2/2005 € 11,00
mother & son po up gr life or sf on en rd co
da ogni albero nasce un albero Per il Gruppo Cordenons, Cartiere da 4 generazioni, la cura dell'ambiente è una priorità. Dal 1990 l'impegno per la preservazione ambientale si è realizzato con la Fondazione del Parco botanico Saussurea a Courmayeur e aderendo al progetto Trust The Forest con l'adozione di 3.000 Km2 di Foresta pluviale in Gabon. Gruppo Cordenons dedica alla ricerca e sviluppo di carte particolari per editoria, packaging, corrispondenza, pubblicità gran parte delle proprie risorse.
Graphic design: Maurizio Milani
www.gruppocordenons.com
credits
Questo numero è stato realizzato con il contributo di This issue has been created with the contribution of
III copertina
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II copertina
photo by Erica Ghisalberti
Packaging Ecoetico
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Sonia Pedrazzini, Marco Senaldi
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non si risolverà senza una presa di coscienza globale intorno al sistema dei consumi e alle sue pratiche. Ecco quindi che il packaging ci sta ponendo di fronte anche all’aspetto etico della sua produzione, in quanto coinvolge in maniera diretta o indiretta lo sfruttamento di risorse umane e naturali, e del suo utilizzo, in quanto ha un impatto diretto sul nostro ambiente. Questo numero di Impackt, senza avere la pretesa di dire una parola definitiva intorno a questioni ancora aperte e di enorme portata sociale, culturale e industriale, tenta di sondare il rapporto fra packaging e inquinamento/ riciclo/ sostenibilità ambientale/ uso creativo dello scarto. In mezzo a questo complesso “passaggio a Nord Ovest” abbiamo chiesto un autorevole parere a chi si occupa di questi problemi: dal punto di vista del progetto a Paolo Deganello e da quello teorico ad Antonio Caronia, ma anche a chi, come numerosi artisti di diverse generazioni, Erica Borghi o Ben Vautier, ha fatto dell’abilità di riutilizzare l’involucro scartato una poetica. Senza dimenticare chi, in prima persona , si è posto il problema di un packaging etico e sostenibile, come le aziende che abbiamo intervistato: il gigante della distribuzione italiana Coopitalia e la marchigiana Boxmarche. Per finire con un’inchiesta sulla posizione dei Consorzi che, in Italia, gestiscono raccolta e riciclo di imballaggi, siano essi di vetro, di acciaio, di plastica, di carta, di alluminio o di legno.
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Possiamo anche continuare a pensare al packaging solo in termini di imballaggio, di confezione, di involucro, o anche di comunicazione, di pubblicità, di design - ma l’evidenza resta comunque sotto i nostri occhi. L’evidenza è che più packaging si produce, più migliora la nostra relazione con le merci, ma anche, paradossalmente, peggiora il nostro rapporto con l’ambiente e con la nostra vita, perché ci saranno ancora più rifiuti che presto o tardi andranno in un modo o nell’altro smaltiti. Oggi questa realtà inevitabile non può più essere ignorata. Anche soltanto ripensando alla propria esperienza personale, è patrimonio di molti non più giovanissimi il ricordo delle piccole pattumiere domestiche di una volta, dentro le quali finivano qualche buccia di patata, la confezione della merenda, una lampadina rotta e al massimo un po’ di polvere spazzata dal pavimento. Tutto il resto, anche il sacchetto di carta del pane o la scatola di cartone, veniva in un modo o nell’altro recuperato, anche per l’atavica paura di “buttar via” ciò che sarebbe potuto “tornar utile”, che dominava ancora la nostra società ben oltre i periodi di magra del dopoguerra. Oggi, dopo decenni di esperimenti industriali e sociali, dopo campagne per la raccolta differenziata, il riciclo intelligente e il riuso creativo, dobbiamo prendere atto del fatto che il problema dei rifiuti è ben lungi dall’essere pienamente risolto, ma occorre anche rendersi conto che
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Ecoethic Packaging
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Sonia Pedrazzini, Marco Senaldi
We could just carry on thinking of packaging in terms of what it is, for packing, wrapping, or as a means of communication, publicity, design yet the facts continue to stare us in the face. The fact is, the more packaging we produce, the better we relate to the products, but also, paradoxically, the worse we relate to the environment and to our way of life, because there will always be more waste that, sooner or later, in one way or another, will have to be disposed of. Nowadays, this inevitable reality can no longer be ignored. Even just thinking about our personal experience, the elder of us may well recollect those little domestic trash cans of times past, where we put the occasional potato peelings, sweet wrapper, broken light-bulb and, at the very most, the dust swept off the floor. Everything else, even the brown paper bag in which the bread was kept or the cardboard box, was, in one way or another, kept and recycled, even out of that atavistic fear of “throwing away” something that could be “useful”, a fear that prevailed in society well after the lean times of the post second world war. Currently, after decades of industrial and social experiments, after campaigns for segregated waste collection, intelligent recycling and creative re-using, we must recognize that the problem posed by waste is far from being fully solved, but we should also recognize that it won’t ever be solved unless there is global
consciousness of the consumption system and its practices. Packaging production therefore shows us an ethical side, insofar as it directly or indirectly involves the exploitation of human and natural resources, and insofar as it has a direct impact upon our environment. This edition of Impackt, without pretending to say anything definite about these questions, which are still very much open and of enormous social, cultural and industrial bearing, attempts to investigate the connection between packaging and pollution/recycling/environmental sustainability/creative use of waste. At the middle of this complex “journey to the North West” we sought the authoritative opinion of those who deal with these problems: Paolo Deganello, with the point of view of the project, and Antonio Caronia, with the theoretical point of view; and those who, like a great many artists of different generations, such as Erica Borghi or Ben Vautier, have made their ability to reuse waste packaging into an art form. We didn’t forget those who have personally addressed the problem of an ethical and sustainable form of packaging, like the concerns we interviewed: the Italian distribution giant Coopitalia and Boxmarche of Le Marche. We ended with an enquiry into the position of the Consortiums, who, in Italy, manage the recovery and recycling of glass, of steel, plastic, paper, aluminium and wood packaging.
GUIDA TURISTICA ATTRAVERSO I PANORAMI REALI E MENTALI DEL PACKAGING TOURIST GUIDE TO THE REAL AND S P I R I T UA L
LANDSCAPES
OF
PACKAGING
I N
Q U E S T O
N U M E
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school box 10 Isiatelier a Firenze 90 Francesca Bianchi, Paolo Deganello
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shopping bag Chiudere il Cerchio Francalma Nieddu
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container Homeless sweet Homeless Marco Senaldi
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warning! La contraddizione del Packaging 105 Antonio Caronia
shopping bag Il Packaging con l’Anima Sonia Pedrazzini
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identi-kit Ben dall’A alla Z 113 Giada Tinelli tools Sogni di cartone 123 Gabriele Illarietti
R O - 2 / 0 5
book box 125 shopping bag La Gea-Politica del Packaging Maria Gallo warning! Anche se tante cose un senso non ce l’ha… Paolo Deganello identi-kit Restart Michele Calzavara shopping bag Cooperare per un Ambiente Migliore Sonia Pedrazzini
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E C O E T I C O
design box Eco design for kids
identi-kit Cartoni Animati Giada Tinelli
PA C K A G I N G
identi-kit La Regina dei Rifiuti Federica Bianconi
3
Le nostre copertine
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Front cover Millions, Danny Boyle, 2004 Courtesy Medusa Film Back cover Enrica Borghi, particolare
I L
user instructions Packaging Ecoetico S. Pedrazzini, M. Senaldi
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user instructions Ecoethic Packaging S. Pedrazzini, M. Senaldi
E C O E T H I C
P A C K A G I N G
identi-kit The Queen of Waste Federica Bianconi design box Eco design for kids
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container Homeless Sweet Homeless Marco Senaldi
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shopping bag Packaging with Soul Sonia Pedrazzini
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shopping bag The Gea-Politics of Packaging Maria Gallo
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warning! Even if many things ain’t got no meaning… Paolo Deganello identi-kit Restart Michele Calzavara shopping bag Cooperation for a Better Environment Sonia Pedrazzini identi-kit Cartoons Giada Tinelli school box Isiatelier in Florence Francesca Bianchi, Paolo Deganello
shopping bag Close the Circle Francalma Nieddu warning! The contradiction of packaging Antonio Caronia
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tools Cardboard dreams… Gabriele Illarietti
124
book box
125
70
78 Our covers Front cover Millions, Danny Boyle, 2004 Courtesy Medusa Film Back cover Enrica Borghi
90
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identi-kit Ben from A to Z Giada Tinelli
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Redazione
Segreteria Ufficio tecnico
Progetto grafico
Impaginazione
Traduzioni
Lastre e stampa
Numero
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Erica Ghisalberti, Vincenzo De Rosa
Vincenzo De Rosa (Studio Grafico Page - Novate - MI)
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La copertina di Impackt è stampata su carta Natural Evolution 280 g Gruppo Cordenons
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identi-kit
La Regina
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dei Rifiuti Nel lavoro artistico di Enrica Borghi scarti e rifiuti sono il materiale prosaico da cui nasce la poesia di opere magiche.
Federica Bianconi
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Enrica Borghi, 35 anni, Regina del Riciclo, inizia l’attività artistica elaborando installazioni con materiali di recupero attinti dall’universo femminile (unghie finte, bigodini, ornamenti vari) e/o domestico (sacchetti della spesa, plexiglass, etichette e imballaggi, bottiglie vuote…). Nel 1995 espone elaborati abiti femminili e la serie delle Veneri alla Galleria Peola di Torino, poi, nel 1997 partecipa alla collettiva curata da Lea Vergine Quando i rifiuti diventano arte presso il Museo d’Arte contemporanea di Rovereto. Nel 1999 realizza la Regina al Museo d’Arte contemporanea di Rivoli; il suo lavoro è presentato al Mamac di Nizza fino al 30 ottobre 2005). Con un progetto ambizioso in corso: un luogo in cui realizzare i sogni, l’Asilo Bianco - un antico palazzo vicino al Lago d’Orta. Lo scopo: rappresentare attraverso le diverse tonalità del bianco, attraverso le cadenze e le eco temporali dei fiori, delle nubi e dei sorrisi, gli eterni finiti della vita umana…
MURO E TAPPETI - 2005
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Riciclo, manipolazione, combinazione, ripetizione, pastiche, metamorfosi, magia… Nella tua opera differenti nozioni confluiscono in progetti complessi. Questi sistemi, dinamici e poetici, quanto si allontanano dal materiale recuperato, inteso elemento base dell’opera? Riciclo e manipolazione... credo molto alle potenzialità degli oggetti scartati. Non solo nella pattumiera ma anche nella società. Mi piace guardare quello che la gente definisce inutile e a cui dichiara una fine di destinazione d’uso. La mia manualità, il tempo interminabile che dedico nel riassemblare gli scarti è il tempo della riflessione, della trasformazione magica in cui tutto può essere reintegrato, rigenerato. Le mie installazioni subiscono realmente una metamorfosi dell’oggetto... Sposto l’attenzione, la tensione nel punto in cui l’oggetto non è più riconoscibile... Viene letto con una identità completamente nuova e magnifica. Nel caso del Mandala per esempio assemblo migliaia e migliaia di tappi di plastica in modo geometricamente perfetto, come un intarsio prezioso oppure un tappeto arabo... il lavoro procede per due tre giorni e poi, a fine mostra si distrugge tutto per essere ricomposto nuovamente. L’idea che questa perfezione geometrica sia liquida e instabile, riproponibile in migliaia di forme e possibilità mi anima e mi dona l’energia per ripetere all’infinito questi schemi... Se da una parte mi interessa l’aspetto fabulistico dall’altra è intrinseco l’aspetto non solo ecologista-ambientale ma anche sottilmente sociale... L’idea che esistano non solo cose ma pensieri, uomini, ideologie che vengono scartati, ritenuto fuori moda, fuori tempo... destinate a non avere più una seconda possibilità per essere nuovamente interpretati... questo mi stimola e mi crea la forza
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per continuare nella mia ricerca senza fine...
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Che valenza ha il singolo oggetto e quale plusvalore dà la capacità di intuire l’aspetto soft di un materiale, destabilizzarlo e liberarne la potenzialità espressiva? Quanto viene ri-pescato e quanto ri-pensato? Un oggetto preso singolarmente, destinato allo scarto mi interessa proprio in quanto nato e pensato per essere usato e gettato velocemente. Penso appunto a tutti i packaging seduttivi e colorati... L’idea di accumularli e ripensarli mi viene suggerita dall’oggetto stesso, dalla sua forma, dalla costituzione chimica intrinseca nel materiale. Per esempio le bottiglie di PET immediatamente mi hanno fatto pensare al vetro, e per esempio la loro malleabilità al calore ha esaltato le infinite possibilità operative. La merce che compro mi dona sempre un senso di insicurezza... anche quello che mangio, tutto ciò che viene consumato, divorato, eliminato, mi crea una forte instabilità e forse per questo decido di rinchiudermi in studio e ricucire questa ferita per ore ed ore... Che scontro o complicità hai con le cose? Ti capita di percepire subito che un materiale è incapace di partecipare al progetto, oppure versatile, aperto, svincolato dalla sola dimensione fisica e funzionale? Quali oggetti sono inavvicinabili al tuo lavoro? Gli oggetti inavvicinabili nel mio percorso? Bella domanda... Sicuramente quelli poco sintetici, chimici, che non hanno skin, seduzione. Non è matematico che un materiale oppure un oggetto non comunichino con il mio lavoro, a volte deve semplicemente trascorrere del tempo. Non sempre sono in grado di cogliere le potenzialità di un materiale o di uno
LA REGINA - 1999
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I FIORI DELLA LUNA 2001
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strumento che mi permette di lavorare, trasformare un materiale. In alcuni casi sono i materiali stessi a suggerirmi emozioni, creazioni ed accumulazioni... in altri casi lascio che l’interesse verso la confezione si sedimenti per riaffiorare caricato di un nuovo valore. Sei semplicemente sensibile alle tematiche ambientali o hai ossessioni e manie ecologiche? Sono una normale cittadina che esegue la raccolta differenziata, cerco senza ossessioni di inquinare il meno possibile e di fare una vita sana ed equilibrata. Ho scelto con il mio compagno Davide di vivere in una zona collinare abbandonando la frenesia della città, consapevole anche di affrontare alcune difficoltà per il mio lavoro... ho scelto di non essere al centro del dibattito... ma oggi il tema della centralità è molto discusso e forse il glocal è molto
presente anche in questo piccolo paese. Che ruolo ha la manualità e la tecnica nella definizione dell’opera? Hai collaboratori che ti aiutano nella realizzazione delle tue installazioni? Il ruolo della manualità è determinante nel mio lavoro. È proprio attraverso il lavoro lento e maniacale che riesco a ricreare le magie. Gli abiti del ‘96 eseguiti con sacchetti tagliati e annodati erano intrecciati a maglia, ed è tenendo fede allo spirito della manualità femminile che procedo nella mia ricerca. Il tempo esce dalla frenesia isterica e diviene un fuori luogo, un tempo recuperato dal consumismo dell’usa e getta da cui sono tanto sedotta. Durante l’esecuzioni di installazioni importanti mi aiutano spesso dei collaboratori ma anche degli studenti dell’Accademia o del Liceo Artistico. L’aspetto dell’arte
PALLE DI NEVE Luci d’artista, Torino 1998 -2006
contemporanea come esperienza didattica e momento collettivo condiviso è determinante nel mio lavoro... diviene un rituale collettivo.
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Quando fai shopping cerchi il brand, il packaging accattivante o preferisci il prodotto anonimo? Ti capita di comprare qualcosa solo per la confezione? E conservarla per una tua opera? I supermercati o i grandi magazzini in genere mi provocano una sensazione ibrida di nausea e seduzione che spesso vorrei ribaltare nel mio lavoro. Amo frequentare i supermercati, osservare la merce come un investigatore privato... leggere le avvertenze, controllare i loghi, i colori. Compro quasi esclusivamente per la confezione e mai per il contenuto... quando sono all’estero mi piace impossessarmi di tutto ciò che non viene commercializzato in Italia, colori di bottiglie di plastica, confezioni essenzialmente di tipo
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Mi racconti la tua magia meglio riuscita? La mia opera meglio riuscita credo sia La Regina di Rivoli. Ho assemblato circa 10.000 bottiglie di plastica trasparente, di scarto aziendale. Mi ha aiutato tutto il Dipartimento Didattico del Museo e molti studenti ed è stata realizzata all’interno della stanza dove poi abbiamo installato l’opera. Anche in questo caso, come succede sempre nel mio lavoro, il progetto di un’installazione per i bambini e l’idea di lavorare all’interno di un castello mi hanno suggerito l’idea di una Regina... proprio quella delle fiabe, come un sogno, un’apparizione trasparente ed impalpabile... Anche la sala molto grande mi ha suggerito
di lavorare con un fuori scala enfatizzato.
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plastico, dal sacchetto al contenitore tridimensionale... Logicamente conservo e accatasto gli scarti che potrebbero servirmi per qualche lavoro... a volte restano accatastati per due, tre anni per riaffiorare come piccole magie. Quanto del tuo mondo privato e dei tuoi sogni si è realizzato nell’arte? Hai nuovi progetti in programma presso gallerie e musei? Moltissimo, ho potuto diventare una Regina in un mondo di rifiuti… Comunque di un regno che nessuno voleva... Ho potuto avere abiti e gioielli preziosi, di plastica riciclata ma comunque unici: un chilometro di via luminosa con fiocchi di neve giganti come mongolfiere, magie luminose, stanze da mille e una notte. L’arte mi permette di avere quella famosa bacchetta magica che tutti da bambini vorremmo avere.
ARCHITETTURA DI LUCE, 2004
Mi racconti qualcosa dell’attuale lavoro al Musée d’Art moderne et d’Art contemporaine di Nizza? La mostra presso il Mamac di Nizza
è costituita con un materiale nuovo nel mio percorso di ricerca ed è stato realizzato appositamente per questa mostra. Ho visitato alcuni anni fa una industria di pellicole di alluminio e ne sono rimasta folgorata... Spesso mi sono impadronita di carte dei cioccolatini come feticci, ma vista in quantità
industriali è stata un’apparizione. Subito ho pensato che prima o poi avrei utilizzato questo materiale così incredibile. La seduzione subita da questo materiale è veramente entusiasmante, l’argento, il cangiante, colori opachi, lucidi e satinati come stoffe, sete preziose. Visitando il museo di Nizza ho deciso che finalmente questo materiale poteva coincidere con il luogo, l’atmosfera ed il concetto che volevo analizzare. In una parete del Mamac ho installato circa 12.000 palline avvolte in carte di alluminio colorato e assemblate tra loro fino a comporre un decoro ad arabesco. L’idea di contaminazione arabeggiante si ripete nei tappeti installati a terra e a muro. Sono realizzati attorcigliando la pellicola in lunghe stringhe che vengono incollate in modo spiraliforme dal centro verso l’esterno. Il tema quindi è la linea curva, un rimando al Liberty, alla Belle Epoque e al ricordo sedimentato della Costa Azzurra: luccichio e bagliori preziosi, il mare... A completare l’installazione una camera completamente rivestita di alluminio blu, con una coperta di sei metri in cui sono state posizionate, intrecciate, aggrovigliate migliaia e migliaia di rose blu. Eseguite tutte manualmente, come le 12.000 palline accartocciate. I fiori mi suggerivano la realizzazione di fiori di carta votivi, ma anche il sapore decadente di fine ottocento... una sensazione sospesa tra effetto claustrofobico e seduzione. Dall’armadio pure sbucano cascate di rose, dal lampadario, sul tavolo e dal comodino, ancora una linea sottile, ossessione di un materiale ma rilettura fuorviante del medesimo. 2/05 19
Federica Bianconi è architetto e si occupa di allestimento di spazi espositivi e commerciali; ha curato mostre di arte contemporanea e collabora a riviste di settore.
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The Queen of Waste In Enrica Borghi’s artwork scrap and rubbish are the prosaic materials from which poetic and magical works are born. Federica Bianconi
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Enrica Borghi, 35 years old, Queen of Recycling, began by creating installations using material for recycling drawn from the female universe (fake nails, rollers, various ornaments) and/or the domestic world (shopping bags, Plexiglas, labels and packaging, empty bottles…) In 1995 she exhibited fancy women’s clothes and the series Veneri at Galleria Peola in Turin. Then, in 1997, she took part in the group exhibition curated by Lea Vergine Quando i rifiuti diventano arte at the Museum of Contemporary Art of Rovereto. In 1999 she held an exhibition entitled Regina at the Museum of Contemporary Art in Rivoli. Until 30th October 2005) her work is exhibited at Mamac in Nice. With an ambitious project in progress in a dream location - Asilo Bianco - an ancient palace close to Lago d’Orta. The purpose: to represent through different shades of white, through the temporal rhythms and echoes of flowers, clouds and smiles the eternal finites of human existence… Recycling, manipulation, combination, repetition, pastiche, metamorphosis, magic…In your work different notions merge in complex projects. How far are these dynamic and poetic systems removed from the recycled material which is a vivid basic element in your work? Recycling and manipulation. I believe strongly in the potential of scrapped objects. Not just things thrown away in the rubbish but society’s rejects too. I like looking at what people define as useless and defunct. My manual skill, the endless time I dedicate to reassembling the
scraps is a time for reflection, the magical transformation in which everything can be reintegrated, regenerated. My installations truly undergo a metamorphosis of the object. I shift the attention, the tension to the point where the object can no longer be recognised… It has to be read as having a totally new and magnificent identity. In the case of Mandala for instance I assemble thousands and thousands of plastic bottle tops in a geometrically perfect way, like a precious inlay or a Persian carpet… the work goes ahead for two or three days and then, at the end of the exhibition it is all destroyed in order for it to be put back together again. The idea that this geometrical perfection is liquid and unstable, that it can be shown again in thousands of different shapes stimulates me and gives me the energy to repeat these patterns infinitely... On one hand I am interested in the fable-like aspect but on the other hand the aspect which is not only ecologicalenvironmental but also subtly social is intrinsic…The idea that there not only things but ideas, men, ideologies which are scrapped, held to be no longer fashionable, dated, destined not to have a second chance to be interpreted in a different way… this stimulates me and gives me the strength to work incessantly. What value does the single object have and what surplus value is given by your ability to sense the soft aspect of a material, destabilise it and release its expressive potential ? How much is salvaged and how much is re-examined? An object taken singly, destined for the scrap heap, interests me precisely because it was conceived to be used and thrown away rapidly. I am thinking of all that seductive and coloured packaging, the idea of collecting it and rethinking it is suggested to me by the object itself, by its shape, by the intrinsic chemical make-up of the material. For instance, PET
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bottles immediately made me think of glass, and their ductility to heat for example heightened their infinite working possibilities. The goods I buy always give me a sense of insecurity.. even food, everything that is consumed, devoured, eliminated creates in me a strong sense of instability and perhaps this is why I decide to lock myself into my studio and lick my wounds for hours on end. What kind of conflict or complicity do you have with things? Do you perceive immediately that a material is incapable of being part of a project, or rather that it is versatile, open, not bound to the sole physical and functional dimension? Which objects are too far removed from your work? Which objects are removed? Good question.. certainly those which are a little synthetic, chemical, skinless, lacking in seduction. A material or object isn’t automatically excluded from my work. Sometimes it just needs time. I am not always able to pick up on the potential of a material or instrument which allows me to work, and transform a material. In some cases it is the material itself which suggests emotions, creations and accumulations… In other cases I let the interest in the packaging settle in order for it to resurface loaded with a new value.
Will you tell me about the magic of yours which worked best? I think my most successful magic is La Regina at Rivoli. I assembled about 10,000 transparent plastic bottles, rejects. I was helped by the Teaching Department of the Museum and many students and it was done inside the room where we then installed the wok. In this case too, as always happens in my work, the project for an installation for children and the idea of working inside a castle suggested the idea of a Queen to me… the Queen of fairy tales, like a dream, a transparent and intangible apparition. The large room also suggested to me that I should work on something emphatically out of scale.
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When you go shopping do you look for a brand and enticing packaging or do you prefer the anonymous product? Do you happen to buy something purely because of the packaging? And do you then keep it for one of your works? Supermarkets and large stores in general give
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Are you simply sensitive to environmental issues or do you have ecological obsessions and fads? I am a normal member of society who recycles rubbish. Without getting too obsessed I try to pollute as little as I can and to lead a healthy and balanced life. I have chosen with my partner Davide to live in the hills, abandoning the frenzied life of the city, conscious of having to face some difficulties in my work… I have chosen not to be at the centre of the debate… but nowadays the theme of centrality is very much debated and perhaps glocal is very much present in this small town too.
What role does manual skill and technique have in the definition of the work? Do you have collaborators who help you to produce your installations? The role of manual skill is a significant factor in my work. It is precisely by working slowly and fussily that I manage to recreate its magic. The clothes of 1996 made out of slashed and knotted bags were knitted together and it is by keeping faithful to the spirit of female manual skill that I proceed with my work. Time is no longer hysterical frenzy but becomes something else, rescued from that disposable consumerism I am so seduced by. During the making of large installations people or students from the Academy or Art school often help me. The aspect of contemporary art as a learning experience and shared collective moment is significant in my work… it becomes a collective ritual.
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me a hybrid sensation of nausea and seduction which I would often like to turn upside down in my work. I love going to supermarkets, scrutinising the goods like a private detective.. reading the health warnings, controlling the logos, the colours. I almost always buy something for its packaging and never for its contents… when I am abroad I love getting hold of things which are not sold in Italy, coloured plastic bottles, essentially plastic packaging, from the bag to the three dimensional container… Logically I keep and pile up the scraps which might be useful for one of my works - sometimes they remain piled up for two or three years to then emerge like little acts of magic.
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How much of your private world and your dreams are reproduced in your art? Do you have new projects in the pipeline at galleries and museums? A great deal. I was able to become a queen in a world of rubbish... a queen nobody wanted however... I was able to have precious clothes and jewellery, made of recycled plastic but anyway unique: a kilometre - long bright path with snowflakes as big as balloons, dazzling enchantments, rooms from the Arabian nights. Art allows me to have that famous magic wand all children would like to have. Will you tell me something of your current work at the Museum of Modern and Contemporary Art in Nice? The exhibition at Mamac in Nice consists of new materials created specifically for this event. A few years ago I visited an aluminium foil factory and I was electrocuted. I have often collected chocolate wrappers as a fetish but to see them in industrial
quantities was a vision. I immediately thought that sooner or later I would use this incredible material. The seduction of this material is truly thrilling: the silvery, shimmering, opaque, shiny, satiny colours like precious silks and fabrics. Visiting the museum of Nice I decided that finally this material might match the place, atmosphere and concept I wanted to explore. On one wall of Mamac I installed about 12,000 little balls wrapped in coloured aluminium foil and arranged so as to compose an arabesque pattern. The Arab influence is repeated in the carpets on the floor and walls. They were made by twisting the foil into long strings which are glued in a swirls moving outwards. The theme is therefore the curved line, an echo of Nouveau Art, the Belle Epoque and the memory of the Cote d’Azure. A precious twinkle and glow, the sea… To complete the installation there is a room that is entirely covered in blue aluminium with a six metre blanket on which thousands and thousands of blue roses were placed, woven, tangled. All made by hand, like the 12,000 little scrunched up balls. The flowers reminded me of the making of votive paper flowers but also the decadent flavour of the end of the 19th century… a sensation somewhere between claustrophobia and seduction. Roses spill out of the cupboard too, from the lamp, on the table, on the bedside table, again a thin line, the obsession of a material but a misleading reinterpretation of the same.
Federica Bianconi is an architect and works on setting up exhibitions and commercial spaces. She has curated contemporary art exhibitions and contributes to trade magazines.
© 2004 Estée Lauder S.r.l. Via Turati 3, Milano - Tel. 026377.1
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ECO 1° Premio NIDO dondolo-gioco-contenitore Lucia Di Sarli e Paola Guerrieri 2° Premio PISOLO culla PUPPY culla da trasporto Gianfranco Piazzese e Arcadio Pinto 3° Premio CACÒ vasino usa e getta L’AMICARTELLA E FANTOZOO arredo-gioco e cartelle per asili Francesco Santoro - Daniele Silvestri - Matteo Straccamore - Marco Tossici 4° Premio ONDA MAGICA kit per la sicurezza domestica del bambino + libro educativo Silvia Aloisio e Viola Mengucci
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5° Premio MOBY borsa-fasciatoio da viaggio Riccardo Carta e Nicola Pa
design Gli studenti del Corso di Laurea in Disegno Industriale dell’Università di Roma “La Sapienza”, in collaborazione con Comieco, hanno progettato in occasione del Premio “Eco-innovazione di prodotto 2005” una serie di oggetti per bambini da 0 a 6 anni realizzati con materiali a base cellulosica, seguendo i criteri dell’Ecodesign. Il risultato della sperimentazione progettuale è stato sorprendente: una serie di nuovi concept di prodotto totalmente realizzati in cartone riciclato, solo con tagli, pieghe ed incastri, senza l’utilizzo di colle, che comprendono dondoli, culle, fasciatoi, kit di oggetti per la sicurezza domestica del bambino, giocattoli, contenitori per la cameretta e persino vasini usa e getta.
