Claudio D’Aquino
Romolo Runcini i tarocchi di una vita fantastica
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Indice
Prefazione di Maddalena Tulanti
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Prologo
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Capitolo 1. Arrivo a Procida
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Capitolo 2. I gatti di Romolo
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Capitolo 3. Carte per capire
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Capitolo 4. La Biblioteca
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Capitolo 5. L’assalto al Seminario
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Capitolo 6. Il labirinto dei tarocchi
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Capitolo 7. Tarocchi di guerra
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Capitolo 8. I Tarocchi della scultura
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Capitolo 9. Il principio di realtà
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Capitolo 10. L’incontro con Fellini
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Capitolo 11. Tarocchi da un matrimonio
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Capitolo 12. Nel labirinto E.A.Poe
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Epilogo
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Codicillo familiare di Romolo Runcini
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Desidero ringraziare Manlio Talamo e Gloria Gaetano per i consigli e l’incoraggiamento. Un grazie speciale ad Angela Scogliamiglio, spigolatrice del libro in bozze
“Quel che possiamo apprendere da un grande scrittore, non è come imitarlo, ma piuttosto vedere come guardare a noi stessi e alla nostra vitaâ€? Orhan Pamuk
A Mario e Gabriele, sistole e diastole del mio battito cardiaco
Prefazione
Con parole che non avrei mai usato fra il ’73 e il ’77, direi che il professor Romolo Runcini, l’eroe occulto ma non tanto di questo romanzo, era un sex symbol all’epoca in cui io e Claudio d’Aquino frequentavamo l’Istituto Orientale. Non è il miglior modo per iniziare una prefazione a un libro straordinariamente colto, elegante e attento a ogni minimo particolare, ma è quello che mi permette di entrare subito in contatto con il personaggio e con quel periodo della mia (e di Claudio) vita. Le ragazze andavano alle sue lezioni soprattutto per ammirarlo, ma non lo avrebbero mai confessato, non erano i tempi. E io meno che le altre, così austera (noiosa) da smettere perfino di andarci per evitare che quel pensiero indecente potesse trasparire in qualche modo. Non che dovessi, in effetti, seguire le sue lezioni perché la mia laurea era in Lingue e Letterature straniere, russo in particolare. Ma la “fama” di Runcini era talmente larga nella parte femminile dell’università che per qualche attimo fui persuasa che era assolutamente indispensabile che andassi a seguire “anche” qualche lezione di Sociologia della letteratura. Poi, come ho già detto, un soprassalto di superbia mista a vergogna mi spinse a tornare nei ranghi. E del “bel” prof non ne volli più sentire parlare. Claudio D’Aquino invece se ne innamorò. Non posso usare che questo verbo perché questo libro è anche (non solo, ma anche) un atto d’amore nei confronti di questo “maestro” che non solo per Claudio ma per tanti altri allievi è stato uno straordinario punto di riferimento. Non sono complimenti. Per quanto mi riguarda io penso che chi ha avuto vent’anni negli anni 70 non ha avu-
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Romolo Runcini
to “maestri”, né “buoni” né “cattivi”. Perché non mi ha mai persuaso il ragionamento che chi in quegli anni decise di prendere una pistola lo abbia fatto perché “formato” da Tizio o da Caio, credo troppo nella responsabilità personale per delegare a terzi l’organizzazione di una vita. Purtroppo invece “maestri” non ne avemmo. L’università alla quale avemmo accesso io, Claudio e tanti altri figli del cosiddetto popolo, è stato già detto e ne sono convinta, era una scatola più o meno vuota, fondata sulla buona volontà di qualche prof missionario. E così – per tornare a Runcini e a Claudio – non c’erano che due modi per imparare qualcosa: o iscriversi a corsi originali, nella speranza di essere in pochi a seguirli; o girare per lezioni alla ricerca di “prof-prof”. Io ho seguito la prima strada: eravamo in cinque a seguire le lezioni di lingua russa (Angelo Bongo e Eirene Sbriziolo i prof), non potevamo che imparare. Non me ne sono mai pentita, se non fosse stato per quella singolare scelta, Walter Veltroni, nel 1994, quando era ancora direttore de l’Unità, non mi avrebbe mai mandata in Russia. Fu l’ultima sua carta, quella che riteneva vincente, dopo aver usato quella della paura (“una donna sola”) e della lusinga (“servi qui”). “E la lingua, come fai con la lingua?”. “Sono laureata in russo”, fu la mia orgogliosa e sfrontata risposta. “Allora…”, allargò le braccia lui. Claudio, invece, seguì la seconda strada, cercò i “prof-prof”. E dopo molto peregrinare, si imbattè in Runcini. E non lo ha più lasciato. Perché a distanza di anni, e di molta vita, lo ha ritrovato nella sua immaginazione, motore di una storia che per quel che conosco di Claudio potrebbe addirittura essere vera. Di vero ci sono senz’altro Procida, una delle mete di quei ventenni dell’Orientale, quando fra un’estate e l’altra ci si andava a scottare (non io, avendo qualche cromosoma negro) sugli scogli nerissimi ai piedi del carcere. Sono veri anche i gatti e la non simpatia di Claudio verso questo animale. Io avevo un cane cattivissimo e orrendo, si chiamava Polly, e se la memoria non mi inganna con Claudio andava particolarmente d’accordo. E
