in America. But in Germany, the invitation is slightly changed: “Komm in’s Land der Riesenwaschkraft! Come to the land of the Giant Super-detergent!” Article and photos by Olav Jünke and Francalma Nieddu
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At least it's so in the advert by one of the best known detergent brands, the Weisser Riese (the White Giant). But the German language is full of references to household cleaning. One tries to “keep one's shirt clean” (like a clean conscience, normally used in the negative). One doesn't “wash one's dirty laundry in public” (it's not the done thing to discuss private problems in front of others) and one should always avoid “dirty deals”, which have a criminal connotation. This is a land where cleanliness is a cultural value, so much so that there's a national phobia of dirtiness. German landscape with detergents First and foremost are Persil, Sunil, Omo and Ariel, followed by Spee, Dash and Tandil. There's no doubt that the national "hero" of clean laundry is Persil. This brand is a real leader from all perspectives. As well as its special, easily recognisable colors (red, green and white), there's a certain continuity in product and packaging innovation with Persil always out front - followed by all the others, of course. Its TV spots in Germany
present the image of the perfect family, driving around in a Mercedes and washing its clothes with Persil: “Da weiss man, was man hat” (“And you know just what you're getting”). The slogan's been repeated so many times that it's now become a cliché. In terms of the graphics, nearly all the detergents tend to offer the impression of a high-tech product instead of a simple white soap powder, almost as though they're tiny washing machines that can do it all by themselves. There's been a real revolution in the packaging used for detergents over the last 10 years, due to the miniaturising of the product thanks to the product's improved Waschkraft (washing strength), a word invented by the marketing guys and now part of the German language. The traditional packs have disappeared (the ones as big as cupboards, recycled as containers for kiddies' toys). The major challenge now is the ability to condense all the product promotion messages on its packaging. These must be convincing and equally effective, or even more effective, than those on previous containers, three times as big - the trend is to keep the brand logo as large as possible. For the first time, however, one can now see detergents without the inevitable white, the symbol of purity and cleanliness. Given that the shape of the packaging is virtually the same, from one brand to another, the logo and the lettering have become the main aspects that distinguish each brand. Thus, the angular shapes of the letters express technical competence, while the bordered italics and colour shading provide dynamic identity and a strong visual impact, though often at the expense of legibility and thus the public's fondness for that product. Products and personalities In the packaging industry, a new shape is never produced if it's not economically viable. However,
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Giant stressed this with his figure and slogan. A new detergents figure in appeared with the unification of East and West Germany. Henkel, already known for various other types of detergent as well as its world famous Persil, introduced its Spee washing powder on the new national market, with a new image [Ed. General in Italy], originally only known in East Germany. This new detergent was strengthened - visibly and conceptually - by a cartoon-style fox, standing for an intelligent, cheap choice for the consumer, and with the advantages of a Henkel brand product. Another small animal - the frog - also brought success for Erdal products. In an apparently simple move, but with great symbolic effectiveness, a "green" product was born, but one without a single direct reference to the subject of pollution, and without the need to advertise the product in terms of its eco-friendliness. Erdal had already used the symbol of a frog for its shoe polish: only the color changed with the new detergents and Frosch became the symbol and name of the new product line. So how does it work? What's the secret alchemy of marketing or rather the product-system that exploits the technique of personification? First, one needs to help the identification process for the target: “this product is the one for me”. Characteristics, such as the proverbial slyness of the fox or the frog's environmental value, are connected to the product and become an integral part of the brand identity, and thus unquestionable. Note the great difference with simply writing the claims on the packaging or portrayed in ads. Moreover, the public's emotional response to the friendly smile of the White Giant, let alone a small, defenceless animal (“the puppy effect”) is quick and easy. If the product, the symbol and the message all tell the same story, then it's bound to be a success.
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there are examples with peculiar shapes that have met with great market success. WC-Ente [Ed. in Italy Anitra WC] is one such example. Those who buy this product are convinced that this special shape - a bottle with a duck's neck - helps clean toilets better. This is an example of the use of the personification technique, by which the personality of a duck - a sort of small friend rather than a technical, impersonal object - creates an immediate, profound relationship between the customer and the product. Detergent adverts in Germany used a personality right from the start: that of the “White Woman” by Persil. The possible identification with a woman, wife and perfect mother, almost fairytale-like, immediately created a strong motivation in choosing that brand. Later, in the 1970s, Ariel introduced the figure of Klementine in its TV spots: a housemaid with such a perfectly white apron that even the lady of the house, a particularly authoritative woman when it came to the right method of doing the laundry was ashamed: Denn Ariel wäscht nicht nur sauber sondern rein! (Because Ariel doesn't just make things clean, but even pure!). Klementine managed to bring out the “dirty conscience” of German housewives, unable to achieve such degrees of purity. A typical approach for the German market of the day. Even today, more than 95 % of Germans believe that Ariel has a single meaning: “detergent”. To return to the Weisser Riese (the White Giant), the personality of the gentle giant has, unfortunately and perhaps by mistake, disappeared from today's packaging. The name remains, but the idea has been lost of a genie of the lamp whose special power does the laundry in a matter of seconds. In the old TV spots, a never-ending washing line stood for the proverbial Riesenwaschkraft (literally “the strength of a giant's washing”) and the White
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Beyond frontiers But are detergents simply a national business? Yes, in a certain sense. The failures and successes of products exported from one country to another or of multinational products can tell us a lot. An almost famous failure in the detergents sector was that of the Der General (the General). From a totally American viewpoint (the country of origin), it appeared quite logical to launch a product with a military identity on the German market. A general also appeared in the TV spots with old-style military music and the spot culminated with a housewife being awarded a general's epaulettes! Moments when it's not so great to be a German... It was no surprise, therefore, that Der General immediately disappeared from the market, only to be relaunched as Meister Proper (Mastro Lindo, in Italy) with the same authoritarian air, but in the right dose for the target in question. Some products gradually lose the initial meaning of their name. The detergent with the good name of Sunlight first became Sunlicht, meaning light with something unknown in front of it, before finally becoming Sunil, a name totally without meaning. The graphics of its packaging continued to use a yellow element as the abstract symbol of the sun, though this was eliminated in the last relaunch. The change to the name “Sun-il” is explained as a deliberate association with “Pers-il”. Dash is a strong expression with an onomatopoeic value for English speakers: it sounds just like a heavy blow on water. In other languages it doesn't have the same effect, not even in German. But that hasn't stopped its success on foreign markets,
even though the brand has less emotional value. Perwoll, Perwool or Perlana has managed to find a trans-national solution that works in many languages: in German, as in English and Italian, without losing the central message. The magic of detergents More so than elsewhere, the packaging of detergents represents the product in such a strong fashion that the customer identifies it with the product itself. One can truly say that “the packaging equals the product” here. Even if, in marketing talk, detergents are defined as being of low interest, the consumer expects a lot from them - and not just the results promised in the infinite soap operas of TV spots, such as perfect cleaning, a tidy home, even complete family happiness. In reality, what one wants (the old German dream) is that household chores do themselves - just as happens in the traditional fairytale Die Heinzelmännchen von Köln (The elves of Cologne) where small dwarves (the Heinzelmännchen) make all the dirt and disorder disappear as though by magic. After all, this is the magic help one hopes to get on buying a detergent: the good spirit that comes from the packs and bottles and does all those backbreaking chores! Olav Jünke, designer, graphic artist and communications expert, owns the ondesign studio in Hamburg, specialising in co-ordinated image and packaging. Francalma Nieddu, designer and strategic design expert, works with ondesign on the development of new product systems.
GIBO ITALIA Srl TEL ++39.02.3545613 / FAX++39.02.3548226 www.gibo-italia.com E-mail: gibo@gibo-italia.com
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Soap Opera Virginio Briatore
Alle elementari, in Liguria, negli anni Sessanta, la maestra, sarda, Tecla Todde, appassionata di opera lirica, ci insegnava una drammatica verità: “La civiltà di un popolo si misura dalla quantità di sapone che consuma”. Inesorabilmente ai vertici della civilschiuma poneva il Giappone. Dopo Nabucco cantavamo allora una canzone: “Tanto sapone forza Giappone”. Divenuti adulti, il sociologo partenopeo (Domenico De Masi) ci ha spiegato che chiaro-fresco-pulito-ordinato-profumato-ricco vuol dire Nord e che polverosocaldo-sporco-incasinato-olezzante-povero si trova a Sud. Altri ancora (Rem Koolhas) ci hanno fatto notare che in ogni metropoli i due poli coesistono. Non c’è scampo al sapone. Un altro sociologo milanese (Joseph Sassoon) ci ha ricordato che, oltre all’asse climatico, altri due assi sono decisivi per valutare la relazione pulito/sporco: quello socio economico (pulire costa…. sporcare meno) e quello delle diverse concezioni di igiene, da cultura a cultura, fra pubblico e privato. Infine un virologo genovese (Fabrizio Pregliasco) ci ha fatto notare che per secoli sono stati gli animali - topi, zecche, uccelli - a diffondere le malattie. Oggi le mosche siamo noi… siamo noi, deo-dorati, col nostro frenetico andare e venire… gli untori che diffondono l’epidemia. Il sapone è androgino: è maschio ma suona femmina. Detergere è di per sé già una parola straordinaria…dal latino tergere "asciugare, nettare, purificare".
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De tergere ma anche deterso lei tersa io terso tu tergesti io tersivo de tersivi te tersa o fiamma, o rose sparse in dolce falda, di viva neve , in ch’io mi specchio e tergo (Petrarca).
design box De tergere cosa, da chi, come, quando?? Lo sporco, le lacrime, il sudore, il sangue, l’unto, il nulla, l’infinitesimamente piccolo, la polvere, il tempo. Detersivo detergi tempo perdi tempo diversivo. Sentirsi meglio, pulito intorno, in poco tempo. Tutto sterilizzato Anzi bonificato Smagnetizzato Denuclearizzato E poi quanto detegere, lavare, pulire, disinfettare?? C’è chi vuole andare fino in fondo, oltre gli acari, gli ascari, il visibile: è la mente-microscopio che non si accontenta di ciò che vede. Chiede certezze, esecuzioni, sollievi, scienza, numeri. C’è chi “basta una passatina e via”, è una tribù forse meno numerosa dei paranoici dell’asettico, dei fobici dello sporco, ma è in crescita! Tribù new age, maschile e femminile, di chi vuol togliere vorticosamente lo sporco che si vede, qtb. L’importante è fare una figura accettabile con gli altri e con il proprio io, sintonizzato meno sulla colpa e più sul godereccio. È la casa delle libertà: si pulisce quando lo schifo salta agli occhi, quando viene qualcuno, quando piove, quando si può… è l’easy cleaning… è già più piacevole e quindi non bisogna esagerare perché, maniaci dell’igiene o meno, pulire è fatica, dovere, miseria… C’è un sapone per tutti, per i ricchi e per i poveri, per i bambini e le nonnine. Il privilegiato popolo dei grandi consumatori di saponi non sempre studia gli joni per capire se essi siano sani, siano buoni, ma di sicuro è attratto e poi ammira, e se può sniffa e infine tocca, le confezioni! Il prodotto è sempre meno importante, la comunicazione è l’economia.
Il packaging è l’economia. Disegnare comunicazione a paure mirate, impackettare sollievi precisi, comprensibili perché nella solitudine dei magazzini aguzzini si è sempre più soli. Disegnare la diversità, impackettare l’individuo, perché la società italiana ed europea è sempre più single. Oltre a quelli che possono permettersi di vivere magnificamente da soli (6 milioni), ci sono in europa 20 milioni di veri soli che abitano con qualcuno. C’è un detersivo per gli anziani, ne basta poco e non screpola le mani = comunica agli anziani C’è un sapone per la famiglia, magari di Marsiglia = disegna la famiglia. C’è un tergilava per la casa delle vacanze, la barca, l’automobile = disegna movimento illusione di piccolo ingombro. C’è un shampoo x i più piccini = confeziona la tua sfera Pokè. Nuova canzone: “Santo sapone, bella confezione, digievoluzione, forza Giappone”.
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Virginio Briatore, studioso dei linguaggi contemporanei. Di recente ha pubblicato Denis Santachiara, Abitare Segesta, 2002. Scrive per Interni, Graphis (New York), Design Week (London). È Design Director di Villa Tosca DMC, di cui dirige anche il Portale della Creatività aedo-to.com
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design box Nelle scuole, finalmente, si dà al packaging la rilevanza che la sua complessità merita. Due esempi tratti dall'esposizione tenutasi in luglio a Londra, New Designers 2003 - part 2, che presenta 2000 neolaureati delle scuole inglesi. Entrambi i progetti collegano il packaging al sapone e all'acqua. Finally, design schools are giving packaging the relevance that it is due. Two examples taken from July's London exposition, New Designers 2003 - Part 2, that presents 2,000 recent graduates of the English schools. Both projects form the nexus of soap and water packaging.
Soap Opera Virginio Briatore
Carly Stelmaszuk The floating soap immagina una confezione, che si apre e galleggia nella vasca affinché il sapone non vada a mollo. Il design del sapone steso è tale da facilitarne la presa. Carly Stelmaszuk: The floating soap portrays a package, that opens up and floats in the bathtub until the soap liquefies. The shape of the soap is designed to make it easy to handle.
In a Ligurian elementary school in the sixties, my Sardinian native teacher, Tecla Todde, was an opera enthusiast and taught us an eye-opening truth, "The culture of a people is measured by the amount of soap they use." Inexorably at the top of the lathered-civilizations is Japan. After Nabucco, we sang a little tune: "Soap and a mop, Japan's on top”. After reaching adulthood, the Neapolitan sociologist (Domenico De Masi) explained to us that the clean-fresh-unspoiled-orderly-fragrant-rich is synonymous with the North, while dusty-hot-dirtymessy-greasy-poor embodies the South. Still others (Rem Koolhas) showed us that there are two opposing forces in every city. There is no escape from soap. Another Milanese sociologist (Joseph Sassoon) reminded us that beyond the climatic alignment, two other axes decisive in assessing the clean/dirty relationship: the socio-economic balance (cleaning is expensive ... staying dirty is cheap) and the differing concepts of hygiene from culture to culture, between public and private. Finally, a Genoese virologist (Fabrizio Pregliasco) pointed out to us that animals, namely mice, ticks, fleas and birds have been spreading disease for centuries.
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Today, we are the vermin ... we are the deodorized, with our frantic activity to and fro ... the plaguespreaders that proliferate contagion. Emma McHardy Soap pack progetta un contenitore portasapone che in viaggio può essere utilizzato come bacinella. Emma McHardy Soap pack designs a soap dish/receptacle that can also be used as a bowl when travelling.
Soap is androgynous: but its voice is female. Deterge is on its own an extraordinary word ... it comes from the Latin word tergere meaning, "dry, wipe, purify."
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De tergere as well as de-terse She deterges, I deterge You deterge, I am deterged De-tergent you terge oh flame, oh roses scattered on the sweet slopes of living snow, where I see my reflection and wipe clean (Petrarch). Deterge what, by whom, how and when?? Grime, tears, sweat, blood, grease, nothingness, the most infinitesimally tiny, dust, time Detergents deterge time, lose time, provide relief. Feeling better, clean all around, in no time at all. Everything is clean Rather, decontaminated Demagnetized Denuclearized And yet, how much does it deterge, cleanse, wipe clean, disinfect? There are some who want to delve into the depths, get beyond the mites and ticks, the visible: it is the mind-microscope that is never content with what it sees. Looking for certainties, executions, relief, science, numbers. There are those who settle for a "quick swipe and off you go;" the breed is perhaps smaller than the sanitation maniacs, dirt-related phobias, but its numbers are on the rise! The New Age tribe, men and women alike, who desperately want to remove the visible dirt, ASAP. The most important thing is to project as acceptable an image as possible to others and with your "ego" less tuned in to guilt and more to pleasure seeking.
There is a soap for everybody, for the rich and poor, for children and grandmothers. The privileged classes of the great soap consumers don't always study the joni to understand if they are healthy, they are good, but they are certainly attracted by and marvel at, and if possible, want to sniff and handle, the packages! The product is less and less important, communication drives the economy. Packaging is the economy. Designing the message to specific fears, wrapping up precise, understandable relief because in the solitude of the taskmaster warehouses we are always alone. Designing diversity, wrapping up the individual because Italian and European societies are increasingly single. In addition to singles who can afford to live very well alone (6 million), there are 20 million true loners in Europe who live with someone. There's a detergent for old folks, just a drop and it's gentle on the hands = connects with the elderly There's soap for the family, best if pure vegetable = designed for the family There's a detergent for the second home, the boat, the car = designed to take away and fit in small spaces. There's a baby shampoo = wrapping up your Pokèmon sphere. The new anthem goes: "Hallowed soap, beautiful package, digital evolution, Go Japan." Virginio Briatore, a scholar of modern languages. He recently published Denis Santachiara, Abitare Segesta, 2002. He is a contributing editor of Interni, Graphis (New York), Design Week (London). He is Design Director of Villa Tosca DMC, for which he is also director of the Creativity portal aedo-to.com
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It is the home of freedoms: it is cleaned only when the dirt and filth are clearly evident, when company comes over, when it rains, when you feel like it… we are talking about easy cleaning … it's more pleasant and so there's no need to go overboard
because, clean freaks or not, cleaning is hard work, responsibility, woe ….
Chiara Dolce Lavare
Dolce Lavare 02 1999 C-print Courtesy Galleria Mascherino
Dolce Lavare 03 1999 C-print Courtesy Galleria Mascherino
Una giovane artista rivisita luoghi, miti e miracoli del consumismo d’epoca, reinterpretando la classica fiaba della “brava massaia”
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Fabiola Naldi
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mista 1999 Tecnica olce Lavare Mascherino ria le Pacchetto D al G y tale Courtes e stampa digi
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Pacchetto D olce Lavare 1999 Tecnica stampa digita mista e le Courtesy G alleria Masch erino
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Ricordo che da bambina mia madre mi portava con sé a fare la spesa, e l’istante precedente all’entrata nel supermercato, asettico e anonimo, si trasformava in vibrante curiosità. Mi addentravo nel parco giochi del consumo e, in preda alla vertigine del “tutto alla mia portata”, subivo affascinata la presenza degli oggetti sulle scansie. Il non-luogo dello spazio esterno diventava il superluogo, l’insieme di tutti i luoghi e confini. Dentro, perfettamente ordinati per categoria, funzione e importanza, mi chiamavano i cibi, i profumi, i giocattoli, magnificamente racchiusi in eleganti scatole dalle forme e dai colori più diversi. Un settore, in particolare, richiamava ogni volta la mia attenzione: la corsia dei detersivi. Marche differenti, ciascuna a esaltare un ruolo preciso, presentate su grandi
scatole di vari formati che, d’un tratto, si trasformavano in preziosi oggetti da raccogliere e custodire. Nessun interesse per il prodotto in sé, quindi, ma completa immersione nell’abile strategia operata dal marketing pubblicitario per invitare all’acquisto. Il rituale della spesa è stato l’inizio della scoperta del contenitore e del mio smodato interesse per l’involucro del prodotto. Quel packaging primitivo si è nel tempo sofisticato e impreziosito, ma la mia ingenuità d’allora è stata confortata nel tempo dalla consapevolezza che molti altri hanno amato l’etichetta piuttosto che lo stesso prodotto, a testimonianza del fatto che frequentemente si desidera avere ciò che ci colpisce per l’aspetto e non per il suo reale valore qualitativo. Anche Chiara (1976), giovane artista italiana, con al suo attivo diverse importanti collettive e un bel catalogo
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Mela verde 1999 Stampa digitale in forex sagomato Courtesy Galleria Mascherino
(Chiara, a cura di Barbara Martusciello, Cooper & Castelvecchi, 2002) ha camminato nel supermarket del contenitore, dello stereotipo e dell’immaginario comune trasferendo su di sé i ruoli propri di quel superluogo. L’iconografia pubblicitaria alimentata dal boom economico degli anni Cinquanta, e giunta all’ennesima potenza nella società attuale, diviene il territorio prediletto dell’artista attraverso il quale rilevare e rivelare conseguenti attitudini comuni. Chiara applica su di sé l’effetto del transfert estetico per potersi trasformare in tante altre figure femminili tante quante possono essere quelle sottilmente suggerite dagli spot statici delle riviste femminili o da quelli dinamici degli spot televisivi. Il corpo di Chiara assume il ruolo di luogo prediletto della trasmutazione di queste eroine quotidiane, divenendo essa stessa un’etichetta, una cover del prodotto,
un perfetto packaging del ruolo che intende promuovere. L’artista raggruppa i frammenti di un immaginario collettivo divenuto, nel tempo, stile di vita al quale aspirare, cosciente della forza della comunicazione pubblicitaria. Chiara preleva non solo la funzione del ruolo desiderato, ma anche i minuziosi accessori che compongono il surrogato artistico messo in scena, divenendo una Barbie alternativa in grado di soddisfare i desideri più intimi. Con la fotografia Chiara può finalmente essere per un istante infinito una cantante, una casalinga, un’infermiera sexy, sfruttando il proprio corpo come se fosse un reale bene di consumo. L’artista Chiara rimane il contenuto, ma il nuovo contenitore ottenuto mediante i sapienti travestimenti è la fotografia realizzata come packaging estetico/artistico invitante e accogliente. E insieme al prodotto fotografico si affiancano accessori impacchettati come gli abiti della Barbie, ready made postmoderni nei quali l’artista si espone insieme ai suoi accessori: pezzi unici resi tali dalla funzione artistica virtualmente inseriti nell’ipertesto inscenato dall’artista. “Provatemi” suggerisce Chiara, e con sguardo malizioso si presenta a noi equipaggiata del proprio corredo artistico, dimostrandosi la migliore pubblicità di se stessa. Fabiola Naldi, curatrice e critico d’arte. Insegna al DAMS di Bologna. Scrive per Flash Art e ha recentemente pubblicato I'll be your mirror travestimenti fotografici, Cooper & Castelvecchi, 2003.
