Felice Renzulli
MONEY, MALEDETTI BASTARDI Autobiografia di Felice Renzulli, Architetto nato a Napoli il 30/07/1961
DLibri Piazza dei Martiri, 58 – 80121 Napoli tel. 081.421900 – fax 081.422212 www. denaro. it • denaro@denaro. it
Per “gentile dictat” di mia moglie ed in rispetto della privacy familiare, sostituirò i loro veri nomi con degli pseudonimi; lei si chiamerà “Desideria” e i due frugoli “Pinko” e “Pallina”. Il libro nasce impulsivo dall’esigenza di rimuovere le macerie delle mie traversie. A quelli che mi vogliono bene.
La certezza è come la durata di una vita: piÚ scorre e piÚ si rastrema
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Incipit Finalmente ho deciso, scrivo un libro su di me, la mia storia, necessito di sfogo… non doveva andare così. [già stai esaltato]. Battezzato col nome di Felice, ho 47 anni, napoletano, felicemente sposato con due figli, sportivissimo, una laurea in architettura con lode, esame di Stato e iscrizione all’albo professionale che al momento non serve a un cazzo. Quando ti dicevano “studia e applicati… un domani te lo ritrovi” e come me lo rinvengo, sai dove me lo reperisco?, va bene lasciamo perdere. Nasco privilegiato, da una famiglia abbiente, [che mazzo] mio padre è stato una cima eccelsa [can‑ none] nel “trabaco”, due lauree con lode, Prof. Ordinario di Scienza delle Costruzioni all’università di Ingegneria “Federico II” di Napoli e poi Decano presso la facoltà di Architettura “La Sapienza” a Roma. Autore di numerose pubblicazioni scientifiche nell’ambito dell’Ingegneria Strutturale, redigendo ampie voci di Scienza delle Costruzioni di ponti. Rappresentante del Ministero della Pubblica Istruzione nel Comitato Nazionale per l’Albo dei Costruttori. Progettista e Direttore dei Lavori di ponti e grandi strutture realizzati in Italia, Arabia saudita, Emirati Arabi, Iran, Iraq, Indonesia, Perù e Argentina. Una mente geniale, anche la musica, il pianoforte per l’esattezza, era una profonda vocazione, smorzata da un bivio obbligato con sentito rammarico e giuramento del suo insegnante, sul rimpianto avvenire garantito di pianista affermato.
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Ma le sue peculiari prerogative albergavano nella bontà e semplicità. Di noi quattro figli maschi (disgraziatamente oggi rimasti in tre) ero il prediletto, condividevamo un rapporto eccezionale e quando è mancato, per un lurido melanoma, in soli nove mesi, ho perso tantissimo, la pria vera botta tremenda nello stomaco, nell’anima, nel cuore e nella testa. [ci tenevi assai].
Bontà. Bontà bontà; regina di eleganza, grazia, cortesia, gentilezza , garbo e signorilità, vuol bene a tutti : malvagi, buoni, belli e brutti. E’ innata o ti può folgorare e non si confonde con la stupidità , giacché ben comprende nefandezze, zozzerie e infamità ; ma perdona e tira sempre a galla il fior fiore dell’altrui personalità. Ritengo giusto tralasciare gli iniziali anni di vita perché, a parte dei flashback, i ricordi sono troppo sbiaditi. A otto anni, grazie al talento innato nel tennis, ho scalato la vetta regionale e classificato tra i primi d’Italia. Oltre a una tecnica di gioco moderna, stile Bjorn Borg per intenderci, disponevo di scatto, energia fisica e grinta da vendere: il punto gracile, invece, infieriva su nervi poco saldi. Rammento l’immensa esultanza dei tornei vinti e la straziante
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disperazione per le partite perse, il tutto sempre vissuto al di sopra delle righe, troppa pressione su un ragazzino e poi si frugava negli occhi il desiderio di babbo affinché diventassi un vero campione. Sovente le estati giravo per partecipare ai vari match organizzati nella penisola o a settimane di “full immersion” tennistiche, era pure un’ottima occasione per conoscere fanciulle e vivere novizi flirt. Ho mollato all’età di 15 anni per colpa di quelle “canne” maledette che ti rodono la volontà. Le amicizie sbagliate durante l’adolescenza sono come l’erba selvatica, attecchiscono rapidamente. Alcuni maestri di tennis e in primis papà, si prodigarono nel dissuadermi a non demordere, pompando la chance e