Quel provinciale di luigi ghirri

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Quel provinciale di Luigi Ghirri Forse neanche sapete dov’è Fiumalbo. Se lo sapete, forse ci avete semplicemente passato qualche giorno di villeggiatura in stile Appennino modenese: passeggiata diurna e affettato con gnocco e tigelle serali. Ma cinquant’anni fa, tondi, a Fiumalbo arrivò il mondo. Il sindaco Mario Molinari, un po’ imprenditore un po’ intellettuale eclettico, s’inventò una cosa che chiamò “Parole sui muri”. Era il 1967 e neppure l’idea di festival culturale esisteva. Si rivolse a un drappello di artisti d’avanguardia, tra cui il pittore Claudio Parmiggiani, i poeti Adriano Spatola e Corrado Costa. A loro volta costoro invitarono una quarantina di amici artisti. L’idea era semplice: il paese è a vostra disposizione. Ne arrivarono tre volte tanti, e in quei dieci giorni di agosto i muri, i selciati, i marciapiedi, ogni spazio disponibile del borgo fu ricoperto di pitture, poesie visive, manifesti, alberi, totem, installazioni, performance. Per lo scandalo dei benpensanti, come era giusto in quell’anno di vigilia di rivolte. Non sono riuscito a sapere se tra la folla accorsa a Fiumalbo ci fosse anche un giovane geometra modenese ventiquattrenne, assetato di musica di libri e di immagini, di nome Luigi Ghirri. Ma un paio di anni dopo lo troviamo, in mezzo a molti di quegli artisti ridiscesi giù a valle, una piccola scuola di eccellenti creatori, Franco Guerzoni, Carlo Candi, Giuliano Della Casa, Carlo Cremaschi, Franco Vaccari, riuniti attorno a una galleria un po’ garibaldina di nome Alpha. Uno di quei foyer artistici che forse qualcuno definirebbe ancora “provinciali”, confondendo la geografia con la cultura. Allora cavalchiamo il pregiudizio per smontarlo: sì, Ghirri era un provinciale. E non solo perché ha vissuto a cavallo di due piccole città padane, Modena e Reggio Emilia, in gran parte abitando in campagna. Per capire cosa intendo, procuratevi l’ultimo libro di Ennery Taramelli, Memoria come un’infanzia, dedicato proprio a Ghirri. Non è solo un bel viaggio biografico e critico attraverso l’esperienza di un autore. Si apre infatti proprio sulla descrizione corale di quel clima di eccentricità decentrata, di quell’esplosione di genialità extrametropolitana che Taramelli chiama “parasurrealismo padano”. Modena a quell’epoca faceva cose strane e nuove, organizzava inediti festival del libro tascabile e precoci convegni sulla fotografia come bene culturale.

Aveva nutrito personalità eccentriche della cultura italiana come lo scrittore Antonio Delfini, il più grande dei “minori”, o l’editore e filosofo dell’umorismo Angelo Fortunato Formiggini, che riuscì a sorridere anche della propria morte, quando nel 1938, lui ebreo non praticante, si buttò dalla torre Ghirlandina per protesta contro le leggi razziali. In quegli anni Modena possedeva da poco una galleria civica d’arte innovativa e curiosa, che un intellettuale (allora si diceva “operatore culturale”) purtroppo scomparso presto, Oscar Goldoni, grande amico di Ghirri, aveva esteso alla fotografia. Nel libro di Taramelli c’è tutto il geniale contributo di Ghirri a quella storia, in cui affonda la sua visione più affascinante, quello straniamento mite dell’ordinario che a me piacerebbe definire, senza alcuna ironia, provincialismo magico. Ghirri è stato un grande esploratore dell’endotico (il reciproco dell’esotico). “Io mi domando perché Ghirri si ostini con le sue foto a frugare nei quartieri dove vive la maggioranza degli uomini” si chiedeva ironicamante Franco Vaccari nel testo che gli scrisse per la sua prima mostra personale. L’intellettuale della fotografia (il primo e forse l’unico che questo nostro paese abbia mai avuto) che organizzò un Viaggio in Italia visualmente rivoluzionario, non amava molto viaggiare. E le sue prove fotografiche in contesti lontani, per esempio negli Usa, onestamente non sono le sue migliori. Aveva bisogno, per dispiegare la sua visione, di un viaggio di Gulliver. Vedere il piccolo come grande, il grande come piccolo (la foto della terra vista dallo spazio), sbalestrare le proporzioni, rovesciare il cannocchiale. Aprire la porta di casa su un micromondo da far apparire grande come un universo (l’atlante) e viceversa (l’Italia in miniatura). La provincia, scrive Taramelli, è per Ghirri “il topos simbolico del conflitto tra sentimenti opposti e incompatibili: amore e odio, affetto e ripulsa, il tutto e il nulla, la pienezza della vita e il cupio dissolvi, la nostalgia di casa e il desiderio di fuga”. Mi chiedo se Ghirri sarebbe stato Ghirri se non fosse vissuto (parole sue) in “questi luoghi oscillanti tra rinascimenti raffinati e neorealismi paesani, dove le meditazioni metafisiche, con gli assemblaggi di storia e presente, si associano alla poetica del paese”.


Mi chiedo soprattutto se la vertigine del postmoderno, che dopo tutto ha finito per abbracciare ed esaltare quel che pretendeva di demolire con l’ironia, ovvero il più grande mito della modernità, ovvero la metropoli, non abbia soffocato troppo presto quella gigantesca risorsa di salute mentale che è stato lo sguardo decentrato della periferia, della provincia italiana, quella “poetica della marginalità” che non è mai stata emarginazione ma critica di una boriosa centralità, quella dell’industria culturale, del sistema dell’arte, ben asserragliate nei loro fortini urbani, nelle “capitali” più o meno morali. Ma i rimpianti sono inutili, perché il tempo è scaduto. Quella marginalità è stata definitivamente recuperata da un sistema di scambi a rete e in Rete, dove centro e periferia sono ormai concetti sdruciti. La società isotopa non è una sciagura, no, è la storia che va avanti e offre comunque altre possibilità di scarto laterale, di critica e di non omologazione. Ma quel punto di vista decentrato, periferico, provinciale, è vissuto meno di quanto avrebbe potuto e dovuto per dispiegarsi fino in fondo. Ce ne restano però magnifiche tracce. MICHELE SMARGIASSI 30/08/2017 Fotocrazia/blog di ERepubblica http://smargiassi-michele.blogautore.repubblica. it/2017/08/30/luigi-ghirri-ennery-taamelli-modena/


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