Passages
PASSAGES
direzioneGiorgio Cusatelli, Massimo Quaini, Eugenio Turri conGiorgio Bertone, Elvio Guagnini, Francesco Surdich
La carovana
Massimo Quaini, La mongolfiera di Humboldt Paesaggio: pratiche, linguaggi, mondi, a cura di A. Turco Vanni Blengino, Il vallo della Patagonia. I nuovi conquistatori: militari, scienziati, sacerdoti, scrittori Amanda Salvioni, L’invenzione di un medioevo americano
Jean-Jacques Rousseau, La scoperta del Nuovo Mondo, a cura di F. Surdich Luisa Rossi, L’altra mappa. Esploratrici, viaggiatrici, geografe (secc. XVI-XX)
ALTRI VOLUMI PUBBLICATI
Le Americhe annunciate. I viaggiatori liguri precolombiani, a cura di I. Luzzana Caraci
Un esploratore di deserti e geografo racconta giorno per giorno i quattro mesi di viaggio che nel 1958 lo portano da Istanbul a Samarcanda, attraverso un’umanità mai come ora in bilico. Un eccezionale, inedito taccuino fotografico accompagna la narrazione.
Eugenio Turri
DI PROSSIMA PUBBLICAZIONE
Eugenio Turri
VIAGGIO A SAMARCANDA
Nicolas Bouvier, Il suono di una mano sola. Cronache giapponesi
Eugenio Turri, esploratore e geografo, è autore di numerosi libri: da quelli che descrivono l’ambiente d’origine, nelle valli veronesi, a quelli nati dalle esperienze fatte tra i popoli nomadi (tra cui Gli uomini delle tende, La via della seta, Il Sahel), sino a quelli dedicati allo studio del paesaggio (Antropologia del paesaggio, Semiologia del paesaggio italiano, Il paesaggio come teatro) e ai territori urbanizzati e densificati, opposti a quelli dei nomadi (Dalla villa veneta al capannone industriale, La Megalopoli padana). Ha insegnato alla facoltà di Architettura e Urbanistica del Politecnico di Milano, ed è stato consulente per la pianificazione paesistica della Regione Lombardia.
VIAGGIO A SAMARCANDA
Luigi Cavalli, Più neri di prima, a cura di F. Surdich Carmen Radulet, Vasco Da Gama e la prima circumnavigazione dell’Africa. 1497-1499 André Thevet, Le singolarità della Francia antartica, a cura di G. Bogliolo
€ 24,00
DIABASIS
Giuseppe Caraci, Segni e colori degli spazi medievali, a cura di I. Luzzana Caraci
Correva l’anno 1958 quando Eugenio Turri intraprese il suo viaggio lungo la Via della Seta, poi forzatamente concluso a Samarcanda, città-mito dell’antichità, da secoli riferimento affascinante dell’immaginario collettivo. Nel duro contrasto tra USA e URSS, che dominava la scena politica di quegli anni, si aprivano spazi in una sorta di pax interstiziale, basata su reciproche deterrenze, per cui si poteva accedere alla Turchia, all’Iran e all’Afghanistan senza troppa difficoltà. Dovunque si avvertiva, anzi, una curiosità quasi morbosa per il giovane occidentale che muoveva lungo una direttrice che sarebbe divenuta, dopo il ’68, una via di fuga dai malesseri dell’Occidente. Nel viaggio di Turri, percorso con lentezza, raccontato giorno dopo giorno, l’autore si imbatteva in società antiche, in mondi chiusi, arroccati nelle loro tradizioni asiatiche, fossero contadini o nomadi, pieni di orgoglio e di stravolgente bellezza. Il libro ha proprio negli incontri il suo interesse primo, rivelandoci come l’anima profonda di questi popoli, colta allora, continui a condizionare la storia di oggi, nonostante vicende drammatiche abbiano attraversato o attraversino i loro paesi.
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Passages 路1路
La carovana Sezione diretta da Giorgio Cusatelli, Giorgio Bertone, Elvio Guagnini
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In copertina Vita domestica negli accampamenti dei nomadi (fotografia di Eugenio Turri)
Tutta la documentazione fotografica all’interno del volume proviene dall’archivio di Eugenio Turri
Progetto grafico e copertina Studio Bosio, Savigliano (CN)
ISBN 88 8103 164 7
© 2004 Edizioni Diabasis via Emilia S. Stefano 54 I-42100 Reggio Emilia Italia telefono 0039.0522.432727 fax 0039.0522.434047 e-mail riveroad@diabasis.it
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Viaggio a Samarcanda
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L’itinerario di Eugenio Turri nel suo viaggio, nel 1958, da Istanbul a Samarcanda.
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Eugenio Turri
Viaggio a Samarcanda
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Prefazione
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Gli odori di Istanbul
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Lo stabilimento balneare
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La yayla
23
Il villaggio
39
Gli uomini di Sungurlu
42
Il viaggio in città
48
Le notti di Diyarbakir
52
Le valli di Senofonte
56
Il lago Van
59
Il villaggio di Pelli
62
Un ricordo di Serse
81
I nomadi sul lago
86
Il monastero sommerso
89
La città morta di Dogubayazit
94
La fidanzata italiana
113
Avventura sull’Ararat
117
Esfahan come Firenze
123
I turcomanni
129
La corriera del Khorasan
140
La città santa
144
I villaggi fortificati
151
La grande strada dell’Asia
154
Il rettore della madrassah
177
Le mogli dell’agha
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Sulle piste dei nomadi
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I nomadi cambiano vita
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La grande migrazione
204
I falchi di Kabul
208
I Budda di Bamian
227
La vallata felice
230
Yak-kapetà , l’albero solitario
235
L’italiano tra i tartari
237
Sulle strade della Battriana
243
La valle morta
246
I nuovi paesaggi
250
La ragazza tartara
273
Le cupole di Tamerlano
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Prefazione
Il viaggio raccontato in questo libro risale al 19581. Cominciava allora in Italia un periodo felice e costruttivo, nel quale l’ottimismo si associava alla convinzione che l’Italia e l’Occidente – l’Occidente ricco e capitalistico – rappresentassero il migliore dei mondi possibili, fungendo da riferimento al resto del mondo, sia ai paesi della sfera comunista (Secondo Mondo), sia al cosiddetto Terzo Mondo. Mezzo secolo è passato e quelle certezze non sembrano più tali, la tripartizione che allora valeva non sembra più adattarsi alla realtà presente. Ma in quegli anni essa condizionava il nostro pensare, il nostro modo di guardare e giudicare i paesi, gli uomini: di tutto ciò vi è pesantemente traccia nelle pagine di questo libro. Così un viaggio attraverso l’Asia, fino a sfiorare i paesi sovietizzati dell’Asia centrale, con meta Samarcanda, la città simbolica dell’antichità, dell’esotica distanza di tale Asia, poteva essere, nel clima tedioso, ma ormai non più staliniano, della “guerra fredda”, un’esperienza importante. Anche se quella meta rappresentava per chi scrive soltanto una tappa sulla via della Seta, aspirazione prima di un progetto di viaggio che ha potuto realizzarsi soltanto vent’anni dopo, con l’addolcirsi del regime politico regnante in Cina, rimasta a lungo impenetrabile nelle sue periferie occidentali. Ma anche la visita ai paesi dell’Asia medio-orientale partendo dalla Turchia e giungendo, attraverso l’Iran e l’Afghanistan, al cuore del continente, itinerario classico di tanti viaggiatori occidentali in ogni tempo, poteva risultare interessante per mettere a confronto, in quegli anni, l’antichità dell’Asia con la modernità in senso industriale di cui l’Occidente era portatore. Soprattutto poteva risultare importante capire come la modernità poteva innestarsi su quell’antichità, su quei mondi logori e polverosi, che avevano avuto splendidi passati, ma ora inermi e impreparati a cogliere le novità del mondo che, in senso capitalistico da una parte, in senso socialista dall’altro, proponevano tecniche e modi di vita diversi a genti rimaste avvinte all’Islam e alle loro più antiche radici culturali, agli strati più profondi delle loro variegate regionalità. L’importanza che nel racconto è data al nomadismo pastorale e alla vita dei villaggi, quasi sempre villaggi d’oasi, solitari micromondi dove si coglieva l’essenza vera dell’Asia interna, in anni in cui non era ancora esploso l’urbanesimo perturbatore, ha avuto questo significato ed è in tal senso, mi pare, che il libro va let-
