be somebody
❋
philosophy: if you really want to be somebody, you don’t have to be great, you only have to be good. good people live by the golden rule, and in doing so, they become somebody to everybody. great peolple live by their own rules, which too often become self serving. therefore, don’t be great, just be good. and if you’ve got to be great, then for goodness sake, do something good. extra-rich body cream
1/02
❋ “Be Somebody” ossia essere qualcuno, per vivere meglio. Lʼetichetta del flacone di crema Extra-rich Body Cream di Philosophy vorrebbe a tutti gli effetti essere un piccolo testo di filosofia in pillole.
Il concept grafico utilizzato da Philosophy ha nobili antecedenti: si pensi a questa Idea, opera concettuale di Joseph Kosuth (1965), ingrandimento fotostatico di una definizione da vocabolario.
1/02
14
8 fl. oz. - 236.6 ml
“Be Somebody” so as to live better. The label of the Extra-rich Body Cream by Philosophy is set out with all the intent of dispensing philosophy in small doses.
The graphic concept used by Philosophy has noble predecents: perhaps harking back conceptual work of Joseph Kosuth (Idea,1965), a photostat blow-up of a dictionary definition.
15
shopping bag
Pack is (not) Dead Dalla poltrona sottovuoto alla “supercaramella”, è morto il packaging contenitore di merci. Il suo posto ora appartiene ad un’invisibile, ma ancora più presente, interfaccia emozionale. Maria Gallo
Ancora poco, certo, per parlare di inizio della fine, ma un’indicazione precisa sulla strada da percorrere: il packaging, che fino ad allora era stato un contenitore puramente funzionale delle merci, al massimo rivestito con una grafica più accattivante per “fare scena”, avrebbe dovuto ben presto trasformarsi in una sorta di sfera magica con cui mostrare al consumatore non certo il mondo reale (l’abbiamo già sotto i nostri occhi) ma il fantastico universo delle paradisiache sensazioni merceologiche. Una sorta di scioglilingua di immagini in cui perdersi, per lo meno fino al momento della loro metamorfosi in rifiuto. Ogni prodotto ha seguito la sua strada, ma per molti di essi la morte dell’involucro è stata quasi una tappa obbligata nel processo
shopping bag
di trasformazione. Alcuni esempi piuttosto emblematici sono le bottiglie di profumo di Comme des Garçons: ovali in vetro chiaro, adagiati come sassi, chiusi da piccoli tappi neri e anonimi; i flaconi erano ermeticamente sigillati in buste trasparenti sottovuoto. Oggi, a distanza di quasi cinque anni, la stessa bottiglia è rivestita con un candido abitino bianco lavorato all’uncinetto da cui partono anche un paio d’ali. Il “sasso” e il suo nuovo abito sono ancora strozzati nella confezione sottovuoto. Apparente anonimato anche per le confezioni dei prodotti di Body Shop, Lush o Shu Uemura, che da alcuni anni vendono i loro saponi, creme, ombretti e ciprie in scatoline trasparenti, in flaconi e vasetti standard o addirittura “al chilo” cioè sfusi, come fino a quarant’anni fa accadeva per la pasta o lo zucchero. Evidentemente, per alcune aziende, il valore del marchio e del mondo costruito intorno ad esso, è diventato più importante del
singolo prodotto. Così il packagingprotagonista si è trasformato in packaging-strumento attraverso il quale il consumatore accede al mondo del brand. Insomma nell’era dell’accesso descritta da Jeremy Rifkin come la grande rivoluzione per cui, nella new economy, più che possedere un bene, sarà sempre più importante accedere a un servizio (sia esso l’abbonamento a un internet provider o un’automobile da usare per tre giorni al mese) sarebbe già iniziata da un po’ e noi non ce ne siamo accorti. Già nel 1985 la vodka Absolut lanciava l’operazione che, da allora, coinvolge centinaia di artisti e designer di tutto il mondo per reinventare, all’infinito, la sua anonima bottiglia. In questo modo è nato una specie di network artistico a cui il consumatore partecipa non solo visitando le mostre itineranti, ma anche acquistando la vodka. Eppure oggi, questo emblematico prodotto, sta lanciando nuovi segnali. Nelle ultime pubblicità infatti la bottiglia è presente in tutta la sua “normalità”
19
18
I protagonisti assoluti del nostro immaginario commerciale, gli imballaggi colorati, sensuali e attraenti, che trasformano gli scaffali dei supermercati in psichedeliche Wunderkammer, stanno subendo, ormai da alcuni anni, una lenta ma radicale trasformazione. Un processo iniziato probabilmente già negli anni ‘80 quando, sebbene in alcuni settori come la profumeria, ma non solo, l’imperativo fosse “stupire”, alcuni imballaggi lanciavano già dei timidi segnali di cambiamento. Di lì a poco infatti sarebbero nati i provocanti busti femminili in guêpière dei profumi di Jean Paul Gaultier. Contemporaneamente, l’Oréal lanciava la sua linea giovane di prodotti per i capelli, Studio Line, i cui contenitori, semplici e puliti nella forma, mostravano una grafica tanto colorata quanto minimalista, chiara citazione dei quadrati primari di Mondrian.
