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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio anno1 - numero 0 - luglio–dicembre 2003 Firenze University Press

EDITORIALE GIULIO G. RIZZO*

Era il 1997 quando, su iniziativa di Mariella Zoppi, avviammo il dottorato di ricerca in progettazione paesistica, subito connotato da un collegio dei docenti plurisede e multidisciplinare1. L’anno successivo, sempre nella facoltà di architettura di Firenze, iniziò l’attività della scuola di specializzazione in architettura dei giardini e progettazione del paesaggio, oggi trasformata in master. Non era un caso che il dipartimento di urbanistica e pianificazione del territorio avviasse le due attività didattiche prima ricordate. Infatti, molti dei docenti e dei ricercatori del dipartimento da decenni si occupano di paesaggio, di architettura del paesaggio, di arte dei giardini. Basti ricordare che il libro del 1969 di Jan L. McHarg, considerato lo studioso che ha messo a punto i temi della pianificazione ecologica, “Design with nature”, fu divulgato, anche se parzialmente, proprio da Guido Ferrara nel 1978, nel suo “Risorse del territorio e politiche di piano”. Gli anni settanta, per molti versi, sono stati, per il paesaggio, gli anni dell’avvio della ricerca e della sperimentazione progettuale. Il piano della costiera amalfitana, di Mario Coppa, e quello della penisola sorrentina, di Renato Bonelli, furono, proprio agli inizi di quella decade, l’avvio di quella riflessione nuova sulle tematiche paesaggistiche, che ha progressivamente pervaso altre discipline, fino a diventare patrimonio culturale condiviso. Il dottorato di ricerca in progettazione paesistica ha, pur nella sua breve storia2, voluto contribuire all’evoluzione e all’approfondimento disciplinare, impostando modalità di ricerca, di confronto, di approfondimento e di divulgazione che hanno dato frutti interessanti. Il dottorato in progettazione paesistica ha perseguito un modello formativo fondato sullo stretto rapporto tra collegio dei docenti, singoli docenti e dottorandi. In particolare il collegio dei docenti ha assunto il ruolo di gruppo guida e di orientamento scientifico, che coordina le attività di ricerca svolte dai dottorandi, organizza seminari di alto profilo allo scopo di contribuire alla formazione scientifica dei dottorandi e di portare all'interno del dottorato stesso esperienze qualificate di riflessione scientifica e di applicazione pratica difficilmente consultabili in altro modo. L'approccio pedagogico sperimentato fin dal nascere del dottorato, che nel corso degli anni si è venuto affinando anche con il contributo che i singoli docenti forniscono con appositi cicli di lezioni, ha mirato ad incentivare la capacità propositiva dei singoli dottorandi in un rapporto attivo e sistematico sia con il collegio dei docenti, sia con i singoli professori che ne fanno parte. Il lavoro è svolto in una sorta di laboratorio, allargato a docenti, esperti, cultori e dottori di ricerca già formati, fortemente autogestito dai dottorandi, sotto la guida del coordinatore e dei docenti del collegio. Ciò ha consentito di elevare sistematicamente e dialetticamente il livello concettuale e scientifico 1

Inizialmente facevano parte del collegio docenti di Genova, Firenze e Roma. Attualmente le sedi che concorrono la dottorato sono Firenze, Milano e Torino. 2 Sono stati formati fino ad ora otto dottori di ricerca, tutti coloro che sono stati ammessi ai cicli dodicesimo, quattordicesimo e quindicesimo, il tredicesimo ciclo non era stato acceso, altri dieci dottorandi dei cicli successivi si accingono a concludere l’esperienza triennale.


complessivo, tesaurizzando l'esperienza scientifica e culturale maturata in ogni anno. Proprio la consapevolezza della possibilità di tesaurizzare e accumulare il sapere prodotto ci ha spinto nel luglio del 2001 ad aprire uno spazio web, ospitato presso il sito dell’Università di Firenze - www.unifi.it/drprogettazionepaesistica -, nel quale far confluire le esperienze e le riflessioni maturate, per favorire l'interscambio tra le varie sedi italiane europee e mondiali sulle tematiche paesaggistiche. Questo spazio ha ricevuto apprezzamenti lusinghieri sottolineati dall’alto numero di visite e dall’enorme quantità di ricercatori di molti paesi che lo hanno visitato da ogni continente3. Incoraggiati dall’esperienza del sito abbiamo pensato di migliorare ulteriormente il nostro modo di comunicare con l’esterno. Per far ciò abbiamo immaginato che una rivista fosse lo strumento più idoneo per divulgare le attività del laboratorio e i contributi di ricerca dei tanti studiosi che vi partecipano. La rivista, che ha una periodicità semestrale, sarà a breve tempo accompagnata da una collana annuale di quaderni, nella quale si riverseranno le singole attività di ricerca svolte dai dottorandi nel corso dell’anno solare. Lo scopo della Ri-vista e dei Quaderni, è quello di divulgare le conoscenze disciplinari che il dottorato in progettazione paesistica accumula nel tempo. Non tanto, dunque, un’ennesima iniziativa editoriale in un settore culturale e disciplinare in crescita, ma la ferma volontà di diffondere conoscenze ed esperienze che altrimenti andrebbero perse. Sono molte, nelle nostre università, le attività che si perdono nel nulla, ad iniziare dalle tesi di laurea, spesso di livello alto e frutto di anni di ricerca. Vorremmo, con la trilogia di iniziative da noi varate (Ri-vista, Quaderni e sito), ognuna con caratteristiche ben definite, ma interponesse, in modo che si possa passare da una all’altra con facilità visitando la rete, contribuire a divulgare ciò che si fa nell’università. Le ricerche che svolgiamo annualmente, così come le attività scientifiche e culturali che continuiamo a promuovere, saranno così messe a disposizione di studiosi, ricercatori e cultori in modo da contribuire ad estendere la conoscenza delle tematiche paesaggistiche. Oltre a ciò gli strumenti immaginati di apertura all’esterno consentono ai nostri dottorandi di avere uno strumento in più per entrare in contatto con studiosi di tutto il mondo aumentando così la propria conoscenza. La Ri-vista ed i Quaderni sono gestiti autonomamente dai dottorandi, coadiuvati da un direttore e da un consiglio scientifico, già da ora internazionale, che ci accingiamo a consolidare nel prossimo futuro con altri autorevoli studiosi del paesaggio.

STRUTTURA DELLA RI-VISTA La Ri-vista è strutturata in quattro sezioni: saggi, dialoghi, itinerari, eventi e segnalazioni. La scelta delle sezioni è intimamente connessa alle attività svolte dal dottorato. La sezione saggi, raccoglierà due tipi di contributi: quelli prodotti dal laboratorio di ricerca del dottorato e quelli che ci saranno forniti dagli studiosi, dagli esperti e dai progettisti, che interagiscono, in varie forme, con noi. La sezione dialoghi ospita dialoghi con studiosi e progettisti del paesaggio di chiara fama, ai quali rivolgeremo domande che scaturiscono da dubbi, interrogativi e curiosità che sorgono nei nostri percorsi di ricerca. La sezione itinerari vuol essere la sede dove si testimonieranno sia gli itinerari culturali che via via i dottorandi compiono, sia i più significativi itinerari percorsi nel laboratorio a cielo aperto nel quale studiamo e, infine, luoghi e paesaggi, uomini e culture. Nella sezione eventi e segnalazioni si darà notizia critica di eventi svolti ai quali in qualche modo il dottorato ha partecipato e

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Il sito dalla fine di luglio 2001 ad oggi, in ottocentoquaranta giorni ha ricevuto seimilacinquecento visite per ottomilaquattrocento pagine lette con una media di dieci pagine al giorno. Quasi il quaranta percento delle pagine visitate è del 2003, a dimostrazione che il bacino di utenza delle nostre informazioni si consolida e aumenta di anno in anno. I visitatori provengono da oltre settanta paesi sparsi in tutti continenti, ma i visitatori più assidui sono europei e sudamericani.


s’informerà su eventi futuri scelti e selezionati per l’interesse che avranno con le tematiche di nostro interesse.

QUESTO NUMERO Il numero che presentiamo è il primo, dunque ha, per ovvi motivi, un forte carattere sperimentale. È sperimentale la grafica, che ci auguriamo di completare e migliorare nei prossimi numeri. È sperimentale l’organizzazione interna alla redazione, che ha bisogno, come in tutte le nuove iniziative editoriali, di un periodo, che ci auguriamo breve, nel quale si acquisisce esperienza e competenza. I componenti della redazione sono giovani alla prima esperienza che, pur dotati di un enorme entusiasmo, hanno bisogno di accumulare esperienza. È sperimentale perfino la struttura della Ri-vista, che pur nascendo da un lungo periodo di gestazione non ha ancora avuto il placet dei lettori, dai quali ci attendiamo suggerimenti e critiche, ma anche proposte e contributi. Il numero si apre con il saggio di Mariella Zoppi sull’evoluzione del concetto di paesaggio. La Zoppi ripercorre criticamente le definizioni di paesaggio, giungendo a identificare la “sfida” del prossimo futuro nella pianificazione da intendersi come controllo, gestione e mantenimento dei livelli qualitativi dei territori. Roberto Gambino inizia il suo scritto con un tremendo interrogativo: che senso ha il paesaggio per la società contemporanea? E prosegue chiedendosi: quali sono le ragioni attuali della questione paesistica? Il primo interrogativo, condiviso credo da ciascuno studioso di queste tematiche, nasce dalla constatazione che assistiamo da tempo allo smantellamento silenzioso e continuo dei paesaggi originari e alle devastazioni catastrofiche prodotte dalle calamità annunciate quando non propriamente pianificate. Il secondo porta gradualmente Gambino a costatare che la questione paesistica, lungi dal potersi ridurre ad un mero problema di razionalizzazione tecnico-amministrativa dell’azione di tutela, investe quindi i rapporti tra società e territorio, il modo in cui essi si danno oggi non solo nel nostro paese e il modo in cui è possibile ridisegnarli. Gambino, dopo aver ripercorso in modo esemplare concetti, metodologie, atteggiamenti, norme, auspici e criteri progettuali, delinea le prospettive di conservazione innovativa del patrimonio paesistico – in cui la conservazione dei valori ereditari è inscindibile dalla produzione di nuovi valori - che vanno ben oltre la tradizionale tutela vincolistica. Superare la tentazione vincolistica -che alla luce dei risultati appare sempre più come una sorta di presa d’atto che, al di là di pochi paesaggi che per la loro eccezionalità ed unicità ottengono un unanime, o quasi, consenso di tutela, per il “paesaggio” fatto da tutti noi non ci sia nulla, o quasi, da fare-, significa per Gambino un salto culturale che impegni tutta la collettività. Conclude, infatti Gambino, che il progetto del paesaggio non può tradursi in regole autenticamente conservative, se non tende prima di tutto alla produzione di valori, nel vivo dell’agire comunicativo e con riferimento diretto alle dinamiche plurali che attraversano la società contemporanea. Paolo Baldeschi illustra il suo progetto di tutela del paesaggio storico del Chianti. Un progetto che si è posto l’obiettivo di preparare un primo Programma contenente indirizzi e strumenti di intervento che potessero essere immediatamente finanziati e sperimentati. Baldeschi sintetizza il metodo seguito, i paradigmi e le parole d’ordine, che hanno sostenuto l’azione progettuale, le difficoltà e le scoperte, le regole, da mantenere o da cambiare, in buona sostanza le ragioni di un attento programma di paesaggio che giunge perfino a definire una sorta di manualistica per particolari interventi di ricupero di segni storici: i muri a secco. Ma anche Baldeschi, pur con tutta la passione con la quale ha redatto sia il progetto sia il saggio, giunge alla stessa conclusione degli autori precedenti. Da una parte il paesaggio non si tutela per decreto, si potrebbe sintetizzare, dall’altra non basta un buon programma e un attento progetto per garantire il futuro di luoghi pregevoli come l’area del Chianti: sono piuttosto valori e


atteggiamenti culturali condivisi, un senso comune del paesaggio che fonda anche la comunità (mi permetto di sottolineare queste parole) a definire l’ambito e i contenuti della politiche di tutela. Guido Ferrara e Giuliana Campioni, ci rendono partecipi di un percorso metodologico per capire e progettare. Dopo aver sottolineato le opportunità, anche concettuali, aperte dalla condivisione, ormai generalizzate, dello “sviluppo sostenibile”, gli autori impostano una serie di “obiettivi” che il piano strategico deve in qualche modo porsi. Si tratta di una sorta di documento da sottoporre alle collettività in cui si opera allo scopo di raggiungere quegli atteggiamenti culturali condivisi, sottolineati da Baldeschi, senza i quali il progetto di paesaggio ha un futuro incerto e forse anche contraddittorio. Sempre sui temi della pianificazione strategica interviene Bernardino Romano. L’autore pone anche lui una serie di interrogativi che sottopone nel confronto dialettico agli altri studiosi. E’ “tecnicamente” giusto che le aree protette siano il più ampie possibile? E’ corretto che i confini dei parchi derivino da un confronto di contrattazione con le amministrazioni, più che da una adeguata lettura scientifica dei valori di soglia? E’ auspicabile che tutte le parti del territorio dotate di un minimo di rilevanza ambientale divengano parchi, mentre le parti restanti assorbano tutte le massicce pressioni di trasformazione e di consumo? E’ credibile, infine, che la sola forma di garanzia per il mantenimento delle qualità ambientali di un certo luogo sia la sua inclusione in un’area protetta? A me sembra che la sensibilità di studioso che caratterizza gli scritti di Romano, lo abbia portato al nocciolo di alcune questioni di fondo, tra tutte il rapporto tra studioso e amministratori locali, che sicuramente è ancora ben lungi dall’aver trovato un modus vivendi, ma soprattutto un modus operandi, cristallino. È una vecchia questione, come l’hanno affrontata e a volte subita, gli urbanisti nei decenni passati. Gli interrogativi posti da Romano, compreso quello sul quale ci siamo soffermati, conducono, però alla medesima conclusione precedente: solo un atteggiamento culturale condiviso dalla collettività può sciogliere i dubbi posti dall’autore. La seconda sezione ospita una lungo e interessante dialogo di Emanuela Morelli con uno studioso attento alla storia del paesaggio e dei giardini: Luigi Zangheri. Un dialogo che ripercorre momenti salienti dell’atteggiamento culturale nei confronti dei giardini, soprattutto di quelli storici. Gli autori citati durante la conversazione sono numerosi e vogliamo sperare che quest’occasione sia un ottimo stimolo per approfondire lo studio di autori, saggisti e progettisti del Novecento italiano. Il pregio della conversazione è quello di aver ricostruito una sorta di bibliografia ragionata e colta che invoglia ad approfondire un lungo periodo della storia del giardino nel nostro paese. La sezione itinerari ospita due saggi uno di Antonello Boatti e l’altro di Francesca Bagliani e Ermanno De Biaggi. Boatti si sofferma sul ruolo che può ri-avere il sistema delle risorse idriche nella ri-definizione delle nuove qualità urbane in Milano. Bagliani e De Biaggi ci portano a Torino e ci descrivono la corona verde torinese. Chiude questo numero della Ri-vista la sezione eventi e segnalazioni, che ospita i contributi di Claudia Cassatella e Alessandra Cazzola.

* Università degli Studi di Firenze Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purchè sia correttamente citata la fonte.


Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio Anno 1 - numero 0 - luglio - dicembre 2003 Firenze University Press

PAESAGGIO: EVOLUZIONE DI UN CONCETTO Mariella Zoppi*

Architettura del paesaggio deriva dalla traduzione letterale dell’inglese Landscape Architecture. Questa disciplina compare per la prima volta all’inizio del secolo XX come materia di insegnamento negli Stati Uniti (precisamente alla Harvard University, nel 1900) e, subito dopo, in Inghilterra; mentre in Italia e nel sud dell’Europa resta per lungo tempo una materia legata al progetto del giardino (Arte dei Giardini, Architettura dei Giardini), quindi definita da un ambito più circoscritto e legata ad una forte componente artistica. La definizione di Architettura del paesaggio è connotata dal semplice accostamento di due parole: architettura, che dà il senso del costruire e del modificare ovvero del comporre attraverso regole, principi, tecniche, scienza, conoscenza e creatività, e paesaggio che introduce il senso della percezione dei luoghi e che, nel tempo, contrariamente a quello che è avvenuto per il termine architettura, ha assunto significati diversi. Proprio a causa di questa evoluzione di significato è necessaria una breve digressione sul termine paesaggio, perché nessun vocabolario ci fornisce una definizione esaustiva ed attuale di questo vocabolo, che nel corso degli ultimi vent’anni ha subito una netta evoluzione e contiene al suo interno una molteplicità di significati che pur avendo a che fare con la disciplina, non colgono l’interezza e la profondità del campo di studi trattato. Confrontiamo alcune definizioni di “paesaggio”, come riportate dai principali vocabolari italiani e stranieri, iniziando dall’italiano Devoto-Oli, in cui leggiamo che il paesaggio è :“1. Porzione di territorio considerata dal punto di vista prospettico o descrittivo, per lo più con un senso affettivo cui può più o meno associarsi anche un’esigenza di ordine artistico ed estetico. 2. In geografia, il complesso di elementi caratteristici di una determinata zona (p. desertico, p. montano, ecc.)”, mentre nel Grande Larousse Universel, si legge: “Distesa geografica che permette una visione d’insieme; sito, vista. Vista d’insieme che si può avere solo da un determinato punto di osservazione”. Nel Dizionario dell’Accademia Reale Spagnola: “Porzione di terreno considerata sotto il suo aspetto artistico” ed infine nell'Enciclopedia Universale dell’Arte: “...ogni dipinto che rappresenti una veduta nella quale la rappresentazione dello scenario naturale sia presa a soggetto o prevalga sull’azione delle figure”. Da queste definizioni si evince uno stretto legame fra l’aspetto esteriore dei luoghi e la loro riconoscibilità come “paesaggi”. Tuttavia, oggi, grazie agli apporti dei geografi, degli urbanisti e degli architetti, ma anche dei sociologi, degli storici, degli economisti e perfino dei letterati, il concetto estetico legato al paesaggio è stato ampiamente superato a favore di un senso più ampio e profondo che, partendo dalla sua primigenia connotazione di “veduta,” ovvero di vista prospettica di un luogo particolarmente suggestivo, si avvicina ad ambiti geografici nei quali si coglie appieno la vita ed il lavoro dell’uomo. Le prime immagini che ci vengono in mente sono legate a situazioni particolari (ad esempio la campagna toscana) o a momenti irripetibili di percezione (ad esempio un tramonto). Il paesaggio continua ad essere associato all’idea del bello, del suggestivo, quasi ad una immagine da rendere statica attraverso una fotografia o una cartolina. Ma vi sono “altri” paesaggi che non metteremmo mai in cartolina, si pensi ad una discarica o ad una campagna inaridita o ai margini indefiniti