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I tarocchi di una vita fantastica
un’altra cosa vera sono i libri, tanti, tanti, tanti libri. Da ventenni avevamo una fame infinita di titoli e di copertine. Li compravamo a chili (li compro ancora a chili), lasciando che ci proteggessero come mura. Li leggevamo tutti? Risponde Runcini nelle primissime pagine di Claudio: un capitolo senz’altro, poi si mettevano a riposare. Sarebbero serviti un giorno o l’altro. Perché i libri servono sempre un giorno o l’altro. L’unica cosa che non mi sembra vera è la passione per le carte di Claudio, quelle che svelano, rispondono, ordinano. Non coincide con il ritratto illuminista che ho in mente del compagno D’Aquino. Ma dopotutto sono passati trenta anni, qualcosa deve essere pur accaduto nella sua vita mentre io mi distraevo. Maddalena Tulanti
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Prologo
Il primo libro che ha letto, attorno al 1932 – all’incirca all’età di sette anni –, fu Robinson Crusoe. Anzi, una riduzione per bambini della storia di Daniel De Foe. L’ultimo – se di ultimo si può parlare, visto che i libri non smette di accumularli –, è Verso un’ecologia della mente di Gregory Bateson. Naturalmente, oltre a collezionarli, di tanto in tanto dà lui stesso alla luce qualche esemplare. La prima volta nel 1968, anno fatidico anche per Runcini. È l’anno in cui, all’età di 43 anni, fa ingresso nell’agone intellettuale. Compare Illusione e paura nel mondo borghese da Dickens, a Orwell, apprezzato “viaggio” edito da Laterza che, dall’utopia del benessere diffuso a tutti celebrata anzitutto da Charles Dickens conduce alla disillusione sulle “magnifiche sorti e progressive” del capitalismo, che trova in George Orwell una prima compiuta espressione. Nella più recente produzione procidana, baciata da una feracità senza precedenti, merita una speciale segnalazione Il roman du crime. È il secondo tomo di una quadrilogia dedicata alla paura e all’immaginario sociale nella letteratura. Quattro volumi in pubblicazione per i tipi di Liguori di cui il primo, sul Gothic romance, uscì nel lontano 1984. Dopo Il roman du crime, dedicato alla letteratura francese tra il 1815 e il 1848, il programma editoriale ha previsto Il romanzo industriale e Dalla fantascienza alla fantarealtà, centrato sul passaggio al postmoderno della realtà virtuale.
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Romolo Runcini
*** Romolo Runcini ama definirsi nel modo seguente: “Sono un uomo affetto dal morbo della libridine”. Non saprebbe vivere senza imbattersi ogni settimana in due o tre nuovi libri da aggiungere alla sua biblioteca. Da quando ha imparato a decrittare i caratteri a stampa disposti in fila, uno dietro l’altro, come soldatini in parata, non ha mai fatto trascorrere una settimana senza incrociarne almeno due o tre. Ma, dato il numero ragguardevole di libri che ha – allo stato, oltre venticinquemila –, come fa a non perdersi nei meandri del labirinto? Sfila le righe rapidamente, adottando magari il metodo della cosiddetta “lettura trasversale”, come quelli che si apprendono ai corsi di consultazione ultrarapida? Molti fra coloro che si affacciano alle tre stanze di trenta metri quadrati circa di casa sua, tappezzate da venticinquemila tomi, gli chiedono puntualmente se li ha letti tutti. “Tutti e per intero no – è la risposta –, ma di ciascuno ho letto almeno un capitolo”. Ed è questo l’unico modo che conosce per essere in grado, all’occorrenza, di porre mano agli scaffali e sfilare i volumi giusti per comporre un repertorio adeguato su uno dei seguenti argomenti: letteratura; critica e metodologia letteraria; storia delle religioni; magia ed esoterismo; filosofia; sociologia; antropologia; scienze; economia e politica; storia e arte; architettura e urbanistica... E ancora: costume, musica, cinema e teatro, viaggi, pedagogia, riviste illustrate e riviste culturali, romanzi d’appendice... Il suo rapporto con i libri ci restituisce tuttavia il “personaggio” Runcini solo in parte. I Tarocchi di una vita fantastica è nato proprio per questo motivo: provare a scavare in meandri mai posti in luce della sua vicenda umana, al di là di ciò che possono dire di lui “i fiori del suo giardino”. Rappresentare il tipo di “personaggio” che è, senza deputare al compito una di quelle trasmissioni notturne, fortunate oltre misura, alle quali in tanti affidano la traccia per una biografia interiore. O, come oggi usa, a un “reality” ambientato, magari, in una fattoria dell’Ottocento (dove, detto fra parentesi, il professore si troverebbe assolutamente a suo agio).
