Insolito & Fantastico Nro 10 - Apocalisse giugno 2012

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Alarco Asciuti Bordoni Chiavini Coco De Antonellis de Turris Fassio Frini Gallo Gaut vel Hartman Giorgi Gramantieri Menzinger Oneto Panella Pizzo Runcini

10/2012 I N S O L I T O   &   FA N TA S T I C O

IL MITO DELLA FINE  DEL MONDO

APOCALISSE


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Rivista dell’Insolito e del Fantastico diretta da Carlo Bordoni Anno IV / n. 10 / Giugno 2012 Periodico trimestrale Registrato presso il Tribunale di Chieti al n. 5 del 20 Giugno 2011 Direttore Responsabile: Carlo Bordoni Diffusione e Amministrazione: Via A. Aceto, 18 - 66100 Chieti Tel. 0871.63210 / 0871.561806 Fax 0871.404798 / Cell. 335.6499393 Corrispondenza Diffusione e Amministrazione: rivistaif@yahoo.it Direzione e Redazione: direzioneif@hotmail.com Internet: http//www.insolitoefantastico.blogspot.com Collaborazioni La collaborazione a IF è gratuita e aperta a tutti. Le proposte vanno inviate in formato digitale (Word 97-2003, Times New Roman 10) e indirizzate a: direzioneif@hotmail.com La direzione si riserva di pubblicare il materiale pervenuto a suo insindacabile giudizio. Abbonamenti Abbonamento a quattro numeri:€€ 30,00 (con volume dono) Una copia€€ 8,00 / Copie di numeri arretrati: € 10,00 Per acquisti e abbonamenti: versamento sul c/c postale 68903921 o bancario: IBAN: IT35 H076 0115 5000 00068903921, intestato a Gruppo Editoriale Tabula Fati oppure con Postepay n. 4023600576670477 intestato a M. Solfanelli oppure con PayPal all’indirizzo: direzioneif@hotmail.com Librerie dove trovare la rivista: http//www.insolitoefantastico.blogspot.com/2009/01/librerie.html In copertina: “The Final Storm” Copyright © 2012 Franco Brambilla Logo di “IF”: grafica di Piero Orsi Copyright © 2012 Gruppo Editoriale Tabula Fati. Tutti i diritti riservati Finito di stampare nel mese di Giugno 2012 presso la Universal Book di Rende (CS)


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SOMMARIO  10/2012 EDITORIALE L’Apocalisse rinviata sine die

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SAGGI Romolo Runcini, L’Apocalisse annunciata Giuseppe Panella, Dopo di me il diluvio Marco Lauri, Not with a Bang Annamaria Fassio, Sarà un futuro d’inferno? Carlo Menzinger, Grigie distopie Claudio Asciuti, Pikadon. Emergenze nucleari in Giappone Da Hiroshima a Fukushima (C.B.) Domenico Gallo,Tecnologia, Apocalisse e fantascienza Riccardo Gramantieri, Alla fine dell’uomo, il vuoto Gianfranco de Turris, La sindrome della fine del mondo Roberto Chiavini & G. F. Pizzo, La fine del mondo dal libro al film Carlo Bordoni, Complotti d’autore

5 13 23 29 34 37 42 45 50 57 63 67

NARRATIVA Sergio Gaut vel Hartman, Correzioni nella trama del tempo Daniel Frini, Il segreto Adriana Alarco De Zadra, Il viandante malridotto Gianandrea De Antonellis, Mille e non più mille Andrea Coco, Il giorno dopo...

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L’INTERVISTA Annamaria Fassio, Il fantastico mondo di Fausto Oneto

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RASSEGNE Piero Giorgi, Gli alieni nella narrativa di Jack Williamson (2) Terra bruciata per Annamaria Fassio Carlo Bordoni, Il romanzo dell’età industriale Addio a Curtoni, grande editor della SF italiana

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VISTI & LETTI Vetrina della fantascienza (R. Gramantieri) 108; Viaggio nel Multiversum (C. Bordoni) 114; Lezioni di libertà (G. Panella) 115; Valvole e bio-organismi (R. G.) 117; Metro 2033 sbarca in Italia (V. Tripi) 118; L’amore felice di Ceronetti (R. Pestriniero) 121; Dream a little dream of me (R. Donati) 123; Vatikan connection 124; Italici mondi oltre la soglia (G. de Turris) 125; Il ritmo del noir e la tentazione del futuro (G. Panella) 127.


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EDITORIALE

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F non poteva lasciar passare il 2012 senza dedicare un numero monografico al tema dell’ Apocalisse: annunciata con grande battage mediatico, sulla scorta delle previsioni del calendario Maya, la profezia funesta si è gradualmente affievolita a mano a mano che la data fatidica si è andata avvicinando. Tanto che adesso non se ne parla quasi più. I preparativi sono sospesi; le trombe del giudizio tacciono e i profeti di sventura rimuginano in silenzio su questo ennesimo rinvio sine die della fine del mondo. Il tutto secondo una prassi ormai abituale di precarietà e incertezza del futuro. Apocalisse auspicata, temuta, immaginata? Indubbiamente entrata nell’immaginario sociale da quando, in quel lontano approssimarsi dell’anno Mille, il mondo fu travolto da un terrore irrazionale. La paura ci ha sempre accompagnato lungo il nostro cammino, e anche adesso, a oltre mille anni di distanza da quell’evento, ne siamo affascinati. Eppure è evidente che le catastrofi, che con sempre maggiore frequenza colpiscono la Terra, sono per lo più dovute all’uomo e dalla sua incapacità di rispettare la Natura. In questo numero 10 l’immaginario apocalittico è stato

coniugato in tutte le dimensioni, fornendo un panorama quasi completo delle paure umane. IF intanto prepara ai suoi lettori una sorpresa per il prossimo numero. Un numero speciale dedicato al “Mainstream”, il termine col quale viene indicata dagli addetti ai lavori la grande Letteratura. Accoglierà una nutrita serie di interventi qualificati sulle contaminazioni tra la narrativa di genere – fantastico, poliziesco e fantascienza – e la letteratura italiana ufficiale. Due mondi che di solito non dialogano fra loro, che hanno solo rari e casuali punti di contatto. Diversi e sfaccettati gli interventi di questa occasione che non ha precedenti: dalle letture di testi di scrittori paludati alle analisi puntuali del fantastico di docenti universitari. Non solo Calvino, Bontempelli, Buzzati, Landolfi, Morselli, ma anche Alvaro, Bacchelli, Bassani, Palazzeschi, Fenoglio, Levi, Malaparte, Ortese, Soldati, Volponi e altri. Insomma, una straordinaria occasione di confronto e di riflessione critica che consentirà di rispondere alla domanda che ci sta più a cuore:il futuro della letteratura ufficiale sta nella narrativa di genere? Buona lettura!

L’Apocalisse rinviata sine die


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A’ BBONAMENTOA

Il meglio dell’Insolito e del Fantastico nell’unica rivista critica del settore Quattro numeri in abbonamento € 30 Versamenti sul c/c/postale n. 68903921 intestato a Gruppo Editoriale Tabula Fati Ai nuovi abbonati in omaggio il romanzo di Carlo Bordoni, In nome del padre (Baroni, 2001)

La “Micromega” della fantascienza italiana...


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SAGGI

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Romolo Runcini

L’APOCALISSE ANNUNCIATA

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pocalisse ora. Che fare? La paura apocalittica non ci commuove più ormai come monito spirituale per la decadenza della condizione umana, come ipotesi laica di un prossimo giudizio finale, non è una voce lontana ma vicina: è la minaccia diretta della specie ai tre livelli del nucleare, del tecnologico e dell’ecosistema ambientale. Dall’Apocalisse annunciata siamo passati all’Apocalisse vissuta. La referenzialità della minaccia finale del piano evocativo dell’assunto ontologico a quello mondano della situazione esistenziale ha comportato un drastico spostamento di senso in tutta la sfera dello scibile e dell’agire umano. Caduta la vertigine interiore dell’angoscia per il peccato originale, quel senso di colpa che spingeva i fedeli a prender coscienza della propria finitudine e miseria e quindi a impegnarsi moralmente e socialmente quali soggetti responsabili verso un auspicabile bene comune, al suo posto si è insinuata una vertigine affatto diversa, psichicamente anomala, una paura proiettata fuori di sé, in una realtà senza tempo manipolata

dall’uomo tecnologico, in questo universo della precisione dove azioni e sentimenti vengono calibrati sulle funzioni di una macchina prodigiosa e pericolosa al servizio del potere economico e politico. Volendo tracciare le linee di una problematica comune alle apocalissi del nostro quotidiano un filosofo tedesco – allievo di M. Heidegger e R. Bultmann, dunque intrinseco al discorso ontologico – Hans Jonas, afferma l’esigenza di un’analisi dettagliata delle componenti intenzionali e assertive della coscienza e degli aspetti culturali che assumono in presenza dell’ultimatum esistenziale: l’essere e il dover essere, la causa e lo scopo, la natura e il valore sospinti fra utopia e disopia, slancio vitale e riflessione. Comprendendo come solo attraverso un’euristica della paura (quale egli definisce la ricerca e messa a punto dei motivi e degli effetti dell’attuale stato fobico) sia possibile affrontare direttamente il problema reale della minaccia planetaria Jonas configura l’opportunità di centrare il fulcro di questa cruciale esperienza sul concetto di responsabilità.


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6 Carlo Carrà, Cavalieri dell’Apocalisse (1908). Sotto: Albrecht Dürer, I quattro cavalieri dell’Apocalisse (1498). Nella pagina precedente:: Hieronymus Bosch, Trittico del giudizio universale (1482).

«Pur non essendo certo un fenomeno nuovo in ambito morale – egli dichiara – la responsabilità non ha mai avuto un tale oggetto e finora anche la teoria etica se ne è occupata poco. Sia il sapere che il potere erano troppo limitati per includere il futuro più lontano nelle previsioni e addirittura il globo terrestre nella coscienza della propria casualità. Anziché interrogarsi oziosamente sulle remote conseguenze in un destino ignoto, l’etica si è concentrata sulla qualità morale dell’atto momentaneo stesso, nel quale il diritto del prossimo che condivide la nostra stessa sorte ha da essere rispettato. Nel segno della tecnologia però l’etica ha a che vedere con azioni (sia pure non più del soggetto singolo) che hanno una portata causale senza uguali, accompagnate da una conoscenza del futuro che, per quanto incompleta, va egualmente al di là di ogni sapere precedente. A ciò si aggiunge la scala delle conseguenze a lungo termine e spesso anche la loro irreversibilità. Tutto ciò pone la responsabilità al centro dell’etica, con orizzonti temporali e spaziali corrispondenti appunto a quelli delle azioni».1 È comprensibile dunque come, di fronte a un mondo sempre più complesso, articolato, eterodiretto e pertanto suscettibile di sconvolgimenti catastrofici, più che la paura quale Disagio della civiltà (Freud, 1929) gli odierni apocalittici puntino sul terrore personale e collettivo di un evento spaventoso: la distruzione totale dell’umanità, e nel caso di sopravvivenza del nucleare, il ritorno

improvviso alle barbarie. Ciò che stupisce invece è che, dopo aver delineato con acribia scientifica la serie di problemi concernenti la struttura attuale delle società a industrialismo avanzato (dalla dinamica degli sviluppi tecnologici al computo delle probabilità nelle grandi imprese ‘azzardate’ sul territorio; dal prolungamento della vita alla manipolazione genetica; dalle teorie della previsione all’arte di governo fra democrazia e totalitarismo) Jonas propende a far confluire il suo concetto di responsabilità – quale difesa comune della specie – nell’opportunità di appellarsi, al dovere verso la discendenza propria e altrui, cioè di ritenere la famiglia come un modello solidaristico universale. Ma la famiglia nucleare – sorta in età moderna, sulle ceneri della grande famiglia medievale dinastica/clanista e del suo solidarismo aristocratico/contadino confluito poi nel possesso della proprietà borghese – non ci era stata indicata (da psichiatri, filosofi e sociologi quali R. D. Laing, D. Cooper, H. Marcuse, E. Goffman, A. Mitscherlich) come un focolaio di autoritarismo e repressione riprodotto in tutte le strutture sociali, dalla Scuola alla Chiesa, dall’Ufficio al Partito, dall’Esercito all’Ospedale? Questa rinascita della famiglia, dopo la morte dichiarata nei tempi non lontani dell’attacco frontale alle istituzioni borghesi, ci rende perplessi sul genere di virtù e sul ruolo che Jonas intende attribuire all’individuo appena uscito dalla sua cuccia naturale di egotismo. Del resto sul-


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l’impossibilità di ricostruire oggi l’avventura personale dell’io nelle sue antiche dimore culturali e ambientali anche solo sul piano della scrittura, F. Mauriac, non certo sospetto di posizioni “collettivistiche”, dichiara all’inizio della sua biografia: «Conoscersi e descriversi come Benjamin Constant e Stendhal si sono conosciuti e descritti tutto ciò non ci è più richiesto. Non siamo più invitati a questo viaggio attorno a noi stessi».2

La scomparsa del soggetto come attore sociale non consente dunque alcun ritorno sulle sue ‘idilliche’ origini patriarcali, come il movimento studentesco e quello femminista hanno fortemente evidenziato. Da un tale punto di vista la società di massa, se non altro, ha smascherato gli idealismi di ogni sorta (da Hegel a Croce) intesi ad accreditare verità fondate sulla edificazione dell’io e delle sue virtù sapienzali. Nel versante negativo del ruolo sociale del soggetto R. Aron, politologo e avversario leale del marxismo, aveva già affrontato la paura apocalittica con la proposta di uno «scetticismo ideologico» misurato sul vecchio, eterno principio della balance of power fra le grandi nazioni e aggiornato al quadro del duopolio USA-URSS. Invocando il buon senso individuale e collettivo, piuttosto che furori drammatici o impegni morali, Aron – il quale sottolinea anche i vantaggi economici dei popoli sconfitti nella Seconda guerra mondiale che hanno convissuto, senza far fronte a ingenti spese militari, sotto l’ombrello atomico – presenta quella sua proposta come un possibile (forse l’unico) mezzo per conseguire una pace duratura. «Lo scetticismo ideologico – sostiene lo studioso francese – è parzialmente simile allo scetticismo religioso: la salvezza temporale dipende meno dal fatto che la chiesa sia liberale o dirigista che non dagli elementi comuni a tutti i dogmi e a tutte le pratiche. Ma lo scetticismo ideologico giunge al punto di dubitare della possibilità stessa di un ordine esemplare, mentre i veri cristiani non hanno mai messo in dubbio né la rivelazione né l’in-


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8 Viktor Vasnetsov, Apocalypse (1887)

carnazione né i sacramenti. Niente crociate dove la fede incondizionata dove ciò che è preferibile non può essere certo e dove l’obiettivo non può essere perfetto: queste sarebbero le radici morali dell’istituzione pacifica».3 Sotto questo profilo di contenuta accettazione della minaccia nucleare sub specie aeternitatis – che rifletteva lo spirito più razionale della “guerra fredda” – il processo di secolarizzazione del mondo avrebbe dunque non soltanto causato la fine dei vecchi valori dogmatici, e quindi la dilapidazione delle certezze, ma anche promosso valori nuovi, più tolleranti, vincolati alla complessità degli odierni sistemi sociali. Ben lungi dal considerare la gara degli armamenti nella tregua del terrore come un male accettabile un altro filosofo tedesco, G. Anders (allievo di Husserl, ripudiato poi quale studioso da Heidegger per gli interessi troppo ‘pratici’ della sua speculazione) aveva messo a fuoco già nel 1956 la fenomenologia apocalittica come un evento storico culturalmente sottovalutato e fuorviante. La paura a cui siamo stati abituati da secoli di fronte ad un grave pericolo incombente è stata fin qui una paura individuale e di gruppo (la propria morte, la peste o il massacro bellico), ma il pericolo per l’uomo non ha mai assunto le proporzioni collettive dell’attuale minaccia planetaria. Nondimeno la nostra paura continua ad avere gli stessi toni smorzati o possibilisti dei timori e dei tremori del passato: sotto l’incubo degli “inferni” della cultura borghese da Strindberg a Kafka,

da Kierkegaard a Heidegger la nostra rassegnazione alla perdita del futuro permane ancora “letteraria”. Considerando quanto profondamente il concetto heideggeriano dell’”essere per la morte” abbia influenzato in un senso tutto astratto, astorico, e in funzione di stretta osservanza individualistica, l’orizzonte del nuovo pensiero apocalittico Anders sostiene l’importanza di una ripresa del sentimento di sé e del mondo come l’unico fattore attivo di un rapporto interlocutorio fra il soggetto e il suo ambiente minacciato. Così nel saggio La bomba e la nostra cecità all’Apocalisse lamentando la mancanza di una “storia dei sentimenti” – il cui vuoto ha reso possibile l’arroganza dell’uomo prometeico che ha sostituito il senso di colpa con la fede nel progresso – Anders afferma: «Con ciò non si vuol certo proporre una riabilitazione artificiale della paura dell’Apocalisse e dell’Inferno. Ciò che voglio dire è soltanto che erano state l’aspettativa del Giudizio che avevano insegnato la paura dell’uomo; e che questa paura del tormento smisurato che si doveva aspettare superava qualsiasi paura “di questo mondo” che possiamo provare per questo o quel pericolo, compresa la nostra morte; e che assomigliava alla paura che oggi sarebbe necessaria senza


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confronto più che tutto ciò che possiamo avere sopportato sotto governi del terrore o sotto bombardamenti a tappeto».4 Si auspica dunque un ritorno al trauma fideistico del peccato originale? Anders sa bene che il nostro mondo secolarizzato non lo consentirebbe, sicché l’analogia che sostiene fra le paure dell’inferno e lo shock necessario a fronteggiare oggi una minaccia planetaria reale serve a porre il problema apocalittico odierno in tutta la sua tragica prospettiva di evento catastrofico ed immediato contro l’indifferenza diffusa o puntualizzata su consensi e compromessi o contro inutili impegni morali e religiosi. A questo punto possiamo dire che il nostro ingresso nella modernità ci ha condotto sotterraneamente alla vera, traumatica consapevolezza del nuovo stato della condizione umana, non più rinviabile al destino di un futuro individuale ma minacciosamente allerta nel nostro presente collettivo: è il passaggio dalla paura dell’ignoto alla paura del noto. Con Anders si profila l’auspicio del ritorno di una sensibilità viva del reale che comporti la presa di coscienza diretta della nostra condizione di morituri senza infingimenti e manipolazioni. È un atto di fede nell’uomo che sappia cogliere il valore di un destino più ampio delle singole avventure personali, che avverta con questo laico senso

di colpa il bisogno di tendere verso un mondo migliore, colmo di passione e di speranza. L’accentuazione dell’intensità della paura – «un’angoscia senza paura», «vivificante», «amante», secondo le accorate espressioni andersiane – rimette in circolo sull’idea di Apocalisse «definizioni ad un impegno civile capace di porsi autonomi obiettivi etico-politici».5 In questa prospettiva di urtante concretezza e di autentica disperazione morale, che ogni discorso sull’odierna Apocalisse – vissuta in prima persona – non può tacere, il filosofo tedesco ha di recente dichiarato la pericolosità di ogni atteggiamento di “pazienza”, nonché la fine di ogni illusoria considerazione sul carattere “relativamente inoffensivo” degli schieramenti politico-militari attuali. «Di “relativa inoffensività” non si può più parlare; il nostro tempo si è fatto inequivocabilmente chiaro. La caratteristica della situazione odierna infatti consiste in questo – che la tecnica, dunque anche la tecnica nucleare, con tutte le sue conseguenze politiche e militari è diventata universale, che non esiste più esclusività che tutti sono nel “Club”, tutti possono ricattare tutti ed effettivamente, con il loro potere, lo fanno senza tregua. Dal punto di vista della filosofia della storia ciò significa: non è vero che oggi esista, tra l’altro, anche la tecnica di produzione delle armi atomiche e la tattica della minaccia totale che si effettua con esse: vero è al contrario che questa tecnica e i suoi prodotti e il ricatto continuamente esercitato dal solo fatto di possederli, è il medium all’interno del quale


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si svolge la storia».6 A questo confronto con la fine della storia – che oggi di fatto significa la fine del mondo – non si può dunque arrivare con la calma razionalità della compromissione, con il consenso tacito di una delega al buon credito dei potenti e all’efficientismo degli esperti, né certamente con un impegno di responsabilità personale generalizzato al di sopra di ogni reale situazione storica. Ciò che sostiene Anders nella sua drammatica riflessione sulla paura apocalittica è la volontà di ricerca di una motivazione profonda che investa l’uomo di una nuova, più libera voglia di vivere, sconfessando la sua attuale condizione di soggetto intercambiabile nelle sue funzioni richieste dalle tabelle di marcia dell’apparato produttivistico, vero e proprio oggetto omologabile ai valori merceologici prefissati dai mass media per contro dell’industria. Questo grido di allarme riprende senz’altro quel “principio-speranza” invocato da Ernst Bloch come atto liberatorio dall’assuefazione alle certezze e comodità del quotidiano, spinta naturale a raggiungere il “non ancora”, il mondo del possibile, sentimento individuale e collettivo che, attingendo alla sfera dei bisogni e a quella dei desideri, va oltre la contrattazione

razionale delle opportunità e delle sicurezze offerte da ogni tipo di regime coercitivo, per conseguire nella piena dignità della persona il giusto diritto alla vita. Mentre, come sappiamo, l’idea della pace sociale posta all’inizio della storia sottintende la difesa a oltranza dello status quo, quell’idea prospettata alla fine della storia reclama la volontà e le energie necessarie a conseguirla. Si è dunque per l’ordine delle premesse e attese sociali tanto sul piano reazionario che rivoluzionario: ciò che distingue i due piani è il problema dei tempi di sviluppo. Nondimeno, allo stato attuale della caduta delle ideologie e dei relativi sistemi totalitari, lo stesso progetto di una politica democratica di riforme sociali e economiche non può passare certo per un consenso guidato sulle situazioni di fatto. Di qui la necessità – in presenza di una situazione tanto abnorme come quella derivata dalla minaccia atomica – di non accettare l’esistente con rassegnazione, con distacco elitario o tacito opportunismo; e il dovere di non assuefarsi alle piccole conquiste ‘democratiche’ predisposte a favorirci un riservato Paese di Bengodi (mentre l’altra parte del mondo muore di fame), dal momento che il sistema di potere


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11 El Greco, The opening of the fifth seal (1614). A sinistra: Pieter Bruegel il Vecchio, Il trionfo della morte (1562). A pag. 12: Peter Weiss, Apocalisse (1945).

(economico, politico, militare) delle nostre società tecnologicamente avanzate ci induce, proprio sotto l’egida della ‘bomba’, a entrare nel mondo dei sogni merceologici pretendendo il possesso delle nostre identità sociali e culturali (50).7 Insomma mentre l’Apocalisse annunciata poteva coniugare insieme, attraverso il messaggio religioso, lo spazio personale e quello sociale nel comune ammonimento della prossima fine di un mondo perverso e oppressivo, in vista di un “mirabile mondo nuovo”, l’Apocalisse vissuta diventa per noi una testimonianza visibile della corruzione e dei disastri perpetrati dallo sviluppo capitalistico e industriale – in modi di produzione non più selvaggi, sporadici, ma razionalmente progettati e programmati – e di conseguenza rivela uno scollamento tra il personale e il sociale ufficialmente conclamato. In tal modo non sarà difficile osservare anche sul piano linguistico la progressiva perdita di senso del termine “apocalisse”, che oggi può servire per connotare una battaglia cruenta, una strage di

mafia, una sconfitta elettorale, una rissa da taverna, un crollo in Borsa, una frana edilizia, lo scoppio di un incendio o il pestare per strada un escremento di cane. La fine del principio di verità è scoccata ormai nell’atto mondano (secolare) di risemantizzazione del linguaggio in un orizzonte culturale che ha derubricato il sacro da elusivo appannaggio di Chiese e fedi istituzionalizzate. Sacro e profano, oggi, non sono più termini distinti – l’assoluto e il relativo – ma contigui, contingenti. Se ci renderemo conto che la degradazione semantica di una parola, “apocalisse”, moralmente tanto pregnante adombra (ben più del fatale consumo cui è, come tutte le parole, storicamente soggetta) la vigile gestione di potere delle classi dominanti negli stati totalitari o democratici, potremo forse ancora salvarci, salvare il mondo, restituendole la portata di messaggio profondo dei mali presenti e futuri, assumendone la valenza di appello personale e sociale alla conquista di una più giusta condizione umana. Naturalmente il conferimento di un significato storicamente accertabile e culturalmente importante a una parola come ‘Apocalisse’ rimanda alla necessità di riqualificare tutte le parole-chiave che fissano la sorte di destini individuali e collettivi. Ora, il vero ritorno machiavellico “al segno”


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deve esigere – come si è visto per altre parole messe qui in discussione: immaginario, fantastico, fiabesco, utopico – un profilo lessicale corretto dei termini assunti insieme alla portata degli effetti sociali provocati al momento del loro impatto con la Storia. Nondimeno quelle parole possono anche essere classificate, per il loro diretto, concreto inserirsi negli interstizi del vissuto quotidiano, come altrettante vie maestre di analisi testuale e di accesso empatico alle inquietudini e ai piaceri del mondo dell’arte poiché esse, da sempre, si manifestano a noi come “abissi del reale”. NOTE 1 H. Jonas, Il principio di responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino 1990, p. XXVIII. 2 F. Mauriac, Mémoires interieurs, Flammarion, Paris 1959, p. 8. 3 R. Aron, Pace e Guerra tra le nazioni, Comunità, Milano 1963, p. 275. 4 G. Anders, L’uomo è antiquato, Il Saggiatore, Milano 1963. 5 L. Cortesi, “Democrazia e lotta per la pace. Un epilogo interlocutorio”, in Democrazia, rischio nucleare, movimenti per la pace, Liguori, Napoli 1989, pp. 307-8. Ma su questa tematica v., sempre di Cortesi, Storia e catastrofe. Considerazioni sul rischio nucleare, Liguori, Napoli 1984.

G. Anders, “Hiroshima è dappertutto” (1982) in Discorso sulle tre guerre mondiali, Linea d’ombra, Milano 1990, pp. 95-6. Storicamente la Seconda guerra d’Iraq, preparata e accesa dal Presidente George W. Bush sulla falsa pista (chiaramente falsa) dell’esistenza, in quel Paese, d’armi di “distruzione di massa”, sta lì a dimostrarlo. Il caso della distruzione delle due “torri gemelle” di New York sembra dar credito a un piano predisposto per un casus belli necessario alla licenza di “guerra” infinita contro il terrorismo internazionale. Un modo semplice a redditizio per trasformare un capitalismo in difficoltà in una organica, disciplinata economia industriale di modello militare. Cap. VI. 7 Sul carattere ideologico e antropologico della profonda crisi apocalittica del nostro tempo v. U. Eco, Apocalittici e integrati, Bompiani, Milano 1964; H. Marcuse, La fine dell’utopia, Laterza, Bari 1968; E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino 1977; E. Calducci, Il terzo millennio, Bompiani, Milano 1981; R. Runcini, I cavalieri della paura, cit., 1989; I. Fest, Il sogno distrutto. La fine dell’età delle utopie, Garzanti, Milano 1992; M. I. Macioti (a cura di), Attese apocalittiche alle soglie del Millennio, Liguori, Napoli 1996; S. Foglia, Sogni e incubi della fine del mondo, Piemme, Casal Monferrato 1997; P. Barcellona, R. De Giorni, S. Natali, Fine della Storia e Mondo come sistema, Dedalo, Bari 2005. 6


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Giuseppe Panella

DOPO DI ME IL DILUVIO Figure dell’Apocalisse nella narrativa italiana del Novecento «E vidi un altro angelo, forte, scendere dal cielo, avvolto in una nube; l’arcobaleno era sul suo capo, la sua faccia era come il sole, le sue gambe come colonne di fuoco, nella sua mano aveva il libriccino aperto. Pose il piede destro sul mare, e il sinistro sulla terra, e gridò a gran voce, come un leone ruggente; e quando ebbe gridato, i sette tuoni emisero le loro voci. Quando i sette tuoni ebbero fatto udire le loro voci, stavo per scrivere; ma udii una voce dal cielo che diceva: “Tieni segreto ciò che hanno detto i sette tuoni! Non scriverlo”» (Apocalisse di Giovanni, 10)

1. Last Man Standing ella letteratura italiana l’idea di descrizione dell’Apocalisse urbana o delle catastrofi sociali e naturali frutto dell’opera umana non è praticamente presente. Se avvenimenti naturali di gravissima entità e fortemente distruttivi per gli esseri umani sono stati messi in scena in alcuni testi di nobile ascendenza nell’Ottocento letterario (la peste nei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, l’eruzione dei vulcani nel Dialogo della Natura e di un Islandese nelle Operette Morali e in La Ginestra di Giacomo Leopardi), la rappresentazione della catastrofe per eccellenza, la distruzione e l’annichilimento dell’umanità, sono quasi totalmente assenti dalla letteratura italiana del Novecento. Resiste, isolata1, la straordinaria eccezione costituita da Guido Morselli che, di conseguenza, merita una seria analisi critica e una ricostruzione tematica che ne ripercorra la straordinaria prospettiva letteraria. «Al protagonista di Dissipatio H. G. (dove H. G. sta per humani generis, mentre il primo

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termine ha una doppia valenza, l’una morale di ‘dissipazione’ e l’altra materiale di ‘dissolvimento’) la sorte riserva una disavventura decisamente singolare: dopo avere tentato invano il suicidio in una notte tempestosa, il mattino seguente scopre che, quasi per una sorta di contrappasso, sono tutti gli altri uomini a essere venuti meno, né vi sono cadaveri in giro o altri segni di decesso collettivo – semplicemente, gli altri non ci sono più. Solitudine assoluta e silenzio assordante sono i caratteri salienti della indecifrabile dimensione in cui quest’uomo si è venuto a trovare, e il mistero non è ridimensionato anzi è reso più fitto, dal fatto che la natura, flora e fauna, continui a vivere come se niente fosse accaduto; così come è assai straniante la persistenza rumorosa di macchine o congegni vari di produzione umana (ventilatori, semafori, impianti elettrici) che continuano imperterriti a funzionare a vuoto»2. La situazione di per sé risulta fin dal principio palesemente assurda e straniata dato che la “dissipazione” del mondo riguarda – come si è visto – soltanto gli uomini e non già gli altri esseri viventi (animali e vegetali) o gli oggetti inanimati. L’Apocalisse descritta nel libro, dunque, non solo viene narrata in prima persona (e in questo non ci sarebbe nulla di strano o da eccepire dato che si tratta di una pratica di scrittura rientra nella migliore tradizione fantascientifica da Herbert George Wells e la sua Guerra dei mondi in poi) ma riguarda esclusivamente la singolarità di chi racconta. L’apocalitticità dell’evento, di conseguenza, sembra riguardare soltanto il protagonista che


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scrive, non i luoghi abitati, la natura circostante e tutto ciò che tecnicamente è indispensabile per mantenere in vita i conglomerati urbani, anche poco estesi e rilevanti come quelli in cui vive l’Io protagonista assoluto della vicenda. Di conseguenza, viene spontaneo chiedersi se quanto accade nella storia narrata da Morselli riguardi soltanto il protagonista come tale (e cioè si svolga esclusivamente nella sua mente) oppure contenga un riscontro oggettivo in termini “realistici” (sia pure spesso mantenuti vaghi e non esplicitati). Il fatto è, comunque, è che lo stile adottato dallo scrittore è decisamente virato in senso realistico ma la situazione è fortemente orientata a coprire aree tipiche del fantastico più classico3. L’uso di un linguaggio piano e realistico non impedisce la presentazione di situazioni tipicamente fantascientifiche come l’ucronia che costituisce la sostanza narrativa di Contropassato prossimo. E’ vero che il protagonista del romanzo ad un certo punto dichiara: «Contro questa inspiegabilità non faccio tentativi. Non ho velleità di scienza; nemmeno, lo noto a mio onore, di fantascienza. Non ho pensato a un genicidio a mezzo di raggi-dellamorte, a epidemie sparse sulla Terra da Venuscoli malvagi, a nubi nucleari da remote esplosioni. Ho sentito subito che l’Evento non può ridursi alle consuete misure. Scire nefas. Aggiungo: ridere licet, visto che io (io) sono lo Spettatore»4 ma questo non è ovviamente determinante. Il rapporto con la narrativa di anticipazione permane ed è solido. Non si tratta tanto di un recupero della letteratura di genere quanto di

una situazione tipica di essa che viene riletta in termini non certo avventurosi quanto psicologici e speculativi. Dissipatio H. G. resta un romanzo apocalittico anche se circoscritto ai desideri e alla prospettiva di un uomo solo in crisi con il mondo (aveva deciso di suicidarsi in un modo poi molto elaborato) e in fuga dalle proprie responsabilità umane (lo testimoniano i racconti che fa relativi ai suoi rapporti con le donne con cui è venuto in rapporto nella sua vita5). Ne consegue che la “vaporizzazione” del genere umano che viene raccontata potrebbe essere soltanto un’aspirazione o un “ideale regolativo” rispetto alla prospettiva di vita di chi la descrive. Nel corso delle vicende che seguono la fatidica notte tra il 1 e il 2 giugno6, il Narratore diventa l’unico abitante della Terra e l’unico spettatore delle vicende che vi si svolgono. Ma questo non lo porta a compiere azioni eclatanti né a cercare di condizionare in qualsiasi modo il corso degli eventi. La sua vita e le sue abitudini – secondo le sue esplicite dichiarazioni a futura memoria – restano grosso modo le stesse di quando la Terra era popolata dal genere umano, eppure egli si sente (nietzscheanamente, forse) “l’ultimo uomo” di cui profetizza liricamente Zarathustra: «Quello che mi pare sicuro è che io, come uomo, sono finito. La mia non è un’esistenza larvale. Non sono uno spettro che beve cognac Dos Hermanos o un cadavere che fuma tabacco Capitan (Navy Cut) in una pipa, ma non sono più me stesso, nemmeno quel poco che ero. Sopravvivo grazie a non si sa quale


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15 Guido Morselli (1912-1973)

artificio. In una campana pneumatica, o sotto una tenda a ossigeno. Privato della mia identità e, per colmo di stranezza, capace di ricordarmela. E è altrettanto sicuro che sono fuori del tempo. Ne ho una conferma perentoria: non mi si presenta il problema, che prevedevo e paventavo, del tempo-libero. Problema coevo all’umanità e suo, verosimile, peccato originale, chiedersi: e dopo, che cosa farò? – Io non me lo chiedo. Sto scoprendo che l’eterno, per me che lo guardo da un’orbita di parcheggio, è la permanenza del provvisorio»7. Se il transitorio, ciò che fuggevolmente passa e non si radica nel tempo, ciò che non può sussistere permanentemente perché non è fatto per questo, costituiscono la sostanza di fatto dell’Eternità, allora l’Apocalisse è a sua volta permanente e non casuale. Esso costituisce la condizione naturale dell’esistenza e non soltanto un suo momento occasionale e accaduto senza spiegazione apparente. Quali siano le ragioni, poi, dell’Evento catastrofico definitivo nessuno è in grado di spiegarlo se non chi ha voluto scatenarlo. Ma chi sia costui non è certo dato saperlo mai. « […] Hegel ha sognato una realtà in sé e per sé, io sognavo una realtà con me e per me. Dove gli altri non hanno luogo, perché non ci sono. Con un’ulteriore differenza rispetto a Hegel e ai romantici, che quelli, non si sa a che scopo, identificavano il reale col Soggetto, io lo volevo nella sua perfetta oggettività. Mio, però, esclusivamente mio. Allo stadio finale di una contemplazione abbastanza perversa, riuscivo a persuadermi per davvero di essere solo. Solo nel mondo»8.

Solo nel mondo: in attesa di una fine che non è ancora arrivata definitivamente e che forse non arriverà mai perché (come sostiene il professor Mylius, uno degli interlocutori del Narratore in una discussione verificatasi prima dell’Evento) gli uomini forse sono già morti (almeno in parte) e la loro vita è un continuo spegnersi in attesa della sua conclusione. 2. Alan D. Altieri, ingegnere dell’Apocalisse Il romanzo di Morselli è uscito postumo (come, d’altronde, tutta la sua precedente produzione) ed è stato scritto negli ultimi mesi di vita dello scrittore, prima del suicidio avvenuto nel 1973. La sua totale mancanza di retorica e di forme di espressività barocca (che di solito contraddistinguono la scrittura dell’Apocalisse) come pure la sua malinconica conclusione che, però, non esclude una punta acuminata di volontà di resistenza da parte del protagonista nei confronti di ciò che egli chiama l’Evento ne fanno un’opera di assoluta originalità nel contesto italiano, una sorta di unicum anche nella produzione di Morselli, distaccata dal mondo letterario e schiva da ogni volontà di entrarvi ad ogni costo. La sua ricostruzione della fine del mondo è fatta di piccoli avvenimenti narrati con cura ma senza enfatizzazioni, di momenti apparentemente lontani dalle catastrofi tradizionalmente intese, di scelte e di confronti mai definitivi ma sempre fondati su un convinto scetticismo psicologico (più che direttamente e marcatamente filosofico) di fondo. Diverso è il caso dei romanzi e dei racconti del “maestro italiano dell’Apocalisse”.


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Le scelte narrative di Altieri, pur somiglianti a quelle di Morselli per quanto riguarda il punto di partenza apocalittico (di solito un mondo desolato perché sull’orlo del baratro di una distruzione dilacerante e ossessivamente evocata ad opera di entità non sempre bene specificate dal punto di vista sociale e psicologico), sono state molto diverse rispetto a quelle dello scrittore “postumo”. Alan D. Altieri (che, in realtà, si chiama Sergio) ed è milanese (anche se con lontane ascendenze emiliane) è un ingegnere meccanico per gli studi universitari che ha fatto. Ignoro se abbia mai esercitato la professione per cui si è formato accademicamente. Fatto sta, tuttavia, che le sue storie e la sua scrittura, lirica ed esasperata soprattutto nei momenti in cui vengono descritte vicende di una violenza insistita e coinvolgente, risentono di quel suo passato di studi scientifici e mostrano una miscelazione del tutto originale dei “due saperi” (come di diceva una volta sulla scia di un fortunato pamphlet di C. P. Snow9) a livello di stile utilizzato e di articolazione del testo scritto. Ma non è soltanto questa l’unica peculiarità della sua opera letteraria. Altieri (come peraltro lo era stato Morselli) costituisce, a suo modo, un’eccezione (anche se nel panorama della letteratura di genere). Con pochissimi scarti e poche alternative rispetto al suo paradigma fantastico di rappresentazione della realtà, tutto il nutritissimo corpus della sua opera, (più di diciotto tra romanzi e raccolte di racconti che spaziano dal Seicento della Guerra dei Trent’Anni10 a un incerto futuro distante pochi anni e che aspetta probabil-

mente l’umanità dietro l’angolo della strada che sta percorrendo, ha a che vedere con la radicalità delle catastrofi umane che conducono a una rappresentazione apocalittica di una (quasi) realtà. Altieri è l’ingegnere della costruzione dell’Apocalisse e della sua evocazione costante. Nella sua attività letteraria, lo scrittore milanese ha sempre privilegiato la dimensione della catastrofe e del rischio totale, l’epica dello scontro frontale tra potenze ed entità in lotta per la supremazia assoluta, la lotta di pochi o di un singolo per evitare che l’Apocalisse si produca e tutto ciò che il mondo civile ha finora prodotto venga cancellato. Al centro dei suoi romanzi (spesso di ampia e fluviale lunghezza) emergono grandi figure umane di analoga potenza, spesso bigger than life; scienziati, combattenti, agenti di polizia, uomini delle Forze Speciali (la prestigiosa SAS britannica), uomini soli in lotta contro un mondo infido, colloso, spaventosamente corrotto e contaminato dalla ferocia di un Potere senza nome. E’ il caso di Andrea Calarno, il poliziotto già protagonista di L’uomo esterno11, romanzo uscito nel 1989 e sintomatico della scansione stilistica di Altieri soprattutto nella sua fase attuale di scrittura. Determinato fino all’ossessione, dedito alla sua attività di lotta al crimine in maniera monomaniaca, Calarno è un uomo tutto d’un pezzo e non conosce cedimenti né al sesso né all’amore né al denaro. Nel romanzo in cui fa la sua prima comparsa, il suo scontro a distanza, poi sempre più ravvicinata e incalzante con l’”uomo esterno”,


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17 Sergio (Alan D.) Altieri

David Sloane, mandato dalla Mafia a uccidere Carmine Aprà, la “Belva di Catania” in procinto di “pentirsi” e di rivelare quello che sa sulle gerarchie verticali e sulla “cupola” della malavita organizzata. I due “professionisti”, collocati alle parti opposte della barricata, scopriranno che tra di loro vi sono più affinità di quante sospettassero di avere: la solitudine, la volontà determinata di andare avanti nella loro missione, il coraggio delle proprie azioni, la capacità di assumersi in prima persona senza delegare niente a nessuno la responsabilità per le proprie azioni. Poliziotto e killer della Mafia sono tanto simili da sembrare, alla fine, l’uno il doppio dell’altro in una sorta di proiezione ideale che va al di là dei loro ruoli nella vicenda. Ma laddove Calarno si mostra in tutta la sua personalità monolitica, ancorché sfaccettata nelle scelte particolari e nel progetto generale di vita, è nei racconti di Hellgate. Al confine dell’Inferno12. Nei sei racconti che costituiscono questo volume, il poliziotto comandante del Dipartimento speciale investigativo si rivela per quello che, in effetti, risulta leggendone le storie: nelle parole stesse di Altieri, un “duro ma non troppo puro” in bilico tra “l’impermeabilità emotiva del Continental Op e il cinismo esistenziale di Philip Marlowe” (“Dashiell Hammett e Raymond Chandler, profeti dell’hard-boiled, sono i miei due riferimenti assoluti” – ammette, infatti, lo scrittore milanese nel prosieguo della sua auto-presentazione al racconto, 357 HydraShok, che apre la raccolta). Ma Calarno non ha la determinazione impassibile e categorica

degli eroi hammettiani (non è assolutamente un Sam Spade che rinuncia alla donna amata per rimanere fedele al suo codice di comportamento professionale) né l’ingenua vocazione cavalleresca dell’investigatore californiano disposto a credere alla virtù e all’innocenza delle varie donzelle che incontra lungo il suo cammino investigativo. Il poliziotto italiano è molto più feroce dei suoi predecessori e, soprattutto, molto più tecnologizzato. Le armi che usa appartengono, infatti, al Gotha dell’industria dell’armamento mondiale sono sempre calibrate in modo che producano il maggior danno possibile. «Andrea Calarno: ventidue anni da poliziotto. Giubbotto di pelle e fondina al fianco destro. Dentro la fondina, roba grossa: Glock 21, calibro 45 ACP, dodici colpi Cor-Bon Black Talon nel caricatore bifilare. Quattordici anni nella Omicidi. Adesso a capo di qualcosa chiamato DSI: Dipartimento speciale investigativo. Ufficialmente, qualcosa che nemmeno esiste. Andrea Calarno: scrutatore della morte. Forse la sola cosa che abbia mai conosciuto. Assieme a tutte le strutture della distruzione. Mutevoli e grottesche, spaventose e assurde. Assieme a tutte le distorsioni della coscienza. Paradossali e repellenti, logiche e insensate. Raggruppate in un’unica, univoca configurazione mostruosa. Assassinio premeditato»13. Nella prima delle storie che compongono il ciclo di Hellgate, il poliziotto se la vede con un serial killer che uccide usando armi caricate con proiettili di un calibro insolito e che lo individua come l’ “assassino dell’ Hydra” e i cui rituali di morte saranno trasformati in


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un “grande carnevale” televisivo di “morte in diretta”. Poi si occuperà di fermare definitivamente J, un assassino di buona famiglia che è convinto di essere diventato Dio e che uccide tutti coloro i quali offendono la sua onnipotenza (tra i suoi tantissimi omicidi ci sarà anche quello dell’ “onorevole avvocato Carlo Massimiliano Taormina” – trasparente allusione ad un altro “onorevole avvocato” che portava egualmente un nome di città siciliana)14. Si soffermerà a rievocare il fantasma di Duca Lamberti resuscitato per l’occasione di un volume che ne contempla il ritorno15 e con lui esplorerà i meandri di una possibile Medicina nera. In questo racconto, Lamberti si confermerà personaggio corrivo e determinato ai limiti della pura ostinazione e violentemente critico nei confronti delle istituzioni (anche se probabilmente usa un linguaggio che il maestro Scerbanenco non gli avrebbe mai messo in bocca – ma all’epoca di Venere privata i tempi erano certamente diversi e la censura si mostrava con l’aspetto di una vera e propria camicia di forza per la libertà linguistica ed espressiva): «Mariangela P. Sanna, Gip, si raddrizzò sulla poltrona professionale. Cardini secchi scricchiolarono. […] Sanna gettò oltre i faldoni una busta sigillata. “Per lei”. Non feci nemmeno l’atto di prenderla. “Qualora non se ne fosse reso conto, dottore”, Sanna livellò un rigido dito indice, “quello è un avviso di garanzia. Nei suoi confronti”. Annuii e basta. “Niente di personale”, precisò Sanna. “E’ chiaro”. “E’ chiaro”, concordai. “Si tratta di un atto dovuto”. “Dovuto a cosa?” “Non a cosa, dottor Lamberti: a chi. Dovuto al po-

polo italiano. La cui giustizia io rappresento”. “Lei quindi rappresenta la giustizia di un popolo che sfoggia un governo di gangster, un’opposizione di coglioni, un parlamento di tossici, una televisione di puttane e una chiesa di pedofili? Quel popolo lì?”. “Cauto, dottor Lamberti”. Oltraggio sui lineamenti pesanti di Mariangela P. Sanna, Gip. “Estremamente cauto”. Soffocai uno sbadiglio. “La sto forse tediando, dottor Lamberti?” “Ho avuto incontri più stimolanti”.“Vediamo quindi se posso stimolarla maggiormente”. Mariangela P. Sanna, Gip, stirò le labbra. Aveva gli incisivi storti. “Lei è indagato per sottrazione di arma da guerra, spari in luogo pubblico ed eccesso colposo di legittima difesa”. Girai attorno un’occhiata distratta. C’erano grumi scuri in un angolo. Scarafaggi morti. E merda di ratto. “E io valuterò”, Mariangela P. Sanna, Gip, diede l’affondo di chiusura, “se considerare anche l’accusa di tentato omicidio”»16. Come si può vedere, sotto lo schermo letterario dell’ ex-medico Duca Lamberti (radiato dall’Albo per aver esercitato l’eutanasia nei confronti di una sua paziente), Altieri non nasconde né le proprie considerazioni sull’evoluzione catastrofica del Paese Italia né la propria sfiducia in una giustizia corrotta e incapace di esercitare il proprio compito fondamentale di assicurare sicurezza e infondere fiducia nei cittadini. Nel quarto racconto, “Back-Cuda”, Calarno è calato all’interno di un mondo orrendo e disgustoso popolato di industriali ambiziosi, politici corrotti e mafiosi aggressivi il cui parallelismo con la stretta contemporaneità è indubbio e facilmente individuabile negli atteggiamenti e nei


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programmi di dominio e controllo esibiti (anche se, purtroppo, non negli esiti finali della storia). In “Metal Purge”, ci si trova ancora di fronte il poliziotto nel ruolo di un “deus ex machina della ferocia contemporanea“ che si muove “in una sorta di terra di mezzo tra la paranoia totalitaria di Ultima luce e la demenza suicida di Certificato Omega”17. La dimensione narrativa di questo breve racconto come pure quello del romanzo breve (fino ad allora inedito) Tutti al rogo! che chiude la raccolta è più quella della distopia apocalittica e spettacolare (con un taglio intenso di scrittura cinematografica) che l’atmosfera dell’indagine poliziesca. In questa esplorazione forsennata e raggelata della devastazione della società futura (ma appartenente a un futuro molto prossimo), Andrea Calarno sarà coadiuvato dallo Sniper, il cecchino per eccellenza Russell Brendan Kane, l’agente del SAS britannico già protagonista di una serie di tre romanzi e della raccolta Killzone. Autostrade della morte18. Se il tono stilistico delle avventure mortali di Calarno è parossistico e non privo di una volontà di colpire duro con le prese di posizione sarcastiche e spesso satirico-apocalittiche che contraddistinguono le storie che lo vedono protagonista, il taglio delle vicende militari di Kane è desolato e amaro, con una ferocia narrativa e un’attesa spasmodica nelle parti conclusive che molto devono, ad esempio, al cinema di un regista “irregolare” e straniante come Robert Aldrich o a quello deliberatamente non-hollywoodiano di Sam Peckinpah e del suo (riluttante) maestro Don Siegel. Kane, a differenza di Calarno, è per sua stessa

scelta, un loser, un perdente anche quando centra il bersaglio e vince perché lascia sempre qualcosa di suo sul campo, soprattutto quelle residue illusioni legate al suo codice di comportamento etico che gli si rivelano sempre impossibili (e in ciò ricorda gli atteggiamenti di Philip Marlowe nei confronti della vita assai più di Calarno stesso). Kane vive del e nel combattimento sul campo e sembra non avere altra dimensione di vita che quella. Dai sei racconti di Killzone emerge un suo ritratto a tutto tondo che campeggia oscuramente in una serie apparentemente infinita di paesaggi apocalittici: «”Mr. Kane?“. Rimasi immobile. Pioggia torbida correva lungo cristalli corazzati. Al di là, nuvole colore della cenere su colline colore del metallo. Salme di colline, in realtà. Foreste annientate, case devastate, strade come relitti. Los Angeles, California. Quello che ne resta. Gli angeli della città degli angeli sono caduti dal più alto dei cieli . Risucchiati nell’ultimo baratro dell’Ecclesiaste da qualcosa chiamato Collasso. “Mr. Kane”. Voltai le spalle a tutto questo. “Solamente Kane”. La sala riunioni era un luogo livido, privo di ombre. Tavolo da conferenza con piano di cristallo opaco, basamenti di acciaio satinato, poltrone nere Daeron, alogene dalla luce cruda. “Hai uno stile interessante, Kane. Freddo, deliberato, essenziale”. L’uomo attraversò la moquette dalla tinta perlacea. “E r4iuscire a incontrarti è una sfida. Cellulare criptato, computer protetto da firewall concentrici, nessun indirizzo conosciuto. Tu davvero esisti, Kane?”. “Esistere è uno stato della mente”»19.


