Da un’idea di Michele Assante del Leccese Ouverture di Ermanno Corsi Ballate di Lucilla Actilio, Clelia Ambrosino, Michele Assante del Leccese, Francesca Borgogna, Diego Di Dio, Giorgio Di Dio, Carla Gentile, Pasquale Lubrano Lavadera, Elisabetta Montaldo, Giacomo Retaggio, Rino Scotto di Gregorio, Roberta Scotto Galletta, Antonio Sobrio Bonus track di Lorenza Foschini
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Al cuore infinito di Carla
Ouverture
Dopo Lamartine ed Elsa Morante, l’isola sembrava essere di‑ ventata “pirandelliana”, come i famosi personaggi in cerca d’autore. Graziella e Arturo apparivano due figure sospese nel limbo lettera‑ rio, ormai prive di paternità. Nel frattempo, però, Procida subiva inevitabili mutazioni “antropologiche” per la legge che niente resta fermo e immutabile nel tempo. Era perciò giunto il momento di af‑ fidare alla narrativa il compito, sociale e creativo, di dar conto delle trasformazioni, ridefinire storia e attualità, fissare bene i tratti carat‑ teristici della nuova identità e dell’armonia, più ritrovata che perdu‑ ta, dell’isola che non ha mai accettato come ineluttabile il destino di “parente povero” fra le consorelle del Golfo. Lo scatto di orgoglio è ora riassunto in questa antologia di tre‑ dici scrittori nei quali la matrice distintiva della “procidanità” è molto ben riscontrabile. Una “procidanità”, beninteso, che non significa separatezza, ancorché orgogliosa, rispetto alle prevalen‑ ti scelte di genere e di filoni narrativi. Tutt’altro. I tredici autori appaiono ben integrati nelle nuove modalità espressive oppure, come si potrebbe dire mutuando il termine da altri aspetti sociali, nella postmodernità. I tredici testi che vengono sottoposti, com‑ pongono un mosaico che restituisce in pieno il senso del passato e dell’attualità, della tradizione e dell’avanguardia, senza limite di tempo o di opzioni lessicali. L’unico limite, si può dire, è di carattere geografico. Qualun‑ que sia la trama del racconto o il punto di partenza, protagonista è l’attaccamento viscerale a Procida intesa come “isola‑casa”, sede degli affetti e della principale ragione di vita. Si sa, perché è un suo elemento costitutivo, che il procidano va dovunque e che nes‑ sun approdo gli viene precluso. Però il legame con lo “scoglio”,
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come richiamo primordiale, non è mai estinguibile, qualunque sia la tempesta dei tempi. La “procidanità” quale benefica malattia del sangue, nell’an‑ tologia dei tredici autori (Pasquale Lubrano Lavadera, Francesca Borgogna, Clelia Ambrosino, Roberta Scotto Galletta, Rino Scot‑ to di Gregorio, Lucilla Actilio, Michele Assante del Leccese, Eli‑ sabetta Montaldo, Antonio Sobrio, Diego Di Dio, Carla Gentile, Giorgio Di Dio, Giacomo Retaggio) viene rivendicata con decisio‑ ne ma con un tono per nulla arrogante. Il titolo stesso dell’antologia lo indica: Procidablues. Il riferi‑ mento è a un genere musicale afroamericano di ritmo lento e ma‑ linconico dove, però, anche la nostalgia non è mai fine a se stessa. Incrocia vena romantica e volontà di resistenza, riconsiderazione del passato e apertura al futuro. Chi ha avuto l’idea di questo titolo rievoca la “vaga tristezza” delle “ballate del mare salato”. Però aggiunge subito che questo “mare salato” simboleggia la vita che si rinnova continuamente. E allora, l’isola‑casa diventa un palcoscenico girevole su cui si muovono “umane vicende, sogni, fantasie eterogenee, progetti”. Procida recupera la fisicità del territorio, la dimensione spirituale e le pulsioni culturali. “Se dai tetti un paese ti piace, allora puoi viverci”, troviamo scritto nell’alternanza delle sei autrici e dei sette autori. È una narratologia compiuta, nel senso proprio della teoria e delle forme narrative: non solo il lirismo paesaggistico, ma anche il senso storicistico della vita, con le varie forme del cambiamento generazionale. Si incontra perfino il gusto di “rivisitare” i due personaggi più famosi della letteratura che ha tratto ispirazione dall’isola. Forse c’erano dei conti in sospeso con Graziella e con Arturo. Tutti e due li ritroviamo in una luce nuova, visti da vicino ma anche pro‑ vocatoriamente “al contrario”. Certamente un “divertissement” che sta, però, a significare simbolicamente che l’isola non deve mai smettere di fare i conti con se stessa. I personaggi di ieri e di oggi debbono mettersi continuamente in gioco, uscire dalle pagi‑ ne e muoversi anche per le strade e i luoghi meno praticabili, ma non per questo meno suggestivi. I piedi sull’isola e la mente molto in alto.