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to. Ma c’è anche, nelle pagine, l’attenzione a tutto ciò che di problematico poteva esserci nella modernizzazione in atto che, ovunque imposta dall’alto, non trovava facili riscontri in mondi così chiusi e lontani, avvolti in quella loro atmosfera di asiaticità – asiaticità come antichità, immutabilità, senso del tempo e dello spazio illimitati – che si poteva riconoscere già a partire dalla Turchia kemalista e occidentalizzante. Ovunque però si trovavano una simpatia e una curiosità quasi morbose per il viaggiatore che veniva dall’Occidente, quasi si vivesse una sorta di pax planetaria all’insegna di una riconciliazione religiosa (il nemico era caso mai più che l’Occidente l’atea e incalzante potenza dell’URSS), benché poi simpatia e curiosità venissero spesso attenuate dal ricordo improvviso e fuorviante di aver pur sempre a che fare con un “infedele”. Oggi non è certo più così e dopo l’11 settembre del 2001 il viaggiatore occidentale sarebbe avvicinato con sospetto, perché ora, dissoltasi l’URSS, l’unica opposizione con cui entrare in conflitto è quella dell’Occidente, ateo e materialista. Ma le situazioni variavano notevolmente passando da un paese all’altro lungo quella “grande strada dell’Asia” che entra fra i grandi domini dell’Islam. Se la Turchia usciva definitivamente in quegli anni dal suo sonno rurale ottomano, in qualche misura laicizzata ed europeizzata sotto la dura non effimera sferzata impressa da Atatürk, in Iran lo scià Pahlevi stava promuovendo la “rivoluzione bianca” che, senza vittime, mirava a trasformare, sull’esempio della Turchia, il paese, arretrato e antico, in paese moderno e avanzato facendo leva sulle ricchezze petrolifere. Cominciavano allora i primi esodi dai villaggi verso Teheran, una città che contava allora poco più di mezzo milione di abitanti; vent’anni dopo ne ospiterà 7-8 milioni. Questa epica migrazione, attratta dal miraggio urbano e industriale proposto dallo scià, ha avuto gli esiti drammatici che si conoscono, con le masse di inurbati traumatizzati al trovarsi in un mondo che non era il loro, privi di una cultura che non fosse quella appresa dal mullah del villaggio. Si comprende così perché, nello smarrimento, siano divenuti facili prede del fondamentalismo khomeinista, che li ha portati al martirio in una guerra assurda contro l’Iraq, nella quale si sono immolati ben un milione di giovani. L’ulteriore radicarsi del sentimento religioso e il parallelo rifiuto dell’Occidente hanno trovato in questi fatti non dimenticati le loro motivazioni, così sofferte a livello individuale come nel racconto di un dolente film del regista iraniano Kiarostami2. Diverso discorso, ma non tanto, per l’Afghanistan, paese rimasto incorrotto nel suo isolamento asiatico, che mai aveva avuto diretti contatti con l’Occidente, del quale in quegli anni arrivava da lontano il fiato, con i primi tentativi di importare una cultura innovatrice sia attraverso la costruzione delle prime strade e delle prime industrie, sia con la rimozione, difficile, sempre frustrata in passato, dei costumi e delle tradizioni, ad opera di uomini che avevano guardato, come Amanullah, all’esempio kemalista. Ad esso si agganciava la politica di caute aperture e di equidistanza nei confronti delle due superpotenze dello scià
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Prefazione
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Mohammad Zahir, poi finito in esilio in Italia. Ciò a seguito del colpo di stato che ha segnato l’imporsi del predominio sovietico e dell’invasione che porterà alla guerra di liberazione vinta dai talebani con il sostegno degli americani. Paese di nomadi, di coltivatori che avevano assimilato l’arte persiana dell’agricoltura irrigua, nei pedemonti e nelle valli dell’Hindukush, non aveva nessun collante storico che lo univa, geograficamente diviso, tribalmente frammentato, riconoscendosi solo nella fede nell’Islam (in maggioranza sunnita). Da una parte, a sud della catena che lo spacca in due, le popolazioni di cultura persiana, gli uomini di lingua pashtu, dalle quali era partito un disegno di unificazione politica già a partire dalla fine del Settecento e che ancor oggi si ritengono gli unici legittimi afghani, a nord le genti turche, legate a quella direttrice turanica che attraversa l’Asia e che ancor oggi rappresenta la più importante saldatura geografico-culturale attraverso un continente, dalla Turchia al Turchestan cinese, la quale forse potrà dare una direzione futura alla storia dell’Asia. L’Afghanistan, nonostante le turbolenti vicende dell’ultimo mezzo secolo, non è riuscito a trovare una sua propria direzione di marcia, che non sia ancora e sempre quella di restare fedele al proprio immobilismo. Come per una costituzionale incapacità ad uscire fuori dal proprio isolamento centripeto, mentre tutt’intorno il mondo in qualche modo ha ruotato, si è mosso, sia pure in diverse direzioni. La vicenda dei talebani può essere vista in tanti modi, ma nel quadro dell’Asia rappresenta pur sempre un ritorno indietro, o comunque una vicenda di disperazione storica di fronte agli sconvolgimenti, che nel caso dell’Afghanistan non sono stati l’urbanizzazione o il fallimento di una politica di modernizzazione come in Iran, ma il trauma dell’invasione sovietica, contro la quale solo l’accecamento ideologico e religioso poteva servire di fronte a quest’altra perversione storica del Novecento. Negli anni Cinquanta e Sessanta era un paese pacifico, capace di affascinare chi dappertutto in Europa vedeva la montante industrializzazione cambiare società e territori: certe immagini rimandavano ad un mondo di secoli se non di millenni fa, gli uomini autentici, barbuti, bellissimi, sullo sfondo di vallate sfolgoranti nelle oasi inondate dai profumi degli orti e dei giardini. Mentre negli spazi inariditi si muovevano carovane sorprendenti di nomadi in epiche migrazioni stagionali, dando vita a spettacoli di una non dimenticabile bellezza, che forse neanche il mitizzato Bruce Chatwin fece in tempo a vedere. Nei centri urbani le donne, velate nella loro veste-prigione era come se non esistessero; neppure si immaginavano, e se qualcuna di esse audacemente tentava di togliersi il burka rivelava un pallore mortuario, come se fosse uscita da una secolare degenza o da una reclusione fuori dal consorzio civile. Al di là dell’Amu Darya si entrava in un mondo che aveva eguali tratti di asiaticità, sulla quale era stata imposta una sorta di verniciatura di modernità che, nella sua versione russo-sovietica, non sembrava far presa in modi radicali3. Si avvertiva la doppia presenza: da una parte il mondo tradizionale, l’uomo passivo,
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amante delle ombre, del bazar, l’uomo dei grandi spazi, dall’altra l’organizzazione sovietica, efficientistica in apparenza, in realtà burocratica, vigile, rigorosa, odiosa e di marcata supponenza colonizzatrice. L’opera di trasformazione tuttavia era andata avanti, sia con lo sviluppo di un urbanesimo di stampo nuovo, un po’ grigio, che con la ripulitura dei vecchi bazar e di tutto ciò che di fatiscente doveva esserci in quei paesi, che formavano il Sud tropicale dell’URSS, spazio prezioso per l’impianto di attività nuove e impossibili da praticare altrimenti nei climi russi e siberiani. Oggi non è detto che quei paesi, conquistata l’indipendenza, abbiano saputo rifiutare quella presenza russa, affrancarsi dal legame che li ha cambiati. Il marchio della modernizzazione è quello, incancellabile per le estese riconversioni che ha attuato, soprattutto nei modi di produzione, anche se non ha intaccato più di tanto gli uomini, i loro animi. È vero, non ha attecchito il fondamentalismo, ma non è stata messa a tacere la voce che sale dagli strati più profondi dell’anima centrasiatica, dove l’Islam si salda alle rivendicazioni etniche, rinfocolate oggi, più di quanto non si creda, dall’ideale turanico, a suo tempo capace delle grandi vicende di quest’Asia interna, spazio senza confini, o anche spazi, come diceva Rainer Maria Rilke, che confinano con Dio, cioè popolati di uomini che attingono ad un’unica fede possibile, solo e sempre più quella religiosa, priva del greve materialismo