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Si verrebbe tentati dal chiedere al suo creatore se Kane esiste o è una pura funzione della narrazione. Se Calarno ha molti punti di contatto con il Duca Lamberti ideato da Scerbanenco e, quindi, conserva tracce di un’ umanità spesso compiuta e dolorosa, Russell Brendan Kane assomiglia maggiormente a una macchina di morte, a un prodigio tecnico di attacco e difesa. Kane è molto meno caratterizzato di Calarno e più meccanico nelle sue scelte. Sa di non potersi fidare di nessuno e, infatti, non lo fa, come nel racconto “Joshua Tree” (da cui viene la citazione precedente) e in cui Kane si sbarazza non solo di chi gli ha commissionato la “demolizione” di una ex-torre radio dell’Esercito americana rimasta a deperire nel deserto di Mojave ma anche di Radha Wilsson Lincoln, la donna che gli ha fatto credere di essere innamorata di lui per poterlo incastrare meglio. Moglie di un rapper nero proprietario della Lethal Records ma coinvolto in tutta una serie di affari sporchi (droga e spaccio di banconote false), Radha vorrebbe convincere Kane di essere presa di lui e gli si concede ripetutamente ma il master sniper non cade nella trappola e al momento opportuno è pronto a liberarsi di entrambi, sparando al nigger e ammanettando lei alla struttura che avrebbe dovuto distruggere facendogliela crollare addosso. Sarà leale, tuttavia, fino all’ossessione in “Family Day”, quando il miliardario Lyman Carlton Hess, malato terminale di tumore alla spina dorsale, gi chiede di rimettere insieme i suoi quattro figli (uno dei quali è un gangster di colore spacciatore di droga) nati ol-

tretutto da quattro madri diversi. Quando si accorgerà che i quattro fratelli hanno ucciso il loro padre naturale e stanno sterminandosi a vicenda per il possesso dell’eredità del vecchio, provvederà a liquidarli tutti vendicando l’uomo che lo aveva assoldato (in questa vicenda di parenti serpenti e micidiali assassini è molto forte il legame con l’amato Chandler e il suo romanzo d’esordio Il grande sonno dove compare l’ormai anziano e paraplegico generale Sternwood). Ma il racconto dove la vena apocalittica e prepotentemente catastrofica di Altieri predomina è certamente “Ponte”20, una storia già pubblicata in una prestigiosa antologia di Racconti italiani del Novecento (curata da Enzo Siciliano ed edita in un volume dei Meridiani di Mondadori) e strettamente legata alla dimensione originaria di ingegnere meccanico di Altieri. In essa il ponte in questione, sospeso sul Rio delle Amazzoni, sta per essere definitivamente completato. Harlan Cooper, un ingegnere di spirito avventuroso non facilmente omologabile alla logica del profitto fine a se stesso delle grandi multinazionali, viene assoldato da una non meglio identificata Compagnia di costruzioni per verificare la stabilità strutturale delle gigantesche arcate che dovrebbero sostenere le vie di scorrimento veloce capaci di congiungere definitivamente le due sponde del grande fiume amazzonico. Ma l’uomo non è convinto della solidità della costruzione. Gli indios che vivono ancora nella selva prospiciente il ponte ne prevedono visionariamente il crollo, una volta che sia terminata la sua saldatura finale. Jack McLane,


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21 Raymond Chandler (1888-1959)

già docente a Oxford e uno degli ingegneri che avevano progettato l’impresa gigantesca, si è suicidato gettandosi nel fiume dopo aver dialogato misticamente con il Dio dell’Abisso ed essere rimasto sconvolto dalla sua terrificante visione propiziata forse dall’uso di erbe iniziatiche avute dallo sciamano del posto. Nella sua baracca, Cooper trova ciò che definisce “un elementare dato cinematico”(↑4.79 ft/sec) che all’inizio non riesce a interpretare. Chiede comunque che la chiusura del ponte venga rinviata di ventiquattro ore. Ma la sua richiesta non viene ascoltata dai dirigenti della Compagnia e l’ingegnere non riesce a ottenere neppure che le ultime procedure di saldatura delle arcate vengano posticipate di qualche ora. Dopo un incubo in cui vede il ponte crollare come se venisse tirato giù nel fiume da neri tentacoli di morte, Cooper capisce che il fattore imponderabile che potrebbe causarne la caduta è rappresentato dall’effetto di risonanza calcolato da McLane prima di sprofondare tra le onde fluviali del Rio delle Amazzoni. A questo punto cerca di evitare la catastrofe facendo saltare alcuni spezzoni in cemento armato del ponte per non appesantirlo ulteriormente ma ormai è troppo tardi. L’Apocalisse è ormai già in atto: «Il Ponte oscillò per diciannove ore, simile a un colossale serpente impazzito. Fu uno spettacolo oltre il concepibile vedere quella gigantesca massa di cemento torcersi come una corda di pianoforte colpita all’infinito. Ora avevo capito perché Jack McClane aveva preferito il grande sonno: la sua mente non aveva accettato l’idea che uno sciamano ne sapesse più di Newton e Lagrange. E certamente non

avrebbe mai potuto accettare l’orgia di distruzione che stava scatenando tra le due sponde del Rio delle Amazzoni. Il Dio dell’Abisso aveva cominciato a urlare dalla profondità. E continuò a urlare, senza che nessuno potesse fermarlo»21. Con questo racconto, visionario e rigoroso nella sua dimensione tecnologica e che è sicuramente tra i suoi migliori contributi al techno-thriller in dimensione catastrofistica, Altieri si conferma capace di evocare, attraverso la rappresentazione del crollo oggettivo delle grandi strutture che sono l’orgoglio della scienza e della tecnica occidentali, la caduta tendenziale e la crisi del modello antropologico dell’ homo faber che ne costituisce da sempre il punto di riferimento soggettivo. NOTE 1 Questo non è del tutto vero. Esiste un libro tardo di Giovanni Testori dedicata alla prospettiva della distruzione dell’umanità come possibilità in fieri nelle linee di tendenza del mondo contemporaneo (G. TESTORI, Gli Angeli dello sterminio, Milano, Longanesi, 1992) ma si tratta di un testo più poeticamente concentrato sull’Io che scrive e rimugina sulle proprie contraddizioni che sul racconto di vicende catastrofico-apocalittiche. 2 D. MEZZINA, Le ragioni del fobantropo. Studio sull’opera di Guido Morselli, Bari, Stilo Editrice, 2011, p. 226. Sull’opera finale di Morselli cfr. anche B. PISCHEDDA, “Morselli: una “Dissipatio” molto postmoderna”, in «Filologia antica e moderna», 19, 2000, pp. 163-189 (poi con il titolo redazionale “Giosafat era questo nostro secolo. Guido Morselli, Dissipatio H.G.”, in ID., La grande sera del mondo, Torino, Aragno, 2004, pp. 203-239) e F. MUSSGNUNG. “Finire il mondo. Per un’analisi del romanzo apocalittico italiano degli anni Settanta”, in “Contemporanea”, 1, 2003, pp. 19-32. Il libro di Mezzana, tuttavia, resta una delle analisi più complete dell’opera romanzesca di Morselli e si raccomanda per il rigore e la precisione della ricostruzione culturale e letteraria


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22 3 Infatti, la situazione del Narratore potrebbe ricordare quella di Neville, i protagonista del romanzo Io sono leggenda di Richard Matheson del 1954 e soprattutto del film del 1964 con Vincent Price che da esso fu ricavato (L’ultimo uomo della Terra dell’ex-direttore della fotografia Ubaldo Ragona – la versione americana, invece, accredita Sidney Salkow come autore della pellicola). Ma le somiglianze finiscono qui dato che nel romanzo di Matheson sulla Terra sono rimasti i vampiri (contagiati e superstiti) cui Neville dà accanitamente la caccia. Il remake I’m Legend di Francis Lawrence uscito nel 2007 e che ha come protagonista il pur bravo Will Smith non solo non muta la situazione ma, ben lungi dall’esserne una versione correttamente filologica”, accresce la distanza dallo splendido libro di Matheson di partenza. 4 G. MORSELLI, Dissipatio H. G. , Milano, Adelphi, 201012, pp. 58-59. 5 In questo, l’anonimo Narratore ricorda le situazioni di rifiuto del mondo e della vita di coppia che contraddistinguono Harry Haller, il protagonista di Il lupo della steppa (1927) di Hermann Hesse che all’epoca in cui Morselli scrive era ancora un (possibile) livre de chevet di generazioni di intellettuali (e non) alternativi e fortemente critici nei confronti dell’establishment borghese e veniva letto come un libro di formazione morale piuttosto che come un classico della letteratura europea. 6 Perché questa data? In Italia il 2 giugno si identifica con il referendum su monarchia e repubblica e la nascita del nuovo Stato dalle ceneri del fascismo e dalle macerie della Seconda Guerra Mondiale. Negli Stati Uniti, proprio il 2 giugno del 1897, Mark Twain, smentendo le voci circolate sulla sua morte, viene citato dal New York Journal per aver dichiarato: “La notizia della mia morte è un’esagerazione”. Che Morselli voglia alludere proprio a questo e precisamente all’”esagerazione” di una morte individuale che comporta, solo per questo e indirettamente, la fine di tutto il mondo? 7 G. MORSELLI, op. cit., pp. 144-148 G. MORSELLI, Dissipatio H. G. cit. , p. 51. 9 Cfr. C. P. SNOW, Le due culture, trad. it. di A. Cargo, Milano, Feltrinelli, 1964. 10 I tre grossi volumi della Trilogia dedicata da Altieri alla Guerra dei Trent’Anni in Germania sono, nell’ordine di pubblicazione: Magdeburg – L’eretico (Milano, Corbnaccio, 2005), Magdeburg – La furia (Milano, Corbaccio, 2006) e Magdeburg – Il demone (Milano, Corbaccio, 2007). 11 Il romanzo era firmato direttamente Sergio Altieri e fu pubblicato da Mondadori in prima edizione nel 1989 nell’ormai defunta collana dei “Neri Italiani” degli Oscar Originals. 12 Milano, TEA, 2009. 13 A. D. ALTIERI, “357 Hydra-Shok” in Hellgate. Al confine dell’Inferno cit. , pp. 12-13. 14 Altieri si sofferma a descrivere accuratamente la follia di J: “QUESTO E’ SOLTANTO UN INIZIO. J varca la palude rossa. Ha il bastone del comando in pugno. LA

C R O CIATA, LA V E R A C R O C I ATA , COMINCIA ADESSO. J si ferma davanti alla finestra. Attorno a lui l’attico dei superni ringhia e sbava e urla. ASCOLTA L’INNO DELLA RISCOSSA DIVINA. I got my black shirt on. / I got my black gloves on. / I got my ski mask on. / This shit’s been too long. // J si erge nel vento caldo e viscido. Sotto di lui, si dilata il labirinto malato. Luci pulsano. Rosse, azzurre, una galassia impossibile. NESSUNA REDENZIONE, PER I PECCATORI, NESSUNA RESURREZIONE. I got my twelve gauge sawed off. / I got my headlights turned off. / I’m ‘bout to bust some shots off. / I’m ‘bout to dust some cops off // J imbraccia il bastone del commando. Sangue gli cola dal naso. Le mani gli tremano. NESSUN CEDIMENTO ALLA DEBOLEZZA DELLA CARNE” (A. D. ALTIERI, “J” in Hellgate. Al confine dell’inferno cit. , pp. 90-91). 15 Si tratta del volume collettivo Il ritorno del Duca, a cura di G. Orsi, Milano, Garzanti, 2007 in cui sedici autori di polizieschi fanno tornare in vita il personaggio più famoso della narrativa di Giorgio Scerbanenco. 16 A. D. ALTIERI, “Medicina nera” in Hellgate. Al confine dell’inferno cit. , p. 107. 17 Ultima luce è stato pubblicato dall’editore Corbaccio di Milano nel 1995 (e poi ristampato da TEA nel 1997) mentre “Certificato Omega” è l’ultimo racconto della raccolta Armageddon. Scorciatoie per l’Apocalisse (Milano, TEA, 2008, pp. 181-290). 18 Milano, TEA, 2010. I tre romanzi finora pubblicati della serie dedicata allo Sniper Russell Brendan Kane sono Campo di fuoco, L’ultimo muro e Victoria Cross tutti è tre pubblicati da Mondadori di Milano nella collana Segretissimo (nn, 1368, 1397 e 1425) e poi replicati per l’editore milanese Corbaccio. 19 A. D. ALTIERI, Killzone. Autostrade della morte cit. , pp, 78-79. 20 Cfr. A. D. ALTIERI, “Ponte”, in Armageddon. Scorciatoie per l’Apocalisse, Milano, TEA, 2008, pp. 97135. 21 A. D. ALTIERI, “Ponte”, in Armageddon. Scorciatoie per l’Apocalisse cit. , p. 134.


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Marco Lauri

NOT WITH A BANG ASCESA E CADUTA DI GOG E DI MAGOG Καὶ τώρα τί θὰ γένουμε χωρὶς βαρβάρους. Οἱ ἀνθρωποι αὐτοὶ ἦσαν μὶα κάποια λύσις.1 Kostantinos Kavafis, Περιμένοντας τοὺς βαρβάρους, 1908 “There are no longer barbarians to overthrow civilization.” “We can be our own barbarians.” Isaac Asimov, The Evitable Conflict, 1950

I

fiumi di Babilonia scorrono in circolo; il mondo, o un mondo, è finito già, molte volte. Una fu nella prima metà del sesto secolo AD. Verso il 630 dopo Cristo, in Siria, un monaco cristiano scrive, in lingua siriaca, una delle innumerevoli variazioni leggendarie sulla vicenda di Alessandro, forse il più mitico tra i personaggi storici. In questa versione siriaca in versi, basata sul celebre romanzo ellenistico dello pseudo-Callistene, si racconta di come Alessandro abbia eretto dei cancelli per difendere il mondo civile dalle invasioni di Gog e Magog. La tradizione collocava questi cancelli alle “Porte Caspiche”, probabilmente da identificare con i passi di Dar’jal o di Derbent, nel Caucaso; il Dar’jal separa quelle che oggi sono l’Ossezia del Nord (russa) e quella del Sud (teoricamente georgiana, praticamente indipendente sotto tutela russa), Derbent si trova nel sud del Dagestan russo presso il confine con l’Azerbaycan. Nel 629, un popolo nomade della steppa, quasi certamente i Khazari, forza i passi del Caucaso e devasta l’Armenia e il Medio Oriente. Per l’autore siriaco, essi sono gli Unni, riapparsi oltre i cancelli, infranti secondo la profezia che attribuisce ad Alessandro.

Pochi anni dopo, il sistema politico e sociale del Mediterraneo tardo-antico tracolla. Già disintegrato dall’interno per l’interminabile lotta, appena conclusasi col ritorno al secolare status quo,tra la Persia sasanide di Khosrow Parvēz e l’Impero Romano d’Oriente di Eraclio, si dissolve sui campi di battaglia dello Yarmūk e di Qādisiyya di fronte al nascente impero degli Arabi musulmani. Nel loro Corano, si racconta di Alessandro, il Bicorne, di come costruì la sua barriera contro le orde dell’Apocalisse a difesa del mondo civilizzato; ancora oggi, dal Marocco all’Indonesia si recita la diciottesima Sura del Libro, che si crede aiuti i cancelli a reggere, a rimandare la fine del mondo e l’irruzione di Gog e di Magog. Le mura del mondo erette dal Bicorne non ressero sempre. Il mondo finì di nuovo: nel 1258 una nuova incarnazione di Gog e Magog, i Mongoli di Hülagü Khan, dopo aver devastato la Persia saccheggiarono Baģdād, fino ad allora sede del califfato che rappresentava la coesione, perlomeno simbolica, della comunità islamica, pur senza più esercitare su di essa l’autorità politica. L’esperienza devastante di invasioni ricorrenti di popolazioni nomadi provenienti dalle pianure aride al centro del continente ha segnato per millenni la coscienza storica della fine dei tempi tra i popoli sedentari dell’Eurasia. L’immagine dell’Apocalisse occidentale ed islamica è strettamente legata, per secoli, a quella dell’irruzione di una alterità ostile e distruttrice. La fine del mondo è fine della civiltà sedentaria, della cultura urbana. Nelle America pre-colombiane, invece, era la costante insicurezza ecologica a segnare la vi-


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24 Jules Verne (1828-1905).

sione apocalittica, centrata su cataclismi d’acqua o di fuoco, ma pur sempre, e lo si deve sottolineare, naturali e ciclici, collocati in un ordine superiore. Nella concezione delle civiltà messicane pre-colombiane, sia nahua (azteca e tolteca) che maya, l’ordine naturale del cosmo è sempre precario, vulnerabile, e va attivamente mantenuto, in primo luogo mediante il sacrificio: il sangue degli uomini nutre il cosmo, che conserva così sé stesso ed in esso gli uomini. Finché l’Apocalisse non venne, come si conviene, a cavallo, col ferro, e con le armi da fuoco, e la pestilenza, e pose fine ai sacrifici di sangue. La civiltà occidentale moderna ha dominato il pianeta negli ultimi duecento anni, con la forza militare ed economica che le proviene dal suo grandioso sviluppo tecnico. A partire dall’Illuminismo, in Occidente si può concepire il futuro come potenzialità di miglioramento della condizione presente, la propria Storia come movimento dotato di significato, significato visto talvolta nell’idea del progresso. La domanda sul significato della Storia si intreccia inevitabilmente ad un nuovo modo di impostare la questione, già antica, della sua fine. Al culmine della sua potenza, la civiltà europea-occidentale moderna si interroga con forza sulla possibilità del suo declino e sulla sua caduta. Intellettuali di primo piano come Tocqueville sono affascinati dal Grande Parallelo: come Roma, l’Occidente moderno soccomberà ai nuovi barbari, quali che siano, declinerà perdendo la sua forza materiale e morale. Al “civile” europeo o occidentale si contrap-

pone l’immagine di un “Oriente” barbaro, minaccioso, rinnovata immagine “laica” di Gog e di Magog.2 Questo Oriente vive fuori dalla storia, o almeno da quel movimento storico che possiede un senso. Nel contrapporre la vitalità creatrice e progressiva dell’Ariano alla sterile staticità del pensiero astratto del Semita, Ernest Renan è tra coloro che stabiliscono in termini culturali, linguistici e razziali i confini della storia significativa. Naturalmente non è solo il Semita ad incarnare l’alterità che minaccia, per così dire, la struttura ordinata del Tempo storico. Si teme la Russia, la tirannia “orientale” dello zar, che senza sforzo diventerà la minaccia esistenziale del comunismo sovietico dopo la Rivoluzione; si sbandierano “pericoli gialli” la cui eco si sente ancora, dopo le guerre mondiali, nell’immaginario fantascientifico americano: si pensi al Cyril Kornbluth di The Education of Tigress McCardle (1957) e di Two Dooms (1958). Si rievocano, come nel Michele Strogoff di Verne, i veri prototipi di Gog e Magog, i nomadi “Tartari” delle steppe, che rivedranno nel futuristico Khan mongolo (comunista!) di Robert Silverberg in Shadrach in the Furnace (1976). Non a caso i tedeschi si trasformano in “Unni” nella propaganda dell’Intesa durante la prima guerra mondiale. Non si tratta semplicemente, qui, di una rappresentazione dell’Altro, del Nemico, più tardi dell’Alieno. In questi caso, esso non è solo una minaccia, ma il portatore apocalittico della fine della civiltà, da oltre le Porte di Alessandro, da oltre lo spazio civile ed il tempo progressivo. Se nella cartografia medievale, il paese di


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Magog era agli estremi limiti dell’universo conosciuto, l’orizzonte moderno, immenso, che le scoperte geografiche ed astronomiche spalancano all’immaginario si può facilmente popolare di altrettanto illusori, fascinosi e potenti pericoli; tra il tardo Ottocento e la prima metà del Novecento, Marte è probabilmente la sede preferita, sulla scia esemplare, ovviamente, di Wells; ma sappiamo bene cosa rappresentano in realtà i Marziani di Wells, la cui conquista apocalittica dell’Inghilterra è espressamente paragonata a quella inglese della Tasmania: “i Tasmaniani, nonostante le loro sembianze umane, furono completamente annientati in una guerra di sterminio sostenuta dagli immigrati europei per ben cinquant’anni. Siamo dunque apostoli di misericordia tali, da lamentarci se i Marziani combatterono con lo stesso spirito?”. Le orde dell’Apocalisse sono le nostre. Il barbaro è qui, nello stesso Occidente, come già aveva mostrato, tra gli altri, Conrad (e Apocalypse now sarà il titolo del film ispirato al suo Heart of Darkness, che pure, non è che implicitamente apocalittico); siamo our own barbarians, i portatori del germe del declino, della distruzione violenta, della decadenza della nostra stessa civiltà.

Con le due guerre mondiali, la fiducia in sé stesso del mondo occidentale e la salda fermezza del suo dominio globale s’incrinano assieme. Dopo il 1945, diventa sempre più problematico conservare i confini immaginari, di classe, di razza, di cultura, che erano stati posti a definire la civiltà dal secolo diciannovesimo, “superbo e sciocco”. Sempre più si è i barbari di sé stessi; la bomba atomica rende la fine del mondo una possibilità concreta, immediata, evidente, ma soprattutto una possibilità che nasce dalla realizzazione stessa della civiltà progressiva. La fantascienza americana riflette fin da subito, con chiarezza, queste ansie. Anche la più fuggevole scorsa all’aspetto tematico dei racconti raccolti da Asimov e Greenberg come i migliori per gli anni dal 1945 al 1949 mostra il ruolo primario del problema atomico, e della sua dimensione apocalittica. Due discorsi si intrecciano in questo tipo di filone apocalittico; la condanna interna della civiltà che è stata capace di produrre l’arma apocalittica, e la condanna del nemico esterno, nuova forma dell’antico dominio della steppa eurasiatica: l’Unione Sovietica, immagine del Sé e dell’Altro, dell’Occidente e dell’Oriente assieme, a seconda dei casi e delle inclinazioni degli autori; e questa duplicità è problema che si pone non solo agli osservatori occidentali della Russia, dell’epoca petrina in poi, ma agli intellettuali russi stessi, che si osservino da Est o Ovest.3 La russofobia ottocentesca dell’Europa si carica rapidamente del più recente anticomunismo, ed entrambi si possono accompagnare, a seconda della situazione, al vieto “pericolo


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giallo”. Agli occhi della destra libertaria americana che trova in Poul Anderson e Robert Heinlein due dei più significativi esponenti, è fin troppo facile confondere il comunismo sovietico ed il “dispotismo orientale”. La differenza ideologica sfuma nella contrapposizione culturale, ma vi è un terreno comune, il possesso degli strumenti tecnici della modernità che possono produrre l’Apocalisse: “ … sulla Terra vivono miliardi di persone che non solo non capiscono cosa intendete voi [gli americani] per libertà, ma non sarebbero affatto contente se gliela concedeste. Le affinità di cui parlavo sono tecniche. Tutte e due le nostre civiltà si basano sulle macchine … ” (Poul Anderson, Kings who Die, 1962). Anderson ed Heinlein sono autori troppo complessi per essere ridotti alla celebrazione acritica della libertà americana, motore del progresso e quindi della Storia dotata di significato, ed è difficile accusare uno dei due di aperto razzismo. Tuttavia, rimane l’assunto di fondo, in molte delle loro opere più riuscite che “la civiltà è occidentale, oppure semplicemente non è”.4 Proprio il romanzo post-apocalittico di Heinlein Farnham’s Freehold del 1964 mostra con chiarezza alcuni degli intrecci tematici che si è cercato fin qui di accennare, messi bene in luce dal saggio di Castoldi qui citato, che ne accompagna la più recente traduzione italiana. Nel romanzo, l’Apocalisse è scatenata dall’antico nemico sovietico, a tradimento, sugli americani presumibilmente indifesi. L’intera società occidentale e “bianca” viene distrutta. Sopravvivono i popoli dalla pelle scura; gradualmente costruiscono sulle mace-

rie una civiltà nuova, molto diversa da quella che si è auto-annientata nel fuoco atomico: una civiltà che possiede molte delle caratteristiche stereotipe di un “Oriente” immaginario (harem, schiavitù, eunuchi, sistema gerarchico) curiosamente mescolate a quelle del “cattivo selvaggio” (cannibalismo, irrilevanza del matrimonio e conseguente collettivismo nella famiglia allargata). Questa civiltà è tecnicamente avanzata, ma non progressiva. La staticità, vista come il principale aspetto negativo, è attribuita, tra le altre cose, all’assenza di brevetti e diritti di proprietà intellettuale, e, implicitamente, di un vero e proprio matrimonio. Un sistema sociale in cui un uomo non deve preoccuparsi dei propri figli (ad ereditare sono sempre i nipoti, figli delle sorelle) è un sistema sociale che scoraggia l’iniziativa individuale e quindi da condannarsi. Tanto più curiose sono queste idee, nell’opera di un autore il cui atteggiamento verso il matrimonio e le relazioni sessuali in genere non era certo allineato alla morale corrente, come ben sappiamo dal suo capolavoro Stranger in a Strange Land. Heinlein è ambiguo nella sua condanna del cannibalismo degli Eletti, l’élite dalla pelle scura che domina il futuro post-atomico di Farnham’s Freehold; né potrebbe essere al-


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trimenti, visto che in Stranger in a Stranger Land la pratica viene presentata in una luce tutto sommato positiva. Così si esprime per bocca di Farham, il protagonista: “non biasimare troppo Ponse per le sue abitudini alimentari. Ricordati che non sapeva che fosse male; per lui eravamo come mucche, e le mucche la penserebbero così di noi se ne fossero capaci. Ma c’erano cose che invece sapeva benissimo. Razionalizzava lo schiavismo, la tirannia, la crudeltà, e voleva sempre che le sue vittime fossero d’accordo e lo ringraziassero.” La situazione apocalittica tipica nella fantascienza americana della Guerra Fredda presenta dunque incroci tematici dalla lunga storia, che a mio parere, proprio per questo risultano così efficaci. Sebbene siano stati scrittori “di destra” come Heinlein ed Anderson a rappresentare meglio questo genere di discorsi, le stesse suggestioni tematiche possono trovarsi in autori “di sinistra”, anche molto diversi tra loro, come Philip Dick ed Isaac Asimov. In The Evitable Conflict, un racconto della serie dei robot del 1950, Asimov non resiste alla tentazione del “Grande Parallelo” che, come è ben noto, aveva già fornito l’ispirazione essenziale per il suo Foundation. La civiltà globale, dominata ormai dall’Occidente (curiosa la nota che gli ideogrammi cinesi siano sostituiti dai caratteri cirillici) ed in particolare dalle due grandi potenze un tempo rivali, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica riunite insieme a gran parte dell’ex Impero Britannico nella Regione Settentrionale, appare come un nuovo Impero Romano; l’Europa, ormai declinante, vi è

apertamente paragonata alla Grecia, con la Regione Settentrionale nel ruolo di Roma; la capitale mondiale è infatti a New York, presumibilmente in seguito allo sviluppo delle Nazioni Unite in una vera federazione globale, anche se è logico qui sospettare Asimov di campanilismo. Il Coordinatore Globale Stephen Byereley teme che una serie di piccoli squilibri economici possano rappresentare l’inizio di un conflitto globale tra le diverse Regioni della Terra. Non ci sono barbari alle porte: ma i civilizzati abitanti di un mondo che grazie all’impiego dei robot e, si immagina, di energia atomica pressoché illimitata, vivono nel pieno benessere, possono trasformarsi nei barbari del loro stesso “Impero”. L’apocalittico conflitto, tuttavia, non avverrà; grazie alla Prima Legge della Robotica (“Un robot non può recare danno ad un essere umano né, tramite l’inazione, permettere che un essere umano riceva danno”) le Macchine a cui è affidata la gestione dell’economia globale possono conservare indefinitamente la stabilità, a condizione naturalmente che gli esseri umani accettino la loro guida. Questa stabilità nel benessere che appare utopica ad Asimov (anche l’Impero Galattico di Foundation appare in una luce sostanzialmente positiva, almeno in confronto all’epoca di conflitto che ne seguirà il crollo) sarebbe stata certamente meno gradevole agli occhi di Heinlein, per il quale il conflitto ha un valore positivo e una società statica è, come abbiamo visto, oppressiva ed incivile; l’idea, oltre che in Farnham’s Freehold, appare anche nel più tardo Friday, dove si rappresenta appunto un Occidente


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(“civiltà rinascimentale”) corrotto e in declino, ma senza che vi sia alcun Oriente a minacciarlo. Il ruolo del robot, in Asimov, è altamente positivo e costruttivo. Si può contrapporre questa visione a quella in cui il declino della civiltà, la fine del mondo umano, vedono proprio nella macchina, nell’uomo artificiale, nell’apatia che provocherà o nella sua ribellione, una della loro cause; l’Italia ne ha conosciuta una anticipazione già ottocentesca, la Storia filosofica dei Secoli Futuri di Ippolito Nievo (1861), ma l’ipotesi conosce uno sviluppo fecondo soprattutto a partire da Erewhon di Samuel Butler (1872). La concezione heinleiniana della necessità del conflitto è in parte condivisa da Anderson. In uno dei suoi racconti più belli, Delenda Est, del 1955, la “fine del mondo” è presentata in un modo particolarmente interessante e, per l’epoca, originale. I viaggi nel tempo rendono infatti possibile la distruzione del mondo civile non tanto nel futuro apocalittico, ma attraverso la modifica del passato: “quel mondo non era mai esistito”. Nel caso specifico, un gruppo di criminali temporali rende possibile la vittoria di Annibale sui Romani. La Storia così alterata vede dunque la “semita” ed “orientale” Cartagine svolgere il ruolo storico di punto di riferimento per le epoche successive, in particolare per le società di lingua celtica che domineranno l’Europa occidentale ed il Nordamerica. I Germani così cari ad Anderson hanno un ruolo insignificante in questo universo alterato. Questo storia è però sterile, priva di impulso significativo:

“Quella cultura poteva anche non avere la volontà spietata e la crudeltà sofisticata; sotto certi aspetti pareva estremamente innocente. Comunque, certo non era per non averci provato.; e in quel mondo non sarebbe forse mai emersa un’autentica scienza, l’uomo avrebbe potuto ripetere all’infinito il ciclo defatigante della guerra, impero, crollo, e di nuovo la guerra. Nel futuro di Everard, la razza era finalmente riuscita ad uscirne fuori.” L’assenza di un fine di questa storia le impone di avere una fine. La vicenda si conclude con la dolorosa decisione da parte dei membri della Pattuglia del Tempo, guidati dal protagonista Everard, di ripristinare il mondo “originale”, distruggendo, naturalmente, quello dominato dalla civiltà celto-cartaginese. È certamente la fine di un mondo, o una fine del mondo; questa, a differenza di molte apocalissi, non con uno scoppio, né con un lamento, ma con un doloroso riposo. NOTE 1 “Come faremo adesso senza i barbari? / Dopotutto, quella gente era una soluzione.” da Kostantinos Kavafis, Aspettando i barbari in Cinquantacinque Poesie, trad. di Margherita Dalmàti e Nelo Risi, Torino, Einaudi 1968 pp. 46-47. 2 Mi permetto di rinviare al mio “Secoli superbi e sciocchi” di prossima pubblicazione sulla Rivista degli Studi Orientali. 3 Rimando a Dietrich Groh, La Russia e l’autocoscienza d’Europa, Torino, Einaudi 1980 e ad Aldo Ferrari, La foresta e la steppa. Il mito dell’Eurasia nella cultura russa, Milano, Scheiwiller, 2003. 4 Silvia Castoldi, La promessa di Farnham, in “Urania collezione”, n. 79, luglio 2009.


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Annamaria Fassio

YARBRO e McCARTHY

SARA’ UN FUTURO D’INFERNO? 1

1. Gesti

A

bbottonarsi il giaccone. Avvolgersi negli stracci. Avvolgersi nelle coperte. Controllare la tenuta delle scarpe. Controllare l’efficienza della balestra. Controllare l’efficienza della pistola. Controllare l’efficienza del bastone raccolto per strada e che può rappresentare la salvezza in caso di necessità. Controllare le provviste. Trascinare lo sferragliante carrello. Sopportare il peso eccessivo dello zaino. Giorni tutti uguali “come l’inizio di un freddo glaucoma che offusca il mondo”2. Pochi discorsi, quelli essenziali, e molte previsioni: l’unico modo per sperare di arrivare vivi alla fine della giornata. Camminare. Condensa di fiati. Freddo nelle ossa. Sole anemico. Continuare a camminare. Non c’è più nessuna memoria da custodire, ma solo tecniche difensive da tramandare. E non c’è speranza perché se n’è andata da tempo e adesso rimane soltanto un deserto freddo e inospitale, come un glaucoma appunto. In questo deserto, in questa monotonia di strade contaminate, di boschi fosforescenti, di centri commerciali sventrati, si muovono le due coppie dei romanzi oggetto di questa breve disamina: Thea e Evan Montague (Tra gli orrori del duemila) 3, la prima coppia e, molto più semplicemente l’uomo e il bambino (La strada) 4, la seconda coppia. 1. Le storie, gli autori Tra gli orrori del duemila: In una America sconvolta da una serie di ca-

tastrofi ambientali, malattie e mutazioni genetiche, un uomo e una donna, armati unicamente di una balestra, marciano verso la Sierra Nevada alla ricerca del Lago Dorato dove sperano di trovare una comunità che li ospiti. Il loro cammino, autentica fatica di Sisifo, destinata a rinnovarsi ogni giorno, non li condurrà da nessuna parte. Il mondo è morto, il Lago Dorato è contaminato e loro per sfuggire alla fame, ai cani selvaggi e ai Vigilanti, spietate bande di razziatori, saranno costretti a continuare ad andare avanti, costi quel che costi. La Strada: Dopo una non ben precisata catastrofe che ha decimato l’umanità, un uomo e un bambino, per sfuggire ad un clima che diventa giorno dopo giorno più freddo, intraprendono un lungo viaggio verso il mare. Unica arma di difesa: una pistola con solo due colpi in canna. Quando arriveranno davanti all’oceano, l’uomo morrà perché così è scritto sin dall’inizio e al bambino non resterà che unirsi ad una famiglia in marcia come lui. E tutto continuerà esattamente come prima. Gli autori dei due romanzi in questione sono entrambi americani e hanno al loro attivo molti libri di successo. Chelsea Quinn Yarbro in Italia è conosciuta per la serie incentrata sul vampiro gentiluomo il Conte Saint-Germain; Cormac McCarthy è noto soprattutto per La strada5 e Non è un paese per vecchi, quest’ultimo anche grazie alla trasposizione cinematografica dei fratelli Coen. Tra gli orrori del duemila è un grande romanzo di fantascienza che in qualche misura travalica il genere. McCarthy con La Strada


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30 Chelsea Quinn Yarbro

crea un’architettura narrativa geniale nella sua semplicità che diventa una lectio magistralis sulla Fantascienza post apocalittica. 2. L’inizio La maggior parte dei cadaveri giaceva presso i silos e i depositi del quartiere industriale, dove i difensori, intrappolati tra i Vigilanti e il fiume Sacramento, avevano opposto l’ultima resistenza ed erano stati massacrati tutti. Anche un certo numero di assalitori era rimasto a terra, e Thea notò che alcuni erano in uniforme…6 Questo l’incipit di Tra gli orrori del duemila che prosegue poi con la descrizione di un massacro per opera dei Vigilanti. Subito dopo un gesto di pietà avvicina Thea a Montague, vigilante redento e ora in fuga da se stesso e dai fantasmi del passato. Montague è ferito e Thea gli offre aiuto e assistenza. Insieme riprenderanno il cammino e tra loro, nonostante le barriere psicologiche che erge la donna, nascerà un amore molto profondo. Thea è un personaggio dalle molteplici sfaccettature. È capace di grande passione e nello stesso tempo è costantemente sulle difensive e in perenne lotta con il maschio. Si porta sulle spalle un fardello di violenza e uno stupro che la allontana ancora di più dall’universo maschile. Leggendo il libro si avvertono i sintomi della militanza femminista della Yarbro. S’intuiscono parole d’ordine epocali che scorrono in sordina, come un fiume sotterraneo. L’autrice è figlia del suo tempo: la contestazione, Berkeley, la guerra nel Vietnam. L’eco di questi avvenimenti nella narrazione ci sono tutti. Thea li porta in

sé ma non è ideologica. Arrabbiata, questo sì, ideologica mai. Quando si svegliava in mezzo ai boschi nel buio e nel freddo della notte allungava la mano per toccare il bambino che gli dormiva accanto. Notti più buie del buio e giorni uno più grigio di quello appena passato.7 Questo, invece, è l’inizio della Strada. Apparentemente niente di più distante dell’universo popolato di brutale violenza descritto dalla Yarbro sin dalle primissime pagine. Nella Strada non ci sono quasi accadimenti ma un continuum di giorni tutti uguali, dove apparentemente non succede nulla. Freddo. Fame. Tosse che scuote il petto. Sono questi gli avvenimenti che scandiscono le giornate dell’uomo e del bambino. Non c’è un inizio e non c’è nemmeno una fine, solo spezzoni di giorni tutti uguali che nemmeno la morte dell’uomo riuscirà a ribaltare. È noto che McCarthy ha impresso una svolta alla tecnica dei dialoghi e non solo per l’eliminazione di qualsiasi segno d’interpunzione. Nella Strada il fraseggio ha l’andamento di una partitura con gli “a solo” degli strumenti (in questo caso la voce dell’uomo e del bambino) a rimarcare il loro stato d’animo. Frasi “quasi bibliche”. Sentenze. In questo caso la scrittura è quanto di più astratto e lontano dalla quotidianità che possa esistere. A differenza di Tra gli orrori del duemila,


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dove la violenza si palesa in atti concreti (i massacri dei Vigilanti, l’assalto dei cani selvatici, la comunità di cannibali, il “convento” di monaci assassini) nella Strada tutto avviene nell’implicito e nei discorsi tra l’uomo e il bambino. Si parla di “buoni” e si temono “i cattivi”. I cattivi si cibano di carne umana e sono il peggiore incubo del bambino. Papà se ne sono andati? Sì, se ne sono andati. Li hai visti? Sì. Erano i cattivi? Sì, erano i cattivi. 8 E poi un breve, macabro cenno. Una pozza di viscere, ossa che paiono bollite, pelle. Nient’altro. Si diceva che in Tra gli orrori del duemila “i cattivi” sono i Vigilanti. In un mondo dove non esiste più ragione tutto è permesso. A comandare è il potere della forza e della violenza che coinvolge tutti, bestie comprese. La narrazione della lotta tra il procione e i cani selvatici è esemplare ed è contrapposta allo stupro subito da Thea poco prima. Il romanzo si legge come metafora della violenza urbana che sconvolge da sempre l’America e che ciclicamente raggiunge punte distruttive altissime. Basti pensare alla guerriglia che sconvolse Los Angeles nel ’92 e che da noi passò quasi inosservata. Nel 1977, anno in cui presumibilmente la

Yarbro scrisse Tra gli orrori del duemila, la guerra del Vietnam era finita da pochissimo e le ferite erano ancora tutte aperte e sanguinanti. Per l’americano medio, la sporca guerra rappresentò un’autentica apocalisse. Si dovettero fare i conti con il sogno americano svanito tra le paludi del Mekong, con una generazione mandata al macello e con i reduci che rappresentavano un’autentica mutazione morale. Non fu piacevole. Nel romanzo della Yarbro tutto trova una sua precisa collocazione; i territori in cui si muovono Thea e Evan Montague ricordano le campagne napalmizzate del Vietnam e la sistematica distruzione di villaggi da parte dei Vigilanti (che, guarda caso, rappresentano le vestigia di un esercito morto e sepolto) richiama ad altre ben più feroci distruzioni. 3. Il fuoco Sono passati quasi trent’anni da quando uscì Tra gli orrori del duemila e oggi in America la frontiera ora ha nomi diversi: Iran, Afghanistan, Iraq... I signori della droga. I signori del terrore. I signori della morte cosiddetta pulita. Bombe intelligenti e massima allerta. La paura assume connotazioni planetarie. Le Torri Gemelle insegnano, il Ground Zero è un monito costante. E poi c’è la crisi economica, ovviamente, e quell’8% di disoccupati che tanto preoccupa Obama. In questo contesto l’apocalisse di McCarthy è un deserto di morte dove non c’è davvero più nulla, soltanto i mangiatori d’uomini (i cattivi) e un pugno di disperati che girano senza una meta precisa (i buoni). Gli stessi “buoni” sono ondivaghi e, per fame e disperazione, potreb-


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bero trasformarsi in temibili cannibali. Il bene e il male, sembra suggerire McCarthy non sono definiti una volta per tutte e tra un colore e l’altro ci sono infinite gradazioni e infinite sfumature. Thea e Evan sono ancora capaci di arrabbiarsi, l’uomo e il bambino no. Solo un pensiero anima l’uomo ed è quello di erigersi a spietato giustiziere se qualcuno farà del male al bambino. Cosa c’è papà? Niente. E’ tutto a posto. Dormi. Ce la caveremo, papà? Sì. Ce la caveremo. E non ci succederà niente di male. Esatto. Perché noi portiamo il fuoco. Sì. Perché noi portiamo il fuoco9 Cos’è il fuoco? La compassione nei confronti dell’altro? Oppure la condivisione di esperienze per certi versi uniche e irrepetibili? O ancora l’emozione dura e superba come un diamante? McCarthy si guarda bene dall’esplicitarlo e forse è meglio così. In fondo ognuno di noi porta dentro di sé un piccolo fuoco di passione che alimenta ogni giorno, come fa il bambino. Il quale, a differenza del padre, è ancora capace di sentimenti e di pietà. McCarthy, tuttavia, non cade nella facile retorica dell’infanzia. Il problema è che forse il bambino è destinato a sopravvivere e a diventare l’adulto di domani, mentre l’uomo ha il destino segnato. Solo questo conta. 3. Strade — Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati.

— Dove andiamo? — Non lo so ma dobbiamo andare (Jack Kerouac: On the road ) Sulla strada si vive e si muore. Si combatte per la propria donna o per il proprio figlio. Si uccide se è necessario. Estensione di pensieri, emozioni e sentimenti, la strada è la cornice, o meglio il palcoscenico dove prende vita la commedia umana messa in piedi dalla Yarbro e da McCarthy. La strada nel suo prevedibile alternarsi di fuliggine, polvere acida e alberi moribondi, rimarca le giornate delle due coppie. Sulla strada si misura il loro coraggio e le loro capacità progettuali perché di volta in volta, bisogna difendersi dai razziatori, dai cani selvatici, dai Vigilanti, dai “cattivi”. Sulla strada si abbandonano bambini inermi e vecchi improduttivi, un po’ come succede in una società in continua e sfrenata corsa verso il raggiungimento di un benessere destinato sempre a più pochi. Le paludi erano ricoperte da una fosforescenza pesante: una luce che non serviva né a illuminare né a dare calore. Thea ne ignorava l’origine, ma si allontanò immediatamente. Dopo il disastro di Sacramento,


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33 McCarthy fotografato da Marion Ettlinger

quattro anni prima, la Valle era diventata una zona pericolosa…10 (Tra gli orrori del duemila). Salivano senza parlare, sorvegliando attentamente i cespugli che crescevano a fianco della collina. Verso la metà del pomeriggio giunsero in mezzo a innumerevoli tronchi di pini caduti, vittime dello smog. La polvere sollevata dal loro passaggio faceva bruciare gli occhi. Ma loro continuarono a salire. (Tra gli orrori del duemila) Proseguirono verso est in mezzo agli alberi morti. Passarono davanti a una vecchia casa di legno e mattoni e attraversarono una strada sterrata. Un pezzo di terreno sgombro che forse era un orto. Ogni tanto si fermavano ad ascoltare. Il sole invisibile non proiettava ombre…11(La Strada) Attraversarono quello che era stato un piccolo villaggio lungo la strada, raso al suolo dalle fiamme. Alcuni serbatoi di metalli, qualche camino di mattoni annerito. Nei fossi c’erano pozze grigie di vetro fuso, e matasse arrugginite di fili della luce scoperti lungo il

bordo della strada…12(La Strada) Da sempre la strada è stata un topos nella letteratura e nella cinematografia americana perché sulla strada si è formata e consolidata la Grande Nazione. A partire dalla metà dell’Ottocento e dalla parola d’ordine GO WEST file di carovane e coloni percorrevano l’America del Nord da est a ovest, aprendo piste e sentieri, combattendo una spietata e feroce guerra con i nativi, e infine edificando villaggi e città. E le donne erano sempre presenti a fianco dei loro uomini. Forti, preparate al sacrificio, combattive e nello stesso tempo capaci d’infinita tenerezza. Il matriarcato in America è un dato di fatto perché senza le donne probabilmente l’unificazione sarebbe stata senz’altro più lenta. Tra gli orrori del duemila l’eco di tutto questo rimane nella figura di Thea, autentica pioniera in un mondo in sfacelo. Nella Strada la donna non esiste. È un mondo tutto declinato al maschile dove l’unica donna importante, la madre del bambino, si uccide perché incapace di affrontare una realtà così terribile. A differenza della Yarbro che almeno in due occasioni fornisce al lettore spiegazione dello sconvolgimento subito dal genere umano, McCarthy non si preoccupa di chiarire le motivazioni che hanno portato alla catastrofe. C’è un prima e c’è un adesso fatto di disperazione, di fame e di morti ai bordi della strada. Ed è proprio in questo hic et nunc che si sviluppano le due narrazioni e se per McCarthy il passato ha il volto della moglie suicida, per Evan Montague sono Le nozze di Figaro e Mozart a risvegliare i ricordi. Thea ha ricordi


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Carlo Menzinger

McCARTHY

GRIGIE DISTOPIE sbiaditi del suo passato. Rimpiange il tempo dell’infanzia unicamente perché il cambiamento non era ancora definitivo. I suoi ricordi sono lievi: l’aria più pulita e dolce, i genitori, una musica che ogni tanto ascoltava e alla quale non sa dare un nome. Il bambino, invece, è nato a catastrofe compiuta. È stato l’uomo a tagliare il cordone ombelicale e a adagiare il piccino sul seno della madre. La madre abbandonerà l’uomo e il bambino in una sera gelida e piena di vento. Il bambino non ne parla quasi mai e si porta appresso questo lutto a cui ben presto si aggiungerà quello per la morte del padre. In entrambi i romanzi, la morte è una compagna costante che affianca il lungo cammino intrapreso da Thea e Evan e dall’uomo e dal bambino. L’uomo ha una pistola con due colpi in canna e insegna ad usarla al bambino per quando arriveranno “i

L

a strada di Cormac McCarthy è grigia di cenere. “La strada” di Cormac McCarthy è deserta e priva di vita. “La strada” di Cormac McCarthy è pericolosa e cupa. “La strada” di Cormac McCarthy non arriva da nessuna parte. “La strada” di Cormac McCarthy ti colpisce al cuore come una lama che poi non voglia più uscire. Lungo “La strada” di Cormac McCarthy ci sono solo un uomo e un bambino, senza nome, senza volto e senza età. L’uomo e il bambino percorrono da soli la loro strada verso sud, attraverso luoghi senza nome, in un’epoca futura ma senza date. Loro stessi non hanno bisogno di un nome dato che non ci sono altri con cui confonderli. Certo ci sono anche i “cattivi”, ma i “cattivi” non sono più umani, non “portano più il fuoco”, sono esseri spenti e malvagi, che mangiano i bambini ma anche gli adulti. Sono pochi ma pericolosi. Il bambino è figlio dell’uomo e l’uomo è il padre del bambino. L’uno è il mondo dell’altro. Se uno dei due dovesse mancare, l’altro non potrebbe andare avanti o così crede. Il mondo che attraversano è il più grigio dei mondi distopici che si possa immaginare. C’è stata un’apocalisse ma non sono morti tutti subito. Cosa l’abbia causata non lo sappiamo. L’autore non ce lo dice e non importa. Potrebbe essere stata una catastrofe nucleare, ma non si parla di radiazioni, solo di alberi bruciati, cenere, asfalto che si è sciolto. Più probabilmente è stato l’effetto di un enorme meteorite o magari di una colossale eruzione, che ha rilasciato le sue ceneri ovunque, nascondendo il sole. Ma non importa. Fa sempre freddo. Troppo freddo. Un freddo fisico ma anche morale. L’uomo e il bambino viaggiano verso sud, alla ricerca del calore, ma continuano a gelare. L’apocalisse si è verificata tempo fa. I sopravvissuti hanno fatto il resto. Hanno devastato, depredato, distrutto. Il cibo è finito e sono divenuti cannibali e cattivi. Anche se la rovina forse è stata opera della natura, il vero pericolo è l’uomo. L’uomo senza umanità. Un uomo troppo moderno nella sua mancanza di ideali e morale. L’uomo e il bambino vanno avanti anche se non c’è nulla in grado di alimentare la speranza, il piccolo fuoco che si portano dentro. Eppure continuano a cercare. Non sappiamo


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35 The Road (2009), regia di John Hillcoat, tratto dal romanzo di McCarthy.

cosa. Forse il calore del sud, forse i “buoni”, forse un’oasi. In realtà sopravvivono e basta. Malamente. A fatica. A volte sembra che non ce la facciano. La loro è una storia essenziale e primitiva e per questo la più vera e forte e amara e penetrante che si possa immaginare. Una storia così basilare da poter diventare eterna. Un piccolo capolavoro del genere più intenso che la letteratura conosca: un romanzo sulla sopravvivenza, come “Robinson Crusoe” di Defoe, come “La bambina che amava Tom Gordon” di King, come “Io sono leggenda” di Matheson, come il ciclo di Ayla della Auel. Qui però c’è in più l’aggiunta di un mondo distopico agghiacciante, più cupo di quello di “Blade Runner” o di “Matrix”, descritto con un linguaggio scarno, con dialoghi in cui le virgolette non compaiono, quasi forse un inutile vezzo in una storia di privazioni come questa, in cui i luoghi sono così privi di umanità che dar loro un nome sarebbe inutile: gli scivolerebbe via come pioggia sulla cenere. E non ci sono neppure i capitoli, ma non ci si fa caso, perché non vorremmo mai smettere di leggere, non vorremmo mai fermarci, per paura di gelare anche noi. “La strada” di Cormac McCarthy va percorsa fino in fondo. Non importa che non conduca a nessun lieto fine o a nessun evento risolutivo. Ugualmente bisogna andare avanti. Chi si ferma è perduto. Chi apre il libro non può chiuderlo fino a quando l’avrà finito e dopo… dopo gli resterà per sempre dentro. L’uomo e il bambino non potranno morire, perché saranno nel cuore di chiunque abbia letto la loro storia fredda e tagliente e aspra. Una storia in cui il passato è sconosciuto, il futuro misterioso, il presente ridotto al piccolo mondo di due corpi in movimento lungo una strada. Due corpi mossi da una piccola fiammella. Una fiammella quasi invisibile, ma sufficiente a sciogliere il gelo che li circonda. Una storia in cui il lettore può immaginare quasi tutto se vuole, le ragioni e le forme dell’apocalisse, lo stato del mondo, il suo futuro, la vita dell’uomo (di cui sappiamo pochissimo), il nome dei protagonisti, i loro pensieri. Cormac McCarthy non ci dice quasi nulla. Anche per questo ha scritto un capolavoro: un romanzo che si lascia sognare da chi lo legge.

cattivi”. Non aver paura, gli disse. Se ti trovano lo devi fare. Hai capito? Shh. Non piangere. Mi ascolti? Lo sai come si fa. Te la metti in bocca e la punti su. Veloce e deciso. Hai capito? Smettila di piangere. Hai capito?13 Ed è proprio in questa pesante e feroce eredità paterna (è da notare che l’uomo insegna al figlio di farla finita in più di un’occasione) che si palesa il mondo senza speranza della Strada. 4. Citazione e rimandi Fame e patimenti cavalcano le pagine dei due romanzi come sfrenati cavalieri dell’apocalisse e sia la Yarbro che McCarthy rimarcano con puntigliosità quasi maniacale la ricerca di cibo e la sua confezione. E allora via con la liturgia della scatoletta di fagioli, della carne affumicata, del maialino arrostito e divorato in zero secondi. La Yarbro si diletta di cucina e lo si


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sente nella cura con cui illustra ricette e attrezzistica. In Tra gli orrori del duemila a cucinare ci pensa Montague. Anche all’uomo spetta il compito di procacciare il cibo e cucinarlo. E così attraverso il cibo passano discorsi e filtrano ricordi su “come eravamo”. Montague insegna a Thea il piacere antico di stare a tavola e così fa l’uomo con il bambino. Thea non ha mai bevuto caffè, il bambino beve la sua prima (e unica!) Coca Cola quando l’uomo recupera una lattina da un distributore sventrato. Entrambi si sentono miracolati ma sarà una sensazione euforica di brevissima durata. E poi arriva un momento in cui i piaceri del passato irrompono con furia. È quando Thea e Evan trovano la valle nascosta con le ville abbandonate e non ancora razziate, e l’uomo e il bambino la botola che conduce a un paradiso sotterraneo di cibo, acqua, sapone e coperte. Questo è anche il punto di massimo avvicinamento dei due romanzi, quasi che l’uno sia il prolungamento dell’altro. 5. Finale – Il viaggio continua — Va bene — disse Evan. Andrai dove vuoi. Ma andremo insieme. Lei fece un misero tentativo per sorridere. — Forse non c’è nessun posto dove andare…. ..la neve cadeva fitta e le impronte alle loro spalle erano cancellate subito, come se loro non fossero esistiti.14 Tornò nel bosco e si inginocchiò accanto al padre. Era avvolto in una coperta come l’uomo aveva promesso, e il bambino

non lo scoprì ma gli si sedette vicino e si mise a piangere senza riuscire a fermarsi. Pianse per un bel pezzo. Ti parlerò tutti i giorni, sussurrò. E non mi dimenticherò. Per niente al mondo. Poi si alzò, si voltò e tornò verso la strada.15 NOTE 1 Il titolo di queste brevi note è preso in prestito da un romanzo di Fantascienza uscito nella Collana di Urania nel 1983: D.F. Jones: Sarà un futuro d’inferno (Bound in time) - Urania n. 945 – Mondadori, Milano, 1983. 2 Cormac McCarthy: La Strada (The Road), Einaudi, Torino, 2007, p. 5. 3 Chelsea Quinn Yarbro: Tra gli orrori del duemila (False Dawn) – Urania n. 784 – Mondadori, Milano, 1979. 4 Cormac McCarthy: opera citata. 5 Premio Pulitzer nel 2007. 6 Chelsea Quinn Yarbro: op, cit., p. 3. 7 Cormac McCarthy: op. cit., p. 3. 8 Ibid., p. 71. 9 Ibid., p. 64. 10 Chelsea Quinn Yarbro: op. cit., p. 5. 11 Cormac McCarthy: op. cit., p. 53. 12 Ibid., p. 146. 13 Ibid., p. 87 14 Chelsea Quinn Yarbro: op. cit. p. 162. 15 Cormac McCarthy: op. cit., p. 218.