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Allora Graziella e Arturo acquistano il significato di metafore. La ragazza di Lamartine non ha bisogno di ritornare sull’isola per‑ ché non è mai andata via. Il protagonista della Morante ha, invece, bisogno di ritornare perché è comunque sull’isola che si compie il suo destino. I tredici autori, a vario titolo, parlano di “restauro di vite interrotte” precisando che la luna sull’isola è sempre strug‑ gente ma “non sempre uguale” per tutti. La diversità delle storie diventa una ricchezza che apre nuove strade: alla narrativa come alla società procidana antropologicamente intesa. Per questo l’iso‑ la non è più, adesso, “pirandelliana”. I suoi autori ha saputo tro‑ varli “producendoli” direttamente dal proprio seno. Ermanno Corsi
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Le ballate
Carla Gentile
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Ines. Procida, spiaggia della Chiaia. 10 agosto 2008 Rosso, rosso, rosso, rosso che infiamma, rosso che colora, ros‑ so che ispira, rosso di fuoco, rosso amaranto, rosso di sangue, rosso di sole, rosso di effluvi, rosso che sprofonda, rosso di rab‑ bia, rosso di tigre, rosso corallo, rosso di mare, rosso di spuma, rosso, rosso… rosso di cuore. Il rosso la perseguita: fissa da poco lontano i due giovani amanti, seduti l’uno accanto all’altro sul telo rosso che copre la sabbia scura del piccolo lembo dell’isola. Si distrae, scrolla inutilmente la testa per liberarla dall’invisibile cinto che gliela stringe. L’alto costone che protegge la baia si as‑ sottiglia ai lati e apre a sinistra un colorato porticciolo. Le hanno detto che può raggiungerlo via mare con una piccola imbarcazio‑ ne che parte dalla Marina Grande. Per un attimo l’idea le piace e le fa venire voglia di muoversi, di vivere. Si gira, è inquieta, non riesce a leggere due righe di seguito… cerca con gli occhi punti di riferimento che non possiede. La vita che si svolge a riva e sulle barche ancorate poco oltre le boe, la fa sentire ancora più sola. Lo sguardo le ricade su quella coppia. Socchiude gli occhi e mette a fuoco una parte di quel linguaggio del corpo che dice tutto sen‑ za alcun suono. E allora, in un baleno riprende consapevolezza della sua vita spezzata, desiderando quelle labbra innamorate e vogliose sul suo collo. È presa da un incontenibile dolce rimpian‑ to misto a tristezza, e la voglia di sentirsi ancora viva e amata diventa fortissima. L’espressione di gioia che affiora nel lieve sor‑ riso della donna le fa male e la catapulta in un pozzo di ricordi ed emozioni. Ines è da pochi giorni sull’isola e ogni momento finisce inevitabilmente per confondersi e mescolarsi nel mosaico
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dei momenti e delle emozioni che segue rassegnata giorno dopo giorno la sua vita. Baluginii attraversano la mente illuminandola per una frazione di secondo. L’oscurità, che segue la luce, contorna ambigue imma‑ gini che come zombie riescono a riaffiorare togliendole il respiro. Sta rivivendo scene del passato. Di quelle cose che aveva seppel‑ lito negli occhi e nel cuore. Le aveva definitamene rimosse quelle scene, insieme a milioni di altre, insieme ai momenti più belli della sua vita, quando guardando inavvertitamente Enrico, suo marito, l’aveva visto perso negli occhi della sua migliore amica. Adesso si riproponevano, così, all’improvviso, con tutto il loro ar‑ caico bagaglio di abbandono, di sconforto, di rinuncia e di solitudine. Le si stringe il petto. Si alza, raccoglie, con una cura meticolosa che non le appartiene, le sue cose e inizia a risalire i gradini della spiag‑ gia. Centottanta scalini di pensieri e ricordi. Per centottanta volte le ricompariranno immagini offuscate della sua vita felice. Sa che finirà in cima, sa che si annienterà in una cascata di ricordi e rimpianti. Sa che aspetterà la notte per riviverne minuziosamente le scene. Sa che non riuscirà mai a cancellarle dalla sua mente. Sa, sa e vorrebbe non sapere. Vorrebbe andare incontro all’ignoto, accoglierlo per sedurlo e aggirarlo come uno scoglio da scavalcare, un torrente da attraver‑ sare, un solco da lasciarsi dietro, una parete di fumo da sfondare. Sa anche, maledettamente bene, che venderebbe l’anima al primo richiamo d’amore. Lo stesso intenso amore provato per il marito. Ed ecco che, come le accade sempre più spesso, la nostalgia di lui diventa così grande che ovunque si trovi piange. Di quel pianto leggero, sofferto e silenzioso, di quel pianto costipato che prorom‑ pe dolcemente scivolando su gote spente. Scuote la testa liberandola dai soliti pensieri e desideri, tira dentro le lacrime e si avvia salendo, alla villa del Comandante. Marco. Qualche giorno prima… Fermo, immobile al parapetto del traghetto; lo sguardo rivolto all’orizzonte e all’isola che compariva pian piano: un piccolo se‑ gno colorato nell’infinità dell’azzurro che lo aspettava già da qual‑ che mese. Le aveva scritto parlandole di un’altra, le aveva parlato