propensione che gettavo nella spazzatura; ma l’esuberanza, la spavalda certezza della puerizia e una “capa” da mulo, la schiacciarono. È stata un’escalation: marijuana hashish, l.s.d., cocaina ed eroina. La dipendenza vera è data dall’ eroina, ti influenza e storpia il carattere. All’inizio è un idillio estatico, poi ti massacra e faresti qualsiasi aberrazione per procurartela. La crisi di astinenza è atroce, perché, serrato nella morsa, sei a brandelli fisicamente con la psiche tesa, come una corda di violino. Ne sono uscito per fortuna presto, a 21 anni. Ricordo, malgrado tutto, quegli anni uno spensierato periodo di faceto libertinaggio, gran umorismo e bei viaggi, selezionati principalmente, guarda la combinazione, a favore dei paesi produttori di droga; a tal assunto, mischiando l’ordine cronologico, ne racconto alcuni:
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Il luogo è Roccaraso, popolare località montana del sud Italia e il calendario segna il giorno conclusivo dell’anno; [e bisogna festeggiare] in compagnia di balordi inghiotto due tipi di acido lisergico, un “drago viola “e mezza “stelletta rossa”. Alla mercé del loro effetto, zigzaghiamo presso un bar noto del posto, in quanto, la distorta percezione visiva, mostra la strada obliqua e le stelle di colore lilla. Entriamo nel locale ci sediamo e comandiamo bevande calde, (fuori c’è una bufera di neve), a pochi metri da noi, notiamo un individuo “quéquero”, equivoco [bislacco], mi spiego: il fisico da sventola e il volto come l’ultimo dei Neanderthal; [un prototipo della nuova razza trans gender] ammicchiamo sconcertati, sbellicandoci dalle risa. L. S. D. rovista nell’intimo e produce stati di coscienza alterati, anzi direi che la espande, amplificando le sensazioni positive e negative; o stai da dio, o vai dritto agl’inferi. Scorrevano vividi nella testa, chiudendo gli occhi, i cartoni animati proprio come se fossi davanti alla tv. Itinerario seguente Amsterdam, la droga è idem, consumata nella notoria Piazza Dam, e poi vagabondiamo sino al museo delle cere, un vaneggiamento, i pupazzi sembravano persone in carne ed ossa. Il poderoso allucinogeno proietta nell’introspezione, è un limpido trip interiore, ti sale e fluttui per circa 8 ore in un’altra dimensione, le percezioni sensoriali funzionano da angolazioni e sfaccettature diverse, mentre i pensieri, sfrecciano come lampi. [e le cellule celebrali vanno a farsi fottere]. Tappa successiva; gironzolare la penisola Iberica e noleggiare poi da lì, un furgone per esplorare il Marocco, mete:
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città di Martil-Tetuan-Fes e Marrakesh. Ero imberbe, 17 anni e assumevo solo hashish e marjuana all’epoca. Siamo talmente avvezzi a fumare in grosse dosi, che a Martil, approfittando dell’invito di simpatici marocchini per bisbocciare nelle loro tenda sulla spiaggia, ingaggiamo, senza volerlo, una sorta di gara del più tossico. Spavaldi e certi di stroncarci in tal guisa, li sorprendiamo e scoccata l’ora di “bengala” in tutte le salse, stramazzano ad uno ad uno al suolo, come foglie morte, completamente stonati mentre noi, per contro, da forsennati all’inverosimile, continuiamo a rollare e aspirare joint lasciandoli attoniti e sbalorditi. [ma se erano Turchi forse perdevate]. L’escursione al Ketama, montagna Africana preposta alla produzione e lavorazione della droga leggera, ci proietta in un ermo fuori dal tempo: commissioniamo a un contadino locale una tavoletta di “Sputnik” (le noblesse oblige dell’hashish), nel senso che se nella confezione standard per un chilo di “fumo” abbisognano dieci chili di marijuana, per il medesimo quantitativo di Sputnik ce ne vogliono cento. Le piante vengono sbattute e filtrate da una rete a maglie strette, permettendo il varco soltanto al polline vergine, che diverrà, dopo averlo inumidito e pressato a caldo, la “roba” suddetta. Verso la fine del viaggio, sulla via del ritorno, appena varcata la frontiera del continente nero carichi di “sbobba”, occultata per sicurezza nei rispettivi orifizi, abbiamo l’urgenza di espellerla subito e sostiamo in un campo spagnolo per liberarcene.