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Claudio Asciuti

PIkADON

EMERGENzE NUCLEARI IN GIAPPONE Alla memoria di Vittorio Curtoni un fedelissimo della prima, non dell’ultima ora, dedica. Che il Distruttore Formale e lo Scuotitore dei Tuoni ne seguano il cammino verso il Libro dei Teschi. Alle vittime di Hiroshima e Nagasaki, a quelle dello tsunami del 2011. Lunga vita all’Imperatore! Alle vittime di Genova dell’alluvione del 2011.

1.Prima del Pikadon. 1.1.Testi sacri. Il Ko-gi-ki e non fosse più necessario de-giudaizzare e de-cristianizzare la cultura europea, ripristinando sul piano linguistico, ontologico e cognitivo i termini del politeismo, così potremmo cominciare questo articolo: “In principio era il pikadon...”. Incipit che sebbene ripetuto migliaia di volte, nel corso di articoli, saggi, recensioni, articoletti e simili, suscita sempre qualche brivido archetipale nel lettore; ma poiché stiamo parlando delle immagini del disastro nucleare in ambito nipponico, facciamo appello al Ko-giki, redatto da Yasumaro nel 712 e.v., che raccoglie le antiche tradizioni nonchè tutta la genealogia divina: testo sacro e primo testo scritto della letteratura nipponica: I primi tre dèi. All’inizio del cielo e della terra; i nomi degli dei che ebbero origine nell’alta pianura del cielo; il dio Ame-no-mi-naka-nushi; poi il dio Taka-mi-mu-su-bi; poi il dio Kami-mu-su-bi. Questri tre pilastri di dèi, tutti, ebbero origine come dèi unici, e nascosero il corpo. Il quarto e il quinto dio. In seguito, nel tempi in cui il giovane paese, era simile a olio galleggiante e fluttuava

S

come una medusa. (pag.32) Il Ko-gi-ki seguita con la genealogia degli Dèi nipponici e la cronologia dei primi regnanti fino al 628 e.v., sfumando il mito in storia; e sarebbe istruttivo ma fuorviante seguirne ora le tracce. Limitiamoci così a questi versetti e seguire il filo logico che ci porta, in un’eventuale parafrasi incipitaria, “all’inizio del cielo e della terra, quando nell’alta pianura del cielo ebbe origine il pikadon”. E al Giappone che ha forma medusea... 1.2. La fine dell’Asse. Cosa avvenne nei giorni di Hiroshima? Torniamo indietro con la memoria all’agosto 1945. L’Asse Roma-Berlino-Tokio era andata oramai in pezzi. Italia e Germania “liberate”, invase, aggiogate all’orbita atlantica o sovietica avevano perduto ogni residua sovranità nazionale. Il Giappone resisteva, sempre più a fatica, stretto dalla potenza bellica dei futuri padroni del mondo, quando per una serie di motivi più politici che strategici, fu deciso il lancio delle prime due atomiche. La bomba di Hiroshima, Little Boy, (stima del dicembre 1945) costò la vita a circa 140.000 persone; per Nagasaki a proposito della seconda, Fat Man, si parla di una cifra che va dai 70 agli 80.000; nel totale tre volte tanto (e parliamo di civili) il numero dei marinai yankee (quindi militari) caduti in combattimento nel Pacifico. I colpiti dagli effetti a lungo periodo furono calcolati in 350.000 per Hiroshima e 270.000 per Nagasaki. Fu il più grande e organizzato massacro di civili nella storia del conflitto, e ancora oggi i padroni del mondo si guardano bene dal chiedere scusa; in pos-


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sesso però del più ampio e raffinato repertorio di testate nucleari s’indignano se qualcuno osa, motu proprio, intervenire in un qualunque programma atomico (da loro) non autorizzato, vedi Iran e Corea del Nord. Come scrisse Allen Ginsberg in America (1956): America quando la finiremo con la guerra degli umani? Vai a farti fottere con la tua bomba atomica. 2. Il Pikadon. 2.1. Lampi sul Giappone. In giapponese il pikadon (o picadon nelle traslitterazioni moderne) è il lampo della bomba atomica; immagine che torna costante nella memoria dei sopravvissuti, ma anche di chi è impegnato a decifrare visivamente il contrasto; qualcosa che assume un sinistro e maligno connotato quasi metafisico, la forma di una distruzione che prima che esser tecnologica è teologica, quasi più che vendetta della potenza imperialista statunitense e monito a quella sovietica, fosse un richiamo supernaturale di una qualche divinità pronta, come la storia ci insegna, a spodestare la condizione divina del Tenno. A dire che dinnanzi alla cultura shintoista dell’eterno Giappone, la banda di Wall Street oppose il pragmatismo dell’economia bellica trasformato in nube radioattiva. A hard’s rain gonna fall, cantò in seguito Bob Dylan. Pikadon. Etimologicamente spurio, onomatopeico per eccesso sensoriale, è il nome con cui gli abitanti di Hiroshima e sopratutto i bambini battezzarono l’esplosione della Bomba. Una delle migliori descrizioni appartiene a Robert Jungk, trascritta dalle parole di

Kazuo M. (dove Kazuo è il nome, M. il cognome; contrariamente all’uso nipponico, l’autore pone il cognome in secondo luogo), in Hiroshima il giorno dopo (1959). Kazuo M è un sopravvissuto alla Bomba, lavoratore, poi piccolo delinquente, infine assassino condannato all’ergastolo: Fin laggiù, fino a quel sobborgo Furue, lontano parecchi chilometri dal centro dell’esplosione di “quella bomba”, erano giunti gli artigli mostruosi dello spostamento d’aria, distruggendo nello spazio di secondi quanto avevano trovato per via. Kazuo non dimenticò più quella luce abbagliante, che pareva riflessa dalla smisurata e scintillante lama di una sciabola, il sordo fragore della lontananza, “Do...dooo”, che avvicinandosi si traformò in un “jiiiii...inn” aspramente stridulo e poi squillante che quasi gli forò i timpani, prima di scagliarlo in un abisso senza fondo con un “Gwamm!” come di mille tamburi: Pika (= lampo) DON (= tuono). (pag. 24) Rober Jungk (1913-1994) era il giornalista austriaco che per primo indagò i misteri dell’energia atomica e i suoi orrori, in una serie di libri giustamente rimasti famosi; e in questa veste fu anche uno dei più attivi corrispondenti con le vittime della Bomba. Il suo lavoro (forma ridotta del materiale originario che, avverte in una nota, di volumi ne occuperebbe otto) segue la storia esemplare (o archetipica, se vogliamo) di un giovane che magari sarebbe diventato uno scrittore o un poeta e a causa del pikadon è diventato invece un delinquente. E proprio in quest’asserzione


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(che il reverendo Tamai introduce in un suo discorso con Jungk, tramite l’interprete Willie Togashi), si ritrova la cifra della comprensibilità metafisica del Lampo, o meglio, il suo nascosto significato, in quello che Kazuo definisce “il cheloide del cuore”: “Già, - osservò il reverendo Tamai - il cheloide del cuore (come lei sa, si chiamano cheoloidi le larghe ustioni rilevate che qualcuno dei sopravvissuti ha conservato fino a oggi); Kazuo me ne parlato spesso. E’ persuaso che senza le profonde ferite spirituali sofferte il giorno del pikadon e nei giorni successivi, egli non sarebbe mai diventato quello che è ora: un assassino. Anzi, diciamolo apertamente, un assassino e un rapinatore.” (pag. 21) Causa principale della mutazione psicologica di Kazuo, come del mondo di Hiroshima e di Nagasaki, il Pikadon, sineddoche della Bomba ma nel contempo residuo della memoria collettiva, insegue le testimonianze dei superstiti, interviene nei sogni nipponici, indaga in cronache e finzioni narrativi; assieme alla Nube e alla Pioggia Nera, il Lampo è il costituente di una triade distruttiva impressa nella memoria. Non esiste testimonianza che non segua questa tripartizione, che in qualche modo non scomponga la Bomba in un Lampo, una Nube e una Pioggia Nera, pars pro toto di un unico ricorrente incubo che dal 1945 accompagna il mondo e in particolare quello nipponico. Una prima funesta triade, che di primo acchito ci riporta direttamente in mano al Ko-Gi-ki e alla teogonia nipponica con le sue divinità tripartite.

2.2. Cronache dei sopravvissuti. Diari di Hiroshima Dopo che il Pikadon esplose nel cielo di Hiroshima, e poi in quello di Nagasaki, i primi soccorritori cercarono di entrare in azione. Si ignorava tutto: da quale fosse l’arma utilizzata, a quali gli effetti, al modo di curare i colpiti. In altri termini i giapponesi, avvezzi alla guerra con modi tradizionali (e martoriati dai bombardamenti terroristi in cui gli “Alleati” erano maestri), non avevano idea dell’accaduto. Fra i primi soccorritori ci fu Michihiko Hachiya, un medico di Hiroshima che dal 6 agosto al 30 settembre scrisse un diario, Il diario di Hiroshima, che originariamente apparso nel 1950 sulla rivista medica Teshin Igaku, venne tradotta e a cura di Werner Wells pubblicata negli USA. L’esplosione coglie Michiniko mentre sta riposando. Ecco il Lampo: All’improvviso fui abbagliato da un lampo di luce, seguito immediatamente da un altro. A volte, di un evento, si ricordano i più minuti particolari: rammento perfettamente che una lanterna di pietra nel giardino si illuminò di una luce vivida, e io mi chiesi se fosse prodotta da una vampa di magnesio, o non piuttosto dalle scintille di un tram di passaggio (pag.13). In mezzo a una fittissima nube nera di polvere e detriti, ferito e malconcio, il dottore viene soccorso e giunge all’ospedale dove viene curato, ma l’ospedale prende fuoco e viene evacuato. E comincia la Pioggia Nera: Presero a cadere pesanti gocce di pioggia. Qualcuno disse che era iniziato un temporale e che avrebbe spento gli incendi. Ma furono


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solo poche gocce sparse. (pag. 19) e in una nota la relativa spiegazione, ad opera del curatore: Numerosi testimoni riferirono che, dopo il bombardamento, caddero a più riprese poche gocce di pioggia, descritte come grosse e sudice; alcuni sostengono che erano cariche di polvere radioattiva. (idem) Le testimonianze successive seguono lo schema iniziale. Ecco quella del dottor Tabuchi: “Quando è avvenuta l’esplosione,” rispose il dottor Tabuchi “ero nel mio giardino, intento a potare gli alberi. All’improvviso, ho visto un lampo di luce bianchissima e accecante, e sono stato investito da una vampata di calore.” (pag. 24) e del signor Katsutani: “Avevo appena finito di far colazione”, rispose il signor Katsutani “e stavo per accendermi una sigaretta, quando all’improvviso c’è stato un lampo bianchissimo, seguito subito dopo da uno scoppio tremendo. (pag. 27) “In direzione di Hiroshima, ho visto una grande nube nera che si andava gonfiando, come il nembo di un temporale estivo.” (pag. 29) e del signor Hashimoto, che venendo da Itsukaichi, a circa sei chilometri da Hiroshima, è l’unico ad aver visto il Lampo e la Nube dall’esterno: “E’ stata un’esperienza terribile”, disse, e dopo una breve pausa riprese: “Il tram era appena partito dalla stazione di Itsukaichi, ed era giunto all’altezza della clinica chiurgica Myake, quando si udì un tremendo don. Nello stesso istante il tram si fermò e i passeggeri

si precipitarono fuori, correndo verso la stazione. Pensando che il pericolo venisse da lì, mi diressi verso la strada maestra. E proprio allora vidi un’enorme nube che si levava minacciosa su Hiroshima; le facevano corona una serie di nuvolette color oro. Uno spettacolo grandioso, come non ne avevo mai visti in vita mia!” (pag. 169) “Ah che magnifica nuvola! Non era esattamente né rossa né gialla, e la sua bellezza è indescrivibile.” “E la nube si alzava perpendicolarmente?” chiesi ancora. “Era perfettamente perpendicolare, come se nel cielo di un azzurro terso fosse stata tracciata una linea verticale, e aveva contorni nettissimi”. (pag. 170) L’idea della Nube risulta affascinante anche per Michihiko, che si interroga su quel particolare fenomeno: Quando il signor Hashimoto si allontanò, cercai di immaginare l’aspetto del cielo con la cortina d’oro che mi aveva descritto. Mentre lui era intento a osservare il fenomeno, noi cercavamo di fuggire dalle case in rovina o stavamo vagando nell’oscurità che era scesa du Hiroshima. Chi si era trovato in città, dava della pika una versione ben diversa da chi l’aveva visto da lontano. I primi dicevano che il cielo pareva dipinto con del sumi leggero e non avevano visto altro che un lampo di luce accecante; per gli altri, invece, il cielo era apparso di un magnifico color giallo oro, e si era udito un rombo assordante. La distanza fra Hiroshima e Itsukaichi era bastata perché le impressioni differissero completamente.


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Il signor Hashimoto mi era sembrato un acuto osservatore. Moltissimi avevano parlato di una grossa nube gonfia che si levava a forma di fungo o di una minacciosa nuvola che prima si alzava in cielo e poi assumeva la forma di un fungo nero, ma non ero mai riuscito a farmi un’idea precisa dell’aspetto del cielo in cui saliva la nube. Avevano già udito altri raccontare che era stato uno spettacolo straordinario, in particolar modo coloro che si trovavano a Fuchu o a Furuichi, ma ora riuscivo finalmente a raffigurarmi la nube dai contorni nettissimi sullo sfondo del chiaro cielo d’agosto. Nel momento preciso in cui si formava quella nuvola dai colori cangianti, veniva cancellata dalla faccia della Terra la città di Hiroshima; il risultato di anni e anni di lavoro si era dissolto, assieme a chi l’abitava, in quel cielo stupendo. (pag. 171/172) Detto che il sumi è sia l’inchiostro di china che il carbone, appare evidente come le testimonianze dei sopravvissuti concordino su ciò che è avvenuto. Il diario di Michihiko è una preziosa e realistica testimonianza, non mediata da nessuna forma artistica (quando lo scrisse non pensava alla pubblicazione) di ciò che è avvenuto, sia nella forma di medico impegnato a curare, per quanto è possibile, i colpiti dalla malattia Atomica, e di malato che dettagliatamente registra quel che avviene dentro al suo corpo, compresi gli incubi: M’era parso di essere a Tokyo, dopo il grande terremoto; attorno a me c’erano mucchi di cadaveri in putrefazione, e tutti quei morti mi fissavano. Sul palmo della mano, una ragazza reggeva un occhio, e l’occhio a un certo

punto schizzò via, verso l’alto, e poi mi precipitò addosso, così, guardando in su, vedevo un enorme globo oculare nudo che puntava dritto sulla mia testa, sempre fissandomi. E io non riuscivo a muovermi. (pag. 122) Base dell’incubo è un racconto fattogli da un uomo, un visitatore venuto a farsi curare: “Gli ustionati erano così numerosi che si sentiva un puzzo simile a quello del merluzzo posto a seccare. Parevano polpi bolliti. Non ho mai visto uno spettacolo simile. Kei, dottore,” continuò “ritiene che un uomo riesca a vederci da un occhio che gli è caduto dall’orbita? Bene, io ho visto un uomo che aveva perso un occhio in seguito a una ferita,. E che se ne stava lì, con l’occhio sul palmo della mano. Mi sentii gelare il sangue: l’occhio pareva proprio che mi stesse fissando. Glielo assicuro, dottore, la pupilla era puntata contro di me,. Crede che quell’occhio riuscisse a vedermi?” (pag. 108) Nelle sue pagine, incentrate nel tentativo del dottore e degli operatori sanitari di salvare più gente possibile, scorrono immagini visi sciolti dal calore, occhi penzolanti, volti sfigurati. corpi martoriati, mutilati, cadaveri che galleggiano nell’acqua, ombre stampate contro i muri, ustioni; una vera e propria galleria dell’orrore che servirà di base, come la maggior parte delle testimonianze raccolte, a costruire un catalogo di situazioni utile agli scrittori successivi; a quelli, cioè, che, sopravvissuti o meno alla Bomba, stringeranno le fila combattendo prima contro la censura degli invasori americani, poi contro la memoria stanca dell’ufficialità giapponese, per ricordare al mondo quel che è avvenuto a


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DA HIROSHIMA A FUkUSHIMA Hiroshima e Nagasaki. 2.3. Genbaku Bungaku, la letteratura dei sopravvissuti Fra i diversi generi che la letteratura nipponica ha sviluppato, il genbaku bungaku (ovvero la “ letteratura della bomba atomica”), è quello la cui data di nascita coincide con l’agosto 1945, e mostra nelle sue varie ramificazioni un particolare sviluppo, sia formale che tematico. Al centro di un dibattito costante fra i critici, che spesso hanno preso le distanze dal genere, quando non l’attaccato hanno apertamente, il genbaku, come nota Laura Bienati, viene di solito suddiviso in tre periodi: gli anni dal 1945 al 1951 in cui, nonostante la censura degli invasori americani gli scrittori, siano essi veri e propri hibakusha o semplici testimoni dei fatti, avvertono la necessità di parlare di quel che è accaduto; fra i tanti, Hara

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l terremoto dell’11 marzo 2011 in Giappone ha fatto tornare con agghiacciante attualità la paura nucleare. Proprio nel paese che ha conosciuto, per primo, la capacità distruttiva della bomba atomica. L’uomo non si accontenta di trovare giustificazioni plausibili alle catastrofi naturali. Fa di più. Provoca catastrofi artificiali, più disastrose di quelle naturali. Da Hiroshima e Nagasaki, dove sono state sganciate le prime bombe atomiche nel 1945, in poi. Già Voltaire, nel suo Poème sur le désastre de Lisbonne aveva provato a sollevare l’uomo dalle responsabilità delle catastrofi, attribuendole non al caso, ma a un disegno superiore, perché il bene e il male sono parti inscindibili del mondo e parimenti necessarie. Si tratta di un ragionamento secondo il quale le catastrofi naturali sarebbero inviate dalla divinità per punire gli uomini per i loro peccati, ma non spiega il sacrificio degli innocenti, accomunati nel medesimo destino assieme ai malvagi: una distinzione morale assai discutibile: qualcuno potrebbe obiettare che non esistono “innocenti” in senso assoluto, e che lo sguardo divino sa spingersi oltre nel tempo, oppure, al contrario, che nessuno è “colpevole”. Imputare al divino la responsabilità di una catastrofe significa comprenderla come realtà necessaria alla logica dell’esistenza sulla terra, e sopratutto escludere il presupposto della “responsabilità” umana. Ciò che non è imputabile al divino sono le catastrofi prodotte dall’uomo che, con palese ipocrisia, si definiscono “morali”, tra le quali si collocano i disastri colposi, altrettanto imprevedibili, come quello di Viareggio del 29 giugno 2009, o di Chernobyl dell’aprile 1986, che coinvolgono la tecnologia impiantata dall’uomo, ma che si presentano sotto la veste di un


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La responsabilità delle catastrofi è sempre della Natura? accadimento accidentale, il cui rischio di avverarsi è talmente basso da non essere preso in considerazione. Si definisce allora una “fatalità”, rendendola assimi labile a un fatto naturale. Perché il caso, quando sono state osservate tutte le prescrizioni previste dai protocolli della sicurezza – e, soprattutto, quando non c’è dolo – non può che essere ricondotto tra gli eventi “naturali” ineluttabili. Avrà ragione Susan Neimann a individuare nel pensiero occidentale un qualche regresso, osservando come oggi si tenda, più che in passato, a imputare alla natura gran parte delle responsabilità per ciò che accade nel mondo e che non riusciamo a impedire. Una probabile conseguenza della forzata convivenza con la paura e della sua accettazione. Il che ci porta a riflettere che quando accadono eventi di una portata ben superiore alla comprensione umana, siano essi determinati dalla malvagità degli uomini, dall’errore colposo o da cause naturali, c’è la tendenza a raccogliergli tutti sotto la comune categoria del “destino” o della “fatalità”: che ci sia o meno, dietro tutto questo, un dio crudele e vendicativo, una divinità complessa che distribuisce bene e male secondo una ricetta ponderata, oppure un disegno casuale che colpisce senza senso, mietendo vittime innocenti assieme ai colpevoli, non ha importanza. L’importante è rimuovere la paura irrazionale e ricondurla a una forma conosciuta. Da una parte si giustificano le catastrofi naturali, imputandole a una volontà superiore che, a differenza dell’uomo, ne conosce le ragioni; dall’altra si riducono le catastrofi umane al rango di quelle naturali, per sottrarsi all’orrore e all’incredulità straziante del male. Così il cerchio si chiude in una perfetta simmetria. (C. B.)

Tamiki; gli anni dal 1956 al 1962, in cui dopo la messe di opere dei primi anni Cinquanta, si assiste ad una diminuzione delle opere e un generale deteriorarsi della qualità letteraria; gli anni dal 1963 al 1967, che segnano la ripresa del genere e infine l’apogeo della saga nucleare con La pioggia nera (Kuroi ame, 1965), l’opera di Ibuse Masuji maggiormente diffusa e conosciuta. In seguito la “letteratura della bomba atomica” tende a mutarsi in “letteratura del nucleare”, indicando con ciò ogni tipo di opera che abbia in qualche modo a fare con l’incubo dell’atomo. 2.3.1. Hara Tamiki Hara Tamiki (19051951) è uno degli hibakusha, uno di coloro che furono travolti dalla Bomba; anche per lui, come per Katzuo M., il Pikadon diviene il discrimine della propria esistenza, già provata


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dalla morte della moglie nel 1944. Dall’evento di allora, fino alla morte per suicidio (un destino comune agli hibakusha, che non va annoverato tanto nella tradizione nipponica del suppuku, quanto nella complessa psicologia del sopravvissuto), Hara seguita a scrivere della tragedia lungo una serie di opere, di cui tre sono tradotti in italiano in un’edizione compilata appositamente e introdotta da Oe Kenzaburo, già curatore in Giappone di una raccola completa: Preludio alla devastazione (1949), Fiori d’estate (1946), Dalle rovine (1947), tre momenti della vita degli abitanti di Hiroshima: prima della Bomba, durante e dopo, e sebbene scritti in momenti storici e psicologici differenti, mantengono inalterati la tensione drammatica della guerra e lo spazio della catastrofe. Poiché il popolo giapponese è un popolo dalla sensibilità quasi esacerbata, nulla di strano che la fiammeggiante luce del Pikadon prenda il nome di Fiori d’estate: All’improvviso, dopo non so bene quanti secondi, sentiii un’esplosione sopra di me e un velo nero mi scivolò davanti agli occhi. Istintivamente gridai, portai le mani alla testa e saltai in piedi. In mezzo a quel buio pesto, la sola cosa che riuscissi a distinguere era il runore di qualcosa che si frantumava al suolo, come un uragano. (pag. 68) queste sono le parole del protagonista. A cui seguono altre testimonianze: Mio fratello disse che in quel momento era al tavolo dello studio, e quando il lampo aveva attraversato il cielo sopra il giardino, era stato sbalzato via di qualche metro, finendo sotto la casa, e si era dibattuto per un tempo

più o meno lungo. (pag. 74/75) Mia sorella, invece, aveva visto un fascio di luce dall’ingresso di casa, e non aveva riportato che poche ferite perché si era subito riparata sotto la scala. Ognuno di noi, all’inizio, aveva pensato che a essere colpita fosse stata soltanto la propria casa, ma quando, una volta usciti, vedemmo che tutto era stato raso al suolo, restammo a bocca aperta. Inoltre, nonostante fossero crollati tutti gli edifici, ci meravigliammo nel non trovare nessuna voragine che facesse pensare allo scoppio di una bomba. Successe un attimo dopo che l’allarme antiaereo fu rientrato, Qualcosa brillò, si sentì un leggero fruscio, come quando brucia del magnesio, e nello stesso istante la terra si capovolse sotto ai nostri piedi. Sembrava un incantesimo, raccontava mia sorella. (pag. 75) Ecco una delle chiavi di lettura della Bomba. Sembrava un incantesimo, raccontava mia sorella. Nel mondo in cui la modernità materialista ancora non ha fatto ingresso, il forzoso incontro della morte tecnologica con il mondo naturale nipponico assume il sapore della fascinazione magica. Il Lampo e la Nube e gli scuotimenti sono il segno (metafisico, ancora una volta) di qualcosa che sembra appartenere a un ordine diverso delle cose, apparsi come per una cattiva magia in cielo. (1-segue)


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Domenico Gallo

TECNOLOGIA, APOCALISSE E FANTASCIENzA Giudizio. Risorgeranno le schiere dei morti, disponendosi innanzi al loro giudice, il Cristo.” Gioacchino da Fiore

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er decenni ci siamo interrogati sulle origini della fantascienza, sul ruolo che questo genere letterario ha avuto nell’ultimo secolo, sui motivi del suo folgorante successo e sull’inestricabile mappa di rapporti con gli altri elementi del mondo sociale. E ancora l’enigma, mai completamente risolto, della fortuna letteraria che ha avuto negli Stati Uniti e non altrove. In Europa, infatti, tanto nel blocco occidentale quanto in quello sovietico, la fantascienza non è mai riuscita a produrre una mole di opere neppure lontanamente paragonabile a quella statunitense. Analogamente è negli Stati Uniti che, assorbiti i precursori europei, si sviluppano tutte le tematiche più importanti. Dunque è nella società statunitense, nella sua storia, che devono essere cercati gli elementi capaci di spiegare in profondità il ruolo svolto per quasi un secolo da questo genere letterario. Una guida per queste riflessioni può essere l’opera di David F. Noble, uno storico della tecnologia e dell’organizzazione del lavoro che ha dedicato pagine molto importanti allo studio della società statunitense. Nel suo primo saggio, Progettare l’America, David Noble approfondisce e critica il tema del mito moderno della tecnologia. Per molti storici dell’epoca, il libro viene pubblicato nel 1977, “è divenuto di moda spiegare la miriade di cambiamenti sociali che accompagnano la diffusione dell’attività tecnologica in modo tautologico, con un semplice riferimento a

una pretesa caratteristica naturale di questa attività: essa si sviluppa” (Noble, 1977; pag. XIV). Secondo questo modello si attribuisce alla tecnologia come una vita propria, indipendente dalla società entro cui si sviluppa, quasi “una dinamica interna che si nutre di quella società che l’ha scatenata” (Noble, 1977; pag. XVI). Essa viene ridotta a una forza immanente capace di operare in maniera quasi autonoma e di trascendere la stessa volontà degli uomini che l’hanno generata. Si tratta di un tema ricorrente della “mitologia moderna” che ha prodotto molti riflessi nell’immaginario e che riguarda le diverse figure che descrivono l’ammutinarsi delle creazioni umane al proprio creatore, fino all’esplicita ribellione. Si tratta di una metafora eccezionalmente efficace per rappresentare il rapporto che intercorre tra l’uomo e le sue creazioni, ma che, come sottolinea Noble, troppo spesso la metafora si sostituisce alla storia, nascondendo la complessità del sistema sociale basato sulle tecnologie, non tenendo conto di quanto sia proprio la società a conferire un significato alle tecnologie che la caratterizzano. La conseguenza diretta di questa visione spinge a distinguere tra cultura scientifica e cultura umanistica, che, come possiamo leggere nell’introduzione scritta da Ludovico Geymonat al saggio divenuto un classico di Charles P. Snow Le due culture, “costituisce un grave motivo di crisi della nostra civiltà” (Geymonat, 1964; pag. VII). Noble dedica interi capitoli di Progettare l’America a mostrare come tecnologia e società siano aspetti diversi di un processo unitario tradizionalmente


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chiamato produzione sociale. Evidentemente il protrarsi e l’evolversi di questa separazione tra tecnologia e società è proprio uno dei motivi della nascita e del successo della fantascienza. L’ostinazione a voler separare gli aspetti tecnici dal contesto culturale è certamente un elemento importante della tecnica del potere, approfondito anche da Michel Foucault in molti suoi scritti, soprattutto perché non consente di comprendere pienamente l’origine e il ruolo che le tecnologie svolgono nella nostra società. “La tecnologia, quale fenomeno essenzialmente umano, è pertanto anche un processo sociale; non si limita a promuovere lo sviluppo sociale dall’esterno, ma anzi costituisce sviluppo sociale di per sé: la preparazione, la mobilitazione e l’adattamento degli uomini a nuovi tipi di attività produttive, il riorientamento del modello degli investimenti sociali, la ristrutturazione delle istituzioni sociali e, potenzialmente, la ridefinizione dei rapporti sociali” (Noble, 1977; pag. XVIII). La fantascienza, per decenni, ha rappresentato proprio uno dei tentativi di ricomposizione di questa frattura e ha svolto una funzione di progressiva scoperta del lato tecnologico della società e delle profonde ramificazioni che connettono ogni tecnologia alla modifica delle relazioni umane. Ma l’aspetto più interessante del lavoro di Noble è un contributo quasi unico sul rapporto tra tecnologia e religione, uno studio che ha radici nel mondo medievale fino a scoprire i legami che intercorrono tra il mondo spirituale e la tecnologia. Ne La religione e la tecnologia si dimostra come il fascino che la tecnologia esercita ai giorni nostri, e che ri-

teniamo provenga dalla lezione dell’Illuminismo, sia in realtà radicato nelle concezioni religiose medioevali e che, nonostante lo spirito razionale governi la ricerca scientifica e tecnologica, scienziati e tecnologi sono “guidati da sogni lontani, da impulsi spirituali verso una redenzione sovrannaturale” (Noble, 1997; pag. 3). L’intuizione di Noble nasce dall’osservazione che l’incompatibilità tra l’infatuazione per il progresso tecnologico e il diffuso risveglio religioso sia solo apparente. Infatti la tecnologia occidentale, che ha avuto la sua esplosione durante le due rivoluzioni industriali, trae la sua origine dal modello di progresso che si era sviluppato durante il medioevo, quando la tecnologia inizia a essere classificata come un elemento trascendente e un motivo di redenzione. Norman Cohn, nel suo saggio I fanatici dell’Apocalisse, sintetizza con efficacia alcuni elementi di novità che il cristianesimo è stato capace di strutturare durante la sua straordinaria diffusione. Con l’introduzione della Trinità e, in maniera minore, con il culto dei santi, il Cristianesimo riporta in vita il politeismo romano, ma con l’acuta intuizione di affiancare elementi umani al complesso divino. Noble scrive “questa volta assegnando agli uomini un posto nel pantheon divino” (Noble, 1997; pag. 12). Adamo era stato creato a immagine e somiglianza di Dio, ed era una creatura immortale. Nella Genesi troviamo: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza”, dove l’uso del plurale è stato molto discusso e presenta diverse interpretazioni.


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Con la Caduta l’uomo perde questa caratteristica, ma le successive ristrutturazioni apportate dal Cristianesimo comportano la possibilità per l’uomo di recuperare quello stato perduto. La facoltà di riacquisire quello stato originale antecedente alla Caduta è documentata in molte pagine della Bibbia, ma, soprattutto, trova un’esplicita qualificazione nell’Apocalisse di Giovanni, “la rivelazione di Gesù Cristo che Dio gli diede per rendere noto ai suoi servi le cose che devono presto accadere”. Riprendendo le tesi di Jacques Ellul su Agostino, la tecnologia esiste nel mondo materiale soltanto dopo la cacciata dell’uomo dall’Eden, perché l’umanità, nella sua precedente condizione edenica, non ne aveva bisogno. Per Agostino l’evolversi della tecnologia non avvicinava l’uomo alla trascendenza. Questa visione sostanzialmente negativa della tecnologia comincia a modificarsi nel Medioevo, e secondo alcuni storici coincide con l’introduzione in Francia dell’aratro pesante, quando inizia a diffondersi l’idea dell’uomo sfruttatore della natura. Dobbiamo al filosofo Scoto Eriugena la definizione all’interno del suo quadro teologico del concetto di artes mechanicae come un aspetto che apparteneva a quella dote originaria che faceva parte della somiglianza con Dio. Si trattava di doti innate nell’uomo, dimenticate a causa della Caduta, ma recuperabili. A partire dal XII secolo iniziò a diffondersi una diversa concezione del

millenarismo che conciliava la nuova visione tecnologica coerente con il pensiero cristiano. Questo progressivo miglioramento della vita degli uomini, ottenuto con le tecnologie, lasciava intravedere un futuro sempre migliore che iniziò a coincidere con l’avvento della Città di Dio. Noble chiama questa visione apocalittica con il termine “millenarismo storicizzato” e osserva che “la tecnologia divenne ora allo stesso tempo escatologia” (Noble, 1997; pag. 28). È interessante notare come i filosofi medievali abbiano cercato di ridurre le contraddizioni che insorgevano dal mondo materiale e dalle sue tecniche rispetto al quadro religioso di origine agostiniana. In questo caso, soprattutto nel centro-nord europa, vengono a convergere le visioni apocalittiche del futuro in cui sarebbe concesso agli uomini di riacquisire l’originaria perfezione, con un’idea estremamente moderna di risollevarsi dalla povertà e dalle sofferenze del mondo della Caduta attraverso gli strumenti delle artes mechanicae. Sono Giacchino da Fiore e Roger Bacon ad attribuire un ulteriore significato importante all’apocalisse, e interpretare il progresso del mondo tecnologico come “strumento di anticipazione e di preparazione per il regno a venire, di per sé segno certo che quel regno fosse vicino (Noble, 1997; pag. 33). Bacon attribuiva un grande valore alle forme di conoscenza empirica, e nei suoi scritti ipotizzò la costruzione di sottomarini, aeroplani, macchine per sollevare pesi e navi dotate di motore. Nel suo itinerario verso l’apocalisse, di generazione in generazione, Bacon scrive nell’Opus Maius che il progresso tecnologico dell’umanità ha già


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recuperato gran parte delle arti perdute con la cacciata dal Paradiso Terrestre e che le altre, attraverso lo studio e la devozione, sarebbero state presto riacquisite. A partire da Bacon molti intellettuali proseguirono nell’approfondire questa idea dell’escatologia della tecnologia. Studiosi come Paracelso, Tommaso Campanella e Francis Bacon scrissero pagine importanti, fino a giungere a figure esplicite di scienziati come Robert Boyle e Isaac Newton che interpretavano le loro strepitose scoperte all’insegna di un quadro teologico che deriva coerentemente dalle intuizioni di Scoto Eriugena. Ai giorni nostri, dopo un periodo in cui è sembrato che il progresso assumesse un aspetto rigorosamente laico, sempre David Noble descrive come nel Novecento riappaiano le visioni millenaristiche e apocalittiche del passato. Da un lato osserva come il nazismo abbia utilizzato visioni millenaristiche all’interno della sua propaganda, dall’altro descrive come nella stessa costruzione della bomba atomica sia frequenti riferimenti religiosi da parte degli scienziati più importanti del progetto Manhattan. La prima esplosione atomica avvenuta ad Alamogordo, nel New Mexico, il 16 luglio 1945, si chiamava Trinity test. Il nome venne proposto da Robert Oppenheimer che, a proposito dell’evocazione della Trinità, diversi anni dopo disse: “C’è una poesia di John Donne, scritta poco prima della sua morte, che conosco e che amo. Come l’Occidente e l’Oriente, in tutte le mappe stese, e io sono una, siamo una, così la morte toccherà la Resurrezione” (Noble, 1997; pag. 137). E ancora Oppenheimer ri-

corda altri versi di John Donne, come “battono al mio cuore, le tre persone di Dio” (Noble, 1997; pag. 137). Il potere di distruzione della bomba atomica immediatamente richiama le immagini dell’Apocalisse di Giovanni. Oppenheimer scrive di “un’arma mortale che potrebbe redimere l’umanità”, “sono diventato la morte, distruttrice di mondi” (Noble, 1997; pag. 138). Il chimico George Kistiakowsky, che aveva predisposto l’esplosivo per l’innesco, dice: “nell’ultimo millesimo di secondo dell’esistenza della Terra, l’ultimo uomo vedrà qualcosa di simile a quello che abbiamo visto noi” (Noble, 1997; pag. 138). Ancora più visionario è William Laurence, del New York Times che scrive frasi come “Il levarsi di questo grande sole mi è sembrato il simbolo dell’alba di una nuova era”, “abbiamo pensato di essere stati scelti per testimoniare la nascita del Mondo”, “se il primo uomo avesse potuto assiste al momento della creazione, quando Dio ha detto ‘Che sia luce’, avrebbe potuto vedere qualcosa di molto simile a quello che abbiamo visto noi” (Noble, 1997; pag.139). Il generale Tom Farrell, davanti all’esplosione ha commentato che l’esplosione del Trinity test aveva scatenato forze “prima riservate all’Onnipotente” (Noble, 1997; pag. 139). Complessivamente il quadro storico delineato consente di comprendere la dualità della società statunitense in cui, nel contesto più tecnologico del pianeta, sono frequenti richiami religiosi che frequentemente evocano una spinta escatologica che, in Europa, sembra essere stata abbandonata. Certamente i meccanismi di formazione degli Stati Uniti,


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attraverso la migrazione di comunità religiose puritane, hanno influenzato la percezione del processo tecnologico nell’ambito di un più generale percorso verso il termine dell’esperienza umana, e non è un caso che la fantascienza abbia per un secolo svolto una funzione di mediazione tra l’innovazione tecnologica e la cultura umanistica. Le prime riviste di fantascienza, i mitici pulp, erano affiancati da riviste come Radio News, Modern Electrics, The Experimenter, Science and Mechanics, Science and Inventions, tutte dirette da Hugo Gernsback. Inoltre ogni apocalisse contemporanea viene ascritta nella fantascienza, riconoscendo al genere la capacità estrapolativa di lavorare sulle pulsioni autodistruttive della nostra società. Del resto la vampata delle armi nucleari, il dilagare di insetti mutanti, l’inabissarsi dei continenti, l’inaridirsi delle colture, le epidemie di virus di origine militare che hanno fatto la fortuna della fantascienza catastrofica non sono forse i segni descritti da Giovanni per annunciare il nostro ricongiungimento con il Creatore? Bibliografia Cohn, Norman, The Pursuit of the Millennium, Oxford University Press, Oxford, , 1961 (trad. It. I fanatici dell’Apocalisse, Edizioni di Comunità, Torino, 2000) Geymonat, Ludovico, Prefazione a Charles Percy

Snow, Le due culture, Feltrinelli, Milano, 1967 Gioacchino da Fiore, Sull’Apocalisse, Feltrinelli, Milano, 1994 Katerberg, William H., Future West; Utopia and Apocalypse in Frontier Science Fiction, University Press of Kansas, Lawrence, 2008 Muzzioli, Francesco, Scritture della catastrofe, Meltemi, Roma, 2007 Noble, David, America By Design; Science, Technology, and the Rise of Corporate Capitalism, New York, Knopf, 1977 (trad. it. Progettare l’America; La scienza la tecnologia e la nascita del capitale monopolistico; Einaudi, Torino, 1987) The Religion of Technology, The Divinity of Man and the Spirit of Invention, New York, Knopf, 1997 (trad. it. La religione della tecnologia; Divinità dell’uomo e spirito d’invenzione, Edizioni di Comunità, Torino, 2000) A World Without Women; The Christian Clerical Culture of Western Science, New York, Knopf, 1992 (trad. It. , Un mondo senza donne; La cultura maschile della Chiesa e la scienza occidentale, Bollati Boringhieri, Torino, 1994) Paik, Peter Y., From Utopia to Apocalypse; Science Fiction and the Politics of Catastrophe, University of Minnesota Press, Minneapolis 2010 Skal, David J., Screams of Reason; Mad Science and Modern Culture, Norton & Company, New York, 1998 Stephanson, Anders, Manifest Destiny; American Expansion and the Empire of Right, Simon & Schuster, New York, 1996 (trad. It. Destino manifesto; L’espansionismo Americano e l’Impero del Bene, Feltrinelli, Milano, 1994) Wagar, Warren W., Terminal Visions; The Literature of Last Things, Indiana University Press, Bloomington, 1982.


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Riccardo Gramantieri

ALLA FINE DELL’UOMO

IL VUOTO

Il presente apocalittico di Michel Houellebecq

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’apocalisse che lo scrittore francese Michel Houellebecq descrive nei suoi romanzi a partire dagli anni Novanta, è un’interpretazione della Francia che l’autore prende a paradigma di tutta la società occidentale. La sua è, seppur reazionaria, una distopia della nostra cultura occidentale che riunisce nella stessa visione conservatorismo sociale, speranze della sinistra economica, miraggi gaullisti sulla famiglia, e xenofobia alla Le Pen. Secondo lo scrittore, la fine della Seconda Guerra Mondiale ha trasformato i grandi stati nazionali uniformandoli mediante il progresso tecnologico, il quale ha “inventato” due espressioni della modernità prima sconosciute ai più: la libertà sessuale e il tempo libero. Questa convinzione viene espressa ed ampliata in diversi romanzi, il cui contenuto esplora progressivamente le varie fasi di questa decadenza e fine dell’umanità. Nelle prime opere Houellebecq descrive essenzialmente la Francia che conosce e nella quale vive. Estensione del dominio della lotta (Extension du domaine de la lutte, 1994) racconta la vita anonima di un impiegato tecnico di una grossa ditta informatica. Insoddisfatto del lavoro quanto della vita, nel tempo libero scrive brevi storielle di animali e passa le serate da solo, o a bere con qualche amico, come il prete Jean-Pierre Buvet, che afferma che il problema della civiltà contemporanea è l’inaridimento morale. Questi spiega infatti che alla fine del Seicento, “quando la sete di vita era grande, la cultura ufficiale metteva l’accento sulla negazione dei piaceri e della carne; ricordava insistentemente che la vita mondana offre solo gioie

imperfette e che l’unica vera fonte di felicità è Dio. […] Noi abbiamo bisogno di sentirci ripetere che la vita è meravigliosa ed eccitante; ed è evidente che su questo punto abbiamo parecchi dubbi”. La visione del protagonista, come quella di Houellebecq, è in realtà del tutto atea, ma condivide con il prete il senso di vuoto che scaturirebbe dal progresso e dal rinnovamento dei costumi che, per l’autore, si riduce ad uno svuotamento di significati e ad una riduzione alla semplice azione (l’economia ridotta alla produzione di beni di consumo, il sesso ridotto a divertimento temporaneo, la cultura ridotta ad esaltazione dell’avere). Di questo svuotamento di valori, Houellebecq dà una eloquente descrizione nel suo secondo romanzo, Le particelle elementari (Les Particules élémentaires, 1998). Qui lo scrittore ritrae Janine Ceccaldi, la madre dei due protagonisti, come esempio della società occidentale (francese, e non) del dopoguerra: una hippie rimasta tale anche dopo la fine degli anni Sessanta, ancora dedita al libero amore, ma che ha barattato i valori anarchici della giovinezza con le illusioni del mercato di massa. Appartenente alla frangia facoltosa della popolazione, la donna non tarda a mostrare “i primi sintomi di consumismo di massa a forte componente ludico-libidica, proveniente dagli Stati Uniti d’America e destinato, nel corso dei decenni successivi, a contagiare l’intera popolazione”. Lo scrittore francese, in questa come in altre opere, insiste principalmente su una tematica sociale che a lui sembra essere la cartina di tornasole dell’avvenuto cambia-


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mento della società contemporanea: il sesso. La sessualità è diventata, per lo scrittore, un bene al pari di qualsiasi altro prodotto dai mezzi della produzione. Nella vecchia espressione marxista, il proletariato non aveva i mezzi di produzione, se non il proprio corpo, e il capitalista forniva tali mezzi per produrre i beni. Oggi l’espressione marxista dell’economia perde sempre più di significato (e in questo senso il pensiero economico di Houellebecq si rifà alla vecchia sinistra economica) in quanto il corpo del proletario è anche prodotto del capitale, mentre il capitalista non esiste più, essendosi trasformato nella società stessa. Perciò, mentre fino all’immediato dopoguerra il dominio (cioè l’ambito) della lotta per la produzione e la ricchezza, era ristretto essenzialmente al discorso economico, ora nell’età contemporanea viene esteso alla sessualità: “in un sistema sessuale dove l’adulterio sia proibito, tutti riescono più o meno a trovare il proprio compagno di talamo. In situazione economica perfettamente liberale, c’è chi accumula fortune considerevoli; altri marciscono nella disoccupazione sessuale perfettamente liberale, c’è chi ha una vita erotica varia ed eccitante; altri sono ridotti alla masturbazione e alla solitudine. Il liberalismo economico è l’estensione del dominio della lotta, la sua estensione a tutte le età della vita e a tutte le classi della società. Altrettanto, il liberalismo sessuale è l’estensione del dominio della lotta, la sua estensione a tutte le età della vita e a tutte le classi della società”. La trasformazione dei costumi corrisponde dunque ad una trasformazione dell’oggetto prodotto. In

questo caso il corpo. Nel romanzo La possibilità di un’isola (La Possibilité d’une île, 2005), forse ad oggi il capolavoro di Houellebecq, il protagonista, lo sceneggiatore Daniel 1 (gli altri protagonisti sono Daniel 24 e Daniel 25, entrambi cloni del primo Daniel), incontra Isabelle che lavora per un giornale chiamato Lolita, una rivista giovanilistica ed edonista di intrattenimento mondano il cui fine è espressamente quello di creare un’umanità artificiosa e frivola, sempre alla ricerca disperata, fino alla morte, del divertimento e del sesso, come se il corpo non invecchiasse mai ma rimanesse quello di un eterno ventenne. In merito al sesso come divertimento, lo stesso Daniel 1 dichiara come la società contemporanea dello spettacolo sia perfettamente espressa “ai giorni nostri dai film pornografici, consistente nel togliere alla sessualità ogni connotazione sentimentale per ricondurla nel campo del divertimento puro si era realizzato finalmente in quella generazione. […] Erano liberi”. Questa espressione di emancipazione forzata dagli imperativi fisiologici è ben espressa dal rifiuto di Daniel 1 di metter su famiglia con Isabelle, quarantenne ancora in grado di procreare. Daniel è ormai un prodotto di questa società, e come tale non vuole avere bambini, la cui vista lo disgusta. Il neonato, con le sue urla ininterrotte di sofferenza, non può non ricordargli come l’essere umano non possa essere naturalmente felice, e questo per Daniel è intollerabile. Eliminati i bambini, gli adulti possono finalmente vivere spensieratamente, senza pensare alla propria connaturata infeli-


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cità. Non a caso, aumentano a vista d’occhio i villaggi-vacanze che non prevedono la presenza di bambini – childfree zone – e dove l’ingresso alle abitazioni è vietato ai minori di tredici anni. Implicitamente un invito alla fine dell’umanità come noi la conosciamo, cioè basata sulla famiglia. Dall’orrore per le sofferenze familiari viste come ostacoli al proprio divertimento, all’orrore per il proprio corpo, il passo è brevissimo. Sempre ne La possibilità di un’isola, Daniel 1 descrive il cambiamento di Isabelle alla vista della propria maturità. Il pensiero che il suo corpo di donna (e quindi di oggetto delle produzione-immagine del capitale contemporaneo) sia condannato ad un inarrestabile declino, le suggerisce come anche inevitabile sia la fine della propria umanità: se non c’è un corpo bello, al giorno d’oggi non può esserci neppure un corpo da amare: “dapprima ci furono i suoi seni, che non riusciva più a sopportare (ed è vero che cominciavano a cadere un po’); poi le sue natiche, secondo lo stesso processo. Dovemmo spegnere la luce sempre più frequentemente, poi la sessualità stessa sparì. Non era più in grado di sopportarsi, e di conseguenza, non sopportava più l’amore, che le sembrava falso”. Questa perdita della bellezza è anticipatrice del declino dell’intera razza umana, destinata a non riprodursi per via sessuale. Di questa umanità avviata ad incamminarsi verso un cul-de-sac biologico, Houellebecq aveva già dato avviso ne Le particelle elementari. Il continuo rinchiudersi in se stessa e nel proprio edonismo, corrisponde all’episodio che capita a Michel Djerzinski:

“aveva fatto uscire dalla gabbia l’uccellino. Quello, terrorizzato, aveva cacato sul divano e poi si era avventato contro la gabbia, cercando disperatamente lo sportelletto d’accesso. Un mese dopo, Djerzinski ci aveva riprovato. Stavolta la bestiolina era piombata giù dalla finestra; riuscendo in qualche modo a frenare la caduta, era finita cinque piani più in basso, sul balcone del palazzo di fronte”. L’umanità oggi non è più capace di vivere, se non nella propria gabbia dorata che si è costruita. Per questo deve cambiare, o perire. La soluzione giunge prima con le ricerche di Djerzinski, che individua la instabilità strutturale della separazione cromosomica, e quindi può affermare come la specie umana come la conosciamo sia destinata all’estinzione; poi il suo successore Frederic Hubczejak riesce a sviluppare la riproduzione per clonazione, facendo avverare la tesi radicale del proprio mentore, e cioè che l’umanità deve scomparire per dar vita a una nuova specie, asessuata e immortale. La conclusione de Le particelle elementari è però utopica: l’umanità è “questa specie dolorosa e vile, di poco diversa dalla scimmia, e che pure recava in sé aspirazioni


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assai nobili. Questa specie tormentata, contraddittoria, individualista e rissosa, di un egoismo sconfinato, talvolta capace di inaudite esplosioni di violenza, ma che tuttavia non cessò mai di credere nella bontà e nell’amore. Questa specie che altresì, per la prima volta nella storia del mondo, seppe considerare la possibilità del proprio superamento; e che, qualche anno dopo, seppe mettere in pratica tale superamento”. L’utopia però non viene raggiunta. Houellebecq con La possibilità di un’isola scrive infatti una distopia ambientata in un lontano domani, i cui capitoli futuribili sono intercalati con descrizioni della società contemporanea in cui vive il capostipite dei cloni, Daniel 1. L’umanità futura finisce per essere un distillato dell’uomo moderno, ridotto ai propri bisogni essenziali: vivere e mangiare. Gli aspetti edonistici e sentimentali sono cancellati. L’uomo nuovo (neoumano) non conosce la crudeltà, ma neppure la compassione, visto che le persone del futuro vivono sole ed isolate; il neoumano non ride; il neoumano non riconosce i propri antenati come simili. Nel futuro, in cui pochi neoumani sopravvivono in abitazioni fortificate destinate ad una sola

persona, e comunicano via video, tribù di uomini identici a quelli nella nostra epoca contemporanea rimangono allo stato brado e selvaggio, considerati “semplicemente come scimmie un po’ più intelligenti, e di conseguenza più pericolose. Mi capita di aprire la barriera per soccorrere un coniglio o un cane randagio; mai per soccorrere un uomo”. Quando Daniel 24 abbatte un selvaggio ha “la sensazione di compiere un atto necessario e legittimo” perché la razza umana deve scomparire per adempiere le parole della religione del futuro. Questo mondo devastato dal ritiro dei mari e dalla fine della industrializzazione, ha le proprie radici nella Francia di Houellebecq e nella nascita di un nuova religione. La setta religiosa è anch’essa espressione del nuovo capitalismo del dopoguerra. La produzione di capitale non avviene più attraverso lo sfruttamento del lavoro del proletariato, ma attraverso lo sfruttamento del bisogno di spiritualità della popolazione. In questo modo nasce la setta degli Elohimiti che: “dopo aver incorporato in meno di due anni le correnti buddiste occidentali, il movimento elohimita assorbì con la stessa facilità gli ultimi residui del crollo del cristianesimo prima di rivolgersi all’Asia, la cui conquista, operata a partire dal Giappone, fui anche là di una rapidità sorprendente, soprattutto se si considera che quel continente aveva resistito vittoriosamente per secoli a tutti i tentativi missionari cristiani. […] L’Islam, curiosamente, fu un bastione di resistenza più tenace”1. Dopo un’espansione in tutta Europa, arrivando ad una diffusione eguale a quella che aveva avuto il Cristianesimo nella


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sua massima espansione, l’Islam cade in due decenni, come era avvenuto per il comunismo. L’elohimismo “non imponendo alcuna costrizione morale, riducendo l’esistenza umana al soddisfacimento dei desideri, faceva comunque sua la promessa fondamentale che era stata quella di tutte le religioni monoteistiche: la vittoria sulla morte. […] La prima cerimonia fondamentale che contrassegnava la conversione di ogni nuovo adepto – il prelievo del DNA – si accompagnava alla firma di un atto con cui il postulante affidava, dopo la propria morte, tutti i suoi beni alla Chiesa – che si riservava la possibilità di investirli, pur promettendo all’adepto di restituirglieli dopo la resurrezione. […] La seconda cerimonia fondamentale era l’ingresso nell’attesa della resurrezione – in altri termini il suicidio” La morte infatti è un periodo neutro fra le due vite, la seconda grazie all’alta tecnologia che la Chiesa sviluppa nei propri laboratori permettendo la clonazione. La religione assume aspetti spettacolari: tournée delle fidanzate del profeta, orge rituali, e realizzazione delle stilizzazioni artistiche disegnate da Vincent: i suoi disegni rappresentano esseri umani senza peli, senza organi escretori e con la pelle fotosintetica capace di produrre nutrimento. Queste rappresentazioni finiscono per disegnare l’essere umano del futuro ottenuto per clonazione: “l’essere umano così trasformato si sarebbe sostentato esclusivamente mediante l’acqua, una piccola quantità di sali minerali e naturalmente l’energia solare; l’apparato digestivo, come l’apparato escretore, potevano dunque scomparire – gli eventuali minerali in eccesso sa-

rebbero stati facilmente eliminati con l’acqua attraverso il sudore”. Niente più figli. Niente più vecchi. Infatti, nelle utopie di Houellebecq, gli anziani progressivamente non esistono più, visto che le donne vogliono rimanere eternamente giovani ragazze piacenti, mentre i maschi non sono più figure autoritarie, ma bambini che non crescono mai. La puerizia viene a corrispondere allo stato di natura, e il cittadino non è più persona ma infante. Basti pensare alla fine di molti romanzi, dove c’è la fuga dalla città. O alla fine de La possibilità di un’isola, in cui l’umanità viene addirittura ridotta a poche centinaia di persone. L’idea del genere uomo come animalesco, intrinsecamente votato alla malattia e alla morte, o alla trasformazione in cosa, pone Houellebecq nella posizione di nuovo nichilista e sulla scia di altri scrittori (della cultura alta, e non). L’affermazione di Daniel 1 in merito all’orrore che prova per la continuità della propria specie ne costituisce uno fra i molti esempi: “c’era anche, più profondamente, un orrore, un autentico orrore di fronte al calvario ininterrotto che è l’esistenza degli uomini”. Houellebecq si pone quindi sulla stessa corrente di pensiero dell’ultimo Leopardi, ma anche di E.M. Cioran, se si vuole cercare un riferimento filosofico contemporaneo. Ma non solo. Lo scrittore francese, quando si sofferma a descrivere le periferie delle grandi città francesi, sembra riprendere le descrizioni di New York che fece Lovecraft


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nella sua corrispondenza. Houellebecq ha esplicitamente dichiarato la sua ammirazione per il solitario di Providence, tanto da farne l’oggetto della sua prima prova letteraria Contro il mondo, contro la vita (Contre le monde, contre la vie, 1991). La sensazione di disfacimento lì espressa viene poi ripresa in Estensione del dominio della lotta, la cui descrizione del terminal stradale di Lione PartDieu sembra uscita pari pari da un racconto di Lovecraft: “di notte l’edificio viene invaso da bande di teppistelli e di mezzi barboni. Creature lerce e ripugnanti, bestiali, totalmente stupide, che vivono nel sangue, nell’odio e nei loro stessi escrementi. Si agglutinano colà, nella notte, come grosse mosche sulla merda, intorno alle vetrine di lusso deserte. Si muovono per bande, in quell’edificio la solitudine essendo quasi sempre fatale. Si piantano davanti monitor e assorbono stolidamente le immagini della pubblicità. Capita che litighino tra loro, che tirino fuori i coltelli. Di tanto in tanto al mattino se ne ritrova uno morto, sgozzato dai suoi consimili”. Seppur vicino a certe tematiche della social science fiction, Houellebecq si rifà a meccanismi romanzeschi prossimi a Emile

Zola, che trasformava i propri personaggi in cavie di laboratorio (sociale) sottoposte a stimoli per descriverne i movimenti nella trama narrativa. Impossibilitato alla formulazione di una nuova umanità, come le false partenze evolutive de Le particelle elementari e de La possibilità di un’isola sembrano evidenziare, Houellebecq elimina il problema umano alla radice, eliminando del tutto l’umanità in quanto specie inutile alla evoluzione dell’universo. Nell’ultimo romanzo, quasi a seguire l’antico adagio di rinunciare a cambiare il mondo per cambiare invece se stessi, Houellebecq descrive un artista che decide di eliminare l’umanità dalle proprie opere. Houellebecq in un’intervista afferma infatti che lui può considerarsi appartenere a quel gruppo di utopisti che pensano che il cammino della storia debba concludersi con l’assenza del movimento. Jed Martin, protagonista de La carta e il territorio (La carte et le territoire, 2010, titolo quanto mai korzybskiano) produce perciò quadri che sono “rappresentazioni del mondo, nelle quali tuttavia le persone non dovevano affatto vivere”. Egli infatti scatta fotografie senza persone: fotografie di fuoristrada o di gratin di patate al reblochon; un suo lavoro intitolato ‘trecento foto di chincagliera’ presentava gli articoli “su un fondo di velluto grigio. Dadi, bulloni e chiavi inglesi apparivano così come altrettanti gioielli, dalla lucentezza discreta”. Dalle nature morte inorganiche, passa poi alle carte geografiche, che portano il territorio, normal-


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mente vivo e vissuto dalle persone e dagli animali, ma anche in movimento (automobili, fiumi, ecc), all’immobilità della riproduzione: “non aveva mai contemplato un oggetto così magnifico, così ricco di emozione e di significato come quella carta Michelin 1/150.000 della Creuse, haute-Vienne”, e questo lo spinge a dire che la carta è molto più interessante del territorio. Questo percorso anti-antropico lo spinge, alla fine della propria carriera, a produrre video di oggetti tecnologici distrutti dal tempo: “per accelerare il processo di decomposizione, li aspergeva di acido solforico diluito, che acquistava in damigiane – un preparato, precisava, utilizzato di solito come diserbante. Poi procedeva anche qui a un lavoro di montaggio, prelevando alcuni fotogrammi a lunghi intervalli: il risultato è assai diverso da una semplice accelerazione, poiché il processo di deterioramento invece di essere continuo, si verifica per gradi, per scosse brusche”. Il mondo, seppur straripante di persone, finisce per essere percepito dall’uomo del duemila come vuoto, distante, ed occupato solo dalla sola persona indispensabile alla propria vita, se stessi. E alla morte di questa, il vuoto. NOTE J.A. Varsava, “Utopian Yearnings, Dystopian Thoughts: Houellebecq’s The Elementary Particles and the Problem of Scientific Communitarianism”, College Literature, West Chester Univ., PA vol. 32, n. 4, 2005 , p. 149. 2 M. Houellebecq, Estensione del dominio della lotta, Bompiani, Milano 20097, p. 32. 3 Id., Le particelle elementari, Bompiani, Milano 1

200815, p. 27. 4 Id., Estensione del dominio della lotta, Bompiani, Milano 20097, p. 98. 5 Id., La possibilità di un’isola, Bompiani, Milano 2005, p. 280. 6 Ibid, p. 62. 7 Id., Le particelle elementari, Bompiani, Milano 200815, p. 15. 8 Ibid., p. 316. 9 Id., La possibilità di un’isola, Bompiani, Milano 2005, p. 24. 10 Ibid., p. 59. 11 Ibid., p. 292. 12 Ibid., pp. 295-296. 13 Ibid., p. 306. 14 Bülent Diken, Nihilism, Routledge 2009, Abingdon; pp. 92-93. 15 M. Houellebecq, La possibilità di un’isola, Bompiani, Milano 2005, p. 56. 16 Id., Estensione del dominio della lotta, Bompiani, Milano 20097, p. 129. 17 J.A. Varsava, “Utopian Yearnings, Dystopian Thoughts: Houellebecq’s The Elementary Particles and the Problem of Scientific Communitarianism”, College Literature, West Chester Univ., PA vol. 32, n. 4, 2005 , p.147. 18 Citato in J.A. Varsava, “Utopian Yearnings, Dystopian Thoughts: Houellebecq’s The Elementary Particles and the Problem of Scientific Communitarianism”, College Literature, West Chester Univ., PA vol. 32, n. 4, 2005 , p.145. 19 M. Houellebecq, La carta e il territorio, Bompiani, Milano 2011, p. 34. 20 Ibid., p. 46. 21 Ibid., p. 49. 22 Ibid., p. 408.


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Gianfranco de Turris

LA SINDROME DELLA FINE DEL MONDO Calendario Maya

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Dies irae, dies illa solvet saeclum in favilla, teste David cum Sybilla. Quantus tremor est futurus, quando judex est venturus, cuncta stricte discussurus. Tommaso da Celano (1190c.-1260c.)

no dei massimi luoghi comuni della letteratura avveniristica e poi della fantascienza moderna, è la catastrofe finale, l’apocalisse. Volendone trovare le origini forse si potrebbe addirittura risalire alla fine di Atlantide descritta da Platone nel Timeo e nel Crizia, laddove l’isola empia che irrideva agli dèi viene sommersa in una sola notte e sprofonda negli abissi oceanici, per non risalir addirittura al mito, comune a tutti i popoli, del Diluvio Universale, oppure alla conflagrazione finale tipo Ragnarokr... Da allora sino ai giorni nostri di narrazioni apocalittiche ne sono uscite a migliaia, per non parlare poi di

film e fumetti e, oggi, videogiochi. Il catastrofismo s’impone perché spaventa chi sa benissimo come si tratti soltanto di una finzione e produce un brivido auto consapevole: è falso, ma facciamo finta che non so sia… almeno sino a poco tempo fa. Già, perché da alcuni anni e con progressione geometrica si sta affermando, non più come gioco o invenzione scritta o visiva bensì come fenomeno soc i a l e , quella che si potrebbe definire una “sindrome della fine d e l mondo”,e che tecnicamente si chiama millenarismo. È un modo di pensare che rientra nell’ambito dell’antropologia culturale, della sociologia, della storia delle religioni e della psicologia. Ormai, addirittura, delle leggende metropolitane e del folklore urbano. In passato ve ne sono stati esempi clamorosi al volgere del precedente millennio, quello del famoso detto “Mille e non più mille...”, nato a quanto pare da una errata interpreta-


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zione dell’Apocalisse di Giovanni (“Quando saranno trascorsi i mille anni Satana verrà liberato dal suo carcere”, 20,7): dunque, nella notte fra il 31 dicembre 999 e il 1° gennaio 1000 si sarebbe verificata la fine del mondo. Una certezza annunciata già da parecchio da predicatori, sette religiose, ma anche personaggi “laici”, e accompagnata da manifestazioni e fenomeni collettivi e singoli reputati eccezionali e significativi, di cui sono piene le cronache dell’epoca: non solo carestie, epidemie, terremoti, alluvioni, eclissi, ma anche nascite mostruose, apparizioni sconcertanti, tuoni e suoni aerei di misteriosa provenienza, visioni demoniache e celestiali, stati di estasi e chi più ne ha più ne metta. Tutto veniva collegato alla ineluttabile fine del mondo. Segni dei tempi, erano quelli, come si soleva dire, che dimostravano la collera di Dio e preannunciavano il Giudizio Universale per una umanità corrotta, empia, miscredente e piena d’ingiustizie e disparità sociali alla quale sarebbe finalmente seguita la ricompensa per i giusti e la condanna per i malvagi, come da Sacre Scritture. E che c’è di strano, dirà qualcuno? Mille anni fa l’umanità tutta era rozza, ignorante, incolta, superstiziosa, tanto credulona da prestar fede alla fandonia di una fine del mondo al volgere del millennio o nei suoi dintorni, poco prima o poco dopo, fomentata da monaci esaltati che eccitavano – quasi manipolavano – gli animi ingenui per fenomeni assolutamente ovvi e naturali. Perché dunque meravigliarsi? Giusto, ma per non doversi meravigliare noi, l’umanità colta, civile, progredita, razionale

e illuminata di oltre mille anni dopo, dovremmo dimostrare di essere del tutto immuni da certe superstizioni e da certi cedimenti mentali, talmente compos sui da resistere ai condizionamenti e alle manipolazioni ecclesiastiche. E invece, signori e signore, basta guardarsi intorno e ci si accorge che l’umanità tecnologica del XXI secolo si sta comportando dal punto di vista psicologico e intellettuale né più né meno come quella del X: irrazionalmente. Con l’aggravante che questa sindrome viene diffusa per ogni dove con una velocità e una capillarità impensabili ai nostri poveri antenati proprio grazie alla tecnologia che ci dovrebbe migliorare la vita, non peggiorarla o condizionarla. Gli sventurati di mille anni fa si basavano quasi esclusivamente della trasmissione orale delle notizie: non possedevano non solo televisione e cinema, ma soprattutto i nuovi media elettronici generati dalla Rete: da Internet a Facebook, dai blog alle chat a Twitter, dove il chiacchiericcio mediatico, il passaparola, la leggenda metropolitana, si distorce sempre più, s’ingrandisce, si amplifica, si gonfia e fa diventare verità incontrovertibile una semplice ipotesi, una valutazione, una possibilità, una diceria, o anche un vero dato di fatto ma che, unito ad altri improbabili, prende contorni diversi e diversi significati. La quantità abnorme genera una “verità” che è poi difficile negare, per quanti sforzi si facciano. Sicché sul Web nascono centinaia di “liste” che discutono l’argomento magari elencando le “101 cose da fare prima della fine del mondo”, ed è addirittura nato un Osservatorio Apocalittico, del tutto se-


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59 Andrea Kerbaker. A pag. 58: Massimo Donà e Andrea Tagliapietra.

rioso... L’Umanità dell’anno 2000 non è quindi molto diversa da quella dell’anno 1000 (a parte il nostro migliorato modo di vivere) e la nostra pretesa superiorità culturale quasi una barzelletta. Lo prova la sindrome millenaristica che ci sta colpendo da qualche tempo a questa parte e che riguarda la cosiddetta Profezia Maya sulla presunta fine del mondo nel 2012. È impossibile citare la valanga di libri usciti sul tema e tradotti anche in italiano, sia quelli pro, sia quelli che confutano la faccenda, sia quelli dei furbetti che hanno approfittato della fatidica data in copertina per trattare ben altri argomenti. Per non parlare ovviamente di film e di trasmissioni televisive. Certo è che le varie propaggini della New Age, sia gli ecologisti fondamentalisti, sia sette le più varie financo ufologiche, si sono gettati su questa data per portare avanti le proprie tesi catastrofiste. Proprio come un millennio fa tra borghi e campagne, città e castelli, quando non c’erano quotidiani, televisione e Web, si aggiravano gruppi di invasati guidati da santi eremiti che, autoflagellandosi, predicavano il pentimento per l’avvicinarsi del 31 dicembre dell’anno 999. Uguali. Il problema è che oggi ci si ammanta di... scienza e nessuna colpa ha invece la Chiesa istituzionalizzata. E infatti, al Calendario Maya (non si tratta di una profezia) che annuncia la fine di un lungo ciclo millenario il 21 dicembre 2012 (guarda caso proprio il giorno del Solstizio d’Inverno per noi occidentali, allorché la Tenebra prevale sulla Luce nella notte più lunga dell’anno, per poi cominciare subito a regredire), si aggiungono

altre singolari informazioni “scientifiche” che sembrerebbero avallare questa data terminale: proprio in quel giorno si verificherebbe un inusitato allineamento di pianeti del Sistema Solare (ma questo venne predetto pure per il 2000 e sappiamo come le cose siano andate a finire), e anche un insolito aumento delle eruzioni solari (che sono cicliche e raggiungono il culmine ogni undici anni), e anche l’avvicinarsi di un misterioso Pianeta x che si scontrerebbe con questa nostra povera Terra, e che tutto ciò provocherebbe grandi cataclismi terracquei o magari forse soltanto il blocco per (appena) tre giorni della rotazione terrestre, che però poi riprenderebbe, magari in senso inverso, o forse soltanto la modifica del magnetismo... Per non pensare a quanto abbiamo avuto di recente sotto i nostri occhi rafforzando in certuni l’allarme apocalittico: dallo tsunami del 2003 che in Estremo Oriente causò quasi trecentomila morti in poche ore per lo spostamento di alcune decine di centimetri delle sottostanti placche tettoniche, allo sversamento di milioni barili di petrolio dal fondo del Golfo del Messico nel 2010, ad ampie zone dell’Australia sommerse dall’acqua all’inizio del 2011 e, sempre nel medesimo anno, prima il terremoto in Nuova Zelanda e poi l’11 marzo, quello di magnitudo 9 in Giappone con relativo disastroso tsunami (onde record alte una quarantina di metri), circa trentamila morti e spostamento di dieci centimetri dell’asse terrestre. E ancora i più rigidi inverni mai registrati da moltissimo tempo in USA e in Europa sia nel 2011 sia all’inizio del 2012 (ne abbiamo fatto le spese


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direttamente), che avranno messo di certo in soffitta il “riscaldamento globale antropico” e dato da pensare in altra direzione catastrofista. Per non parlare dell’uragano dall’improbabile nome di Irene (εἰρήνη in greco vuol dire... pace) che alla fine di agosto 2011 ha gettato nel panico New York, Washington e le città della costa occidentale degli Stati Uniti con evacuazione di massa, per pioggia, venti, allagamenti: anche se non è stata la catastrofe preannunciata, è l’aspetto psicologico che conta. Insomma, una versione riveduta, corretta, aggiornata e tecnologizzata dei Quattro Cavalieri dell’Apocalisse. Tanto per dire che le ironie nei confronti di quei poveracci dei nostri antenati sono fuori luogo: lo sono sempre state nel nome di una pretesa superiorità illuministica, lo sono ancor più oggi di fronte a questa magra prova di sé che ci offre la gente del XXI secolo, colta o incolta che sia. E infatti alla fine del mondo del 21 dicembre 2012 ci stanno credendo in molti e si attrezzano per sopravvivere al Dopo, sempre che ci sia un dopo: si vendono a caro prezzo bunker sotterranei, si riadattano vecchi silos antiatomici costruiti durante la Guerra Fredda. Con la paura apocalittica si possono fare anche quattrini a palate. La sindrome imperversa soprattutto fra i gran nomi di Hollywood. Al massimo ci trarranno qualche bel soggetto cinematografico, migliore (si spera) del prevedibilissimo film di Roland Emmerich del 2009, o di quelli demenziali di Brian Trenchard (2001) e di Nick Everhart (2008) che lo hanno preceduto. Non c’è molto da meravigliarsi: il tema della “fine del mondo”, in-

tesa sia in senso materiale che prettamente culturale, è una costante della società umana, come ha dimostrato uno storico delle religioni del livello di Ernesto De Martino (19081965) che in uno sterminato, anche se incompiuto, saggio di settecento pagine pubblicato postumo (La fine del mondo, Einaudi, 1977), ha raccolto una immensa mole di documenti su questa sindrome che attanaglia da sempre gli uomini, di qualunque livello culturale essi siano. Cui si affianca oggi uno specifico approfondimento filosofico dovuto ad Andrea Tagliapietra, che insegna appunto storia della filosofia e storia delle idee, il quale nel suo dotto ma affascinante Icone della fine (Il Mulino, 2010), partendo da Kant, e da Cacciari, nota come di fronte all’idea di una fine definitiva di tutto e di tutti il pensiero si blocchi e si annulli, impotente a pensare oltre. La conseguenza è che, seguendo il ragionamento kantiano, l’esplorazione del vuoto abissale decretato dalla Fine viene delegato all’“organo della immaginazione” che elabora così una serie di “immagini apocalittiche”, dato che oggi, afferma Tagliapietra, assistiamo “alla ripresa dell’immaginazione della fine e del suo inventario figurale e simbolico”, nonostante quella che definisce “la povertà simbolica” del mondo della tecnoscienza e della


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globalizzazione. Comunque sia, “le icone della fine elaborate all’interno del grande codice della tradizione occidentale rioccupano i vuoti del nostro presente, in quegli spazi dell’immaginario che coincidono con i miti della cultura di massa, del cinema e delle narrazioni popolari” dei quali vengono riportati e analizzati svariati esempi. Insomma, l’umanità ha sempre avuto tra le sue fila chi ha annunciato, proclamato, vaticinato fini del mondo le più varie, a scadenza indeterminata ma anche assai precisa, di tutti i tipi, generi e dimensioni: non solo i profeti biblici ma anche quelli assai più modesti e periferici, non solo astrologi da salotto ma anche grandi scienziati, non solo capi religiosi ma anche minuscoli leader di minuscole sette, non solo famosi filosofi ma anche paranoici con nessun credito, non solo saggisti noti ma anche prolifici autori semisconosciuti di manifesti, opuscoli, lettere, circolari. E tralasciamo la science fiction di ieri e di oggi… Ce n’è per tutti i gusti e materiale in abbondanza per scrivere una storia alternativa del costume. Non stupiamoci, quindi, di quanto assistiamo sol perché siamo finalmente pervenuti alle classiche “magnifiche sorti e progressive”. Del resto, negli Stati Uniti, che fanno un po’ storia a sé soprattutto dal punto di vista religioso, stanno proliferando le sette dei cosiddetti “cristiani apocalittici” che al loro tradizionale fondamentalismo aggiungono anche questo aspetto, ossessionati come

sono dalla crisi economica mondiale, dalle catastrofi naturali e dalla pressione dell’Islam: essi vedono nel presidente Obama l’incarnazione dell’Anticristo e si aspettano una imminente apocalisse con relativa palingenesi, vale a dire la costruzione di un nuovo “Regno”. Ricordiamoci, infatti, che le elezioni presidenziali americane si svolgeranno il 6 novembre 2012, un mese e mezzo prima del fatidico 21 dicembre... Che esista da un bel po’ questo crogiolarsi generale in fantasie angosciose lo conferma un arguto e intelligente saggio di Andrea Kerbaker (Bufale apocalittiche, Ponte alle Grazie, 2010) in cui si analizzano le apocalissi mancate all’inizio del XXI secolo: dal baco del millennio alla mucca pazza, dalla sars alle influenze aviaria e suina, all’antrace, per concludere che la nostra è ormai la “società degli allarmi” e che siamo condizionati, senza poterlo impedire, dalla “Internazionale della paura” che opera indisturbata grazie a un mix composto da una informazione istantanea e capillare, dal cinismo dei media mondiali ivi compresi quelli considerati seri e autorevoli, dalle fonti di informazioni che dovrebbero essere riservate e che invece non lo sono, dal parere di esperti veri e presunti, dai cosiddetti opinion makers (in genere, dei politici), tutti mossi da due unici interessi: quelli di immagine e quelli economici. La nostra, afferma Kerbaker, è una società sostanzialmente ipocondriaca: “La certezza del male, dapprima basata su flebili indizi, cresce, prima piano, poi più rapidamente, acquista spazio mentale sempre maggiore, fino a sgonfiarsi più o meno da sola, in attesa della malattia successiva”.


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Ultimissimi casi: nella Rete, soprattutto dopo il terremoto in Giappone dell’11 marzo 2011, è circolata la notizia che un sismologo dilettante, il faentino Raffaele Bendandi (18931979) avesse previsto per l’11 maggio 2011 a Roma, o nei pressi dei Colli Romani, un terremoto che avrebbe distrutto la capitale. In moltissimi l’hanno preso sul serio, nonostante che “La Bendandiana”, l’associazione che ha raccolto e studia i suoi documenti, abbia smentito nel modo più assoluto che nelle sue carte o appunti o taccuini vi sia riportata una previsione del genere. Eppure nella Rete le dicerie, le certezze e il panico sono andati alla grande e inutili sono state le smentite della Protezione Civile della Capitale: c’è chi ha consigliato di trascorrere la notte in auto... È quello che Kerbaker definisce come quel “senso di entropia, storicamente connaturato alla natura stessa dell’uomo: un costante memento mori che nelle varie epoche ha portato all’immaginazione di svariate catastrofi finali”. Vogliamo parlare di un altro allarme mediatico? Parliamone. Quello, cioè, di una catastrofe annunciata – forse per rifarsi dello smacco precedente - per l’11 novembre 2011: 11/11/11. Magia di una numerologia d’accatto divulgata dagli esoteristi elettronici, dalle fattucchiere di Facebook che riescono a svilire e a rendere ridicole addirittura le cose serie... Anche da questa malefica sequenza siamo usciti indenni, come peraltro era già avvenuto – ma nessuno lo ha voluto ricordare – dal 10/10/10, dal 9/9/09, dall’8/8/08 e così via a ritroso sino al 9/9/99 e, perché no?, al 6/6/66 … che è poi il famosissimo “numero

della Bestia” annunciato sempre – ma guarda un po’ - nell’Apocalisse giovannea. Già. Un termine questo, che nell’Occidente greco-latino ha un senso ben preciso e fa riferimento al libro profetico del Nuovo Testamento e che ha per origine il termine greco ἰποκάλυψις, il cui significato è rivelazione, manifestazione, scoprimento, apparizione, che presso di noi è rimasto apocalisse prendendo col tempo il senso di catastrofe generale e generalizzata a causa di quanto si descrive in quel testo, ma che ad esempio in lingua inglese è tradotto esattamente come Revelations. Quindi, ma in pochi lo rilevano, il senso potrebbe anche essere positivo riferendosi alla cosiddetta Profezia maya. Che, come si è già accennato non è una vera profezia ma un dato emerso dal calendario Maya che, come tutti quelli dei popoli antichi prima dell’avvento del Cristianesimo, era ciclico: il tempo concludeva un ciclo e ne ricominciava una nuovo. Dagli indù ai latini tutti lo prevedevano e vi credevano: non un tempo rettilineo d’inarrestabile progresso, secondo una concezione cristiana e marxista (il marxismo inteso come “forma secolarizzata dell’escatologia giudaico-cristiana”: Giampiero Berti), dal Paradiso Terrestre al Giudizio Universale. Ma un inizio, uno svolgimento, una fine, per poi riprendere il cammino, in genere migliore. La “sindrome della fine del mondo” prodotta da questa faccenda degli incolpevoli maya, non si sa bene come iniziata e grazie a chi, è stata manipolata e gonfiata sino a giungere agli assurdi odierni. Non nuovi, certo, per chi si nutre di fantascienza sin dall’infanzia…


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Roberto Chiavini & Gian Filippo Pizzo

LA FINE DEL MONDO DAL LIBRO AL FILM

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a fine del mondo, violenta e traumatica, è da sempre uno degli scenari preferiti della narrativa e della cinematografia fantastiche, che hanno avuto modo di sviscerarne ogni aspetto teorico, proponendoci di volta in volta invasioni aliene, epidemie, disastri naturali e, in special modo dopo Hiroshima, il potere distruttivo della follia umana. C’è dunque una certa abbondanza di materiale, ma la nostra trattazione riguarderà essenzialmente i romanzi poi trasposti sullo schermo, anche se per analogia dovremo citare alcuni film non tratti da libri e romanzi non ridotti per il cinema. Il tema della catastrofe di origine astronomica è uno dei più cari alla fantascienza delle origini, i cui interpreti provavano evidentemente un certo gusto positivista e sperimentale nell’immaginare le conseguenze dello scontro del nostro pianeta con vari tipi di oggetti celesti più o meno identificati. Così abbiamo il romanzo (poi trasposto in film) Quando i mondi si scontrano di Philip Wylie e Edwin Bulmer (l’ultima edizione italiana, Pleiadi 2010, comprende il seguito e un terzo romanzo apocrifo scritto da Giovanni Mongini), che vede la nostra Terra distrutta da un pianeta vagante. Su di un’idea di base sostanzialmente molto simile (una gigantesca meteora diretta in rotta di collisione contro il nostro pianeta) si fondano le vicende narrate in un esempio del cinema catastrofico anni Settanta, Meteor, che spreca un mucchio di importanti figure hollywoodiane in una pellicola senza capo né coda. In tempi più recenti l’idea è ripresa in Armageddon (1998) e Deep Impact (1998).

Un vero e proprio settore a sé stante è quello rappresentato dalla fantascienza britannica, che da sempre ha provato un qual certo gusto nell’immaginare i più stravaganti disastri in grado di mettere al tappeto la cara vecchia Terra: abbiamo così il ciclo catastrofico di James Ballard, formato dai romanzi II vento dal nulla, Deserto d’acqua, Terra bruciata e Foresta di cristallo, pubblicati congiuntamente in un omnibus Mondadori, che vedono la città di Londra (ma in realtà l’intero pianeta) colpita da catastrofi ambientali deducibili dal titolo (solo l’ultimo necessita di una spiegazione: si tratta di un virus che pietrifica gli esseri viventi). L’importanza di questi romanzi, al di là delle trovate, è comunque nella sapiente descrizione dell’animo umano alle prese con fatti ineluttabili, che il decadentista Ballard riesce a comunicare al lettore con una prosa evocativa ed una abilità descrittiva veramente sublimi. John Christopher già nel


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1956 ci aveva regalato un futuro privo di forme vegetali nel romanzo Morte dell’erba (Mondadori), poi trasposto sul grande schermo da Cornel Wilde nel 1970 come 2000: la fine dell’uomo. Un altro scrittore inglese dedito ad ideare nuovi modi di metterci nei guai è stato John Creasey, forse più celebre come giallista con lo pseudonimo di J. J. Marric, ma del quale sono noti in Italia romanzi come Il diluvio (Mondadori), che rientrano in pieno nella nostra analisi. Sempre inglese è Charles Eric Maine, che ne II vampiro del mare (orribile e fuorviante titolo italiano di Urania) ha immaginato una falla oceanica che risucchia l’acqua verso il centro della Terra. E, ancora, da registrare Il giorno dei trifidi di John Wyndham (Mondadori), anche questo diventato un film dall’orribile titolo L’invasione dei mostri verdi, in cui abbiamo due catastrofi simultanee, le piante assassine del titolo ed un fenomeno celeste che acceca quasi tutta l’umanità. Se il film è francamente brutto, il romanzo è invece molto bello, al di là dell’idea che la sommaria descrizione della trama può darne, tanto da aver generato ben due sceneggiati televisivi inglesi di buona fattura, uno nel 1981 e il secondo nel 2009, entrambi intitolati The Day of Triffids. La passione britannica per la tematica catastrofica ha antiche origini, potendosi far risalire ai primordi stessi della fantascienza. Appartengono infatti a questo sottogenere classici come The last man di Mary Shelley del 1826, La macchina del tempo di H. G. Wells del 1895 (due le versioni cinematografiche: L’uomo che visse nel futuro di George Pal del 1960, e l’inutile

The Time Machine di Simon Wells del 2002), lo stesso La guerra dei mondi (1897) ancora di Wells (anche questo due riduzioni per lo schermo, con lo stesso titolo del romanzo: quella di Byron Haskin nel 1953 e quella di Steven Spielberg del 2005) , La nube purpurea di Matthew Shiel del 1901, Last and first man di Olaf Stapledon del 1930. A parte l’influsso dovuto alla Bibbia, diffusissima nei paesi anglofoni anche presso i non credenti, c’è forse una paura ancestrale di possibili sconvolgimenti della vita, nell’homo albionicus normalmente dedito a curare il suo giardino e abitudinario nelle sue usanze (il thè delle cinque), che giustifica la predilezione per questo tema? Un classico scenario apocalittico è poi quello descritto da Stephen King nel suo celeberrimo L’ombra dello scorpione (Sonzogno), trasposto anche per il piccolo schermo, che ci narra, con le dimensioni ed il pathos di un vero e proprio epos tragico, l’eterna lotta fra il Bene ed il Male tra i residui di un’umanità decimata da una devastante epidemia. Sulla stessa scia dello scrittore del Maine si pone anche Robert McCammon che con il suo Tenebre (Mondadori) ci regala lunghe ore di cupe profezie su di un’inquietante post olocausto. Ma non ci dilunghiamo né sul tema delle epidemie né su quello del «dopo bomba», che sono abbastanza ampi da meritare degli articoli specifici. Un altro tipo di apocalisse prossima ventura caro alla fantascienza è quello dovuto non tanto alle capacità autodistruttive dell’uomo e dei suoi prodotti quanto all’improvviso arrivo di forze aliene che vogliono eliminarci. Il primo se-


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gnale in tal senso è il celeberrimo e già citato La guerra dei mondi (Mursia) di H. G. Wells, ma sulle sue tracce si è mosso nel secolo successivo un vero e proprio stuolo di imitatoli ed epigoni. Paul Anderson, per esempio, nel suo Hanno distrutto la Terra (Mondadori), immagina il rientro sulla Terra di una flotta di astronavi terrestri che trovano il nostro pianeta devastato da una feroce incursione aliena e si pongono alla ricerca dei colpevoli per vendicarlo. D’altra parte, lo strepitoso successo di un film, senza dubbio iperspettacolare, ma anche in definitiva banale, come Independence Day, dimostra come l’idea di una distruttiva invasione aliena del nostro pianeta desti sempre un più che notevole interesse nelle masse, nonostante le centinaia di ripetizioni del medesimo tema da Wells fino ad oggi. È quasi sempre il cinema, infatti, a mostrarci i lati più cupi e terribili della distruzione della Terra, anche se molte delle sue trame sono in realtà di derivazione letteraria. Citando in ordine sparso alcuni degli esempi dell’arte cinematografica dedicati al nostro tramonto (ma omettiamo una serie di pellicole giapponesi di stampo «rovinologico», a parte qualcuna più interessante che citiamo più avanti), possiamo ricordare La fine del mondo (1959) di Ranald MacDougall, tratto dal citato romanzo di Shiel La nube purpurea e II giorno dopo la fine del mondo (1962) diretto da Ray Milland, Memorie di una sopravvissuta (1981) dal romanzo omonimo del premio Nobel Doris Lessing, mentre il classico della satira antimilitarista Il dottor Stranamore di Kubrick (1962) ci racconta in che modo l’uomo

giunge all’apocalisse nucleare. La fine del mondo è anche il titolo di un film francese del 1931 diretto dal famoso Abel Gance e tratto dal romanzo omonimo di Camille Flammarion, la cui unica traduzione italiana risale addirittura al 1894, tutto basato sui risvolti sociopsicologici che l’imminente catastrofe provoca. La cinematografia francese – come del resto quella italiana – non si è mai molto interessata al tema. Come già rilevato, l’argomento pare appannaggio quasi esclusivo del mondo anglosassone, ai quali si è aggiunto anche il Giappone, che dopo la Bomba Atomica tenta di esorcizzare la paura della catastrofe mediante fumetti e film, tra i quali ricordiamo - per l’aspetto apocalittico, perché sulla semplice catastrofe ce ne sono molti altri a partire da Godzilla – I Misteriani sul tema dell’invasione, Solar Crisis sul pericolo derivante dal surriscaldamento del sole (la modificazione della temperatura solare è il soggetto anche degli americani Supernova e Sunshine) e il più ecologico Pianeta Terra anno Zero, entrambi tratti da romanzi sconosciuti in Italia. Interessanti in questo contesto possono rivelarsi anche delle serie televisive di derivazione fumettistica, e per la precisione, Jericho (2006), e il più recente Walking Dead (2010). Il primo si occupa delle vicende di un gruppo di sopravvissuti a un attacco nucleare contro le principali città statunitensi, mentre il secondo è un classico esempio di mondo dominato dagli zombie. Altra curiosa serie fumettistica, non ancora passato in altro tipo di media, è Y – The last man, collana della Vertigo Press (marchio della Dc Comics), che


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narra le vicende dell’ultimo uomo sulla Terra, in un mondo che vede la sopravvivenza solo delle donne. Apocalisse causata da alieni si ha nel fantasmagorico (ma sostanzialmente deludente) evento televisivo dell’estate 2011, Falling Skies, prodotto dal vecchio volpone di Spielberg, quasi un ultimo anelito di un anno che ha visto il ritorno in grande stile per il cinema degli attacchi alieni al nostro pianeta, prima con Skyline e poi con Battaglia per Los Angeles, entrambi buoni esempi di film spettacolari, ma senz’anima, come si conviene a gran parte del cinema del nuovo millennio. La fine del mondo è stata ovviamente evento molto gettonato in tutto il periodo a cavallo dell’anno 2000, con pellicole uscite alla fine di Novanta che abbiamo già citato. Passata la paura ancestrale del millennio, il cinema viene però colpito da quella dannatamente reale dell’11 settembre e delle cicatrici enormi che ha lasciato nella storia dell’umanità e nella vita del nostro mondo, e quindi, in attesa della nuova fine del mondo – quella del 2012 – e delle pellicole a essa legate, ecco che i media si riempiono nuovamente di uno stuolo di pellicole sulla fine del mondo e sulle sue conseguenze. Citiamo alla rinfusa The road (2009, tratto dall’omonimo romanzo di Cormac McCarthy), Ember città di luce (2008, tratto da un romanzo per bambini di Jeanne Du Preau – proprio a dimostrazione di come il mondo post attacco alle due torri non riesca più a proteggere neppure i propri bambini dalla follia che li circonda neanche nelle fiabe), Il giorno dopo la fine del mondo (2004, terribile baracconata sulle conse-

guenze delle devastazioni climatiche inflitte al nostro pianeta dai suoi “simpatici” abitanti umani), 28 giorni dopo (2002, capolavoro del genere zombie moderno, un po’ La notte dei morti viventi del nuovo millennio, stura a un profluvio di pellicole di genere, che rappresentano di per sé una vera e propria apocalisse per il cinema odierno – vista la poca qualità della gran massa di tali produzioni, spesso semi amatoriali), il notevole Figli degli uomini (2007, dal romanzo omonimo della famosa giallista P. D. James) Arrivando al 2012, citiamo solo perché esiste l’inguardabile omonimo film del 2009, ennesima prova di insipienza del mai abbastanza denigrato Roland Emmerich, affiancato dall’altrettanto orrido Segnali dal futuro (2009) altro spreco di tempo e di denaro, recitato dal sempre modesto Nicholas Cage, e guidato dall’un tempo promettente regista Alex Proyas. Per concludere, permetteteci anche di citare una apocalisse tutta da ridere: quella narrata da Douglas Adams nel suo Guida Galattica per autostoppisti (Mondadori; il film omonimo è del 2005), dove la Terra viene distrutta a causa della costruzione di una autostrada galattica! Mentre nel suo seguito, Il ristorante al termine dell’Universo (Mondadori), si scopre con una certa delusione che la fine dell’Universo sarà solo uno «Gnab Gib»: per chi non l’avesse afferrato, è il palindromo di «Big Bang»!


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Carlo Bordoni

COMPLOTTI D’AUTORE Introduzione al nuovo saggio di Panella e Gramantieri

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i sono libri che, una volta letti, lasciano il tempo che trovano. Si limitano a soddisfare il lettore e, una volta esaurito il loro compito, vengono archiviati nello schedario della memoria. Altri, invece, sono incubatrici di senso. Risvegliano sinapsi sopite, producono relazioni e connessioni pericolose, creano pensieri, fanno ragionare. Inquietano. Sono problematici. Non si prestano ad essere archiviati come “sacchi di patate in cantina” (“wie die Kartoffeln im Keller”, direbbe Heidegger), ma richiedono attenzione e, una volta chiusa l’ultima pagina, continuano a vivere e a trasmettere qualcosa dentro di noi. Credo che questo Ipotesi di complotto rientri a pieno titolo nella seconda categoria. Il suo primo effetto “perturbante” costringe a ripensare molta parte della letteratura sub specie della teoria del complotto. Quei romanzi che abbiamo introiettato, masticato e sedimentato nel corso degli anni, si rivelano, alla luce di Panella e Gramantieri, sotto un aspetto inedito e pregno di nuove prospettive. Non solo testi chiaramente ispirati al tema specifico – dal più recente Cimitero di Praga di Umberto Eco (basato sull’ipotesi di un complotto massonico) fino ai classici greci – ma anche in opere meno evidenti. Laddove l’ipotesi di complotto è piegata, nascosta sotto le righe, a formare una

nervatura solida, una struttura interiore che, seppur non visibile, riesce comunque a dar forza al racconto. Perché “complotto” non è soltanto da intendersi nel significato corrente (“Organizzazione di una trama delittuosa ai danni di persone o istituzioni, Congiura”, come si legge sul DIR-Dizionario Italiano Raginato), ma anche di un’intenzione sottaciuta. Nel senso più ampio di volontà nascosta che determina un’azione o delinea un progetto. Insomma, una logica cosciente. Da questo punto di vista, tutto cambia. Come se, non tanto l’ipotesi di un complotto, quanto la denuncia di una strategia occulta (ma ravvisabile, con un po’ d’impegno), rappresentassero il “pathos” di ogni espressione letteraria, in grado di attirare l’attenzione del lettore per la loro drammaticità. Se non c’è un disegno occulto, una trama nascosta, se non intervengono loschi figuri che tramano nell’ombra, non ci si diverte. Non val neppure la pena di mettersi a leggere. Perché ciò che è chiaro, semplice, piano, normale, non attrae. Non fa notizia. È persino scontato, e dunque noioso. Una volta dato (per sempre) l’American Dream, come ogni altra condizione di sereno equilibrio, l’esaltazione dei buoni sentimenti o qualsiasi altra descrizione in positivo di “felicità” e di “benessere”, tutto il resto è noia. O meglio: tutto il resto necessita di deviazioni


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Giuseppe Panella Riccardo Gramantieri La copertina IPOTESI DI COMPLOTTO

Giuseppe Panella insegna presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. Poeta e saggista, è autore, fra le altre cose, di Friedrich Dürrenmatt e la poetica della responsabilità umana (2005); Émile Zola scrittore sperimentale. Per la ricostruzione di una poetica della modernità (2008); Il sosia, il doppio, il replicante. Teoria e analisi critica di una figura letteraria (2009).

Progetto grafico: Piero Orsi

Paranoia e delirio narrativo nella letteratura americana del Novecento

Solfanelli

dalla norma, complicazioni, sorprese, suspense, mistero, ostacoli e drammi per andare Gramantieri si occupa di letteratura e science fiction. Sue traduzioni e articoli, sono apparsi su volumi e rivistel’attenletcuratele, avanti.Riccardo Per interessare. Per solleticare terarie specializzate come “IF Insolito&Fantastico”, “Fernandel”, “Nova Sf*” e “Futuro Europa”. Ha recentemente pubblicato il vozione di legge. lumechi monografico Metafisica dell’evoluzione in A.E. van Vogt (2011). Giuseppe Panella e Riccardo Gramantieri analizzano Ellroy, Pynchon, Dos Passos, 12,00 Dick, Euro Burroughs, la Acker, Delillo, Philip Roth; sfiorano Ballard, Prosperi, Hubbard, Gibson, con la consueta maestria e una profonda conoscenza che spazia dalla narrativa di genere alla psicanalisi, dal mainstream alla filosofia classica: dimostrano, attraverso il caso dell’assassinio di Kennedy, come tra il reale e l’immaginario non esista soluzione di continuità. Il complotto dilaga nella cronaca e penetra profondamente nella letteratura. American Tabloid, Sei pezzi da mille, Il sangue è randagio di James Ellroy rispecchiano (e talvolta approfondiscono) i timori reali di un disegno eversivo che ritorna in forme più o meno evidenti e con linguaggi diversi, come ad esempio nell’ultimo King di 22/11/62, dove un viaggiatore nel tempo tenta di salvare la vita al presidente americano. Del resto Stephen King aveva già preso le misure del “Grande Male” annidato sotto il reale, capace di muovere le sue pedine mostruose e orrorifiche, in precedenti lavori come It, La zona morta, L’ombra dello scorpione, La metà oscura, Cuori in Atlantide, dove la fantasia adombra il complotto politico. Una metafora della Paura più profonda e temuta dell’invasione e della perdita di sé. Ma i due Autori avrebbero potuto facilmente estendere la loro analisi a fatti più recenti, come l’attentato alle torri gemelle del Trade Center di New York – a cui il regista

Giuseppe Panella Riccardo Gramantieri IPOTESI DI COMPLOTTO

IPOTESI DI COMPLOTTO

vicende politiche verificatesi fin dagli albori della “nascita della nazione” statunitense, quanto la letteratura che viene scritta e pubblicata, specialmente nel dopoguerra Attraverso la ricostruzione della fortuna di questo tema in autori importanti e germinali del Novecento americano (si va da William Burroughs a James Ellroy passando attraverso Thomas Pynchon, Don Delillo, Kathy Acker, Philip Roth e in ambito fantascientifico Philip K. Dick, senza trascurare l’apporto del cinema, in particolare il celebre Dottor Stranamore di Stanley Kubrick), il tema viene condotto a mano a mano fino al suo nocciolo psicologicamente e sociologicamente più rilevante: la paranoia americana come “spirito della nazione” con tutte le tragiche conseguenze che essa ha comportato e che ancora attualmente comporta.

27 G. Panella - R. Gramantieri

del nuovo saggio di Giuseppe Panella e Riccardo Gramantieri. La teoria del complotto è la sostanza narrativa di gran paramericana del Novecento. L’idea di te della grande narrativa Nella pagina precedente: una rete fittissima di avversari del modo di vivere americano e distrug-Roth. che si sono annidati al suo interno per sabotarla Philip gerla contraddistingue tanto una serie molto inquietante di Paranoia e delirio narrativo nella letteratura americana del Novecento

m i c r o m e g a s

Solfanelli

Michael Moore ha dedicato il film-documentario Fahrenheit 9/11 (2003) – senza téma di perdere di vista il loro obiettivo: la comprensione di un fenomeno tanto evidente che è entrato a far parte dell’immaginario collettivo e che è divenuto, alla fine, un atto creativo. L’unica cura per liberarsi delle proprie nevrosi. L’America malata di paranoia è sempre in primo piano, ma questo non dipenderà dalla sua predisposizione a vedere il male in ogni cosa, a dubitare, a cautelarsi, a cercare nemici immaginari, che permettano di rinsaldare i vincoli interni (come nel caso del maccartismo degli anni Cinquanta) e l’identità nazionale? Oppure non si tratterà di una ricerca spasmodica della razionalità ad ogni costo? Quel principio di razionalità che spinge a cercare una giustificazione logica agli eventi che sconvolgono la vita delle persone e che appaiono determinati dal caso. L’uomo medio non accetta ciò che è inspiegabile, che è casuale, che non ha giustificazione alcuna. Vuole capire. Anche se questo procedimento gli costa sofferenza. Forse non sarà per questo che tutta la letteratura americana (compresa, ovviamente, quella di genere) è così coinvolgente? Che ha così facile presa sul lettore, che piace e che appassiona più di ogni altra?