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per e‑mail, il peggiore dei modi e aveva usato le tipiche, banali frasi di tutti gli uomini. Un attimo di riflessione, un momento di confusione. Quando si era stancato di lei? Che cosa lo aveva reso confuso? Era successo tutto in una notte. Aveva pensato a Elena e aveva provato fastidio. Un lieve, fumoso fastidio, non quantifi‑ cabile, indefinito. E così, com’era successo già in passato, aveva mollato. Senza chiedersi, senza riflettere, senza accogliere il grido di sofferenza che si sarebbe levato. Era con lei e non voleva più esserci. La smania di liberarsi di quel fardello si era insinuata, come una spina, in un recesso cere‑ brale e aveva colpito, con intermittenza, senza sosta. “Ho bisogno di riflettere”, così, impalpabile messaggio virgolettato in una mail. Senza spiegazione, senza aggiungere null’altro alla cruda verità. Come non ci fosse bisogno di spiegare nulla dopo quasi due anni trascorsi insieme. Guarda di nuovo l’isola, ormai molto vicina, convincendosi di trovare risposte alle sue domande nello svolgersi lento dei suoi futuri giorni di nullafacente. Aveva seguito la tradi‑ zione che voleva “il Capitano” in famiglia. E lui l’aveva indossata quella divisa. Come una pelle. L’aveva sognata e perseguita. L’aveva conquistata e adesso spendeva il suo oggi in un vortice di auto adulazioni perpetue ogni volta che l’indossava. Ne aveva fatto l’emblema della sua mascolinità e della sua libertà. Sul ponte di comando si avvicinava a Dio, si sentiva un dio. Osservava da lassù il fendersi imperioso dell’oceano e con il pensiero accompa‑ gnava il taglio. Solo a bordo si sentiva veramente se stesso e non voleva anime estranee al suo felice connubio uomo‑comando. Ines. Luglio, quattro anni prima Quando era cominciata? Come? Enrico, il suo amore, l’uomo della sua vita, il giovane professo‑ re che l’aveva imperiosamente circuita. L’uomo che aveva saputo aspettare e che l’aveva convinta a sposarsi a ventitré anni. Il for‑ te, sicuro, silenzioso marito che l’aveva condotta fieramente per mano amandola e decidendo, a volte, anche per lei senza mai bat‑
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tere ciglio alle sue stravaganze, alle sue stranezze, al suo bisogno di essere multiforme. L’aveva sostenuta nella ricerca perenne del suo equilibrio, nella necessità di liberarsi da schemi e banalità. L’aveva fatta crescere nutrendola con le sue radici, trasmet‑ tendole linfa vitale, proteggendola e rassicurandola. Chi, come, cosa aveva permesso la scissione di quel nucleo? Ancora oggi non le sembrava vero! Gli ultimi quattro anni erano trascorsi nell’ela‑ borazione di ciò che era accaduto. La fine di Enrico non aveva posto termine alla sofferenza, all’analisi, alla rassegnazione. Era morto e negli attimi incoscienti che precedono la fine… lui l’aveva chiamata. Aveva avuto bisogno di rivederla. Solo lui, Dio sa come, poteva aver fornito il suo numero di telefono qualche attimo pri‑ ma di morire. E lei era corsa. Dopo tutto. E l’aveva rivisto, per l’ultima vol‑ ta freddo nel letto anonimo dell’ospedale, dove era stato portato dopo l’incidente. Solo qualche ora dopo aveva capito che stava ritornando da lei. Nella tasca dell’abito che l’era stato consegnato c’era un biglietto che avrebbe dovuto accompagnare dei fiori. Il suo ritorno dopo quasi un anno di lontananza. Aveva baciato quel‑ le labbra di ghiaccio e aveva silenziosamente risposto sì. Poi era corsa come una pazza fuori dal grigiore di quel posto a piangerlo di nuovo e questa volta per sempre. La certezza che stesse tornan‑ do da lei l’aveva resa prigioniera del ricordo e le aveva fatto nasce‑ re l’amarezza per la vita che non le aveva concesso una seconda possibilità. Solo questa e non tutti gli attimi dolorosi che avevano preceduto la definitiva rottura. Enrico era andato via di casa ap‑ pena Ines aveva cercato di capire cosa stesse succedendo. Glielo aveva chiesto così, a bruciapelo, una sera che stavano fingendo di vivere ancora solo per loro due. Ecco cosa era diventato il loro matrimonio, la loro unione. Una finzione, una farsa che inconsa‑ pevolmente mandavano avanti per l’insostenibilità del dolore che sarebbe piombato alla fine. Enrico stava vivendo malissimo; Ines aveva capito che toccava a lei liberarlo. Meglio la verità che quel dramma intimo che li ren‑ deva estranei anche nei momenti d’intimità. Meglio riconoscere i fantasmi che ormai andavano collezionando piuttosto che far finta di niente.
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La notte prima avevano fatto l’amore e nessuno dei due lo desiderava; si erano ritrovati in un abbraccio a tratti sfuggente e a tratti violento. Si erano toccati quasi sapendo che era l’ultima volta; dopo tanto tempo lui l’aveva baciata e amata. Un miscu‑ glio di sesso e amore che non aveva mai conosciuto. Nei ricordi spinte violente accompagnate da un monologo rivolto a se stes‑ so. Sillabe afasiche e sporadiche parole seguivano, nel tono, la durezza del movimento per cedere l’attimo dopo alla dolcezza d’istantanei languidi abbandoni. Parlava, parlava mentre stava con lei. Una stereotipia verbale che tagliava gli ansimi. Non ricor‑ dava le parole, forse le aveva cancellate, ma i suoni erano quelli di un addio, quelli di una feroce incazzatura con se stesso, di chi maltratta l’altro, pur riconoscendogliene l’estraneità, per peccati e colpe proprie. E così aveva trattenuto il suo corpo, in quell’ul‑ timo atto; l’aveva rivoltata, accarezzata e poi baciata, baciata fino a ricoprirla di sé, delle sue grida. A tratti lei annaspava in cerca di fiato, di sincerità, d’amore. A tratti aveva visto se stessa e lui come illustrazioni di un vecchio libro proibito e la voglia di voltar pagina era giunta anche a lei, così, freddamente, e le sue membra avevano perso morbidezza in un estremo tentativo d’opposizione