Impackt 1/2002

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Spedizione in a. p. - 45% art. 2 comma 20/b legge 662/96 Filiale di Milano - Taxe perçue (Tassa riscossa) CMP2 Roserio Milano (â‚Ź 11)



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Impackt: Prima e Dopo L’editore

E come ogni fenomeno culturale, come ogni elemento antropologico, rivendica una propria autonomia. Strumento per comprendere e spiegare la contemporaneità, si è trasformato nell’uso quotidiano da prodotto industriale a mezzo attraverso il quale ci relazioniamo con le merci, con il consumo, con il mondo. E ora nella sua ovvietà, nel suo essere sotto gli occhi di tutti, ammicca alludendo a nuovi sensi e a nuovi significati. Ce n’è a sufficienza per far nascere il sospetto che non se ne sappia abbastanza. Impackt è così dedicata agli uomini di marketing, agli addetti ai lavori, ai packaging designer, al mondo accademico, a tutti quelli che sono curiosi di scoprire le innumerevoli implicazioni del packaging. Impackt vuole tentare il racconto, la “polaroid” scattata con fare amatoriale, il “turismo casuale” della scatola strana, del flacone incongruo, dell’incarto-scarto. Vuole dar corso a un’impresa che sappia restituire implacabilmente la realtà, senza accelerazioni, né colonna sonora, senza tagli e montaggi, senza camuffamenti. Un’impresa… come non ce n’è!

Stefano Lavorini

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Piaccia o non piaccia, il packaging è diventato il nuovo linguaggio universale della società dei consumi. E Impackt è la rivista che intende mettere l’accento sulla capacità dell’imballaggio di parlare a tanti, a tutti, anche se con accenti sempre diversi. Certo, può variare il significato, se consideriamo la distanza che separa lo smaliziato consumatore occidentale (egli guarda la confezione, si convince e prende nota magari di una scelta sbagliata) e la bambina di una qualsiasi bidonville (che, alla vista di un comune contenitore, associa la semplice speranza di un pasto). Può variare il significato… ma il significante - l’imballaggio - resta in ogni caso un mezzo potente di comunicazione che, di volta in volta, parla di bellezza, di qualcosa di impalpabile come un gusto e un profumo, o ancora, di una speranza, che al di là delle brutture dei tempi ci riporti a un mondo migliore, smentendo così la funzione utilitaristica del prodotto, per conferirgli le caratteristiche insospettabili del desiderio. L’imballaggio però non solo nobilita, non solo dà concretezza alle nostre necessità e alle nostre curiosità, ma si fa complice delle nostre ansie, consentendoci un ordinato assortimento di derrate, sempre pronte in attesa di imprevisti o, a piacere, di tempi peggiori. Ecco, come stanno oggi le cose. Ecco perché, ben oltre la matericità dei prodotti e la fisicità dei processi produttivi, il packaging per Impackt è segno da interpretare, fenomeno da indagare, mezzo espressivo da condividere.


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Impackt: Before and After

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The Publisher

Whether you like it or not, packaging has become the new universal language of the consumer society. And Impackt is the magazine that intends emphasising the capacity that packaging has to speak to many, to all, even if the accent is forever changing. Certainly the meaning may vary, if we consider the distance that separates the shrewd western consumer (who looks at the pack, is convinced and then perhaps realises he/she has made a wrong choice) and the child of a thirdworld slum (for whom the sight of any container simply means the hope of a meal). The meaning may change...but the signifier - the packaging - at any rate remains a powerful means of communication that, as the occasion has it, speaks of beauty, of something as impalpable as a flavour or scent. Again it may speak of hope that, going beyond the ugly times we live in, brings us back to a better world, thus toning down the utilitarian function of the product, confering on it the unexpectable feature of desire. Packaging though does not only nobilitate our needs and our curiosities, making them more concrete; it is an accomplice to our anxieties, enabling us to keep a varied assortment of food rations, always ready for the unexpected or should times get worse. This is how things stand today. This is why, well beyond the material nature of the products and the physical nature of the production process, for Impackt packaging is a sign to be interpreted, a phenomenon to be looked into, an

expressive means which we should go along with, playing on crossing and combining different areas of knowledge be these theoretical, literary, artistic, technical... And like every cultural phenomenon, like every anthropological element, it demands its own independence. Tool for comprehending and explaining the contemporary run of things, it has been transformed in its daily use from industrial product to a means by which we relate to goods, to consumption, to the world in general. And now in its obviousness, in its being under everybody’s gaze, packaging draws us to it alluding to new sense and new meaning. This is enough to arouse the suspicion that we as yet do not know enough about it. Impackt is thus dedicated to the marketing men, to those who work in the business, to the packaging designer, to the academic world, to all those who wish to discover the new packaging landscapes, be these real or mental. Impackt is an attempt at telling the tale, it is an amateur snap-shot, a chance encounter with a strange can, a weird bottle, an account of wrapping and unwrapping. It wishes to give rise to an undertaking that is implacably capable of restoring reality, without speeding things up, without backing music, without cuts or splices, without ploys. An undertaking.... quite unlike anything that has existed to date!

Stefano Lavorini


Il nostro non è un

semplice lavoro di macchine, piuttosto si sostanzia nell’abilità di interpretare le esigenze degli utilizzatori. Su questo fondamento si è costruita la Cartografica Pusterla che con il passare degli anni è cresciuta fino all’acquisizione della francese Coffrets Creation.

S O L O A S T U C C I E S C AT O L E R I V E S T I T E Rafforza così la propria posizione nel comparto delle confezioni di lusso: cristalli e porcellane, vini e liquori, profumi e cosmetici. Tutto questo significa rapidità di risposta, creatività, flessibilità, adattabilità della produzione, per un’offerta di qualità che spazia dagli astucci di cartoncino

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GUIDA TURISTICA ATTRAVERSO I PANORAMI REALI E MENTALI DEL PACKAGING TOURIST GUIDE TO THE REAL AND SPIRITUAL LANDSCAPES OF PACKAGING

I N

Q U E S T O

N U M E


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user instructions Il Packaging Pensante Sonia Pedrazzini, Marco Senaldi

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shopping bag Pack is Not Dead Maria Gallo

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warning! Pack-Man 124 Marco Senaldi

container Viaggio al Mercato Franco La Cecla

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warning Contenitori Liquidi 137

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tools Per Aprire Schiantare 138 con Rabbia Tiziano Scarpa shopping bag Prada: il Grado Zero 144 del Packaging

E R O - 1 / 0 2 identi-kit Antoni Muntadas: il Packaging come Medium Marco Senaldi shopping bag L’invisibile Involucro Sonia Pedrazzini identi-kit Dana Wyse’s Toys Dana Wyse

identi-kit Droog: Contenuti e 110 Contenitori del Design Oscar Van Ogtrop

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identi-kit Imbottigliature 152 Sonia Pedrazzini

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tools La Merce Invenduta Piange 164 Aldo Nove

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tools Pelle di Pellicola 170 Gianni Canova book box 174

warning! Ontologia di un Bidone della Spazzatura Antonio Caronia

72

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portfolio Photo Erica Ghisalberti

91

... e ancora Cigarette Papers Be Somebody Idea Odeur Fuggevole Turchese Linea Debord

8 12 15 25 60 97

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tools A scuola di Packaging: Istituto Europeo di Design

P E N S A N T E

tools Il Nulla sotto forma di Qualcosa Marco Senaldi

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P A C K A G I N G

psychopackaging Objet petit a Antonio Piotti

acceleration Impackt: Prima e Dopo Stefano Lavorini

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P A C K A G I N G T H I N K I N G

acceleration Impackt: Before and After Stefano Lavorini

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user instructions The Thinking Packaging Sonia Pedrazzini, Marco Senaldi

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identi-kit Purpose and Purport 110 Oscar Van Ogtrop

shopping bag Pack is Not Dead Maria Gallo

16

warning! Pack-Man 124 Marco Senaldi

container A Trip to Market Franco La Cecla

26

warning Liquid Containers 137

34

tools Smash in Anger to Open 138 Tiziano Scarpa

tools X-Fresh. Nothing under the Shape of Nothing Marco Senaldi identi-kit Antoni Muntadas: Packaging as a Medium Marco Senaldi

psychopackaging Objet petit a Antonio Piotti

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shopping bag The Zero Degree 144 of Packaging 38 identi-kit Bottling 152 Sonia Pedrazzini

shopping bag The Invisible Wrapping Sonia Pedrazzini

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tools The Unsold Goods Cry 164 Aldo Nove

identi-kit Dana Wyse’s Toys Dana Wyse

62

tools Skin of Film 170 Gianni Canova

warning! Ontology of a Dustbin Antonio Caronia

72

book box 174

tools School of packaging Istituto Europeo di Design

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portfolio Photo Erica Ghisalberti

91

... and more Cigarette Papers Be Somebody Idea Odeur Fuggevole Turchese Linea Debord

8 12 15 25 60 97


colophon

Direttore responsabile Direzione editoriale

Stefano Lavorini Sonia Pedrazzini, Marco Senaldi (impackt@dativo.it)

Condirettore

Luciana Guidotti

Ricerca immagini e fotografia

Erica Ghisalberti

Hanno collaborato

Ringraziamenti

Redazione Segreteria di redazione Segreteria Ufficio tecnico Progetto grafico Impaginazione Traduzioni Fotolito e Stampa Numero

Gianni Canova, Antonio Caronia, Antonio De Pascale, Maria Gallo, Erica Ghisalberti, Franco La Cecla, Antoni Muntadas, Aldo Nove, Antonio Piotti, Tiziano Scarpa, Oscar van Ogtrop, Dana Wyse Galleria Rebecca Container, Genova; Dario Accanti; Giovanna Delfino; Franco Ferrero; Silvana Zabel e Maurizio Vallese; Cesare Pietroiusti; Alessandra Pioselli; Patrizia Ledda; Federica Cimatti; Jean Paul Corbeil; Emanuela e Eleonora di Paris-Hollywood, Piacenza Daniela Binario, Elena Piccinelli Ilaria Molteni Leila Cobianchi Massimo Conti Erica Ghisalberti, Vincenzo De Rosa Vincenzo De Rosa (Studio Grafico Page - Novate Milanese, MI) Dominic Ronayne, Katy Moore, Alan Tankard Àncora S.r.l. - via B. Crespi 30, 20159, Milano 1/2002 - anno 1 Registrazione del Tribunale di Milano n. 14 del 14/01/2002. Iscrizione nel Registro degli Operatori della Comunicazione n. 4028 Spedizione in a.p.- 45%- art. 2 comma 20/b legge 662/96 - Filiale di Milano Una copia Euro 11- Arretrati Euro 22

Periodicità: Abbonamento per un anno:

quadrimestrale Italia Euro 25 - Estero Euro 50 La riproduzione totale o parziale degli articoli e delle illustrazioni pubblicati su questa rivista è permessa previa autorizzazione della Direzione. La Direzione non assume responsabilità per le opinioni espresse dagli autori dei testi redazionali e pubblicitari

Redazione, Direzione, Amministrazione, Diffusione e Pubblicità

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Advertising Manager

Edizioni Dativo Srl Via B. Crespi, 30/2 - 20159 Milano Tel. 02/69007733 - Fax 02/69007664 impackt@dativo.it http://www.dativo.it Bruno Nazzani (sales@dativo.it) SOCIO EFFETTIVO

A.N.E.S.

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE EDITORIA PERIODICA SPECIALIZZATA


CIGARETTE PAPERS, 1998 UN ESEMPIO DI PACKAGING PENSANTE: THORSTEN KIRCHHOFF, ARTISTA DANESE RESIDENTE A ROMA, RIDISEGNA LE CONFEZIONI DELLE POPOLARI “CARTINE DI SIGARETTE” NELLO STILE DI CERTI FILM NOIR ANNI ’50. AN EXAMPLE OF THINKING PACKAGING. THORSTEN KIRCHHOFF, DANISH ARTIST RESIDENT IN ROME, HAS REDESIGNED THE PACKS OF THE POPULAR “CIGARETTE CARDS” IN THE STYLE OF CERTAIN MURDER FILMS OF

Photo by Antonello Ionda

THE FIFTIES.



user instructions

Il Packaging Pensante

Il packaging, che una volta era chiamato imballaggio e serviva semplicemente a contenere e proteggere prodotti, è lo sconosciuto sotto gli occhi di tutti. È l’oscuro oggetto (tutto da chiarire) dei nostri “presunti” desideri; e non solo di quelli materiali. È la delizia, ma anche il tormento, dell’umanità intera.È il modo con cui creiamo un legame d’amore, oppure di odio, con le merci; e con cui le merci ci rendono perdutamente, irrimediabilmente, fatalmente, schiavi di loro stesse. Gli aspetti per noi più importanti delle cose sono nascosti dalla loro semplicità e quotidianità. Non ce ne possiamo accorgere, perché li abbiamo sempre sotto gli occhi.

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Ludwig Wittgenstein

Nel tempo l’imballaggio si è trasformato in packaging, un sistema di segni che riveste la merce e la configura al punto tale che molte “cose”, dal software allo shampoo, dalla crema per calzature alle sigarette, non sarebbero più le stesse se non avessero proprio “quella confezione”. Ma il packaging definisce anche il nostro modo di fare esperienza; è un’interfaccia conoscitiva, un mass-medium tramite cui non solo assumiamo delle informazioni, ma con cui ci formiamo un gusto, esprimiamo un giudizio, costruiamo un immaginario. Per tutti questi motivi, il packaging costituisce uno degli elementi che scandiscono il “folklore” dell’uomo postindustriale e va considerato come una forma di cultura. Non è un caso che gli artisti, dai tempi della pop art alle attuali tendenze postconcettuali, si siano interessati al packaging come a una delle forme della cultura popolare, attratti dalla sua grafica, dalla sua massiccia diffusione, dalla sua forza persuasiva. E non è nemmeno casuale il fatto che

il packaging attuale, pur dominando saldamente gli scaffali dell’ipermercato, si sia anche trasferito in ambiti mediali diversi, diventando protagonista, ad esempio, di un videoclip dei Blur; oppure lasciandosi fotografare su riviste di tendenza, come fosse una star; o ancora occhieggiando dalle pagine di narratori contemporanei (si pensi, tra gli altri, al romanzo Shopping di Sophie Kinsella o infine assumendo il valore di metafora come in campagne pubblicitarie dove i servizi finanziari o assicurativi sono presentati in sembianze di “prodotti” confezionati o come la campagna Omnitel estate 2001 in cui la bottiglia di una bibita immaginaria, serve a pubblicizzare il servizio summer card. Imapckt è una sorta di “guida turistica” attraverso i panorami reali e mentali del packaging ed è anche l’ambizione di descrivere una vera e propria packaging culture secondo un taglio obliquo che incroci differenti saperi (teorici, letterari, artistici, antropologici…) attorno a un tema centrale, diverso per ogni numero, sull’imballaggio e sui suoi molteplici significati. Questo primo numero raccoglie testimonianze diverse e casi emblematici, come quelli di Lush o di Prada Beauty, su come il packaging non ridefinisce più se stesso a partire dalle proprie forme ma a partire dalle idee, dai concetti, dalla filosofia soggiacente – quasi una rivoluzione culturale in cui il packaging assume il ruolo di oggetto non solo pensato, ma anche pensante.

Sonia Pedrazzini Marco Senaldi


Thinking Packaging

Packaging, once called “imballaggio”, “emballage” or even “Verpackung” or whatever, depending on the language you speak, and that simply fulfilled the function of containing and protecting products, is the stranger under everyone’s gaze. It is the obscure object of our “apparent” desires; and not only our material ones. It is the delight but also the torment, of all humanity. It is our way of forming a bond of love - or of hate - with merchandise; and by way of which the merchandise makes us totally, irremediably, fatally, slaves of the same. In time packaging has turned into a system of signals that clothe the goods and configure them to the point that many “things”, from software to shampoo, from shoe polish to cigarettes, wouldn’t be the same if they didn’t have “that pack”. But packaging also defines our experience; it’s a real form of cognitive interface, a mass-medium letting us not only absorb information, but also form tastes, express an opinion and build up an image. For all these reasons, packaging is part of the elements that make up the “folklore” of post-industrial man and should be considered as a form of culture.

The aspects of things most important to us are concealed by their simplicity and everyday nature. We are incapable of noticing them because they are always before us.

Impackt is a sort of “tourist guide” to the real and “spiritual landscapes” of packaging; it’s also the endeavour to outline a true packaging culture, cutting across different areas (theoretical, literary, artistic, anthropological...), around a central theme - a new one for each issue - of packaging and its many meanings. This first issue collects several different testimonials and case histories, such as those of Lush and Prada Beauty, showing how packaging no longer redefines itself starting with its shape, but rather from the ideas, concepts and underlying philosophy - almost a cultural revolution in which packaging not only takes on the role of an object that has been thought up, but also of one that thinks.

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Sonia Pedrazzini Marco Senaldi

Ludwig Wittgenstein

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It’s no coincidence that artists, from the times of pop art to the current postconceptual trends, are interested in packaging as forms of popular culture, attracted by their graphics, mass diffusion and force of persuasion. Neither is it by mere chance that

packaging today, although clearly dominating the hypermarket shelves, has also been transferred to different forms of the media for example, becoming the protagonist of a videoclip made by Blur; or allowing itself to be photographed in trendy magazines, as if it were a star; or again peeking out from the pages penned by contemporary narrators (just think of the novel Shopaholic by Sophie Kinsella, for instance). Meanwhile, the value of metaphor in advertising campaigns is gaining ever greater importance, where technological, financial or insurance services are presented in the form of packaged “products” (such as 2001 Omnitel’s summer campaign in Italy, where a non-existent bottle advertises the summer card).

users instructions




be somebody

philosophy: if you really want to be somebody, you don’t have to be great, you only have to be good. good people live by the golden rule, and in doing so, they become somebody to everybody. great peolple live by their own rules, which too often become self serving. therefore, don’t be great, just be good. and if you’ve got to be great, then for goodness sake, do something good. extra-rich body cream

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❋ “Be Somebody” ossia essere qualcuno, per vivere meglio. L’etichetta del flacone di crema Extra-rich Body Cream di Philosophy vorrebbe a tutti gli effetti essere un piccolo testo di filosofia in pillole.

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“Be Somebody” so as to live better. The label of the Extra-rich Body Cream by Philosophy is set out with all the intent of dispensing philosophy in small doses.


fotostatico di una definizione da vocabolario.

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The graphic concept used by Philosophy has noble predecents: perhaps harking back conceptual work of Joseph Kosuth (Idea,1965), a photostat blow-up of a dictionary definition.

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Il concept grafico utilizzato da Philosophy ha nobili antecedenti: si pensi a questa Idea, opera concettuale di Joseph Kosuth (1965), ingrandimento



shopping bag

Pack is (not) Dead Dalla poltrona sottovuoto alla “supercaramella”, è morto il packaging contenitore di merci. Il suo posto ora appartiene ad un’invisibile, ma ancora più presente, interfaccia emozionale. Maria Gallo


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shopping bag

I protagonisti assoluti del nostro immaginario commerciale, gli imballaggi colorati, sensuali e attraenti, che trasformano gli scaffali dei supermercati in psichedeliche Wunderkammer, stanno subendo, ormai da alcuni anni, una lenta ma radicale trasformazione. Un processo iniziato probabilmente già negli anni ‘80 quando, sebbene in alcuni settori come la profumeria, ma non solo, l’imperativo fosse “stupire”, alcuni imballaggi lanciavano già dei timidi segnali di cambiamento. Di lì a poco infatti sarebbero nati i provocanti busti femminili in guêpière dei profumi di Jean Paul Gaultier. Contemporaneamente, l’Oréal lanciava la sua linea giovane di prodotti per i capelli, Studio Line, i cui contenitori, semplici e puliti nella forma, mostravano una grafica tanto colorata quanto minimalista, chiara citazione dei quadrati primari di Mondrian. Ancora poco, certo, per parlare di inizio della fine, ma un’indicazione precisa sulla strada da percorrere: il packaging, che fino ad allora era stato un contenitore puramente funzionale delle merci, al massimo rivestito con una grafica più accattivante per “fare scena”, avrebbe dovuto ben presto trasformarsi in una sorta di sfera magica con cui mostrare al consumatore non certo il mondo reale (l’abbiamo già sotto i nostri occhi) ma il fantastico universo delle paradisiache sensazioni merceologiche. Una sorta di scioglilingua di immagini in cui perdersi, per lo meno fino al momento della loro metamorfosi in rifiuto. Ogni prodotto ha seguito la sua strada, ma per molti di essi la morte dell’involucro è stata quasi una tappa obbligata nel processo


shopping bag

di trasformazione. Alcuni esempi piuttosto emblematici sono le bottiglie di profumo di Comme des Garçons: ovali in vetro chiaro, adagiati come sassi, chiusi da piccoli tappi neri e anonimi; i flaconi erano ermeticamente sigillati in buste trasparenti sottovuoto. Oggi, a distanza di quasi cinque anni, la stessa bottiglia è rivestita con un candido abitino bianco lavorato all’uncinetto da cui partono anche un paio d’ali. Il “sasso” e il suo nuovo abito sono ancora strozzati nella confezione sottovuoto.

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Già nel 1985 la vodka Absolut lanciava l’operazione che, da allora, coinvolge centinaia di artisti e designer di tutto il mondo per reinventare, all’infinito, la sua anonima bottiglia. In questo modo è nato una specie di network artistico a cui il consumatore partecipa non solo visitando le mostre itineranti, ma anche acquistando la vodka. Eppure oggi, questo emblematico prodotto, sta lanciando nuovi segnali. Nelle ultime pubblicità infatti la bottiglia è presente in tutta la sua “normalità”

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Apparente anonimato anche per le confezioni dei prodotti di Body Shop, Lush o Shu Uemura, che da alcuni anni vendono i loro saponi, creme, ombretti e ciprie in scatoline trasparenti, in flaconi e vasetti standard o addirittura “al chilo” cioè sfusi, come fino a quarant’anni fa accadeva per la pasta o lo zucchero. Evidentemente, per alcune aziende, il valore del marchio e del mondo costruito intorno ad esso, è diventato più importante del

singolo prodotto. Così il packagingprotagonista si è trasformato in packaging-strumento attraverso il quale il consumatore accede al mondo del brand. Insomma nell’era dell’accesso descritta da Jeremy Rifkin come la grande rivoluzione per cui, nella new economy, più che possedere un bene, sarà sempre più importante accedere a un servizio (sia esso l’abbonamento a un internet provider o un’automobile da usare per tre giorni al mese) sarebbe già iniziata da un po’ e noi non ce ne siamo accorti.


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e con un’esposizione quasi asettica nella sua finta funzionalità, alcune didascalie, con relativa freccetta, spiegano al consumatore il significato di ogni scritta, simbolo o immagine presente sulla bottiglia. Citazione o inversione di tendenza? E’ troppo presto per dirlo. Del resto “l’asettico” è una delle categorie più sfruttate negli imballaggi in marcia verso la trasformazione. Una categoria dalla presenza scenica tanto forte da ispirare persino la creazione di veri e propri imperi commerciali. Marchi no-brand come Muji, la catena nipponica di negozi che vendono un po’ di tutto, dalla birra alle sedie all’abbigliamento, nata nel 1980 con lo slogan “tante buone ragioni per essere abbordabile”, impone come unica regola per essere “della famiglia” il minimalismo integralista della merce e, naturalmente, anche del packaging. Nata in Giappone, oggi Muji ha molti negozi anche a Londra e Parigi. Il marchio Ikea può forse essere considerato uno degli antesignani del minimal-pack, per di più applicato ad un campo, come l’arredamento, che ha sempre avuto, a ragione, un rapporto poco amichevole con gli imballaggi in genere; obiettivamente però il suo minimalismo non è mai riuscito a diventare seduzione. Al contrario c’è un pezzo storico dell’arredamento, la poltrona UP5 disegnata nel 1969 da Gaetano Pesce per B&B, il cui packaging primario, un film di PVC dentro cui l’imbottito era sigillato e compresso sottovuoto come un’enorme sottiletta, partecipava attivamente al progetto complessivo. Una volta aperto il grande sacchetto in PVC, l’aria rientrava lentamente tra le celle dell’espanso e la poltrona riprendeva corpo. Il minimalismo, la riduzione di


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Maria Gallo è designer; scrive di packaging e di cultura degli oggetti per L’Unità.

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organizzano i “no-buy day” come segno di protesta contro il consumismo imperante. L’involontario strumento di una delle loro campagne shock è stato il dromedario che da tanti anni, suo malgrado, promuove le sigarette Camel. In suo onore è stato creato un alter ego che, per la verità, non gode di ottima salute. Si tratta di Joe Chemo, diventato, appunto, uno dei protagonisti delle anticampagne pubblicitarie inventate dagli adbuster. Come suggerisce il nome, nel manifesto compare il fumetto di un dromedario con delle flebo inserite nel corpo mentre girovaga, con lo sguardo spento, per i corridoi di un ospedale: l’immagine suggerisce che, dopo averne fumate tante, Joe Chemo ora sia gravemente malato e che si stia avvicinando la fine dei suoi giorni. E’ chiaro che la morte del dromedario segnerebbe, immediatamente, la morte di uno dei packaging più noti al mondo. Nell’ottobre del 2000, sul sito internet degli adbuster, si chiedeva di partecipare alla raccolta dei fondi per poter acquistare un grande spazio pubblicitario in cui affiggere il manifesto con Joe Chemo. Ma già allora s’era scatenata la battaglia legale da parte dei produttori delle sigarette. Non sappiamo se, a tutt’oggi, abbia vinto il mercato o la forza delle immagini. La morte, comunque, prelude sempre all’inizio di qualcosa di nuovo, magari inatteso, ma non per questo orrorifico. Allora, più che accanirsi contro chi sceglie di dare voce a un dromedario di cartoncino, forse le aziende farebbero bene ad occuparsi delle mutazioni culturali se, anche in futuro, vorranno continuare a far parte, con le loro lattine, delle nostre fantasie quotidiane.

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forma e materia, il sapiente utilizzo di particolari tecnologie, ad esempio un sottovuoto, diventano insomma metafore per la pelle dei prodotti che possono mostrarsi direttamente al consumatore oltrepassando il medium dell’imballaggio come era concepito in passato. Lo stesso risultato si può raggiungere persino percorrendo la strada in maniera diametralmente opposta, come ha fatto la Nestlè con le caramelle Polo e con i mini Smarties. Si mostra qui infatti come il packaging possa morire anche per eccesso di presenza, per gigantismo informativo. Come accade nel racconto La lettera rubata di Edgar Allan Poe, in cui la lettera della Regina è “occultata” mettendola in bella mostra (l’imbarazzante documento viene “nascosto” collocandolo semplicemente là dove più lo si può vedere, tra altre innocenti missive), l’ipercaramella Polo in polipropilene bianco, che racchiude le piccolissime caramelline reali, scompare infatti ai nostri occhi come packaging e diventa un prezioso e seducente testimonial della filosofia del prodotto. Difficile trovare qualcuno che abbia avuto il coraggio di buttare via questo piccolo/grande pezzo di pop art quotidiana. Ma se le merci irrompono come corpi nel paesaggio commerciale, va da sé che finiranno col sottoporsi anch’esse alla dura legge della vita e della morte. C’è qualcuno infatti che con la morte ha deciso di giocarci davvero, abbattendo finalmente uno dei massimi tabù merceologici. Parliamo del gruppo degli adbuster, quei sovversivi del commercio globale che, da qualche anno, tutti gli anni,


shopping bag

Pack is (not) Dead From the vacuum packed armchair to the “supercandy”, packaging as a container of goods is dead. Its place has now been taken up by an invisible, but at the same time even more present emotional interface. Maria Gallo

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The leading lights of the mythical images pertaining to commerce, colored, sensual and attractive packaging, that convert the shelves of the supermarkets into psychedelic Wunderkammer, have for some years now been undergoing a slow but radical change. A process that probably already began in the eighties when, while all the same in some sectors such as perfumery but not only that, the imperative was to “amaze”, some packaging already launched timid signs of change. That was just before the launch of the provocative female busts with girdles of the perfumes of Jean Paul Gaultier. At the same time Oréal launched its new line for the young of its hair products Studio Line, with containers clear-cut and simple in their shape, with colored minimalist graphics that stand as clear quotations of Mondrian’s primary squares. Certainly still too little to start talking about the beginning of the end, but a precise indication as to the way to be taken: packaging, that up to then had been a purely functional container for merchandise, at the most decked with appealing graphics so as to be eye-catching, was on the point of changing into a sort of crystal ball where the consumer was not shown the real world (which we have before our eyes) but the fantastic

universe of the paradisian sensations of merchandise. A sort of tongue-twister of images in which one could lose oneself, at least up until their metamorphosis into waste. Every product has followed its own way, but for many of them the death of the wrapping was an obligatory stage in the process of transformation. Some emblematic examples are the Comme des Garçons perfume bottles: oval in clear glass, set down like rocks, closed by small anonymous black tops; the flacons were hermetically sealed in transparent vacuum bags. Today some five years on, the same bottle is covered in a candid white crotchet vestment bearing a set of wings. The “stone” and its new dressing are once again throttled by a vacuum pack. Apparent anonymity also for the pack for the Body Shop, Lush or Shu Uemura products, that for some years now have been selling their soaps, creams, eye shadows and powers in transparent cases, in standard flacons and jars or even by the kilo or that is loose, as was the case forty years ago for pasta and sugar. Evidently, for some companies, the value of the brand and the world built around it has become more important than the single product. Thus the packaging protagonist has been converted into a packaging-tool by way of which the consumer accesses the world or brands. This means that the era of access described by Jeremy Rifkin as the great revolution by which, in the new economy, more than possessing an item of goods, it will be evermore important to get to a service (be this a subscription to an Internet provider or a car to be used three days a week) could already be said to have begun, only we haven’t noticed it yet. Already in 1985 Vodka Absolut launched an operation that, from then on has involved


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hundreds of artists and designers from all around the world in order to reinvent to infinity their anonymous bottle. In this way a sort of artistic network has been set up where the consumer not only takes part by visiting itinerant exhibitions, but also by buying the vodka. Even so today, this emblematic product, is launching new signs. In the latest advertising in fact the bottle is present in all its “normality”, offering an almost aseptic showing of its sham functionality: some captions, with relative arrows, explain to the consumer the meaning of each writing, symbol or image present on the bottle. Quotation or an about-turn in trends? It is too early to say.

Minimalism, the reduction of shape and material, the skilful use of technological features, for example vacuum technology, in the end become metaphors for the skin of the product that can be shown direct to the customer overcoming the medium of the packaging as occurred in the past. The same result can even be attained by going in the reverse direction, as Nestlé did with their Polos and with mini Smarties. Here it can in fact be shown how packaging can also die due to an excessive presence, by the will to inform on a gigantic level. We have an example in the tale The purloined letter by Edgar Allan Poe, in which the Queen’s letter is “hidden” by placing it where it can be seen most (the embarrassing document is “hidden” by simply putting it there where it can be seen, amidst other innocent missives). In the same way the gigantic Polo in white polypropylene, that contains the actual small sweets, disappears to our eyes as packaging and becomes a precious and seductive testimonial of the product philosophy. It is hard to find someone who has had the courage to throw away this little/great piece of everyday pop art.

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But if the merchandise burst in like bodies on the commercial scene, it goes without saying that they will also end up as coming under the tough law of life and death. However there is someone who has seriously decided to play with death, finally breaking down one of the greatest taboos in merchandising. We are speaking of the “adbuster group”, the subversives of global trade that for some years

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What is more “the aseptic” is one of the categories that is most exploited in the packaging marching towards transformation. A category with scenic presence strong enough even to inspire the creation of true and proper commercial empires. Non brands such as Muji, the Japanese shopping chain that sells a bit of everything, from beer to chairs to clothing, created in 1980 with the slogan “lots of ways of taking your fancy”, imposes the overall minimalism of the merchandise as the only rule of being “part of the family”, this naturally also including the packaging. Set up in Japan, today Muji has many sales outlets in London and Paris. The Ikea brand can be considered as one of the archetypes of the minimal pack, what is more applied to a field, that of furnishing, that has always had a troublesome relationship with packaging, in general for good reason; objectively though its minimalism has never ever turned into seduction. Against this there is a piece of furnishing history, the UP5 armchair designed in 1969 by Gaetano Pesce for B&B, the primary packaging of which, a PVC film within which the armchair was sealed

and vacuum compressed like a slice of processed cheese, played a leading role in the overall product. Once you opened the PVC bag, the air returned slowly to the cells of the foam and the armchair once more took shape.