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di una città: tutto questo non appartiene alla categoria del “bello” e, tuttavia, è parte integrante del nostro “saper vedere il territorio” e dunque del paesaggio che ci circonda. Ed allora, se escludiamo per un istante qualsiasi riferimento alla bellezza, ne deriva una sorta di identità fra ogni singolo luogo ed il suo paesaggio, che altro non è che la “forma” apparente e profonda del luogo, quale “io” (come osservatore) percepisco. Ma la mia percezione è un fatto esclusivamente personale e contingente e dunque non può come tale costituire un fondamento disciplinare, devo dunque compiere una serie di operazioni di estraniazione: devo oggettivizzare, analizzare e indagare per poter realmente comprendere ed avere una visione “completa” e trasmissibile ad altri di quel paesaggio. Siamo così giunti ad una importante acquisizione: il paesaggio è un concetto che attiene a qualsiasi luogo “identificabile” ovvero descrivibile. Ogni luogo ha dignità di paesaggio e, ovviamente, possiamo considerare una grande varietà di paesaggi: il paesaggio agricolo, il paesaggio urbano, il paesaggio naturale, ecc., e per ognuna di queste varietà si possono aggiungere ulteriori specificazioni: paesaggio da conservare, da riqualificare o da rinaturalizzare. Un concetto complesso che si sovrappone alle immagini (ciò che appare, ciò che può essere percepito visivamente) per recuperare l’identità dei luoghi (ovvero con la sedimentazione delle loro trasformazioni superficiali/storiche e profonde/geomorfologiche). Appare lontana la concezione meramente estetica di paesaggio che aveva prodotto anche iniziative legislative interessanti, come la L. 1497 del 29 giugno 1939 sulla Protezione delle bellezze naturali e panoramiche, che insieme alla L. 1089 del 1 giugno 1939 sulla Protezione delle cose d’interesse storico-artistico, ha permesso di proteggere e salvare non poche delle aree più pregevoli del nostro paese. Obiettivo principale della legge del 1939 era, e non poteva essere diversamente, basato sulla “eccezionalità” dei luoghi. Va tuttavia rilevato che l’importanza del paesaggio emerge nel nostro paese, fin dal 1946, quando i Costituenti lo indicano come campo di tutela nell’art. 9 della Costituzione della Repubblica Italiana. La legislazione ha una sua evoluzione nel 1975 con la legge n. 382 e, dieci anni dopo, nel 1985 con la L. 431, nota come legge Galasso, che ha significativamente esteso le indicazioni di tutela per le aree di interesse ambientale e paesaggistico, prendendo atto di una evoluzione del concetto di paesaggio legato al complesso delle protezioni ambientali (aree protette, inquinamento acustico, difesa idraulica ed idrogeologica, assetto del territorio ecc.) ed estendendolo a vaste aree del territorio nazionale e superando le protezioni puntiformi e circoscritte ad ambienti eccezionali. Tuttavia il documento più recente e completo in cui viene affermata l’unitarietà del rapporto paesaggio-territorio, è la Convenzione Europea del Paesaggio (firmata il 20 ottobre 2000 a Firenze), che supera ogni ambiguità interpretativa in materia e, fin dal suo primo articolo, ci fornisce una serie di definizioni con valenza pratica e teorica, a partire da quella fondamentale di Paesaggio come individuazione di “una parte di territorio, per come è percepito dalle popolazioni, le cui caratteristiche sono il risultato delle azioni e delle interazioni dei fattori naturali e/o umani”. Alla quale seguono quella di Politica del paesaggio, degli Obiettivi di qualità, di Protezione, di Gestione e di Pianificazione del paesaggio che, come viene specificato, comprende le azioni che prospettano forti elementi di cambiamento in una prospettiva di valorizzazione, restauro o creazione di un paesaggio. Definizioni forse pleonastiche, in parte scontate, ma necessarie per far chiarezza e per immettere senza incertezza o ambiguità un altro concetto fondamentale ed inscindibile, quello di “risorsa”, trasformabile, ma non rinnovabile, che va protetta e guidata nella sua evoluzione. Ogni trasformazione deve infatti rispondere a criteri di compatibilità e sostenibilità, deve essere compatibile con la morfologia e l’assetto dei luoghi, con la storia che quell’aspetto ha determinato e con le evoluzioni ipotizzabili ed, infine, sostenibile in rapporto alla vita ed al lavoro degli uomini che in quegli stessi luoghi oggi vivono e lavorano e vi vivranno e vi lavoreranno in futuro.

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Siamo dunque passati da una concezione estetica, statica e quasi contemplativa ad una concezione strutturale e dinamica del paesaggio. Nella prima comparivano esclusivamente le categorie della conservazione e della protezione dei siti, nella seconda accanto ai concetti di conservazione e protezione, troviamo quelli di valorizzazione, ripristino, progettazione e pianificazione. In tal modo si sono relazionati coerentemente i due termini di architettura e di paesaggio, che tuttavia necessitano di una pur sommaria valutazione delle grandi trasformazioni storiche riscontrabili sul territorio. Non possiamo non partire da quella prima intuizione che oltre quattro millenni fa ha trasformato il deserto in un giardino per arrivare ai grandi cambiamenti di paesaggio. Ambienti che oggi ci appaiono familiari - dalle pinete del Ravennate e della costa tirrenica ai terrazzamenti piantati ad agrumi della Costiera Amalfitana - rappresentano importanti sovvertimenti di antichi paesaggi. Furono i romani a piantare i pini sul mare vicino ai porti principali per poter avere legname idoneo alla costruzione di navi e ad abbattere costose e complesse operazioni di trasporto del materiale; in modo analogo la conquista araba ha cambiato il volto delle coste del Mediterraneo. Solo dal IX secolo in poi vite ed ulivo convivono con peschi e mandorli, così come fichi e cipressi coesistono con aranci e limoni, mentre la Sicilia da granaio di Roma diventa terra di giardini di agrumi. Prima della conquista araba (878-1061) il paesaggio della Sicilia e quello di tutta l’Italia meridionale era quello del I secolo d.C., caratterizzato da una varietà di piante e di colture assai limitata. Com’è noto, infatti, i fiori e arbusti usati dai romani fanno riferimento a poche specie e solo in qualche raffinata pittura pompeiana possiamo vedere come elemento decorativo un alberello di limoni (una vera rarità, un lusso raffinato) che spunta da un tripudio di piante di alloro e di rose. Le prime piante importate nella nostra penisola sono sicuramente il cedro, il fico, il melograno e la vite che compaiono già nel I millennio a.C., mentre con l’espandersi dell’impero romano, vengono introdotte la palma da dattero (molto nota in Grecia) ed il pino ad ombrello o domestico che avrà una enorme diffusione, mentre l’oleandro se pur conosciuto dovrà aspettare il XVI secolo per un uso più ampio. Sono piante che vanno ad aggiungersi alla flora autoctona nella quale erano compresi certamente il mirto, il corbezzolo, il nocciolo, l’alloro ed il gelso moro. I fiori più comuni in età romana erano la rosa, il giglio e l’iris, mentre il garofano sarà veicolato dagli Arabi solo nel XIII secolo, così come il giacinto, il narciso ed il tulipano. Dopo il XVII secolo dal Giappone giungono fiori come ortensie, crisantemi, camelie e gerani e piante come kaki, magnolie, mimose per non parlare dei bambù, del bouganville e dell’ailanto, che oggi consideriamo infestante; mentre con la scoperta dell’America giungono in Europa begonie, dalie, salvia splendens e piante considerate consuete e tipiche dei nostri paesaggi caldi come il fico d’India. Piante che arricchiscono e colorano la nostra terra, per non parlare di quelle che sovvertono le tradizioni alimentari come il pomodoro, la patata ed il mais o che introducono abitudini oggi consuete come il caffè ed il tabacco. Ma i cambiamenti non sono avvenuti solo nel passato, essi interessano anche epoche molto recenti. Pensiamo alle bonifiche: accanto a quelle storiche, come quella della Val di Chiana (sec. XVIII, bonifiche leopoldine), convivono quelle della Maremma toscana, della Sardegna e dell’Agro Pontino, iniziate nei primi decenni del secolo XX e che ebbero un grande impulso negli anni ‘30 dello scorso secolo. E’ una trasformazione che incide su zone paludose ed umide e le converte in vaste pianure per la produzione agricola, un cambiamento di immagine dei luoghi, ma anche dell’economia, del modo di vivere e di lavorare della gente. Ambiti territoriali dove sono stati creati insediamenti sparsi (le case agricole), villaggi e vere e proprie città che, a distanza di mezzo secolo, si sono sviluppate e si propongono come interessanti esempi di pianificazione urbanistica e di realizzazioni architettoniche, come Littoria (oggi Latina), Sabaudia o Giudonia collegata all’istituzione del Parco nazionale del Circeo (1934) ed alle bonifiche pontine. Diverse valutazioni possono essere date sulle trasformazioni, concezioni diverse possono affrontarsi e scontrarsi in sede scientifica o accademica, tuttavia restano testimonianza di

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processi economici, di concessioni ideologiche che fanno parte della storia e dell’evoluzione dei luoghi. Paesaggi, dunque, dove ogni concetto di staticità è bandito ed il cambiamento appare connaturato alla loro stessa natura, indotto dalla vitalità e dal lavoro dell’uomo, regolato da processi economici e sociali che segnano i territori, mutandone le caratteristiche superficiali e definendo nuove immagini. L’evoluzione dei paesaggi, assai lenta nei secoli precedenti, ha acquistato ritmi veloci (sfuggendo talvolta a qualsiasi controllo) negli ultimi 50 anni: il problema, anzi la sfida, della pianificazione di questo XXI secolo passa per il controllo, per la gestione ed il mantenimento dei livelli qualitativi dei territori; operazione possibile solo in una concezione integrata ed unitaria della pianificazione paesistica e di quella urbanistica che impone il conseguimento di un equilibrio dinamico delle operazioni di conservazione, trasformazione e sviluppo dei luoghi. Le uniche in grado di garantire una tutela vitale di ogni paesaggio, di ogni territorio senza frenarne lo sviluppo e la necessaria capacità di adeguarsi ad ineludibili mutamenti. * Università degli Studi di Firenze Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purchè sia correttamente citata la fonte.

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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio anno1 - numero 0 - luglio–dicembre 2003 Firenze University Press PROGETTO E CONSERVAZIONE DEL PAESAGGIO * Roberto Gambino** 1. ATTUALITÀ DEL PAESAGGIO Che senso ha il paesaggio per la società contemporanea? Quali sono le ragioni attuali della questione paesistica? A domande come queste occorre tentare di rispondere se si vuol capire il ruolo del progetto di paesaggio in rapporto alla conservazione di quel patrimonio di valori naturali e culturali che nel paesaggio trovano espressione riassuntiva. E’ fin troppo ovvio cercare le ragioni del crescente rilievo politico e sociale della questione paesistica in quel groviglio di ansie e di paure, di speranze e delusioni, in quell’”ampio e profondo cambiamento nella struttura del sentire” (Harvey, 1993) che caratterizzano la società tardomoderna o post-moderna. Se la nascita del paesaggio può essere messa in relazione con l’esordio del capitalismo (Cosgrove, 1984) agli albori della “projecting age”, non stupisce che la sua “morte annunciata” (Dagognet, 1982) possa essere posta in relazione con la crisi del progetto moderno e le sue radici strutturali. La questione paesistica, come viene oggi percepita, non è certo slegata dai processi di globalizzazione delle dinamiche economiche, sociali e culturali, coi loro contraddittori effetti di omologazione e modernizzazione unificante, da un lato, di squilibri, diseguaglianze e differenziazioni dall’altro. Il passaggio “dalla società dei luoghi alla società dei flussi”, propiziato dalle tecnologie e dalla cultura della comunicazione, tende a recidere il legami della gente coi luoghi, a minare il radicamento territoriale delle formazioni sociali, ad accelerare i processi di deterritorializzazione. La disperata ricerca di identità e senso dei luoghi, che si riflette nella domanda di paesaggio, è la spia di un malessere più profondo. Questione paesistica e questione ambientale sono strettamente allacciate, riguardano congiuntamente il contesto di vita dell’uomo. “La spettacolare crescita della domanda di paesaggio non è soltanto una deriva estetizzante di una società sazia, al contrario è il segno che l’uomo tende a riallacciare i suoi legami con la terra, che la modernità aveva dissolto” (Berque, 1993). E’ una speranza che stenta ad aggregarsi in utopie progettuali, e che si mescola al disincanto per il fallimento delle promesse moderne, alla constatazione della perdita di ricchezza che il degrado paesistico ed ambientale comporta, a tutte le scale. E’ una constatazione che si ripete ogni giorno, di fronte allo smantellamento silenzioso e continuo dei paesaggi originari e alle devastazioni catastrofiche prodotte dalle calamità annunciate quando non propriamente pianificate. La questione paesistica, lungi dal potersi ridurre ad un mero problema di razionalizzazione tecnico-amministrativa dell’azione di tutela, investe quindi i rapporti tra società e territorio, il modo in cui essi si danno oggi non solo nel nostro paese e il modo in cui è possibile ridisegnarli. Essa mette a nudo alcune contraddizioni fondamentali dello sviluppo economico e sociale contemporaneo, ne rivela l’intrinseca insostenibilità, l’incapacità di protrarsi nel tempo senza mettere a repentaglio la stessa sopravvivenza del patrimonio di risorse che può essere trasmesso alle future generazioni, senza produrre nuove povertà, senza impoverire irreversibilmente il territorio. La cancellazione dell’eredità naturale e culturale si associa inevitabilmente, nella prospettiva paesistica, alle minacce per il futuro. Affrontare la questione paesistica in tutta la sua complessità implica una critica radicale agli attuali modelli di sviluppo. Ma questa critica non comporta, di per sé, alcun vagheggiamento nostalgico di una mitica condizione pre-industriale e pre-moderna, anche se la tentazione di 1


far coincidere la fine dei “bei paesaggi” con l’avvento dell’industrializzazione e la fine del mondo rurale è ricorrente nel dibattito contemporaneo. Tale critica non può non prendere le distanze da quelle ideologie della modernità (più o meno connesse all’hybris della cultura occidentale: Bateson, 1972) che hanno impregnato la cultura tecnica ed amministrativa ed assecondato l’incondizionato sviluppo dei processi di domesticazione del mondo naturale, nella folle presunzione di dominarlo senza rischi e senza pene. Ma la critica che il paradigma paesistico propone non può certo tradursi in una sterile difesa dello status quo o nel vano inseguimento di un’ecologia illusoriamente sottratta ad ogni influenza antropica. Al contrario il paradigma paesistico mette a nudo le responsabilità del progetto, il dovere di affrontare progettualmente i grandi cambiamenti che la questione paesistica rivela, coniugando l’umiltà della comprensione con il coraggio dell’innovazione. 2. LA TERRITORIALITÀ DEL PAESAGGIO In un saggio del 1977, Claude Raffestin sottolineava lo stretto rapporto tra paesaggio e territorialità, tra vu e vecu, incitando a cercare in una nuova geografia della territorialità umana ciò che si cela dietro alle forme del paesaggio. La sua posizione non era certo isolata ed affondava le radici in una lunga e prestigiosa tradizione del pensiero geografico, a partire almeno da von Humboldt (“per abbracciare la natura in tutta la sua sublime maestà non basta attenersi ai fenomeni esterni, gli è d’uopo mostrare com’essa si riverberi all’interno dell’uomo ….”: Cosmos, 1860), non certo esente, peraltro, da differenze, contrasti e contrapposizioni non sempre adeguatamente percepite dall’esterno della disciplina. Ma quella posizione era allora certamente minoritaria nel campo degli studi, della pianificazione e delle pratiche gestionali riguardanti il paesaggio. Mentre in alcuni paesi europei, in primo luogo l’Italia, perdurava una concezione essenzialmente “estetica” del paesaggio, che esplicitamente comportava il distacco del paesaggio dal paese reale (essendo, il primo, “oggetto” separato di considerazione giuridica e di tutela sulla base dell’assimilazione crociana tra “bello naturale” e bello artistico nell’unicità dell’emozione poetica), si era ormai affermata a livello internazionale quella “svolta ecologica” che doveva dominare, nel bene e nel male, nei decenni successivi la cultura del paesaggio, o più precisamente del landscape o landshaft. La solidità dell’impianto teorico offerto dalla Landscape Ecology (da C.Troll, 1939, a Naveh, Forman; Godron e altri), l’importanza dei rapporti col land nella cultura americana (Steiner 1998), l’influenza profonda dei miti della natura nelle origini specifiche delle civiltà americane preesistenti alla colonizzazione (Schama, 1998) possono spiegare il ruolo egemone assunto, soprattutto a partire dagli ’60 e ’70, dalle scienze della terra e dal paradigma ecologico negli studi e nella pianificazione del paesaggio. D’altra parte, la fede nelle scienze esatte, che aveva consentito a Jan McHarg (riprendendo le lezioni degli Odum, dei Leopold, di Angus Hill e di Philip Lewis) di propugnare polemicamente l’ecological determinism, ha svolto nei decenni successivi un importante ruolo di contrasto nei confronti non soltanto del confuso impressionismo degli approcci estetizzanti o dell’arroganza progettuale della landscape architecture, ma anche del funzionalismo economicista e delle logiche della crescita implicite nell’amenagement du territoire non meno che nelle tendenze alla deregolamentazione selvaggia. Essa ha contribuito a canalizzare le proteste contro la violenza implicita nel “maitriser la nature” (Marcuse), a registrare i tragici errori del movimento moderno e della cultura tra le due guerre (“lasciateci uccidere la natura”: persino in Brecht!), a rimettere in discussione i fondamenti culturali della manipolazione estetica della natura (il “plaisir superbe de forcer la nature”: Saint Simon). Ma il “paradigma ecologico”, nonostante le sue pretese globalizzanti, è mancato all’appuntamento più importante, quello appunto col territorio. L’attenzione per le dinamiche economiche, sociali e culturali che influenzano o modellano i sistemi ambientali non è necessariamente in contrasto col quadro teorico della Landscape Ecology: “nessun ecosistema potrà essere studiato senza fare riferimento all’uomo” diceva 2


anzi McHarg, per il quale doveva quindi cadere ogni distinzione tra l’ecologia e l’”ecologia umana”; e parole ancora più esplicite usavano Giacomini e Romani (1982, p.59), affermando la necessità di "estendere i principi di tutela della risorsa naturale sino alle zone più antropizzate e di coinvolgere sempre più gli uomini nella conservazione della natura". D'altra parte non ci sono ecosistemi che non risultino almeno in parte modificati dalla cultura umana (Schama, 1995). Tuttavia sarebbe assai arduo rintracciare nelle esperienze di ricerca e pianificazione mosse in quel quadro la considerazione esplicita di quei sistemi di relazioni che strutturano il territorio. Sebbene le ricerche ecologiche abbiano sempre più spesso, negli ultimi decenni, posto in risalto le strette relazioni tra bio-diversità, diversità paesistica e socio-diversità, quest’ultima è rimasta sostanzialmente nell’ombra negli approcci al paesaggio guidati dalla Landscape Ecology. In breve, il paradigma ecologico ha in qualche modo staccato il paesaggio dalla territorialità umana. La territorializzazione della questione paesistica che sembra ora imporsi è del tutto in linea con la territorializzazione delle politiche ambientali lanciata a Rio nel 1992, a fronte degli evidenti insuccessi delle politiche in atto e del drammatico aggravamento della questione ambientale. Ma quale rapporto è possibile riconoscere o stabilire tra il paesaggio e la territorialità umana? Un primo nodo riguarda certamente il rapporto tra vu e vecu nell’esperienza paesistica e quindi la sua riducibilità a mera esperienza visiva, seppure culturalmente orientata. E’ in gioco il ruolo dell’osservazione nel progetto di paesaggio, visto che “non c’è paesaggio senza progetto” (Bertrand, 1998). La conoscenza e la comprensione del paesaggio nascono in effetti da sintesi olistiche ed interpretazioni polisemiche di sguardi differenti ed instaurano col progetto rapporti carichi d’ambiguità ed interrogativi, destinati a scardinare ogni pretesa d’oggettività e neutralità nei riconoscimenti di valore: il paesaggio non è mai un dato. Gli sguardi sono come domande sospese che sollecitano il progetto, ma anche il progetto interpella l’osservazione, come traspare chiaramente dagli atteggiamenti sociali emergenti nei confronti del paesaggio. In una comprensibile ansia di radicamento, il paesaggio si tinge spesso di nostalgia, quasi di rammemorazione di un paesaggio idealizzato. All’opposto, la disgregazione della società contemporanea, la mobilità e il nomadismo dei comportamenti soggettivi sembrano aprire la strada all’atomizzazione delle esperienze fruitive (ognuno vede il paesaggio a modo suo): è il paesaggio come ipertesto (Cassatella 2001). Tra derive nostalgiche e rischi incontestabili di dissoluzione dell’esperienza paesistica, gli sguardi che i diversi osservatori proiettano sul paesaggio sembrano rinunciare ad ogni ricerca d’ordine, ad ogni tentativo di rintracciare codici palesi o latenti iscritti nella materialità dei luoghi, di ricercare la cifra dei labirinti urbani e paesistici o persino di riconoscerne – negli orizzonti del sapere ordinario – il senso comune. E simmetricamente il progetto (inteso come progetto collettivo, espressione di intenzioni più o meno largamente condivise) sembra rinunciare ad ogni ricerca di bellezza, ad ogni possibilità di inseguire, con coscienza storica e consapevolezza ecologica, la verità implicita nella produzione della terra. Una sorta di indifferenza, priva di tensione etica verso i processi di degrado e di distruzione che si consumano sotto i nostri occhi, sembra incombere sul progetto e distoglierlo troppo spesso dall’assumersi la responsabilità degli effetti di quegli stessi processi di produzione che non esita a guidare. Questo ci accosta ad un altro interrogativo, che concerne il rapporto tra fenomenologia paesistica e strutturazione del territorio. Un’interpretazione debole della prima indurrebbe a riproporre la distinzione marxiana tra struttura e sovrastruttura, riducendo le modificazioni paesistiche a giochi di superficie, più o meno rigidamente condizionati dalle strutture profonde della società e dei suoi modi di produzione. All’opposto, il determinismo ecologico della Landscape Ecology riprodurrebbe antiche dipendenze, lungamente esplorate dal pensiero soprattutto geografico. Entrambe le interpretazioni lasciano in ombra il ruolo della semiosfera che ogni gruppo umano mobilita (lo notava Raffestin nel 1986) per trasformare la realtà. Ecosfera e semiosfera sono inscindibilmente legate. Nella società della comunicazione, la semiofania umana è crescentemente al centro delle dinamiche che continuamente producono nuove forme di territorialità, ivi compresi i giochi del potere. Le immagini e le rappresentazioni paesistiche non svolgono soltanto insostituibili funzioni 3