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I tarocchi di una vita fantastica
Chi lo conosce sa bene che incontrare Runcini vuol dire incappare in frequentissimi “ritorni al passato prossimo” che tanto adora, un mondo perduto che, grazie a lui e quelli come lui, è in qualche misura recuperabile. Scrive con la vecchia stilografica, sui quaderni di sempre - copertina nera zigrinata, filettatura rossa. Sulla pagina di sinistra, perché quella di destra serve per apportare modifiche, correzioni, integrazioni, note, prima di consegnare il manufatto alla dattilografia. La pipa l’accende coi solfanelli, quelli di sempre. Gli fanno compagnia una batteria di giocattoli, ma quelli di una volta, indistruttibili perché costruiti in legno o in ferro, e non di bachelite. Per lui la pagina stampata su carta, come del resto accade a molti della generazione che fa fatica a passare da Guntenberg ai bip, è ancoraggio prediletto. Diciamo la verità: sotto sotto, sia pure affascinati dalle prestazioni del computer estese a Internet, non è forse vero che di tutta la ferraglia ci fidiamo poco, avendo esperienza del fatto che, così com’è vasta la capacità dei metodi informatici e telematici di archiviare documenti e trasmetterli, non meno rapida può essere l’eventualità di perdere tutto in un botto, per una disastrosa contaminazione da virus, un inspiegabile “imballo” del pc, un bit che si mette di traverso e si frappone, diabolicamente, all’illusione di poter conservare in eterno “tutto in un punto”. “Fatemi sempre vedere una stampata del materiale”, ribatte con puntiglio a chi vorrebbe acquisirlo, lui ragazzino di oltre ottant’anni, tra i cyber-utenti. Romolo Runcini, classe 1925, si può quindi definire l’ultimo degli amanuensi. *** Venti o venticinquemila volumi non passano inosservati. Si fanno notare. Quando nel 1998 Runcini li portò a Procida da Roma, dove abitava da tantissimi anni in via Monte Zebio (a due passi dalla sede della Rai di viale Mazzini), furono necessari diversi giorni per l’imballo, due tir e un auto-articolato per il trasporto, più un certo numero di viaggi su
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Romolo Runcini
veicoli leggeri, adatti ad infilarsi nei vicoli angusti e ripidi dell’isola. Il piazzale del porto fu impegnato per un’intera giornata, come alla processione di Pasqua. Poco mancò che venisse ad accoglierli il sindaco Luigi Muro (allora in ottime relazioni con il professore, tanto da invocarne l’arrivo sull’isola a suon di delibera della Giunta comunale) con la fascia a tracolla. Ventimila libri nel 1998. Nei nove anni trascorsi da allora, il patrimonio si è senz’altro arricchito, tanto che il tutto riesce a stento a stare nelle tre stanze, per quanto ampie, di casa sua solo a patto che ogni scaffale accolga una triplice teoria di volumi. *** I suoi libri sono stati scelti in luoghi diversi e tempi diversi in almeno cinque modi diversi. Questo lo sapevamo, noi ex studenti all’Orientale, sin da… facciamo cifra tonda: una trentina d’anni fa. Quando, contagiati dal professore, vagheggiavamo un futuro da intellettuali ben attrezzati e coltivati. “Più che dalla forma o pregio o attrattiva della copertina – raccomandava Runcini – lasciatevi catturare piuttosto dal titolo, purché vi accertiate che ad esso corrisponda un tema per voi di sicuro interesse”. Come effettuare la verifica? Badando anzitutto alle credenziali dell’autore. Attingendo cioè notizie dal profilo biografico, anche breve, che viene di solito riportato in contro-copertina o in un risvolto. Meglio, nel caso non fosse ben conosciuto, effettuare l’acquisto dopo averne controllato le “referenze” con una piccola ricerca sulle altre sue opere e percorso di studi. Terzo passaggio obbligato: lo sguardo all’Indice, perché è qui che si trova riassunto, al di là del “packaging” della copertina, il cuore degli argomenti trattati. Segue la controprova della bibliografia posta in fondo al volume, elemento significativo perché incardina il libro nel contesto di studi e ricerche di cui è frutto (e a cui, volendo, rimanda). “Solo dopo queste operazioni – spiegava Runcini imprimendoci il marchio della “libridine” – lo compro. Poi ne leggo almeno un capitolo, anche a capriccio, per memorizzarlo in qualche modo come strumento di lavoro che, prima o poi, tornerà utile”.
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I tarocchi di una vita fantastica
*** Al mondo esistono, s’intende, manie ben più dispendiose. Collezioni di oggetti e rarità assai più impegnative per il bilancio domestico. Tutto sommando, anche in questi tempi critici per il menage familiare, non sembrerà una fortuna la stima del valore di quel patrimonio che appena supera alcune centinaia di milioni del vecchio conio. Il 97 per cento del quale valore viene dai banchetti dei libri di seconda mano, dove chi ama i libri passa molto tempo a spulciare tra gli scaffali delle rimanenze. Finché non riesce a trovare tra quegli scarti almeno un esemplare che meriti di entrare in rapporto più stretto con noi e coi suoi simili che, trepidanti, aspettano di accogliere il nuovo venuto tra le mura di casa. Non è certo il solo modo per venire in possesso di qualche pezzo raro. Nei frequenti viaggi sostenuti per conferenze all’estero, Runcini si è dotato di quella che un manager chiamerebbe “rete di fornitori”. A New York, a Londra, a Parigi, a Kracovia, in altre città d’Europa e delle Americhe, ha stabilito contatti con librai che sono diventati, nel tempo, suoi mandatari. Ai quali ricorre volentieri, avendo imparato a leggere scorrevolmente il francese, l’inglese, lo spagnolo (oltre che il latino, lingua che gli ha salvato la pelle in circostanze che intrigherebbero uno sceneggiatore cinematografico) e un po’ il portoghese, a motivo dei frequenti viaggi in Brasile dove il figlio primogenito, Alessandro, ha avviato un’attività imprenditoriale. *** Occorre aggiungere che Runcini ha anche un altro modo per offrire di sè una istantanea più efficace di una carta d’identità: ama definirsi “un umanista del materialismo storico”. E questo è un aspetto della sua figura di studioso da ben considerare per una conoscenza meno superficiale del personaggio che interpreta. Il “biglietto da visita” è quasi un ossimoro, e tuttavia esprime nel miglior modo possibile le opzioni
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Romolo Runcini