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now, every year organise a “no-buy day” as a sign of protest against prevailing consumerism. The unwilling tool of one of their shock campaigns has been the camel that for many years now, has promoted Camel cigarettes. In its honour an alter ego has been created, that in truth, is not in the best of health, called Joe Chemo, that has in fact become one of the leading lights of the anti advertising campaign invented by adbuster. As the name suggests, the poster contains a comic strip with a camel with flebos inserted in its body as it wanders around, with its eyes half-shut, along the hospital corridors: the image suggests that, after having smoked so much, Joe Chemo is now dangerously ill and is about to end his days. It is clear that the death of the camel would

immediately mark the death of one of the most famous packaging items in the world. In October of the year 2000 on the adbuster’s Internet sight bore the request for contributions be able to purchase a large space in order to be able to display Joe Chemo. But already then the cigarette producers had unleashed their legal campaign. To this date we do not know whether the market of the force of the image has won. All the same death is a prelude to the advent of something new, perhaps unexpected, but not for this necessarily horrendous. So, rather than viciously attacking those that have chosen to give voice to a cardboard camel, the companies might do well to deal with the cultural mutations if, also in the future, they wish that their cans continue to be part of our everyday fantasies.

Maria Gallo, designer; she writes on packaging and the culture of objects for the Italian newspaper

L’Unità.


Odeur 71

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Elettricità Metallo Ufficio Vegetale Minerale Queste sono alcune delle impressioni suscitate da Odeur 71 di Comme des Garçons: nato da un’idea totalmente nuova, non è un profumo tradizionale, è un vero e proprio universo olfattivo.

L’odorato della polvere di una lampada calda, di toner caldo di una fotocopiatrice, di metallo caldo, di un tostapane, dell’inchiostro della tua penna stilografica, della punta della matita appena temperata, del gusto salato di una batteria, dell’odore dell’incenso che brucia con l’essenza di incenso naturale, il profumo di legno e muschio di salice, l’olmo e le foglie di bambù appena tagliate, pepe bianco, un tocco di giacinto, e succo di lattuga

Electricity, Metal, Office, Vegetable, Mineral, The smell of dust, of a hot lamp, of hot toner from a photocopier, of hot metal, of a toaster, of the ink of your fountain pen, of the point of a pencil that has just been sharpened, the salty taste of a battery, the smell of incense that burns, with the essence of natural incense, the scent of wood and willow musk, of elm and freshly cut bamboo leaves, white pepper, a touch of hyacinth, and lettuce juice These are some of the impressions aroused by Odeur 71 by Comme des Garçons: born out of a totally new idea, it is not a traditional perfume, it is a true and proper universe of the olfactory senses.


Viaggio al Mercato Cosa c’era prima del consumismo? Cosa c’era prima della pubblicità e delle boutique, prima che le merci diventassero abili adescatrici avvolte in suadenti confezioni? Uno stato di originaria nudità degli oggetti? Un mondo selvaggio in cui la gente barattava del sale in cambio di datteri? Testo e foto di Franco La Cecla



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In realtà prima del “grande mercato” contemporaneo c’erano già i mercati, in Oriente come in Occidente, i mercati di strada e i mercati coperti, i bazar. Al mercato, le merci non solo facevano bella vetrina di sé ma venivano spesso consegnate ai clienti rivestite di qualcosa che segnava il passaggio di mano. L’idea di consegnare a qualcuno un oggetto che viene caricato di importanza perché avvolto, fasciato, protetto, nascosto è antica come è antica la pratica del dono e dell’omaggio. La confezione è il vestito di un oggetto che viene passato di mano. Serve a nascondere l’oggetto e a fare risaltare la transazione. Lo spago con cui serro, il nastro con cui avvolgo, la carta o la scatola con cui proteggo sono maniere di fare prevalere “il pensiero” sull’oggetto. Quando si dice “basta il pensiero” a qualcuno che ha

dimenticato di portare un regalo, si allude alla stessa cosa. La confezione è il pensiero dell’oggetto, il trascenderne la materialità per dare risalto alla transazione, a quello che le cose “fanno” alle persone e tra le persone. Ci sono ancora mercati in cui è diffusa la cultura della confezione delle merci. Uno dei più elaborati in Italia, come sistema di riferimenti e rimandi, è il mercato popolare di Palermo, intendendo con questo non solo la sua parte più tradizionale di “strada”, la Vucciria, Ballarò, il Capo, l’Albergheria, ma anche tutta la cultura della vendita al dettaglio che riguarda soprattutto gli alimenti. A Palermo c’è una sedimentata tradizione dell’ “avvolgere” che ha luogo al momento dell’acquisto dei prodotti alimentari: verdurai (fruttivendoli), carnezzieri (macellai), pescivendoli, forni, (panifici), gelatai, laboratori (pasticceri). Quando


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“l’avventore” - che è cosa diversa dal “cliente” perché si tratta di “chi abitualmente si serve in una bottega o dell’opera di un artefice” (dizionario Palazzi) - acquista un chilo di arance o di susine, sa che ha diritto a portarsele via avvolte nel modo più consono. La “consonanza” riguarda la natura della merce e la praticità del portarla via. L’avventore pretende che il venditore sappia bene quale sia il modo migliore per avvolgere la merce che lui ha appena comprato e capisce dai gesti del bottegaio se questi è un avventizio o un solido commerciante.

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Saper confezionare con i gesti giusti fa parte del rituale che rende la transazione credibile. Richiede una competenza condivisa da parte di chi vende e di chi compra. Quando ci si ferma ad osservare i gesti che fa un fruttivendolo (come quello delle foto che è Salvatore

D’Anna) al mercato della Vucciria di Palermo, ci si rende conto che la “confezione” della frutta fa tutt’uno con i gesti appropriati per sceglierla dal mucchio, che sono stati, a loro volta, preceduti dai gesti invisibili per disporla, all’alba di ogni giorno, in bella mostra sul banco. Prima di prendere ad uno ad uno i frutti, il venditore fa il gesto quasi distratto dello strappare il foglio di carta spessa e riciclata dal gancio a cui è attaccata, se lo avvolge sul braccio tenendo all’interno una mano e in un istante un cono di carta è pronto e solido, con un risvolto che ne assicura la chiusura in basso. È il cosiddetto “coppo”. Ma perché proprio un cono? Qui entriamo nel sistema delle confezioni, nell’elaborato mondo delle carte per avvolgere, dove colori e spessori, consistenze e lucidezze distinguono un involto rispetto ad un altro. Avventori e venditori lo sanno bene: qui si gioca la “distinzione” delle


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merci - proprio nel senso inteso dal sociologo francese Pierre Bourdieu come se il mercato all’aperto, col suo vociare e con le sue luci squillanti, avesse in odio la confusione delle derrate e l’incapacità di distinguerle. In Sicilia, e a Palermo in particolare, questa ossessione del distinguere, grazie alla confezione, una merce alimentare da un’altra è diventata una vera e propria arte e dà luogo a un commercio ampio e dettagliato di carte di tipi diversissimi. Il coppo, dunque, serve a “tenere” frutta, verdura e legumi, anche quelli cotti, arrostiti o bolliti, e la sua forma è perfettamente adatta a impedire che i prodotti vengano schiacciati dal proprio peso. La piramide dei pomodori o delle pere poggia a giri che vanno rastremandosi in basso e quindi spinge i pesi verso l’esterno. Ci sono coni di varie dimensioni a seconda del tipo di derrata: piccoli per le olive, più grandi per ortaggi e

verdura, più larghi “alla monrealese” (da Monreale, una località vicino a Palermo) per piccola frutta, ciliegie, albicocche, nespole, che hanno bisogno di scaricare su una base più ampia. L’altra ragione del coppo è la praticità di asporto, infatti può venire inserito sotto il braccio o può essere tenuto in una mano. Oggi viene “imbustato” in sacchetti di plastica, anche se i “veri fruttivendoli” sanno che la plastica non è la maniera migliore di asportare la frutta o la verdura, che così non respira (la carta invece è traspirante). Il coppo viene anche arricchito di una carta interna, trasparente e impermeabile, quando la frutta o la verdura “scolano”, cioè se perdono acqua, come nel caso di legumi cotti o di patate, cipolle, peperoni al forno. Una volta, un foglio di giornale illustrato avvolto intorno al coppo, serviva a isolare la manica dell’avventore dalla merce fumante.


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contenuto. Potete infatti aprire il coppo con un leggero gesto della mano e il lembo della carta che lo chiude si spalanca lasciando passare odori e fragranze e mostrando, a chi incontrate al mercato, la vostra competenza nello scegliere.

Franco La Cecla, antropologo, ha pubblicato fra l’altro: Perdersi. L’uomo senza ambiente (Laterza, 2000); Non è cosa. Vita affettiva degli oggetti (Elèuthera, 1998, con L. Vitone).

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Vi sembra che tutto ciò sia primitivo, che sia meno elaborato dello shopping che si fa oggi in un supermercato? Permettetemi di avere dei dubbi. È qui, nei mercati all’aperto, che è nata la grande cultura dell’esibire e dell’impacchettare ed è qui che si formano gli esperti dell’imballaggio di strada, siano essi avventori o venditori; al punto tale che a Palermo i supermercati, quando hanno introdotto il banco del “fresco”, dove si comprano a peso insaccati e formaggi, hanno dovuto importare dai mercati all’aperto tutta la “cultura dell’involto”.

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Oggi si preferisce un foglio di giornale “depetrolizzato”, cioè sbiancato, anche se molti venditori continuano a usare giornali e riviste strettamente in bianco e nero. Il coppo viene usato anche per derrate più minute: il cosiddetto “scaccio” cioè le noccioline, la semenza, i lupini, i semi di zucca o le fave secche da sgranocchiare per strada. Si dice che alcuni venditori di scaccio, che si avvicendano alle feste dei santi e agli angoli delle piazze con colorati carrettini su ruote, sappiano esattamente quanto “sgranocchiamento” vi serve a seconda del numero di “vasche” che volete fare (intendendo con questo termine il passeggio avanti e indietro praticato come sport nazionale in molti luoghi del Sud Italia). La filosofia del coppo non solo si rifà a considerazioni di igiene e utilità - la merce viene distinta da altre e non macchia - ma rimanda al suo


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A Trip to Market What was there before consumerism? What was there before advertising and boutiques, before goods were turned into shrewd seducers, presented in persuasive packaging? Were articles in a state of original nudity? Was the world a primitive place where people bartered salt in exchange for dates? Text and photos by Franco La Cecla

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In reality, before today’s “great market” there were already markets, in the East just as in the West, street markets, covered markets and bazaars. In these markets, goods did not only make a fine display in themselves, but were often delivered to customers wrapped in some way so as to mark the transfer of ownership. The practice of delivering to someone an article which takes on greater importance by being wrapped, tied up, protected and concealed is ancient, as ancient as the concept of the gift or offering. Packaging is the clothing of an article which changes hands. It serves to conceal the object and add status to the transaction. The string which secures it, the ribbon it is bound with, the paper or box which protects it, are all ways of emphasising “the thought” behind the article. When we say “It’s the thought that counts” to someone who has forgotten to bring a present, we are referring to the same thing. The packaging is the thought behind the article, which transcends its material form to give status to the transaction, to what the things “do” to people and between people. There are still markets in which the culture of packing

goods is widespread. A perfect example of this and one of the most established markets in Italy is Palermo’s popular market. By this we mean not only the more traditional part in the “roads”, the Vucciria, Ballarò, il Capo, and l’Albergheria, but also the whole culture of retail selling, especially with regard to foodstuffs. In Palermo there is a well-established tradition of “wrapping” which takes place at the moment when foodstuffs are purchased from verdurai (fruiterers), carnezzieri (butchers), fishmongers, forni, (bakers), ice cream sellers and laboratori (confectioners). When “the customer” – which is a different thing from the “client” in that it means “one who makes frequent use of a workshop or skilled worker” (Palazzi dictionary) – buys a kilo of oranges or plums, he knows he has the right to take them away wrapped up in an appropriate way. This “appropriateness” refers to the nature of the goods themselves and the practicalities of carrying them away. The customer expects the vendor to know the best way to wrap the merchandise he has just bought, and understands from the shopkeeper’s movements whether he is a temporary or established tradesman. Knowing how to wrap goods with the correct motions is part of the ritual which makes the whole transaction credible. It calls for expertise both on the part of the vendor and the purchaser. When we stop and study the movements of a fruiterer (like Salvatore D’Anna in the photo) in the Vucciria in Palermo, we see that the “wrapping” of the fruit is all of a piece with selecting it from the pile which, in its turn, has been arranged with unseen movements since dawn each day into a beautiful display on the stall. Before picking up the fruit one at a time, the vendor almost instinctively tears a large piece of recycled paper from the sheaf on the hook, winds it round the arm keeping one hand inside, and in an instant creates a sturdy cone of paper with a generous fold which ensures that it is firmly closed at


Franco La Cecla, anthropologist, among other works has published: Perdersi. L’uomo senza ambiente, Laterza, 2000; Non è cosa. Vita affettiva degli oggetti, Elèuthera, 1998, with L. Vitone.

the bottom. This is called the “coppo”. But why a cone? He we enter into the packaging system, the complex world of wrapping paper, where color, thickness and shininess distinguish one type of wrapping from another. Purchaser and vendor understand this perfectly: We are talking about the “distinctiveness” of the merchandise – exactly as meant by the French sociologist Pierre Bourdieu – as if the open-air market, with its shouts and its dazzling light, detests this confusion of foodstuffs and the inability to distinguish between them.

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Does it seem to you that all this is rather primitive, less sophisticated than today’s supermarket shopping? Allow me to express my doubts about that. It is here, in the open-air market, that the great culture of displaying and packaging began, and here that the experts in street packaging serve their apprenticeships, whether they are vendors or purchasers. In Palermo’s supermarkets, when they introduced the fresh food counters, where meat and cheese were bought by weight, they had to import the whole “packaging culture” from the open-air markets.

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In Sicily, and especially in Palermo, this way of distinguishing one type of foodstuff from another just by looking at the packaging, has become a real skill and has given rise to a substantial trade in paper of a multitude of different types. Thus the coppo is used to hold fruit and vegetables, including those which are cooked, boiled or roast, and its shape is perfectly adapted to preventing the products from being squashed by their own weight. The pyramid of tomatoes or pears is arranged so that there are fewer in the lower tiers and thus the weight is exerted outwards. There are cones of different sizes, depending on the type of produce: small ones for olives, larger ones for greens and very large ones “alla monrealese” (Monreale is a town near Palermo) for small fruit, cherries, apricots and medlars which need to be distributed on a larger base. The other reason for using the coppo is that it is easy to carry things. In fact, it can be tucked under the arm or held in the hand. Nowadays produce is being “bagged up” in plastic bags, even though fruiterers know that plastic is not the best material for fruit and vegetables, as it does not allow the produce to breathe (which paper, however, does). The coppo is improved by an internal layer of transparent waterproof paper when the fruit or vegetables may “drip”, that is, lose water, as is the case with boiled vegetables or roast potatoes,

onions or peppers. In the past, a sheet of shiny magazine paper inside the coppo was used to insulate the customers hand from the steaming foodstuff. Today a sheet of “dewaxed” or bleached newsprint is preferred, although a lot of traders continue to use black and white newspapers or magazines. The coppo is also used for the smallest foodstuffs: the so-called “scaccio” which are peanuts, lupin seeds, seeds of all kinds, pumpkin seeds and dry beans, to be nibbled in the street. It is said that some of the scaccio vendors, who alternate between the festivals of the saints and the corners of town squares with their brightly-colored wheeled carts, know exactly how big a bag of nibbles people need, depended on the number of “lengths” they intend to “swim” (by this they mean the number of times they stroll up and down the main street, which is still a national pastime in many Southern Italian towns. The philosophy of the coppo is not restricted to matters of hygiene and usefulness – the goods are separated from each other and do not stain – but carries over into the contents. With a slight movement of the hand the flap of the package can be open wide, allowing the fragrance of the produce to escape, thus showing those you meet in the market what a knowledgeable and discerning shopper you are.



X-Fresh il Nulla sotto Forma di Qualcosa

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Marco Senaldi

Quello che “fa la differenza” allora non è l’estremo come eccesso, ma come ignoto. La X non marca più la sproporzione, ma l’enigma; rappresenta un’incognita sfuggita alle equazioni, dilaga nel linguaggio comune per determinare l’indeterminabile, per simboleggiare ciò che non ha simbolo né senso. In questa versione viene impiegata nel mitico X-File, la serie televisiva dominata dall’idea che l’anormale, l’eccezionale, il fantascientifico non solo esiste positivamente, ma è anche fondamentalmente inspiegabile, ossia in-X-plicable. E di questa schiatta è anche XFresh, confezione di mentine ridotte a sfoglie, sublimazione dolciaria in cui X-treme e in-Xplicable collassano in una sintesi ineffabile.

X-Fresh è davvero straordinario per la forma che contraddistingue il prodotto: i foglietti di menta quasi immateriali “idealizzano” il contenuto-caramella, e ricordano non a caso l’ostia o la cartina intrisa di “acido”. D’altra parte però, le sfoglie verdastre ci appaiono tutt’altro che commestibili, simili come sono a piccoli quadratini di acetato trasparente. Ciò che è accaduto con X-Fresh, è che il contenuto, plastificato, liscio e traslucido, è diventato tutto forma - ma dato che la forma della merce è il suo involucro, abbiamo a che fare con un contenitore che non contiene niente, se non un “sapore” che si liquefa all’istante sulla lingua. Forma e contenuto, interno ed esterno, carta e caramella qui (pur essendo ancora distinte) tendono a fondersi in quella X, mistica e ineffabile, a cui il nome allude. Ecco che, pur essendo una piccola cosa, o meglio, proprio perché è un quasi-nulla, l’X-Fresh opera la divina sintesi di Apparenza e Sostanza: inteso come packaging sublime, riesce a donare le sembianze di Qualcosa al puro Nulla.

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Già da un po’ si sente parlare dell’estremo. Che sia sesso, sport, turismo o sci, l’“estremo”, da aggettivo geometrico è diventato sinonimo di fuga dal “normale”, dal “consueto”, dal “non-estremo”, ossia da quel giusto mezzo che invece rappresentava un tempo il luogo privilegiato dell’equilibrio. D’altra parte, come ogni altra forma di comportamento, anche l’estremo ha generato il suo ecosistema di senso. L’anglofobia che già faceva capolino nell’uso politicamente spregiativo della K in slogan come “Kossiga servo degli amerikani”, “okkio al kranio” ecc., lascia il posto al dilagare della X, che incarna invece il mito “trasgressivo” implicito nella semantica dell’X-treme. Dopo gruppi musicali come gli In-xess, hanno così fatto la loro comparsa denominazioni come X-tra (nel linguaggio delle t-shirt XL non sta per 40, ma per extralarge!), motori di ricerca come eXcite, software come X-press, i quali hanno però anche sancito la massificazione dell’Xtremismo, la sua comica contraddizione (“ma se tutti praticano l’estremo, quest’ultimo non è più tale!”).

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X-Fresh. Nothing under the Shape of Something

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Marco Senaldi

For some time now we have heard speak of the extreme. Whether we are talking about sex, sports, tourism or skiing, the “extreme”, from a geometrical adjective has become synonymous of the escape from the “normal”, from the “usual”, from the “non-extreme”, or that is from that happy mean that once constituted the point of equilibrium. On the other hand, like in any other forms of behaviour, even the extreme has generated its own ecosystem of meaning. The anglophobia that made its appearance in Italy in the politically derogatory use of K as in slogans such as “Kossiga slave of the Amerikans” [Francesco Cossiga was a conservative leader], “okkio al kranio” [mind your head] etc, has given way to a welter of Xs, offering a more laid back approach implicit in the semantics of X-treme. After rock groups like In-x-ess,, denominations like X-tra have come on the scene (in the language of the T-shirt XL does not stand for 40 [roman numerals] but for X-tra large!), search engines such eXcite, software such as X-press, that have though that have sanctioned the standardisation of X-tremism, its comic contradiction (“but if everyone practises extremism, we are no longer speaking of extremism!”). Hence what “makes the difference” is not the extreme seen in terms of excess, but in terms of

the unknown. The X no longer marks the disproportionate but the enigma, representing an unknown that has escaped from equations, and that is spreading in everyday language to determine the indeterminable, to symbolise what has neither symbol nor sense. This is where the mythical X-Files, the TV serial dominated by the ideal of the abnormal, the exceptional, the phantascientific, features that not only exists in the positive sense, but that are also fundamentally in-X-plicable. And in the same vein one has X-Fresh, a pack of super-flat mints, a form of sublimation where X-treme and in-Xplicable combine in the same sweetmeat. X-Fresh is truly extraordinary for the shapes that feature in the product: the virtually immaterial thin slivers of mint “idealise” the sweet-meat, and not by chance remind us of the Host or paper squares of “acid”. On the other side of things though the greenish slivers appear anything but edible, looking like small squares of transparent acetate. What happened with X-Fresh is that the plastified, smooth and translucent content has become shape - but given that the shape of the goods is its wrapping, we are dealing with a container that doesn’t contain anything, if not a “taste”that liquefies once it is on the tongue. Form and content, inside and outside, wrapper and sweet (while all the same being separate) here tend to combine in that X, mystical and ineffable, to which the name alludes. Here all the same, being a small, or better, right because it is virtually nothing, X-Fresh creates the divine synthesis of Appearance and Substance: understood as sublime packaging, it manages to give Nothingness the appearance of being Something.



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Marco Senaldi

Nelle opere dell’artista catalano il packaging è un contenitore di senso ma anche una sottile denuncia dell’universo consumista.

Antoni Muntadas: il Packaging come Medium


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Questa non è una pubblicità (1985) Il significato sta sparendo proprio nell’epoca in cui è più facile trasmetterlo: emblema di tutto ciò è questa installazione di Antoni Muntadas sul tabellone pubblicitario più famoso del mondo a Times Square, New York City.

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This is not an Advertisement (1985) Meaning is disappearing in the very age when it has become easier to transmit the same: emblematic of this installation by Antoni Muntadas on the most famous advertising hoarding of the world, at Times Square, New York City.

L’interesse di Antoni Muntadas – catalano residente a New York, attivo come artista da oltre trent’anni, veterano di Documenta e di Biennali – è indirizzato verso quello che lui chiama, fin dagli anni 70, il “paesaggio mediale”, “the media landscape”. Con questo termine intende non tanto l’invadente presenza nel panorama urbano di schermi, videocamere, tabelloni

pubblicitari, light-box, segnali luminosi, e via dicendo, quanto il fatto che la comunicazione di massa ha veramente eroso il significato di ogni altra forma comunicativa dall’orizzonte delle società avanzate. Tutte le installazioni a cui Muntadas ha dato vita in questi anni, la maggior parte delle quali raccolte nella grande antologica Proyectos che la Fundaciòn Arte y Tecnologìa di


Madrid gli ha dedicato nel 1998, parlano di questo: la sparizione del significato proprio nell’epoca in cui è diventato più facile trasmetterlo in ogni sua forma. In This is not an Advertisement (“Questo non è uno slogan pubblicitario”), del 1985, ad esempio, egli ha usato il tabellone pubblicitario più famoso del mondo, quello in Times Square a New York, appunto per trasmettere la frase che dà il titolo all’opera – creando un evidente cortocicuito di senso. In un’altra installazione, Exhibition (1987), ha costruito una mostra perfettamente vuota, senza opere, esponendo le tipiche forme di installazione che si impiegano nell’allestimento di una mostra: le luci soffuse per i quadri a parete, il videoproiettore acceso per i video, il piedistallo per le sculture, il proiettore di diapositive per le fotografie, le bacheche illuminate per i disegni, ecc. È chiaro che con lavori come questo Muntadas ci dice come gran parte del fascino di cui godono le opere nei musei dipende non tanto dal loro contenuto – ormai secondario – quanto dall’eleganza con cui sono esposte. Per Muntadas, nell’epoca dei massmedia succede davvero che il medium finisca per diventare il messaggio, che il contesto predomini sul testo, che la cornice diventi più importante del quadro e, alla fine, coincida con esso. In questa direzione, non stupisce che questo artista abbia dedicato notevole attenzione al tema del packaging, non tanto come contenitore dominato dai segni della marca, o come veicolo pubblicitario, quanto come cornice che racchiude un contenuto su cui finisce per prevalere. D’altra parte la cornice, proprio come elemento che separa, che segna la differenza tra esterno e interno, tra contenuto e ambiente circostante, tra prodotto e consumo, è anche un concetto molto

interessante perché può diventare a sua volta un tramite per nuovi e imprevisti significati. Chiamato ad esempio a pensare un progetto di “public art” per lo spazio di arte contemporanea francese La Maison du Rhone, Muntadas ha rinunciato a grandi installazioni per le strade o le piazze della città, a favore di un intervento molto più “modesto” ma anche a grande diffusione nella vita pubblica locale, ossia la messa in produzione di una bottiglia (a tiratura illimitata, quindi non da prendersi come “multiplo d’artista”) che recava l’immagine a rilievo della stessa Maison. «In fondo - dice lui stesso - il Museo non è forse una forma di packaging?». Ma l’opera che più lascia sorpresi per la sua scarna semplicità risale al 1987 e si intitola Natura Morta Generica. In sostanza si tratta dell’esposizione, sugli scaffali della galleria parigina Gabrielle Maubrie, di una serie di prodotti confezionati, e dei loro “ritratti fotografici”, proprio come se fossero pezzi d’arte. Il fatto che i prodotti scelti non riportassero sulla veste grafica esterna, rigorosamente in bianco e nero, nient’altro che il nome del loro contenuto, dà senza dubbio a tutta l’installazione il tono, quasi raffinato ed elegante, di un’abile costruzione “concettuale”. L’artista stesso (che abbiamo incontrato in occasione di un workshop a Torino) spiega che si trattava semplicemente di merci realmente esistenti comperate in alcuni hard discount che le vendevano in quella forma evidentemente per recuperare margini sul costo del packaging e del graphic-design dell’imballaggio. “Io sono più interessato a questo tipo di approccio culturale sui dettagli, che alle grandi teorie”, dice, e conferma che l’opera sulla natura morta faceva in effetti parte di un


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progetto più ampio sulla “genericità”, ossia su quegli oggetti, fatti o significati che, per abitudine o debolezza abbiamo smesso di considerare “specifici” cioè degni di attenzione. «In Natura Morta Generica c’era un po’ un riferimento alla Merda d’Artista di Piero Manzoni, ma anche alle tele spagnole di bodegones [quadri barocchi di caraffe e bottiglie]; l’idea era quella di un prodotto anonimo che, se non diventa originale, assume un’altra presenza, cambiando un po’ il contesto».

nell’aristocratica cornice di una galleria d’arte alla moda in una città europea come Parigi, acquista un plusvalore, un’aura di artisticità, che dà alla sua modesta veste grafica un senso di metafisica astrazione. Su tutto, in Natura Morta Generica vince l’estrema pulizia formale che rimanda non a caso alle antiche nature morte spagnole del XVII secolo, insieme a una compostezza quasi morandiana – cose molto belle, che non cancellano però la sottile denuncia della frenesia consumista che caratterizza il nostro rapporto

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Maison du Rhône (1992-96) Un museo si può trasformare nel tetrapak di se stesso? È quanto ha provato a fare Muntadas con l’architettura della Maison du Rhône. Can a museum be transformed into a tetrapak of itself? This is what Muntadas has tried to do with the architecture of the Maison du Rhône.

Tramite la messa in bella mostra della merce nella sua forma “generica”, e perciò, anche se imballata, totalmente spoglia di segni, lo spettatore è condotto a riflessioni contrastanti sullo statuto degli oggetti e sul proprio desiderio in quanto consumatore. Da un lato, la merce, svestita dagli abiti sgargianti con cui la si incontra solitamente sugli scaffali dei supermercati appare grigia, monotona e quasi triste, priva di quell’appeal seducente a cui siamo ormai da troppo tempo abituati. Dall’altro, esposta così,

con gli oggetti in questo passaggio di secolo. «Non amo molto il packaging, sono abbastanza anti-consumista… Se devo comprare qualche cosa divento super-nervoso. La cosa che mi ha sempre sorpreso negli USA è che la gente si trova per andare a “fare shopping” insieme, come un fatto socializzante; ma anche in Spagna si sente dire “vamos de compras” (andiamo a far compere)» dice nel suo italo-spagnolo da artista seminomade.


«Non mi piace neanche collezionare oggetti. L’unica cosa che ho collezionato per anni – e ne ho veramente tanti – sono quei fogli messi sull’aereo con le istruzioni per come salvarti. È una cosa che nessuno legge. Strano, perché dovrebbe servire a salvarti – nel caso succeda qualcosa sicuramente uno si darebbe dello stupido per non aver letto le istruzioni. È divertente perché è un oggetto basato sulle figure, ma, anche se il messaggio è sempre uguale, il disegno cambia; ogni Paese e ogni compagnia aerea lo

questo rapporto fra lo standardizzato e lo specifico. Sto anche facendo un lavoro per Barcellona, sul merchandising museale di Mirò. La Càixa, ad esempio, una grossa banca spagnola con un intenso programma culturale, ha preso il suo logo da un segno di Mirò, così anche la Iberia Airlines, e anche l’Ente per il turismo spagnolo, per le sue pubblicità. E alla Fundaciòn Mirò è tutto un merchandising che va dai piatti alle t-shirt, dalle calze all’underwear! Poi, quando sono stato a Cuba, per

Natura Morta Generica (1987-88) La merce, svestita dalla seduzione, acquista un plusvalore metafisico. Generic Still Life (1987-88) Merchandise laid bare in order to seduce, takes on an added metaphysical value.

interpreta in modo diverso, Lufthansa è differente da Iberia, Quantas da Alitalia, eccetera. Dà molti riferimenti sulla cultura del Paese da cui proviene; però, anche se il disegno vorrebbe essere generico e chiaro, il fatto è che anche la “chiarezza” è un concetto che cambia – in alcuni casi, per certi Paesi come la Corea o il Giappone, è addirittura barocco. Così, l’ho utilizzato per il lavoro sulla traduzione a cui sto lavorando - On Translation - un work in progress che proseguo dal 1997. Quello che mi interessa è appunto

la Bienal de Havana, ho visto che è successo lo stesso con Che Guevara… In Spagna hanno messo il merchandising nel museo, là hanno usato tutto il Paese!». Le chiacchiere amabilmente intelligenti di Muntadas fanno pensare… Forse che anche gli Stati, i Paesi e le Nazioni si stiano trasformando in giganteschi packaging, con i loro bravi logo colorati e le istruzioni per l’uso, senza che noi, genericamente disattenti, nemmeno ce ne accorgiamo?


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Antoni Muntadas: Packaging as a Medium In the works of this Catalan artist, packaging is a meaningful container, but also a sharp condemnation of the consumerist world.

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Marco Senaldi

The interests of Antoni Muntadas – a Catalan living in New York who has worked as an artist for more than thirty years and is a veteran of Documenta and the Biennials – are directed towards what he, since the 1970s, has called the “media landscape”. By this, he means not so much the invasive presence in the urban landscape of screens, videocameras, advertising hoardings, light-boxes, neon signs and so on, rather the fact that mass communication has eroded the significance of every other form of communication in advanced societies. All the works created by Muntadas over the years, most of which are gathered together in the large anthological Proyectos which Madrid’s Fundaciòn Arte y Tecnologìa devoted to him in 1998, speak of this theme: the disappearance of meaning in an age when it has become easier and easier to transmit it in many forms. In This is not an Advertisement of 1985, for example, he used the most famous advertising screens in the world, those in Times Square, New York, to transmit the phrase which is the title of the work – creating a clear short-circuit of meaning. In another work, Exhibition (1987), he constructed a completely empty exhibition, devoid of exhibits, using only the typical

equipment necessary to stage an exhibition: spotlighting for paintings on the walls, a video projector switched on but with no video, pedestals for sculptures, a slide projector, illuminated display cases for drawings, etc. It is clear that with works like this Muntadas is telling us that a large part of the fascination engendered by works in museums is due not so much to their content – which is secondary – as to the elegant surroundings in which they are displayed. For Muntadas, in this age of mass media, it is a fact that the medium truly ends up being the message, the context imposes itself on the text, the frame becomes more important than the picture and, in the end, becomes a part of it. In this respect, it comes as no surprise that this artist has devoted much of his attention to the subject of packaging, not so much as a container dominated by its trade mark, or as a vehicle for advertising, rather as a frame which encloses the contents over which, in the end, it prevails. On the other hand, the frame, a component which separates, which marks the difference between interior and exterior, between the contents and the environment surrounding them, between the product and consumer, is also a concept which is of itself interesting, because in its turn it can become a vehicle for new and unforeseen meanings. Called upon, for example, to think of a project for the Maison du Rhone for contemporary French art, Muntadas rejected large structures for the streets or squares of the city in favour of a much more “modest” solution, but one which loomed equally large in local public life – the production of a bottle (of unlimited production, therefore not to be considered as an artist’s “limited edition”) bearing in relief an image of the Maison itself. As Muntadas himself says, “Deep down, is not the Museum perhaps a form of packaging?”.


