La Ginestra
¡ 13 ¡ Collana diretta da Ferruccio Andolfi e Italo Testa
Il volume è stato pubblicato con il contributo della Fondazione Cariparma Si ringrazia Anna Zaniboni e l’Archivio Carlo Mattioli di Parma
Alte und neue Gesellschaft, Worte an die Zeit, Drei Sätze eines religiösen Sozialismus, Kollektiv und Gemeinschaft, Das Soziale und das Zwischenmenschliche, Durch Absonderung zur Gemeinschaft Traduzioni di Barbara Bordato, Laura Fachin, Gianfranco Ragona e Nino Muzzi In copertina Ginestre di Carlo Mattioli
ISBN 978-88-8103-842-8 ©2018 Edizioni Diabasis Diaroads srl - Strad. San Girolamo, 17 - 43121 Parma Italia telefono 0039.0521.207547 – e-mail: info@diabasis.it www.diabasis.it
Martin Buber
ANTICA E NUOVA COMUNITÀ a cura di Gianfranco Ragona
DIABASIS
Martin Buber
Antica e nuova comunità
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Il socialismo comunitario e religioso di Martin Buber, Gianfranco Ragona
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Antica e nuova comunità (1901)
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Parole al tempo (1919)
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Tre tesi di un socialismo religioso (1928)
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Collettivo e comunità (1932)
65
Landauer nell’ora presente (1939)
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Il sociale e l’interpersonale (1953)
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Attraverso la separazione verso la comunità, Gustav Landauer (1900)
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Appendice La lingua di Martin Buber, Nino Muzzi
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Questa raccolta
Il socialismo comunitario e religioso di Martin Buber Gianfranco Ragona
Gli scritti di Martin Buber1 raccolti in questo piccolo volume, alcuni inediti in italiano, toccano due temi principali: il socialismo e la comunità, due idee che in epoca moderna si sono spesso intrecciate. Non senza ambiguità. Il socialismo delle origini, o proto-socialismo, ha spesso mostrato un volto comunitario, almeno nelle teorie e negli esperimenti dei maggiori pensatori, che intendevano affrontare (e risolvere) la “questione sociale”; tuttavia, è il termine comunismo, risalente a tempi ben più lontani, a essere collegato alle comunità eretiche cristiane nel Cinquecento (in Boemia, per esempio, o durante la guerra dei contadini in Germania); all’esperienza dei Veri livellatori, i Diggers (zappatori), durante la prima rivoluzione inglese, lettori attenti della Bibbia; e ancora, nel Settecento, alla vicenda delle Reducciones del Paraguay, ispirate e guidate da Gesuiti, almeno fino alla (provvisoria) dissoluzione dell’ordine. Del resto, la massima del comunismo, “Da ognuno secondo le sue possibilità; a ognuno secondo i suoi bisogni”, prevede, nel suo fine, di recuperare la comunità, forse smarrita ma non perduta per sempre. Alla fine del terzo decennio dell’Ottocento, la nascita della parola socialismo agita il quadro. Socialista, infatti, è colui che intende costruire una nuova società, dove le conseguenze terribili dell’industrializzazione sulla vita dei nuovi schiavi, gli operai, siano annullate, pur conservando il progresso, sospinto dalla potenza della macchina a vapore, della manifattura, poi della grande industria. Nei maggiori teorici socialisti dell’epoca non compare l’idea di un ritorno alle origini,
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a una purezza originaria del rapporto umano, un sogno o un mito che invece accarezzano nostalgicamente i comunisti precedenti. C’è per contro l’utopia (una parola chiave della meditazione buberiana) e c’è l’utopismo, l’immagine di un mondo felice, senza contraddizioni, armonico, sulla falsariga dell’isola di Tommaso Moro, (in cui però vige paradossalmente il comunismo); e la velleità di poterlo edificare passo dopo passo, con l’esempio, ovvero con l’arma della morale, non già attraverso la politica e il conflitto; meno che mai per mezzo della lotta di classe – questo avrebbe imputato Marx ai suoi predecessori – poiché il socialismo appare sempre come il risultato dell’impegno di donne e uomini di buona volontà, non importa da quale strato della società essi provengano. Buber fa suo il progetto interclassista di quei lontani precursori in Sentieri in utopia, libro che appare alla fine della seconda guerra mondiale, aprendosi con un richiamo esplicito a Saint-Simon, Owen, Fourier, quindi Proudhon, e a un’etica dei mezzi, che si contrappone al determinismo storico ed è ostile a qualsiasi forma di comunismo: Il socialismo “utopistico” non marxista vuole percorrere una via che è della stessa specie del fine. Si rifiuta di credere che, confidando nel “balzo” a venire, si debba preparare il contrario di ciò a cui si aspira. Ritiene piuttosto che, per attendere a ciò a cui si aspira, si debba creare ora lo spazio possibile, affinché esso si compia nel poi. Non crede nel balzo postrivoluzionario, ma crede nella continuità rivoluzionaria, più precisamente in una continuità nel cui ambito rivoluzione significa l’affermazione, l’affrancamento e l’espansione di una realtà già sviluppata nella misura del possibile2.