1/02
1/02
shopping bag
20
forma e materia, il sapiente utilizzo di particolari tecnologie, ad esempio un sottovuoto, diventano insomma metafore per la pelle dei prodotti che possono mostrarsi direttamente al consumatore oltrepassando il medium dell’imballaggio come era concepito in passato. Lo stesso risultato si può raggiungere persino percorrendo la strada in maniera diametralmente opposta, come ha fatto la Nestlè con le caramelle Polo e con i mini Smarties. Si mostra qui infatti come il packaging possa morire anche per eccesso di presenza, per gigantismo informativo. Come accade nel racconto La lettera rubata di Edgar Allan Poe, in cui la lettera della Regina è “occultata” mettendola in bella mostra (l’imbarazzante documento viene “nascosto” collocandolo semplicemente là dove più lo si può vedere, tra altre innocenti missive), l’ipercaramella Polo in polipropilene bianco, che racchiude le piccolissime caramelline reali, scompare infatti ai nostri occhi come packaging e diventa un prezioso e seducente testimonial della filosofia del prodotto. Difficile trovare qualcuno che abbia avuto il coraggio di buttare via questo piccolo/grande pezzo di pop art quotidiana. Ma se le merci irrompono come corpi nel paesaggio commerciale, va da sé che finiranno col sottoporsi anch’esse alla dura legge della vita e della morte. C’è qualcuno infatti che con la morte ha deciso di giocarci davvero, abbattendo finalmente uno dei massimi tabù merceologici. Parliamo del gruppo degli adbuster, quei sovversivi del commercio globale che, da qualche anno, tutti gli anni,
organizzano i “no-buy day” come segno di protesta contro il consumismo imperante. L’involontario strumento di una delle loro campagne shock è stato il dromedario che da tanti anni, suo malgrado, promuove le sigarette Camel. In suo onore è stato creato un alter ego che, per la verità, non gode di ottima salute. Si tratta di Joe Chemo, diventato, appunto, uno dei protagonisti delle anticampagne pubblicitarie inventate dagli adbuster. Come suggerisce il nome, nel manifesto compare il fumetto di un dromedario con delle flebo inserite nel corpo mentre girovaga, con lo sguardo spento, per i corridoi di un ospedale: l’immagine suggerisce che, dopo averne fumate tante, Joe Chemo ora sia gravemente malato e che si stia avvicinando la fine dei suoi giorni. E’ chiaro che la morte del dromedario segnerebbe, immediatamente, la morte di uno dei packaging più noti al mondo. Nell’ottobre del 2000, sul sito internet degli adbuster, si chiedeva di partecipare alla raccolta dei fondi per poter acquistare un grande spazio pubblicitario in cui affiggere il manifesto con Joe Chemo. Ma già allora s’era scatenata la battaglia legale da parte dei produttori delle sigarette. Non sappiamo se, a tutt’oggi, abbia vinto il mercato o la forza delle immagini. La morte, comunque, prelude sempre all’inizio di qualcosa di nuovo, magari inatteso, ma non per questo orrorifico. Allora, più che accanirsi contro chi sceglie di dare voce a un dromedario di cartoncino, forse le aziende farebbero bene ad occuparsi delle mutazioni culturali se, anche in futuro, vorranno continuare a far parte, con le loro lattine, delle nostre fantasie quotidiane.
shopping bag
Maria Gallo è designer; scrive di packaging e di cultura degli oggetti per L’Unità.