retoriche e celebrative (la celebrazione della natura, nei primi parchi americani voluti da F.L. Olmsted, la celebrazione del potere nella Bucarest di Ceausescu, o, meno sinistramente, nella Parigi di Pompidou), entrano anche direttamente nei processi di valorizzazione economica, come tipicamente nel marketing turistico. 3. LA CONVENZIONE EUROPEA DEL PAESAGGIO Si è dovuto quindi attendere la Convenzione Europea del Paesaggio, proposta dal Consiglio d’Europa e firmata a Firenze nell’autunno 2000, per trovare un autorevole riconoscimento di quell’esigenza di saldatura che nel 1977 Raffestin aveva affermato. Si tratta beninteso di un riconoscimento implicito e di valore essenzialmente politico; e tuttavia il fatto che esso abbia raccolto il consenso dei poteri locali di 44 paesi è gravido di ripercussioni sul piano scientifico e culturale. Quando il Consiglio d’Europa impegna a considerare il paesaggio come “un aspetto essenziale del quadro di vita delle popolazioni, che concorre all’elaborazione delle culture locali e che rappresenta una componente fondamentale del patrimonio culturale e naturale dell’Europa” non meno che una fondamentale risorsa economica, o quando sottolinea che tutto il territorio europeo (anche quello dell’ordinarietà e della quotidianità, non solo dei paesaggi rimarchevoli) ha valenza paesistica, è chiaro che le risposte appropriate vanno cercate in un ripensamento profondo di tutte le politiche che incidono, direttamente o indirettamente, sulla modificazione continua del territorio e quindi delle sue espressioni paesistiche. E questo ripensamento sollecita la riflessione scientifica e l’elaborazione culturale ad esplorare precisamente quella dimensione territoriale del paesaggio che le concezioni dominanti dei decenni precedenti avevano lasciato in ombra. E’ in questo quadro che si colloca la triplice svolta impressa dalla Convenzione Europea del Paesaggio: a) nel significato complesso (economico, politico e culturale, oltre che ecologico ed estetico) da attribuire al paesaggio, con riferimento all’intero territorio e non a singole aree d’eccellenza; il che comporta un drastico spostamento d’attenzione, dagli oggetti ai sistemi, dagli eventi al contesto (con un ripensamento del concetto stesso di bene culturale in favore di quello più ampio e comprensivo di patrimonio culturale), e dalle singole politiche di tutela a tutte le politiche a vario titolo capaci d’incidere sulle condizioni e l’evoluzione del paesaggio; b) nel significato innovativo da attribuire all’azione di tutela, nel passaggio dai riconoscimenti di valore ai progetti collettivi con cui si possono riprendere i discorsi paesistici interrotti dai processi di degrado; se oggi l’azione di tutela sembra troppo spesso ferma alla “gestione di vincoli ciechi e muti”, una tutela paesistica efficace richiede invece progetti “d’innovazione conservativa”, che rispecchino l’evoluzione del concetto stesso di conservazione, fondata, in sintesi, sul principio che “non si possono separare le cose dal loro divenire”; c) nella centralità del governo del territorio, a tutte le scale (dalle linee d’assetto del territorio nazionale, ai quadri regionali di riferimento, ai Piani territoriali delle Province, ai piani ed ai programmi urbanistici dei Comuni), non solo perché il controllo degli usi e dell’organizzazione del territorio è decisivo ai fini della tutela e dell’innovazione paesistica, ma anche perché il traguardo finale, politico e culturale, della valorizzazione paesistica non può che consistere nella bellezza e nella qualità dell’abitare la terra. Questa triplice svolta incrocia due movimenti importanti e convergenti: i) da un lato, la dilatazione del campo d’attenzione per la salvaguardia dei valori storici e culturali, dai singoli monumenti alla città storica al territorio storico: caduto ogni discrimine cronologico o tipologico, il “principio di conservazione” vale oggi per l’intero territorio, nella pienezza dei suoi valori concentrati e diffusi, eccezionali e ordinari, antichi e recenti (in Italia questo movimento è ben rappresentato dall’evoluzione del dibattito e degli orientamenti delle associazioni e delle istituzioni culturali, come, emblematicamente,

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l’Associazione Nazionale dei Centri Storico Artistici: basta confrontare la Carta di Gubbio 1960 con quella del 1990; ANCSA 1990); ii) dall’altro, lo spostamento d’attenzione per la salvaguardia dei valori ambientali e la conservazione della natura, dagli oggetti specifici (specie minacciate, biotopi di particolare valore, aree da proteggere) all’intero territorio: la territorializzazione delle politiche ambientali raccomandata a Rio nel 1992 implica non soltanto una visione più ampia e complessa del campo d’azione ma anche una crescente attenzione per i processi economici, sociali e culturali che, nelle concrete realtà territoriali, incidono sulle condizioni ambientali e sulla funzionalità ecosistemica (questo movimento è eloquentemente rappresentato a livello internazionale dall’Unione Mondiale per la Natura, soprattutto dopo Montreal, IUCN, 1996; ma è anche alla base degli orientamenti emergenti nella gestione e nella pianificazione dei parchi europei). In questo quadro, la Convenzione sollecita un’attenzione particolare per i processi di rielaborazione paesistica che – spesso silenziosamente e al di fuori di consapevoli quadri intenzionali – mutano ogni giorno il volto della città e del territorio. Sono i processi che, attraversando in modi più o meno devastanti i vecchi quadri ambientali, creano i nuovi paesaggi della quotidianità e dell’ordinarietà nei quali – nonostante tutto – i nuovi abitantiutenti del territorio si riconoscono: i paesaggi della riconversione economico-produttiva coi loro ingombranti retaggi di aree ed impianti dismessi e in parte riutilizzati, i paesaggi della diffusione urbana spesso appoggiati alle antiche trame rurali, i paesaggi della pluriabitazione e quelli del turismo di massa, i paesaggi interamente plasmati dalle reti infrastrutturali e/o dai grandi servizi, ecc. Paesaggi nei quali è sempre più difficile rintracciare i codici tradizionali o gli statuti dei luoghi che hanno perso i loro referenti, e che anzi sembrano crescentemente caratterizzati dal disordine: un disordine forse apparente, frutto dei ritardi e delle inadeguatezze nella comprensione di quanto accade, ma che sembra anche riflettere la difficile convivenza di principi organizzativi diversi e non di rado conflittuali. E’ in questi paesaggi che si avvertono spesso i rischi, le minacce, i disagi e le sofferenze più acute, è in questi paesaggi (piuttosto che nei bei paesaggi) che è spesso più urgente intervenire. Ma d’altro canto le istanze che hanno trovato espressione nella Convenzione pongono la necessità di riformare l’intero apparato di tutela, passando dalla gestione dei vincoli alla gestione del patrimonio ed uscendo da una cultura giuridica troppo legata ai concetti della notificazione o degli elenchi speciali. Il che non significa certamente negare la necessità di un’azione di tutela fortemente selettiva ed opportunamente diversificata; significa piuttosto che la diversificazione non può basarsi né su scale gerarchiche e largamente arbitrarie di valori, né sull’aberrante divisione tra pochi oggetti da salvare e tutto il resto da buttare. Molti operatori temono che la dilatazione del campo d’attenzione e la ricerca di criteri più articolati di diversificazione dell’azione di tutela possano indebolirne l’efficacia, stemperarne l’incidenza (“se si vuol proteggere tutto, non si proteggerà più niente”). E’ una preoccupazione fondata, che deve spingere a ribaltare il problema: come far sì che la territorializzazione della tutela paesistica possa tradursi in un guadagno d’efficacia? 4. IL PAESAGGIO PLURIDIMENSIONALE La triplice svolta impressa dalla Convenzione Europea costringe la cultura esperta e le istituzioni a misurarsi con la complessità della questione paesistica, andando oltre le tradizionali separatezze accademiche ed amministrative. Il paesaggio è da sempre - in particolare, dalla grande svolta Humboldtiana a metà del secolo scorso - luogo di convergenza interdisciplinare, luogo d'incrocio di saperi, di discorsi e di giochi linguistici diversi. L'appello ad un'ampia gamma di contributi scientifici diversi costituisce uno dei tratti caratterizzanti del landscape planning nordamericano, soprattutto a partire dal vasto programma volto a “progettare con la natura “ ("Design with Nature", McHarg, 1969) messo a punto negli anni Sessanta. Ma nello stesso tempo il tema del paesaggio è il luogo dei 5


sentieri che si biforcano, nodo d'origine di direttrici e programmi diversi di ricerca, punto di tensione di interpretazioni e proposte progettuali diverse e non di rado confliggenti. Ciò sembra connaturato al carattere stesso del tema paesistico ("il paesaggio non è un cerchio chiuso, ma un dispiegarsi", già per Dardel, 1952). Ma si deve constatare che scuole diverse, che si misurano da tempo col tema del paesaggio, hanno messo a punto apparati interpretativi, teorie e metodi d'analisi tra i quali è spesso difficile riconoscere rapporti di coerenza o anche soltanto possibilità d'intercomunicazione. Prima ancora della mancanza di un paradigma paesistico condiviso, si avverte la mancanza di un comune sistema di riferimento, o di definizioni comunemente accettate, persino nell'ambito di esperienze legate ad una stessa matrice legislativa, come la pianificazione paesistica italiana ex L.431/1985 (Gambi, 1986). Nel comprensibile sforzo di quell'approfondimento specialistico che consente di far avanzare le frontiere del sapere, sono stati spesso eretti recinti protettivi attorno ai diversi ambiti disciplinari, che possono dar l'impressione di una sorta di lottizzazione del paesaggio: ogni scuola si prende il suo paesaggio. Il rischio del riduttivismo implicito nella confinazione dei programmi di ricerca sul paesaggio - o il rischio, per usare le parole del Tricart (1985) di "vedere gli alberi e perdere di vista il bosco" - è fin troppo noto sul piano teorico. E tuttavia occorre riconoscere che il trattamento della complessità della questione paesistica si presenta estremamente difficile non appena si tenta di andar oltre le metafore e le affermazioni di principio. A quali condizioni la complessità del paesaggio può essere davvero gestita con approccio interdisciplinare? Un tentativo di risposta non può che partire dalla constatazione del pluralismo delle matrici disciplinari storicamente impegnate nella ricerca e nella riflessione sul paesaggio: dalla geografia, alla geologia, alla geomorfologia, alla pedologia, all'ecologia, alle scienze naturali, all'agraria, all'economia, alla sociologia, all'antropologia, alla psicologia, alla semiologia, all'estetica, alla storia, alla storia dell'arte, all'architettura, all'urbanistica, all'analisi e alla pianificazione territoriale...Il ruolo delle diverse matrici è stato ed è peraltro assai diverso: essenzialmente orientato all'analisi per alcune e al progetto per altre, esso è soprattutto cambiato nel corso della storia anche recente ed è stato diverso nelle diverse culture. La differenza, sottolineata da Steiner (1998) tra landscape (landshaft, landschap, ecc.) e paesaggio (paysage, pajsage, ecc) segna anche una marcata differenza nel peso assegnato alle diverse matrici disciplinari. Netta prevalenza dell'ecologia e delle scienze della terra nella cultura del landscape; netta prevalenza, almeno fino ad una certa data, della geografia e delle scienze umane nella cultura del paesaggio. E’ innegabile il ruolo egemone assunto, anche nell'esperienza italiana ed europea e soprattutto a partire dagli anni Sessanta o Settanta, dalla Landscape Ecology, nel cui ambito confluiscono anche le tradizioni nordamericane del landscape planning (Steiner et al., 1988); che tuttavia lascia nell'ombra alcune dimensioni del paesaggio, la cui importanza è emersa con forza soprattutto negli ultimi decenni, stimolando nuovi approcci metodologici ed investendo altre matrici disciplinari. 1) La prima dimensione su cui il dibattito e la ricerca degli anni Ottanta e Novanta hanno richiamato l'attenzione è quella economico-sociale. Il terreno da esplorare è quello che riguarda quell'intreccio complesso di interazioni e riverberazioni tra le dinamiche economiche e sociali ed i processi di trasformazione paesistica, che costituiscono lo zoccolo duro della questione paesistica. Un intreccio che investe le dinamiche globali: vedi ad esempio le preoccupazioni emerse a livello europeo per la scomparsa dei paesaggi di piccola scala - come i bocages, gli hedgerow landscapes, le nostre colture promiscue ecc. - sotto l'urto della modernizzazione e dell'industrializzazione agricola, assecondata dalle stesse politiche comunitarie. Ma l’intreccio si presenta in forme ancor più acute nelle dinamiche locali: come difendere il paesaggio delle Cinque Terre o del Chianti senza l'agricoltura? Come salvaguardare la diversità paesistica delle Alpi e degli Appennini senza mantenere e rinnovare le attività agricole e pastorali? Come riqualificare i paesaggi peri-urbani senza intaccare gli attuali modelli d'uso dello spazio e del tempo? Sembra impossibile una tutela paesistica minimamente efficace se non si riporta al centro il ruolo dell'uomo in quanto produttore di paesaggio e non si affronta la separazione storicamente intervenuta tra il 6


produttore e l'abitante. Le riflessioni da tempo avviate dal gruppo di Alberto Magnaghi (1990) sul “territorio degli abitanti” indicano come - a quali condizioni, con quali processi – il paesaggio possa costituire una risorsa effettivamente insostituibile per lo sviluppo locale endogeno ed auto-centrato. Se la tutela e il progetto di paesaggio si pongono a rimorchio dei correnti modelli economici e produttivi e delle loro tendenze evolutive, c'è invece il rischio che si riducano ad un'azione cosmetica, decorativa (il landscaping, figlio bastardo dell’architettura del paesaggio), concorrendo in fondo al consolidamento di quegli stessi modelli e di quelle stesse tendenze. Il problema è particolarmente evidente nel caso dei paesaggi agrari, in quanto particolarmente esposti ai cambiamenti strutturali degli scenari economici e sociali. Ma il problema è di portata generale: basta pensare alle aree turistiche (dove il turismo può rappresentare l'attività economica basilare per pagare le attività manutentive e consentire la sopravvivenza delle culture locali e, nello stesso tempo, la sorgente principale degli impatti ambientali e del degrado paesistico) o alle aree di antica industrializzazione da recuperare e bonificare: la radicale trasformazione paesistica avviata dall'IBA Emscher Park nel cuore della Ruhr ha la sua chiave di volta nella promozione di un insieme complesso ed articolato di operazioni economiche, sociali e culturali. Qui, emblematicamente, la riqualificazione paesistica si fonda sulla reinvenzione del territorio, nella ricerca di una nuova territorialità del paesaggio. 2) La seconda dimensione del paesaggio di cui si avverte in campo internazionale la crescente importanza riguarda gli aspetti storici e culturali. Il contributo della storia e della geografia storica si conferma fondamentale soprattutto nel caso dell'Italia e di altri paesi europei, i cui paesaggi sono direttamente fondati sulla storia abitativa e su processi complessi di acculturazione ("memorie in cui si registra e sintetizza la storia dei disegni territoriali degli uomini", come diceva il Sereni, 1961), indipendentemente dal fatto che l'uomo sia tuttora presente. Lo scavo dei palinsesti territoriali coi metodi dell'archeologia del paesaggio (Sereno, 1983) consente di portare alla luce i tratti profondi, le geometrie latenti, le regole trasformative dei testi paesistici, mentre la prospettiva storica illumina i processi soggiacenti, quel che non si vede e che è spesso più importante di ciò che è immediatamente afferrabile con lo sguardo (Gambi, 1961). D'altra parte il significato culturale del paesaggio va al di là delle sue stesse ragioni storiche. Non soltanto perché "anche i paesaggi che crediamo più indipendenti dalla nostra cultura possono, a più attenta osservazione, rivelarsene invece il prodotto", ma anche perché, più in generale, la tradizione comune del paesaggio "è costruita su un ricco deposito di miti, memorie ed ossessioni" (Schama, 1995). I contributi dell'antropologia culturale, della sociologia ambientale e della geografia umanistica, che implicano "il definitivo superamento, nella cultura europea, della tradizionale contrapposizione tra mito e logos" (Quaini,1992), si ricollegano peraltro al pensiero fondativo del paesaggio geografico. È da allora che il significato culturale del paesaggio va colto in riferimento non soltanto alla sentina fabularum costituita dalle opinioni e dalle concezioni del mondo che precedono ed orientano l'esplorazione e la ricerca, ma anche al rapporto dinamico e continuamente rinnovato tra la ricerca e l'invenzione (il Nuovo Mondo propriamente inventato da von Humboldt nel quadro della cosmografia coeva). È in questa larga accezione che va inteso anche il pensiero di Simmel (1912) per cui "il paesaggio non è ancora dato quando cose di ogni specie si estendono, una accanto all'altra, su un pezzo di terra e vengono viste immediatamente insieme", ma è "un vero e proprio processo spirituale che solo trasforma tutto questo e produce il paesaggio". O in altre parole è questo il significato pregnante di espressioni come quella secondo cui "ogni paesaggio è un'elaborazione culturale di uno specifico ambiente naturale" (Sereno, 1983), o come quella secondo cui i paesaggi sono natura adattata dalla cultura (che a sua volta è natura umana modificata dalla tecnologia: Steiner, 1998). 3) Questo ci accosta ad una terza dimensione del paesaggio, quella semiotica ed estetica, che è forse quella su cui si è registrato negli ultimi anni un più vivace risveglio d'interesse. Se si riconosce il ruolo culturale del paesaggio - di ogni paesaggio, indipendentemente dalla qualità dei suoi contenuti culturali - è perché lo si considera come un processo di significazione (Barthes, 1985) e, quindi, come un fenomeno di comunicazione sociale (Eco, 7