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Chiara Sweet Washing A young artist revisits places, myths and miracles of the consumerism of the age, reinterpreting the classic fable of the “model housewife” Fabiola Naldi
edited by Barbara Martusciello, Cooper & Castelvecchi, 2002) to her credit, walked in the supermarket of the
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I remember that, as a child, my mother took me with her to do the shopping and the second before we went into the sterile and anonymous supermarket it turned into something intensely fascinating. I penetrated the funfair of consumption and, in the grip of the dizzy knowledge that everything was within my grasp, stood mesmerised by the presence of objects on the shelves. The non-place of the space outside became the super-place, the combination of all places and boundaries. Inside, perfectly ordered by category, function and importance, food, perfumes, toys called out to me, all magnificently wrapped in elegant boxes in the greatest variety of shapes and colors. One sector in particular grabbed my attention every time: the detergent aisle. Different brands, each extolling a precise role, presented on huge and variously shaped boxes which, suddenly, mutated into precious objects to collect and keep. I had no interest in the product itself, but a engulfed by the clever strategy used by marketing people to persuade you to buy the product. The shopping ritual was the first step on the road to the discovery of containers and my immoderate interest in product packaging. In time that primitive packaging became more sophisticated and precious, but my childish naivety was eventually comforted by the knowledge that many others had loved the label rather than the product itself, proved by the fact that we frequently desire something for the way it looks and not for its true qualitative value. Chiara too (1976) a young Italian artist, with important group exhibitions and a beautiful catalogue (Chiara,
container, of the stereotype and the collective conscience, transferring the roles that belonged to that super-place onto herself. The advertising iconography fuelled by the economic boom of the Fifties, and brought to the nth power by current society, becomes the artist’s chosen territory through which associate common tendencies are inferred and divulged. Chiara applies the effect of aesthetic transference to herself, to succeed in transforming herself into as many other female figures as might be subtly suggested by the static adverts in women’s magazines or the dynamic adverts in TV adverts. Chiara’s body takes on the role of the chosen spot of transmutation of these everyday heroines, becoming a label herself, a cover of the product, a perfect packaging of the role she intends to promote. The artist collects fragments of a collective conscience which has become, over time, a lifestyle to aspire to, aware of the strength of advertising messages. Chiara not only taps the function of the desired role but also the minute accessories which compose the staged artistic surrogate, turning into an alternative Barbie able to satisfy the deepest desires. With photography Chiara can finally be, for an infinite second, a singer, a housewife, a sexy nurse, exploiting her body as though it were a true consumer commodity. The artist Chiara is always the content but the new container obtained through skilled disguises is the photograph created as enticing and cosy aesthetic/artistic packaging. And alongside the photograph there are packaged accessories like Barbie’s clothes, post-modern readymades in which the artist exhibits herself together with her accessories: pieces made unique by the artistic function inserted virtually into the hypertext staged by the artist. “Try me” suggests Chiara and stands before us with a wicked look in her eye , fitted out with her artistic wardrobe, showing she is her own best advertisement.
Fabiola Naldi,Curator and art critic. She teaches at DAMS in Bologna. She writes for Flash Art and has recently published I'll be your mirror - travestimenti fotografici, Cooper & Castelvecchi, 2003. 31
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Dall’Amazzonia al Finish Gel: come i progetti di packaging globale dell’Integral Studio Vinaccia sono diventati veri e propri “affari di Stato” Sonia Pedrazzini
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Packaging Integral(e) Giulio Vinaccia è nato a Caracas, Venezuela. E’ un designer. Ha lavorato molto in Sud America. Poi si è trasferito a Roma e successivamente a Milano. Con il fratello Valerio, nel 1987, ha creato Integral Studio Vinaccia . Il packaging è uno dei loro principali ambiti di attività. Date queste premesse non stupisce che Giulio e Valerio abbiano saputo creare, a livello professionale, un ponte ideale tra le culture sudamericana ed europea e che abbiano ampliato, anzi globalizzato, la loro attività di progettisti fino a farla diventare un “affare di Stato”, dato che si sono occupati di progettare il sistema di Packaging Istituzionale per il Ministero di Sviluppo Economico della Colombia per la
gestione turistica dei prodotti artigianali di quel paese. Non solo, hanno realizzato ricerca, formazione e design alla riscoperta delle tradizioni artigianali per varie regioni e stati nazionali, come il Progetto Incontro, per Artesanias de Colombia, nato per migliorare la qualità del design e del packaging di artigianato turistico. Oppure come i workshop organizzati in diverse aree indigene sudamericane e la cui metodologia di progetto è attualmente adottata da diversi organismi nazionali di Brasile, Francia e Spagna. I Vinaccia sono inoltre i fondatori di Etno - Handicraft & Design Consulting, una società specializzata in recupero delle creatività artigianali nei paesi del sud del mondo e svolgono progetti
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in Brasile, Colombia, Ecuador, Mauritania. Insomma il packaging e il design del prodotto al servizio dei popoli. Non solo. Integral Studio si occupa anche di prodotti elettronici e attrezzature biomediche, di comunicazione e strategia d’impresa, di coordinazione artistica e formazione. Infine, a proposito di detersivi, i Vinaccia sono stati gli autori del Finish Gel con cui, nel 1999, hanno vinto il premio Packaging Star.
di un sacco pieno di noci di cocco). Per finire, una volta mangiatone il contenuto si può utilizzare la bucciascorza in mille forme: per farne oggetti, tessuti, gioielli,ecc.
Cominciamo con qualcosa di insolito: Giulio, se tu fossi un packaging, che packaging saresti? E perché? Bene se fossi un packaging, amerei essere un package fatto dalla natura, per esempio una noce di cocco. Sì certo, una noce di cocco, forse uno dei migliori imballi in assoluto del mondo naturale. Resistente, ma non pesante, isolante, mantiene al suo interno liquido e polpa sempre freschi e sugosi anche dopo mesi. In piu è galleggiante, quindi puo essere usato come “salvagente occasionale” (vedi il romanzo Papillon, dove il nostro eroe scappa dall'Isola del Diavolo a bordo
risolvere in poco tempo: una struttura protettiva che ausiliarmente comunicasse all'esterno il tipo di prodotto e alcune sue caratteristiche di trasporto. Poco a poco questo concetto è variato, sulla spinta di dover avere un "supporto" per comunicare le caratteristiche "non tangibili" del prodotto. Negli anni ‘80 le aziende fornivano un brief preciso esclusivamente legato al design del prodotto; oggi, abbiamo a che fare con aziende che ci sottopongono dei “problemi di prodotto” da risolvere, che siano interventi di design formale oppure di analisi del packaging, o magari
Gli esordi: come è cominciata la vostra avventura nel mondo degli imballaggi? Raccontateci dei progetti di packaging più interessanti. All'inizio nel nostro lavoro, nel product design, il packaging era visto quasi esclusivamente come progetto da
certificato d’origine dei prodotti artigianali, fino al packaging per le Poste colombiane.
Economico della Colombia, nato per “coprire” l’universo dei prodotti artigianali di quel paese. Un totale di 1100 prodotti diversi da proteggere e comunicare. Un lavoro iniziato nel 1995 ed ancora non completato, che ci ha obbligato a una ricerca lunga e laboriosa, ma i cui risultati sono stati molto soddifacenti. Abbiamo avuto un’occasione forse unica di coordinare un progetto realmente integrato, riunendo gli interessi di produttori di materie prime, fabbricanti, trasportatori e commercianti. Abbiamo dovuto studiare e progettare ogni cosa, dal
comunità indigene come gli Yanomani e i Macuxi che hanno poca dimestichezza con l’uso della moneta. Il team di lavoro organizzato dalle Nazioni Unite aveva bisogno di impiegare una serie di mastri artigiani di diverse comunita indigene locali, ma come retribuirli ? Fu dunque offerto a queste comunità di contribuire alle loro economie attraverso un piccolo progetto di packaging che servisse a salvaguardare la loro produzione artigianale durante gli innumerevoli trasbordi fra le comunità piu lontane e i negozi, e allo stesso tempo cercando di differenziare e
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Un altro lavoro che abbiamo molto amato è stato quello per le comunità indigene del Nord dell’ Amazzonia brasiliana (Regione del monte Roraima, quello indicato da Sir Arthur Conan Doyle come il luogo del Lost World). Vi parrà strano, ma il packaging in questo caso fu usato come elemento di scambio per
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dell'architettura dei punti vendita. Seguendo questa tendenza di “design integrale” siamo arrivati a realizzare consulenze globali di progetto per enti statali di diversi paesi, i quali, sforzandosi di rendere le loro produzioni più competitive, hanno cercato risposte in questo tipo di approccio “olistico”. Progetti di estrema difficoltà ma di grande significato, come il sistema di Packaging Istituzionale, realizzato per il Ministero di Sviluppo
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comunicare le peculari caratteristiche dei loro prodotti. Nell'arco di poche settimane abbiamo sviluppato un piccolo progetto grafico e dei contenitori in cartone ondulato, che si è affiancato ai sistemi da imballo tradizionali a base di foglie e legno. Il risultato è andato al di là delle nostre previsoni: una diminuzione delle rotture nei pezzi di ceramica di circa il 30%, ed un successo di vendite fra i turisti stranieri, felici finalmente di capire la storia dei prodotti che acquistavano. Il progetto è partito nel 1997 ed è tuttora in uso nelle comunità indigene Macuxi, Ingaricò e Wai Wai, grazie alla sponsorizzazione del governo regionale brasiliano.
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Altri progetti di grande interesse sono quelli che sono stati sviluppati per il Ministero dell’Agricoltura brasiliano: il sistema di packaging per frutta tropicale d’esportazione e il concept per il sistema di vendita dei prodotti della Riforma Agraria. La vostra “anima creativa” è per metà sudamericana, dato che avete lavorato molto in Colombia, Perù, Brasile; quali osservazioni potete fare in merito allo stato del packaging in quei paesi? E quali sono le differenze più eclatanti con il nostro sistema del packaging (il design, la fruizione da parte della gente, i problemi dello smaltimento e, di conseguenza, la consapevolezza dell’impatto sull’ambiente)? Uno dei segnali che mi avvisano che mi trovo in un paese “periferico” come la Colombia, il Perù o lo stesso Brasile, è che le confezioni dei prodotti “globali”, apparentemente uguali a quelle dei nostri supermercati, sono in realtà leggermente diverse: stentano a funzionare, il brick non si apre, la linguetta della birra si stacca senza sollevarsi, la vaschetta della
marmellata ha un film troppo spesso, i flaconi di detersivo non sono perfettamente trasparenti… L’imperfezione del packaging è il sintomo di una condizione marginale . Ma in questi stessi luoghi, accanto a questo universo imperfetto, troviamo packages tradizionali realizzati in un infinità di modi, sempre interessanti e innovativi: scatoline di legno e foglia di banana, vasetti di ceramica colorata, carta e cartoncino usato in mille modi. Si tratta dunque solamente di una differenza di tecnologie? Non credo, mi pare che sia un problema di mentalità. Le grosse multinazionali poche volte adattano i loro prodotti ai mercati minori, anzi questi normalmente ricevono produzioni tecnologicamente piu datate. Allo stesso tempo, in molti paesi del Terzo Mondo, un imballo non muore una volta aperto, ma viene riutilizzato in molteplici forme durante molto tempo (come si faceva da noi con i barattoli di Nutella, che divenivano bicchieri per le seconde case). Ecco quindi la differenza base, per noi un bel package muore alla sua apertura, in altre realtà geografiche il package inizia a nascere quando termina la sua funzione iniziale. Si può parlare di “era della globalizzazione” del packaging, oppure ogni parte del mondo possiede e manterrà le sue caratteristiche specifiche? Quali sono secondo voi gli scenari futuri? Sono certo che ci aspetta un futuro con sempre meno differenze anche nel packaging. I marchi globali sono ormai una realtà consolidata in ogni angolo del mondo. Certo esistono ed esisteranno varianti regionali, ma i grandi sistemi, le innovazioni tecnologiche più invitanti saranno diffuse in tempo reale in tutti i mercati. Rimarranno
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Raccontateci di un packaging europeo e di uno sudamericano che ricordate con più curiosità…. Ho un ricordo indelebile della prima bottiglia di gazzosa (negli anni 60, non c’erano marchi) che vidi nel bar sotto casa. L’idea del tappo a sfera che chiudeva la bottiglia, impedendo la fuoriuscia del gas, mi sembrò quasi magica. Ne smontai alcune, all'insaputa di mia madre che le custodiva gelosamente, prima di capirne il funzionamento. Pochi anni dopo la gazzosa adottò un’identità, un marchio, e le bottiglie ricaricabili scomparvero, sostituite dalle normali
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spazi concreti per produzioni DOC di alto livello, dove tutti gli aspetti dell’ imballo saranno curati in ogni particolare, ma ho la sensazione che per la produzione di massa in Italia ci aspettino degli scenari alla Nando Meliconi, il personaggio di Alberto Sordi in Un Americano a Roma, che, di fronte ad un sandwich con yogurt e mostarda, voluto per far fronte al bisogno immaginario di un’identità americana, finisce per cadere nel famoso “maccarone m'hai provocato e mò me te magno”. Ossia, dalla ricerca dello stereotipo “avanzato” alla caduta nella prosaicità localistica.
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confezioni con tappo a corona, con cui perlomeno si poteva giocare a fare le corse nelle buche di sabbia....
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Come pack sudamericano una delle idee migliori è l'imballo dei pesci, che nei mercati dei Caraibi viene realizzato con un oggetto in apparenza semplice, le foglie di banana. Eppure, la foglia di banana è isolante, impermeabile, flessibile ed economica, permette al consumatore finale di passeggiare tranquillamente con il pesce in mano senza che schiere di gatti lo seguano interessati. Racchiude in sè anche un segreto: se si vuole cucinare il pesce senza grassi e con un aroma speciale, basta cucinarlo direttamente sul fuoco nella foglia di banana, che carbonizzandosi crea una protezione che evita la fuoriuscita dei sughi e degli aromi… Il risultato finale è eccellente, specie se accompagnato da pezzi di bread fruit e banane anch'esse cotte nelle stessa foglia.
Nel 1999 avete vinto il “Packaging Star”, premio al miglior packaging italiano, per il design del Finish Gel; quali caratteristiche aveva questo imballaggio? L'idea era di creare un flacone che potesse essere usato indistamente da destri e mancini, e che, nel caso di persone con poca forza (anziani, disabili, ecc.), potesse essere utilizzato con le due mani. E' nato quindi il pakage del Finish Gel, con un manico centrale che assolve la funzione stabilita e allo
stesso tempo dona un appeal diverso al prodotto. L'accettazione da parte del committente è stata molto buona, così come il rapporto con la struttura produttiva. Toglietevi un sasso dalla scarpa: ci sono delle critiche che vorreste muovere verso un certo prodotto o ad un’azienda in particolare oppure ad un designer, relativo a un progetto di “cattivo packaging”? Il mondo del design italiano ha un senso dell’equilibrio dei valori un po’ anomalo, che dipende grandemente dalla forza del marchio per cui si lavora - ad esempio ci sono personaggi famosissimi per aver disegnato un set “sale e pepe” per Alessi, e altri completamente sconosciuti, ma che hanno al loro attivo grandi e solidi progetti. Tuttavia non mi sento di giudicare alcunché tutti, credo, provano a fare del loro meglio e non esistono progetti di primo e di secondo livello. Certo, se vogliamo parlare di un caso di overpackaging, l’esempio dei biscotti ripieni del Mulino Bianco (di cui sono goloso) è da manuale: imballo esterno in poliaccoppiato, piccolo contenitore in plastica per ordinare i biscotti… manca forse un contenitore individuale per ogni biscotto (cosa vi pare dell’idea, magari in brik?)… …e la medaglia d’oro, invece, a chi (o a cosa) andrebbe e perché? Il mio progetto di packaging favorito è proprio quello di non-packaging realizzato dalla catena LUSH. Shampoo e saponi venduti ad etti, mono confezioni per creme fatte con il frullatore al momento dell’acquisto. Shampoo solido grattuggiato come un pezzo di grana qualunque sulla testa di un’improbabile modella… La diversità nella semplicità, l’essenzialità, è forse la chiave per trasformare il nostro quotidiano.
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Integral Packaging From the Amazon to Finish Gel: how global packaging designs by the Integral Studio Vinaccia have become full blown "affairs of the state" Sonia Pedrazzini
Let's begin with something a bit unusual: Giulio, if you were a packaging product, what kind of packaging would you be? And why? Oh, if I were a packaging product, I would want to be a natural wrapper, like a coconut shell, for example. Yes, that's it. A coconut shell is one of the best packages in the natural world. It is very durable, lightweight, and a perfect insulator. The shell keeps the coconut liquid and meat inside fresh and juicy even after several months. Plus, it floats and therefore might also be used as an improvised life jacket (remember the novel Papillon, where our hero escapes from Devil's Island by making a raft out of a sack full of coconuts?). Finally, even after eating the coconut meat, you can use the left over shell in any number of ways: to make objects, fabric, jewelry, etc.
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Tell us about your beginnings: how did you start your adventure in the world of packaging? Tell us something about your most interesting packaging designs. At the beginning of our career in product design, packaging was perceived almost exclusively as a
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Giulio Vinaccia was born in Caracas, Venezuela. He is a designer who has worked extensively in South America. Vinaccia moved to Rome and later to Milan. Giulio and his brother, Valerio, founded the Integral Studio Vinaccia in 1987. Creative packaging has become one of their core activities. With these credentials, it is hardly a surprise the Giulio and Valerio have successfully built their careers by constructing an ideal bridge between the South American and European cultures and have expanded, or better globalized, their work as designers to make it an "affair of the state," considering that the Department of Economic Development of Colombia hired them to handle the design of the Institutional Packaging System for the tourist management of handcrafted products in that country. In addition, Integral Studio Vinaccia was behind the research, preparation and design for the rediscovery of handcrafted traditions in the individual regions and national states, such as Progetto Incontro for Artesanias de Colombia, conceived to improve the quality of design and packaging of tourist handicrafts. Or the workshops the designers organized in several indigenous South American areas and whose design methodology is currently being used by several national authorities in Brazil, France and Spain. The Vinaccia brothers are also co-founders of the Etno - Handicraft & Design Consulting, an outfit
specialized in reclaiming the tradition of handcrafted creativity in the countries of the southern hemisphere and which implements projects in Brazil, Colombia, Ecuador and Mauritania. Basically, the goal is to achieve packaging and design of products to serve the populaces. But that's not all. The Integral Studio also handles electronic products and biomedical and communications equipment, and strategies for business, artistic coordination and training. Finally, speaking of detergents, Giulio and Valerio were the brains behind Finish Gel, the product that won them the Packaging Star award in 1999.
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design to come up with as quickly as possible: product protection that also conveys a message to the consumer about the type of product and its shipping characteristics. Little by little, this concept has changed, on the need to have a "support" to convey the "intangible" characteristics of the product. In the eighties, companies would give designers very precise instructions about the product design; today, we have to deal with companies that present us with the "product problems" to resolve, which may entail formal design issues, or packaging analysis and evaluation, or perhaps the architecture of the retail store. Following this trend toward "integral design," we have been able to deliver global design consulting services for government bodies in several countries. In a bid to make their national products more competitive, state governments have turned to this type of "holistic" approach. We have been faced with extremely difficult projects, but having enormous significance, such as the Institutional Packaging system, conceived for the Department of Economic Development of Colombia, created to "cover" the entire range of handcrafted products in that country. A total of 1,100 different products had to be protected and an appropriate message conveyed. The job began in 1995 and is still in progress; it has required us to undertake a long and painstaking research, but the results have been very satisfying. We were lucky to have been given a unique opportunity to coordinate a truly "integrated" project, bringing together the interests of raw materials suppliers, manufacturers, shipping agents and retailers. We had to study and design every aspect, from the certificate of origin of the handcrafted products to packaging for the Colombian post office.
Another job that we really enjoyed doing was for the indigenous communities of the Northern Brazilian Amazon (the mountainous Roraima region, that Sir Arthur Conan Doyle described as the Lost World). It may seem a bit odd, but here, packaging is used as a means of exchange for the indigenous peoples, such as the Yanomani and the Macuxi who are not familiar with official currencies. The work group organized by the United Nations needed to employ a series of master craftsmen from various local indigenous communities, but were at a loss as to how to compensate them. In the end, these communities were offered contributions to their economies in the form of a small packaging scheme that would serve to protect their handicrafts through the series of transfers between the most outlying communities and the tourist shops, and at the same time, differentiate and communicate the special, individual qualities of their products. In a matter of a few weeks, we developed a special graphic design and containers in corrugated cardboard that was supported by traditional packaging methods, based on leaves and wood. The result far exceeded our expectations: there was 30% less breakage of the ceramic pieces and more successful sales to foreign tourists, who welcomed the opportunity to learn the history of the products they were purchasing. The project began in 1997 and is still in use by the indigenous communities of Macuxi, Ingaric첫 and Wai Wai, thanks to the sponsorship provided by the Brazilian regional government. Other interesting projects were the ones developed for the Brazilian Ministry of Agriculture. We came up with a packaging system for tropical fruit destined for export and the concept for selling the products of the Agrarian Reform.
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Can we talk about the "era of globalization" in packaging or does each part of the world have and maintain its own specific characteristics? What scenarios do you foresee for the future? I am certain that we should expect a future where the differences in packaging continue to dwindle. Global brands have become an established reality in every part of the world. Of course there are regional variations and these will persist, but the large systems and the most appealing technological innovations will be extended to all markets, in real time. Concrete spaces will continue to exist for the high quality DOC productions, where the designer pores over the package in the finest detail, but I have the feeling that for mass production in Italy, we should expect scenarios reminiscent of Nando Meliconi, Alberto Sordi's character in An American in Rome. When faced with a sandwich with yoghurt and fruit pickle, ordered to satisfy the imaginary needs of an American identity, ends up by falling into his famous line, "macaroni, you tempted me and now I'm gonna eat you". In other words, from research into the "advanced" stereotype to the fall of the local predictability.