But the work which is most surprising in its stark simplicity dates from 1987, and is entitled Generic Still Life. In essence, this is a display, on the shelves of the Gabrielle Maubrie Gallery in Paris, of a series of packaged products, and of their “photographic portrait”, as if they really were works of art. The fact that the products selected do not depend on their external graphic appearance, strictly in black and white, nothing but the name of their contents, undoubtedly gives the exhibit the almost refined and elegant tone of a skilful “conceptual” construction. The artist himself (whom we met during a workshop in Turin) explains that we are simply dealing with goods which really exist, and which can be bought in any discount store, where they are clearly sold in this way to contain the costs of packaging and graphic design. «I am more interested in this type of cultural approach to detail than to grand theories», he says, confirming that this still life work is in effect part of a larger project on “generics”, or rather on those objects, facts or meanings which, through habit or weakness, we have ceased to consider as “specific” and therefore worthy of attention. «In Generic Still Life there was a slight reference to the Merda d’Artista by Piero Manzoni, but also to the Spanish canvases of bodegones (Baroque pictures of carafes and bottles); the idea was that of an anonymous product which, if not actually original, takes on another presence, changing its context a little».

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«I don’t like packaging very much, I’m quite anti-consumerism… If I have to buy something, I get hyper-nervous. The thing that has always surprised me here in the United States is that people go shopping together, as if it is a socialising event; although in Spain, too, you hear people say “vamos de compras” (let’s go and buy)» says the semi-nomadic artist. «I don’t even like collecting things. The only thing I’ve collected for years – and I’ve got loads of them – are those cards they put in aeroplanes with instructions on how to save yourself. They’re things which nobody reads. Strange, because they would help to save you – if something happened, you’d look really stupid if you hadn’t read the instructions. They are amusing because they are based on figures but, although the message is always the same, the pictures are different; each country and

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Through this attractive displaying of goods in their “generic” form and, even if packaged, totally devoid of decoration, the viewer is forced into contrasting reflections on the status of objects and the desires of the consumer. On

the one hand the goods, stripped of the gaudy apparel in which we are used to seeing them on the supermarket shelves, seem grey, monotonous and almost sad, without that seductive appeal which we have been used to for so long. On the other hand, displayed like this, within the aristocratic framework of a fashionable art gallery in a European city such as Paris, they assume an additional value, an aura of artiness which imbues their modest graphic facade with a sense of metaphysical abstraction. Above all, Generic Still Life demonstrates an extreme formal cleanliness of line which by no means coincidentally recalls Spanish still life of the 17th century, together with an almost Morandian composure – very beautiful features which do not, however, erase the subtle condemnation of the frenetic consumerism which characterises our relationship with objects at this stage in the century.


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each airline interpret them in different ways, Lufthansa is different from Iberia, Quantas from Alitalia, and so on. They tell you a lot about the culture of the country they come from; but even though the pictures try to be generic and clear, the fact is that this “clarity” is a concept which can change – in some cases, for countries like Korea and Japan, it is downright baroque. This is why I have used them for something I’m working on called On Translation, something I’ve been engaged on since 1997. What really interests me is this relationship between the standardised and the specific. I’m also engaged on a work for Barcelona, on the museum merchandising of Mirò. La Càixa, for example, a very large Spanish bank with an intensive cultural program, has taken its logo

from a design by Mirò, as has Iberia Airlines, and also the Spanish Tourist Authority, for its advertising. At the Fundaciòn Mirò it’s all merchandising, which goes from plates to tshirts, from socks to underwear! Then, when I was in Cuba for the Havana Biennial, I saw that the same thing had happened with Che Guevara…In Spain, the museum has exploited the merchandising, there the whole country has used it!». Muntadas’ charmingly intelligent musings make you think… Are, perhaps, even states, countries and nations being transformed into gigantic packages, with their bold colourful logos and instructions for use, without us, being generically unaware, even noticing?



Nota del traduttore* Lush, dall’inglese lussureggiante (di vegetazione), succoso (di frutta), sontuoso, lussuoso. In un’unica parola azzeccata, il senso di una marca.


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L’Invisibile Involucro Lush* rivoluziona il modo di vendere i cosmetici. Tutti freschi. Tutti fatti a mano. Tutti rigorosamente privi d’imballaggio. Eppure... Sonia Pedrazzini



Entrando nel negozio si resta per un attimo attoniti e confusi; un’ondata di odori e profumi investe tutto, corpo e mente. Lavanda. Banana. Cioccolata. Rosmarino. Rosa. Aromi d’oriente. Senape e zenzero. Muschio. Latte e miele. Fiori d’arancio. Menta. Foglie di tè. Non si capisce se siamo entrati in una drogheria, in una profumeria o in una latteria. Sui banconi grosse forme, come di formaggio, vengono tagliate a fette, pesate e incartate in carta oleata. Possiamo comprare, a scelta, un etto o due di shampoo solido alla frutta oppure un vasetto di

nome di chi lo ha fatto, i singoli prodotti; di usare solo ingredienti naturali e frutta e verdure fresche; di rifiutare rigorosamente l’utilizzo di materie prime derivanti da sperimentazioni su animali. A questo si aggiunge la singolare presentazione dei cosmetici che, apparentemente privati di ogni forma di imballaggio tradizionale, in realtà sono rivestiti da un packaging impercettibile ma potentissimo, più sottile e diffuso, un packaging mentale, si potrebbe dire, che invece di riguardare la superficie dell’oggetto prende in considerazione la sua

morbida crema alle mandorle; un pacchettino di argilla o una sfera (una Ballistica) al gelsomino. Sono cosmetici succosi, appetibili, lussureggianti, fanno venire l’acquolina: sono Lush!

contestualizzazione e di conseguenza il nostro immaginario.

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Lush nasce in Inghilterra nel 1995, fondato da un gruppo di vegetariani esperti di cosmesi naturale, sotto la guida di Mark Constantine, ideatore e animatore del progetto. Alla base della filosofia Lush ci sono alcune idee di gran successo come quella di “fare a mano” e di “firmare” con il

E’ proprio il contesto, infatti, ciò che colpisce non appena si mette piede nei negozi Lush. Pensati come le drogherie o le latterie di una volta, con inservienti gentili e premurosi, con tanto di banconi stracolmi d’ogni “ben di Dio”, pieni di merci profumate e in bella vista, si è accolti da una tale abbondanza visiva e olfattiva da essere invogliati a “mangiare” tutto con gli occhi prima ancora di capire che cosa ci sia realmente da

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PALLE

DI

SAPONE

PRODOTTE

ARTIGIANALMENTE. BURKINA FASO, ESTATE 2001/HANDCRAFTED SOAP BALLS. BURKINA FASO, SUMMER 2001. PHOTO BY STEFANO CAMPOANTICO



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comprare. Chi entra in un negozio Lush è letteralmente preso per la gola e… dalla nostalgia. Tutto è fatto a mano e i voluminosi blocchi di sapone solido o le larghe ciotole di fresche creme appena montate, non ancora trasformate in porzioni da vendita al dettaglio, risvegliano ricordi di “casa dei nonni”, di cucina, di giardino, di grande famiglia. E quindi di buono, di genuino, di tempo passato, di vero. Gli odori, fortissimi e penetranti, non trattenuti da carta e involucri vari che ne impediscono la diffusione, circolano liberamente nell’aria e paradossalmente “imballano” il prodotto con un packaging molto più efficace di quello comune, fatto di fogli, cartoncini, sacchetti, pellicole, vasetti e bottiglie. Gli odori, si sa, risvegliano ricordi, dispiegano immagini e sogni, resuscitano sensazioni. Non a caso si dice indossare un profumo; il profumo è una barriera, come un vestito, un invisibile involucro; l’oggetto senza

packaging che respira e trasuda profumazioni non ha bisogno di sottolineare altro, è già lui stesso un pezzetto di “memoria impacchettata”. E ancora, nel magico mondo Lush al naturale, gli splendidi colori “dal vivo” e le texture “tattili” di saponette, shampoo, creme, maschere, trattamenti, sono sicuramente molto più affascinanti e convincenti (perché si possono vedere e toccare) delle solite grafiche sulle scatole da profumeria. Insomma, il packaging della merce, che in altri luoghi seduce e cattura con i tradizionali mezzi della comunicazione visiva, qui viene usato in modo nuovo, diventa indiretto e immateriale; non serve a proteggere e non deve contenere, (Lush ha inventato proprio per questo cosmetici solidi, senza acqua né conservanti); non deve banalmente informare, né richiamare con marchi, scritte, disegni; nega se stesso, ma così facendo si impone più profondamente e imprigiona i nostri sogni attraverso la rete dei sensi.

APPARENTEMENTE PRIVATI DI OGNI FORMA DI IMBALLAGGIO TRADIZIONALE, IN REALTÀ I COSMETICI LUSH SONO RIVESTITI DA UN PACKAGING IMPERCETTIBILE E POTENTISSIMO, PIÙ SOTTILE E DIFFUSO, UN PACKAGING MENTALE. APPARENTLY WITHOUT ANY TRADITIONAL FORM OF PACKAGING, IN 1/02

REALITY THE LUSH COSMETICS ARE WRAPPED IN A MATERIAL WHICH IS IMPERCEPTIBLE BUT EXTREMELY STRONG, THIN AND DIFFUSE, A

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PACKAGING OF THE MIND YOU MIGHT SAY.


IL PACKAGING NEGA SE STESSO, MA COSÌ SI IMPONE PIÙ PROFONDAMENTE E IMPRIGIONA I NOSTRI SOGNI NELLA RETE DEI SENSI. THE PACKAGING DENIES ITSELF, BUT IN DOING SO IT CATCHES OUR DREAMS IN A NET OF THE SENSES.

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Impackt intervista Mark Constantine, fondatore di Lush Il marchio Lush è ben riconoscibile e possiede un’immagine molto forte; com’è stato possibile conciliare questa visibilità con la scelta di “azzerare” il packaging dei prodotti? Ci piace esporre i nostri prodotti in modo spettacolare e questo è il sistema migliore per far apprezzare la freschezza degli ingredienti utilizzati nei nostri cosmetici. La decisione di esporre prodotti di bellezza senza alcun imballo, ricorda molto le bancarelle dei mercati di una volta dove si vedevano solo i prodotti freschi e chi li vendeva.

Anche se il packaging dei prodotti Lush sembra essere quasi nullo, tuttavia si può notare la presenza di un ben preciso progetto di packaging nelle carte e nei sacchetti usati per imballare i prodotti sfusi, nei vasetti, nella presentazione e nella forma stessa dei prodotti. A quale estetica vi rifate e con quali criteri di scelta create questa sorta di “antipackaging”? Ci riferiamo alla naturale bellezza degli ingredienti. Ci ispira molto vedere la frutta e la verdura che arrivano freschissime al mercato. Ci piace osservare il fascino selvaggio della natura. Tutto quello che si vede nei nostri negozi è pensato per fornire un impatto


emotivo e questo vale anche per il packaging che in alcuni casi dobbiamo usare, come i vasetti per le creme e le shopping bag, tutte marchiate con il logo Lush. Per quale motivo Lush ha pensato di associare i cosmetici al cibo, tanto da farlo diventare il punto di forza della propria immagine? E’ l’idea di freschezza che fa associare gli alimenti ai cosmetici; noi riteniamo di aver creato una nuova categoria di prodotti di

bellezza utilizzando proprio ingredienti freschi. Così come nel cibo la freschezza è tutto, anche nei prodotti cosmetici la pelle beneficia quando si usano solo ingredienti freschi e naturali.

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Non c’è il rischio che l’assenza di packaging renda i vostri prodotti difficilmente utilizzabili e conservabili una volta a casa? In pratica noi non usiamo conservanti, e questo, nella creazione di prodotti freschi, ci

avvantaggia ulteriormente. Ci divertiamo molto ad inventare cosmetici dalla forma piacevole, pratici da usare e da conservare, apprezzati dalla gente, come il recente “No shit colour and shine”, henné per capelli in forma solida.

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In conclusione, Lush indica veramente una filosofia di vendita, o addirittura di vita - oppure è solo una trovata pubblicitaria? Niente di Lush è “una trovata pubblicitaria”. Lush è quello che facciamo, che amiamo e che speriamo anche i nostri clienti amino come noi.

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Come reagisce la gente di fronte ai vostri prodotti freschi venduti senza imballaggio? E’ molto raro che non ci sia una reazione da parte della gente - di solito ci fanno mille complimenti. Lush si basa molto sull’aspetto sensoriale e per certe persone questo può essere persino un po’ scioccante.

Ma è veramente ipotizzabile un futuro in cui tutti i prodotti possano essere venduti senza imballaggio? Mi piace immaginare un futuro in cui tutti i tipi di prodotto saranno venduti senza packaging.


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The Invisible Wrapping Lush* is revolutionising the way of selling cosmetics. Completely fresh. Completely hand-made. Completely devoid of packaging. And yet... Sonia Pedrazzini

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Entering the shop, we stop for a moment, amazed and confused. A wave of perfumes and fragrances engulfs us, body and soul. Lavender. Banana. Chocolate. Rosemary. Rose. Oriental spices. Celery and ginger. Musk. Milk and honey. Orange blossom. Mint. Tea. We do not know if we are in a chemist’s, a perfume shop or a dairy. On the counter, large shapes, like cheeses, are being cut into slices, weighed, and wrapped in greaseproof paper. We can choose to buy a few hundred grams of fruit-fragrance solid shampoo or a jar of soft almond cream; a little packet of clay or a sphere (a musket ball) of jasmine. These are cosmetics which are juicy, luxurious, they make your mouth water. They are Lush! Lush was founded in England in 1995 by a group of vegetarians, experts in natural cosmetics, under the leadership of Mark Constantine, the originator of the project. The Lush philosophy is based on several very successful concepts, such as individual products being hand-made and signed with the maker’s name; using only natural ingredients and fresh fruit and vegetables; totally rejecting the use of raw materials derived from experimentation on animals. To this is added the unique presentation of the cosmetics. Apparently without any traditional form of packaging, in reality they are wrapped in a material which is imperceptible but extremely strong, thin and diffuse, a packaging of the mind you might say, but one which with regard for the surface of the contents takes into consideration its context, and consequently

our imagination. It is in fact the context which strikes you, as soon as you set foot inside a Lush shop. It is conceived as a chemist’s or a dairy of former times, with polite, attentive assistants, counters piled high with all God’s gifts, full of fragrant, beautifully displayed merchandise. You are struck by such an abundance of sights and smells, you are enticed into feasting your eyes on it without fully realising what there actually is on sale. Whoever enters a Lush shop is literally grabbed by the throat... and by nostalgia. Everything is made by hand, and the huge solid blocks of soap or the wide bowls of freshly-made creams, not yet divided into portions for sale, bring back memories of grandmother’s house, of the kitchen, the garden, big families, and therefore of things which are good and genuine and real, just like in the old days. The strong, penetrating fragrances, unmasked by paper or other wrapping materials which might stop them spreading, circulate freely in the air and, paradoxically, “wrap” the product with a packaging which is far more effective than paper, cardboard, bags, film, jars and bottles. The smells reawaken memories, unfold images and dreams, revive feelings. It is no coincidence that we talk of wearing a perfume; perfume is a barrier, like clothes, an invisible wrapping; an object without packaging which breathes and exudes fragrance has no need of further emphasis, it is already of itself a little piece of “packaged memory”. And also, in the magic natural world of Lush, the wonderful living colours and the tactile textures of soap, shampoo, creams, facemasks and treatments surely hold more fascination and conviction (because they can be seen and touched) than the graphics on the boxes in the perfume shop. To sum up, the packaging of merchandise, which in other places seduces and entraps through traditional visual means of communication, is used here in a new way, becoming indirect and non-material. It is


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not intended to protect or to contain, (for this, Lush has invented solid cosmetics, without water or preservatives); it does not need to offer trivial information, or to attract through brand names, script or graphics. It denies itself, but in doing so it makes a much deeper impression and catches our dreams in a net of the senses. Interview with Mark Constantine, founder of Lush The Lush brand is very recognisable and has a very strong image; how did you manage to reconcile this visibility with the choice of “zeroing” the product packaging? We enjoy making spectacular displays of the products. It’s the perfect way of presenting the fresh ingredients that we use to create our cosmetics. Our decision to present beauty products unpackaged is reminiscent of market stalls where this is only the fresh product and the salesman to make the sale.

Can we really imagine a future in which products, all types of product, can be sold without packaging? I like to imagine a future in which all types of products can be sold without packaging. Isn’t there the risk that the absence of packaging makes your products difficult to use and preserve at home? We don’t use lots of preservatives in our products anyway which is another advantage of creating fresh products. Much of the fun we getting out of developing products is in making something in a form that works well, that people will enjoy and that is easy to use and store. An example of this are the recently launched NO SHIT COLOUR AND SHINE, which is a range of solid blocks of hennas for the hair. To finish off, is Lush really indicating a sales approach, or might one say even a Lebensfilosofie for the future, or is it merely an advertising ploy? Nothing about Lush is a “marketing ploy”. It’s what we do, we love it and we hope our customers love it too! Translator’s note* “Lush” comes from the English, meaning luxuriant (vegetation), juicy (fruit), sumptuous or luxurious. All the meaning of the brand in one striking word.

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Why has Lush decided to associate cosmetics with food, to the point of making this the strongpoint of its image?

How do people react when faced with your fresh products sold without packaging? It’s very unusual not to have a reaction from people and generally they are very complimentary. Lush is a very sensual brand and for some the smell is a bit shocking.

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Even if the packaging of Lush products is virtually inexistant, all the same a specific packaging design approach can be noted in the paper and in the bags used to pack loose products, in the jars, in the presentation and in the very shape of the products. What kind of aesthetics do you refer to and what choices have you made in creating this type of “antipackaging”. The aesthetics we refer to is the natural beauty of the ingredients. It’s really inspiring to us to see fruit and vegetables when they are freshly delivered to markets. We love looking at the raw beauty of nature. The way everything looks in the shop is designed to have impact and this also applies to the packaging we use, such as pots and carrier bags, all of which bear the Lush logo.

The idea of freshness is what drives the link between food and cosmetics. We believe we have created a new beauty category by using fresh ingredients. There is all the goodness we need in food, and since we use food and natural ingredients, it makes sense that the skin benefits from the freshness, too.


Brano tratto da Fuggevole Turchese di Andrea G. Pinketts, Mondadori, 2001.


Excerpt from Fuggevole Turchese by Andrea G. Pinketts,Mondadori, 2001.


God Save Ireland (1996) - Giocattolo con intervento d’artista/Toy with artist’s intervention


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Dana Wyse's Toys Perché nell’immaginario si nasconde qualcosa di infantile? Con i suoi “giocattoli pericolosi” l’artista canadese Dana Wyse spiega il doppiofondo del consumismo.

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VUOI CANCELLARE IL TUO PASSATO? VUOI CLONARE IL FIDANZATO DELLA TUA MIGLIORE AMICA? VUOI DIVENTARE FAMOSO IN BREVISSIMO TEMPO? QUESTO E MOLTO ALTRO CON LE PILLOLE DI DANA WYSE.

Pills and Powders (1995-2001) - Courtesy: Galleria Rebecca Container, Genova

DO YOU WANT TO WIPE OUT YOUR PAST?

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DO YOU WANT TO CLONE YOUR BEST FRIEND’S BOYFRIEND? DO YOU WANT TO BECOME FAMOUS QUICKLY? THIS AND A LOT MORE

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WITH DANA WYSE’S PILLS.


Smoke like Papa (2001)


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Giocattoli cheap della collezione di Dana Wyse. Cheap toys from Dana Wyse’s collection.

Penso sempre a ciò che ha detto C.G. Jung: “ Una mente creativa gioca con gli oggetti che ama”. Io amo i gadget e i giochini. Sono loro l’incredibile specchio del nostro mondo. Rivelano i nostri più profondi desideri e le nostre ossessioni e sono la pantomima delle nostre paure. Diamo un’occhiata ai negozi di gadget, quelli che vendono in packaging perfetti e colorati i nostri peggiori incubi domestici: una sigaretta che brucia il tappeto, vomito di gatto, merda di cane, il foro di un proiettile sul finestrino dell’auto, un pollice sanguinante, il classico graffio sul tavolo di cucina... Ricordo ancora quando da piccola ho mostrato alla mia nonnina così santa un dito tagliato e grondante di rosso ketchup, sì ricordo bene il suo, poco “santo” davvero, urlo di terrore. Che gioia innocente e infantile ho provato! E quante botte dopo. A casa mia ho una stanza intera dedicata ai giocattoli più cheap, quelli che si comprano nelle drogherie o nelle stazioni di servizio per un dollaro e ventinove centesimi quando ci si è dimenticati che proprio oggi era il compleanno del caro nipotino. Nel mondo del packaging per bambini la vita è ridotta alla sua pura essenza. Per un dollaro e ventinove il tuo bambino potrà essere un poliziotto, un pompiere, un eroe in azione, un dottore … (se è così fortunato da essere un maschietto) mentre le bambine saranno sarte, mamme, cuoche, parrucchiere. Uno sguardo più attento al “Kit di Agente FBI” ci rivela: una pistola con fondina, 4 proiettili, un paio di manette, lo stemma di riconoscimento, un fucile automatico a pompa... e un paio di occhiali da sole stile pornostar anni

‘70 ... come se questo fosse abbastanza per essere un poliziotto. Il “Kit della Sposa Moderna”, poi, è un sorprendente sguardo al femminismo contemporaneo: bambola di plastica in lieve e corto abito da sposa, trucco appariscente, gioielli; tutto ben arrangiato in un blister di plastica. Il messaggio? Se vuoi avere successo come sposa sii carina e sessualmente disponibile. Questi giocattoli economici sono il mio packaging preferito perché mostrano l’eredità che lasceremo ai nostri figli. Come gli agnelli imparano sul campo a diventare “pecore di successo”, così, con questi giocattoli, i nostri figli apprendono i comportamenti per diventare uomini di successo: per i maschi aggressività e dominio; per le femmine essere carine e basta. Guardando questi packaging mi chiedo: cosa ci vogliono veramente dire? Prendiamo ad esempio i giocattoli di cowboy e indiani; molta gente non ci pensa due volte a regalarli ai propri figli. Cowboy e indiani, impacchettati in buste di plastica ed etichette di cartone… tutti noi li abbiamo visti molte volte sotto gli alberi di Natale. Ma guardiamo meglio, il cowboy non sta puntando forse l’indiano con il suo fucile? E questo non è un indiano con un coltello piantato nella schiena? Sappiamo tutti cosa è capitato agli indiani, sappiamo come finisce la storia; e allora? I nostri giocattoli favoriti sono dunque la celebrazione di un genocidio sistematico? Perché non giochiamo anche a Hitler e agli ebrei? Ai possidenti americani bianchi e agli schiavi africani? A ben rifletterci è altrettanto divertente come con i cowboy e gli indiani. Ciò che è impacchettato nelle scatole di quei giocattoli di poco


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“Nelle scatole di quei giocattoli di poco valore ci sono le ossessioni della vita reale”. “What is packed in cheap toys mimics the obsessions of real life”

choking hazard...). In questo modo la mia arte si rifà completamente al packaging. Le mie “pillole” sono semplicemente giocattolini per adulti impacchettati per gli occhi di un bambino.

Dana Wyse, artista, vive e lavora tra il Canada e la Francia.

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Il packaging è qui e ci resta. Vedere qualcosa sotto la lucida plastica di un blister ci ricorda che quello che abbiamo tra le mani è nuovo. Non è organico. Non è fatto dall’uomo. Proviene dal fantastico mondo delle macchine. Ed è proprio questo che ci fa sognare.

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valore sono le ossessioni della vita reale. Ci sono kit con sigarette e cellulari di plastica per bambini, ma perché allora non kit con finte birre da bere o con finte dosi di eroina? Mi ispiro così tanto al packaging, che potrei lavorare ogni giorno per il resto della mia vita. Mi approprio dell’allegra impertinenza di questi giochini; ho sempre mantenuto il colorito linguaggio dei bambini; ne replico gli errori e ricalco i codici del packaging più economico (Made in China, ref#23, not for sale in Britain,


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Dana Wyse, artist, lives and works between Canada and France

Dana Wyse's Toys

be successful sheep, these toys teach our children the behaviours they will need to be successful humans. For boys- aggression and domination... for girls, all that’s required is to look pretty. I look at these packages and I say, what are we really saying here? Take Cowboy and Indian toys, for example. Most people don’t think twice about offering these to their boys. Several Cowboy and Indian figures in a clear plastic bag with a cardboard etiquette... we’ve all seen this beneath the Christmas tree. But look closely. Is that the cowboy’s gun AIMING at the Indian ? Is that an Indian with a knife in his back ? We all know what happened to the Indians; we know how the story ends. Isn’t our favourite childhood toy just a celebration of systematic genocide ? Do we play Hitler and Jews ? Do we play White American Cotton Field Owner and African Slave ? It’s about as funny as cowboys and Indians when you take a moment to think of it. What is packaged in cheap toys mimics the obsessions of real life. There are plastic cigarette smoking and cellular phone kits for children (why not beer drinking or heroin-taking kits?). I get so much inspiration from packaging that I could work every day for the rest of my life. I appropriate the joy of these toys, the naughtiness of the gags; I have even kept the language of colour particular to childhood. I replicate the mistakes (misspellings, etc.) and copy the codes of cheap packaging (Made in China, ref#23, not for sale in Britain, choking hazard...). In this way my art is completely inspired by packaging. The pills are simply cheap adult toys packaged for the eye of a child.

I always think about what C.G. Jung said, «The creative mind plays with the objects it loves». I love gadgets and joke gifts because they are an incredible mirror to our world. They reveal our deepest desires and obsessions, and pantomime our fears. Think of the gag shops that sell, in neat, colourful packages, our worst domestic nightmares - a cigarette burn in the carpet, cat vomit, dog shit, a bullet hole in your car window, a bloody thumb, a nail driven through your kitchen table... I can still remember as a child delivering to my holy grandmother my chopped off ketchup-ed finger, and her very unholy scream. What pure childhood joy! And what a beating I got afterwards ! In my home I have one room devoted to cheap children’s toys, the type you buy at gas stations or drugstores for $1.29 when you’ve forgotten a gift for a nephew’s birthday party. Here, in this world of children’s packaging, life is reduced to its purest essence. For $1.29, your child can BE a cop, a fireman, an action hero, a doctor...(if your child is lucky enought to be a boy). For the girls, there’s sewing, mothering, cooking, dressing up. A closer look at the FBI Agent Kit reveals a gun in a holster, 4 bullets, handcuffs, a badge, a pump action shotgun...and a pair of tacky 1970’s pornstar-style sunglasses...as if this is all it is to be a cop. The Modern Bride kit is a wonderful look at modern feminism - plastic doll in a sleazy wedding dress cut over the knees, gaudy makeup and jewellery, all arranged beneath a plastic blister pak ; the message? If you want to be a successful bride, look pretty and sexually available. These cheap toys are my favourite form of packaging because they show the legacy that we are leaving to our children. Like little lambs who practise in the fields the behaviour they will need to

Packaging is definitely here to stay. Seeing something arranged beneath a shiny plastic blister pak reminds the buyer of its newness. It’s not organic. It’s not made by man. It’s made by that wonderful thing called the machine. And for some reason that makes us dream.



SENZA TITOLO (1999) IL SACCO NERO DELLA SPAZZATURA È ORMAI DIVENTATO QUASI UN ELEMENTO DI ARREDO URBANO E, INSIEME AL CASSONETTO E AL BIDONE, SI È CONQUISTATO UN RUOLO BEN DEFINITO NEL NOSTRO IMMAGINARIO. PROPRIO PER QUESTO, LʼARTISTA INGLESE GAVIN TURK HA DECISO DI DEDICARGLI UN MONUMENTO AMBIGUO,

courtesy White Cube, London

TRASFORMANDOLO IN UNA SIMBOLICA SCULTURA IN BRONZO DIPINTO.

UNTITLED (1999) THE BLACK REFUSE BAG HAS BY NOW BECOME A PIECE OF URBAN FURNISHING AND, ALONGSIDE THE SKIP AND THE BIN, HAS CONQUERED A WELL-DEFINED ROLE IN OUR IMAGINERY. FOR THIS VERY REASON, BRITISH ARTIST GAVIN TURK HAS DECIDED TO DEDICATE AN AMBIGUOUS MONUMENT TO IT, TRANSFORMING IT INTO A SYMBOLIC SCULPTURE IN PAINTED BRONZE.


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Ontologia di un bidone della spazzatura Antonio Caronia

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Nel luglio del 2000 sulle Filippine stava imperversando il tifone Kai Tak. I tifoni non sono una novità in quella zona. Non erano una novità neppure le piogge violentissime che investirono Manila e la periferia di Quezon, un sobborgo della capitale, e in particolare la bidonville di Lupang Pangako (che in lingua tagalog significa “terra promessa”). La bidonville, grande come tre campi di calcio, era abitata da 80.000 persone, e al suo centro sorgeva un’enorme discarica di rifiuti: e anche sotto, e in mezzo, ai rifiuti sorgevano centinaia di misere abitazioni di fortuna. La novità fu che il 10 luglio la pioggia e il fango ebbero ragione della discarica: migliaia di tonnellate di spazzatura si rovesciarono sulle abitazioni sottostanti e le seppellirono, trascinando a valle cartoni e corpi. Fino al 15 luglio erano stati recuperati 160 cadaveri, nelle settimane successive ne vennero trovate molte altre decine, ma è possibile che sotto i detriti ne siano rimasti sepolti altri ancora, mai più recuperati. Nessuno, quindi, ha potuto fare un bilancio preciso delle vittime. Neppure questa è una novità: perché non c’è convenienza a tenere una contabilità delle vite, perdute o guadagnate, degli abitanti di una bidonville.

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C’è invece una contabilità, più o meno precisa, dei materiali che vanno a comporre i rifiuti sempre crescenti della società postindustriale, che da questo punto di vista è anche peggio di quella industriale. Rifiuti tossici e rifiuti non tossici, rifiuti industriali e rifiuti domestici, rifiuti stoccati e smaltiti legalmente e rifiuti illegali tout court – per l’origine, la gestione o il trattamento.