1975). Di per sé, il riconoscimento del ruolo culturale e della funzione estetica del paesaggio non è certo una novità. Il paesaggio occupa infatti un posto di rilievo nella storia dell'arte (Clarck, 1976) e persino le sue descrizioni più primitive, come i graffiti preistorici, sono state interpretate come espressioni artistiche ed insostituibili testimonianze culturali (Jellicoe, 1987). In particolare in Italia l'assimilazione crociana delle bellezze naturali alla bellezza artistica, nell'unicità della comunicazione poetica, è alla base della legislazione di tutela paesistica (L.778/1922, L. 1497/1939) che, con le successive integrazioni, è tuttora in vigore. Ed anche in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, soprattutto a partire dagli anni Settanta, l'interesse per i valori estetici del paesaggio (o più precisamente per quelli scenici o visivi) ha stimolato una vasta produzione di piani e di ricerche. D’altra parte la consapevolezza dell’irriducibilità del giudizio estetico nella comprensione paesistica si inquadra in quel “ritorno all’estetica (verso una scienza che conservi i valori)” (Tiezzi, 1998, p.19) che ha da tempo assunto un significato assai più vasto. Ma l'interpretazione semiologica del paesaggio (per quanto ancora "timida e temeraria": Barthes, 1966) pretende molto di più. Se infatti si riconosce il duplice fondamento - naturale e culturale - dell'esperienza paesistica, occorre anche riconoscere che il sistema segnico costituito dalla sostanza sensibile del paesaggio non può in alcun modo tradursi in un insieme dato di significati: la semiosi paesistica è un processo sempre aperto (Dematteis, 1998). Un processo tanto più aperto in quanto le dinamiche trasformative staccano i segni dai loro significati originari, allargando progressivamente gli spazi d'ambiguità delle trame storiche (Olmo, 1991) su cui si costruisce l'esperienza paesistica, accentuando il distacco tra le tracce e il progetto (d'altronde, come nota Derrida, 1998, "la traccia si rapporta a ciò che chiamiamo il futuro non meno che a ciò che chiamiamo il passato"). La dinamica delle cose - l'ecosfera - è inseparabile dalla dinamica dei significati - la semiosfera - e quindi dai processi sociali in cui questa si produce (Dematteis, 1998). Ma, se questo è vero, allora il paesaggio non può essere quello, cognitivamente perfetto (Socco, 1998), che le scienze della terra tendono a proporci. Esso è spazio di semiosi aperta, non racchiudibile nelle semiosi scientifiche delle varie discipline. La sua complessità si manifesta, ben prima che nella pluralità dei contenuti, nell'insopprimibile apertura dei processi di significazione che riesce ad attivare, nella molteplicità ed imprevedibilità degli approdi semantici. È in questa dinamica apertura che si collocano e debbono essere indagate le sue funzioni simboliche e metaforiche, i suoi depositi mitici e memoriali, le sue funzioni narrative e le sue funzioni propriamente estetiche. È in questa direzione che alcune stimolanti equazioni ancora recentemente proposte acquistano forse più preciso significato. Così, se il paesaggio è teatro (Turri, 1997), non è tuttavia un teatro dato, con le sue scene fisse e i suoi fondali immobili, dove soltanto gli attori e gli spettatori possono cambiare; l'autorappresentazione, che consente agli attori locali di prendere le distanze dalle vicende rappresentate diventando spettatori di se stessi, ricostruisce continuamente il teatro stesso o almeno il significato che esso assume per chi partecipa in vario modo all'azione teatrale. Così anche, se "il paesaggio è natura che si rivela esteticamente" (Ritter, 1994), la contemplazione estetica che ci consente di definirlo (Isola, 1998) non può tradursi né in una chiusura autistica e solitaria (che isolerebbe l'esperienza individuale dal processo di significazione e dai suoi rapporti coi processi sociali del contesto), né in un rito preordinato ed in qualche modo imposto, come nei modelli stereotipati della fruizione turistica. 5. PAESAGGI CULTURALI O SIGNIFICATO CULTURALE DEI PAESAGGI? La svolta impressa dalla Convenzione Europea costringe a chiedersi quale sia realmente l’oggetto di queste considerazioni. Di quali paesaggi stiamo parlando? Le risposte che la cultura del paesaggio sta dando a questa banale domanda sono tutt’altro che convergenti. Fra gli operatori delle attività di tutela (sovrintendenti, funzionari delle pubbliche amministrazioni, operatori del diritto) è tuttora molto forte la convinzione che la salvaguardia del paesaggio comporti, per essere efficacemente praticabile, una severa 8


selezione. Più precisamente, l’idea che i paesaggi da salvare siano i bei paesaggi – o i paesaggi monumentali, per rendere omaggio a chi ci ospita - dotati di qualità significative e relativamente integri. Incidentalmente, si può notare che il riferimento alle “aree di particolare interesse paesaggistico” permane nel nostro quadro legislativo (Dlgs 490/99, art.149, ripreso in recenti sentenze della CC). Naturalmente, è ragionevole pensare che l’azione di tutela debba essere selettiva ed opportunamente diversificata, in funzione dei valori concretamente verificabili. Ma non si può non rilevare che la diversificazione si è generalmente tradotta in un ordinamento gerarchico degli oggetti repertoriati, destinato a dividere quelli degni di entrare in appositi elenchi (giuridicamente rilevanti), in quanto appunto oggetti dotati di intrinseche qualità e perciò staccabili dal paese reale, da quelli che, come tutto il resto del paese, possono essere considerati paesisticamente irrilevanti e perciò abbandonati ad ogni trasformazione. Posizione non diversa e non disgiunta da quelle analogamente maturate nel campo della conservazione della natura ed in particolare nelle politiche cosiddette insulari dei parchi (tese ad assicurarne una protezione rigidamente confinata nei loro perimetri istituzionali). Il concetto giuridico di bellezza naturale o di natural beauty ha storicamente estremizzato questa posizione, implicando una duplice separazione: non solo tra paesaggio e paese, ma anche tra natura e cultura. La crescente impraticabilità, nei contesti europei, di questa seconda separazione (emblematizzata nei contrapposti stereotipi del parco naturale e del centro storico) spiega in parte il successo del concetto di paesaggio culturale, come luogo d’intersezione tra dinamiche naturali e socio-culturali. Un concetto autorevolmente consacrato dall’Unesco (che non è stata avara di riconoscimenti della “rilevanza mondiale” a tal riguardo riscontrabile, soprattutto in Europa) e sempre più estesamente applicato. Ma, come si sa, è proprio questo concetto a costituire uno dei principali bersagli della Convenzione Europea, nel momento in cui essa impegna a riconoscere rilevanza giuridica a tutti i paesaggi, indipendentemente dal loro specifico valore. In questa più ampia prospettiva, il concetto di paesaggio culturale sembra infatti destinato a cedere a quello del significato culturale del paesaggio, che riguarda l’intero territorio e non soltanto alcuni brani di particolare rilevanza (i vigneti terrazzati, le risaie e gli altri paesaggi agrari, i paesaggi della proto-industrializzazione, ecc.). D’altra parte, la formazione del paesaggio “entro e dal territorio” (Gambi) evidenzia processi di domesticazione e di simulazione che, come ben ha mostrato Raffestin, investono congiuntamente spazi naturali, rurali e urbanizzati, liberi o coperti da case e manufatti. L’”edificazione” del paesaggio (per usare l’espressione che Carlo Cattaneo applicava a metà dell’800 alla campagna milanese rimodellata dalle riforme teresiane) ha dilatato progressivamente l’equazione heideggeriana dell’abitare-costruire, con forme più o meno penetranti di manipolazione intenzionale della terra e dei suoi ecosistemi che investono l’intero territorio. I paesaggi coperti da case e manufatti, e persino quelli direttamente abitati, sono soltanto una parte, sempre più modesta, dei paesaggi propriamente edificati. Se con questa espressione vogliamo alludere alla densità delle tracce, delle trame storiche e dei sedimenti culturali, l’attenzione si sposta inevitabilmente dai singoli prodotti ai processi ininterrotti di “edificazione” del territorio. Processi che, se pure comportano l’iscrizione di un codice interpretativo nella materialità dei luoghi (come tipicamente nel landscape gardening inglese del ‘6-700), non necessariamente richiedono rilevanti modificazioni fisiche dello stato di natura, come dimostra l’”invenzione delle Alpi” tra ‘700 e ‘800 (Joutard 1986): anche gli sguardi lasciano il segno. Persino il più celebre santuario della natura, il Parco di Yellowstone, potrebbe a buon diritto essere considerato un paesaggio culturale, dal momento che la stragrande maggioranza dei suoi visitatori vede precisamente ed esclusivamente ciò che gli vien fatto vedere, mediante la determinazione degli accessi stradali, dei punti d’osservazione e dei modelli di comportamento nei confronti della wild life. La dilatazione del campo d’attenzione che queste considerazioni suggeriscono ha rilevanti conseguenze sul piano istituzionale, che non possono essere affrontate in questa sede. Basti accennare ai problemi che si pongono quando la tutela dei siti riconosciuti dall’Unesco come paesaggi culturali di rilevanza mondiale incrocia le istanze di tutela diffusa coerenti con 9


l’impianto della Convenzione Europea: è il caso del Cilento, in cui il Piano di gestione necessario per dar riscontro al riconoscimento Unesco si sovrappone al Piano d’azione che si intende formare ai sensi della Convenzione. Problemi ancora più ampi si pongono, a livello internazionale, in presenza di paesaggi protetti rientranti in una delle categorie di aree protette riconosciute dall’Unione Mondiale della Natura (Iucn, 1996): come conciliare la tutela speciale che tale categoria comporta con quella diffusa per il contesto territoriale? Non meno rilevanti le conseguenze della dilatazione del campo d’attenzione sul piano operativo, a cominciare dalla fase cruciale dell’identificazione dei paesaggi (Convenzione Europea, art. 6, C1). E’ questo un tema che impegna una vasta gamma di programmi di ricerca assai diversificati. In generale, la loro utilità consiste nel proporre una o più articolazioni del territorio che colgano forme significative di caratterizzazione, coesione o solidarietà paesistica (quali le unità idrogeomorfologiche, le unità ambientali, gli ambiti storico-culturali, i sistemi o contesti insediativi, gli ambiti paesistico-percettivi o i distretti visivi). Articolazioni che intersecano quelle socioeconomiche (sistemi territoriali locali) e quelle istituzionali-amministrative del territorio (Province, Comuni, Comunità Montane...), nelle quali si sviluppano i processi di regolazione pubblica delle dinamiche territoriali ed ambientali. Ma queste articolazioni possono assumere significato diverso in relazione alla dilatazione del campo d’attenzione sopra richiamata. Con riferimento ai paesaggi culturali, la ricerca toscana sulle “aree di paesaggio agrario tradizionale” (APT) sembra avere carattere esemplare. Essa infatti si fonda su un processo mirato di individuazione delle APT all’interno degli ambiti territoriali, guidato da un sistema rigoroso di criteri di selezione. Come si è prima osservato, l’allargamento dell’istanza paesistica a tutto il territorio – quindi molto al di là dei paesaggi culturali – non implica affatto la rinuncia ad un processo di individuazione che ponga in rilievo i caratteri differenziali delle diverse parti del territorio in esame; ma richiede l'impiego di un metodo che consenta di cogliere in tutto il territorio, e quindi anche nelle aree meno qualificate, gli elementi distintivi e i tessuti relazionali, compresi quelli latenti o potenziali, su cui basare la valorizzazione delle identità locali. In questa direzione, particolare interesse assume l’evoluzione di strumenti concettuali quali le unità ambientali e le unità di paesaggio. Il concetto di Unità ambientale (UA), com’è noto, è stato elaborato negli ultimi decenni, nel quadro della Landscape Ecology, come strumento di una rappresentazione olistica del paesaggio, ad integrazione o in sostituzione delle sintesi interpretative basate sull’overlay mapping (dalle prime applicazioni di W.H.Manning a quelle divulgate negli anni ‘60 dalla scuola di J.McHarg) e sulle collezioni di carte tematiche. Esso fa riferimento alla nozione di paesaggio teorizzata dalle scuole ecologiche (“un’area eterogenea, composta da un’aggregazione di ecosistemi interagenti che si ripete ovunque in forma simile”: Forman e Godron, 1986) e tende ad individuare, con varie metodologie, porzioni significative di territorio, organizzate unitariamente in un determinato e preciso livello spazio-temporale (Zonneveld, 1989). Varie applicazioni pratiche hanno dimostrato la grande utilità, se non l’indispensabilità, del riconoscimento delle UA ai fini della pianificazione, o più precisamente della differenziazione spaziale degli obbiettivi e delle politiche di gestione. Il concetto di Unità di Paesaggio (UP), già introdotto a fine ‘800 in ambito pedologico e poi variamente frequentato dalle scuole geografiche, è stato nell’ultimo decennio rivisitato nel quadro del Landscape Planning. Anch’esso si richiama, in tali rielaborazioni, ad una concezione olistica del paesaggio e tende a cogliere le identità territoriali rilevanti ai fini della gestione e pianificazione paesistico-ambientale. Invece del criterio di omogeneità tradizionalmente adottato nelle teorie e nelle pratiche dello zoning (sia nel campo della pianificazione urbanistica che di quella paesistica o ambientale), esso utilizza il criterio di eterogeneità, strettamente associato a quello di interazione. L’UP viene così definita (già nel PTP della Valle d’Aosta, 1987) come “un ambito caratterizzato da specifici sistemi di relazioni ecologiche, percettive, storiche, culturali e funzionali tra componenti eterogenee, che gli conferiscono un’immagine ed un’identità distinte e riconoscibili”. Tale definizione comporta una notevole complessificazione del processo di identificazione delle UP, che utilizza, congiuntamente, le indicazioni emergenti dalle analisi e valutazioni dei vari settori (unità ambientali, articolazioni geomorfologiche, solidarietà 10


storico-culturali, bacini visivi, ecc.). L’identificazione delle UP può così concorrere all’interpretazione critica delle identità locali, in vista della diversificazione dei criteri di tutela e delle politiche di conservazione. 6. NORME E PROGETTI In realtà, la radicale dilatazione del campo d’attenzione esplicitamente proposta dalla Convenzione Europea non può disgiungersi dall’innovazione che percorre il significato stesso della tutela, della conservazione e della gestione paesistica. La rilevanza assunta dalla questione paesistica rende evidente l’esigenza di un’azione regolatrice; e quindi, come ha notato spesso Raffestin, determina l’insoddisfazione per un’informazione puramente funzionale e la crescente richiesta di un’informazione, appunto, regolatrice. Ma di quale regolazione si tratta? Anche a questo riguardo le posizioni pratiche e le filosofie di comportamento divergono. E’ ancora molto forte, anche a livello scientifico e culturale, l’idea che la salvaguardia di quei valori che riteniamo minacciati possa essere assicurata da un insieme di regole oggettivamente deducibili dal riconoscimento, scientificamente guidato e socialmente condiviso, di quegli stessi valori. E che quindi l’azione di tutela possa essere sostanzialmente esogena e preliminare rispetto ad ogni e qualsiasi progetto di sviluppo: di qui la fiducia nelle misure di vincolo e limitazione (confortata dai successi indubbiamente conseguiti, smentita dagli insuccessi sempre più frequenti) o la tendenza a concepire la pianificazione paesistica come autonoma, prioritaria e condizionante nei confronti dei processi complessivi di pianificazione del territorio. Ma questa posizione mal si concilia con le prospettive indicate dalla Convenzione Europea, che non a caso definisce varie azioni possibili per la tutela paesistica, dalla salvaguardia alla gestione alla pianificazione. Il fondamento di ogni azione regolatrice è il riconoscimento di valori: a questo serve la “valutazione” prevista dall’art. 6, C1. Ma , nella prospettiva delineata dalla Convenzione, il suo scopo non è tanto quello di orientare la disciplina delle forme di tutela “in funzione del livello di integrità e rilevanza dei valori paesistici” (come recita l’accordo Stato/Regioni del 2001), quanto più ampiamente quello di orientare l’attivazione degli “strumenti di intervento volti alla salvaguardia, alla gestione e/o alla pianificazione dei paesaggi”, in funzione “degli obiettivi di qualità paesaggistica” stabiliti (art.6). Lo scopo, in altri termini, non è solo quello di definire una gerarchia di vincoli, ma quello di definire delle politiche di gestione. A questo scopo sembra utile disporre di valutazioni che non si limitino a graduare i valori ed i rischi, ma aiutino ad individuare le forme di gestione più opportune in funzione dei caratteri specifici e delle potenzialità dei siti e delle risorse, così come esse sono colte, percepite ed apprezzate dalle comunità locali. Grande rilievo assume in proposito l’interpretazione strutturale del territorio in cui si formano i paesaggi, collegata o meno alla pianificazione strutturale prevista da alcune legislazioni regionali e dai progetti di riforme del governo del territorio già all’esame del Parlamento. Tale interpretazione muove dal riconoscimento dei caratteri strutturali del territorio, vale a dire di quei caratteri (elementi e relazioni tra elementi) dotati di relativa stabilità e permanenza, che possono assumere, sotto uno o più dei profili d’analisi e valutazione, valore condizionante nei confronti dei processi di trasformazione. Tali caratteri, in quanto tali distinguibili da quelli che consentono solo di ulteriormente aggettivare o qualificare i diversi ambiti territoriali, esprimono in sostanza le regole costitutive o (come già chiedono alcune legislazioni regionali) gli “statuti dei luoghi”, da cui nessuna scelta di piano può prescindere. Essi perciò possono rappresentare la parte meno negoziabile delle scelte maturate dalla pianificazione paesistica, come analogamente da ogni altro piano con cui essa debba essere confrontata. Incidentalmente, va sottolineata la radicale differenza tra le interpretazioni strutturali di cui qui si parla e gli schemi strutturali, più o meno legati alle vecchie logiche di structural planning, che ospitano in larga misura previsioni di rilievo strategico, spesso di assai incerta attuazione, in quanto tali collocabili piuttosto nelle visioni strategiche che sempre più frequentemente entrano a far parte dei piani. 11