Il socialismo buberiano appare come una fitta rete di comunità autonome, coordinate tra loro in senso federalistico
all’interno di un insieme nazionale o multinazionale. Egli non si affida allo Stato per una transizione politica da un sistema all’altro, ma sa che la trasformazione è un processo complesso nel quale bisogna individuare le sfere da accentrare e quelle da lasciare libere, ossia l’articolazione tra governo e comunità3. Si scorge qui un richiamo al pensiero di Gustav Landauer, e alla sua concezione del potere politico. Per l’anarchico tedesco, lo Stato che nasce nel XVI secolo si sviluppa dalla lacerazione violenta dei rapporti sociali precedenti, considerati armonici, non per questo giusti, ma capaci di dare senso alla vita individuale e collettiva. Il potere politico moderno, quindi, nasce dalla distruzione di antiche relazioni solidaristiche, tipiche delle libere città medievali decantate da Kropotkin nel Mutuo appoggio (1902). La fine di queste esperienze concrete di autogoverno e di autogiurisdizione dissolve il rapporto sociale comunitario e ne crea uno nuovo, freddo e meccanico. Fa capolino la nostalgia, a tratti struggente, per un mondo scomparso, per un orizzonte di significato, per gli antichi comuni, per la cooperazione, l’artigianato, le gilde, per il Geist, lo spirito che scaturisce dalla relazione interpersonale. Ciò che risulta sorprendente in Landauer, nota con molto acume Buber4, è che lo Stato in questo senso non è soltanto un oggetto esterno agli uomini, non è altro dalla società e dalla relazione: si tratta di un rapporto sociale storicamente legittimo nella misura in cui soddisfa bisogni che gli individui associati non sono in grado di soddisfare autonomamente; mentre risulta illegittimo quando pretende di mantenere il controllo sui terreni che gli individui associati sono già in grado di regolare senza interventi esterni. Lo spazio di confine tra lo Stato in eccesso e lo Stato legittimo rappresenta il terreno di azione dei movimenti che puntano alla rigenerazione del
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mondo; col tentativo di spostare questa linea sempre più avanti verso l’autogestione comunitaria. Lo Stato in sintesi non è una cosa che debba essere distrutta, ma un rapporto, che può essere superato nella misura in cui viene sostituito da un nuovo rapporto, chiamato «comunità» da Buber, il risultato di una riforma intellettuale e morale profonda, ma non improvvisa né cataclismatica. Una visione del cambiamento, questa, che anticipa gli sviluppi futuri dell’anarchismo post-classico5, giacché la rivoluzione cessa di essere un atto insurrezionale che punta a destrutturare l’esistente, configurandosi come lo spazio e il tempo in cui si creano le premesse per la “sostituzione” di quel surrogato dello spirito che prende il nome di Stato. Per Buber, bisogna mettere le basi di una vera e propria controsocietà, che raccolga esempi di vita in comune, in cui non domini né l’individualismo né il collettivismo, e la cui sostenibilità economica sia garantita dallo sviluppo di cooperative di consumo e di produzione. Non si tratta di stare comodamente ad aspettare l’avvento del regno millenario: la nuova società è l’esito di un processo non statale, ma pur sempre politico, perché riguarda l’arte della convivenza, l’impegno per la cosa pubblica; è anche un processo di stampo riformistico, ma nel senso che punta a “dare forma nuova” a qualcosa che non l’ha più. Proprio per questo, Landauer diceva – e Buber lo assimila – che la rivoluzione è qualcosa di molto diverso, e molto più complesso, di quanto non pensino i cosiddetti “rivoluzionari”, che a forza di decreti sperano di far emergere la nuova società dal nulla6. Buber conduce sul banco degli imputati il socialismo di Stato sovietico e l’illusione che si possa forgiare una nuova umanità attraverso lo sviluppo ipertrofico dell’apparato statale; Stato che nella teoria di Marx, ripresa dal Lenin di Stato e rivoluzione (1917), si dovrebbe estinguere,