laico e consumistico che inquina le città dell’Occidente. Tutto ciò anche se questi stessi popoli non rinunciano facilmente ai vantaggi che la tecnica occidentale può mettere al loro servizio, consentendo anche maggior tempo da dedicare ad agi, ozi e prosternanti rakaat verso Dio. Certo Samarcanda oggi non è più quella di mezzo secolo fa. È turisticizzata, in larga parte ripulita dei suoi olezzi e delle sue polverose mondezze asiatiche, è assediata di grandi edifici, dispone di squallidi alberghi, al posto dei quieti ostelli per la borghesia zarista rimasti sino a cinquant’anni fa ed ha perduto il sapore di un tempo. La stessa maniera di arrivarci oggi è fuorviante. Vi si arriva da Mosca. Ma la direzione giusta è quella di venirci da sud, dall’Iran o dall’Afghanistan, attraverso Herat o Kabul, dopo aver capito che cosa è stata l’antica civiltà persiana che ha acculturato in origine queste regioni, quale spirito e quali raffinatezze si coltivavano all’ombra delle moschee di Esfahan o di Herat, nei giardini e nei raccolti silenzi delle madrasse, le scuole coraniche. Samarcanda, come Bukhara, Merv, Khiva, Kokand e le altre città del Turchestan come l’intero mondo che gravita su questi cuori urbani sono il riflesso della civiltà persiana, rispecchiano ancor oggi, sotto la vernice russa, staliniana e dell’affarismo liberistico e mafioso d’oggi, la bellezza, sia pure un po’ esausta, sfibrata, di quell’antico mondo. In più hanno il fascino di essere perdute, come affogate dentro i grandi spazi dell’Asia interna, steppica e pastorale, dove tutto sembra disfarsi al sole e al vento, dove l’aria è sempre carica di polvere che il vento solleva e tiene sospesa nell’aria come una componente inscindibile del paesaggio, come un’opalescenza misteriosa. E dentro quest’atmosfera di polvere, che di sera si arros-
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sa nei tramonti infuocati, scintillano come carapaci iridescenti di coleotteri in putrefazione le cupole delle moschee e dei monumenti in rovina, che danno un fascino unico alle città che si raccolgono nelle fasce verdi dei fiumi centrasiatici. Questo per quanto riguarda il passato, le sue testimonianze, l’attrattiva di un mondo che non è facile da seppellire perché ciò che si è detto – la polvere, la vastità, le moschee – è costituzionale e incancellabile Genius di queste terre. E sebbene la capitale non sia più Samarcanda, ma qualche città più nuova e dinamica, come Tashkent, è vero purtuttavia che il mito che continua a risuonare sotto i grandi cieli dell’Asia è ancora e sempre quello dell’antica città. L’attivismo economico sembra improntare oggi la vita e la cultura di questa parte di mondo. Per limitarsi all’Uzbekistan, è esemplare il ruolo che la repubblica ha assunto in quanto produttrice di cotone, la risorsa che i russi già a partire dagli anni Trenta del secolo scorso avevano intravisto come possibile soluzione ai problemi della modernizzazione di questa regione, del suo inserimento nella modernità sovietica. Opere gigantesche di irrigazione, apertura di vasti comprensori cotoniferi hanno redento regioni steppiche intere (si ricordi la famigerata Steppa della Fame) un tempo dominio della pastorizia nomade. I successi sono stati clamorosi e a suo tempo erano stati riconosciuti persin dai tecnici americani. Ma essi, come i russi, guardavano al successo economico e a nient’altro, non agli uomini, alle loro culture, alla loro storia, dimenticando tra l’altro gli effetti perversi delle loro intraprese sull’ambiente. Oggi l’Uzbekistan, ad esempio, è lo scenario di un dramma ecologico che dovrebbe suonare da lezione ai pianificatori d’ogni parte del mondo, spesso troppo sicuri dei loro progetti. Le acque che scendono dalle montagne alimentando l’Amu Darya e il Syr Darya, i due fiumi che sono alla base della ricchezza uzbeka, si disperdono nei comprensori cotoniferi e non giungono più al lago d’Aral, che via via si è ridotto di dimensione, se non è proprio scomparso, lasciando le popolazioni rivierasche in un imprevedibile deserto di disperazione. Di questo dramma i responsabili uzbeki del governo non vogliono sentir parlare, perché ormai ciò che conta è il cotone e le conquiste fatte sotto il regime sovietico sono irreversibili, sono la modernità, la ricchezza che oggi conta. Ma il mondo, anche qui, è in mano all’unico potere che conta ormai, quello economico. Ma poi l’Asia centrale ha il petrolio e il gas e proprio lo sfruttamento degli enormi giacimenti è alla base dell’attenzione competitrice delle grandi società occidentali a questa parte dell’Asia, delle contese o della guerra degli oleodotti e dei gasdotti, che non è stata estranea all’interessamento degli americani all’Afghanistan, il cui controllo è anche strategico per contrapporsi ad altri espansionismi, da quello cinese a quello turanico4. Di questo genere sono ora i drammi dell’Asia centrale, divenuta uno scacchiere importante nel quadro della competizione globale per l’approvvigionamento delle ultime grandi risorse petrolifere del pianeta: cioè drammi generati da guerre economiche che questa parte dell’Asia ha pagato negli ultimi anni non solo con le vittime della guerra af-
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ghana, ma forse ancor più con gli sconvolgimenti sociali e i traumi personali e familiari di cui hanno sofferto un po’ tutti i paesi, dove il potere staliniano è stato rimpiazzato da poteri nuovi, di dubbia moralità e di portata globale, che tengono lontana per ora ogni ventata fondamentalista islamica. In mezzo secolo, quest’intera Asia descritta nel libro è cambiata, anche nei villaggi più isolati, che allora si sarebbero detti inattingibili da qualsiasi mutamento. E invece anche nei più isolati villaggi anatolici, come ad Alaca Höyük, la modernizzazione è arrivata, con la gente emigrata in Germania e con i rapporti sempre più stretti tra il villaggio e Ankara, tra il villaggio e le città tedesche dove si trovano molti uomini con i loro figli, un tempo poveri köylüler. In Iran i villaggi fortificati sono ormai quasi tutti svuotati, benché circondati da tensioni fondamentaliste un poco stemperate solo dalla voglia di modernità di tanti giovani; in Afghanistan il nomadismo nelle sue forme imponenti e sontuose, descritte nelle pagine del libro, è finito tra i bombardamenti e i massacri delle mine antiuomo. L’Asia, dunque, è stata sepolta nel giro di cinquant’anni? No certamente; non solo si può dire che essa è mutata solo in parte e in superficie, ma nel suo profondo essa cova qualcosa d’altro di non deperibile, qualcosa che può condizionare gli stessi sviluppi futuri dell’Asia, e fors’anche qualcosa che potrebbe offrirsi come lezione a noi stessi, ansanti nella corsa irrefrenabile verso una meta che è più di disperazione che di possibile rinascita: un diverso senso del tempo e dello spazio, che si coglie soprattutto se quest’Asia la si vive percorrendola a piccole tappe, con sofferenza e partecipazione, come è raccontato in queste pagine.
Note 1. Il libro, pubblicato nella collana “Il Timone” diretta da Enrico Emanuelli per conto della De Agostini nel 1962, è nato da una serie di articoli pubblicati sulle pagine del «Mondo», il settimanale diretto da Mario Pannunzio. Una serie di viaggi compiuti negli anni successivi mi ha poi consentito di approfondire meglio la conoscenza di questi stessi paesi, su cui ho pubblicato diversi saggi e articoli. Infine nel 1982 ho potuto raccontare l’intero percorso della via della Seta nel volume AA.VV., La via della Seta, a cura di E. Turri, De Agostini, Novara 1983. 2. A. Kiarostami, Ta’m e guilas (Il sapore della ciliegia), Teheran 1997. 3. Sul confronto tra paesi socialisti e Iran e Afghanistan: E. Turri, Al di qua e al di là del fiume, Edizioni di Comunità, Milano 1974. 4. F. Scaglione, La corsa all’oro delle steppe, in AA.VV., No global. Gli inganni della globalizzazione sulla povertà, sull’ambiente e sul debito, Zelig, Milano 2001; A. Raschid, Nel cuore dell’Islam. Geopolitica e movimenti estremisti in Asia centrale, Feltrinelli, Milano 2002; Id., Talebani, Islam, petrolio e il Grande scontro in Asia centrale, Feltrinelli, Milano 2002.