Il riconoscimento, su basi rigorosamente interdisciplinari, dei contenuti strutturali che i piani intendono tutelare rappresenta un contributo importante alla cultura del dialogo e del confronto su cui si basano le prospettive di co-pianificazione e di collaborazione gestionale. La salvaguardia delle cosiddette invarianti strutturali e degli statuti dei luoghi può ovviamente assumere un’importanza prioritaria nelle politiche di gestione. Ma perché queste possano aderire più efficacemente ai caratteri e alle qualità specifiche dei luoghi, è necessario tener conto anche di altri fattori od elementi che incidono su tali caratteri e qualità, ovvero sui rischi e le minacce che occorre fronteggiare. Va in questa direzione l’impiego di griglie valutative (già collaudate in varie esperienze di pianificazione, come i Piani di alcuni parchi nazionali) che considerano congiuntamente i fattori strutturanti, caratterizzanti, qualificanti e di criticità, incrociandoli con i diversi profili di lettura. L’esperienza indica che le interpretazioni di sintesi territoriale così operate presentano un’utilità che va ben oltre la convergenza interdisciplinare delle analisi e delle valutazioni, poiché rappresentano un importante strumento di confronto inter-istituzionale e di comunicazione sociale. Il riconoscimento da parte dei vari soggetti istituzionali, alle diverse scale e nell’ambito delle rispettive competenze, di fattori o componenti che svolgono ruoli diversi nel modellare i paesaggi e nel definirne le qualità e i rischi, rappresenta un contributo insostituibile al confronto argomentato delle rispettive scelte di tutela e di governo. Ciò può rivelarsi di grande utilità soprattutto in vista di un drastico allargamento delle responsabilità di salvaguardia e di gestione del paesaggio (ad es., come già in Liguria, col coinvolgimento diretto dei Piani urbanistici locali nella pianificazione paesistica regionale), che certamente deve essere accompagnato da un corrispondente aumento della consapevolezza dei rischi e delle poste in gioco. La possibilità di un confronto argomentato delle interpretazioni e delle valutazioni è alla base di ogni strategia autenticamente cooperativa. Nella prospettiva delineata dalla Convenzione Europea, tali interpretazioni rappresentano inoltre uno strumento importante per collegare la conoscenza scientifica a quella diffusa od ordinaria, onde “tener conto dei valori specifici attribuiti [ai paesaggi] dai soggetti e dalle popolazioni interessate”. E’ questo un punto chiave dell’intero processo. Nonostante gli sforzi degli esperti per ancorare le loro valutazioni ad analisi storiche o scientifiche relativamente stabili e il più possibile sottratte all’arbitrarietà ed all’impressionismo dell’osservatore, non c’è dubbio che la determinazione dei valori è sempre lontana dal potersi esprimere in termini univoci ed assoluti (come rileva anche la Carta di Cracovia del 2000), è sempre immersa in processi socioculturali più o meno complessi e dagli esiti incerti. In questo contesto il compito degli esperti è essenzialmente quello di cogliere le differenze, di evidenziare i problemi, i rischi e le opportunità. Lungi dal preludere ad un Piano puramente normativo, la valutazione deve tendere a potenziare il ruolo comunicativo della pianificazione paesistica. La costruzione di nuove interpretazioni (e dunque di nuove immagini) paesistiche, soprattutto in presenza di paesaggi gravemente alterati o degradati che richiedono interventi creativi di riqualificazione, non può infatti configurarsi come materia esclusiva per esperti, poiché richiede invece processi aperti di apprendimento collettivo e di progettualità socialeterritoriale. Si aprono così prospettive di conservazione innovativa del patrimonio paesistico – in cui la conservazione dei valori ereditari è inscindibile dalla produzione di nuovi valori - che vanno ben oltre la tradizionale tutela vincolistica. Questa, nonostante le sue pretese di vis cogendi, si rivela assai poco efficace nell’intercettare i processi di domesticazione e di simulazione e nel demistificare i processi di modernizzazione in corso, che così pesantemente insidiano il patrimonio paesistico. A tutte le scale, compresa quella planetaria, la modernizzazione si presenta con una doppia faccia: da una parte la diffusione pervasiva degli insediamenti, delle infrastrutture e dei modelli urbani (col conseguente smantellamento degli spazi rurali – la marmellata urbana ben rappresentata nella pianura veneta - la scomparsa dei paesaggi di piccola scala, la cancellazione dei racconti identitari, la pressione trasformativa su tutto l’imponente patrimonio di valori naturali-culturali), dall’altro la desertificazione e l’abbandono delle aree meno appetite per la crescita economica, il collasso dei sistemi locali marginalizzati, il declino delle culture locali, l’arresto o la sospensione di ogni cura 12


manutentiva del territorio. A fronte di questi processi, i vincoli ciechi e muti non servono. Serve un progetto di paesaggio che sappia coglierne pienamente la dimensione territoriale, che sappia costruire i nuovi paesaggi sulla base di una nuova riconquistata territorialità, al riparo tanto dalle regressioni nostalgiche nella tradizione quanto dall’accettazione acritica e passiva delle spinte modernizzatrici. Il progetto del paesaggio non può tradursi in regole autenticamente conservative se non tende prima di tutto alla produzione di valori, nel vivo dell’agire comunicativo e con riferimento diretto alle dinamiche plurali che attraversano la società contemporanea. * La relazione riprende in parte argomenti sviluppati in precedenti lavori di R.Gambino,: 1999: “Sguardi”, relazione al Convegno internazionale Disegnare paesaggi costruiti, Politecnico di Torino/ FAI, Castello di Manta. 2000: “Introduzione” in Il senso del paesaggio (a cura di P.Castelnovi), Ires, Issu, Torino. 2001: “Maniere d’intendere il paesaggio”, in Ricerca interdisciplinare della Società Italiana Urbanisti, coordinata da A. Clementi , per il Ministero beni e attività culturali, Roma. 2001: “La territorialité du paysage”, Colloque internationale La territorialité: une théorie à construire, Université de Geneve, Geneve.

** Politecnico di Torino

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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio anno1 - numero 0 - luglio–dicembre 2003 Florence University Press

UN

PROGETTO PER LA TUTELA DEL PAESAGGIO STORICO CHIANTIGIANO: METODOLOGIA E RISULTATI Paolo Baldeschi *

IL “PROGRAMMA DI PAESAGGIO CHIANTI” NEL PIANO TERRITORIALE DI COORDINAMENTO DELLA PROVINCIA DI FIRENZE Il progetto che viene presentato è uno strumento del Piano Territoriale di Coordinamento della Provincia di Firenze (PTCP), denominato ufficialmente Programma di Paesaggio Chianti1. Il progetto ha una duplice valenza poiché si propone di: predisporre un modello metodologico (un piano guida) per la formulazione degli altri Programmi di paesaggio previsti dal Piano Territoriale di Coordinamento della Provincia di Firenze. fornire alle amministrazioni, agli operatori interessati e ai cittadini elementi conoscitivi, proposte, indirizzi e progetti, tali da potere essere tradotti in politiche operative ed azioni a breve e medio termine. Vale la pena di ricordare brevemente le finalità e i contenuti che il PTCP ha voluto assegnare a questo specifico strumento. Il piano provinciale ha individuato, ai sensi dell’art. 5 della legge regionale del gennaio 1995 n.5, come “invarianti strutturali”2: a) le aree sensibili già vulnerate da fenomeni di esondazione e soggette a rischio idraulico; b) le aree di protezione paesistica e/o storico ambientale; c) gli ambiti di reperimento per l’istituzione di parchi, riserve o aree naturali protette di interesse locale; Infine, ciò di cui si occupa il progetto che qui viene presentato: d) le aree fragili da sottoporre a programma di paesaggio; queste vengono identificate con “le parti di territorio aperto caratterizzate da forme di antropizzazione, testimonianze di colture agrarie, ecosistemi naturali in corso o in pericolo di degrado, la cui scomparsa o depauperazione significherebbe la perdita di un rilevante bene della comunità”3. Mentre le invarianti strutturali elencate ai punti a, b, c, al momento dell'adozione del PTCP avevano già un primo grado di definizione sul piano giuridico e progettuale - potendo avvalersi di disposizioni legislative già vigenti e di metodologie analitiche ed operative in qualche misura consolidate - il “Programma di paesaggio” si presentava come uno strumento nuovo e senza 1

Il progetto è stato eseguito da: Paolo Baldeschi (coordinatore, pianificazione territoriale)), Guia Agostini (ingegneria ambientale), Angiolo Caselli (sistemazioni idraulico-agrarie tradizionali), David Fantini (analisi e rappresentazione del territorio), Alessandro Fonseca (agronomia), Carlo Alberto Garzonio (geologia), Paolo Giustiniani (ingegneria idraulica), Gianluca Guiducci (agronomia), Luciano Luciani (scienze forestali), Stefano Monni (ingegneria idraulica), Rino Vardaro (architettura, rappresentazione del territorio). 2 Ricordiamo che la Legge regionale 5/95 assegna un’importanza strategica alla individuazione delle “invarianti strutturali” nei processi di pianificazione: “Tutti i livelli di piano previsti dalla presente legge inquadrano prioritariamente invarianti strutturali del territorio da sottoporre a tutela, al fine di garantire lo sviluppo sostenibile …” (art. 5, comma 6). E’ da notare che la Legge 5/95 non definisce con precisione il significato di “invariante strutturale” e ciò ha dato luogo a una grande difformità di interpretazioni e applicazioni operative. 3 Art. 11 delle norme di attuazione del PTCP


alcun preciso riferimento normativo; il rischio, era perciò, che in assenza di ulteriori elaborazioni, finisse per rimanere una delle tante inutili zonizzazioni dei piani di area vasta e dal punto di vista progettuale una scatola vuota. Ma in cosa potevano consistere queste elaborazioni? Durante la preparazione del PTCP era maturata la convinzione che non fosse sufficiente definire solo in linea teorica i “programmi di paesaggio” e assegnare ad altri ipotetici soggetti la responsabilità della loro traduzione in termini operativi. Occorreva, piuttosto, preparare un primo Programma contenente indirizzi e strumenti di intervento che potessero essere immediatamente finanziati e sperimentati. L’idea guida era di rovesciare le modalità con cui normalmente viene difeso (sulla carta) il paesaggio, mediante una serie di vincoli che o tacitamente non vengono fatti rispettare o sono elusi senza che vi sia la possibilità di prevenire e reprimere gli abusi; circostanze note, su cui è inutile insistere. Indirizzare, convincere, mostrare la possibilità di una tutela del paesaggio economicamente e socialmente sostenibile; fornire progetti e assistenza tecnica e sperimentarne la fattibilità; finanziare o proporsi come intermediari nell'acquisizione di finanziamenti; questi sono gli obiettivi dei Programmi di paesaggio e in particolare del piano guida per il Programma di paesaggio del Chianti che qui viene presentato. L’AREA DI STUDIO La zona interessata dal Programma di Paesaggio, inizialmente delimitata in base a considerazioni prevalentemente morfologiche, ha subito una serie di modifiche nel periodo intercorrente fra l’adozione e l’approvazione del PTCP, per motivi che qui non interessa esaminare. L’area di studio assunta per l’elaborazione del progetto corrisponde a quella del Programma di Paesaggio in fase di adozione, ha un’estensione di circa 230 kmq e coincide grosso modo con la Val di Greve e il versante in destra della Pesa, limitatamente alla provincia di Firenze. Per quanto riguarda gli obiettivi del progetto, è soprattutto il limite sud, dato dal confine provinciale, a presentare le maggiori incongruenze, perché ne vengono artificialmente tagliate zone del tutto simili da un punto di vista morfologico e agronomico. Fig. 1 L’area del progetto di tutela del paesaggio chiantigiano.

Se gli aspetti metodologici del progetto non vengono messi in discussione dai limiti attuali del Programma di Paesaggio, poiché il campione di aree di paesaggio mezzadrile individuato è rappresentativo di unità di paesaggio sufficientemente variegate, è certamente difficile, dal punto di vista operativo, immaginare politiche di tutela ambientale e di incentivo agli imprenditori agricoli che si fermano ai confini fra le province di Siena e Firenze.


CONSIDERAZIONI PRELIMINARI Prima di entrare nel merito del progetto, delle metodologie impiegate e dei risultati ottenuti, è opportuno premettere alcune considerazioni a proposito del paesaggio chiantigiano. Non occorrerà spendere molte parole perché si tratta di questioni su cui vi è un ampio consenso, ma che assumono in questa sede un particolare rilievo. Innanzitutto, l’idea che il paesaggio sia da tutelare solamente per i suoi valori estetici è decisamente obsoleta; naturalmente, l’importanza della bellezza del paesaggio rimane fondamentale ed il suo apprezzamento è alla base di un senso comune che si mobilita contro le tante operazioni distruttive in corso, dai tralicci dell’ENEL alle cave disseminate sul territorio. Ma la bellezza del paesaggio chiantigiano è, soprattutto, una forma apparente attraverso la quale è possibile intuire (per gli occhi esperti “si manifesta”) una straordinaria quantità di lavoro e di conoscenze accumulate nei secoli; dietro, o meglio, alla base di questa bellezza vi è una complessa struttura che svolge ancora un fondamentale ruolo di tutela ambientale; tutto ciò, inutile dirlo, si traduce anche in valori economici la cui entità e importanza è nota a tutti. In secondo luogo, il paesaggio è il tessuto connettivo di molte attività integrate fra loro che hanno il loro centro in un’agricoltura di alta qualità, ma non producono solo beni agricoli; si tratta di attività ricettive e agrituristiche, di attività di tempo libero e culturali in senso lato; inoltre, l’immagine chiantigiana veicola e funge da “marchio” di molti prodotti, correndo, semmai, il rischio di una eccessiva mercificazione. Naturalmente, anche l’agricoltura trae benefici dal paesaggio, riuscendo a spuntare prezzi maggiori per beni che vengono prodotti e venduti all’interno di un territorio noto in tutto il mondo e con una specifica connotazione di rarità e di qualità. La terza considerazione ha in una certa misura un carattere personale. Leggendo qualche anno fa il bel libro di Ildebrando Imberciadori sulla campagna toscana nel 7004 non potevo fare a meno di notare quanto estesa e capillare fosse la conoscenza del territorio in un’epoca in cui la principale fonte di indagine era ancora il sopralluogo diretto; e come, attualmente, nonostante la disponibilità di tecnologie sofisticate per il rilevamento e l’elaborazione di informazioni territoriali di grande dettaglio, le nostre conoscenze a proposito della regione chiantigiana (ma queste considerazioni possono essere estese a gran parte della Toscana e dell’Italia) siano scarse e lacunose. Mi chiedevo se fosse “sopravvissuta” una parte di quel paesaggio mezzadrile che ancora 40 anni fa caratterizzava la totalità del Chianti e quale fosse la sua attuale estensione; quali fossero i costi e i benefici di un suo recupero. Domande, come si vede, basilari, a cui non trovavo adeguate risposte. Mi sembrava che il confronto con una schiera di studiosi, ricercatori, innovatori, ma anche comuni agricoltori del passato, fosse colpevolmente a nostro sfavore. Infine, una quarta considerazione che ha definito gran parte degli obiettivi del progetto. E’ evidente che pur essendo il paesaggio è un bene collettivo esso viene gestito direttamente da una esiguo gruppo di persone; perciò, il problema di fondo che deve essere affrontato nelle politiche di tutela del paesaggio storico è la contraddizione fra benefici che vengono percepiti dall’intera collettività e costi che sono sopportati individualmente dai proprietari fondiari e dai produttori. Questa contraddizione rende in buona parte inefficaci le politiche di conservazione basate su vincoli e divieti. Le questioni che abbiamo brevemente trattato pongono una serie di questioni e di domande, alcune di carattere metodologico, altre di contenuto. Ne indichiamo le più importanti. a.

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Innanzitutto, alla base della ricerca è necessaria una adeguata concettualizzazione di paesaggio; cosa intendiamo per paesaggio; come definiamo il “paesaggio storico”; quali strumenti analitici è opportuno impiegare?

IMBERCIADORI I., Campagna toscana nel ‘700, Accademia economica-agraria dei Georgofili, Firenze, 1953.


b. c. d. e.

Quale è l’estensione del “paesaggio storico” ancora recuperabile? Vedremo in seguito che alla domanda non si può rispondere nei meri termini di “quantità spaziali”, data la natura strutturale dei paradigmi di paesaggio impiegati; Quali sono i costi e i benefici delle politiche di tutela del paesaggio? Quale è il tipo di progetti più opportuno ai fini della tutela del paesaggio? Quali strumenti finanziari e quali risorse possono essere ipotizzate?

Il Programma di paesaggio Chianti ha cercato di rispondere a queste domande. Quanto le risposte siano soddisfacenti o adeguate non spetta a me giudicare. Fin da ora però è possibile dire che si tratta solo di un primo passo di un cammino certamente non facile, che sarà possibile percorrere solo se il problema della tutela del paesaggio chiantigiano sarà affrontato collettivamente e solidalmente dalla società chiantigiana e, più in generale, da tutti coloro (qui non valgono confini regionali o nazionali) che amano e sentono come proprio questo paesaggio. NECESSARIA DISTINZIONE FRA PAESAGGIO E AMBIENTE Preliminarmente, al solo scopo di intendersi, è opportuno sottolineare che qui si parlerà di paesaggio e non di ambiente. Nell’uso corrente di questi due termini esiste una notevole ambiguità, non certo innocua da un punto di vista giuridico o amministrativo. La stessa legge 431/85 nota generalmente come legge di tutela paesaggistica, è in realtà molto più una legge ambientale, e la confusione fra i due concetti, come la mancata definizione del concetto di paesaggio nella legge Galasso veniva già nel 1987 denunciata da Lucio Gambi a margine di un convegno sui nuovi piani paesistici. La confusione nasce, a mio avviso, dal fatto che l'ambiente e il paesaggio non sono due cose diverse nella realtà, ma sono due concetti usati per interpretare diversamente la medesima realtà. Vale a dire che lo stesso oggetto può essere osservato e concettualizzato da un punto di vista ambientale o paesaggistico; nel primo caso, ne saranno messi in evidenza gli aspetti naturalistici, nel secondo quelli storico culturali. (Un fiume visto dal punto di vista ambientale, può essere letto come ecosistema, mentre dal punto di vista storico culturale, sarà una struttura fondativa del territorio; ma sempre dello stesso fiume si tratta). IL PAESAGGIO INTESO COME “TERRITORIO DOTATO DI UN PARTICOLARE VALORE”. Il tema dell’evoluzione e moltiplicazione dei “paradigmi di paesaggio” potrebbe da solo esaurire il tempo non di una lettura ma di un intero corso universitario. Qui mi limiterò a indicare solo alcuni concetti fondamentali per la comprensione della ricerca, avvertendo che, per forza di cose, si tratterà di un’esposizione schematica in cui molti argomenti, di per sé interessanti, saranno solo accennati o omessi. Innanzitutto un punto fondamentale, che potrebbe sembrare superfluo, se non originasse di fatto ancora molti equivoci. Non si tratta qui di stabilire “cosa è il paesaggio” domanda che ha un senso solo in ambito semantico, ma piuttosto “cosa intendiamo per paesaggio”. Vale a dire, quale paradigma di paesaggio abbiamo formulato e utilizzato nella nostra ricerca, per quali scopi e con quale utilità. I concetti di paesaggio sono andati mutando e si sono evoluti nel tempo in ragione di una serie di considerazioni teoriche, ma anche, soprattutto, di problemi operativi; questo percorso ha in una certa misura allontanato i paradigmi di paesaggio via via formulati dalle discipline “territoriali” da un senso comune che attribuisce alla parola “paesaggio” il significato di “forma visibile di una porzione di territorio”. Con ciò non voglio sostenere che quest’ultimo concetto non sia rilevante, ma che è uno soltanto dei tanti paradigmi possibili, e non il più importante, dati gli scopi del progetto. Il paradigma adottato nel progetto è di carattere strutturale. Il punto di partenza è di definire il territorio come uno spazio strutturato, dotato cioè di coesione interna, e il paesaggio come


un territorio costruito coscientemente dalle società insediate (con un contributo rilevante e a volte preponderante di culture “esterne”) sulla base della conoscenze delle regole – naturali e antropiche – insite nel territorio. Un “paesaggio”, secondo questo paradigma, è un territorio dotato di un particolare valore. Il valore risiede nella sua costruzione avvenuta in modo “morfogenetico”, secondo modalità, cioè, in cui le generazioni e le società che si avvicendavano nell’uso e nella trasformazione del paesaggio non cancellavano i segni lasciati da quelle precedenti, ma li rielaboravano e ne aggiungevano nuovi, rispettando tuttavia le regole fondamentali che ne definivano l’identità. Questa definizione appartiene alla geografia storica e in Italia è presente soprattutto nelle opere di Emilio Sereni e di Lucio Gambi; ma a noi più che l'autorità degli studiosi che hanno sostenuto questa posizione, interessa la sua utilità pratica. Infatti, da un'idea di paesaggio come costruzione cosciente di un territorio da parte delle società insediate e delle "culture" in esso impegnate (questo è appunto il caso del paesaggio mezzadrile, costruito sì dai contadini, ma sulla base di una cultura essenzialmente urbana) nascono alcune domande cruciali: quale deve essere il nostro atteggiamento quando vengono meno le società - locali o non locali - che avevano costruito uno specifico paesaggio? E' legittimo e possibile pensare di far sopravvivere un paesaggio oltre le comunità che lo avevano formato e lo utilizzavano? Non è forse questo un atteggiamento antistorico e utopistico? Non è forse più coerente dire che ogni società ha il paesaggio che si merita? Per quale ragione i produttori di oggi, prima di tutti gli agricoltori, dovrebbero essere in qualche modo vincolati dal paesaggio di ieri? Per dare una risposta positiva a queste domande occorre dimostrare che si può salvaguardare il paesaggio storico rurale dosando accortamente conservazione e tutela (e solo eccezionalmente mediante la pura conservazione), mantenendone i caratteri fondamentali senza che ciò vada a danno degli attuali produttori; il corollario a questa prima tesi è che qualora vi siano dei costi aggiuntivi nello svolgimento delle pratiche agrarie dovuti alla tutela paesaggistica, essi in qualche modo devono essere compensati. Il limite di molte politiche di tutela del paesaggio finora perseguite è di avere una natura zonale e vincolistica. Queste politiche non hanno la necessaria flessibilità e tutt'al più prescrivono quello che non si può fare, ma non dicono quello che si può o deve fare. Per definire un approccio di tutela più realistico e più efficace occorre un affinamento dei paradigmi di paesaggio impiegati a partire dal concetto che abbiamo succintamente descritto, "il paesaggio come territorio costruito con coscienza e conoscenza da parte delle società insediate". I PARADIGMI DI PAESAGGIO IMPIEGATI NELLA RICERCA La tutela del paesaggio, a partire dalla legge di protezione delle "bellezze naturali" del 1939, come è stato accennato, ha sempre avuto un’impronta zonale e vincolistica. La salvaguardia operata dalle Sovraintendenze, è stato notato5, ha un triplice limite: un limite "oggettivo", perché non ha alcun contenuto sostanziale, cioè non dice ciò che si può o non si può fare, ma è solo il presupposto di un procedimento autorizzativo; un limite soggettivo, in quanto l'efficacia e la portata del vincolo sono affidate alla discrezionalità dei funzionari preposti; un limite di asistematicità, in quanto il territorio viene vincolato "a macchia di leopardo", con criteri non espliciti, per cui aree con le stesse caratteristiche sono soggette a diversi regimi. Non è il caso di insistere su questi difetti già ampiamente criticati e sulla necessità di superarli attraverso un approccio correttamente pianificatorio. Qui vorrei sottolineare che i limiti precedentemente accennati derivano, almeno in parte, da due presupposti; il primo è che il paesaggio di norma è tutelato come contesto di un qualche complesso edificato: il paesaggio, cioè, come "pertinenza" anziché dotato di una propria autonomia (si dovrebbe piuttosto assumere il paesaggio come un'entità che comprende anche l'edificazione). Il secondo è la natura "zonale" e non strutturale dell'idea di paesaggio impiegata. Su questo punto è opportuno 5