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Tell us about a European package and a South American package that you remember most vividly.... I have an indelible recollection of the first bottle of lemon soda (in the 60s, there were no brands) that I ever saw in a bar near my house. I was struck by the ball cap used to seal the bottle and keep the soda carbonated; it seemed almost magical. Unbeknownst to my dear mother, who guarded her bottles jealously, I took a few caps apart before I figured out how they worked. A few years later, lemon soda was given an identity, a brand, and the returnable bottles disappeared, replaced by the common packages with a
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Your "creative spirit" is half South American, seeing as you've worked extensively in Colombia, Peru and Brazil; what observations can you make in terms of the state of packaging in those countries? What are the most conspicuous differences between our packaging system (design, use by the consumer, problems of disposal and as a result, the awareness of its environmental impact)? One of the signals that tells me that I am in a "marginal" country like Colombia or Peru or even Brazil is that on first glance the packaging used for "global" products seems identical the packaging in our Western supermarkets, but a closer look reveals important differences: they don't always work; cartons don't open; the pull tab on the can breaks off before it opens; the film on the jam jar is flimsy; plastic detergent bottles are not completely transparent ... Imperfections in packaging are a symptom of this marginal condition. But in these same countries, alongside this imperfect universe, we find an interesting and innovative assortment of traditional packages: wood boxes or banana leaf wrappers, colorful ceramic pots and jars, paper and paperboard used in a galaxy of ways. Is it only a difference in technologies, then? No, I think it is rather a question of mentalities. Large multinational companies are not inclined to adapt their products to the smaller markets, but instead provide more technologically out-of-date productions. Meanwhile, in many third world countries, a package's life doesn't end once its opened. It is reused and takes new forms for a long time subsequent to its original use (remember how we used to use Nutella jars as glassware for vacation homes?). This is the basic difference. For us, a beautiful packages ceases to have utility after opening, while in other geographic areas, it is reborn once its original use ends.
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corona cap, which came in handy for racing in holes in the sand... As far as South American packaging goes, the most ingenious packaging is the one used for fresh fish. Caribbean fishmongers use a very simple product, the banana leaf. And yet, the banana leaf is waterproof, insulating, flexible and economical. The buyer can walk home with his banana-wrapped packet without a herd of cats following him home. It also holds a special secret: you can cook the fish without added excess fats and give it a special fragrance by placing it directly on the fire, wrapped in its banana leaf. In burning, the leaf creates a protection that prevents the juices and aromas from being lost... The end result is extraordinary, especially if accompanied by pieces of breadfruit and bananas, cooked in the same leaf.
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In 1999, you won the "Packaging Star" award for excellent Italian packaging for your design of the Finish Gel package. Describe this awardwinning packaging for us. The idea was to create a bottle that could be used by either right-handed or left-handed people and people with limited strength (the elderly, handicapped, etc.) could use it with two hands. The result was the Finish Gel package. It has a central handle that is both functional and attention-getting at the same time. The product was well received by the customer and it proved to be very easy to manufacture.
Tell us about a product that bothers you: can you make any specific criticism about a certain product or a particular company or designer in terms of what you deem "poor packaging"? The world of Italian design has a fairly unusual balance of values, hinged largely on the strength of the brand for which a designer works - for example, Alessi has hired very famous designers to design their salt and pepper sets as well others with less name recognition, but who have solid designs under their belts. Still, I don't feel right about passing judgment - all of them try to do their best and there are no first or second level designs. Certainly, if we want to talk about a case of overpackaging, one textbook example to my mind are Mulino Bianco filled cookies (which happen to be my favorites): the outside packaging is in polylaminate, plus a little plastic container for the cookies... maybe they could add an extra package for each individual cookie (how about that for a good idea? I'd suggest a brick) ... ‌ and who (or what) gets the Vinaccia gold medal, and why? My absolute favorite packaging design is the nonpackaging used by the LUSH chain. Shampoo and soaps sold by the ounce, single-use packages for creams blended fresh at the time of purchase. Solid shampoo grated like a piece of cheese on the head of an improbable model ... The diversity in simplicity, essentiality, is the key to improving our daily lives.
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Henkel: un Marchio per Amico Dixan - Vernel - Nelsen - Pril - Perlana - Bref - General - Sidol - Persil Neutromed - Testanera - Antica erboristeria - Bac - Fa - Loctite - Pritt - ma anche La Perla - Sergio Tacchini - Krizia - Fiorucci… Questi sono solo alcuni dei marchi “made by Henkel”, la grande e storica azienda tedesca produttrice di detergenti domestici e industriali.
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L’attuale Henkel venne fondata nel 1876 ad Aachen da Fritz Henkel e dai suoi partners con il nome di Henkel & Cie, e come primo prodotto realizzò una polvere detergente venduta in maneggevoli pacchetti, a quel tempo una novità assoluta. Da
allora, perfezionandoli sempre di più, Henkel non ha mai smesso di offrire saponi liquidi e solidi, polveri, gel, creme, perle, schiume, tavolette, divenendo un marchio protagonista della scena mondiale della detergenza.
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La storia aziendale è lunga e variegata, punteggiata da prodotti che sono entrati nell’immaginario collettivo. Attualmente il gruppo Henkel ha il suo quartier generale a Düsseldorf, ha filiali in più di 75 diversi paesi nel mondo e un totale di circa 45.750 impiegati.
Impackt intervista Loris Sisti, responsabile della Ricerca e Sviluppo Divisione Detersivi - Henkel Italia
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Come è cambiata la detergenza domestica in Europa negli ultimi 50 anni? Negli ultimi 30-40 anni, la detergenza
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domestica è profondamente cambiata, sia per quanto riguarda il bucato che relativamente all’ home care. Nel primo caso driver del cambiamento sono stati l’introduzione, a livello di massa, delle lavatrici e dei detersivi a bassa schiuma studiati appositamente per il lavaggio a macchina; nel caso delle pulizie delle superfici dure, il cambiamento è stato invece legato all’introduzione di detersivi specifici per ogni singola applicazione (pavimenti, vetri, piatti, WC ecc.) che sono andati, progressivamente a sostituire i prodotti tradizionali (candeggina, ammoniaca, alcool, soda ecc.). Negli ultimi decenni la ricerca chimica ha messo a disposizione
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nuove molecole che hanno profondamente cambiato la formula del detersivo per bucato, consentendo prestazioni più elevate a dosaggi inferiori e a condizioni d’impiego - temperatura e durata dei cicli di lavaggio - più blande. Lo sviluppo di sostanze quali gli sbiancanti a base di ossigeno attivo e dei suoi attivatori, così come lo sviluppo dell’industria degli enzimi, ha consentito bucati molto più puliti a temperature molto più basse che in passato. Gli ultimi sviluppi vanno in direzione di una maggior facilità d’uso (detersivi predosati in tavolette) e di maggior flessibilità d’uso (detersivi liquidi). Nel campo dei prodotti per home care si sono affermati, negli ultimi 10 anni, prodotti sempre più specializzati nella funzione d’uso (grandi superfici, piccole superfici, bagno, cucina, vetri etc.) e sempre più curati nelle caratteristiche estetiche (colori, profumi e packaging) con l’obiettivo di rendere
le pulizie di casa, oltre che meno faticose, anche più piacevoli. Quali sono gli scenari futuri dell’home care e della detergenza? La cura dei tessuti, il rispetto dei colori, e la cura e protezione delle superfici (stoviglie, pavimenti), sembrano essere i fattori di successo per i detersivi del futuro. Si conferma inoltre, nell’area dei detersivi per bucato, lo sviluppo di quelli liquidi per i quali si prevede che, nei prossimi anni, raggiungeranno una quota di mercato uguale a quella dei prodotti in polvere. Nel campo dell’ home care si assiste all’affermarsi di prodotti pronti all’uso e di sistemi completi per la pulizia delle grandi superfici (panni detergenti a secco e ad umido). Nell’ambito del lavaggio in lavastoviglie si stanno affermando prodotti sempre più sofisticati, i cosiddetti “multifunzione”, che rispondono all’esigenza di semplificare al massimo le operazioni
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inerenti all’uso della macchina, a questa caratteristica affiancano, inoltre, una superiore cura delle superfici delicate (ad esempio, la nuova formula di Pril 3 in 1 è studiata per garantire la massima protezione dei bicchieri senza bisogno di ulteriori additivi)
HENKEL E PACKAGING DESIGN Usate maggiormente il packaging per scopi comunicativi e d’immagine (cioè a fini promozionali) o per scopi funzionali legati alla produzione, alla logistica, al trasporto? Entrambi gli approcci per quel che riguarda la forma; l’attenzione è più focalizzata sull’aspetto tecnico per i prodotti più funzionali, mentre l’aspetto estetico e comunicazionale è più importante per i prodotti che devono veicolare benefit più emozionali come gli ammorbidenti (Perlana ecc.)
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Ci può raccontare una case history di successo legata al vostro packaging e, viceversa, un esempio di packaging mal riuscito o problematico? Un esempio di successo è sicuramente l’operazione di restyling fatta sulla marca Nelsen; si è passati da un flacone in PE cilindrico con etichette serigrafate ad un più moderno flacone in PET, sia trasparente che bianco, con un tappo salvagocce di nuova concezione. La nuova forma, il materiale più ricco, il tappo, sono elementi che hanno contribuito al successo che la brand sta avendo sul mercato. Un caso problematico è stata, invece, la “bottiglia leggera” ideata per il lancio di Atlas; Coerentemente con il posizionamento ecologico della brand, anche il packaging era stato progettato per essere all’avanguardia relativamente all’impatto ambientale. Era nato quindi un flacone leggero in PE (circa 50% meno plastica rispetto
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Globalizzazione o no, ci sono differenze di approccio e di prodotto nelle varie regioni del mondo e quali? Sì, ci sono differenze tra i vari mercati, alcune dovute alle abitudini dei singoli paesi, altre alle condizioni economiche e al livello di sviluppo. Rispetto alle abitudini ci possono essere, ad esempio, modalità di lavaggio particolari che si riflettono sulle caratteristiche delle formulazioni del detersivo e sulle condizioni operative del lavaggio; un esempio è il Giappone, dove è molto diffuso il pre-trattamento delle singole macchie; di conseguenza le prestazioni richieste al detersivo ed alla lavatrice sono molto inferiori a quanto accade da noi. Le condizioni economiche e di sviluppo del paese impattano, invece, sulla tipologia di prodotti offerti. Nei paesi del terzo mondo il lavaggio automatico è poco diffuso, il mercato è quindi fatto da prodotti adatti al bucato manuale, in genere con formule povere rispetto agli standard europei ed in confezioni più piccole per minimizzare il prezzo d’acquisto. Esistono poi differenze generate da particolari restrizioni nell’uso degli ingredienti, ad esempio, in Italia il limite di fosfati è molto basso - <1% come fosforo nei detersivi per bucato e <6% in quelli per lavastoviglie - mentre in altri paesi, anche europei, questa limitazione non esiste; ne segue che
le formule italiane, almeno per i saponi da lavastoviglie sono diverse da quelle presenti nel resto d’Europa.
UNA STORIA FATTA DI PRODOTTI • 1987 - Primo detersivo per bucato senza fosfati (prima della legge 7/87). • 1990 - Linea Atlas, prima linea di detersivi con tensioattivi completamente, rapidamente e facilmente biodegradabili, ottenuti da materie prime rinnovabili e con packaging a minor impatto ambientale: ridotto quantitativo di plastica e facilità di riciclaggio. • 1991 - Primo detersivo per lavastoviglie in tabs (Germania). • 1993 - Henkel ha introdotto per prima il concetto di refill per i detersivi in polvere. • 1995 - Primo detersivo concentrato in gel. • 1993 - Dixan Megaperls detersivo per lavatrice in perle concentrate (estruso). • 1997 - Dixan Tabs primo detersivo per lavatrice concentrato in tavolette predosate. • Prima Tavoletta per WC in gel. • 1999 - Pril 2 in 1 primo detersivo lavastoviglie in tabs multifunzione. • 1998 - Vernel Mini ammorbidente concentrato 4x in busta di plastica. • Primo pulitore WC in schiuma spray. • 2002 - Primo detersivo per lavatrice in polvere completamente solubile. A STORY MADE BY PRODUCTS • 1987 - First washing powder without phosphates (before the law of 7/87). • 1990 - The Atlas line, the first line of detergents with completely, quickly and easily bio-degradable active ingredients, obtained from renewable ingredients and in packaging with minimal environmental impact: reduced amount of plastic, easily recyclable. • 1991 - First detergent for dishwashers in tab form (Germany). • 1993 - Henkel were the first to introduce the concept of refills for detergent in powder form. • 1995 - First concentrated gel detergent. • 1993 - Dixan Megaperls detergent for washing machines in concentrated granule form (extruded). • 1997 - Dixan Tabs: the first concentrated washing machine detergent in pre-measured tablet form. • First gel tablet for toilets. • 1999 - Pril 2 in 1: the first dishwasher detergent in multifunction tab form. • 1998 - Vernel Mini 4x concentrated fabric softener in plastic bag. • First toilet cleaner in a foam spray. • 2002 - First totally soluble detergent powder for washing machines.
ai flaconi tradizionali) di sezione quadrata, rivestito da una struttura in cartoncino che aveva lo scopo di sostenere il flacone. La parte in plastica e quella in cartoncino erano facilmente separabili per facilitare la raccolta differenziata. La particolarità del flacone ha sicuramente rappresentato un elemento distintivo della brand, ma il design forse troppo essenziale e la difficoltà di comunicare, attraverso l’etichetta e la pubblicità, il concetto che caratterizzava l’imballo, ha probabilmente costituito un freno all’affermazione sul mercato. Chi disegna i vostri imballaggi? A Düsseldorf esiste un centro di progettazione e design dei nuovi imballaggi, ma ci avvaliamo spesso dell’apporto creativo di agenzie esterne. Per prodotti come Nelsen piatti o Bref quanto dura mediamente un packaging prima che venga sostituito da una nuova forma di contenitore? Il packaging, come la formula del prodotto, sono soggetti a continue opere di manutenzione, ad esempio il flacone di Nelsen, nato nel 2001, ha già subito tre modifiche rilevanti dal punto di vista sia estetico che funzionale; il flacone di Bref, lanciato nel 1996, è stato cambiato nel 2002, senza subire modifiche di rilievo, almeno dal punto di vista del consumatore.
Quali sono le aziende concorrenti della Henkel e con quali prodotti? Il competitor principale varia da marcato a mercato; il concorrente più importante, perchè gioca con noi sul mercato più importante è sicuramente P&G (Dash / Ace /Bolt), ma competiamo anche con Unilever (detersivi per piatti a mano ed ammorbidenti), ReckittBenckiser (Light Duty, e prodotti per lavastoviglie ) e Colgate Palmolive (Light Duty)
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Sonia Pedrazzini, è designer e si occupa di cultura del packaging. E’ coordinatrice del Master in Packaging presso l’Istituto Europeo di Design di Milano.
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E il packaging ha un ruolo importante in questa competizione? Certamente. Attraverso il packaging il prodotto comunica le sue caratteristiche sia estetiche che funzionali. Un nuovo flacone deve essere progettando tenendo conto di molti fattori: la categoria di prodotto a cui è destinato, l’handling del flacone, la macchinabilità ecc…
La Henkel persegue progetti legati alla sostenibilità ambientale, agli aiuti umanitari o a campagne di solidarietà sociale e quali? La consapevolezza di una precisa responsabilità sociale delle aziende e delle notevoli ripercussioni che le scelte di un’industria possono avere sulla società accompagna da sempre l’attività di Henkel. Tra le prime imprese al mondo a firmare nel 1991 la Carta per lo Sviluppo Sostenibile della Camera di Commercio Internazionale, Henkel si è posta come obiettivi prioritari non solo la crescita del business e dei profitti ma anche qualità, salvaguardia dell’ambiente, della sicurezza, della salute dei dipendenti e del loro benessere in generale.
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Henkel: a Band like a Friend Dixan - Vernel - Nelsen - Pril - Perlana Bref - General - Sidol - Persil Neutromed - Testanera - Antica erboristeria - Bac - Fa - Loctite - Pritt but also La Perla - Sergio Tacchini Krizia - Fiorucciâ&#x20AC;Ś These are just some of the brands made by Henkel, the large and famous German company producing household and industrial detergents. Sonia Pedrazzini Henkel was founded in 1876 in Aachen by Fritz Henkel and his partners under the name of Henkel & Cie, and its first product was a detergent powder sold in manageable packets, a complete novelty at that time. Since then, developing all the time, Henkel has never ceased producing liquid and solid soaps, powders, gels, cremes, granules, foams and tablets, becoming a leading brand on the world detergents scene.
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The history of the company is long and varied, marked by products which have entered the collective imagination. At present, the Henkel group has its headquarters in DĂźsseldorf, with subsidiaries in 75 countries of the world and a total of 45,750 employees.
Impackt interviews Loris Sisti, director of the Detergent Research & Development Division Henkel Italia
HENKEL AND SOCIAL CLEANING How has household cleaning changed in Europe in the past 50 years? In the last 30-40 years, domestic cleaning has changed profoundly, both clothes washing and home care. In the first case, the driving force behind the change has been the introduction, at a mass level, of washing machines and low-suds detergents specifically designed for machine washing; in the case of cleaning hard surfaces, the change has been linked to the introduction of specific cleansers for every application (floors, glass, crockery, toilets, etc.) which have steadily replaced traditional products (bleach, ammonia, alcohol, soda, etc.). In the last decades, chemical research has made available new compounds which have profoundly changed the formulation of washing powders, allowing higher performance with smaller quantities and in less severe conditions temperature and length of washing cycle. The development of substances such as bleaches based on active oxygen and its activators, and the development of the enzymes industry, have resulted in washing powders which are much cleaner at much lower temperatures than in the past The latest developments are moving towards greater ease of use (pre-measured detergents in tablet form) and with greater flexibility of use (liquid detergents). In the field of home care products, in the last 10 years ever more specialised products have made their mark (large surfaces, small surfaces, bathrooms, kitchens, glass, etc.) and with ever more attention to their aesthetic characteristics (colors, perfumes and packaging) with the aim of making house-cleaning not only less tiring but also more pleasant.
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What is the scenario for the future of home care and detergents? Care of fabrics, respect for colors, and the care and protection of surfaces (crockery, floors), seem to be the success factors for the detergents of the future. Also, in the area of detergents for washing clothes, there has been a marked development of liquids, which in the next few years will enjoy a market share equal to that of powders. In the field of home care, there is a move towards ready-to-use products and complete systems for the cleaning of large surfaces (dry and wet detergent cloths). Where dishwashers are concerned, products are becoming more and more sophisticated, the socalled â&#x20AC;&#x2DC;multifunctionâ&#x20AC;&#x2122; tablets, which are a response to the need to simplify to the maximum the operations involved in using the machine. Alongside this characteristic are also greater care of delicate surfaces (for example, the new formula of Pril 3 in 1 is designed to ensure maximum protection for glassware without the need for further additives).
HENKEL AND PACKAGING DESIGN Do you use packaging more for communication and image (in other words, for promotional ends) or for functionality linked to production, logistics and transport? Where the shape is concerned, both approaches are important; attention is more focussed on the technical aspect in the more functional products, while the aesthetic and communicative aspect is more important for products which must carry more emotional benefits, such as fabric softeners (Perlana etc.)
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Could you tell us a case history linked to your packaging and, on the other hand, an example of packaging which did not go well or was problematical? Certainly an example of a success was the restyling operation on the Nelsen brand; this went from a cylindrical PE bottle with a silk screen printed label to a more modern PET bottle, both transparent and white, with a brand new design
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Globalisation or not, are there differences of approach and products in different parts of the world and if so, which? Yes, there are differences between the various markets, some due to the habits in individual countries, others to economic conditions and level of development. Where habits are concerned, for example, there may be special ways of washing which reflect on the characteristics of the formulation of the detergents and on the operating conditions of the wash. An example of this is Japan, where pre-treatment of individual stains is very widespread; consequently the performance demanded of the detergent and the washing machine is much less then here.
The economic conditions and development of the country, however, impact on the type of product offered. In third world countries, machine washing is fairly rare, so the market consists of products suitable for hand washing, usually with less advanced formulas compared with the European standard and in smaller packs to reduce the purchase price. Then there are differences caused by special restrictions on the use of some ingredients. For example, the limit for phosphates in Italy is very low - <1% phosphorus in washing detergents and <6% in those for dishwashers - while in other countries, even in Europe, this limitation does not exist. It follows that the Italian formulas, at least for dishwasher detergents, are different from those in the rest of Europe.
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of drip-proof cap. The new shape, the higher quality material and the cap are elements which have contributed to the success the brand is enjoying in the market. However, a problem case was the ‘light bottle’ designed for the launch of Atlas; In line with the environmental aims of the brand, the packaging was also designed to be in the forefront with regard to environmental impact. So a light, square-section bottle was designed in PE (about 50% less plastic than traditional bottles) covered in card to support the bottle. The plastic and card parts could be easily separated to facilitate differentiated collection. The special features of the bottle were certainly a distinctive element of the brand, but the design may have been a little austere and the difficulty of communicating, through the label and through advertising, the concept which characterised the packaging, probably resulted in its slow acceptance by the market.
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Who designs your packaging? In Düsseldorf we have a planning and design centre for new packaging, but we often take advantage of contributions from outside companies. For products such as Nelsen piatti or Bref, how long on average does packaging last before it is replaced by a new shape of container? The packaging, like the formula of the product, is subject to continual review, for example the Nelsen bottle, dating from 2001, has already undergone three important changes from both an aesthetic and functional point of view. The Bref bottle, launched in 1996, was changed in 2002, without the changes being substantial from the consumer’s point of view.
Which companies are the main competitors for Henkel and with which products? The main competitor varies from market to market; the main competitor, because it vies with us for the most important market, is definitely P&G (Dash / Ace /Bolt), but we also compete with Unilever (washing up liquids and fabric softeners), Reckitt-Benckiser (Light Duty, and products for dishwashers ) and Colgate Palmolive (Light Duty) And does packaging play an important part in this competition? Certainly. The product communicates its characteristics, both aesthetic and functional, through its packaging. A new bottle must be planned keeping in mind several factors: the category of product it is intended for, the handling of the bottle, its machinability, etc.). Is Henkel pursuing projects linked to environmental sustainability, to humanitarian aid or to campaigns of social solidarity, and if so, which. Awareness of the companies’ definite social responsibility, and the important repercussions the choices of an industry can have on society are always a part of Henkel’s activities. Of the three companies worldwide to sign the International Chamber of Commerce Charter for Sustainable Development in 1991, Henkel put as a priority not only growth of business and profits, but also quality, environmental protection, safety, the health of its employees and their general wellbeing. Sonia Pedrazzini is a designer involved with the packaging culture. She is co-ordinator of the Master in Packaging qualification at the Istituto Europeo di Design, Milan.
design box
L’Igloo del Buon Risveglio
Allo scorso Salone del Mobile, Giulio Iacchetti e Matteo Ragni hanno stupito il pubblico con Breakfast Landascape, un igloo realizzato con 1.000 contenitori del latte e concepito come un luogo ideale per consumare la prima colazione. L’iniziativa è
stata sostenuta da Label, Lavazza e Tetra Pak Italia. Nelle intenzioni dei designer, Breakfast Landascape è una sorta di camera di decompressione per rendere più graduale e meno traumatico il trapasso dal sonno alla veglia, dalla notte al giorno,
dal buio alla luce: una scatola che contiene una scatola più piccola, un bozzolo sicuro, quasi l'esemplificazione di un grembo materno in cui cercare ancora un po’ di tepore prima di rinascere e uscire per affrontare le sfide della giornata.