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L’era della produzione immateriale non significa affatto che è scomparsa la materia, ma solo che essa è più mobile e invadente che mai. E una frazione crescente dei materiali e degli oggetti creati dall’uomo è costituita da materiali e oggetti inservibili, alla fine della loro vita, materiali e oggetti che vanno eliminati senza che si sappia bene come fare. Materiali e oggetti morti, a tutti gli effetti, che vanno tenuti lontani e separati dai vivi. Finché si può. E non sempre si può. A Lupang Pangako, evidentemente, non si poteva. Materiali e oggetti morti che possono provocare la morte. A Lupang Pangako l’hanno fatto. Che cosa ci sarà stato fra quegli oggetti e quei materiali che hanno provocato la morte? Le stesse cose, presumibilmente, che ci sono in tutte le discariche del mondo: in gran parte confezioni di oggetti, grandi e piccoli, consumati dai privati o dalle aziende, dagli enti, dalle organizzazioni, dagli uffici. Confezioni morte. Packaging morto. I 160 (o 300, o 400) emarginati di Quezon sepolti nella discarica, in quel 10 luglio del 2000, sono morti di packaging. Curiosa (e drammatica) inversione di un problema che da tempo alcuni sociologi, studiosi dell’immaginario, critici del design ci sottopongono: non di “morte del packaging” qui si è trattato, non nel senso almeno in cui essi lo dicono, sottolineando come la confezione si integri sempre di più all’oggetto, fino a esserne assorbita, a sparire quasi. No, qui si è trattato di “morte del packaging” molto più concreta, morte nel senso della fine di un ciclo,


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della morte “fisiologica” di una componente dell’oggetto che ha esaurito la sua funzione dopo l’acquisto e il consumo, e che appunto, con la sua morte finisce tra i rifiuti. E questa morte del packaging può facilmente trasformarsi in packaging della morte. Non intendo fare del moralismo terzomondista a buon mercato, seduto in una comoda stanzetta dell’occidente capitalista. Ma mi sembra che ogni riflessione sul packaging delle merci, a ogni livello (da quello della tecnica a quello dell’immaginario), che non tenga conto del suo stadio finale, della sua morte concreta, sia inevitabilmente monca. Il packaging va a morire nelle discariche del pianeta, che lo si voglia o no. Ma in genere lo vogliamo. Come per gli individui, anche per le merci è la morte che spesso illumina retrospettivamente la vita, e in un lampo ne costruisce il senso: un senso anche diverso, a volte opposto a quello che ci era apparso finché la vita durava. Ora, la questione dei rifiuti e del loro smaltimento è uno dei problemi più gravi che minaccino l’equilibrio ecologico del pianeta: meno capace di suscitare l’emozione del pubblico, come fanno – grazie anche a sapienti campagne di agenzie e movimenti ambientalisti – il buco dell’ozono, l’effetto serra, e il rischio di estinzione di certe specie animali (ma più in generale la riduzione della biodiversità), esso si dimostra tuttavia altrettanto pericoloso e altrettanto ingestibile per i politici e gli economisti del mondo. Ogni abitante tedesco, per fare un esempio, produceva nel 1992 6,9 tonnellate di rifiuti non tossici all’anno, e ben 8,8 tonnellate di rifiuti tossici. Il volume e la massa degli scarti delle società industrializzate, e sempre più anche di quelle ipocritamente definite “in via di sviluppo”, minacciano di travolgerci: a volte anche letteralmente, come a Manila nel luglio del 2000, e quotidianamente in modo meno diretto ma non meno insidioso, vincolando e condizionando comportamenti individuali e sociali, abitudini di consumo, immaginario.

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In effetti il tema del rifiuto, dello scarto, del junk è uno dei temi portanti dell’immaginario contemporaneo. Basti pensare a gruppi di artisti/performer/tecnologi come la Mutoid Waste Company e la Fura dels Baus in Europa, o i Survival Research Laboratories negli USA: gruppi che a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso hanno fatto del riciclo creativo dello scarto industriale non solo una tecnica e una modalità di produzione molto caratteristica e inequivocabile, ma una vera e propria cifra stilistica, un cardine della loro attività espressiva. E prima di loro, naturalmente, Jean Tinguely, geniale e triste bricoleur di vecchie ferraglie arrugginite e teschi di animali. Si potrebbe dire, forzando forse un po’ ma non poi troppo, che ciò che accomuna queste – e tante altre esperienze artistiche come queste nel mondo – è il tentativo parossistico e paradossale di “resuscitare” il rifiuto, di assicurargli una seconda vita al di fuori e contro la morte decretata per esso (il rifiuto, la spazzatura) dalla logica funzionalista e produttivistica del capitalismo, che “chiude” la vita della merce nel ciclo produzione-consumo-esaurimentonuova produzione, e a questo ciclo incatena le nostre vite quotidiane. Quando Mark Pauline (Survival) costruisce i suoi giganteschi robot fatti di pezzi di macchine fuori uso (veri e propri Frankenstein dell’era elettromeccanica in via di sparizione), li lardella di pezzi di animali appena macellati, e li fa scontrare tra loro in epiche battaglie nelle desolate periferie della California, ci suggerisce forse che la morte degli oggetti artificiali non deve essere accettata supinamente, perché accettarla significherebbe accettare anche la nostra morte, e la nostra morte, come scrisse Canetti, continua a essere lo scandalo principale della nostra vita. Queste esperienze artistiche rientrano in un atteggiamento che si potrebbe chiamare “ontologico” rispetto al junk: i rifiuti mettono in luce nuovi aspetti del


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mondo, o sono addirittura la porta per entrare in veri e propri mondi paralleli. Un esempio molto interessante di questa funzione dei rifiuti nell’immaginario è un racconto giovanile di Thomas Pynchon, “Terre basse” (contenuto nella raccolta Un lento apprendistato). Schifata dagli amici balordi del marito, la moglie di Dennis Flange lo sbatte fuori di casa. È una tipica crisi del settimo anno, che il protagonista prende con una certa filosofia, forse perché anch’egli è oscuramente cosciente dell’impossibilità di proseguire il suo matrimonio. Fatto sta che, assieme ai suoi amici, Flange trova ospitalità nella baracca del guardiano di una discarica. Qui, nella notte, Flange impara l’esistenza di una specie di città sotterranea sotto la discarica, abitata da gitani, e conosce una ragazza, Nerissa: si trasferirà lì, e Nerissa diverrà la sua nuova compagna. Il titolo del racconto è legato a una vecchia ballata marinara che parla delle Terre Basse della Scozia: ma Flange ha sempre pensato alle terre basse come a una specie di mare pietrificato, e scendendo verso il centro della discarica ritrova la stessa sensazione: ... Per Flange quell’immensa distesa di vetro opaco [il mare aperto in una certa luce o in un certo stato d’animo] era come una terra bassa, che richiedeva quasi, per essere completa, una solitaria figura umana che l’attraversasse a grandi passi; arrivare al livello del mare era come raggiungere un punto minimo e senza dimensioni, un incrocio irripetibile di paralleli e di meridiani, la garanzia di un’uniformità perfetta e impassibile; allo stesso modo, durante la discesa a spirale nel camioncino, gli era parso che il luogo in cui si erano finalmente fermati fosse il centro assoluto, l’unico punto da cui dedurre un’intera terra bassa...1

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Accanto all’atteggiamento che ho definito ontologico, ve n’è però un altro, nei confronti dei rifiuti, che può essere definito “epistemologico”: i rifiuti rappresenterebbero, in questo caso, una via per comprendere la realtà che ci

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DIRTY WHITE TRASH (1998) UNA COPPIA DI GIOVANI OCCIDENTALI ALLA MODA SI RILASSA DURANTE UN PARTY; IN REALTÀ LA LORO SAGOMA NON È ALTRO CHE LʼOMBRA CREATA SULLA PARETE DA UN MUCCHIO DI SPAZZATURA ILLUMINATO DALLA LUCE BIANCA DI UN RIFLETTORE. CON QUESTʼOPERA GLI ARTISTI BRITANNICI TIM NOBLE E SUE WEBSTER SVELANO LA FACCIA “IMMONDA” DELLA CIVILTÀ DEI CONSUMI. A FASHIONABLE YOUNG WESTERN COUPLE RELAX AT A PARTY; IN ACTUAL FACT THEIR OUTLINE IS NONE OTHER THEN THE SHADOW CREATED ON BY WALL BY A PILE OF TRASH ILLUMINATED BY THE WHITE LIGHT OF A STAGE LAMP. WITH THIS WORK THE BRITISH ARTISTS TIM NOBLE AND SUE WEBSTER REVEAL THE “FILTHY” SIDE OF THE CONSUMER CIVILISATION.

Courtesy: Thaddaeus Ropac, Paris


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circonda, sarebbero insomma uno strumento conoscitivo nei confronti del mondo esistente. L’approccio epistemologico è particolarmente interessante nel caso del packaging: tra le funzioni del packaging “attivo” (prima, cioè, della sua scomparsa nel gorgo anonimo dei rifiuti) ve n’è infatti una importante, di tipo informativo. Ora questa funzione non finisce del tutto con la “morte” del packaging: le confezioni conservano, anche nei bidoni della spazzatura e nelle discariche, questa potenzialità informativa, che non si attiva solo perché le informazioni che esse recano sono inerenti a prodotti ormai consumati, e sembra del tutto inutile recuperare informazioni su oggetti che non esistono più o sono stabilmente inseriti nel nostro paesaggio domestico. Ma basta pensare al ruolo strategico che riveste per una spia, militare o industriale, l’andare a frugare in mezzo alla spazzatura dei soggetti tenuti sotto controllo, per accorgerci che le informazioni contenute nel packaging scartato rappresentano una specie di “storia” ben documentata di chi lo ha usato. Un buon esempio di questa situazione si trova nel romanzo Rumore bianco di Don De Lillo. De Lillo è un altro di quegli scrittori che dei rifiuti ha fatto un tema centrale del suo universo narrativo. Per esempio i due protagonisti di un altro romanzo, Underworld, sono entrambi legati al mondo dello scarto: Nick dirige un’azienda che si occupa del trattamento e dello smaltimento dei rifiuti tossici, in particolare delle scorie nucleari, e Klara è un’artista che crea le sue opere utilizzando rifiuti e oggetti fuori uso – qualcosa a metà fra Tinguely e i Survival Research Laboratories. Non c’è dubbio che questa attrazione che i rifiuti esercitano su De Lillo sia legata al tema della morte, che aleggia su tutta la sua opera. La paura della morte, conseguente a una misteriosa nube tossica, è appunto al centro di Rumore bianco. Ma molte scene del libro si svolgono in un supermercato, tra gli scaffali ricolmi di merci, e qui si svolgono


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molti dialoghi interessanti fra il protagonista, Jack Gladney, la moglie Babette e il collega Murray. Dice a un certo punto Murray, parlando della concezione della morte fra i tibetani: «... Non dobiamo aggrapparci artificialmente alla vita, e neanche alla morte. (...) Guarda come è tutto ben illuminato. Questo posto è sigillato, conchiuso in sé. È senza tempo. Un altro motivo per cui penso al Tibet. (...) Qui non moriamo, facciamo acquisti. Ma la differenza è 2 meno marcata di quanto si creda...» . A un certo punto del libro Jack si trova a frugare nel bidone dell’immondizia di casa, alla ricerca delle prove di medicinali assunti segretamente da Babette. La pagina è un vero concentrato di sapienza descrittiva e di ricerca del senso, e vale la pena leggerne qualche estratto.

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... Attraversai la cucina, aprii lo sportello del compressore e guardai nei sacchetti della spazzatura. Uno stillante cubo di lattine semistritolate, appendini per abiti, ossa di animali e altri rifiuti. Le bottiglie erano in frantumi, i cartoni appiattiti. I colori dei prodotti, tuttavia, erano intatti quanto a vivacità e intensità. Grassi, sughi e detriti pesanti filtravano attraverso strati di sostanze vegetali compresse. Mi sentivo come un archeologo in procinto di passare al vaglio un reperto di frammenti di utensili e spazzatura cavernicola assortita. (...) Slacciai il sacco, lo aprii e lo tirai fuori. Il tanfo terribile mi colse con una forza sconvolgente. Era nostro? Roba veramente nostra? Lo avevamo prodotto noi? Portai il sacco fuori dal garage e lo svuotai. La massa compressa se ne stette posata lì, come un’ironica scultura moderna, massiccia, tozza, beffarda. Vi ficcai più volte il manico di un rastrello e poi sparpagliai il materiale sul suolo in cemento. Quindi ne estrassi i vari oggetti uno a uno, massa informe dopo massa informe, chiedendomi perché mai mi sentissi così colpevole, come di violare una privacy, di svelare certi segreti intimi e forse vergognosi. (...) Ma perché mi sentivo come una spia domestica? La spazzatura ha un carattere tanto privato? Arde nel proprio intimo di un calore personale, dei segni di

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una più profonda natura, indizi di aspirazioni personali, di fallimenti umilianti? Quali abitudini, manie, vizi, tendenze? Quali atti solitari, quali abitudini inveterate? (…) Trovai una buccia di banana con dentro un tampone. Forse il lato sotterraneo e oscuro della coscienza del consumatore?... 3

Tale, dunque, la seconda vita del packaging nei bidoni dell’immondizia e nelle discariche di rifiuti. Solo in quei luoghi, dopo averci – ancora “in vita” – informato, sedotto, e spesso trasportato in universi paralleli, solo in quel luogo della sua morte esso riesce a tracciare una storia di noi stessi, a rivelare “il lato sotterraneo e oscuro” della nostra coscienza di consumatori, e perciò di esseri umani. 1 Thomas Pynchon, Terre basse, in Un lento apprendistato, trad. it. e postfazione di R. Cagliero, Edizioni e/o, Roma 1988, p. 61. 2 Don De Lillo, Rumore bianco, trad. it. di Mario Biondi, Einaudi, Torino 1999, p. 48. 3 Op. cit., pp. 308-310.

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Antonio Caronia, scrittore e saggista, si è occupato dell’impatto sociale delle nuove tecnologie. Di recente ha pubblicato

Archeologie del virtuale, Ombre Corte, 2001.


7 LUGLIO 2000: IL TIFONE KAI TAK DEVASTA LE FILIPPINE. FOTO SATELLITARE TRATTA DAL SITO HTTP://WEATHER.YAHOO.COM

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7 JULY 2000: TYPHOON KAI TAK DEVASTATES THE PHILIPPINES. 83

SATELLITE PHOTO FROM SITE HTTP://WEATHER.YAHOO.COM


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Ontology of a Dustbin Manila’s rubbish tip as a metaphor for an over-populated world of refuse. Rubbish is perhaps the East’s most important product, and has become the “dark, submerged side” of our conscience as consumers.

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Antonio Caronia

In July 2000, typhoon Kai Tak was raging over the Philippines. Typhoons are nothing new in this part of the world. Neither were the torrential rains affecting Manila and Quezon, one of the capital’s suburbs, and especially the shanty town of Lupang Pangako (which in the Tagalog language means “promised land”). The shanty town, the size of three football fields, was home to 80,000 people, and at its centre was an enormous rubbish tip. Below and on top of it, on the rubbish itself, there were hundreds of miserable makeshift shacks. What was new on this 10 July was that the rain and mud were too much for the tip: thousands of tons of rubbish capsized onto the dwellings below and buried them, sweeping cardboard shacks and bodies into the valley. By 15 July, 160 bodies had been recovered. In the weeks that followed, dozens more were found, but it is possible that many more still lie buried beneath the refuse and will never be found, so no-one has been able to make a precise tally of the victims. Even this is nothing new: there is no point in keeping track of loss of life among the inhabitants of a shanty town. However, there is a more or less precise assessment of the materials which make up the ever-growing quantity of refuse created by post-industrial society, which is even worse than that of industrial society. Toxic and nontoxic waste, industrial and domestic waste, waste stored and disposed of legally and waste which is

frankly illegal - because of its origins, handling or treatment. The age of non-material production does not mean that materials have disappeared, just that they are more mobile and invasive than ever. An increasing proportion of the materials and articles made by man is made up of useless materials and articles, at the end of their lifecycle, materials and articles which must be got rid of, although we do not know how to do this. To all intents and purposes they are dead materials and articles, which need to be kept at a distance from our daily lives. As long as we can do this. And we cannot always do it. Obviously, we couldn’t do it at Lupang Pangako. Dead materials and articles which can cause death. As they did at Lupang Pangako. What was it in those materials and articles which caused the deaths? Presumably the same things to be found in all the world’s rubbish tips: for the most part packaging from large and small articles, used by private citizens and companies, by corporations, organisations and offices. Dead packaging. The 160 (or 300, or 400) marginalised inhabitants of Quezon, buried under the rubbish that 10 July 2000, died of packaging. This is a strange (and dramatic) inversion of a problem which some sociologists, scholars of a hypothetical world and critics of design have been examining for ages: not the “death of packaging” under consideration here, at least not in the sense in which they speak of it, emphasising how packaging becomes an integral part of the article, until it absorbs it, almost submerges it. No, here we are talking about a much more concrete “death of packaging”, death in the sense of the end of a cycle, the “physiological” death of a part of the article which has outworn its usefulness after the purchase of the article, and with its death ends up among the rubbish. This death of packaging can easily become packaging of death.


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These artistic experiences become an attitude which can be referred to as “ontology” when referring to junk: rubbish throws light on new aspects of the world, or is actually the doorway leading to a real parallel world. A very interesting example of this function of rubbish in the imagination is a short story for children by Thomas

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In effect, the subject of rubbish, refuse and junk is one of the most weighty subjects for contemporary imagination. One only has to think of groups of

artists/performers/technologists such as the Mutoid Waste Company and Fura dels Baus in Europe, or the Survival Research Laboratories in the USA: groups which since the 1980s have made the creative recycling of industrial waste into not only a characteristic and unequivocal production technique, but also a real stylistic trade mark, a cornerstone of their expressive activities. And before them, of course, Jean Tinguely, the artist of genius and sadness, working with old rusted ironwork and animal skulls. Stretching the point a little, but not too far, it could be said that the common thread connecting these works – and many similar ones throughout the world – is a fierce and paradoxical attempt to “resuscitate” the rubbish, to ensure for it a second life, beyond the death decreed for it (as rubbish) by the functional and productional logic of capitalism. This logic encapsulates the life of a piece of merchandise in a cycle of production-consumption-disposal-new production, and our daily lives are inexorably linked to this cycle. When Mark Pauline (Survival) builds his gigantic robots from discarded pieces of machinery (real Frankenstein monsters of the disappearing electro-mechanical age), adds to them parts of recently-slaughtered animals, and has them engage in epic battles in the desolate Californian outback, he is perhaps suggesting that we should not accept the death of man-made objects lying down, because by accepting it we also accept our own deaths, and our own deaths, as Canetti wrote, continue to be the biggest scandals of our lives.

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I am not trying to make a moral judgement on third world economics, sitting here in a comfortable room in the capitalist West. But it seems to me that any consideration of the packaging of goods, at any level (from the technical to that of a hypothetical world) which does not take into account its final resting-place, its actual death, is inevitably incomplete. Packaging is going to end up on the planet’s rubbish tips, whether we want it to or not. But generally we want it to. As with people, so with merchandise. It is death which retrospectively casts light upon life, and in a flash shows its true meaning: a meaning which is different, often the opposite of what it appeared to be as long as there was life. Now, the question of refuse and its handling is one of the most serious problems threatening the balance of the planet. It is less likely to arouse emotions in people than – thanks to masterly campaigns by environmental agencies and movements – the hole in the ozone layer, the greenhouse effect or the danger of extinction of certain animal species (and more generally a reduction in bio-diversity), but it is a nonetheless dangerous, and nonetheless unmanageable problem for the world’s politicians and economists. For example, in 1992 every German citizen was producing an annual total of 6.9 tons of non-toxic waste, and a good 8.8 tons of toxic waste. The volume and mass of refuse produced by industrialised society, and more and more by what are hypocritically referred to as “developing countries”, threaten to overwhelm us, sometimes literally, as in Manila in July 2000. Every day in a less direct but no less insidious way, the behaviour of individuals and societies, consumer habits and imagination are being moulded and conditioned.


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Pynchon, “Lowlands” (in the collection A Slow Apprenticeship). Disgusted by the stupid behaviour of her husband’s friends, Dennis Flange’s wife drives him out of the house. It is a typical crisis caused by the “seven year itch”, which the husband accepts fairly philosophically, perhaps because he too subconsciously realises that his marriage is on the rocks. The upshot is that Flange, together with his friends, finds refuge in the hovel of the caretaker of a rubbish tip. Here, at night, Flange learns of the existence of a kind of subterranean city, inhabited by gypsies, and meets a girl called Nerissa. He moves to the city and Nerissa becomes his new companion. The title of the story is linked to an old sea shanty which speaks about the Lowlands of Scotland: but Flange has always thought of the Lowlands as a kind of petrified sea, and going down into the depths of the rubbish he has the same feeling:

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... For Flange that vast expanse of opaque glass [the open sea in a certain light or in a certain state of mind] was like a low land, which needed something to become complete, a solitary human figure crossing it with great steps; reaching the level of the sea was like reaching the smallest point, without dimensions, an unrepeatable crossroads of parallels and meridians, the guarantee of a perfect, impassable uniformity; in the same way, during the spiral descent in the little truck, it seemed to him the place in which he finally came to a halt was the absolute centre, the only point from which the whole low land could be discerned... 1 Alongside this attitude which I have defined as ontology, there is however another one connected with refuse, which can be defined as “epistemology”: in this case, rubbish would represent a way of understanding the world around us, it would be a cognitive tool to compare with the

existing world. The epistemological approach is especially interesting in the case of packaging: among the functions of “active” packaging (that is, before it disappears into the anonymous whirlpool of rubbish) there is an important and informative one. Today, this function does not end with the “death” of the packaging: even in the dustbin and on the rubbish tip packaging preserves this informative potential, which is not activated only because the information it carries is inherent to the product which has been consumed, and it does not seem worthwhile to save information about articles which no longer exist, or which have found their place in our domestic landscape. But one only has to think of the strategic role it holds for military or industrial spies, searching amongst the rubbish of people under their control, to realise that the information contained on discarded packaging represents a kind of well-documented history of those who used it. A good example of this situation is to be found in the novel White Noise by Don De Lillo. De Lillo is another of those writers for whom refuse is the central subject of his narrative universe. For example, the two main characters of another novel, Underworld, are both linked to the world of waste: Nick is the manager of a company involved in the treatment and disposal of toxic waste, and Klara is an artist who creates her works using rubbish and used articles – something halfway between Tinguely and the Survival Research Laboratories. There is no doubt that the attraction waste holds for De Lillo is linked to the subject of death, which overlays all his writing. The fear of death, following a mysterious poisonous cloud, is at the centre White Noise. But many of the scenes in the book take place in a supermarket, among the shelves stacked with merchandise, and here too there are interesting dialogues between the main characters, Jack Gladney, his wife Babette and his colleague Murray. At a certain point Murray, speaking about the concept of death


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among the Tibetans, says: “We must not hang on artificially to life, nor to death either Look how welllit everything is. This place is sealed, selfcontained. And without time. Another reason to think of Tibet. (...) We don’t die here, we buy things. But the difference is not as great as you might think...” 2. At a certain point in the book, Jack finds himself searching among the contents of their dustbin, looking for the medicines which Babette is secretly taking. The page is a real concentration of descriptive knowledge and a search for meaning, and it is worth reading this extract:

... I crossed the kitchen, opened the door of the compressor and looked through the bags of rubbish. A dripping cube of half-crushed tins, coathangers, animal bones and other rubbish. The bottles were smashed, the cartons flattened. The colors of the things were unchanged, though, in their life and intensity. Grease, sauces and heavier items were oozing down through layers of compressed vegetable matter. I felt like an archaeologist about to give a close examination to a hoard of tool fragments and assorted rubbish from a cave (...) I untied the sack, opened it and looked inside. The awful stench hit me like a physical blow. Was it ours? Was this really our stuff? I carried the sack out of the garage and emptied it. The compressed mass just stood there, like an ironic modern sculpture, solid, squat, mocking. I poked it several times with the handle of a rake, then

spread the stuff over the concrete floor. Then I took out the various objects one by one, shapeless mass after shapeless mass, asking myself why I had never before felt so guilty, as if I was violating someone’s privacy, revealing someone’s intimate, and therefore shameful, secrets. (...) But why did I feel like a household spy? Does rubbish have such a private nature? Does it burn in its intimacy with a personal heat, with the signs of a deeper nature, clues to personal aspirations, to humiliating failings? What habits, obsessions, vices, tendencies? What solitary actions, what ingrained habits? (...) I found a banana skin with a tampon inside it. Maybe the dark, submerged side of the consumer’s conscience?... 3 This, then, is the second life of packaging, in the rubbish bins and refuse tips. Only in these places, after having – while still “alive” – informed, seduced and often transported us to a parallel universe, only in its place of death is it able to trace our own history, to reveal the “dark, submerged side” of our conscience as consumers, and thus as human beings. 1

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Thomas Pynchon, “Lowlands”, from A Slow Apprenticeship, Edizioni e/o, Rome 1988, p. 61. Free translation from the Italian. Don De Lillo, White Noise, Einaudi, Turin 1999, p. 48. Free translation from the Italian. Op. cit., pp. 308-310.

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Archeologie del virtuale, Ombre Corte, 2001.

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Antonio Caronia, writer and essayist, he has dealt with the impact of the new technologies on society. Recently he published


A Scuola di Packaging

Istituto Europeo di Design Non ci risulta (ma saremmo ben felici di essere smentiti) che in Italia esistano specifiche scuole di packaging in cui l’argomento imballaggio sia studiato approfonditamente e simultaneamente sotto tutti i punti di vista, sia quello tecnico e progettuale sia quello di carattere più umanistico, legato alla comunicazione, alla cultura delle immagini, alla filosofia, alla sociologia e all’antropologia. In genere lo studio del packaging è ancora piuttosto frammentato e frammentario e ogni istituto o università riesce a privilegiare solo alcuni aspetti; ciò è in parte è

comprensibile, si tratta, infatti, di una disciplina molto ampia e articolata, oltre che ancora piuttosto sconosciuta, che, in questo senso, vede gli Stati Uniti, l’Inghilterra e il Canada tra i migliori fornitori di servizi didattici. Anche se in Italia c’è meno scelta, tuttavia esistono varie scuole (soprattutto di design, grafica e comunicazione) o accademie o università o politecnici che dedicano “anche” al packaging lo spazio per seminari, workshop, master, corsi di aggiornamento ecc. L’Istituto Europeo di Design

(via A. Sciesa 4, 20135 Milano, tel. +39/025796951, fax +39/02 55012613, visual@milano.ied.it, www.ied.it) è uno di essi. Dario Accanti, docente all’Istituto Europeo di Design di Milano e responsabile del dipartimento di grafica, spiega: «Il corso di Packaging è oggetto di insegnamento al terzo anno di grafica di tutte le sedi dello I.E.D. (Milano, Roma, Torino, Madrid); è semestrale e include anche attività di laboratorio. Affronta le basi del progetto di imballaggio privilegiando gli


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aspetti della comunicazione ma senza trascurare lo studio dei contenitori. I materiali e le tecniche utilizzati in questo secondo caso sono quasi esclusivamente di tipo cartaceo, data la difficoltà di affrontare tematiche legate ai processi di trasformazione di materiali più inusuali per un grafico (materiali plastici, vetro, ecc.). Il lavoro di grafica, viceversa, viene applicato sui prodotti più diversi: dal largo consumo al luxury, cosmetici, ecc. Più ampio è l’approccio nei progetti di tesi, in cui l’organizzazione del lavoro ha

caratteristiche del tutto professionali. In questo caso viene proposto agli studenti un progetto di comunicazione, legato ad un committente esterno. I gruppi di lavoro affrontano dapprima lo studio del problema e la “definizione del compito” e definiscono una strategia di intervento che viene discussa con il cliente. Passano poi alla fase di progetto vera e propria in cui vengono affrontati, se richiesto, anche aspetti di design dei contenitori con utilizzo di materiali diversi; in questi casi generalmente ci si appoggia ai colleghi del corso di Industrial Design, studenti e

docenti, per avere consulenze ed aiuto soprattutto sugli aspetti più tecnici, ma anche su quelli progettuali e, spesso, sulla realizzazione di modelli e prototipi. Alcuni dei lavori svolti sono stati il packaging per Star (linea conserve pomodoro), Akuel (preservativi), Ticket Restaurant (contenitori da asporto e oggetti promozionali), Nonino (linea distillati U’E), GS (prodotti a marchio proprio)». Il nostro viaggio nelle scuole dove si insegna il Packaging continua sul prossimo numero.

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Packaging School

The European Institute of Design

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As far as we’re aware (though we’d be only too happy to be put right) there are no specific packaging schools in Italy where the matter of packaging is studied in depth and simultaneously from all aspects, both technical/design and the arts, taking in communication,visual culture, philosophy, sociology and anthropology. Generally speaking, the study of packaging is still somewhat fragmented and fragmentary and each institute or university manages to look at only some aspects. This is partly understandable, given that it’s a very broad, segmented discipline, and relatively unknown. The USA, the UK and Canada are, in this sense, among the best suppliers of such educational services. Even though there’s far less choice in Italy, there are still various schools (especially those of design, graphics and communication) or academies and universities/polytechnics that dedicate space “also” to packaging for seminars, workshops, masters, update courses etc. The European Institute of Design (via A. Sciesa 4, 20135 Milan, tel. +39/025796951, fax +39/02 55012613, visual@milano.ied.it, www.ied.it) is one of these. Dario Accanti, teacher at the European Institute of Design in Milan and responsible for the graphics department, explains: “the Packaging course is taught during the third year of the graphics degree in all E.I.D. seats (Milan, Rome, Turin,

Madrid); it lasts six months and also include workshop activities. It deals with the basics in packaging design, privileging the aspects of communication, but without overlooking the study of the containers. The materials and techniques used in this second case are almost entirely paper-based, given the difficulty of dealing with themes concerning the processes of conversion of more unusual materials for a graphic artist (plastics, glass, etc.). Vice-versa, graphic design is applied to the most diverse of products: from commodities to luxury goods, cosmetics, etc. The approach is wider in the thesis projects, where the organisation of the work is truly professional. In this case, the students are asked to prepare a communication project, for an external customer. The work groups start off with a study of the problem and the “definition of the task” and then define a strategy of intervention that is discussed with the customer. Then they go on to the real project stage where, if necessary, they also consider aspects of the design of the containers, using different materials; in these cases, they are assisted by their colleagues on the Industrial Design course, students and professors, for advice and help on the more technical aspects, but also those dealing with design and, as often happens, the creation of models and prototypes. Some of the jobs carried out so far have been the packaging for Star (line of tomato preserves), Akuel (condoms), Ticket Restaurant (take-away containers and promotional gimmicks), Nonino (line of U’E spirits) and GS (own brand products)”. Our journey around “Packaging schools” will continue in the next issue.


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« IL PIÙ BELLO DEI MONDI È PROPRIO COME UN MUCCHIO DI RIFIUTI GETTATI A CASO » DICE ERACLITO. «THE MOST BEAUTIFUL OF WORLDS IS EXACTLY LIKE A PILE OF RUBBISH THROWN AWAY HAPHAZARDLY» HERACLITUS SAYS.

Photo by Erica Ghisalberti

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Antonio

Emanuela e Nicola


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Vincenzo

Diana

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Maria Grazia

Enzo e Lucia


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Roberto

Casa Rinaldi

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«La spazzatura è una cosa molto intima, che la gente di solito cerca di nascondere» dice Erica Ghisalberti, autrice di questa serie fotografica, «ma anche la lista della spesa è una cosa che ognuno scrive per se stesso, a differenza ad esempio di una lettera, dove si vuole comunicare qualcosa o fare bella figura con qualcuno». La lista degli oggetti che desideriamo e l’immondizia in cui finiranno i loro involucri costituiscono l’alfa e l’omega del consumo e mettono a nudo, al tempo stesso, la verità dei consumatori. «Rubbish is a very intimate thing, that people normally try to hide» Erica Ghisalberti, authoress of this photographic series, tells us, «but the shopping list is also something that everyone writes for themselves, as opposed to a letter, where in turn one want to communicate something or make a good impression on someone». The list of objects that we wish to have and the rubbish where their wrappings will end up is the A - Z of consumption, at the same time baring the truth about consumers. Erica Ghisalberti, 27 anni, artista e fotografa. Twenty-seven, is both artist and photographer.


Linea Debord (1999) I pensieri del famoso teorico de “la società dello spettacolo”, Guy Debord, sullʼopera-packaging di Antonio De Pascale (acrilici e copia laser su vetroresina). The thoughts of the famous theorist of the “Show Society”, Guy Debord, on the packaging-works by Antonio De Pascale (acrylic and laser copies on fibreglass).


FIVE BOTTLES ON SHELF (1982) BOTTIGLIE SILENZIOSE SU UNA MENSOLA: CON L始EQUILIBRIO DI UN GRANDE COMPOSITORE TO NY CRAGG HA TRASFORMATO IN ARTE CONTEMPORANEA I VUOTI A PER DE RE TROVATI SULLE SPIAGGE BRITANNICHE. SILENT BOTTLES ON A SHELF: WITH THE EQUILIBRIUM OF A GREAT COMPOSER TONY CRAGG HAS TURNED THROWAWAY BOTTLES FOUND ON BRITISH BEACHES INTO

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CONTEMPORARY ART.