The students of the Degree Course in Industrial Design at the “La Sapienza” University of Rome, in cooperation with Comieco, in occasion of the Award “Product eco-innovation 2005” designed a series of objects for children from 0 to 6 years of age made with cellulose based materials, following the criteria of Ecodesign. The result of the design experimentation was surprising: a series of new product concepts totally made in recycled cardboard, using only cuts, folds and joins, without the use of glues, that include rocking horses, cradles, changing tables, kits of objects for child domestic safety, toys, containers for kids rooms and even disposable potties.
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for Kids
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Homeless Sweet Homeless Le case di cartone dei senzatetto attraverso lo sguardo degli artisti. Marco Senaldi
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Paola Di Bello Rischiano pene molto severe, (Giorgio) 1999, Lamda-print, 210x125 cm. Courtesy Fondazione Sandretto Re Rebaudengo Rischiano pene molto severe, (Nonnina) 1998, c-print, 210x125 cm. Courtesy and copyright © the artist Rischiano pene molto severe, (Giuffrida) 1999, c-print, 210x125 cm. Courtesy and copyright © the artist Rischiano pene molto severe, (Nike) 2001, Lamda-print, 210x125 cm. Courtesy Fondazione Sandretto Re Rebaudengo
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tanti paradossi che costellano la nostra vita di relazione: da un lato, nell’esperienza quotidiana, gli homeless restano confinati in quella zona grigia della vita sociale che li consegna inevitabilmente ad una specie di inesistenza, di invisibilità (appunto) collettiva - mentre, d’altra parte, la figura del senzatetto (come pure quella dell’extracomunitario, o della prostituta, del tossico, del delinquente, e via dicendo) diventa, grazie ai mass-media, ben visibile, ma assume la consistenza spettrale delle ombre catodiche che vediamo di sfuggita sul teleschermo quando vengono evocate da un servizio telegiornalistico sul disagio o da una trasmissione che ne contempla i lacrimevoli casi umani.
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Al pari degli altri arredi urbani, quali il classico cassonetto per la raccolta differenziata, o il panettone di cemento antiparcheggio, anche l’homeless, il senzatetto, quello che in tempi non ancora politicamente corretti era semplicemente “il barbone”, è entrato di diritto nel variegato panorama cittadino che ci circonda. La fama di queste presenze, l’identità di quelle che certi sociologi (come Alessandro Dal Lago) hanno definito “non persone” (in riferimento al neologismo di non-luoghi) è poi stata consacrata anche a livello mediale da programmi televisivi come “Invisibili”, di e con Marco Berry, andato in onda qualche tempo fa su Italia 1. Ne consegue così uno dei
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Ryuji Miyamoto Dalla serie Cardoboard Houses, 2002 Gelatin silver print
Di fatto, come è stato evidenziato da una recente inchiesta, la gente “normale” non sa esattamente come comportarsi di fronte all’homeless e in genere di fronte a chi chiede elemosina o comunque manifesta una qualche forma di povertà; e la percentuale degli intervistati si spacca a metà quando si tratta di dire se è meglio fare la carità o rifiutarla - il che è un altro segno della scissione che viviamo di fronte alla presenza realissima dell’emarginato e alla sua evanescente controfigura mediale. Ora, benché sia difficile sfuggire a questo paradosso, è anche vero che, se si rimane aperti e disponibili all’ascolto e all’incontro, l’occasione per sperimentare l’autentica umanità dell’homeless non manca, ed è virtualmente sempre a portata di mano. Uno dei compiti dell’arte contemporanea è di fatto quello di inventare occasioni di confronto di questo genere, di soffermare cioè la nostra attenzione - visiva e non solo non tanto sui fenomeni straordinari che si parano dinanzi alla nostra attenzione e la monopolizzano, quanto sugli elementi ordinari che si verificano regolarmente, ma che continuano a sfuggirci. Il caso degli homeless è proprio di questo secondo tipo, ed in questo senso è notevole il fatto che abbia suscitato l’interesse da parte degli artisti di oggi. Alcuni tra loro usano l’obiettivo fotografico come uno scansionatore orientato verso i fenomeni sociali, come un sensibile sismografo che, applicato ad un campo prestabilito dell’esperienza, ne riproduce un’immagine non solo fedele, ma altamente indicativa. Uno di questi autori è senz’altro il
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giapponese Ryuji Miyamoto. Impegnato fin dal 1985, con la serie Architectural Apocalypse, nel documentare fotograficamente il degrado di importanti edifici di varie città del mondo, Myamoto è famoso per l’indimenticabile reportage sul terremoto di Kobe del 1995. Da allora ha lavorato sistematicamente sul fenomeno dei senzatetto, ormai endemico in un paese come il Giappone che, dall’epoca della crisi del 1995, ha dovuto rinunciare alle proprie convinzioni di successo e di illimitata crescita economica. La grande forza delle immagini di Myamoto consiste essenzialmente in due fattori: da un lato l’impianto decisamente classico
luce (ad esempio nel lavoro Lucciole, 1996-2002, immagini realizzate facendo reagire la luce di una lucciola su una carta fotosensibile); in secondo luogo il tema degli oggetti e del loro consumarsi e divenire dis-utili (Concrete Island, 1996 e seguenti); in terzo luogo, il tema della topografia e degli spazi urbani (La Disparition, 1995, e Sao Paolo, 2001). È interessante il fatto che il video Sao Paolo presentato alla Biennale di Venezia del 2003 (realizzato con Armin Linke nelle favelas di San Paolo del Brasile) riflettesse un contesto di estrema povertà, ma anche un senso di appartenenza e di comunità straordinario; allo stesso modo, le foto degli elettrodomestici
Krzysztof Wodiczko
dell’icona, la quale, ritragga un ponte distrutto o l’abitazione di cartone di un homeless, ha la compostezza di un paesaggio romantico e la stessa impassibile e tragica quiete; dall’altro, il concetto di “serie”, per cui ogni immagine si concatena a tutte le altre in un insieme che le giustifica e le rende come le inquadrature di un unico, filante, documento visivo.
abbandonati o buttati testimoniano di una sopravvivenza delle cose al loro valore d’uso, il che viene sottolineato dal fatto che gli oggetti gettati vengono riportati, nell’immagine, al loro “giusto” assetto originale (il lavandino rovesciato o il divano scassato e ribaltato, sono fotografati e “rimessi in piedi”). La serie Rischiano pene molto severe (19982001) si trova a metà percorso tra il video sulle favelas e la serie sugli oggetti scartati; questo lavoro evidenzia che gli homeless non sono solo, politicamente, cittadini indigenti, ma sono effettivamente persone che, pur essendo ancora vive, sono state “dismesse”, abbandonate, esonerate dagli obblighi e dal tessuto sociale. Si tratta dunque di persone che hanno
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Homeless vehicle, 1988-89
Rispetto a Myamoto, il lavoro di Paola Di Bello, pur essendo anch’esso fotografico, evidenzia interessanti differenze. Di Bello si è interessata fin dagli esordi a diversi filoni di ricerca: innanzitutto il linguaggio fotografico, analizzato nel suo specifico elemento, come reazione chimicofisica fra un supporto sensibile e la
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cessato di essere “utili”, che sono uscite dal circuito della produttività e del significato, e pertanto soffrono gli svantaggi di questa condizione, ma, d’altra parte, sono in grado di godere dei vantaggi che ne derivano, come il nomadismo e una libertà urbana che noi integrati abbiamo perduto. Messe in verticale, le figure di questi homeless sembrano quasi fluttuare in una dimensione di imponderabilità che agli altri (cioè a noi) è solo concesso desiderare.
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In una direzione simile, pur partendo da un campo disciplinare diverso quale quello del design, va anche il progetto dell’Istituto Qasar - Design University di Roma, che, insieme all’International design Academy di Okinawa, ha realizzato delle case in
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Per altri artisti ancora l’importante non è più fissare un’idea in un’immagine, ma produrre dei percorsi e dei processi di riflessione che si concretizzino in pratiche concrete. Il caso di Krzysztof Wodiczko è interessante in questo senso. Nato in Polonia nel 1946, residente negli Usa, Wodiczko è un artista che ha sempre lavorato sul “riciclo” delle architetture urbane, trasformandone completamene il senso proiettando sopra le facciate di determinati edifici delle videoproiezioni giganti (spesso illegalmente). In una di queste sue azioni (che egli stesso ha definito Urban Disturbances, qualcosa come “disturbi urbani”) ha proiettato, durante una manifestazione antiapartheid negli anni 80, l’immagine di
una svastica sulla facciata della sede dell’Ambasciata del Sudafrica a Londra, creando naturalmente reazioni contrastanti. Con questo spirito provocatorio, anche lui si è confrontato con il fenomeno dell’homeless, ma con finalità diverse: più che facendo riferimento all’audience degli “altri”, Wodiczko si è rivolto agli homeless stessi, ne ha analizzato le esigenze e i bisogni e ha progettato per loro un Homeless vehicle (1988-89) che raggruppa in un unico “oggetto” tutto ciò che il nomade urbano abbisogna per sopravvivere. L’operazione può sembrare un palliativo sociale, ma in effetti funziona anche come un reattivo estetico: si tratta a tutti gli effetti di una scultura (il veicolo come tale che nasce dal progetto di un artista) ma anche di una “scultura sociale” (per usare il termine inventato da Beuys) nel senso che agisce sul terreno delle relazioni tra persone e le porta a interagire.
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Istituto Qasar Roma, International Design Academy Okinawa
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Case in cartone per homeless
cartone per homeless. Partendo dall’estetica del Wabi-Sabi, cioè della bellezza del temporaneo e dell’incompiuto, che insegna come catturare una forma per uno spazio unico, indiviso e liquido, è stato infatti possibile lavorare sull’idea del piegare e spiegare lo spazio in molti modi. Lo scopo era quello di occuparsi dell'abitare come un altro tipo di movimento rispetto a quello dello stare sul luogo, come avviene appunto per quanti definiamo homeless, cioè coloro che inseguendo i loro desideri o deliri manipolano spazi, tempi, oggetti, reinventando perpetuamente il senso dello stare in un luogo attraversandolo. In tutti questi casi esemplari, si tratta in definitiva di occasioni per ripensare la nozione stessa di
“riciclo”, spesso abusata e di frequente ridotta a banale pratica socialmente corretta di riutilizzo di materiali di scarto. Il “riciclo” invece potrebbe essere inteso, ci dicono questi artisti, soprattutto come momento di incontro e di ricostruzione del tessuto relazionale collettivo, un rete che gli uomini non smettono mai di distruggere, ma anche, per fortuna, di ricostruire.
Marco Senaldi è critico e curatore; insegna Cinema e Arti Visive all’Università Statale di Milano-Bicocca; recentemente ha pubblicato (con F. Carmagnola) Synopsis. Introduzione all’educazione estetica, Guerini, 2005.
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Homeless Sweet Homeless The cardboard houses of the homeless through the eyes of an artist. Marco Senaldi
Like other items of street furniture, such as the classic recycling bins and the concrete anti parking cones, also the homeless - what used to be called simply "tramps" or "bums" before such terms became politically incorrect - have now become part of the multifaceted city panorama around us. The reputation of such people and the identity of those whom sociologists (such as Alessandro Dal Lago) have defined "non persons" (using the same neologism as non-places) have since been consecrated in the media by television programs like "Invisibili" by and with Marco Berry, broadcast some time ago on Italia 1. The result is one of the many paradoxes found in modern society: on the one hand, the homeless generally remain part of that twilight zone of society, where they're inevitably classed as a species of non existence and collective invisibility, while, on the other, the figure of the homeless (like that of the Non EEC immigrant, the prostitute, the drug addict, the delinquent, and so on) becomes, thanks to the mass-media, highly visible, but with the spectral consistency of the cathode tube images we happen to see on the television screen in TV reports on hardship and poverty or a program on pathetic human cases. In fact, as a recent inquiry has shown, "normal" people don't know how to act in the presence of the homeless and, more generally, that of beggars or any form of poverty. There's a clear split among those interviewed when asked whether it's better to show charity or refuse to show it - yet another sign of the division among us when faced with the real issue of those living on the edge of society and their ephemeral counterpart in the media.
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Compared to Myamoto, the work of Paola Di Bello, also a photographer, shows some interesting differences. Di Bello has always been interested in various types of research: in the first place, the language of photography, analysing its specific element as the chemical-physical reaction between the sensitive medium and light (e.g. his Lucciole,
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Although it's difficult to escape this paradox, it's also true that there are plenty of opportunities, available to all, to experience the truly human side of the homeless, provided one keeps an open mind and is willing to meet and listen to them. One of the roles of contemporary art is, in fact, to
create opportunities for such encounters, i.e. to draw our attention - visual and otherwise - not just to those extraordinary phenomena that grab and monopolise our attention, but also to ordinary routine issues that continue to escape us. The case of the homeless is just one of this second type. Indeed, it's significant that it has attracted the attention of so many contemporary artists. Some of these use the camera lens like a scanner, to monitor social phenomena, or as a highly sensitive seismograph applied to a precise field to reproduce an image that's not only credible, but highly indicative. One such person is Ryuji Miyamoto of Japan. Since 1985 he has documented the degradation of important buildings in various cities around the world for the Architectural Apocalypse series. Myamoto is famous for his unforgettable reportage of the Kobe earthquake in 1995. Since then he has systematically worked on the phenomenon of the homeless, now endemic in Japan, a country that, since the economic crisis in 1995, has had to give up its own convictions of success and limitless economic growth. The great force of Myamoto's images is due to two basic factors: firstly, the decidedly classic system of the symbol that, whether it's a destroyed bridge or the cardboard home of a homeless person, has the visual balance of a romantic landscape and the same tragic impassiveness and quiet tragedy; secondly, the concept of a "series", meaning that every image is linked to the others to form a whole that justifies them and turns them into the picture of a single connected visual document.
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1996-2002, images obtained by making the light of a glow-worm react with photosensitive paper); then, the topic of objects and their consumption and lost usefulness (Concrete Island, 1996 et seq.); finally, the topic of topography and city spaces (La Disparition, 1995, and Sao Paolo, 2001). It's interesting to note that the Sao Paolo video shown at the Venice Biennial in 2003 (with Armin Linke, in the favelas of Sao Paolo, Brazil) showed a context of extreme poverty, but also a sense of belonging and extraordinary community spirit. In the same way, his photos of abandoned or dumped household-appliances bear witness to the survival of things regardless their usefulness, that's stressed by the fact that the dumped objects are portrayed in their "right" original setting (the upsidedown washbasin or ruined up-ended sofa are photographed and "put back on their feet"). The Rischiano pene molto severe series (19982001) is half way between the video on the favelas and that of the discarded objects. This work shows that the homeless are not only politically destitute citizens, but are effectively persons who, although still alive, have been "discarded", abandoned, exonerated from all obligations and the fabric of society. In other words, people who have stopped to be "useful", who have escaped the circuit of the productivity and meaningfulness, and therefore suffer the disadvantages of this condition. Yet, on the other hand, they are in a position to enjoy the advantages of this state: a nomad way of life and a freedom of the city that we, the integrated ones, have lost. Hung vertically, the figures of these homeless people appear almost to float in a dimension of weightlessness that others (i.e. you and me) can only dream of. For other artists, the important thing is not to immortalise an idea in an image, but to produce paths and processes for reflection using concrete practices. Krzysztof Wodiczko's work is interesting here. Born in Poland in 1946 and now resident in the USA, Wodiczko is an artist who has always worked on the "recycling" of city architectures, transforming their sense completely by projecting giant video projections on the facades of certain buildings (illegally). In one case (that he himself called Urban Disturbances), he projected the image a swastika on the facade of the South African Embassy in London during an
antiapartheid manifestation in the 1980s, naturally arousing contrasting reactions. With this provocative spirit, he has also considered the phenomenon of the homeless, but to a different end: rather than consider them as the "others", Wodiczko has addressed the homeless directly, analysing their needs and requirements, even designing for them a Homeless vehicle (1988-89) that contains - in a single "object" - all that the city nomads need in order to survive. This may seem to be a social palliative, but it actually works as an aesthetic reagent: it's a proper sculpture (the vehicle born from the work of an artist) and also a "social sculpture" (to use the term coined by Beuys) in that it acts on interpersonal relations and causes them to interact. The project by the Qasar Institute - Design University in Rome, with the International Design Academy of Okinawa, has a similar goal, though starting from a different discipline (design): the creation of cardboard homes for the homeless. Starting from the aesthetics of Wabi-Sabi, i.e. the beauty of the temporary and incomplete that teaches how to capture a shape for a single, undivided and liquid space, it has been possible to work on the idea of folding and unfolding the space in various ways. The purpose was to consider the question of "residing" as another type of movement compared to that of remaining in one place, as is the case with the people we call the homeless, i.e. those who, pursuing their desires or deliriums, manage to manipulate space, time and objects, continually reinventing the sense of being in one place by passing through it. All the cases above offer us the chance to reconsider the very notion of "recycling", a term that's so often misused and frequently reduced to the banal socially correct practice of re-using waste materials. What these artists are trying to say is that "recycling" could, instead, be understood to mean a moment of encounter and the chance to re-stitch the fabric of society: a net that man never ceases to destroy and then reconstruct, luckily for us. Marco Senaldi is a critic and curator; he teaches Cinemas and the Visual Arts at the State University of Milano-Bicocca; he has recently published (with F. Carmagnola) Synopsis. An Introduction to Aesthetic Education, Guerini, 2005.
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Il Packaging con l’Anima 2/05
Come la piccola impresa sa fare i conti con il sociale. Sonia Pedrazzini
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A Corinaldo, nelle Marche, in Italia, c’è una piccola azienda cartotecnica, la Boxmarche, che si è fatta notare tra i grandi dell’impresa italiana. In occasione della terza edizione del Sodalitas Social Award (importante riconoscimento che, dal 2003, premia le aziende operanti in Italia che si sono distinte per la realizzazione di programmi ad alto valore e contenuto sociale) a Boxmarche è stata attribuita una menzione speciale come “migliore iniziativa di responsabilità sociale di impresa”. Bisogna aggiungere, inoltre, per sottolinearne l’importanza che, nel 2004, il premio si è guadagnato, a sua volta, un riconoscimento per l’ “alto valore sociale” da parte del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Ma, allora, quali sono le peculiarità di Boxmarche? Risponde Tonino Dominici, amministratore delegato, che è stato invitato a parlare in qualità di relatore proprio durante la cerimonia di premiazione del Sodalitas Social Award di quest’anno, accanto a nomi della politica e dell’industria come Tronchetti Provera, Falck, l’on. Casini e il ministro Maroni. Come è nata la vostra azienda e quali sono i passi che ha dovuto fare per arrivare a ottenere gli importanti riconoscimenti che le sono stati attribuiti? La Boxmarche nasce nel 1969 su iniziativa di un gruppo di soci, le famiglie Baldassarri, impegnati in diversi settori - dall’agricoltura al commercio all’industria - come azienda di supporto al settore calzaturiero, allora fiorente nella zona; il prodotto principale erano per l’appunto le scatole per scarpe. Nel 1982 è iniziato il processo di trasformazione e, attraverso il progressivo abbandono del settore calzaturiero si è passati ad una
radicale modifica della struttura produttiva e commerciale, in cui ha preso sempre più consistenza la vocazione “cartotecnica”. Da quel momento in poi abbiamo indirizzato la nostra presenza commerciale nei settori più vari: dall’alimentare di prodotti freschi e surgelati (astucci, scatole) agli articoli casalinghi e piccoli elettrodomestici (imballi di cartoncino teso e microonda accoppiata); dai giocattoli (espositori e scatole di presentazione) al general market, agli articoli tecnici e cosmetico-parafarmaceutici. Fin dall’inizio di questo percorso, la qualità è stata considerata un fattore strategico fondamentale per la crescita e lo sviluppo dell’impresa. Nel 1989 abbiamo aderito al Progetto Qualità per Piacere e, nel 1992, al Club Qualità, entrambi promossi da Assindustria di Ancona. La tipologia di prodotti di cui vi occupate è piuttosto precisa... La nostra politica commerciale è orientata a servire diversi settori, privilegiando in particolar modo la progettazione e il servizio al cliente. Ci rivolgiamo in prevalenza ai settori alimentari e casalinghi nel mercato regionale, perché la domanda è particolarmente interessante e qualche volta capita anche di lavorare per commesse un po’ fuori dal comune. Per una pentola prodotta da Alluflon, per esempio, abbiamo creato un packaging pensato apposta per la “Festa del Nino” (come viene chiamato il maialino, protagonista dei festeggiamenti), un’iniziativa particolarissima che nasce in un paesino di nome Sant’Andrea di Suasa, vicino a Mondavio (sede di Alluflon). Alluflon si impegna ormai da tre anni a sponsorizzare la festa e per il 2005 ha addirittura realizzato una speciale padella con cui sono state servite le prelibate pietanze del Nino.
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shopping bag La pentola si chiama “il Cucinino” ed è stata regalata a tutti coloro che hanno collaborato all’iniziativa. Da evidenziare anche la partecipazione dell’intero paese, che si è prestato ben volentieri a posare per la geniale campagna pubblicitaria ideata dall’agenzia Macramè. La campagna di comunicazione “Io Nino” ritrae infatti i cittadini di Sant’Andrea con il “nasino rosa” dando vita a una galleria di immagini tanto spontanee quanto efficaci. Anche in questo caso, ovviamente, la scatola di cartone da noi realizzata è completamente riciclabile.
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Siete all’avanguardia per quello che riguarda la “corporate social responsibility” (CSR) e ciò significa che avete una visione complessiva del ruolo che un’azienda e i suoi prodotti occupano all’interno della società. Qual è la vostra filosofia d’impresa? Quale principio regola il
vostro modo di rapportarvi con i vari referenti: collaboratori, territorio, soci, fornitori, clienti, ambiente…? La scelta di gestire l’azienda in ottica TQM (Total Quality Management) per la piena soddisfazione di tutte le parti interessate, non risponde a un’esigenza commerciale legata alle certificazioni, ma a un modo di essere e fare impresa secondo quei principi etici, che sono insiti nella nostra cultura e tradizione contadina. Per noi, fare impresa significa adempiere (e rispettare) a nove principi o “credo” aziendali: il cliente prima di tutto; poi la partnership, la centralità dell’impresa e l’organizzazione, il rispetto dell’individuo, dell’ambiente e del territorio, la qualità e il valore del capitale; il tutto nel segno del miglioramento continuo. La nostra “mania di fare meglio” per differenziare l’offerta di prodotti e servizi ci porta a “dare sempre più valore”. Nel concreto, come lavorate su un progetto? Prendiamo, per esempio, il caso di Ecobox, contenitori riciclabili per la raccolta differenziata; come è nato il progetto, con quali finalità e quali sono i problemi che vi si sono posti nell’affrontarlo? Nell’affrontare un progetto per un nuovo prodotto ascoltiamo le esigenze esplicite e quelle latenti dei nostri clienti, analizziamo i requisiti richiesti e cerchiamo di offrire soluzioni integrate per ottimizzare i costi e aumentare il valore. Per quanto riguarda Ecobox, bisogna dire che ha una storia un po’ particolare; è nato in seguito al progetto di raccolta differenziata dei rifiuti iniziato in Boxmarche oltre sei anni fa. Il prodotto ha funzionato come strumento interno e quindi abbiamo deciso di lanciarlo all’esterno come articolo di vendita a
catalogo. In un altro caso abbiamo invece realizzato una scatola, la Planet Finance Box, pensata, prodotta e donata all’Organizzazione Internazionale Planet Finance, in occasione della Marcialonga 2005, per la raccolta fondi da destinare al microcredito nei paesi più poveri del mondo. Per Planet Finance partecipare a questo evento è stato fondamentale per farsi conoscere al grande pubblico e Boxmarche, in questo caso, è stata loro partner ufficiale in quanto ha ideato, allestito, prodotto e donato questo “mezzo di raccolta” e di comunicazione. Inoltre sulle scatole di cartoncino accoppiato alla microonda, compare, oltre a tutta la campagna fotografica di Planet Finance, anche il logo del Riciclo; il coperchio e la scatola sono infatti riciclabili al 100%.
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È chiaro che questi temi vi stanno a cuore ben al di là di quanto imponga la legislazione vigente, ma per quante aziende è così? Com’è il panorama delle industrie italiane proprio in relazione alle tematiche della CSR? Crediamo molto nella qualità e nel bisogno di ogni azienda di pianificare e di creare un’organizzazione efficiente; ma la cosa più importante è mettere l’anima nella propria azienda. L’anima rappresenta i valori condivisi, l’identità aziendale, l’immagine, il clima, la missione. Riteniamo che la prima responsabilità di un imprenditore sia quella di fare profitto per assicurare un futuro per sé e per i propri collaboratori. Viviamo un momento difficile e delicato per la vita delle imprese che sono minacciate da fattori esterni che trascendono le loro forze. La sfida si vince solo tenendo comportamenti di responsabilità sociale. Il tema è ancora poco sentito, ma abbiamo fiducia nel fatto che molte altre realtà si muoveranno sempre più in questa direzione, in vista di un bene comune.
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Packaging with Soul How small businesses embrace social concerns. Sonia Pedrazzini
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There's a small paper converting company called Boxmarche in Corinaldo, in the Marches, Italy, that's attracted the attention of the major Italian businesses. During the third edition of the Sodalitas Social Award (an important award since 2003 for Italian companies who stand out for projects with high value and social content) Boxmarche received special mention as the "best initiative of corporate social responsibility". One must add, moreover, to emphasise of the importance of this special mention, that this award received recognition in 2004 for its "high social value" from the President of the Italian Republic, Carlo Azeglio Ciampi. So what exactly are Boxmarche's special factors? Tonino Dominici, the General Manager, provides the answer, having been invited to make a speech during the Sodalitas Social Award ceremony this year, alongside various political and industrial figures, such as Tronchetti Provera, Falck, the Hon. Casini and the Minister Maroni. How did your company come about and what steps did you take to succeed in obtaining the important recognition to date? Boxmarche was set up in 1969 by a group of associates, the Baldassarri families, with experience in various fields - from agriculture to trade and industry - as a company supporting the shoe industry, a flourishing industry at the time in the area; its main product was the classic box. In 1982 we started transforming the company, with a gradual move away from shoes and radical changes to the production and
commercial structures, with the stress on a "paper converting" vocation. From that moment on, we have been trading in several areas: from fresh and frozen food products (cases and boxes) to small electric appliances and household goods (flat and laminated micro wave board packs); from toys (display stands and presentation boxes) to the general market, technical items and cosmetics/parapharmaceuticals. Right from the start, quality has been a fundamental strategic factor for our company's growth and development. In 1989 we joined the Quality for Pleasure Project and, in 1992, the Quality Club, both promoted by Assindustria in Ancona. You deal in somewhat precise product types... Our business policy is to serve various fields, with special attention paid to design and customer service. We mainly deal with the food and household items industries on the regional market, as the demand is particularly strong and we are sometimes asked to work on jobs that out of the ordinary. For example, we've created a form of packaging for a particular pan produced by Alluflon that's conceived specifically for the "Festa del Nino" (i.e. the festival of the pig, called Nino), a special event from the small town of Sant'Andrea di Suasa, near Mondavio (where Alluflon is based). Alluflon has been the sponsor of the event these past three years and, for the 2005 edition, has created a special frying pan for serving this tasty dish. The pan is called "Cucinino" and has been given to all those who have been involved in the initiative. It should be noted that the entire community got involved, happy to take part in the brilliant advertising campaign thought-up by the Macramè Agency. In fact, the "Io Nino" campaign shows the citizens of Sant' Andrea a "pink nose",
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resulting in a gallery of spontaneous and effective images. Needless to say, the cardboard box we produced is 100% recyclable. You're at the cutting-edge of "corporate social responsibility" (CSR), meaning that you have a total vision of the role that a company and its products occupy within society. What's your company philosophy? Which principle governs how you relate to others: your collaborators, the territory, partners, suppliers, customers, the environment...? Our choice to manage the company according to TQM (Total Quality Management) to ensure full satisfaction of all the interested parties is not the result of a commercial need linked to certification, but to a way of being and running a business according to the ethical principles that are innate in our culture and farming tradition. For us, business means fulfilling and respecting nine business principles or concepts: the customer always comes first; then, there's partnership, the core business and its organisation, respect for the individual, the environment and the territory, capital quality and value. And all aimed at continuous improvement. Our "desire to do better" to differentiate our products and services means we "always give more value".