Good Morning Igloo decompression chamber, to make the changeover from sleep to wakefulness, from night to day, from dark to light less traumatic: it is a box that contains a smaller box, a safe cocoon, almost an example of a maternal womb in which one still seeks a bit of warmth before being rebirthed and going out to face the challenges of the day.
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At the last Milan Salone del Mobile, Giulio Iacchetti and Matteo Ragni amazed the public with Breakfast Landscape, an igloo made of 1,000 milk containers and conceived as an ideal place for having ones breakfast. The undertaking was supported by Label, Lavazza and Tetra Pak Italia. In the designer’s intentions, Breakfast Landscape is a sort of
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tools Image courtesy Monte Clark Gallery, Vancouver & Toronto
Wal-Mart store (Tide) Burnaby B.C. ,1996
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Roy Arden. Note sulle Foto Wal-Mart «Le fotografie della serie WalMart sono parte di un corpus fotografico che riguarda ciò che ho deciso di chiamare “paesaggio economico”. Ero interessato alla modernità, a come le forze globali e storiche possono venire lette attraverso la superficie della quotidianità. Il cubo “minimalista”di prodotti, impilati su pallet, ci parla di una razionalizzazione totale della merce e del consumo. E’ agghiacciante, lo accettiamo perché vende, ma da qualche parte, intimamente, ne
conosciamo i costi. Non posso fare a meno di guardare una pila di sedie di plastica economiche, per esempio, senza pensare all’operaio in Cina, o da qualche altra parte, che sostiene il basso costo di produzione col suo lavoro sottopagato. La razionalizzazione della produzione è anche sempre razionalizzazione del lavoro - e della vita della gente. Questo tipo di grande magazzino in particolare sembra riflettere il nuovo capitale globale.
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Wal-Mart Store (Apple Jacks) Burnaby B.C. ,1996
piuttosto che indagare la realtà economica più ampia. Con le foto della serie Wal-Mart, ero interessato a mantenere i prodotti nel loro contesto, il grande magazzino - dove restano connessi al mondo vero e proprio». R.A.
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Gli artisti pop come Warhol avevano già investigato il mondo del packaging. Sappiamo come il packaging sia pensato per sedurre, per saziare il desiderio giusto il tempo che serve per pagare il conto. Gli artisti pop prendevano l’energia di queste forme e le re-impacchettavano come arte. Le rimuovevano dal contesto dell’economia quotidiana e le collocavano nel rarefatto mondo dell’arte alta. Era un gioco di valori che metteva in questione le gerarchie dell’arte bella
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Wal-Mart Store (Plastic Stools) Burnaby B.C. , 1996
Roy Arden (Vancouver, 1957) è un artista canadese che, dagli anni 80, lavora con la fotografia e il video sui panorami della contemporaneità, nello stile di illustri connazionali come Jeff Wall. Le sue prime serie - Fragments, 1981/85 - riguardavano edifici completamente crollati, piuttosto che pile di mobili distrutti - in altre parole, la merce alla fine del suo ciclo vitale, quel momento magico in cui, per dirla con Deleuze, gli oggetti cessano di “essere utili” per cominciare
semplicemente a “essere”. Tuttavia, la serie Wal-Mart ispirata, come appunto dice il titolo, alla celebre catena nordamericana di grande distribuzione - ha segnato una svolta rilevante nel suo lavoro. Esposta alla prestigiosa mostra Shopping, tenutasi a Londra e a Francoforte nello scorso 2002, (cfr. recensione del catalogo nel bookbox) ha immediatamente attirato l’attenzione degli esperti d’arte e del pubblico.
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Wal-Mart Store (Royale) Burnaby B.C. ,1996
La forza delle immagini sta nella loro ripetitiva serialità, ma anche nella loro apparente, disarmante semplicità, che è in realtà frutto di un accurato studio dell’inquadratura e della qualità visiva, come testimonia il fatto che la foto restituisce perfettamente il fulgore dei neon in uso nei supermercati.
Serialità e semplicità che fanno capire come il lavoro di Roy Arden non sia quello di un fotoreporter, ma sia piuttosto vicino ai grandi della fotografia “documentaria” come Eugene Atget o Walker Evans. M.S.
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Roy Arden. Notes on the Wal-Mart Photographs
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«The Wal-Mart photos are part of a body of photographs concerned with what I call the “landscape of the economy”. I was interested in modernity, in how global, historical forces can be read through the surface of the everyday. The 'minimalist' cubes of products, stacked on palettes, speak of a total rationalization of production and consumption. It is frightening, we accept it because it delivers, but somewhere inside we know the costs. I can't look at say, a stack of cheap plastic chairs, and not think of the worker in China, or wherever, who subsidized the low retail cost with their underpaid labor. The rationalization of production is also always the rationalization of labor - of people's lives. This kind of store in particular seems to reflect the new global capital. The pop artists like Warhol already investigated the world of packaging. We know how packaging is engineered to appeal, to sate desire for just as long as it takes to pay for the product. The pop artists took the energy of these forms and repackaged them as art. They removed them from the context of the everyday economy and placed them in the rarified world of high art. It was a game of values that was more about questioning the hierarchies of fine art than interrogating the larger economic reality. With the Wal-Mart photos, I was interested in keeping the products in context, in the store - where they are still connected to the larger world». R.A.
Roy Arden (Vancouver, 1957) is a Canadian artist who, since the Eighties, has worked with photography and video on contemporary panoramas, in the style of illustrious compatriots such as Jeff Wall. His first series - Fragments, 1981/85 - concerned buildings which had totally collapsed, and piles of wrecked furniture-in other words merchandise at the end of its life cycle, that magic moment in which, to use Deleuze’s words, objects cease to “be useful” and simply begin to “be”. However, the Wal-Mart series-inspired, as the title says, by the famous North American large scale distribution chain- marked an important turning point in his work. Exhibited at the prestigious Shopping exhibition, held in London and Frankfurt in 2002 (cf. review of catalogue in the bookbox) it immediately drew the attention of art experts and public. The strength of the images lies in their repetitive seriality, but also in their apparent, disarming simplicity, actually the result of a careful study of framing, and their visual quality, proved by the fact that the photo flawlessly depicts the dazzle of neon used in supermarkets. This seriality and simplicity show how Roy Arden’s work is not the work of a photojournalist but something more akin to the “greats” of “documentary” photography such as Eugene Atget or Walker Evans. M.S.
Photo by Erica Ghisalberti
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Lo sporco, un nemico da combattere a tutti i costi e con ogni detersivo.
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La Guerra del Pulito
Marco Senaldi
“Bolt due in uno è conveniente/risparmia i soldi dell’ammorbidente” ulula la schiera dei marinai in stile NATO, sulla greve cadenza delle canzoni dei marines - cadenza che abbiamo imparato a riconoscere grazie a pellicole come M.A.S.H., Ufficiale e gentiluomo o Soldato Jane. In questo caso l’associazione detersivo-ambiente militare è giocata sui rimandi cinematografici, il bianco delle T-shirt e delle divise marinaresche parla da sé, così come lo sguardo severo del comandante incarna quello, forse anche più esigente, della scrupolosa massaia. Ma ciò che qui si traveste da ironia, non sa nascondere il fatto per niente ironico per cui le radici immaginarie della detersione moderna affondano in maniera organica nell’ideologia bellica. Fin dall’inizio, la parte più interessante dei messaggi pubblicitari dei detersivi (o dei detergenti per la casa) era la visualizzazione dell’azione pulente in sé - quasi sempre si vedeva la macchia,
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ingrandita enormemente, sollevarsi controvoglia, le fibre si allargavano, e hop, lo sporco non c’era più. Non lo sapevamo, ma cominciava un’era: quella della Guerra del Pulito. L’ingrandimento dell’area da colpire non è un dettaglio secondario. Lo sporco, da ente generico e difficilmente individuabile, divenne, tramite le prime pubblicità tv dei detersivi, un fenomeno preciso, localizzabile, con una tipologia differenziata (sporco grasso, macchie particolari, polvere, ecc.), nei confronti del quale era necessario attrezzarsi con una strumentazione specifica, che siglava la fine dei rimedi “casalinghi”. Nasceva di conseguenza una geografia dello sporco: che non si annidava in modo indeterminato ovunque, ma deteneva i suoi capisaldi, aveva le sue aree d’influenza e i suoi luoghi deputati, le famose “zone difficili” (colletto, polsini, nella biancheria; incrostazioni su pentole e piatti; angoli morti, sui pavimenti, o scanalature, tra le piastrelle, ecc.). L’attacco allo sporco avveniva dunque dall’alto, come in una operazione bellica aerea, ma anche “in profondità”, in modo da non “lasciare aloni”. Lo sporco era ormai assimilato ad un obiettivo militare, da aggredire e distruggere con decisione e senza pietà, tramite tecnologie affidabili e invincibili (“Elimina lo sporco già alle basse temperature”). E l’eliminazione doveva risultare risolutiva, senza compromessi, riedizione consumer-like della “soluzione finale”. Già nella connotazione “che più bianco non si può”
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si celava del resto un’affermazione di principio. Se il Pulito rappresenta la parte buona (i nostri, vs il nemico), il Bianco è un’aperta metafora dell’Occidente, ma anche l’ultimo rifugio occulto della - apertamente - osteggiata ideologia della razza. La metafora si è fatta via via più stringente. Mentre negli anni ‘70 l’Occidente americanizzato non ce la faceva, neanche a forza di napalm, a “cancellare lo sporco” dalla superficie vietnamita, in tv colpi di spugna risolutivi annientavano il grasso in cucina, schiume misteriose ma implacabili scioglievano l’unto nei punti critici come il minaccioso interno di un forno, detersivi di ogni tipo distruggevano le “macchie difficili” - sudore, sugo, erba, fango, un catalogo talmente rivoltante di schifezze da sperare magari in un Tornado Bianco, sottotitolo del mitico detersivo Ajax, abbinata che rimanda da un lato ad Aiace Telamonio, l’eroico combattente dell’Iliade, dall’altro al nome di un caccia da combattimento, il Tornado, appunto. Per ottenere l’effetto bianchezza non si utilizzavano, del resto, agenti al fosforo, che è un componente di alcuni esplosivi? È anche interessante notare come la messa fuori gioco del vecchio sapone sia avvenuta parallelamente all’affermarsi dei nuovi detersivi in polvere, i quali però non solo risultavano più moderni, pratici, adeguati ai nuovi sistemi di lavaggio, ma soprattutto nascondevano in se stessi un surplus detergente che ne costituiva insieme la ragion d’essere e il mistero - granelli azzurri, “agente attivo”, “forza sbiancante”, enzimi chimici, carbonati, candeggianti, perborati, tutto un repertorio di “armi segrete” che si modellavano sull’immaginario spionistico della Guerra Fredda. Quando questo immaginario ha ceduto, insieme alle ragioni storiche che lo avevano nutrito, anche le metafore pubblicitarie dei prodotti di pulizia sono cambiate. Le memorabili conferenze stampa del generale Schwarzkopf all’epoca della Guerra del Golfo (1991), in cui venivano mostrate le immagini video della soggettiva delle bombe intelligenti che annientavano l’obiettivo, dovevano lasciare il
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segno. Del resto, se un generale si chiamava come una multinazionale del pulito (Schwarzkopf = Testa Nera…), perché l’immaginario della detergenza non avrebbe dovuto riprendere le metafore della guerra vera e propria? Alla stregua dei nuovi armamenti, ecco nascere i detersivi intelligenti, muniti di “microgranuli” in grado di sciogliere lo sporco “lasciando intatte le fibre” e i “capi delicati”. Basta con il motto “più bianco non si può” ed ecco il via alla “lotta contro lo sporco invisibile”, ossia non più semplicemente la “macchia”, ma il batterio, potenziale agente epidemico. Se prima lo sporco era difficile ma, almeno per l’occhio esperto, visibile, ora i due capi posti a confronto sono visibilmente identici, ma uno solo “è davvero pulito” perché “disinfettato”, come mostra l’analisi al microscopio. Al bombardamento “chirurgico” (aggettivo che già denuncia l’adesione ad una ideologia medicale)
corrisponde il detersivo chirurgico, che non solo liquida lo sporco ma ne estirpa la latente minaccia di contagio. La biancheria irradia aureole di pulito, le fibre “splendono”; le macchie non si limitano banalmente a sciogliersi: vengono letteralmente cancellate da fantascientifici raggi ultrapotenti e che “vedono” lo sporco, o addirittura lo “catturano”. È il trionfo dei prodotti “mirati” (per capi colorati, o anche neri), superconcentrati (ne basta poco), ricaricabili, e, nel campo dei detersivi per lavatrici, è l’epoca delle famose “palline” da inserire direttamente tra la biancheria nel cestello - veri e propri ordigni del pulito che sembrano quasi dotati - come le bombe intelligenti - di una autonomia e di una volontà proprie. Oggi, infine, nell’epoca delle guerre non solo ragionevoli ma persino “umanitarie” (Kossovo, 1999; Afghanistan, 2002; Iraq, 2003), al sogno-bisogno di pulito si aggiungono altre valenze,
come quelle di combattere per motivi eticamente buoni, ossia di fare guerra, sì, ma con la “coscienza pulita”. Ed ecco le campagne umanitarie lanciate dalle marche più famose (Dixan devolve parte del prezzo d’acquisto a favore di scuole, Dash addirittura lancia la Missione Bontà), o il ritorno inatteso delle buone vecchie abitudini di un tempo (il recupero del sapone di Marsiglia sotto varie forme), o addirittura il richiamo ad una possibile alternativa completamente ecologica e “pacifica” alla vecchia “guerra del pulito” - come nel caso dell’anziano detersivo Sole, sapientemente tornato alla ribalta in uno spot che ammicca in modo evidente all’immaginario di un “pulito equo e sostenibile” (il “Sole che ride” era del resto il simbolo del partito dei Verdi), perché (come recita lo slogan) “chi scopre il Sole non lo lascia più”. Ma forse è un insano pentimento del guerriero che davvero - come sostiene Vanni Codeluppi nel suo articolo arriva troppo tardi per essere anche solo credibile. Marco Senaldi, filosofo e critico d’arte ha pubblicato Enjoy! il godimento estetico, Meltemi, 2003, e ha curato il catalogo e la mostra Cover Theory. L’arte contemporanea come reinterpretazione, Scheiwiller, 2003.
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The War on Dirt Dirt, the enemy to beat at all costs and with every detergent.
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Marco Senaldi â&#x20AC;&#x153;Bolt two-in-one is economical and saves money on fabric softener," shouts a line up of NATO-style Marines, to the distinctive rhythm of military chants a rhythm that we have learned to recognize thanks to movies such as M.A.S.H., An Officer and a Gentleman, and G.I. Jane. In this case, the detergent - military environment nexus is played up effectively by the film references, while the brilliant white of the T-shirts and the pristine marine uniforms speak for themselves. The nononsense stare of the commander seems perhaps even more demanding than even the most scrupulous housewife. But though this ad is a tongue in cheek parody, it cannot hide the anything but ironic fact that the imaginary roots of modern cleansing are deeply entrenched in wartime ideology. Right from the early days, the most interesting part of advertising messages for detergents (and household cleaning products) was the visualization of the cleaning action itself - commercials invariably showed an oversize washing machine churning and swirling, making the clothing fibers open up and voilĂ , the dirt disappeared. We didn't know it at the time, but this was the dawn of an era: the onset of the War on Dirt. The magnification of the area to strike was not an unimportant detail. Dirt and soiling was transformed by the early TV detergent ads from a generic and difficult to identify entity into a clear-cut, locatable phenomenon taking distinct forms (greasy dirt, tough stains, dust, etc) against which the housewife had to arm herself with
specific weapons, marking the end of "home grown" remedies. As a result, a geography of dirt was born: specific kinds of stains that came to roost in specific strongholds. This new generation of dirt had its own spheres of influence and its own representative areas, the famous "hard-to-clean" zones (collar, cuffs, household linens; crusty dirt on pots and pans; hard to reach corners on floors or grooves and grout between tiles, etc). The offensive against dirt was launched from above, like in a wartime air assault operation, and "down deep," so as to not leave streaks or smudges. Dirt became akin to a military objective, to strike and destroy with determination and mercilessly, using the highest, most reliable and invincible technologies ("Gets rid of dirt, even at low temperatures"). And the destruction had to be complete, without compromises, in a consumer-like revival of the "final solution." The timeless mantra "as white as white can get" concealed the confirmation of a principle. If Clean represented the allied forces (meaning us, against the enemy), then White is an open metaphor for the West, but also the last hidden refuge of the openly - contested ideology of race. The metaphor continued to be embraced more closely. In the 1970s, while the Americanized West was no longer able to "eliminate the dirt" from the Vietnam landscape, even by force of Napalm, on the television, a few quick and determined swipes did away with kitchen dirt and germs, mysterious but relentless foams melted away the grease in critical areas like the threatening inside of an oven. Detergents of every stripe sought out and destroyed the "toughest stains": perspiration, tomato sauce, grass, mud ... faced with such a revolting list the housewife was left helpless to rely on her White Tornado, the moniker of the mythical Ajax detergent. The name brings to mind both Ajax Telamon, the heroic combatant of the Iliad, and the name of the Tornado fighter plane. After all, to achieve such whiteness didn't these detergents use phosphorus,
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contagion. Household linens radiate auras of clean, their fibers "glisten"; stains are not merely liquefied, they are literally terminated by ultra-powerful rays and in the finest science fiction writing style, detergents "detect" the dirt or even "capture" it. We are witnessing the rise of "targeted" products (for colors, or black garments). In the washing detergents sector, new super-concentrates (just a drop will do), refillable products, and innovative new detergent "balls" to toss directly into the washing drum - bona fide cleaning "grenades" - work like intelligent bombs and seek and destroy dirt completely automatically. Today, in the age of wars that are not only reasonable, but even "humanitarianâ&#x20AC;? (Kosovo, 1999; Afghanistan, 2002; Iraq, 2003), other values are added to the desire-need for clean, such as the importance of fighting for ethical reasons. In other words, make war, but with a "clean conscious." The most famous brands have launched humanitarian campaigns (Dixan allocates part of its retail price to public schools, while Dash has initiated its "Mission of Kindness") or the unexpected return of bygone traditions (a renewed use of vegetable soap in its various forms), or even the reference to a possible completely ecological and "peaceful" alternative to the old "war on dirt." Take Sole for example, a traditional favorite that has deftly returned to the limelight in an ad that makes references to its core principle of providing an "honest and sustainable clean" (the "smiling sun" symbol was also used as the emblem for the Green Party) because (as the slogan goes) "when you find the sun, its yours forever." But perhaps it is an irrational change of heart of the warrior who - as Vanni Codeluppi argued in his article - comes too late to be credible.
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Marco Senaldi, philosopher and art critic, has published Enjoy! Il godimento estetico, Meltemi, 2003, and edited the catalogue for Cover Theory. Contemporary Art As Reinterpretation, Scheiwiller, 2003.
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an important ingredient in some explosives? It is also interesting to note how traditional soap products have been retired in parallel with the rise of new powder detergents, which are not only more modern, more practical, and more appropriate to modern washing systems, but more importantly, hide within an additional detergent that is both the raison d'etre and the mystery - blue crystals, "active ingredients," "whitening power," chemical enzymes, carbonates, bleaching products, and perborates, an entire repertoire of "secret weapons" that were modeled on the espionage ambience of the Cold War. When this imagery finally fell to the wayside, along with the historic reasons that had fuelled it, the advertising metaphors used for cleaning products changed. Remember those powerful press conferences of General Schwarzkopf during the Gulf War (1991), when our TV screens were bombarded by images of carefully edited shots of smart bombs that annihilated the objective, but left nary a mark on the land. On the other hand, when a general bears the name of cleaning product multinational (Schwarzkopf = Testa Neraâ&#x20AC;Ś), how could the imagination of cleaning not pick up on the metaphor of the real war? By the same standards of the new weapons, we witnessed the inception of new intelligent detergents, complete with "micro-pellets" able to liquidate dirt, "leaving the fibers intact" and perfect for "delicate garments." Out with the slogan "as white as white can be" and in with the "fight against invisible dirt." In other words, we are no longer facing stains, but bacteria, a potential epidemic agent. In the past, dirt was difficult, but at least it was visible to the naked eye. Now two garments placed side by side seem identical, but only one is "truly clean" because it is also "disinfected," proven by microscopic analyses. The surgical bombing (an adjective associated with the medical philosophy) corresponds to the surgical detergent that not only liquidates dirt, but eradicates the latent threat of
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La Mamma dell’Assass L’ossessione del pulito come desiderio di un azzeramento del passato e di una ritrovata purezza da cui ripartire.