ma appare invece come «un leviatano travestito da Messia»7. Qui si coglie una possibile spiegazione del rifiuto buberiano del comunismo, una parola che, a dispetto delle ascendenze religiose che avrebbero potuto affascinarlo, è stata per lui irrimediabilmente compromessa dall’appropriazione indebita compiuta da un apparato autoritario di partito. Le convinzioni socialiste e comunitarie di Buber vacillano ma rimangono salde anche nelle condizioni di estrema incertezza e nelle tragiche difficoltà del periodo tra le due guerre. Nel 1939, a vent’anni dalla morte di Landauer, massacrato nella repressione della Repubblica dei consigli di Monaco di Baviera da truppe controrivoluzionarie, e a ridosso del famigerato patto di non aggressione siglato dalla Germania nazista e dalla “patria del socialismo mondiale”, Buber vive sulla sua pelle la «disperazione che sta prendendo il sopravento giorno dopo giorno»8, il naufragio di ogni speranza di emancipazione e di una vita degna per gli esseri umani. Ostinatamente indica la via del socialismo comunitario, guardando ora, da poco giunto in Palestina, a quella delle piccole comunità, i kibbutz, che sperimentano, sulla base dell’economia cooperativa, l’ipotesi del socialismo comunitario non statalista, finanche impolitico: Voi dite che la politica deve trasformare completamente le condizioni di vita? Ma cosa avvenga della vita in queste mutate condizioni dipende da quanta vita nuova stia crescendo già in seno alle condizioni ancora da trasformare, e malgrado queste9.
A ben guardare, però, anche nelle correnti del socialismo “politico”, l’idea di una società fondata sull’uguaglianza, la dignità, la fratellanza, è sempre in qualche modo legata al comunitarismo: lo stesso Marx, nel Manifesto del ’48, in una
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delle rare proiezioni nell’avvenire, aveva definito il comunismo come una società senza Stato, in cui «il libero sviluppo di ciascuno è condizione del libero sviluppo di tutti». Persino le correnti più spiccatamente stataliste, quella socialdemocratica e quella leninista, non rinnegano l’elemento comunitario. Si pensi, da un lato, alle cooperative di consumo o di produzione che caratterizzano l’organizzazione del Partito socialdemocratico tedesco tra Otto e Novecento, con la costruzione di una socialità alternativa, che si concreta in esperienze artistiche, teatrali, sportive: una vera e propria comunità che si irradia dal Partito. Dall’altro lato, nel campo del bolscevismo, il Partito appare esso stesso come una comunità, con i saldi legami tra i rivoluzionari di professione. I soviet, i consigli di operai, soldati e contadini, che si diffondono in Europa dal 1905 all’inizio degli anni Venti, sono anch’essi vere e proprie comunità, finanche con reminiscenze medievali e corporative. Infine, nel cuore delle lotte novecentesche, socialisti e comunisti fondano i loro consensi nelle comunità operaie, dentro le officine, nelle fabbriche e nei quartieri delle grandi metropoli europee. In un certo senso, quindi, non stupisce che le varie declinazioni storiche del socialismo intrattengano legami corposi con l’idea di comunità, tradendola, in molti casi, ma non ignorandola. Tuttavia, lo sguardo amorevole, simpatetico o anche soltanto curioso, con cui il socialismo si è rivolto alla comunità non è stato sempre ricambiato; il comunitarismo non solo è stato raramente socialista, ma spesso ha presentato e difeso valori diametralmente opposti a qualunque corrente socialisteggiante: la diseguaglianza, la gerarchia, il razzismo, il primato di nazioni e tradizioni, talvolta inventate di sana pianta, che affondano le radici nelle foreste abitate dagli antichi germani. Giungendo fino a pervertire l’idea del socialismo nel paradossale richiamo al nazional-socialismo.