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Ma contemporaneamente è di transito un auto della polizia che, incuriosita, accosta sul ciglio stradale chiedendo cosa stiamo facendo: per fortuna è sera, c’è poca visibilità e ci salva l’eureka di essere affetti da dissenteria, contratta dal cibo e l’acqua del Marocco. Ci credono, non controllano alcunché e se ne vanno. A tal proposito mi è venuto in mente un dettaglio esilarante, che vale la pena di rimembrare; un amico, decide di riempire un preservativo di olio di hashish e imbucarlo nell’identico modo già enunciato, ma durante l’inserimento, per colpa di un’unghia lunga, l’involucro si rompe; è pieno giorno, lui è sotto la tenda e grida disperato: “aiuto… aiuto… venite… presto” con un altro compagno corriamo per assisterlo, la scena che si dipana ai nostri occhi è tragicomica, il poverino è a quattro zampe e con la mano cerca di sfilare via il profilattico rotto dal culo con il liquido che cola dappertutto e dice: “veloci, traetelo fuori, mi sento male, sto morendo, ma quanto ne sarà entrato e ne assorbirà l’organismo?, mo come passo la frontiera?” tra attacchi intervallati di risate isteriche a crepapelle, effettuiamo una pronta e riuscita estrazione dell’involucro, ma ci sono volute ore per rabbonire il malcapitato, che a ritmi costanti ripeteva:” mò svengo, sto sudando freddo, portatemi all’ospedale” e noi di rimessa “non ti crucciare, lo abbiamo tirato via e la droga non ha fatto in tempo a penetrare”, il tutto completamente intronati e scompisciati dalla ridarella. Anni 18, parto a luglio, con una compagna per le isole Seychelles, un prodigio della natura bagnato dall’oceano Indiano, la più vasta Mahe ricca di lidi bianchi incontaminati, mare cristallino, habitat primitivo e vegetazione lussureggiante
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e Praslin, la dimora dello straordinario “Coco de Mer”, due misure in più confrontato al cocco tradizionale, la cui forma simula, perfettamente, l’anatomia del bacino di una donna (compreso il cespuglietto di peli sul Monte di Venere): la faccenda curiosa è che al suo fianco, sulla palma dove cresce, risalta uno spuntone a foggia di fallo, preposto all’infiorescenza. Per locali “Creoli” è il simbolo della fertilità. Alloggiamo in una confortevole Guest house, ma trascorsa una settimana di permanenza ci stufiamo del luogo per la penuria [magra] di droga e saliamo sul primo aereo in volo per Bombay – India – (l’attuale Mumbay). È forte l’impatto per un occidentale la visione della fame e dello stato di miseria in cui versa la metropoli orientale, l’impressione è che la vita umana non abbia alcun valore. Scene raccapriccianti si imprimono nelle nostre pupille, all’alba, perlustrando la città; file di baracche putride, l’aria a tratti fetida, intere famiglie assopite nel fango, pezzenti mutilati imploranti la carità, tanfo, lerciume, dervisci e straccioni in ogni dove. È difficile passeggiare per le vie gremite di gente, senza essere serrati da un nugolo di ragazzini curiosi e accattoni affamati. Resistiamo due giorni e poi planiamo a Goa, rinomata località balneare e ritrovo hippy mondiale. Purtroppo è la stagione dei monsoni (cielo grigio piovoso, mare agitato e caldo umido) e la zona è popolata in gran parte di janky (occidentali tossici fusi e disposti a morire di eroina). [contenti loro]. Sul posto conosciamo degli arabi e coinvitati, andiamo ad un “party”.