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Antonio Piotti
Ci sono due immagini che mi vengono alla mente quando penso al pulito, alla macchia da cancellare, al sapone o ai detersivi. La prima è classica, shakespeariana, e rimanda all’idea che ci siano alcune macchie non cancellabili. Nessun sapone può cancellare il delitto commesso, la traccia è condannata a rimanere, come una lettera scarlatta incisa sul corpo perché la colpa merita una punizione ed un ricordo eterni. Non vale a nulla allora affannarsi a lavare e a strofinare: ciò che è, è per sempre, e bolla l’esistenza. Persino quando il delitto-trauma è del tutto dimenticato dall’individuo, esso non smette di ripresentarsi come sintomo, come segno che ritorna dal rimosso. Addirittura, in una particolare struttura nosografica, quella che oggi va sotto il nome di “disturbo ossessivo compulsivo”, non assistiamo soltanto al ritorno della colpa nelle vesti del sintomo, ma anche al farsi sintomo del tentativo stesso di dimenticarla. La patologia consiste allora nel lavarsi continuamente, ossessivamente, decine e decine di volte al giorno, nel percepirsi sempre sporchi, impresentabili, anche dopo inesauribili lavacri e profumazioni; nel
ino
giuseppina
anna
condannarsi, infine, ad una sorta di reclusione all’interno delle mura domestiche perché si ha paura che la propria orribile e impudica sporcizia sia subito riconosciuta e smascherata da tutti coloro che si dovessero incontrare. Una variante più innocua e più frequente di questa patologia è costituita da ciò che freudianamente si può indicare come il “complesso della casalinga”. In questo caso non è la persona a essere oggetto di estenuanti lavori di pulizia, quanto la casa, contenitore esteriore che rimanda al grembo materno come contenitore interiore. Non si sa mai cosa c’è dentro, e bisogna accertarsi sempre che i contenuti siano buoni, che le parti cattive siano espulse, che nulla vi si annidi di pericoloso e che tutto sia completamente lavato, disinfettato, sterilizzato. Ancora una volta, le cose si trasformano nel loro contrario e - come la pulizia corporale, che dovrebbe servire per aiutarci nel socializzare con gli altri - diviene, nella sua dimensione ossessiva, un ostacolo a qualsiasi incontro, così la casa - che è per la vita luogo di ospitalità e condivisione - diviene luogo denuclearizzato, congelato, invivibile. L’altra immagine è altrettanto comune e rappresenta esattamente il contrario della precedente: l’idea è che qualsiasi macchia possa essere cancellata sempre, che non esista colpa abbastanza grave da meritare una pena infinita,
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che tutto possa essere perfettamente lavato. L’esempio più simpatico e più pertinente di questa visione appartiene solo in maniera secondaria al mondo della pubblicità - si tratta infatti di una non-pubblicità, di uno spot pubblicitario finto inserito nella trama di un film: in esso accade che dei trucidi tutori della legge si rechino a casa di una cara signora chiedendo che quest’ultima consegni immediatamente la camicia indossata la sera prima dal figlio assassino, nella certezza di reperirvi le tracce di sangue che rappresentano la prova inconfutabile della sua colpevolezza. La signora consegna sì la camicia, ma gli ineffabili poliziotti si rendono conto di essere arrivati troppo tardi: la cara mammina infatti, dopo gli omicidi del figlio, provvede sempre ad infilare la camicia in lavatrice, dove, grazie all’aiuto di un potente detersivo, ogni traccia scompare. “Se vuoi bene a tuo figlio - recita più o meno lo slogan finale fai come me, lava le sue camicie con questo potente detersivo.” Certo, la moralità di questa madre, così schierata dal lato di un viscerale affetto per il figlio, anche quando questi si rende responsabile di numerosi delitti, è assai discutibile e rappresenta uno dei più cinici e divertenti paradossi del cinema di Almodòvar (il film a cui ci stiamo riferendo è, come molti ricorderanno, Donne sull’orlo di una crisi di nervi); ma il senso del discorso, pur nel suo paradosso, è chiaro: di contro all’incubo di una macchia indelebile, sta l’utopia di una pulizia assoluta, di una cancellazione totale della colpa, di un bianco assoluto, di un azzeramento completo del passato e di una ritrovata, intatta,
mamadou purezza. Ora, l’enfasi posta sull’igiene dal contesto sociale dei nostri tempi è già stata sottolineata, e criticata da molti, così come è chiaro che cancellare del tutto le tracce del nostro passato finirebbe per farci più del male che del bene. Tuttavia è indubbio che l’esigenza esista: Nietzsche, nella seconda delle sue Considerazioni Inattuali - Sull’utilità e sul danno della storia per la vita, auspicava che il mondo potesse dimenticare, che il fardello del nostro passato potesse essere semplicemente scaricato per poter poi ricominciare da capo. L’ossessione del pulito allora potrebbe essere vista anche in un altro modo: non semplicemente la prova di un rimosso indelebile, quanto il desiderio disperato di una ripartenza a prescindere da quello che si è stati finora, facendo tabula rasa come gli studenti dell’antica Roma che, sciogliendo la cera su cui avevano scritto, ricominciavano senza conservar traccia dei lavori precedenti. E questa speranza di ricominciare dal nulla, di un foglio assolutamente bianco, non è tanto più rappresentata nella pubblicità, quanto più impossibile nell’esistenza reale? Non rimangono sempre più tracce di noi, della nostra voce, della nostra fisionomia, di ciò che scriviamo, del nostro andamento economico, dei nostri gusti, delle nostre opinioni? Non siamo sempre più identificabili, riconoscibili, definiti, condannati a non cambiare mai, a essere sempre noi stessi? Non è paradossale che, di fronte al molteplice delle esistenze immaginarie che il mondo
massmediale ci propone, noi si sia sempre costretti ad una dimensione assolutamente esplicita, nota e ripetitiva? Forse esiste una correlazione molto profonda tra l’idea del bianco assoluto, del vestito che annulla qualsiasi traccia di chi lo ha portato e l’attiva campagna pubblicitaria di quei siti internet che promettono a tutti noi un’altra vita - di contro ad una congrua contropartita economica ciò che ci viene offerto è una grande operazione di pulizia personale: tutte le tracce di noi verranno soppresse per sempre, un’altra esistenza ci aspetta oltremare, mentre nessuno dei nostri amici, dei nostri nemici, dei nostri colleghi, dei nostri parenti, saprà più che fine avremo fatto. Potrebbe allora nascere da questa illusione, quella di cancellare tutte le macchie, fisiche e psichiche, il fascino che esercita su di noi la bianchezza assoluta così ossessivamente pubblicizzata dalle più famose marche di detersivi. Si desidera, in fondo, sempre ciò che non si ha, e forse è anche vero che un bianco assoluto può nascondere le cose ancor meglio di un opaco grigiore, quello cui spesso ci condanna la nostra anonima esistenza quotidiana. Antonio Piotti, psicologo e psicoterapeuta, membro de Il Minotauro - Istituto di analisi dei codici affettivi - Milano.
melania
rossella
psychopackaging
The Killer's Mum The obsession for cleaning as a desire to delete one's past and start off again with a clean slate. Antonio Piotti
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There are two images that come to mind when I think of cleanliness: stains to be got rid off and soap or detergents. The first is classic, pure Shakespeare and recalls the idea that there are some stains that just won't disappear. No soap, for instance, can delete a crime, the sign is condemned to remain, like a scarlet letter cut into one's body because the guilt deserves punishment and should never be forgotten. So it's quite pointless washing and scrubbing: what's there is there forever, and brands one for life. Even when the crime-trauma has been completed forgotten by the individual, he just keeps on representing it as a symptom, as a sign that returns after having been repressed. Indeed, in a special nosographic structure (what today is called “compulsive obsession”), we don't just see the return of the guilt in the shape of the symptoms, but also the creation of the symptom by the very attempt of trying to forget it. So this pathology consists in repeatedly washing oneself, obsessively, scores of times a day, since one always feels dirty, unpresentable, even after ceaseless bathing and use of perfume; leading, finally, to a sort confinement in the home, afraid that ones horrible, indecent dirtiness is immediately visible and obvious to all one happens to meet. A more innocent, more frequent variant of this pathology is what Freud would have called the “housewife complex”. Here it's not the person who's the object of exhausting cleaning, but the house, seen as the external container as opposed to the mother's womb, the internal container. You
never quite know what's there and so one must always make sure that the contents are good, that the bad parts have been removed, that nothing dangerous is nesting there and that everything is perfectly clean, disinfected and sterilised. Once again, things become their exact opposite and just like bodily cleanliness, which should serve to help us socialise with others - it becomes an obstacle to all encounters in its obsessive dimension. In other words, the home - the place of hospitality and sharing in life - becomes a "denuclearised", frozen, unliveable place. The other image is just as common and represents the exact contrary to the above: the idea that any stain may always be removed, that there's no crime serious enough to merit infinite punishment, that all can be washed as white as white. The nicest, most pertinent example of this particular outlook is indirectly connected with the world of advertising in fact it's a case of non-publicity, a publicity spot in the plot of a film: some law enforcers go to the home of a dear old lady demanding that she immediately hand over the shirt her son wore the night before, certain that they'll find traces of blood on it proving his guilt without a doubt. The lady hands over the shirt, but the tough policemen realise they've got there too late: the dear mother, in fact, always puts her son's shirts into the washingmachine after each murder, where - thanks to an powerful detergent - all traces of blood just disappear. “If you love your son - the final slogan goes, near enough - do as I do and wash his shirt with this powerful detergent”. Of course, this woman's morality can be easily criticised, so blinded as she is by her affection for her son even when he's guilty of many crimes, and it represents one of the most cynical, funny paradoxes of Almodòvar's film-making (the film referred to here is, as many will no doubt recall, Women on the Verge of a Nervous Breakdown). But the sense of her words, even though paradoxical, is quite clear:
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when faced with the nightmare of an indelible stain, there's always the utopia of total pureness and the total deletion of a crime, of absolute white, of a complete wiping-out of past records and the chance of renewed, intact purity. Today, the emphasis placed on hygiene by modern society has already been stressed and criticised by many, just as it's clear that any attempt to thoroughly delete our past would end up by making us feel far worse and not better. In any case, there's no question that the need exists: Nietzsche, in the second of his Unfashionable Observations - On the Uses and Disadvantages of History for Life, hoped that the world could learn to forget, that the bundle of our past could be simply taken off so that we could then start afresh. The obsession for cleanliness could thus also be seen from a different perspective: not simply proof of an indelible repression, but rather the desire to start out afresh regardless of what's happened to date, wiping the slate clean, just like students in Ancient Rome melted their wax tablets to delete their writings and so started again without any trace of their previous work. And isn't it true that this hope to be able to start again from nothing, of an absolutely clean page, is portrayed all the more in advertising the harder it is in real life? Surely one's noticed how there are always more and more traces of us, our voice, our physiognomy, what we write, our economic trends, our tastes and opinions? Isn't it true that we're becoming more and more identified,
recognisable, defined, condemned never to change, to be ourselves forever? Isn't it paradoxical that, when faced with the multitude of imaginary existences the mass-media offers us, we're becoming ever more forced into an absolutely explicit, known and repetitive dimension? Perhaps there's a far deeper correlation between the idea of absolute white, of a garment that deletes all traces of the person who wore it and the active advertising campaign of those internet sites that promise us all a different life. As opposed to a proper quid pro quo, what really happens is that we're offered a great chance for a personal clean-out: all traces of us will be suppressed for ever, another existence awaits us overseas, while none of our friends, enemies, colleagues, relatives will know what on earth has happened to us. Thus this illusion could arise (that of getting rid of all stains, physical and psychic). And hence the fascination that absolute whiteness has on us all is obsessively publicised by the leading detergent brands. After all, we always want what we don't have and maybe it's also true that absolute white manages to hide things better than a dull grey, the colour that to which we're often condemned in our anonymous daily existence. Antonio Piotti, psychologist and psychotherapist, member of the Il Minotauro - Institute of Analysis of Affective Codes - Milan.
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Photo by Alessandra Sofia
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Haim Steinbach: Il prodotto è un frammento di una catena di relazioni di senso
essenza è apparenza Marco Senaldi
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Haim Steinbach as a “shopper”. Photo by Gwen Smith
Haim Steinbach (1944) è uno dei più significativi artisti viventi. Nato in Israele, ma trasferitosi giovanissimo negli USA, il suo lavoro è emerso con evidenza negli anni 80, in quel fermento creativo che a New York andò sotto il nome di simulazionismo o appropriazionismo, una poetica “fredda” e rivolta alla realtà, in netto contrasto con il ritorno alla pittura che contemporaneamente aveva luogo in Europa. In quegli anni le sue opere hanno assunto quel tipico display espositivo che farà di Steinbach l’artista per eccellenza delle “mensole” - al punto da diventare una sua marca pienamente riconoscibile. Naturalmente, la complessità del lavoro di Steinbach eccede di molto questi riduttivi stereotipi. L’indagine scrupolosa dell’artista è infatti molto più ampia e insieme profonda; di fatto, come egli stesso ha dichiarato “le strutture politiche, economiche e linguistiche formano una base per i sistemi di valori. Ciò che voglio è svelare le
strutture dietro i sistemi di valori negli oggetti. Attraverso i giochi metonimici e riferimenti, i sistemi di valori che si manifestano negli oggetti sono rovesciati e resi instabili” . Se il contrario di metonimia è metafora, allora si può dire che nell’opera di Steinbach non c’è nulla di metaforico, nulla è lasciato all’immaginazione né al caso, nulla rimanda ad altro, ma tutto è esibito in una luce totale, che fa confinare le cose e i loro significati. Da qui l’impiego frequente di oggetti tratti dal mondo quotidiano e anche dal mondo delle merci, in un ordine visivo che sovverte in modo sottile e inatteso ogni ordine economico, dato che oggetti da poco stanno con una certa arroganza fianco a fianco di merci costose o oggetti d’antiquariato. Per usare le parole di Steinbach,“ciò che si intende per packaging, , è ben di più di questo o quello specifico oggetto; è una cultura... Vestirsi o svestirsi è packaging, che significa fashion e design. Quattro
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Untitled (Jean Paul Gaultier Perfume Bottles), 1998
Tango Vigor #3, 1989 Courtesy Galerie Roger Pailhas, Marsiglia
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Untitled (tooth pick holders, lamp), 2001 Courtesy Galleria Massimo Minini
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Supremely Black, 1985
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Stay with friends, 1986 Courtesy Speed Art Museum, Louisville, Kentucky
coniglietti di plastica disegnati da Stefano Giovannoni come contenitori di stuzzicadenti, sono packaging. Tutto ciò significa mascherare, coprire, fingere di essere qualcos’altro. Il coniglio che esce dal cappello, o lo spazzolino da denti che esce dal coniglio. Per la mostra Shopping, alla Shirn Kunsthalle di Francoforte, 2002, ho disegnato una vetrina con manichini con il volto mascherato, o con dei guantoni da boxe. Il display delle vetrine non è forse packaging? Packaging è presentare, annunciare qualcosa tramite un camuffamento, un indossare e un esibire”. Ad ogni modo, prosegue l’artista, in dialogo con Impackt, “interpretare lo sviluppo del mio lavoro come una transizione fra diverse fasi e sviluppi del packaging sarebbe una semplificazione eccessiva. Il packaging come design delle superfici e degli involucri è un aspetto dell’artificiosità nella costruzione delle mascherature culturali. Così come noi riconosciamo il mondo tramite il linguaggio, la cultura espressa dal design è altrettanto linguistica della parola scritta fra i linguaggi e le
forme di espressione. Il ‘packaging’ può essere definito specificamente come l’applicazione del design orientato verso la promozione e la vendita di un prodotto. Effettivamente in alcune mie opere ho utilizzato prodotti con packaging; tuttavia, leggere il mio lavoro solo in termini di packaging sarebbe fraintenderne la vera natura; la mia opera negozia relazioni fra oggetti, e quindi oscilla avanti e indietro fra differenti condizioni dell’oggetto, di cui il packaging è una. In questo senso, si può dire che La scala di Giacobbe (1997) rappresenta il ‘lato enigmatico del lavoro’. Appunto perché, nello sviluppo del lavoro, quest’opera articola la frammentazione delle rocce in pietre e mentre mostra la disposizione orizzontale dei sassi sugli scaffali come se fossero merci da guardare, suggerisce anche, tramite la scala, che una verticalità può essere raggiunta. Allo stesso modo, le opere con i cosiddetti ‘prodotti’ contrapposti a ‘oggetti’, riguardano il non-packaging, e, come la disposizione delle pietre a ripetizione, così, la disposizione di ‘prodotti’ in ripetizione (che possono
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Veduta dell’installazione Installation view Shopping, Shirn Kunsthalle Francoforte, 2002
anche essere oggetti) accanto ad ‘oggetti’ (che possono essere anche ‘prodotti’), rompe l’integrità del prodotto/oggetto in quanto ‘unicum’ in se stesso. Il prodotto od oggetto è considerato quindi il frammento di una catena di relazioni. Non è all’aspetto ‘imballaggio’ dell’oggetto che mi rivolgo come scopo, ma piuttosto alla ‘ripetizione dello stesso’, e attraverso la ‘ripetizione dello stesso’ e con la ripetizione e la giustapposizione di oggetti ripetuti si ha un decentramento che relativizza la relazione tra gli oggetti, le loro superfici e forme. Quindi non
è l’oggetto come merce o prodotto confezionato che è esibito per catturare lo sguardo, dato che l’accento non cade mai su uno specifico oggetto ma piuttosto su una sfilata di oggetti in quanto figure retoriche culturali”. Con il suo lavoro, Haim Steinbach è veramente l’artista che più ha saputo indagare a fondo i sottili meccanismi di seduzione e di creazione del plusvalore simbolico, ossia di ciò che, come ha notato Jeremy Rifkin, sta alla base dell’attuale “capitalismo culturale”.
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Haim Steinbach: essence and appearance The product is a fragment from a chain of relations of meaning Marco Senaldi
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Haim Steinbach (1944) is one of the most important artists alive today. Born in Israel yet having moved to the US when he was young, his work emerged clearly in the eighties, in that creative ferment in New York that went under the name of simulationism or appropriationism. A “cold” poeticism turned towards reality, in net contrast with the return to painting that took place at the same time in Europe. In those years his works took on that typical display case appearance that was to make Steinbach the “shelf” artist par excellence - to the point of becoming his recognisable trademark. Naturally, the complexity of Steinbach’s work goes beyond these limiting stereotypes. His scrupulous quest is in fact a lot broader and deeper at the same time; as he himself declared: “Political, economical and linguistic structures form a basis for value systems.I want to reveal the
structures behind the value systems in objects (…).Through metonymic games and references, value systems manifested in objects are inverted and rendered unstable”. If the opposite of metonym is metaphor, thus one can say that there is nothing metaphoric in Steinbach’s work, nothing is left to the imagination or to chance, nothing alludes to other things, but all is shown in a total light, that shrouds things and their meanings. Hence Steinbach’s frequent use of everday “objet trouvé” also from the world of goods, in a visual order that subtly and unexpectedly subverts the economic order, given that cheap objects stand somewhat arrogantly beside costly goods or antiques. To use Steinbach’s words, “What do you mean by packaging, which more than simply one specific object or another is a culture which comes from culture and history and hoes to culture. Dressing up or dressing down is packaging, which means fashion and design. Four plastic rabbits designed by Stefano Giovannoni as containers to hold toothpicks is packaging. That's also masking, covering over, pretending to be something else. the rabbit out of the hat or the toothpick out of the rabbit. For the Shopping show at the Schirn Kunsthalle, Frankfurt I designed a window display with mannequins with masked heads, or boxing gloves on hands. Isn't window display
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packaging? Packaging is presenting, announcing something via camouflage, put on, and exhibition.” At any rate, as the artist goes on to say, in an exchange especially to Impackt, “I do not see the development of my work as a transit between different stations and ladders of packaging, that would be an over generalization. Packing as design of surfaces and wrappings is one aspect of artificiality in the making of cultural masks. As we recognize our world through language, culture expressed in design is as much language as the written word among languages and forms of expression. "Packaging" may be specifically defined as the application of design toward the promotion and selling of a product. I understand that you are interested in the subject of "packaging", and in specific works I have done which engage packaged products. However, to overemphasize my work in terms of packaging would be to confuse what it is all about. The work negotiates object relations and hence swings back and forth between different object positions of which "packaging" is just one position. In this sense you are correct to say that "Jacob's Ladder", 1997 may be the "enigmatic side of the work". For in the works progression, this work articulates the fragmentation of rock to stones and while it demonstrates the horizontal arrangement of stones, as if they were goods to behold it also
suggests via a ladder that a verticality may be attained. Similarly the works with so called "products" as opposed to "objects" are about unpackaging, in that as with the placement of stones in repetition, so the placement of "products" in repetition (which may also be objects) next to "objects" (which may also be "products"), breaks down the integrity of the product/object as "one" unique entity unto itself. The product or object is referenced like a fragment from a chain of relations. It is not the "package" aspect of the object that is addressed as an end in itself but rather the "repetition of the same" and with the "repetition of the same" and with the repetition and the juxtaposition of objects in repetition there is a defocusing taking place which relativizes the relationship between objects, their surfaces and forms. Hence it is not the object as commodity or packaged good that is presented for the gaze's fix, as the emphasis is never on one specific object but rather on the parade of objects as linguistic cultural figures”. With his work, Haim Steinbach is truly the artist that has best managed to delve into the subtle mechanisms of seduction and creation of symbolic surplus value, or that is, as Jeremy Rifkin noted, what lies at the basis of the current “cultural capitalism”.