teoriche fondamentali di uno studioso che dapprima si forma in clima crociano, per scoprire presto il marxismo, pensiero che abbraccia molto più come approccio critico alla realtà che come formula di fede ideologica. Difatti Runcini non è stato mai disposto a riconoscere all’economia (e alla politica) il primato che le scuole marxiste, spesso forzando lo stesso Marx, hanno inteso come egemoni su ogni altra disciplina (con ciò privandola, almeno fino a Gramsci, di fecondi raffronti con il magistero delle scienze umane). Anche per questo Runcini è un maestro per una generazione di ex giovani. Oltre a incarnare il modello di persona che fa dello studio uno stile di vita, in bilico tra etica ed estetica, egli ha pagato un prezzo assai alto al tentativo di leggere, attraverso il fenomeno letterario, gli anfratti dell’animo umano, proprio inforcando la lente che il marxismo di Marx ha meglio molato: la sociologia. Così, pur senza essere uno scandagliatore della psiche (o uno strizzacervelli), ha recato un contributo alle scienze dell’anima tenendo conto che è proprio la letteratura a recare ad esse, come giacimento affiorante dalle oscure energie dell’inconscio, un materiale tanto possente da rivaleggiare in pregnanza con il mondo onirico: come già mostrava di apprezzare il fondatore di quelle scienze, Sigmund Freud, il quale trasse proprio dai grandi miti della letteratura più di un sostegno alle proprie tesi. *** Correva l’anno 1977 quando, all’Università Orientale di Napoli, chi scrive si è imbattuto in una lezione di Runcini resa secondo l’inamovibile calendario del venerdì pomeriggio e del sabato mattina “per dare modo di seguire le lezioni anche agli studenti lavoratori”. Era l’anno più plumbeo del decennio. A metterci un po’ di colore ci pensò la Rai che, proprio allora, diede inizio ufficiale alle trasmissioni cromatiche, producendo lo strano giro sui cardini del rapporto realtà/finzione in cui lo smarrimento della passione ideologica tesa allo
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spasimo ha anticipato la devitalizzazione cui oggi assistiamo in ogni ganglio della vita civile. Paradossalmente, proprio nel momento della massima espansione dei media pubblici e privati, ha avuto inizio il loro svuotamento di senso. Romolo Runcini era lì, occhi azzurri e panciotto bordeaux, capelli di platino e cipolla al taschino. Raro esempio di sano anticonformismo in mezzo a molta intolleranza e non poca follia. Ripensandoci, per noi è stato un maestro anche in tutt’altre cose. Senza volerlo, con l’esempio, ci indottrinava su come diventare persone che sapessero stare al mondo. A cominciare da una sua peculiare caratteristica: l’affidabilità. Merce assai rara oggi, in tempi di zapping dei rapporti umani. Una qualità che, nella stessa misura, rende e pretende. Se assume un impegno, non c’è verso che non lo mantenga. Il guaio è che pretende da tutti gli altri il medesimo modus vivendi. In questo è solido come la pietra di Terra Murata. Perciò, per noi studenti un po’ turbati dalla “liquidità” delle relazioni universitarie, ridotti a matricole nell’anonimato di blasonate accademie trasformate in opifici della laurea di massa, fu un sicuro ancoraggio che non cedette al 18 politico. Scoprire che il mondo là fuori è incline alle facili promesse, accompagnate a un altrettanto fluido disconoscere gli impegni presi, ce l’ha reso prezioso anche per molti anni dopo. Runcini è un esempio di come si possa avere senso della professione senza per questo diventare inabbordabili. Il rigore non è detto che debba a tutti i costi stare al pari della mancanza di ascolto, della incapacità di confrontarsi con ciò di cui i giovani sono portatori: questi sono orpelli di un potere (non solo accademico) che, per diventare degno del nome, si rende anzitutto impermeabile, irraggiungibile, chiuso a doppia mandata nella propria psicosi. Tanto insicuro di se stesso, e assillato dal proprio narcisismo, da doversi proteggere con espedienti così da poco.
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Romolo Runcini
*** Runcini è uno dei massimi esperti europei del Fantastico. E su questo c’è in giro un numero abbastanza ampio di pagine per offrire anche qui una panoramica di questo genere artistico e letterario attraverso gli autori (oltre che i libri) da lui più amati. Anzitutto, peccato originale, Edgar Allan Poe. Assoluto maestro, al Fantastico ha aperto una prospettiva letteraria inaugurando il racconto in cui gli aspetti oscuri e misteriosi della trama affondano nelle profondità dell’Io: di come siamo ognuno di noi; mondi assai più alieni, a ciascuno, che la pretesa realtà oggettiva. Gli altri autori degni di citazione? Eccoli, come in una sorta di speciale galleria, pietre miliari di un excursus mentale prima che cronologico o filologico: da Hoffman, che afferma la preminenza veridica dei sogni e della magia sulla realtà, ai francesi Théophile Gautier e Charles Nodier, fino a venire ad autori