21
e con un’esposizione quasi asettica nella sua finta funzionalità, alcune didascalie, con relativa freccetta, spiegano al consumatore il significato di ogni scritta, simbolo o immagine presente sulla bottiglia. Citazione o inversione di tendenza? E’ troppo presto per dirlo. Del resto “l’asettico” è una delle categorie più sfruttate negli imballaggi in marcia verso la trasformazione. Una categoria dalla presenza scenica tanto forte da ispirare persino la creazione di veri e propri imperi commerciali. Marchi no-brand come Muji, la catena nipponica di negozi che vendono un po’ di tutto, dalla birra alle sedie all’abbigliamento, nata nel 1980 con lo slogan “tante buone ragioni per essere abbordabile”, impone come unica regola per essere “della famiglia” il minimalismo integralista della merce e, naturalmente, anche del packaging. Nata in Giappone, oggi Muji ha molti negozi anche a Londra e Parigi. Il marchio Ikea può forse essere considerato uno degli antesignani del minimal-pack, per di più applicato ad un campo, come l’arredamento, che ha sempre avuto, a ragione, un rapporto poco amichevole con gli imballaggi in genere; obiettivamente però il suo minimalismo non è mai riuscito a diventare seduzione. Al contrario c’è un pezzo storico dell’arredamento, la poltrona UP5 disegnata nel 1969 da Gaetano Pesce per B&B, il cui packaging primario, un film di PVC dentro cui l’imbottito era sigillato e compresso sottovuoto come un’enorme sottiletta, partecipava attivamente al progetto complessivo. Una volta aperto il grande sacchetto in PVC, l’aria rientrava lentamente tra le celle dell’espanso e la poltrona riprendeva corpo. Il minimalismo, la riduzione di
1/02
1/02
shopping bag
shopping bag
Pack is (not) Dead From the vacuum packed armchair to the “supercandy”, packaging as a container of goods is dead. Its place has now been taken up by an invisible, but at the same time even more present emotional interface. Maria Gallo
22
Apparent anonymity also for the pack for the Body Shop, Lush or Shu Uemura products, that for some years now have been selling their soaps, creams, eye shadows and powers in transparent cases, in standard flacons and jars or even by the kilo or that is loose, as was the case forty years ago for pasta and sugar. Evidently, for some companies, the value of the brand and the world built around it has become more important than the single product. Thus the packaging protagonist has been converted into a packaging-tool by way of which the consumer accesses the world or brands. This means that the era of access described by Jeremy Rifkin as the great revolution by which, in the new economy, more than possessing an item of goods, it will be evermore important to get to a service (be this a subscription to an Internet provider or a car to be used three days a week) could already be said to have begun, only we haven’t noticed it yet. Already in 1985 Vodka Absolut launched an operation that, from then on has involved
hundreds of artists and designers from all around the world in order to reinvent to infinity their anonymous bottle. In this way a sort of artistic network has been set up where the consumer not only takes part by visiting itinerant exhibitions, but also by buying the vodka. Even so today, this emblematic product, is launching new signs. In the latest advertising in fact the bottle is present in all its “normality”, offering an almost aseptic showing of its sham functionality: some captions, with relative arrows, explain to the consumer the meaning of each writing, symbol or image present on the bottle. Quotation or an about-turn in trends? It is too early to say. What is more “the aseptic” is one of the categories that is most exploited in the packaging marching towards transformation. A category with scenic presence strong enough even to inspire the creation of true and proper commercial empires. Non brands such as Muji, the Japanese shopping chain that sells a bit of everything, from beer to chairs to clothing, created in 1980 with the slogan “lots of ways of taking your fancy”, imposes the overall minimalism of the merchandise as the only rule of being “part of the family”, this naturally also including the packaging. Set up in Japan, today Muji has many sales outlets in London and Paris. The Ikea brand can be considered as one of the archetypes of the minimal pack, what is more applied to a field, that of furnishing, that has always had a troublesome relationship with packaging, in general for good reason; objectively though its minimalism has never ever turned into seduction. Against this there is a piece of furnishing history, the UP5 armchair designed in 1969 by Gaetano Pesce for B&B, the primary packaging of which, a PVC film within which the armchair was sealed