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It's obvious that these topics are close to your heart and not merely a matter of legal requirements, but how many other companies feel the same way? What's the current feeling in Italian industry with regard to CSR? We believe strongly in quality and every company's need to plan and create an efficient organisation; but the most important thing is to give the company a soul. The soul represents shared values, the corporate identity, the image, the climate, the mission. We believe that every entrepreneur's prime responsibility is to make a profit in order to assure a future for himself and his workers and partners. These are currently hard and delicate times for businesses being threatened by external factors beyond their control. The challenge can only be won by adopting a "social responsibility" approach. Though still not felt by many, we're confident that an increasing number of other concerns will start moving in this direction, working towards the common good.
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In substance, how do you work on a project? For example, the Ecobox, the recyclable container for segregated waste collection. How did the project come about, what were the goals and what problems have you had to face? When we face a project for a new product, we always listen to the explicit and latent requirements of our customers; we analyse their requirement and try to offer integrated solutions optimise costs and increase value. The Ecobox was a special case: it started with Boxmarche's segregated waste collection project from over six
years ago. That product was a success as an inhouse tool and so we decided to launch it on the market as a catalogue product. Another case is that of the Planet Finance Box, conceived, produced and donated to the International Planet Finance Organisation during Marcialonga 2005, for the collection of funds for microcredit initiatives in the poorer countries of the world. It was crucial for Planet Finance to take part in this event in order to make it a household name and so Boxmarche, in this case, was their official partner, having conceived, prepared, produced and donated this "collection tool" and means of communication. Moreover, the Recycle logo appears the laminated micro wave board boxes alongside the Planet Finance photo campaign: the cover and the box are 100% recyclable.
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La Gea-Politica del Packaging I consorzi italiani parlano di riciclo Maria Gallo
(*) Conai (Consorzio Nazionale Imballaggi) è il consorzio privato senza fini di lucro costituito dai produttori e utilizzatori di imballaggi con la finalità di perseguire gli obiettivi di recupero e riciclo dei materiali di imballaggio previsti dalla legislazione europea e recepiti in Italia attraverso il Decreto Ronchi.
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A ben guardare dovremmo invece esser grati ai packaging, perché grazie alla loro presenza nelle case (a diretto contatto con il nostro piccolo mondo quotidiano) sono riusciti a risvegliare le coscienze di noi apatici cittadini, fino a poco tempo fa tranquilli produttori di rifiuti. Bisogna riconoscere che al risveglio o all’educazione delle coscienze dei cittadini/consumatori italiani, molto hanno contribuito i Consorzi di filiera, che fanno capo a Conai* e che, suddivisi per materiale, riuniscono produttori e utilizzatori d’imballaggi. Senza fini di lucro, questi consorzi promuovono e garantiscono il recupero degli imballaggi postconsumo provenienti dalla raccolta differenziata fatta dai Comuni. Incoraggiano inoltre un diverso approccio all’uso dei materiali per imballaggio e, in senso lato, una progettazione più consapevole dei packaging, conciliando le esigenze di mercato con quelle di tutela dell'ambiente. I Consorzi sono riusciti a modificare la percezione degli italiani nei confronti dei rifiuti domestici, mostrando loro il vero volto della spazzatura. Tant’è che, come un ritratto di Dorian Gray al contrario, là dove fino a pochi anni fa i nostri occhi vedevano una lattina vuota, adesso abbiamo imparato a percepire una vantaggiosa fonte di materiali o energia.
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L’emergenza ecologica è un problema con cui le società più industrializzate avevano fino a pochi anni fa il privilegio di convivere. Da quando però abbiamo scoperto che i nostri rifiuti, le nostre produzioni più inquinanti, i nostri modelli d’auto più vecchi e meno efficienti sono stati delocalizzati, cioè spostati in aree economicamente depresse, possiamo dire d’aver finalmente globalizzato non solo il nostro modello economico, ma anche gli errori e le colpe della società dei consumi. Anche gli oggetti, accompagnando fedelmente l’espansione dell’uomo, hanno invaso il nostro ecosistema, e, tra essi, gli imballaggi rappresentano certamente una sostanziosa percentuale. La loro presenza non passa inosservata perché essi sono, di fatto, “condannati” ad avere maggiore visibilità rispetto ad altri manufatti, non solo in termini fisici (gli imballaggi sono progettati per esseri belli, riconoscibili e resistenti) ma anche perché rappresentano uno snodo significativo, un punto d’incontro cruciale tra cultura materiale e immaginario occidentale. Nel loro “eccesso” di presenza si riflette tutto il presenzialismo dell’uomo occidentale, e dunque, forse per questo, più di altri prodotti gli imballaggi sono stati accusati d’essere un’inesauribile fonte d’inquinamento.
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Cosa è accaduto? Proprio perché il packaging nasce dalla confluenza di discipline molto diverse tra loro (tecnologia dei materiali, design, branding, istanze ecologiche e sociali…) il lavoro dei consorzi di filiera è stato svolto a tutto campo: informazione e supporto alle aziende, educazione dei consumatori, collaborazione con enti pubblici, in un operare costante che ha portato a risultati importanti, ben oltre ogni rosea aspettativa. Per meglio comprendere le ragioni di questo cambiamento, partiamo da una prima considerazione, seguendo la riflessione di Carlo Montalbetti, direttore generale di Comieco (Consorzio Nazionale Recupero e Riciclo degli Imballaggi a base Cellulosica).
«L’Italia ha, da sempre, una forte vocazione al riciclo, perché è un paese privo di materie prime. Il lavoro svolto da Comieco in questi anni - informazione, educazione, coinvolgimento di enti pubblici e scuole…attraverso operazioni come Riciclo Aperto e Cartoniadi - ha trovato quindi terreno fertile nella tradizione culturale degli italiani, storicamente bravi “risparmiatori” di materiali». In effetti, il nostro territorio non ospita grandi foreste, necessarie per la produzione di carta. Dunque le belle scatole di pasta, profumi, sigarette… giunte al termine della loro vita devono necessariamente tornare in circolo, per poter ricreare nuovi prodotti o confezioni. «In Italia siamo riusciti ad attivare
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una sorta di circolo virtuoso, trasformando il nostro limite in punto di forza» continua Montalbetti. «Abbiamo, infatti, messo a punto un sistema di recupero sul territorio e tecnologie per il riciclo della carta talmente efficienti, da poter essere esportati. Così, se fino a pochi anni fa importavamo 1.000.000 di tonnellate di carta e cartone, oggi esportiamo non solo il sistema di recupero/riciclo, ma anche la carta da macero, perfino in paesi come la Cina, dove non è ancora nato un vero sistema di raccolta dei materiali a livello nazionale». Il Made in Italy, insomma, non diffonde solo begli abiti e costose borsette, ma anche sistemi organizzativi e ricerca tecnologica, applicati ad uno dei temi più importanti per il nostro futuro. Basti pensare ad un altro materiale utilizzato nella produzione di
imballaggi, di cui l’Italia è pressoché priva: l’alluminio. In questo caso la ricerca ha svolto un ruolo determinante. «La ricerca degli ultimi anni - dice Gennaro Galdo del CiAl (Consorzio Imballaggi Alluminio) - è stata focalizzata su tre temi: recupero del materiale (produrre una nuova lattina, partendo da alluminio riciclato, consente un risparmio energetico del 95%), riduzione del materiale (in termini di peso) negli imballaggi in alluminio e ottimizzazione del loro design. I risultati delle ricerche sono eccellenti, perché, per esempio, nonostante la riduzione del peso, grazie alle nuove forme e dimensioni dei contenitori abbiamo ottenuto una maggiore efficienza nella logistica, nel trasporto e nel riciclo degli imballaggi». Nella vita delle scatolette, insomma, il design ha un ruolo non secondario.
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Tant’è che proprio il CiAl ha promosso ReAl 13, concorso per designer e architetti, nato per sperimentare nuove idee sul packaging. «Ci siamo occupati però anche delle aziende prosegue Galdo - organizzando Dal trash al Cool, un progetto diretto ai responsabili marketing delle aziende, mentre con Raccolta Solidale, abbiamo mostrato i vantaggi economici che potrebbero ottenere le Onlus interessate alla raccolta differenziata». I vantaggi economici del riciclo sono stati naturalmente una sorta di condicio sine qua non per l’adesione incondizionata di tutte le aziende coinvolte nella “grande” filiera dell’imballaggio. «La convenienza economica del riciclo del vetro, per esempio - dice Massimiliano Avella di Co.Re.Ve. (Consorzio Recupero Vetro) - è assodata da sempre. E, nel caso del vetro, il riciclo è una pratica diffusa fin
dall’epoca romana. Allora la raccolta e la rifusione del rottame di vetro costituiva spesso l’unica soluzione produttiva, in assenza di materie prime non sempre reperibili. La lavorazione del materiale recuperato richiedeva inoltre un minor consumo di legna (riducendo al contempo lo sfruttamento dei boschi) che alimentava i forni fusori, il che allungava la vita degli stessi siti produttivi. Potremmo dire che l’ecosostenibilità e la convenienza del riciclo del vetro sia nota da 1800 anni… anche se è difficile pensare che gli antichi romani ne avessero coscienza». Resta però ancora un dubbio ecologico. Una sorta di paradosso che vede, da un lato, un grande impegno tecnologico per ottimizzare l’uso dei materiali e la resistenza fisica degli imballaggi, dall’altro la possibilità nient’affatto remota che una lattina prodotta grazie a
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Acciaio Amico, Scuole & Creatività, rivolta alle scuole elementari e medie inferiori; Acciaio Amico, l'Arte del Riciclo destinata invece agli allievi dei licei artistici, ai quali viene chiesto di produrre opere d’arte realizzate con imballaggi d’acciaio riciclati». Parlando di lattine vuote e vecchie scatole, si finisce inevitabilmente col parlare di cultura, arte, economia e tecnologia. Quasi che il mondo delle relazioni umane fosse rinchiuso in un imballaggio, novella lampada di Aladino. Ora, forse lì dentro non sarà nascosto un Genio, ma, per quanto possa apparire un’ipotesi azzardata, dovremmo concludere che, grazie all’ormai paradigmatica lattina vuota, il mondo sta scoprendo l’importanza della Gea-politica. Cioè di una politica consapevole di quanto sia devastante relegare la gestione socio-economica della società su un altro pianeta, lontano e indifferente a ciò cha accade fisicamente su Gea. Al contrario, perché nell’economia generale della Terra il progresso mostri sempre un segno positivo, lo sfruttamento delle risorse naturali del territorio, e la gestione politica dello stesso, dovrebbero forse tradursi in un profitto economico “naturale”, privo cioè di quella tensione superomistica che ha contraddistinto la prima, e più distruttiva, fase del vecchio capitalismo. Maria Gallo, designer e giornalista, coordina il master in Packaging Design dell'Istituto Europeo del Design (Milano).
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Per saperne di più: www.cial.it www.comieco.org www.consorzio-acciaio.org www.corepla.it www.coreve.it www.rilegno.it
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raffinatissime tecnologie venga banalmente dimenticata in un bosco e trascorra lì, grazie alle sue eccellenti caratteristiche di resistenza, lunghi lustri, inquinando l’ambiente naturale. Abbiamo girato il quesito a Plinio Iascone, che parla a nome del CNA (Consorzio Nazionale Acciaio). «Nel caso della lattina di acciaio, il possibile inquinamento deriva solo dalla cattiva educazione e dal mancato rispetto di un bene comune come l’ambiente, perché il materiale, di per sé, non è nocivo. Comunque, per limitare i danni, il CNA si è fatto promotore, presso le aziende produttrici d’imballaggi di acciaio, di una politica di riduzione del peso medio dei contenitori, pur conservando inalterate le necessarie caratteristiche fisico/meccaniche. Pensiamo per esempio al barattolo per conserve vegetali da 1/2 kg, il cui peso negli ultimi dieci anni, è stato ridotto del 57%». Ma per evitare che un gesto banale, come l’abbandono di una scatoletta di tonno, vanifichi tanto impegno, anche CNA ha lavorato molto sul piano della comunicazione, utilizzando quasi ogni genere di media. «Abbiamo avuto dei passaggi televisivi, per pubblicizzare e incentivare la raccolta differenziata degli imballaggi d’acciaio; produciamo il magazine bimestrale Notiziario del CNA che, con una tiratura di 10.500 copie, ha permesso di creare contatti e collaborazioni con altri organi di informazione, enti e Comuni coinvolti nella raccolta differenziata. Abbiamo attivato anche un Ufficio Stampa specializzato per collaborare con le principali riviste del settore degli imballaggi e del riciclo dei rifiuti. E infine, per sensibilizzare al riciclo il pubblico più giovane, abbiamo attivato due iniziative, differenziate per età:
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The Gea-Politics of Packaging The Italian consortia speak about recycling Maria Gallo
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The ecological emergency is a problem that the more industrialized companies had the privilege of accepting as a fact if life until just recently. However, now that we’ve discovered that our waste, our more polluting productions, our older and less efficient car models have been decentralised (i.e. moved to in economically depressed areas), we can finally say that we’ve have globalised not just our economic model, but also the errors and the faults of the consumer society. And the objects too - faithfully accompanying man’s expansion - have invaded our ecosystem, with packaging accounting for a considerable share. Waste packaging does not go unnoticed, as it’s "condemned" to greater visibility than other goods in physical terms (packaging is designed to be beautiful, recognizable and resistant), as well as being an important link in the chain, a crucial meeting point for our Western material and imaginary culture. Their "excess" presence reflects the very dominance of the Western man and so, perhaps for this, packaging has been accused of being an inexhaustible source of pollution, more than any other product. Instead of being wary of packaging, we should be grateful to it, because thanks to its presence in our homes (coming into direct contact with our small everyday world) it’s managed to awaken our lazy conscience, given we were happy producers
of waste until quite recently. The packaging Consortia belonging to Conai (*) should take a lot of the merit for this awakening (or education) of the Italian citizen/consumer’s conscience. These Consortia (split by material) have managed to bring together the producers and users of packaging. In fact, these nonprofit consortia promote and guarantee the recovery of used packaging, coming from the differentiated collection schemes by local councils. What’s more, they encourage a different approach to the use of packaging materials and, broadly speaking, more aware planning, reconciling market demands with environmental protection criteria. They’ve managed to change the way the Italians view domestic waste, showing them its true face. Like a reverse “Portrait of Dorian Gray”: just a few years ago we saw just an empty can, but now we’ve learnt to see a valuable source of materials or energy. So what’s happened? It’s because packaging is the result of highly different disciplines (technology of materials, design, branding, ecological and social issues...), making the job of the Consortia cover all aspects information and support for companies, consumer education, collaboration with public bodies - and with constant efforts leading to some important results, way beyond the most optimistic expectations. In order to get a better idea of the reasons behind this change, we should first consider the remarks made by Carl Montalbetti, General Manager of (*) Conai (Italian Consortium for Packaging) is the private nonprofit consortium whose members are producers and users of packaging and with the purpose of pursuing the goals for the recovery and recycling of packing materials foreseen by European legislation and implemented in Italy thanks to the “Ronchi” Decree.
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the material (to produce a new can from recycled aluminium with energy savings of 95%), reduced materials (in terms of weight) for aluminium packaging and optimised design. The result of this research has been truly excellent, because, for instance, in spite of a reduction in weight, the new shapes and dimensions of the containers have led to greater efficiency in logistics, transport and the recycling of the packaging». In other words, design doesn’t just play a secondary role in the life of a can. Indeed, the CiAl is promoting ReAl 13, a competition for designers and architects with the aim of encouraging new ideas for packaging. «We’ve also taken into consideration the companies continues Galdo - by organizing “From trash to Cool”, a project aimed at company Marketing Directors. Then there’s “Fair Collection”, a project letting us show the economic advantages possible for non-profit concerns involved in differentiated collection».
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The economic advantages of recycling have been naturally been a basic cause for the unconditional adhesion of all the companies involved in the "great" packaging supply chain. «The economic benefits thanks to recycling glass, for example - says Massimiliano Avella from Co.Re.Ve. (the Glass Recovery Consortium) have always been known. Indeed, in the case of glass, recycling is well established practice, ever since the Roman times. In fact, the collection and remelting of scrap glass was often the only productive solution, given that the raw materials weren’t always available. The reprocessing of recovered material also called for less firewood (at the same time reducing the exploitation of the forests) to feed the smelting furnaces, hence lengthening the life of production sites. We could say that the eco-sustainability and the costeffectiveness of glass recycling have been
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Comieco (Italian Consortium for the Recovery and Recycling of Cellulose-based Packaging). «Italy has always had a strong vocation for recycling, because it’s a country with a lack of raw materials. The work carried out by Comieco these past few years - information, education, involvement of public agencies and schools... through operations such as Open Recycling and Cartoniadi - has therefore found fertile land in the Italians’ cultural tradition, historically good "savers" of materials». Infact, Italy doesn’t have the huge forests needed for paper production. This means that the beautiful boxes used for pasta, perfume, cigarettes, etc., must return to the production cycle at the end of their useful life and so be used to create new products or packs. «In Italy we’ve managed to set up a sort of virtuous circle, transforming our weakness into a strength. We have, in fact perfected - continues Montalbetti - a nationwide recovery system and paper recycling technologies that are so efficient that they’ve even been exported. Thus, while just a few years ago we imported some 1,000,000 tons of paper and cardboard, today we export not only the recovery/recycling system, but also the paper created from pulp, and even to countries like China, where a true system waste material collection is still lacking at a national level». “Made in Italy”, therefore, doesn’t just mean beautiful dresses and expensive bags, but also organisational systems and technological research, applied to one of the most important topics for our future. Let’s just consider another material used to produce packaging that Italy has virtually no natural sources for: aluminium. Research has played a decisive role here. «Research in recent years - says Gennaro Galdo of the CiAl (Aluminium Packaging Consortium) has focused on three basic aspects: recovery of
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famous for more than 1800 years... even if it’s hard to think that the Ancient Romans actually had a proper awareness of this». However, an ecological doubt still remains. A sort of paradox where, on the one hand, great technological efforts are being made to optimise the use of the materials and the physical strength of the packaging, while there’s the far from remote possibility, on the other, that a can produced thanks to highly refined technology can be simply forgotten in a wood and so just lies there for many years polluting the natural environment, thanks to its excellent characteristics of resistance. We have posed this question to Plinio Iascone, who represents the CNA (the Italian Steel Consortium). «In the case of the steel can, the possibility of pollution is merely due to bad education and a lack of respect for a common asset like the environment, because the material, in itself, is not harmful. However, in order to limit the damage, the CNA has started promoting a policy of reducing the mean weight of the containers with the steel packaging manufacturers, at the same time preserving the physical and mechanical properties of the containers. For example, if we consider a typical 1/2 kg vegetable can, its weight has been reduced by 57% over the last ten years». But to prevent a mindless act, such as chucking an empty tuna tin, from making all our efforts vain, CNA has also been busy with its communications, using virtually every kind of media. «We’ve done TV spots to publicise and motivate people to adopt differentiated collection of steel packaging; we produce a bimonthly magazine (the CNA Newsletter, 10,500 copies) that’s let us create contacts and forms of collaboration with other organs of information, bodies and municipalities engaged in differentiated collection. We’ve also set up a special Press Office to collaborate with the main trade magazines operating in the field of
packaging and waste recycling. And, finally, in order to increase the younger public’s awareness of recycling, we’ve introduced two initiatives for two different age groups: Friendly Steel, Schools & Creativity, for primary and secondary schools; Friendly Steel, the Art of the Recycling for students in Art Colleges, who’ve been asked to produce works of art using recycled steel packaging». When speaking about empty cans and old tins, one’s bound to end up speaking about culture, art, economy and technology. Almost as though the world of human relations is enclosed in a form of packaging, a new Aladdin’s lamp. Well, perhaps there’s not an actual genius inside, but, even if it might seem ridiculous, we could conclude that, thanks to the now paradigmatic empty can, the world is discovering the importance of Gea-politics. In other words, politics truly aware of the devastating effects of relegating the socialeconomic management of society to another planet, one that’s far away and indifferent to what physically happens on Gea. On the contrary, because in the general economy of the Earth progress has always had a positive side to it, our exploitation of the Earth’s natural resources and their political management should, perhaps, turn into a "natural" economic profit. Namely, without any of the superman tension that’s been so typical, and so destructive, of the first phase of old Capitalism. Maria Gallo, designer and journalist, coordinates the Master in Packaging Design course at the European Institute of the Design (Milan). For further info: www.cial.it www.comieco.org www.consorzio-acciaio.org www.corepla.it www.coreve.it www.rilegno.it
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Anche se tante cose un senso non ce l’ha... “... domani arriverà lo stesso”, come canta Vasco Rossi. Riflessioni a tutto campo sui controsensi dell’oggi e sulle possibilità di domani di Paolo Deganello.
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Paolo Deganello, classe 1940, progettista di urbanistica, architettura, restauro e disegno industriale, appartiene all'area radicale dell'architettura, insieme, tra gli altri, a Ettore Sottsass, Hans Hollein e ai gruppi dell'architettura radicale fiorentina: lo studio Archizoom associati (da lui fondato nel 1966 insieme a Branzi, Corretti e Morozzi), Superstudio, Ufo. La sua ricerca sul design parte dall'ipotesi che “un’altra merce è possibile” ed è oggi sempre più “domandata”. Su questi argomenti, all'ISIA di Firenze (istituto universitario statale di design del prodotto e della comunicazione) tiene corsi di progettazione che affrontano anche il tema del packaging (si veda la rubrica schoolbox di questo numero). In queste “note a margine” per Impackt, Paolo Deganello ha raccolto “un insieme di appunti” quasi “una serie di flash… tutti da sviluppare”. Accenni che sollevano questioni enormi, ma ormai all’ordine del giorno, con cui la cultura del progetto, l’arte, il mondo della produzione e ognuno di noi, è, già oggi chiamato a confrontarsi. «Questo testo dovrebbe suscitare un interesse, e spero un dibattito, su questioni che qui sono solo accennate». M.S
Atlas Athletes Stella Sposato Progetto per una palestra a impianto ecologico
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Ci sono quelli che manifestano, nudi, in sella alla bici, per il centro di Madrid, contro l’inquinamento urbano prodotto dalle auto, e quelli che viaggiano in SUV [Sport Utility Vehicle], quegli enormi fuoristrada da 5 km al litro, che vanno, quasi fermi, da un semaforo all’altro e consumano benzina o gasolio in quantità assurde… pur di sentirsi più grossi, più potenti, più ricchi, più diversi, più avventurosi… in intasate strade di città. C’è chi posa sulle acque sacre del Gange una grande foglia riempita di petali di fiori e chi scarica nel fiume sacro le acque impure delle concerie di Kanpur... nell’India assetata si muore per le inondazioni, ma nei quartieri più poveri e periferici di New Dheli arrivano 30 litri di acqua al giorno procapite, mentre nei superresidenziali quartieri di Luthyen ne arrivano fino a 462… c’è chi sa che un cittadino statunitense emette ogni anno 22 tonnellate di anidride carbonica, che un cittadino tedesco ne emette 12, e un indiano meno di 1, e può facilmente capire che se tutti i paesi della nostra piccola terra seguissero l’esempio della Germania il mondo rilascerebbe 67 miliardi di tonnellate di CO2 ma questo significherebbe che di questa piccola terra c’è ne vorrebbero cinque (il calcolo è di Wolfang Sachs - Wuppertal Institut 2002)… e dei molti che sanno, moltissimi ogni giorno dimenticano, e ancora moltissimi non sanno e… sono la maggioranza delle vittime di questa iniqua distribuzione del benessere sul pianeta terra. La guatemalteca Regina Josè Galindo alla cinquantunesima Biennale di Venezia ha mostrato i video di tre sue performance… Immerge i suoi piedi in un catino di
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sangue mestruale, e cammina per le strade del suo paese lasciando le sue orme di sangue, poi, alla Biennale, si è fustigata in pubblico con trecento colpi, quante sono le donne assassinate nel 2005 nel suo piccolo paese di circa 5milioni di abitanti. La commissione della Biennale, presieduta da Ida Giannelli, le ha riconosciuto il Leone d’Oro quale migliore artista sotto i 35 anni, “per aver saputo dare vita ad un’azione coraggiosa contro il potere” e per aver fatto sentire, sul proprio corpo, le 300 donne
criptico ed esclusivo dentro il mondo ancora chiuso e separato dell’arte, ma come diceva Paul Klee “noi artisti non abbiamo il sostegno di un popolo… ma un popolo noi lo cerchiamo”. Sempre di più l’arte guarda al “popolo degli affamati e dei violentati” e trova una nuova legittimazione del proprio fare mostrando le ingiustizie del mondo… ed è l’atto di solidarietà per l’altro l’occasione di bellezza che ha senso rappresentare. Cosa può dare senso alle merci che disegniamo?
Mariangela Savoia Michela Voglino Progetto Soapnuts-noci detersivo
guatemalteche violentate e assassinate in un anno… Frederic Bruly Bouabrè, artista della Costa d’Avorio, realizza pitture grandi come una cartolina con disegni elementari e diretti, e poi sulla cornice racconta le ragioni della sua piccola opera… ne scrive il senso nella speranza che tutti capiscano. Una parte sempre più vitale dell’arte, presente alla Documenta di Kassel, alle Biennali di Venezia e di Istanbul, non cerca la bellezza, cerca di farsi vedere, di far sentire, di spiegare, usa gli stessi mass media, spesso ancora in modo
Nelle osservazioni finali di Merci di Culto di Fulvio Carmagnola e Maurizio Ferraresi (Castelvecchi, 1999) si legge… “la merce insegue oggi un regno elettivo che sembrava non appartenerle: è il regno del senso, della bellezza e del valore.” Il design del moderno, quello che si insegnava al Bauhaus, quello dei Diter Rams, dei piccoli elettrodomestici Braun, per intenderci, trovava un suo senso preciso nel dare bellezza alle merci. Era uno degli artefici, insieme al cinema e alla fotografia, di un
Bernabei, Hortopan, Maltinti, Palmisano, Pascolini Extreme Urban Concept Car
Packaging promozionale per le noci detersivo, piccoli frutti provenienti dall'India dalle proprietà detergenti utilizzabili in sostituzione dei saponi artificiali. Muffola in spugna di cotone per lavare capi delicati a mano; funziona come una taschina nella quale vengono inserite le noci
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Regina Josè Galindo ¿Quien puede borrar las huellas? (Who Can Remove the Footprints?) 2003
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Elisa Galli, Sara Todde Per filo e per segno, collezione di gioielli in canapa e caucciù
processo di massificazione che trovava nel disegno industriale uno strumento non secondario di divulgazione dell’estetico. Attraverso la bella forma si veicolava la superiorità del prodotto di serie rispetto al prodotto artigianale, si cercava consenso nel consumatore mostrando i meriti dell’innovazione tecnologica nell’abbassare i costi e nell’aumentare la qualità prestazionale delle merci. Quale
poltrona, ha imposto al mondo intero la superiorità produttiva e prestazionale della cucina all’americana, ha mostrato e imposto con le guerre, ma anche attraverso il consenso alle sue merci, una presunta superiorità della cultura occidentale, in un tempo in cui fermamente si credeva che la diffusione planetaria di questa civiltà fosse garanzia di progresso per l’umanità intera. La bellezza del progresso era il senso
migliore legittimazione poteva avere il design? … aveva trovato un suo “popolo”, progettava sempre di più per tutti, dava a tutti, e non più solo ai “principi e ai signori”, la bellezza… e credeva, fermamente credeva, nella positività della merce che disegnava… l’IKEA e Muji sono in sostanza i capolavori del design moderno. Si è sempre sottovalutata la natura mass-mediale del design. Insieme al cinema, alla fotografia, alla stampa, alla televisione, esso ha convinto i giapponesi a smettere di star seduti in terra, li ha messi in
della forma dei prodotti, e la bellezza che noi designer con le nostre piccole invenzioni riuscivamo a dare ad essi, era quel valore aggiunto che tanto ci legittimava. Si cominciò negli anni Sessanta con un design radicale e critico a mettere in dubbio la bellezza di quel progresso, e una storia del design che sappia far vedere nella forma degli oggetti la crisi di quell’idea di progresso è ancora tutta da scrivere. Oggi progettiamo per inerzia, senza passione, sempre meno crediamo nella positività delle cose che disegniamo. Quelle merci
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dovrebbero portare cultura a popoli arretrati, dovrebbero portare benessere, ma imponiamo ai più deboli i nostri prodotti e la nostra cultura distruggendo la loro… così i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più affamati e violentati. Dovrebbero promuovere una nuova cultura ecologica nei paesi poveri quelle merci, e invece andiamo là a produrle inquinando i loro territori per pulire i nostri, e ci appropriamo, con la violenza, delle loro risorse, umane e naturali, perpetuando il principio fondamentale del nostro sviluppo secondo cui “le risorse della nostra terra sono inesauribili” e quando si esauriscono nei nostri territori, andiamo a prenderle con le armi e con il ricatto economico nei territori di chi non le sa “sfruttare”.