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Objet petit a: piccole essenze non-perdute Antonio Piotti

Il gesto del disfarsi e l’incapacità di buttar via, la paura del possesso e la mania di conservazione; il packaging come specchio dell’inconscio, lapsus che parla al nostro posto.

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È noto come il destino del packaging sia quello di andare perduto. Di non avere più alcuna valenza dopo l’atto di acquisto. Di essere tanto più smagliante, attrattivo, vivace, interessante quando è intatto sugli scaffali, per divenire poi insignificante e dimenticato nel momento in cui, ormai distrutto, viene assegnato al campo desolante dei rifiuti. Con che criterio tuttavia ci sbarazziamo di tutto ciò che avvolgeva, proteggeva, suggeriva i nostri acquisti? Esiste poi un criterio unico per tutti i tipi di packaging? Infine, viene effettivamente distrutto tutto quello che volevamo distruggere o c’è qualcosa che riesce a mantenersi, assumendo per noi un valore del tutto particolare? Se ci guardiamo intorno, sotto il cruscotto della nostra macchina, nei cassetti dell’armadio o della scrivania, sul tavolo in cucina, sarà difficile non trovare qualche pacchetto sopravvissuto, qualche piccolo contenitore inutile che non abbiamo avuto cuore di distruggere, qualche insignificante involucro che è misteriosamente riuscito a rimanere attaccato alla nostra vita. Dentro, magari, non c’è più nulla e comunque non c’è più l’oggetto di cui è rimasta la custodia. Eppure, lo striminzito simulacro, apparentemente privo di valore, ha come il potere di evocare in noi qualcosa di indefinibile e di non immediatamente chiaro: lo guardiamo ancora, pensiamo che sia giunto il momento di liberarcene definitivamente ma, per l’ennesima volta, lo lasciamo lì, in attesa che il caso e l’incuria compiano per noi quell’opera che – nemmeno troppo inconsciamente – abbiamo sempre rimandato. Appartengono a questa categoria di

residuati sopravviventi i flaconi vuoti di profumo che spesso le donne conservano sulle mensole del bagno (a dire la verità, non solo le donne: D’Annunzio, per esempio, al Vittoriale, conservava in bagno decine di flaconi più o meno preziosi). Questi flaconi sembrano lasciati lì, abbandonati, non si sa se per dimenticanza o altro… tuttavia non è giusto dire che i flaconi sono stati abbandonati perché vuoti, quanto piuttosto che sono stati tenuti perché pieni, sono pieni di ricordi, contengono e conservano parte della nostra memoria. A parte alcuni casi specifici, qui non si tratta affatto, è bene sottolinearlo, di collezionismo. L’opera di chi colleziona è infatti qualcosa che si lega strettamente all’ordine simbolico: ogni pezzo ha senso per il posto che occupa e perché completa un discorso. Un collezionista compra un oggetto anche se non gli piace, anche se non gli evoca nulla. Lo compra e lo tiene solo per il valore che gli viene socialmente riconosciuto e non perché è stato di sua proprietà fin dall’inizio; oppure lo conserva per la sua bellezza, per l’originalità della sua forma, per il tempo che è passato da quando è stato messo in commercio, perché apparteneva ad una serie numerata e limitata. Nessuna di queste ragioni giustifica i nostri flaconi “abbandonati” sulla mensola. Questi sono certo pezzi rari ed anzi unici, ma lo sono esclusivamente perché rara ed unica è stata l’esperienza di chi li ha usati, perché – per dirla in termini più tecnici – raro ed unico è stato lo spazio di soggettività che, in riferimento a quegli oggetti, si è aperto. Perché, per dirla nuovamente in altri termini, quegli oggetti, quei flaconi non sono più


VIII 9 (2000) Claus Goedicke C-Print (dia-plex), edition of 5 Ex.+1, 56x70 cm.

Courtesy: Gallerie Thaddaeus Ropac, Paris



loro stessi, e si può dire che essi sono meno di loro stessi perché, per esempio, hanno perso il profumo che contenevano ma, nello stesso tempo, sono più di loro stessi perché si sono caricati di elementi immaginari. Hanno percorso un cammino dialettico attraverso il quale hanno superato il momento della loro negazione – momento nel quale sarebbero dei semplici rifiuti – per ritrovare se stessi diventando altro-da-sé.

Belle Haleine - Eau de Voilette (1921) Un collage di Marcel Duchamp sul flacone di un ambiguo profumo dal titolo in bilico fra Violette e Toilette. Il ritratto di Duchamp in vesti femminili è stato realizzato da Man Ray. A collage by Marcel Duchamp of a bottle of an ambiguous perfume stretched between Violette and Toilette. The portrait of Duchamp in female dress is by Man Ray.

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Nel linguaggio della psicoanalisi c’è un termine che definisce tutte queste cose: si tratta dei famosi objet petit a (oggetti a minuscolo) di cui parla Lacan. Sono quegli oggetti, cioè, che da un lato non sono nulla, sono solo un “buco vuoto” nel Reale, un mero schermo, ma che dall’altro, proprio perché non sono nulla, si adattano bene a raccogliere su di sé le istanze soggettive dell’individuo in modo tale che alla fine quei piccoli oggetti sono l’individuo che li ha usati e conservati. Appartengono a tutta questa categoria di oggetti quelle cose che segnano per noi l’essere delle

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All’estremo, ci si potrebbe chiedere cosa accadrebbe se noi facessimo così con tutte le cose, con tutti i piccoli oggetti insignificanti che l’esperienza quotidiana ci mette dinanzi. Cosa succederebbe se fossimo capaci di investire affettivamente tutto ciò che ci passa per le mani – il pacchetto di sigarette vuoto che spesso apriamo per stenderlo come se fosse un foglio di carta, il tappo di sughero di una bottiglia, la rete in fil di ferro che protegge i tappi dello spumante e che ci divertiamo a snodare completamente, il cellofan che ricopre giornali e riviste, e tutto il resto? Succederebbe che non potremmo più gettare nulla, o meglio, che saremmo divenuti mostruosamente capaci di rendere ogni istante della nostra vita significativo, pieno, ineliminabile, al punto da non poterne fare a meno. Non saremmo più soccorsi dal meccanismo della dimenticanza e dell’oblio. È forse secondo queste linee che è possibile cercare di interpretare l’opera dell’artista dadaista Kurt Schwitters (1887-1948) specialmente per ciò che concerne i famosi merzbau, colonne fatte di cose trovate per caso ed aggiunte le une alle altre giorno dopo giorno (biglietti del tram, tappi, piccoli oggetti quotidiani, ecc.): col passare del tempo queste strane

costruzioni crescevano a dismisura al punto che in alcuni casi l’artista si trovò costretto ad abbattere le pareti della casa in cui viveva per permettere a questi agglomerati totemici di continuare ad espandersi. Questo non è semplicemente l’inizio dell’arte povera o la provocazione avanguardista per cui si cerca di dimostrare che qualsiasi oggetto, anche il più comune, anche un semplice rifiuto, può diventare un’opera d’arte; qui non si tratta, evidentemente, nemmeno di una collezione. Ci troviamo invece di fronte ad una profonda esperienza psichica che fa considerare ogni oggetto come se fosse sempre carico di un’esperienza emotiva che lo travalica e che consente di trattare anche il piccolo biglietto del tram come se fosse carico di ricordi, di aspettative di emozioni non simbolizzabili ma profondamente coinvolgenti. L’artista in questo senso sarebbe colui la cui sensibilità coglie tutto, prova tutto, è in grado, veramente, di fare di ogni insignificante esperienza un avvenimento unico ed irripetibile.


Merzbau Se dovessimo dare un senso o affezionarci davvero a tutto ciò che troviamo non riusciremmo a buttare via più nulla; questa patologia è forse allʼorigine del famoso Merzbau (distrutto nel 1943) che Kurt Schwitters costruì nella propria casa di Hannover con materiali di scarto nellʼarco di oltre ventʼanni. If we were to give sense to or become attached to everything that we find we would be no longer capable of throwing away anything; this pathology is perhaps at the origin of the famous Merzbau (destroyed in 1943) that Kurt Schwitters built in his own home in Hannover with waste material over a period of twenty years.

persone che abbiamo amato o che amiamo. Infatti, dopo che una frequentazione si è resa costante e duratura, ci accorgiamo di riconoscere e di amare l’altro non tanto per i suoi tratti più vistosi e appariscenti, che ci avevano colpito all’inizio, quanto per una serie di caratteristiche parziali, minori, per un insieme di gesti e di segnali i quali, a loro volta, finiscono col farsi riconoscere proprio in alcuni piccoli oggetti nei quali l’essere individuale della persona amato si è come condensato. È per questo che è così difficile elaborare il lutto o la separazione. Tutto intorno a noi infatti, sembra misteriosamente parlarci della persona amata, evocarci i suoi tic e le sue abitudini, ricordarci la nostra vita in comune. Piccoli oggetti insignificanti e patetici si aprono a una commozione profonda e diventano reliquie, segnacoli, stigmate…

È ancora per questo infine che diventa così difficile, talvolta, separarsi dai flaconi vuoti: essi infatti sono pieni di noi, sia di quello che siamo stati che di quello che abbiamo desiderato e ci vuole ben più di un semplice gesto di riordino perché ci venga il coraggio di separarcene. Ci vuole un cambiamento profondo nella nostra vita, un gesto deciso attraverso il quale ci lasciamo definitivamente alle spalle il passato, un’azione violenta che ci permetta – dopo aver tratto un profondo respiro – di raccogliere tutti i flaconi e di liberarcene una volta per tutte. Salvo poi accorgerci, magari dopo parecchi anni, con un sentimento misto di stupore e di nostalgia, che fra tutti i flaconi, non tutti erano andati distrutti. Uno, magari il più piccolo e il più insignificante, era sopravvissuto, era rimasto nascosto in qualche anfratto e non aveva smesso, per tutto il tempo, di sbirciarci indiscreto: piccole essenze non-perdute…

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Antonio Piotti, psicoterapeuta, insegna Filosofia del Cinema presso l’Accademia Carrara di Bergamo; ha pubblicato (con M. Senaldi)

Lo Spirito e gli Ultracorpi, Franco Angeli, 1999.



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Objet petit a: tiny unlost traces Antonio Piotti

The act of getting rid of things and the incapacity to throw things away, the fear of possession and the mania of preserving things; packaging as the mirror of the unconscious, a slip or fad that speaks of us and for us.

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Notoriously speaking, the fate of packaging is to be discarded, to become devoid of value once the act of purchase has been concluded, to go from being totally dazzling, attractive, lively, interesting when intact on the shelves, to becoming totally insignificant and forgotten once it has been rent open, consigned as it is to the desolate field of waste. All the same with what criteria do we use to get rid of all that has wrapped, protected and prompted our purchases? Is there a sole criterion for all types of packaging? And finally, is everything we wanted to destroy actually destroyed or does something remain intact, being imbued with a special value for us? If we look around, under the car dashboard, in our cupboard- or desk drawers, on our kitchen table, we won’t be hard put in discovering some surviving package, some small, useless container that we haven’t had the heart to destroy, some insignificant wrapping that has mysteriously managed to remain attached to our lives. Maybe there is nothing left inside; just an empty package without its contents. And yet, a mere shadow of what was once a dazzling container,

now apparently devoid of all its value, still appears to have the power to evoke something indefinable and not immediately fathomable in us: we go on gazing at it, we feel the time has definitely come to get rid of it, but for the umpteenth time, we leave it where it is, waiting so that chance or neglectfulness might carry out what we – not even too unconsciously – continue to put off. And belonging to this group of residual survivors one has empty scent bottles that women often keep on their bathroom shelves (actually not only women: the poet Gabriele D’Annunzio for example, kept dozens of bottles of a certain preciousness in the bathroom of his residence “il Vittoriale”). These bottles seem to have been left there, abandoned, perhaps forgotten or left their for some other purpose.... all the same one would not be right in saying that they were abandoned because they were empty; rather, that they have been kept because they are somehow full: full of memories; they contain and preserve part of our recollections . Apart from a few specific cases, we have to underline that this has nothing to do with collecting. The act of collecting is in fact strongly related to a symbolic order of things: the meaning attributed to each item derives from the place it occupies in this order and because it is part of a greater whole. A collector buys an object even if he doesn’t like it, even if it says nothing to him. He buys it and keeps it only for the value socially attributed to it and not because he possessed it from the start. Or there again he may collect it for its beauty, its original shape, for the time that has lapsed since it was first placed on the market, because it belonged to a limited and numbered series....


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None of these reasons justifies the bottles “abandoned” on the shelf. These are undoubtedly rare and indeed unique pieces, but they are exclusively so because the experience of those who have used them was rare and unique. To put it in more technical terms - what is rare and unique is the space of subjectivity opened up by these objects. Because - once again putting things in other terms - these objects, these bottles are no longer what they were at the outset. We can say that they are less than what they were at the outset because, for example, they have lost the scent they contained; at the same time they are more than what they were at the outset because they have been charged with imaginary elements. These objects have undergone a dialectic change that has allowed them overcome their moment of denial – the moment in which they would simply become refuse – to rediscover themselves, turning into something other-thanthemselves.

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There is a term for defining all these things in psychoanalytical jargon: the famous objet petit a (small a objects) mentioned by Lacan. Namely, those objects, that are nothing on the one hand, just an ”empty hole” in reality, a mere screen, yet on the other hand, due to the very fact they are nothing at all, they are well suited to drawing the individual’s subjective desires, to the point were

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Pushing things to the extreme, we might ask ourselves what would happen if we behaved the same way with all things, with all the small, insignificant objects we come across daily. What would happen if we were capable of charging everything that came to hand with affection - the empty cigarette packet that we often open and flatten out as though it were a sheet of paper, a bottle-stopper, the wire protection around Spumante tops that we love to unravel, the cellophane wrappers that deck papers and magazines and all the rest? The result would be we would lose the capacity to throw things away, or rather that we would have become frighteningly capable of rendering every instant of our lives significant, full, irreplaceable, to the point that we would no longer be able to do without the same. We would

no longer be aided by the mechanism of forgetfulness and oblivion. This could probably be the right approach towards interpreting the works of the dada artist Kurt Schwitters (1887-1948), especially concerning his famous merzbau, columns of objects found by chance, added to each other day by day (tram tickets, stoppers, small everyday objects, etc.). In time these odd assemblages increased beyond measure, to the point that, in some cases, the artist was compelled to knock down the walls of the house he was living in to allow these totemic agglomerates to continue to grow. This is not simply the beginnings of “arte povera” or the provocation of an avante garde artist trying to demonstrate that any kind of object, even the most common, even simple refuse, can become a work of art. Here we are evidently not even dealing with a collection. Rather we are faced with a profound psychic experience which leads us to consider all objects as if they were always charged with an emotional experience that reaches beyond the same and that enables us to treat even that smallest tram ticket as though it were laden down with memories, with expectations of emotions that are not symbolisable but deeply involving. In this sense, the artist is he whose sensitivity grasps all, feels all, being truly capable of turning each insignificant experience into a unique and unrepeatable event.


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these small objects actually are the individual who has used them and preserved them. All those things that for us mark the being of the persons we love or have loved belong to this category of object In fact, when acquaintanceship turns into a constant and longlasting relationship, we notice we love that person not so much because of his or her most striking and remarkable features, the features that struck us right from the start, but rather for a series of partial and minor traits, a mixture of gestures and signs that in turn end up by being identified in a few small objects into which the essence of the beloved person has somehow been condensed. This is why it is so difficult to take in death or separation. All around us, everything mysteriously seems to speak to us of our beloved, to evoke his or her manias and habits, remind us of our life together. Small, insignificant and pathetic objects give way to profound emotions and become relics, signals, stigmas....

And this is again why in the end it is sometimes so difficult to part with empty bottles: they are actually full of ourselves, both of what we have been and of what we wished for, and you need a lot more than a simple tidying up operation to provide us with the courage to part with the same. What is required is a deep change in our life, a decisive action through which we definitely leave the past behind us, a violent action that allows us – after taking a deep breath – to collect together all the bottles and jettison them for once and for all. Only to find out, perhaps after many years and with mixed feelings of amazement and nostalgia, that among all those discarded bottles, not all of them had been destroyed. One, perhaps the smallest and most insignificant, has survived, having remained hidden in some forgotten crevice, a bottle that in all this time, has never stopped eyeing us indiscreetly, constituting one of those tiny unlost essences...

Antonio Piotti, psychotherapist, teaches film- theory at the Carrara Academy, Bergamo; he has published (with M. Senaldi) Lo Spirito e gli Ultracorpi, Franco Angeli, 1999.



DROOG: Contenuti e Contenitori del Design Oscar van Ogtrop

Ormai leader autorevole nel campo del “design concettuale”, sempre pronto a stimolare una discussione, Droog Design segna i nuovi percorsi del progetto. Dopo l’esordio al Salone del Mobile di Milano nel 1993, il gruppo di creativi olandesi è divenuto ovunque popolare per le sorprendenti collezioni di oggetti, utensili domestici e arredi di negozi. Piccoli arnesi e grandi proclami: una conversazione sul packaging visto con gli occhi di Droog.


Pocket Furniture, Collection for Picus

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Droog Design non è, come si potrebbe pensare, uno studio o un’azienda. Droog Design seleziona, colleziona, sviluppa, avvia, segue; è un insieme di persone che condividono lavori, saperi e conoscenze; è una concentrazione di forze umane con un obiettivo comune. Insomma, Droog Design è un vero e proprio network. Gijs Bakker e Renny Ramakers – i fondatori del gruppo – sono convinti che ogni prodotto debba essere inatteso e innovativo, sempre un passo oltre, persino al rischio di essere un po’ spiazzante. Il numero dei creativi del gruppo è in crescita e varia continuamente, ma la Droogfilosofia è una sola: la collezione di oggetti deve sempre rappresentare un modo di pensare. In una mattina di luglio ho incontrato Gijs Bakker e Renny Ramakers nel loro studio a Amsterdam per parlare di Droog, design e imballaggi.

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Orange Box Cupboard (1993) Hugo Timmermans

Gli imballaggi dei vostri prodotti, gli imballaggi usati come spunto per nuovi design, le tecnologie del packaging applicate per creare “non solo packaging”… più di una volta Droog si è avventurato in questo settore con risultati piuttosto diversi. Cʼè qualche affinità nei concetti alla base di questi risultati o piuttosto li vedete come dei casi isolati? Ogni prodotto, ogni oggetto etichettato Droog Design manifesta la nostra filosofia o alcuni aspetti di essa. Non importa quanto i nostri prodotti possano sembrare diversi fra loro; fanno sempre e comunque parte della nostra storia. All’interno della nostra filosofia, aspetti come l’originalità, l’innovazione funzionale, i contenuti e l’uso dei materiali sono centrali e da ogni ambito cerchiamo di estrarre e sfruttare ciò che può essere favorevole allo sviluppo globale del progetto. In pratica la nostra filosofia si dimostra


abbastanza ampia e efficace anche su larga scala: il suo contributo dev’essere un punto di forza e non costituire mai un limite. Droog ha una soluzione adeguata per ogni problema, un concetto su misura per rispondere a tutte le domande? Prima di accettare un incarico studiamo la fattibilità di un progetto senza deformare la nostra visione e il nostro punto di vista e se per caso dovessimo farlo rinunceremmo senz’altro a quell’incarico. Alcuni dei lavori sul packaging che Droog ha sviluppato, riguardano il riutilizzo o la valorizzazione di materiali dʼimballaggio. Quando Droog tratta questi ambiti specifici, ha un qualche punto di vista determinato? In alcuni dei nostri prodotti l’applicazione di materiali già usati o la possibilità di riutilizzare un prodotto è proprio il tema centrale. In alcuni casi questa scelta deriva dall’iniziativa del designer, in altri è una richiesta specifica del cliente. Aver a che fare con materiali, con l’ambiente, con temi ecologici, in modo consapevole, è di grande

importanza. E’ per questo che lo facciamo, non abbiamo però soluzioni standard. Il nostro approccio differisce a seconda del progetto ed è, come già detto, parzialmente determinato dalle richieste e dalle esigenze del cliente. Ad esempio, con l’Orange Box Cupboard (1993) il designer Hugo Timmermans voleva dimostrare che -usando il design come strumento di valorizzazione - oggetti d’uso di lunga durata possono essere realizzati con materiali scadenti, di bassa qualità, come il legno di cui è fatta una cassetta per la frutta. Timmermans ha messo l’estetica dell’imballaggio su un altro binario, e un materiale già utilizzato, invece che essere buttato via, ha potuto rivelare tutta la sua la bellezza tramite la sua applicazione. Andreas Mölle per il suo Bolle Box (1994) è partito da uno spunto diverso. Con molta ironia, ha saputo dare una risposta al problema, ben noto in Olanda, dell’eccesso di letame e per un prodotto d’esportazione tipicamente olandese, il bulbo di tulipano, ha creato una confezione-regalo funzionale, fatta appunto di letame che, in questo

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Gijs Bakker mostra come funziona il packaging per lʼedizione limitata dei jeans Leviʼs Red. Gijs Bakker shows how the packaging for the limited edition of Leviʼs Red Jeans works.

Pallet Bed (1994) Martijn Hoogendijk (ph O.Van Ogtrop)

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Konings & Bey, Kokon furniture (1997) 1 - Wall-chair 2 - Double-chair 3 - Table-chair 4 - Long-chair

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Flower Bulb Packaging “Bolle Box” (1994) Andreas Mölle

modo, avrebbe potuto essere “contrabbandato” fuori dalla nostro Paese, pezzo per pezzo, tramite turisti e commercianti. Una furba e legittima soluzione per un problema assai serio! Un altro esempio: recentemente per incarico della Levi’s di Buxelles, abbiamo disegnato il packaging per i Levi’s Red, un’edizione limitata di jeans. L’azienda aveva l’obiettivo prioritario di sviluppare/utilizzare un tipo di imballaggio che avrebbe dovuto dare all’acquirente di un Levi’s Red la possibilità di conservarlo e riutilizzarlo. Jurgen Bey, designer responsabile, fra l’altro, di una serie di espositori per la stessa linea di jeans, ha fatto uno studio approfondito e dettagliato sulle possibilità di integrare l’imballaggio nel design e nel processo produttivo dei capi in questione, ma, pur riuscendo ad inventare un gran numero di concetti molto interessanti, è stato impossibile poi adattare un simile concept al processo produttivo dell’abito. Si è quindi scelto di produrre un apposito tessuto stampato che servirà alla commessa del negozio per impacchettare elegantemente il nuovo acquisto e che poi si potrà usare anche a casa, magari come tovaglia!

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E comʼè la stampa? Molto delicata, quasi ton-sur-ton, con i disegni dei dettagli dei Levi’s Red … una zip, una manica col polsino, le istruzioni di lavaggio…

Milk Bottle Lamp (1991) Tejo Remy

E qui cʼè anche lʼindirizzo web di Droog Design! Comunque, un modo di imballare che va oltre le shopping bag di plastica, piene di scritte pubblicitarie. Avete altri lavori che abbiano a che fare con il packaging? Un altro notevole esempio può essere la collezione Pocket Furniture progettata per Picus, un produttore olandese di scatole per sigari che non voleva più essere soltanto un


anonimo fornitore di prodotti di packaging ma anche ricollocarsi sul mercato come brand con una gamma di prodotti speciali. Abbiamo così creato un progetto a partire dalla sua richiesta e con un gruppo selezionato di designer si sono studiate le possibilità produttive, le conoscenze tecniche, i materiali, le tecnologie disponibili ed in seguito è stata disegnata una collezione di oggetti d’uso e domestici… Dunque non una nuova stirpe di scatole per sigari, con un valore aggiunto interessante, ma una gamma di scatole che hanno poco o forse nulla a che fare con i sigari. Ciò nonostante, i tanti oggetti della collezione Pocket Furniture rivelano un legame con i contenuti di quei milioni di scatole che la Picus ha già prodotto in tutti questi anni... In particolare per questa collezione è stato enfatizzato il significato della buona, vecchia scatola per sigari e non tanto il suo “contenuto”. Da sempre le scatole per sigari hanno una seconda vita: come piccoli contenitori adatti per raccogliere e riporre varie cose; come solide scatole per bottoni e accessori da cucito; come minuscoli forzieri per piccoli oggetti. E poi, naturalmente, esiste l’immagine consolidata della scatola per sigari Picus, il legno di okoumé, elegante e aromatico, le micro cerniere, le raffinate finiture, l’aspetto artigianale. Con la collezione Pocket Furniture abbiamo cercato di metterci in relazione con questo mondo, usando molto letteralmente i materiali e le forme originali, o, in altri oggetti, impiegando riferimenti incrociati con le atmosfere della “cigar box”.

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Torniamo alla vita quotidiana: quali sono gli esempi più affascinanti di uso dellʼimballaggio? Guarda: questo è un interessante oggetto-packaging! [tira fuori da sotto il tavolo un cestino della carta straccia fatto con un poster pubblicitario]. Vedi, con un materiale di scarto, il designer Jos van der Meulen ha realizzato una cosa per raccogliere il materiale di scarto ancora una volta un caso “borderline” in cui gli oggetti ricevono una seconda vita…

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…ossia “come impacchettare i miei rifiuti domestici prima dir loro addio”? Qualcosa di simile, sì. Ma il packaging in quanto tale non è esattamente la nostra passione, come ti dicevo. In generale, il

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Il confine tra design e packaging, tra il dare forma a un oggetto e lʼimballarlo è un poʼ la stessa zona in cui si trovano i Kokon Objects di Bey & Konings… I Kokon-Objects sono il risultato di un

progetto di collaborazione fra Droog Design e la facoltà di Scienze dell’Aeronautica dell’Università della Tecnologia di Delft (Olanda). In questo progetto Jurgen Bey si è imbattuto in una tecnologia del packaging che dà la possibilità di stendere su oggetti di grandi dimensioni una pellicola impermeabile all’aria e all’acqua. Originariamente questa tecnica era usata per proteggere pezzi di ricambio o persino interi aeroplani durante il trasporto via mare. Jurgen ha applicato questa tecnologia in modo innovativo: alcuni oggetti domestici, spesso vecchi e abbandonati sono stati rimessi insieme, collegati fra loro e infine dotati di una membrana; una pellepackaging che fornisce una seconda vita al contenuto. Pur cambiando immagine, gli originari elementi compositivi vengono preservati; il grigio neutro della pellicola contribuisce a una nuova esperienza visiva ma le forme che compongono l’oggetto restano riconoscibili.


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Artificial Bloom Construction Set (1996) Frank Tjepkema

packaging di solito non è nient’altro che un qualcosa di contorno, un po’ di graphic design messo sopra, una bella foto stampata, roba del genere. Per niente interessante. Diciamo, il packaging non è quel genere di cosa che – wow! – ci affascina o ci intriga… Vediamo tanto packaging, ogni volta che compriamo o ci danno qualcosa, tutti oggetti con cui lavoriamo; li osserviamo, ma non ci lasciamo realmente catturare dal loro significato… E se proprio dovessimo riferire di qualche esperienza negativa, diciamo che sempre più spesso si vedono negozi e grandi magazzini che espongono in modo minimalista i loro prodotti, le loro collezioni, persino i loro packaging-concepts come fanno qui ad Amsterdam Rituals [prodotti per la cura del corpo] o Bijenkorf [grandi magazzini]; ma sono prodotti e packaging che sembrano troppo buoni per essere veri, troppo belli per essere credibili… noi non ci fidiamo! E’ come un tipo di identità che non conosci o non riconosci… Invece bisognerebbe potersi fidare dell’aspetto esterno delle cose per dire “Ok, questo va bene”… Ma, al di là della marca, anche il contenuto prende importanza se cʼè qualcosa di minimale avvolto intorno, o no? No, se non conosci il contenuto. Il fatto che un determinato packaging susciti certe aspettative, dia la sensazione che ciò che c’è dentro sia di qualità, può essere molto fastidioso… Il packaging in effetti, è perfettamente adatto per comunicare valori emotivi, immagine, l’atmosfera che circonda un prodotto, piuttosto che il prodotto stesso: tutti elementi con cui i designer hanno a che fare ogni giorno - argomenti affascinanti,

vero? - ma alla fine quello che convince deve essere il contenuto, non il packaging. Prendiamo ad esempio la linea di profumi di Comme des Garçons, una marca di moda con prodotti realmente interessanti: quando questa brand esce con un nuovo profumo è logico esserne intrigati ma si sarà interessati alla fragranza e al suo significato, non al suo packaging. Tuttavia si capisce bene che ci hanno riflettuto un bel po’ su come imballare quel profumo, la


l’unica cosa che dobbiamo guardare è il contenuto in termini di peso rispetto al prezzo. Noi facciamo riferimento alla Consumer’s Guide per sapere quale detersivo è “buono”, ed è quello che andremo ad acquistare. E’ davvero fastidioso il fatto che, pur sapendo quale prodotto vuoi, devi comunque cercarlo in una grande massa di informazioni, mentre l’unica cosa che vorresti sapere è: “va bene per i capi colorati o per la biancheria?”. Il detersivo dovrebbe essere venduto in un sacchetto trasparente di plastica, col prezzo incollato sopra e basta.

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Quindi cʼè molto da fare in questo campo. Un compito per i designer? Diciamo che essere un designer significa essere un consumatore consapevole di tutto questo ed essere in grado di gestirlo. E questa confusione senza senso, questo cosiddetto minimalismo estetico oppure questa profusione di immagini a colori sgargianti di basso livello sugli scaffali dei detersivi, non dicono al consumatore assolutamente niente circa il contenuto e danno luogo soltanto a banali stereotipi, fastidiosi cliché e vuotaggini…

caratteristica bottiglia sdraiata, il che porta tutto ad un livello più elevato. Dunque, la giusta sequenza è: marca – contenuto – packaging. E non il contrario.

Gijs Bakker e Renny Ramakers sono in completo, profondo, accordo. La posizione che adottano, elegantemente “impacchettata”, ci lascia in apparenza con più domande che risposte. E’ proprio vero, Droog Design stimola la discussione.

Oscar van Ogtrop, olandese, è designer e insegna all’Accademia di Design di Bolzano.

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Immagini: Courtesy Droog Design

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Dalla moda e dai profumi, andiamo ai detersivi. Noi non siamo preda neanche di questa roba…scaffali pieni di scatole colorate a festa, e sacchetti e pacchetti. E’ tutta un’ inutile distrazione. Se parliamo di detersivo,

Dunque il packaging ideale sarebbe…? Nessun packaging! O meglio, aspetta un attimo… [cerca una risposta più raffinata]…sarebbe quello al servizio del contenuto. Così sarebbe fantastico.


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DROOG: Purpose and Purport

increasing, the Droog-approach is still one. “...the Droog Collection represents a Mentality...” A conversation about Packaging seen through the eyes of Droog.

Oscar van Ogtrop

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First appearance made in 1993, at the Salone del Mobile in Milano, and surpsrisingly present ever since - not only in Milano. Worldfamous by now, for its ever-increasing collection of items, housing objects and shop interiors, little trinkets and big statements. Leading in conceptual design-work and, as it sings the praises of itself: always after stimulation of the discussion on design. Droog Design is fond of the limelight! Both founders/directors, Gijs Bakker and Renny Ramakers, are confident that every product of “their” Droog Design - and most certainly the annual presentation in Milano - has to be as surprising as their debut. With always new subjects they try to be ahead of the following, or even more likely, wrong-foot them a little. And although every Droog-product has to fit the Droog-philosophy, coming up to expectations is not what they are aiming for. Droog is not what one usually thinks it is: a studio or a producer. In the web-site the emphasis is being put on that: “...Droog Design is a Selector, a Collector, a Developer, an Initiator and a Network...” A gathering of people and their work, of knowledge and know-how; a concentration of forces with a common goal. Selected because of their specific competences, designers are being coached by Droog in their contribution to the various assignments and projects. The number of “members on call” is

Packaging for (own) products; old packages as a startingpoint for new designs; packagingtechnologies applied to create not only packages... Droog more than once ventured on Packaging ground – with rather different results. Is there any similarity in the concepts, at the root of these results, or rather see them as isolated cases? Every product, every object that is labeled “Droog Design” carries out our philosophy or certain aspects of that. No matter how wide apart some of our products may seem to stand, they always fit in our story. Within our philosophy aspects such as renewal, innovation in the field of function, contents and the use of material are paramount. Then, in each individual field we try to bring out and feature that which could play a role in the development of the entirety. In practice our philosophy turns out to be broad enough and effective at a large scale: its contribution is always fortifying, never limitating. Droog has an appropriate solution for every problem, a one-concept-fits-all answer to all questions? Prior to the acceptance of a commission we study the feasibilty of working things out without straining our own visions and insights – because if that’s the case we say “no” to that commission, just like that. Some of the packaging-products Droog has come up with are about the re-use of (packaging)material or the upgrading of it. Does Droog have a somehow fixed point of view when it comes to dealing with those particular matters?