semicosciente. Nell’illustrazione il suo volto appariva deforma‑ to e indefinito: quelle immagini fantasiose le rimandavano solo pena. In quegli attimi aveva capito che era proprio finita. Lui, all’improvviso, così come aveva cominciato, si era fermato. In un silenzio pieno di pensieri imbarazzanti erano rimasti distesi l’uno accanto all’altro. Nudi. Spogli. Privi. Ognuno con le proprie scomode, commiserevoli, constatazioni. – Questo non è più amore – aveva pensato lei. – Non la amo più – aveva pensato lui. Il giorno dopo, seduta in salotto, aveva assistito inerme e ine‑ betita alla raccolta delle sue cose; contava mentalmente gli oggetti che Enrico raccoglieva per casa, deponendoli in uno zaino. Poche cose, ma quelle più importanti della loro vita insieme. Un quadro che avevano comprato in viaggio di nozze e che lei adorava; i suoi libri preferiti, la scacchiera d’argento, le pipe raccolte in giro per il mondo. Ogni oggetto riposto creava e scavava un solco nella
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sua anima mentre l’angoscia diventava incontenibile. Ricordava di essersi opposta alle lacrime. Non voleva commiserazione. Non voleva l’abbandono. Cercava parole per riempire il suo silenzio, per distrarre gli occhi dal suo andirivieni. Intanto il cervello le urlava dentro parole d’amore da dirgli, parole di supplica e paro‑ le di perdono. Tante parole che lo avrebbero costretto almeno a fermarsi, almeno a guardarla, almeno a scorgere la sofferenza di un pezzo, che fino a qualche tempo prima, era stato parte di sé. – Per la casa ci vediamo in seguito e definiamo – la voce un po’ cupa di Enrico l’aveva fatta rientrare nella fisicità fuori dal suo chiuso dolore. – Ma adesso dove vai? – la voce non sembrava neanche la sua. La guardò direttamente negli occhi. – Non rispondere, ho capito, vai da Lei. L’avevate già deciso vero? E allora perché aspettare tanto, perché continuare a fingere fino ad ora? È Mara vero? È lei che ami vero? È con lei che ti vedi? – le parole ormai vomitavano da sole – l’avevo capito sai? Vi avevo visto! A tavola i vostri occhi s’incontravano spesso e le mani si sfioravano! – continuò, cominciando a piangere. – … e poi vi ho visto in centro, lei è venuta con te in macchina e dopo pochi minuti mi ha telefonato dicendo che stava male e non potevamo uscire insieme. E poi i vostri telefoni sempre oc‑ cupati contemporaneamente. Eravate sempre negli stessi spazi, non mi parlava più come prima, non se la sentiva di vedermi più da sola… sempre e solo in gruppo! E stanotte perché? Cosa ti ha spinto a cercarmi? Cosa volevi provarti o provare? Volevi assol‑ verti? Perché lo sai, vero? Lo sai cosa mi stai facendo? Cosa stai facendo alla mia vita, alla nostra vita? – e, ancora, senza aspettare risposta: – Cosa farò da domani? Avanti dimmelo! Devi dirme‑ lo! Enrico si era avvicinato e aveva preso ad accarezzarle la testa. Lei aveva ripiegato le ginocchia al mento e, abbracciandosi, quasi a proteggersi, aveva poggiato la testa sulle gambe, singhiozzando spudoratamente, senza ritegno. Non si era mossa alla carezza ed Enrico non sostenendo più la scena, era uscito dalla sua vita soc‑ chiudendo piano la porta dietro di sé.
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Marco. Napoli‑Procida, 8 agosto 2008 Si accorge di non essere più solo vicino al parapetto del tra‑ ghetto, avverte, più che sentire, un respiro profondo e un lieve “rumore” di pianto. Abbassa gli occhiali scuri e si gira lievemente di lato. Accanto a lui una donna bionda che mette via un fazzolettino usato. Ini‑ zia a osservarla incuriosito. Un’occhiata prolungata gli rimanda l’immagine di una bella signora dal viso sottile e dalle labbra ben disegnate e truccate. Gli occhi, allungati nella forma anche da un marcato ombreggio, erano fissi su un punto dell’orizzonte ma per‑ si e distanti rispetto al mare, alla costa che man mano compariva, ai suoni degli scafi che passavano e alle voci dei marinai che prepa‑ ravano la manovra. Lui non è mai stato troppo loquace ma avverte l’esigenza di rivolgerle la parola. – Prosegue per Ischia? – le chiede garbatamente mantenendo il tono basso. Un lieve, impercettibile sussulto che si lega al lento girarsi del viso. – No, perché? Bella voce, roca ma non sgradevole. Si ritrova a fissarla sfaccia‑ tamente, meravigliandosi di se stesso. – Mi scusi, noto però che non ha colto l’avviso di bordo – si ritrova a parlarle sottovoce conscio della lontananza mentale. – La ringrazio, comunque scendo a Procida. Eh sì, è vero, non avevo sentito l’avviso – gli risponde con un’ultima fuggevole oc‑ chiata, poi gira le spalle e, recuperato uno zaino abbandonato sul sedile, inizia a scendere la scaletta che la porterà al ponte inferiore. Marco si gira a osservarla. Non è niente di speciale ma qualcosa lo spinge a osservarne l’andatura e il fisico: i jeans arrotolati al pol‑ paccio non nascondevano le gambe affusolate; un paio di sfiziosi sandali rossi a tacco alto facevano a pugni con il capo grave che tendeva a poggiare lo sguardo a terra. Si ritrova a seguirla con gli occhi fino in fondo alla scala e deve compiere uno sforzo per non scenderle dietro. Intanto un marinaio lo invita a liberare lo spazio riservato alle manovre. In un altro momento avrebbe ricordato al marinaio chi era e che tipo di navi faceva attraccare in porti come