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Tutto il design moderno è stato costruito su quel pensiero unico che, a destra, al centro e a sinistra, partiva dall’assunto che comunque le risorse del nostro piccolo pianeta terra erano illimitate, che ogni ingiustizia sociale poteva trovare soluzione nella solidarietà tra gli umani e che il progresso tecnologico avrebbe fornito sempre gli strumenti efficaci per eliminare gli stessi guasti prodotti sulla natura dall’uomo. Un nuovo senso, una nuova bellezza, un nuovo valore delle merci, completamente estraneo alla cultura del design, sta emergendo nonostante tutto nel sempre più variegato scenario delle merci. Le merci bio, le merci ecosostenibili, le merci eque e solidali, sono sempre più presenti nei nostri supermercati, come sempre più presente è il rifiuto per l’artificializzazione della natura e per i prodotti ottenuti con i sementi “geneticamente modificate”... e cresce il sospetto della truffa... Dalla mucca pazza ai corpi martoriati dalla fame dei bambini nigeriani, dalle alluvioni in India all’inquietante canicola dell’estate 2003, dell’estate 2004, dell’estate 2005, dal trionfo del condizionatore al blackout, quella che Latouche chiama “ la pedagogia delle
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Nel Novembre del 2003 l’economista francese Serge Latouche pubblicò su Le Monde Diplomatique un articolo-manifesto “per una società della decrescita” che tentava di contrapporsi radicalmente ad una sorta di pensiero unico, comune a quasi tutta la classe politica francese, e occidentale, per la quale la nostra felicità deve necessariamente passare per l’aumento della crescita, della produttività del potere d’acquisto e quindi dei consumi. Dopo alcuni decenni di sprechi frenetici, siamo entrati, a quanto pare, in un’area di perturbazione sia in senso proprio che figurato. Lo sconvolgimento climatico avanza di pari passo con le guerre del petrolio, che seguiranno quelle per l’acqua, ma non solo: si temono pandemie, e corriamo inoltre il rischio della scomparsa di specie vegetali e
animali essenziali in seguito alle prevedibili catastrofi biogenetiche. In queste condizioni, la società della crescita non è né sostenibile, né auspicabile. È urgente pensare ad una società della “decrescita” se possibile serena e conviviale… ed è la “pedagogia delle catastrofi”, più ancora che la denuncia dell’arte e della cultura critica, che potrà incidere sulla scelta della decrescita.
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catastrofi” sembra stia dando i suoi frutti e sempre di più una parte della cultura del progetto si trova a disagio nel dover inventare l’ennesimo virtuosismo formale, per promuovere un desiderio sempre più stanco di nuove merci che sono sempre meno nuove perché sempre e ancora ripropongono quell’ideologia di progresso che tutti sappiamo si è risolta in una minoranza sempre più ricca, in una maggioranza sempre più povera, in un pianeta terra sempre più inquinato e con sempre meno risorse. Il petrolio è a 60 dollari al barile, il caffé e il cacao hanno dimezzato in dieci anni il loro prezzo, l’emisfero della fame è sempre più violentato e affamato, le aspettative di vita di un giapponese sono di 85 anni, quelle di un mozambicano sono di 38 anni… e a noi designer, oggi, chiedono di dare legittimazione estetica al lusso. Il lusso, per reiterarsi, ha bisogno di cultura, oggi non chiedono più di diffondere l’estetico, ma di renderlo esclusivo, magari anche un po’ ecologico, un po’ dissenziente, ma comunque elitario. Diventeremo i designer dei SUV. Ci penserà IKEA, poi, a diffondere a basso costo quel modello vincente tutto occidentale, ma con un po’ di esotico, con qualche pizzico di ecologico, rivisto, corretto, svuotato di ogni originalità sostanziale, ridotto a copia in modo che quella gerarchizzazione dell’estetico che aveva scatenato la ribellione degli anni Sessanta sia finalmente e definitivamente ricomposta e restaurata… l’estetico deve essere un privilegio e la crescita dei consumi deve comunque continuare a crescere. La Piaggio, che già oggi con tutti i
suoi diversi marchi, Guzzi, Aprilia, Derby, produce 600.000 veicoli, ha siglato un accordo con la cinese Zongshen per produrre ogni anno, entro il 2012, un milione di scooter e moto con il marchio PiaggioZongshen. A questo nuovo milione di scooter per il mercato asiatico ogni anno, si aggiunge il fatto che Volkswagen e General Motors prevedono di fabbricare 3 milioni di auto in Cina ogni anno… sappiamo tutti che la motorizzazzione dell’Asia è vicina e noi abbiamo un solo pianeta terra. Sarebbe giusto che noi dell’emisfero del benessere ricominciassimo ad andare in bici, decrescessimo la nostra motorizzazione dopo un secolo di inquinamento senza limiti… un SUV a pedali potrebbe essere la giusta punizione, ma non sarà così e il nostro piccolo pianeta terra continua ad essere uno solo. Lo scooter da 50cc derivato dall’Italico Zip, di nome “Shunv” è stato presentato il 25 giugno 2005 (notizia riportata su EconomiaImprese e mercati di Repubblica del 25/06/05) al mercato cinese e Shunv, ci dice Repubblica, è uno dei pochissimi scooter cinesi in regola con le norme Eco2 adottate da Pechino a partire dal prossimo luglio. L’Accademia Cinese di Scienze Sociali ci informa che ogni anno vengono distrutti 700 mila ettari di foreste in Cina, il 30% delle acque urbane sono già oggi inquinate, otto delle dieci città più degradate del mondo sono cinesi. La rivoluzione industriale cinese ripercorre esattamente la tessa strada di quella occidentale. Prima si cresce poi, forse costretti dalle catastrofi, istruiti dalla pedagogia delle catastrofi di Latouche, cominceremo a ripulire. Presto i
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cinesi, nella lungimiranza imprenditoriale giapponese, negli architetti giapponesi - e nel frattempo continuare a progettare, in modo sempre più demotivato, sempre più delegittimato, continuando a cercar bellezza per merci troppo brutte perché troppo indifferenti alle molte contraddizioni generate da quello stesso sviluppo in cui il design tanto ha creduto ed a cui è sempre più difficile credere? Un nuovo senso, una nuova bellezza, un nuovo valore, può essere dato a prodotti che riducano lo spreco di risorse, valorizzino la cultura dell’altro, riducano il degrado ambientale per tutti e migliorino per tutti l’abitabilità di quell’unico pianeta terra che possediamo, imparino cioè dall’arte ad essere merci che trovano la loro occasione di bellezza nella solidarietà per l’altro. Questo, a me sembra, ha senso rappresentare nel disegno delle merci.
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Paolo Deganello ha disegnato tra l'altro prodotti per Cassina, Driade, Zanotta, Vitra, Italcementi, Steelcase, presenti nelle collezioni di importanti musei del design; svolge attività di pubblicista.
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cinesi riprenderanno le loro biciclette e circoleranno nudi per Pechino manifestando contro i SUV. Poteva essere una grande occasione per la cultura del progetto portare in Cina un nuovo scooter, non solo rispettoso dell’Eco2, ma capace di un inquinamento tendente a zero, che per esempio bruciasse un biocarburante come l’etanolo e non il petrolio, capace di mostrare che la folle strada dello sviluppo occidentale è fallimentare e suicida… non ha senso ripercorrerla, porta morte e non benessere, ingiustizia sociale e non solidarietà tra gli umani. Il padiglione cinese alla Biennale di Venezia è una bella macrostruttura in bambù, risorsa coltivabile, non estraibile come il petrolio o l’acciaio o il cemento: esempio di arretratezza o di un nuovo balzo tecnologico? Una nuova tecnologia costruita a partire dalle risorse rinnovabili è possibile solo se la ricerca cambia totalmente la sua finalità produttiva, parte dall’acquisizione delle risorse limitate da ridistribuire il più equamente possibile tra tutti gli umani e prende atto che il bambù, come le fibre naturali, come i biopolimeri, come i biocarburanti, proprio perché sono “coltivabili”, non sono arretratezza, ritorno all’arcadia, ma tecnologia avanzata e superiore a quella costruita sulle risorse “estratte”. Il Giappone a maggio ha firmato un affare di 15 milioni di litri di biocarburante col Brasile (Repubblica, 01/07/05), all’ultima Expo ad Aichi il padiglione giapponese largo 90 metri, profondo 70 e alto 19 metri, era interamente costruito in bambù. Possiamo sperare negli artisti
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Even if many things ain’t got no meaning... “...tomorrow’ll come along anyway”, so sings Italian rock star Vasco Rossi.All encompassing reflections on the absurdities of today and the possibilities of tomorrow.
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Paolo Deganello Paolo Deganello, born in 1940, town planner, architect, restorer and industrial designer, belongs to a radical area of architecture, along with, among others, Ettore Sottsass, Hans Hollein and the Florentine group of radical art: the Archizoom associates’ studio (founded by him in 1966 along with Branzi, Corretti and Morozzi), Superstudio and Ufo. His study on design starts from the idea that “other goods are possible” and today evermore “in demand”. He holds courses in design on the said subjects at the ISIA, Florence (the Italian state university institute for product and communication design) also dealing with the subject of packaging (see schoolbox section of this issue). In these “marginal notes” for Impackt, Paolo Deganello has put together “a collection of annotations”, almost a series of flashes… all of which need further going into”. Snippets that raise enormous questions, questions though that are now on the agenda as it were, which the culture of design, art, the world of production and each of us are even now forced to deal with. “This piece should arouse interest and I hope start up a debate on the questions that are brought up herein”. There are those who cycle naked on their bicycles through the centre of Madrid to protest against the
urban pollution produced by the automobile, and those who travel in Sport Utility Vehicles, those huge jeeps that run 5 km to the litre, that lumber from one traffic light to another, crawling along while consuming petrol or gasoline in absurd quantities… all this so that the driver can feel bigger, more powerful, richer, more different, more adventurous… in crowded city streets what is more. There are those that place a large leaf filled with flower petals on the sacred waters of the Ganges and those that discharge impure water from the Kanpur tanneries. In India plagued by thirst people die because of flooding, while the poor quarters in the suburbs of New Delhi receive 30 litres per day per capita, the super-residential quarters of Luthyen receive up to 462 litres… there are those who are aware that a US citizen produces 22 tons of carbon dioxide every year, while a German citizen produces 12, an Indian less than 1, and can easily understand that if all the countries of our small earth followed the of Germany the world would produce 67 billion tons of CO2 but this means that we would need five of our little earths (calculated by Wolfgang Sachs Wuppertal Institut 2002)… and yet everyday many of those who are aware of all this forget, and many more are unaware… and it is the unaware that make up the majority of the victims of this iniquitous distribution of affluence on the planet earth. Guatelmalan artist Regina Josè Galindo at the fiftyfirst Venice Biennale showed videos of three of her performances…Immersing her feet in a bowl of menstrual blood and walking through the streets of her country leaving a trail of bloody footprints, and then at the Biennale she publicly flogged herself with three hundred lashes, the same amount as the number of women murdered in 2005 in her tiny country of close on 5 million inhabitants. The commission of the Biennale, presided over by Ida Gianelli, awarded her the Golden Lion for the best artist of less than 35 years of age, “for her ability in
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giving rise to a courageous action against power” and for having felt 300 Guatemalan women raped and murdered in a year on her own body… Frederic Bruly Bouabrè, artist from the Ivory Coast paints pictures the size of postcards featuring direct, elementary drawings, and then gives a written explanation of the small work in the surrounding frame…he explains their meaning in the hope that everyboy understands. An evermore vital part of art, present at Documenta, at Kassel, at the Venice Biennale and at Istanbul, does not seek beauty, it wishes to be seen, to make people listen and feel, to explain, it uses that very mass media, very often in a cryptic and exclusive way within the still closed and separated-off world of art, but as Paul Klee stated “we artists are not supported by a people… but we seek a people”. Evermore art looks at the “starved and ravished people” and finds a new legitimization in its showing the injustices of the world…and it is the act of solidarity for the other that is the occasion for beauty that it is worthwhile representing. What can make the goods we design meaningful?
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In the final observations of Merci di Culto by Fulvio Carmagnola and Maurizio Ferraresi (Castelvecchi, 1999) one reads… “today goods pursue an elective realm which they no longer appear to pertain to: the realm of meaningfulness, of beauty and of value.” The design of the modern, that was taught at the Bauhaus, that of Diter Rams, of the small Braun household appliances to indicate what is meant, found its own given meanfulness in giving goods beauty. It was one of the artifices, along with cinema and photography, of a process of massification that found in industrial design a non secondary tool for divulging aesthetics. The superiority of the mass produced product compared to the craft product was vehicled by the
“gute Form”, the consensus of the consumer was won over by showing the merits of the technological innovation in lowering costs and increasing the performance of the goods. What better legitimisation could design have?… its having found its “people”, its designing evermore for everyone, giving to everyone, and not only being for “princes and noblemen”, its believing, firmly believing in the positiveness of the goods designed… IKEA and Muji are basically the works of art of modern design. The mass medial nature of design has always been underestimated. Along with cinema, photography, the press, TV, it convinced the Japanese to give up sitting on the floor, it placed them on sofas, it has imposed the superiority in production and performance of US “cuisine” on the entire world, it has demonstrated and imposed a presumed superiority of western culture with war, but also through consensus gained through its goods, in a time in which one believed that the planetary spread of this civilisation was a guarantee of progress for humanity as a whole. The beauty of progress was the sense of the shape of products, and the beauty that we designers with our small inventions managed to give to the same, was that added value that legitimated us so much. It all started off in the sixties with a radical and critical design that began to question the beauty of this progress, and a history of design that is capable of showing the crisis of those ideas of progress reflected in the shape of the objects still has to be written. Today we design through inertia, without any passion, ever less believing in the positiveness of the things that we design. Those goods items were to have brought culture to backward peoples, they were to have brought affluence, but we impose our products and our culture on the weakest destroying their culture… thus the rich get richer and the poor evermore plagued by hunger and ravished. It was to have
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promoted a new ecological culture in poor countries those goods, and yet in turn we go there and produce them polluting their land to clean up ours, and with violence we appropriate their resources, both human and natural, perpetuating the fundamental principle or our growth according to which “the earth’s resources are inexhaustible” and when they run out where we are we go and get them using arms and economic blackmail in the areas of people who are not capable of “exploiting” them.
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In November 2003 the French economist Serge Latouche published in the Le Monde Diplomatique an article-manifesto “for a society of ungrowth” that tried to radically go against a sort of all-imposing thought, common to the entire French and western political class, for whom our happiness has to necessarily go by greater growth, of productivity, of purchasing power and hence of consumption. After several decades of frenetic waste, we have it seems entered into an area of turbolence both in the actual and in the figurative sense. Climatic upheavals press forward at the same pace as the wars for petrol, that will be followed by wars for water, and not only that: widespread disease is feared, and we also run the risk of the disappearance of essential plants and animal species following on from foreseeable biogenetic catastrophes. In these conditions, the society of growth is unsustainable, nor is it wished for. We urgently need to think of a society of “ungrowth” if possible happy and convivial… and it is the “pedagogy of catastrophes”, more than the denouncements made by critical art and critical culture, that could engender his choice of ungrowth. For the political right, the centre and the left all modern design has been constructed following an all-imposing thought that started from the assumption that anyway the resources of our small planet were unlimited, that all social injustice could find solution in solidarity between human beings and that technological progress would always have provided the right tools for eliminating the selfsame troubles produced by human nature. Despite all a
new meaningulness, a new beauty, a new value of goods, completely extraneous from the culture of design is emerging in the evermore variegated scenario of goods. Bio-goods, ecosustainable goods, fair trade goods, are evermore present in our supermarkets, as the refusal of the artificialization of nature and the products obtained from “genetically modified” seeds is gaining ground… and the suspicion that we have been swindled is growing…From the mad cow disease to the bodies wracked with hunger of Nigerian babies, from the floods in India to the perplexing swelter of summer 2003, 2004 and 2005, from the triumph of the air conditioner to the blackout, what Latouche calls “the pedagogy of catastrophes” seems to be bearing fruit and evermore a part of the design culture had begun to feel queasy about having to forcedly invent the umpteenth formal virtuoso work, to promote an increasingly flagging desire for new goods that are less and less new because they yet again repropose that ideology of progress that we all know has led to an ever richer minority, to an ever poorer majority, in a an evermore polluted planet earth with ever less resources. Petrol is at 60 dollars a barrel, coffee and cocoa have halved their price in a decade, the hemisphere of hunger is evermore ravished and hungry, the life expectations of a Japanese is 85 years, for a Mozambican it is 38 years… and we designers are today asked to drape luxury with aesthetic legitimisation. Luxury, to reiterate itself, needs culture, these days there is no longer a demand for widespread aesthetic, the demand is that aesthetic be made exclusive, perhaps even a bit ecological, a bit outré, but elite at any rate. We will become the designers of SUVs. IKEA will then see to spreading the successful western model at low cost, but with a touch of the exotic, with a pinch of the ecological, revamped, reworked, devoid of any substantial originality, reduced to a copy so that the hierarchical structure of the aesthetics that set off the rebellion in the sixties is at last and definitively recomposed and restored…. aesthetics has to be a privilege and come what may growth in consumption still has to keep on growing.
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steel or cement: a sign of backwardness or a new technological leap? A new technology built starting from the limited resources to be redistributed as fairly as possible among all human beings and recognises that bamboo, like natural fibres, like biopolymers, like biofuels, for the very fact that they are “cultivatable”, is not backwardness, a going back to arcadia, but it is technologically advanced and superior to that built on “extracted” resources. Japan in May signed a deal for 15 millions of litres of biofuel with Brazil (Repubblica 01/07/05), at the last Expo at Aichi the Japanese pavilion, 90 metres wide, 70 metres long and 19 metres high was entirely built in bamboo. We can place our hope in Chinese artists, in Japanese entrepreneurial farsightedness, in Japanese architects - and in the meantime continue to design things, in an evermore demotivated evermore illegitimated fashion, continuing to seek beauty for goods that are too ugly because they are too indifferent to the many contradictions generated by the selfsame development, believed in so much by design and that it is evermore hard to believe in? A new meaningfulness, a new beauty, a new value, can be given to products that reduce the waste of resources, enhance the culture of others, reduce the environmental decay for everybody and improve the inhabitability of that sole planet earth that we possess, that is that they learn from the art of being goods that find their opportunity for beauty in the solidarity for the other. This, it seems to me, is what is worthwhile representing in the design of goods.
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Paolo Deganello has among other things designed products for Cassina, Driade, Zanotta, Vitra, Italcementi, Steelcase, present in the collections of important design museums; he works as a freelance journalist.
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Piaggio, that already today with all its different brands, Guzzi, Aprilia, Derby, produces 600,000 vehicles, has signed an agreement with the Chinese concern Zongshen to produce a million scooters and motorbikes with the PiaggioZonshen brand each year up to 2012. To this new million scooters each year for the Asian market one should add the fact that Volkswagen and General Motors intend manufacturing 3 million cars in China every year… we all know that motorization of Asia is close at hand and yet we only have one earth. It would be befitting for us in the affluent hemisphere to go back to using the bicycle, to reduce our motorisation after a century of unlimited pollution… a pedal powered SUV might be the right punishment, but things won’t go that way and all the same we still have our one and only small planet. The 50cc scooter derived from the Italian Zip, call “Shunv”, the newspaper Repubblica tells us, is one of the few Chinese scooters that conforms to Eco2 standards that has been adopted by Peking starting from the coming July. The Chinese Academy of Social Sciences informs us that each year 700 thousand hectares of forest are destroyed in China, that today 30% of urban water is polluted, and that eight of the ten most degraded cities in the world are Chinese. The Chinese industrial revolution is going exactly the same way as the western revolution. First you grow and then, perhaps compelled by the catastrophe, having learnt from Latouche’s pedagogy of catastrophe, you start to clean up. Soon the Chinese will be back on their bicycles and will be cycling nude around Peking demonstrating against the SUVs. Bringing a new scooter to China could have been a great opportunity for the design culture to not only respect Eco2 but to also produce something that entailed near zero pollution, that could perhaps run on a biofuel like ethanol and not on petrol, capable of showing that the crazy western way to growth is a failure and suicidal… there is no sense in going the same way again, a way that leads to death and not affluence, to social injustice and not to solidarity among human beings. The Chinese pavilion at the Venice Biennale is a fine bamboo macrostructure, cultivatable resource, not extractable like petrol or
Res Marchio di ideazione e produzione di oggetti a qualità sostenibile, ma anche atto d’amore.
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Restart nasce, come pura riflessione intorno alla natura della merce, con 4 kit dedicati alla luce, all’acqua, alla mobilità e inviati a una cerchia selezionata di interlocutori. Oggi il marchio si struttura maggiormente con 15 progetti veri e propri. Restart è un atto d’amore che dialoga con la meraviglia per la qualità. È pensiero su ciò che si può comperare e ciò che si potrebbe forse vendere (ex merci, vecchie merci che diventano nuove soluzioni acquistabili). È ricerca di azioni in grado di qualificare i prodotti del nostro vivere quotidiano. Forse è anche politica commerciale di nuovo tipo. È dare e ricercare storie anzitutto. È memoria attiva, rinnovabile, sostenibile. Restart è un progetto di Maurizio Navone.
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Cosa è Restart e quando nasce? Restart nasce nel 2002 come possibile “alfabeto progettuale”, che trova nella selezione di oggetti di qualità prima e nella reinterpretazione poi, il proprio percorso compositivo. È un cortocircuito fra la memoria e il presente, e recupero di azioni di ieri ricollocate nell’agire di oggi. Quale relazione esiste fra il progetto Restart e il desiderio di possesso di oggetti già vissuti da altri? La volontà di recupero è sicuramente una delle molle trainanti del progetto; certo non parliamo di un recupero fisico dell’oggetto, perché Restart ripesca soprattutto argomentazioni rituali, storiche, culturali che la merce contiene.
L’oggetto Restart è ricerca di oggetti che necessitano di finestre d’uso spazio-temporali “diverse”. Per esempio? Per esempio tutti i kit regalo disegnati nel 2002-2003: contenitori in fibrone nero all’interno dei quali ho impaginato gli oggetti della mia infanzia, l’acqua con l’idrolitina (water kit), il necessaire per riparare la bicicletta (bycicle kit), grasso spazzola e panno per la protezione delle proprie scarpe (shoes kit): veri e propri scrigni per il recupero di comportamenti dove il designer opera attraverso la riattivazione di significati e di gesti dimenticati. Che tipo di risorse “riutilizza” Restart? Restart fa proprie l’energia pop che Ettore Sottsass “infila” nei colori dei suoi mobili per ufficio; recupera il feltro di Beuys, facendolo dialogare in maniera funzionale con lo sgabello di Max Bill; osserva con attenzione i legni di Penone, per riformulare le abitudini del vivere quotidiano come mangiare, leggere, scrivere. Quali sono le ragioni che guidano le scelte degli oggetti su cui intervieni? Di solito sono oggetti con i quali ho vissuto, che ho utilizzato personalmente, come i mobili Olivetti Syntesis, per esempio, studiati prima, visti mille volte negli uffici a Ivrea, e infine rottamati per motivi legislativi o altro. E allora il bisogno di recupero di qualità costruttive che oggi nemmeno ci immaginiamo, la necessità di chiedere a prestito non solo forme, colori, finiture, ma anche e soprattutto percorsi progettuali con i quali dialogare per la creazione dei nuovi oggetti. In alcuni casi si è parlato di Restart come marchio produttore di oggetti del nuovo lusso contemporaneo, perché? Un giorno con Finollo (camiciaio di
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Genova) si discuteva sul costo delle sue camicie, decisamente elevato. Ma la qualità maniacale della camicia Restart a collo removibile, che abbiamo disegnato insieme, necessita di tempo, di conoscenza da parte di chi la indossa, necessita di eleganza comportamentale. Semplice no? Semplice come provare piacere nel mantenere le proprie scarpe, per farle durare tutta una vita, piacevole come bere un bicchiere d’acqua che ti sei preparato ripercorrendo le azioni di
Restart Trademark of conception and production of objects of sustainable quality, but also an act of love. Michele Calzavara
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Restart was born as a pure reflection on the nature of goods, with 4 kits dedicated to light, water and mobility sent to a select circle of interlocutors. Now the trademark involves 15 actual projects. Restart is an act of love which dialogues with beauty for quality. It is an idea of what one might buy and sell (ex goods, old goods which become new things to buy). It is research into acts which are able to qualify the products of our everyday life. Perhaps it is also a new type of business strategy. It is, above all, providing and searching for histories. It is active, renewable, sustainable memory. Restart is a project by Maurizio Navone. Maurizio Navone Concept designer, si è formato negli uffici di corporate identity Olivetti con Hans Von Klier. Vive e lavora a Milano, dove dal 1995 ha aperto un proprio studio che si occupa di progettare e promuovere attività di comunicazione e design. Dal 2002, con l’ideazione di Restart, marchio di produzione di oggetti a qualità sostenibile, è tornato a concepire un intervento nel campo del product design. Concept designer who trained in the Olivetti offices of corporate identity with Hans Von Klier. He lives and works in Milan and in 1995 he opened his own studio where he conceives and promotes media and design projects. Since 2002, when Restart was first conceived as manufacturing trademark of sustainable quality objects, he has gone back to the field of product design.
What is Restart and when was it born? Restart was born in 2002 as a potential “design alphabet” which finds its own direction firstly in the choice of quality objects and secondly in their reinterpretation. It is a short-circuit between memory and the present, and the recovery of yesterday’s actions reinstated in today’s operations. What is the relationship between the Restart project and the desire to possess objects which have already belonged to other people? The desire to recycle is certainly one of the mainsprings of the project. Certainly we do not
un tempo passato. Questo è il lusso che questi oggetti propongono, il lusso di prendersi il tempo di azioni, di gesti che arrivano da altre storie... Restart si presenta al Salone del mobile 2005 all’interno di un container: ancora una volta un riuso? Dalle scatole in fibrone per i kit regalo al container, il rapporto fra contenuto e contenitore è una delle questioni trainanti del mio lessico
progettuale. Il container oltre a essere esso stesso un objet trouve, è un macro packaging all’interno del quale la collezione trova il proprio spazio operativo. Nomadic Shop è il primo progetto Restart che interagisce con la scala urbana, è anarchia distributiva che può nascere di volta in volta dove meglio ci aggrada, è negozio mobile, showroom. forma di commercializzazione diretta che risolve in un solo gesto le attuali formule distributive.
mean physically recycling the object, because Restart salvages above all the ritual, historical and cultural themes which the goods contain. The Restart object is a search for objects which require “different” spatial-temporal windows of use. For example? For example all the gift kits designed in 2002-2003: black fibre cardboard containers inside which I put objects which belonged to my childhood, water with cordial (water kit), items necessary for repairing a bicycle (bicycle kit), a large brush and cloth for protecting shoes (shoes kit), actual caskets for rescuing behaviours where the designer works by means of reactivating forgotten meanings and gestures. What kind of resource does Restart “reuse”? Restart appropriates the pop energy Ettore Sottsass “slots” into the colours of his office furniture. It salvages the felt of Beuys, making it communicate in a functional way with Max Bill’s stool. It carefully observes Penone’s wood, in order to reformulate the habits of everyday life such as eating, reading, writing.
imperative to borrow not just shapes, colours, finishes, but also, and above all, design methods which can be used to create new objects. In some cases Restart has been described as a manufacturing trademark of new contemporary luxury, why? One day I was with Finollo (Genoa shirtmaker) and we were discussing the cost of his shirts, which is emphatically high. But the fussy quality of the Restart shirt with the detachable collar we designed together needs time and knowledge on the part of those who wear them. It demands elegant behaviour. Simple isn’t it? As easy as taking pleasure in looking after one’s shoes so that they last a lifetime, as pleasant as drinking a glass of water which you have prepared the oldfashioned way. This is the luxury that these objects offer, the luxury of taking time over things, performing traditional gestures.
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Restart was at the Salone del Mobile 2005 inside a container. Was this another form of recycling? From the fibre cardboard boxes for the gift kits to the container, the relationship between contents and container is an important issue in my work. As well as being an objet trouve, the container is a macro packaging within which the collection finds its own working space. Nomadic Shop is the first Restart project which interacts with the urban scale, it is retailing anarchy which pops up from time to time wherever it pleases us most. It is a mobile shop, a showroom, a form of direct marketing which solves the current distributive dilemmas in one fell swoop.