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Il Metodo Migliore
“E’ ormai tempo che i banali prodotti per la casa siano così belli da far desiderare di lasciarli in bella mostra, che siano facili da usare, che abbiano un buonissimo profumo e che rechino la firma di un designer”. Così dice Karim Rashid, e non a caso, dato che è lui ad aver apposto la firma sul packaging dei detergenti della californiana Method, azienda di innovativa concezione, che ha deciso di porsi come la prima marca
specificatamente creata per la cosiddetta Generazione X. Method, più che azienda di prodotti per la casa, è, in effetti, una sorta di filosofia della vita quotidiana, un sistema, per la gestione delle pulizie domestiche. Anzi di più, per “fare l’esperienza” delle pulizie; perché queste siano qualcosa di gratificante, un vero e proprio metodo per rendere sensuale la propria abitazione attraverso odori, oggetti particolari e imballaggi fuori dal
comune, che non meritano di restare nascosti negli angusti armadietti di cucina. E così che, utilizzando aromi e profumazioni particolari, che non sanno di “detersivo” ma di bamboo, ylang-ylang, mandarino, ginger, spezie; senza additivi chimici e non testati su animali - in associazione al design, attento, curato, contemporaneo Method è riuscita a rendere ambiti anche quei prodotti, considerati troppo spesso banali e di massa, come i detergenti per ambienti, e quindi solitamente non desiderati ma comprati solo per necessità. Attraverso il bel design, poi, l’intento di Method è addirittura ambizioso: incrementare il comune senso estetico e offrire un tocco di classe anche ai prodotti di massa. Un normale flacone di sapone per piatti può diventare, quindi, una specie di scultura astratta, un piccolo totem
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The Best Method “It’s about time that a banal household product was beautiful enough to leave by one’s sink, was easy to use, smelled great, and had a designer name attached to it…” These are the words of Karim Rashid, an it’s no coincidence given that he is the one whose name appears on the packaging of detergents manufactured by the innovative Californian company Method, which has decided to position itself as the first brand to be specifically created for
the so-called Generation X. Method is more than just a company which produces household products. It is, in fact, a kind of philosophy of everyday life, a system, for dealing with house cleaning. Actually it is more than this. It is concerned with the house-cleaning “experience”, making it into something gratifying, an actual method of making one’s home sensual through the use of fragrances and special objects. It is unusual packaging which doesn’t deserve to
colorato che dispensa sapone liquido con un semplice gesto, sempre pronto per l’uso perché il tappo erogatore è posto alla base. Un imballo che non si butta via, ma si ricarica, magari con fragranze diverse, e oggetto anomalo, misterioso,
non immediatamente riconoscibile -si lascia ammirare ovunque si decida di lasciarlo. Perché, come la stessa Method afferma citando il film American Beauty “non credo che ci sia nulla di peggio che essere ordinari”
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normal bottle of washing up liquid therefore become a kind of abstract sculpture, a small colored totem which dispenses liquid soap at a touch, constantly ready for use as the dispenser is at the opposite end, at the base. This packaging is not to be thrown away, but refilled, perhaps with different fragrances, and invites admirers- it is an anomalous, mysterious, not immediately recognizable object - wherever you happen to leave it. Because, as Method themselves say, quoting from the movie American Beauty… “I don’t think there is anything worse than being ordinary”
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be hidden away in poky kitchen cupboards. So, using special aromas and perfumes, which don’t smell of “detergent” but of bamboo, ylangylang, mandarin, ginger, spices; without chemical additives and not tested on animals- associated with careful, meticulous, contemporary designMethod has managed to turn even those products all too often considered to be banal, mass products such as household detergents , bought purely out of necessity, into something desirable. With its beautiful design, Method’s intention is actually ambitious: to increase the general aesthetic sense and give mass products too a touch of class. A
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A Prova di Pubblicità Come è cambiato il linguaggio pubblicitario dei detersivi Vanni Codeluppi
bucato più sporco. Spesso, nella pubblicità, ciò avveniva a scapito di un concorrente mascherato. Infatti, nel settore la concorrenza era forte e da ciò sono nate epiche sfide pubblicitarie tra i due principali marchi del settore dei detersivi: Dash e Dixan. Ma la società è cambiata. A partire dagli anni Ottanta, si è prodotta infatti una tendenza all’accumulo dei segni, alla saturazione dello spazio culturale e sociale. I canali e le reti si sono riempiti di materiali comunicativi e il singolo è stato costretto ad operare in una condizione di “iperscelta” che lo disorienta. Ma è anche diventato, proprio in conseguenza di ciò, più scaltro
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detersivi liquidi. Insomma, il fustino di detersivo si è progressivamente “miniaturizzato”, con evidenti vantaggi per il trasporto a casa da parte della massaia. Soprattutto, però, è cambiata la pubblicità dei detersivi per effetto di un più generale mutamento del linguaggio pubblicitario. La pubblicità dei detersivi, infatti, ha incarnato per decenni agli occhi dei consumatori il modello della pubblicità più classica, quella in cui viene semplicemente messo in scena il benefit offerto dal prodotto al consumatore attraverso un meccanismo elementare: la prova. Si mostrava cioè la capacità del prodotto di rendere immacolato il
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Alla cassa di un supermercato, un uomo proponeva all'esterefatta massaia lo scambio di due enormi fustini di detersivo con il suo fustino di Dash appena comprato. Pochi probabilmente si ricordano che l'uomo era l'attore Paolo Ferrari, Eppure molti hanno ancora in mente che questa è stata una delle gag più famose della pubblicità televisiva italiana trasmessa da Carosello. Ma Carosello è "morto" nel 1977 e da allora molte cose sono cambiate. Le dimensioni del fustino innanzitutto. Le aziende hanno lanciato prodotti dal maggior potere lavante e dunque più concentrati. Sono poi arrivati anche prodotti innovativi come i
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e smaliziato. Il che ha necessariamente comportato anche il passaggio della pubblicità a forme di comunicazione più intense e potenti, che mettono in scena la presentazione del benefit offerto dal prodotto non più all’interno della quotidianità del consumatore, ma in situazioni paradossali e improbabili, spesso talmente potenti da annullare il benefit stesso. È una pubblicità comunque efficace, perché riesce ad attirare l’attenzione del consumatore e a coinvolgere quest’ultimo. Si tratta anche di una pubblicità molto più sofisticata rispetto al passato, che fa largo uso dell’allusione e dell’ironia, proprio perché deve sorprendere un consumatore “difficile” e cercare di stabilire un rapporto di complicità con lui. Ecco perché Dash ha impiegato negli ultimi anni dei comici molto particolari, facendo ricorso prima a Fabio Fazio e poi a Siusy Blady e Roberto Roversi. La pubblicità dei detersivi, dunque, è molto meno aggressiva di un tempo. E si può sostenere che il detersivo si è progressivamente “miniaturizzato” anche a causa del fatto che ha ridotto la sua presenza tra i protagonisti della pubblicità televisiva. Probabilmente perché i suoi margini di guadagno si sono
assottigliati e non gli consentono come un tempo di pagarsi numerosi passaggi pubblicitari, divenuti a loro volta sempre più costosi. Il che non implica che i detersivi siano spariti dall’universo pubblicitario. Nuovi protagonisti sono infatti comparsi sulla scena, come ad esempio Bolt “due in uno” e i suoi marinai. Ma in generale il
settore dei detersivi e il modello pubblicitario basato sulla prova che esso portava avanti sono oggi scarsamente presenti e lo saranno probabilmente ancora di meno in futuro. Vanni Codeluppi è docente di Sociologia della Pubblicità allo IULM di Milano; di recente ha pubblicato Che cos’è la pubblicità, Carocci, 2003.
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Testing Publicity How the advertising language of detergents has changed Vanni Codeluppi
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Vanni Codeluppi is a lecturer in the Sociology of Advertising at the IULM in Milan. He recently published Che cos’è la pubblicità, Carocci, 2003.
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At a supermarket checkout, a man suggested to a terrified housewife that he should exchange two huge tubs of detergent for the tub of Dash she had just bought. Probably few people remember that the man was the actor Paolo Ferrari, although many people still recall that this was one of the most famous publicity stunts staged on Italian television and broadcast on Carosello. But Carosello “died” in 1977 and many things have changed since then. First and foremost the size of the tubs. Companies have launched products with greater washing power which can therefore be more concentrated. Then innovative products such as liquid detergents arrived. So, the tub of detergent has become more and more “miniaturised”, with clear advantages for the housewife carrying it home. Above all, though, the advertising of detergents has changed, as a result of a more general change in the language of advertising. In fact, for many years the advertising of detergents, in the eyes of consumers, has been the model of the most classic advertising, the type which simply presents the benefits that the product offers to the consumer through an elementary mechanism: the test. Thus the ad showed the product’s ability to make even the dirtiest washing spotless. In the ad, this often took place to the detriment of an unidentified competitor. Competition in the sector was strong, and this gave rise to epic advertising struggles between the two leading brands in the detergent sector: Dash and Dixan. But society has changed. Starting in the 1980s, there has been a trend towards a build-up of brands and saturation of cultural and social space. TV channels and
networks are packed with communicative material and the individual is forced to operate in a situation of “hyperchoice” which disorientates him. But, as a consequence of this, he has also become shrewder and more discerning. This has also inevitably led to publicity changing into more intense and powerful forms of communication which are used to present the benefits offered by the product. These no longer appear in the consumer’s daily paper but in paradoxical and improbable locations, often so powerful as to cancel out the benefits themselves. However, this is advertising which is effective, because it succeeds in attracting the attention of the consumer and involving him. It is also a much more sophisticated form of advertising than in the past, which makes great use of allusion and irony, because it has to surprise the “difficult” customer and seek to establish a situation of complicity with him. This is why in recent years Dash has used particular comics, turning first to Fabio Fazio and then to Siusy Blady and Roberto Roversi. Detergent advertising is therefore much less aggressive than it used to be. And it could be held that the detergent has also become more and more “miniaturised” because its presence among the main players of television advertising has been reduced. This is probably because its profit margins have been slimmed down and it is no longer possible to pay for a large number of publicity slots, which in their turn have become more expensive. This does not imply that detergents have disappeared from the advertising stage. New players have appeared on the scene, for example Bolt “due in uno” (two in one) and its imitators. But generally speaking the detergent sector and the advertising model based on “tests” which it used to depend on are seldom seen today and will probably be even less in the future.
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Un Fusti
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no in Testa Esordi, trionfi ed epilogo di uno degli imballaggi più riusciti nella storia del packaging, il fustino di detersivo. Marco Senaldi
Benché all’epoca della messa in onda del messaggio pubblicitario (dovevano essere i tardi anni 60), noi spettatori ci aspettassimo sempre che un “vero” cliente rompesse lo schema e dicesse “Sì, razza di incapace, mi dia immediatamente i due fustini dell’altro prodotto!” - oggi appare molto più chiaro che aveva ragione la pubblicità. L’enigma sottilmente teologico dell’Uno che vale Due si spiega proprio in forza del packaging. Chi si sarebbe mai sognato di comprare due stupidi cilindri di cartone pieni di anonima polvere di detersivo? Era senz’altro meglio uno solo, ma dotato in primis di nome proprio come Dash o Dixan (nelle case si cominciavano a usare direttamente le marche come sinonimo del prodotto: “Ricordati di comprare il Finish!”, si diceva, non certo “il detersivo per la lavastoviglie”); in secundis, di una regolare grafica accattivante, colorata e futurista, con tanto di tagliandi per il classico “concorso a premi”; e poi, tertium datur, dentro alla sua polvere il fustino poteva magicamente contenere magari anche un gioco o una sorpresina per i più piccoli, o perlomeno l’immancabile paletta di plastica blu per dosare il prodotto.
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Fustino voleva dire “tanto prodotto”; significava scorta e rivelava spesa. Era, contemporaneamente, epitome di previdenza casalinga (“in casa mia il detersivo non manca mai”) e di spreco edonista (“lo prendo per far contenti i bambini”); di risparmio oculato (“compro di più, perciò pago meno”), e di dispendio sfrenato (“eh, non bado mica a spese quando si tratta di casa…”), di antichi valori (il “fusto” in dimensioni ridotte) e di nuovi desideri (il fustino colorato fa la casa moderna). Insomma il fustino riuniva in sé l’abbondanza americana e la parsimonia italica, la dionisiaca ebbrezza del consumismo e la scrupolosa custodia della dispensa, l’angelo del focolare e il diavolo della pubblicità… Nato sotto l’egida del paradosso, di paradosso era destinato a trionfare (e forse a perire). Non a caso, l’epica più famosa del fustino fu quella dell’imbonitore che, brandendo due fustini fasciati di carta anonima e un coloratissimo fustino di Dash intimava: “E lei signora, cambierebbe il suo Dash per un altro prodotto?”. La risposta era invariabilmente “No! Mo tengo il mio Dash!”. Perché, di fronte a due (due!) fustini di detersivo la signora in questione non cambiava il suo?
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Anche se il tradizionale fustino cilindrico colmo di detersivo, di cui quest’anno ricorre il trentennale, giganteggia ancora nella memoria dei consumatori, di fatto esso nasceva da un diminutivo fatale. Il cosiddetto “fustino” non era altro che un fusto (o bidone) small size, più piccolo ma più bello, miniatura di una cosa che tuttavia, nei primi anni sessanta - gli anni del boom economico italiano non era affatto ignota all’economia domestica del Bel Paese. (Ricordo che mio padre, in un eccesso di previdenza, stoccava bidoni di benzina in garage, accortezza che comunque non ci valse la salvezza dalla crisi energetica che doveva impazzare sulle italiche famiglie di lì a poco, negli anni dell’austerity, 1973-4). Mentre però il fusto richiamava l’economia postbellica e il Piano Marshall, ma anche il desiderio di far parte di una “superpotenza industriale”, il fustino sussurrava alle orecchie degli italiani che il semplice consumo di risorse si era miniaturizzato e diffuso sotto forma di consumismo di merci. Così, rispetto alle miserelle confezioni formato pacchetto delle prime polveri per i primi possessori di lavatrici, il fustino segnò una svolta decisiva.
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Adesivo consegnato al bambino Maurizio F. da Gran Dixan in persona (anni ’70) Stick given to the little Maurizio F. by Gran Dixan himself (70’s)
Quindi, non certo all’inizio della sua vita di prodotto, ma semmai al termine del suo utilizzo, il fustino poteva essere denudato e ricondotto alla sua autentica anima di cartone, per venire però di nuovo riciclato sotto altra forma. Eh sì, perché oggi si parla tanto di packaging sostenibile e di riciclaggio dei rifiuti, ma il fustino, prima di finire in pattumiera (e non ci finiva quasi mai dato che, essendo di cartone, finiva più spesso nelle allora ancor numerose stufe a legna o camini) il fustino, insomma, ha costituito forse il primo caso di packaging riciclabile innumerevoli volte, vera e propria metempsicosi merceologica. L’utilizzo più banale era quello che ci insegnavano nella bizzarra “ora
di Applicazioni Tecniche”: svestire il fustino dalla carta col logo, per rivestirlo con carta a fiori, o addirittura dipingerlo a tinte vivaci e farne portacarte, portagiocattoli, o (variante femminile) portagomitoli. Ma io ricordo benissimo una pagina del glorioso Corriere dei Piccoli dedicata a “Come farsi un abito da cinesino per carnevale”, dove si descriveva in dettaglio come costruirsi la maschera con un cappellino conico per la testa, due baffoni neri di corda, ma soprattutto un fustino ricoperto di carta crespa gialla per il viso con due tagli a mandorla per gli occhi! Il risultato era così convincente che partecipai al mio primo Carnevale con un fustino in testa. Un fustino a scatola, o uno dei
microcontenitori per i detersivi superconcentrati di oggi, saranno anche più razionali, più comodi per essere sistemati nello sgabuzzino di casa, ma che cosa avremmo potuto farcene noi ragazzi? Come può un bambino giocare con un refill di detersivo? Persino quelle palline in voga da qualche anno per introdurre il detersivo nel cestello - che pure hanno in sé qualcosa del giocattolo - sono tanto perfette da risultare quasi minacciose, impedendo una vera reinterpretazione ludica. I packaging designer dovrebbero riflettere sulla storia del fustino per trarne un insegnamento: non basta che un packaging sia realizzato con materie prime facilmente degradabili, che abbia un basso impatto ambientale, o che sia addirittura “intelligente”; come insegna il caso del fustino, il packaging migliore non è solo materialmente riciclabile, ma dev’essere semplice fino a sfiorare il mito - e, come tale, simbolicamente reinterpretabile all’infinito.
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A Tub on my Head The debut, triumphs and epilogue of one of the most successful packagings in the history of the sector: the detergent tub. Marco Senaldi
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Even though the traditional cylindrical tub of detergent, which this year celebrates thirty years of life, still looms large in the memory of the consumer, in fact it was born from an inevitable diminution. The so-called "fustino" (little tub) was nothing more than a small size "fusto" (tub or drum), smaller but more attractive, a miniature of something which nevertheless in the early 1970s - the years of the Italian economic boom - was not unknown in the domestic economy of Italy. (I remember that my father, in an excess of prudence, stored drums of petrol in the garage, a shrewd move which however did not save us from the energy crisis which would shortly drive Italian families mad in the years of austerity, 1973-4). However, while the drum recalled the postwar economy of the Marshall Plan, but also the desire to be part of an "industrial superpower", the little tub whispered in the ears of the Italians that the simple consumption of resources had been miniaturised and circulated in the form of the consumerism of goods. Thus, compared with the miserable packet-
format packs of the first powders for the first owners of washing machines, the tub marked a significant development. "Tub" meant "a lot of product"; it meant having a stock and was evidence of spending. It was, at the same time, evidence of housewifely prudence ("there is never a shortage of detergent in my house) and hedonistic extravagance ("I buy it to keep the children happy"); of prudent saving ("I buy more, so I pay less") and unbridled spending ("Hey, I never mind the expense when it comes to the house…"), of old values (a drum but in a smaller size) and of new aspirations (the colored tub makes the house seem modern). So the tub brought together American extravagance and Italian parsimony, the intoxication of consumerism and the scrupulous care of the store cupboard, the angel of the hearth, the devil of advertising. Born under the aegis of a paradox, it was fated to triumph (and perhaps perish) by paradoxes. It is no coincidence that the most famous epic of the tub was that of the man brandishing two tubs concealed in white paper and one highly-colored tub of Dash and asking, “Madam, would you exchange your Dash for another product?” Invariably the answer was, “No, I'll keep my Dash!”. Why, confronted with two (two!) tubs of detergent would the woman in question not exchange it? Although at the time this publicity message was broadcast (it must have been the late 1960s) we viewers always expected a "real" customer to spoil
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the show and say, “Yes, you idiot, give me the two tubs of Brand X immediately!” today it seems much clearer that the advertisement was right. The subtly theological enigma of the One which is worth Two explains the power of packaging. Who has ever dreamt of buying two stupid cardboard cylinders full of an unknown detergent powder? Of course only one is better, provided that it bears firstly a name such as Dash or Dixan (at home people began to use the brand name as a synonym for the product: “Remember to buy the Finish!” they said, not “the detergent for the dishwasher”); secondly, a regular attractive graphic, colorful and futuristic, with plenty of coupons for the classic "prize competition": and thirdly, in the powder, the tub may magically contain perhaps a game or a toy for the kids, or at least the essential blue plastic scoop to dispense the product. Then, certainly not at the beginning of the life of the product, but at the end of its use, the tub could be stripped and taken back to its original cardboard, to be recycled in another form. Ah yes, because then all the talk was of sustainable packaging and the recycling of waste. But the tub, before ending up in the dustbin (and it almost never ended up there since, being made of cardboard it more often than not went into the then numerous wood-burning stoves or open fires) was perhaps the first example of packaging which could be recycled many times, a real commodity metempsychosis. The most trivial use was the one taught in the bizarre "Hour of Technical Applications": strip the tub of its paper
with the logo and re-cover it with flowered paper, or even paint it in lively colors and turn it into a paper holder, a toy box or (a variation for the ladies) a holder for balls of wool. But I well remember a page in the glorious Corriere dei Piccoli (Italian children"s newspaper) devoted to "How to make a Chinese costume for Carnival", which described in detail how to make the mask with conical hat for the head, a dangly moustache of string, hut especially a tub covered in yellow crepe paper for the face with two slanting cuts for the eyes! The result was so convincing that I took part in my first Carnival with a tub on my head. A box, or one of the micro-containers for today"s super-concentrated detergents, would have been more rational, handier for storing in the cupboard, but what would we children have done with it? How can a child play with a detergent refill? Although those hollow balls that have been in fashion for some years for putting the detergent in the drum which have something of the toy about them - are so perfect as to be almost threatening, preventing them from being reinterpreted as toys. Packaging designers should reflect on the history of the tub and take a lesson from it: it is not enough for packaging to be made from easily degradable raw materials, which have low environmental impact, or is actually "intelligent". As the case of the tub teaches us, the best packaging is not only recyclable in a material way, but must be simple until it becomes almost a myth - and as such must be symbolically capable of infinite re-interpretation.
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Nei primi anni del dopoguerra, in Grecia, le casalinghe potevano usare ben pochi prodotti per l’igiene domestica oltre al sapone tradizionale e l’inventiva anonima superava ancora lo sviluppo del mercato dei detersivi, ma lentamente…
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Testo e foto di Xenofon Ritsopoulos e Rosa Serpico
Per potenziare l’effetto del sapone, le casalinghe dell’epoca, raccoglievano l’acqua piovana in appositi serbatoi interrati e poi la utilizzavano per il bucato. Ottenevano in questo modo un’acqua priva di sali, più “dolce”, che agevolava il lavaggio degli indumenti. Un altro prodotto usato per arricchire l’acqua era la cosiddetta lisciva o alussà, cenere proveniente dalla combustione della legna del camino. Dapprima setacciata per rimuovere le varie impurità, la alussà veniva poi raccolta e confezionata in buste di nylon. La preparazione al lavaggio del bucato cominciava accatastando i panni da lavare in una vasca con un foro alla base; sopra la pila di indumenti, e grande quando la vasca, si stendeva quindi un panno di canapa ripiegato e cucito contenente la cenere. Successivamente si versava sopra l’acqua bollente che, filtrando dalla canapa e “arricchita” dalla cenere, impregnava il bucato pulendolo a fondo. Questa fase di prelavaggio era il
corrispondente degli ammorbidenti usati oggi. L’acqua che risultava dal bucato di indumenti chiari veniva raccolta e riutilizzata per il lavaggio di quelli scuri. Era un processo faticoso ma che assicurava l’igiene ed una durata di vita maggiore ai tessuti senza avere effetti dannosi sull’ambiente al momento dello smaltimento. Con l’affermazione dei prodotti americani, sinonimi di modernità e del mito della “vita facile”, agli inizi degli anni ‘50 anche l’industria ellenica cominciò a commercializzare in modo massiccio i detersivi in polvere. I nomi usati per questi detersivi erano spesso derivati dalla parola inglese clean, pulito e fino alla metà degli anni '80 i logotipi e i testi erano scritti con alfabeto greco; questo agevolava il consumatore a pronunciare correttamente parole di provenienza inglese. In seguito alla massificazione del turismo e alla diffusione delle lingua straniere, si sono adoperati sempre di più i
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disegno di pinguini felici tra i ghiacci, con la scritta “pulisce e sbianca tutto - pulisce senza danno. Ma con l’avvento di questi prodotti chimici si presentarono anche i primi “effetti collaterali”. Così, alla fine degli anni ’50, le reclame sottolineavano che i prodotti non solo non erano nocivi per la pelle, ma avevano un effetto benefico di protezione delle mani dalle irritazioni!