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Non è una festa, ma la casa dei morti viventi, [ossimoro da manuale] popolata solo da janky all’ultimo stadio, ridotti pelle e ossa simil zombie. Dopo aver girato nell’appartamento con finta disinvoltura e palleggiato a pingpong con un cadavere, ad un cenno d’intesa, fuggiamo via terrorizzati. Rientrando in Italia, abbiamo la magica idea [sciama‑ nica] di celare addosso un po’ di“fumo” (il “nero” indiano è molto pregiato; il non plus ultra), ma alla frontiera, l’odorato del pastore tedesco coglie una zaffata dell’hashish redolente e il doganiere, perquisendoci, lo scopre. Sbianchiamo dalla paura e ci grazia, rendendosi conto di non aver stanato degli spacciatori, ma soltanto dei bricconcelli insipienti dalla testa gloriosa: lo talloniamo nel wc dell’aeroporto e scarichiamo insieme la “bubbazza” nel gabinetto. Anno seguente, direzione Grecia, meta Mykonos; è il primo tentativo fallito di sconfiggere la dipendenza oppiacea. Mi buco la mattina nel bagno, pria dell’ imbarco sulla nave volta al Pireo e da lì, con un altro traghetto, sbarcherò sull’isola prescelta. Volutamente all’asciutto da qualsiasi sostanza, neppure un placebo, per pugnare la “rota” (sindrome di astinenza), alfine di discernere in quali condizioni sono ridotto e per licenziarmi da quello schifo. L’alba del viaggio, sotto l’effetto dello stupefacente, è placida, poi sto sempre peggio, approdo a destinazione già mezzo stravolto e non dormo per alcuni giorni consecutivi. Raggiungo il culmine della privazione la nottata del sesto dì, grattando le lenzuola del materasso ed urlando come un ossesso [energumeno] dal parossismo.
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Caldo, freddo, intensa sudorazione, dolori diffusi in tutto il corpo e una nevrastenia al limite, è lo stato dell’opera: mi soccorso, stralunato e frenetico, il proprietario dell’albergo e due ragazzi baresi appena conosciuti, prospettando l’idea di un ricovero ospedaliero, mi rifiuto ostinatamente e dopo un po’ cado, esausto, in un sonno ristoratore. [t’è piaciuto o gnicche gnacche]. Ma è il viaggio principe, a sancire l’immunità definitiva della “scimmia sulla schiena”, circa 3 mesi in Giamaica, il sole, il mare e la potenza dell’ambiente così prorompenti, hanno ridestato il buon senso e dignità per la vita, sacra e meravigliosa così com’è. Il più bel regalo del Padreterno. [e ci voleva tanto a capirlo?]. È insindacabile, l’uomo a contatto con la natura rintraccia se stesso. Devo precisare di esser guarito, basilarmente, vedendo babbo devastato dal dolore, quando si rese conto della situazione; ricordo del ribrezzo provato, per averlo mal ridotto. “Fui sgamato una domenica uggiosa e casalinga, mamma, istradata dall’intuito femmineo mi strinse all’improvviso il polso e rivoltando sul dorso l’avambraccio dilaniato e martoriato dalle punture dell’ago (tipo costellazione serpeggiante) gridò: “oh mio Dio” più volte. Babbo, scosso dalle urla accorse fulmineo e osservando la scena pietosa, mi guardò con occhi sgomenti, increduli e frastornati. L’indomani, digerito il misfatto e focalizzata la triste realtà, crollò in un pianto disperato, intervallato e scandito sempre dalla stessa ripetuta frase: “non lo voglio un figlio drogato”. Vederlo soffrire così, fu la vergogna più grande mai provata in assoluto, ma pure la consape-