più vicini, gli americani Philip Dick e Stephen King. Ma sul Fantastico bisogna intendersi. E prima lo si fa, meglio è. Complice una particolare congiuntura lessicale, forse tipica della nostra sola lingua, noi italiani concepiamo il Fantastico come aggettivo sostantivato che designa il “deliziosamente sorprendente”, persino piacevole o gratificante, che esula dal consueto per trascinarci verso una dimensione di leggiadra, stuporosa beatitudine. Avviciniamo, perciò, al Fantastico ogni cosa che abbia un effetto meraviglioso o magico, o provochi rapimento estatico – il favoloso, il leggendario, le fate e gli elfi, il mitico e il fittizio. Mentre invece il genere, secondo analisi più strutturate, è il prodotto artistico e letterario del perturbante, quindi parente prossimo dell’angoscia prodotta dalla fobia. Se reca un piacere, è senz’altro il piacere della paura. Per quanto debba quindi collocarsi sempre di là della soglia del già noto, l’esperienza del Fantastico è tutt’altro che solare e meravigliosa. Se è sogno, sarà senz’altro un brutto sogno. Gli inglesi che hanno inventato il romanzo gotico non fanno confusione: il Fantastico è il distillato lette-
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rario e artistico della paura. I francesi, che tendono a essere perfezionisti in queste cose, separano il «fantastico» dal «fantasmatico» e conservano la radice «fantôme» non contaminandola con l’aggettivo «fantomatico», come facciamo noi. Ma questo è un altro discorso, da affidare a competenze più attrezzate. Adesso è tempo di lasciare la mano ai tarocchi, senza altro indugio. Napoli 20 maggio 2009
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Capitolo 1
Arrivo a Procida
Molo di Pozzuoli, 11,37 del mattino. Il battello per Procida esibisce le funi umide della passerella al sole pieno. La sagoma della poppa attraccata alla banchina suggerisce l’immagine dei panni stesi ad asciugare da un muro all’altro negli angusti vicoli di Napoli. A me sembra un ponte levatoio proteso sul fossato di un maniero in un libro di fiabe. L’interno della nave non bene in arnese, poco più di un guscio di noce al quale s’affida la tratta domestica tra Pozzuoli e l’isola, mostra un campionario di colori ottenuto da più mani di vernice, frutto delle giacenze del carenaggio dell’anno prima. Domina, sullo spettro delle sfumature possibili, un improbabile blu sfumato, quasi turchese, traversato da greche di una variante cromatica indefinibile, a metà tra il celeste e il grigio cobalto. Sovrapposte l’una sull’altra come concrezioni di una barriera corallina, formano una lingua di colore che rende affascinante l’impatto con la vita di bordo, stimola il ricordo di storie di mare e di naviganti impegnati su percorsi più arditi, lungo tratti fluviali infestati da alligatori, in risalita nelle anse di fiume del centro o sud America, della Malesia o della Guinea. Così le bizzarrie cromatiche di una barca prossima al disarmo mi predispongono a uno stato d’animo che si innesta, non appena metto piede sulla tolda, ogni volta che m’imbarco per Procida. Se posso, scelgo una fra le più sconnesse carcasse che possono giusto sfidare il catino di mare che divide il Rione Terra da Terra Murata. Nessun natante più moderno e confortevole, nella cui sala d’aspetto si è forzatamente in compagnia del tappeto sonoro di un canale televisivo, mi permette un simile effetto di incantamento, abbandono, distacco, ce23
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dimento agli umori dell’animo assieme all’imbarcazione che rilascia lo scafo alla magia delle onde. Durante la rapide traversate nel non temibile braccio di mare, ripiego in me stesso e, in capo a pochi minuti, l’intervallo della traversata lo adopero per mettere giù qualche appunto, spunto, abbozzo di pensiero. Senza scopo e senza obiettivi precisi, prendo a divagare, a ricamar su niente, al suono dello sciabordio della chiglia, scrutando il mistero delle lance di luce che il sole rapisce al marezzo. È un pezzo che il ponte levatoio si è sollevato, riunendoci tutti al medesimo destino di navigatori. Ho detto ponte levatoio? Insisto sull’immagine leziosa di un Medioevo stucchevole, ma a che pro? Mi rendo conto che la figura, evocata dalla pedana del minuscolo ferryboat, non è farina del mio sacco. È uno slittamento semantico che l’inconscio, nei suoi imperscrutabili abbinamenti, si è incaricato di produrre. È scintillata dai lombi cerebrali dove, evidentemente, nella tarda serata di ieri, si sono insediate le sensazioni provate di fresco alla lettura dei primi capitoli del “Castello dei destini incrociati”, il “maschio” che, nel romanzo di Calvino, appare “in mezzo a un fitto di bosco” come a dar rifugio a chi è stato sorpreso, in viaggio, da un imprevisto. Una specie singolare di viaggio, in cui ciascuno compensa lo smarrimento della facoltà di parola comunicando con i suoi interlocutori attraverso le smazzate di carte da gioco “più grandi di quelli con cui le zingare predicono l’avvenire…”. Ecco, allora, come e perché la passerella del ferry boat m’ha indotto a pensare al ponte levatoio di un non precisato maniero dell’anno Mille. Quando la nave salpa per Procida, dicevo, l’animo si affida a un cullare di onde troppo breve per venire a noia, abbastanza lungo da suggerire una fugace deriva dalle consuete noie. Mi metto a scrivere. Non so perché mi sento più fecondo del solito: frammenti, noticine, che di qui a un giorno strapperò o cancellerò, si snodano da chissà quale moto interiore, misti a pensieri in libertà non vigilata, ma intanto mi sembrano come spremuti dall’effetto che la luce del sole provoca tra la schiuma, quintessenza del medesimo divagamento che dovette suggerire a chissà chi, nella notte dei tempi, la nascita dalle acque del mare di Afrodite. 24