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manifacturing process of the garments in question. Integrating such packaging concept in the design process of clothing turned out to be impracticable, even though Jurgen managed to come up with a number of really interesting concepts. The choice fell on a printed cloth, separately produced [an example is being taken out of its cellophane package] that has to be wrapped around the purchased piece of Leviʼs Red by the shop assistent [a demonstration follows], with an elegant little parcel as a result. And a beautiful piece of fabric to use once more, at home! As a...? Well, as a tablecloth, for example... And what about the print? As you can see: very subtle, almost ton-sur-ton, fragments of Levi’s Red clothing are printed on the textile – overhere, a zipper, a sleeve with a cuff, washing instructions...

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And overhere, the web address of Droog Design...Anyway, a way of packaging that goes beyond the plastic bag covered with publicity prints. Other precedents maybe? Another outstanding example in the context of packaging may be the Pocket Furniture collection we designed by order of Picus, a Dutch producer of wooden cigar boxes. The management of Picus had the ambition to be no longer “only” in service as an anonimous supplier of packaging products: they also wanted to market a range of special products carrying their own name, in order to establish Picus as a brand. We made a project out of that: with a select group of designers we looked at production facilities and know-how possessed by Picus, available materials and technologies - to thereupon design a collection of housing objects and utensils... Objects that are now being produced and put on the market by

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In some of our projects the application of already used materials or the possibility of re-using a product is paramount as a theme. In some cases it was the designers initiative to work with that theme, in others it was a specific wish of the customer. Consciously dealing with materials, environment, ecological issues, is of great importance, so that’s what we do. Standard solutions however we don’t have. Our approach differs per project and is, like I said, partially determined, defined by the questions and demands of the customer. A few examples: with the Orangebox-cupboard (1993) designer Hugo Timmermans wanted to point out that long-life utensils can very well be made out of inferior, poor quality materials like the one an orangebox is made of – using design as a tool for upgrading. He put packaging-esthetics on another track. And also, the beauty of a disposable material is being revealed by applying it instead of throwing it away. Andreas Mölle had a different startingpoint for his Bollebox (1994). In an ironical way he went along with the at that time notorious slurry-problem in Holland, by creating a gift-package-with-a-function out of cowdung, for a tipical dutch export product: the tulip bulb. With his design superfluous dung would be smuggled out of our country, little by little, by tourists and traders. A smart and justified solution to a serious problem! Another example: recently, by order of the Levi’s creative staff in Brussels, we have designed packaging for “Levi’s Red”, a limited edition jeans line that is available in only 50 shops in the world. Levi’s had the avowed object of developing/using a type of packaging that would give to the buyer of a Levi’s Red piece of clothing the possibility of a second application, a package that would be something to keep and reuse. Jurgen Bey, also responsible for a range of shop display designs for that same jeans line, did a thorough, detailed study on the possibilities of integrating packaging in the design and the


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Picus itself. No next-generation cigar boxes with an interesting added value, but a batch of boxes that have little or maybe nothing to do with the Cigar. Nevertheless, a lot of objects of the Pocket Furniture collection do reveal a link with the contents of all those millions of cigar boxes that Picus has already produced over the years... Particularly the purport of the good old cigar box is being emphasized in this collection, not so much its contents. Of old, the cigar box usually had a second life: as a convenient little case to collect and store all kinds of things in; as a solid little box for old buttons or sewing things; as a tiny treasury for small-size valuables. And of course, there’s the image of that cigar box: the elegant and aromatic okoumé wood, the tiny hinges, the fine finishings, the workmanship. With the Pocket Furniture collection we have tried to link-up to that world, by using very literally the original materials and shapes, or in other objects, by working with crossreferences to the atmosphere of the cigar box. And you succeeded! We have showed the entire Pocket Furniture collection in Milano this year, presented as “Droog Design for Picus”. At the moment a second collection is being worked on, a collection that will be presented by Picus itself, under its own name, with Droog Design as Art Director. You might say this is an interesting and succesful cooperation, in the borderland of Design and Packaging. The same area in which the cocoon-objects of Bey & Konings find themselves, somewhere in between shaping it up and wrapping it up? The cocoon-objects are a result of a cooperative project of Droog Design and the University of Technology Delft (Holland) faculty aircraft engineering. In this project Jurgen Bey encountered a packaging technology that provides for the appliance of a fleece, a film of a water- and airtight plastic, originally used for the protection of

vulnerable spareparts – or even entire aircrafts – for seaborne transportation, for example. Jurgen put this technology on another track: already existing, often old and rejected housing objects were being connected, joined-up and then provided with a new skin, using the “fleece-technology” he had discovered. Packaging, the way Jurgen used it in this project, gives a second life to the contents, so to speak. A new image is being introduced and the “old” contents will remain preserved at the same time. The neutral gray of the plastic film contributes to the experience of seeing a brand-new entirety, looking at the composite shapes. Revealing or rather hiding these shapes? Well, indeed, a bit different from what Cristo the Super-Packer is doing, but anyway...! Back to everyday life: what are the most fascinating examples of (dealing with) packaging? [...searching for a moment...] Look: this is an interesting packaging-thing! [a wastepaper basket made of an advertising poster is being conjured-up from under the desk]. You see, with cast-off material the designer (Jos van der Meulen) made a thing to dump your cast-off material in, a “borderline case” once again, things leading a second life... How to wrap my household waste before bidding it farewell? Something like that, indeed. But packaging, just packaging, that’s not our cup of tea, we’d say. In general, packaging is usually nothing but a kind of thingy around it, some graphic design thrown in, a nice picture printed here and there, stuff like that. Not really interesting. Let’s say, packaging is not the kind of thing that - WOW!- fascinates or grips... We do see all that stuff, whenever we get something or buy something, the things we work with: we look at it but we are not really captivated


Oscar van Ogtrop, dutch, is a designer and teaches at the Accademia di Design in Bolzano (Italy).

by its purports... And if we may refer to some negative experiences: more and more you see shops and department stores come up with their own products, their own lines, their own packaging concepts too; often really minimalistic, like here in Amsterdam at the Rituals [bodycare products] or at the Bijenkorf [department store]. Products and packaging that look too good to be true, to beautiful to be reliable...we just don’t trust it! Like a kind of identity you don’t know or recognize...You’d have to trust in the appearance of things and then say OK, so this is Good... But brand or not, with a minimalistic thingy wrapped around it, the contents gain importance, and thatʼs OK, isnʼt it? Not if you don’t know the contents. Irritation can result from the fact that such a decent package evokes a certain expectation, a presumption of what is in there, the quality...

that stuff either, those shop displays full of partycoloured boxes and bags and packs. All of that is just a lot of unnecessary diversion. With washing powder the only thing we tend to pay attention to is the contents in terms of kilo’s, compared to the price. We refer to the Consumers’ Guide to see which washing powder is “good”, and that will be the product we get. Very interfering, the fact that after knowing what product you want, you still have to search for it in that imbroglio of information, while the only thing you want to know is: “is this one for multi-coloured or white washings?” Washing powder should be offered in a transparant plastic bag, price-tag on it, ready. So thereʼs work to be done in that field. A task for the Designer? Let’s say, being a designer means being a most conscious consumer, in the way you move round in the field of work; being aware of all this and dealing with it. And all this distracting nonsense, that so called aesthetical minimalism or those low-grade flashy-coloured-picture-situations at the washingpowder display, they tell the consumer completely nothing about the contents and make only stereotype blocks, annoying clichés and gaps... So the ideal package is? No package! Or, wait a minute...[a bit more differentiated now] Subservient to the contents. That’s beautiful. Gijs Bakker and Renny Ramakers are in complete agreement, whole-heartedly. The position they adopt, nicely wrapped up, apparantly leaves us with more questions than answers. Yes indeed, Droog Design stimulates the discussion!

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Images: Courtesy Droog Design

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Packaging indeed lends itself perfectly for the communication of emotional values, image, the atmosphere that surrounds a product rather than the product itself: elements designers are dealing with on a daily bases. Fascinating issues, right? But in the end it is the content that convinces, not the package. For example: the perfume line of Comme les Garçons, a fashion brand with really interesting products, made by topdesigners. If that particular fashion brand comes up with a perfume, you will be interested, as a matter of course. But you’ll be interested in the fragrance and the purport of that perfume, not in its package. And of course, you will see that a lot of thought is given to the way of packing the product, the caracteristic lying bottle – which takes the entirety to an even higher level. So the right sequence is: Brand – Contents – Packaging. And never the other way around. From fashion and perfumes back to Washing Powder. We are not exactly captured by

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Pack-Man Il packaging è passato da una fase simbolica a un valore immaginario; nel frattempo, ad esser preso nell’imballaggio, è l’uomo stesso. Marco Senaldi

Non vi è manuale di packaging infatti che non inizi proprio spiegandone la duplice natura – quella pratica e materiale, di imballo, protezione, stoccaggio, ecc. e quella comunicativa e immateriale, di segno, rivestimento estetico, immagine e design. La doppia anima del packaging dunque è già tutta nella sua ambigua funzione di rivestimento, di “abito” o meglio di “pelle”, con una faccia che si trova a contatto con la merce e un’altra che ne veicola i significati al di fuori, verso i consumatori e verso il mondo.

“Comprami: io sono in vendita, e non mi credere irraggiungibile”

“Buy me: I am for sale, and do not think that I am unattainable”

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Tuttavia, questa distinzione è fortemente riduttiva. Se anche consideriamo solo il versante funzionale del packaging, dal punto di vista meramente pratico di imballaggio e protezione, ricadiamo entro nuove e ancor più doppie ambiguità. In effetti, anche se la domanda rischia di apparire retorica, occorre chiedersi: di che cosa è imballaggio il packaging? Naturalmente della merce, si dirà, ossia di un qualcosa di reale che il packaging nella sua natura funzionale ha il compito di salvaguardare e di preservare. La lattina di birra salva la birra dal disperdersi in giro, permette che la si trasporti, che la si refrigeri, che rimanga battericamente intatta ecc.; ma di che birra si tratta? Tutte le bevande che finiscono in lattina non sono dei semplici liquidi in un contenitore; nel caso della birra, o

Comprami (1979), Viola Valentino

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All’inizio de La collezionista (un bel film degli anni ‘60 di Eric Rohmer, che racconta la storia di una giovane disinibita che “colleziona” ragazzi, e di un ragazzo che invece vuole “collezionare” lei) si vedono due personaggi discutere attorno a un oggetto bizzarro, una lattina completamente rivestita da taglienti lamette da barba. Circondata com’è da quelle lame sottili e offensive, la lattina sta per l’unica cosa che non è collezionabile, dato che non è nemmeno possibile prenderla in mano, in un mondo dove tutti collezionano tutto (oggetti, ma anche uomini o donne). Con gli occhi di oggi, essa potrebbe essere assunta come una potente metafora del packaging; proprio il packaging infatti vive questa strana contraddizione di essere contemporaneamente il dispensatore del desiderio nella forma più diffusa, quella della merce – e il suo custode. E proprio il packaging rappresenta quella soglia che siamo invitati a varcare, ma che, oltrepassata, diventa immediatamente qualcosa di osceno, di superfluo, scarto, vuoto a perdere, immondizia, da cui non vediamo l’ora di liberarci. Attraente e repellente, seducente ma pericoloso, comunicativo ma anche insensato, indispensabile ma comunque superfluo – nessun oggetto come il packaging convoglia su di sé caratteri e giudizi tanto opposti. Il motivo di questa radicale ambivalenza è ben presto chiarito.


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della Coca-Cola, ad esempio, si tratta di bevande addizionate di biossido di carbonio, ma anche nel caso di bevande “lisce” (succhi, tè, ecc.) viene impiegata una goccia di azoto liquido per tenere il recipiente sotto pressione. Certamente, la necessità della pressione dipende dal materiale di cui sono fatte le lattine odierne, l’alluminio, che ha quasi ovunque preso il posto del più

packaging trasforma ciò che doveva soltanto conservare. Ma non basta. In effetti, non esiste un divario così grande come si potrebbe pensare tra la merce e l’involucro; per esempio il 94% dei consumatori riconosce il Toblerone anche solo dalla forma. Ciò vuol dire che la caratteristica confezione a triangolo del leggendario cioccolato è superflua? Niente affatto, anzi vale il

rigido, ma troppo costoso e pesante, acciaio. Dato che le attuali lattine sono prodotte con una lamiera spessa quanto un paio di fogli di carta, (cosa che si prova facilmente quando, una volta svuotate, possiamo accartocciarle con una sola mano), esse non avrebbero la stessa resistenza se il loro contenuto non avesse un qualcosa in più entro se stesso1. L’aggiunta di gas è questo “surplus” che differenzia la birra in lattina da quella “al naturale”, ma – potremmo dire – è ciò che differenzia un prodotto da se stesso; per quanto possa sembrare strano a noi oggi, infatti, inizialmente nemmeno la Coca-Cola era una bevanda gasata, lo è diventata solo in seguito. Possiamo concludere che questa differenza dipende almeno in parte proprio da esigenze di packaging – il che implica che la lattina “ridisegna”, in certo qual modo, il proprio contenuto.

contrario: un certo prodotto prende una certa forma in funzione del proprio packaging. La sua nuda “forma” ne costituisce già il packaging intrinseco, a cui fanno seguito poi, come è noto, packaging primario (la confezione vera e propria), secondario (l’imballo di più confezioni) e per alcuni anche terziario (grandi imballi trattabili in fase di stoccaggio e trasporto)2. Anche la semplice funzione protettiva del packaging, in effetti, incide e molto sul contenuto, al punto da determinarne non solo le forme, o i colori e la consistenza, ma persino l’essenza. Certo si potrebbe discutere se la forma del Toblerone ha dato vita al packaging o viceversa, ma la verità è un’altra: vi è un rapporto dialettico tra contenitore e contenuto per cui nessuno dei due può prescindere dall’altro, che affermandolo insieme lo nega e viceversa. Lo “strato interno” della confezione quindi è tutt’altro che un elemento passivo, buono solo per proteggere un’essenza dell’oggetto già data bell’e pronta; anzi, questo lato oscuro del packaging è piuttosto il modo in

Dunque, limitarsi a sostenere che il contenitore è al servizio del contenuto è riduttivo, se non aggiungiamo che è vero anche il contrario; in qualche misura il


cui l’uomo moderno ha parcellizzato il mondo, trasformandone il flusso naturale in porzioni e dunque in “merci”. I celebri 33 cc della lattina (più o meno un bicchiere e mezzo), la tavoletta di cioccolato, la porzione di tonno o di carne costituiscono un “razionamento” quotidiano del cibo che è una “razionalizzazione” dell’irragionevole caos del cibo naturale (e non è un caso che il primo a bandire un concorso per inscatolare la carne – e farne “munizioni” per i suoi soldati - sia stato Napoleone, un figlio della Dea Ragione rivoluzionaria). Oggi questo è tanto vero che si prospettano packaging così intelligenti che forniranno al loro esterno tutta una serie di dati sullo stato di cose interno (temperatura, umidità) e così “attivi” che ne racconteranno la storia (per esempio se un alimento è stato scongelato durante la catena di trasporto, ecc.). In questo senso, persino la banale distinzione tra packaging e prodotto vero e proprio, è più apparente che reale. Basterebbe citare il caso recente del Solero, un ghiacciolobibita la cui forma a piccole biglie è già un re-design della vecchia granita, per capirci, o anche il caso dei detersivi ultra in pastiglie bicolori; ma basti pensare alla Coca-cola, il cui colore in larga misura artificioso è parte integrante del packaging: a dispetto di tutte le bottiglie curvilinee del mondo e del proverbiale logo, a tutti correrebbe un brivido lungo la schiena se domani la company di

Atlanta decidesse di cambiare il colore della bibita in un, magari simpatico, color malva – la Coca non sarebbe più la stessa. Il packaging è perciò veramente il modo tramite cui l’uomo ridisegna non solo la forma apparente ed esteriore delle cose, ma anche la loro intima sostanza segreta.

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Ma in base a cosa avviene questo ripensamento dell’essenza degli oggetti? Qui occorre invece considerare quello che gli esperti chiamano appunto il lato comunicativo del packaging. Il packaging, in quest’ottica, ha la funzione di attrarre il consumatore verso il prodotto, e deve operare questa seduzione come un’aspirante miss in un affollato concorso di bellezza: tramite uno sguardo che ha pochi secondi a disposizione per essere incrociato. Ecco perciò nascere packaging sempre più ricercati nelle forme, brillanti nei colori, morbidi al tatto, il tutto per convincere il consumatore a comprarli, al di là delle reali qualità del prodotto che contengono. Tuttavia anche in questo caso sarebbe semplicistico pensare che il packaging sia solo il maquillage, o peggio, la maschera del prodotto. Esattamente come una bella miss non sarebbe altrettanto bella senza il costume – magari succinto – che la fascia (se fosse “nuda” sarebbe un’altra “cosa”) rendendola appunto una “miss”, così il prodotto non sarebbe completamente se stesso senza il discorso che il packaging

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tesse attorno ad esso. In altre parole il prodotto non è mai – come ogni oggetto – “solo” se stesso, ma è sempre decentrato, simultaneamente più-e-meno di sé, qualcosa la cui identità è fornita a posteriori. Alcuni studiosi (come David Bernstein, autore di un noto Company Image, Guerini, Milano 1988) sostengono che la personalità del prodotto (o della company) dia senso all’identità, e che quindi una forte identità sia alla base di un’immagine vincente; applicando il discorso al packaging si potrebbe dunque affermare che l’immagine di un prodotto dipende dalla sua identità, che dipende a sua volta dalle sue caratteristiche “reali”. E’ il caso ancora una volta di fare ricorso all’esempio della Coca-Cola, il prodotto di consumo per eccellenza, il prodotto che, venduto sfuso, sgasato e tiepido sarebbe assolutamente ripugnante, per dimostrare l’ingenuità di questo assunto? Ancora una volta, occorre invece ribadire che le cose vanno a rovescio: è il packaging che dota di identità la cosa, ed è in base a quest’identità che noi riconosciamo quella cosa per quello che (crediamo che) è, esattamente come accade con l’abito e la persona nella normale vita sociale. Questa prospettiva costringe a rivedere il superficiale concetto di “comunicazione” a cui viene ascritta la funzione del packaging: comunicare non vuol dire trasmettere un messaggio da un emittente (il prodotto “reale”) a un ricevente (il consumatore). Le cose non sono così semplici per la banale presenza di un piccolo particolare che però riveste, nelle nostre vite, nelle nostre scelte, nel nostro stesso inconscio, un valore enorme: il desiderio. Comunicare significa quindi qualcosa di molto più tortuoso o persino “perverso”, ossia (per usare le parole del discusso psicoanalista Jacques Lacan) significa ricevere


comprare per esempio il burro a buon prezzo, perché è d’uopo dare scarso peso alle cose “materiali”, perché voglio sfuggire alle grandi marche, perché sono fresco della lettura di No Logo della Naomi Klein, ecc., allora il mio desiderio sarà soddisfatto esattamente dal packaging ruvido e spartano delle confezioni da hard discount – senza che il burro in sé, come diceva Wittgenstein in un celebre aforisma, abbia mostrato alcuna “attività”.

Puzzle Bottle (1995) L'artista Charles Ray si è "imbottigliato" nell'opera. The artist Charles Ray has “bottled” himself in this work.

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Le recenti analisi del packaging hanno trascurato proprio il desiderio e la potente spinta all’acquisto o al rifiuto dettata dall’immaginario che, in un modo o nell’altro, alberga in ciascuno di noi. L’enorme importanza della confezione deriva da qui. In altre parole il packaging non può non interessare antropologi, artisti, filosofi, molto prima che gli uomini di marketing, perché, a osservare le cose da vicino, si vede subito che esso è una puntuale raffigurazione delle strutture relazionali, sociali e conoscitive della nostra società. Non solo possiamo dire, in tutta sincerità, che il packaging è uno strumento di comunicazione di massa, dato che per quantità e qualità di contatti, tramite esso un prodotto può raggiungere un’audience non inferiore a quella di una trasmissione televisiva o di un film; dobbiamo anche aggiungere che il packaging rappresenta con precisione l’incarnazione stessa dell’immaginario sociale contemporaneo, il modo in cui l’immaginario plasma il reale che ci circonda. Per portare questo ragionamento dialettico alle sue estreme conseguenze potremmo dire che il packaging incarna il nostro desiderio perché è noi stessi più di quanto noi stessi non siamo noi, perché ci incarna perfettamente al punto da essere noi. Per mettere le cose in una prospettiva storica,

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indietro il proprio messaggio in forma rovesciata, rimbalzare sul proprio desiderio, che è poi (per strano che possa sembrare) “il desiderio del desiderio altrui”. Come è possibile tutto ciò? Semplice; si pensi all’effetto placebo: è stato dimostrato che, dati due vestiti uguali per colore e per taglio, l’88% dei consumatori preferisce quello firmato a quello anonimo. Se si tolgono le etichette a tutti e due, le proporzioni cambiano: il 44% sceglie quello anonimo. Ma se poi si invertono le etichette, il 91% sceglie il capo non firmato!3 Applicare l’esempio al packaging è fin troppo facile: è evidente che la confezione determina non solo la scelta del prodotto, ma anche il modo stesso in cui lo pensiamo e lo percepiamo. La spiegazione sta nel desiderio: comprando l’abito firmato, o il prodotto “di marca”, noi ci appropriamo di un universo di godimento, in cui – ad esempio – io proietto la mia immagine di individuo vincente che si circonda di oggetti di gusto sicuro e non scende a compromessi per “vili” questioni di prezzo, e dunque accedo ad una vita (la vita dei ricchi e dei potenti, la vita “dell’altro”) che altrimenti mi sarebbe negata. Ecco che ricevo indietro dal packaging (lussuoso, raffinato, ecc.) il messaggio che io stesso vi avevo messo (voglio apparire benestante, ammantarmi di superiorità, ecc.), ma in forma rovesciata: la confezione di caviale o di champagne mi dice infatti: “comprami, non vedi che io (come recita la mia etichetta, i miei segni aurei, la striscia rossa, i pomposi nomi nobiliari) rifletto esattamente ciò che ti aspetti da me.?!” Le cose non cambiano nel caso di un packaging povero o di un prodotto non di marca: il prodotto in sé, è solo una funzione del desiderio immaginario di chi acquista - se io mi sento realizzato in un mondo intellettualistico dove conviene


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Marco Senaldi, critico d’arte e filosofo, insegna Estetica al Politecnico di Milano e all’Accademia Carrara di Bergamo; ha pubblicato (con A. Piotti) Lo Spirito e gli Ultracorpi (Franco Angeli, 1999).

allora, si potrebbe disegnare un’evoluzione del packaging rispetto alle sue origini. Se all’inizio il packaging è una razionalizzazione del mondo degli oggetti, ed una trasformazione di essi in merci, in un secondo tempo la confezione diventa il discorso dei prodotti, la loro voce, il modo tramite cui essi discutono col mondo e si fanno conoscere. La prima fase è ancora un periodo di latenza del packaging, fatto perlopiù di confezioni già industrializzate e standardizzate, ma mute, silenziose, tutt’al più bollate dalla sigla di quel determinato produttore. La seconda è la fase pop della confezione, il periodo simbolico in cui la confezione dice qualcosa attorno al prodotto, lo recita e lo rende spettacolare, ne fa una sorta di divo, di star (sì, proprio come i famosi dadi da brodo, che recavano l’effigie disegnata di un’improbabile Joan Woodward casalinga). Un’epoca massmediale in cui i prodotti arrivavano nelle case da un altro pianeta, il mondo della produzione. Oggi è tempo di dire che anche questo periodo si è chiuso. Nell’epoca della comunicazione riflessa, in cui i mass media non sono più elitari, e non si limitano a proporre eroi inimitabili – quando l’accesso ad essi si fa sempre più facile, ed è il tempo in cui, per intenderci, il divo della prossima settimana potrebbe essere il nostro vicino di casa – anche il packaging subisce una metamorfosi. Oggi il packaging non arriva da lontano, non parla dell’altrove, erompe da vicino, esplode nel qui e nell’ora. Tutto si traveste da packaging - i TIR sulle autostrade, che sembrano tante confezioni giganti dotate di ruote, le architetture delle grandi companies, che si addobbano con i colori e i segni delle confezioni che loro stesse producono (come il palazzo della Bayer rivestito come una enorme confezione di aspirina), le tute degli

sportivi, che ne imballano le forme muscolari come un film di pvc… Ma il packaging, proprio lui, in questo momento diventa sfuggente, tende addirittura a sparire (come nel caso di Lush o dei prodotti OaO), si mimetizza, si minimizza, si assottiglia, diventa persino invisibile: e tutto questo perché mai come ora esso costituisce una fedele rappresentazione di qualcosa di meno tangibile del prodotto in sé. No, non è il packaging ad essere definibile come la pelle degli oggetti – è piuttosto che la nostra stessa pelle (anche lei ormai riproducibile all’infinito, anche lei così simile ormai a una pellicola di pvc) è diventata come un packaging. E la storia ha una sua morale dialettica, perché, se all’inizio il packaging era il modo in cui l’uomo plasmava il mondo a sua immagine e somiglianza, ora il packaging si è ribellato all’inventore come i robot nei film di fantascienza, e pretende, proprio lui, di modellare noi a sua immagine e somiglianza! Il packaging (come altri fenomeni ad alto tasso di immaginario, si pensi alla moda) è veramente il modo tramite cui le cose ridisegnano non solo la forma apparente ed esteriore dell’uomo, ma anche la sua intima sostanza segreta. Ecco perché, in ultima analisi, occorre riconoscere un cambiamento radicale che trova nel packaging la sua verità: perché ad essere imballati non sono più i prodotti, docilmente là fuori nel mondo, ma noi stessi nel nostro io più interiore ed “autentico”. 1 2

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T. A. Stewart, Il capitale intellettuale, Ponte alle Grazie (1999). M. Ferraresi, Il packaging, Franco Angeli (1999) e E. Denison, R. Cawthray, Packaging Prototypes, Progetto ed. (1999). F. Benedetti, La realtà incantata, Boringhieri (2000).


Apertura della scatola Merda d始Artista di Manzoni. Opening the can of Merda d始Artista by Manzoni. Bernard Bazile, Marsiglia (1994)


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Pack-man Packaging has passed from a symbolic phase to one of make-believe values; meanwhile, man himself is being absorbed into packaging

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Marco Senaldi At the beginning of La Collectionneuse (a wonderful 1960s film by Eric Rohmer, which tells the story of a liberated young woman who “collects” boyfriends, and a young man who wants to “collect” her) we see two characters having a discussion around a bizarre object, a can completely covered in razor blades. Surrounded as it is by these thin, aggressive strips of metal, the can represents the only thing which is not collectible, since it is impossible even to hold it in the hand, in a world where everyone collects everything (objects, of course, but also men and women). Seen through today’s eyes, it could be taken as a powerful metaphor for packaging; packaging is a strange contradiction, in that it is at one and the same time the dispenser of desires in their most widespread form, merchandise – and also their jailer. And packaging represents that threshold which we are invited to cross but which, once crossed, immediately becomes something obscene, superfluous, discarded, throwaway, trash, from which we cannot wait to free ourselves. Attractive and repellent, seductive but dangerous, communicative but also meaningless, essential but superfluous – no object carries such opposing features and attracts such opposing opinions as packaging. The reason for this deep ambivalence soon becomes clear. There is no packaging handbook which does not begin by explaining this dual

nature – the practical and material aspect, of packing, protecting, storing, etc. and the communicative and non-material aspect of branding, aesthetic wrapping, image and design. The dual essence of packaging is thus already all about its ambiguous function of wrapping, of “clothing” or better, “skin”, with one face which comes into contact with the merchandise and the other which presents its meaning outwards, to the consumer and the world. However, this distinction is a gross oversimplification. If we consider just the functional role of packaging, from the merely practical viewpoint of wrapping and protection, we find new dual ambiguities. Even if the question seems rhetorical, we have to ask: what is the packaging actually wrapping up? The goods, naturally, you will say, or rather something tangible which the packaging in its functional role must protect and preserve. The beer can prevents the beer from being lost , allowing it to be transported, refrigerated, kept bacteriologically pure, etc.; but which beer are we talking about? All drinks which end up in cans are not simply liquids in a container; in the case of beer or Coca-Cola, for example, we are dealing with drinks with carbon dioxide added, but even in the case of “still” drinks (fruit juices, tea, etc.) a drop of liquid nitrogen is used to keep the contents under pressure. Of course, the need for pressure depends on the material today’s cans are made of, aluminium, which has almost universally replaced the more rigid, but more expensive and heavier steel. Given that present-day cans are made from a sheet of metal only as thick as two sheets of paper, (a fact which is easily verified since, once the can is empty, it can be crushed in one hand), it would not have the same resistance if its contents did not have something extra within themselves.1 The addition of gas is this “extra” which


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differentiates canned beer from “natural” beer but we could say - it is that which differentiates a product from itself; although it may seem strange to us today, originally not even Coca-Cola was a carbonated drink, it only became so later on. We can conclude that this difference depends at least in part on the strictures of the packaging – the implication being that the can to a certain extent “redesigns” its contents.

Today this is so true that packaging is foreseen (for example by the Associazione Italiana di Macromolecole, www.aim.it) which will be so “intelligent” that it will provide on its outer surface a bank of data on the state of the contents (temperature, humidity) and so “active” that they will record its history (for example, whether a foodstuff has thawed out in transport, etc.). In this sense, even the simple distinction between the packaging and the product itself is more apparent than real. Suffice to mention the recent case of Solero, a frozen drink in the form of tiny frozen marbles which is already a re-working of the classic water ice, to understand this. Or the detergent Ultra in two-colored tablet form. Or just think of Coca-Cola, whose completely artificial coloring is part of the packaging: never mind all the shapely bottles in the world and the proverbial logo, a shiver would run up and down the spine if tomorrow the Atlanta company decided to change the color of the drink to mauve, however attractive – Coke wouldn’t be the same. Thus packaging really is the way in which man redesigns not only the apparent external shape of things but also their intimate secret heart.

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Thus, if one just says that the container is there for the benefit of its contents, it is an oversimplification, unless we add that the opposite is also true; to some extent the packaging transforms that which it should merely be preserving. But there is more. In fact, the difference between the merchandise and its packaging is not as great as may be thought; for example, 94% of consumers can recognise Toblerone by its shape alone. Does this mean, then, that the triangular packaging of the legendary chocolate is superfluous? Not at all, the opposite is true: a certain product takes on a certain shape because of its packaging. The naked “shape” is the intrinsic packaging, to which is added, as we have seen, primary packaging (the wrapping of each item), secondary (the packaging of several items) and in some cases even tertiary (large packs for ease of storage and transportation).2 Even the simple protective function impinges greatly the item, to the extent that it determines not only shape, colors and consistency, but also its very nature. Of course, it is a moot point whether the shape of Toblerone gave rise to the packaging or vice versa, but the truth is otherwise: there is a dialectical relationship between container and contents in which neither of the two can be separated from the other; their interdependence precludes this. Thus the “internal layer” of the packaging is much more than a passive element, only useful to protect

the nature of the item, which is already beautiful and ready; on the contrary, this hidden layer of packaging is rather the way in which modern man has parcelled up the world, transforming the natural flow into portions and therefore into “merchandise”. The classic 33 cl can (more or less a glass and a half), the chocolate bar, the portions of tuna or meat make up the daily “ration” of food which is a “rationalisation” of the irrational chaos of natural food (it is no coincidence that the first to announce a competition for the canning of meat – and so provide “ammunition” for his troops – was Napoleon, a child of the revolutionary Goddess of Reason).