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Gli odori di Istanbul
Per iniziare il mio viaggio, che compio da solo, sono arrivato con la nave a Istanbul. In questi giorni, ai primi di luglio, c’è molto caldo e la grande metropoli mi appare più soffocante e implacabile di altre volte. C’è anche qui, ma in forme più rozze e peggiori, quell’ansia degli uomini d’oggi di inseguire il tempo, il danaro; un’ansia produttiva come nelle città europee. Nel suo insieme oggi Istanbul non ha più nulla, o ben poco, di orientale o di levantino; è una città mossa sempre più da forze burocratiche e di lavoro e sempre meno da quell’individualistico interesse, tra ozioso ed equivoco, che è proprio del mondo levantino, dell’ambiente cittadino musulmano. Di mattina, lungo i marciapiedi all’ombra dei palazzi, si muovono uomini che vanno nelle banche, negli uffici, nei negozi; nel porto il traffico è intenso e simile a quello di un qualsiasi altro porto moderno. Si respira, in quest’ora, l’atmosfera della grande città con il suo movimento determinato dagli affari, con l’impressione di un lavoro febbrile e senza distrazioni. Tra gli odori inconfondibili della vecchia città musulmana sembra di poter cogliere oggi un odore nuovo, un miscuglio di officina, di limatura di ferro, di inchiostro, di macchine da scrivere. Mi dirigo verso le sordide sokaklar di Galata e qui mi accorgo però che la vecchia Istanbul portuale e genovese non è ancora del tutto morta. Un giovanetto spinge in giù nella stretta viuzza in pendenza un rozzo carrettino sul quale stanno aggrappati due ragazzi che ridono e strillano. E trovo i tipici rappresentanti dell’antica Istanbul levantina: i rivenduglioli, le figure imprecisabili, i vecchi seduti e quasi incollati sui marciapiedi, i lustrascarpe. Verso le undici raggiungo, attraverso il ponte di Galata animatissimo e pieno di venditori di pesce, la vecchia Stambul con le sue moschee. Passo attraverso il quartiere, dalle strette viuzze, oltre l’Università e la moschea di Solimano. Ci sono ancora, anche se sempre più rade, le vecchie case di legno, con i gerani alle finestre. E nei cortili delle moschee vedo uomini che riposano all’ombra invitante delle tettoie di piombo. Altri che all’interno pregano con devoto fervore. Qui è bello restare senza far nulla per delle ore intere in dolce abbandono, sentire sotto i piedi il soffice e fresco solletico dei tappeti, godere la penombra policroma delle grandi volte che imitano la curvatura del cielo. Qui si comincia anche ad amare l’Oriente, ad amarne l’odore umano, la pigrizia, la
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noia, il caldo, la sublime indifferenza agli eventi diurni. Nelle moschee scorgo molti soldati che pregano, poveri e brutti giovanotti con la divisa stinta e sudicia. Sono sicuramente i figli dei vecchi contadini dell’Anatolia, i figli dei vecchi musulmani della Turchia immutabile: fervidi, umili e commossi di fronte alle moschee di una Stambul ancora favolosamente eguale, per essi, a quella dei loro padri, che ne parlano come di una città unica al mondo, gloria di Allah, dolce meta dei pellegrini, Dar-e-Saadet, paese della felicità. Poco dopo mezzogiorno, col sole ancor più feroce e l’aria afosa, pesante, ritorno a Galata e, nei pressi della piazza di Taksim, vado in cerca di un ristorante. Entro in un locale nuovo e pieno di gente. L’arredamento del ristorante imita nella maniera più pedissequa e ridicola gli snack-bar di moda in Europa, importati col gusto americano e ispirati alle birrerie tedesche. Provo fastidio e insieme un sentimento di pena per i turchi. Penso che anch’essi, come tanti altri popoli, non riescono a prendere coscienza di sé, del proprio gusto, del proprio folclore; oppure non ci credono, ne hanno quasi vergogna, e così il mondo perde il suo sapore e tra non molti anni i viaggi negli altri paesi non riserveranno più sorprese. Nel locale la gente è tutta di un certo rango: funzionari di banca, ufficiali dell’esercito, impiegati. Tutti hanno l’aria compiaciuta, propria delle persone che hanno coscienza di trovarsi in un luogo snob e distinto. Sui loro tavoli scorgo piatti senza sorpresa, prodotti neutri di un gusto livellato e ormai universale. Anche questo mi fa dispiacere, tanto più conoscendo la cucina turca, così tipica, così originale e ricca di buone cose. Nel locale non trovo quello che voglio, quel sis börek di cui per qualche anno in Italia ho sentito la voglia dopo che l’avevo mangiato un giorno in una lurida affumicata lokanta di Adapazari. Trovo però dolmas, melanzane ripiene e kebab, arrosto. Quando esco e passo davanti ai più modesti locali scorgo impiegati e lavoratori che mangiano con l’avidità propria dei turchi i piatti più genuini, le magre mascelle gonfie di grossi e mobili bocconi. Ciò significa che l’imitazione dei gusti occidentali è per ora limitata a particolari ambienti della grande città, mentre la grande massa dei turchi è ancora profondamente attaccata alle antiche abitudini, vivendo in un proprio mondo fatto di povertà, di facili appagamenti e finora privo di risentimenti di classe. Poi ancora vedo uomini vestiti con trascuratezza, col rozzo kasket in testa, le scarpe polverose, e penso che Istanbul è mutata solo in parte. L’uomo turco è sempre quello, con i suoi baffi neri, le unghie sporche, i denti bianchi, i suoi entusiasmi, i suoi abbandoni, la sua inguaribile magrezza, la sua fame insaziabile; e Istanbul è, oltre che città moderna, ricca di umori europei, un palpitante proseguimento dell’Anatolia. Forse una gran parte di quegli uomini che vedo è gente venuta da pochi anni dai villaggi dell’altipiano, i nuovi urbanizzati che vivono nelle baracche e nei tristi falansteri della periferia.
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Lo stabilimento balneare
Ho dormito in un alberghetto di Scutari e, il mattino, ho cercato un mezzo di fortuna per arrivare ad Ankara. Ho atteso molto e poi un camionista mi ha ospitato nella sua cabina. Mi ha chiesto di dove sono, dove vado. Poco fuori dal centro della città, prima per una ragione e poi per un’altra, il camion si è fermato varie volte; solo verso le dieci si è definitivamente avviato, correndo disinvoltamente sulla nuova strada che da Istanbul porta alla capitale. È questa una delle poche opere pubbliche di grande importanza portate a termine in Turchia in questi anni. Per farla ci sono voluti i dollari americani, come per tutto ciò che, più o meno bene e giudiziosamente, si fa in questo paese. Sulla strada vedo che passano soprattutto camion; poche invece le automobili. Queste sono quasi tutte di tipo americano, grosse e luccicanti, macchine che stonano sullo sfondo di un paese così povero. Ma si tratta probabilmente di vetture appartenenti a ministri e a funzionari governativi oppure a qualcuno dei pochi industriali turchi. La strada nuova è insomma ancora una strada di lavoro, per camion o gente che ha i suoi affari, non una strada per viaggi turistici, per tranquille escursioni di famigliole borghesi. Il camionista, un giovanotto con grossi baffi a punta e nera capigliatura, mi chiede se in Italia ci sono strade belle come questa. Rispondo che ci sono, ma lui è orgoglioso lo stesso e dice che negli anni prossimi in Turchia si faranno strade anche più belle. La strada, fino a una ventina di chilometri dopo Scutari, è veramente ottima e segue un percorso veloce. Però appena si giunge alle porte di Izmit, forse il maggior centro industriale della Turchia, bisogna rallentare e andar cauti. Ci sono buche, asfalto che va in pezzi, argini che franano. Il mio camionista non parla, finge di non accorgersi. Io penso frattanto che per i turchi è più naturale questa strada che l’altra. Penso questo perché non si riesce ad immaginare i turchi in un paesaggio perfetto e finito, in un moderno paesaggio industriale. Sono rozzi, non hanno il senso del “finito”, non conoscono l’ordine; e poi sono pieni di vitalità e rompono subito tutto, le strade, i camion, le radio, i vestiti e il resto. Dopo Izmit si corre lungo il mare in un paesaggio quieto e suggestivo, col mare azzurro che si addentra in una lunga e profonda insenatura. La strada tocca rive boscose, piccole e calme baie. Sono luoghi che invitano a sostare e a fare un bagno.