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In capo a un’ora arriverò alla casa procidana di Runcini, che dista dalla baia della Corricella poche decine di metri in linea d’aria, avvinta alla Chiesa di San Tommaso d’Aquino come un’edera. Via Marcello Scotti, strada procidana intitolata a un eruditissimo letterato del Settecento, ancor oggi allinea, vista dal mare (solo dal mare, perché le strade ormai da tempo convulse dell’isola mal predispongono), palazzi storici con bellissimi giardini che conservano lo stile seicentesco. I notabili, un tempo, vi edificarono le loro dimore nella parte più bella dell’insenatura della “Chiaia”, da dove il profilo di Capri sembra poco più innanzi di un lancio di ciottolo. Dalla finestrella del suo studiolo in stile assai “benedettino”, nella insenatura tra Punta dei Monaci e Punta Pizzaco, Runcini ha sott’occhio scorci di insuperabile bellezza. Quello che a me viene tributato poche volte l’anno e al costo del prezzo del biglietto della traversata, lui lo ha a disposizione a titolo gratuito ogni santo giorno. Dal terrazzo alla sommità dell’edificio, s’apre a panorama una delle migliori viste di un’isola che s’insiste ad attribuire ad Arturo. Un genitivo che rientra nella spicciola mitologia locale, mentre invece, più sommessamente, è isola di naviganti ai quali il mare viene a noia, pronti a voltargli le spalle non appena hanno racimolato un gruzzolo sufficiente a comprare quattro pietre, che poi magari diventano otto o sedici, strada facendo, profittando della accondiscendente disattenzione delle autorità e del primo condono utile. Collezionista di giocattoli d’epoca e maschere, scatole di svedesi e liquirizia stile déco e liberty – e, potendo, d’ogni oggetto capace di restituirgli il profumo di epoche non turbate dal clangore dei moderni –, potentino di nascita e “apolide” d’adozione in quanto figlio di un generale dell’esercito tenuto a continui acquartieramenti, anche in oltremare, partigiano e comunista, Romolo Runcini continua a trascorrere almeno otto ore al giorno in compagnia dei suoi libri (e dei suoi gatti), nella biblioteca che meriterebbe di diventare – essa sì – un mito isolano non meno dell’hotel Eldorado dove la Morante si chiuse in romitaggio per finire il suo romanzo. 25
Romolo Runcini
“Professore, sono io”, dico accostando la bocca al citofono per farmi meglio udire, non appena arrivo al suo portone. – “Tu chi?” –, risponde la sua voce imbambolata. – “Io Claudio (“Perché, aspettavi qualcun altro?”, penso fra me e me)”. Il programma concordato al telefono prevede di lavorare insieme per il resto del week end. – “Ma benedetto ragazzo… - ribatte lui con il tono della paternale – … sali, sali...!” . Che cosa ho fatto? Che ho combinato? Cosa c’è che non va? Ho sbagliato giorno, ecco che c’è. Oppure ha sbagliato lui, attribuendo l’appuntamento fissato per oggi a un’altra data. Oppure ancora, al telefono io avevo capito che avremmo dovuto vederci nel corrente fine settimana, mentre lui aveva inteso trattarsi della settimana ancora dopo. Arrivo sul pianerottolo di casa, ci sono ancora una manciata di scale da fare dopo il cancello, e lui sta lì, ritto sulla porta, col muso mezzo a broncio, vestito di tutto punto come chi è in procinto di uscire. “Tu sei venuto” – dice accogliendomi – e io parto per Napoli tra meno di mezz’ora” –. Deve raggiungere in serata la moglie Giuliana a Roma. Sbianco in volto. Per la fatica che ho fatto a venire a piedi dal porto. Per la figuraccia che ho rimediato causa l’errore, che devo accollarmi facendo buon viso. Per la rabbia d’aver perduto l’occasione di stare con lui per due giorni interi. – “Beh, ora che sei qui, puoi restare se ti va – dice come a voler mitigare il mio disagio –. Guardati le carte che ho messo da parte sullo scrittoio. E prova a mettere giù un po’ di appunti. Ne riparliamo al mio ritorno”. Posso mai declinare l’invito? E perché, poi? Ho predisposto le cose, a Napoli, per fare in maniera da lavorare un paio di giorni gomito a gomito con lui. Dall’incontro mi aspetto di ricavare almeno l’impalcato della mia tesi di laurea, faccenda che si sta prolungando oltre misura. Tornare sui miei passi che senso avrebbe? Accetto di buon grado l’offerta di una casa intera, inclusa biblioteca, sia pure per un paio di giorni: è una prerogativa che Runcini non accorda certo a tutti. Ancora pochi minuti ed esce. Sento chiudersi il cancelletto alle sue spalle. Resto solo in una casa bella e insolita, arredata con indubbio 26
I tarocchi di una vita fantastica
gusto, ma provvista di un inquietante collezione di maschere, reliquie pagane, amuleti esotici, il sacro che s’intreccia al profano in una promiscuità oscura, locandine terrifiche sottratte alla iconografia del cinema espressionista. Presenze che, più s’allungano le ombre della notte, più turbano la precaria serenità d’animo di chi è emotivamente suscettibile. Presenze che è forse eccessivo giudicare demoniache, ma che appaiono senz’altro al limite con il mondo delle tenebre. Torno all’oggetto della mia visita, al programma di lavoro per cui sono venuto fin qui. Mettermi a studiare può essere un ottimo sistema per allontanare la mente da pensieri foschi. “Guardati le carte che ho messo da parte sullo scrittoio”, ha detto il prof congedandosi. Ma quali carte? Sul suo piano da lavoro nella sua stanza ci sono sì, in bella mostra, delle carte, ma non appunti o fotocopie. Quelle che vi trovo, ben impilate, sono appena più lunghe di quelle con cui, per l’appunto, si gioca a carte sotto tutte le latitudini.