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But what is the basis for this rethinking of the nature of an object? Here we must look at what experts call the communicative side of packaging. In this respect, the function of packaging is to attract the consumer to the product, and it must carry out this seduction in the manner of a hopeful contestant in a large beauty contest: in the few seconds she has available to get herself noticed. This is why new packaging is constantly appearing in carefully researched shapes, with brilliant colors, soft to the touch, all calculated to persuade the consumer to buy it, irrespective of the actual quality of the product contained in it. However, in this case too it would be simplistic to think of packaging only as the make-up, or worse the mask, of the product. Just as the beautiful young contestant would not be so beautiful without the clothing – however skimpy – the sash (maybe that would be “nude”, but that’s another matter) making her into a real beauty queen, so the product is never altogether itself without the features which the packaging weaves around it. In other words the product – like any object – is never “alone”, but is always decentralised, at the same time more-and-less than itself, something whose identity is supplied after the event. Some scholars (such as David Bernstein, author of the notable Company Image, Guerini, Milano 1988) maintain that the personality of the product (or the company) gives a sense of identity, and thence that a strong identity is the basis for a winning image; applying the argument to packaging, therefore, it could be argued that the image of a product depends on its identity which in its turn depends on its “real” characteristics. Is it once again necessary to turn to the example of Coca-Cola, the consumer product par excellence, a product which, if sold open, flat and warm, would be absolutely horrible, to demonstrate the naivety of this assumption? Once again, it must be asserted that things are turned upside down: it is the packaging which provides an item with its identity,

and based on this identity we recognise that item for what it is (or what we believe it is), exactly as occurs with clothes and the individual in his normal social life. This perspective forces us to re-examine the superficial concept of “communication” to which the function of packaging is ascribed: communicating does not mean transmitting a message from a broadcaster (the “real” product) to a receiver (the consumer). Things are not so simple, because of the mere presence of a small detail which, however, fills our lives, our choices, our unconscious with an enormous value: desire. Communicating means something much more complicated or even “perverse”, that is (to use the words of the controversial psychoanalyst Jacques Lacan) to receive back one’s own message in an upside down form, to bounce back one’s own desire, which then becomes (strange though it may seem) “the desire for other people’s desires”. How can all this be possible? Easily, if you think of the placebo effect: it has been shown that, faced with two suits of identical color and size, 88% of consumers prefer the one with a known name to the one without. If the labels are removed from both, things change: 44% prefer the unknown one. But if the labels are swapped, 91% choose the one without a name! 3 Applying this example to packaging is very easy: it is clear that the packaging determines not only the choice of product, but the way in which we think of it and perceive it. The explanation for this lies in the desire: buying the suit with the name, or the wellknown brand of product, we appropriate a part of a world of enjoyment, into which - for example - I project my image of a successful individual who surrounds himself with objects of known taste, and does not lower himself to compromises over “distasteful” questions of price, and therefore has access to a life (the life of the rich and powerful, the life of “them”) which otherwise would be denied to


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me. This is how I receive back from packaging (luxurious, sophisticated, etc.) ideas which I myself put there (I want to appear well-to-do, surrounded by superior things, etc.), but in a way turned upside down: the packaging of the caviar or champagne says to me: “buy me, you can see (from my label, the famous brand name, the red band, the illustrious noble names) that I reflect exactly that which you expect from me..!” Things are no different with inferior packaging or a lesser-known brand: the product in itself is only a function of the imaginary desire of the purchaser – if I feel that my place is in an intellectual world where it is best to buy butter at a good price, because I should pay little attention to “material” things, because I want to escape from brands, because I have just finished reading Naomi Klein’s No Logo, etc., then my desire will be satisfied precisely by the crude, spartan packaging found in the discount stores – without the butter itself, as Wittgenstein said in a noted aphorism, having shown any “activity”.

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To place things in a historical perspective, then, we can trace an evolution of packaging from its origins. If originally packaging was a rationalisation of the world of objects, and a transformation of them into merchandise, then at a later date the packaging became the voice of the products, the way in which they conversed with the world and made themselves known. The first stage is still a latent period of packaging, for the most part made up of manufactured and standardised packaging, but mute, silent, all stamped with the brand of the manufacturer. The second stage is the “pop” stage of packaging, the symbolic period in which the packaging says something about the product, makes it an object of show, a kind of diva or “star” (just like the famous italian stock cubes which carry the unlikely image of Joan Woodward as a housewife). A mass media age in which products arrive in the home from another planet, the world of production. Now it is time to state that this period, too, is at an end. In an age of reciprocal communication, when the mass media are no longer elitist, and do not limit themselves to presenting heroes who cannot be imitated – when access to them is becoming ever more easy, when, let us be clear, next week’s star could be our next-door neighbour – packaging is also undergoing a metamorphosis. Nowadays, packaging does not come from far away, does not speak of a strange place, it bursts forth from close by, it explodes out of the here and now. Everything is dressed up as packaging – the articulated trucks on the motorway, which look like huge packages on wheels, the architecture of big company premises which are decorated in the

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Recent analyses of packaging have overlooked desire and the powerful drive to buy or to reject dictated by the imagination which, in one way or another, dwells in each of us. The enormous importance of packaging derives from this. In other words, packaging cannot but affect anthropologists, artists and philosophers, long before marketing manager because, on close examination we see immediately that it is a precise representation of the relational, social and cognitive structures of our society. We can not only say, in all sincerity, that packaging is a mass communication tool of both quantity and quality through which a product can reach an audience which is no smaller than that of a television transmission or a film; it must also be added that packaging exactly represents the incarnation of contemporary social imagination, the way in which the imagination moulds the reality which surrounds it. Taking this

dialectical reasoning to its extreme conclusion we can say that packaging embodies our desires because it is us, more than we are ourselves, because it embodies us perfectly to the point where it becomes us.


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colors and with the logos of the packages they produce (like the Bayer building which looks like an enormous packet of aspirin), sportsmen’s track suits which wrap their muscular bodies as in PVC film… But at the same time, packaging is becoming elusive, there is actually a trend for it to disappear altogether (as in the case of Lush or OaO’s products), it is camouflaging itself, becoming minimal, slimming down, actually becoming invisible: and all this because now as never before it constitutes a faithful representation of something much less tangible than the product itself.

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No, packaging can no longer be defined as the skin of an object – it is rather that our own skin (which can itself now be infinitely reproduced, which itself is now similar to PVC film) has become like packaging. And the story has its dialectic moral because, if originally packaging was the way in which man moulded the world to an image and resemblance

of himself, today packaging has rebelled against its inventor like the robots in science-fiction films, and is now trying to model us in an image and resemblance of it! Packaging (like other phenomena containing a high degree of imagination, like fashion) is truly the way in which things are redesigning not only the apparent external shape of man, but also his most intimate secret nature. This is why, in the final analysis, it will be necessary to recognise a radical change which exemplifies the true nature of packaging: because it is no longer the products which are being packaged, meekly in the outside world, but us in our most internal and “authentic” selves. 1 2

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T. A. Stewart, Intellectual Capital, Doubleday (1999). M. Ferraresi, Il packaging, Franco Angeli, Milano (1999) and E. Denison, R. Cawthray, Packaging Prototypes, Progetto ed., Milano (1999). F. Benedetti, La realtà incantata, Boringhieri (2000).

Marco Senaldi, art critic and philosopher, teaches aesthetics at the Milan Polytechnic and at the Carrara Academy, Bergamo; he has published (with A. Piotti) Lo Spirito e gli Ultracorpi (Franco Angeli, 1999).


design box

Contenitori Liquidi Di solito la forma dell’acqua è quella del suo contenitore, ma la nuova bottiglia disegnata da Ross Lovegrove per Ty Nant, azienda leader nella produzione di acque minerali pregiate e da sempre attenta alle forme delle sue bottiglie tanto da farle diventare prodotti di culto, sembra contraddire questa legge fisica. L’aspetto del flacone, infatti, è quello di un cristallino e solido blocco di acqua che si è come congelata improvvisamente mentre ancora sgorgava vivace e turbolenta. Sembra che la bottiglia, di PET trasparentissimo, abbia dovuto deformarsi sotto la forza fluida del liquido ribelle e che si sia dovuta piegare e adattare alla sua forma movimentata. Così, grazie alla geniale creatività del designer e alla capacità realizzativa dell’azienda, è adesso possibile acquistare un’acqua minerale che sembra non essere imbottigliata; un’acqua che è ancora libera di scorrere, viva e fresca, liquido contenitore di se stessa.

Liquid Containers Usually the shape of water takes on that of its container, but the new bottles designed by Ross Lovegrove for Ty Nant, leading quality mineral water producer - a company that has always had an eye to the shape of its bottles, to the point of making them cult objects - seems to defy this physical law. In fact the bottle looks like a crystalline solid block of water, giving the impression that the water has suddenly frozen solid during its turbulent gushing. It seems as if the bottle, of highly transparent PET, was forced to deform under the fluid force of the rebellious liquid, being compelled to conform and adapt itself to the sprightly, flowing shape of what it contains. Thus, thanks to the ingenious creativity of the designer and company’s capacity to convert the same into reality, you can now buy a mineral water that looks like it hasn’t been bottled; water that is still free to run, vivacious and fresh, a liquid that is the container of itself.


Il seducente involucro di Marylin Monroe è una bella tentazione per Tom Ewell (Quando la moglie è in vacanza, Billy Wilder, 1955). The seductive wrapping of Marilyn Monroe is a fine temptation for Tom Ewell (The Seven Year Itch by Billy Wilder, 1955).


Per Aprire Schiantare con Rabbia

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Tiziano Scarpa

champagne. È sicuro di saperlo aprire?». Il vicino di casa (rotea i pollici pronti all’azione, come se stesse mostrando muscoli prodigiosi): «Be’, non faccio per vantarmi…» Mi piacciono le ultime generazioni di medicine: gli antipatici tappi dei farmaci da premere prima di svitare, per tenere lontani i bambini dal veleno; e i flaconi di detersivo protetti dallo stesso sistema: merci sagge, capaci di selezionare i loro apritori. Cinquant’anni fa, un medico prescrisse una cura di supposte a mio zio. Mia nonna le vedeva per la prima volta, erano pressate in una stagnola forte come un lamierino. Ne ritagliò una con le forbici, la infilò così, senza sbucciarla, nel didietro di suo figlio. Perché le scatole di detersivo sono state le prime a indicare come andavano sfondate premendo con le dita sul tratteggio perforato? Esistevano differenze misteriose nei modi di aprire le merci, abitudini interiorizzate: le scatole di sale grosso e di riso mia madre le segava su uno spigolo in alto, con il coltello, toglieva un piccolo prisma angolare dal parallelepipedo di cartone. Erano scatole del tutto simili a quelle dei detersivi ma, chissà perché, per il sale e il riso,

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tramonto, il cui acquisto è diventato pieno di contraddizioni e attriti. I compact disc originali costano troppo: ormai si possono masterizzare, scaricare dalla rete. Prima di comprarli ci si informa bene che la musica sia buona: recensioni, ascolti alla radio, assaggi gratuiti nelle cuffie dei megastore. Li si soppesa dubbiosi, prima di dirigersi verso la cassa. La pellicola di cellophane dei cd è sottile ma robustissima, fino a poco tempo fa si sarebbe detto che dilaziona il piacere, che è la paratia trasparente ma indistruttibile che separa il desiderio dal possesso… Ma ora che si sta scatenando un nuovo luddismo contro le merci, contro le marche che drogano l’economia e infettano l’anima, non sentiamo dentro di noi l’eco della devastazione ogni volta che apriamo una confezione? Sta scoppiando un’insurrezione individuale in ognuno dei nostri gesti normali che scartano, lacerano, scollano e strappano: non la senti? È ancora un’esibizione di machismo, in certe feste, riuscire ad aprire una bottiglia di spumante che non si lascia stappare. Quando la moglie è in vacanza: Marilyn Monroe: «Allora io vado di sopra a prendere lo

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Delle confezioni di prodotti, mi piacciono soprattutto quelle difficili da aprire. Oltre a fare la spesa e riempire il sacchetto della spazzatura, aprire le confezioni è l’ultimo gesto di lavoro che è rimasto al consumatore. Ciò che un tempo si doveva nutrire, far crescere, uccidere, scuoiare, macellare, disossare e cuocere, ora si offre già pronto a meno di un millimetro di spessore, a una confezione di distanza dal nostro apparato di consumazione. Mi piacciono le aperture difficili perché mi ricordano forzieri e scrigni, dobloni e mucchi di gioielli. In una trasmissione televisiva i concorrenti dovevano superare alcune prove di sopravvivenza contemporanea. Una di queste consisteva nell’apertura a mani nude del cellophane che sigilla i compact disc: quella pellicola è uno dei materiali apparentemente più deboli, eppure oppone una resistenza formidabile anche se viene artigliata con le unghie lunghe. Impossibile non perdere la pazienza, sfregiarla con le forbici, morderla con i canini. Che cosa scatena questo vandalismo verso le confezioni? È una brama di possesso, o una vendetta verso la merce che ci ha sedotti? I cd musicali sono una merce al


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i produttori non avevano ancora previsto una procedura di scardinamento. Il percorso tratteggiato, con la sagomina delle forbici: forse il vero simbolo della nostra epoca dolcemente dittatoriale, che istiga alla devastazione regolata, che ci consola dell’irreversibile, prevedendolo per noi: taglia qui, una volta per sempre, non avere paura, stai commettendo un atto irreparabile, ma non per questo con le tue forbicine ti stai inerpicando su un sentiero solitario. Diventare grandi significava anche imparare ad aprire. La porzione di stagnola lacerata sui pacchetti di sigarette morbidi, nello spazio quadrato fra il lato corto e l’avvolgente rettangolino di carta del Monopolio di Stato… Provo una sottile apprensione quando avvicino un barattolo di caffè sotto vuoto spinto, brandendo una forchetta, per forarlo al centro del coperchio: libera un piccolo geyser di aroma, e il soffitto del barattolo si gonfia un poco d’aria prima di lasciarsi rimuovere facendo leva sull’apposito anello. Mi piacciono tutti i generi di iperconfezioni e sovrachiusure. Quella specie di preservativo di cellophane che tutela il profumo del pepe, chiuso in un tubetto di vetro con il tappo di plastica, che a sua volta

incorpora un macinino di plastica: a ben vedere è soltanto quest’ultimo che, finalmente, apre i grani di pepe triturandoli. I dischi colorati di plastichina traslucida sulle lattine di birra, per garantire l’igiene. Le confezioni di cracker e merendine che nascondono in grembo parti plurigemellari, i sottopacchetti in porzioni singole… La rivolta del prodotto che non si lascia aprire volentieri si può mitologizzare a buon mercato: una resistenza delle merci, un’allusione alla loro inconsumabilità simbolica, una dimostrazione della loro acquisizione impossibile. A me invece piacciono proprio le acrobazie manuali causate dai sistemi di apertura, i gesti ingegnosi; e la furia devastatrice che implicano. Le merci sono così furbe da istigare alla breccia, all’invasione, allo stupro e al saccheggio della confezione. Sbalordisco al pensiero di tutti questi brevetti industriali: si tratta di procedure che sono state escogitate, in definitiva, per compiere un gesto demolitore. Mi piace pensare che qualcuno abbia studiato per mesi a tavolino il modo migliore per spaccare, per schiantare con grazia. Mi piace il genere letterario delle istruzioni per l’apertura: “Aprire qui”, “Premere e

sollevare”, “Per aprire sollevare la linguetta”. Il vero tabù delle merci è la loro illibatezza perduta. Che nessuno le abbia aperte di nascosto, che nessuno ne abbia abusato prima di noi! Si narra di fustini violati per rubare buoni premio, o per sottrarre regali immersi nella polvere detersiva. Cartoni del latte siringati da terroristi e sabotatori… Chi non ha mai provato un deodorante di nascosto? Chi non ha mai svitato il tappo del bagnoschiuma per annusarlo clandestinamente fra le corsie del supermercato? La confezione integra finge l’alfa della cosa, abolisce la storia del prodotto: siamo noi compratori il suo incipit, il suo motore d’avvio, gli autori del primo verso del poema. I barattoli di vetro dei sottaceti esorcizzano questa disgrazia, esortano a verificare che qualcuno non sia passato prima di noi, che non li abbia – orrore! – dischiusi. Intorno al tappo di metallo c’è scritto: “Capsula di sicurezza – Al momento dell’acquisto premere il cerchio centrale: se fa ‘clic’ la confezione è aperta”. Tiziano Scarpa, scrittore, ha pubblicato per Einaudi Occhi sulla graticola (1996), Amo®e (1998) e per Feltrinelli Venezia è un pesce (2000).


Courtesy Galerie Art&Public, Géneve

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Tre gocce di Chanel n° 5 erano il pigiama prediletto di Marylin. Il profumo più famoso del mondo è divenuto un simbolo anche per lʼarte contemporanea. Lʼartista svizzera Sylvie Fleury ne ha fatto il monumento ideale realizzando, nel 1998, una fusione in bronzo cromato della classica silhouette.

Three drops by Chanel n° 5 were Marilynʼs favorite pyjamas. The most famous perfume in the world has also become a symbol of contemporary art. The Swiss artist Sylvie Fleury has made it her ideal monument, in 1998 creating, a cast in chromed bronze of the classic silhouette.


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Smash in Anger to Open

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Tiziano Scarpa Of product packs, the one I like best are those that are hard to open. In addition to doing the shopping and filling the trash bin, opening packs is the last act of work left to the consumer. What once upon a time we had to nourish, rear, kill, skin, butcher, fillet and cook, is now ready for the oven, apart from the matter of a film a millimetre thick, of a pack keeping a distance from our apparatus of consumption. I like hard-to-open packs because they remind me of treasure chests and caskets, doubloons and heaps of jewels. In a TV show, the competitors had to pass some contemporary survival tests. One of these consisted of using only their bare hands to open the cellophane that seals compact discs: that film is, at sight, one of the flimsiest of materials and yet it offers considerable resistance, even if clawed at by long nails. Impossible not to lose your patience, slash it with scissors, bite it with your canine teeth. What unleashes these acts of vandalism on packs? The desire to possess, or a vendetta against the goods that seduced us? Music CDs are twilight goods, whose purchase has become full of contradiction and friction. Original compact discs cost too much: nowadays you can rewrite CDs and download from the Net. Before buying them, we make sure the music is good: critics, listening to the radio, free plays using megastore headsets. We weigh up the pros and cons before heading for the cash desk. The cellophane film on these CDs is thin, but ever so strong, and until recently we would’ve said it defers the pleasure, the transparent but

indestructible wall between desire and possession… But now that there’s a new form of Luddism against goods, against brands that drug the economy and infect the soul, don’t we feel the echo of devastation within us every time we open a pack? There’s an individual insurrection in each of our normal gestures as we throw away, tear, pull apart and rip: can’t you hear it? It’s still an exhibition of male chauvinism, at certain parties, to manage to open a bottle of sparkling wine that won’t open. The Seven Year Itch, Marilyn Monroe: “So I’ll go up and get the champagne. Are you sure you can open it?”. The neighbour (twiddling his thumbs, ready for action, as though to show off incredible muscles): “Well, I don’t want to boast…” I like the latest generation of medicines: those horrible caps on pharmaceuticals that you have to press before twisting off, to keep poisons out of the reach of children. And those detergent bottles protected with the same system. Wise goods, capable of selecting their openers. Fifty years ago, a doctor prescribed a course of suppositaries for my uncle. It was the first time my grandmother had seen these, pressed in aluminium foil as strong as steel. She cut one off with a pair of scissors and inserted it like that, without peeling off the foil, into her son’s asshole. Why were detergent bottles the first to indicate how to break into them by pressing along the perforated line with your fingers? There were mysterious differences in the way to open goods, internalised habits: my mother used to saw off a corner with a knife to open boxes of cooking salt and rice, removing a small angular prism from the cardboard parallelepiped. These boxes were just the same as those for detergents, but, who knows why, in the case of salt and rice the producers still hadn’t foreseen such a “hinge-action” procedure. The dotted line, with the scissors symbol: perhaps


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the real symbol of our gently dictatorial age, instigating regulated devastation, consoling us for the irreversible, foreseeing it for us: cut here, once and for all, don’t be afraid, you’re committing an irreparable act, but this doesn’t mean you’re setting off down a lonely trail with your scissors. To grow up also means learning how to open. That bit of torn foil on soft cigarette packs, in the square gap between the short side and the encompassing strip of State Monopoly paper… I feel a certain apprehension when approaching vacuum-packed tin of coffee, brandishing my scissors, intent on piercing it in the centre of the lid: a small geyser of aroma escapes and the top of the tin swells with air for a second before it lets me remove it using the pull-ring. I like all types of excessive wrapping and over-closure. That kind of cellophane condom that protects the aroma of pepper, closed in a glass tube with a plastic cap, which in turn incorporates a small plastic grinder: when all’s said and done, it’s only this last item that, finally, opens the pepper corns by grinding them. The translucent coloured discs of plastic on beer tins to guarantee hygiene. Those packs of crackers and snacks that hide multiple-twins in their wombs, the single-portion sub-packs… The rebellion of the product that won’t allow itself to be opened easily could quickly become a legend: a resistance by goods, an allusion to their symbolic non-consumability, a demonstration of their impossible purchase. As for me, however, I like those manual acrobats caused by opening systems, ingenious gestures,

not to mention the devastating fury that these imply. The goods are so cheeky that they incite you onto the breach, invasion, rape and sacking of the pack. I’m amazed at the thought of all these industrial patents: when it comes down to it, they’re simply procedures that have been concocted to carry out this act of demolition. I like to think that someone somewhere has spent months at the drawing table to come up with the best way to break, rip apart and smash with grace. I like the literary genre of those instructions on how to open: “Open here”, “Press and lift off ”, “Lift tab to open”. The real taboo for goods is their lost chastity. That no one has ever opened them on the sly, that no one’s abused them before us! People write of tubs broken into in order to steal prize vouchers or to get the gifts hidden deep down in the powder detergent. Milk cartons injected with syringes by terrorists and saboteurs… Who has never tried a deodorant in secret? Who has never unscrewed the top of a bubble-bath to sniff it clandestinely in the supermarket aisle? The unopened pack feigns the very beginning of the thing, it abolishes the history of the product: we, the purchaser, are its incipit, its ignition, the authors of the first verse of the poem. The glass jars of pickles exorcise this disgrace, encourage that we check no one has passed before us, that no one has – horror of horrors! – opened. Around the metal lid are the words: “Safety capsule – At the moment of buying, press the central circle: if it ‘clicks’ the jar has already been opened”. Tiziano Scarpa, author, has published with Einaudi Occhi sulla

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graticola (1996) and Amo®e (1998); Venezia è un pesce (2000) with Feltrinelli.

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Il Grado Zero del Packaging La case history di Prada Beauty: il packaging tra minimalismo estetico e qualità del prodotto

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Le confezioni affusolate, essenziali e dall’aspetto futuribile della linea cosmetica di Prada sono arrivate sul mercato come se provenissero da un altro pianeta. L’idea di trasferire creme, lozioni, detergenti, ecc., in confezioni monodose da vendere assemblate in elegantissimi pacchetti, ha modificato profondamente il tradizionale concetto di distribuzione del prodotto di bellezza, inserendosi comunque nella complessiva e coerente brand image che Prada persegue da tempo. Per capire tutto ciò basta fare una visita allo store milanese di Prada in via Montenapoleone, dove l’estetica quasi concettuale emana un presagio di perfezione, che trova riscontro nelle ultime tendenze del design (si pensi allo stile glaciale dell’ultimo nato di casa Apple, l’iBook Platinum) e dell’arte contemporanea (vengono

alla mente certe immagini di Mariko Mori, gehisha e vestale di un immaginario alieno, del resto già ospite della Fondazione Prada). Nell’ambiente interno predomina un bianco da 2001 Odissea nello spazio, le commesse sono ineccepibilmente uniformi, i tavolini dove si possono provare i tester hanno forme asimmetriche e organiche, le scatole dei prodotti stanno allineate sulle pareti in una disposizione che è riprodotta sui display pallidamente azzurrognoli dei vari monitor, messi lì per agevolare le signore nella ricerca del loro prodotto ideale. Il tutto richiama, oltre all’igiene, anche l’illusione di uno spazio fuori dal tempo. Indiscutibilmente, il packaging finale del prodotto si inserisce in questo contesto e resta nelle mani del cliente come la testimonianza di un viaggio in un’altra dimensione.



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Abbiamo intervistato il responsabile del progetto beauty di Prada. Anche la griffe Prada è entrata a pieno titolo nel mercato dei prodotti di bellezza. Quando è nata lʼidea di proporre i vostri prodotti in confezioni monodose? L’idea è nata quando si è capito che per ottimizzare i trattamenti di bellezza era necessario che il prodotto fosse sempre molto puro e fresco, c’era quindi l’esigenza di avere un packaging che garantisse la protezione dall’aria e quindi l’assoluta integrità del prodotto. Chi è la “mente” che ha creato il concept del packaging? Miuccia Prada ha ideato e supervisionato l’intera linea. Quali sono stati i presupposti teorici e pratici che hanno portato a preferire una scelta così radicale? In altre parole, comʼè nato e come si è sviluppato il progetto del packaging? La premessa è stata che per assicurare assoluta purezza del prodotto avevamo bisogno di un tipo di imballaggio che fosse a tenuta stagna, in cui non potesse passare né aria, né luce, né batteri; sono questi, infatti, gli elementi che compromettono l’efficacia di qualunque formulazione cosmetica.

unʼestetica “farmaceutica” – è solo unʼimpressione, oppure avete effettivamente impiegato delle tecnologie farmaceutiche nel processo di confezionamento? Ogni imballaggio è stato prodotto in modo differente. Tutti però sono in EVOH, una speciale resina usata nell’industria farmaceutica per la sua assoluta impermeabilità agli agenti esterni. Per evitare qualunque intromissione di ossigeno durante il riempimento, ogni pezzo è stato messo in pressione con argon [un gas inerte usato nell’imballaggio]. La busta poi è stata ulteriormente sigillata.

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Ritenete che chi compra un cosmetico Prada lo compri “anche” per il packaging o “soprattutto” per il packaging? I nostri clienti comprano i cosmetici Prada perché credono nel concetto di purezza e nell’efficacia personalizzata, e possono vedere i risultati direttamente sulla loro pelle. … ma quali sono le reazioni e i commenti di fronte allʼimballaggio

Lʼimballaggio dei prodotti di bellezza Prada risente di

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prima ancora che al prodotto vero e proprio? I consumatori lo considerano essenziale, ma anche molto innovativo e quando usano i nostri prodotti verificano subito un miglioramento sulla loro pelle. In principio era il campione gratuito. Le aziende cosmetiche regalavano ai clienti “sachet”, bustine e confezioni monodose per far provare i loro prodotti. In che modo Prada risolve il problema di far provare i suoi prodotti? Esistono dei campioncini “non in vendita”? Abbiamo campioni e tester che sono diversi dai nostri prodotti monodose Ma la constatazione che i vostri cosmetici possano essere scambiati per “campioni gratuiti” , che invece gratuiti non sono, non rischia di indisporre o allontanare psicologicamente nuovi potenziali clienti? No, in quanto i nostri monodose sono presentati solo in confezioni multiple e mai proposti come campioni singoli. Ognuna di queste confezioni contiene approssimativamente la quantità giusta per un mese di trattamento.

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Per questi cosmetici è giusto parlare di “grado zero del packaging”, dato che sono allʼapparenza minimali e dal look farmaceutico, oppure si tratta di un raffinatissimo “over packaging” che serve a garantire la massima protezione dei prodotti? L’idea di assicurare la protezione completa da qualunque agente

esterno è venuta ispirandoci alla più igienica delle industrie, quella farmaceutica; il packaging minimale è funzionale a garantire la freschezza del prodotto. Quali sono i prodotti cosmetici attualmente in vendita e, se ci sono, quali sono quelli previsti in futuro? Avete intenzione di proseguire con questo tipo di imballaggi? Poiché la nostra idea era di avere un packaging assolutamente impermeabile all’aria, abbiamo cominciato con la realizzazione dei monodose; in seguito sono stati sviluppati altri prodotti in versione “multidose” che hanno richiesto un po’ più di tempo per ingegnerizzarne il packaging - che però ha le medesime caratteristiche per mantenere la freschezza e l’integrità del prodotto. Il vostro packaging sembra risentire un poʼ anche di certe tendenze dellʼarte contemporanea (Damien Hirst ad esempio ha realizzato delle opere ispirate al packaging), settore che vede la Fondazione Prada in prima fila… … può darsi, ma soprattutto il packaging Prada riflette la funzione di impermeabilità all’aria e di integrità a beneficio della purezza e dell’efficacia del prodotto. In che modo questo packaging si inserisce nellʼimmagine complessiva che Prada dà di se stessa? Per l’elevata qualità che applichiamo a tutti i nostri prodotti e, come nella moda, per lo stesso tipo di ricerca.



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The Zero Degree of Packaging

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The Prada Beauty case history: packaging amidst aesthetic minimalism and product quality The streamlined, essential and futuristic-looking packs used for Prada’s line of cosmetics appeared on the market as if coming from another planet. The idea to transfer creams, lotions, detergents etc., to single-dose packs for sale in elegant combi packs has profoundly changed the conventional concept of how beauty products are distributed, while perfectly fitting in with the overall coherent brand image that Prada’s been pursuing for some time now. A visit to Prada’s Milan store in via Montenapoleone is enough to bring the message home, a store where the almost conceptual aesthetics gives out a foreboding of perfection, confirmed in the latest trends in design (take, for example, the glacial style of the latest addition to the Apple family, the iBook Platinum) and contemporary art (certain images of Mariko Mori come to mind, geisha and vestal virgin of an imaginary alien, and already a guest of Prada Foundation). The white typical of 2001 - A Space Odyssey predominates the interior, with the shop assistants all identical and the tester tables asymmetric and organic in shape. The boxes are all lined up along the walls in a pattern reproduced on the vaguely bluish displays of the various monitors, provided to help the ladies find their ideal product. Everything makes one think of the illusion of timeless space, as well as hygiene. There’s no

doubting it, the final product packaging fits the context and remains in the customer’s hands as proof of a voyage in another dimension. Impackt interviews the project manager for Prada Beauty. The Prada fashion label has also entered the beauty product market in its own right. When did the idea of using individual packages for your beauty products originate? When the concept of fresher, purer product for more effective skincare was envisioned, monodose packaging was created. We recognized the need for an airless, airtight environment. Whoʼs the mind (or minds) behind this packaging concept? Mrs. Prada is the mind behind the concept and envisioned the entire line. What theoretical and practical premises led to such a drastic decision? Could you tell us how the packaging project was created and developed. The premise is that to achieve absolute purity, we needed airless, airtight packaging to seal out light, air and bacteria as these elements diminish the effectiveness of the formula. As for technical and manufacturing information; could you describe how each individual package is manufactured and who produces it? Each package, be it the tottle, tube, or dish is manufactured differently. All suppliers use evoh, a specialized resin that is used in the pharmaceutical industry to obtain complete environmental barriers. In order to avoid any oxygen headspace while filling, we topped off each unit with argon gas. The envelope then seals it further.


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Do you think that there are people who buy Prada cosmetics “also” or “above all” because of their packaging? Our clients purchase Prada Beauty because they believe in the concept of pure, potent, and personal and see the results on their skin. How do people generally react when they first see your cosmetics? What do they have to say about them? (As they experience the packaging first, and only later, the product) Consumers see it as simple yet very innovative. When they use it they see the visible improvements on their skin. At first there was the free sample. Cosmetic companies offered their customers “sachet”, bags and individual packs so that consumers could try their products. How is Prada planning on getting people to try its products? Are there not-for-sale samples? We have sample sachets, which are different from our monodose tubes, tottles and dishes. May I ask a more provoking question? Could the fact that itʼs possible to mistake your cosmetics for free samples, although they are not, risk psychologically putting off or turning away potential new customers? No, as the monodose are presented in multiple units in a box so they are never seen as individual samples.

Which cosmetics are already available for sale and which are expected to be launched in the future? Do you plan on continuing to use this type of packaging? As our concept is pure and potent in airless, airtight packaging, we begin with monodose and we have launched some selective multidose packages, which are also airless and airtight as well. These packages took a little longer to engineer but still deliver freshness and potency. Doesnʼt Pradaʼs packaging reflect some of the trends in contemporary art (Damien Hirst, for example, has created pieces inspired by this packaging), a sector in which the Prada Foundation has a front row seat? Prada packaging reflects the function of airless, airtight for the benefits of purity and potency. How is this packaging a part of the image that Prada has created for itself? It reflects the high standards we apply for all our products, together with the same kind of research we use in fashion.