Vedi, all'interno della "Conferenza nazionale" citata in nota 1, AMOROSINO S., Spunti per un approccio sistemico alla tutela del paesaggio.


spendere qualche parola perché, come vedremo, l'adozione di un paradigma strutturale di paesaggio ha rilevanti conseguenze sul piano operativo. Riprendiamo, dunque, il concetto di paesaggio come territorio costruito con "coscienza e conoscenza", i cui segni sono sopravvissuti, in tutto o in parte, rispetto alla scomparsa delle società "costruttrici". Se esaminiamo i segni del paesaggio storico che ci sono pervenuti, possiamo notare che talvolta questi sono solo delle tracce, dei residui ormai privi di legami con il contesto; in questo caso, la loro conservazione ha un carattere museale o quasi e può essere decisa in base a parametri di valore e di rarità. Ma spesso, ed è questo il caso che ci interessa, i segni sono organizzati in strutture. Tutto ciò dipende dalle modalità con cui veniva costruito un paesaggio, non solo con la formazione di una serie di elementi caratteristici, ma anche, soprattutto, mediante la costituzione di sistemi che ponevano in relazione fra loro i diversi elementi. Per fare un esempio, ciò che caratterizza il paesaggio mezzadrile toscano, non è tanto la tipologia della casa colonica (che può variare grandemente) o la presenza di cipressi isolati o in filari, o la viabilità poderale, o le sistemazioni idraulico-agrarie, come muri a secco e acquidocci, quanto i rapporti che si instaurano fra tutti questi elementi e che definiscono una serie di strutture ordinate. Le relazioni della casa colonica con la viabilità principale; la viabilità poderale che inizia dalla casa colonica diramandosi per le varie parti del podere. Il sistema dei drenaggi strettamente correlato con la viabilità poderale per permetterne una migliore manutenzione e, allo stesso tempo, l'attraversamento. Nello sviluppo del progetto, il paradigma di paesaggio che abbiamo succintamente esposto è stato ulteriormente elaborato. Partendo da un concetto di paesaggio come “territorio strutturato secondo regole”, si è ritenuto conveniente analizzarlo articolandolo in livelli disposti in modo più o meno gerarchico, dove i livelli superiori condizionano, ma non determinano quelli inferiori. Ogni struttura paesaggistica è ordinata secondo regole che ne garantiscono la funzionalità e ne definiscono una specifica razionalità rispetto alla tecnologia dell'epoca (razionalità, molto spesso, tuttora valida). Ad esempio, la regola che presiede la localizzazione di gran parte della viabilità matrice ne definisce una posizione di crinale o, più raramente, di mezzacosta, disposta lungo le curve di livello; vi sono ragioni economiche e geomorfologiche alla base di questa regola che sono facilmente intuibili. Un altro esempio. La fondamentale regola del sistema insediativo, rispettata per secoli nel territorio chiantigiano, è che ogni nuovo manufatto edilizio o deve addossarsi ad un complesso preesistente, o deve essere localizzato in posizione isolata. L’espansione di un centro abitato avviene, perciò, mediante la costruzione, quasi sempre “filo strada”, di tipi edilizi a schiera o in linea in aderenza fra loro. La localizzazione dei manufatti religiosi o rurali – ville, fattorie e semplici case coloniche – è invece isolata e rispetta certe distanze da altri complessi o manufatti rurali6. Non si dà mai una localizzazione sparsa nei modi della lottizzazione. L’esempio vuole significare che in alcuni casi la tutela del paesaggio può essere espresso sotto forma di regole da seguire piuttosto che nella forma di divieti e di vincoli. Naturalmente il rispetto di una regola non è sufficiente di per sé ad assicurare la bontà delle politiche di tutela, ma ne è certamente una condizione necessaria. A livello di strutture di paesaggio mezzadrile (una struttura di livello inferiore rispetto a quella precedente) sono individuabili ulteriori regole che assicuravano l'efficienza e la razionalità nella conduzione del podere; ad esempio, i terreni di una certa acclività devono avere una copertura boschiva; i muri a secco devono essere posti lungo le curve di livello e essere collegati fra loro con acquidocci e fossi in modo da permettere un funzionamento unitario dei sistemi di drenaggio; e così via. L'individuazione delle regole, che non sono rigide, ma ammettono variazioni ed eccezioni, è vitale per la comprensione del paesaggio, il quale, altrimenti, finisce per essere letto solo da un punto di vista estetico o come un insieme di reperti storici. 6

Naturalmente questa regola non vale all’interno dello stesso complesso, ad esempio fra casa rurale e annessi agricoli.


Si è accennato che le strutture in cui si ordinano i segni del paesaggio sono diverse e disposte gerarchicamente. Vale a dire che esiste una struttura fondamentale, dotata di resistenza e quindi permanente nel tempo, che condiziona la forma delle strutture di livello inferiore. Nel paesaggio collinare toscano la struttura fondamentale è formata da un sistema insediativo, definito dalla "viabilità matrice" e dall'edificazione ad essa collegata (borghi, castelli, pievi, ville, ecc.). Il sistema insediativo storico, per lo più disposto lungo i crinali principali o secondari, e il reticolo idrografico hanno condizionato la forma dell'insediamento mezzadrile, dove l'elemento "fattoria" spesso costituisce l'anello di congiunzione fra i due livelli. Un secondo livello è modellato da strutture sociali che, per quanto complesse, hanno un carattere più settoriale e locale; esse si sono - per così dire - innestate sulla struttura di base, aggiungendo alla sua razionalità meta-storica una loro specifica razionalità: ad esempio, l'organizzazione pievana o mezzadrile. Infine, un terzo livello è legato agli usi, alle tecniche agrarie, alle modalità di coltivazione; una morfologia, quest'ultima, che offre una resistenza assai minore alle dinamiche di trasformazione. Riassumendo, il paesaggio chiantigiano è stato concettualizzato a un primo livello come “struttura profonda del territorio”; a un secondo livello come “paesaggio mezzadrile”; a un terzo livello come opere di sistemazione idraulico-agraria tradizionali.

Fig. 2 La fotografia mostra un esempio relativamente conservato di sistemazioni tradizionali.

Fig.3 In questo caso, invece, le colture e le sistemazioni tradizionali sono state in parte sostituite da un

A seguito dell'approccio strutturale alla lettura dei "segni del paesaggio", le azioni di tutela dovrebbero spostarsi, almeno in parte, dagli oggetti alle relazioni fra gli oggetti; si tratta di un cambiamento significativo se si pensa che gli elementi di una struttura paesistica storicamente unitaria vengono attualmente tutelati (o non tutelati) mediante normative, provvedimenti e competenze disparate: ad esempio, in Toscana, la protezione della casa colonica e delle immediate pertinenze viene demandata ad elenchi e misure di competenza dei Comuni (oltre ad eventuali vincoli ex L. 1089 o 1497); i muri a secco e i drenaggi sono sottoposti, in linea del tutto teorica, ai vincoli idrogeologici di competenza provinciale; il podere (se considerato parte di un "panorama"), può essere tutelato mediante i provvedimenti delle Sovraintendenze, ecc. Ma vi sono altre due opzioni, altrettanto se non più importanti della precedente, che discendono dalle premesse metodologiche brevemente descritte. La prima consiste nel fatto che una lettura strutturale del paesaggio consente di agire in modo differenziato rispetto a ciascun livello. Si può, per intendersi, stabilire una serie di politiche e vincoli più o meno cogenti per ogni struttura, individuando, allo stesso tempo, i soggetti, istituzionali e non, direttamente interessati alla tutela, riducendo la sovrapposizione delle competenze. Ad esempio, la protezione della struttura paesaggistica di base dovrebbe essere affidata ai piani di coordinamento delle Province e ai piani strutturali dei Comuni; la tutela delle strutture del paesaggio mezzadrile, ai Comuni, alle associazioni di categoria e agli imprenditori. La seconda opzione è che l'individuazione delle strutture e delle regole che presiedono gli ordinamenti paesaggistici orienta la tutela in modo molto più positivo di un approccio zonale e vincolistico. Molte prescrizioni possono essere espresse sotto la forma di criteri che devono essere seguiti nelle azioni di trasformazione del paesaggio, piuttosto che in forma di divieti; ad


esempio, la nuova edificazione deve seguire le stesse regole di impianto di quella storica - o compatta o isolata - e, naturalmente deve obbedire ad altre regole di carattere morfologico e tipologico su cui non possiamo soffermarci; una strada storica può essere modificata mantenendo la posizione di crinale. Questa posizione non deve essere fraintesa come l'eliminazione di qualsiasi forma di divieto o di vincolo, ma consente di ridurne la portata e l'estensione solamente a quelle fondamentali ed essenziali; riducendo, altresì, quella zona grigia che più di ogni altra mette in crisi gli operatori privati, il limbo (o l'inferno, a seconda dei punti di vista) della norma non scritta, dove vale la discrezionalità e la soggettività di chi interpreta la legge. METODOLOGIA DEL PROGETTO Il progetto di tutela del paesaggio chiantigiano si basa, dunque, sulla possibilità di modificare alcune regole di uno specifico livello strutturale di un paesaggio, mantenendone il senso d'ordine sostanziale. A seconda del maggiore o minore valore di testimonianza storica, del grado di conservazione tuttora esistente e di altre circostanze, si propone di conservare uno o più “livelli strutturali”, consentendo che a partire da un certo livello l'organizzazione territoriale o alcuni suoi elementi possano essere modificati con certe modalità e a certe condizioni. Abbiamo già indicato i tre fondamentali livelli strutturali del paesaggio collinare chiantigiano: la struttura profonda del territorio, le aree di paesaggio mezzadrile, le opere di sistemazione idraulicoagraria. Il primo livello di analisi consiste, perciò, nell’individuazione, descrizione e rappresentazione della struttura profonda del territorio, a partire dal riconoscimento dei suoi caratteri distintivi: la strutturalità intesa come ruolo primario o di base nel caratterizzare e condizionare gli altri sistemi ed elementi che definiscono la morfologia del paesaggio; la connettività, cioè il fatto che i suoi elementi siano fra loro legati dal punto di vista morfologico e funzionale; la profondità storica, intesa come continuità formale (e quindi coerenza morfologica) rispetto all'evolversi delle forme di organizzazione sociale ed economica. la contestualità, cioè la permanenza di legami fisici e funzionali con il contesto territoriale; la resistenza alle trasformazioni territoriali che la rende ancora riconoscibile dal punto di vista morfologico La struttura profonda è definita nei suoi caratteri fisici, da tre sistemi fondamentali fra loro connessi, matrici a loro volta della morfologia generale del paesaggio: a. il sistema insediativo storico; b. il reticolo idrografico principale, in quanto espressione dei caratteri litologici e dell’evoluzione dei processi della dinamica morfologica.; c. i boschi e le foreste che attualmente si presentano come un insieme di aree con copertura boschiva di varia natura e con diversi regimi di conduzione; queste, se collegate fra loro e opportunamente gestite, possono formare un ecosistema complesso, biologicamente funzionale. Il secondo livello di analisi riguarda l'individuazione e la descrizione delle aree di paesaggio mezzadrile. Nonostante l'evidenza del termine, alcune precisazioni sono necessarie dal momento che, salvo eccezioni riguardanti piccole “nicchie” territoriali, in nessuna parte del Chianti fiorentino possono dirsi integralmente conservati i caratteri tradizionali del paesaggio. Nella ricerca sono stati assunti tre parametri concorrenti per l'individuazione delle aree: il primo riguarda le loro dimensioni che, anche se non possono essere definite a priori, devono essere tali da consentire interventi paesaggistici, ambientali e agronomici di un certo respiro; empiricamente, tralasciando piccole zone che possono essere considerate solo dei frammenti, l'ampiezza minima è risultata di circa 40 ettari.


Il secondo parametro riguarda gli elementi che definiscono la “storicità” dell'area; esclusa la permanenza di assetti di coltura promiscua, quasi ovunque scomparsi e, dove presenti, di valore del tutto residuale, l'attenzione si è focalizzata sulle infrastrutture e sistemazioni agrarie di supporto e, precisamente sul complesso di opere che da una parte modellavano e contenevano i terreni e dall'altra ne assicuravano la stabilità idrogeologica. E' stata perciò assunta come decisiva per l'individuazione delle aree di paesaggio mezzadrile, la presenza di una rete di viabilità vicinale e poderale e di elementi come muri a secco, ciglioni, dreni tradizionali, tali da funzionare ancora come un sistema agronomico e idraulico e in uno stato di conservazione sufficiente per consentirne il ripristino o una limitata e controllata trasformazione. Il terzo parametro riguarda la frequenza delle sistemazioni agrarie, che non devono presentarsi come gruppi isolati, ma definire una diffusa organizzazione paesaggistica. In definitiva un'area di paesaggio mezzadrile deve essere abbastanza esteso per permettere politiche coordinate e integrate di intervento e presentare opere di sistemazione agraria sufficientemente dense, relazionate fra loro, e in uno stato di degrado tale da non impedirne una (almeno) parziale conservazione.

Figg. 4 e 5 L’area di paesaggio mezzadrile di San Cresci: a sinistra la ricostruzione dello stato di fatto nel 1825 in base al Catasto generale toscano; a destra la ricostruzione dello stato di fatto nel 1989/1998 in base alla Carta Tecnica Regionale e ad una serie di sopralluoghi (nelle tavole sono rappresentati gli elementi fondamentali presenti alla data della documentazione utilizzata: le strade vicinali e poderali, l’edilizia rurale con le aree di pertinenza, i terrazzamenti, i ciglioni, le lunette, gli oliveti, i vigneti maritati all’olivo e quelli in coltura specializzata, i seminativi, i boschi e il reticolo idrografico principale e secondario).

Il terzo livello di analisi coincide con il problema più complesso della ricerca: mettere a punto un metodo speditivo ma allo stesso tempo attendibile per valutare le operazioni di ripristino e di trasformazione di ciascuna area di paesaggio mezzadrile e i relativi costi. In primo luogo, è stato individuato un'area campione in cui fossero presenti le diverse tipologie di sistemazioni agrarie; in secondo luogo, è stata compiuta un'analisi approfondita di ciascuna tipologia rispetto alle tecniche costruttive impiegate, alle modalità di manutenzione, restauro o ripristino, alle possibilità di passare dall'una all'altra tipologia, ai materiali da usare, ai costi, ecc. A questo punto, ogni tipologia è stata articolata a seconda di un parametro di degrado o di dissesto e dell’intervento proposto7.

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Per fare un esempio, i muri a secco sono stati divisi nelle tipologie: "muro di contenimento della viabilità", "muro di ciglione", "muro di sottoscarpa", ecc. Ognuna di queste tipologie è stata ulteriormente distinta in ragione degli interventi necessari per assicurarne un corretto funzionamento; questi sono: "manutenzione ordinaria", "rifacimento parziale", "rifacimento a seguito di fenomeni di spanciamento", "demolizione e ricostruzione", ecc.


Sono state così individuati 11 interventi tipo, ciascuno definito dall'incrocio fra la tipologia base (muro o acquidoccio), e l'intervento, conseguente o possibile, riferito al suo stato di degrado/dissesto. Ogni intervento tipo è stato ancora articolato con un parametro di altezza8 e così preparata una scheda identificativa con la descrizione sintetica delle operazioni di intervento e il calcolo dei costi; tutto ciò sulla base di una definizione analitica delle opere necessarie e dei loro prezzi in economia. Nella ricerca sul campo si può perciò stabilire in modo speditivo la tipologia dell'opera di sistemazione agraria, il tipo di intervento e il costo relativo. Una volta definiti in modo dettagliato gli interventi di tutela nell'area campione e i relativi costi, sulla base di uno o più scenari produttivi, i risultati vengono calcolati come costi medi lineari o costi medi per ettaro riferiti a certe densità di sistemazioni agrarie e estrapolati alle altre aree di paesaggio mezzadrile. I PRODOTTI DELLA RICERCA Il primo livello paesaggistico, la struttura profonda del territorio, è stato descritto e rappresentato a partire dal sistema insediativo storico, quest’ultimo definito non sulla base di un’astratta periodizzazione (dove inizia o finisce ciò che ormai consideriamo “storico”?), bensì secondo criteri di coerenza morfologica – abbiamo già indicato alcune regole che assicurano tale coerenza. La cartografia, disegnata con tecniche di rappresentazione che assicurano un’immediata ed evidente leggibilità della forma del territorio, è integrata da misure di tutela proposte come indirizzi per gli strumenti urbanistici comunali. Queste misure sono espresse nella forma di criteri o regole funzionali, morfologiche e tipologiche da rispettare relativamente: a) la viabilità matrice; b) gli elementi puntuali disposti lungo la viabilità matrice; c) le aree di pertinenza della viabilità matrice; d) i centri abitati esistenti per le parti morfologicamente incoerenti; e) i nuovi nuclei residenziali; f) la protezione visiva dei crinali; g) le relazioni fra crinali e fondovalle. Ugualmente vengono forniti indirizzi e criteri per il miglioramento e la gestione delle aree boschive, e la stima dei costi unitari degli interventi proposti. Per quanto riguarda il secondo livello strutturale, identificato come paesaggio mezzadrile, i risultati della ricerca confermano le preoccupazioni e la fondatezza degli obiettivi che fin dall’inizio hanno guidato il progetto. In tutta l’area presa in esame, che come si è accennato misura circa 230 km., sono ancora individuabili 1300 ettari di paesaggio mezzadrile – un’estensione paragonabile a quella di una fattoria tradizionale - suddivisi in 13 aree di dimensioni variabili da 40 a 160 ha, pari a meno del 6% della superficie complessiva. Possiamo quindi, se vogliamo, “consegnare” alle future generazioni soltanto alcuni residui di paesaggio storico - costruito fra il XIII secolo e il primo scorcio del Novecento, ma con momenti salienti nel Rinascimento e nell’Ottocento - che testimoniano della cultura e del lavoro di una formazione sociale che ha improntato come nessun’altra di sé il territorio. Se non interveniamo rapidamente queste ultime testimonianze andranno perdute, come risulta evidente dalle trasformazioni che in questo momento stanno avvenendo. La perdita sarebbe inestimabile dal punto di vista storico-culturale, ma grave anche per gli aspetti ambientali ed economici, come è dimostrato dalla ricerca. Per ogni area, o per gruppi di aree, sono stati formulati indirizzi e criteri articolati nei seguenti punti: gestione e miglioramento delle colture arboree della vite e dell’olivo; per quanto riguarda gli oliveti sono state individuate le operazioni tipo di intervento e i relativi costi unitari;

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I muri sono stati distinti per un altezza inferiore a 150 cm, compresa fra 150 e 250 cm., superiore a 250 cm.