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What are the motives which lead you to you to choose the objects you work on? They are usually objects I have lived with and used personally, such as Olivetti Syntesis furniture, for example which, first studied and then seen a thousand times in the offices in Ivrea and finally scrapped for legislative or other reasons. And then the necessity to revive the quality in manufacturing which we can barely dream of nowadays, the
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Photo by Erica Ghisalberti
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cooperare per un Ambiente Migliore Un caso esemplare di impegno etico e ambientale nella grande distribuzione: Coop. Sonia Pedrazzini
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Coop non ha bisogno di presentazioni. È la più importante impresa di distribuzione italiana e, in conseguenza della sua origine e di quella che è la sua lunga storia, è da sempre impegnata sul versante della responsabilità sociale nei confronti di tutti i suoi referenti: dai dipendenti ai consumatori, dai fornitori all’ambiente, al territorio. Continuamente, e soprattutto a seguito del sempre maggiore sviluppo di prodotti a marchio interno, questo grande sistema di imprese è attento al controllo dell’intera filiera produttiva allo scopo di garantire la massima qualità dei prodotti messi in commercio. Ma al giorno d’oggi, sotto il nome di “qualità” rientrano parametri che vanno ben al di là dell’aspetto strettamente organolettico o funzionale delle merci. La “qualità” di un prodotto, infatti, comprende sia il rigoroso controllo della provenienza delle materie prime che la professionalità messa all’opera nelle fasi di trasformazione, oltre che il rispetto di standard etici, per quel che riguarda le condizioni dei lavoratori. E, non ultimo, un sistema di commercializzazione compatibile con le esigenze dei consumatori stessi. Proprio per questo ultimo aspetto, il tema del packaging è diventato anche per Coop sempre più rilevante, sia perché ha a che fare con il rapporto diretto consumatoreprodotto, sia perché riguarda anche il sistema di smaltimento e il rispetto dell’ambiente.
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Ulisse Pedretti, Responsabile Tutela Ambientale di Coop Italia, risponde alle domande di Impackt, dalla posizione privilegiata di chi segue direttamente queste problematiche. In dettaglio, di cosa si occupa il vostro ufficio? Attualmente l’ufficio è stato spostato sotto la Direzione della Qualità di Coop Italia, assumendo una funzione ben più ampia; infatti la parte
preponderante, se non totalizzante, della nostra mission precedente relativa agli imballaggi, è stata in qualche modo superata a favore di una responsabilità allargata a tutti gli aspetti di carattere ambientale in cui Coop opera: una bella sfida. Una delle cose su cui lavorate da sempre è riuscire a garantire l’eticità dei vostri prodotti, non solo in relazione alla merce in senso stretto, ma verso tutto il sistema di produzione e di distribuzione. Come riuscite a coniugare eticità e mercato? Una grande realtà commerciale come Coop riesce a svilupparsi nel rispetto delle persone che vi partecipano, dell’ambiente e del territorio in cui si trova a operare, solo rimanendo coerente con la missione aziendale che parla, appunto, di rispetto per le persone e per l’ambiente. Tutelare i consumatori è, per noi, l’obiettivo primario, mentre riteniamo che il profitto sia solo uno degli strumenti attraverso cui raggiungiamo il nostro fine. È quindi di fondamentale importanza continuare a essere quello che siamo sempre stati, da 150 anni a questa parte, pur in un ambito non più localizzato ma globale, caratterizzato da elementi di competitività spesso sfrenati. Rispettare l’ambiente utilizzandone in maniera corretta le risorse è ancora una volta una dimostrazione di rispetto delle persone che nell’ambiente vivono, oltre che una dimostrazione di normale lungimiranza. Secondo noi, infatti, operare in senso contrario a questi principi, significa soprattutto infrangere le regole e i diritti altrui, ma anche aggredire in senso miope le risorse, in nome di un profitto forse immediato, ma sicuramente poco duraturo. Quali sono i sistemi di certificazione utilizzati per attestare l’eticità dei prodotti? Non esistono a oggi presidi che
certifichino l’eticità dei singoli prodotti, quanto invece sistemi di controllo dei processi attraverso cui i prodotti vengono realizzati e distribuiti. Coop Italia ha scelto a questo proposito SA 8000 quale unico standard al momento esistente, che presuppone la certificazione di parte terza del processo da parte di enti a ciò accreditati. La certificazione implica il controllo della filiera interna (comportamento dell’azienda certificata nei confronti dei propri dipendenti) e della filiera esterna (ovvero la gestione dei nostri fornitori e dei fornitori dei fornitori), con l’obiettivo di verificarne i comportamenti nei confronti dei lavoratori. Alla fine di questo presidio, che analizza le modalità con cui un’azienda gestisce il processo interno e quello esterno, si può dire se il prodotto, che in quel momento si trova all’interno del processo, garantisce comportamenti corretti o in fase di correzione nel rispetto dei diritti dei lavoratori. L’insieme di queste attività, debitamente documentate, è oggetto di verifica periodica da parte dell’ente di certificazione e deve essere messo a disposizione dei diversi stakeholders che ne possono chiedere ragione, spesso coadiuvando così il processo stesso. Si tratta quindi di un insieme di forze che convergono nella direzione del rispetto dei diritti. Quest’anno avete ottenuto un importante riconoscimento, l’Oscar dell’Imballaggio 2005, organizzato ogni anno dall’Istituto Italiano Imballaggio, che vi ha attribuito il Premio speciale Ambiente 2005. Coop Italia ha vinto ben due Oscar dell'Imballaggio 2005, per aver progettato e utilizzato nel packaging dei prodotti a marchio Coop materiali innovativi e rispettosi dell’ambiente. Si tratta di un riconoscimento prestigioso, che premia l’innovazione e la ricerca. In particolare sono stati
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premiati il contenitore delle lenzuola a marchio Coop, fatto con carte da riciclo derivate dai contenitori Tetrapak, e il vassoio per carne fresca costituito da un biopolimero espanso, ottenuto da fonti interamente rinnovabili e biodegradabili. Quest’ultimo è stato ideato in collaborazione con Coopbox e utilizzato sperimentalmente. Si tratta della prima esperienza al mondo di tal genere. Questi riconoscimenti premiano l’impegno costante della nostra organizzazione per la ricerca di soluzioni innovative a basso impatto ambientale, infatti, negli ultimi mesi, oltre ai prodotti premiati, sono stati realizzati anche piatti e bicchieri interamente degradabili. Il packaging svolge una funzione fondamentale nella promozione e nella comunicazione della vostra private label. Come fate a gestire questo aspetto in sintonia con la vostra filosofia aziendale? Rendendo possibile quella tracciabilità del materiale che, spesso, sul mercato
viene confusa con una semplice potenzialità. Cioè rendendo tangibile, concreto e applicato il concetto di “riciclato”, che va ben al di là di quello potenziale di “riciclabile”. Per esempio, il nostro socio o il semplice cliente che si reca in un negozio Coop e acquista un succo di frutta oppure il latte a marchio Coop, può vedere e toccare con mano una confezione che valorizza il gesto virtuoso della raccolta differenziata fatta in un certo comune, chissà dove… un tal giorno... Quindi, se da una parte le necessità di marketing spingono verso soluzioni coerenti rispetto al concetto di qualità ambientale, dall’altra vi è la necessità di far toccare con mano la merce e contemporaneamente l’esigenza di stoccare in modo ottimale i prodotti (nella fattispecie il nuovo packaging dei lenzuoli COOP è più stretto e più profondo per adattarsi meglio allo scaffale). È anche importante dire che, vista l’alta qualità delle fibre impiegate nei cartoni per bevande, sia la realizzazione di Coop sia i
Nella“Collezione Letto” (Oscar dell’imballaggio 2005 per la sezione Ambiente) la tradizionale busta che contiene le lenzuola è stata sotituita da un astuccio a base cellulosica; il cartoncino microonda è ricavato dal riciclo dei contenitori per il latte e i succhi di frutta.
successivi possibili ricicli potranno contare su un materiale di imballo di elevato valore. Per quello che riguarda il packaging eco-responsabile inoltre, si potrebbe citare anche il contenitore in PET riciclato al 100% ottenuto direttamente da scaglia da raccolta differenziata, che ha vinto l’Oscar dell’Imballaggio 2004. Questo prodotto, che ha registrato un grande successo di vendite, realizza in pieno l’idea di “riciclo”, utilizzando un materiale preso direttamente dalla raccolta differenziata e servendosi di una tecnologia innovativa.
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Sonia Pedrazzini è designer specializzata nel settore cosmetico. Si occupa di cultura del packaging.
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Le novità o i cambiamenti in tema di packaging su cui state lavorando tengono sempre conto degli aspetti sociali e ambientali? Sì, le revisioni e le novità che Coop intende portare avanti circa il packaging li comprendono sempre. Nella faretra di Coop le “frecce” ambientali sono destinate a moltiplicarsi; infatti nella Corporate Social Responsability, in ambito di
Identità Aziendale, questo tema eserciterà un peso veramente rilevante, poiché la nostra identità d’impresa lo presuppone e i nostri consumatori lo richiedono. Abbiamo al momento un certo numero di progetti già molto avanzati, se non praticamente terminati, che stanno aspettando solo il momento di essere catapultati sul mercato, anche se con feed-back non sempre prevedibili, visto l’aspetto innovativo e sotto certi aspetti dissacrante che li caratterizza. Innovare di per sé significa scardinare ciò che abbiamo abitudine a fare soprattutto quando si cerca di rendere realmente tangibili valori come Eticità, Socialità e Ambiente, che non sono, nella generalità dei casi, temi di “core business”.
shopping bag
Bazzicalupo+ Mangiarotti Scopino da bagno
Enrico Azzimonti Tavoletta per bucato
Fabio Bortolani Carta igienica baby
Carlo Contin Spugna da cucina
Antonio Cos Gancio da muro
Design alla Coop Allo scorso Salone del Mobile, Coop ha unito prodotto e design, estetica e funzionalità, coinvolgendo 19 designer, tra i più rappresentativi della nuova generazione, a progettare prodotti di largo consumo per la casa e la persona. Gli oggetti sono stati pensati appositamente per la grande distribuzione, con misure e dimensioni adattabili al trasporto e alla vendita, da realizzare con materiali e lavorazioni compatibili con l'ambiente e con il successivo riciclo. Inoltre, grazie a un accurato studio teorico della riproducibilità industriale, accessibili a
tutti a un prezzo equo e democratico. Ed ecco quindi il sapone da bucato di Joe Velluto, il tipico sapone di Marsiglia, sagomato ergonomicamente per meglio strofinare calze e mutande, custodito in una scatola porta-sapone che, all’occorrenza, funge anche da spazzola. E, sempre in tema di bucato, Matteo Ragni ha disegnato una bacinella dalla forma organica, comoda da usare, adattabile ai luoghi e alle persone (si appoggia comodamente su un fianco quando, per esempio si portano i panni a
Design at the Coop During the last Milan Salone del Mobile, Coop combined product and design, aesthetics and functionality, involving 19 designers, among which the most representative of the new generation, to design fast-moving consumer products for the home and the person. Consequently innovative objects were designed especially created for broadscale distribution, with measurements and size suited to transportation and sale, makeable with materials and processes compatible
Giulio Iacchetti Molletta per il bucato
Iacchetti+Ragni Pantofola cattura polvere
JoeVelluto Sapone da bucato
with the environment and the successive recycling and, thanks to a full theoretical study on industrial reproducibility, accessible to everyone at a fair and democratic price. And hence we have Joe Velluto washing soap, the typical Marseille soap, ergonomically shaped to better rub against socks and underwear, that comes in a soap box that if need be also acts as a brush. And still on the subject of doing ones washing Matteo Ragni designed an
Kazuyo Komoda Dischetti di ovatta
Kazuyo Komoda Bastoncini cotonati
Lorenzo Damiani Feltrino adesivo
Delineo Spazzola specchio
Odoardo Fioravanti Batti panni
Emmanuel Gallina Scopa spazzola
Ilaria Gibertini Stendino con cappottina
stendere) mentre Enrico Azzimonti ha ideato un'assicella lavatoio di ridotte dimensioni, che si presta bene alle esigenze del nomadismo contemporaneo. E ancora, la mini carta igienica a dimensione di bambino, lo sturalavandini con pinzetta incorporata, le pantofole catturapolvere, i guanti toglipelucchi, la scopa-spazzola, e poi: battipanni, mollette, dischetti struccanti e bastoncini nettaorecchie, grucce, guanti di gomma… Sembra proprio che i designer non si siano risparmiati alla ricerca di soluzioni creative e accattivanti per casalinghe e “casalinghi” eco-consapevoli.
organically shaped basin, convenient to use, that suits places and people (It can be conveniently laid on one side when for example you go and hang your washing out) while Enrico Azzimonti created a smallscale washboard that well befits contemporary nomadism. And yet again: mini babysized toilet paper, a plunger with incorporated tongs, dust eating slippers, hair removing gloves, the broom-brush, and then: the carpet beater, pegs, make-up removing disks and ear-cleaners, crutches, rubber gloves… It seems that the designers have not spared themselves in searching for creative, appealing solutions for all the ecologically aware housewives and “housemen”.
Miriam Mirri Sturalavandino
Donata Paruccini Gruccia
Gabriele Pezzini Guanti in gomma
Matteo Ragni Bacinella per bucato
Paolo Ulian Guanto togli pelucchi
shopping bag Just what exactly does your office do? The office has just been placed under the Quality Direction of Coop Italia, taking on a far broader function; in fact, the predominant part of our previous packaging mission, if not the entire mission, has now been surpassed, to favour increased responsibility covering all aspects of the environment where the Coop is active: a great challenge.
Cooperation for a Better Environment An exemplary case of ethical commitment and environmental in organised distribution: Coop.
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Sonia Pedrazzini Coop needs no presentation. It's Italy's most important distribution company and, thanks of its origins and its long history, has always followed a policy of social responsibility with all those involved: from employees to consumers, suppliers to the environment and the territory. Continuously and, above all, as a result of the increasing development of its own brand products, this great system of companies pays special attention to controlling the entire production and supply chain to guarantee the maximum quality of the products it sells. Yet today, parameters falling under the name of "quality" go way beyond the strictly organoleptic or functional aspects of the goods. The "quality" of a product, in fact, includes strict controls on the origin of the raw materials and the professionalism used during conversion, as well as a respect for ethical standards, especially when it comes to working conditions. And, last but not least, a system of marketing that's compatible with the requirements of the consumers. Indeed, with regard to this last aspect, the topic of the packaging used has also become crucially important for Coop, as it concerns the direct consumer/product relationship, plus the waste disposal system and respect for the environment. Ulisse Pedretti, Environmental Safety Manager at Coop Italia, answers some questions put to him by Impackt, from the privileged position of one who's directly involved in these problems.
One of the things on which you've always worked is to succeed in guaranteeing the ethical content of your products, not only in relation to the actual goods, but also the entire system of production and distribution. How do you manage to juggle ethical values and the market? A huge business such as Coop only manages to grow in terms of respect for the people involved, the environment and the local territory by adopting coherent policies in line with the company's main principles, i.e. respect for people and the environment. To safeguard the consumer is our key objective, while we see profits as just one of the tools required in order to reach this goal. It's therefore of fundamental importance for us to continue being what we've always been, these past 150 years, and not just on a local scale, but also on a more global level, despite the often unbridled competition entailed. To respect the environment using the available resources correctly is once again a demonstration of our respect for the people who live in the environment, as well as a demonstration of normal farsightedness. In fact, we feel that to operate contrary to these principles means violating other people's rules and rights, as well as being a short-sighted attack on resources for the sake of immediate profits that are bound to be short-lived. Which certification systems do you use to attest the ethical content of your products? There aren't, as yet, any means to certify the ethical content of a specific product, but there are control systems for the processes used to produce and distribute the products. Coop Italia has thus chosen SA 8000, being the only standard at present that requires certification by third parties of the process using accredited agencies. Certification implies the control of internal operations (the certified company's behaviour towards its own employees) and external ones (i.e. management of our suppliers and the suppliers' own suppliers) with the objective
shopping bag of checking their behaviour towards the workers. Only after such controls, that analyse the way in which a company manages its internal and external processes, one can say whether the product currently in the internal process - guarantees correct behaviour (or that in the process of being corrected) with respect to workers' rights. All these activities, duly documented, are the object of periodic verification by the certification agency and the documents must be made available to the various stakeholders (those involved) who may ask to see them, thus often helping improve the very process. In other words, it's a combination of forces, resulting in respect for rights.
Sonia Pedrazzini is a designer specialising in the cosmetics sector and concerned with the culture of packaging.
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Packaging plays a fundamental role in the promotion and the communication of your private label . How do you balance the management this aspect in line with your business philosophy? By ensuring that all materials are easily tracked, though on the market this is often confused as mere potential. Namely, by making the concept of "recycled" a tangible, concrete and applied reality that goes beyond the potential character of “recyclable”. For example, a partner or simple customer who enters a Coop store and buys a Coop brand fruit juice or milk can actually see and touch
What are the packaging innovations or changes you're currently working on, including their social and environmental aspects? Coop always includes these aspects in all its product studies and innovations. Coop's quiver contains environmental "arrows" that are destined to multiply in the future. In fact, as part of Corporate Social Responsibility and Business Identity, this topic will play a truly important part, since our corporate identity presupposes this and our consumers demand it. At the moment there's a certain number of projects underway and at an advanced stage, if not practically finished, just waiting for the right moment to be catapulted on the market, even if the feedback may not always prove to be what we expect given their innovative and, in some cases, desecrating aspects. To innovate means to upset and revolutionise what we have always done, especially when it concerns an attempt to get really tangible values like Ethicality, Social Responsibility and the Environment: aspects that aren't generally topics of "Core business"
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This year you've obtained an important recognition the Oscar dell’Imballaggio 2005, organised every year by the Istituto Italiano Imballaggio, that has given you the Special Environment Award 2005. Coop Italia has actually received two Oscars dell'Imballaggio 2005 for having planned and used innovative and eco-friendly materials in the packaging of Coop brand products. Prestigious recognition, rewarding our innovation and research. More specifically, the Coop brand sheet container made from recycled paper (from Tetrapak containers) and the tray for fresh meat made from an expanded bio-polymer obtained from entirely renewable and biodegradable resources. Indeed, the latter project has been developed jointly with Coopbox and used experimentally: the very first such experience in the world. This recognition rewards our constant efforts in the search for innovative solutions with a low environmental impact. In fact, in recent months, in addition to the products that have received these awards, we've also produced 100% degradable plates and glasses.
with his hand a pack that turns to account the virtuous gesture of separated waste collection in a given town, who knows where, or when... Thus, while on the one hand marketing needs are pushing towards coherent solutions in terms of the concept of environmental quality, on the other there's also the need to actually touch the goods, not to mention the need to store the products in the best possible way (using the new Coop sheet packaging solution, for instance: a narrower pack that's better suited to shop shelves). It's also important to say that, given the high quality of the fibres used in drink cartons, both the Coop packaging product and the recycling opportunities can count on a packing material of great value. Moreover, with regard to ecoresponsible packaging, we can mention the 100% recycled PET container - winner of the Oscar dell’Imballaggio 2004 - obtained directly from chips coming from recycling collection schemes. This product, that's proved a best seller, fully embodies the idea of "recycling", using a material taken directly from the collection scheme and using a particularly innovative technology.
Nelle ricostruzioni dell’artista inglese Chris Gilmour, cartone e imballaggi, minuziosamente elaborati, diventano arte.
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Giada Tinelli
Lambretta, 2004
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Photo courtesy Perugi artecontemporanea
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Bikes, 2003
Per realizzare le sue sculture Chris Gilmour, giovane talento inglese da tre anni stabilmente in Italia, non usa scalpello e martello, ma si arma di taglierini, colle super resistenti e della stessa meticolosa pazienza di un mastro scalpellino. Il cartone è infatti il materiale distintivo e oramai inconfondibile delle sue opere: un materiale considerato artisticamente “povero”, la cui scelta è dettata non solo dalla critica all’enorme consumo di risorse della società odierna, ma anche da una forte attrazione per gli involucri e il packaging. Gilmour propone un lavoro di minuziosa riproduzione in formato reale di pezzi cult del design italiano; le “ricostruzioni” della Fiat 500 e della Lambretta di cartone, la cui realizzazione è stata preceduta da una lunga fase di misurazione e riprogettazione, hanno segnato la fortuna dell’artista e sono state riprodotte innumerevoli volte dalla stampa specializzata e non. Non si tratta di un semplice esercizio di stile fine a sé stesso. Gilmour vuole soprattutto creare azioni e reazioni, provocando negli spettatori gesti inconsci, quasi istintivi, dettati da come immaginano l’oggetto percepito. Il pezzo è decontestualizzato dal suo stesso
involucro ed è come se venisse rivestito di una nuova “pelle” di cartone: questo provoca smarrimento e stupore, dovuto anche a un gioco di contrasti che l’artista insiste a sottolineare. Così la pesantezza lucida della lamiera di una Fiat 500 o dell’acciaio di una moka, si trasformano in eteree e opache opere di cartone. Gilmour ha iniziato a usare il cartone durante i laboratori scolastici e ne ha fatto il filo conduttore delle suo opere, anche nei pezzi più recenti. Nell’ultima serie di cattedrali, i pezzi si moltiplicano, si svestono dei minuziosi particolari e si rimpiccioliscono, mentre la confezione e la marca si impongono agli occhi di chi guarda; l’artista ha costruito un gran numero di modellini quasi a ripercorrere la serialità del packaging, ma, utilizzando scatole di prodotti diversi, è riuscito a creare un ensemble variopinto in una curiosa antinomia. Dai grandi oggetti quotidiani agli ultimi piccoli modelli dell’architettura sacra, in un certo senso “dissacrata” dalle scritte delle confezioni di Nescafé, a un “pianoforte appeso” nell’ultima mostra Defrag (presso la Fabbrica del Vapore, Milano 2005), come fosse
uno strumento da calare su un palco di teatro… Come scegli gli oggetti che rappresenti? C’è stata una progressione nella scelta degli oggetti rappresentati, che vanno da pezzi più piccoli di uso domestico (come la moka o la macchina per scrivere) fino a oggetti voluminosi che appartengono a un contesto culturale più ampio (la Fiat 500 e la Lambretta). Comunque la scelta è sempre dettata dallo stesso motivo - sono oggetti che richiamano alla mente ricordi ed emozioni collegati alla nostra esperienza del loro uso quotidiano. Trattandosi di un lavoro sia visivo che concettuale, li scelgo in base al loro fascino visivo e alla risonanza culturale; solitamente scelgo anche oggetti che presuppongono una sorta di azione o interazione. L’interazione dello spettatore con le opere sembra funzionare come una sorta di cortocircuito tra un’azione implicita e l’impossibilità di attuarla: vorresti aprire la portiera della macchina o girare la ruota della bicicletta, ma naturalmente non è possibile. Penso che questa immediatezza sia importante per entrare nel lavoro e catturare lo spettatore.
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Impieghi spesso materiali preesistenti, dando loro una “nuova vita”… Come vedi il connubio tra arte e “riciclo”? La tua arte potrebbe essere intesa come una nuova consapevolezza verso i materiali che normalmente tendiamo a scartare e a gettare via? Forse è un modo per riappropriarsi o prendere il controllo delle cose che ci circondano che, se si abita in città, sono quasi tutte prodotte dall’uomo. Penso che l’utilizzo di materiale trovato o riciclato sia dovuto alla nostra vicinanza a questo tipo di oggetti e alla loro familiarità. Una delle ragioni per cui uso il cartone è la facilità con cui lo si può trovare - abbiamo un accesso immediato a questi materiali “riciclati”, cosa che non è ugualmente possibile con il bronzo o il marmo. È anche un materiale libero dal peso storico e culturale di questi classici materiali usati nella scultura e può offrire nuove chiavi di lettura dell’opera. Usando un materiale che tutti conoscono e comprendono, posso basarmi sulle associazioni mentali preesistenti per sviluppare idee e modi di leggere l’opera. È un modo per creare un linguaggio comprensibile ai più.
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Nelle prime opere usavi il cartone grezzo mentre nelle ultime è riconoscibile la grafica dell’imballaggio che hai impiegato. Che rapporto c’è fra l’opera e il tipo di packaging utilizzato? Le prime opere erano di cartone grezzo perché aspiravo a raggiungere un effetto iper realistico che mostrasse il materiale “al meglio”, o piuttosto sembrasse realizzare così qualcosa di impossibile, creando una rappresentazione perfetta - infatti molte persone pensavano che le opere fossero oggetti reali, colorati o coperti di carta. Le opere che creo in questo periodo sono fatte di scatole di cartone,
anch’esse trovate per strada, ma che mostrano tutte le scritte, i nastri adesivi, le etichette… Mi piace l’idea di concentrarmi sul materiale al suo “stadio naturale” e giocare con l’idea di questi meravigliosi oggetti, rappresentati con elementi presi dal cestino della spazzatura. Direi che lo faccio per essere il più onesto possibile col materiale - non voglio che diventi troppo pulito: in questo modo non si riuscirebbe a vedere cos’è realmente. Penso che dia un’altra dimensione al lavoro usare del packaging di cartone strappato, che è stato buttato via dopo che gli oggetti imballati che vi erano contenuti sono stati rimossi.
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Qual è il pezzo che ritieni più significativo nella tua opera e perché? Un pezzo chiave è sicuramente la sedia a rotelle in quanto segna il cambiamento dai primi lavori in cui erano presenti le figure umane a quelli attuali in cui l’uomo non compare. Usavo le figure per raccontare una storia sull’oggetto rappresentato, ma più lavoravo sugli oggetti più mi rendevo conto che l’interazione tra l’oggetto e lo spettatore era un elemento potente lo spettatore porta la propria storia nell’oggetto e non c’è bisogno di una sorta di rappresentazione teatrale per spiegare la situazione. Spesso le persone hanno una reazione molto immediata ai miei lavori - provano ad aprire la portiera della macchina o a battere i caratteri sulla macchina per
scrivere, e a me piace questo gioco di contrasti reale/irreale, funzionante/non funzionante, pesante/leggero - e la sensazione che provoca. Penso che in questi casi lo spettatore si proietti nell’opera, mentre la reazione con la sedia a rotelle era diversa - si tratta di un oggetto quasi angosciante e nessuno voleva toccarlo. Che tipo di consumatore sei? Quanto ti senti influenzato dal packaging, che poi riutilizzi nelle tue opere? Sono come spinto a fare attenzione al packaging, è qualcosa che mi affascina molto. In linea di massima compro sempre le solite cose e non ci penso troppo, ma per fare le chiese in miniatura mi sono servite molte confezioni tutte diverse, quindi abbiamo comprato un bel po’ di roba solo per il packaging. Comprare al supermercato un prodotto per tipo è stato divertente, ma poi ci siamo ritrovati con la cucina piena di cibo
che non ci piaceva gran che e che non potevamo più riconoscere perché gli avevamo tolto la confezione… Chi sono stati i tuoi “maestri”, gli artisti più o meno contemporanei dai quali hai tratto ispirazione? Sono particolarmente attratto dagli scultori che condividono il mio stesso interesse per i materiali. Mi danno l’impressione che le loro idee nascano dal giocare con le cose. Per esempio gli artisti che amo da sempre proprio per questo loro approccio ai materiali sono Anish Kapoor, Andy Goldsworthy, Tom Friedman, e Bill Woodrow Goldsworthy e Kapoor realizzano sculture con un’incredibile attenzione alla natura dei materiali utilizzati; penso che anche Friedman e Woodrow abbiano una sensibilità molto simile, nonostante in apparenza i loro lavori siano completamente differenti. È l’idea tradizionale della scultura a proposito dell’ “anima” del materiale usato invece che in un blocco di marmo oggi la ritrovi anche nelle lamiere delle lavatrici…
Italia e Gran Bretagna: com’è diversamente percepita la tua opera nei due paesi? La mia primissima opera è stata una mucca di cartone “da vendere agli allevatori per rimpiazzare gli esemplari distrutti dal morbo della mucca pazza, perché i campi non sembrino troppo vuoti…”. Quest’opera ha avuto un forte impatto ed è finita sui giornali nazionali, sulle riviste e alla radio. Purtroppo gli allevatori l’hanno presa male e io ho dovuto rifugiarmi in Italia per mettermi al sicuro: ancora adesso posso tornare solo di nascosto… A parte la battuta (per quello che riguarda gli allevatori), lavoro principalmente in Italia, nell’Europa centrale, in America e non torno molto spesso in Gran Bretagna. Comunque penso che la percezione pubblica del mio lavoro sia simile nei diversi paesi e, anche se i ricordi e il significato culturale sono diversi, la reazione agli oggetti è la stessa. È un bene, significa che i miei lavori comunicano a diverse nazionalità e culture, forse perché il packaging è una sorta di denominatore comune.
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Church, 2004
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Cartoons In English artist Chris Gilmour’s reproductions painstakingly elaborated cardboard and packaging become art.
