Sud e federalismo

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Luca Meldolesi Massimo Villone

Sud e federalismo

Conversazione parzialmente rielaborata. “Thinkthanks� di Bagnoli (Napoli) 29 giugno 2009


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Presentazione

Accade raramente che in un dialogo ravvicinato del terzo tipo, di fronte ad un pubblico preso alla sprovvista, due docenti di lungo corso con tante esperienze politiche alle spalle, come Luca Meldolesi e Massimo Villone, riescano, per l’essenziale, a vuotare il sacco su un tema complesso come quello del Sud e del federalismo. Ed ancor più raramente ciò accade in forma breve, piana ed accessibile, che si dipana in un crescendo di dialogo e di chiarimento reciproco verso conclusioni condivise, ma inattese – una forma che mantiene la vivacità del parlato; e che, nello stesso tempo, è stata passata al vaglio dell’austera riflessione scientifica. È un argomento caldo, quello del Sud e del federalismo, fin qui trattato generalmente in modo opaco – su cui sono state dette molte cose differenti, spesso fuorvianti ed inesatte. Qui, invece, si intende affrontarlo con chiarezza e sincerità. Il testo si snoda, infatti, discutendo innanzitutto del vissuto meridionale delle tesi esposte, delle gravi conseguenze che produrrebbe il federalismo fiscale nel Mezzogiorno, del federalismo democratico come alternativa ad ogni forma autoritaria di centralismo (e di 5


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federalismo soggiogatore), di come impostare una trasformazione indispensabile del sistema pubblico a favore dello sviluppo economicosociale del Sud, dell’esperienza internazionale, e di cosa dobbiamo assolutamente fare, hinc et nunc, nel Mezzogiorno, per risalire la china. Ne è scaturito, così, un breve lavoro appassionante (ed appassionato) di testimoni di verità – pur in un mondo spesso truffaldino, pur in un momento particolarmente difficile ed impegnativo per il Sud e per il Paese…

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Prima domanda: l’incidenza del Mezzogiorno sulla storia personale. LM Sono un professore di politica economica dell’Università di Napoli. Dalla mia nomina, nel 1983, è passato più di un quarto di secolo: un periodo decisivo della mia vita. Sono stato al governo dal novembre del 1999 al febbraio del 2008, come presidente del Comitato per l’emersione. Anche in tale veste, ho seguito (ed incoraggiato) i miei allievi napoletani che, nonostante qualche sbandamento, non hanno mai smesso di operare a favore del Mezzogiorno. Penso che, in questa sede, non sia tanto interessante affrontare la questione specifica della irregolarità delle imprese e del lavoro – di cui tutti mi chiedono; quanto, piuttosto, di discutere del comportamento del sistema pubblico di fronte al grande tema della democrazia e dello sviluppo del Sud. È vero, d’altra parte, che il nostro appuntamento è scaturito da quest’ultimo tema, non dal primo. Debbo completare un manoscritto, che si chiama “Federalismo democratico”, 7


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molto critico rispetto a come si parla oggi di federalismo in Italia. (Infatti, se non gli viene aggiunto l’aggettivo democratico, il federalismo può esser di tutto: truffaldino, autoritario, dittatoriale ecc.). Mita Marra mi propose di partecipare a questa vostra iniziativa. Mi sono incontrato con Massimo Villone e ci siamo scambiati qualche lettura. Naturalmente, esiste tra di noi una certa, inevitabile differenza di impostazione. Non sono un giurista, ma un economista, per quanto sui generis. A me interessa discutere come le istituzioni, l’apparato politico-sindacale ed il sistema amministrativo con tutte le loro articolazioni – così come sono, e non come dovrebbero essere – si occupano di democrazia e di sviluppo, soprattutto nel Mezzogiorno. Dico brevemente – e poi passo la parola a Massimo perché è bene che facciamo interventi brevi – che effettivamente la pratica è impietosa: non ci siamo affatto. La mia idea è che l’esperienza internazionale ci darebbe ben altre soluzioni, che sono a portata di mano, ma che, masochisticamente, ci rifiutiamo di conoscere e di apprendere. A mio avviso, il Sud avrebbe convenienza – anzi, ne avrebbe un’esigenza insopprimibile – ad imparare di nuovo: per dirigersi in un’altra direzione, molto più soddisfacente di quella attuale. Anzi, anzi: à vero, a mio avviso, che le esperienze meridionali migliori – “qui e là” diceva Einaudi in una famosa pagina che 8