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gestione e miglioramento delle aree con copertura boschiva, dal punto di vista paesaggistico ed ecologico - ambientale. Sono state definite le operazioni tipo a seconda delle caratteristiche forestali e i relativi costi unitari; gestione e miglioramento del reticolo idrografico superficiale con la stima dei costi; stima dei costi necessari per la manutenzione e il ripristino delle sistemazioni idraulicoagrarie tradizionali.

Fig. 6 Scheda tipo del “Manuale”: a sinistra la scheda con il rilievo della sistemazione di un tipo di muretto a secco; a destra la scheda con gli interventi consigliati per il recupero e i relativi costi previsti.

Il terzo livello è costituito dalle sistemazioni idrauliche tradizionali: muri a secco, ciglioni, acquidocci. L’idea guida è stata di preparare un manuale che da una parte consentisse di calcolare i costi di ripristino del paesaggio agrario nelle diverse aree e, dall’altra, potesse essere immediatamente utilizzato dagli operatori agricoli per eseguire in modo corretto gli interventi opportuni. Il Manuale è costituito da: Un’introduzione esplicativa; Un abaco delle tipologie esistenti e degli interventi proposti; Una scheda di rilievo esemplificativa con le relative istruzioni; 11 schede di intervento articolate in una parte descrittiva dello stato attuale, una parte esplicativa degli interventi, con i prezzi di applicazione al metro lineare (articolati per altezza nel caso di muri a secco); Le norme di attuazione con la descrizione delle opere tipo e dei prezzi medi. PRIME RISPOSTE ALLE DOMANDE FONDAMENTALI DEL PROGETTO Per concludere, è opportuno ricordare le tre domande fondamentali che hanno ispirato il progetto: a) quanto costa salvare quel che rimane del paesaggio storico mezzadrile; b) con quali benefici; c) mediante quali strumenti.


Rispetto alla prima domanda, l’indagine ha chiarito che la quasi totalità dei costi per la tutela delle aree di paesaggio mezzadrile sono da attribuire al ripristino delle sistemazioni idraulico agrarie tradizionali. In queste aree sono ancora individuabili circa 150 km di muri a secco, più di 40 km. di ciglioni e qualche chilometro di canalizzazioni (acquidocci) in condizioni di conservazione molto variabili, ma di cui almeno il 60-70% in stato precario o di crollo. Il costo stimato al giugno 2000 per il ripristino dei muri a secco e degli acquidocci (la cui incidenza è però minima rispetto alla categoria precedente) nelle aree di paesaggio mezzadrile è pari a circa 28 miliardi di lire, con un’incidenza media di 21,5 milioni a ettaro. Una cifra, quest’ultima, che, naturalmente, varia grandemente a seconda delle situazioni, potendo in alcuni casi toccare punte molto elevate, superiori ai 100 milioni ad ha. E’ evidente che da un punto di vista pratico, oneri così rilevanti non possono che portare all’abbandono delle aree in condizioni più critiche, mentre per quelle parti di territorio che si allineano ai costi medi di 15-20 milioni a ettaro, solo una vantaggiosa riconversione alla coltura della vite, ai prezzi attuali di mercato del vino, è in grado di sopportare il ripristino delle sistemazioni tradizionali; in questo caso si deve però tenere conto che le riconversioni produttive generalmente avvengono proprio con l’eliminazione delle opere tradizionali, almeno con le caratteristiche tipologiche e con le densità tipiche del paesaggio mezzadrile, e, nel migliore dei casi, con la loro sostituzione con pochi muri “ciclopici”. Quanto ai benefici ottenibili mediante la tutela delle aree di paesaggio mezzadrile, essi riguardano soprattutto. ritorni dovuti all’immagine del paesaggio chiantigiano per tutte le attività che ne beneficiano direttamente (attività turistiche, culturali e di tempo libero), o indirettamente (commercializzazione dei prodotti); ritorni dovuti al miglioramento della produzione agricola e legati al mantenimento di una popolazione rurale attiva; salvaguardia ambientale e protezione dal rischio idrogeologico. L’eliminazione dei muri a secco comporterebbe che l’attuale tempo di ritorno in cui statisticamente si verifica un’esondazione nei corsi d’acqua interessati passerebbe da 5 a 2 anni. Per ottenere lo stesso effetto di stabilizzazione degli alvei, occorrerebbe spendere circa 5 miliardi in opere di regimazione. Naturalmente il migliore regime idrogeologico si riflette a valle come riduzione della necessità di casse di espansione, aree di laminazione, ecc. La terza fondamentale domanda della ricerca riguarda le forme di intervento per la tutela delle residue aree di paesaggio mezzadrile. Il piano qui presentato non vuole porre vincoli – né d’altronde questo è nelle facoltà del PTCP; di più: con ogni probabilità, forme di vincolo delle sistemazioni idraulico agrarie da sole sono inutili quando non addirittura controproducenti. Il recupero del paesaggio storico chiantigiano (non solo delle aree di paesaggio mezzadrile, ma anche delle altre parti del territorio) non può neanche essere pensato senza una attiva partecipazione dei soggetti interessati: le amministrazioni, gli imprenditori agricoli, la popolazione rurale. Gli strumenti da utilizzare sono diversi e devono essere coordinati fra loro. In primo luogo occorrono progetti; in secondo luogo finanziamenti da erogare sotto la forma di incentivi alla produzione e, in non pochi casi, direttamente al ripristino delle sistemazioni idraulicoagrarie; in terzo luogo occorre una qualche forma di “agenzia” in grado di coordinare politiche e progetti e di facilitare l’accesso degli imprenditori ai finanziamenti. Il “piano guida”9, ovviamente, non può che fermarsi al primo punto, offrire cioè indirizzi, criteri, 9

Più precisamente, il piano guida è costituito dai seguenti prodotti: 1. La descrizione e la rappresentazione della struttura profonda del territorio, cioè, l'armatura insediativa e paesistica persistente e resistente formatasi attraverso processi di costruzione territoriale coerenti dal punto di vista morfologico. La cartografia è integrata da una serie di criteri indirizzi e prescrizioni nella forma di proposte alle amministrazioni locali per la elaborazione dei piani strutturali. 2. Indirizzi e criteri per il miglioramento e la gestione delle aree boschive, con la stima dei costi unitari degli interventi proposti.


progetti, stime dei costi, alla comunità chiantigiana e alla società toscana, affinché possano essere affrontati con adeguate conoscenze gli altri due punti. Il progetto del “Programma di Paesaggio Chianti”, allo stato attuale, è un lavoro in progresso che viene consegnato alla società toscana e alle comunità interessate perché venga discusso, integrato e migliorato. Solo così si potrà decidere consapevolmente se tramandare ciò che rimane dell’eredità del paesaggio storico alle generazioni future e come perseguire concretamente gli obiettivi di uno sviluppo CONCLUSIONI Si è accennato che la tutela del paesaggio rurale ha bisogno, di un approccio attivo, in cui i vincoli costituiscano un’eccezione o comunque siano integrati da prescrizioni su “ciò che si può” fare e da regole sul “come fare”. A tale fine sembra più utile l’impiego di paradigmi analitici in cui il paesaggio sia interpretato come una struttura territoriale articolata in livelli, piuttosto che come “superficie visibile” di una porzione di territorio. Con ciò non si vuole sostenere che il punto di vista tradizionale, sia da rifiutare; vedremo, infatti, come anche il punto di vista estetico e “panoramico” giochi un ruolo fondamentale nella costruzione di un senso comune del paesaggio, passo quest’ultimo altrettanto necessario ai fini della tutela. Le conclusioni che vorrei proporre – limitatamente a quanto può essere osservato nella regione Toscana, ma probabilmente generalizzabili – si basano, oltre che sulle precedenti considerazioni, sulle difformità e manchevolezze presenti nelle politiche urbanistiche comunali in applicazione dei disposti della LR 5/95; in particolare, lo statuto dei luoghi e l’individuazione delle invarianti strutturali, che dovrebbero costituire il perno delle politiche di salvaguardia e garantire la sostenibilità dello sviluppo, non solo differiscono da Comune a Comune, ma corrono il rischio di essere generiche e inefficaci una volta tradotte in regolamento urbanistico. Nella formulazione dello statuto dei luoghi non ha avuto alcun ruolo, almeno nei piani strutturali finora approvati, la partecipazione delle comunità locali; ciò appare contraddittorio, rispetto alle intenzioni del legislatore e rispetto alla nozione stessa di “statuto” che deve essere correttamente inteso come una carta dei diritti e dei doveri che ciascuna comunità stipula con il proprio territorio. Il ruolo decisivo delle società insediate in un territorio è d’altronde una necessità ribadita in tutti i programmi dell’Unione Europea riguardanti le politiche di salvaguardia del paesaggio, dove l’accesso ai finanziamenti viene subordinato alla costituzione di una attiva partnership locale. Se il paesaggio è il risultato di processi di costruzione consapevoli, analogamente le politiche di salvaguardia implicano una presa di coscienza dei suoi valori da parte di abitanti, utenti, e fruitori a vario titolo. Ciò è tanto più vero quando si parla di paesaggio rurale, cioè di un territorio storico-culturale che è allo stesso tempo materia prima e strumento di produzione. Ma qui ritorna la questione cui abbiamo accennato in precedenza. Come può sopravvivere un paesaggio oltre le società che lo avevano costruito con un lavoro spesso plurisecolare? Qui si 3. La descrizione e la rappresentazione cartografica delle aree di paesaggio mezzadrile, divisi in aree elementari, con la misurazione delle opere di sistemazione agraria presenti e la stima dei costi di ripristino. 4. Indirizzi e criteri agronomici per il miglioramento della qualità della produzione nelle aree di paesaggio mezzadrile; questi indirizzi riguardano fondamentalmente l’olivicoltura e limitate riconversioni dall’oliveto a impianti viticoli tradizionali. Sono state altresì indicate le operazioni tipo da effettuare, i costi e le possibili modalità di incentivazione. 5. Gli interventi di miglioramento dei boschi nelle aree di paesaggio mezzadrile e il computo dei costi unitari. 6. Il calcolo del funzionamento idraulico nelle aree di paesaggio mezzadrile con o senza le sistemazioni tradizionali e la valutazione dei suoi effetti sul reticolo idrografico. 7. La descrizione e rappresentazione cartografica dettagliata di un'area campione che costituisce un modello metodologico per analoghe ricerche. L’area campione è stato diviso in aree elementari e per ciascuna di esse sono stati indicati a) gli interventi agronomici possibili; b) gli interventi sulle sistemazioni idraulicoagrarie; c) gli interventi sul reticolo idrografico. Per ogni tipo di intervento è stato effettuato il calcolo dei costi. 8. Un “manuale” delle sistemazioni idraulico-agrarie tradizionali, formato da istruzioni per il rilievo e schede di intervento relative a 11 tipologie di base, dalle norme di attuazione e dall’analisi dei prezzi.


può verificare un tipico conflitto, difficilmente mediabile. Da una parte gli imprenditori che vogliono mano libera per adattare il paesaggio alle esigenze della tecnologia a loro volta imposte dal mercato; dall’altra, imprenditori i cui prodotti sono promossi e valorizzati dai contenuti storico culturali del paesaggio (talvolta le due figure coincidono, e questo promuove interessanti forme di tutela individuale, anche se episodiche e raramente supportate dalle amministrazioni). Il conflitto può estendersi ad altri soggetti: i residenti che non solo godono del “bel paesaggio”, ma che intendono tutelare i valori immobiliari delle loro proprietà; le associazioni culturali, come Italia Nostra, giustamente preoccupate dalla possibile scomparsa di preziose testimonianze culturali. I conflitti di cui abbiamo fatto cenno, sono difficilmente risolvibili “a posteriori”, quando una decisione di trasformazione del paesaggio che interessa alcuni gruppi sociali, viene combattuta in nome di interessi altrettanto legittimi. In questa fase finale, eventuali accordi spesso si risolvono in compromessi sostanzialmente insoddisfacenti per tutte le parti in causa. Differente è il discorso se i potenziali conflitti di interesse vengono alla luce e possono essere in qualche modo armonizzati in una fase propositiva, come, (per riprendere la questione precedentemente accennata) nella formulazione dello statuto dei luoghi. I diversi punti di vista, in questo caso, possono dare luogo a una carta del territorio che tuteli gli interessi di tutti e soprattutto, quelli del paesaggio, inteso come bene dell’intera collettività. Sarà in questo caso, la comunità locale, che ha definito un proprio statuto, a sorvegliare affinché esso non venga tradito nei successivi sviluppi del piano regolatore e in generale nelle politiche di trasformazione del territorio. Come è evidente, si tratta di una strada ancora in gran parte da percorrere, ma in questo senso stanno tutte le indicazioni non solo regionali, ma nazionali e sovranazionali; questo sembra, oltretutto, un punto fermo che è emerso anche nella recente “Prima conferenza nazionale per il paesaggio”, al di là della divergenza di opinioni fra i “localisti” e coloro che temono una parcellizzazione delle politiche paesaggistiche e quindi una sostanziale mancanza di coordinamento. Un’ultima notazione sul ruolo, ancora fondamentale, del punto di vista estetico del paesaggio. Abbiamo sottolineato che questo punto di vista non può essere considerato superato; superata piuttosto è l’esclusività di questo punto di vista. Non possiamo nascondere il fatto che quando si parla di “comunità” o, più propriamente, di “società” locali come protagoniste nella tutela del paesaggio rurale, facciamo riferimento ad un soggetto in gran parte ipotetico. Le identità tradizionali sono ovunque entrate in crisi e una buona parte della popolazione rurale è fatta di “residenti” che lavorano in città e che hanno pochi rapporti con il territorio e con la sua vita sociale. L’apprezzamento della bellezza del paesaggio, considerare questa bellezza come altrettanto importante del suo ruolo produttivo o di presidio idrogeologico, può costituire un importante collante sociale. Si tratta di un problema che in linea più generale riguarda l’integrazione culturale dei nuovi con i vecchi abitanti, integrazione che può produrre uno scambio fecondo di saperi e di valori. Un obiettivo che deve essere perseguito senza utopistiche fughe in avanti, ma piuttosto con un paziente lavoro giorno per giorno. Certamente ogni nuova definizione di “aree di sviluppo dell’economia rurale” e allo stesso tempo di “tutela del paesaggio” – come ad esempio l’individuazione di distretti rurali non può essere giocata né su un piano meramente tecnico (ad esempio facendo prevalere l’ottica delle “unità di paesaggio”), né da un punto di vista meramente politico-amministrativo. Sono piuttosto valori e atteggiamenti culturali condivisi, un senso comune del paesaggio che fonda anche la comunità (mi permetto di sottolineare queste parole) a definire l’ambito e i contenuti della politiche di tutela. Una strada impervia, ma che deve essere sperimentata, se da un approccio vincolistico e sostanzialmente inefficace si vuole passare ad un’attiva e operante tutela del paesaggio rurale.

* Università degli Studi di Firenze


Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio anno1 - numero 0 - luglio–dicembre 2003 Firenze University Press AMBITI DI PIANIFICAZIONE STRATEGICA E POLITICA DEL PAESAGGIO di Guido Ferrara* e Giuliana Campioni**

SOMMARIO 1.- Premessa: lo sviluppo sostenibile come nuova opportunità 2.- Il contesto territoriale 3.- Il sistema degli obiettivi 4.- La logistica e il metodo 4.1.- Risorse e ambiente 4.2.- Indirizzi per le politiche del territorio 4.2.1.- Processo valutativo 4.2.2.- Gli spazi aperti e il processo di riqualificazione ecologica 4.2.3 - Il sistema dei requisiti di qualità 5.- Fasi e elaborati essenziali 1. PREMESSA: LO SVILUPPO SOSTENIBILE COME NUOVA OPPORTUNITÀ. Il termine “sviluppo sostenibile”, che sintetizza la proposta elaborata a livello mondiale di un rapporto innovativo tra le esigenze della società e quelle della conservazione dell’ambiente1, esprime un parametro di crescita qualitativa le cui ricadute possono essere ricondotte a quattro assi principali: • • • •

sostenibilità economica, come capacità di generare, in modo duraturo, reddito e lavoro per il sostentamento della popolazione; sostenibilità sociale, come capacità di garantire condizioni di benessere umano (sicurezza, salute, istruzione, ma anche divertimento, serenità, socialità), distribuite in modo equo tra strati sociali, età e generi; sostenibilità ambientale, come capacità di mantenere nel tempo qualità e riproducibilità delle risorse naturali; sostenibilità istituzionale, come capacità di assicurare condizioni di stabilità, democrazia, partecipazione, giustizia, nonché rispondenza tra le azioni concrete compiute sul territorio e gli atti amministrativi.