Il tema è rilevante, e a esso siamo richiamati dal primo scritto qui riprodotto, nel quale Buber indica con notevole originalità un diverso possibile cammino dello spirito; persino di quello tedesco. Antica e nuova comunità è una conferenza pronunciata in un contesto particolare, il circolo «Nuova Comunità», che intendeva proporsi quale esempio di un modo nuovo di vivere e produrre collettivamente, creando colonie interne alla nazione, affrancate dal controllo statale e dal mercato, capaci di produrre per mezzo di cooperative i mezzi di esistenza e sviluppando – ça va sans dire – l’arte e la sensibilità artistica di ciascuno dei consociati10. In questa sede s’incontrarono per la prima volta proprio Buber e Landauer: quest’ultimo viene incaricato di inaugurare le attività dell’associazione con la conferenza, svolta il 18 giugno 1900, Attraverso la separazione verso la comunità11; meno di un anno dopo, il 24 marzo 1901, Buber si aggancia a quel primo svolgimento per fornire il suo contributo.12 Nella conferenza emerge la consonanza di molti argomenti del comunitarismo libertario con l’ideologia völkisch, che in Germania faceva riferimento a un universo etnico-razziale originario, che si trattava di recuperare per favorire la nascita di una nuova comunità tedesca fondata sulla consanguineità e sulla condivisione di un medesimo patrimonio culturale, mitico, folkloristico. Una linea, quest’ultima, che – è stato osservato in passato – sfocia nel nazismo13. È anacronistico interrogarsi se fosse possibile un diverso sviluppo, ma è certo che, muovendo dalla nostalgia per un passato basato su legami armonici tra uomini inseriti in compatte comunità di senso, di produzione e di riproduzione, la visione di Buber va in tutt’altra direzione. La storia, secondo lui, non impone un modello di vita chiuso, meschino, conflittuale, bensì indica la possibilità concreta di una comunità umana pacifica e ricca, sul piano spirituale in
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primo luogo, ancorata all’autogestione della vita materiale e all’auto-amministrazione dell’esistenza comune:
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La Nuova Comunità ha la comunità a suo scopo: l’interazione vitale tra uomini interi e completamente forgiati, felici tanto nel dare quanto nel ricevere. Dare e ricevere, infatti, costituiscono un solo e medesimo movimento, osservato una volta dalla parte di chi agisce, un’altra dalla parte di chi è agito. Ecco cosa vogliamo: che uomini maturi e colmi di tranquilla pienezza sentano di non poter crescere, di non poter vivere altrimenti che partecipando come membri a un tale flusso del dono della dedizione produttrice; che dunque si riuniscano e si lascino cingere i polsi da un nastro uguale – in nome di una libertà più ampia. Questo è comunità, questo è ciò che noi vogliamo14.
Come non notare, nell’insistenza sulla reciprocità, un’anticipazione delle future riflessioni sul riconoscimento e sul dialogo, che nel 1923 Buber avrebbe consegnato al celebre Io-Tu, ripreso e sviluppato nei decenni a venire? L’uomo fa l’esperienza di due diversi modi della relazione, che sono anche due differenti sguardi sul mondo: il rapporto Io-Altro (Io-Tu); il rapporto coscienza-oggetto (Io-Esso). «Il mondo ha due volti per l’uomo – scrive Buber – in conformità al suo modo di essere. Duplice è il modo di essere dell’uomo in conformità al dualismo delle parole-base che egli può pronunciare. [...] Una parola base è la coppia Io-Tu. Un’altra parola base è la coppia Io-Esso»15. Dal punto di vista dell’Io-Esso, il mondo appare all’Io come un insieme di oggetti da conoscere secondo il principio di causa-effetto e da utilizzare secondo il principio dell’utile. Gli altri esseri umani vi compaiono come portatori di qualità diverse oppure come meri strumenti per raggiungere i propri scopi. L’Altro è l’oggetto delle nostre rappresentazioni, dei nostri desideri, delle nostre finalità, del-