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New York ma, senza neanche guardarlo, dando un’ultima occhiata al fondo della scala dalla quale era scesa la bionda, si avvia al lato opposto per scendere dalla scala parallela. Ed eccola lì, allo stes‑ so piano, in fila per lo sbarco: d’istinto volge gli occhi fuori della poppa, a terra, cercando un uomo solo in attesa, ma vede solo sua madre che, come sempre, è venuta a prenderlo. Scende e mentre la raggiunge, vede la donna incamminarsi verso i taxi. È sola. Ines. Procida, 8 agosto 2008 La motoretta si era inerpicata con difficoltà lungo un ripido pendio. L’attimo stesso in cui l’autista aveva riposto il bagaglio, e le aveva chiesto dove andare, Ines si era chiesta come avesse fatto a lasciarsi convincere ad andare su quell’isoletta. Facendosi largo nell’affollato porto il veicolo si era mosso lentamente imboccando una larga via asfaltata tra graziose villette e palazzine linde e ordi‑ nate. Anonime aveva pensato. Anonime come me. Anonime come le mie emozioni. Anonime come la storia che mi porto dentro. Il magone si riaffacciava e ancora una volta riusciva a separarla dal mondo. Aveva gettato all’indietro i capelli com’era solita fare e, alzando gli occhi, si era imposta di guardare ciò che la circonda‑ va. Poi, così, a un tratto si era ritrovata in piccole strade strette e affollate. Alti muri non riuscivano a celare fronde di agrumeti e lantane colorate. Veicoli e pedoni sgusciavano di fianco alla moto‑ retta in una cacofonia di suoni e colori che lasciavano interdetti. Poi, ancora d’improvviso, il paesaggio era cambiato. Gli alti muri avevano lasciato il passo a una strada che fiancheggiava la costa e la bellezza dell’isola era esplosa in tutto il suo splendore. Il rumore stridulo del motore accompagnava le piccole salite e, a un tratto Ines si era riscoperta… a guardare il mondo. Per piccoli, rari e immediati momenti aveva riconosciuto e apprezzato luoghi fuori di sé. Questa consapevolezza dopo tanto tempo le riaccese una fiammella nello stomaco simile a un’attesa, una sor‑ presa, una voglia di vita e di gioia. Si sentiva, al momento, quanto meno attratta dal luogo così di‑ verso da quello in cui viveva. Dopo una salita più lunga e tortuosa
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delle altre la vettura si era fermata a un rudimentale cancello di legno che affacciava su uno dei paesaggi più belli che Ines avesse mai visto. A riceverla una dolce signora che la accompagna alla porta del monolocale che aveva prenotato. Ines era entrata in una stanza fresca e luminosa, aveva deposto lo zaino su di una cassapanca di legno ai piedi del letto matrimo‑ niale, poi, per quasi una decina di minuti, era rimasta quasi im‑ mobile chiedendosi cosa stesse facendo lì. Si era lasciata cadere di botto a sedere sul letto, lo sguardo fisso su quella famigliola felice incorniciata sul cassettone. Marco. Agosto 2008. Tre giorni, e, puntuale come sempre, era arrivata la chiamata del suo vecchio Comandante. Luigi era stato il suo maestro di vita e di lavoro. Già con un’esperienza ultraventennale alle spalle lo aveva accolto al suo primo imbarco da allievo su di una nave della Società Italia. Uomo amato e apprezzato da tutti in Compagnia e sull’isola, aveva sor‑ retto i primi passi sul mare di tantissimi diplomati. Quel giorno lo aspettava sulla scaletta d’imbarco pronto ad accoglierlo con la sua imponente figura. Sogni, ambizioni, soddisfazioni… tutte protese alla nuova vita che lo aspettava. Ma anche tanta paura e nostalgia del piccolo mondo che si preparava a lasciare. – Uagliò, benvenuto in mare! – gli disse la prima volta e da quel giorno era rimasto, per il vecchio, anche oggi a quarantatré anni, “Uagliò” per sempre. L’invito era, come ogni anno, per una cena al maschile. Emozioni e vissuti sarebbero riemersi, arricchiti e composti per essere nuovamente raccontati, nuovamente ascoltati e riascol‑ tati. Il comandante godeva averli a tavola in divisa, quasi a voler riempire ancora una volta gli occhi dell’esteriorità che aveva avuto parte essenziale nella sua vita sulle navi da crociera. Il convivio ormai era diventato un appuntamento fisso dell’estate a Procida. Sempre diverso, perché legato alla presenza di chi era sbarcato in quel periodo. Luigi aveva ristrutturato una vecchia casa posta sulla parte terminale di Punta Solchiaro. E il giardino, curatissimo con
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fiori e fontane sormontati da archi di pietra, si chiudeva a punta, incrociando due pezzi di mare. Da un lato si affacciava su punta Carbonchio, l’ingresso del piccolo porticciolo della Chiaiolella, Santa Margherita e il Castello Aragonese di Ischia mentre dall’al‑ tro guardava punta Pizzaco fino a capo Miseno. Posti magnifici che diventavano magici di sera. La scena si sa‑ rebbe svolta proprio lì, al centro del giardino, e il Comandante avrebbe, come il solito, indossato la divisa bianca sportiva di bor‑ do, senza giacca. Quasi una nostalgica riproposizione di attimi già vissuti. La prima volta Marco, quando aveva scoperto di dover in‑ dossare la divisa, ne aveva interiormente riso; poi si era per incan‑ to ritrovato nella sala ufficiali e ne aveva apprezzato ogni attimo. Tutti rigorosamente in divisa, tutti maschi e pieni delle loro storie di mare e tutti contenti di poterle raccontare. Erano già le sette e dalla finestra Marco osserva l’arancio del sole che si rompeva in una miriade di sottili spicchi, tanti quanti erano le foglie del palmizio che aveva davanti. – Devo prepararmi – pensa Marco – l’appuntamento è alle nove. Ines. È stanca, si era avventurata in mattinata da sola fino a giun‑ gere in cima a quelle scale che si aprivano tra due case come un piccolo torrente. L’aria del mare, i colori delle case e gli odori di quel posto, le avevano procurato un po’ di calma e aveva potu‑ to comprendere, distanziandosene un po’, la natura e lo stato di quella depressione. Aveva compiuto una fredda analisi ed era arri‑ vata alla misera considerazione che in tutta quella faccenda aveva perso tutto e ancora di più. La paura della vita da sola l’aveva paralizzata e non era in grado di rielaborare e affrontare il futuro. Era stata la perdita totale della sua storia. La morte di Enrico ave‑ va chiuso definitivamente la speranza del futuro e l’aveva privata di quel senso di onnipotenza infantile, conquistato, ormai adulta, dell’essere accompagnata nella vita. In passato, giovanissima, altri feroci lutti avevano graffiato prepotentemente il suo stato di figlia unica e superprotetta. Ne aveva elaborato il lutto con l’aiuto di pa‑ renti affettuosi e dottori, così li chiamava la nonna, che con inter‑
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minabili sedute si erano presi cura di lei. Alla fine aveva seppellito quel dolore tremendo ma le erano occorsi anni per perdere quelle insicurezze profonde che manifestava negli incontri con gli altri e nella paura di perdere da un momento all’altro quel poco che le rimaneva, com’era accaduto con i genitori. Con la morte di Enrico tutto era andato in frantumi: la sua vita, i suoi studi, il suo lavoro di psicologa. Tutto. Ormai non era in grado di aiutare più nessu‑ no. Lei stessa non si aiutava. Aveva preferito la strada dell’auto‑ commiserazione, del lasciarsi andare, del trascinarsi stancamente in questo mondo che poteva fare a meno di lei. La passeggiata di ritorno dalla spiaggia, su quella salita che le infiacchiva il corpo sotto il sole caldo del primo pomeriggio, le aveva fatto bene. Ades‑ so, all’ombra della grande mimosa, nel giardino di Luigi, guardava quel mare stupendo con occhio nuovo. L’invito per la cena della sera le giunge inaspettato e quasi non crede a se stessa quando si lascia convincere dal Comandante. Un’ora dopo, alla fine di una lunga doccia e per lo meno tre prove di abiti, passate tra momenti di scelta e momenti di dram‑ matica indifferenza, ricompare in tubino nero sulle scale. Sono già tutti in piedi, si parlano addosso l’un l’altro sorseg‑ giando l’aperitivo. Il comandante appena la vede le va incontro porgendole la mano. Sette uomini e lei l’unica donna. Per un at‑ timo si pente di aver accettato. Cosa ci fa lei con quegli estranei? Sorride al complimento di Luigi e porge la mano alle presentazio‑ ni sorridendo. Le offrono da bere mentre il Comandante assegna i posti. Racconti su racconti si susseguono, storie di vita e d’incon‑ tri, di equipaggi e di strutture, di armatori e bandiere, di rotte e di guardie. Un mondo nuovo e sconosciuto che man mano la prende e la stupisce. Quasi non si accorge di se stessa e della propria in‑ felicità. Ma su quest’isola è tutta un’altra storia. Uno stile e una realtà così diversa da quella che viveva a Roma e da quella vissuta in provincia con la nonna. Non aveva mai incontrato così tanti uomini con quello stile particolare che segna il confine tra uomini e gentiluomini. Tutti così attenti anche a lei, alle sue preferenze di cibo, così ben disposti a parlare dell’isola e delle tradizioni. Ogni tanto prova a immaginarsi le donne di questi uomini. Quasi tutti sotto i quarantacinque anni, quasi tutti sposati con figli. Cordiali,
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distinti, interessati, colpiscono per la spontaneità e spesso si ritro‑ va a invidiare quelle sconosciute compagne di vita. In verità, uno le mostra interesse. E lei pian piano di sottecchi lo guarda chie‑ dendosene il perché. Si lascia coinvolgere in questo sottile gioco di occhi e si accorge, per la prima volta, di poter guardare un uomo senza vedere Enrico. Ma dura pochi attimi e il magone si riaffaccia, la riprende e la porta via, lontano da quel tavolo, da quegli uomini. E l’illusoria pace scompare così com’è arrivata. Si alzano tutti e a gruppetti si riuniscono sul bordo piscina continuando allegramente a chiac‑ chierare. Ne approfitta per raggiungere la vasca dei pesci rossi e sedersi sul freddo muretto. Il paesaggio è quasi irreale: lucine lon‑ tane sparse sul mare rendono ancora più bella la notte e lei si sente di nuovo molto sola. – Ciao – la voce la fa sobbalzare – mi chiamo Marco e nella confusione non ho capito bene il suo nome. – Ines Sarre – si ritrova a rispondergli senza voltarsi. Non vuo‑ le parlare, anela a ritrovarsi sola e riallacciare i fili fitti della sua autocommiserazione. – Proprio non mi ha visto eh? Non si ricorda? Ci siamo già incontrati – continua Marco ignorando volutamente le spalle. – Senta, è la prima volta che ci vediamo e sinceramente non mi va di parlare con nessuno. Mi scusi. – L’ho avvicinata perché già l’ho conosciuta. Le ho parlato qualche giorno fa sul traghetto facendole notare l’arrivo a Procida. Ma vedo che, come allora, anche stasera è con la testa da tutt’altra parte. Buonanotte. Ines resta per un attimo immobile poi si volta a guardare e osserva quella figura scattante e sicura, in divisa bianca, che si al‑ lontana per raggiungere gli altri. Si rende conto di non essere mai stata scostumata come stasera, con nessuno. Si alza, scrolla i capel‑ li e si avvia spedita al gruppo dove si è fermato Marco. Nell’avvi‑ cinarsi gli sorride ed ha tempo di osservarlo bene. Scuro e bruno troneggia di una testa gli altri. – Mi scusi per poco fa. Le sarò apparsa ridicola e precipitosa con le mie precisazioni. Il fatto è che sono qui per riposarmi e preferisco stare da sola. Comunque mi ricordo dell’aiuto a bordo