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volezza e ferrea decisione di troncare seduta stante l’abuso di quell’immondizia: e mantenni la promessa al sottoscritto… Nella parte iniziale della vacanza Caraibica frequento Michael, un rasta specializzato ad attirare i turisti con la tecnica del finto atleta sulla spiaggia (i giamaicani a prescindere che pratichino sport, sono unanimemente equipaggiati di un fisico incredibile), trattasi al contrario, di un camuffato cocainomane perso, a caccia di soldi, abbandonato, appena afferrato l’antifona. Ammetto, per onestà, di aver provato, prima di dileguarmi da lui, l’ebbrezza di fumare la “coca” (il Crack) e una scorpacciata di “Magic Mushrooms”. Poi c’era “Zazà il rasta”, un napoletano biondo con i capelli intrecciati come i locali, apolide, devoto alla cannabis e alla musica reggae – le due colonne portanti dell’isola tropicale –, viveva nel mio medesimo camping e come lo scrivente, in una capanna sulla sabbia. La mattina ammanniva il the all’erba e l’offriva ai turisti. Un giorno fu diffamato di furto da un fresco villeggiante di nazionalità svizzera incline a malmenarlo; lo difese un amico canadese sulla sedia a rotelle strillando così: “is not true, i bealive in Zaza” e questo di lezione agli astanti (me compreso, che almeno in ritardo gli diedi man forte) inermi e ignavi, innegabilmente più fortunati e attrezzati di lui per discolpare il partenopeo. Le difficoltà rendono forti e migliori di tanti altri, un individuo diversamente abile impossibilitato a deambulare e privato della gioia di correre, in apparenza gracile e bisognoso di aiuto, in realtà è una roccia granitica, leale e generoso col prossimo.
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L’arenile di “Negril” è il posto dove puoi assistere ad un tramonto ineguagliabile nel mondo, è uno spettacolo mozzafiato instancabile da rimirare, con la sua chicca nel crepuscolo. La potenza di Dio nella manifesta rigogliosità della natura. Una mattina, con un ragazzo fiorentino conosciuto in loco, decidiamo di fittare una moto, transitare l’unica strada che attraversa la foresta e arrivare fino alla capitale Kingston, ridotta, a nostra insaputa, in condizioni di degrado e miseria estrema: ce la siamo vista brutta; una banda di indigeni minacciosi prova a frenarci in un vicolo cieco, fortunatamente, il mio amico con una manovra ardita e guizzo magistrale riesce a divincolarsi non so ancora come, ma che spavento e pericolo abbiamo corso. Tornato a Negril, ho la ventura di incontrare Roxanne, una hostess dell’American Airlines, che effettuava spesso, per lavoro, la tratta New York – grandi Antille; aveva una splendida maison con giardino ed un romantico letto a baldacchino con zanzariera, sul luogo. Me ne invaghisco, la mattina, appena alzati, ci “docciavamo” immersi nel verde, su una gobba a sbalzo di una parete rocciosa, dalle cui pendici sgorgava una limpida e tenue cascata d’acqua e poi a zonzo in bici tutto il giorno in cerca di luoghi, e circostanze nuove da condividere. Fu una bella storia terminata, purtroppo, a Napoli mesi avanti. [l’hai trattata male; fetente]. Però il viaggio per antonomasia è all’interno di se stessi e si percorre con un biglietto singolare: la sincerità. Giungiamo all’età di 21 anni, studio pro laurea e simultaneamente riprendo la racchetta: vedi, il vero problema per stare bene, soprattutto quando hai energie da vendere, è come