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Gli imballaggi negli anni ‘60 erano caratterizzati da logotipi e da effetti grafici che evocavano l’efficacia del detergente e, cosa importante, erano corredati dalle prime dettagliate istruzioni per l’uso. Nello stesso periodo si presentarono le prime combinazioni di prodotti diversi da distribuire nelle varie fasi del lavaggio a mano o in lavatrice. La polvere Klin, meno cara del sapone, per esempio, insieme a poche gocce di Lefkini (lefko=bianco) assicurava un bucato splendente ed economico. Con la diffusione degli
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caratteri dell'alfabeto latino, come nel caso della candeggina Klinex , il cui nome e le cui scritte sono state “greche” fino all’inizio degli anni '70 , quando è stata trasformata nel corrispondente latino e con grafica e colori conformi agli standard occidentali. Sui primi imballaggi, non venivano neppure menzionati gli effetti inquinanti provocati dal loro uso smodato e le polveri erano prodotte inizialmente da quelle stesse industrie chimiche che producevano colori e fertilizzanti. I packaging dei primi detersivi in Grecia erano sacchetti di colore diverso a seconda del tipo di tessuti da lavare: bustine celesti per gli indumenti di lana e per fibre delicate, bianche per la biancheria, mentre per le fibre più resistenti e per bucati più generici la scatola era di cartone blu. La comunicazione e la pubblicità erano in cerca di immagini e messaggi che alludevano al bianco assoluto e alla lunga vita per gli indumenti lavati come per il detersivo Klair che metteva sulla scatola il
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elettrodomestici le confezioni dei detersivi si adattarono a nuovi bisogni e gli imballaggi delle polveri si consolidarono in bianche scatole di cartone, formalmente più vicine ai volumi delle nuove macchine per il lavaggio domestico; mentre un decennio dopo si potevano trovare confezioni in tubolare di cartone, come per la polvere Dianna in Grecia o Bravo in Italia. Poi i detersivi cominciarono ad essere più sofisticati e apparvero le prime pubblicità “combinate” che promuovevano la marca di detersivo unitamente alla marca della lavatrice. In questo periodo le marche provenienti da oltre confine erano considerate sinonimo di qualità superiore e presto invasero il mercato greco in modo rapido e stabile. Alcuni prodotti, come l’Azax,
riuscirono ad affermarsi risolvendo soprattutto un grosso limite dei detersivi di allora, la troppa schiuma che necessitava di abbondanti risciacqui, facendo sprecare troppa acqua, rara risorsa in Grecia, e costringendo le casalinghe a un maggiore lavoro. Dagli anni '80 in poi i detergenti diventano gradualmente “formato famiglia”, confezioni grandi, pensate per un nucleo famigliare composto mediamente da 3-5 componenti e attualmente il più diffuso in Grecia. Più raramente nei minimarket di località turistiche si trovano contenitori con quantitativi inferiori. Per quanto riguarda l’oggi, la Grecia non si differenzia troppo dalle altre nazioni nel packaging dei detersivi, bisogna sottolineare però che il bisogno di una maggiore tutela ambientale e le relative direttive della
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comunità europea negli ultimi anni hanno segnato una svolta per lo smaltimento dei contenitori e dei prodotti per la detergenza domestica. La minimizzazione del volume dei rifiuti domestici, da un lato, e la raccolta differenziata dall’altro, hanno portato a studi più dettagliati per la scelta dei materiali dei prodotti di largo consumo (o per parti di essi, come spruzzatori ed erogatori) e sviluppato intere campagne che promuovono il riutilizzo della confezione. Le buste, anziché scatole e flaconi per contenere polveri o liquidi, sono riapparse in virtù del loro minimo ingombro e peso. L’uso del PVC è diminuito, e oggi i materiali più usati per il packaging dei detergenti, per il minore impatto ambientale, sono il PET e il polietilene. Al design strutturale delle confezioni si alternano considerazioni pratiche
sulla sicurezza e la maneggevolezza dei flaconi e sul potenziamento del loro aspetto estetico. Impugnature che assicurano la presa; beccucci che arrivano nei punti più difficili da pulire; chiusure di sicurezza per i bambini (child–resistant screw closure) per i prodotti tossici e ancora…coperchi-misurini; dosatori salvagoccia; disegni a rilievo che evocano fluidità e morbidezza ma che nello stesso tempo irrobustiscono il contenitore con le nervature. Le basi dei flaconi, in alcuni casi, si sono allargate per garantire la stabilità e linee sinuose li rendono più accattivanti. Altre innovazioni provengono dal settore chimico. Prodotti concentrati, liquidi o solidi combinano risparmio ed efficacia nel tentativo di compiacere il consumatore. I detersivi in polvere affiancano quelli liquidi come nel caso del ROL Forever Black
prodotto specializzato per il lavaggio dei capi scuri, confezionato in scatola nera. Alla luce di questi segnali, dei bisogni dei consumatori, ma soprattutto in una prospettiva di rispetto per l’ambiente, sono da prendere in seria considerazione esempi illustri come quello della Whirpool che propone nuove tipologie di lavatrici dove il cesto per la biancheria diventa il cestello per il lavaggio (Whirpool Cleanscape) e ancora, macchine che sfruttano il concetto della fitodepurazione creando all’interno dell’ambiente domestico un effetto giardino (Whirpool biologic). La mancanza di spazio in casa porta alla riduzione dei contenitori dei detersivi ed ecco arrivate dosi di detergenti e ammorbidenti grandi quanto una pillola, confezionate in blister proprio come dei prodotti farmaceutici (Mr. Clean per Whirpool Pulse). Oltre al mutamento dei comportamenti nel quotidiano domestico, c’è da considerare l’avanzamento tecnologico nel settore dei tessuti con i quali vengono prodotti capi d’abbigliamento e di arredamento. Gli scenari che si configurano per il futuro non escludono la vendita di “detersivi in provetta” che conterranno sostanze anti-batteriche o simili “alchimie”. Tutto è in gioco in un mondo che si trasforma imprevedibilmente e che rende sempre più incorporei contenitori e prodotti, offrendo la sensazione non più dell’acquisto di un bene, ma l’appropriazione della soluzione (più o meno temporanea) di un problema.
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Rosa Serpico, designer, collabora con ditte greche e italiane nel settore del packaging e degli accessori.
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Xenofon Ritsopoulos vive e lavora in Grecia, progetta imballaggi ed espositori per punti vendita, si occupa di consulenza aziendale nel settore del packaging.
container Xenofon Ritsopoulos Lives and works in Greece, designing packaging and display units for sales points and doin consultancy work for firms in the packaging sector
Hellenic Whiteness In the early post-war period, in Greece, housewives didn’t have many house cleaning products other than traditional soap and faceless invention still outdid the market development of detergents, but slowly…
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Text and photos by Xenofon Ritsopoulos and Rosa Serpico To improve the efficacy of soap, housewives at that time collected rainwater in special tanks below ground level which they then used for doing their laundry. In this way they obtained salt-free and “fresher ” water, which made it easier to wash clothes. Another product they used to enrich water was the so-called lisciva o alussà, ash from the burning of wood fires. First sieved to remove various impurities, the alussà was then collected and packed in nylon bags. The preparation for washing began with piling the clothes to be washed in a tub with a hole in the bottom: on top of the pile of garments, and as big as the tub, they laid a hemp cloth folded and sewn up with ash inside. After that they poured boiling water on top which, filtered by the hemp and “enriched” by the ash, impregnated the clothes cleaning them thoroughly. This pre-wash phase corresponded to fabricsofteners used today. The water from lighter clothes was collected and used again to wash dark clothes. It was a tiring process but guaranteed fabrics hygiene and more wear without harming the environment with drainage. At the beginning of the fifties, with the establishment of American products, synonyms of modernity and embodiments of the myth of the “easy life”, Greek industry too began to mass
Rosa Serpico,. Designer, works with Greek and Italian companies in the packaging and accessory sector.
market powder detergents. The names used for these detergents were often derived form the English word “clean” and up to the mid- Eighties the logotypes and texts were written in letters of the Greek alphabet: this helped the consumer to pronounce words derived from English correctly. Following the introduction of mass tourism and the spread of foreign languages Latin characters were increasingly adopted, as in the case of Klinex bleach, whose name and label were in “Greek” until the beginning of the Seventies, when they were changed into Latin lettering with graphics and colours conforming to Western standards. The first packaging didn’t even mention the polluting effects produced by immoderate use and powders were initially produced by the same industries which produced paints and fertilisers. Packaging of the first detergents in Greece consisted of small bags in different colours according to which kind of fabric needed washing: light blue bags for wool and delicate fibres, white for bed linen, dark blue for stronger fibres and general washes. Advertising searched out images and messages which alluded to pure whiteness and long life for the garments washed, like Klair detergent which put on its boxes the drawing of a jolly penguin on ice with the message “cleans and whitens everything-cleans without harming. But with the advent of these chemical products came the first “side effects”. So, at the end of the ‘50s, adverts underlined that the products were not harmful to the skin and some detergents were even advertised for their beneficial effect of protecting hands from irritation! Packaging in the ‘60s was characterised by logotypes and graphic effects which evoked the efficiency of the detergent and, something else which was very important, equipped with the first detailed instructions for use. In the same period the first combinations of different products to dispense
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materials most used in the packaging of detergents, due to their lower impact on the environment, are PET and PE. The structural design of packaging is alternated with practical considerations on the safety and manageability of the bottles and the enhancement of their aesthetic aspect. Handles which guarantee a good grip; lips which reach the hardest places to clean; safety caps for children (child–resistant screw closure) for toxic products and more… measuring caps; nondrip measuring devices: raised designs which evoke fluidity and softness but which, at the same time, fortify the container with ribbing. The bases of the bottles, in some cases, have been widened to guarantee stability and the sinuous lines make them even more appealing. Other innovations come from the chemical sector. Concentrated products, liquids or solids combine thrift and efficiency in an attempt to gratify the consumer. Powder detergents flank liquid detergents as in the case of ROL Forever Black, a specialised product for washing dark colours, packaged in black boxes. In the light of these pointers and consumer needs but, above all, out of respect for the environment, illustrious examples like Whirlpool who propose new types of washing machines where the washing basket turns into the washing machine drum (Whirlpool Cleanscape) and again, machines which exploit the concept of phyto-depuration creating a garden effect inside the home (Whirlpool biologic) are to be taken into serious consideration. The lack of space in the home leads to the reduction of detergent containers and so we see pill-sized doses of detergent and fabric softener, wrapped in blisters like pharmaceutical products (Mr. Clean for Whirlpool Pulse). As well as changes in daily domestic behaviour, we have to take into account technological advances in the textile sector which produces garments and furnishings. The scenarios taking shape for the future do not exclude the sale of “detergents in vitro” which will contain anti bacterial substances or similar “alchemy”. Everything comes into play in a world which is changing in unpredictable ways and yielding increasingly incorporeal containers and products, no longer giving us the sensation of buying a commodity but of appropriating the solution (more or less temporary) to a problem.
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at the various stages of hand-washing or machine washes were introduced. Klin powder, less expensive than soap, for example, together with a few drops of Lefkini (lefko = white) guaranteed a dazzling and cheap wash. With the spread of household appliances detergent packaging adapted to the new needs and powder packaging settled into white cardboard boxes, similar to the shape of the new machines used for washing in homes; while a decade further on you could buy tubular cardboard packaging, like Diana powder in Greece or Bravo in Italy. Then detergents began to get more sophisticated and the first combined advertisements appeared which promoted the brand of detergent together with the make of washing machine. At this time, brands from abroad were considered synonymous with superior quality and soon begin to invade the Greek market rapidly and steadily. Some products, like Azax, managed to establish themselves by removing a handicap of detergents back then- too much foam which required abundant rinses, wasting too much water (a rare resource in Greece) and creating more work for housewives. From the ‘80s onwards detergents gradually began to come in “family sized” large packs, conceived for a family unit composed of 3-5 components and currently the most widespread format in Greece. More rarely in tourist resort mini-markets you will come across smaller containers. As far as the present is concerned, Greece is not so different from other countries in terms of detergent packaging, though it must be emphasised that the need for greater environmental protection and relative European restrictions in recent years have led to a turning point in the means of disposing of containers and house cleaning products. Minimising the volume of household waste, on one hand, and recycling waste, on the other, have prepared the ground for more detailed studies as to the choice of materials for products of mass consumption (or for a part of them, such as sprays and pumps) and developed entire campaigns which promote the recycling of containers. Bags, rather than boxes and bottles for containing powders or liquids, have reappeared by virtue of their lesser bulk and weight. The use of PVC has diminished and nowadays the
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Origami per Mangiare
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Le leggere strutture cartacee di Daniele Papuli per contenere fiori, cibi, bevande.
Lui la carta la studia, la scruta, la fabbrica a mano, la piega, la trasforma fino a conoscerla nelle più intime fibre, così da poterla dominare completamente e farla diventare il suo personale strumento espressivo. È Daniele Papuli che, diplomatosi in scultura all’accademia di Brera e dopo aver diretto a Berlino il laboratorio plastico Licht Blick dedicandosi alla carta e ai processi di riciclo, si trasferisce a Milano e inaugura la sua produzione di esemplari unici e in edizioni limitate. Accanto a opere più artistiche e sperimentali propone poi vasi e oggetti di design, affiancando alla carta anche materiali come fogli vinilici, legno, plastica, che ben
presto trovano collocazione negli spazi del design e della moda come Maxalto, B&B Italia, Poliform, Minotti, Spazio Fabriano, Dilmos, Dovetusai, Missoni. Per il Gruppo Cordenons, produttore di carte di pregio, realizza una collezione ad hoc per rappresentare il loro marchio aziendale sulla stampa specializzata internazionale. Per quanto riguarda il packaging Papuli crea il progetto Packaging & Food consistente in una serie di ciotole, vassoi, unità takeaway per contenere cibo in monoporzioni e per offrire menù diversificati. Si chiamano Stotsu, Fleur, Petalo, A portata di mano. È una collezione tutta di carta, all’insegna dell’usa e getta, che
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Origami to Eat Daniele Papuli’s light paper creations to hold flowers, food and drinks.
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nasce dalle pieghe e dai tagli di un foglio. Sono realizzati in cartoncino per alimenti resistente al vapore e ai grassi, alle temperature estreme, riciclabile e biodegradabile, per cui il cibo può essere surgelato, cotto in forno - anche nel microonde - e consumato direttamente nei vari contenitori. Non vi sono nè collanti né termosaldature perché tutti i pezzi si montano con un semplice gesto e, grazie ad un imballo piatto, occupano il minimo ingombro. Piccoli packaging, origami del vicino occidente, che riportano alle antiche tradizioni orientali dell’offerta del cibo e contemporaneamente proiettano verso le nuove tendenze dello stare assieme.
He studies paper, examines it, makes it by hand, folds it, processes it until he knows intimately every fibre, so that he can dominate it utterly and make it become the tool of his personal expression. He is Daniele Papuli, a graduate in sculpture from the academy of Brera. After having directed the Licht Blick laboratory in Berlin, devoting his attentions to paper and recycling processes, he moved to Milan and began production of unique items and limited editions. Alongside more artistic and experimental works, he also produces vases and design objects, matching up paper with other materials such as sheets of vinyl, wood and plastic, which soon find a place in design and fashion houses such as Maxalto, B&B Italia, Poliform, Minotti, Spazio Fabriano, Dilmos, Dovetusai and Missoni. For the Gruppo Cordenons paper mills he creates a one-off collection to represent their company trade mark on international specialist printing. Where packaging is concerned, Papuli creates the Packaging & Food project, consisting of a series of bowls, trays and takeaway containers to hold food in individual portions and to offer a variety of menus. They are called Stotsu, Fleur, Petalo, A portata di mano. It is a collection entirely made of paper, to be considered as throwaway items, and derives from the folding and cutting of a single sheet. The items are made from food quality card, resistant to steam, grease and extremes of temperature, recyclable and bio-degradable, so that the food can be frozen, cooked in the oven (including the microwave) and eaten straight from the container. There are no glues or welds because all the pieces are assembled in a simple operation and, because they pack flat, take up minimal space. Small-size packaging, origami from the Near West, which carries on the ancient traditions of the East in the supply of food, and at the same time points to the new trends of being together.
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Cetrioli e Politica Il packaging nella DDR raccontato dal film Good Bye Lenin
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Maria Gallo
Ottobre 1989, Germania dell'Est. Una fervente attivista per il progresso sociale e per il miglioramento della vita nel regime socialista, cade in coma. Si risveglierà otto mesi più tardi, con il muro di Berlino ormai caduto e la divisione tra Germania Est e Germania Ovest, inesistente. Lo shock potrebbe ucciderla, ma un barattolo di cetriolini Spreewaldhof potrebbe riportare indietro le lancette della storia per far rivivere quel mondo sepolto troppo velocemente. Non una generica confezione di sottaceti, dunque, ma un barattolo di vetro dall’etichetta ben riconoscibile e con una forma familiare. La vittoria della marca al tempo del socialismo
reale, potremmo dire. Gli anni ’80 sono considerati, anche nell’occidente capitalista, la data di nascita del branding, del potere della marca: il packaging, senza che ce ne rendessimo conto, è diventato il suo vassallo. Per questo Alex, figlio della donna risvegliatasi dal coma e con un terribile gap cronologico, per tenere in vita la madre non dovrà offrirle solo amorevoli cure, ma dovrà ricreare, a partire dai mitici cetriolini Spreewaldhof (sponsor del film) un mondo, figlio di una super marca: la vecchia DDR. Come un navigato uomo di marketing Alex dovrà ricostruire nei dettagli
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atmosfere e sapori cancellati nel giro di pochi mesi. Dovrà fare un percorso a ritroso, a partire dalla spazzatura, per riappropriarsi di barattoli e confezioni spariti troppo in fretta anche dagli scaffali dei negozi. Così, questi packaging riempiti in maniera artificiosa, truccati, restaurati e rimessi in fila sulla mensola della cucina, funzioneranno alla perfezione: come parole di un
discorso sul passato che non muore, riusciranno per un po’ di tempo ad ingannare la donna. Il velo cadrà solo quando la statua di Lenin “benedicente”, una grande scatola sinceramente e onestamente vuota, sorvolerà il cielo indicando l’orizzonte, ormai cambiato. Maria Gallo è designer e giornalista. Scrive di packaging e di cultura degli oggetti per L’Unità.
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Gherkins and Politics Packaging in the DDR recounted in the film Good Bye Lenin Mario Gallo
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October 1989, East Germany. A fervent activist for social progress and for the improvement of life in the socialist regime falls into a coma. She wakes up eight months later, with the Berlin wall down and the division between East and West Germany no more. The shock might kill her, but a jar of Spreewaldhof gherkins could turn back history and allow her to reexperience that world that was buried all too quickly. Not a nondescript jar of pickles hence but a glass jar with a recognisable label and familiar shape. The victory of the brand in times of real socialism we might say. The eighties were also considered in the capitalist west as the date of the coming into being of branding, the power of the brand: packaging, without our realising it, had become its vassal. This is why Alex, son of the woman who has just
come out of a coma and in a terrible chronological gap, to keep his mother alive not only has to offer her loving care, but he also to recreate, starting from the mythical Spreewaldhof gherkins (the film’s sponsor) a world, offspring of a super-brand: the old DDR. Moving like an experienced marketing man Alex has to reconstruct in detail the atmosphere and the tastes cancelled in but a few months. He has to move backward in time, starting from the rubbish, to get hold of the cans, jars and packs that have disappeared all too quickly from the shelves of the shops. Thus this packaging filled artfully, dolled up, restored and placed back on the kitchen shelf, works to perfection: like the words in a talk on the past that fail to die, for a bit he manages to deceive the woman. The veil only falls when a “benedictory” statue of Lenin, a huge sincerely and honestly empty container, floats across the sky pointing to the horizon, by now forever changed. Mario Gallo, designer and journalist. She writes about packaging and culture of objects for L’Unità.
Selina Non è Una Qualunque
Selina non è una donna, e non è fatta per donne “qualunque”, è disegnata per chi attraverso gli oggetti, anche quelli di make up, vuol far risaltare la propria personalità. Selina è una linea standard di contenitori per il trucco mascara, rossetto, smalto, fard, cipria, ombretto - prodotta e distribuita dalla tedesca Corpack GmbH. Il briefing di partenza era di sviluppare una linea cosmetica per il mass market ma con un appeal da packaging di lusso, che idealmente rappresentasse le donne contemporanee, ricche delle loro potenzialità, sensibili e contraddittorie, fragili e resistenti al tempo stesso. Così il design dei diversi contenitori si è concretizzato nell’interazione di linee sia curve che rette e nell’alternanza di concavità e convessità. Un progetto curato fin nei più piccoli particolari,
fatto di dettagli e di “micro prospettive”, e infatti, guardando e tenendo in mano uno di questi oggetti, sarà sorprendente vedere come potranno apparire ora più spessi e imponenti, ora sottili e sfilati; da un lato spigolosi e piatti, dall’altro morbidi e stondati. Con queste caratteristiche, Selina offre ampia possibilità di personalizzazione, i vari elementi possono essere intercambiabili e resi unici dalla scelta di colori e finiture particolari. Una piacevole manegevolezza è garantita, oltre che dalle caratteristiche formali, anche dalla scelta del materiale di stampaggio, il SAN, che ne enfatizza l’aspetto tattile e psicologico grazie al peso e allo spessore elevato, e che conferisce anche senso di qualità e preziosità prestandosi molto bene, inoltre, ai trattamenti in superficie, dalla
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metallizzazione alla verniciatura soft-touch. I tappi dei flaconi (smalto, rossetto, mascara) e i coperchi delle scatole, sono realizzati in due pezzi e sono sottolineati da una “finestra” che può essere trasparente, per vedere il colore del prodotto, o traslucida come un vetro satinato o, ancora, colorata. Corpack, con sede a Monaco di Baviera, è un’agenzia nata per rappresentare aziende di packaging all’estero, ma attualmente è specializzata anche in ricerca e sviluppo di soluzioni globali per il packaging. Da sempre Corpack ha lavorato in stretto contatto con i suoi clienti e produttori per trasformare idee e concetti in prodotti di riconosciuto successo sul mercato internazionale. Grazie alla pluriennale esperienza e tramite un costante aggiornamento del panorama cosmetico internazionale, Jean Paul Corbeil, titolare della società, è in grado di conoscere e anticipare le tendenze e di rispondere in modo tempestivo e preciso alle richieste di mercato. Per apprezzare tutte le possibilità di personalizzazione di Selina, Corpack mette a disposizione un servizio di rendering tridimensionali realizzati al computer. Corpack GmbH Grandauerstr. 24 - 80997 München tel. +49 089 81887508 fax +49 089 81887509 jpc@corpack.de
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Selina Isn't Just Anybody
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Selina is not a woman, and she is not made for just any woman; she is designed for women who use certain objects, especially make up, to enhance and bring out their own personality. Selina is a standard line of make up packaging mascara, lipstick, nail polish, foundation, powder, and eye shadow - produced and distributed by the German Corpack GmbH. The preliminary briefing focused on developing a cosmetics line for the mass market, but with the special appeal of luxury packaging, that would ideally represent the modern woman, rich in potential, sensitivity, yet simultaneously contradictory, fragile and long-lasting. So the design of several packages is crystallized in the interaction of curved and straight lines and in the alternation of hollow concavity and bowed convexity. A careful, meticulous design, made up of details and "micro perspectives." Indeed, in beholding and holding one of these objects in your hands, it is surprising to note how they can suddenly seem weightier and more substantial, while being fragile and ephemeral; here flat and angular, there soft and sensuous. With these characteristics, Selina offers plenty of opportunity for personalization; the various elements can be interchanged and made unique by a diverse choice of colors and particular finishes. Pleasant handling is guaranteed by the formal
characteristics as well as the choice of printed material, SAN, which emphasizes the feel and psychological aspect, thanks to its relative weightiness and substance. SAN also lends a perception of high quality and value while being the perfect foil for surface treatments, from metalization to soft-touch paint finish. The caps of the bottles (nail polish, lipsticks and mascaras) and the lids of the boxes are constructed in two pieces, distinguished by a "window" which is either transparent to show the color of the product, translucent like pearled glass, or delicately tinted. Corpack, with registered offices in Munich, was originally set up to represent packaging companies abroad, but has since specialized in research and development of global packaging solutions. Corpack has always worked in partnership with its customers and producers to transform ideas and concepts into recognized, successful products on the international market. Thanks to his vast experience and his interest in what's new on the international cosmetic scene, Jean Paul Corbeil, owner of the company, has been able to anticipate the trends and react quickly and precisely to the needs of the market. To fully appreciate all the possibilities for personalization that Selina has to offer, Corpack has set up a three-dimensional rendering service on the computer.