le nostre percezioni, della nostra curiosità: è un oggetto di fronte a un soggetto. Il mondo dell’Esso è il mondo in cui ci muoviamo nella nostra dimensione quotidiana, quando abbiamo a che fare con le altre persone all’interno delle nostre attività di ogni giorno. Ma, come afferma il filosofo nel 1953, «È questa la cosa dirimente: l’essere non-oggetto»16. Ecco sorgere il mondo dell’Io-Tu, che rappresenta una dimensione del tutto diversa in cui l’Altro appare nella sua irriducibile alterità, come pura soggettività. Il mondo non è più percepito come intreccio di cause e di effetti, di mezzi e di fini, ma come mondo animato, come natura vivente; l’Altro come Tu non è percepito più come un oggetto ma come mente autonoma, attiva, fonte inesauribile di vita e di pensiero. Non a caso l’esperienza di essere in relazione con un Tu, Buber la chiama anche «partecipazione» e la descrive come la percezione, da parte dell’Io, che la propria essenza non risieda dentro di sé, né nell’Altro, ma tra i due, in ciò che avviene e circola tra l’Io e il Tu, nella relazione e nella reciprocità. Qui si trova l’origine della comunità, che è molto di più della mera collettività: «La collettività si basa su un’organica diminuzione della personalità, mentre la comunità si basa sul suo incremento e sulla accettazione reciproca»17. La comunità buberiana non solo non ha nulla a che fare con le comunità retrive della tradizione nazionalista tedesca, ma neppure ha punti di contatto con le comunità economiche, mosse dalla ricerca dell’utile materiale, né con le diverse forme di comunità religiosa, le chiese esistenti ed esistite, che perseguono un beneficio ultraterreno. La comunità risponde al bisogno umano della “buona vita” e costituisce la «viva espressione del nostro sentimento» di un’unità fondamentale di ciascuno col mondo e con l’umanità, un impulso radicato «nel nucleo della nostra più riposta essenza»18. Si tratta quin-
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di di comunità non fondate sul dominio dell’«eterno ieri», né sulla brama d’arricchimento o sull’obbedienza a precetti divini, bensì sull’«affinità elettiva» e la libera scelta di ciascuno. La comunità, tuttavia, non va semplicemente recuperata, ma dev’essere ricostruita. Buber conosceva bene le teorie di Ferdinand Tönnies19, secondo il quale il cammino che aveva condotto dalla comunità (un fatto naturale e spontaneo) alla società (fondata invece su fredde leggi) non poteva essere invertita; non ne condivideva il determinismo, pensando al contrario che si potesse continuare il cammino, per approdare a una «comunità postsociale» che non sacrificasse la giustizia alla libertà: Qui per la prima volta sarà possibile realizzare il sogno antico, ma pur sempre attuale, e l’unità della vita istintuale dell’uomo originario, così a lungo scissa e disgregata, ricomparirà in nuove forme, ad un livello superiore e alla luce di una coscienza creatrice; in questo modo sia tra gli uomini, sia all’interno di ciascun individuo, verrà istituita una nuova comunità.
Il misticismo, nelle opere successive di Buber, sarebbe risultato assai attenuato, integrato sempre più dalla chiara percezione della concretezza storica, tanto che in Sentieri in utopia egli avrebbe indicato le comunità socialiste come «nuove consociazioni cooperative», prodotto dell’impegno attivo di ciascuno all’edificazione: La collettività non è una piccola riunione intima, bensì una grande unione di forze economiche o politiche, sterile per il gioco romantico dell’immaginazione, ma valutabile in cifre, manifestantesi in azioni ed effetti, una unione a cui il singolo può appartenere senza intimità, ma con la consapevolezza del suo contributo di energie20.
La brama di costruire sorge in Buber dopo la rivoluzione tedesca del ’18-19. A questo periodo risale un discorso suddiviso in due “quaderni”, pubblicato sotto il titolo significativo Worte an die Zeit (Parole al tempo)21. Nella prima, intitolata Grundsätze (Princìpi), Buber indica nella terra, nel lavoro, nell’aiuto reciproco i fondamenti della comunità. Soltanto su queste basi, ritiene, può nascere lo spirito, che è la comunanza generale (Allverbundenheit), non già l’espressione di una religione positiva, dogmatica e ritualizzata, ma comunque uno spirito religioso: Ogni vero spirito vuole sciogliersi nella comunità, ma non, come dire?, nel caos ben ordinato di forme statali o ecclesiali dei contemporanei, bensì nella costruzione della vera vita in comune, edificata sulla comune terra di Dio, fatta di sacro lavoro, sacro aiuto e sacro spirito22.
Nella comunità gli uomini cercano il sacro, e lo chiamano Dio, principio di vita, relazione, verità. Non devono dimenticare, avverte Buber, che Dio non è a disposizione: Gli uomini desiderano possedere Dio, ma egli non si concede loro, poiché non vuole essere posseduto, ma realizzato. Solo quando gli uomini vorranno che Dio sia, essi creeranno la comunità23.
Sono queste le basi del socialismo religioso di Buber. Una religiosità, la sua, di larghe vedute: un’etica universalista, da chiunque comprensibile e accettabile. Forse, anche dagli increduli.