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Giada Tinelli In order to create his sculptures Chris Gilmour, a young English talent who has lived in Italy for the last three years, does not use a hammer and chisel, but arms himself with paper cutters, strong glue and the same meticulous patience of a master stonemason. Indeed, cardboard is the distinctive and by now unmistakable material he uses in his works: a material judged to be artistically poor, whose choice is dictated not only by a critique of the enormous consumption of resources by today’s society, but also by a strong attraction to wrapping and packaging. Gilmour produces works that painstakingly reproduce cult Italian design pieces in actual size; his cardboard “reproductions” of the Fiat 500 and the Lambretta, which were preceded by a lengthy phase of measuring and redesigning, have made the artist’s fortune and have been used countless times by the specialist press and others. This is no mere exercise in style or an end in itself. Gilmour wishes, above all, to stimulate actions and reactions by prompting the spectator to make unconscious, almost instinctive gestures, dictated by how they imagine the perceived object. The piece is decontextualized by its very wrapping and it is as though it were covered in a new cardboard “skin”. This leads to disorientation and stupefaction, a result too of a play of contrasts which the artist insists on highlighting. So the shiny heaviness of the sheet metal of the ‘500 or the steel of a coffee-pot is transformed into ethereal and opaque cardboard works. Gilmour began to use cardboard during school workshops and has made it the main theme of his works, even in more recent pieces. In his latest series of cathedrals, the pieces multiply, rid themselves of their elaborate details and shrink, while the packaging and brand foist themselves on the onlooker. The artist has produced a large number of small models almost as though to imitate the mass production of packaging but by using boxes of different products he has managed to create an kaleidoscopic ensemble in a bizarre paradox. From large everyday objects to the latest small
models of, in some sense deconsecrated, churches, from the writing on the Nescafé packaging to a suspended pianoforte in the last exhibition Defrag (at the Fabbrica del Vapore, Milan 2005) as though it were an instrument to be lowered onto the stage of a theatre… How do you choose the objects you depict? There has been a progression in the choice of objects portrayed, which go from smaller domestic items (like the moka or the typewriter) to objects which are larger and belong to a broader cultural context (the Fiat 500, the Lambretta). However, the reason for the choice of objects has always been pretty much the same - they call up memories and emotions connected to our experience of these (everyday) things. Since this is both a visual and conceptual work I choose objects for their visual appeal and cultural resonance, but I also usually choose objects which imply an action or interaction of some sort. The interaction of the viewer with the works seems to function as a kind of short circuit between an implied action and the impossibility of performing it: you want to open the car door, or turn the wheel on the bike, but of course you can’t. I think this immediacy is important to enter the work, to grab the viewer. In your earliest works you used rough cardboard while in your latest works the graphics on the packaging is recognisable. What relationship is there between the work and the type of packaging you use? Earlier works were made with very clean cardboard because I was aiming at a hyper-realistic effect which showed the material “at its best”, or rather seemed to do something impossible with it, making a perfect representation- indeed, many people assumed that the works were real objects that had been painted or covered in paper. The works I am producing now are made from cardboard boxes which are still found on the street, but which show all the printing, tape, labels etc… I like the idea of concentrating on the material in its “natural state” and playing with the idea of these beautiful objects represented with a material from the
identi-kit waste basket. I guess it’s about trying to be as honest as possible with the material- I don't want it to get too clean, so you can’t see what it really is. I think it gives another dimension to the work to use scrap cardboard packaging which has been thrown away after the coveted objects it contained have been removed. You often use pre-existing materials, giving them a “new life”… How do you see the union between art and “recycling”? Could your art be understood as a new awareness towards materials which we normally tend to discard and throw away? Maybe it’s a way of re-appropriating or taking control of the things around us, which if you live in a city are pretty much all man-made. I think the use of recycled or found materials is brought about by our proximity to these things and their familiarity. One of the reasons I use cardboard is because it’s so easy to find- we have an immediate access to these “recycled” materials in a way that could never be possible with bronze or marble. It is also free of the historical and cultural weight of those classical sculptural materials, and can offer new readings of the work. By using a material which everybody knows and understands, I can build on the pre-existing associations to develop ideas and ways of reading the work. It’s a way of creating a language which is understood by many.
Who have your mentors been? Which more or less contemporary artists have inspired you? I really like other sculptors who seem to share my interest in materials. I get the impression that their ideas come from playing about with things. For example, artists I always love to see for their approach to materials are Anish Kapoor, Andy Goldsworthy, Tom Friedman, and Bill Woodrow Goldsworthy and Kapoor make sculptures with an incredible attention to the nature of the materials they use, and, although the appearance of the work is completely different, I think Friedman and Woodrow have a similar sensibility. It’s like the classical ideas of sculpture about the “soul” of the material, but instead of a block of marble it is being applied to leaves of washing machines…
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Italy and Great Britain: How is your work perceived differently in the two countries? The first big piece I ever made was a cardboard cow, “to sell to farmers in order to replace the cattle destroyed by BSE, so that the fields don’t look empty”. This had a great impact and was covered in national newspapers, magazines and on the radio. Unfortunately the farmers took offence and I had to flee to Italy for safety: even now I can only go back in disguise… actually that's a lie (the bit about the farmers), but I do work principally in Italy, mainland Europe and America and don’t often go to the UK. However, I think the public perception of the work is similar in different countries, the reaction to the objects is the same, even though the memories or cultural significance must be different. Hopefully this means these objects communicate to different nationalities and cultures, perhaps because packaging is a kind of common denominator.
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Which piece do you feel is most significant in your work and why? A key piece is the wheelchair, as this marks the change from earlier works with human figures to the current work without. I used the figures to tell a story about the object portrayed, but the more I worked on the objects the more I realised that the interaction between the object and the viewer was a powerful element - the viewer brings his own story to the object, and doesn't need a kind of theatrical set to explain the situation. People often have a very immediate reaction to my works - they try to open the car door, or type on the typewriter and I like the game of contrasts-real/not-real, functional/non-functional, heavy/light- and the sensation that causes. I think that the viewer projects himself into the work, and indeed the reaction to the wheelchair was different- it’s a slightly disquieting object and no one wanted to touch it.
What kind of consumer are you? How much do you feel influenced by packaging which you then recycle in your work? I do tend to notice packaging, it’s something I find fascinating. I guess on a daily basis I just buy the same stuff and don’t think about it too much, but I needed lots of different packets to make the small churches, so we bought a lot of things just because of the packaging. Buying one of every item in the supermarket was fun but it did leave us with a cupboard full of food we didn’t much like and couldn’t recognise because I’d taken the wrapping off it...
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Isiatelier a Francesca Bianchi, Paolo Deganello
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Luana Canton, Andrea Terani, Ilde Pizzato 1- Packaging per rossetto ricavato da una noce di cocco, confezionato con un foglio di carta di banano. 2 - Packaging per fard illuminante, ricavato da un guscio di zucca
Da qualche anno, presso l’ISIA di Firenze, è stato istituito al 4° anno un Atelier di Progettazione fortemente improntato alla sperimentazione. Fin dalla sua origine, l’Atelier ha registrato la partecipazione e collaborazione di molte discipline. Coordinato da Francois Burkhardt, su incarico del Comitato Scientifico Didattico della scuola, coinvolge numerosi docenti: la sociologa Francesca Bianchi, l’economista Giuliano Bianchi, il progettista Paolo Deganello, il tecnologo Giovanni Del Signore, il progettista multimediale Antonio Glessi, l’architetto Giuseppe Lotti, il designer e progettista della comunicazione Max Pinucci. Il loro ambizioso obiettivo è stato il rinnovamento delle modalità didattiche e di ricerca, finalizzato al ripensare tutte le diverse discipline coinvolte quali occasioni di conoscenze direttamente sperimentabili nella pratica di progetto. Tutti i corsi,
nel rispetto delle specificità e autonomie disciplinari, hanno fatto quindi didattica e ricerca intorno a quattro temi di progettazione: “un'altra auto è possibile”, “la promozione del prodotto CEeS” (consumo equo e sostenibile), “la riscoperta delle fibre naturali” “un altro aereo è possibile”. L’impatto, vissuto sempre più negativamente, del prodotto industriale sulla società e sull’ambiente è stato considerato una nuova opportunità progettuale, una possibile messa in discussione sia del design che dello stesso concetto di merce. È stata, in particolare, avviata una riflessione sulla sostenibilità ambientale, sullo spreco delle risorse, sulla possibile alternativa dell’uso di risorse “coltivate” rispetto a quelle estratte, sulle energie alternative al petrolio, sull’iniqua distribuzione delle risorse, sulla crescente scarsità d’acqua, sulla
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Sandra Cione Cepé: progetto per cacao equo e solidale 3 - Cucchiaio monouso in foglia di banano contenente miscela per la preparazione di cioccolata in tazza, secondo antiche ricette maia. 4- Packaging per fave di cacao in rete.
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Theo Tanini 5 - Set di benvenuto per agriturismi
tema del consumo critico. Dal consumo critico si è passati al progetto critico, a una pratica di progetto sempre più consapevole del significato complessivo che quella merce (della quale con il disegno della forma viene promosso il consenso) assume nei diversi contesti economici. In altri termini è stata fatta un riflessione su quanto senso abbia dare “bellezza” a merci che generano degrado ambientale e distruzione di altre culture. E ancora, che senso abbia valorizzare, attraverso la forma, innovazioni tecnologiche che sono causa di distruzione di risorse, di ingiustizie sociali e di riduzione dell’abitabilità del pianeta.
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collocazione empiricamente fondata. Sono state infatti realizzate ricerche socioeconomiche tese ad accertare le reali propensioni al consumo critico presenti nel territorio locale. L’intenzione di tracciare un identikit del consumatore critico ha comportato la scelta di un luogo preciso di indagine: immediata la scelta della città, Firenze, dalla particolare ricchezza culturale, sede del Social Forum (nel 2002) oltre che di importanti manifestazioni culturali come Terra Futura. Attraverso specifiche indagini si è quindi cercato di far luce sulle caratteristiche del moderno consumatore analizzando il suo approccio al
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promozione, anche attraverso il progetto, dell’autonomia e autosufficienza produttiva dei territori del cosiddetto sottosviluppo e della conseguente domanda di merci diversamente motivate rispetto ad una esclusiva motivazione economica: merci bio, merci equosolidali, merci ecologiche, merci etiche, merci come servizio, merci riciclate e riciclabili. Abbiamo così gradualmente avvicinato gli studenti ad una realtà ancora minoritaria ma sempre più diffusa del “consumo critico”. La riflessione teorica, scaturita dalla collaborazione fra le diverse discipline presenti nell’Atelier, ha trovato una
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Isiatelier in Florence
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Francesca Bianchi, Paolo Deganello
For some years now, ISIA of Florence have set up in the 4th year a Design Atelier with a strong experimental leaning. Right from its beginnings, the Atelier has registered the taking part and cooperation of many disciplines. Coordinated by Francois Burkhardt, at the behest of the Scientific Didactic Committee of the school, involving numerous lecturers: the sociologist Francesca Bianchi, economist Giuliano Bianchi, designer Paolo Deganello, the technologist Giovannie Del Signore, the multimedial designer Antonio Glessi, the architect Giuseppe Lotti, the designer and communication planner Max Pinucci). Their ambitious objective was that of renewing teaching and research techniques, with the end of taking a fresh look at all the various disciplines involved as occasions for direct experimentation in drawing up a design project. All the courses, in respect of all the separate disciplines, in fact carried out didactic activity and research around four project themes: “redesigning the car”, “the promotion of the CEaS product” (fair and sustainable consumption), “rediscovering natural fibres”, “redesigning the plane”. The impact of the industrial product on the society and on the environment, experienced evermore negatively has been considered as a new design opportunity, a possible questioning of both design and the same concept of goods. In particular a reflection on environmental sustainability, on the waste of resources, on the possible alternatives of the use of “cultivated” resources compared to those that are extracted, on alternative energy to petrol, on the unfair distribution of resources, of the growing scarcity of water, on promotion, also through the project, of the
autonomous and self-sufficient productivity of the areas of socalled underdevelopment and the consequent demand of goods differently motivated as against an exclusively economic motivation: biological goods, fair trade goods, ecological goods, ethical goods, goods as a service, recycled and recyclable goods. We have thus gradually brought the students closer to a reality that is still minority but evermore widespread of “critical consumption”. This theoretical reflection, born out of the cooperation between the various disciplines present in the Atelier, has found its own empirical justification. In fact socioeconomic studies made to discover the real propensity towards critical consumption in the local area were carried out. The intention of tracing an Identikit of the critical consumer has led to the choice of a precise area in which to do the research: the choice of the city was immediate, Florence, with its special cultural richness, seat of the Social Forum (in 2002) as well as important cultural shows like Terra Futura. Through specific studies they have tried to throw light on the characteristics of the modern consumer analysing his/her approach to the subject of critical consumption. From critical consumption one has gone on to the critical project, to a project approach that is evermore aware of the overall significance of a given goods item (where it is the design of its shape that contributes to the consensus it arouses) takes on in the different European contexts. In other terms a reflection has been made on what sense there is in bestowing “beauty” on goods that generate environmental decay and the destruction of other cultures. And again, what sense there is in promoting technological innovations that are the cause of destruction of resources, social injustice and reduction of the inhabitability of the planet.
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Chiudere il PROGETTI E OGGETTI ECO-ETICI: COME NOBILITARE I RIFIUTI, DALLA NASCITA ALLA MORTE.
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Photo: Opos
Francalma Nieddu
Progettare l’intero ciclo di vita dei prodotti significa riorganizzare il sistema produttivo e di consumo, e non è cosa da poco. Significa anche realizzare un ciclo di processi di produzione, consumo e smaltimento capace di emulare il funzionamento dei cicli naturali affiancandosi ad essi, al fine di minimizzare l’impatto sull’ambiente, che non può più essere concepito come fonte di risorse inesauribile. Già anni fa, concetti simili vennero presentati in Italia nel convegno “Chiudere il cerchio” (Milano, 1990) che prendeva il nome dal libro di Barry Commoner, storico precursore delle idee ambientaliste,The Closing Circle (1972). Chiusura del cerchio significa ridefinire l’idea di prodotto includendovi il problema del suo smaltimento; ripensare il consumo intendendolo come fruizione; reinterpretare i rifiuti come risorsa. Sviluppare design (e quindi anche packaging) ecologicamente corretto è stato l’argomento del Forum della Cultura di Barcellona 2004, in cui il progetto IgualMent diferents ha cercato di fare il punto sulle forme e
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Cerchio
m .co 66 :3 oto Ph
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Ecolo foto dal sito di Alessi
sulle tecniche per rispondere ai bisogni primari, relativi alla sopravvivenza ed al benessere (dal cibarsi all’igiene, dalla protezione alla procreazione, al lavoro, al piacere, alla comunicazione). Un buon punto di partenza per indagare metodi di produzione e prodotti non sempre eco-compatibili. La sostenibilità sta incominciando ad essere vista tanto come esigenza
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Flashope foto Simone Bellan
che come opportunità. L’idea di progettare seguendo nuovi percorsi diventa occasione preziosa di ricerca a partire dalle università, al fine di recuperare una cultura progettuale fatta di idee e non solo di merci. Ne è un esempio significativo il progetto di tesi di Simone Bellan (IUAV di Venezia): Flashope è un “temporary shop” realizzato secondo i criteri dell’eco-design. In particolare il cartone diventa l’elemento principale che caratterizza sia lo spazio commerciale che i prodotti in esso contenuti, in un articolato sistema di circolazione, esposizione e vendita di merci (il progetto è stato segnalato da Adi Index Giovani 2004). Tuttavia non sempre l’attenzione alla sostenibilità parte dall’analisi di un ciclo produttivo ottimizzato, più spesso assistiamo all’espressione del concetto etico come provocazione. Sono passati 10 anni da quando una bottiglia di PET veniva venduta insieme ad altri contenitori di plastica per un’ironica operazione di
riciclaggio: trasformare, con appositi tagli, i flaconi vuoti dei detergenti in vasi da fiori. Si trattava di Ecolo di Enzo Mari, prodotto da Alessi e venduto secondo tre modalità d’acquisto: solo un libretto di istruzioni per fare i tagli; libretto più un vaso già pronto o addirittura uno realizzato da Mari stesso come un multiplo d’arte, dal prezzo adeguato al valore simbolico dell’oggetto. Oggi Handustrial realizza (su progetto di Mauro Cuppone e Massimo Lunardon per Internos Edition) vasiscultura di vetro da confezioni usate. Sono archetipi di imballaggi di largo consumo, esaltati e celebrati come il barattolo della Nutella, il vaso dell’amarena Fabbri, la bottiglietta del Bitter Campari, la latta dei pelati Cirio, la bottiglia di latte Parmalat e quella del Chianti classico. Utilizzare i prodotti di scarto all’interno del linguaggio progettuale significa attribuire a questi la “dignità di oggetto” e riconoscerli come veicoli attraverso i quali passa la memoria personale e collettiva, significa trattarli come strumenti del fantastico e dell’immaginario, attribuendo loro ulteriori valenze estetiche e simboliche. Anche il gruppo di designer 366.com usa creativamente per i propri oggetti carte telefoniche e plastica riciclata, mentre Massimiliano Adami, con i suoi Fossili Moderni, presentati a Milano al Salone Satellite 2005, realizza mobili utilizzando un materiale speciale ottenuto amalgamando contenitori ed oggetti di riciclo con schiuma poliuretanica. Nel processo per realizzare i blocchi di materiale da tagliare e successivamente assemblare, la casualità ha un ruolo fondamentale, è l’elemento indispensabile che determina il design dell’oggetto realizzato e gli attribuisce quei valori
di unicità più vicini al fare artistico che al prodotto industriale. Il progetto di questo sistema di lavorazione non nasce dal comune concetto di riciclo (riutilizzo di materia per fare altra materia), ma prende in considerazione la tematica ecologista dell’allungare la vita degli oggetti esistenti, modificandone l’aspetto estetico e funzionale, migliorandone ed esaltandone le qualità formali. Il nome stesso “Fossili Moderni” può essere letto in chiave critica: i fossili sono storicamente il manifesto delle civiltà passate; ma un fossile moderno rappresenta quello che lasceremo “noi” ai posteri... Sicuramente non ci sarà bisogno di studi approfonditi per capire a quale epoca risalgano questi fossili e a cosa servissero: le date di scadenza e le istruzioni sulle etichette saranno chiari riferimenti! Già negli anni ‘50 il grafico Michele Provinciali raccoglieva sulla spiaggia di Viareggio flaconi di plastica vuoti e li fotografava mettendoli uno accanto all’altro, simulacri di packaging che resistono nel tempo, archeologia dei rifiuti, per realizzare una grande opera di 4 metri per 15, chiamata Il corpo degli oggetti, di cui Domus quest’anno ha ripubblicato una parte (sul numero 880 di aprile 2005). L’alchimia del riciclo fa dello scarto una palestra per l’ingegno, con lo scopo di fare “di necessità virtù”.
Handustrial Photo Beppe Calgaro
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Eco-ist Foto dal sito
L’americana Marisa Rey, ispirata dai suoi viaggi in Messico e dall’intento di creare prodotti inediti da materiali riciclati, è l’artista-designer della linea di borse Eco-ist. Ogni borsa è unica, realizzata in Messico, con patterns e colori diversi, fatta a mano con materiale derivato da scarti di produzione di incarti di caramelle, packaging di cibo ed etichette di soft drink. Si è persino pensato di esportare il know-how di questo progetto in altri paesi per trasformare gli scarti locali in prodotti di design. Iscrivendosi al sito Eco-ist (www.ecoist.com), si può essere aggiornati su tutto quello che riguarda l’ecologia e il consumo consapevole e, per ogni borsa venduta, l’associazione Global ReLeaf pianta un nuovo albero. Nel messaggio di benvenuto ai sostenitori di questa “filosofia” si legge: «Crediamo che coscienziosi consumatori come te possono godere di prodotti di stile come gli eco-friendly Ecoist. Siamo convinti che il futuro del commercio sarà la naturale integrazione di cause sociali e difesa dell’ambiente nei prodotti e nei servizi. Questo è il motivo che ci spinge ad offrire le nostre borse e siamo contenti di quanto esse siano apprezzate. Unisciti a noi, acquista una borsa, pianta un albero, ed aiutaci a preservare la terra con stile.
Noi crediamo nel riciclo di questo materiale di scarto per dargli nuova vita. Buy a bag, plant a tree». Si realizza così non solo un nuovo prodotto ma un modo di rendere manifesta la propria filosofia ecooriented, cosa che, sempre piantando un albero, si può fare anche alla fine della vita stessa. Ed ecco un inedito landscape per cimiteri del futuro, il progetto Capsula mundi: la bara è un grande ed arcaico uovo di plastica biodegradabile a base di amido che, nel tempo, si trasforma in compost; in esso il corpo del defunto viene disposto in posizione fetale e poi sotterrato, mentre in superficie un albero viene piantato a segnalare la presenza della tomba. Il ciclo della vita è così interamente rappresentato. Così lo giustificano i designer Anna Citelli e Raoul Bretzel: «Per contrastare la sempre maggiore distanza tra l’uomo e il ciclo biologico della vita; consapevoli del riflesso di ciò sul nostro immaginario il quale sta perdendo una delle più feconde fonti produttive e di riferimento». La ditta inglese Ecopod conferma come sia reale tale esigenza commercializzando bare di carta riciclata e decorate come si preferisce nella stessa ottica di rispetto altamente simbolico
Fossilimoderni Massimiliano Adami
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dell’ambiente - il ritornare alla terra alla fine del ciclo di vita, chiudendo il cerchio. Riusa, separa, ripensa. Lo slogan dei designer per vivere meglio è fatto proprio da Opos, associazione milanese che da anni persegue lo scopo di incoraggiare giovani designer ad elaborare nuove soluzioni progettuali eco-compatibili. Magari con proposte provocatorie, come la cartolina da bere che contiene acqua di Paolo Ulian per riflettere sull’importanza di non sprecare questa risorsa, o come il gioco Fango, (MAP design) una confezione di terra comune, utile a costruire mattoni di fango usando come stampo il tappo del contenitore stesso; pensato per bambini metropolitani che non hanno mai giocato con la terra, e che, dovendola acquistare, sono costretti ad attribuirle un valore ormai dimenticato. Un certo design può anche funzionare come modo etico per ridurre gli sprechi o persino come rimedio ironico per guarire dalla sindrome dell’acquisto compulsivo. Resist-no shopping, un nuovo marchio di prodotti creato dai designer Anja Lorenz (Sydney) e Thomas Schneider (Berlino), è uno spiritoso e pungente progetto interculturale che risponde al tema
Capsula Mundi, foto dal sito
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“Let’s go shopping!” proposto dall’Esquisse di Sydney (l’importante manifestazione di arte e design australiana), presentato anche a Designmay 05 a Berlino. Così tra le varie proposte utili per limitare gli acquisti sconsiderati si può usare HandyGap, una borsa da spesa aperta sul fondo così da arrivare alle casse con la busta vuota; oppure Prefill, pesi da mettere in borsa per simulare l’equivalente carico di prodotti acquistabili in un tempo fra 1 e 5 ore di shopping. Resist-no shopping non è un progetto di critica sociale, ma un prodotto che vuole provocare divertendo, e, senza imporsi, educare con humor. Infine, per un anno il giornalista britannico Leo Hickman ha condotto un esperimento per dimostrare che, modificando le proprie abitudini, si può vivere una vita normale e nello stesso tempo rispettare il pianeta ed i suoi abitanti. Nel suo libro A Life Stripped Bare (Una vita messa a nudo) del 2005, è descritta questa radicale trasformazione, con un tono divertente ma che può davvero ispirare un mutamento profondo del modo di vivere e di consumare. Francalma Nieddu designer ed esperta di design strategico, dirige insieme ad Olav Jünke ad Amburgo lo studio di immagine coordinata e packaging ondesign.
Ecopod, Foto dal sito
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Close the Circle Eco-ethical projects and objects: how to ennoble waste, from its birth to death. Francalma Nieddu
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To plan the entire lifecycle of a product means reorganising the production and consumption system, which is no mean feat. It also means creating a production, consumption and disposal process cycle that’s capable of emulating the functioning of natural cycles, following their lines to minimise their environmental impact, as the resources can no longer be considered inexhaustible. Already, a few years ago, similar concepts were presented in Italy at the “Close the Circle” conference (Milan, 1990), taking the name from the book by Barry Commoner - an early advocate of environmental ideas - The Closing Circle (1972). The closing circle means redefining the idea of the product to include the problem of its disposal; to rethink consumption as enjoyment; to reinterpret waste as a resource. To develop ecologically correct design (and thus also packaging) was the theme of the Forum of Culture at Barcelona 2004 where the IgualMent diferents project set out to provide the low-down of forms and techniques to meet the primary needs for survival and well-being (from food to hygiene, protection to procreation, work, pleasure and communications). A good starting point to look into the methods of production and products that aren’t always eco-compatible. Sustainability is beginning to be viewed as much as a need as an opportunity. The idea of planning new paths becomes a valuable opportunity for
research, starting at university level, right up to the recovery of a design culture based on ideas and not just goods. A good example of this is the thesis project by Simone Bellan (IUAV, Venice): Flashope is a “temporary shop” built using the criteria of eco-design. More specifically, cardboard becomes the main element that characterises both the commercial area and the products it contains, forming an articulated system of circulation, display and the sale of goods (this project gained special mention at Adi Index Giovani 2004). However, attention to sustainability doesn’t always start from analysis of an optimised production cycle: more often we find that it’s part of the ethical concept, as a provocation. 10 years have gone by since a PET used to be sold together with other plastic containers for an ironical recycling operation: to convert, by clever cutting, an empty detergent flacon to create flower pots, for example. In fact, Ecolo by Enzo Mari, produced by Alessi and sold in three ways: simply an instruction leaflet on how to make the cuts, the leaflet plus a ready pot or one made by Mari himself as a multiple of art, at a suitable price to suit the symbolic value of the object. Tiday, Handustrial produces (to a design by Mauro Cuppone and Massimo Lunardon for Internos Edition) glass sculpture-pots made from used containers. These are archetypes of famous, easily recognisable commodities, such as the Nutella jar, the Fabbri Amarena jar, the Campari Bitter bottle, the Cirio tomato tin, the Parmalat milk bottle and the classic Chianti bottle. Using waste products in a design project means giving these the “dignity of an object” and recognising their worth as vehicles for personal and collective memories, as well as treating them as tools for expressing one’s imagination and creativity, thus giving them extra aesthetic and
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The alchemy of recycling turns waste products into a challenge for inventiveness, having the goal of “making a virtue of necessity“. The American Marisa Rey, inspired by her travels around Mexico and with the intent of creating unprecedented products from recycled materials, is the artist-designer behind the Eco-ist line of bags. Each bag is unique, hand-made in Mexico, with different patterns and colors, using materials from waste sweet wrappers, food packaging and soft drink labels. She’s even exported the knowhow of this project abroad to convert local waste into design products. Visit the Eco-ist site (www.ecoist.com) to stay updated on all ecology and conscientious consumption issues; for every bag sold, the Global ReLeaf association will plant a new tree. The welcome message for the supporters of this “philosophy” is: «We believe that conscientious consumers like you can enjoy the products of style like the eco-friendly Ecoist items. We’re convinced that the future of commerce will be the natural integration of social causes and the protection of the environment in products and services. This is the reason why we strive to offer our bags and we’re happy to see just how appreciated they are. Join us, buy a bag, plant a tree and help us preserve this planet with style. We believe in recycling this waste material to give it new life. Buy a bag, plant a tree».
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The result is thus not just a new product, but also a way to show one’s eco-oriented philosophy, which one can also do at the end of life itself, by planting a tree. And here’s a new type of landscape for future cemeteries, the Capsula mundi project: the coffin is a large, archaic egg made from starch-based biodegradable plastic that, in time, turns into compost; the body of the deceased inside is placed in the foetus position and then buried, while on to a tree is planted to indicate the presence of the tomb. The life cycle is
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symbolic values. Also the 366.com designer group uses its telephone card and recycled plastic objects in a creative way, while Massimiliano Adami, with his Fossili Moderni (Modern Fossils) presented in Milan during Salone Satellite 2005, produces pieces of furniture using a special material obtained by amalgamating recycled containers and objects with polyurethane foam. Randomness plays a fundamental role in the process used to create the blocks of material to be cut and then assembled: it’s the fundamental element that determines the design of the final object and gives it that special uniqueness, a property more typical of artistic creations than industrial products. The project for such a processing system is not the result of a common concept of recycling (the reuse of material to create a new material), but takes into account the ecological theme of extending the life of existing objects, changing their look and practical use, improving and enhancing their formal qualities. The very name Fossili Moderni can be read as follows: fossils are historically the signs left by past civilisations, but a modern fossil represents what “we” will leave for future generations... No great studies are needed to understand the era to which these fossils belongs and what they were used for: the best-by dates and instructions on the labels provide clear details. Back in the 1950s, the designer Michele Provinciali already used to collect empty plastic flacons on the beach of Viareggio and photographed them in a pile or row, symbols of packaging that withstands the passing of time, a sort of archaeology of waste, to create a great work measuring 4 metres by 15 called Il corpo degli oggetti (the body of the objects), which Domus has published (in part) this year (see issue n. 880, April 2005).
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thus entirely represented. This is how the designers Anna Citelli and Raoul Bretzel justify their project: «To counter the ever-greater distance between man and the biological cycle of life; aware of the reflection of this on our imagination, which is losing one of the most fecund production sources for production and reference». The British firm Ecopod confirms just how real this need is, by selling recycled cardboard coffins decorated at will, thus creating a similar extreme symbol of respect for the environment – the return to the earth at the end of our life cycle, closing the circle.