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Poiché nella cabina del camion c’è molto caldo e si sta a disagio, appena giunti in un luogo adatto prego il mio ospite di fermarsi e lasciarmi giù. Lui si meraviglia di questa decisione e capisco che gli dispiace. Dico: «troppo caldo, ho voglia di buttarmi nell’acqua». «Taman, va bene», risponde arrestando la macchina. Si scusa di non potermi attendere, deve arrivare ad Ankara la sera stessa. Poco lontano dal punto di fermata c’è una stradina laterale che porta a una spiaggetta solitaria e discreta: c’è anche un cartello con una rozza scritta attaccato a un albero: çok güzel plaj, turistik yer, bellissima spiaggia, località turistica. Carico i miei bagagli sulle spalle e raggiungo la spiaggia, sul bordo della quale c’è un grande albero ombroso. È un posto ideale per bagnarsi e fare una rapida colazione. Mi accorgo che sul tronco dell’albero c’è appeso un altro cartello con la scritta Sirri Yali çay evi, casa da tè di Sirri Yali, e una freccia che indica la direzione da prendere. Mi spoglio e già mi godo la beata solitudine del luogo quando, trafelato, arriva un uomo. Mi invita ad andare duecento metri più avanti: là c’è la çay evi, ci sono gli spogliatoi e c’è anche la lokanta se voglio mangiare; se poi voglio fare il bagno là in quel posto la spiaggia e il mare sono anche più belli. Poiché insiste, decido di andare. Subito l’uomo mi aiuta a portare i bagagli. C’è una casetta e una rozza tettoia di legno con alcune panche messe insieme in qualche modo con assi e chiodi. Sono gli stabilimenti balneari di Sirri Yali. Mi siedo all’ombra della tettoia e vedo che l’uomo sorride soddisfatto. Mi chiede se si sta bene lì sotto. Poi, con l’aria di chi si sente impegnato in lavori importanti, mi domanda se voglio il tè. Aggiunge che lì posso fare il bagno quando e come mi pare, che la spiaggia è bellissima (e serra insistentemente le dita all’insù, secondo la maniera turca di esprimere una cosa perfetta) e ripete più volte che non c’è in tutta la Turchia una spiaggia migliore della sua. Mi accorgo che insieme con lui nella piccola casa vivono la moglie e un figlioletto. La donna porta il velo che le nasconde in parte la faccia. Quando ordino il tè, subito Sirri Yali mi chiede se deve prepararmi anche da mangiare: dispone di pane, uova e pomodori. Gli faccio capire che preferirei qualcosa di meglio, kebab per esempio, e frutta, pesche o albicocche. Con aria desolata risponde che non ha carne e neanche frutta: dovevano portargliele, ma non è arrivato niente. È afflitto, si capisce: lui vuole accontentare i clienti, vuole “lanciare” la sua spiaggia, il suo piccolo stabilimento balneare. Forse qualcuno gli ha detto che con la nuova strada, la sua casetta e la sua piccola proprietà sul mare possono dargli lavoro, dargli vita e magari ricchezza. Stanno arrivando anche in Turchia anni migliori: strade, automobili, turisti. Basta che lui ci sappia un po’ fare, che sappia attirare i turisti con un trattamento gentile e farsi un po’ di pubblicità. Intanto il tè tarda ad arrivare, qualcosa non funziona, forse il fornello. L’uomo mi vede un po’ spazientito e allora mi sorride: «viene subito», dice. Poi entra in casa e vedo che dà uno schiaffo alla moglie, troppo lenta nel preparare la bevanda. Ma subito dopo esce trionfante e felice con il bicchierino di çay. Lo
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bevo e subito faccio il bagno. Quando esco dall’acqua ho fame. Chiedo all’uomo che mi porti quello che ha: pane, pomodori e due uova. Pronto e felice si dà subito da fare, impartisce ordini alla moglie e al figliolo. Mi apparecchia la tavola. Mi porta il pane; ma è duro, di due giorni. Glielo faccio notare e allora mi dice che, se posso aspettare, manderà la moglie a prenderlo al villaggio vicino. Già vedo la donna che parte di corsa. Ma faccio in tempo a fermarla. Sento intanto che nella casa l’uomo sgrida di nuovo la moglie e dall’uscio vedo che le dà uno spintone violento. Ma poco dopo esce con il pranzo tutto pronto. Sorride e con molta attenzione mi porge i piatti. Poi corre in casa a prendere il sale. Chiedo un coltello e, sempre di corsa, ritorna dentro a prenderlo. Poi si mette seduto in disparte, tutto rispettoso, in silenzio, e ogni tanto guarda verso di me per accertarsi che io non abbia bisogno di altro. Finita la colazione gli chiedo un altro bicchierino di tè. Scatta subito, contento di aver lavoro, di avere clienti. Fa tutto con entusiasmo e ansia insieme, ed ha attenzioni anche troppo squisite per un uomo rozzo qual è. È felice, si capisce, sente che può sperare dal momento che un turista straniero si è fermato alla sua spiaggia. E non si rende conto, lui povero köylü, contadino sino a ieri e abituato a pane e pomodori, non si rende conto che le esigenze di un turista moderno sono ben diverse da quelle che lui con tanta semplicità cerca di soddisfare; anzi, si vede che è convinto di aver accontentato nel migliore dei modi il suo cliente. Intanto spera, dopo la sosta di uno yabanci, di uno straniero, nel futuro e in un benessere che verrà di sicuro grazie a quel campicello, alla piccola spiaggia tra mare e strada nazionale. Una piccola proprietà che due anni fa non valeva nulla e che adesso può apparirgli come una ricchezza. Alla fine mi porta il conto: 150 kurus, poco più di cento lire italiane.