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Un Master in Packaging Design L’Istituto Europeo di Design che, dal 1966, opera in diverse città italiane ed europee, nelle discipline del Design, della Moda, delle Arti Visive e della Comunicazione, dal prossimo Gennaio 2004 propone nella sede di Milano un Master annuale in Packaging Design che mira a formare professionisti in grado di affrontare il progetto dell’imballaggio sotto tutti gli aspetti, da quello formale e creativo a quello tecnologico, produttivo e commerciale; comprendendo argomenti come design, grafica, comunicazione, marketing, tecnologia dei materiali, semiotica, sociologia, legislazione, e prendendo in considerazione anche tutte le problematiche legate all’ambiente, allo smaltimento, al riciclo. Il corso prevede lo sviluppo di specifici progetti di packaging in collaborazione con aziende selezionate. Oltre ai workshop e alle visite aziendali, al termine, gli stages di approfondimento consentiranno agli studenti di penetrare direttamente nella realtà di questo mondo. Per informazioni Istituto Europeo di Design – Ufficio Master tel. +39 02 5796951 fax +39 02 5510374ù master@milano.ied.it - www.ied.it
A Scuola di Packaging
ESEPAC
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Ecole Supérieure Européenne de Packaging In Francia, a Brives Charensac nell'Alta Loira, 130 km a sud ovest di Lione, ha sede la scuola superiore di packaging Esepac. All’Esepac il mondo degli imballaggi è studiato sotto tutti gli aspetti e in maniera dettagliata. Due sono i principali moduli di formazione. Il primo, per una preparazione iniziale, comprende Développement Emballage e Design Emballage; il secondo, chiamato anch’esso Développement Emballage, fornisce ai professionisti del packaging un vero e proprio approfondimento tramite l’apprendistato. In questo caso l’insegnamento è ripartito su un biennio che alterna periodi di studio a progetti lavorativi direttamente nelle aziende. Da Ottobre 2003, l’Esepac
inaugura il nuovo modulo di specializzazione parauniversitario in Design & Packaging. Tutti i corsi sono destinati a futuri designer, responsabili del marketing, product manager, etc. e insegnano a creare, gestire e migliorare gli imballaggi; sono tenuti da docenti universitari, specialisti, tecnici e consulenti. Il vasto programma didattico, sviluppato su uno o due anni, prevede argomenti come: metodologia di sviluppo dell’imballaggio, tecnologia dei materiali, tipologie di imballaggi, marketing, legislazione e ambiente, controllo qualità, tecniche di vendita, grafica e design. Al termine e durante i periodi di formazione sono organizzati stages presso
aziende come Kodak, Miko, Danone, Auchan, Ferrero, Vittel, Perrier, Yves Rocher, e vengono svolti progetti quadrimestrali o semestrali che riguardano l’ottimizzazione degli imballaggi e dei costi, la standardizzazione, lo studio dei problemi tecnici. La scuola mette inoltre a disposizione di aziende e operatori del settore il Laboratoire Esepac per realizzare test di qualità, fare ricerca e risolvere tutte le problematiche dei materiali e dei manufatti da imballaggio. Per informazioni: Esepac 30, Route de Coubon 43700 Brives-Charensac. France Tel. +33 (0) 4 71 02 01 39 fax +33 (0) 4 71 02 01 49 contact@esepac.com www.esepac.com
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Master’s Degree in Packaging Design The European Design Institute (Istituto Europeo di Design) has been operating in several Italian and European cities since 1966, in the disciplines of Design, Fashion, the Visual Arts and Communication. From January 2004 it is offering an annual Master’s course in Packaging Design at its Milan headquarters. This is aimed at training professionals to tackle packaging projects in all their aspects, from the formal and creative to those dealing with technology, production and marketing. The course includes subjects such as design, graphic art, communication, marketing, materials technology, semiotics, sociology and legislation, and also takes into consideration all the problems linked to the environment, waste and recycling. The course includes the development of specific packaging projects, in association with selected companies. As well as workshops and visits to companies, the elements of the course will enable students to gain direct experience of the sector.. For further information Istituto Europeo di Design – Ufficio Master tel. +39 02 5796951 fax +39 02 5510374ù master@milano.ied.it - www.ied.it
At Packaging School
ESEPAC Ecole Supérieure Européenne de Packaging organised in companies such as Kodak, Miko, Danone, Auchan, Ferrero, Vittel, Perrier, Yves Rocher and four or six monthly projects are carried out covering optimisation of packaging and costs, standardisation, the study of technical problems. The school also makes the Laboratoire Esepac available to companies and operators for quality tests, research and solving all the problems related to packaging materials and the packaging in general. For information Esepac 30, Route de Coubon 43700 Brives-Charensac. France Tel. +33 (0) 4 71 02 01 39 fax +33 (0) 4 71 02 01 49 contact@esepac.com
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university specialisation course in Design & Packaging. All courses are for future designers, marketing heads, product managers, etc, and teach one how to create, administer and improve packaging; they are held by university professors, specialists, technicians and consultants. The vast didactic program, covering one or two years, includes subjects such as: methodology and development of packaging, material technology, type of packaging, marketing, legislation and environment, quality control, sales techniques, graphics and design. At the end of and during the period of study stages are
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The Esepac packaging school is based at Brives Charensac in the upper Loire, 130 km southwest of Lyon, France. At Esepack the world of packaging is studied in all its aspects in a detailed manner. It has two basic training modules. The first, offering an initial preparation, includes Développement Emballage and Design Emballage; the second, also called Développement Emballage, gives packaging professionals a true and proper grounding through apprenticeship work. In this case the course lasts two years alternating study periods with work projects carried out directly in the companies. October 2003 Esepac will inaugurate its new para-
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Dialogo fra due scuole di packaging Maria Gallo
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La complessità è forse l’elemento che contraddistingue in maniera più specifica il packaging industriale: oggetto e immagine devono fondersi e al tempo stesso esaltare le reciproche virtù. Grazie al lavoro di due scuole europee, complementari nella loro specificità, questa complessità è diventata terreno di studio per gli studenti che tra qualche anno affronteranno il progetto del packaging dal punto di vista professionale. L’ISIA (Istituto Superiore per le Industrie Artistiche) di Faenza è una scuola di industrial design, la Hogeschool voor Wetenschap & Kunst SintLucas di Gent (Belgio) è invece specializzata in graphic design; la collaborazione tra le due scuole è diventata l’occasione ideale per sviluppare progetti di packaging completi, nel corpo (3D) e nella pelle (2D). Otto studenti italiani e otto studenti belgi (dell’ultimo anno scolastico), componevano le coppie miste che, durante lo scorso anno accademico, hanno lavorato sui temi ideati dal team di insegnanti:
Germano Zanzani (direttore Isia), Maria Gallo, Roberto Ossani, Werner Rymenants, Cis Verhamme, Hans Plompen. A second life for packaging, Material for Immaterial, Too good to be true, Around the world, Student rescue box. Questi i temi, i punti di partenza che suggerivano agli studenti la possibile esistenza di prodotti nuovi, o da rinnovare. Temi volutamente generici che hanno però toccato le corde di una sensibilità fresca e giovanile in grado di stupire anche quando ha prodotto progetti molto realistici, come Paq. Altre volte il lavoro degli studenti ha esplorato ipotesi forse lontane da realizzare, ma non impossibili, riguardanti una nuova tipologia distributiva (Tokido), riuscendo comunque a definire un prodotto credibile. Il tema del viaggio e del nomadismo ha affascinato molto gli studenti: con OA+/-, X-Change e Rescue Box sono state analizzate le esigenze del viaggiatore, in senso lato. Dal bene primario come l’acqua, passando attraverso
bisogni igienico/estetici, per arrivare alle carenze affettive del giovane viaggiatore, questi progetti hanno rivestito semplici necessità con una patina emotiva, spesso ignorata nel mondo del packaging. Qualcosa di simile, inevitabilmente, è accaduto anche per Tsuki un progetto legato ai prodotti dedicati al benessere psicofisico. Relay e Webspace hanno saputo invece reinventare la relazione tatto/vista, troppe volte sottovalutata in un oggetto come il packaging industriale. Gli studenti, in questo caso, hanno considerato la morbidezza e le immagini tridimensionali come elementi fondanti del progetto, e non semplici complementi ludici, di puro abbellimento.
Nota: Il workshop sul packaging si è svolto tra novembre 2002 e aprile 2003, organizzato da ISIA (Istituto Superiore per le Industrie Artistiche) di Faenza e la Hogeschool voor Wetenschap & Kunst Sint-Lucas di Gent (Belgio). Per ulteriori informazioni: ISIA, C.so Mazzini 93, 48018 Faenza (I), tel. +39054622293, fax +390546665136, isiafaenza@racine.ra.it, www.isia.it
OA+/- (by Silvia Cogo, Bernd Van de Voorde) Dedicato al nomadismo il progetto affronta un tema molto sentito dai viaggiatori: come conciliare la necessità di dissetarsi con l’impossibilità di trasportare contenitori troppo pesanti e ingombranti come una bottiglia? Con contenitori morbidi e leggeri con un volume d’acqua pari a un bicchiere.
X-Change (by Fabiana Farneti, Wendy Guns) Packaging per donne in viaggio. Realizzato in Tyvek, un materiale igienico e riciclabile, il contenitore, composto con un unico foglio fustellato, è suddiviso in otto scomparti che contengono tutto il necessario per un breve spostamento di 48 ore, dalle salviette preimpregnate, alle mini pasticche di dentifricio, agli assorbenti igienici.
Tokido (by Anna Bardovagni, Ellen Adam) Packaging ricaricabile per uova composto da singoli contenitori di plastica componibili tra loro tramite un piccolo gancio. Dopo aver acquistato il primo set di 4 o 6 uova, il consumatore può tornare ad acquistare uova “sfuse” utilizzando solo i contenitori che servono. Il cappuccio trasparente assicura la visibilità della data di scadenza impressa sulle uova. Refillable egg packaging composed of individual modular plastic containers which can be fitted together by means of a small hook. After buying the first set of 4 or 6 eggs, the consumer can go back and buy “loose” eggs using only the containers he needs. The see-through lid guarantees visibility of the use-by date printed on the eggs.
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Dedicated to globetrotting the project tackles a problem which is very close to travelers’ hearts: how do you reconcile the need to quench your thirst with the impossibility of transporting heavy and bulky containers such as bottles? With soft and light containers that hold a volume of water equal to a glass.
Packaging for women travelers. Produced in Tyvek, a hygienic and recyclable material, the container, made of a single punched sheet, is divided into eight compartments which have everything you might possibly need for a short 48 hour trip, from wet wipes to mini toothpaste tablets, to sanitary pads.
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Dialogue between two schools of packaging Maria Gallo
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Complexity is perhaps the element which specifically distinguishes industrial packaging: subject and image must blend, and at the same time sing their mutual praises. Thanks to the work of these two European schools, complementary in their specialisations, this complexity has become an area of study for the students who, in a few years, will confront packaging projects as professionals. The ISIA (Istituto Superiore per le Industrie Artistiche) in Faenza is a school of industrial design, while the Hogeschool voor Wetenschap & Kunst Sint-Lucas in Ghent (Belgium) specialises in graphic design; the collaboration between the two schools became an ideal opportunity to develop complete packaging projects, in the body (3D) and the skin (2D). Eight Italian and eight Belgian students (in their final school year) made up the mixed pairs who, during the last academic year, worked on subjects thought up by the team of teachers: Germano Zanzani (director of ISIA), Maria Gallo, Roberto Ossani, Werner Rymenants, Cis Verhamme and Hans Plompen. A second life for packaging, Material for Immaterial, Too good to be true, Around the world, Student rescue box. These were the themes, the starting points which suggested to the students the possible existence of a new product, or an
updated one. The themes were intentionally generic, but touched a cord of fresh, young sensitivity which could surprise, even when they produced very realistic projects, such as Paq. At other times, the studentsâ&#x20AC;&#x2122; work explored ideas which were perhaps difficult, but not impossible, to attain, regarding a new type distribution (Tokido), nevertheless managing to define a credible product. The themes of travel and wandering fascinated many students: with OA+/-, X-Change and Rescue Box they analysed the needs of travellers in a lateral way. From basic needs such as water, through hygienic and aesthetic requirements, to the emotional needs of the young traveller, these projects covered basic needs with a layer of emotion, often ignored in the world of packaging. Something similar happened, inevitably, with Tsuki, a project linked to products aimed at physical and psychological wellbeing. Relay and Webspace, on the other hand, reinvented the relationship between touch and sight, too often undervalued in a subject such as industrial packaging. In this case, the students used softness and three-dimensional images as fundamental elements of the projects, not simply as playful embellishments. Note: The packaging workshop took place between November 2002 and April 2003, organised by ISIA (Istituto Superiore per le Industrie Artistiche) in Faenza and the Hogeschool voor Wetenschap & Kunst Sint-Lucas in Ghent (Belgium). For further information: ISIA, C.so Mazzini 93, 48018 Faenza (I), tel. +39054622293, fax +390546665136, isiafaenza@racine.ra.it, www.isia.i
portfolio
The Pulice Le immagini di Tamar Matza non sono solo ritagli del panorama domestico, ma veri e propri ritratti di personaggi che, messi in una posa inusuale, rivelano un significato inatteso. CosĂŹ, il banale flacone, la schiera di panni stesi, la spugnetta del lavabo acquistano una fisionomia e una personalitĂ . PerchĂŠ anche il quotidiano cela in sĂŠ un intero mondo. Tamar Matza images are something more than fragments from the domestic landscape; they are true portraits of characters which, in an uncommon pose, reveal their inner meaning. The banal bottle, the washing hanged out, the little sponge on the wash-basin, get a face and a personality. Everyday life hides in itself a world.
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Tamar Matza, free lance photographer, born in Jerusalem, lives and works in Milan.
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Tamar Matza, fotografa free-lance, nata a Gerusalemme, vive e lavora a Milano.
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Cose reali
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Real things
Trio / Trio
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Vedere le cose diversamente
Seeing things differently
Lo Spazzolone / The Brush 2/03 123
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La realtà è quella che vedo guardando attraverso la mia macchina fotografica.
Reality is what I see through my camera
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La Spugna / The Sponge
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Cambiare la realtĂ significa guardare
Changing reality means looking
Il Pubblico / The Audience
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Cosa è reale?
What’s real?
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La Strana Coppia / The Strange couple
Queste fotografie sono state prese con un Banco Ottico 4x5. ”2003 These photographs were taken with a 4x5 View Camera. ”2003
This End Up. Original Approaches to Packaging Gavin Ambrose, Paul Harris, RotoVision, 2003
Con il magnifico This End Up, la RotoVision, editore specializzato in packaging design, offre una consistente panoramica sulle tendenze attuali. Il volume raccoglie diciotto packaging di straordinaria efficacia visiva e concettuale. Notevole il progetto di un grafico d’eccezione come Bruce Mau per gli artisti della galleria londinese White Cube, ma interessante anche il “caso” di Elizabeth Kopf, un’artista che si è prestata al packaging design su invito della Vienna Art Orchestra; il suo progetto è consistito in un box per CD che - anche se si stenta a crederlo! - “suona” quando il prodotto viene estratto o rimesso nella custodia. Una rassegna imperdibile per chi si occupa di packaging e, insieme, di cultura visiva.
Shopping. A Century of Art and Consumer Culture
The catalogue for the show held at the Tate Gallery in Liverpool and at the Schirn Kunsthalle in Frankfurt is much more than a pretty illustrated souvenir for a singletheme show. A series of essays the ones by Boris Groys and Cristoph Grunenberg are particularly noteworthy - takes an in-depth look at an aspect that's not at all obvious of the modern period from the early 1900s to the present day. Many a show and publication has dealt with the relations between advertising and art, but they've all had a basic defect: they've limited their analysis to just the iconographical aspect. Going shopping, the act of buying and all that's involved is, however, a phenomenon with sociological, anthropological and cultural factors that go well beyond the images,. And this explains the interest shown by the artists and photographers, quick to appreciate the ambiguous function of facts such as the shop window, the supermarket, the store sign, the pack - symbols that surround the goods and which define their allegorical universe.
Hatje Cantz, 2002
Questo catalogo della mostra tenutasi alla Tate Gallery di Liverpool e alla Schirn Kunsthalle di Francoforte risulta molto di più che un piacevole souvenir illustrato di un’esposizione a tema. Una serie di saggi - tra cui spiccano quelli di Boris Groys e Cristoph Grunenberg - analizza a fondo un aspetto per niente ovvio di quel periodo della modernità che va dai primi del 900 a oggi. Numerose sono state le mostre e le pubblicazioni sui rapporti fra pubblicità e arte, ma tutte hanno il difetto radicale di limitare l’analisi al solo lato iconografico. Lo shopping, l’atto d’acquisto e tutto ciò che lo riguarda, è invece un fenomeno insieme sociologico, antropologico e culturale che va ben oltre le immagini, e questo spiega l’interesse che ad esso hanno riservato gli artisti e i
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fotografi, a cui non è sfuggita l’ambigua funzione di fatti come la vetrina, il supermarket, l’insegna, la confezione - simboli che circondano la merce e ne definiscono l’universo mitologico.
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With its fantastic This End Up, RotoVision (a publisher specialising in packaging design) offers a consistent look at current trends. This volume is a collection of 18 examples of packaging with extraordinary visual and conceptual effect. In particular, there's project by the world-class graphic artist Bruce Mau for the artists of the White Cube art gallery in London,. Then there's the interesting case of Elizabeth Kopf, an artist who undertook packaging design on the request of the Vienna Art Orchestra: her project consists of a box for CDs
that - believe it or not! - “plays” when the product is extracted or returned to its case. A collection not to be missed by those in the packaging industry and those interested in visual culture.
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Krazy Kids’ Food!
Ventura e sventura della modernità,
lacanian ink, 21
Steve Roden, Dan Goodsell, eds., Taschen, 2003
Georg Simmel, a c. di E. Rutigliano e P. Alferj, Bollati Boringhieri 2003
Un piacevole itinerario nella nostalgia dei mitici anni 50 e 60, visti dall’insolita angolatura dei prodotti per bambini: caramelle, gomme da masticare, cereali, pop corn, ma anche dentifrici e saponi. In tutti questi prodotti il packaging la faceva da padrone, al punto da pensare che sia stata quella la vera età dell’oro della confezione. Quasi un pezzo di storia del recente passato, da cui dedurre almeno due considerazioni: l’enorme impatto dell’avventura spaziale (tema quasi ovunque ricorrente), e la minacciosa onnipresenza, in quei prodotti per l’infanzia, di additivi chimici e “aromi artificiali”…
Georg Simmel (18591918) è considerato uno dei padri della moderna sociologia. Definito da chi partecipava alle sue lezioni uno “scoiattolo filosofico”, il cui metodo era un “accurato disordine”, si occupò delle forme sociali analizzandone la complicata tessitura da diversi punti di vista. Gli scritti qui raccolti spaziano da temi prettamente sociologici, come gli stili di vita o il fenomeno della povertà, ad aspetti sorprendentemente contemporanei, come la moda, la civetteria, il pudore, il denaro. Leggendo i testi di Simmel, sembra di aver a che fare con un Nostradamus della modernità.
Al suo ventunesimo numero, questo raffinato semestrale si conferma come un riuscito progetto grafico ed editoriale . Pur tenendo fede alle intenzioni (si tratta di un semestrale dedicato all’ analisi e alla discussione del pensiero psicoanalitico di Jacques Lacan, godendo inoltre della partecipazione di uno dei maggiori rappresentanti di questo indirizzo, Jacques-Alain Miller), lacanian ink ha l’indubbio merito di porsi come uno strumento di comprensione del panorama sociale odierno. Ogni numero è illustrato da immagini, spesso inedite, di artisti contemporanei. Per info: lacink@lacan.com
A fun look back at the legendary 1950s and 1960s, seen from the special angle of products for children: sweets, chewing-gum, cereals and popcorn, but toothpaste and soaps too. With all these products, the packaging played an important role, to the point that one could easily be forgiven for thinking that that was the golden age of packaging. Almost a piece of recent history, letting one reach at least two conclusions: the enormous impact of adventures in space (a theme found almost everywhere) and the omnipresence threat of chemical additives and "artificial flavourings" in what are, after all, products for children…
Simmel (1859-1918) is held to be one of the fathers of modern sociology. Defined by a past student as a “philosophical squirrel”, whose method was an “accurate disorder”, he was interested in social forms, analysing their complicated make-up from various points of view. The writings collected here range from strictly sociological themes, such as lifestyles and the phenomenon of poverty, to some surprisingly contemporary themes, such as fashion, flirtatiousness, modesty and money. On reading Simmel’s works, one gets the impression of a Nostradamus of the modern age.
Now into its twenty-first edition, this refined six-monthly journal confirms its success as a serious publication project. Whilst remaining true to its original intentions (a six-monthly journal with analysis and discussion of the psychoanalytical thought of Jacques Lacan, and boasting contributions by one of the greatest representatives of this school, Jacques-Alain Miller), lacanian ink has the certain merit of dedicating its articles to analysis of concrete cases typical of today's society. Each issue is also illustrated with works by contemporary artists, often published for the very first time. For further information: lacink@lacan.com
spring 2003