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Reuse, separate, rethink. This is the designers’ slogan for a better lifestyle from Opos, the Milanbased association that has years of experience in encouraging young designers to come up with new eco-compatible design solutions. Perhaps with provocative proposals , such as the drinkable postcard (containing Paolo Ulian water to stress the importance of not wasting this resource) and the Fango game (MAP design): a pack of common earth used to build mud bricks with the top of the pack itself acting as the mould. Conceived for metropolitan children who have never played with earth and, now having to buy it, are forced to give it a forgotten value. A certain design can also act as an ethical means to reduce waste or even as an ironical remedy to
treat the syndrome of compulsive buying. Resist-no shopping, a new brand of products created by the designers Anja Lorenz (Sydney) and Thomas Schneider (Berlin), is a fun yet sharp intercultural project that’s a response to the theme of “Let’s go shopping!” proposed by Esquisse, Sydney (the important Australian art and design exhibition), also presented at Designmay 05 in Berlin. Among the various proposals to limit pointless purchases there’s also HandyGap, a shopper with an open bottom, meaning that one reaches the till with an empty bag, and the Prefill, weights one can put in the bag to simulate the equivalent load of products bought after 1 to 5 hours of shopping. Resist-no shopping isn’t a project that attacks society, but a product that sets out to provoke and entertain, not to mention educate with humor, but without being pushy. Finally, for one year the British journalist Leo Hickman has carried out an experiment to prove that, by changing one’s habits, one can easily live a normal life and respect the planet and its inhabitants at the same time. In his book A Life Stripped Bare (2005) he describes this radical transformation with humor, yet capable of inspiring a significant change in one’s way of life and consumption patterns. Francalma Nieddu, designer and strategic design expert, runs (together with Olav Jünke) the Ondesign coordinated image and packaging studio in Hamburg.
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La Contraddizione del Packaging Arte dei rifiuti e riciclo dell’immaginario Antonio Caronia
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Voglio partire commentando due notizie di questa estate 2005. La prima è del 29 giugno, e annuncia la nascita a Ulzio, in Alta Valle di Susa, del primo “Ecopoint” d’Italia. È un supermercato aperto dalla Crai, una cooperativa ecologista autrice di un “progetto di distribuzione compatibile”: lì tutti i prodotti alimentari vengono presentati sfusi, e distribuiti in sacchetti di carta o di plastica biodegradabile. Non ci sono più prodotti confezionati. L’assenza del packaging consente di ridurre il prezzo delle merci dal 10 al 20 per cento, e di diminuire l’impatto delle confezioni sulla massa dei rifiuti. “Un nuovo modo di fare la spesa,” hanno dichiarato i proponenti, “nel rispetto dell’ambiente.” Per gli ambientalisti (per alcuni ambientalisti), il packaging è dunque un nemico. Come
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dar loro torto? In Italia i rifiuti da imballaggio sono arrivati a 11 milioni di tonnellate annue, il 30% in peso (e il 50% in volume) di tutti i rifiuti solidi urbani. Un costo crescente per la collettività, che costringe produttori, consumatori, amministratori a cercare soluzioni per ridurre questo costo, eliminando sprechi, promuovendo riciclaggio o recupero in varie forme. E quindi, più si trova il modo di fare a meno del packaging, meglio è. La seconda notizia riguarda invece un campo di attività, quello artistico, su cui i lettori di questa rivista sono stati più volte -e con acutezza -informati. Dal 2 luglio al 2 ottobre 2005 si svolge a Le Grand Café di Saint-Nazaire, in Francia, una mostra (o meglio un’istallazione site-specific, come si dice adesso) di Jac Leirner. Artista di punta della scena brasiliana dell’ultimo decennio, la Leirner, che lavora a Sao Paulo, crea sofisticate composizioni astratte utilizzando i rifiuti della società dei consumi. Pacchetti di sigarette, biglietti aerei, buste, volantini, adesivi, borse di plastica di supermercati e di musei, tutto ciò che raccoglie nei suoi viaggi spesso frenetici viene assemblato, pazientemente ricomposto e utilizzato per le sue accurate composizioni. Che non sono poi così distanti da una delle tradizioni più forti dell’arte brasiliana del Novecento, e cioè l’arte astratta geometrica che si sviluppò in quel paese soprattutto negli anni cinquanta. Perché Jac Leirner utilizza questi materiali per il suo lavoro? Perché, come dichiara lei stessa, quei materiali “sono già impregnati di significati: borse da shopping, banconote, volantini e depliant, pacchetti di sigarette, buste. Rispetto a questi materiali, il mio lavoro consiste principalmente nel rimettere insieme e ricombinare ciò che si è disperso in giro.” 1 Bene: allora il packaging, a dispetto dei problemi ecologici che solleva, concentra dei “significati”, è portatore di qualcosa che è sì disperso, ma che qualcuno può raccogliere, per lavorare su quel significato e produrne di nuovo. E il significato non è uno dei beni immateriali di cui abbiamo più bisogno oggi? Per gli artisti (per alcuni artisti) il packaging, anche quello già usato, non è quindi un nemico, ma una fonte di ispirazione, una preziosa materia prima per il loro lavoro espressivo. In questa (immaginaria) diatriba fra natura prima e natura seconda, ovviamente non ci sono vincitori né vinti. Ma se vogliamo anche solo provare a uscire da una contrapposizione così astratta e manichea, bisogna forse provare a cercare di capire che cosa è cambiato negli ultimi venti/trent’anni nel packaging, qual è oggi il suo ruolo, che cosa rappresenta oggi rispetto agli inizi (o anche al culmine) della modernità. Che la confezione delle merci sia oggi molto di più che un loro utile involucro, ma rappresenti invece uno dei luoghi e degli strumenti più sensibili della loro valorizzazione, è cosa ormai nota. Se nella fase più matura del fordismo il packaging rappresentava certo uno strumento mol-
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to potente di comunicazione col pubblico, di seduzione dell’acquirente, un accessorio prezioso insomma ma pur sempre un accessorio, ancora esterno alla merce che “impacchettava”, con la produzione postfordista, col capitalismo della conoscenza e dell’immaginario (che è il mondo in cui viviamo adesso) il packaging diviene parte integrante della merce, forse la parte più importante (per una serie di merci almeno, e pensiamo per esempio ai profumi e ai prodotti per la cura del corpo in genere). Nel momento in cui le merci più importanti per il sistema produttivo non sono più le merci materiali, ma quelle immateriali (e cioè l’informazione, la conoscenza, l’immaginario in genere), il packaging acquista una centralità che prima non aveva. Esso rappresenta infatti l’elemento di giunzione fra il carattere materiale e quello immateriale delle merci. “L’informazione è immateriale, ma non esiste mai senza un supporto materiale. L’informazione può essere trasferita da un supporto materiale a un altro, ma non può essere smaterializzata, tranne che nelle ideologie vettorialiste più occulte.” 2 Il packaging ha smesso da tempo di essere principalmente uno strumento per proteggere la singola merce e permettere la sua circolazione materiale. La sua funzione più importante, dal punto di vista della circolazione, è piuttosto quella di diffondere il carattere immaginario della merce, il brand, il discorso informativo (a volte, ovviamente, chiaramente ideologico) che convincerà il consumatore all’acquisto. L’apparizione delle prime merci alimentari confezionate, alla fine del XIX secolo, aveva significato all’inizio nulla più che l’oggettivazione, l’esplicitazione di una serie di informazioni sulla merce che precedentemente venivano date per scontate (o presupposte). Quando in Italia, ancora alla metà del secolo scorso, negli anni cinquanta, si compravano sfusi la pasta, lo zucchero, il caffè, il tonno, l’acquirente in genere non si chiedeva da dove quelle merci provenissero. L’acquisto era mediato principalmente da un rapporto di fiducia molto personale col negoziante. Quei prodotti, certo, erano già merci prodotte industrialmente, erano stati fabbricati da un capitalista per ricavarne del profitto: il loro valore economico (di scambio) era stato integralmente creato nella fabbrica dall’insieme dei lavori umani e delle macchine che li avevano fatti esistere. Ma per realizzare quel valore economico, il capitalista che le aveva fabbricate (il sistema economico) doveva ancora affidarsi a una rete di rapporti umani che non riusciva a controllare sino in fondo, su cui quasi non poteva intervenire. L’atto del consumo era un fatto certo indispensabile per l’economia, ma avveniva ancora in qualche modo al di fuori dei rapporti capitalistici di produzione: era basato sulle relazioni di vicinanza, di conoscenza, di fiducia, che gli esseri umani costruivano nei paesi e nei quartieri delle grandi città. L’informazione era allora un prodotto sociale in un senso molto diverso da come lo è oggi. “L’informazione di per sé è una semplice possibilità. Richiede
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una capacità attiva per diventare produttiva.” 3 Questa “capacità attiva”, che un tempo era mediata socialmente al di fuori del sistema delle merci, e faceva appello a conoscenze, relazioni, affetti, affidate ai singoli, viene oggi direttamente incorporata nel sistema economico. Il packaging, ai suoi inizi, è dunque uno strumento informativo (in senso lato) sulla merce. Ma, a mano a mano che l’informazione diviene essa stessa una merce - e la merce più preziosa - a mano a mano che le relazioni, i linguaggi, gli affetti, vengono “messi al lavoro” dalla nuova dimensione del capitalismo, a mano a mano che il “vettore” (per usare la terminologia di McKenzie) diviene una dimensione autonoma e autovalorizzante, anzi “una capacità generale astratta”, “un potere sul mondo”,4 a mano a mano che tutto questo accade, il packaging diventa una parte importante di questo vettore. Esso fa sì che, nella forma mistificata della società postindustriale (o “vettoriale”), l’oggetto che noi acquistiamo si carichi (e proprio in quanto merce, non prescidendo da questo carattere) di tutti quei significati cognitivi, affettivi, relazionali, che ce lo rendono un oggetto “caro”. Ecco spiegato perché l’artista (questo operatore della relazione gratuita e significativa che fa, solo in modo più concentrato ed esplicito, ciò che ogni essere umano fa quotidianamente, cioè
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antropizzare il proprio spazio e tempo, costruire il proprio mondo) può intervenire sugli involucri delle merci, sul loro aspetto informativo e relazionale, e lavorare su quei significati consunti e “carichi” per trarne nuove relazioni e nuovi significati. Il fatto che questo uso creativo e cognitivo del packaging giunto alla fine del suo ciclo contrasti con il pericolo ecologico che esso rappresenta è solo una conseguenza del fatto che il carattere “vettoriale” della nostra società, il potere dell’astrazione, si realizza all’interno della proprietà privata dell’informazione. Per esprimere il suo potenziale informativo, immateriale, astratto, l’informazione innovativa deve incarnarsi in un supporto materiale. E questo supporto, giunto alla fine del suo ciclo, esaurita la sua funzione materiale con l’estrazione dell’oggetto che conteneva (ma non quella immateriale, perché l’informazione, al contrario della terra e delle merci materiali, non diminuisce quando è condivisa), diviene un problema. I prodotti di scarto artificiali, della “seconda natura”, stanno al di fuori di quel processo omeostatico che regola la vita e la morte nella natura “originaria”, e tendono a proliferare e a intasare tanto la prima quanto la seconda natura. Ma ciò avviene principalmente perché questi prodotti di scarto, i rifiuti, restano proprietà privata come erano nella loro fase di splendore seduttivo e informativo, quando ci consentivano di sentirci parte del mondo di una merce o di un brand. È difficile “risocializzare” i rifiuti quando, nella loro vita precedente, si era fatto di tutto per farceli apparire “desocializzati”. Certo, ogni volenterosa azione per la creazione di una “coscienza ecologica” è benvenuta; ogni fissazione di regole e di limiti, anche con le relative sanzioni, servirà per arginare, almeno in parte, il dilagare dei tristi e pericolosi cimiteri delle merci che sono le discariche. Ma una vera soluzione (per quanto provvisoria ed evolutiva) di questo problema si avrà soltanto se la materia e l’informazione, l’oggetto fisico e l’immaginario, saranno davvero riconosciuti come processi sociali, indissolubilmente legati, esteticamente e socialmente indissolubili, e sottratti alla logica del trattamento privatistico e proprietario. Soltanto allora, forse, sarà possibile condurre il riciclo e l’omeostasi come si costruisce un’opera d’arte: facendo diventare realtà un pezzo dell’immaginario.
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Antonio Caronia insegna Antropologia della tecnica all'Accademia di Brera ed Estetica dei media alla NABA. Si occupa di immaginario scientifico e tecnologico. Ha pubblicato Il cyborg (Shake 2001), Archeologie del virtuale (ombrecorte 2001).
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1 - http://collections.walkerart.org/item/text/593. 2 - Wark McKenzie, Un manifesto hacker. Lavoratori immateriali di tutto il mondo unitevi!, trad. di Marco Deseriis, Feltrinelli, Milano 2005, p. 58. I termini “vettore”, “vettorialismo”, vengono usati in questo saggio per indicare i mezzi attraverso cui viene trasportata l’informazione (telestesia, percezione a distanza) e le narrazioni e le esigenze legate a questi mezzi. Per McKenzie la “classe vettoriale” è l’erede della classe capitalistica dell’era industriale classica, come l’hacker (in senso lato) è la nuova versione del proletariato. 3 - Wark McKenzie, op. cit., p. 61. 4 - Wark McKenzie, op. cit., pp. 129 e 136.
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The contradiction of packaging The art of waste and recycling of imagination
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Antonio Caronia I want to start by commenting on two items of news in this summer 2005. The first is dated 29th June, announcing the birth in Ulzio, in the Upper Susa Vallet, of Italy's first "Ecopoint". A supermarket opened by Crai, an ecologist cooperative with a "plan of compatible distribution": all the food products are sold loose and distributed in biodegradable plastic or paper bags. No sign of any pre-packed products. This absence of packaging helps cut the price of the goods by 10-20% and also lowers the impact of packaging on the amount of waste we all produce. "It's a new way to do the shopping," say those behind this idea, "in full respect of the environment." For the environmentalists (for some environmentalists), packaging is thus an enemy. How can we blame them? Each year, Italy produces some 11 million tons of waste packaging, accounting for 30% in weight (and 50% in volume) of all the solid urban waste. An increasing cost for society, forcing producers, consumers and public administrators to find solutions to reduce this cost by eliminating waste and promoting recycling or recovery in several forms. Therefore, the more ways we can find to limit the use of packaging, the better it is. The second item of news concerns a field of activity, that of art, which the readers of this magazine have been frequently and promptly told about. From 2nd July to 2nd October 2005 there's a show (or better still a site-specific installation, as they're now called) by Jac Leirner at the Grand
CafÊ in Saint-Nazaire, France. A top Brazilian artist this last decade, Leirner, who works in Sao Paulo, creates sophisticated abstract compositions using the waste produced by out consumer society. Cigarette packs, flight tickets, bags, leaflets, adhesives, plastic supermarket and museum bags: all that she collects during her frequent frenetic travels is assembled, patiently recomposed and used for her careful compositions. Compositions that aren't that different from one of the main traditions of Brazilian art in the 1900's, i.e. geometric abstract art, that developed especially in the 1950s in Brazil. But why does Jac Leirner use these materials in her work? Because, as she herself says, these materials "are already impregnated by meanings, like shopping bags, banknotes, brochures, cigarette packs, and envelopes. My main approach to these materials is putting together what is shattered all over."In other words: packaging is a concentration of "meaning", despite the ecological problems it raises; a bearer of something that's been lost, but that someone can collect to work on that meaning and produce a new one. And isn't "meaning" one of the immaterial assets that we need more of today? For artists (for some artists) packaging - even used packaging - is not therefore an enemy, but a source of inspiration, a precious raw material for an outlet of their expression. There aren't, of course, any winners in this (imaginary) diatribe between primary nature and secondary nature. Yet, if we want to forget such an abstract and Manich contrast, perhaps we should try to understand just how packaging has changed over the last 20-30 years, which role it’s playing today, what it represents today compared to in the past at the beginning (or even the apex) of this modern age. Goods packaging today is a lot more than just a practical form of protection:
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it's one of the best opportunities and tools for enhancing the product. Everyone knows this. While packaging at the height of Fordism also represented a highly powerful tool for communication with the public, for seduction of the purchaser (i.e. a valuable accessory, but always an accessory, still seen as external to the goods that it "packed"), after the Ford era, in the knowledge’s capitalism, or imaginative capitalism (i.e. today's world), packaging has now become an integral part of the goods, and even the most important part (at least this is true of a series of goods, such as perfumes, and body-care products). So, when the most important goods for the production system are no longer the material goods themselves, but the immaterial ones (i.e. information, knowledge, and the imagination), packaging assumes an unprecedented central role. In fact, it becomes the unifying element between the material and immaterial characters of the goods. "Information is immaterial, but it can never exist without a material support. Information can be transferred from a material support to another, but it cannot be separated from material, unless in the more occult vectorialist ideologies."
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Packaging is no longer only a tool that protects the goods and allows its material circulation. Today, its most important function, at least from the point of view of circulation, is that of spreading the imaginary character of the goods, the brand, the information (at times the ideology) that in necessary to convince the consumer to buy the goods. The appearance of the first manufactured foods at the end of the 19th Century meant the beginning of nothing more than the objectification, the explicitness of a series of information on the goods that were previously taken for granted (or assumed). When, half-way through the last century, in the 1950s, you could still buy loose pasta, sugar, coffee or tuna in Italy, the purchaser
didn't tend to ask where the goods came from. There was mainly a personal relationship of trust in the trader. Of course, those products were already industrially produced goods, manufactured by a capitalist to make a profit: their economic value (of exchange) had been fully created in the factory, thanks to the human labour and machines that made them. But in order to realise their economic value, the capitalist who had manufactured them (the economic system) still had to rely on a network of human relationships that he couldn't control totally and where he had virtually no part. The act of consumption was an indispensable fact of life for the economy, but it still fell outside the capitalist field of production: it was based on the acquaintances, neighbourhoods and relationships of trust that the human beings built up in their towns and districts in major cities. Information was a social product totally different from what it is today. "Information is simply a possibility. It requires an active ability to become productive." This "active ability", that was once governed on a social level outside the production system and made use of the acquaintances, relations, affections of the individual, is today directly incorporated in the economic system. Packaging, at the beginning, was thus an informative tool (broadly speaking) on the goods. But, as information itself gradually becomes a type of goods - and the most valuable goods - as the relations, the languages and affections are "put to work" by a new dimension of Capitalism, as the "vector" (to use McKenzie's term) becomes an independent and self-enhancing dimension, indeed "a general abstract ability", "a power in the world", as all this happens, packaging becomes an important part of this vector. It makes sure that, in our mystified post-industrial society (or "vectorial" society), the object that we acquire is charged (as a product, this is sure) with all those
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cognitive, affective and relational meanings that make an object "dear". That's why artists (those responsible free and meaningful relations operators, which do, in a more concentrated and explicit way, what every human being does each day, i.e. to "humanise" his/her space and time, to construct his/her own world) can work on the packaging of the goods, on their informative and relational aspects, on the worn-out "charged" meanings to create new relations and new meanings. The fact that this cognitive and creative use of the packaging contrasts with the ecological danger it causes, when it reaches the end of its life cycle, is only a consequence of the fact that "the vectorial" character of our society, the power of abstraction, comes about within the private property of the information. In order to express its informative, immaterial and abstract potential, innovative information must be take shape on a material support. And this support, on reaching the end of its life cycle, becomes a problem once it reaches the end of its material function after extraction of the object it contained (but not the immaterial one, because information, unlike the earth and material goods, does not diminish when it’s beeing shared). Artificial waste products, "second nature" products, fall outside the homeostatic process that governs the life and the death of "original" nature and tend to proliferate and clog up the
system of both the original and second nature. This happens mainly because these waste products continue to be seen as private property, just as they were when they offered splendid seduction and information, when they let us feel part of the world of a given good or brand. It's hard to "reintroduce into society" waste packaging when, in its previous life, everything had been done to make it appear a "social outcast". Of course, every good initiative aimed at creating an "ecological conscience" is welcome; the setting down of rules and limits, including penalties, will help to check, at least partially, the spread of the sad and dangerous goods cemeteries, i.e. the landfill sites. But a proper solution (even if temporary and still evolving) to this problem will only be found if the matter and the information, the physical object and the imaginary one, will indeed be recognised as social processes that are inextricably linked, aesthetically and socially one and the same, and removed from the logic of private property and ownership. Only then, perhaps, will it be possible to bring recycling and homeostasis to the way one creates a work of art: by turning something imaginary into a reality. Antonio Caronia teaches Anthropology of Technique at the Brera Academy and Aesthetics of the Media at the NABA. He specialises in scientific and technological imagination and has published Il cyborg (Shake 2001) and Archeologie del virtuale (ombrecorte 2001).
1 - http://collections.walkerart.org/item/text/593. 2 - Wark McKenzie, A Hacker Manifesto. Immaterial workers of the world unite!, It. transl. by Marco Deseriis, Feltrinelli, Milano 2005, p. 58. The terms “vector”, “vectorialisms”, are used in this essay to indicate the means by which information is transported (telesthesia, remote perception) and the narrations and needs associated with these means. For McKenzie the “vectorial” class is the heir of the capitalist class of the classic industrial era, as the hacker (in the broadest sense) is the new version of the proletariat. 3 - Wark McKenzie, op. cit., p. 61. 4 - Wark McKenzie, op. cit., pp. 129 e 136.
Ben dall’A alla Z Secondo Ben Vautier, il grande artista francese attivo fin dagli anni ’60, «il mondo stesso è diventato un grande contenitore», che gli artisti hanno la libertà di riempire come vogliono. Giada Tinelli
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Nel suo dizionario La verità dalla A alla Z, Ben Vautier scrive alla voce “scatola”: «Mi domando perché utilizzo così spesso le scatole. Desiderio di classificazione?». E alla voce “Christo”: «Il suo gesto di imballare mi ha imballato…». Le scatole, gli imballaggi e gli oggetti usati sono alcuni tra i mezzi espressivi più cari a Ben Vautier: dichiarandosi successore di Duchamp e seguendo fedelmente gli artisti del ready made, l’artista decontestualizza gli oggetti firmandoli e intitolandoli a suo piacimento. Così le scatole possono divenire una sorta di “ricettacolo di Dio”: se Dio è dappertutto, perché non dovrebbe essere nella scatola firmata da Ben? Su una delle Boîte mystère (Scatola mistero) del 1970 scrive: «Nell’istante in cui viene aperta perde il suo valore estetico». O ancora ne L’armoire d’Arman (1967) l’artista ha raccolto e firmato oggetti di uso quotidiano facendone un vero e proprio contenitore di ready made. Ben Vautier è conosciuto al vasto pubblico non solo per l’inconfondibile calligrafia naïf, bianca su fondo nero, con cui marchia i suoi pezzi, ma anche per le sue performance di arte totale, come lui stesso le definisce. Un esempio di arte totale è stato il suo spettacolo teatrale Public in cui fissava il pubblico, un film in cui insultava gli spettatori; arte totale è stata la performance alla One Gallery di Londra quando nel 1962 ha vissuto per quindici giorni nella vetrina della galleria, o il vernissage della mostra Titanic a Roma (1990), in cui ha fatto ripetere ai violinisti le stesse melodie suonate sulla nave che colava a picco il fatidico 15 aprile 1912: l’arte che cola a picco sulle dolci note dei violini. Arte totale è oggi la sua newsletter di poesie,
pensieri, riflessioni che invia a milioni di utenti registrati al suo sito www.ben-vautier.com. Ben ha sempre cercato un contatto diretto con le persone e lo ha fatto attraverso i canali e i prodotti della società contemporanea, i mezzi di comunicazione e gli oggetti della società dei consumi, scatole e contenitori in primis. Nonostante continui a ripetere che la funzione dell’arte dopo Duchamp non è più stupire, ma creare una frattura “etnica e politica”, le sue opere hanno spesso un intento provocatorio e critico e sono sempre caratterizzate da un’irriverente ironia. Negli ultimi anni la sua attenzione si è concentrata su internet, luogo in cui sente di riuscire a esprimersi senza alcun vincolo e a comunicare con un grandissimo numero di persone in ogni parte del mondo. In un angolo del sito compare la scritta: «Siate pazienti. La Bibbia non è stata scaricata in un giorno»; tutto il sito è in qualche modo la summa della sua arte e nel suo dichiarato egocentrismo - di cui va molto fiero non perde l’occasione per raccontarsi, denunciare e far sorridere in un costante gioco di contraddizioni: critica la situazione dell’arte attuale che «gira su se stessa e fa dell’avanguardia guardandosi l’ombelico», ma poi riconosce che l’atto creatore è esso stesso un atto di sopravvivenza egoista e il motivo per cui l’artista cerca di essere diverso è proprio per la sopravvivenza del suo ego; afferma che la sua arte è «la ricerca della verità», ma subito dopo scrive che «il giorno in cui smetterà di mentire non farà più arte»... fino alla contraddizione intrinseca di «l’art tue l’art» (l’arte uccide l’arte). Con questo suo elogio della contraddizione Ben Vautier si è
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sempre messo in evidenza nel dibattito artistico internazionale: è stato uno dei massimi esponenti del movimento artistico Fluxus e, nel 1990, l’invito alla Biennale di Venezia ha segnato il suo riconoscimento a livello internazionale. Nonostante la sua fama non ama vivere nel caos delle grandi città e, in compagnia dell’inseparabile Annie, trascorre il suo tempo sulle colline di Nizza, dove lo abbiamo disturbato per una chiacchierata al telefono...
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Nelle tue opere hai sempre prestato particolare attenzione alla parola scritta, alla calligrafia; come è cambiato il rapporto con la scrittura quando hai iniziato a scrivere sul tuo sito in internet e sulla newsletter? Internet è stato molto importante per me, perché nella mia arte, sia nella pittura, che nelle appropriazioni o nei gesti, ho sempre dato molta importanza alla comunicazione, cioè rivolgermi all’altro, non parlare per me stesso o per un’élite, ma comunicare a più gente possibile. Quando internet ha fatto la sua comparsa, mi è sembrato incredibile che un cinese potesse leggere ciò che scrivevo. Mi sono detto “Ma questo è fantastico! Si può comunicare”. Prima c’era la stampa e bisognava aspettare che un giornalista pensasse di pubblicare qualcosa su di te; inoltre bisognava essere parigini, abitare a Roma o a Milano, perché se si abitava in una piccola città non si parlava di te. Anche prima di internet ero un appassionato della mail-art, cioè mandavo per posta le mie idee a trenta o quaranta persone, ma la posta e i francobolli costavano cari. Quando internet è finalmente comparso, invece, non era caro e permetteva di comunicare liberamente. Ora sta anche alle persone che ricevono le mie mail e
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che guardano il mio sito decidere se continuare a seguirmi oppure no. Io sono un comunicatore, ho voglia di comunicare: quando ho un’idea che mi gira per la testa, non importa quale essa sia, come per esempio fare delle scarpe in oro massiccio o cantare La Traviata per strada, dico: “lo scrivo e lo invio a tutti”. Con la newsletter… La newsletter mi serve per inviare i miei stati d’animo e allo stesso tempo se mi sento poeta sono poeta, se ho voglia di parlare di politica parlo di politica, se ho voglia di dire “sono contro Bush” lo posso fare e, ecco, sono me stesso. Mi piace questa forma di comunicazione, mi sembra sia importante, perché permette di formare un “blog”, che secondo me è una rivoluzione nel campo della comunicazione. Permette a un semplice bottegaio che ha il suo negozio all’angolo di via Tadino a Milano di dire “Basta, anch’io voglio parlare!”. Allora parla, poco a poco qualcuno lo ascolta e dice “sì, hai ragione”. In questo modo le persone hanno più spazio di prima per parlare e più occasioni per farlo. Spero che tutto ciò possa continuare, perché ho sempre paura che a un certo punto il potere venga infastidito da questa libertà e la voglia canalizzare in un modo o nell’altro...
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Già ha iniziato a vincolare un po’ la comunicazione in internet... Eh sì, ha già iniziato con delle ragioni/scuse all’apparenza normali, ma diventerà un rullo compressore che impedirà alle persone di parlare. Hai anche lavorato molto con gli oggetti e a volte te ne sei appropriato, per esempio firmandoli. Qual è il tuo rapporto con gli oggetti di consumo? Penso che la grande rivoluzione
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nell’arte sia stata Marcel Duchamp, che nel 1917 ha firmato l’orinatoio e lo scolabottiglie. Aveva acquistato lo scolabottiglie al BHV, un grande magazzino parigino; l’ha preso, l’ha montato e l’ha messo in mostra. Un semplice gesto... A partire da quel momento si è parlato di Dada, ma la vera rivoluzione era “Tutto è arte”. Questo ha permesso agli artisti dell’epoca del Nouveau Réalisme, e permette anche adesso, ai giovani d’oggi, di guardare il mondo, di prendere le cose che sono nel mondo e di portarle nell’arte. Colui che è stato più vicino alla società dei consumi direi che è Martial Raysse: a un certo punto, ha iniziato a entrare nei supermercati, a prendere una vetrina e a dichiarare alla stampa che la vetrina era un’opera d’arte fatta da lui. Si è trattato di un’appropriazione. Io faccio quasi la stessa cosa, lo stesso gesto. Mi sono detto «Nessuno ha firmato le scatole vuote e allora firmo le scatole vuote; nessuno ha firmato le Scatole Mistero e io, allora, le firmo». Ma all’inizio non avevo una relazione diretta con la società dei consumi, è venuta successivamente.