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NARRATIVA

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Sergio Gaut vel Hartman

CORREzIONI NELLA TRAMA DEL TEMPO

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ernry Hassel preparò la macchina e tornò indietro nel tempo di mezzo secolo. Proprio come aveva calcolato (era bravissimo a calcolare) incontrò Vladimir nei giardini dell’Hotel Palace di Montreux, mentre beveva la sua vodka con succo di ciliegia. Era il pomeriggio del 5 ottobre 1969 e l’inverno si insinuava tra le foglie delle querce e nella brezza che veniva dal lago impregnata di profumi di fumo e resina. —Maestro —gli disse in inglese; non conosceva né il tedesco né il francese, e benché meno il russo—: ho bisogno di Luzhin per riparare un errore nella trama del tempo. —Non mi dire! —sputacchiò Nabokov senza guardarlo, rendendo onore alla sua fama di persona brusca e sgradevole— Come lo preferisce, vivo o morto? Henry mosse la chioma leonina e fece spallucce. Era difficile determinare se tali categorie fossero valide per i personaggi di finzione. —Suppongo—disse —Vivo —disse Nabokov con un tono neutro e senza asprezze; ciò sorprese Henry ancor di più della accettazione di ciò che lui potesse star reclamando, in modo molto sciolto—. Non sarà facile poiché, come lei saprà se ha letto il libro, Luzhin non sopravvive alla fine. Bene, non sono tipo da rivelare il finale dei libri, ma lei non sarebbe qui se non lo avesse letto per intero. —Mi servirà il Luzhin della pagina 47, quando lui vede Alessandra per la prima volta—disse Henry con una certa timidezza. Vladimir si rizzo sulla sedia, mosse il busto e per la prima volta fissò Henry negli occhi. — Lei non ha letto il libro, si è limitato a vedere

il film! Henry evitò la provocazione e guardò verso il lago. Una vellutata foschia che formava volute color porpora e oro, annunciava il crepuscolo.—Ho visto il film —disse senza voltarsi—. Tuttavia ho bisogno di Luzhin. C’è un grosso errore nella trama del tempo. —Questo l’ha già detto —replicò Vladimir; il mal umore lo trasformava in un asteroide troiano, che descriveva l’orbita più stravagante possibile—. Si sta ripetendo, come se le mancassero argomentazioni. —Questa scena —rispose Henry, armandosi di pazienza—, è possibile perché abbiamo avuto la possibilità di riparare il fallo; lo sa che cosa sarebbe stato di lei a questo punto senza il mio intervento. —Non avrei conosciuto Lolita? —disse Vladimir provocatorio. —Non solo Lolita; forse non avrebbe conosciuto neanche Vera. Vladimir si sollevò, mettendosi alla stessa altezza di Henry; era alto, aveva una testa di vantaggio su di lui e il suo temperamento aggressivo metteva in serio pericolo l’incolumità del viaggiatore nel tempo. —Guardi amico: di qui sono passati imbroglioni di tutti i tipi. Dato che io sono una persona cosmopolita e tollerante, in genere tali soggetti hanno salvato i loro denti. Ma lei sta abusando della mia benevolenza. Se dice una sola parola di più riguardo a un errore nella trama del tempo o che ha bisogno di Luzhin per ripararlo, la mando via di qui a calci e non smetterò di dargliene finché non fossi sicuro che non tornerà più a Montreux. Henry aveva attraversato situazioni simili in


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70 più di una occasione. Fece un passo indietro e attivò il campo di protezione personale, un’invenzione minore, quasi contemporanea a quella della macchina del tempo. Per fortuna il campo non bloccava l’emissione della sua voce, così che poté continuare a discutere. —Maestro: lei confessò che si sentiva come Anderssen che gioca La Immortale, nel 1851, quando ricordò con entusiasmo il sacrificio di entrambe le torri dinnanzi a Kieseritsky, "predestinato ad accettare una volta e un’altra ancora, in un’infinità di libri di testo, un punto di domanda come un monumento", sono parole sue, le ricorda? —Come lo sa? —chiese Vladimir recuperando il suo tono più ironico—. Non esiste film su questo. —Non è nella mia natura essere insolente— disse Henry, mettendosi sulla difensiva—, ma lei non dovrebbe saperne nulla del film. Si girò nel...beh, quando lei aveva già lasciato questo mondo. —É molto curioso che lei utilizzi il verbo al passato per riferirsi a un fatto che non è ancora accaduto—disse Vladimir, pensieroso. —Il mio passato è—rispose Henry—. Il suo futuro. —Capisco —disse lo scrittore; sembrava rassegnato all’inevitabile—. Mi dirà quanto anni mi restano? —No —disse Henry—, ed è meglio che sia così. Inoltre, la trama del tempo è rovinata e nessun evento resta fisso in un continuum instabile come un panno al vento. Sono venuto per riparare questa frattura e, secondo i miei calcoli, solamente un personaggio può aiutarmi: Luzhin. —Forse un po’ mi piacciono i rompiscatole della sua specie, capaci di tendere una trappola a un campione stordito—disse Nabokov tornando al suo bicchiere di vodka con succo di ciliegia —. Quello che mi è sempre piaciuto negli scacchi sono i tranelli, i trucchi nascosti, e lei sembra essere sul punto di farne uno. Ci cadrò io? Ci cadrà Luzhin? Chi ci cadrà? —Lo scopra —disse Henry—. Invochi Luzhin, lo obblighi a manifestarsi in questo

luogo spazio-temporale, in questo piano dell’esistenza. Lei può farlo. Può scriverlo, o configurarlo come una composizione, su di una scacchiera. Deve dargli esistenza attraverso un’azione della volontà. —Non dubito —rispose Nabokov— che esista un intimo legame tra alcune illusioni della mia prosa e il tessuto al contempo brillante e oscuro delle problematiche degli scacchi, magici enigmi, ciascuno dei quali è il frutto di mille e una notte di insonnia. —Vladimir aveva socchiuso gli occhi; sembrava crogiolarsi con le immagini dei pezzi che percorrevano il loro cammino invisibile, obbedendo ai rigidi dettami del giocatore. Henry interpretò che quello e non un altro era il momento ideale per affondare il colpo, abbattendo le difese dello scrittore, debilitate dalla contemplazione di tali illusioni e delle trame nascoste. —Devo portare Luzhin nel 1851. Il pensiero di Anderssen vaga attraverso labirinti attraenti, paurosi, insondabili... ma non trova la combinazione giusta. Se Adolf non costruisce L’Immortale nel 1851 tutta la nostra sequenza verrà inghiottita, come un flusso di lerciume, grasso e peli. Vuole portare sulle sue spalle il peso della responsabilità di aver gettato un mondo interno nella pattumiera? —Mi sta spaventando —disse Vladimir; le parole di Henry mettevano a nudo il suo lato più debole, in un certo qual modo eredità dello spirito russo, colpevole e fragile dietro la figura del brutale fanatico Gorki, dell’ossessivo Dostoievsky, impregnati di vodka e rancore—. Luzhin vedrà il sacrificio di entrambe le torri? Come lo comunicherà a An-


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derssen? —Sembrò intravvedere un filo slegato nel ragionamento e affrontò Henry. — Perché non lo fa lei in persona? Il sacrificio già c’è stato. Non ha neppure bisogno di saper giocare a scacchi. —Si sbaglia —disse Henry—. Non so giocare, questo è vero, ma non sarebbe questa la cosa importante. Adolf non può ricevere il messaggio da una mente non allenata alle complesse combinazioni che si sviluppano in una partita. Lei l’ha detto in un romanzo: affascinante, fragile, cristallina. —Alla fine —sospirò Nabokov—, l’ha letto. —Ora questo non ha importanza —disse Henry—. Faccia venire Luzhin. Vladimir, rassegnato, tornò al tavolo di metallo dipinto di bianco. Il crepuscolo emanava le sue ultime note, per cui non fu facile per lo scrittore redigere quelle poche righe alla debole luce dei lampioni del parco, il paio di paragrafi necessari per invocare Luzhin. Henry aspettò pazientemente, senza fare commenti. Sapeva che Nabokov aveva capito ciò di cui aveva bisogno. Quando lo scrittore ebbe finito, gli tese il foglio. Il viaggiatore nel tempo non si trattenne nemmeno a leggerlo. Spense il campo di protezione personale e tese la mano. Vladimir la strinse con forza. —Sarà meglio che io non scriva nulla di questo episodio, vero? —Non mi sono azzardato a chiederglielo. Non è contemplato nella linea di base. Se lo facesse potrebbe prodursi qualche altra frattura, in un qualsiasi punto della trama. Potrebbe cancellare la carriera letteraria di Alfred Bester, il ché sarebbe terribile per me, o provocare che l’FBI si compiaccia infine di

eliminare tutti i comunisti della zona della baia di San Francisco. —Quest’ultima cosa non mi darebbe alcun fastidio —disse ridendo Nabokov—. Non c’è nessuno scrittore qui che meriti la mia simpatia, tantomeno la mia compassione. —Non sono venuto a discutere di politica con lei, Maestro... —Ha ragione. Se può, in un altro momento, venga a bere un bicchierino con me. Forse mi interesserà ascoltare le sue fantastiche storie del XXI secolo. —Fece una pausa e guardò in ogni direzione. —Dove ha lasciato la macchina del tempo? —Lì, tra quegli arbusti di spine —disse Henry indicando nella direzione di una Venere di marmo—. É un modello portatile. — Capisco —disse Nabokov. Si voltò nella penombra dando le spalle a Henry e prese il bicchiere; schioccando la lingua disgustato quando scoprì che era vuoto. Henry Hassel sbatte le palpebre. Si trovava in una sala zeppa di pubblico. Il fumo dei sigari, delle pipe e delle sigarette saturava l’aria senza ritegno. Il maggio londinese, più freddo del previsto, si infiltrava attraverso grate e fessure, lucernai e spioncini formando fasci eterei ma algidi. Si guardò intorno ricordando i volti delle stampe, anche se alcuni dei presenti non avevano acquisito sufficiente notorietà da essere immortalati. Bernhard Horwitz era l’uomo che portava i neri dinnanzi a Henry Bird, suo omonimo, inconfondibile per la folta barba bianca. Non aveva dubbi su Staunton, in quanto colui che vi era di fronte doveva essere Brodie. Un poco più in là, riconobbe Johann Loewenthal, ma gli sarebbe stato impossibile determinare chi fossero Jozsef Szen, Carl Mayet o Marmaduke Wyvill. In tutti i modi, non erano loro l’obbiettivo dei suoi sforzi, ma i giocatori del tavolo centrale, circondati dal pubblico più concitato e appassionato. Adolf Anderssen e Lionel Kieseritzky muovevano i pezzi nervosamente, con una fretta, un vigore assolutamente in contrasto con l’opera d’arte che stavano realizzando. Henry sapeva che la partita era stata


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72 piena di errori, e che questi errori dovevano essere la conseguenza naturare della vertigine. Tuttavia, non aveva immaginato qualcosa di così confusionario. Kieseritzky, per esempio, abbatteva un alfiere o un cavallo ogni qual volta realizzasse una giocata. Coprì la distanza che lo separava dai contendenti utilizzando i gomiti e l’impunità che concedeva il campo di protezione personale e si posizionò accanto ad un uomo che strabuzzava gli occhi in un modo molto noto. Henry seppe immediatamente che quell’uomo era Luzhin. I tic che gli solcavano il volto, le espressioni di contrarietà e le mosse meccaniche delle mani, che stiravano le pieghe invisibili del suo vestito, potevano solo appartenere al personaggio concepito da Nabokov. Guardò la scacchiera e capì che si avvicinavano alla giocata cruciale numero 18. Kieseritsky aveva appena spostato il suo alfiere su c5, rassegnato al suo destino e incapace di trovare la difesa che l’avrebbe salvato. Tutti i commentatori che si erano occupati della partita più famosa della storia avevano concordato sul fatto che Kieseritsky non trovò la giusta giocata…perché non esisteva! I neri avevano molte possibilità tra cui scegliere, ma nessuna era quella buona. Henry si concentrò su Luzhin. Cercò di trovare in quell’uomo le caratteristiche comportamentali che ricordassero l’ineffabile Alekhine, come aveva suggerito lo stesso Nabokov nello spiegare la sua opera, ma non gli fu possibile; vedeva solamente un fanatico degli scacchi che soffriva quella partita altrui come una sequenza di incidenti di vita o di morte, simili a una serie di catastrofi continue, capaci di demolire le fondamenta stesse dell’organizzazione dell’universo. La cosa peggiore di tutte, pensò Henry, era che sebbene lui non lo sapesse, stava accadendo precisamente quello: l’esistenza di tutta una linea temporale si mise in gioco quando Anderssen alzò la mano per muovere il pedone della colonna “d”. Lì stava il pericolo. Se il tedesco avesse migliorato la sua mossa, avrebbe vinto la partita…ma non sarebbe stata L’Immortale, la gemma che aveva fatto sospirare milioni di

scacchisti con un fervore maggiore di quello che manifestavano nel ricevere i favori di una donna. Henry osservò Luzhin. Se le istruzioni di Vladimir erano state precise, e lui era sicuro di sì, lo sforzo del personaggio era orientato a manipolare la mente di Anderssen, obbligandolo a giocare il cavallo su d5, una mossa minore, ma fedele alla partita che conobbe la Storia. Anderssen teneva poggiato il mento tra le mani e Kieseritsky si grattava la testa; un gesto abbastanza grossolano anche se comprensibile. Luzhin, invece, sembrava immerso negli abissi della propria intelligenza, lottando affinché ciò che era necessario ottenesse la vittoria sulla cosa migliore. Il capitolo finale, simile alla conclusione di un racconto giallo, conteneva sufficienti elementi nocivi da poter spazzar via la ragione del personaggio di Nabokov e distruggerlo. Finalmente, e per tutto sollievo di Henry, Anderssen fece la giocata: mosse il cavallo. Kieseritsky, quasi senza pensare, come se la stesse aspettando, prese il pedone “b” con la sua regina e il tedesco, senza pensare alle conseguenze mise l’alfiere su d6, esattamente quello che doveva fare. Alla luce delle analisi posteriori, il movimento dell’alfiere di Anderssen era un errore, ma psicologicamente era demolitore, un colpo ad effetto che avrebbe deliziato Lasker. Henry sentì che stava sudando. Ma nel contemplare Luzhin scoprì qualcosa peggiore: l’uomo iniziava a diventare trasparente, una condizione totalmente più conflittiva di qualsiasi sensazione fisica che potesse sperimentare. Se ne staranno accorgendo anche i


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73 giocatori e il pubblico? Henry era convinto di no: erano assorti, rapiti. Kieseritsky fisso Anderssen. Nella sua espressione si leggeva chiaramente il pensiero che il tedesco fosse impazzito. Aveva lasciato la torre sguarnita e dopo averla presa i neri minacciavano un formidabile scacco matto nella prima linea dei bianchi. Kieseritsky guardò nuovamente la scacchiera e alzò la mano. Henry incrociò le dita e vide che ora si distingueva solamente il contorno di Luzhin. Il pericolo era passato. La mano di Kieseritsky prese la sua regina e con un leggero colpo tolse la torre dalla scacchiera. Anderssen non vacillò un attimo. Fece avanzare il pedone su e5 e sentì che nel chiudere la strada della regina nera stava cesellando la medaglia d’oro che la sua opera meritava. Henry non ebbe bisogno di vedere il resto. Lo sollevava aver indovinato la strategia corretta, e ancor di più lo confortava essere arrivato in tempo. Doveva molto a Nabokov, l’universo intero aveva un debito con il russo. Ciò nonostante, un dubbio feroce iniziò a istallarsi nella sua mente. Cosa succederebbe se una altro viaggiatore nel tempo, più sagace o più abile, scoprisse un modo per rafforzare il gioco di Kieseritsky? Quante volte avrebbe dovuto correggere il testo del tempo? Un brivido turbolento gli attraversò la schiena. Cercò di raggiungere l’uscita, ma una robusta mano ricoperta di peli lo afferrò per la spalla e lo obbligò a voltarsi. — Che ciò non si ripeta — gli disse Anderssen in un pessimo inglese. Il suo alito di verza acida colpì Henry con una violenza maggiore del peggior schiaffo. —. Non mi interessa la sua linea del tempo. La avverto che la prossima volta giocherò il cavallo su c7, capisce ciò che dico? E non porti campioni di carta; se lo fa li userò per farmi le sigarette. Oppure parlerò direttamente con Vladimir e toglieremo lei dal gioco —concluse colpendo con il dito la spalla di Henry. Fu doloroso — . Mi ha capito? (tit. orig. CORRECCIONES EN LA TRAMA DEL TIEMPO, trad. it. di Margherita Cannavacciuolo)

Daniel Frini

IL SEGRETO

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arra la mitologia che Prometeo rubò i semi di Elio, il Sole, e che li consegnò agli uomini perché conoscessero il fuoco. Zeus, infuriato, decise di castigarlo; ordinò, quindi, la creazione della prima donna, che fu plasmata dagli dei: Efesto la modellò con l’argilla, rendendola incantevole, Atena la adornò, le Grazie e la Persuasione la abbellirono con pietre preziose, le Ore la coronarono di fiori ed Ermes le mise tra le labbra menzogne e parole di seduzione, e nel suo petto un carattere volubile. Si narra, inoltre, che questa prima donna si chiamò Pandora. E che nonostante Prometeo l’avesse avvertita di non accettare regali da parte degli dei, suo fratello Epimeteo s’innamorò di lei e la prese in sposa. Racconta il mito che fino a quel momento l’umanità aveva vissuto in totale armonia con il mondo; Pandora, però, curiosa, aprì il vaso proibito, permettendo così alla vecchiaia, alla malattia, la fatica, la pazzia, il vizio, la passione, le piaghe, la tristezza, la povertà e il crimine di essere liberi. I progressi nelle ricerche storiche e archeologiche ci permettono oggi di saperne di più in merito al Vaso di Pandora: era piccolo, e al suo interno conteneva un hamburger minuscolo, con formaggio Cheddar e salsa di cetrioli, una bustina con cinque patatine fritte impazzite, una salviettina di carta, una bustina di maionese e un pupazzetto di Superman, di plastica; una cianfrusaglia fabbricata a Taiwan. La gassosa, piccola, era a parte. (tit. otig. EL SECRETO, trad. it. di Ludovica Paladini)


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Adriana Alarco de Zadra

IL VIANDANTE MALRIDOTTO

U

n bel pomeriggio d’estate, eravamo nel bosco degli ulivi giocando a nascondino, dietro la vecchia casa della nonna, mentre i cugini più piccoli costruivano casette di canna e fango vicino alla pozza delle anatre. Non immaginammo mai la sorpresa che ci aspettava prima che arrivasse la notte. Assieme ai cugini Victor e Claudio, partecipavamo alle birichinate ed ai giochi con gli altri ragazzi della fattoria: Mango era figlio del cinese, il giallo padrone dell’unico negozio, che portava i suoi occhietti allungati ed un sorriso amichevole. Poi c’era Pepa, l’orgoglio di suo padre, il capo squadra dalla pelle ramata che ci estasiava le domeniche colla sua chitarra. Giocava con noi anche il piccolo Fito, figlio del Pagliaccio e nipote della nera Ignazia, il quale non conobbe mai suo padre perché fu concepito una notte di Carnevale, quando quello portava una maschera. Eravamo tutti sudati dal correre e giocare, mentre, dietro il pollaio della nonna, cantava il gallo sopra il convolvolo di campanule blu. Il gelsomino, intanto, profumava sotto il sole bruciante. Le dune fumavano. I carrubi si profilavano storti e languidi nella nebbia che si era alzata all’ora della siesta. Si sentiva il gracidare delle rane, il canto stentato delle oche in mezzo al nostro schiamazzo. Victor, il più birichino, era intento a costruire chi sa ché, senza arrampicarsi sugli alberi come faceva in genere con quelle gambe allampanate, ogni giorno più magre e lunghe. Era appena uscito dal “rosolio” come lui lo pronunciava, che non era un liquore per malati come volevamo far credere alla vecchia Ignazia, ma una

temibile rosolia con macchie rosse dappertutto sul corpo. Era in convalescenza e lo lasciavano giocare, seduto sulla sabbia con un cappello di paglia, di tesa larga per non scottarsi, perché scomparisse quella pallidezza così trasparente che aveva perfino cancellato le lentiggini che aveva sul naso. Dopo i giochi, ci piaceva saltare dentro l’acqua del canale d’irrigazione per fare il bagno nel “acqua nuova”, arrivata dopo le piogge dalla cordigliera Andina. Uscivamo puliti e contenti, meno Fito che rimaneva sempre indolenzito perché sua madre lo strofinava con la spazzola da lavare i panni e molto sapone, per farlo diventare più bianco, ma senza grandi risultati. Quel pomeriggio ci preparavamo per entrare in acqua, quando Claudio, arrampicato con la testa in giù sopra di uno degli ulivi, con la sua chioma rossa che pendeva spettinata, diede il grido d’allarme. Guardammo tutti verso il deserto costiero, e lontano, sotto il soffio del vento “paraca”, osservammo avanzare barcollando in lontananza un’ombra ondeggiante che sembrava dissolversi in mezzo ai miraggi. Era verità o magia? Era verità: un personaggio si avvicinava alla fattoria. Non arrivava a cavallo, né col autobus, né col camion. Cercava di avanzare trascinando i piedi ed inciampando. Che cade! Che cade! E’ caduto! - strillò Claudio, mentre scendeva rapidamente dall’albero. Non potevamo più osservare l’ombra avanzare sulla sabbia. Era svanita fra le dune prima di arrivare alla casa della nonna. Ci lanciammo di corsa verso dove lo avevamo scorto per l’ultima volta, per curiosità,


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e per soccorrerlo se fosse stato necessario. - E’ verde! - esclamai con meraviglia avvicinandomi. - Ed è malato! - affermò Pepa, tremando. - E’ tutto bagnato! - osservò Mango, guardandoci con occhi furbi. L’ ultimo arrivato fu Victor. Vedendo la sagoma sdraiata per terra con la faccia verde e grossa, coperta di macchie rosse, manifestò con voce timorosa: - Ha il rosolio, come me. Effettivamente, quello strano personaggio aveva un colore poco comune. Ci rendemmo conto, poi, che dalla sua schiena cadeva una sostanza gialla che non sapevamo se era sangue chiaro o qualche altro liquido corporeo, anche se non aveva odore di pipì ma di muschio. Decisi ad aiutarlo, lo trascinammo per un po’ lungo la sabbia, giacche da sempre la casa della nonna accoglieva i forestieri, stranieri, esteri o esotici, oppure “dafforani” come chiamava Ignazia quelli che arrivavano “da fora”. Era abitudine ricevere nella fattoria gente d’altre razze, culture e credenze perché la nonna ripeteva: “Non bisogna trattare male i visitatori di buona volontà, soltanto perché arrivano da lontano”. Per questa ragione, un individuo colla pelle verde e le macchie rosse sul corpo, che versava liquido giallo dalla schiena, non ci stupì più di tanto in quel momento, anche se ora che lo ricordo, dopo tanti anni, mi sorprendo della nostra incredibile ingenuità. Il forestiero portava una tuta aderente e dalla cintura pendevano diversi apparecchi che si accendevano e spegnevano, emettendo suoni

intermittenti e rumori bisbiglianti. Lo circondammo sorpresi, ed in un primo momento non avevamo il coraggio di toccarlo per portarlo con noi. Vicino al corpo svenuto, risplendeva sotto il sole un casco argentato con disegni geometrici, inconsueto. Claudio, il cugino irrispettoso come sempre, cercò di metterlo sulla propria testa, ma lo tolse in fretta e lo gettò lontano. - Ha musica e filmini dentro! - balbettò spaventato. Quello sì che era molto insolito, veramente. Ancora più del colore della pelle dello sconosciuto, perché le uniche pellicole che vedevamo nel cinema del paese erano quelle di Tarzan, e non avevamo mai saputo che dentro un casco, anche se era brillante ed argentato, potesse apparire Tarzan. - E non è Tarzan! - s’affrettò ad affermare vedendo le nostre facce perplesse e diffidenti. Afferrai il casco senza paura e lo misi su fino a che mi coprì completamente la testa. Attraverso la lamina trasparente davanti agli occhi, a parte il paesaggio intorno, vidi un personaggio con gli occhi sporgenti e la bocca grande che parlava in una lingua sconosciuta. Mi dava delle istruzioni. Cercai di capire quello che voleva comunicarmi, ma non comprendevo. Ebbi la sensazione di alzarmi in aria per qualche metro, ma quando mi tolsi l’artefatto dalla testa, sbalordita, mi trovai ancora con i piedi per terra. Meno male che non mi sono fatta male, pensai, perché la nonna mi avrebbe sgridato per l’imprudenza. - Mi avete visto volare?- domandai ai ragazzi. - Nessuno ti ha visto volare, - rispose Mango che non credeva in fattucchiere. - Sei stata qui accanto, tutto il tempo. - Però, al casco le sono cresciute le antenne! Pepa si avvicinò e carezzò il copricapo che s’illuminava da solo, con luci intermittenti. Le due antenne si erano ritirate ai lati, e non si vedevano più. Come mai io avevo visto il paesaggio dall’alto senza aver mosso i piedi da terra? Chi era quel personaggio che mi parlava dentro la testa? Era quello un casco con pretensioni arrampicatrici, un ascensore, oppure una macchina volante, mobile, da


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76 corsa? Decisi che non volevo sondare subito il mistero perché erano già sufficientemente incomprensibili i fatti occorsi quel pomeriggio. - Sarà questo il forestiero che la nonna aspetta da sempre, quando scruta l’orizzonte sopra le dune? - chiese Claudio indicando l’individuo malconcio, mentre lo tirava dalle braccia e noi dai piedi. Nessuno rispose, stanchi com’eravamo per lo sforzo, e ammutoliti per il dubbio e l’incertezza. Allora corsi fino alla cucina della nonna, chiamando Ignazia. Affannata, la vecchia cuoca venne fuori asciugandosi le mani con uno straccio. - Che cosa porti fra le mani, Rosa? - mi chiese. - E’ un casco del forestiero che è svenuto sulla sabbia, - risposi. - Dentro porta dei film e ti fa volare. - Quante stupidaggini racconti! - disse, movendo la testa rassegnata, la buona donna. Era abituata ai nostri voli immaginari e a tutti i forestieri che s’accostavano alla tavola in casa della nonna. Poi, osservò con trepidazione il nuovo personaggio. Infatti, i ragazzi s’avvicinavano alla cucina che mandava odori forti e piccanti, portando il foraneo svenuto. - Chi è quello che portate qui, birbanti? Dovete stare attenti...- strillò la donna di colore, chiocciando come una gallina vecchia. - Abbiamo trovato questo “dafforano” sulle dune, - interruppe Fito. - Sembra morto, - bisbigliò Claudio. - Penso che ha preso il rosolio, come me, disse Victor indicando le macchie rosse. Ignazia s’avvicinò al corpo steso sulla sabbia. Era un essere piccolo e storto come un carrubo vecchio. Lo prese con le sue braccia forti e lo portò fino alla cucina. Col suo spirito nobile, generoso e osservatore, si rese conto subito della situazione, ed esclamò: - Un altro che ci cade dal cielo! - Esaminò il corpo con curiosità. - E’ ferito. Mi pare che abbia un taglio di machete dietro, sulla schiena. Arrivò la nonna preoccupata in cucina, sentendo il trambusto. Fece portare

senza indugio il forestiero ferito in uno dei letti che manteneva per ospiti inaspettati, che trattava sempre bene perché non si stancava di ripetere: - Che siano forestiere arrivati da lontano, non significa che sono cittadini di seconda categoria. Così lo abbiamo capito fin da piccoli. Pulì e curò la ferita con attenzione, in quella pelle verde ed alquanto squamosa che faceva sembrare il nuovo venuto o nuovo svenuto, più a un’ iguana che a una persona. Poi coprì e fasciò la lesione della schiena con lunghi stracci di stoffa che strappò da un lenzuolo pulito. Quando finalmente lo lasciò a riposare, vedendo che respirava un po’ meglio, la nonna fece l’interrogatorio a tutti. Raccontammo subito del casco che faceva volare, con cinema incorporato, e lo sequestrò immediatamente. Lo chiuse sotto chiave nel baule che teneva ai piedi del letto, lo stesso che conservava, come ci raccontava, le sue lenzuola ricamate da sposa. - Questo non è un giocattolo, - pronunciò con saggezza. - Possiamo imparare in questa vita con l’esperienza degli altri, anche se arrivano da un luogo più in là delle stelle. Ma non dobbiamo mancare di rispetto a loro ne ai loro oggetti. Rimanemmo tristi ed insoddisfatti perché tutti volevamo metterci il casco sulla testa, ed io, più di tutti, volevo volare ancora, anche se fosse soltanto con l’immaginazione, e vedere come funzionavano le piccole antenne. Nella fattoria cominciarono le inchieste per scoprire chi erano quelle canaglie che ave-


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vano bistrattato il forestiero, lasciandolo malconcio col machete. Lui che era atterrato sulle dune, proveniente da un mondo lontano, senza aggressività, violenza o motivo di combattere secondo le supposizioni della nonna. La figlia maggiore della cuoca Ignazia, e madre di Fito, sapeva che un gruppo di malviventi stava rendendo insicura la regione, intossicandosi con intrugli di sughi di cactus ed altre bevande allucinogene. Sospettò che fossero loro i colpevoli. Lei conosceva bene molti uomini della zona. Viveva cercando di scoprire chi l’aveva resa madre e tutti gli anni, durante le feste del Carnevale, cercava di smascherare i pagliacci chiedendo loro a bruciapelo: - Sei tu il padre di Fito? Cosi, quando seppe dove stavano allora i banditi, lavoratori temporanei nelle campagne, mosse cielo e terra per trovarli e portarli alla giustizia, ma successe quello che accadeva sempre con le altre sue ricerche. Furono vane e infruttuose, e l’unica risposta che sentì intorno furono delle risate. - La nostra gente dovrebbe accogliere tutti con rispetto, soprattutto se arrivano con buone intenzioni, - si lamentò la nonna quando seppe delle vane ricerche della madre di Fito. Lei aveva capito già dell’ aggressività dei raccoglitori stagionali di cotone che contrattava per i lavori durante l’estate. Pochi giorni dopo averlo alimentato con brodo di gallina e uova di quaglia, più alcune infusioni d’erbe, e di fregare il suo pellame coriaceo con tintura di timo, melissa e tamarindo, il paziente incominciò a ricuperarsi. La nostra curiosità ci portava a sbirciare dentro

la stanza per ospiti, ma la scura madre di Fito era sempre di guardia sulla porta, lavorando a maglia, perché nessuno lo disturbasse. Un pomeriggio sull’ora della siesta, trovammo la chiave insolitamente inserita nella chiusura del baule della nonna, ed approfittammo del sonno della veneranda anziana per impossessarci del copricapo magico. Lo mettemmo sulla testa a Victor, perché era stato ammalato, quindi aveva più diritto di noi che eravamo sani. Subito, dai lati uscirono due antenne, ma lui, tremando, si tolse il casco dalla testa e gridò: - C’e un’anatra morta sul tetto! - Un’anatra morta sul tetto? - Sai, Rosa? Deve essere la stessa che Claudio prese dalle zampe e lanciò al belvedere, quando la nonna non lo vedeva, - svelò Fito. - Stai zitto, spione! Allora, io presi il casco, lo mise in testa ed incominciai a volare anch’io. Mi alzai sul gelsomino che profumava le ore della siesta, su, sopra l’eucalipto, arrivai al belvedere sul tetto, con la sua veranda di legno danneggiato dalle crepe ed osservai così l’anatra defunta che la rabbia ed il malumore di Claudio aveva fatto atterrare sul tetto della dimora, il giorno prima, dopo la sgridata della nonna. Continuai a sollevarmi ed attraversai la nebbia. Il cuore mi batteva dalla paura fino a che salì sopra una nuvola e potei vedere laggiù, fra le dune e molto lontano dalla casona e dal villaggio, dentro un fossato sabbioso, ben nascosto dalla nostra dimora, un enorme apparecchio volante, senza ali, come un disco argentato e splendente. Cercai di togliermi il casco, tirando dalle antenne. Immediatamente, uscirono dai lati del copricapo delle cinghie e mi legarono la parte superiore del corpo, come serpenti, mentre si ascoltavano le grida dei ragazzi e le parole incomprensibili del cicerone dentro il casco. - Attenta che alzi il volo veramente! - gridavano i cugini. Presi il casco con le mani e cercai di togliermelo. Si snodarono le cinghie e cascai per terra. Ero veramente levitata qualche metro dal suolo!


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78 - Quasi te ne vai volando in aria! - assicurò Pepa spaventata. Capì, allora, che potevamo volare fisicamente col casco in testa, e non soltanto per vedere il mondo dal tetto della casa. Questo era un fatto che ci metteva un po’ di paura. Gli altri ragazzi si misero il casco per provarlo, ma non tirarono delle antenne per non staccare i piedi dal suolo. Noi vigilavamo attentamente giacche non volevamo perdere nessuno dei compagni di gioco, parenti e no perchè si mettesse a volare e si allontanasse per aria, soprattutto per timore al castigo della nonna. Tutti rimasero meravigliati da quel che vedevano dall’alto, senza muovere i piedi da terra. Decidemmo riportare l’oggetto magico nel cassone. Probabilmente il forestiero avrebbe avuto bisogno del casco volante per tornare al luogo da dove era venuto. Decidemmo di mantenere il segreto su quello che avevamo visto e provato, sgomenti da quel mistero inesplicabile. Se lo avesse saputo, la nonna ci avrebbe castigato almeno per un mese senza mangiare dolci. - Cielo santo! - ascoltammo il grido dell’anziana signora, quando entrò una mattina alla stanza per ospiti. - Ave Maria! - recitò Ignazia dietro di lei. Non ci raccontò mai la nonna cosa parlò con il forestiero, né in che lingua, ma indovinammo che quei due si capirono. Quella mattina prese il copricapo dal baule e ci riunì nel patio, sotto il gelsomino. Ci istruì. - Il forestiero è sano, adesso, vuole tornare al suo mondo e noi dobbiamo facilitargli il compito, e non turbare i suoi desideri per curiosità, invidia o malvagità. Quel giorno assistemmo a dei fatti inusitati, in piedi, vicino agli zii, che portavano i loro stivali lucidi come i giorni festivi, al cinese del negozio, alla nera Ignazia, ai raccoglitori di cotone di pelle color caffè, alle zie ed alla nonna dai capelli bianchi e pelle lentigginosa che diventava rossa appena prendeva un po’ di sole. Apparve il forestiero vestito con un pantalone di cotone grosso, appena stirato, ed una camicia a quadri. Capimmo che la nonna aveva deciso di vestire il visitante decente-

mente per il suo viaggio, e fu allora che vedemmo, sorpresi e meravigliati, che aveva scucito il pantalone dal di dietro, per lasciar uscire una coda verde e squamosa che il visitante trascinava dietro di sé. - Gli è cresciuta una coda da lucertola! - ripeteva Ignazia, e la vedemmo fare il segno della croce mormorando preghiere. - Probabilmente gli tagliarono la coda col machete e si è rigenerata come quello di una lucertola! - bisbigliavano gli zii. Non traballava più né spandeva liquidi gialli. Il forestiero andò sul belvedere della dimora, mentre la coda balzava dietro sugli scalini consumati. Alzò le braccia come salutando e fece una smorfia che poteva sembrare un sorriso. Poi, si mise il casco sulla testa. Immediatamente apparvero le antenne lanciando dei raggi, e le allungò con le sue dita curve. Le cinghie le legarono il corpo, sopra la camicia a quadri e, silenziosamente com’era arrivato, sparì nella nebbia pomeridiana. I lavoratori tornarono alle loro faccende, domandandosi se avevano sognato o se era un nuovo trucco del circo che arrivava in paese durante le feste. Gli zii alzarono le spalle e montarono a cavallo verso le campagne, abituati com’erano ai visitatori esotici e saltimbanchi che s’avvicinavano a casa della nonna. Noi, sospettando i fatti posteriori, dirigemmo gli occhi verso l’orizzonte e poco dopo vedemmo un disco argentato alzarsi verticalmente fra la nebbia e la sabbia, staccarsi dal suolo ed avviarsi velocemente verso le stelle. Quel fatto lasciò una traccia durevole nelle nostre menti. L’esperienza di intravedere per momenti un altro mondo, nuovo, magico, inspiegabile, riempì la nostra gioventù di sogni sorprendenti ed il nostro futuro d’ospitali accoglienze, inaspettate ed addottrinanti. Attraverso gli anni, i visitanti sono stati ancora e sempre ben accolti in questo luogo del mondo. Posso assicurare che fino ad oggi, in casa della nonna, anche se lei non ci accompagna più, sul tavolo domenicale aspetta sempre un piatto per il forestiero. (da: Racconti forestieri in altri spazi)


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Gianandrea De Antonellis

MILLE E NON PIU’ MILLE

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a navigazione non era agevole, data la scarsità di esperienza in mare aperto: Julius aveva vissuto sempre sulla terraferma, anche se a stretto contatto con le acque del Mediterraneo. L’isola che aveva abitato era abbastanza profonda e ricca di selvaggina da permettere, almeno a lui, di specializzarsi nella caccia, anziché nella pesca, come avevano fatto altri parenti più anziani. Egli era l’ultimo discendente di una delle famiglie che nel lontano anno Mille, guidata da un predicatore, Kratilus, aveva abbandonato il consorzio umano per isolarsi – nel vero senso della parola! – ritirandosi su quel lembo sperduto di terra circondata dal mare e rimanendo indisturbata per secoli e secoli. Unico, singolare contatto che Kratilus aveva mantenuto con il mondo esterno era rappresentato da una particolare biblioteca: aveva radunato e portato con sé tutti i testi escatologici che gli era riuscito a trovare, quelli dei Cristiani come quelli della religione dei Padri, Egiziani, Greci, Ebrei o Germani che fossero. La comunità, seguendo gli insegnamenti del suo fondatore, aveva prosperato, senza che alcuna persona proveniente dall’esterno riuscisse ad accedervi se non accettava completamente – ed i casi erano stati rarissimi – le ferree regole imposte al momento della fondazione. Per dieci secoli le generazioni si erano succedute alle generazioni; raramente si erano avute delle fughe, più che altro molti volontari esilî; raramente qualche viaggiatore era giunto in quell’isola ed ancor più raramente il capo della comunità era riuscito ad accrescere il numero dei suoi testi escatolo-

gici. Essi erano custoditi gelosamente, come sacre reliquie; inoltre, tramite un continuo ed accurato lavoro di copiatura, venivano mantenuti sempre nuovi ed insegnavano agli ultimi venuti l’arte di leggere e scrivere. Ma un’oscura maledizione sembrava addensarsi sull’isolata comunità: le ultime generazioni avevano visto assottigliarsi sempre più il proprio numero. Le nascite erano state sempre più rare e, durante la generazione precedente, sull’isola esisteva una sola famiglia, tanto che Julius, l’ultimo sopravvissuto, era l’unico figlio di un fratello e di una sorella. Rimasto solo, subito dopo aver ricoperto la fossa in cui aveva sepolto il proprio padre, Julius si era apprestato a partire. Nei giorni dell’agonia del genitore aveva deciso di abbandonare l’isola e di raggiungere l’eterna Roma: se i calcoli che aveva compiuto non erano errati, si doveva trovare nel due millesimo anno della civiltà; dieci secoli era durato il loro esilio, incominciato nell’anno Mille: ora, nell’anno Duemila, esso si sarebbe concluso. Non che Julius s’illudesse di trovare la felicità raggiungendo il sacro suolo di Roma: durante il viaggio aveva continuato a ripetere mentalmente le pagine imparate a memoria negli anni dell’adolescenza, in particolar modo i versetti dell’Apocalisse di Giovanni e le non meno terribili profezie sul Crepuscolo degli Dei. I giorni passavano ed egli non aveva ancora incrociato alcuna nave o barca e andava convincendosi sempre più di essere sul punto di raggiungere una terra di morti, tanto più che nella mente di Julius si delineava con sempre maggior chiarezza


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80 come, quali che fossero le reali entità del Bene e del Male, una sola cosa era certa: di lì a poco nessun essere vivente avrebbe più abitato la terra, sia che il lupo Fenrir la avesse ingoiata, sia che i morti, risorti e nuovamente ricoperti di carne viva, avessero ricevuto in premio la salvezza o l’eterna dannazione. Dopo sette giorni di navigazione, nel pieno della notte, raggiunse la terraferma. Il cielo era nuvoloso e Julius non poteva dedurre la propria posizione studiando l’assetto degli astri. Appena toccata la madre terra, come Anteo si sentì riempire di nuova forza e, trascinata la barca sulla spiaggia, si avviò in direzione perpendicolare al litorale. Il paesaggio gli appariva spettrale: le case erano diverse da come se le era immaginate leggendo le descrizioni su alcuni testi o ascoltando i ricordi tramandati dagli avi. Si era aspettato edifici larghi e bassi ed al contrario si trovava di fronte a case che svettavano verso l’alto, con finestre strette e lunghe, con tetti costellati di cuspidi, come se fossero lance di giganti trasformate in abitazioni di demoni, ché riteneva impossibile per un uomo libero scegliere di vivere in quelle prigioni… Accelerò il passo e fu felice quando, allontanatosi da quella selva di pietra che lo aveva tanto sconvolto, vide qualche rozzo casolare più simile a quanto si era aspettato; entrò in uno di essi, particolarmente vicino alla strada che comunque aveva deciso di percorrere. Era formato da una sola stanza piuttosto ampia dalla quale proveniva un odore molto forte. Julius chiamò, ma nessuno rispose; stava per andarsene, quando un calpestio lo fece voltare: vide una massa dalla parte opposta dell’entrata e pensò che gli abitanti di quella casa potevano essere spaventati dall’arrivo di uno sconosciuto. Si avvicinò, cercando di dare alla propria voce il tono più suadente possibile, ma non ottenne comunque alcuna risposta. Poi, improvvisamente, le nubi si diradarono e la luna penetrò attraverso la finestra, illuminando debolmente la forma sconcia di un bovino dalla magrezza impressionante: in qualche punto le ossa avevano addirittura bucato la pelle dell’animale e lo

spettacolo fece pensare a Julius di essere di fronte ad un essere demoniaco. La visione fu tanto impressionante che lo spinse a precipitarsi fuori ed a continuare una corsa affannosa, perdendo del tutto la cognizione del tempo; si fermò solo quando vide una collina: decise di scalarla, nella speranza di poter trovare un punto d’osservazione che gli permettesse di orientarsi. Una volta giunto sul crinale, si trovò di fronte ad una vallata ricoperta da una nebbiolina leggera e bassissima; ma alla prima folata di vento Julius sentì le vene agghiacciarsi: quella che si stendeva ai suoi piedi non poteva essere altro che la valle della Geenna; Julius era fuori di sé dall’orrore e credette di impazzire mentre avanzava a fatica affondando nella terra, molle e fangosa a causa del sangue che sgorgava dalle migliaia e migliaia di cadaveri ammassati. Ai morti si addossavano i moribondi. Qualcuno degli innumerevoli corpi era interamente coperto di metallo e Julius lo avrebbe scambiato per una inerte statua di bronzo se non fosse stato per i fiotti rossi che a tratti sgorgavano dalle giunture o per le nuvolette di vapore che uscivano dalle grate degli elmi. Ammirava impressionato quei vestiti dai colori sgargianti e dalle fogge inusuali, che mai aveva visto e mai sarebbe stato in grado di immaginare, tanto che avrebbe pensato di sognare, se non fosse stato costretto, ad ogni caduta, a toccare la realtà dei corpi che lo circondavano. Le grida strazianti dei feriti lo agghiacciavano, ma mai quanto le immobili espressioni sui volti dei morti, i cui tratti, sfigurati da pro-


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fondi squarci, erano fissi in una tragica maschera di dolore. Julius non tentò di salvare uno solo degli agonizzanti che al suo passaggio gli gridava qualcosa, mentre cercava di trattenere il suo incedere afferrandogli la tunica o stringendogli le caviglie con mani ossute, lorde di sangue e fango: quello non era forse il giorno del Giudizio? Ripensava ai mostri descritti dai vari libri escatologici: a che affannarsi quando presto sarebbe giunto ad ingoiare l’intero globo il lupo Fenrir, di cui parlavano le saghe nordiche, oppure il Giudice supremo che emergeva dalle pagine dell’Apocalisse, al quale nessun sopravvissuto sarebbe sfuggito? Fosse vera l’una o l’altra delle due previsioni, in ogni caso non v’era che una sola certezza: la Morte avrebbe presto ghermito tutti. D’un tratto scorse tra le brume un essere che si aggirava tra i corpi. Era vestito di una lunga tunica scura ed aveva un cappuccio pesantemente calato sul volto. Julius dapprima temé di trovarsi di fronte all’angelo sterminatore, tanto irreale sembrava quella figura che si avvicinava ai corpi, si chinava su di essi e vi faceva strani gesti; ma poi notò che nella mano sinistra portava una lampada: notò le ossute, ma reali dita che stringevano l’anello di metallo di uno strumento di cui un essere soprannaturale non avrebbe certo avuto bisogno. Il cammino verso di lui non era agevole: alle difficoltà del terreno si aggiungeva la selva di braccia imploranti che più volte lo fece inciampare. Se non fosse stato per la fioca luce che la strana figura recava con sé, Julius avrebbe certo perso quel punto di rife-

rimento, perché i miasmi dei cadaveri iniziavano ad ottundergli il cervello e a tratti gli facevano calare la vista. Le roche grida che lanciava – l’altro avrebbe mai capito la sua lingua? – non riuscivano a superare la folta barriera dei continui lamenti che salivano da quel mare di moribondi. Finalmente giunse a pochi passi dallo sconosciuto e distinse un uomo in carne ed ossa. Rincuorato (il sospetto di trovarsi di fronte ad un essere soprannaturale non lo aveva mai abbandonato del tutto) gli si avvicinò ulteriormente e gli chiese dove fossero, forse nella valle della Geenna? L’altro sorrise amaramente e scosse il capo: no, quella non era la Geenna, ma la piana di Montevento dove il giorno prima si era svolta una sanguinosa battaglia, una delle tante di quelle tra guelfi e ghibellini, tra crociati ed infedeli, tra cristiani ed albigesi che insanguinavano quelle lande. Egli era un frate di un non lontano convento, mandato dal proprio superiore a benedire le salme ed a confessare i moribondi. Julius non si rincuorò: – Ma non è altro che il principio della fine, la prima di una battaglia che distruggerà tutta l’umanità: siamo alla fine dei tempi, nell’anno duemila! – Che dici? Questo è l’anno del Signore Milleduecentoquarantasette… – No, è l’anno Duemila ab Urbe condita, il duemillesimo dalla fondazione di Roma! La mia famiglia ha abbandonato la civiltà nell’anno Mille, al tempo della terribile anarchia militare, ma ha sempre tenuto bene i conti... Il frate annuì, lo guardò ed entrambi rimasero in silenzio.


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Andrea Coco

IL GIORNO DOPO…

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iamo dei ragazzi veramente fantastici…peccato che gli altri ci vedano come il fumo negli occhi. Beh, a dire il vero non possiamo dargli tutti i torti; ultimamente abbiamo combinato un pandemonio. Per colpa nostra, l’Umanità ha sofferto pene indicibili. Ma cosa possiamo farci? Questa è la nostra natura, ci piace divertirci alle spalle del prossimo. Sì, sì lo ammetto: siamo un po’ cattivi. No, forse è meglio dire feroci o forse…spietati! Sì, dopo tutto quello che è successo, spietati è la definizione migliore. Ma perché preoccuparsi? E’ stato solo un gioco, appena rientrati a casa, ogni cosa andrà al suo posto. Ma, ribadisco la colpa non è tutta nostra. E’ l’occasione che fa l’uomo ladro e per noi tre è sempre stato così. Tutto è incominciato stanotte. Eravamo usciti per svaligiare la villa isolata di un riccastro, quando nella radura del bosco abbiamo incontrato un Ufo. Il “marziano” indossava una tuta bianca e stava armeggiando attorno ad un cilindro metallico bianco opaco, alto più di tre metri e lungo dodici. Era così preso dal suo lavoro che non si è accordo della nostra presenza, tre figure, che lo osservavano meravigliate, appena nascoste dalla vegetazione. Noi, increduli, pensavamo che fosse un tecnico giunto in quel posto isolato per montare una qualche diavoleria elettronica, un antifurto, oppure un malavitoso fermatosi per scaricare nel fiume qualche porcheria. Quando ci ha visto si è presentato

come il “Crononauta”, un navigatore del tempo, arrivato nella nostra epoca per assistere in prima persona ad alcuni eventi importantissimi. Un terrestre del futuro, insomma! Gli abbiamo riso in faccia, dandogli del pazzo e lui, per nulla impressionato, ci ha invitato ad entrare nella Crononavetta per fare con lui un giro di prova. Era una vera fortuna che fosse ancora lì, ha spiegato, un guasto la aveva trattenuto nella nostra epoca, altrimenti sarebbe già tornato a casa, nel suo tempo, nel nostro futuro. Gentile e sorridente, ha insistito perché andassimo tutti e quattro a fare un tour nel passato e solleticati nel nostro punto più debole, la curiosità umana, non abbiamo resistito. Dopotutto eravamo convinti che quel coso non si sarebbe mai alzato o spostato nemmeno di un centimetro. Eravamo sicuri che si trattasse di uno scherzo, di un programma televisivo e che, una volta entrati all’interno della Crononavetta, avremmo trovato le telecamere ad accoglierci ed invece…era tutto vero! Niente telecamere, ma in compenso tante apparecchiature dalle forme mai viste. “Allora dove volete andare?” ha chiesto con una punta di ironia. Stefano gli ha detto che voleva vedere l’antica Roma, quella di Ottaviano Augusto e il Crononauta ci suggerito qualcos’altro, partecipare ad un evento…insomma assistere alla Grande persecuzione avvenuta ai tempi dell’imperatore Diocleziano. Detto e fatto: tutti e quattro nel Colosseo a fare il tifo per le belve che sbranavano i cristiani. E’ toccato, quindi, a Mario che ha espresso il


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desiderio di voler assistere alla scoperta dell’America, da parte di Cristoforo Colombo. Il Crononauta gli ha proposto di assistere a qualcosa di più “vivace”, la Caduta di Tenochtitlán per mano dei Conquistadores spagnoli capitanati da Hernan Cortés. Ah, che spettacolo! I combattimenti, le fiamme… che edifici splendidi, peccato che siano andati distrutti…quanto oro! Infine è giunto il mio turno (a proposito io mi chiamo Antonio) e, per non essere da meno Mario ha protestato dicendo che io ero un copione -, ho preteso una cosa minima, da poco: essere presente allo sbarco sulla Luna. In questo modo avrei potuto verificare con i miei occhi se l’uomo fosse veramente andato fin lassù. Stranamente sono stato accontentato, senza ricevere delle controproposte... gli sarà piaciuta la mia idea! Un attimo dopo la Crononavetta orbitava attorno al satellite. Abbiamo persino scattato delle foto dell’Apollo 11 e, nascosti dall’oscurità, una sequenza della passeggiata di Armstrong ed Aldrin sulla superficie lunare. Tornati nella nostra epoca, il Crononauta ha avuto un’idea. “Perché non facciamo un salto nel futuro?” ha suggerito. “Devo testare delle nuove apparecchiature. Se mi aiutate darò a ciascuno di voi ventinove monete d’argento dell’età di Tiberio.” E noi, galvanizzati, gli abbiamo risposto subito di sì. “Questa volta, però, non saremo dei semplici spettatori,” ha aggiunto, “Ma interverremo sul corso degli eventi, divertendoci a scom-

binarli. Tanto non accadrà nulla, perché, ritornando voi nel passato, annullerete quanto sta per avvenire. In caso contrario, gli effetti saranno permanenti.” “Possibile?” gli ho chiesto. “Eccome. Grazie a questa strumentazione, la Macchina del Destino. State a guardare: ecco una cerimonia molto importante, decisiva per il futuro dell’Umanità.” Nel Cronovisore della Macchina si era materializzata l’Assemblea Generale della Confederazione Atlantica. Una riunione fondamentale perché, come aveva spiegato il Crononauta, i deputati di lì a poco avrebbero eletto un uomo giusto, un leader che avrebbe fatto la pace con il Califfo della Repubblica Islamica, scongiurando una guerra feroce. “Ma ciò non accadrà>> aveva annunciato trionfante. “Guardate che fine fa il salvatore della pace. Con quest’arma lo faccio fuori.” Afferrata una pistola laser giocattolo, l’aveva puntata sul candidato che si trovava al centro dello schermo. Questi, all’improvviso, come raggiunto da un colpo invisibile, si era accasciato sui banchi del parlamento. “Ora dovranno eleggere il suo rivale, il nemico acerrimo del Califfo.” Tranquillizzati dall’idea che, in futuro, quell’incidente non sarebbe mai avvenuto, abbiamo scelto, tra le opzioni previste dalla Macchina del Destino, quali disgrazie dispensare al genere umano. Io ho lanciato alcune bombe nucleari e batteriologiche sulle città di entrambi gli schieramenti, in modo da spingere le due nazioni a combattersi e ho brindato all’olocausto, bevendo in compagnia dell’ottimo champagne.