and vacuum compressed like a slice of processed cheese, played a leading role in the overall product. Once you opened the PVC bag, the air returned slowly to the cells of the foam and the armchair once more took shape. Minimalism, the reduction of shape and material, the skilful use of technological features, for example vacuum technology, in the end become metaphors for the skin of the product that can be shown direct to the customer overcoming the medium of the packaging as occurred in the past. The same result can even be attained by going in the reverse direction, as Nestlé did with their Polos and with mini Smarties. Here it can in fact be shown how packaging can also die due to an excessive presence, by the will to inform on a gigantic level. We have an example in the tale The purloined letter by Edgar Allan Poe, in which the Queen’s letter is “hidden” by placing it where it can be seen most (the embarrassing document is “hidden” by simply putting it there where it can be seen, amidst other innocent missives). In the same way the gigantic Polo in white polypropylene, that contains the actual small sweets, disappears to our eyes as packaging and becomes a precious and seductive testimonial of the product philosophy. It is hard to find someone who has had the courage to throw away this little/great piece of everyday pop art. But if the merchandise burst in like bodies on the commercial scene, it goes without saying that they will also end up as coming under the tough law of life and death. However there is someone who has seriously decided to play with death, finally breaking down one of the greatest taboos in merchandising. We are speaking of the “adbuster group”, the subversives of global trade that for some years
23
Certainly still too little to start talking about the beginning of the end, but a precise indication as to the way to be taken: packaging, that up to then had been a purely functional container for merchandise, at the most decked with appealing graphics so as to be eye-catching, was on the point of changing into a sort of crystal ball where the consumer was not shown the real world (which we have before our eyes) but the fantastic
universe of the paradisian sensations of merchandise. A sort of tongue-twister of images in which one could lose oneself, at least up until their metamorphosis into waste. Every product has followed its own way, but for many of them the death of the wrapping was an obligatory stage in the process of transformation. Some emblematic examples are the Comme des Garçons perfume bottles: oval in clear glass, set down like rocks, closed by small anonymous black tops; the flacons were hermetically sealed in transparent vacuum bags. Today some five years on, the same bottle is covered in a candid white crotchet vestment bearing a set of wings. The “stone” and its new dressing are once again throttled by a vacuum pack.
1/02
1/02
The leading lights of the mythical images pertaining to commerce, colored, sensual and attractive packaging, that convert the shelves of the supermarkets into psychedelic Wunderkammer, have for some years now been undergoing a slow but radical change. A process that probably already began in the eighties when, while all the same in some sectors such as perfumery but not only that, the imperative was to “amaze”, some packaging already launched timid signs of change. That was just before the launch of the provocative female busts with girdles of the perfumes of Jean Paul Gaultier. At the same time Oréal launched its new line for the young of its hair products Studio Line, with containers clear-cut and simple in their shape, with colored minimalist graphics that stand as clear quotations of Mondrian’s primary squares.
shopping bag
shopping bag
24
1/02
now, every year organise a “no-buy day” as a sign of protest against prevailing consumerism. The unwilling tool of one of their shock campaigns has been the camel that for many years now, has promoted Camel cigarettes. In its honour an alter ego has been created, that in truth, is not in the best of health, called Joe Chemo, that has in fact become one of the leading lights of the anti advertising campaign invented by adbuster. As the name suggests, the poster contains a comic strip with a camel with flebos inserted in its body as it wanders around, with its eyes half-shut, along the hospital corridors: the image suggests that, after having smoked so much, Joe Chemo is now dangerously ill and is about to end his days. It is clear that the death of the camel would
immediately mark the death of one of the most famous packaging items in the world. In October of the year 2000 on the adbuster’s Internet sight bore the request for contributions be able to purchase a large space in order to be able to display Joe Chemo. But already then the cigarette producers had unleashed their legal campaign. To this date we do not know whether the market of the force of the image has won. All the same death is a prelude to the advent of something new, perhaps unexpected, but not for this necessarily horrendous. So, rather than viciously attacking those that have chosen to give voice to a cardboard camel, the companies might do well to deal with the cultural mutations if, also in the future, they wish that their cans continue to be part of our everyday fantasies.
Maria Gallo, designer; she writes on packaging and the culture of objects for the Italian newspaper
L’Unità.