Courtesy: Studio d' Arte Fioretti, Bergamo
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E ora, come ti collochi rispetto alla società dei consumi? Ho alcune riflessioni da fare: penso ad esempio che le vetrine dei negozi siano diventate degli spazi museali. Nel medioevo una persona andava nelle chiese per vedere delle cose belle e lì aveva un ‘ah’ di stupore. Adesso passa in una qualsiasi altra via e guarda cosa c’è di nuovo in vetrina. In qualche modo le vetrine di oggi rimpiazzano le chiese medioevali. Un’altra riflessione è in rapporto alla pubblicità e all’arte: prima gli artisti dicevano «Io faccio arte, l’arte per Dio, l’arte per me, l’arte per un’altra
persona; questa non è pubblicità, la pubblicità è cattiva, la pubblicità è sporca». C’era una dicotomia tra la pubblicità e l’arte; adesso un pubblicista cerca di essere creativo, cerca qualcosa di nuovo, vuole stupire e attirare lo sguardo del passante. Una buona pubblicità è una pubblicità alla televisione, alla radio o anche su un giornale che cattura lo sguardo. In arte è esattamente la stessa cosa: Cattelan, per esempio, o Zorio o l’arte povera... Gli artisti devono stupire, devono catturare lo sguardo, devono comunicare qualcosa. Direi che la pubblicità da un lato e l’arte “d’avanguardia” dall’altro, hanno la necessità di stupire. Ma la pubblicità è obbligata a farlo per vendere, fa un’opera che deve essere indirizzata alla vendita e a far spendere soldi alla persona che la guarda. Mentre l’artista può stupire senza avere l’idea di vendere, egli cerca la gloria in generale, ha un’idea di choc e prova a imporla, anche se il mercante d’arte gli dice che non è vendibile, che non può avere successo. Quindi l’artista è più libero rispetto al pubblicista, che ha il peso di dover presentare un prodotto per venderlo. In effetti
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l’artista è libero e questa è una grande differenza, però tutti e due sono dei comunicatori ed entrambi esistono nello sguardo dello spettatore.
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Ricordo una tua opera della serie Valises et malles (Valige e bauli) in cui c’era scritto “tutto a 10 Franchi”... Che rapporto c’è tra l’oggetto riciclato e le tue opere? Quel pezzo era per una mostra in cui avevo deciso di utilizzare le valige, perché penso che la valigia sia
proprio un bell’oggetto. Avevo preso una quarantina di valige e le avevo messe per terra una accanto all’altra. Poi mi sono chiesto: «Cosa ci metto dentro?» e ho detto «Questa valigia contiene Dio perché Dio è dappertutto; nell’altra c’è “tutto a 10 Fr.”»; in un’altra poi c’era del riso. Così ho fatto una serie di opere d’arte ready made. Penso che, come dice Boltanski, la valigia stessa conserva la memoria delle persone che l’hanno portata; per esempio, la valigia dei senza tetto o la valigia in cartone
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rappresenta l’immigrato portoghese che è arrivato in Francia; ciascuno ha la sua valigia, la valigia è una vita intera. In quella mostra, ero affascinato dalle valige che avevamo trovato per caso, valige che avevano vissuto. Riguardo al pezzo “tutto a 10 Fr.”, credo di aver trovato quella valigia in un mercatino a Parigi e di aver chiesto al venditore: «Quanto vuole per tutta la valigia?» e lui mi ha detto «Mi dia 100 franchi e le do tutta la valigia»; allora ho preso la valigia intera, senza aprirla, e l’ho aperta
solo dopo per l’esposizione e ho messo “tutto a 10 Fr.”. Questo è il ready made. Ho un po’ imbrogliato, perché c’erano dei begli oggetti ma quelli me li sono tenuti…
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Giada Tinelli si occupa di arte giovane e di nipponistica.
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Nello specifico, qual è il tuo rapporto con le forme di packaging, le scatole... Me ne interesso molto, ma non sono certo l’unico, basti pensare al lavoro di Sylvie Fleury per esempio. Una volta ho fatto un borsa con su scritto “tutto quello che questa borsa contiene è arte” e volevo metterla in un negozio. L’idea era che quando le persone andavano a fare compere si dava loro una borsa di plastica su cui appunto volevo scrivere “tutto ciò che questa borsa contiene è arte”. Quando compri qualcosa in un supermercato ti danno il sacchetto di plastica alla cassa, ma in questo caso poi una volta rientrato a casa avresti detto “Ho fatto un bell’affare, perché non solo ho comprato verdura, ma arte; non solo ho comprato scarpe, ma arte”. Questa è una delle idee su cui lavora il packaging. Si potrebbe anche prendere un pacchetto e dire “tutto ciò che questo pacchetto contiene è misterioso”. Il bello, nel caso del mistero, è che non sai ciò che questa scatola contiene; al limite puoi anche fare una scatola vuota e dire “il vuoto è arte”. Bisogna dire che il packaging è uno degli aspetti imprescindibili della società dei consumi contemporanea. Si gioca sulla ripetizione di un oggetto, 1.000 scarpe, 30.000 t-shirt, 50.000 biro, messe in scatola. Il contenitore è una forma di contenuto. Il mondo stesso è diventato un contenitore che contiene un contenuto.
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Ben from A to Z According to Ben Vautier the great French artist active since the 60’s “the world itself has become a great container that artists are free to fill at their whim.
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Giada Tinelli In his dictionary The truth from A to Z, Ben Vautier writes under the listing “box”: «I ask myself why I often use boxes. Is it a desire to grade my work? And under the “Christo” listing: «his packaging gesture packaged me…». The boxes, the packaging and the objects used are among the means of expression most preferred by Ben Vautier: declaring himself Duchamps successor and following closely the artist of the ready made, the artist decontextualises the objects signing them and entitling them as he pleases. In this way the boxes can become a sort of “God’s recepticle”: if God is everywhere why could he not be in a box signed by Ben? Ben wrote on one of the Boite mystère (Box Mystery) of 1970 he writes that: «Once the box is open it loses its aesthetic value» or again in L’armoire D’Arman (1967) the artist collected and signed everyday objects making them a true and real container of the ready made period. Ben Vautier is recognized by the vast public not only for his unmistakable naif white on full black calligraphy with which he presents his works but also for his total art performances as he himself defines them. An example of total art was his theatrical show Public in which the public stared at a film that insulted the spectators; another example of total art was his performance at One Gallery, London in 1962 where he lived for fifteen days in the gallery window, or the vernissage of the Titanic exhibition in Rome 1990 in which he made the violinists repeat the same melodies that were played on the ship that sank that
fateful April 15th 1912: art that sinks to the sweet notes of violins. Total art is today his newsletter of poetry, thoughts, reflections that he sends to millions of registered users of his site www.ben-vautier.com. Ben has always looked for direct contact with people and he has achieved this through the channels and products of contemporary society, means of communication and objects of consumer society, boxes and containers first and foremost. Not only does he continue to repeat that the function of art after Duchamp is no longer to amaze but to create a “political and ethnical” fracture, his works often have a critical and provocative intent and they always feature by an irreverent irony. In recent years his attention has turned to the internet, where he can express himself without any ties and can communicate with a great number of people in every corner of the world. In a corner of the site the following notice appears: «Be patient. The Bible was not downloaded in a day» the whole site is in some way the sum of his art and in his egocentric declaration - of which he is very proud of- he doesn’t miss the opportunity to tell, denounce and to make us laugh in a constant game of contradictions: he criticises the situation of current art that «rotates around itself and creates the avante garde perusing its navel», but then he realises that the creative act is in itself an act of selfish survival and the reason in which the artist tries to be different is really for the survival of his ego; proving that his art is a quest for truth but immediately after he writes «the day he stops lying is the day he will no longer create art»… up until the intrinsic contradiction «l’art tue l’art» (art kills art). It is with his elegy of contradiction that Ben Vautier has brought himself to the fore in the international artistic debate: he was one of the predominant representatives in the artistic movement Fluxus in 1990, the invitation to the Venice Arts Festival marked his recognition at an international level. In spite of his fame he doesn’t like to live in the big city chaos, and in the company of inseparable
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Annie, he passes his time on the hills of Nice where we disturbed him for a telephone conversation… In your works have you always paid close attention to the written word, to calligraphy; how did this relationship with writing change when you began to write on your internet site and the newsletter? The internet was very important to me, because in my art as in my paintings, in the appropriations and gestures I have always given much importance to communication, that is to address the other, not to speak for myself or an elite but communicate with as many people as possible. When the internet came into being I thought that it was incredible that a Chinese person could read what I was writing. I said to myself «This is incredible! We can communicate». Before there was the press and you had to wait until a journalist thought about publishing something about you; moreover it was necessary to be Parisian, to live in Rome or Milan, because if you lived or were from a small town nobody talked about you. Even before the internet I was fascinated by mail-art, that is I posted my ideas to thirty or forty people but the post and stamps were expensive. When the internet finally appeared it was not expensive and allowed you to communicate freely. Now it is up to the people who receive my mails and who log onto my site to decide whether to follow me or not. I am a communicator: I want to communicate: when I have an idea in my head it doesn’t matter what it is, for example making shoes in solid gold or to sing La Traviata on the street, I say «I’ll write it and send it to everybody».
They have already begun to limit communication on the internet a bit… Eh yes, it has already started with reasons and excuses that appear normal but will become a steamroller that will prevent people from speaking.
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You have also worked a lot with objects and sometimes you appropriate them for example signing them. What is your relationship with consumer objects? I think Marcel Duchamp constituted the great revolution in art, who in 1917 put his name to the urinal and the bottle rinser. He bought the bottle rinser at the BHV, a Parisian department store; he took it, he assembled it and placed it on show. A simple gesture... From that moment on Dada was spoken about but the real revolution was “Everything is art”. This led to the artists of the Nouveau Réalisme, era and also allows the youth of today the opportunity of looking at the world taking things from the world and expressing them in art. I would say that Martial Raysse was the man closest to consumer society: at one point he began entering supermarkets occupying a window and declaring to the press that the window was a work of art made by him. It was about appropriation. I do very much the same thing, the same gesture. I said to myself «Noone has put their name to the empty boxes so I will sign the empty boxes; noone has put their name to the Box Mystery and so I signed them». But at the
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With the newsletter… I write the newsletter to express my state of mind and at the same time if I feel like a poet I am a poet, if I want to talk politics I talk politics, If I want to say “I’m against Bush” I can say it, and there, I am myself. I like this means of communication, I feel it is important because it allows you to form a “blog” that in my opinion is a revolution in the field of communication. It
allows a simple shopkeeper who has his shop on the corner of Via Tadino in Milan to say “That’s enough, I want to have my say as well!”. And then little by little he starts to say his bit, and somebody listening in will say “yes you are right”. In this way people have more space than before to speak, and more opportunities to do so. I hope this can continue because I’ve always feared that at a certain point the powers that be will become irritated by this freedom and will want to channel this in some way or another…
identi-kit beginning I had no direct relationship with consumer society, that came later.
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And now, what’s your position as regard to the consumer society? I have some reflections to make: I feel for example that the shop windows have become museum spaces. In the Middle Ages a person went to the churches to see beautiful things and there felt an “ah” of amazement. Now that person goes to every second street to see what there is in each new window. In a certain way today’s windows have replaced the medieval churches. Another reflection is in relation to advertising and art: first the artists used to say «I make art, art for God, art for myself, art for another person: this is not advertising, advertising is bad advertising is dirty». There was a dichotomy between publicity and art; now an ad-man tries to be creative, he searches for something new, he wants to astonish and attract the passer-by’s attention. A good advertisement is advertising on television, the radio or even on the newspaper because they draw attention, they have to communicate something. With art it is exactly the same thing: Cattelan for example or Zorio or arte pauvre…The artists have to amaze, they have to capture attention, they have to communicate something. I would say that both advertising and art contain the need to shock. But advertising is obliged to shock in order to sell, its purpose is to be sold and make those who look at it spend money. However the artist can shock without having to sell, he looks for general glory, his intention is to shock and he tries to achieve this even if the art dealer says that it is not fit to be sold, that it cannot be a success. Therefore the artist is freer in respect to the ad man who has to present a product in order to sell it. In effect the artist is free and that is the great difference, but both of them are communicators and they both exist in the eye of the spectator. I remember one of your works from the series Valises et Malles (Cases and Trunks) in which the phrase “Everything for 10 francs” was written…what relationship can be found between the recycled piece and your work? That piece was for a show in which I had decided to use cases because I think a case is a beautiful object. I had taken some forty cases and placed them beside each other on the ground. Then I asked myself « What will I put inside them?» and I said
«This case contains God because God is everywhere; in the other there is “everything for 10 francs”; and in the other then there was rice. This was the way I created a series of readymade art works. I agree with Boltanski who said that a case holds the memories of the people who carry them; for example a homeless person’s case or the cardboard case represents the Portuguese immigrant who has arrived in France; everyone has their own baggage, the case is ones entire life. In that show I was fascinated by the cases that we had found by chance, cases that had already lived. With regards to the piece “everything for 10 francs” I believe I found that case in a small market in Paris where I asked the vendor: «How much do you want for the whole case?» and he said to me «Give me 100 francs and I will give you the whole case»; at that moment I took the entire case without opening it and I opened it only afterwards for the show where I wrote “everything for 10 francs”. This is readymade art. I cheated a bit, because there were some nice objects that I decided to hold onto… To be specific, how do you feel about the forms of packaging, boxes… I am very interested but I am certainly not the only artist who is interested in packaging. You only need to think of Sylvie Fleury for example. Once I made a bag on which I wrote “everything this bag contains is art” and I wanted to put it in a shop. The idea was that when people went shopping they would be given a plastic bag on which I as I said wanted to write “everything this bag contains is art”. When a consumer buys something in a supermarket they are given a plastic bag at the checkout, however in this case when the consumer arrived home he would say I got a good bargain, I have not only bought vegetables but art too, I have not only bought shoes but art as well. This is one of the ways in which packaging works. Yes one could also take a package and say “everything this package contains is mysterious”. The beauty with mystery is that you do not know what this box contains; you could even make an empty box and say “emptiness is art”. It is important to say that packaging is an essential aspect of contemporary consumer society. You play on the repetition of an object, 1,000 shoes, 30,000 t-shirts, 50,000 biros put in a box. The container is a form of content. The world itself has become a container that contains a content. Giada Tinelli covers young and Japanese art.
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Sogni di Cartone... ... ovvero come l’immaginazione l’ha vinta sul denaro. Gabriele Illarietti
end, finiranno per bruciare quasi tutto il denaro in una sorta di rogo purificatore e per investire il resto nella costruzione di pozzi per i villaggi dell’Africa. Tra volontà di fare tutto quello che si può per il bene comune (al limite dell’autolesionismo) e necessità di non sperperare nulla, ma piuttosto di far fruttare tutto il più possibile (secondo i dettami di una certa “cultura manageriale” ormai onnipresente), questi bambini ci insegnano che ci si può ancora costruire razzi e astronavi di cartone e si può lasciare che l’immaginazione trasformi le forme consuete che incontriamo nella nostra vita in visioni fantastiche. Gabriele Illarietti si occupa di teoria critica; ha tradotto, insieme a Marco Senaldi, L’epidemia dell’immaginario di Slavoj Zizek, Meltemi, 2004.
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del buon Danny “Trainspotting” Boyle e qualche scatolone di cartone taglia maxi. Mentre il giovanissimo protagonista Damian, di otto anni, nel rifugio che si è costruito ai bordi della ferrovia, continua a giocare con scatole e scatoloni trasformandoli nei suoi sogni e parla con i santi del Paradiso, pur essendo finito in possesso di una fortuna di quasi 250.000 sterline fruscianti (circa 377mila euro), suo fratello Anthony, che di anni ne ha dieci, pensa a come spendere tutti quei soldi secondo i più rigidi dettami dell’imprenditoria postmoderna, investendo nel mercato immobiliare e circondandosi di guardaspalle, portaborse e ragazzette adoranti. È bene dire che nessuno dei due l’avrà veramente vinta e, in una sorta di paradossale happy
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Il bel film di Danny Boyle Millions lancia alla fantasia più di una sfida. Cosa si può realizzare quando si ha a propria disposizione una fortuna? Che fortuna si ha ad avere una fantasia allucinante (cioè allucinata e allucinatoria)? In Millions si danno battaglia i più sfrenati desideri consumistici della nostra società e la visionarietà mistico/prosaica di un giovanissimo che vorrebbe cambiare il mondo; e quello che ne risulta è un “pastiche” di pulsioni sociali, ispirazione religiosa e megalomania prettamente contemporanea. I prerequisiti necessari alla conflagrazione di tutti questi ingredienti sono un soggetto interessante (anche se non sempre sostenuto da una sceneggiatura all’altezza delle aspettative), il bel talento visivo
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Cardboard dreams…. …or rather, how imagination won over money
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Gabriele Illarietti
Danny Boyle’s wonderful film Millions challenges the imagination in more than one way. What can you do when you have a fortune at your fingertips? How lucky are you if you have a shocking ( that is visionary and hallucinatory) imagination? In Millions a battle is waged between our society’s most excessive consumer desires and the mystical/prosaic vision of a very young person who wants to change the world. The result is a “pastiche” of social compulsions, religious inspiration and purely and typically contemporary megalomania. The prerequisites necessary for the conflagration of all these ingredients are an interesting subject (though not always supported by a script which comes up to expectations), good old Danny “Trainspotting” Boyle’s wonderful visual talent and some maxi sized cardboard boxes. While the very young protagonist Damian, who is eight years of age, continues to play with boxes of all sizes and transform them into his dreams, and to talk to the saints in paradise in the shelter
he has built on the edge of the train tracks, despite coming into a fortune of almost 250,000 crisp pound notes (about 377 thousand Euros) his brother Anthony, who is ten years old, thinks about how to spend all that money according to the dictates of post-modern entrepreneurship, investing in the property market and surrounding himself with bodyguards, flunkeys and adoring little girls. It should be said that neither of the two will truly have their way and, in a sort of paradoxical happy end, they will burn almost all the money in a kind of purgative pyre, investing the remainder in the digging of wells for villages in Africa. Caught between wanting to do everything they can for the common good (bordering on selfdestruction) and the need not to waste anything, but to make it yield as much as possible (according to the dictates of a certain kind of now omnipresent “managerial culture”), these children teach us that you can still build rockets and spaceships out of cardboard and allow the imagination to transform the ordinary things we come across in life into fantastic visions.
Gabriele Illarietti deals with critical theory. He has translated, together with Marco Senaldi, The Plague of Fantasies by Slavoj Zizek, Meltemi, 2004.
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Gaetano Pesce. Il rumore del tempo La Triennale di Milano, 2005
Un catalogo interessantissimo, che ripercorre per immagini gli anni d’oro della pop art in Italia, soprattutto per quello che riguarda l’ambiente romano di Schifano, Mambor, Fioroni, Tacchi, Festa. Con questa mostra la Galleria Civica di Modena sviluppa così il percorso iniziato l’anno passato con la mostra Pop Art UK, dedicata all’arte pop inglese. Bellissime, poi, le immagini dell’Archivio Fotografico del Prosegue a pagina 128 >>>
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Gaetano Pesce is a designer who constantly sets out to astonish and it was about time he was dedicated a large retrospective. The recent anthological exhibition at the Milan Triennale (January - April 2005) does not much resemble a retrospective. Dedicated to the passing of time which will make it obsolete, the exhibition was a real event which allowed the artist-designer to unleash his
Pop Art Italia 1958/1968 Galleria Civica di Modena, Silvana Editoriale 2005
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Gaetano Pesce è un designer alla costante ricerca dello stupore, ed era tempo che gli venisse consacrata una importante retrospettiva. La recente antologica presso la Triennale di Milano (gennaioaprile 2005) però di retrospettivo aveva ben poco: dedicata al “trascorre del tempo” che “la renderà obsoleta”, la mostra è stata un vero evento che ha permesso all’artista-designer di scatenare il suo estro creativo con la consueta grande sensibilità materica e la più sfrenata inventiva. Il catalogo non poteva certo essere da meno: chiuso da una copertina a forma del profilo di Pesce, e realizzata in materiali vari (fibre di cocco, peli di maiale [sic!] e silicone) è davvero un’opera a sé. E lo diventa, un’opera originale, proprio sfogliandolo,
perché le pagine sono fustellate in modo che noi lettori, leggendolo, possiamo trasformarne la disposizione a nostro piacimento cosicché, alla fine, ciascuno avrà “un’opera unica”. Insomma, un’ennesima scommessa vinta da Gaetano Pesce, che riesce a fare del classico e noioso oggettocatalogo qualcosa in grado di racchiudere contenuti interessanti e insieme di incuriosire, divertire, mettere all’opera la mente e la mano del lettore.
creative flair with his usual sensitivity towards materials and the most unbridled inventiveness. The catalogue certainly couldn’t have been any less. Enclosed in a jacket in the shape of Pesce’s profile and made of various materials (coconut fibre, pigskin (sic!) and silicone) it is truly a work in itself. And it becomes one (an original work) precisely in the act of leafing through it, as the pages are punched in such a way that we, the readers, can change their layout as we like so that, in the end, everyone has their own “unique work”. All in all, it is the umpteenth gamble taken by Gaetano Pesce, which succeeds in making of the classic and boring object-catalogue something which is able to hold interesting contents and, at the same time, to intrigue, amuse and set the mind and hand of the reader to work.
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Experimental Eco-Design Il “bel design” è necessariamente pessimo dal punto di vista ecologico? E, il design sostenibile, deve per forza essere esteticamente brutto?
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Recycled shoe by Uroads / www.uroads.com
E questa la domanda che si pongono Cara Brower, Rachel Mallory e Zachary Ohlman, autori di Exprimental Eco Design, un libro di imminente uscita che intende offrire una serie di illuminanti modelli di design del prodotto, grafica, moda e architettura, capaci di incoraggiare l’ eco consapevolezza nei consumi di tutti i giorni; oggetti che utilizzano materiali rinnovabili, riciclabili o non tossici; che sono prodotti in modo efficiente e a basso impatto; che riutilizzano scarti o prodotti già esistenti; il cui packaging non è solo un “vestito usa e getta”, ma un accessorio indispensabile studiato, nel suo intero ciclo esistenziale, per essere il meno deleterio possibile. Ecco quindi, tra i molteplici
Pillow by Colleen rae Smiley, USA
Chairfix by Oscar Wilson / www.downlow.co.uk
esempi illustrati, la sedia Chairfix di Ben Wilson, costituita da un foglio di compensato fustellato per l’assemblaggio a incastro, senza viti né colla, facilmente trasportabile e senza particolari imballi, perché si
presenta bidimensionale ed appiattita come un pagina. Oppure le scarpe Uroads, realizzate grazie all’impiego di materiali di scarto, dalla carta ai vecchi pneumatici, tutte realizzate a mano nella migliore tradizione dei prodotti esclusivi e di alta qualità. O i cuscini e i tessuti di Colleen Rae Smiley che, ispirandosi alla vera natura dei quilt - quella di narrare la storia di una famiglia o di una nazione - sono costituiti da ritagli provenienti da pezzi di cultura contemporanea come striscioni di musei, bandiere, abiti dimessi, banner pubblicitari. Fino ad arrivare a proposte di tipo architettonico come quelle di Michael Jantzen che ha ideato un modulo intercambiabile, multiuso, in
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Experimental Eco-Design Is good design necessarily dreadful from an environmental point of view? And must sustainable design of necessity be aesthetically ugly?
M-House by Michael Jamtzen / www.humanshelter.org
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materiale riciclabile, per costruire abitazioni e interni. Il libro è inoltre arricchito da saggi di autori quali Ezio Mancini, Edwin Datschefski, Peter Danko e da una corposa bibliografia, con molte informazioni utili, link e riferimenti vari al pensiero “verde”.
These are the questions asked by Cara Brower, Rachel Mallory and Zachary Ohlman, authors of Experimental Eco Design, a book which is about to be published and which means to provide a series of enlightening models of product, graphic, fashion and architectural design, able to encourage environmental awareness in everyday consumption: objects which use renewable, recyclable or non toxic materials, produced in an efficient, low-impact way; which reuse scrap or already existing products; whose packaging is not merely a disposable outer shell but an indispensable accessory, studied to be as harmless as possible as it can possibly be throughout its entire life cycle. Here then we have Ben Wilson’s Chairfix chair, made of a sheet of die-cut plywood to be slotted together, without either screws or glue, easy to transport and with no particular packaging so that it appears as two dimensional and flat as a pancake. Or the Uroads shoes, made with junk, from paper to old tyres, entirely by hand in the best tradition of exclusive, luxury products. Or the cushions and fabrics of Colleen Rae Smiley who, inspired by the true nature of quilts - that is to narrate the story of a family or a country - are made of scraps originating from pieces of contemporary culture such as museum posters, flags, shabby clothes, advertising banners. Until we get to architecture like that of Michael Jantzen, who has created an interchangeable, multi-purpose module in recyclable material, for building homes and interiors. The book is further embellished with essays by authors such as Ezio Mancini, Edwin Datschefski, Peter Danko and a substantial bibliography, with a great deal of useful information, links and various references to “green” philosophy.
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Centro di Documentazione della Fondazione Cassa di Risparmio di Modena, che insieme al Comune di Modena ha sponsorizzato la mostra. An extremely interesting catalogue with pictures of the golden years of pop art in Italy, above all concerning the Roman circle of Schifano, Mambor, Fioroni, Tacchi, Festa. With this exhibition the Civic Gallery of Modena takes up the theme begun last year with the exhibition Pop Art UK dedicated to English pop. The pictures from the Photo Archive of the Records Department of the Fondazione Cassa di Risparmio di Modena, which together with the Municipality of Modena sponsored the event, are beautiful.
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Brand design Marco Bassani, Saverio Sbalchiero Alinea Editrice, 2002 Questo testo è un utile supporto tecnico per i vari responsabili della marca - uomini di marketing, designer, tecnici e pubblicitari affinché possano avere gli strumenti per capire cos’è la percezione di marca e come se ne può creare una, come ottimizzare la comunicazione e come portare con successo una nuova marca sul mercato, trasformando la distribuzione in un potente alleato. Idea di fondo degli autori è il fatto che ormai il brand, inteso come immagine visiva, emozionale, razionale, culturale che viene associato ad
un prodotto o ad un’azienda, non può più essere ignorato dal design, inteso come disciplina che si occupa del progetto del prodotto industriale, sia materiale che virtuale. This book is a useful technical support for various brand managers- marketing men, designers, technicians and advertising people- so they have the tools for an understanding of what brand perception is and how to create it, how to optimise marketing and how to achieve success with a new brand in the market, transforming distribution into a powerful ally. The creators’ basic idea is the fact that now the brand, understood to be a visual, emotional, rational, cultural image associated with a product or company, cannot be ignored by design, meant as a discipline which deals with the project for an industrial product be it material or virtual. Avventure e disavventure di design Andries Van Onck & Hiroko Takeda, Alinea Editrice, 2005 Sono ormai innumerevoli i libri che illustrano la storia e indagano sulla filosofia del design, mentre pochi sono quelli che testimoniano i retroscena sociali e personali della professione del designer. È proprio questo che Van Onck e Takeda fanno apprezzare nel loro testo, che è allo stesso tempo resoconto della loro storia professionale e panoramica del contesto in cui,
nella seconda metà dell’ ultimo secolo, si realizzava il design italiano. Una piacevole cronistoria documentata che non cesserà di stupire per le più svariate vicissitudini che i due progettisti si sono trovati ad affrontare. Progetti inediti e che non hanno avuto sviluppo, oltre a quelli di maggior successo presenti anche in gallerie e musei - sono generosamente illustrati e commentati accanto ai personaggi e alle aziende che hanno fatto la storia del design italiano, da Olivetti a Zanussi, da Magis a Kartell e molte altre. Countless books now illustrate the history and look into the philosophy of design, while few bear witness to the social and personal background of the designers. This is the very angle that one can appreciate in the work by Van Onck and Takeda, at one and the same time a review of their professional history and an overview of the context in which, in the second half of the last century, Italian design came into being. A pleasant chronicle-history with documents that do not cease to amaze for the various vicissitudes the two designers had to face. Original projects that were never developed, as well as those that enjoyed the greatest success - also present in galleries and museums - are generously illustrated and commented on alongside the personalities and the companies that made the history of Italian design, from Olivetti to Zanussi, from Magis to Kartell and many more.
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semplice lavoro di macchine, piuttosto si sostanzia nell’abilità di interpretare le esigenze degli utilizzatori. Su questo fondamento si è costruita la Cartografica Pusterla che con il passare degli anni è cresciuta fino all’acquisizione della francese Coffrets Creation.
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