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“Tu, invece, Mario l’ha fatta bella, eh? Eh?” ho commentato malignamente ad alta voce. “Dai su non ti schernire. Ci vuole una bella fantasia per combinare quello che hai fatto.” Mario ha annuito sorridendo di gusto. “In effetti…” si è limitato a dire mentre negli occhi si accendeva una luce maligna, che filtrava attraverso le volute di fumo della sigaretta. Mario aveva scatenato le forze della natura, terremoti, tsunami, eruzioni, tempeste, provocando su tutto il pianeta carestie e disastri ambientali, costringendo milioni d’individui a lasciare i propri paesi d’origine. In questo modo erano iniziati degli esodi biblici che avevano scatenato nuove guerre. Stefano, invece, aveva lavorato di fino. “Certo che solo tu potevi inventarti quelle malattie…” ho osservato. “Così imparano a fornicare,” ha spiegato lui, mordendosi il dorso del dito indice della mano sinistra. Stefano, un seduttore di donne sposate - si dice che ne avesse messa incinta più di una – aveva scelto di vessare l’umanità, colpendola sotto la cintura. Nuove malattie, veneree ma non solo, si erano diffuse ovunque e, cosa terribile, i loro effetti si manifestavano spesso a distanza di mesi, con il risultato che l’intero genere umano ne veniva contagiato… Ora però il viaggio sta per terminare. Il Crononauta è in plancia a guidare la navetta mentre noi tre siamo alloggiati nella cabina passeggeri. A bordo regna il silenzio, interrotto solo dal ronzio delle apparecchiature e

da qualche vibrazione prodotta dai motori. Siamo così presi dai nostri pensieri che non abbiamo voglia di parlare. Io sto riflettendo su quanto è accaduto, Stefano sonnecchia e Mario, con la testa appoggiata alla parete, guarda la porta della Crononavetta. Non vede l’ora che si apra. “Bene,” commento ad alta voce, sfregandomi le mani, “Dovremmo essere quasi giunti alla meta. Crononauta, Crononauta! CRONONAUTA?” lo chiamo quasi urlando. Il Crononauta, convocato con insistenza, giunge nella cabina passeggeri. “Eccomi!” risponde tranquillo, ma con un tono di voce leggermente infastidito. “Che cosa c’è?” “Quanto manca al 21 dicembre 2012?” “Poco, ma prima volevo mostrarvi la mia epoca. Spero che non abbiate nulla in contrario,” aggiunge con una punta di sarcasmo. “Ma se avevi detto che non potevamo andare nel futuro, altrimenti….” “Era una bugia. Comunque siamo giunti. Non volete vedere che cosa è diventata la Terra?” Tutti e tre, spiazzati dalla novità, non vogliamo affatto scendere dal mezzo, ma lui torna alla carica e disarma la porta, che silenziosamente si apre, facendo entrare dentro la Crononavetta la luce del giorno, opaca, priva di calore. “Andiamo?” domanda con fare minaccioso ed una forza invisibile, la paura credo, ci


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spinge a uscire. Il mezzo è atterrato al cento di una valle enorme, piena all’inverosimile di esseri umani di ogni razza, sesso ed età. Il nostro arrivo è passato inosservato perché tutti stanno guardando nella medesima direzione. Sembra che attendano qualcosa o qualcuno. “Dove ci troviamo?” chiedo impaurito da una simile adunanza, ho la sensazione che sto per assistere a qualcosa che ho già visto o letto da qualche parte. “È la valle di Giosafat.” risponde con un tono di voce crudele. “E noi cosa ci stiamo a fare?” chiede Mario. Il Crononauta ride, una risata lugubre che ci gela il sangue. “Dopo tutto quello avete combinato, vi meravigliate di essere qui?” “E cosa avremmo fatto di male?>> domanda Stefano. “Niente,” risponde sarcastico. “Avete semplicemente partecipato alla distruzione del mondo, alla fine dei tempi. E non mi dite che non siete stati voi.” “Ma era un gioco,” protesto. “In certe cose il pensiero vale quanto l’azione.” risponde lui del tutto indifferente alla mia risposta. Una Luce fortissima illumina la valle, provocandomi un capogiro. Non è la luce in sé a farmi stare male, ma quanto Lei mi comunica. Solo ora sono pienamente consapevole di tutto il male che abbiamo causato. «Crononauta,” chiedo fiaccamente, “Ma che giorno sarà mai questo?” E lui serafico: “Il giorno dopo l’Apocalisse, ovvero il Giorno del Giudizio Universale.”

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a fantascienza d’anticipazione si limita a prevedere mutamenti sociali, culturali, antropologici, o può spingersi a immaginare una particolare piega evolutiva subita dalla specie umana? A questa domanda tenta di rispondere Ferro Sette, di Francesco Troccoli, autore che approda al romanzo per i tipi di Armando Curcio Editore dopo aver pubblicato decine di racconti (ricordiamo “Insekta” e “Tempus Fugit” sulle pagine di IF), e finalista al Premio Italia 2012 per la categoria Racconto su pubblicazione professionale. Nell’universo Immaginario di Ferro Sette, che in occasione della recente anteprima alla Deepcon di Fiuggi Lanfranco Fabriani ha paragonato alla fantascienza classica dei dorati anni ’70 e ’80, sebbene rivisitati in chiave decisamente moderna, non ci sono eroi e anti-eroi, né buoni e cattivi; il protagonista, Tobruk Ramarren, un cinico, solitario e disilluso cacciatore di taglie, viene messo a parte di ciò che l’essere umano ha perduto, ed è suo malgrado costretto a misurarsi con una verità che non vuole accettare. Sullo sfondo di una rivolta al potere centrale si staglia così l’inizio di un conflitto epocale fra un misterioso capo ribelle e un’etnia di dominatori nascosti nell’ombra. Il dissidio interno al protagonista trova così la sua efficace rappresentazione nello scenario tumultuoso in cui la sua odissea si svolge. Una fantascienza che anticipa un futuro possibile della società di oggi, così drammaticamente segnata dallo scontro fra le rigide esigenze del sistema produttivo e il desiderio di vivere appieno la breve vita che abbiamo a disposizione.


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L’INTERVISTA Annamaria Fassio

IL FANTASTICO MONDO

DI FAUSTO ONETO

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uesta volta incontriamo Fausto Oneto, noto ristoratore in quel di San Massimo, a Rapallo. Il posto è davvero speciale. Immerso nel verde della campagna ligure. Con ulivi e fasce come nella migliore tradizione. Con il mare vicino, tanto da percepire la sua presenza salina. Con un giardino dove sonnecchia il Marinoceronte. Marinoceronte? Sì, Marinoceronte. Lui, insolito e fantastico relitto marino, sgraziato tronco, che acqua, vento, e sale hanno trasformato in un animale magico, è arrivato a San Massimo su un rombante camion, come si conviene nelle favole metropolitane. Sonnecchia. Aspetta gli ospiti. Forse chiacchiera con il coloratissimo trenino di legno, che spunta da una fascia, forse pensa al suo lungo viaggio attraverso il mare. Sta di fatto che

Fausto Oneto ha scritto pure la sua storia e Marco Locci l’ha illustrata. Il libro è a disposizione dei clienti, come le numerosissime tavole illustrate dai più grandi cartoonist che tappezzano le pareti del ristorante. Tu mangi e ti fanno compagnia Mafalda, i Tre Porcellini, Tex e infiniti altri. Con il tempo diventano tuoi amici e tu li ritrovi sempre con piacere. Insolito e Fantastico, appunto… Bene, Fausto. A questo punto la domanda è persino troppo scontata. Com’ è nata la tua passione per i fumetti e come si è trasformata nel tempo, tanto che ormai tu sei diventato un punto di riferimento importante tra i cartoonist? Tutto è iniziato dalle mie letture di quando ero bambino. Tiramolla, Pedrito, Pon Pon, Diabolik, Paperino... Un giorno ho scoperto


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che alcuni dei disegnatori erano clienti dell’osteria di mio padre. E’ risaputo che i cartoonist a tavola, tra una portata e l’altra, finiscono sempre con il comunicare attraverso carta e penna; così, mi sono reso conto che tre creatori come Bottaro, Rebuffi e Chendi (ho cominciato a leggere i loro fumetti da piccolo e continuo a farlo ancora oggi), erano assidui frequentatori di U Giancu. Con la faccia tosta che mi contraddistingue, non ho esitato a chiedere loro qualche “disegnino”. Negli anni Settanta, su suggerimento di mia moglie Adriana, ho cominciato ad appenderli alle pareti …E adesso…Beh, non c’è molto da aggiungere, basta guardarsi attorno. Il tuo ristorante è letteralmente tappezzato di fumetti. Tutti bellissimi, tra l’altro, e con una netta prevalenza per il “fumetto storico”. Questa è una scelta casuale o corrisponde ad un tuo preciso e personale gusto in materia? Certamente la scelta non è casuale perchè dipende molto dai miei gusti e naturalmente dai disegnatori che con più frequenza sono stati nostri ospiti. Io sono sempre stato amante delle strip soprattutto americane (ma non solo, ovvio) a partire dal 1930 in poi. Le trovo uniche! Ma uno dei miei preferiti in assoluto è Winsor McCay, un fantastico e fantasioso disegnatore dell’inizio del Novecento. Il suo stile e la sua oniricità mi affascinano moltissimo.

E sempre per restare in tema, quali sono le differenze più evidenti tra i cartoon “storici”, e quelli attuali? Bisogna intanto pensare che oggi il fumetto ha cambiato target di pubblico. Non è più letteratura disegnata per bimbi che prediligono i giochi su internet o i video giochi, ma mira ad un pubblico più colto e in ogni caso più adulto, anche se continua ad esistere, purtroppo, una fascia di persone che continua a pensare che “i paperini” siano solo storie per bambini. So che non sei un grande appassionato di Fantascienza e che preferisci di gran lunga il genere Fantasy. Per il passato ci sono stati fumetti che sono diventati autentici cult. Penso a Superman (ma io da ragazzina lo conoscevo come Nembo Kid), Batman, Spiderman, solo per fare alcuni nomi eccellenti. Come ti rapporti con queste storie? Le trovi sempre attuali, o pensi che il loro fascino derivi proprio dal peso del tempo e dalla loro ingenuità di fondo? Tu conosci i miei gusti e io stesso ho appena ammesso di prediligere strip che costruiscono una gag in tre, quattro, disegni. Non leggo quindi molti supereroi anche se ho molti libri su loro e di certo mi affascina il loro mondo e la loro doppia personalità che un poco invidio. Penso che i supereroi continuino ad essere attuali in modo trasversale anche grazie all’aiuto dei cartoni animati e dei film.


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88 Fausto Oneto, il fantastico patron del ristorante “U Giancu” a San Massimo di Rapallo. Nelle pagine precedenti: ancora Oneto con uno dei supi cappellini e la tovaglietta disegnata da Macchiavello.

Nella letteratura di genere la contaminazione è sempre presente e, a mio avviso, è un elemento che arricchisce moltissimo le storie. Da profana credo che il fumetto, che in fondo è nato da una sorta di contaminazione tra il disegno e la parola scritta, ben rappresenti questa alchimia. Un po’ come succede in chimica, o sbaglio? Ben detto! La contaminazione è grande e importante. Il fumetto pesca nel cinema e viceversa. Pesca nell’arte e viceversa, basta guardare la popart per ritrovare i comics. E’ una cosa affascinante e uno dei miei fumetti preferiti (Julia di G.C. Bernardi, edito da Bonelli) prende molto sia dai racconti noir che dai film mistery ma con un’attenzione maniacale anche agli aspetti psicologici. Pensa che il suo autore ha seguito un corso di criminologia all’università prima di iniziare ad abbozzare il personaggio di Julia.

argentino Guillermo Mordillo che benché ottantenne non smette di lanciare messaggi ed ammonimenti attraverso i suoi coloratissimi disegni basati sui contrari e sugli opposti.

Una domanda secca. Qual è, secondo te, la principale differenza (se differenza esiste) tra un autore anglosassone e uno italiano? Gli autori americani sono stati da sempre i maestri degli autori italiani.

Da U Giancu è a disposizione dei clienti una ricca biblioteca e anche questa è una peculiarità del ristorante. Quale titolo consigli a chi vuole incominciare ad orizzontarsi nel complesso mondo del fumetto? La mia biblioteca è sempre a disposizione e qualche volta è stata utilizzata anche per scrivere tesi di laurea. Oggi però internet la fa da padrone e la richiesta di consultazione è meno forte di un tempo. Per gli appassionati, o per chi volesse iniziare, il mio consiglio è di andare nelle fumetterie specializzate che hanno collezioni, numeri arretrati e vari generi e formati.

Tra i big che sono passati nel tuo ristorante quale ricordi con maggiore interesse? Molti nomi li ho già citati. Ma in cima metto Carl Barks, il creatore di Paperon de Paperoni e a ruota Hugo Pratt, il “padre” di Corto Maltese. Tra gli ultimi grandi disegnatori che sono stati nostri ospiti, c’è il mitico

Non mi resta che ringraziarti per la bella chiacchierata con la speranza di incontrare prima o poi e proprio qui da U Giancu il grande Joe, inteso Lansdale. Grazie a te e soprattutto ai lettori di IF. Per Lansdale magari, chissà, un domani, forse… Tutto è possibile nel mondo di Cartoonia…


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RASSEGNE Piero Giorgi

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GLI ALIENI NELLA NARRATIVA DI JACk WILLIAMSON (2) 3) GLI ANNI DELLA MATURITÀ: DAL 1963 AL 1990 Il tema degli Alieni è presente in 28 delle sue 42 storie pubblicate nel periodo qui considerato. Delle 28 storie, in questo capitolo ne sono esaminate 17. Ai fini della numerazione delle storie, i romanzi si contano separatamente sia per la versione in rivista che per l’eventuale prima edizione in volume con più o meno piccole variazioni, oppure sia per le singole storie separatamente publicate che per l’eventuale romanzo pubblicato in volume e derivante dalla riunione delle storie stesse. Nel periodo qui considerato la presenza degli Alieni torna a essere il tema predominante nella narrativa williamsoniana, e proseguendo nel nuovo approccio iniziato negli anni ’50 Essi, anche quando non sono di forme umane, sono moralmente e socialmente molto più evoluti dell’Uomo della Terra e riuniti in un pacifico Consesso Galattico. Tuttavia, non mancano storie con la presenza di Alieni cattivi, in modo da non perdere del tutto il contato con le storie del passato. Il tema degli Alieni è presente nella Trilogia delle Scogliere dello Spazio, scritta in collaborazione con Frederik Pohl, e in altri due romanzi. In un prossimo futuro, situabile verso la metà del XXI° secolo, sulla Terra vivono tredici miliardi di persone, i cui destini sono regolati e decisi dalla Macchina, un immenso computer che, per cercare di risolvere il problema dell’ormai insostenibile pressione demografica, ha dato il via al Progetto dell’Uomo,

cioè il tentativo di conquistare altri pianeti abitabili. Tuttavia, sparuti gruppi di persone, non potendone più dell’oppressiva dittatura della Macchina, si sono già ritirati a vivere nelle mitiche Scogliere dello Spazio, là dove vivono Alieni benevoli come gli spaziolini, esseri dal-la forma simile a quella delle foche terrestri i quali si muovono nello spazio sfruttanto un principio fisico sorprendente, cioè la propulsione non a reazione, ma anche alieni pericolosi come i piropodi, e come gli sleeth, esseri grandi come cavalli, con il corpo ricoperto di scaglie lucidissime, con un solo occhio posto all’estremita della proboscide e dotati di uno spaventoso artiglio. Questo è il tema dei primi due romanzi del ciclo, cioè The Reefs of Space (Worlds of IF Science Fiction, in tre puntate a luglio, settembre e novembre 1963) (106) e Starchild (Worlds of IF Science Fiction, in tre puntate da gennaio a marzo 1965) (108). Nel terzo e conclusivo romanzo del ciclo, Rogue Star (Worlds of IF Science Fiction, in tre puntate da giugno ad agosto 1968) (112), la scena si svolge in un lontano futuro, quando il Progetto dell’Uomo è ormai solo un ricordo del passato, quando l’Uomo si è definitivamente liberato dai troppi angusti e soffocanti confini del suo pianeta natìo, e quando il Male e anche la Morte sono stati definitivamente sconfitti grazie ai fantastici poteri dei visitatori, una benigna specie di fusori, Alieni, questi ultimi, ai quali si deve anche la costruzione delle Scogliere dello Spazio descritte nei due precedenti romanzi del ciclo. In questo lontano futuro anche l’Uomo, sebbene sia ancora considerato poco più di una specie di


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90 Pubblichiamo qui la seconda parte del saggio di Piero Giorgi su Jack Williamson.

barbaro, è stato finalmente ammesso a far parte della Fratellanza Cosmica, della quale fanno parte Alieni sen-zienti delle forme più disparate: per esempio gli esseri multipli come le <piccole cose nere e lucenti, che saltellavano e rotolovano entro una nube comune di nebbia celeste>; o gli <esseri a spirale, verdi come l’erba e simili a molle minuscole>; o gli esseri singoli come i <draghi dalle scaglie grigie>; o gli ammassi di <quaranta tonnellate di minerale senziente, duro come il granito, scheggiato e nero>; o le bolle rosse, spumose e semitrasparenti. Assieme agli Alieni buoni vi sono però anche quelli cattivi. E, come se non bastasse, ecco addirittura la presenza di una piccola Stella Solitaria, la quale si innamora della bella umana Molly Zaldivar. Per concludere il tema degli Alieni degli anni ’60, restano da considerare altre due storie. La prima è un romanzo, lo splendido Bright New Universe (Ace Books, 1967) (110), sicuramente la più caustica delle storie di Fantascienza scritte da Jack Williamson, considerato che affronta, con un linguaggio tutt’altro che politically correct, il tema dei rapporti tra razza bianca e razza negra. In questo romanzo il contatto con gli Alieni è finalmente avvenuto, e dal sistema solare di Tau Ceti, distante undici anni-luce dalla Terra, a bordo di una gigantesca astronave in grado di volare più veloce della luce sono giunti cinque Alieni: il capitano, una specie di pigna con sei piedi; il secondo ufficiale: una nuvola di fumo azzurro; il terzo ufficiale: un qualcosa che ha l’aspetto di uno sciame di vespe; il quarto

membro: una specie di serpente volante per metà di metallo e per metà di sostanza vivente (quindi un cyborg); il quinto membro: l’Ispettore Galattico, una certa Polly Ming, scelta per la sua forma umana altamente attraente. La seconda storia è uno juvenile, il romanzo breve Trapped In Space (Nelson Doubleday & Co., 1968) (111). In un non precisato ma non lontanissimo futuro, il diciottenne Jeff Stone, appena diplomato astropilota presso la Scuola Spaziale, in compagnia di Buzz, un alieno buono, con il corpo nero e rotondo che sembra una via di mezzo tra un bambino macilento e un ragno gigante, con arti neri e sottili ricoperti di pelo, e che ronza come un giocattolo, vola verso il sole Topazio, distante mille anni-luce dalla Terra, alla ricerca del fratello disperso. Giunto a destinazione, Jeff deve vedersela con i saltarocce, grossi ragni con cinque braccia, cinque grandi occhi gialli e il corpo nero, rotondo e appiattito, ricoperto di scaglie. Se, per quanto riguarda il tema degli Alieni, nella narrativa williamsoniana gli anni ’60 sono caratterizzati dalla pubblicazione della trilogia delle Scogliere dello Spazio, gli anni ’70 sono caratterizzati dalla pubblicazione dei primi due romanzi della trilogia del Pianeta Cuckoo, anch’essa scritta in collaborazione con Frederik Pohl.


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Nella prima storia della trilogia, il romanzo breve Doomship (Worlds of IF, aprile 1973) (116), ammesso da poco a far parte del Consesso Galatico, l’Uomo, rappresentato da Ben James, e una nutrita schiera di altre specie senzienti, si trovano a dover risolvere un enigma cosmico: un immenso pianeta si sta avvicinando dalle profondità dello spazio, ma, a dispetto della sua mole, è dotato di una forza gravitazionale irrisoria, come se al suo interno fosse vuoto. In questa avventura, a fianco di Ben James opera uno dei più vari e sorprendenti Bestiari di esseri senzienti che la Fantascienza abbia mai presentato: una specie di drago; un essere simile a uno scarafaggio ma con tre dozzine di zampe; i T’Worlie, simili a pipistrelli verdi, con corpo da farfalla, e grandi come un piccione; un essere peloso grande come un gattino; i Boote-bit, esseri collettivi che si presentano come uno sciame di moscerini; una pseudoragazza, dalla forma simile a quella di una giovane donna terrestre ma non fatta di carne e di sangue; i Siriani, esseri dal corpo fusiforme lungo cinque metri, dotati di due chele, di due minuscole ali e di un unico e grande occhio azzurro; un essere che assomiglia a una scimmia-ragno a sei zampe; un essere metallico a forma di piovra; i rettili di

Aldebaran; le non meglio identificate <creature agitate>, e diverse altre. Come si vede, ce n’è per tutti i gusti. Nella seconda storia, il romanzo The Org’s Egg (Galaxy, in tre puntate da aprile a giugno 1974) (118), che si svolge in gran parte sulla superficie di Cuckoo, lo strano e immenso oggetto che giunge dalle profondità dello spazio, la parte del leone la fanno gli Org, splendidi dragoni alati che dimorano e nidificano lungo le pendici dell’immensa montagna che si innalza dalla superficie del pianeta. A questa storia deve essersi ispirato il regista James Cameron quando ha ideato il suo splendido film Avatar, perché gli alti e sottili umani dalla pelle blu (i Na’Vi), e gli splendidi draghi volanti multicolori (gli I’Kan) sono la copia carbone, rispettivamente, degli indigeni umani e dei draghi volanti che Williamson e Pohl hanno descritto nel loro romanzo. E anche la scena di Quindicesimo, il giovane indigeno umano di Cuckoo (il nome dato al misterioso pianeta) il quale scala le pendici dell’immensa montagna per cercare il suo personale drago volante, affrontarlo e sottometterlo, è per filo e per segno riproposta da Cameron nel suo film, con l’umano-avatar che scala le Montagne Fluttuanti per raggiungerne la cima, là dove cattura e sottomette uno dei draghi alati che vi dimorano. Le due storie sono state riunite in unico romanzo sotto il titolo Farthest Star (1975) (120). Negli anni ’70 gli Alieni sono presenti anche in tre delle cinque novelettes che compongono il Ciclo di The Power of Blackness, titolo sotto il quale esse sono state riunite


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(1976) (125) dopo essere state separatamente pubblicate in rivista. Nella prima e nell’ultima novelette, rispettivamente The Power of Blackness (The Magazine of Fantasy & Science Fiction, dicembre 1973) (117) e The Machine That Ate Too Much (The Magazine of Fantasy & Science Fiction, febbraio 1976) (124), gli Alieni di turno sono i tly, animali dotati di grandi ali nere, con il corpo ricoperto di scaglie scarlatte, testa con cinque occhi, bocca a pentagono armata di cinque terribili zanne e coda dotata di pungiglione in grado di iniettare un veleno contro il quale non esiste antidoto. Nella quarta novelette, The Dark Destroyer (Amazing Stories, gennaio 1976) (122), gli Alieni di turno sono invece i boomzeth, grandi macchine volanti per metà di metallo e per metà creature biologiche (dunque, ancora dei cyborg). L’ultima storia singola degli anni ‘70 nella quale sono presenti gli Alieni è la novelette Farside Station (Isaac Asimov’s Science Fiction Magazine, novembre-dicembre 1978) (131). In un futuro situabile dopo il 2500, l’Uomo ha conquistato molti pianeti, incluso Medea, nella cui ristretta fascia compresa tra la zona calda (80° sopra lo zero) e quella fredda (110° sotto lo zero) esistono forme di vita aliene, come i Vulpidi, una specie di incrocio tra un uomo e un canguro, e le Ahya, strane sfere volanti tentacolate che si spostano nell’aria sfruttando le correnti dei venti. Per quanto riguarda gli anni ’80, interessante è il romanzo The Queen of the Legion (Timescape-Pocket Books, 1983) (139), quinto epi-

sodio del Ciclo della Legione dello Spazio. Questa volta l’eroe di turno è una … eroina, Jil Gyrel, che fin da quando era bambina ha accarezzato il sogno di poter divenire la nuova Custode della Pace. La gloriosa Legione sta nuovamente passando un delicato periodo: la Custode della Pace è stata infatti uccisa, e il pericolo di turno è rappresentato dagli shadowflashers, entità immateriali che vivono nello spazio cosmico e che, mentre da adulti si nutrono esclusivamente di radiazioni cosmiche, quando sono giovani, per sopravvivere e per crescere, necessitano del caldo e sicuro rifugio di corpi organici, all’interno dei quali vivono e si sviluppano da parassiti (come i famigerati Aliens cinematografici). Questi Alieni, grazie all’aiuto dei soliti traditori della Legione, stanno per abbandonare la Nebulosa all’interno della quale vivono, sperando di poter raggiungere i pianeti abitati dall’Uomo, in modo da poter disporre di nuovi corpi per le loro larve. Ma, grazie all’aiuto e alle informazioni fornitele dal sempre più vecchio Habibula, Jil Gyrel assembla AKKA e gli shadowflashers sono distrutti. Nello stesso 1983 viene pubblicato il romanzo Wall Around A Star (Del Rey-Ballantine Books) (140), terzo e conclusivo romanzo del Ciclo del Pianeta Cuckoo, e per gli Alieni in esso presenti rimando i lettori alle altre due storie del ciclo già esaminate in precedenza. L’anno successivo nuove specie di Alieni sono descritte nel romanzo Lifeburst (Del Rey-Ballantine Books, 1984) (142). Nel futuro dell’anno 2089, esseri Alieni di varie


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forme e altamente evoluti, riuniti in un Consesso Galattico, stanno tenendo d’occhio l’Uomo della Terra, in attesa che anch’esso possa esservi ammesso. Oltre a questi vari Alieni entrano in azione gli skyfish, Alieni benevoli a forma di pesce i quali sono in grado di sopravvivere nel vuoto dello spazio (come nel decennio precedente è avvenuto con gli spaziolini del Ciclo delle Scogliere dello Spazio), e i pericolosi e giganteschi cyborg simili a cavallette, provvisti di ali e di zampe, con mascelle da incubo, che si nutrono di metallo, che da adulti sono lunghi centinaia di metri, e che sono in grado di riprodursi sessualmente. Per concludere gli anni ’80, ecco il romanzo Firechild (Bluejay Books, 1986) (144), nel quale Jack Williamson affronta nuovamente il tema dell’ingegneria genetica, da lui già utilizzato nei romanzi Dragon’s Island (1951), Bright New Universe (1967) e Brother to Demons, Brother to Gods (1979). Qui l’essere creato in laboratorio è Alfamega, un esserino roseo e vermiforme destinato a evolversi indefinitamente ma che viene ucciso dal solito bieco individuo di turno. Alfamega, però, nel frattempo ha abbandonato il proprio corpo fisico e ha raggiunto quelli del Popolo del Fuoco, entità luminose che vivono nello spazio, all’interno dei buchi neri. 4) GLI ANNI DELLA VECCHIAIA: DAL 1991 AL 2006 Il tema degli Alieni è presente in 25 delle Sue 43 storie pubblicate in tale periodo. Delle 25 storie, in questo capitolo ne sono esaminate sette.

L’esame degli anni ’90 inizia con lo splendido romanzo The Singers of Time (Doubleday, 1991) (148), scritto in collaborazione con Frederik Poh. In un futuro situabile nel XXII° o nel XXIII° secolo, i terrestri sono di fatto sotto il benevolo controllo di Alieni bipedi, simili a Tartarughe, i quali rispettano solo la filosofia e il codice del commercio, e che allevano, per nutrirsene, i Tauridi, bipidi umanoidi con la testa di bue originari di un lontano pianeta. Altri Alieni presenti sulla scena sono gli Sh’shrane, atavici nemici delle Tartarughe, e gli Aiodoi, i Cantori del Tempo che danno il titolo al romanzo, Entità Incorporee Onnipotenti che benevolmente controllano e dominano l’Universo. Un’atmosfera del tutto diversa è quella che permea il romanzo Demon Moon (Tor Book, 1994) (154). L’avventura si svolge, in un imprecisato futuro, su un imprecisato pianeta della Galassia nel quale le terre emerse sono costituite da un unico e limitato continente che, nella forma, ricorda quella degli USA. Su questo pianeta, abitato da terrestri lì giunti secoli prima a bordo di una delle tante astronavi lanciate nello spazio alla ricerca di nuovi pianeti abitabili, ma nel frattempo regrediti per quanto riguarda le conoscenze tecniche e scientifiche, vivono Alieni splendidi come gli unicorni, con i quali gli umani vivono in simbiosi, ma anche Alieni pericolosi come i licantropi e come i giganteaschi e mostruosi dragoni alati. Il pericolo maggiore, per gli umani del pianeta, è però costituito da malefici Alieni a forma di grossi globi rossastri e palpitanti, dai quali si protendono filamenti di fiamma in grado di controllare la


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volontà degli esseri animali colpiti. Del tutto amichevoli sono invece gli Alieni che Williamson ci presenta nel modesto e tuttavia commovente racconto breve The Firefly Tree (Science Fiction Age, maggio 1997) (159). Un ragazzo, che insieme ai genitori è tornato a vivere nel malandato ranch del nonno, tra delle sterpaglie rinsecchite per la mancanza d’acqua scopre una strana pianticella con un grande fiore azzurro fatto a corolla e che emana un dolciastro e piacevole profumo. Convinto il padre a non estirparla (il padre si dedica alla coltivazione di piante più redditizie, cioè quelle della marijuana), una notte il ragazzo fa una visita alla pianticella, che nel frattempo si è arricchita di nuovi fiori azzurri, e scopre che essa è circondata da lucciole grandi come calabroni: una di queste lucciole si posa su un dito della sua mano ed emette bagliori multicolori. La notte successiva il ragazzo fa uno strano sogno, nel quale quella stessa lucciola gli racconta un’incredibile ma affascinante storia: lei appartiene a una delle innumerevoli specie senzienti altamente evolute che vivono su una moltitudine di pianeti riuniti in una pacifica Comunità Galattica, e l’albero delle lucciole è giunto sulla Terra per offrire anche all’Uomo la possibilità di entrare a far parte di quella Comunità. Ma il pianeta, purtroppo, dimostra di non essere ancora pronto per quell’Evento. Il giorno dopo, infatti, tornato da una viaggio in città, il ragazzo trova nel ranch la polizia: gli agenti hanno infatti scoperto che il padre coltiva la marijuana e hanno estirpato tutto, pianticella delle lucciole compresa.

Anche negli anni 2000 proseguono le storie williamsoniane con la presenza di Alieni. Nella novelette Agents of the Moon (Science Fiction Age, marzo 2000) (168), in una Terra del lontanissimo futuro sono presenti i Riders (i Cavalcanti), esseri alieni forse provenienti dallo spazio, i quali sono in grado di sottomettere mentalmente gli animali sulla groppa dei quali si installano come parassiti e sanguisughe. Nel 2002 ecco il racconto The Luck of the Legion (Absolute Magnitude/ Aboriginal Science Fiction, estate/autunno 2002) (176), sesto e ultimo episodio del Ciclo della Legione dello Spazio. I tre legionari, Jay Kalam, Hal Samdu e Giles Habibula, sempre più vecchi e sempre più malandati, devono nuovamente entrare in azione per sconfiggere i pericolosi Alieni a forma di insetto, con grandi occhi verdi e zanne rosse lunghe come sciabole, i quali, grazie all’aiuto del solito traditore della Legione (questa volta si tratta però di una traditrice, una certa Eliga LeChark, una splendida donna della quale, molti anni prima, Habibula si era innamorato), stanno minacciando i mondi dell’Uomo. Nel 2004, nel racconto Black Hole Station (antologia Space Stations, DAW Books)


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trare nel nostro universo.

(179), l’alieno di turno, chiamato The Other in mancanza di una definizione più appropriata, è un’Entità Intelligente che vive forse all’interno, o forse nei paraggi, di un Buco Nero. Grazie al contatto con questa Entità, uno scienziato terrestre che da tempo vive in un laboratorio scavato all’interno di un asteroide appena al di fuori del raggio di attrazione (orizzonte di Schwarzschild) del Buco Nero, ottiene delle informazioni che rivoluzionano la Scienza Terrestre e che insegnano finalmente all’Uomo una nuova Filosofia di Vita: quella della Cooperazione e della Pace. L’anno dopo, nel racconto breve Ghost Town (Weird Tales, luglio 2005) (188), Jeff Barstow e la giovane moglie Carol giungono in auto nella cittadina di Caprock, dove essa è nata e cresciuta. Ma la cittadina è deserta. Tutta colpa, come scoprono in seguito, della presenza di Alieni malefici, entità incorporee giunte da un altro universo immerso nel freddo e nelle tenebre e che si nutrono dell’anima e dell’ ectoplasma degli esseri viventi. Ma a salvare gli abitanti di Caprock e della Terra ecco giungere un’altra entità aliena, ma benefica, proveniente dallo stesso universo di freddo e di tenebra: essa distrugge le entità vampiresche e chiude la porta attraverso la quale esse potevano pene-

5) OPERE POSTUME Il tema degli Alieni è presente in 3 delle Sue 5 storie pubblicate, postume, nel 2008. In questo capitolo sono esaminate le 3 storie. Ma neppure la morte ha messo la parola fine alla pubblicazione di storie di SF di Jack Williamson. Tutto merito dell’Haffner Press, che nel 2008 ha pubblicato una seconda antologia personale dell’autore (The Worlds of Jack Williamson. A Centennial Tribute 1908 2008), nella quale sono presentate anche cinque storie fino ad allora rimaste inedite, in tre delle quali è presente il tema degli Alieni. La storia più interessante delle tre è la novelette The Moon Bird, (191), scritta da Williamson nei mesi di agosto e settembre del 1929, quando era ancora agli esordi della sua carriera di scrittore. A quel tempo, però, la storia fu rifiutata dalle riviste specializzate, un fatto inspiegabile, considerato che il tema trattato, l’atmosfera della quale la storia è ammantata e il susseguirsi delle vicende, sono perfettamente intonate alle esigenze editoriali di allora. L’Uccello Alato del titolo è una donna che vive sulla Luna, là dove la presenza di ossigeno permette la vita a una moltitudine di animali: come i Lugal, esseri con testa umana, la bocca armata di lunghe zanne bianche e occhi violetti fosforescenti, o come gli umanoidi con la pelle del corpo color cremisi, gli arti superiori e inferiori con quattro dita armate di artigli affilati come rasoi, con grandi creste multicolori sulla testa e con grandi occhi che brillano di luce verde.


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La seconda storia è The Golden Glass (193), scritta negli anni ’30, la quale ha per scenario il deserto del Sahara, là dove un perfido sceicco tiene prigioniero, dopo averlo rinchiuso in un medaglione,un Ifrit, una gigantesca e mostruosa creatura aliena (ha tre zampe, tre braccia terminanti con una mano e, sulla parte superiore del corpo, tre grandi triangoli scuri che dovrebbero essere gli occhi) giunta sulla Terra mille anni prima. La terza storia, The Planets Are Calling (195), non è una vera opera di narrativa ma una sceneggiatura commissionata a Jack Wissiamson per trarne un film di Fantascienza che però non è stato realizzato. Nel New Mexico, in una base meteorologica dell’Aviazione degli USA, si stanno sperimentando dei razzi per la produzione artificiale della pioggia, ma, in realtà, nella stessa base si sta lavorando, in gran segreto, alla realizzazione del transceiver, un congegno per il trasferimento istantaneo della materia. Ma anche entità Aliene originarie di un pianeta della Galassia di Andromeda hanno realizzato un congegno simile, e tramite di esso si sono trasferite prima sulla Luna e, da qui, sulla Terra, stabilendosi sulla cima di una delle montagne che circondano la base dell’Aeronautica. Queste entità Aliene, che non hanno una forma ben definita, da una cupola iridescente situata sulla cima della montagna nella quale si sono insediate lanciano distruttivi raggi verdi e blu che seminano il panico e nella base militare e nella vicina cittadina di Santos. Quando tutto sembra perduto, ecco che il destino benevolo ci dà una mano: i

razzi per la pioggia artificiale cominciano a funzionare, la pioggia cade dal cielo e, al contatto con l’acqua, le entità Aliene vengono distrutte. Questa, che fino ad oggi è l’ultima storia di Science Fiction di Jack Williamson pubblicata, è destinata a divenire tra non molto almeno la penultima, perché tra le carte di Jack Williamson conservate presso la ENMU l’editore Stephen Haffner ne ha scovata un’altra ancora inedita, il romanzo The Mechanical Ants, e l’ha messa in lista di pubblicazione, anche se ad oggi non ne ha ancora stabilito la data. Haffner mi ha precisato che si tratta di un romanzo scritto da Williamson verso la fine degli anni ’50 del secolo scorso, dopo che aveva ricevuto una lettera con la quale John Campbell, il famoso autore e allora direttore di Astounding Science Fiction, gli chiedeva un nuovo romanzo che trattasse di uno dei temi portanti del precedente e famosissimo The Humanoids, cioè quello delle macchine auto-replicanti. Williamson portò a termine il romanzo, ma, dopo alcuni tentennamenti, Campbell lo rifiutò. Da quanto l’editore Haffner ricorda, nel romanzo non c’è presenza di Alieni.


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Torna Erica Franzoni

TERRA BRUCIATA PER ANNAMARIA FASSIO

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erra bruciata, il nuovo romanzo di Annamaria Fassio, in edicola nei Gialli Mondadori di giugno (numero 3058), segna l’atteso ritorno di Erica Franzoni, commissario capo della Mobile di Genova, che avevamo imparato a conoscere e apprezzare nei precedenti romanzi di questa scrittrice, che ormai si è imposta nel panorama italiano del giallo come una delle penne più vivaci e interessanti, capace di fidelizzare un altissimo numero di lettori. In Terra bruciata la trama è essenziale ma potente, in grado di avvolgere il lettore in una spirale da cui non potrà più liberarsi. L’ispettore Graziano Rossi, una notte, porta in questura un tossico: vuole informazioni su uno spacciatore che ha mandato in overdose un ragazzino. Più tardi, rientrando dal lavoro, si ferma nei pressi di un cavalcavia e ritrova il tossico rilasciato poco prima. Qualcosa scatta dentro di lui. Lo pesta a sangue. Poi se ne va, lasciandolo in fin di vita. Quella stessa notte, Maria Vittoria si sveglia all’improvviso. Suo marito dorme profondamente lì accanto, i due figli

n e l l a l o r o stanza. Qualcosa è scattato dentro di lei. Si alza, prende una pistola dalla col-

Foto Ullstein

lezione di armi del marito, uccide lui e i bambini. Poi si veste: pantaloni scuri, maglione, stivali. E se ne va. Graziano e Maria Vittoria. Due destini condannati a intrecciarsi in una scia di morte che Erica Franzoni, commissario capo della Mobile di Genova, e il vicequestore Antonio Maffina, dovranno spezzare. A qualsiasi costo. Segnalo che Annamaria Fassio sarà ospite del convegno “Le donne del Giallo” che si svolgerà all’interno della rassegna Giallo Stresa, il prossimo 16 settembre alle ore 16.30. (Franco Forte)


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Carlo Bordoni

IL ROMANzO DELL’ETÀ INDUSTRIALE L’introduzione al nuovo saggio di Romolo Runcini

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omolo Runcini è universalmente noto per i suoi studi sul fantastico e sulla letteratura popolare, attraverso un rigoroso metodo sociologico. Ma la sua fama si è attestata saldamente con la realizzazione di un opus ambizioso e fondamentale, La paura e l’immaginario sociale nella letteratura, di cui sono usciti finora i primi due titoli1 e di cui questo costituisce il terzo volume, dedicato al Romanzo industriale. Una ricerca “sul campo” che apre nuove prospettive sulla letteratura non mimetica e che costituisce un formidabile strumento interpretativo di tutta la produzione popolare che passa attraverso la tradizione del “romance”. Tutto ha inizio con un saggio di straordinario spessore, pubblicato alla fine degli anni Sessanta e mai più ristampato,2 di cui il Romanzo industriale mantiene solidi legami, rappresentandone, anzi, la necessaria evoluzione e il complemento. Se dovessimo scandire i tre volumi di Runcini con una definizione sintetica che ne distingua i contenuti in maniera inconfondibile, potremmo dire che il primo (il Gothic romance) evidenzia una paura per la macchina che si

risolve nel ritorno al passato, a una società primitiva, in cui il rapporto con la natura è saldo e rassicurante: è l’idea di Rousseau che, come tutte le astrazioni idealistiche, non è confortato dall’aderenza ai fatti. Il secondo (il Roman du crime) prende in considerazione la paura sociale della città, il nuovo agglomerato urbano tentacolare, inconoscibile e ostile, che si dimostra una gabbia alienante per l’individuo. Il terzo (il Romanzo industriale), aprendo lo sguardo al futuro, analizza la paura per il novum, per il mondo che verrà, laddove la macchina, pur mantenendo il suo carattere minaccioso, si rivela utile strumento per controllare la natura. In questa fase (secondo Ottocento-primo Novecento) la natura è vista attraverso la macchina, è dominata dalla macchina, il nuovo dio che permette all’uomo di compiere azioni e acquisire conoscenze fino ad allora impensabili. Non senza la paura. Una paura forse ancor più grande, poiché collegata a un avvenire che si presuppone ancor più terribile del presente. La macchina, pur dimostrandosi la chiave interpretativa per cogliere la complessità della società di domani, possiede una du-


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99 La copertina del terzo volume sull’immaginario sociale nella letteratura di Romolo Runcini, edito ora da Liguori. Nella pagina a sinistra: il dottor Jekyll in un’incisione dell’epoca.

plice e contraddittoria facoltà: quella di presentarsi, insieme, come strumento di liberazione e come formidabile mezzo di oppressione e di controllo sociale. Un’ambiguità mai risolta, che ha dato luogo a un particolare filone letterario, definito “distopia”, dove si mettono in guardia gli uomini da un uso aberrante della tecnologia, dipingendo un futuro prossimo dove gli incubi del presente diventano realtà. Il novum come categoria culturale è ciò che caratterizza meglio il “romanzo industriale”, con cui Runcini intende una parte sostanziale della produzione letteraria, specificamente inglese (perché è in Inghilterra che la Rivoluzione industriale fa sentire prima i suoi effetti sconvolgenti), situabile tra la seconda metà del XIX secolo e la prima metà del XX, chiudendosi significativamente con la seconda guerra mondiale. Un periodo molto vasto, che abbraccia quasi un secolo di storia, tra i più movimentati, per l’entità e la profondità dei mutamenti politici e sociali, ma ben identificabile con alcune caratteristiche che appaiono determinanti per comprendere l’evoluzione del romanzo moderno: - L’affermazione del concetto di “massa”;

- L’introduzione della psicanalisi; - Le scoperte scientifiche e tecnologiche; - La creazione degli Stati totalitari. Accade tutto in quest’ordine di tempo, così in fretta e con una rapida accelerazione degli eventi che non era stata osservata prima d’ora a memoria d’uomo. Tutto cambia troppo rapidamente e ciò genera incertezza, nuove paure, emozioni, tensioni sociali, reazioni funeste. Gli autori trattati da Runcini sono emblematici: Dickens, Stevenson, Conrad, Kipling, Wells, Orwell, Huxley. Forse tra i più significativi di questo periodo, considerando che ci muoviamo nell’ambito della letteratura fantastica, non mimetica: autori del fantastico, cantori dell’immaginario e delle paure che incombono sulla società moderna. Dickens, col romanzo sociale, racconta di un novum tragico che risente degli sconvolgimenti della Rivoluzione industriale. Il suo è lo sguardo allarmato dell’osservatore di fronte ai cambiamenti che la macchina impone nei rapporti umani, nel panorama urbano, nei ritmi biologici, nell’economia, come nella salute. La difficoltà dell’uomo a resistere di fronte a un mondo che sembra aver perduto la speranza; un mondo intristito, abbrutito, ingrigito, infelice, che non è più riconoscibile. Con Conrad, Stevenson, Kipling il novum è dato dal viaggio in terre lontane, inesplorate. Il mare, l’esotismo, la speranza di un mondo nuovo che è “altro” rispetto alla quotidianità stagnante. C’è il recupero del rapporto diretto, solare, con la natura e con gli uomini, la ricerca e l’esaltazione dei sentimenti semplici: il coraggio, la lealtà, l’abnegazione, la generosità, l’altruismo.


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100 Charles Dickens in un’illustrazione dell’epoca. A destra: Carlo Bordoni con Romolo Runcini nella sua abitazione romana.

Non sfuggirà al lettore l’ampio respiro dell’analisi runciniana, che va alle radici delle cose, ricostruendo con meticolosità i percorsi meno noti del mutamento culturale, senza mai dare nulla per scontato, richiamando costantemente aspetti, suggestioni e riferimenti all’evoluzione del rapporto tra cultura e società attraverso i secoli. Questa attenzione scrupolosa all’evoluzione del pensiero umano e ai suoi riflessi sull’immaginario è frutto di un metodo sociologicoletterario a cui Runcini non ha mai rinunciato. Bastino le osservazioni illuminanti a proposito dell’intrusione dell’irrazionale nella cultura greca.3 Il richiamo ad Aristotele e alla crisi culturale determinata dalla scoperta dei numeri irrazionali: essa mina alle fondamenta il mondo ordinato, basato sulla perfezione dei rapporti matematici, che si era appena stabilizzato con la prevalenza del logos. Un lungo percorso sviluppatosi di pari passo con la scrittura, originata anch’essa da simboli matematici. Runcini mette opportunamente in rilievo l’importanza che in questo contesto assume il contrasto tra sacro e profano. Operando un rovesciamento radicale delle convinzioni indotte dalle interpretazioni tradizionali, dimostra l’inequivocabile appartenenza del fantastico al profano: erede legittimo della crisi di un mondo ordinato, in cui gli dei dominavano incontrastati. È la volontà di dominio (hybris) a spingere il carattere profano al di sopra del sacro e a preparare quella “civiltà della colpa”, da cui neppure la psicanalisi freudiana ci ha saputo guarire. 2. Le scoperte di Freud aprono nuove fron-

tiere d’indagine e la conoscenza dell’animo umano permette il ritrarsi dell’individuo all’interno di sé. L’analisi dell’inconscio, le ragioni segrete dell’agire umano, le pulsioni emotive, divengono i temi dominanti di una letteratura che scopre l’epica del mondo interiore, dove si combattono battaglie incruente per il predominio sulla coscienza. Se Nietzsche aveva messo in guardia contro la menzogna della civiltà che distorce il vero volto dell’uomo, Stevenson – attraverso lo sdoppiamento della personalità – riesce a dar vita alla più segreta paura della perdita di ogni controllo, della rottura dei freni inibitori, dell’emergere delle pulsioni animalesche in quel capolavoro che è Lo strano caso del dottor Jekyll e mister Hyde (1886), a cui Runcini dedica il saggio più denso e illuminante di questo volume. Stevenson è il geniale autore che intuisce le potenzialità dell’inconscio, anticipando di qualche anno Freud, se si può indicare la nascita ufficiale della psicoanalisi con la pubblicazione degli studi sull’isteria (1892) e l’interpretazione dei sogni (1899). Prima di lui, l’aveva tentato E.T.A. Hoffmann con L’uomo di sabbia (1816), quando Freud era ancora molto lontano, dando voce alle inquietudini dell’animo romantico. Si apre così la strada a Lawrence, a Virginia Woolf, a Joyce e a tutta la narrativa d’introspezione del XX secolo. Ma è significativo che Stevenson applichi l’ingrediente psicanalitico, proprio come aveva fatto Hoffmann, al racconto fantastico, facendo risalire le paure rimosse dal profondo e inquadrandole nell’Inghilterra vittoriana, così repressiva, così per-


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benista, eppure intrisa di pruderie da rappresentare in toto la metafora della maschera nicciana. Più che L’isola del tesoro (1883) e gli altri racconti d’avventura, è proprio Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde a fissare il segno della modernità, a sottolineare – con la sua invenzione del doppio malvagio – il mutamento epocale che trova nella scienza, nella rapida evoluzione delle scoperte scientifiche, la cifra del nuovo secolo che sta per iniziare. Se il Frankenstein di Mary Shelley (1818) ha bisogno dell’elettricità per creare il mostro, la creatura ripugnante di Stevenson ricorre alla chimica: un intruglio misterioso e casuale che, reagendo, ha il potere di liberare l’inconscio. Ogni epoca ha il mostro che si merita, e ogni scoperta scientifica presenta il rovescio della medaglia, che si concretizza in una medesima matrice paurosa: il timore dello scatenarsi di forze sconosciute, di regredire verso la barbarie, ovvero la perdita della propria identità umana, della coscienza di sé. A questo contribuisce la massa, il nuovo protagonista sociale che s’impone con la violenza. 3. Nella Rivoluzione francese si assiste alla prima dimostrazione della forza delle masse, confermata nel secolo successivo da una crescente malessere sociale, che sfocia nei moti del 1848 e nelle successive rivolte popolari.