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My first canary (Alison Friend)
Capitolo 2
I gatti di Romolo
Sono solo, ma fino a un certo punto. Casa Runcini-Gravina è abitata da due gatti. Il primo si chiama Raky. Fu tolto alla strada piccolo e rachitico, da qui il nomignolo che gli è rimasto appiccicato, benché ormai sia bello e cresciuto. Detesta gli estranei. Quando arriva qualche ospite, si nasconde in una tana nel bagno tra la porta e un mobiletto. Resta lì anche per un giorno intero. Altre volte inventa un rifugio nuovo e ci si infila dentro. Per ore e ore nemmeno i padroni di casa riescono a scovarlo. Poi ricompare. L’altro gatto, con atteggiamento del tutto contrastante al suo nome – Belfagor –, lega con tutti, quasi fosse una femmina prodiga di smancerie nei giorni di fregola. Ma è un maschio di molto cresciuto e di splendido pelo: tanta esibita confidenza, credo, non sia una petizione d’affetto, ma baldanza e sicurezza che esibisce con gli umani in forza della sua considerevole stazza. È in effetti un bel gatto dal pelo raso, lucido e nero, di razza etiope. Si è appiccicato al mio fianco e non mostra alcuna intenzione di mollarmi. Mi fa come da scorta in ciascuna stanza in cui mi affaccio. E se mi fermo, monta la guar29
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dia. Cerco una spiegazione a un comportamento che mi sembra insolito in un gatto, animale di cui conosco poco, avendo sempre avuto a che fare, viceversa, con i cani. Se fosse un cane, infatti, certo saprei come trattarlo, come guadagnarmi la sua fiducia con un pezzetto di cibo preso in cucina e una carezza, di cui non sono mai sazi; sempre che scodinzoli vistosamente e non cali invece la coda verso terra in atteggiamento guardingo, postura che manifesta la cautela della bestia pronta ad attaccare chi ha di fronte. Invece sono al cospetto di un gatto irriverente e baldanzoso. Forse sta cercando in me, spero, una compensazione alla momentanea assenza dei padroni. Ma anche questo comportamenteo è tipico dei cani, che soffrono particolarmente quando i loro padroni non ci sono. Non i gatti che sono più legati alle pietre di casa che a chi le abita. Intanto questo qua, sfoderando scintillanti occhi fuxia, struscia e miagola. Che cosa vuole? E mentre sto lì a chiedermelo, spicca un salto sullo scrittoio. Due passi felpati e mette il muso sulle carte lasciate dal professore. Ci sono due libri antichi, certamente gioielli della sua biblioteca, che riguardano l’arte divinatoria coi tarocchi. Ma sono ai margini del tavolo su cui, invece, campeggia un mazzo di carte. Scorgo più da vicino che si tratta di un mazzo di tarocchi Visconti Colleoni. Tarocchi in tutto simili a quelli miniati, in un lasso di tempo che va dal 1441 (anno del matrimonio tra Francesco Sforza, figlio di Filippo Maria duca di Milano, con Bianca Colleoni) e il 1447, anno della morte del duca. Una serie, divisa tra la famiglia Colleoni, l’Accademia Carrara di Bergamo e la Biblioteca Pierpont Morgan di New York, che gli esperti giudicano considerevole dal punto di vista artistico e addirittura eccezionale per la storia delle carte da gioco, essendo la più completa nel suo genere. Ad essa mancano solo tre carte su settantotto: tra gli arcani maggiori il DIAVOLO e la TORRE, tra i minori CAVALIERE DI DENARI. Che trovo, però, poco discoste dal mazzo principale. Eccole qua, le figure mancanti, tratte probabilmente da altre collezioni, opposte ai due libri sui tarocchi. Le sbircio. Tre segnalibri rinviano al significato divinatorio delle tre carte mancanti e sostituite. 30
I tarocchi di una vita fantastica
Non senza inquietudine apprendo che la tradizione assegna, in particolare, all’arcano della TORRE l’interpretazione di Casa di Dio, Casa di Pluto, Casa del Diavolo, tre diversi modi con cui viene anche indicata. L’ultima denominazione desta in me una forte angoscia, che cresce con l’aumentare delle informazioni che traggo dai due volumi. Il DIAVOLO, per cominciare, appare in alcune raccolte con la figura ermafrodita di un uomo-donna-pipistrello, simbolo della conciliazione delle forze terrestri e celesti, orecchi appuntiti come le corna adunche, seni tondi come coppe di vergine; ha un nodoso bastone di forma fallica nella sinistra, la destra aperta mostra il palmo della mano come nel tentativo di carpire l’umana benevolenza. Il suo sesso indefinito si perde in un fitto vello caprino, che lo cinge dal ventre agli zoccoli, i quali poggiano su quella che indubitabilmente è una cassa mortuaria, nel cui anello corre una corda che tiene per il collo altri due démoni. Posti più in basso ai lati del feretro, essi appaiono cinti ciascuno da un indumento vegetale che a stento ne copre i fianchi. Sembrano i capostipiti della progenie umana catturati alla causa del male, che completano con Lucifero come un triangolo che s’oppone alla triade santissima. È la carta che gira intorno all’idea di fatalità, che da qualche ora mi opprime. A cos’altro attribuire, se non a un avvenimento fatale, l’essere giunto a casa di Runcini in quello che era un giorno da lui programmato per un viaggio a Roma? La rassegna di significati che la divinazione conferisce a quell’immagine non è da meno: caduta, disordine, istinto, rabbia (come quella che aveva certamente provato Romolo a vedermi lì, capitato fra i piedi, inaspettato), furore (sentimento cui avrei certamente dato sfogo se l’equivoco non avesse avuto come antagonista il mio professore), passione accecante, mancanza di principi, insofferenza ai consigli. E ancora: schiavitù, malevolenza, caduta, magia nera, violenza. Trauma. Tentazione al male. Autodistruzione. Rovina. Più ancora, disgregamento delle personalità fino alla paralisi, mancanza di principi, immortalità. E tuttavia da tutto ciò resto in qualche misura affascinato. Meglio: soggiogato. Al punto che mi acconcio presto all’idea, costi quel che costi, di continuare la consultazione dell’altra carta mancante nella 31