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si riferiva all’intero Paese – si orientano effettivamente nella direzione giusta. Poi vengono boicottate, bloccate, e ricondotte all’ovile, spesso con metodi tutt’altro che urbani. Il sistema politico-sindacale-amministrativo italiano continua ad avere una connotazione fondamentalmente gerarchico-centralista. Il Sud ha dietro le spalle sette secoli di dominazioni dinastiche. Inoltre, dall’Unità in poi, il funzionamento dello Stato è stato fondamentalmente di tipo piemontese-francese (con alcune parentesi di influenza tedesca; e con una nota propensione “assistenzialista” autoctona, e una certa tendenza italianissima a giuocare a “guardie e ladri”). Non è il miglior sistema – si potrebbe osservare eufemisticamente – per mettere a frutto le potenzialità di un paese… Certo, nel secondo dopoguerra si è affermata, progressivamente, una spinta al decentramento amministrativo, che tuttavia ha dato luogo ad una sorta di “balcanizzazione” dell’apparato, invece che ad un cambiamento della sua natura tramite un processo di effettiva democratizzazione. E ciò, a sua volta, ha prodotto un’ulteriore flessione della produttività pubblica media. Se questo è dunque lo Stato italiano, non stupisce allora che i nostri grandi partiti politici (ed i sindacati) abbiano sempre avuto una tendenza alla gestione centralizzata ed autoritaria – sia da parte della destra, sia da parte del centro o della sinistra. Mi dispiace dir9


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lo perché, come Massimo, sono un insegnante di sinistra (o di centro-sinistra). Abbiamo oggi un bel Partito democratico, ma forse non siamo d’accordo su cosa voglia dire democratico… Non è così? Conclusione: dobbiamo discutere per capire meglio cosa dobbiamo fare. Ci troviamo di fronte problemi molto seri, molto gravi. Come prologo, mi pare che dobbiamo riconoscere una verità palmare. Ci eravamo un po’ illusi che il Paese fosse più avanti di quello che è. La verità è che siamo in un Purgatorio, in una lunga Quaresima: pian piano ce ne stiamo accorgendo. Per la nostra generazione alquanto stagionata, diciamo così, non è una bella notizia… Questo, dunque, è il mio punto di partenza. Naturalmente, non è tutto qui. Naturalmente, sono un appassionato d’impresa, oltre che di Stato, anche perché penso che senza le imprese il Mezzogiorno non può basarsi sulle proprie forze e non può incamminarsi sul sentiero (alquanto tortuoso) della democrazia e dello sviluppo. Ma di questo parleremo in seguito. MV Anche quando si ha dietro le spalle un percorso politico e professionale abbastanza lungo – come è nel mio caso – un’incidenza delle origini può esserci. Nel mio caso c’è. E in vari modi. 10


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Molti anni fa, quando furono istituite le Regioni, successe una cosa di cui non cogliemmo subito le implicazioni, ma che si rivelò in seguito assai significativa. Alcune Regioni del centro Italia – penso in particolare all’EmiliaRomagna e alla Toscana – fecero una scelta che allora sembrò discutibile: prendere al proprio servizio, con rapporti di consulenza o d’altro tipo, tutti i professori di diritto costituzionale, amministrativo, pubblico delle università della regione. Tutti i miei colleghi erano in qualche modo in rapporto con l’istituzione Regione. In Campania una cosa del genere non è successa mai, né allora, né dopo. Non mancano, naturalmente, colleghi che mantengono stretti rapporti con la regione. Ma sempre intuitu personae, in base a un’investitura fiduciaria da parte dei governanti pro tempore, e non per la scelta strategica di creare un rapporto durevole tra l’istituzione regione e l’istituzione università. Due conseguenze. La prima: quelle Regioni sono riuscite a partire con una base di competenza e di sapere tecnico assolutamente superiore. Non a caso, sono state le istituzioni di punta del regionalismo italiano, da allora in poi. Ciò, naturalmente, ha avuto effetti anche sulle persone. Sono stato accademicamente più debole dei miei colleghi toscani ed emiliani perché il loro rapporto con le istituzioni li rafforzava anche sul piano professionale. Correttamente gestito, il rapporto con le istituzioni 11