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ma non avevo dato un volto a quella voce – . Così dicendo, alza gli occhi e trova il coraggio di fissarlo. Al passaggio di un ragazzo con il vassoio di bicchieri pieni tendono all’unisono le mani e le avvicinano l’uno all’altro in un’offerta simbolica di scuse. Ridono di questo gesto e brindano continuando a sorridere mentre si al‑ lontanano verso il bordo del giardino. Scelgono, senza deciderlo, il lato che si affaccia sulla baia di Chiaiolella. Un grande gelso ricopre come un ombrello due sedili in muratura. Restano in pie‑ di, l’uno accanto all’altro a guardare in silenzio bevendo, insieme allo spumante, la brezza notturna che porta odore e sapore di sale. Il silenzio invade ancora i pensieri e gli occhi spaziano in quel nero profondo e sconosciuto che riempie la conca tra Vivara, Ischia, S. Margherita. Le luci limitano il mare come una sottile riga di stelle. – Che cosa conosce di Procida? – Quasi nulla. Sono qui da pochi giorni, da quando mi ha in‑ contrata sul traghetto. Prima di allora non ne conoscevo neanche l’esistenza. È strano, adesso che sono qui, vorrei averla conosciuta prima. Non la sento estranea. Oggi ho pensato molto. E le assicuro che non accadeva da tempo. – Le andrebbe di uscire a fare un giro? – Quando? Adesso? Come? – Non si preoccupi a Procida d’estate la notte è calma, miste‑ riosa e piena di gente. Ecco, questa è l’ora adatta per un primo incontro con quest’isola. Ines riguarda il cielo, il mare, le luci. Perché no? – Va bene mi lasci prendere qualcosa giù. – Io intanto saluto e l’aspetto al cancello. Era circa mezz’ora che percorrevano – lei per la prima volta ca‑ valcioni su un motorino nero e dietro ad un perfetto estraneo – le vie e stradine dell’isola. Erano scesi da Solchiaro e superata la strada che aveva percor‑ so a piedi la mattina, si erano diretti al porto. Lì le luci dei bar e il vocio dei gruppi seduti e in piedi, le avevano fatto per un attimo ricordare le piazzette del Circeo in cui d’estate, con Enrico e gli amici, si fermavano a parlare per ore in piena notte. A questo pen‑
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sa mentre Marco si ferma davanti al bar più affollato e le chiede di scendere a prendere qualcosa. Per un attimo fa fatica a ricordarsi dov’è e cosa sta facendo. Marco se ne accorge. – Persa di nuovo? – le dice. Sorride senza falsità e incomincia a guardare veramente quell’uomo bruno e gentile che sembra leggerle nel pensiero. Trascorrono due ore seduti al tavolino. Circondati da giovani che vanno e vengono, entrano ed esco‑ no, si toccano, ridono, parlano, si baciano, indifferenti alle batta‑ glie dei suoi occhi e delle sue parole che faticano ad uscire. Marco non demorde, domande su domande la raggiungono e la costrin‑ gono a essere lì, in quel luogo sconosciuto e comune, senza spazio ai suoi rifugi mentali. Trascorrono due ore nelle quali a poco a poco riesce a dare piccoli, infinitesimali pezzettini di sé e accogliere i frammenti della storia di un altro. Alla fine, quando si alzano per andare via, non conosce Procida ma qualcosa di più del suo racconto su se stessa. La riaccompagna silenzioso lì dove l’aveva presa e si sorrido‑ no senza parlare vicino al vecchio cancello di legno. Il suono del motorino acceso la segue fin dentro la stanza scomparendo, un momento dopo, nei rumori della notte fra gli orti e le terrazze ancora accesi. La notte le scende addosso e per la prima volta, dopo tempo, si addormenta senza tanti perché. Marco. Entra in casa pensieroso, non ha voglia di mettersi a letto. Si spoglia e decide per un ultimo bicchiere lì, da solo. Posizio‑ na la poltrona davanti alla finestra del soggiorno e si abbandona al ricordo della serata. Quella donna gli faceva venir voglia di prendersi cura della sua inquietudine. Solo poche ore insieme avevano risvegliato una cu‑ riosità che da tempo non avvertiva. C’erano stati momenti, quella sera, in cui avrebbe voluto stringerla tra le braccia per cancellare quei solchi di dispiacere che a tratti comparivano sul viso ancora levigato. E non era niente di paragonabile all’ossessione fisica che lo prendeva in presenza di donne che potevano regalargli occa‑
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sionali piacevoli momenti. E neanche la sua storia per quel che aveva potuto conoscerne nelle sussurrate frasi che era riuscito a scipparle. È qualcosa di diverso; c’era in lei quell’elegante com‑ postezza che mette paletti, che frena qualsiasi intrusione. E poi, quell’incredibile senso di essere completamente sola che inviava anche quando era tra la gente. A ben ricordare era stato proprio quel suo atteggiamento che lo aveva colpito il giorno che si erano trovati sullo stesso traghet‑ to. Eppure la sentiva così lontana come quel cielo della notte che intravedeva dal grande rettangolo della finestra. “Domani vado a prenderla”: non si accorge di aver detto ad alta voce quelle parole alzandosi per andare a letto. Ines Come può un giorno cambiare inaspettatamente rispetto ai mille giorni