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Note
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1. Le opere buberiane e gli studi sulla sua vita e il suo pensiero sono numerosissimi: per un primo orientamento nella sua vasta messe di scritti rimando quindi a Martin Buber. A Bibliography of his Writings/Eine Bibliographie seiner Schriften, 1897-1978, a cura di Margot Cohn e Rafael Buber, The Magnes Press – The Hebrew University, Gerusalem e K. G. Saur, München-New York-LondonParis 1980 e alle seguenti biografie: Hans Kohn, Martin Buber. Sein Werk und seine Zeit. Ein Beitrag zur Geistesgeschichte Mitteleuropas 1800-1930. Nachwort: 1930-1960 von Robert Weltsch, Melzer, Köln 19613 (ristampa, Fourier Verlag, Wiesbaden 1979; ed. or. Martin Buber. Sein Werk und seine Zeit. Ein Versuch über Religion und Politik, Hegner, Hellerau 1930), e di Maurice Friedman, Martin Buber’s Life and Work, 3 voll., Dutton, New York 1981-1983. Si vedano quindi i Werke, editi sotto la supervisione dello stesso autore, in 3 volumi: I. Schriften zur Philosophie; II. Schriften zur Bibel; III. Schriften zum Chassidismus, Kösel Verlag - Heidelberg, Verlag L. Schneider, München 1962-1964; e la Werkausgabe, a cura di P. Mendes-Flohr, 20 voll., Gütersloher Verlag-Haus, Gütersloh 20012018 (in corso di completamento). In italiano, si veda ora: Francesco Ferrari, La comunità postsociale. Azione e pensiero politico di Martin Buber, Castelvecchi, Roma 2018. 2. M. Buber, Sentieri in utopia (1947), a cura di Donatella Di Cesare, Marietti, Genova 2009, p. 55. 3. Ivi, p. 200. 4. Si veda il capitolo Landauer, in M. Buber, Sentieri in utopia cit., in particolare le pp. 91-94. 5. Sul tema, cfr. Pietro Adamo, L’anarchismo post-classico e i nuovi movimenti, «La società degli individui», XVIII, n. 54, 2015/3, pp. 57-72, passim. 6. Cfr. G. Landauer, Ein Weg zur Befreiung der Arbeiterklasse, Marreck, Berlin 1895, p. 8; e Landauer a Mauthner, 5 ottobre 1907,
in Gustav Landauer, Sein Lebensgang in Briefen, a cura di Martin Buber, vol. I, Rütten & Loening, Frankfurt a.M. 1929, p. 172. 7. Cfr. in questo volume Landauer nell’ora presente, p. 64. 8. Ivi, p. 65. 9. Ivi, p. 67. 10. Cfr. Gertrude Cepl-Kaufmann, Berlin-Friedrichshagen. Literaturhauptstadt um die Jahrhundertwende. Der Friedrichshagener Dichterkreis, München, Boer, München 1994. Cfr. «Das Reich der Erfüllung. Flugschriften zur einer neuen Weltanschauung», a cura di Heinrich e Julius Hart, Heft 2: Die Neue Gemeinschaft. Ein Orden vom wahren Leben. Vorträge und Ansprechen, gehalten bei den Weihfest, den Versammlungen und Liebesmahlen der Neuen Gemeinschaft, Diederichs, Leipzig 1901. 11. Gustav Landauer, Attraverso la separazione verso la comunità, «La società degli individui», X, n. 30, 2007/3, pp. 123-140, ora nel presente volume alle pp. 77-102. 12. Per la datazione della conferenza, cfr. G. Ragona, Gustav Landauer. Anarchico, ebreo, tedesco, Editori Riuniti UP, Roma 2010, pp. 217-218. 13. George L. Mosse, Le origini culturali del Terzo Reich, il Saggiatore, Milano 1994. 14. Cfr. Antica e nuova comunità, infra, p. 22. 15. M. Buber, Il principio dialogico, Edizioni di Comunità, Milano 1959, p. 9. 16. Cfr. Il sociale e l’interpersonale, infra, p. 74. 17. Cfr. Collettività e comunità, infra, p. 59-60. 18. Cfr. Antica e nuova comunità, infra, p. 25. Cfr. anche Landauer, Attraverso la separazione verso la comunità, infra, pp. 82-83. 19. Cfr. Ferdinand Tönnies, Comunità e società, (1887), introduzione di Renato Treves, Edizioni di Comunità, Milano 1963. 20. Le due citazioni sono rispettivamente in Antica e nuova comunità, infra, p. 23; e in Sentieri in utopia cit., p. 202. 21. Cfr. infra, pp. 32-53. 22. M. Buber, Parole al tempo, infra, p. 34. 23. Cfr. ivi, p. 51.
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