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significa risorse, occasioni di ricerca, possibilità di attrarre giovani ricercatori e organizzare iniziative scientificamente valide. Significa forza e vitalità sul fronte della riflessione scientifica e della proposta. Un rapporto con le istituzioni più debole, evanescente o ristretto nel rapporto personale con il potente di turno – come generalmente accade nel Mezzogiorno – comporta un prezzo che noi tutti – professori, ricercatori, e istituzione università nel suo complesso – abbiamo pagato e continuiamo a pagare. La mia esperienza la porto come esempio di un modo di essere che si traduce in esperienza collettiva, ben al di là di quella individuale. La politica debole cammina di pari passo con l’università debole. Seconda conseguenza. Per quanto riguarda i contenuti, come costituzionalista, la mia appartenenza alla parte debole del paese mi ha portato a privilegiare il tema dell’uguaglianza e dei diritti. Ho sempre pensato che la modellistica astratta delle istituzioni non fosse decisiva. Alla fine quel che conta è ciò che fa la gente. Che diritti riesce ad avere e ad esercitare. Quindi, penso in termini di persone. Molto raramente penso in termini di impresa. È una differenza fondamentale tra me e Luca. Non è che l’impresa non mi interessi. Semplicemente penso che venga un momento dopo. Che la persona e i suoi diritti meritino un’attenzione privilegiata. 12


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Penso anche che l’esperienza dimostri come la debolezza delle istituzioni e della politica produca generalmente malgoverno e malamministrazione. Una degenerazione molto difficile da correggere, se non si incide sulle cause prime. Possiamo fare cento eccellenti convegni sulle best practices politico-amministrative. Ma, se poi non si incide sul modo di essere della politica, c’è poco da fare. D’altra parte, non è che i convegni e gli intellettuali siano di per sé mai riusciti a convincere qualcuno. Non possiamo dire che siamo stati fermi. Abbiamo sperimentato. Siamo partiti dal modello centralistico, per poi passare a quello regionalistico, ed ora a quello federalistico. Non va bene neppure questo. Condivido ciò che diceva da ultimo Luca. Forse ci siamo illusi. La parte migliore di questo paese si è illusa che l’Italia fosse più avanti di quel che è. Questa illusione si è tradotta in scelte istituzionali precise: quelle che abbiamo compiuto negli anni ’90, dall’elezione dei sindaci al nuovo Titolo V della Costituzione. Con molti errori e molte pecche su cui avremo modo di tornare più tardi, tali scelte hanno teso ad esprimere un cambiamento che sembrava in quel momento produrre un vantaggio notevole per il Paese. Dubito che alla fine, dopo quindici anni, quelle speranze si possano ritenere realizzate. Sono cose che ho scritto e detto più volte. Penso che, per come siamo oggi, quelle speranze siano sta13


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te in gran parte deluse, negate, contraddette. Non perché fossero in principio infondate (la gran parte). Ma perché il ceto politico che si è trovato a gestire quel cambiamento semplicemente non è stato all’altezza degli obiettivi che in astratto raggiungibili. Alla fine, ciò che decide è sempre la qualità della politica, la qualità delle persone che danno vita alla politica. Da questo punto di vista, il Mezzogiorno ha un deficit che in queste ore si sta dimostrando addirittura drammatico.

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