sempre uguali che avevano occupato la sua vita negli ultimi anni? Oggi non ha pensato a Enrico appena sveglia. Poi è giunta la chiamata di Marco su quel telefonino che non squilla quasi mai. Poi gli ha detto che sì, non aveva impegni per quel giorno e potevano andare al mare insieme, poi gli ha dato appuntamento al cancello dopo meno di mezz’ora per andare in barca con lui. Poi si ferma e pensa di essere impazzita per averlo fatto. Mentre si prepara, sente riaffacciarsi l’antico demone della paura ma continua a vestirsi senza pensare. Inizia così una settima‑ na di scoperte e di conoscenze, di prendersi e di lasciarsi. Una settimana di Terra Murata con le sue storie di storia e di misteri, di ori e di povertà, di carcere e di abbandono. Una setti‑ mana di Punte, di orti, di vie strette e impraticabili, di musica, di festa e di movida. Una settimana di albe e tramonti, di pesca e di escursioni nell’isolotto disabitato di Vivara. Una settimana di sole, di notte e di spiagge. E niente, o meglio, tutto stava accadendo tra di loro. Senza indagare sulle possibilità di penetrarvi, gli occhi s’incontravano spesso, si nascondevano altrettanto, si prendevano per intermina‑ bili minuti d’imbarazzo, dove era sempre più difficile lasciarsi. E in questa girandola di piaceri, scoperte, ammiccamenti, la felicità
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di essere insieme s’impossessava delle paure di entrambi, liberan‑ done i sensi. Sì, i sensi, perché doveva accadere, non si chiedevano quando né dove ma entrambi lo sapevano. Marco era pronto. Ines meno, ma sapeva che questa volta non sarebbe fuggita. E una sera si prendono, così, sul ritmo delle onde, alla fine di un magnifico rosso tramonto. Si sono volutamente attardati in spiaggia alla Chiaiolella, hanno assistito alla pulizia della sabbia, alla solitudine degli ombrelloni chiusi. La musica proveniente da uno dei locali sulla spiaggia, come un sottile venticello, trascina oltre il mare gli anni, i ricordi, le angosce. Correnti intermittenti fanno rabbrividire il sangue e tremare le mani. Marco la cinge in vita e la bacia, così, semplicemente, come se fosse la cosa più natu‑ rale del mondo. La sua bocca s’impadronisce di spazi di pelle. Ines avverte e arresta la sua corsa portandolo in riva. Ha paura, ma quei brividi vaghi e misteriosi di vita mai nati, la poesia penetrante dei rumori del mare e dell’isola a quell’ora, la malinconia della sera, prendono il sopravvento raccogliendo tutto ciò e altro ancora. E si abbandona all’amore, ai sogni, alla carne. In pochi attimi esplode l’adolescente libera, avida di emozioni: la sua lingua assapora la salsedine sul collo, sul torace dell’uomo poiché desiderava, più di ogni altra cosa, in quel momento essere innamorata di nuovo. Dunque non è tutto morto: questo pensiero nudo, vivo e allettan‑ te entra nella sua testa così come nella sua carne. E aspirando a piene boccate quel piacere intenso ed ebbro che le pervade i sensi, sente l’anima, persa e libera, sollevarsi nel tempo dilatato della leggerezza. La memoria a tratti si risveglia e vola sopra i loro corpi abbracciati, vola via da quella febbre ovattata delle membra, sorvola il ritmo del‑ la risacca marina e raggiunge il cielo dei ricordi, anch’esso infuocato nella notte. Ricorda mille cose dimenticate. Mille piccoli particolari del suo corpo verginale, della prima volta con Enrico. Ma sente che questa volta la paura muore e con essa anche i ricordi che la ten‑ gono prigioniera e si liberano, rinvigoriti da un misterioso arbitrio, saltando da un luogo mentale a un altro senza fissità, senza angoscia, senza rimpianti, sperdendosi nella contentezza del momento e nel‑ la speranza dell’avvenire. Con la naturalezza delle cose che devono esserci, sente tutto questo, Ines. E Marco capisce, prende, accoglie stupito quel darsi dolce, malinconico, passionale, diverso…
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Lo prende quella donna, l’ha inconsapevolmente attirato nel bisogno dell’altro, nella completezza del duo. E si perde nelle sue braccia. E così doveva essere. Finalmente. Venere Imperiale. Ines. Traghetto Procida‑Napoli, 18 agosto 2008 L’isola e i suoi colori scompaiono pian piano distorti dal calore del sole riverso sul mare. La follia dei giorni appena vissuti è den‑ tro di lei. Porta addosso l’odore degli agrumeti, il viola delle bou‑ ganville, le pallide sfumature delle ortensie, quel reame di profumi di mare e terra che hanno fatto da sfondo e cornice ai suoi mille stati d’animo. E la passione, la passione calda e sensuale che anco‑ ra ubriaca ogni centimetro di pelle, e il solo ricordo basta a farla respirare più forte, rende l’aria più fresca e saporosa e piena di languore. Affacciata al parapetto, viaggia fantasticando pensando all’uomo che le è stato vicino. Non è amore, o perlomeno l’amo‑ re che aveva conosciuto con Enrico. È diverso, è nuovo, è vivo. Quell’uomo‑ragazzo con il suo bagaglio di viaggi ed esperienze l’aveva travolta e fatta rinascere come donna. Non si erano detti addio ieri notte, si erano lasciati abbracciandosi in silenzio, con gli occhi lucidi e con la paura di tradurre in parole la lotta feroce che sensi e sentimenti si combattevano. No, non era un addio. Il trillo del cellulare la scuote. È Marco. Risponde mentre riguarda l’ombra ormai indistinta dell’isola e sente che, in qualche modo, le apparterrà per sempre.
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