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How are your cosmetics sold? Are they purchased individually or by the package? By the package. Each package holds approximately one month’s supply.

Do you agree with the expression “packaging to the zero degree” with regard to the packaging of your cosmetics, as it is a minimalist, kind of pharmaceutical look, or do you think itʼs only a matter of a very sophisticated “over packaging”, ensuring better protection of the product? The inspiration came from the most hygienic industry, the pharmaceutical industry to ensure complete protection. It is simple and effective and packaged to achieve complete freshness.

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Imbotti


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gliature Non mi era mai capitato di vedere una bottiglia con l’ombelico, un’etichetta che si avvolge come un nastro spiraliforme, un tappo di sughero che si legge attraverso il vetro‌ Sonia Pedrazzini

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LO STUDIO GRAFICO SGA DI BERGAMO LAVORA COME UN ATELIER DI ALTA SARTORIA; LA FORMA DI OGNI BOTTIGLIA, LA GRAFICA DI OGNI ETICHETTA È DISEGNATA COME UN ESCLUSIVO “ABITO”, SU MISURA PER OGNI SINGOLO PRODOTTO. THE SGA GRAPHICS STUDIO OF BERGAMO WORKS LIKE A HAUT-COUTURE ATELIER; THE SHAPE OF EACH BOTTLE, THE GRAPHICS OF EACH LABEL IS DESIGNED LIKE AN EXCLUSIVE “DRESS”, TAILORED FOR EACH SINGLE PRODUCT.

…E non sono dovuta andare troppo lontano per toccare con mano, solo fino a Bergamo, nella quieta operosità della Città Alta. Lì, in una bella e antica casa dalle pareti affrescate, in un’atmosfera tutta italiana che riunisce senza conflitti tecnologia e tradizione, un gruppo di progettisti-artisti lavora con passione ai più raffinati progetti di packaging per bottiglie di vino, olio e distillati, che abbia mai visto.

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Ma lo Studio Grafico Artigiano non si limita a pensare involucri ed etichette, per quanto raffinati: la sfida è quella di contestualizzare la confezione, magari arrivando ad accostare packaging e architettura, come nel caso del progetto di immagine coordinata per l’azienda agricola Petra. L’architettura delle cantine, progettate da Mario Botta, è stata ulteriormente sviluppata secondo tutta una serie di simbolismi appartenenti sia alla

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Si chiama Studio Grafico Artigiano, creato nel 1983 da Chiara e Giacomo Bersanetti come studio di progettazione grafica e immagine aziendale. Attualmente è un singolare atelier di professionisti che condividono, oltre a gusti e ideali, anche una formazione di tipo artistico che li porta a realizzare accuratissimi progetti di grande impatto sia concettuale che formale. Vista la comune “denominazione

d’origine controllata”, i membri del gruppo - tra cui, dal 1996, è stabilmente presente anche l’artista Francesco Voltolina - sono degli autentici esteti e tutte le bottiglie che escono dalle loro menti e dalle loro mani sono, innanzitutto, delle vere e proprie sculture da tavola. Tali sono infatti i bei modelli di studio, torniti in legno, prima di diventare oggetti per la produzione.


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tradizione sacra che a quella popolare, sia occidentale che orientale. Le cantine Petra, che si trovano presso Suvereto, un antico paese della Toscana maremmana, sono caratterizzate da un edificio centrale cilindrico la cui sommità è tutta una imponente scalinata che conduce a un preciso punto di osservazione posto tra cielo e terra. Nell’etichetta per la Riserva Petra l’elemento ternario terra-uomo-cielo viene narrato attraverso la riproduzione di tre cerchi in progressione, fatti di parole, che si intersecano tra loro per rappresentare proprio il rapporto che lega l’uomo e l’albero (e quindi la vite) al cielo e alla terra. L’etichetta del vino Val di Cornia, invece, rappresenta la volta celeste caratterizzata dai classici elementi simbolici temporali (12 linee circolari, relative ai mesi e alle costellazioni; 8 sfere, relative alle fasi lunari; 7 anelli concentrici centrali, relativi ai giorni della settimana) posti in rapporto con il ciclo della coltivazione della vite e la produzione del vino. Una bottiglia senza etichetta è invece quella pensata per il vino Passum della Cascina Castlet. L’idea di partenza era di affermare l’eccezionale unicità di quel vino superando, sia concettualmente che fisicamente, la comune targhetta cartacea incollata sul corpo della bottiglia. Una P prealfabetica, rossa ed inconfondibile, serigrafata su vetro, è stata la soluzione. La comunicazione, divenuta in questo modo immediata e veloce, fa riconoscere la marca del vino per il forte segno grafico, mentre tutte le altre indicazioni vengono convogliate su un cartiglio posto audacemente lungo il collo della bottiglia. Le due caratteristiche, il vetro serigrafato e l’etichetta sul collo, hanno fatto di questo

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progetto uno dei packaging più innovativi del settore.

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Con lo stesso tipo di impostazione progettuale e studiata per la stessa azienda agricola è anche bottiglia del vino Aviè, evanescente e misteriosa, che reca sul suo corpo, letteralmente, lʼimpronta della mano della proprietaria. Infatti, per sottolineare la decisione di Maria Borio di dedicarsi in modo ancora più incisivo e diretto alla gestione e alla cura dei propri vigneti, oltre che per evidenziare la quantità di attenzioni profuse nella produzione

di quel vino, Bersanetti e i suoi collaboratori, hanno pensato di trasferire le impronte digitali della signora Borio su vetro, serigrafandole poi in oro zecchino. E’ stata realizzata quindi una bottiglia che con il suo packaging, fatto tutto di tocchi leggeri e di concetti, riesce ad esprimere grande preziosità, qualità e gusto. Lʼombelico del mondo non è un luogo, è una bottiglia di spumante, almeno così da quando Studio Grafico Artigiano ha deciso di

affrontare il tema del packaging per gli spumanti Tosti con una ricerca sugli archetipi collettivi. Dovendo innovare e caratterizzare l’immagine delle bottiglie e volendolo fare, come sempre, in linea con un concept forte e significativo, lo Studio ha deciso di associare al vino/spumante e al suo contenitore, la bottiglia, l’archetipo della Grande Madre, colei che contiene, protegge, nutre e genera, spesso simbolizzata nelle antiche civiltà dal vaso, l’anfora, l’otre. È stata quindi disegnata una bottiglia che è l’evoluzione di un vaso simbolico,

dalla forma morbida e tondeggiante come di un corpo femminile, caratterizzato dalla piccola concavità dell’ombelico. Questa nicchia, situata al centro della “pancia” della bottiglia, diventa un forte elemento distintivo, cattura l’attenzione e attrae il consumatore che compie il gesto istintivo di afferrare il prodotto per conoscerlo anche attraverso il tatto. Attorno all’ombelico ruotano tutti gli altri elementi che concorrono alla vestizione della nuova bottiglia, come l’etichetta e la collaretta che si




trasformata poi in doppia spirale con tutti i riferimenti simbolici, artistici e tradizionali che ne conseguono. La doppia spirale, ingigantita, diviene anche motivo decorativo e di riconoscimento per le cassette-regalo in cui il tradizionale legno con le sue caratteristiche di colore, calore e pienezza è abbinato a un innovativo foglio di plexiglas, trasparente e leggero. Il gioco della trasparenza è

etichette scritte dalla mano di esperti calligrafi, altre asimmetriche e variamente fustellate. Bottiglie grandi con piccole etichette ed etichette trasformate in poesia su bottiglie con le ali. E poi altre e altre ancora. Parole, lettere, segni e disegni; superfici e volumi; colori, materiali e finiture… ogni bottiglia diventa un racconto diverso che aggiunge un nuovo “sapore” al suo contenuto.

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Sonia Pedrazzini è designer e insegna all’Accademia di Design di Bolzano; si occupa di cultura del packaging per il mensile

ItaliaImballaggio.

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ancora utilizzato sul collo della bottiglia attraverso cui è possibile leggere il marchio stampato sul tappo di sughero. Tante bottiglie, tante etichette…Tanti vestiti ritagliati e cuciti ad hoc come abiti sartoriali. C’è, per esempio, una bottiglia nera, slanciata ed elegante, vestita solo di un lungo nastro, avvolgente e sinuoso; e ce n’è un’altra, un’edizione speciale 2000, in cui una corazza di cera d’api naturale ricopre, sigillandoli, tappo, collo e spalle. Ci sono

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integrano in una unica forma circolare, e avvolgendolo ne amplificano la centralità. Non è stato facile realizzare tecnicamente il vetro di questa bottiglia, soprattutto tenendo conto del fatto che il vino spumante esercita una pressione notevole sulle pareti del contenitore, tuttavia alla fine la sfida è stata superata e ne è risultato un imballaggio unico nel suo genere. Ancora una storia: il marchio del vino Sparina è stato sviluppato partendo dalla lettera S del nome


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Bottling I had never seen a bottle with a navel, a label which wound round the bottle like a spiral of tape, a cork you could read through the glass...

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Sonia Pedrazzini

... And I didn’t have to go far to touch them with my own hands, only as far as Bergamo, in the quietly industrious environment of Bergamo Alta. There, in a beautiful old house with frescoed walls, in a totally Italian atmosphere where technology and tradition blend harmoniously, a group of artist/designers work with a passion at the most sophisticated projects for the packaging of bottles of wine, oil and spirits, such as I have never seen. The place I am speaking about is called Studio Grafico Artigiano, set up in 1983 by Chiara and Giacomo Bersanetti as a studio of graphic design and company image. It is now a unique workshop of professionals with the same tastes and ideals, who also share a system of artistic training which has allowed them to create carefully devised projects which have great impact both in terms of concept and form. Given the high professional standards of the members of the group, which since 1996 has enjoyed the full-time co-operation of the artist Francesco Voltolina, it comes as no surprise that they are true aesthetes and that all the bottles, the products of their imagination and their hands, are true table sculptures. They are in fact beautiful studio models, turned in wood before going into production. But Studio Grafico Artigiano does not limit itself to devising wrappings and labels, no matter how sophisticated. The challenge is to put the packaging into a context, with the aim of

combining packaging and architecture, as in the case of the co-ordinated image project for the Petra agricultural company. The architecture of the wineries, designed by Mario Botta, has recently been developed to include a whole range of symbolism taken from both sacred and popular traditions from both the West and the East. The Petra wineries, which are located near Suvereto, an ancient town in the Tuscan Maremma, are characterised by a cylindrical central building surmounted by an imposing flight of steps which leads to an observation point placed between earth and sky. On the label for the Riserva Petra, this triple element – earth-man-sky – is portrayed through three intersecting rings made up of words to represent the relationship of man and the tree (and thus the vine) with the sky and the land. The label of the Val di Cornia wine, on the other hand, represents the vault of heaven portrayed in classic temporal symbolic elements (12 circles representing the months and the constellations, 8 spheres representing the phases of the moon, 7 central concentric rings representing the days of the week) all placed in relationship to the cultivation cycle of the vine and the production of wine. A bottle without a label is the solution for Cascina Castlet’s Passum wine. The starting point for the idea was to emphasise the unique quality of the wine by going, both conceptually and physically, beyond the normal paper label stuck on to the bottle. An unmistakable red “P”, printed on the glass by serigraphy, is the outcome. This immediately enables one to recognise the make of wine through the powerful graphic image, while all other information is carried in a scroll audaciously placed along the neck of the bottle. These two features, the screenprinted glass and the label on the neck, make this one of the most innovative packaging projects in this field.


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The same kind of careful thinking has gone into another project for the same company. The bottle for the Aviè wine, ephemeral and mysterious, bears on its body, literally, the ownerʼs hand print. To underline Maria Borio’s decision to devote herself more decisively and directly to the management and care of her vineyards, as well as to indicate the vast amount of dedication required for the production of this wine, the Bersanettis and their associates had the idea of transferring Signora Borio’s fingerprints to the glass, then coloring them by screenprinting in pure gold. In this way, a bottle has been created whose packaging, though using only light touches and concepts, manages to convey great richness, quality and taste.

Another story: the starting point for the development of the trade mark for Sparina wine was the letter “S” of its name transformed into a double spiral, with all the symbolic, artistic and traditional allusions attached to it. The double spiral, much enlarged, also becomes a decorative and easily-recognisable motif on the gift packs in which the traditional wood, with all its color, warmth and solidity, is combined innovatively with a sheet of light, transparent plexiglass. This play with transparency is taken up again in the neck of the bottle, through which it is possible to read the trade mark on the cork. A multitude of bottles and labels... a series of vestments that have been especially cut out and sewn like clothes that have been tailored to measure. There is, for example, a slim and elegant black bottle, embellished only with a long tape, which winds sinuously round it. Then there is another, a special edition for 2000, in which a shell of natural beeswax seals the cork and covers the neck and shoulders. There are labels hand-written by expert calligraphers, others which are asymmetrical or made into different irregular shapes. Big bottles with small labels and labels transformed into poetry on bottles with wings. And so on and on... Words, letters, signs and designs; surfaces and volumes; colors, materials and finishes... every bottle becomes a different story which adds a special “flavour” to its contents.

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Sonia Pedrazzini is a designer and teaches at the Accademy of Design of Bolzano; she writes about packaging culture for the packaging monthly

ItaliaImballaggio.

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The navel of the world isnʼt a place, itʼs a bottle of sparkling wine, at least it is since Studio Grafico Artigiano decided to approach the subject of packaging for Tosti Spumante through research into collective archetypes. They had to be innovative and to identify an image for the bottles and, as always, wanted to come up with a powerful and meaningful concept. So the Studio decided to create a relationship between the wine/Spumante and its container, the bottle, the archetype of the Great Mother, she who contains, protects, nurtures and gives life, often symbolised in antiquity by the vase, amphora or goatskin flask. They designed a bottle which is an evolution of the symbolic vase, with a softly rounded shape like the female form, with a small depression representing the navel. This hollow, set in the centre of the “belly” of the bottle, becomes a powerful distinguishing feature, catching the attention and attracting the consumer who instinctively picks up the bottle so as to get to know it by touching it. Surrounding the navel are all the other features which contribute to the character of this new bottle, such as the label and the collar, which are combined in a single circular shape, emphasising the central point. It was technically

quite difficult to create such a bottle, especially because Spumante wine exerts considerable pressure on the walls of the container. However, these difficulties were eventually overcome and the result is a packaging which is unique of its type.


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tools Street Market (Biennale di Venezia, 2001) In questa pagina e nelle successive Barry McGee, Stephen Powers, Todd James In this and the following pages Barry McGee, Stephen Powers, Todd James

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Una poesia inedita di Aldo Nove

La Merce Invenduta Piange

Io se fossi un pannolino avrei bisogno della merda di un bambino per esistere perché la merce invenduta piange e non capirei perché un bambino nella sua vita caga migliaia di pannolini ma non me che sono un pannolino normale come gli altri con il mio codice a barre normale sulla scatola. E se fossi uno di quei cosi con la neve e con padre Pio penserei di essere meglio di un soprammobile di Giò Pomodoro perché tutte le merci sono uguali di fronte a Dio e starei male a essere messo in vendita alla Stazione centrale di Milano in un angolino della vetrina del tabaccaio tra un cazzo finto e un portasigarette di plastica con lo stemma del Milan languendo per giornate deriso perché la merce invenduta piange.

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Io conosco il dolore delle pile dei sacchi della spazzatura nascosti dietro le scope nel reparto casalinghi del supermercato, sacchi della spazzatura verdi un tempo imposti per la raccolta differenziata dal comune e adesso negletti e impolverati, decaduti plastica più sola di un’anima a marcire. E conosco quel senso così umano di imbarazzo solo nell’esserci, nell’invadere lo spazio dello sguardo di una casalinga frettolosa di certe imitazioni di creme per il volto famose che non sanno perché ancora stanno lì esposte come due anziani che si stringono su una bancarella al parco il giorno prima di morire.


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Io conosco il dolore della “gelatina per dolci già detta colla di pesce” sommersa da bustine di lieviti Bertolini e sacchetti di zucchero in scaglie per le guarnizioni. Lo conosco e se io fossi lei mi chiederei perché sono una “gelatina per dolci già detta colla di pesce” e non, ad esempio, una fulgida appetitosa scatola di mezzo chilo di mezze penne Barilla, di quelle che si vendono a migliaia nei supermercati di tutto il mondo. Io penserei questo tutto il giorno e continuerei a piangere perché la merce invenduta piange e il suo dolore è tanto simile al nostro biologico stare sul mercato fino a che c’è domanda fino a che l’articolo che siamo non deperisce come un diplomato di 52 anni alla ricerca del primo lavoro come un corridore automobilistico amputato

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Aldo Nove, scrittore, ha pubblicato per Einaudi Puerto Plata Market, Superwoobinda, Amore mio infinito.

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oppure esattamente come una ragazza in Giappone che a 25 anni nessuno l’ha sposata è fuori catalogo inutile imbarazzata sugli scaffali della vita raggelata miscela Leone scaduta nel reparto caffè o sugo di cinghiale con l’etichetta scollata, scatola di sale dietetico schiacciata.


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A previously unpublished poem by Aldo Nove

The Unsold Goods Cry

If I were a nappy, I would need a baby’s shit to exist because unsold goods cry and I would not understand why a baby in its life soils thousands of nappies but not me I am a normal nappy like all the others with my normal barcode on the box. And if I were one of those things with snow inside or with Padre Pio I would think of myself as better than an ornament by Giò Pomodoro because all goods are equal in the eyes of God and I would feel bad if I were put on sale at Milan’s Central Station in the corner of a tobacconist’s shop window between an imitation willy and a plastic cigarette case with the Milan coat of arms languishing and derided for days because unsold goods cry.

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I know the pain felt by the piles of rubbish bags hidden behind the brooms in the supermarket, green rubbish bags which were once used to hold separated rubbish for the Council and now neglected and gathering dust, unwanted plastic more alone than a lost soul. And I know the very human feeling of bewilderment at simply existing, of invading the space of the gaze of a housewife in a hurry to find a certain imitation of a cream for a famous face the jars not understanding why they are still on display there like two old people stretched out on a park bench the day before they die.


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I know the pain of “gelatine for cakes formerly known as fish glue” buried under little packets of Bertolini yeast and bags of sugar crystals for decoration. I know it and if I were it I would ask myself why I am a “gelatine for cakes formerly known as fish glue” and not, for example, a bright and appetising box of half a kilo of Barilla half penne, which are sold in their thousands in supermarkets all over the world. I would think about this all day long and I would cry unceasingly because unsold goods cry and their pain is so much like ours as they wait in the supermarket until there is a demand for them until the article which we are wastes away like a 52-year-old graduate looking for his first job like a car racer with amputated limbs or exactly like a girl in Japan who unmarried at 25 is on the shelf useless sitting embarrassed on the shelf of life a frozen Leone mixture past its sell-by date in the coffee section or a wild boar sauce which has lost its label, a squashed box of diet salt. 1/02 169

Aldo Nove, writer, has published Puerto Plata Market, Superwoobinda and Amore mio infinito for Einaudi


Pelle di Pellicola Gianni Canova

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Pioner “il deodorante virile per gli uomini di dura scorza”, dal film Un Certo Giorno di Ermanno Olmi (1968).

Un vecchio film di Ermanno Olmi (Un certo giorno, 1968) si apre con un gruppo di pubblicitari che discutono sulla confezione da dare a una nuova marca di deodorante che sta per essere immessa sul mercato. Il prodotto ha un target maschile e deve suggerire un’idea forte e immediata di virilità. Così, gli esperti di packaging optano per una confezione che assomigli - nei colori e nella consistenza tattile

- a una scorza d’albero: qualcosa di ruvido ma anche di naturale, che associ un’idea di genuinità a una altrettanto evidente di mascolinità. È uno dei tanti esempi possibili di come il cinema ha affrontato il tema del packaging, mettendo in scena con prontezza e tempestività le tendenze emergenti tra gli esperti di marketing. Esempio interessante, ma scarsamente utile - come quasi tutti gli altri

che si potrebbero fare, da Un volto nella folla di Elia Kazan a Consigli per gli acquisti di Sandro Baldoni - al fine di individuare un eventuale “valore aggiunto” fornito dal cinema al tema della “confezione” delle merci e dei prodotti. Più proficuo può risultare invece un ragionamento su come il cinema ha affrontato il problema del packaging “di se stesso” e dei suoi prodotti (i film). Perché qui - nel modo di


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IL CINEMA HA AFFRONTATO IL TEMA DEL PACKAGING, METTENDO IN SCENA CON PRONTEZZA E TEMPESTIVITÀ LE TENDENZE EMERGENTI TRA GLI ESPERTI DI MARKETING. CINEMA HAS TREATED THE THEME OF PACKAGING, PROMPTLY AND OPPORTUNELY STAGING THE EMERGING TRENDS AMONG MARKETING EXPERTS.

Pioner “the virile deodorant for tough-skinned men” from the film Un Certo Giorno by Ermanno Olmi (1968).

di volta in volta, ma una retorica ormai consolidata impone il ricorso a stereotipi comunicazionali, quali la frase roboante di un critico citata fra virgolette, l’uso di un’aggettivazione enfatica fatta quasi esclusivamente di superlativi assoluti, la predilezione per un impianto grafico e cromatico sempre molto ostentato. Senza alcuna attenzione per il target, per il “valore d’uso” di quel dato film,

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come se fossero prodotti in serie, rivolti contemporaneamente a tutti e a nessuno. Di che cosa è fatto il packaging di un film? Semplice: dei flani sulle pagine-spettacolo dei giornali quotidiani, dei cartelloni murali affissi lungo le strade e nelle piazze delle città, dei poster e delle locandine esposti all’ingresso dei locali in cui il dato film viene proiettato. Certo: la grafica e gli slogan cambiano

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“confezionare” i film e di presentarli nei loro punti-vendita (non solo le sale cinematografiche ma anche, poniamo i negozi di Blockbuster) - si può cogliere una delle contraddizioni di fondo in cui si dibatte tuttora l’industria cinematografica. Mettiamola così: se è vero che ogni film è un prototipo (nessun film è uguale a un altro), è vero altresì che tutti i film sono “confezionati” allo stesso modo,


LʼINQUIETANTE POTERE DELLA PUBBLICITÀ E DEI MEDIA IN GRADO DI VENDERE TUTTO A TUTTI. IL MARCHIO “VERMITO”, PUBBLICIZZATO DALLA

per il tipo di emotività che è in grado di sollecitare in quello specifico contesto geografico e sociale. Il panorama, da questo punto di vista, è davvero sconfortante e grigiamente omologato, senza sostanziali differenze fra i diversi produttori e distributori. Ciò implica una perdita secca del potenziale attrattivo di molti film e, spesso, un’autolesionistica rinuncia a comunicare con pubblici possibili. Chi l’ha capito e ha tentato strade diverse (è il caso recente di un film come The Blair Witch Project, non solo “confezionato” in modo nuovo ma anche “comunicato” attraverso canali differenti da quelli consueti) ha ottenuto un successo clamoroso e inatteso. A dimostrazione del fatto che il talento e la creatività sono ormai indispensabili non solo nella ideazione e nella produzione di un film ma anche nella sua “confezione” e comunicazione.

SOCIETÀ CAINO & ABELE, DISTRIBUISCE CARNE IN SCATOLA IN DECOMPOSIZIONE PER CANI. DA CONSIGLI PER GLI ACQUISTI, SANDRO BALDONI (1997). THE DISTURBING POWER OF ADVERTISING AND

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THE MEDIA, CAPABLE OF SELLING EVERYTHING TO

EVERYONE.

THE

“VERMITO”

BRAND,

ADVERTISED BY THE COMPANY CAIN & ABEL, DOG-FOOD. FROM CONSIGLI PER GLI ACQUISTI

Gianni Canova insegna Storia e Critica del Cinema allo IULM di Milano; ha pubblicato di recente L’Alieno e il Pipistrello

BY SANDRO BALDONI (1997).

Bompiani, 2000.

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DISTRIBUTES CANNED DECOMPOSING MEAT AS


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Skin of Film Gianni Canova An old Ermanno Olmi film (Un certo giorno, 1968) opens with a group of advertisers discussing the pack to be used for a new brand of deodorant about to be launched on the market. The product has a male target and has to suggest a strong, immediate idea of virility. So the packaging experts opt for a package that resembles - in colour and texture - tree bark: something rough, but natural at the same time, that associates an idea of genuineness with an equally evident theme of masculinity. This is just one of the many examples one could give as to how cinema has treated the theme of packaging, promptly and opportunely showcasing the emerging trends among marketing experts. An interesting example, but of little use – like virtually all the other examples one could give, from Elia Kazan’s Un volto nella folla (A Face in the Crowd) to Sandro Baldoni’s Consigli per gli acquisti - in terms of finding possible “added value” supplied by cinema when it comes to the question of “packaging” goods and products. More worthwhile is reasoning along the lines of how cinema has looked at the problem of packaging “itself” and its products (the films). Because here – in the way it “packages” the films and presents them at the points-of-sale (not just cinemas, but also video-rental stores, such as Blockbuster) one can find one of the basic contradictions still debated about in the film industry. Put it this way: if it’s true that each film is a prototype (no film is ever identical to another), then it’s also true that

all films are “packaged” in the same way, as though they were mass produced, aimed at everyone and nobody at the same time. But what does the packaging of a film consist of? Easy: flans on the entertainment pages of daily newspapers, billboards in city streets and squares, posters and leaflets at the entrance to the venues where the film is projected. Sure: the graphics and slogans change each time, but what is now a consolidated rhetoric imposes the use of communication stereotypes, such as the high-sounding phrase of a critic quoted in inverted commas, the use of an emphatic string of adjectives almost entirely made up of superlatives, the constant preference for highimpact graphics and colours. Without any attention being paid to the target, for the “value of use” of a given film, for the type of emotions that it may arouse in that specific geographical or social context. The panorama, from this point of view, is very worrying and depressingly well established, without any real differences between the various producers and distributors. This implies a net loss in the potential of many films to attract and, often enough, a self-destructive renunciation to attempt to communicate with potential audiences. Those who’ve realised this and have tried different routes (a good recent example of this is The Blair Witch Project, not just “packaged” in a new way, but also “communicated” via different channels than those normally used) have had unexpected, clamorous success. Going to prove that talent and creativity are today indispensable, not only in coming up with the idea for and the production of a film, but also in its “packaging” and communication. Gianni Canova teaches History and Criticism of Cinema at IULM in Milan. He has recently published L’Alieno e il Pipistrello

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Bompiani, 2000

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Catharine Fishel

The Perfect Package

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Rockport Pub. 2000 Esiste il packaging perfetto? Per fortuna no, non almeno nel senso di un packaging valido per tutte le stagioni. Sfogliando le pagine di The Perfect Package accade di imbattersi in autentiche scoperte, come ad esempio la linea di schiuma da bagno “Secret Weapon” (per Superdrug) imballata in contenitori identici a quelli usati per le trasfusioni di sangue. O nel raffinato look di Tazo Tea, una brand che punta sulla fusione tra richiami alchemici e old fashion in stile

coloniale. Oppure, ancora, nella grafica concettuale del packaging di Joe Boxer, azienda di intimo e di biancheria per la casa. Tutti gli esempi presi in esame dall’autrice evidenziano che il nuovo ruolo del packaging va ben oltre quello di veicolare il prodotto o di rinforzare la brand identity: ormai l’imballaggio costruisce la parte immateriale del prodotto, allarga l’approccio del consumatore alla marca, diventa esso stesso oggetto di desiderio. Does the perfect packaging exist? Fortunately not, not least in the sense of a packaging which is suited to all situations.Turning the pages of The Perfect Package one comes across some real discoveries, such as,

for example, the “Secret Weapon” line of bath foam (for Superdrug) packed in containers identical to those used for blood transfusions. Or the sophisticated look of Tazo Tea, a brand which aims for a fusion of overtones of alchemy and an old-fashioned colonial style. Then there are the conceptual graphics of the packaging for Joe Boxer, a company producing underwear and household linen. All the examples chosen by the author make it clear that the new role of packaging goes far beyond that of simply containing the product or strengthening brand identity: nowadays the packaging is an integral part of the product, broadening the consumer’s attraction to the brand, becoming of itself an object of desire.


book box Elio Grazioli

Arte e pubblicità Bruno Mondadori 2001 Già nel 1868 Eduard Manet dipingeva una simpatica réclame. Considerando la data, si capisce bene come i rapporti fra arte e pubblicità non siano una prerogativa dell’epoca consumista, ma risalgano molto indietro nel tempo. La lettura del testo di Grazioli risulta proficua per avere sott’occhio il quadro complessivo di una storia fatta di tradimenti, furti, rese incondizionate e unioni contro natura. In particolare, gli ultimi capitoli di questo romanzo di non-amore fra i due protagonisti,

Vanni Codeluppi

Il potere della marca. Disney, McDonaldʼs, Nike e le altre Bollati Boringhieri 2001

Already in 1868 Eduard Manet painted an eye-catching advertisement. Considering the date, one can understand well how the relationship between art and advertising are not a prerogative of the consumer era,

desideriamo tutto ciò precisamente perché lo spazio delle domande si è allargato, ma non esiste più chi ci fornisce delle risposte in cui si possa credere. Il libro di Codeluppi, da leggersi come una sorta di “biografia non autorizzata” di tre fra le maggiori brand internazionali, raccoglie numerose testimonianze e traccia il ritratto approfondito di un fenomeno che indubbiamente è vasto, ramificato - e certamente non effimero né transitorio.

That is to say, we buy a brand object because, through the fame of that great brand we have - or rather we think we have - access to an entire world of taste, of superiority, of success, that we desire above all other things. And we desire all this for the very fact that the space of demand has broadened, but those capable of supplying us answers in which we can believe in no longer exist. Codeluppi’s book, to be read as a sort of “unauthorised biography” of three of the major international brands, draws on numerous sources that bear witness to and trace an in-depth portrait of a phenomenon that is undoubtedly vast, widespread and certainly neither ephemeral nor transient.

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Brands are par excellence the ideological tool of the market. Thus «they have to propose values, a lifestyle, offer an aesthetic stance and even an ethical approach as well as a Weltsanschauung».

but reach far back in time. One is advised to read Grazioli’s work to have a general view of a story made up of betrayals, filching, unconditional surrenders and unions that go against nature. In particular, the last chapters of this novel of non-love between the two protagonists, Art and Advertising, are the most fascinating: that is from when (more or less from the eighties onwards) artists consciously used the advertising strategies not so much in terms of image, but to “trade” their own “immaterial” aesthetic products . If we then throw in the entering onto the scene these latter years of new media and net-art, thus one understands well how the story is far from over, and that, rather, the future still reserves a lot of surprises for us.

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Le marche sono per eccellenza lo strumento ideologico del mercato. Pertanto «devono proporre dei valori, uno stile di vita, un’estetica e, addirittura, un’etica e una visione del mondo». Insomma compriamo un oggetto di marca perché, attraverso la fama di quella marca abbiamo – o meglio pensiamo di avere – accesso a un mondo intero di gusto, di superiorità, di successo, che desideriamo sopra ogni cosa. E

Arte e Pubblicità, sono anche i più avvincenti: quando cioè (più o meno dagli anni 80 in poi) gli artisti impiegano consapevolmente le strategie pubblicitarie non tanto in termini di immagine, ma per “commercializzare” i propri prodotti estetici “immateriali”. Se poi mettiamo nel conto l’entrata in scena negli ultimi anni dei nuovi media e della net-art, allora si comprende bene come la storia sia tutt’altro che finita, e che, anzi, il futuro ci riserva ancora molte sorprese.


Sul filo della comunicazione

StudioGraficoPage

Via Matteotti, 18 - 20026 Novate Milanese Tel. 0233240018 Fax 0239101754 e-mail: sgpage@tin.it http://www.studiopage.it


A pity not to

re@d it Marketing & Design Facts & Figures Industry & Management Environment & Legislation Materials & Machinery ... news and updates from the world of packaging in the magazine and on the website

Edizioni Dativo S.r.l. Via Benigno Crespi, 30/2 20159 Milano Tel. +39/0269007733 Fax +39/0269007664 italiaimballaggio@dativo.it www.italiaimballaggio.it



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