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Avventura sull’Ararat
Stanotte mi sono destato. Erano le due. Ho visto il cielo bellissimo e mi sono subito deciso: partirò per l’Ararat da solo. In breve preparo i miei bagagli, la tenda, lo zaino, la piccozza, i ramponi, maglie, scarponi e in più biscotti, scatole di carne, marmellata, cioccolata e pane. Lascio la lokanta dopo aver messo un biglietto sul letto della mia camera con la data del mio ritorno. Attraverso la piana di Dogubayazit e comincio a salire su per le prime pendici della montagna. Seguo un tratturo che passa tra enormi macigni di basalto. Nella semioscurità hanno profili strani, di bestioni, di mostri, di uomini, di vecchie chiese diroccate. Ad un ruscello mi fermo a bere e a rinfrescarmi il viso. È acqua che scende dai ghiacciai del monte, limpida e buona. Da questo punto la salita si fa più faticosa e il sentiero, sassoso e quasi privo di tracce, è spesso ostruito da grandi roccioni che bisogna aggirare. A un certo punto vedo due tombe con le lapidi formate da due blocchi di lava. Quando ormai è giorno e guardo in alto mi spaventa la salita ancora da compiere su per immensi ghiaioni gialloscuri di lave. La solitudine mette disagio; il silenzio è fondo e quasi mi aspetto di udire parole e suoni dai macigni con i profili umani. Non ci sono mosche, insetti. Sarò a circa 3000 metri. Mi fermo a riposare e a fare una rapida colazione. Si vede di qui tutta la piana di Dogubayazit, le guglie rocciose che coronano la città morta, i monti lontani. Poi riprendo e nelle prime ore del pomeriggio sento dei belati. Devo trovarmi a poca distanza da uno di quegli accampamenti dei nomadi di cui mi hanno parlato gli uomini di Dogubayazit. Sento anche delle voci. Quella gente deve avermi scorto. Poco dopo un uomo mi viene incontro. È meravigliatissimo. Però mi dice che pochi anni fa sono passati di lì dei francesi che hanno scalato la montagna e sono arrivati fin sulla cima. Deve trattarsi di una delle tante spedizioni che sono venute quassù a cercare i resti dell’arca. Un pretesto come un altro per fare dell’alpinismo, perché la speranza di trovare una vecchia barca tra queste rocce fa ridere soltanto a pensarci. Nessun diluvio può mai essere giunto al punto da sommergere il mondo fino a questa altezza; ciò potrebbe caso mai essere accaduto in epoche lontanissime, quando effettivamente le terre non erano ancora emerse al di sopra del caos oceanico: ma l’Ararat non era ancora stato concepito dal Creatore. È una montagna gio-
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vane e, così alta e agile, comincia solo adesso a vivere la sua prima decadenza. L’uomo mi invita a salire all’accampamento. Grossi cani abbaiano rabbiosi e cercano di avventarsi contro di me. L’uomo li mette a tacere e allora essi si accucciano ringhiando sull’erba. Sono più grossi e forti dei lupi. Su un breve ripiano ci sono le tende, in numero di tre. Due uomini e alcune donne si sono alzati per vedermi. Le donne sono vestite bene e portano attaccati ricchi pendagli di zecchini d’oro e argento sulla fronte. Per vivere qui sulla montagna, a questa altezza, in questa solitudine, devono essere donne forti e sento subito di ammirarle anche se loro si nascondono al mio sguardo e non mi salutano. Gli uomini, uno dei quali è vecchio, mi invitano a sedere su un tappeto. Mi preparano il tè. Quando dico che ho intenzione di arrivare sulla cima dove ci sono i ghiacciai mi sconsigliano; e caso mai devo passare da un’altra parte, aggirare la montagna, arrivare a un altro accampamento e salire di là, sul fianco settentrionale, dove la pendenza è minore e non ci sono ghiacci e seracchi da superare. Il tempo si fa minaccioso. Nuvole fredde e umide avvolgono rapidamente l’accampamento e devo subito coprirmi per bene. Chiedo a quella gente se posso piantare la mia tenda lì vicino. Acconsentono e anzi mi aiutano a fissare i paletti, e ridono divertiti vedendo nascere a poco a poco la mia piccola tenda bianca. Le loro sono grandi e nere, di lana spessa. Mi danno una coperta per la notte, fatta di pelo di pecora. Intorno alle tende ci sono pecore, mucche, cavalli. Le donne sono intente a ripulire delle pentole con l’acqua di un rivo che passa vicino. Lavorano con energia, vigorosamente, insensibili al freddo. Ogni tanto ridono e probabilmente fanno commenti su di me. Gli uomini mungono le mucche e ripongono il latte in grandi pentole di rame. Anch’essi non sembrano sentire il freddo. Sono perfettamente ambientati all’altitudine, si muovono con disinvoltura. Io sento un freddo terribile. Forse sto male, lunghi brividi mi corrono giù per la schiena. All’ora del tramonto però le nebbie si diradano e io mi sento un po’ meglio, anche se ho un po’ di capogiro. Mangio un po’ di carne, apro una scatola di marmellata e ne offro agli uomini e alle donne. Queste però non vogliono assaggiarla, scappano via. Solo una si fa ardita e vi affonda un dito dentro. La trova buona e allora lancia un richiamo alle altre che ridendo si decidono a mangiarne un piccolo boccone. Verso sera gli uomini si ritirano nelle tende. Mi ospitano dentro, al lume di grosse lanterne a petrolio. Mi spiegano che loro abitano in uno dei villaggi che si trovano ai piedi della montagna, verso sud, in margine alla piana di Dogubayazit: il villaggio che si vede dall’accampamento presso il fiume, giù basso e lontano, e che essi chiamano Kanekurt. Sono curdi, come dice il nome del loro villaggio. Vengono su ai primi di luglio e ci restano fino ai primi di ottobre. Lo fanno per il bestiame, che ha bisogno di fresco e di pastura, specie le mucche. Mi dicono che fino a metà agosto il tempo è brutto sulla montagna, ma poi diventa bello e specialmente in settembre non ci
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sono mai nuvole e non cade mai la neve. Adesso invece nevica quasi ogni settimana: ne vengono pochi centimetri che spariscono subito, però le notti sono fredde. Mi offrono un po’ della loro roba, ma non ho voglia di mangiare. Sento ancora i brividi. Mi faccio dare del tè. Poi mi ritiro subito nella mia tenda perché proprio non mi sento bene. Passo una notte terribile. Sento la febbre altissima e poi mi viene la diarrea. Devo uscire più volte dalla mia tenda nel freddo della notte. Sento il vento che fischia, i cani che ringhiano, lontani guaiti di sciacalli, latrati di lupi. In qualche modo arrivo all’alba. Fa ancora più freddo e uscendo vedo alla prima luce che uomini e donne sono già in piedi. Chiedo un tè caldo e poi delle coperte, e faccio capire loro che sto male. Mi dicono di stare dentro la tenda al caldo. Trascorro così tutta la giornata, dormendo quasi con continuità. Nel pomeriggio sono destato dai tuoni e dai fischi del vento; è un temporale. Cade qualche goccia sulla tenda e allora mi alzo e metto la testa fuori. C’è quasi buio e fitte nebbie avvolgono l’accampamento. Scorgo gli uomini e le donne seduti nelle loro tende che ridono e fumano. Loro stanno bene e quasi li invidio nella loro impassibilità. I boati rintronano a lungo sulle pendici della montagna, sembrano eruzioni del vulcano che si ridesta, accompagnate dal rotolare di apocalittiche valanghe giù per i pendii neri e profondi. Poi le gocce cessano e il cielo si rischiara, me ne accorgo dalla luce che filtra dalla tenda. Mi sento meglio e mi alzo. Gli uomini mi accolgono sorridendo, mi preparano subito un tè caldo. Così attendo la sera con loro. Più tardi il cielo si pulisce e gli orizzonti si spalancano, si tornano a vedere i monti lontani, le piccole case di Dogubayazit, le aride pianure in basso avvolte di calura e di polvere. L’aria è fresca e si sta bene. Avviso gli uomini che l’indomani mattina partirò presto per tentare la scalata. Mi offrono del kebab cotto da poco, un bel blocco di carne che mangio con avidità. Poi, prestissimo, mi rimetto a dormire. Alle tre del mattino mi sveglio, esco e vedo un cielo stupendo, con tantissime stelle e la luna alta sopra la montagna. Lascio lì la tenda e le altre cose che non servono e parto, mentre i cani ringhiano sentendo i miei movimenti. Seguo il sentiero che porta verso il fianco nord della montagna e quando scorgo, ormai con la luce, l’altro accampamento, punto direttamente verso la cima. È una salita penosa, mi pare di non avere forza nelle gambe. Devo ogni tanto sostare a riprendere fiato. La febbre del giorno prima mi ha indebolito, sono proprio svuotato di energia e volontà, anche se sento dentro una disperata voglia di martirizzarmi, già mi sembra tutto così lontano da non sentire più legami affettivi con nessuno, solo a tu per tu con questo mondo minerale. Provo soltanto istinti e sensazioni animali. Solo verso le dieci raggiungo i nevai. Ma camminare qui è anche più difficile, perché si affonda sino alle ginocchia nella neve marcia. Procedo ancora, ma sempre con grande difficoltà e a un certo momento, anzi, non ho più la forza di andare avanti. Mi siedo e guardo in su verso il crinale che orla il cratere sommitale
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della montagna, dove le nevi scintillano bianche e ghiacciate. Si ridestano in me una voglia, un desiderio umani. Se riuscissi ad arrivare lassù sarebbe fatta, sarei felice, poi non c’è che da attraversare la grande spianata che porta al punto più alto, verso levante, come ho potuto vedere bene da Dogubayazit tante volte. Sento fortissimo il richiamo di quelle nevi cristalline che mi ricordano, oltre che la vetta vicina, un ambiente alpino, familiare, e le belle sciate nei mattini invernali sulle montagne di casa mia. Mi rimetto in marcia, ma è inutile: non ho forza e non riesco a comandare alle mie gambe. Forse è anche l’altitudine, lo scarso allenamento: qui sarò a circa 4500 metri. Mi fermo definitivamente, rimproverandomi di aver affrontato l’impresa con troppa leggerezza e di aver sottovalutato alpinisticamente la montagna, ma intimamente contento di questa rinuncia ripagata ora dal ritrovarmi perfettamente solo, libero da ogni impegno e tutto presente a me stesso. Trascorsa qualche ora rannicchiato sul pendio nevoso, attento al silenzio e a tutte le cose intorno, comincio a scendere. Quasi subito nel cielo blu e nero vedo passare, molto più alto della cima e velocissimo, un jet con la sua coda bianca, come una scia di neve: probabilmente un aereo di linea diretto a Teheran. Verso le due sono già di ritorno all’accampamento. Gli uomini mi chiedono com’è andata: dicono «taman», meglio così, contenti che io non mi sia cacciato in una avventura pericolosa. Sciolgo in tutta fretta la tenda e mi avvio a scendere a Dogubayazit: una marcia interminabile e dolorosa. Così finisce la mia avventura sull’Ararat. Domani partirò per Teheran.