Il positivismo e la sociologia, nascente scienza che studia il comportamento umano, iniziano ad occuparsi dei fenomeni collettivi nella seconda metà del XIX secolo, quasi in contemporanea con l’interesse della medicina per lo studio dell’animo umano. Se la psicanalisi di Freud riesce a svelare la complessità della psiche e a svelare le inquietudini personali, che avevano così ben caratterizzato la prima parte dell’Ottocento, altri – utilizzando i primi, incerti strumenti della sociologia – affrontano la questione dei comportamenti devianti in campo sociale, spinti dall’“esigenza di studiare più scientificamente questi fenomeni, allo scopo di comprenderli e di contenerli”.4 La sociologia “criminale” di Cesare Lombroso si propone di rintracciare i segni premonitori di un comportamento abnorme nei tratti caratteristici del volto e nella conformazione fisica dell’individuo, avvalorando implicitamente le future tesi razziste. Il suo L’uomo delinquente (1876) si avvale dell’idea positivista dell’osservazione dei fatti sociali per trarne deduzioni e regole di comportamento, dimostrando come un metodo così schematico, nella sua ottusità, possa condurre a conclusioni aberranti. Scipio Sighele risponde a Lombroso con la Folla delinquente, mentre il socialista Filippo Turati capovolge l’assunto lombrosiano nel suo pamphlet, intitolato Lo Stato delinquente (1883), che spo-


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sta l’attenzione sui comportamenti di gruppo, negando il carattere atavico della delinquenza. La “psicologia sociale”, nuova disciplina che mescola principi sociologici e psicanalitici, cerca di mediare le problematiche individuali con quelle collettive, la cui emergenza si è imposta all’attenzione degli osservatori. In questa prima fase gli interventi sono spesso finalizzati a comprendere il comportamento della folla come forza negativa, tanto che tutta la critica sviluppata tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento5 – è impegnata a osservare la violenza delle masse, con una serie di ipotesi che vanno dalla teoria delle élite di Pareto, Mosca e Michels, ai tentativi d’interpretazione in chiave psicanalitica di Freud, Le Bon e Reich, alle ricerche sociologiche di Ortega y Gasset e di Georges Sorel. In queste opere è evidenziato soprattutto il carattere violento, incontenibile e sfuggente della massa e la conseguente necessità di porvi rimedio. Ortega y Gasset, in particolare, sottolinea l’implicita rinuncia alla differenza, all’individualità propria della massa, quasi un regresso verso uno stato d’incoscienza, quello che Lombroso ha definito atavismo. L’abbandonarsi al proprio istinto primordiale, lasciarsi guidare dalle emozioni condivise, piuttosto che dal raziocinio. Non a caso la formulazione del concetto di massa nasce di pari passo con la scoperta della psicanalisi, che ha conferito dignità all’inconscio e alle pulsioni profonde dell’uomo. Ciò che muove la massa, che determina la sua reazione violenta – la “scarica”, secondo la definizione di Elias Canetti in Massa e potere

(1960) – non è tanto l’atavismo lombrosiano, quanto il bisogno di conferme, di un riconoscimento di sé come gruppo sociale. È l’identità negata, in mancanza di ogni possibilità di affermazione, a spingere all’emulazione, prima secondo un conformismo ristretto, poi sempre più ampio, fino all’idea universale in cui l’uomo-massa vede rappresentato l’ideale di vita. “Massa è l’uomo medio.”6 Gli studi sul comportamento collettivo delle folle, assieme a molta parte della letteratura che ha già in sé gli elementi caratterizzanti dei romanzi distopici degli anni Trenta e Quaranta del Novecento, che s’impongono per la loro attenzione al sociale, al biologico, secondo le più recenti acquisizioni della scienza positivista, contribuiscono alla formazione di una forte corrente culturale contraria alla democrazia e forniscono indirettamente la giustificazione alle forze più retrive per imporre restrizioni della libertà individuale e realizzare forme di governo autoritarie e totalitarie. L’Europa è sconvolta da diversi tentativi di controllare le masse attraverso l’instaurazione di regimi autoritari: dal fascismo in Italia al comunismo in Russia, dal nazismo in Germania al franchismo in Spagna. Sembra quasi che un’epidemia collettiva abbia contaminato il mondo occidentale e nell’opinione comune si ritiene che il problema dell’ingovernabilità dei gruppi sociali, divenuti troppo complessi per essere gestiti con gli stessi metodi del passato, non possa risolversi che con il ricorso al “tallone di ferro”. La massificazione raggiunge il suo apice nei regimi comunisti: dalla La macchina del tempo di Wells (1895) a Il mondo nuovo


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103 Le copertine dei due volumi precedenti di Romolo Runcini che completano il prezioso trittico dedicato all’immaginario sociale nella letteratura moderna tra il Settecento e il Novecento.

(1932) di Huxley, alla La fattoria degli animali (1945) e a 1984 (1948) di Orwell, tutti puntano il dito contro la perdita dell’individualità, la condizione di uomini ridotti a numero, il controllo ossessivo della devianza, l’assolutismo e l’egualitarismo, il potere egemone degli uguali (“più uguali degli altri”, secondo la ben nota affermazione di Orwell7) che costituiscono le classi dirigenti. I sistemi totalitari partono dagli stessi presupposti di controllo delle masse, della loro irreggimentazione, del loro utilizzo ai fini del mantenimento del potere, ottenuto sia attraverso la costrizione, sia attraverso il consenso, ma si distinguono subito per la diversa visione del mondo, per l’ideologia che sottende la prassi politica e organizzativa. Sopraffazione, assenza di ogni rispetto della dignità umana, esaltazione della forza, della tecnologia bellica, dell’eroismo, mitizzazione del capo supremo, appaiono elementi di un irrazionalismo diffuso, mentre rispondono a una precisa strategia, che poggia sull’opportunità di strumentalizzare la forza della massa e sfruttarla a proprio vantaggio. 4. L’altro cardine fondamentale necessario a comprendere il “romanzo industriale” è ovviamente la macchina. La macchina non libera dalla fatica: nella prima fase dell’industrializzazione anzi l’accresce, aumentando i ritmi di lavoro e costringendo l’uomo ad adeguarsi alla macchina e non viceversa, in una competizione impossibile.

La macchina è vista come l’altro-da-sé, mostruoso e inconoscibile, che incute angoscia e timore, l’antagonista invincibile che sottrae posti di lavoro e riduce in miseria. Risveglia paure irrazionali e genera angosce esistenziali, che portano a una separazione di sé dal mondo. La lotta contro la macchina, come nel caso delle proteste dei Luddisti nell’Inghilterra del primo Ottocento, si dimostra vana e a nulla valgono i tentativi, anche violenti, di sottrarsi al suo coinvolgimento. Sindacalismo, socialismo, comunismo, con le loro istanze mitigatrici (diminuzione delle ore di lavoro, aumento dei salari, regole per la sicurezza e assistenza sociale) e massimaliste (ridistribuzione del reddito, alienazione della proprietà privata, statalizzazione dei mezzi di produzione) non mettono in discussione il sistema produttivo, la sua finalità e la sua necessità nella società moderna, ma semmai ne confermano e ne giustificano l’esistenza stessa, incanalandosi in un percorso che ha scarse vie d’uscita. Solo molto più tardi si comincerà a mettere in discussione il tipo di produzione capitalistica in conseguenza delle crisi di sovrapproduzione e in presenza dell’impossibilità di reperire nuovi mercati. Strano a dirsi, ma la liberazione dalla fatica fisica per l’uomo contemporaneo, come non è dipesa dalla macchina, non è neppure dovuta alle lotte sindacali, né ai movimenti di liberazione ispirati dalla sinistra rivoluzionaria. Con un’apparente contraddizione, la liberazione dalla più antica condanna biblica è avvenuta proprio per effetto della stessa tecnologia. L’economia post-fordista, basata sul-


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l’automatismo dei mezzi di produzione, ha sempre meno bisogno di manodopera; la stessa macchina si evolve a tal punto da non prevedere l’intervento umano. Ancora una volta l’uomo si deve adeguare alla macchina, ma in questo caso con esito positivo, tanto che oggi si parla di “lavoro immateriale”. In una prima fase di passaggio, corrispondente all’incirca al mezzo secolo successivo al secondo conflitto mondiale, quando la massificazione in atto si caratterizza per il consumismo, la produzione materiale (con l’apporto di una prevalente forza fisica) è affiancata con sempre maggiore frequenza da un’offerta di servizi, progressivamente più ampia e articolata. Al punto da parlare della società postmoderna come di una società di servizi, dove una parte molto consistente della popolazione attiva trae il suo reddito da un lavoro in apparenza improduttivo. Che cioè non produce oggetti fisici o materiali, ma che pure ha indubbia utilità per la popolazione: comunicazione, informazione, formazione, assistenza, cura, consulenza, organizzazione. La prevalenza del lavoro immateriale si estende in tutti i campi dell’economia e diviene la caratteristica precipua del modo di produrre di oggi. Così cambiano la cultura e i rapporti umani. Sembra sfatato il pericolo di un futuro oscuro e iper-tecnologizzato, dove l’uomo è sempre più succube delle macchine, come era stato preconizzato nelle pessimistiche distopie immaginate lungo tutto l’arco della prima metà del XX secolo. Quando queste storie hanno ad oggetto un’evoluzione in negativo del nostro mondo, quando lasciano trapelare il pessimismo per

un futuro incerto, quando ipotizzano le conseguenze tragiche a cui possono portare i presupposti di oggi, si parla di “utopie alla rovescia” o “dis-topie”, in riferimento alla meravigliosa isola di Thomas More, in cui tutto procede in perfetta armonia, è realizzato un modo di vivere ideale, ma che, com’è del resto evidente dall’etimo, non si trova in nessun luogo. Nella cultura occidentale esistono parecchi casi di rappresentazione di una società futura perfetta e ideale. Basti pensare alla Repubblica di Platone o alla stessa Utopia di Thomas More, che ha dato origine allo stesso termine, entrato nell’uso comune, per indicare un fatto o un’idea irrealizzabile. La rappresentazione di un futuro distorto o pessimista ha, invece, origini più recenti. Nasce allora l’utopia negativa: la violenza e l’autoritarismo dei regimi totalitari, assieme allo sgomento dell’individuo inserito nell’ingranaggio di una società sempre più burocratizzata e industrializzata, creano sfiducia nel futuro, fanno crollare la fede positivista nella scienza, mettono in crisi l’idea di progresso, negano le libertà individuali. L’irrazionale paura per la massificazione è sempre al centro dell’immaginario sociale e ben rappresentata in ogni “ricostruzione” di un futuro indesiderabile, che la letteratura distopica si propone di esorcizzare, da Wells a Orwell, da Huxley fino alla Atwood. L’immagine della macchina fagocitatrice delle masse è però entrata nella storia del XX secolo attraverso i fotogrammi di Metropolis (1927) di Fritz Lang. I plotoni di operai senza volto che si muovono compatti, vanno e ven-


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gono dagli ascensori che li conducono nelle viscere del Moloch, la gigantesca macchina che alimenta la megalopoli del futuro, sono sì la trasfigurazione simbolica della militarizzazione incombente, ma anche la rappresentazione pessimistica di una massificazione penosa in cui l’individualità si è disciolta. Da notare come spesso, in queste rappresentazioni distopiche, permanga una sorta di ambiguità politica, dove, da una parte, si denuncia l’oppressione del sistema totalitario, la privazione delle libertà individuali, mentre, dall’altra, si insiste sull’esaltazione dell’individuo e delle sue prerogative. La massa è rappresentata come entità negativa, quasi odiosa nella sua granitica indolenza, nell’accettazione passiva di una condizione di vita alienante, nell’insipienza e nell’ottusità del suo essere. Uscire dalla massa, ribellarsi, prendere in mano le fila del proprio destino, rendersi autonomi sembra essere lo scopo di ogni individualismo, incurante delle modalità usate per la sua liberazione. Significativa la definizione che Runcini dà di “distopia”, quasi una voce enciclopedica: «Alla corroborante azione ideologica e sociale dell’utopia – intesa a sostenere ideologicamente e psicologicamente la volontà di conseguire uno scopo prefisso – la distopia, o abbandono di quei propositi e di quelle scelte per un progetto a buon fine, rifiuta ogni impegno e volontà d’azione per rinchiudersi in una clausola negativa dell’atto di conoscenza. In tal modo il reale viene riconosciuto quale entità non possibile di profonda e articolata definizione etimologica. Di qui la riduzione del pensiero e dello stesso scibile

umano a puro riscontro psicologico – emotivo e così soggettivo – della labilità cognitiva e delle apparenze formali di una realtà non definibile in modo positivo e razionale. La distopia risulta dunque estranea a ogni tentativo di focalizzazione anche formale del tessuto oggettivo della conoscenza del mondo. Contro la tensione psicologica e conoscitiva dell’utopia verso un punto cardine di riconoscimento, la distopia riflette l’abbandono dell’impegno psicologico e sociale. In tal senso viene meno il concetto stesso di società definita ormai un semplice aggregato di esseri umani. Il valore della distopia è assimilabile al concetto e al profilo storico dell’Apocalisse che emerse e dilagò nelle inquietudini sociali e culturali dell’Europa tra la prima e la seconda guerra mondiale. Se utopia è vita, distopia è morte.» NOTE 1 R. RUNCINI, La paura e l’immaginario sociale nella letteratura. I. Il Gothic Romance, (2° ed.), Napoli, Liguori, 1995; La paura e l’immaginario sociale nella letteratura. II. Il Roman du crime, Napoli, Liguori, 2002. 2 R. Runcini, Illusione e paura nel mondo borghese da Dickens a Orwell, Bari, Laterza, 1968. 3 R. Runcini, Enigmi del fantastico, Chieti, Solfanelli, 2007, pp. 52-54. 4 A. Mucchi Faina, L’abbraccio della folla, Bologna, Il Mulino, 1983, p. 26. 5 D. Palano, Il potere della moltitudine, Milano, Vita & Pensiero, 2002. 6 J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, Bologna, Il Mulino, 1962, p. 7. 7 G. Orwell, La fattoria degli animali, in Romanzi e saggi, a cura di G. Bulla, Milano, Mondadori, 2000, p. 870.


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ADDIO A CURTONI GRANDE EDITOR DELLA SF ITALIANA

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o saputo in ritardo che Vittorio Curtoni se n’era andato. Non sapevo neppure che fosse malato. Da tempo non ci sentivamo. Certe volte le strade ci allontanano fino a non farci più incontrare, finché qualcuno non se ne va in silenzio, in punta di piedi, quasi non volesse disturbare, e ci si accorge con sgomento che ci sarebbe stato tutto il tempo per recuperare, per rivedersi e parlarsi. E non l’abbiamo fatto. L’amicizia con Vittorio era di antica data, risaliva addirittura alla preistoria della SF, al 1964, quando eravamo due ragazzini delle superiori – lui appena quindicenne – appassionati entrambi di fantascienza, destinati a convergere nel fandom con gli stessi entusiasmi e le stesse speranze. Negli anni Sessanta lui curava la fanzine “Numeri Unici”, io “Micromega” con Fossati e Prosperi: quegli anni furono segnati da una fitta corrispondenza (cartacea, perché non c’erano ancora i telefonini, né le mail) e da incontri programmatici, in cui si discuteva, si leggevano i propri scritti, ci scambiavamo idee esaltanti sul da farsi e si litigava. Il fandom, allora, era una fucina di litigiosità diffusa. I programmi erano ambiziosi: in uno storico incontro a Firenze alla fine del 1965, ci fu chi – credo Sandro Sandrelli – pro-

pose persino di fondare un quotidiano di fantascienza, tanta era la voglia di comunicare e di esprimerci, spinti come eravamo da una fantasia rigogliosa e debordante. Vittorio non mancava mai. I nemici di allora (dispiace dirlo) erano i “filoamericani”, in primis la coppia Fruttero-Lucentini, secondo i quali “i dischi volanti non sbarcano a Lucca”. Ovvero la fantascienza italiana non esiste, va lasciata agli anglosassoni, che sono più credibili. Il fortino da conquistare era Urania, la mitica rivista del settore, dall’alto della quale i due curatori torinesi divulgavano il loro ferreo diktat. Vittorio si dedicò con impegno a questo compito, quello appunto di sfatare il trito luogo comune che gli italiani non sapessero scrivere di SF. Prima con “Galassia”, la rivista dell’editrice La Tribuna di Piacenza (città dove viveva), poi con “Robot”, la più riuscita delle sue creature. Oggi che quel compito si può dire assolto – dopo la svolta impressa dagli anni Ottanta in poi da Gianni Montanari e, soprattutto, da Giuseppe Lippi, Curtoni era attento ai ritorni di fiamma, a mantenere alto il livello della produzione con la sua instancabile attività di editor, anche attraverso la rinata “Robot” della Delos Books. Sembra incredibile, ma è ancora frequente sentir affermare – con amareggiato


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107 Vittorio Curtoni con Carlo Bordoni nel 2001 a Milano. Sotto: Firenze, 26 dicembre 1965 sulla scalinata del Duomo. Si riconoscono (da sinistra) Bordoni, Prosperi, Sandrelli, Bellomi, Fossati, Massarini, Fusco, Carrara, de Turris, Lucchetti, Naviglio, Cersosimo e Curtoni.

pragmatismo, oggi come ieri – che ogniqualvolta “Urania” mette in copertina un autore italiano, le vendite subiscono un brusco contraccolpo. Vittorio ha dedicato tutta la sua vita alla fantascienza, scrivendo, curando, editando, animando, criticando, presentando, soprattutto traducendo. Un’attività instancabile e generosa, fino all’ultimo impegno, portato a termine malgrado la malattia: il volume per “Urania Collezione” n. 109, uscito a febbraio (ne parla Giuseppe Panella in questo numero, tra le recensioni). Oltre ai suoi racconti più belli (generi che preferiva), qui c’è il suo unico romanzo, “Dove stiamo volando”. Un’antologia impreziosita da un’appassionata postfazione di Giuseppe Lippi, il curatore di Urania,

che con Vittorio ha collaborato a lungo. L’ultimo nostro incontro è stato nel 2001, quando accettò di presentare con Graziano Braschi, alla Liberia del Giallo di Milano, il mio romanzo “In nome del padre”. Sono passati dieci anni. È passata una vita. Ci piace ripensare a Vittorio Curtoni ragazzo, col suo entusiasmo contagioso, che – di fronte a una lettera scritta con le prime IBM elettriche – sgranava gli occhi ed esclamava: “ Ci si possono fare della riviste, con questa!” E poi c’è quel suo racconto delizioso, “Quando avrò 64 anni“ (del 1984), che si rifaceva a una famosa canzone dei Beatles e che assume, adesso, una sfumatura dolorosa. Perché Vittorio, a 64 anni, non c’è arrivato. (C. B.)


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VISTI & LETTI L’angusto panorama del 2011

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VETRINA DELLA FANTASCIENzA

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nno 2011 magro di pubblicazioni per la fantascienza, sia in Italia, che all’estero, segno di un assestamento sulle posizioni stagnanti già viste l’anno precedente. Il mercato si restringe notevolmente a vantaggio della fantasy, nelle sue numerose incarnazioni editoriali e del settore degli Young Adults, da qualche anno in sempre maggior espansione, generi che qui non affronteremo, limitandoci alla fantascienza e all’horror. Per quanto riguarda la nostra penisola, iniziamo come sempre dalla regina delle pubblicazioni di fantascienza, cioè da Urania che quest’anno, assieme alle altre edizioni periodiche Mondadori come i Gialli, cambia editor: Altieri lascia il timone a Franco Forte dal 1 luglio. Non solo, il prezzo passa da € 4,20 a € 4,50. Fra quanto proposto da Lippi, che continua a curare la fantascienza, sono da ricordare sicuramente WWW1: risveglio di Robert Sawyer, ambiziosa descrizione del mondo visto con gli occhi della giovane Caitlin Decter, capace di vedere la realtà come un insieme di dati informatici; Dula di Marte, primo di una trilogia di Joe Haldeman, in parte romanzo di formazione e in parte romanzo di avventure; Toxic@ dove Dario Tonani ritorna alla sua Milano futuribile in cui un killer uccide cartoni animati; il piacevole e avventuroso Retief ambasciatore galattico di Keith Laumer, romanzo

fra gli ultimi del suo autore (e della serie con protagonista Retief). Su Urania collezione (Mondadori; € 5,50), la collana che presenta ristampe dei maggiori testi della fantascienza, tutti meritevoli di lettura, possiamo ricordare il malinconico Vita con gli automi di James White; il bello e terribile romanzo apocalittico Il lungo silenzio di Wilson Tucker; un eccezionale classico della new wave come I.N.R.I. di Michael Moorcock, irriverente reinvenzione della passione di Cristo; la riproposta del bellissimo Titano di John Varley, romanzo d’avventura che rielabora tematiche gender tipiche degli anni Settanta in una veste ironica e avventurosa. Lasciando l’edicola e entrando in libreria, non possiamo non ricordare il bestseller inaspettato del 2011. In realtà non è propriamente un libro di fantascienza, quanto un romanzo fanta-storico. Parliamo ovviamente de Il mercante di libri maledetti (Newton Compton; € 9,90) scritto da Marcello Simoni. Sulla scia de Il nome della rosa e de Il codice da Vinci, il romanzo racconta delle peripezie di Ignazio da Toledo inviato da un ricco veneziano alla ricerca di un misterioso manoscritto in cui sarebbero trascritte formule che permetterebbe di evocare gli angeli. Altri imprevisti best-seller sono i volumi della serie Metro 2033, creata sulla moda delle esperienze americane che la

science-fiction ben conosce, cioè quella del franchising editoriale. In questo caso, il mondo fantastico descritto nei primi libri del russo Dmitry Glukhovsky, pubblicati in Italia con enorme successo dall’editore Multiplayer di Terni, specializzato in videogiochi, viene espanso da autori di diverse nazionalità, che scrivono le loro opere ambientandole in questo universo futuro. In Italia è Tullio Avoledo a tentare la prova e lo fa con Le radici del cielo (Multiplayer.it; € 19,00), ambientato in una Roma devastata dove la Chiesa Cattolica è ormai decaduta e una famiglia ricchissima prende lo scettro per dominare la città. Romanzo fantastico, a tratti surreale, è invece Altri regni (Fanucci; € 16,00), l’ultima opera di Richard Matheson prontamente tradotto in Italia dall’editore romano e meritevole di lettura come ogni altra cosa del grande vecchio del fanta-horror. Ricordiamo inoltre che lo stesso editore quest’anno ha ristampato nella collana Tif extra ad un prezzo supereconomico le quasi settecento pagine de La trilogia di Valis di Philip K. Dick (Fanucci; € 6,90), un’opera imperdibile per chi volesse approfondire l’ultimo periodo letterario del grande scrittore californiano, qui dedito alla speculazione metafisica sulle sue esperienze mistico-religiose. Dello stesso autore, nella collezione Immaginario Dick, sono


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stati ristampati tre romanzi minori che ancora mancavano all’appello nel quadro delle opere complete che Fanucci sta portando a termine, e cioè Redenzione immorale (€ 17,00), Dottor Futuro (€ 17,00) e La città sostituita (€ 16,00): i primi due rientrano nel genere distopico della social science fiction, mentre il terzo rientra pienamente nella metafisica dickiana preannunciando la tematica del più celebre Tempo fuor di sesto. Ancora una ristampa, e parliamo di uno dei libri più belli della fantascienza europea degli ultimi cinquant’anni, e cioè Picnic sul ciglio della strada (Marcos y Marcos; € 15,00) dei fratelli Arkadi e Boris Strugatzki. Conosciuto anche come Stalker e portato sullo schermo da Tarkovski, il romanzo racconta della Zona, un luogo disabitato in cui misteriosi alieni hanno lasciato oggetti incomprensibili, e degli abitanti che attorno a tale luogo hanno costruito la propria vita fatta di mercato nero e vane speranze di ricchezza. Di tutt’altro tono è ovviamente Kurt Vonnegut e la sua antologia Baci da 100 dollari. Racconti inediti (Isbn Edizioni; € 17,50) che raccoglie diversi racconti inediti, tutti sul filone del grottesco, critica sociale travestita da comica finale. Lo stesso editore milanese pubblica il libro di David Whitehouse Buon compleanno Malcolm (Isbn Edizioni; € 15,90). Il voluminoso

romanzo racconta la storia del giovane Malcolm che il giorno del proprio compleanno, venticinque anni, si mette a letto per non scenderne mai più. Da quel letto, divenuto incredibilmente obeso, Malcolm descrive l’America attraverso i dialoghi con i familiari, gli amici e i curiosi che inevitabilmente gli si fanno appresso. Passando alla piccola editoria, ecco la collana Odissea che l’editore milanese Delos dedica principalmente alla narrativa breve. Fra le opere che mensilmente vengono pubblicate, possiamo ricordare il fanta -medical-thriller Atto primo (Delos; € 10,00) di Nancy Kress, che descrive la possibilità di sintetizzare una sostanza capace di incrementare l’empatia umana; lo psicologico Il recupero dell’Apollo 8 (Delos; € 10,00) di Kristine K. Rusch, che riprende il classico topos della navicella spaziale di ritorno dalla spazio in condizioni misteriose; e l’ormai classico La Trilogia Steampunk (Delos, € 14,90), opera con la quale Paul Di Filippo creò in pieni anni Novanta un genere, lo steampunk appunto, una cyberpunk di ambientazione vittoriana.. La piccola casa editrice Edizioni della Vigna, pubblica un paio di rilevanti antologie che raccolgono autori italiani e stranieri: Un calice di soli, un piatto di pianeti (Edizioni della Vigna; € 15,50) raccoglie undici racconti di “fantascienza gastronomica”

scritti da nomi ben conosciuti fra i quali Mauro Antonio Miglieruolo, Antonio Bellomi, Mike Resnick, Adalberto Cersosimo, Robert Silverberg e Antonino Fazio; mentre Volterra in giallo e nero (Edizioni della Vigna; € 14,50) è più vicina al fantastico e al thriller, con racconti di Mauro Antonio Miglieruolo, Renato Pestriniero, Alessandro Fambrini fra gli altri. La Elara Libri di Bologna, nel 2011 tenta l’avventura del pocket. Per anni specializzata in edizioni rilegate, ecco ora uscire con una collana di tascabili dal prezzo accessibile. I cinque titoli fino ad ora presentati riprendono in parte il catalogo della stessa Elara o Perseo (Daniele Vecchi e Thomas Ligotti), della storica Libra (Isaac Asimov e Edmond Hamilton), ma anche inediti: è il caso di Dark Agnes, donna di spada (Elara; € 13,50) che raccoglie le storie che Robert E. Howard scrisse con protagonista le spadaccina Agnes de Chastillon. Uno dei nostri autori che ormai possiamo considerare classici (scrive fantascienza da cinquant’anni) Renato Pestriniero, pubblica invece presso Solfanelli Le tre morti di Aloysius Sagredi (€ 18,00), corposo romanzo di ambientazione veneziana che vede la misteriosa città lagunare teatro della perenne lotta fra il bene e il male, fra il kosmos e il khaos. Sempre Pestriniero, presso la piccola casa editrice veneziana Supernova


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pubblica Frattanto, in fiduciosa attesa (€ 14,90). Nel campo della narrativa breve, vogliamo ricordare anche Day Hospital (Rcs; € 1,00) racconto di Valerio Evangelisti. Purtroppo di difficile reperibilità, se non lo si è acquistato in edicola con il Corriere della sera, il volumetto della serie Inediti d’autore non contiene una storia di fantascienza, ma il realistico diario della malattia che ha colpito l’inventore di Eymerich fra il 2009 e il 2010. Da leggere. Passiamo velocemente all’horror. Per i cultori del genere, è interessante l’antologia di Urania Millemondi Lui è leggenda (€ 7,50) curata da Christopher Colon e dedicata al maestro del fantastico Richard Matheson, con racconti scritti da autori del calibro di Stephen King & Joe Hill (che rifanno Duel), Nancy Collins (che ritorna a Villa Inferno) e William Nolan che continua I figli di Noè. Da non dimenticare che l’antologia comprende la sceneggiatura che Richard Matheson e Charles Beaumont trassero dal classico di Fritz Leiber Ombre del male. Assolutamente da non perdere poi è il romanzo di Brian Keene I vermi conquistatori (Edizioni XII; € 15,00) uno dei capolavori dell’orrore contemporaneo. Spesso citato, finalmente ne esce una traduzione italiana che potremo eleggere come miglior romanzo fantastico del 2011. Il libro racconta della fine del

mondo attuata prima da un’interminabile pioggia e poi dall’emergere dal terreno di vermi carnivori destinati a porre fine alla vita dell’uomo su questo pianeta. Un romanzo spaventoso che si inserisce nel filone del romanzo catastrofico, ma dal sapore intimista, ambientato com’è in una casa isolata dell’America rurale. Molto atteso è anche Il passaggio (Mondadori; € 22,00) di Justin Cronin, bestseller folgorante negli Stati Uniti. La storia è a metà strada fra la fantascienza e l’orrore, visto che riprende in chiave scientifica un classico topos come quello del vampiro: un virus artificiale destinato a rendere più resistenti gli esseri umani, durante i test si rivela invece una sostanza che trasforma gli uomini oggetto della sperimentazione in vampiri, mostri che poi fuggono dal laboratorio seminando morte e distruzione. Romanzo psicologico è invece quello di Peter Straub La cosa oscura (Sperling & Kupfer; € 19,90), incentrato sulla rievocazione di un’esperienza paranormale vissuta in gioventù dal protagonista e dai suoi amici. Libro un po’ deludente, se pensiamo che Straub è l’autore di un capolavoro assoluto come Storie di fantasmi. Concludiamo le segnalazioni orrifiche con un divertente romanzo horror quale è I Promessi morsi (Rizzoli; € 16,50) di ignoto Anonimo Lom-

bardo, in realtà uno storico italiano. La vicenda è quella manzoniana ma riscritta in chiave vampiro-licantropica. Passiamo ora alla saggistica di fantascienza pubblicata in Italia: iniziamo ricordando la raccolta di scritti di Jonathan Lethem Crazy friend. Io e Philip K. Dick (Minimum Fax; € 14,00), un volume dedicato al grande autore californiano, ricco di considerazioni personali e scritto da uno dei grandi della science fiction impegnata contemporanea. Infine, facciamo notare che anche in Italia, la non-fiction di fantascienza inizia a farsi strada. Elara libri e Edizioni della Vigna hanno entrambe una collana dedicata e fra le uscite del 2011, segnalo la monografia che ho dedicata all’opera dello scrittore che fu l’ispiratore di Dick, e cioè van Vogt. Per Elara Libri è uscito infatti: Riccardo Gramantieri, Metafisica dell’evoluzione in A.E. van Vogt (Elara; € 35,00) nel quale viene analizzata l’intera opera dell’autore canadese, specialmente il periodo post-dianetico, generalmente poco esaminato dalla critica e poco conosciuto dai lettori. Per le Edizioni della Vigna invece è uscito After Wells: la fantascienza inglese da Stapledon alla New Wave (Edizioni della Vigna; € 15,50) dove Davide Grezzo tratteggia in brevi capitoli l’evoluzione della fanta-


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scienza britannica presentando gli autori e le loro opere più rilevanti; Mondi paralleli: storie di fantascienza dal libro al film (Edizioni della Vigna; € 22,50) di Roberto Chiavini, Gian Filippo Pizzo e Michele Tetro, opera enciclopedica che analizza quei film il cui soggetto è stato tratto da un’opera letteraria, evidenziando, titolo per titolo, analogie fra la versione romanzesca e quella su celluloide. In campo horror, l’editore Gargoyle pubblica il puntiglioso ed esauriente L’alba degli zombie. Voci dell’Apocalisse: il cinema di George Romero (Gargoyle; € 17,00). Ampio volume curato da Danilo Arona, Selene Pascarella e Giuliano Santoro, il saggio parte dalla nascita del fenomeno zombie, cioè dal celebre La notte dei morti viventi del 1968, per arrivare ai giorni nostri analizzando la nascita di una delle principali figure dell’orrore moderno. Varcando l’oceano e la Manica, fra le novità più rilevanti evidenziamo il nuovo libro di uno dei migliori scrittori della fantascienza degli ultimi vent’anni, cioè Neal Stephenson, che quest’anno manda in libreria Reamde (William Morrow; $ 35,00), complessa storia cyber di virus informatici, spionaggio fra case produttrici di videogiochi, e cellule terroristiche sullo sfondo.

Sempre nel campo ibrido mainstream - science-fiction ecco Don DeLillo pubblicare l’antologia di racconti The Angel Esmeralda: Nine Stories (Scribner, $24,00) Prevista in Italia presso Einaudi nei primi mesi del 2012, il volume comprende testi scritti fra la fine degli anni Settanta e il 2011, fra i quali, per il settore che ci interessa, possiamo ricordare “Human Moments in World War III” dal sapore ballardiano, con i due astronauti a guardare la terra dall’orbita, e “The Starveling” sulla perdita di identità davanti alle immagini dei film. Meno sperimentale, e più vicina al gotico, è sicuramente la nuova raccolta di Joyce Carol Oates The Corn Maiden and Other Nightmares (Grove; $24,00), sempre in bilico fra il racconto nero, il fantasy e la confessione. Racconti di narrativa speculativa che riprendono il principio di Marshall McLuhan secono il quale “il mezzo è il messaggio”, sono quelli raccolti nell’antologia curata da Rick Wilber Future Media (Tachyon Publications, $16,95) che comprendono testi di autori quali Aldous Huxley, Norman Spinrad, Robert Sheckley, James Tiptree. A mezza via fra la biografia e l’invenzione è invece il curioso romanzo che Paul Malmont pubblica con il maggior editore mainstream americano: The Astounding, the Amazing, and the Unknown (Simon & Schuster; $26,00) fin dal titolo strizza l’oc-

chio alla fantascienza classica, richiamando le tre riviste principali della fantascienza di quegli anni d’oro. L’ambientazione è infatti quella dell’America degli anni Quaranta: in piena Seconda Guerra Mondiale, la difesa degli Stati Uniti recluta autori come Asimov, Heinlein, Hubbard e DeCamp affinché questi trasformino le invenzioni della science fiction in realtà e possano sconfiggere Hitler. Sicuramente più tradizionale per i lettori di fantascienza classica è quella che si definisce la hard sf, cioè tecnologica. In questa particola branca della fantascienza possiamo ricordare che nel 2011 sono usciti diverse opere interessanti: il terzo volume della serie dello Spin scritta da Robert Charles Wilson, cioè Vortex; poi l’ultimo libro di Allen Steele Hex (Ace; $26,95), ottavo romanzo della serie del Coyote conosciuta anche in Italia (su Urania è uscito proprio nel 2011 Galassia nemica); il poderoso Leviathans of Jupiter (Tor; $24,99) del bravo Ben Bova, un autore semplice e diretto la cui grande produzione in Italia, inspiegabilmente viene quasi ignorata, e invece rappresenta un’ottima analisi delle politiche degli enti economici e industriali che permettono la conquista dello spazio; poi è da ricordare Jack McDevitt, che manda in libreria Firebird (Ace; $24,95), sesto nella serie di Alex Benedict; Joe


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Haldeman con Earthbound, (Ace; $24,95), terzo nella trilogia di Marte la cui traduzione è iniziata anche in Italia; e poi Joan Slonczewski con The Highest Frontier (Tor; $26,99). Antologie di fantascienza spaziale sono poi quella che pubblica Peter F. Hamilton con il titolo di Manhattan in Reverse (Macmillan, £17,99), e quella di Jack Williamson At the Human Limit Year (Haffner Press; $40;00), che copre gli anni 902000. Atteso, ma un po’ in tono minore, è invece l’ultimo romanzo del grande vecchio Frederik Pohl, che torna a tematiche social con il suo All the Lives He Led (Tor; $25,99); più convincente è invece China Miéville che pubblica l’ambizioso Embassytown (Del Rey; € 26,00), che a tratti ricorda il miglior Delany. Vicino al thriller è invece il romanzo di Dan Simmons Flashback (Little, Brown, $27,99). Da ricordare anche il ritorno di Larry Niven che, con Steven Barnes, riprende la serie di romanzi di Dream Park, editi anche da noi, e nel 2011 fa uscire The Moon Maze Game (Tor; $25,99). Nel campo del fantastico ricordiamo l’inglese Christopher Priest, autore un po’ trascurato qui da noi, che manda in libreria The Islanders (Gollancz, £12,99) romanzo composito, ottenuto da diverse storie con il quale lo scrittore torna al suo Dream Arcipelago dopo diversi

anni. Rudy Rucker invece pubblica Jim and the Flims (Night Shade Books; $24,99), mentre a nome Harlan Ellison è la graphic novel Phoenix Without Ashes (IDW Publishing, $ 21,99), una classica quest ambientata nel 2785. Molto atteso è il terzo volume della serie Abarat, conosciuta anche qui in Italia, Absolute Midnight (HarperCollins, $24,99), ovviamente di Clive Barker, una fantasmagoria di colori per le avventure di Candy Quackenbush nella fantastica terra Abarat. Veniamo all’horror, i cui cultori d’oltreoceano nel 2011 hanno potuto gioire per l’uscita di numerose opere di livello, fra le quali ecco Peter Crowther e il suo Darkness Falling (Angry Robot; $12,99) primo di una trilogia in bilico fra fantascienza e orrore; il classico Dean Koontz, che con 77 Shadow Street (Bantam, $28,00) riscrive un classico dei topoi come quello della casa infestata; l’atteso Zone One (Doubleday; $25,95) di Colson Whitehead, romanzo realistico e a tratti toccante sugli zombie, e che la critica ha giustamente osannato; Brian Lumley invece ritorna al tema dei vampiri, il suo preferito, con il post-atomico The Fly-ByNights (Subterranean press, $35,00); mentre Robert McCammon con The Five (Subterranean press, $26,95) riempie di tensione la vita di un gruppo rock allo sbando. E infine, non si può non citare Whitley Strieber,

autore horror ma il cui nome è indissolubilmente legato al tema del contatto alieno, tema cui Hybrids (Tor, $24,99) non sfugge. Completiamo la vetrina editoriale con la saggistica sul fantastico, che nel 2011 è stata particolarmente varia e copiosa. Cominciamo da Charles J. Shields, che con And So It Goes: Kurt Vonnegut: A Life (Henry Holt; $30,00) ha scritto un’imponente biografia del grande scrittore americano, al centro anche di discussioni e diatribe, specialmente per le accuse che il figlio di Vonnegut, Mark, ha mosso all’autore Shields, accusandolo di aver riportato notizie false e di aver descritto l’autore di Mattatoio 5 come un perenne iracondo. Di carattere saggistico è invece la monografia di Gregory D Sumner Unstuck in Time: A Journey Through Kurt Vonnegut’s Life and Novels (Seven Stories Press; $24,95) che esamina tutti i romanzi dell’autore, a partire dall’esordio fantascientifico. Da Vonnegut passiamo a Dick. Dello scrittore californiano si occupano infatti Jonathan Lethem nella sua raccolta di saggi The Ecstasy Of Influence (Doubleday; $27,95) dove, e oltre a Dick, parla anche di scrittori come Ballard, registi come John Cassavetes, e fumetti marvel; e Umberto Rossi, che con The Twisted Worlds of Philip K. Dick: A Reading of Twenty Ontologically Uncertain Novels (McFarland & Company; $


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45,00) esamina con la consueta maestria l’opera dell’autore di Ubik, comprendendo anche quei racconti e romanzi minori che generalmente vengono dimenticati dalla critica più consueta. Direttamente dalla penna di Dick è invece la sua The Exegesis Of Philip K. Dick (a cura di P. Jackson, J. Lethem, E. Davis) (Houghton Mifflin Harcourt; $40,00), l’opera filosofica-religiosa attesa da decenni e fino ad oggi conosciuta solo attraverso quei pezzi riversati dall’autore nella trilogia di Valis. Si tratta ovviamente di una lettura non facile, ma chi ha amato romanzi come Divina invasione o Valis (e legge l’inglese) non potrà farsela sfuggire. Il libretto di SeoYoung Chu di dickiano ha solo il titolo: infatti Do Metaphors Dream of Literal Sleep?: A Science-Fictional Theory of Representation (Harvard University Press; $39,95) tratta del rapporto fra fantascienza e realismo. Avvincente come un legal thriller è il volume di Tom Stewart, Robert E. Howard: The Battle for the Legacy of Conan (Hermes Press; $ 39,99), che come indica il titolo, descrive le controversie che hanno caratterizzato il personaggio di Conan il barbaro creato ottant’anni fa

da Howard e, dopo esser stato trasformato in fumetto, film, illustrazioni e imitazioni, è diventato oggetto di dubbi e controversie legali per anni. Da non dimenticare poi l’opera di Margaret Atwood In Other Worlds: SF and the Human Imagination (Nan A. Talese; $ 24,95), come pure la ristampa del gustoso Who Killed Science Fiction? (The Merry Blacksmith Press; $13;95) scritto da Earl Kemp cinquant’anni fa con molto brio, e completato con interventi di classici come Asimov, Bradbury, Campbell, Heinlein, Vonnegut. Infine, segnaliamo anche l’autobiografia di Rudy Rucker Nested Scrolls: The Autobiography of Rudolf von Bitter Rucker (Tor; $25,99), anche se forse, essendo ancora giovane, poteva aspettare ancora un po’, ma si sa, Rucker è un genio. Dai libri ai premi. Nel 2011 Connie Willis si è aggiudicata i due maggiori premi del settore, cioè l’Hugo ed il Nebula, per il suo Blackout/All Clear. In Gran Bretagna, il British Science Fiction Association Award è andato a The Dervish House di Ian McDonald. Per l’horror, lo Stoker Award se lo è aggiudicato La cosa oscura di Peter Straub, pubblicato in Italia da Sperling & Kupfer. Infine ricordiamo chi ci ha lasciato nel 2011. Vittorio Cur-

toni, personalità di spicco della fantascienza italiana, curatore editoriale, autore egli stesso e traduttore, si è spento a Piacenza. All’estero, Joanna Russ è morta a settantatre anni. Autrice e critica femminista, la ricordiamo per il classico d’avanguardia Female Man. Ad ottantacinque anni è mancata Anne McCaffrey, indimenticata autrice della serie dei draghi di Pern (e di molte altre), mentre a cinquantadue anni muore L.A. Banks, famosa in Italia per la sua serie sui vampiri tradotta da Delos. Neil Barron, settantaseienne, bibliografo e scrittore, muore a Las Vegas. Più conosciuto, compilatore di centinaia di antologie, anche assieme ad Isaac Asimov, scompare anche Martin Harry Greenberg a settant’anni. Ricordiamo infine la scomparsa di Ion Hobana, critico rumeno il cui saggio 20.000 pagine alla ricerca di Jules Verne è stato tradotto anche in Italia; e Richard Bessière, scrittore francese conosciuto sulle pagine di Urania negli anni cinquanta per romanzi come Rotta Alpha Centauri e La crociera della Meteora. Infine, l’ultimo giorno dell’anno è scomparso Glenn Lord, esecutore testamentario e letterario di Robert E. Howard: a lui si deve la cura e la pubblicazione di molto del materiale edito dagli anni Settanta in poi. Per quest’anno è tutto, o quasi. Arrivederci al prossimo. (Riccardo Gramantieri)


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Esordio di Patrignani

VIAGGIO NEL MULTIVERSUM Leonardo Patrignani, Multiversum, Mondadori, 2012, pp. 345, € 16.

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persino morti. Da questa idea straordinaria – originata probabilmente dall’amara esperienza di un rendez-vous andato a buca – parte il romanzo d’esordio di Leonardo Patrignani, torinese, classe 1980, musicita e appassionato lettore di King, vero “enfant prodige” del fantastico, che è riuscito a far centro al primo colpo con Mondadori. Pubblicato nella collana “Chrysalide”, è rivolto a una fascia di lettori più giovani (tra gli undici e i sedici anni). Un settore quasi privilegiato. Infatti “il mercato dell’editoria per i giovani lettori – riconosce Fiammetta Giorgi, editor responsabile della Mondadori Ragazzi – è l’unico in crescita oggi in Italia”. Il che fa ben sperare. Anche se rivolto agli adolescenti, non ci sono dubbi che “Multiversum” possa interessare un pubblico adulto. Certo, può

ei gli dà appuntamento alle 11, sul molo di Altona (Melbourne, Australia); lui, da Milano, attraversa mezzo mondo per incontrarla. È la ragazza dei suoi sogni e non vuole perdere quell’occasione. Decide di imbarcarsi in quel lungo viaggio, da solo, appena adolescente. Il meno che si possa dire, è che sia una decisione azzardata. C’è sempre il rischio di uno scherzo, di un bidone planetario. E infatti, come capita a molti appuntamenti al buio, Jenny non c’è. Alex è deluso, ma non si perde d’animo. Ma l’apparenza inganna (come si scopre subito, anche se il lettore, messo sull’avviso dal titolo, l’aveva già intuito), perché invece lei è venuta. Stesso giorno, stessa ora, stesso luogo. Solo che sta in un universo In libreria: parallelo. L’incontro Giuseppe Panella è impossibile. A meno che uno dei Riccardo Gramantieri due non riesca a compiere un salto dimensionale. Le cose si complicano perché gli uniParanoia e delirio versi sono più di due narrativo nella e può accadere che letteratura Alex e Jenny, in altri americana del mondi paralleli, abNovecento biano caratteri diversi, storie diverse. pp. 160, euro 12. Oppure che siano Giuseppe Panella Riccardo Graman tieri IPOTES I

Paranoia DI COMPLO TT e american delirio narrativo O a del No nella lett vecento eratura La teo ria del

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G. Panella - R. Grama ntieri

com te della grande narplotto è la sostan una rete za narrati rativa fitti che si son ssima di avv americana del Nov va di gran par ersari del gerla con o annidati al modo di ecento. L’idea di suo vivere am vicende traddistingue tan interno per ericano sab pol della naz itiche verific to una serie mo otarla e distru ate scritta e ione” statuniten si fin dagli alb lto inquietante gpub di se, quanto ori della Attraverso blicata, specia “nascit la lett autori imp la ricostruzio lmente nel dop eratura che vien a ne oguerra e va da Wil ortanti e germin della fortuna di questo ali del Thomas liam Burroughs tema in Pynchon, a James Novecento am ambito ericano Ellroy pas Don Del fan (si porto del tascientifico Phi illo, Kathy Ack sando attrave rso er, di Stanle cinema, in particolip K. Dick, sen Philip Roth e in y za Ku lare trascur brick), il il celebre fino al suo tem Dottor Str are l’aprilevante: nocciolo psicol a viene condot anamo ne” con la paranoia am ogicamente e socto a mano a ma re tutt no eric iologica mente più e che anc e le tragiche con ana come “sp irit ora attu seguenze almente che essa o della naziocompor ha compor Giuseppe ta. tato Pan

ella Pisa. Poe ta e saggistinsegna presso matt e la la Scuola a, è aut Normale tore sper poetica della resp ore, fra le altre Superio imentale. cos ons re di (2008); Il Per la rico abilità umana e, di Friedrich Dürren(2005); Ém struzion figura lettesosia, il doppio, il replican e di una poetica ile Zola scritraria (200 dell te. Teoria 9). e analisi a modernità Riccardo critica di Gra man una curatele, tieri si occ traduzio upa di lett terarie ni e era arti spe tura “Nova Sf* cializzate com coli, sono apparsi e science ficti e lume mon ” e “Futuro Eur “IF Insolito&Fa su volumi e rivion. Sue opa ografico ste nta Metafisica ”. Ha recentem stico”, “Ferna letndel”, ente dell’evoluzi one in A.E pubblicato il voProgetto . van Vog grafico: t (2011). Piero Orsi

Solfanelli

Euro 12, 00

IPOTESI DI COMPLO TTO

IPOTESI DI COMPLOTTO

suonare improbabile che un ragazzino riesca a filarsela indisturbato dalla Malpensa a Melbourne, via Parigi, ma fa parte del gioco. Stimola l’immaginario e appassiona, seguendo le regole del patto narrativo che lega l’autore e il lettore in quella che si definisce “sospensione dell’incredulità”. E qui, di sospensione, ce ne vuole parecchia, visti gli innumerevoli trapassi da un universo all’altro, in una corsa contro il tempo, per salvare la Terra da un disastro (la minacciosa presenza di un asteroide in rotta di collisione). E poi le cadute in trance, la telepatia, le capacità quasi magiche dell’amico hacker, Marco, che risolve i casi più disperati: insomma, c’è tutto e di più per intrigare, complicare e sconvolgere. m i c r o m e g a Ma il risultato è s gradevole e tieGiusepp eP ne inchiodati alRiccardo anella Graman tieri IPOTESI la pagina fino DI COM Paranoia P LOTTO e delirio letteratu narrativ all’ultima riga. ra amer icana de o nella l Novece nto Bravo Leonardo! Merita una citazione anche la sovraccoperta di Roberto Oleotto, che gioca sull’assenza /presenza dei protagonisti in uno scenario apocalittico. (Carlo Bordoni) Solfanelli


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Per Vittorio Curtoni

LEzIONI DI LIBERTA’ ESPERIENzE DI FUGA Vittorio Curtoni, Dove stiamo volando, postfazione di G. Lippi, Mondadori, 2012, pp. 331, euro 5, 90.

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a produzione letteraria lasciata in eredità ai suoi lettori da Vittorio Curtoni risulta piuttosto esigua se paragonata a quella, molto ampia e di eccellente qualità, accumulata negli anni grazie al suo lavoro di traduttore, di redattore, di direttore di collana per le case editrici (La Tribuna di Piacenza, Armenia e Sperling & Kupfer di Milano) di cui è stato per lunghi anni l’animatore. Si riduce, tutto sommato, a un romanzo di media misura1, a quattro brevi raccolte di racconti2, a un saggio di ricerca e ricostruzione storiografica3 e a un esile libretto che raggruppa i suoi elzeviri (con qualche incursione narrativa) pubblicati sul quotidiano “La Libertà” della sua città natale, Piacenza (il luogo in cui ha trascorso tutta la sua vita di intellettuale e di uomo4. Se si eccettuano alcuni racconti di nitida espressività (come, ad esempio, il più classico “La sindrome lunare” o il complesso tentativo di psicoterapia letteraria compressa in “Luce”), la narrazione pubblicata nel 1972 costituisce il suo lascito letterario più significativo. E anche se si tratta di un romanzo un po’ datato nei temi e nelle ossessioni che espone e che esplora, si

tratta pur sempre di un testo narrativo di straordinaria forza espressiva proprio grazie alla ricerca formale che Curtoni ha condotto in esso e, soprattutto, attraverso di esso. Questo tentativo di rinnovamento a livello di forma espressiva esibita come tale, un progetto largamente confessato dal suo autore ma non certo molto comune all’epoca, lo rende, in qualche misura, simile e contemporaneo a quello presente nel primo romanzo pubblicato da Mauro Antonio Miglieruolo, Ladro di notte, all’epoca soltanto un giovane aspirante autore che proprio lui e Gianni Montanari provarono a lanciare pubblicandolo proprio nel 1972 in Galassia, la collana letteraria che dirigevano per la Casa Editrice La Tribuna.