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canalizzarle in positivo, abbrancata la cosa e semplice trovare un equilibrio interno stabile. [più o meno]. Dopo questa esperienza negativa (la droga) ero spavaldo e ingenuamente convinto, di superare qualsiasi intoppo mi fosse capitato, ma sbagliavo, oh come erravo. [ce ne siamo accorti, oh! come ce ne siamo resi conto]. Avendo conseguito un buon livello di gioco, una discreta classifica (vincendo qualche torneo)e tolto delle piccole soddisfazioni con la mia rentrer tardiva nel tennis, incamerata e somatizzata la satura consapevolezza di aver buttato al vento quell’attitudine e vantaggio [atout]concesso dalla sorte a pochi, perso ormai quel treno, mi laureo a 27 anni con lode e appendo risoluto la racchetta al chiodo. Diciamoci la verità, a casa sono tutti “Dottori” e quindi ho tallonato la scia, ma a me dell’architettura, me ne è sempre fregato poco. L’aderenza con lo sport e la corsa in particolare (sostituita solo dallo snorkeling in agosto) diventa un’ occupazione giornaliera, quasi una sorta di sana dipendenza, è molteplice l’effetto benefico assimilato: aumenta le endorfine nel cervello preposte a rilassare e migliorare l’umore, sei sempre in tiro, baldo, giovanile e più lucido mentalmente. L’attività fisica altresì, conserva il fanciullo che c’è in te, in quanto, getti via la maschera sociale ed hai il medesimo tipo di condivisione amicale con chi la pratica, dall’operatore ecologico al gagliardo magnate. [una consolazione rispetto alla marmaglia di tangheri, bab‑ bei, bifolchi, kitsch, trogloditi e radical‑chic in circolazione]. Ed eccomi nel rotismo degli affari: la scelta sul da farsi
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è ristretta, quasi obbligata, dall’azienda di famiglia costituita recentemente (circa un anno e mezzo) da mio fratello ingegnere e babbo. [ma come gli è venuto in capa]. Tale iniziativa parte perché il primogenito, già assunto dall’i.b.m., mal indossa le vesti del dipende e persuade papà coinvolgendolo nell’avventura imprenditoriale. È una società di costruzioni, specializzata nella prefabbricazione di travi da ponte in cemento armato precompresso. Si sfrutta l’enorme l’abilità di Tullio, ma l’essere imprenditore ha poco in comune con il professionista, progettista o Professore universitario; è un altro pianeta, fatto di una miscellanea di capacità multiple e stratificazioni culturali diverse: spregiudicatezza, perizia, intraprendenza, rischio, cinismo, ma precipuamente l’essere antesignani, sapersi patrocinare, negoziare e mediare patti e condizioni con tutti. [e vai va’]. Colto l’andamento [io direi andazzo] del business e aderita confidenza con i numeri, apprendo che il nostro debito bancario, già ammonta a svariate centinaia di milioni di lire ed essendo agli albori, disponiamo di un unico Istituto di Credito. Se vogliamo è lecito, creare una ditta dal nulla ha esborsi notevoli. La cosa piuttosto allarmante è lo scarso l’accanimento necessario, dovuto al denaro, di babbo e Alberto, loro sono dei tecnici e poco attenti alla vil moneta, decido, pertanto, di sedermi letteralmente sulla cassa, gestendo le spese con estrema parsimonia. [rabbino].
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Caratterialmente, anche se ho solo 27 anni e nessuna destrezza lavorativa, possiedo una maestria istintiva a baluardo dei baiocchi, [faccia di bronzo!, affermi ciò dopo gli annessi e connessi accaduti?] mi piacciono moltissimo, non tanto per me stesso, ma è arrapante guadagnarli, rendono liberi e puoi esaudire i desideri dei tuoi cari. [che altruista; commovente]. I primi anni d’impresa sono tratteggiati da un crescendo [fioccano e brulicano] all’unisono, di commesse ed esposizioni debitorie. È un combattimento, viaggi spesso, pedali molto e sei sempre pressato da fardelli di responsabilità. Sono soventi le levatacce alle 4.30 di mattina, ma il cash non manca e grazie al sostegno pecuniario, c’è fiducia e tutto lo zelo possibile nella realizzazione di un futuro roseo, glorioso, opulento e spumeggiante. [sento che un sogno così non ritorni mai più; la cantava il saggio Modugno].