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La grande migrazione
Sono partito da Qandahar a bordo di una jeep di un ricco commerciante afghano diretto a Kabul. Il mio ospite, che è accompagnato da un autista e da un servo, è un uomo estremamente gentile. È anche una bella figura di uomo: per la sua statura alta, gli occhi dolci, il sorriso sincero, il vestire accurato. I suoi servi gli obbediscono con sollecito piacere e lui li ricambia con rapporti affettuosi. Li chiama per nome e ogni tanto li intrattiene scherzosamente, specie il servo, che è un uomo di origine turcomanna, con gli occhi tagliati alla cinese e le mascelle spigolose. Da Qandahar a Kabul sono circa cinquecento chilometri su pista. Si corre al centro di un’ampia valle dai bassi versanti che prende il nome dal fiume, ora in secca, che vi passa in mezzo, il Tarnak Rud. Si incontrano ogni tanto piccole carovane di nomadi; molti gli accampamenti. Il servo turcomanno ad un certo punto ordina all’autista di fermare lentamente la macchina. Imbraccia il fucile, lo carica e salta giù. Il suo padrone ride divertito e lo lascia fare. L’uomo ha mosse feline, da gatto: avanza silenziosamente tra i cespugli, incurvato, quasi strisciante. Lo vediamo sparire lontano e poi si sente uno sparo. Poco dopo ritorna con in mano una lepre. Il padrone si complimenta con lui e poi, rivolgendosi a me, mi fa capire quanto sia bravo il suo servo. Prima di ripartire la lepre viene rapidamente scuoiata dal turcomanno e messa penzoloni fuori dalla jeep, in modo che possa prendere aria e polvere e perdere così il sapore di selvatico. Quando si avvicina la sera, la macchina si ferma e il servo si dà subito da fare. Va a una pozza, lava la lepre, la infila nello spiedo, prepara il fuoco. Fa tutto con rapidità ed entusiasmo, felice di essere osservato dal suo padrone, ed emette piccole grida di gioia. L’autista intanto mette a posto la jeep, che è di marca russa, la spolvera, pulisce le candele, riempie i serbatoi di benzina. Il signore è seduto accanto a me e osserva ridendo i suoi uomini. Poi la lepre è cotta e il servo turcomanno ce la distribuisce in parti eguali insieme a un po’ di pane. Lui però non mangia subito, deve preparare il tè. Dopo che ci ha servito anche questo, mentre noi fumiamo una sigaretta, mangia la sua parte, mettendosi lontano, indisturbato. Giungiamo di notte a Kalat-i-Ghilzai, un paese dove c’è una specie di castel-
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lo con un bel giardino intorno recinto da mura. Dormiamo nell’alberghetto locale, anche questo con stanze ammuffite e polverose ma arredate con bei tappeti rosso sangue. Il mattino, prima di ripartire, andiamo in paese a fare provviste di pane, uva e tè. Il bazar della cittadina è affollato di nomadi. Tipi strani, piovuti da chissà dove, con vestiti e ornamenti vistosi, occhi molto pitturati, facce bruciate dal sole, bellissime. Ripartiamo attraversando adesso una grande steppa polverosa delimitata verso nord da montagne crestate, d’aspetto desolato. Di fianco alla strada ogni tanto passano gruppetti di nomadi con cammelli e asini. Uno di questi drappelli è guidato da una vecchia. Cammina con un bastone in mano, ma ha il volto d’un fascino indimenticabile. La pelle aderisce al cranio, un cranio piccolo, perfetto, da ariana. La bocca le sorride nei denti ancora sani. Pur nella sua bellezza mi fa pensare a una mummia risuscitata: una donna di cinquecento anni fa ricomparsa a guidare le carovane nelle steppe immutabili. Mi fa rievocare, quel volto di vecchia, tutto il passato dell’Asia, le sue storie lontane, le migrazioni dei popoli ariani, in una parola, si può dire, tutto il passato di una stirpe. Ha in sé qualcosa di eroico e la forza della sopravvivenza di una razza che ha dominato il mondo sino ad oggi. Quella vecchia mi appare come la progenitrice di tutti noi europei e occidentali. La trovo qui, in queste steppe, come una nonna dimenticata che ha conosciuto i nostri primi vagiti. Sopravvissuta miracolosamente in forma di mummia vivente in questi paesaggi che possono apparirci come paesaggi-museo del nostro remoto passato. Pochi chilometri più avanti si può scorgere un grande brulichio nella steppa. Qualcosa che si muove e avanza, tra nugoli di polvere, come una marea, una fiumana. Il mio ospite mi dice: «Sono i ghilzai che migrano, vengono dalle montagne di Ghazni e sono diretti verso i deserti intorno a Qandahar: fanno sempre così alla fine dell’estate». Mentre la macchina si avvicina, le figure brulicanti prendono forma. Vista la mia curiosità, il signore afghano fa fermare la macchina. Posso così assistere al passaggio dell’immensa carovana. È un intero popolo che migra. Vedo migliaia di cammelli, migliaia di pecore, migliaia di uomini e donne. Uno spettacolo grandioso, d’una bellezza biblica, da antica epopea, il più emozionante che si possa ancora vedere nell’Asia antica. Dapprima sfilano le avanguardie degli uomini con i cammelli: sono i giovani guerrieri e tutti hanno il fucile a tracolla, lo sguardo fiero, i turbanti che si agitano al vento. Vengono poi le grandi mandrie di cammelli guidati dagli uomini che scandiscono il ritmo del passo con un «ohé… ohé…» che si trasmette a tutta la carovana. Sui dorsi di molti cammelli sono issati grandi baldacchini ornati di frange e pendagli di seta colorati: ospitano le giovani ragazze da marito e i bambini più piccoli. Poi, a piedi o a dorso d’asino, passano le donne, le spose, i ragazzi, le vecchie e i vecchi. Vedo gente straordinaria. Le ragazze sono partico-
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larmente affascinanti: sembrano regine o attrici addobbate per uno spettacolo teatrale in costume. Sono vestite di amaranto, hanno le caviglie cariche di collane, fiori d’argento sul lobo del naso, sulla fronte pendagli di perle che coprono gli occhi e lo sguardo, bracciali di metallo massiccio, collari triplici, quadrupli sul petto. E sono fierissime, quasi hanno coscienza del fascino che emanano, compiaciute dello spettacolo di bellezza e di forza che la loro tribù offre nel passaggio attraverso le libere pianure. Dopo il passaggio della gente, seguono le sterminate greggi di pecore e montoni, guidate da uomini e donne a dorso d’asino. Nel suo insieme la carovana è lunga chilometri e chilometri, dato che ci sono i ritardatari. È un intero popolo che migra e lo spettacolo mi affascina. Il signore della jeep mi richiama con insistenti colpi di clacson, ma io non me la sento di perdere lo spettacolo. Mi sono messo proprio in un punto dove passa la fiumana e guardo tutti quei volti di donne, di uomini, di vecchi. Molti devono spostarsi per schivarmi. I loro visi sono seri, hanno l’ansietà degli animali in migrazione. Il clacson suona ancora. Allora vado dai miei compagni di viaggio e dico loro di non aspettarmi. Li prego di depositare il mio bagaglio in qualche albergo di Kabul, dei quali mi faccio dire il nome, e li invito a proseguire, scusandomi. Il signore afghano mi sconsiglia di unirmi a quella gente, potrei avere noie. Ma io sono risoluto. Insiste ancora dicendomi che quella gente maneggia i fucili con estrema leggerezza, che non vorranno avere gente estranea con sé. Alla fine però convinco il mio gentile ospite di proseguire e di non preoccuparsi per me. In fretta saluto il turcomanno, l’autista, e tiro fuori dai miei bagagli la borraccia, i soldi, la macchina fotografica e poche altre cose. Poi, vedendo un giovane guerriero della carovana che mi manda