La trama del romanzo di Curtoni si può riassumere con una certa tranquillità: in un futuro non ben identificato in ambito temporale, una guerra atomica ad alta intensità con caduta di bombe in centri abitati fittamente popolosi, oltre a distruggere in parte la popolazione esistente, ha prodotto la presenza di molti esseri umani “mutanti” che portano sul loro corpo, sia con la loro mancanza di organi sia mostrando forme esteriori sgraziate o minute o ridicole, lo stigma delle radiazioni subite dalle loro madri prima della loro nascita. Il Narratore della storia, Charles, non presenta caratteristiche sessuali precise e non sa attribuirsi con precisione a un genere unico: quando deve definirlo con un aggettivo che ne individui l’appartenenza a uno dei due sessi fisiologici, infatti, Curtoni ne usa la variante maschile accompagnandola sempre con quella femminile (questo, comunque, accade nel romanzo finché, con un’operazione chirurgica di apertura di una vagina artificiale, egli diventerà definitivamente una lei con caratteri sessuali molto più identificabili). I “mutanti”, dunque, recano sul loro corpo le conseguenze della caduta di bombe atomiche che hanno contemporaneamente raso al suolo le grandi città del mondo e costretto i superstiti a ricostruirle in modo provvisorio e incerto5.


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116 La copertina di Bianco su Nero. A destra: una delle ultime immagini di Vittorio Curtoni (1949-2011)

Per i loro caratteri fisici spesso orripilanti, sono stati ristretti e ammucchiati tutti in una località che viene denominata Ghetto e che si trova non lontana da Nuova Parigi. Charles viene convinto dal padre a recarsi nella località dove sono radunati i suoi simili per evitare maggiori persecuzioni da parte della polizia. Il viaggio verso Nuova Parigi compiuto in compagnia di Ivo, un essere piccolissimo che vive con lui da sempre, si rivela fondamentale per gli incontri che il ragazzo/a effettua nel corso di esso. Non solo si confronterà con una realtà umana che non conosceva affatto ma sulla strada farà incontri significativi: troverà, ad esempio, il contadino Jacques che gli chiederà di restare con lui, la moglie Jeannette e i suoi due figli, nonostante sia una creatura molto “diversa” da loro. Ma se pure Charles avesse avuto delle perplessità a continuare il viaggio, la donna di Jacques gli farà capire che non è gradito/a in quella casa e gli griderà in faccia come la sua condizione di “mostro” lo renda un reietto che è stato marchiato da Dio come futuro dannato. Ma, ancora più significativo, sulla strada per Nuova Parigi troverà Cristo che è ritornato sulla Terra per tornare a predicare il suo Verbo. Nonostante la tentazione di seguirlo, però, Charles deciderà di non andare con lui nonostante gli sia stato richiesto esplicitamente dal Maestro: «Eppure, in fondo, qualcosa di

mio si ribellava. Oh, era così dolce, così invitante, ma mi sembrava troppo facile, e probabilmente ingiustificato. – Era necessario che tu tornassi? – gli ho chiesto. – Molti anni fa – mi ha risposto – questo mondo è caduto nel peccato e la mia morte lo ha redento. Ho lavato col mio sangue le vostre colpe e le lance dei soldati hanno ferito il mio costato. Adesso siete di nuovo sull’orlo dell’abisso. Il demonio protende i suoi artigli sull’uomo e occorre un secondo sacrificio. Così ha deciso il Padre Mio, e io Gli ho obbedito. Volgeva attorno lo sguardo, carezzando le cose che i suoi occhi incontravano. Visto da vicino, era un uomo comune, identico a tanti altri? Un pazzo? O il vero figlio di dio, investito d’una missione tragica per la nostra salvezza? Non sapevo decidere… »6. Giunto finalmente a Nuova Parigi e ospitato nel Ghetto dopo una umiliante perquisizione da parte delle sentinelle che vi montano la guardia, si incontrerà con i “mutanti” che vi abitano. Si legherà di grande amicizia soprattutto a Cristian con il suo bizzarro unico occhio in mezzo alla fronte, una sorte di Polifemo buono e sentimentale e poi a Nadine, una ragazza grassa, informe e sgraziata che sogna l’amore romantico (e riceve dagli uomini soltanto quello fisico). Ma soprattutto si concederà completamente a Pierre, un ragazzo che si sorregge su una sola

gamba, che si è perdutamente innamorato di lei. Per amor suo, Charles uscirà dal ghetto per sottoporsi ad un’operazione decisiva per il suo destino: un chirurgo apparentemente cinico e svogliato ma ancora convinto dell’importanza della propria professione la renderà definitivamente donna. Ma quando si è ormai convinta di aver conosciuto la felicità con il suo uomo, esplode il dramma. Aizzati da Michel, un demagogo furibondo e illuso che è scappato dal Ghetto, i mutanti provano a mettere in atto un’insurrezione armata per prendere il potere e vengono totalmente sterminati. Anche Pierre verrà ucciso nello scontro con i militari. Disperata, la ragazza fuggirà verso il mare dove si ritroverà di fronte suo padre. Scoprirà, con angoscia e orrore, che non si tratta del suo vero padre ma di un uomo che l’ha allevata e che poi si è innamorato di lei e che l’ha mandata verso il Ghetto dei “mutanti” perché, una volta fattasi operare, potesse essere usufruibile come donna compiutamente fornita di organi sessuali per il suo forsennato desiderio di possederla. Dopo essere stata violentata dal suo padre putativo, approfittando del sonno in cui è sprofondata, la ragazza, novella Judith, sgozzerà l’uomo con un temperino e si lascerà morire sulla sponda del mare, convinta del fatto che per lei non c’è più possibilità di scampo in un mondo desolato e inumano come quello


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VALVOLE E BIOORGANISMI in cui avrebbe dovuto vivere se fosse sopravvissuta. Quello che fa la differenza rispetto ai romanzi di fantascienza di produzione italiana è lo stile cui Curtoni fa ricorso nella sua pratica di scrittura: teso e fortemente concentrato nell’uso di aggettivi e di avverbi, reso molto articolato dalle potenti e complesse subordinate che lo arricchiscono nel giro dei periodi che costituiscono la narrazione, in molti casi la prosa romanzesca del libro tende ad andare oltre il confine che la definisce per attingere, in maniera folgorante, al regime connotativo della descrizione lirica con l’uso di un calligramma7. L’ambizione di Curtoni, dunque, più sulla originalità della trama si concentra sulla novità di un progetto letterario che non si rassegna ai parametri del genere ma vuole mostrare le linee di fuga di una prepotente libertà espressiva. (Giuseppe Panella) 1 Si tratta di Dove stiamo volando, pubblicato per la prima volta nel 1972 per la Casa Editrice La Tribuna di Piacenza, ristampato e riproposto in “Urania Collezione” del 2012, quasi una sorta di omaggio postumo alla sua carriera (ma pensato e assemblato da lui stesso e da Giuseppe Lippi prima della sua scomparsa). 2 Le quattro raccolte di racconti di Curtoni sono: La sindrome lunare e altre storie. 8 racconti, Milano, Armenia, 1978 (alcuni dei racconti contenuti in essa vengono riproposti in Dove stiamo volando cit.); Ciao futuro, Milano, Mondadori,

2001 (Urania 1406); Retrofuturo, con una prefazione di Valerio Evangelisti, Milano, Shake Edizioni, 1999 e Bianco su nero e altre storie, Milano, Delos Books, 2011 (il libro è uscito praticamente in limine mortis). 3 Le frontiere del futuro. Vent’anni di fantascienza italiana (Milano, Nord, 1977) è la rielaborazione della tesi di laurea di Curtoni in Storia della letteratura italiana contemporanea discussa presso la Statale di Milano con Sergio Antonielli (prestigiosa quanto sottovalutata figura di critico e di romanziere in proprio che sarà sempre ricordata con molto affetto dal suo vecchio scolaro). 4 Il libro si intitola Trappole in libertà e fu pubblicato dalle Edizioni Pontegobbo di Piacenza nel 2004. Conservo ancora con affettuosa ammirazione la copia che Curtoni mi regalò con una dedica molto cordiale nello stesso anno di pubblicazione della raccolta, quando ci incontrammo per la prima volta a Piacenza. 5 L’idea della mutazione genetica quale conseguenza del lancio di bombe atomiche nel corso di un grande conflitto generalizzato è anticipata nel racconto “Ritratto del figlio” del 1968 (presente ora in Dove stiamo volando cit., pp. 133-157). 6 V. Curtoni, Dove stiamo volando cit., pp. 43-44. Il capitolo “Il volto” in cui si racconta dell’incontro con il Cristo era stato espunto dalla prima edizione del romanzo e ripristinato per questa occasione. Peculiare caratteristica del romanzo è che ognuno dei capitoli che lo costituiscono hanno come intestazione il titolo di un film di Ingmar Bergman, evidentemente un regista amato dall’autore. 7 V. Curtoni, Dove stiamo volando cit., p. 128.

Riccardo Donati, Valvole e polmoni, Tabula Fati, Chieti 2012, pp. 135, euro 11.

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na space-opera, giustamente denominata a rotta di collo, quella scritta da Riccardo Donati, autore di diversi volumi sulla letteratura europea e qui al suo debutto nella fantascienza avventurosa. Romanzo breve e veloce, caratterizzato da riferimenti cinematografici fantascientifici, suggestioni bio-meccaniche e, non ultimo, da una ricerca linguistica non banale. Proprio quest’ultima è la caratteristica principale del libro, capace di trasformare una classica space-opera alla Guerre Stellari (i due protagonisti ricordano sicuramente la coppia Han Solo e Chewbecca, e gli ambienti fanno riferimento a quelli dell’indimenticabile bar galattico) in una farsa scanzonata, ma sotto sotto pensosa, alla Amici Miei in versione mutante. Questo perché la scrittura, i commenti e le esclamazioni sono di evidente matrice fiorentina, con tutto ciò che ne consegue in termini di goliardia (e anche la distribuzione dei ruoli cinema- tografici a fine volume è da vedersi in quest‘ottica). I protagonisti di queste bischerate galattiche sono Aquila, che ha la faccia di John Belushi (e anche il nome, ovviamente, dal più famoso dei suoi film) ed il mutante Muffa, con le fattezze di Mario Adorf, dotato di quattro braccia, muto ma ca-


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TULLIO AVOLEDO

METRO 2033 SBARCA IN ITALIA pace di comunicare con il cambiamento del colore della pelle, che si modifica con le sensazioni e le percezioni empatiche. Contrabbandieri scavezzacollo, corrono per l’universo a bordo di una navetta costituita da parti meccaniche ed organiche, trasportando materiale di qualsiasi tipo. Quando inizia l’avventura descritta nel libro, i due hanno appena perso i giocattoli sessuali (altrimenti detti Organi Sessuali Bio-Organici Ricreativi Nongenerativi) presenti sulla nave per necessario trastullo quotidiano, disperdendoli sui tetti di Lammath. Imprigionati, vengono subito assoldati, pena la morte, per un incarico pericoloso che li porterà in nuova scorribanda per la galassia (e anche qui l’omaggio cinematografico è a Jena Plinski di 1997: fuga da New York). Ma il romanzo non riprende solo suggestioni filmiche: non mancano infatti i riferimenti al fantastico classico (il coboldo), felici invenzioni linguistiche (i raggi fotocaustici, la stomaporta, il pianeta umorale, e mille altre), personaggi fuori di testa alla Ron Goulart, e soprattutto un gusto per il bizzarro che descrive il nostro futuro prossimo come un mondo scombinato e popolato di assemblati anatomici e meccanici (da qui il titolo del romanzo) per il quale vale il detto “di una creatura vivente non si butta via niente“. (R. G.)

Tullio Avoledo Metro 2033 – Le Radici del Cielo, Edizioni Multiplayer.it, € 19,00, pp 438

N

el lontano 2002, dalla mente fantasiosa del giovane scrittore moscovita Dmitry Glukhovsky, nacque un interessantissimo caso editoriale, originariamente in web e poi sul cartaceo, dal titolo Metro 2033. Ci troviamo di fronte ad un ottimo esempio di distopia difatti nel 2033, dopo una catastrofe nucleare, i pochi sopravvissuti si trovano a vivere nelle gallerie della metropolitana di Mosca. Ogni stazione diventa uno stato, lo sfondo perfetto per storie e viaggi avvincenti. Dopo essere stato d’ispirazione ad un videogioco (THQ 2010), e dopo aver raggiunto le 300 mila copie vendute solo in Europa, tradotto in 35 lingue, ora le ambientazioni postἰapocalittiche dei romanzi di fantascienza di Glukhovsky diventano un modello da internazionalizzare. E l’Italia non poteva esimersi da questa esperienza, visto anche il suo passato sul fronte apocalittico con le pellicole di Sergio Martino o il gioco di ruolo Sine Requie e la sua ambientazione italica Sanctum Imperium. A cimentarsi in questa esperienza metropolitana è Tullio Avoledo, che per le Edizioni Multiplayer .it, dipinge il suo spin-off a tinte forti dal titolo Metro 2033 – Le Radici del Cielo. La Roma del 2033, quella post Giorno del

Giudizio, o Tribolazione come lo chiamano le autorità ecclesiastiche, è una città ormai morta fatta solo di rovine. I suoi abitanti non sembrano ormai avere più niente di umano. Quel che resta dell’autorità è incarnato dal potere temporale della Chiesa Cattolica che ha il suo quartier generale nelle catacombe di San Callisto dove vivono un centinaio di persone in una situazione di confusione e perdizione. Il Papa è morto con la prima bomba atomica caduta sull’Urbe e il potere sembra ormai prendere quasi del tutto verso la parte laica di questa comunità che prende in nome di Comune. Delle tre famiglie maggiorenti i Mori sembrano infatti essere vicini alla piena detenzione del potere, è sarebbe una tirannide spietata visto che si parla una famiglia senza scrupoli e morale. Il cardinale Ferdinando Albani, unico e ultimo rappresentante del Conclave, è riuscito ad ottenere da questa famiglia il permesso di compiere una spedizione a Venezia. All’interno della basilica di San Marco sarebbe, infatti, disponibile un tesoro di inestimabile valore che il cardinale vorrebbe portare a Roma. In realtà però il cardinale Ferdinando Albani ha tutt’altro in mente. Sembra, infatti, che a Venezia viva il Patriarca della città. Riuscire a portarlo a Roma significherebbe poter di nuovo convocare un concilio per eleggere un nuovo Papa e fare in modo che il potere


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non vada nelle mani delle persone sbagliate. Per riuscire in questa impresa il cardinale convoca John Daniels, un sacerdote americano che si trovava proprio a Roma il giorno della distruzione dell’intera città e che ora occupa il ruolo di capo dell’Ufficio per la Dottrina della Chiesa, ossia una moderna e più blanda Inquisizione. John Daniels decide di seguire il cardinale in questa segreta missione e sarà scortato in questa avventura da un drappello di guardi svizzere capeggiate da Durand. In questo suo viaggio padre Daniels vedrà orrori inenarrabili: cannibalismo, mutanti, fanatici religiosi, recrudescenze di paganesimo e capirà che non sempre i veri mostri sono coloro che non hanno l’aspetto umano… Un libro accattivante che unisce alla componente distopica anche una scia horror, gotica e spystory. Ma per saperne qualcosa in più abbiamo parlato con l’autore. Come nasce uno spin-off made in Italy? Nasce dall’incontro tra me e Dmitry Glukhovsky al Salone del Libro di Torino, due anni fa. Io e mio figlio, che allora aveva 14 anni, eravamo due giocatori appassionati del videogame tratto da Metro 2033. Mio figlio aveva anche letto il romanzo, io ancora no. Avevo chiesto via mail alla casa editrice Multiplayer.it se era possibile combinare un incontro, e tra un impegno

mio e uno di Dmitry (al Salone avevamo un’agenda di impegni che si sovrapponevano, purtroppo) siamo riusciti a parlare per un quarto d’ora, più o meno. E mentre io ero più interessato a una patch del gioco che facilitasse il rifornimento di munizioni, Dmitry, venuto a sapere che ero uno scrittore, mi ha esposto l’idea del suo “Metro Universe”, vale a dire la collaborazione all’universo narrativo di Metro 2033 da parte di scrittori non solo russi, ma anche internazionali, in un progetto globale che mi ha da subito affascinato. Il mio “why not” non troppo impegnativo di allora si è poi trasformato - nel corso di altri due incontri e di uno scambio di mail e chat in Google Talk - nel mio gioioso arruolamento nella squadra di persone che sta facendo di Metro 2033 qualcosa di molto più, e di molto diverso, da un semplice ciclo di romanzi. Il “Metro Universe” coinvolge non solo scrittori ma anche illustratori, musicisti, programmatori di videogame. E’ una squadra di cui sono molto fiero di par parte. Collaborare, per dire, con gli illustratori alla scelta delle immagini per l’edizione russa, compresa la copertina che trovo splendida, è stata a sua volta un’esperienza. Com’è confrontarsi con un universo come quello creato da Glukhovsky? Richiede, essenzialmente, rispetto reciproco: da un lato per i

due libri scritti da Dmitry e per l’universo non solo letterario che sta loro dietro; dall’altro, simmetricamente, per l’indipendenza dello scrittore, se non si vuole che uno spin-off sia solo un lavoro mercenario, a basso contenuto artistico, come succede per l’infinita serie di romanzi ispirati a Star Wars, tanto per fare un esempio. Questa situazione di rispetto reciproco era il presupposto per scrivere un buon romanzo. Poi ovviamente ho avuto da Dmitry la massima libertà per quanto riguarda la scelta degli scenari, dei plot, e per la “localizzazione” della storia, a patto di non entrare in conflitto con i presupposti base del suo ciclo narrativo: niente viaggi nel tempo, ad esempio, niente alieni, niente magia, eccetera. Ne abbiamo discusso per un pomeriggio, seduti a un tavolino di un bar veneziano accanto al teatro La Fenice. Mi chiedo cosa abbiano pensato i camerieri, che capivano l’inglese, sentendoci parlare di inverno nucleare, mostri mutanti e altre cose del genere… Per il resto la libertà creativa è stata massima, e ritengo che il risultato si veda. Come mai la scelta di un’ambientazione vaticana? Essenzialmente perché il romanzo è nato da una domanda filosofica, che sia io che Dmitry, ognuno per conto suo, ci eravamo posti, e sulla quale ci siamo spesso confrontati: come potrebbe sopravvivere la fede


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cristiana (o, se è per questo, qualsiasi fede) alla fine del mondo? Una fine del mondo fatta dalla mano dell’uomo, senza giudizio, senza nessuna distinzione tra buoni e cattivi. E soprattutto senza resurrezione dei morti… Chi meglio di un sacerdote cattolico potrebbe essere il protagonista di una quest religiosa ispirata a simili domande? Qui avevo ovviamente calda in mente, anche dopo tanti anni, la memoria di un romanzo classico di fantascienza come Un cantico per Leibowitz di Walter Miller Jr., e anche dell’affascinante e disturbante Deus Irae, scritto a quattro mani da Philip Dick e Roger Zelazny. Poi a giocare a favore dei sotterranei antichi c’era un fattore pratico: la metro di Roma è troppo piccola, e soprattutto troppo poco profonda, per fornire uno scenario efficace. Le catacombe di San Callisto, invece, erano un’ambientazione perfetta. Anche se mi hanno procurato uno shock: a settembre, quando il romanzo era ormai finito e in sede di revisione delle bozze, sono andato in prima fila a sentire Glenn Cooper, uno scrittore americano che amo, l’autore di La biblioteca dei morti. E quello, annunciando la trama del suo prossimo romanzo, non ti dice che sarebbe stato ambientato proprio nelle catacombe di San Callisto? Il presentatore, Luca Crovi, mi ha detto che sono sbiancato, nel sentire quelle

parole… Alla fine, per fortuna, i due libri sono risultati completamente diversi, e San Callisto è risultata grande abbastanza per accogliere due autori… Se dovesse dare una definizione di genere al suo libro quale sarebbe? Mi piace molto la definizione di urban fantasy. Esprime bene l’atmosfera del romanzo. Sì, decisamente un urban fantasy. Parliamo ora del suo personaggio Padre Daniels... E’ un uomo che, visto quello che ha visto, dovrebbe aver perso la fede. Invece ha capito che la fede non è un idolo d’oro, ma un chiodo arrugginito, che devi toglierti dalla carne. Non un regalo, ma una conquista. John Daniels all’inizio del libro è un pezzo di metallo informe, che viene temprato dagli orrori e dai pericoli del viaggio fino a diventare una lama affilata. La sua fede cambia, si adatta. Padre John giunge a fare cose che non avrebbe mai pensato di poter fare, cose che a volte contraddicono radicalmente gli insegnamenti ricevuti ma che sono invece perfettamente in linea con il nuovo, terribile mondo creato dall’olocausto nucleare. Si può dire che durante il suo viaggio ricostruisce dalle fondamenta la sua fede, per poter affrontare ad armi pari l’orrenda e al tempo stesso affascinante rivelazione finale dei poteri del Patriarca, una rivelazione da-

vanti alla quale John dovrà fare una drastica scelta, che io lascio aperta, in modo che ogni lettore possa farla da solo. Il finale fa presagire ad un seguito ma potrebbero esserci altre avventure su e giù per lo Stivale magari con nuovi protagonisti? La bellezza del “Metro Universe” è che è un progetto aperto, nel senso che ognuno che si senta in grado di collaborare può farlo, prendendo contatto con Dmitry. Un’altra delle regole del “Metro Universe” è che non puoi nominare città o luoghi che non esplori direttamente nel corso del romanzo. Io ho violato leggermente la regola inserendo un riferimento a Firenze, che secondo me è una location fantastica, e che spero nessuno si accaparri prima di me. Comunque l’Italia è grande, c’è posto per un sacco di romanzi. E di scrittori. Personalmente ho già in mente la trama di un possibile seguito, e ho già scelto personaggi e ambientazioni. C’è un posto fantastico, a Roma, che sinora, incredibilmente, nessuno scrittore ha sfruttato. L’ho già prenotato. Incrociando le dita in attesa del prossimo romanzo di Glenn Cooper, o di Dan Brown… (Vito Tripi)


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L’AMORE FELICE DI GUIDO CERONETTI Guido Ceronetti, In un amore felice, Adelphi, Milano, 2011, pp. 312, € 19.

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arebbe stato interessante se In un amore felice fosse stato presentato come opera di Aristide Carneade. Ma l’autore è Guido Ceronetti, e allora (lo dico senza ironia) deve trattarsi di cosa di notevole interesse seppur apparentemente oscura e involuta a partire dalla scelta bizzarra di presentare come personaggi principali un uomo e una donna che mai potrebbero vivere un amore felice, almeno in un contesto di “normalità”. Sta quindi al lettore individuare la chiave di lettura. Se non riesce a trovarla dipenderà da lui e non dall’autore che, come abbiamo detto, non si chiama Aristide Carneade e il suo lavoro appare per i tipi di una prestigiosa casa editrice quale è Adelphi. Appartenendo io a questo gruppo di lettori, il compito di interpretare In un amore felice corre sul filo di un rasoio lungo il quale, se si sbanda da una parte, si potrebbe venir tacciati di piaggeria, se si sbanda dall’altra si potrebbe essere etichettati come mediocri per non avere la capacità di interpretare esattamente l’opera di un autore di indiscusso e conclamato valore, il quale non può produrre opera che non sia di alto livello. C’è inoltre un altro fattore determinante: in questo romanzo viene toccato anche un filone di

narrativa particolare e cioè la science fiction. Questo filone, appartenente alla narrativa non mimetica, in Italia ha una storia del tutto particolare rispetto alle altre correnti più o meno sperimentali che appartengono a movimenti ormai consolidati. Malgrado siano trascorsi oltre sessant’anni da quando la science fiction si è presentata sul mercato, la sua vera natura non è stata ancora interpretata correttamente dalla critica ufficiale nel suo polimorfismo che si espande da avventuroso escapismo ad indagine sulla situazione sociale ed esistenziale dell’uomo in una realtà tecnologica che lo manipola sempre più, costringendolo in un ingranaggio di autoannientamento fisico e psicologico fino a cancellare certezze consolidate sulla sua posizione in un contesto universale: sono infatti ricorrenti i risultati rivoluzionari che i telescopi orbitali annunciano con agghiacciante ironia. Non è il caso di dilungarci sull’insolito approccio che la critica ufficiale dedica alla science fiction (ripetitivi elogi alla manciata di nomi stranieri in occasione di film tratti da loro libri) poiché l’argomento meriterebbe un capitolo a sé, però in questo suo romanzo Ceronetti parla anche di alieni, dischi volanti, Roswell e altri topoi della proto science fiction anni ‘50, e allora devo ribadire che, se que-

st’opera fosse firmata da Aristide Carneade, potrei affermare senza timore che si tratta di neofita oppure di scrittore maturo che si è fermato a Wells, oppure di scrittore noto che, spinto da impulso sbarazzino, abbia voluto entrare in spazi abitualmente a lui estranei. Insomma un ghiribizzo intellettuale. Non sarebbe stato il primo, già altri nomi illustri si erano avvicinati alla science fiction quand’essa era in al tempo delle prime imprese spaziali: Arpino, Buzzati, Facco de Lagarda, Flaiano, Landolfi, Zolla, Primo Levi, Vacca, Moravia... tutti personaggi che hanno dato il loro contributo valido letterariamente ma non sentito, o meglio sentito unicamente come sperimentazione sui topoi provenienti da oltre oceano mediati da retaggi umanistici e quasi sempre virati sul grottesco, sull’ironico e comunque epidermici. Ecco, la mia prima impressione nel leggere In un amore felice è stata che la componente fantastico-scientifica fosse stata ‘appiccicata’ con il collante del cliché. Ma perché mai uno scrittore cult, fuori dal coro, che in ottantacinque anni di vita ha scritto di


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tutto, tradotto classici latini, greci, francesi e tedeschi, studioso dei Sacri Testi e chi più ne ha più ne metta, propone pezze giustificative di proto science fiction da proto fumetti? Evidentemente, trattandosi di Ceronetti, voleva dire cose non banali, e quindi ogni parola e ogni situazione sono state senz’altro scelte oculatamente (alla fine della sua introduzione Lettrici, lettori miei, avverte: “Lettore, non dimenticare la parola di Artaud: ‘L’universo è stregato’.) D’altra parte è sufficiente vedere come propone un “amore felice” tra un vecchio di settantacinque anni e una giovane donna, poco più di una ragazza; come presenta il loro incontro “ad un incrocio”, punto emblematico da dove scaturiscono percorsi ignoti, imprevedibili; come esprime il “bisogno di trascendenza” e quindi colloca la storia negli anni ‘50 del secolo scorso allorché per la prima volta l’uomo si è affacciato fisicamente e spavaldamente allo spazio; e soprattutto come questo “amore felice” si collochi in una dimensione “altra” allorché leggiamo quotidianamente come nella realtà sempre più coppie si distruggono psicologicamente e fisicamente in rituali appartenenti alla barbarie più cieca. E per ultimo, ma non certo ultimo, vediamo come la sua prosa, in questo “romanzo in lingua italiana” sia un continuo esercizio acrobatico al cui impatto il giovane lettoretipo di oggi si troverà stordito se

non sconvolto. Il giocoliere Ceronetti gioca di fino con le parole come fossero bolle di sapone dai colori cangianti, e a dispetto di certi usi consolidati il testo è disseminato di allitterazioni e assonanze. Qualche esempio? “Il resto della gravidanza fu di crescente riluttanza“ (pag.65); “Ti prego, Nada mia: cerca di essere in armonia con Temistia” (pag.133) ; “... suoni sguaiati di stradivari fracassati...“ e “Giusepponi distribuì alcuni ceffoni “ (pag.141); “... stracci statici stratificati. I suoi pezzetti di carta mani anonime li buttano in sottostanti laghi di stracci dalla torre grigia altissima di un irrangiungibile gineceo di recluse“ (pag.308). Ci viene da pensare a Umberto Eco che nel suo “breviario di consigli per scrivere bene” dice a questo proposito al capo primo e a modo suo: “Evitate le allitterazioni anche se allettano gli allocchi“. E allora, analizzando capitolo per capitolo, parola per parola, seguendo riferimenti e traducendo ammiccamenti (a proposito di allitterazioni e assonanze), ecco che anche la science fiction d’autore diventa parte integrante e necessaria nell’economia del romanzo, allineandosi a luoghi, personaggi e accadimenti. E così mi accorgo che più ci penso e più potrei inserire questo romanzo anche tra quelli di science fiction umanistica di cui anche noi italiani

possiamo essere ottimi rappresentanti. Basterebbe quell’incontro “ad un incrocio” per trasferire l’intera storia di un rapporto teorico nella realtà di uno di quegli infiniti universi paralleli di cui le strambe leggi quantistiche ci fanno intravedere possibilità inconcepibili di esistenze, senza dimenticare Il giardino dei sentieri che si biforcano di Jorge Luis Borges.’ La dimensione descritta da Ceronetti potrebbe infatti avvenire anche in un mondo “altro” in cui, ricordando Heidegger, ci sentiamo “gettati” e nel quale Aris con-è con Ada, non convive con lei, esperienza sempre meno possibile nella nostra dimensione dove, in una realtà sempre più affollata, ci sentiamo sempre più soli. A questo punto mi accorgo di un’altra cosa, e cioè che del racconto ho detto ben poco. Ma forse è un inconscio escamotage per invitare a leggerlo. Potrà piacere o non piacere, ma, se non altro, sarà comunque ottima occasione per accorgersi di come la lingua italiana, confrontata con quella usata in ossequio a Internet, SMS e blog vari, si stia spegnendo. Come afferma Ceronetti nella sua introduzione. (Renato Pestriniero) N. B. Nella Lettera sulla felicità Epicuro dice in una lettera a Temista di Lampsaco che immagina di fare l’amore con lei.


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DREAM A LITTLE DREAM OF ME X’ED OUT DI CHARLES BURNS Charles Burns, X’ed Out, Rizzoli Lizard, 2011, pp. 52, € 19,90.

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a figura di Charles Burns rappresenta un ponte tra la generazione del fumetto underground anni Settanta – il suo esordio avvenne infatti sulle pagine di “Raw”, cui seguirono collaborazioni con le nostre “Valvoline” e “Frigidaire” – e la sensibilità del fumetto d’autore più strettamente contemporaneo. Nella sua ormai più che trentennale esperienza creativa, con una produzione limitata a pochi ma significativi titoli, Burns è stato capace di distillare umori, sogni e bassi istinti della società americana come forse solo altri due grandi fumettisti dei nostri giorni: Daniel Clowes e Matt Groening. Le storie di Charles Burns si ambientano in un universo dove realtà e incubo continuamente si compenetrano, entro una sorta di limbo spettrale, erotico e mortifero insieme, che condivide non poche ossessioni con il cinema di David Lynch. E in effetti molti sono i punti di contatto tra le opere dei due artisti, solo che si pensi a un film come Velluto blu (1986) o alla serie I segreti di Twin Peaks (1990-1991) e li si metta in parallelo con i dodici capitoli di Black Hole (19932004), ad oggi l’opera maggiore di Burns. Stessa ambientazione, la profonda provincia americana, stesso interesse per gli impulsi e i segreti più incon-

fessabili di adolescenti imprigionati in una sorta di tempo congelato, di eterni Fifties che dietro una facciata da sogno caramelloso stile Happy Days nascondono insidie addirittura letali. Sia Lynch che Burns portano in scena comunità suburbane dove le pulsioni vitali dell’adolescente, la sua curiosità e la sua voglia di trasgressione costituiscono colpe inespiabili, da condannare senza appello; comunità cioè che tendono a considerare la gioventù come un corpo estraneo, un’anomalia irriducibile e dunque da sopprimere. Tanto Laura Palmer quanto i protago-

nisti di Black Hole finiscono insomma per meritare il loro destino di morte, se il desiderio è una malattia che trasforma i corpi rendendoli invitantem e n t e mostruosi: nel che è a un altro regista, David Cronenberg, che si dovrà pensare, al suo cinema fatto di contaminazione biologica, di mutazioni estreme e dismorfiche. Tutto il mondo di Burns lo ritroviamo nel suo ultimo lavoro, X’ed Out (che potremmo tradurre: “Tagliato Fuori”), annunciato come prima parte di una trilogia. Anche in questo caso il protagonista è un adolescente, Doug, che si risveglia (o forse no) malato e con una seria ferita alla testa solo per entrare in un mondo da incubo, una sorta di casba popolata da bizzarre creature fantastico-demoniache. Schiacciando sul pedale del perturbante, nelle scene oniriche Burns crea un doppio fumettistico di Doug, Nitnit, che rinvia


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PROSPERI

VATIkAN CONNECTION chiaramente ai tratti di un Tintin stilizzato (la copertina del volume cita apertamente L’Étoile mystérieuse, 1942, ma le allusioni al fumetto di Hergé sono numerose). Nella everyday reality, mostrata al lettore sotto forma di brevi sequenze di ricordi, Doug si aggira smarrito in un mondo cupo e desolato, dove gli adulti tendono a eclissarsi e i ragazzi cercano di crescere come possono tra timide manifestazioni di un ribellismo tutto intellettualizzato (le aspirazioni artistiche di Doug, che rinviano ai nomi di due autori non a caso “disturbanti” come William Burroughs e Lucas Samaras), evidenti segni di fragilità emotiva e una morbosa attrazione per il macabro e le pratiche autolesionistiche. Mondo onirico e mondo reale sono poi accomunati dalla presenza di oggetti, simboli e figure ricorrenti, la cui natura inquietante è accentuata dall’impossibilità di comprenderne o anche solo immaginarne il significato. Come sempre, in funzione di straniante contrappunto rispetto ai temi trattati, interviene in Burns una metrica della tavola assolutamente rigorosa, con la scansione regolare delle vignette e il ricorso a un tratto netto, marcato, qui arricchito da vivaci gamme cromatiche. Il seguito della storia dirà se, come sembra, le vicende di Doug rappresentino l’ennesimo capolavoro del fumettista statunitense. (Riccardo Donati)

Pierfrancesco Prosperi, Vatikan, Tabula Fati, Chieti, pp. 160, € 12.00.

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opo le incursioni islamiche in un futuro distopico – La Moschea di San Marco (2007) e La casa dell’Islam (2009), entrambi pubblicati da Bietti – Prosperi torna sui temi religiosi, nei quali si muove con grande abilità, questa volta entrando a gamba tesa in quello che è sempre stato considerato un tabù: la Chiesa cattolica. Elementi distopici, satirici e di gustoso riferimento alle crisi economiche del nostro tempo caratterizzano questo indovinato romanzo. Vatikan conferma la versatilità e l’abilità narrativa di un autore italiano tra i più validi della narrativa fantastica, capace di unire l’invenzione allo sguardo ironico e divertito. Con una scrittura scorrevole, gradevole e incalzante. Doti rare, di questi tempi, dove i “grandi nomi” che fanno cassetta e sono contesi dalle più prestigiose case editrici hanno bisogno di sostenuti rinforzi da parte di un accurato lavoro di editing. Roma 2032: la Santa Sede è sull’orlo della bancarotta per crisi di fedeli, di vocazioni, di offerte. Il Pontefice ha ricevuto una concreta proposta di acquisto in blocco del Vaticano da parte di una multinazionale, e si

teme che neppure la vendita dell’immenso patrimonio immobiliare della Chiesa potrà salvare la città di Dio dal fallimento. Roma 2051. In vent’anni la situazione è radicalmente cambiata. La scoperta di vestigia cristiane su un lontanissimo pianeta ha ridato nuova linfa alla Fede e risollevato le sorti del cattolicesimo, che aspira a tornare agli antichi splendori. Ma una serie di delitti sconvolge il Vaticano sollevando sinistri interrogativi, e il sospetto di un gigantesco complotto inquieta gli addetti alle indagini, timorosi di trovarsi di fronte a segreti troppo grandi, a trame inconfessabili. Vatikan esce nella nuova collana di Tabula Fati, “Sci-Fi Collection”, che ha pubblicato romanzi di Mauro Conitni, Riccardo Donati e Renato Pestriniero.


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URANIA MILLEMONDI

ITALICI MONDI OLTRE LA SOGLIA

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’estate scorsa Sergio Altieri ha lasciato la guida delle collane da edicola della Mondadori (Gialli, Segretissimo, Urania, Harmony e relativi supplementi) per dedicarsi alla sua attività di scrittore di robusti romanzi e racconti “di genere” (con il noto e trasparente pseudonimo di Alan D. Altieri), di traduttore e sceneggiatore. Durante il periodo della sua gestione tutte queste collane hanno subito alcune modifiche a mio giudizio positive: la mescolanza d “generi” e l’ingresso di firme italiane in modo abbastanza massiccio, dato che in precedenza già apparivano ma saltuariamente. L’importante progetto non ha però trovato d’accordo la base dei lettori delle diverse collane che si sono rivelati ortodossi tradizionalisti che poco amano i cambiamenti quando espliciti (cioè, quando la firma italiana è esplicita, perché se non lo è ed è camuffata da straniera, come nel caso di Harmony e Segretissimo, la questione è diversa). Franco Forte, un altro scrittore e critico da anni in campo, ha preso il posto di Altieri e si trova adesso a gestire una situazione nuova, aggravata dalla crisi dell’editoria, conseguenza della più generale crisi economica,e speriamo che lo faccia nel modo migliore possibile: ne ha tutte le qualità. Intanto continuano ad uscire testi che Altieri aveva selezionato e che dimostrano, se ce ne fosse ancora bisogno, che gli au-

tori italiani hanno enormi qualità stilistiche e inventive, che nulla hanno di meno degli americani, e anche che purtroppo, nonostante i nostri scrittori appaiano su Urania ormai da vent’anni (il premio omonimo che ha visto la luce nel 1990) i suoi lettori, o le nuove generazioni dei suoi lettori, sino ancora condizionati dall’esterofilia. Detto questo non si può non segnalare l’ultimo supplemento del mensile, il Millemondi Inverno 2012 (pp. 460, euro 7,50) che, sotto il titolo generale di Due mondi oltre la soglia, ci offre due vere e proprie chicche di quella che potremmo definire science fantasy: Anharra, il cerchio del destino di J.P. Rylan, e La Guerra delle Maschere di Errico Passaro. Una mescolanza di fantastico, orrore, fantascienza, mitologia, mondi alternativi che non ha nulla di artificioso o artificiale e al contrario dimostra come le migliori idee, personaggi, scenari nascano, in chi ne è capace ed ha le qualità narrative, dalla ibridazione di vari generi. In più i nostri autori, almeno i migliori e più preparati di essi, non si limitano a scrivere opere appassionanti e godibili, ma hanno, per così dire, una marcia in più e offrono vari livelli di lettura, come si vedrà. E intanto diciamo che l’improbabile nome di J.P. Rylan è un improbabile pseudonimo: quello di Giulio Leoni, prolifico autore mondadoriano di polizieschi, romanzi di avventura, esoterici,

fantastici, il cui ultimo è La porta di Atlantide. Con Il cerchio del destino, porta a compimento il lungo ciclo di Anharra iniziato con Il trono della follia (2006) e proseguito con Il santuario delle tenebre (2007). La trilogia di Leoni si muove su un duplice piano, graficamente evidenziato dal testo in tondo e in corsivo. Il primo evidenzia la storia antica, in un passato magico-mitico, dove esiste la civiltà di Anharra: qui un gruppo di avventurieri va alla ricerca di una città perduta con le sue immense ricchezze ma che cela un segreto terribile: una stirpe demoniaca incatenata da un ancestrale esorcismo che viene spezzato: i dèmoni si liberano e provocano un devastante conflitto che distrugge l’Impero di Anharra. Il grumo di ferocia e follia instillato dalle entità si perpetua con un gruppo di superstiti. La parte in corsivo narra la vicenda contemporanea: alcuni ricercatori s’imbattono nelle rovine di Anharra e cercano di spiegare quei lontani fatti alla luce della razionalità moderna,ma senza riuscirvi. Ne L’eredità di sangue il ciclo si chiude: nella parte antica viene descritta la migrazione dei superstiti di quell’antico popolo verso l’Europa, mentre in quella moderna ricercatori petroliferi ne scoprono i terribili fantasmi e rivivono l’antico conflitto in chiave moderna. Anche La Guerra delle Maschere ha un antecedente, ma di oltre dieci anni fa, Le Maschere


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126 Il volume di Urania Millemondi a firma di Giulio Leoni (J. P. Rylan) ed Errico Passaro

del Potere (Nord, 1999), di cui è la continuazione: il Mondo dell’Arcobaleno immaginato dall’autore è diviso in tre Regni, quello di Rodaire, retto da Fladnag, la Maschera degli Dei, quello di Rodrom, retto da Namuras, la Maschera dei Guerrieri, e quello di Nahor, retto da Thorden, la Maschera degli Artefici. Essi sono in perfetto equilibrio, finché Namuras cerca di prevalere sugli altri ma viene sconfitto. Il primo romanzo finisce così, in questo secondo Namuras cerca la rivincita e inizialmente ha la meglio su Fladnag. Dopo una serie di complotti interni in entrambi i regni in conflitto, alla fine la Maschera degli Deì ha la meglio sulla Maschera dei Guerrieri che, come ultima risorsa ricorre alla magia nera, ma i dèmoni evocati si rivoltano contro di lui. Assediato e senza scampo, Namuras si suicida e Fladnag conquista anche il regno di Rodrom. Padrone di due terzi del Mondo dell’Arcobaleno come si comporterà con tutto questo potere la Maschera degli Dei? Il seguito ad un auspicabile terzo romanzo. Riassunte brevemente le due trame potrebbero apparire assai banali, ma così proprio non è. Al di là dei complessi intrighi, delle battaglie, dell’uso della magia, delle descrizioni crude, tutte e due gli autori ci dicono ben altro. Leoni nella sua trilogia offre ad un primo livello una spiegazione fantastica della duplice natura dell’uomo, capace di cose mera-

vigliose e di cose terribili allo stesso tempo; poi descrive in modo mitologico la migrazione degli indoeuropei dall’Asia all’Europa a causa di una modifica del clima provocato dallo spostamento dell’asse terrestre dovuto, secondo le teorie dell’ eretico Immanuel Velikovsky, all’impatto di una cometa o di una luna sul globo terrestre; quindi descrive l’ annientamento dell’Uomo di Neanderthal da parte dell’Homo Sapiens Sapiens; ed infine si rifà alla teoria nietzschiana dell’Eterno Ritorno riproponendo oggi i conflitti di illo tempore. Innumerevoli i riferimenti agli antichi poemi dell’umanità, dall’Iliade al Mahbharata. E se questo vi par poco… Lo stesso vale per Errico Passaro che ha ideato un mondo ed una società che si rifanno alla teoria trifunzionale di Georges Dumèzil: e infatti i tre sovrani del Mondo dell’Arcobaleno rappresentano le tre funzioni della società ancestrale indoeuropea e che si riscontrano in tutte le società antiche del Vecchio Continente, dai greci, ai romani, ai celti: la sacerdotale, la guerriera e la mercantile. Nel rispetto reciproco delle tre funzioni la società funziona senza problemi, ma quando una di esse cerca di prendere arbitrariamente il sopravvento l’equilibrio si spezza, si precipita nel caos civile e militare, ed è necessario trovarne uno nuovo. Qui è Namuras, rap-

presentante la funzione guerriera, spinto da orgoglio e arroganza, che cerca di soverchiare la funzione sacerdotale, anche ricorrendo alle potenze infere che però non riesce a controllare venendone travolto, dopo una effimera vittoria, e dandosi la morte di sua stessa mano. Anche qui, come si vede, c’è parecchio di più che una semplice storia avventura: Passaro conosce bene la materia, sia fantastica che mitologica e antropologica (basta scorrere i testi di riferimento in appendice), ed ha la capacità di amalgamarla in una vicenda piena di azione e di colpi di scena, ma anche di riferimenti profondi, ad esempio al rapporto umano/divino o, caso raro in questo genere di narrativa, alla magia sessuale normale e inversa (omosessuale) descritte in modo sapiente e non disturbante per il lettore medio. Insomma, i due romanzi proposti da Urania Millemondi dimostrano le capacità dei nostri scrittori e sarebbe una vera disgrazia che l’attuale situazione editoriale e/o la puzza sotto il naso di un certo tipo di lettori ne frenino le apparizioni sulla collana italiana di fantascienza più longeva, che nel 2012 compirà sessant’anni. (Gianfranco de Turris)


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NOTTURNO ALIENO

IL RITMO DEL NOIR E LA TENTAzIONE DEL FUTURO Gian Filippo Pizzo (a cura di), Notturno alieno, Bietti, 2011, pp. 483, euro 22.

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a commistione dei generi è ormai un dato consolidato (almeno nella letteratura di genere…). Che non esistano più (ma sono mai esistiti nemmeno nel passato prossimo?) degli scrittori fantascientifici “puri” (o giallisti “puri” o autori “puri” di spy stories) è noto da un bel po’. La novità di questa antologia, fortemente voluta da Gian Filippo Pizzo, non è tanto caratterizzata dalla contaminazione dei generi o dallo “spostamento” di tecniche narrative diverse in ambiti che ne conterebbero di proprie e specifiche quanto dalla presenza di ambientazioni non tradizionali rispetto al genere e alla sua tradizione. I ventidue autori delle storie poi raccolte nel volume (compreso ovviamente lo stesso Pizzo) hanno tenuto fede alla richiesta avanzata dal curatore dell’antologia e hanno cercato, chi più chi meno, di costruire ambientazioni e décor in cui la dimensione “nera” fosse adeguatamente e compiutamente “aliena”. La scelta dei temi è stata comunque adeguatamente vasta e in grado di coprire una vastissima gamma di situazioni – siano esse legate all’ atmosfera del noir propriamente detto che connesse a vicende che hanno uno sbocco violento e spesso brutale, morti violente o drammi senza reden-

zione. In tutti i racconti, il risultato ottenuto è stato quello di un forte straniamento rispetto alla tradizione della narrativa “nera” proprio grazie all’ambientazione volutamente non consueta. Alcuni esempi tra i molti possibili che si potrebbero ricavare all’interno del folto gruppo dei racconti che compongono l’antologia basteranno a dimostrarlo E’ il caso di E. B., politico inquisito per corruzione e truffa ai danni dello Stato, che finisce, per colpa di un incidente avvenuto durante il suo ultimo e disperato tentativo di fuga, in un universo parallelo dove l’uccisione della giudice che si occupava del suo processo era realmente accaduto e gli era stata comminata la pena capitale (nel mondo da cui proveniva, invece, la sua pistola si era inceppata). Il racconto di Carlo Bordoni cui mi sto riferendo (“L’uomo politico che morì due volte”) inserisce, quindi, in un contesto tipicamente fantascientifico riferimenti ed atmosfere sia fantapolitiche che poliziesche “nere”. Non troppo diversamente, invece, Pierfrancesco Prosperi, nel suo “La scomparsa di Manarola”, simula che esista ma che sia sconosciuto alla maggioranza degli esseri umani e, quindi, si allinei su un piano del tutto alternativo alla dimensione conosciuta della realtà, un luogo in cui vengono detenuti i colpevoli di delitti efferati che non sono stati puniti dalla giustizia o che sono riusciti comunque a sfug-

girle. Il protagonista del racconto cerca di ritrovare il paesino di Manarola nelle Cinque Terre che crede di aver visitato una volta e vi rimane prigioniero per sempre, condannato a non poterne fuggire neppure se lo volesse. La sua prigione è, in realtà, un luogo confinato nel tempo e non nello spazio. John, invece, l’astronauta del racconto di Gian Filippo Pizzo (“Morte di un astronauta”) muore vittima della convinzione di sua moglie che sia un simulacro di plastica e che la sua esistenza sia legata alla necessità di avere un eroe a disposizione per continuare l’ esplorazione spaziale, ormai in declino presso l’opinione pubblica e il cui interesse va tenuto alto dandole in pasto vicende di personaggi straordinari per le loro imprese. Ma il John attuale non è un ersatz di quello reale. Ferito gravemente, la maggior parte del suo corpo è stata sostituita con componenti in plastica e, quindi, è stato trasformato in un cyborg. Uccidendolo, quindi, la moglie fa scempio di un corpo fatto ancora in parte di vera carne, ponendo così fine all’esistenza di un essere umano “reale”. Il protagonista di “Questa sporca vita”, il breve racconto di Michele Piccolino, è condannato a lavorare per l’Agenzia, cui il suo corpo è dato in concessione per dieci anni perché serva come oggetto di piacere a clienti sadici e violenti che godono nel fare il maggiore male possibile alle loro vittime.


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128 La copertina di “Notturno Alieno”, voluminosa antologia di 22 racconti. Nella pagina precedente: Gian Filippo Pizzo

Ma, dopo essere passato attraverso la violenza efferata dei “tecnici” dell’Agenzia stessa (che avevano il compito di verificare la sua reale resistenza al dolore) e quella, più goffa e patetica, di tanti assurdi clienti per il lungo periodo di dieci anni di cui consisteva la pena, capirà che la vera libertà da conquistare consiste davvero solo nello scontare la pena fino in fondo e stavolta sceglierà di morire dopo aver fatto a sua volta giustizia giustiziando il Capo dell’Agenzia, dopo averlo fatto passare attraverso quelle stesse torture che aveva patito lui stesso.

SP

E

CIA

LE

Anche Universal Op. # 631, nel racconto “Dormono soltanto” di Fernando Fazzari, scopre quello che accade su Escher, un pianeta-bordello della Fratellanza mafiosa, quando vi si avventura alla ricerca della moglie Jackie che è scappata definitivamente da lui perché stanca della sua protezione troppo stretta e perché desiderosa di una vita meno asfittica e più avventurosa. Op (emulo evidentemente del suo quasi omonimo nato dalla penna di Dashiell Hammett) smantellerà

la rete criminale che avvolge Escher e metterà fine ai misteriosi esperimenti che vi si svolgono ma rinuncerà definitivamente alla moglie da cui ha capito definitivamente di non essere più voluto. Allo stesso modo, la coppia ormai consolidata composta da Stefano Carducci e Alessandro Fambrini scompone come in un caleidoscopio di immagini ambiguamente cinematografiche i diversi personaggi (Esther, Eric, Jude, Isaac, Aman) del loro racconto “Venite a prendermi” e li porta coerentemente verso una conclusione in cui più che il colpo di scena della fine conta l’atmosfera incerta e angosciosa in cui tutta la vicenda si svolge. Si tratta soltanto di pochi esempi che, tuttavia, mi sembra che diano il senso dell’operazione voluta e compiuta da Pizzo con questa antologia e che si può riassumere nella volontà di far precipitare lo stile noir in una spirale narrativa che vira deliberatamente verso il futuro pur utilizzando quelle tecniche di scrittura e quella campitura di atmosfere che lo hanno da sempre reso inconfondibile (e prepotentemente ricco di fascino). (Giuseppe Panella)


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