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collezione Colleoni, e tuttavia non meno presente alla mia attenzione, per essere essa certamente collegata all’arcano del DIAVOLO. Non foss’altro che per il fondale che li tiene in una certa colleganza, un bell’arazzo imbrunito come una porta intarsiata o bronzea, impreziosita di motivi geometrici e floreali. La TORRE è anche detta Città di Dio, dalla quale due giovani belli e di gentile aspetto, vestiti in foggia aristocratica (gli stessi che nella carta precedente sembrano trasformati in angeli del male), sono stati cacciati. E precipitano verticalmente verso un pianoro il cui colore non dà adito all’idea di un tuffo nel mare, ma a un tonfo su una distesa d’erba. Ed, ancora, la TORRE è anche Casa di Pluto o Casa del Diavolo. Il tuffo a testa in giù dei due giovani rappresenta l’idea della caduta dall’Eden di Adamo ed Eva e si accompagna alla visione del fulmine o incendio o moto tellurico che ne decapita il maschio, increpando le mura merlate fino alle tre finestre. Tutto congiura nel suggerire il senso di una rovina, o di un cambiamento improvviso, sia essa una rottura fisica dovuta a un’avversità o catastrofe, sia un’infatuazione o cambiamento drastico: è la carta del crollo di antiche credenze, dell’abbandono di antichi rapporti, della rottura di un’amicizia o di un cambiamento di opinione, che designa anche avvenimenti inattesi: perdita di equilibrio, avvenimento improvviso che distrugge la fiducia, perdita di denaro o protezione, regressione e terribile mutamento. Come evitare di pensare a qualcosa che mi riguarda, che mi coinvolgerà ben presto oltre ogni ragionevole sospetto? Scorro con le dita le pagine del volume, vado a quella in cui si parla del CAVALIERE DI DENARI. L’uomo che appare a cavallo in foggia di mercante d’altri tempi procede fermo in sella, presumendo che qualche oscuro presagio possa allignare sotto una postura così rassicurante, non posso essere io (e la cosa mi conforta non poco, come quando si scopre che una disgrazia ti ha appena sfiorato). Si parla di lui come di un abile organizzatore, fidato, efficiente, sicuro, persona matura e responsabile, metodica, paziente, perseverante e laboriosa, organizzata ed efficiente. No, quella carta di certo non rappresenta me, che non mi sono preso nemmeno la briga di segnare sull’agenda la data esatta 32
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dell’incontro con Runcini (o almeno di chiedere conferma un giorno prima), con questo rischiando di mettere a repentaglio la stima di cui da così poco tempo godo. Torno col pensiero alle parole che mi erano state riferite dal professore all’atto di lasciare la casa. Benché provi in ogni modo ad acconciare le cose in maniera da rendere più confortevole la mia permanenza in quel posto, non mi abbandona la certezza che, lasciandomi l’appartamento, il professore m’abbia raccomandato di studiare “le carte” sulla scrivania. Non è possibile, credo, che si riferisse al mazzo di tarocchi piuttosto che ai libri sull’uso dei tarocchi a scopo divinatorio, ai quali ho desiderio di tornare. Pare che vi siano molti sistemi per leggere e interpretare le carte. Sempre, si dice, il cartomante dovrà porsi in una stanza tranquilla (ma si potrebbe assumere una posizione più tranquilla di quella in una casa su un’isola, abitata solo da due gatti oltre me?), in penombra, riposato e digiuno. Com’io, in fondo, sono. Colui che interroga le carte si occupa di mescolarle, tagliarle e di porgere il mazzo, coperto, al cartomante, posto di fronte, che le leggerà dalla propria posizione. Nel mio caso, essendo solo con un gatto che si limita ad assistere alla scena da una poltrona attigua, dovrò fare da solo entrambe le cose. Le carte vengono lette sia singolarmente, per il loro intrinseco significato, sia in rapporto con le altre carte che le seguono e le precedono. Più che fornire una chiara esposizione del destino, esse servono da catalizzatore che sollecita la sensibilità del cartomante. Apprendo ancora che i sistemi di divinazione sono numerosi. Tra i più importanti ci sono il metodo antico, il metodo degli zingari, il metodo dei sette mucchietti, il metodo astrologico, il metodo reale, la piramide egizia… Torno, allora, al mucchio di tarocchi. Lo mischio a lungo, pensando di disporli secondo qualche schema sul tavolo. Nel tagliarlo, mentre le mani palpano il dorso plastificato come saggiando lo spessore che sommano in gruppo, se ne sfila inavvertitamente una e cade rotolando verso me. Quasi nello stesso momento il gatto abbandona la 33
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poltrona e salta sullo scrittoio, accomodandosi sulle zampe di dietro. Si avvicina come per vedere meglio, in una maniera che avrebbe avuto una gran dama accingendosi ad assistere a uno spettacolo a corte. La mia attenzione torna alla carta che s’era quasi proposta da sola, sfuggendo al mazzo. L’arcano, cioè, che per consuetudine si chiama BAGATINO, o MAGO o RE CARNEVALE, che si presenta nella foggia di uomo medievale intento a squadernare i suoi strumenti sul tavolo. Sono tentato di pensare che si tratti, stavolta sì, di una mia proiezione, curvo come mi trovo in analoga postura. Quasi stessi, davanti a quel rettangolo di carta, a riflettermi in uno specchio incantato.
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