un saluto dall’alto del suo cammello, lo raggiungo e lo seguo a piedi. Lui ride. Dopo un po’ mi fa segno di salire sul cammello. Con un gesto rispondo di no, posso andare anche a piedi. Mi giro indietro e vedo che la jeep è già partita. Forse il signore ha perduto la pazienza, mi dispiace. Il giovane del cammello alla fine scende e mi fa salire sulla sua bestia. Mi sento anch’io uno della carovana. Il kuchi mi chiede dove vado: rispondo a Kalat-iGhilzai, tanto non so ancora che cosa farò. Nel frattempo altri giovani cammellieri si sono avvicinati e sembrano felici di avere una persona nuova nella tribù. Mi sorridono, sollevano i fucili in aria. La grande carovana prosegue con passo eguale, sollevando polvere. Le donne camminano scalze. Un gruppetto di esse mi scorge, ma non interrompono il passo, vanno via serie; forse sono stanche, i loro vestiti sono tutti impolverati. Il giovane mi fa capire che camminano ormai da una settimana e che vengono dal Janubi. Quando levo dal mio borsellino la macchina fotografica per riprendere le donne che camminano lì vicino si arrabbia, alza la voce, e mi ordina di metterla via subito. Ad un certo momento una parte della carovana si ferma. Gli uomini accorro-
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Eugenio Turri
no verso il settore della colonna dove camminano gli asini con le donne e gli uomini. Solo più tardi posso capire di che si tratta: è morto un uomo, un vecchio. Forse è morto di vecchiaia o di stanchezza. Scendo dal cammello perché voglio assistere al seppellimento. Il giovane che mi fa da compagno mi ordina di non avvicinarmi troppo. Posso però egualmente vedere la rapida cerimonia, i pianti di alcune donne, le preghiere recitate da un uomo che ha la funzione di mullah. Alcuni uomini hanno già scavato la fossa, fonda pochi decimetri. La salma viene malamente avvolta in una specie di lenzuolo bianco e poi deposta accanto alla tomba mentre vengono accesi dei fuocherelli con arbusti e semi che mandano un odore di agro. Avvicinandomi di più riesco a vedere la faccia del morto, mezzo scoperta. I suoi occhi hanno una serenità, una pace sublime, forse non vedono ancora Munkar e Nakir, gli angeli giustizieri dagli occhi di fuoco dell’al di là musulmano, o forse vedono gli astori e i corvi che volano sopra la steppa e già pronti a sbranarlo. Il mullah continua a recitare preghiere e adesso tutta la gente intorno è ferma, in piedi, col capo chino: sono rivolti verso sud-ovest, verso la Mecca. Alcune donne piangono e strillano. Il vento agita appena i turbanti bianchi degli uomini. Poi i parenti del morto raccolgono delle manciate di terra e cominciano così a coprire la salma. In breve essa rimane sepolta. Un sasso viene posto in corrispondenza della testa del defunto e sul tumulo il mullah pianta alcuni bastoni con attaccati dei pezzi di stoffa. Così tutto finisce, sembra che la gente abbia fretta di riprendere il cammino. Nelle prime ore del pomeriggio si formano i drappelli; la carovana si rompe. I vari clan vanno per conto loro in cerca di un terreno dove accamparsi. Siamo arrivati alle porte di Kalat-i-Ghilzai. A questo punto un uomo mi viene vicino. È il capo della carovana. Mi chiede chi sono, che cosa voglio, dove vado. Rispondo che devo raggiungere Kalat-iGhilzai. Lui allora mi fa segno che il paese è vicino e che posso andarci da solo; mi fa capire insomma che devo abbandonare la carovana. Ha l’aria cattiva. Devo così andarmene e raggiungo subito l’albergo dove ho dormito già la notte prima. Mangio frutta e pane comperati al bazar. Poi, verso sera, lo stesso uomo che mi ha cacciato via dalla carovana viene a cercarmi. Mi invita a scendere in strada a bere un tè. È adesso molto gentile. Mi spiega che il signore afghano della jeep gli ha mandato a dire, per mezzo di una persona incontrata per strada e diretta a Kalat-i-Ghilzai, di sorvegliare su di me e di darmi buona ospitalità. Quel signore, mi dice il capo-carovana, è amico del Re. Sono quasi confuso. L’uomo, una bella figura di kuchi riccamente vestito, mi invita a raggiungere il suo accampamento. Mi accoglie nella sua tenda e mi fa conoscere i suoi figli. Sono anch’essi molto eleganti e portano una cartucciera a tracolla. Si fanno da parte per lasciarmi posto accanto a sé, sui ricchi tappeti. Nell’accampamento, formato da centinaia di tende e situato a non più di mezzo chilometro dal paese, molte donne ancora lavorano per piantare le tende, al-
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tre vanno a prendere acqua in un pozzo vicino. C’è un gran trambusto e altre piccole carovane ritardatarie continuano ad arrivare. Esprimo ai miei ospiti tutto il mio entusiasmo per lo spettacolo offerto dal loro popolo in migrazione. Rimangono in silenzio. Poi il capo mi invita a restare con sé alcuni giorni: sosteranno lì quasi una settimana intera per far riposare le bestie. Allora i suoi figli si alzano per accompagnarmi all’albergo e il padre mi saluta mettendo umilmente la mano sul cuore e dicendo: as-salamaleikum. Il mattino dopo, in attesa di ripartire, vado a fare un giro dalle parti dell’accampamento, tanto forte è in me l’attrazione suscitata da questi kuchi. Vedo file di donne che si dirigono verso un pozzo ai limiti di un campo a prendere acqua con le ghirbe. Mi dirigo anch’io da quella parte e trovo qui un contadino con suo figlio. È proprietario del pozzo e vende l’acqua ai nomadi, un tanto alla giornata. Le donne in fila, ad una ad una, riempiono i loro pesanti recipienti. Sono le stesse donne che avevo visto il giorno prima durante la marcia. Vedo giovanissime madri incinte. Sono ben vestite e cariche dei loro ornamenti che non levano mai e quasi fanno parte della loro dote personale: quasi si direbbero parti del corpo, importanti e preziosi per la loro bellezza come lo splendore della bocca e degli occhi. Tra le donne vi è una ragazza di notevole bellezza. Alta, sguardo fiero, occhi scintillanti, vesti e ornamenti vistosi. Forse è figlia di qualche personaggio importante della tribù. Mentre si china a prendere l’acqua le si può vedere il bel seno che spunta fuori dal corpetto di velluto aperto davanti. Preparo la macchina fotografica per riprenderla appena sollevata, ma lei se ne accorge. Scatta e, furente, è anche più bella. Mi metto a ridere e dico nella mia lingua: «calma, calma ragazza». E lei allora ripete per schernirmi: «cama, cama cagassa». Mi fa la parodia e mi lancia occhiate cattive. Le altre donne tengono il capo chino e non mi guardano. Poi arriva un uomo e si mette a urlare minacciandomi coi pugni chiusi. Devo ritirarmi e così, per me, le donne kuchi conservano ancor più il loro fascino di antiche e inavvicinabili regine. Il contadino mi prega di allontanarmi e mi fa un gesto come di compatimento: «kuchi, kuchi…», come dire gente fatta a suo modo e che è meglio guardare da lontano e non parlarci insieme.
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Lungo la Via della Seta nel cuore delle civiltà dell’altro dove il male non segue linee rette ma le contorte convulsioni del nostro Occidente Eugenio Turri esploratore e geografo viaggiò nel millenovecentocinquantotto lasciandocene testimonianza in un libro che esce in nuova edizione fotograficamente arricchita dal portfolio di allora stampato nel carattere Garamond su carta Fabriano Acid Free dalla tipografia L’Artistica Savigliano di Savigliano per conto di Edizioni Diabasis nel gennaio dell’anno duemila quattro
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