Il rapporto tra sostenibilità dello sviluppo e incremento dei livelli di qualità dell’ambiente costituisce un valido motivo per integrare gli obiettivi di sostenibilità nella pianificazione strutturale, che è chiamata a definire le indicazioni strategiche del territorio e ha il compito di specificare la disciplina degli aspetti paesaggistici e ambientali2. Tale integrazione risulta particolarmente proficua nella pianificazione di livello locale, essendo questa la scala a cui le scelte di sostenibilità possono conseguire i maggiori risultati, grazie 1

• •

Per sviluppo sostenibile si intende:

uno sviluppo che risponda alle necessità del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare le proprie esigenze (Brundtland, World Commission on Environment and Development, 1987); un miglioramento della qualità della vita, senza eccedere la capacità di carico degli ecosistemi (World Conservation Union, UN Environment Programme and World Wide Fund for Nature, 1991);

uno sviluppo che offra servizi ambientali, sociali ed economici fondamentali a tutti i membri di una comunità, senza minacciare l'operabilità del sistema naturale, edificato e sociale da cui dipende la fornitura di tali servizi (International Council for Local Environmental Initiatives, 1994). 2 Art. 1/bis della legge 431/1985


anche al ruolo diretto che i residenti (imprenditori, associazionismo di categoria, ecc.) possono svolgere nei processi di riequilibrio del sistema naturale e antropico. L’incontro tra piano, economia e ambiente è quindi avviato e l’esigenza che le azioni di conservazione si integrino con gli interessi di sviluppo delle comunità è ormai recepita, mentre resta aperta la strada alla sperimentazione di criteri e paradigmi di riferimento entro ricerche e studi applicati. Significativi indirizzi per perseguire la compatibilità tra sviluppo territoriale e salvaguardia ambientale e paesaggistica vengono forniti in Italia dall’Accordo tra il Ministro per i Beni e le Attività Culturali e le Regioni sull’esercizio dei poteri in materia di paesaggio sottoscritto nel corso del 20013, che, all’apprezzamento degli aspetti sistemici del paesaggio stesso fa conseguire un atteggiamento propositivo diversificato in rapporto alle differenti situazioni e, conseguentemente, l’articolazione delle trasformazioni in tutta la gamma di possibilità che va dalla salvaguardia, alla riqualificazione, al nuovo assetto 4. In sintesi, gli aspetti innovativi dell’Accordo e i suoi legami con il concetto di sostenibilità sono sintetizzati nei seguenti punti, che possono essere assunti come altrettanti criteri guida del presente rapporto. 1. estensione a tutto il territorio del concetto di “paesaggio” inteso come bene collettivo le cui qualità specifiche vanno preservate e, ove possibile, recuperate e incrementate; 2. articolazione delle modalità di tutela in “protezione”, gestione e riqualificazione, assumendo nelle differenti situazioni obiettivi di qualità paesistica da perseguire con modalità e azioni diverse; 3. cooperazione istituzionale ai diversi livelli nella predisposizione di strumenti e nell’attivazione di interventi, con particolare riguardo alle aree da riqualificare; 4. ricomposizione delle pianificazioni che a diverso titolo incidono sullo stesso territorio, portatrici di interessi generali ugualmente legittimi, anche se spesso conflittuali; 5. coinvolgimento della società civile in termini di cultura diffusa, ma anche operativamente, attraverso il ricorso, ove possibile ad investitori privati. 2. IL CONTESTO TERRITORIALE. Si rileva, prioritariamente, come le peculiarità di origine naturale e antropica che contraddistinguono un contesto territoriale dato non possano essere considerate come entità isolate, ma vadano intese come una sola “grande architettura territoriale” all’interno di un paesaggio unico. Ad esempio, non si può pensare alla conservazione e al recupero dell’edilizia tradizionale, senza inquadrarli nel processo di conservazione e recupero dell’intero paesaggio che li accoglie e rapportarli alla sua possibilità di evoluzione. D’altra parte il concetto di paesaggio è fondato sulla complessità e sulla trasformazione continua degli elementi che lo compongono, e di questa complessità e dinamicità si dovrà tenere conto nel tracciare una strategia di intervento che punti alla stabilità e allo stesso tempo consenta possibilità di sviluppo. Una seconda considerazione riguarda il fatto che le componenti naturali e antropiche sono correlate in modo sistemico alle varie scale. La loro importanza relativa, la fragilità e le potenzialità che esprimono in termini di conservazione e di valorizzazione, dipendono pertanto anche dai rapporti instaurati a livello d’area vasta. Ogni contesto territoriale si colloca quindi all’interno di un sistema di relazioni articolato e complesso in quanto vi si riflettono valori e di esigenze interne (intrinseci allo spazio di pertinenza) ed esterne (legati ad uno spazio ben più ampio), difficilmente tra loro separabili. Tenere conto di questa particolare situazione costituisce la premessa per delineare un sistema di scelte impostato sulla sostenibilità complessiva dell’ambiente e non sul depauperamento delle sue singole componenti. Ma come trasformare un territorio da un luogo qualsiasi a un luogo di risorse? A nostro avviso ciò è possibile operando in due direzioni :

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Cfr. Gazzetta Ufficiale 18.5.2001 n. 114 Cfr. GIULIANA CAMPIONI L’Accordo Stato-Regioni in materia di paesaggio. Intesa raggiunta, "ACER, Il Verde Editoriale", Milano, n° 1/02, pag. 36-38

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• perseguendo un’integrazione di valori, ovvero realizzando una più stretta correlazione tra l’economia dell’uomo e l’ecologia, intesa come economia della natura, e dando la giusta evidenza al carattere ambientale delle scelte economico-territoriali e urbanistico-localizzative; • costruendo modi e forme innovative per coniugare il binomio conservazione/trasformazione del patrimonio disponibile e fornire risposte alla domanda di qualità proveniente dall’interno (residenti) ed eventualmente dall’esterno (per es. visitatori, turisti). Dovrà in generale essere prestata attenzione, soprattutto nei comprensori caratterizzati da potenzialità nel settore turistico, a temi quali: • • • • • •

l’identità spaziale e percettiva e i caratteri unificanti del contesto i “giacimenti” naturali e culturali le “mete” d’interesse prioritario i servizi per forme didattiche evolute (laboratori, campi estivi, ecc.) l’accessibilità e la percorrenza (carrabile, pedonale, ciclabile, ecc.) l’integrazione dei progetti di promozione esistenti.

3. SISTEMA DEGLI OBIETTIVI. OBIETTIVO 1 - CONTRIBUIRE AL RECUPERO DI UNA VISIONE OLISTICA DEI RAPPORTI TRA ECOSISTEMA, AGROSISTEMA E SISTEMA INSEDIATIVO.

Dovranno essere indagate le condizioni di stato e, successivamente valutati gli aspetti di qualità, vulnerabilità e trasformabilità dei sistemi naturalistico-ambientale, paesaggistico e insediativo e le loro interazioni reciproche, sia in essere che potenzialmente funzionali all’uso sistemico del territorio. OBIETTIVO 2- CONTRIBUIRE AL SUPERAMENTO DEI PROCESSI DI FRAMMENTAZIONE AMBIENTALE E DI DISTURBO DELLE COMPONENTI BIOLOGICHE FAVORENDO LA CONNESSIONE TRA AREE NATURALI, AREE AGRICOLE E AREE VERDI URBANE.

Gli indirizzi conservazionali recenti hanno individuato nella salvaguardia del valore di collegamento ecologico-funzionale del territorio la strategia a breve termine più promettente per la protezione della diversità biologica e, più in generale, per la sostenibilità ambientale. Dovranno essere specificate le modalità da adottare per la salvaguardia e l’incremento del valore ecologico-funzionale del territorio tramite sistemi di governo integrato dello spazio definiti “reti ecologiche”. OBIETTIVO 3.- CONTRIBUIRE ALLA DEFINIZIONE DI POLITICHE DEL PAESAGGIO COMPATIBILI CON LE DIFFERENTI CARATTERISTICHE STRUTTURALI, FUNZIONALI E PERCETTIVE DELL’ECOMOSAICO E CON LA DISPONIBILITÀ ALL’INNOVAZIONE DELLE DIVERSE TESSERE.

Le unità di paesaggio, sottosistemi diversamente caratterizzati sotto il profilo ambientale e al loro interno unitari, saranno interpretate come ambiti di pianificazione strategica. Per ciascuna “entità pre-normativa” dovranno quindi essere stabiliti gli obiettivi di qualità paesistica e proposte linee di intervento, tenuto conto che uno dei requisiti della sostenibilità è costituito dall’integrazione delle politiche. OBIETTIVO 4 - CONTRIBUIRE A DETERMINARE LE OPZIONI STRATEGICHE CAPACI DI CONDURRE IL TERRITORIO A NUOVE SOGLIE DI QUALITÀ. Sulla base dei punti di forza e dei punti di debolezza, delle opportunità e dei rischi rilevati, dovrà essere tracciato uno schema dei “Requisiti di qualità” del contesto territoriale di riferimento entro le tre categorie della tutela , del recupero e dello sviluppo sostenibile. OBIETTIVO 5 - CONTRIBUIRE ALL’INDIVIDUAZIONE DI INIZIATIVE MIRATE ALL’INSTAURAZIONE UN NUOVO RAPPORTO TRA LE ESIGENZE DELLA SOCIETÀ E QUELLE DELL’AMBIENTE.


Dovranno essere avanzate idee-proposta in settori specifici (ecoturismo, multifunzionalità dello spazio rurale, riabilitazione ecologica del territorio, ecc.) dettagliandone gli obiettivi, le dimensioni qualitative e quantitative, i possibili soggetti attuatori, i risultati attesi. 4. LA LOGISTICA ED IL METODO Il metodo di lavoro proposto è sintetizzato nel diagramma di flusso accluso. Esso si fonda sull’applicazione delle discipline afferenti le componenti abiotiche, biotiche, antropiche e culturali del territorio e dell'ambiente, considerate nella loro contiguità relazionale e nelle interazioni reciproche, e di quelle attinenti il controllo dell’uso del territorio. Il percorso progettuale dovrà comprendere: 1. la ricostruzione dello stato dell’ambiente; 2. l’individuazione delle unità di paesaggio come unità pre-normative; 3. l’interpretazione del sistema insediativo e dell’armatura a rete in relazione al piani e programmi vigenti e previsti; 4. la valutazione della rilevanza e della fragilità del territorio; 5. la perimetrazione degli ambiti di pianificazione strategica; 6. la stesura di criteri e di linee quale contributo alla definizione dei principi e delle decisioni non negoziabili e alla indicazione delle invarianti ambientali e paesistiche del territorio, insieme agli obiettivi e standard di qualità, tutela e trasformazione delle diverse parti. 4.1.- Risorse e Ambiente In primo luogo dovranno essere indagati i principali fattori costituenti l'ecologia del paesaggio del territorio considerato, che sono caratterizzati da elementi fisico-ambientali ben precisi, sui quali dovranno essere raccolti e valutati i dati di base, obbligatoriamente comprendenti : • la geologia e geomorfologia; • il movimento altimetrico (altimetria, pendenze); • l'idrologia (acque di superficie e di falda, drenaggi, difficoltà di percolazione, difesa delle acque termominerali, ecc.); • la vegetazione e l'uso del suolo (aree a vegetazione naturale, aree agricole, zone abbandonate e degradate, ecc.); • le caratteristiche intrinseche dell'insediamento concentrato e sparso (fasi di accrescimento, emergenze, semiologia, reti di trasporto, aree problematiche), da cui isolare i detrattori, o elementi patologici presenti, sia di tipo puntuale che diffuso. A seguito delle elaborazioni analitiche svolte, si potrà procedere al riconoscimento delle varie tessere del "mosaico" in cui il territorio può essere suddiviso dal punto di vista ecologico. Il punto di riferimento è la costruzione della carta degli ambiti territoriali omogenei, ovvero le unità di paesaggio precedentemente citate, che costituiscono vere e proprie sub-aree su cui le politiche ambientali debbono essere diversamente caratterizzate. Ogni sub-area risulta infatti indagata nel suo funzionamento, in quanto determinata e diversamente caratterizzata sotto il profilo ambientale, e questa diversità può essere misurata in termini quali-quantitativi mediante il supporto dell'ecologia del paesaggio. In altre parole, per ogni zona omogenea é possibile diagnosticare i problemi e conseguentemente predisporre idonee terapie d'intervento, così come é possibile predisporre un progetto di conservazione dei valori esistenti (le aree di pregio) mediante il loro recupero e la loro salvaguardia. In ogni caso, le scelte si basano su giudizi di valore espressi sulle diverse identità/caratteristiche dei soggetti ambientali esistenti. L'analisi ecologica si completerà con l’indagine sulla presenza e sulle caratteristiche degli apparati paesistici, quanto ad apparato naturale (connettivo, stabilizzante, resiliente, escretore) che antropico (protettivo, produttivo, sussidiario e abitativo).


La disponibilità di queste conoscenze permetterà la precisazione delle prescrizioni per le singole sottozone del territorio extraurbano, da considerare ambiti di pianificazione strategica. 4.2. Indirizzi per le politiche del territorio 4.2.1. Processo Valutativo La considerazione integrata delle risultanze delle analisi diagnostiche, dei riferimenti normativi e delle iniziative in corso o previste, consentiranno di aprire un processo di valutazione delle componenti paesisticoambientali e insediative del contesto territoriale considerato. Permetteranno altresì di elaborare una o più opzioni quadro che potranno costituire il principale parametro di riferimento degli indirizzi futuri di politica territoriale. In particolare, tali opzioni troveranno un riscontro in specifici elaborati grafici e in schemi a matrice relativi alla • •

Valutazione della qualità paesistica per macro unità di paesaggio, definita sulla base della rilevanza, della vulnerabilità e dei principali fattori di rischio. Valutazione per contesti territoriali strutturalmente diversificati dei punti di forza, dei punti di debolezza e delle opportunità.

4.2.2. Gli spazi aperti e il processo di riqualificazione ecologica Il tema si pone nei termini della funzione relazionale che può essere svolta dal verde urbano e territoriale ai fini delle connessioni ecologiche interne ed esterne alla città, del sostegno delle attività umane e delle esigenze delle altre biocenosi, del recupero dei diversi ambiti del paesaggio agrario e naturale con il conseguente incremento della qualità ambientale. L’esigenza eco-connettiva apre una gamma di possibilità nell’economia degli obiettivi tradizionali della progettazione e gestione dello spazio inedificato. Implica infatti la riconsiderazione delle invarianti naturali, ad esempio i boschi, le siepi, i filari alberati, i corsi d’acqua, e dell’intero sistema dei “vuoti urbani” ivi compresi naturalmente i parchi e i giardini, in qualità di episodi strategici utili alla definizione di un nuovo modello insediativo capace di esercitare minori pressioni sull’ambiente e di fornire energie e risorse rinnovabili. Pertanto, dovranno essere individuate in termini pre-progettuali e di indirizzo le potenzialità offerte dal contesto territoriale di riferimento per la realizzazione di reti ecologiche di livello locale, intese come elemento essenziale di qualità a supporto prioritario di funzioni percettive e ricreative, nell’ottica della riqualificazione delle componenti naturali e degli agroecosistemi e del miglioramento dell’ambiente urbano5. 4.2.3 Il sistema dei requisiti di qualità Nel definire il quadro propositivo delle diverse opzioni praticabili dalla pianificazione dovranno essere messi in luce i processi ritenuti più idonei a condurre il territorio di riferimento a nuove soglie di qualità ambientale, paesaggistica e insediativa, tenuto conto dei seguenti criteri base: a) Valorizzazione dell’identità unitaria del territorio considerato pure nella varietà fisica, storica e percettiva delle sue componenti b) Integrazione funzionale e relazionale tra ambiti diversi c) Attualizzazione del patrimonio naturale e culturale in modo compatibile con la sua conservazione e “messa in rete” delle risorse disponibili d) Riconversione in positivo dei danni arrecati, o potenzialmente arrecabili all’ambiente, attraverso la creazione di valore aggiunto ambientale. 5

L’Agenzia Nazionale per la Protezione dell’Ambiente (ANPA) ha recentemente affidato a un gruppo di lavoro interdisciplinare, coordinato dall’Istituto Nazionale di Urbanistica, la stesura di Linee guida per la gestione delle aree di collegamento ecologico-funzionale finalizzata a fornire indirizzi e modalità operative per l’adeguamento degli strumenti di pianificazione del territorio in funzione della costruzione di reti ecologiche a scala locale. Le Linee guida sono in corso di pubblicazione, ma il materiale prodotto è già consultabile all’indirizzo in Internet: www. ecoreti.it


Le modalità con cui tali criteri possono tradursi in attività e iniziative, direttamente legate alle differenti destinazioni di zona - ovvero agli ambiti di pianificazione strategica - e agli indirizzi normativi volta a volta suggeriti, costituisce il sistema dei requisiti di qualità articolato nei seguenti regimi, comunque trasversali: • regime di conservazione e tutela seleziona le modalità attraverso le quali si può operare il mantenimento o il restauro/ripristino delle caratteristiche costitutive del sistema ambientale e insediativo; • regime di recupero focalizza le modalità attraverso le quali si può operare la messa a norma delle parti degradate del territorio avendo come obiettivo la compatibilità della trasformazione); • regime di sviluppo e/o di nuovo impianto determina le modalità attraverso le quali si possono prevedere ampliamenti e nuove parti dei sistemi insediativi e relazionali, previa verifica di compatibilità).

5. FASI ED ELABORATI ESSENZIALI Previa raccolta e unificazione delle carte tematiche di base, verranno prodotte elaborazioni analiticodiagnostiche nella scala unificata più opportuna. Uno specifico elaborato sarà finalizzato alla ricomposizione delle conoscenze specialistiche acquisite sul territorio, con riferimento all’evidenziazione dei problemi aperti e dei conflitti. La fase valutativa e propositiva comprenderà i seguenti elaborati: • • •

Valutazione della qualità paesistica e della vulnerabilità del territorio Valutazione delle potenzialità di riqualificazione ecologica e paesaggistica Ambiti di pianificazione strategica: interventi di recupero, politiche di conservazione attiva.


Saranno indicati i principali problemi e delle esigenze consequenziali alla analisi delle soluzioni proposte e dei relativi criteri di scelta. Verranno specificati tutti gli interventi necessari per l'interruzione dei fattori di degrado e l'attenuazione dei pericoli che possono essere rilevati a livello territoriale nei diversi campi, segnalati gli interventi di tutela e valorizzazione delle risorse. Sulla base degli ambiti di pianificazione strategica, verranno dettati gli indirizzi potenziali di intervento correlati alle caratteristiche ambientali, agli usi funzionali e produttivi esistenti ed ipotizzabili. Va da sé che tutte queste attività non devono essere svolte nel chiuso degli uffici tecnici, in modo separato e lontano dagli operatori e dagli opinion leaders, ma questo aspetto – com’è noto – è argomento da sviluppare in proprio e a tutto campo. *Università degli Studi di Firenze della Federazione Associazioni Professionali Ambiente e Paesaggio (FEDAP)

**Presidente

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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio anno1 - numero 0 - luglio–dicembre 2003 Firenze University Press IL PIANO COMUNALE STRATEGICO E I SISTEMI LOCALI DELLE RETI ECOLOGICHE: IL TEMA DEI CORRIDOI Bernardino Romano *

Il recentissimo Parks World Congress organizzato dall’IUCN (Unione Internazionale per la Conservazione della Natura) a Durban (South Africa) nei primi quindici giorni di settembre 2003 ha dedicato ampi spazi alla relazione tra le aree protette e il territorio circostante, toccando diverse problematiche che, nei più ristretti ambienti scientifici, già sono oggetto di approfondite speculazioni da alcuni anni. Senza discutere minimamente il ruolo storico dei parchi e la funzione insostituibile che questi hanno avuto, e continuano ad avere, nel garantire il mantenimento e la presenza di lembi naturali chiave dei diversi paesi del mondo, non si può fare a meno di dubitare che la proliferazione di aree protette, per quanto affascinante se pensata estesa al limite a tutto il territorio disponibile, abbia una scarsa possibilità di affermazione quando viene guardata sotto il profilo realistico. Da un lato, in termini gestionali, l’area protetta è sempre stata una porzione di territorio sottratta alla comune azione antropica, sempre comandata da aspirazioni economiche di consumo e distruzione dell’ambiente, per essere inserita in un quadro di controllo speciale delle trasformazioni, teoricamente contraddistinto da un’etica politico-comportamentale diversa e di superiore qualità. In qualche caso poi ciò è avvenuto davvero, in altri casi no. Nelle circostanze in cui è avvenuto una parte dei mancati apporti economici, difficilmente computabile nonostante i ripetuti tentativi compiuti negli ultimi decenni, che sarebbero derivati da un uso e da un consumo “normale” dell’area, sono stati compensati dall’inserimento di essa in circuiti di interesse culturale, scientifico e turistico che hanno indubbiamente sortito conseguenze anche importanti e, cosa forse non meno importante, hanno imposto l’Italia in campo internazionale come paese di grande dotazione naturalistica. Ad aree protette come il Parco Nazionale d’Abruzzo, nonostante le recenti e dolorose vicende, questi blasoni di merito vanno riconosciuti in pieno, ma in molte altre circostanze ambientali i presupposti già fanno ipotizzare esiti più modesti se ci si sofferma sui connotati generali dei parchi sui quali già molte osservazioni e critiche sono state rivolte. Alcuni di essi contengono estesi spazi urbanizzati, aree industriali, grandi attrezzature infrastrutturali, estensioni agricole intensive, zone turistiche ad alta densità utilizzativa, e solamente alcune parti, di limitata incidenza percentuale, sono distinte dai gradi di qualità naturalistica che la concezione internazionalmente consolidata attribuirebbe allo status di “parco”. E’ “tecnicamente” giusto che le aree protette siano il più ampie possibile? E’ corretto che i confini dei parchi derivino da un confronto di contrattazione con le amministrazioni, più che da un’adeguata lettura scientifica dei valori di soglia? E’ auspicabile che tutte le parti del territorio dotate di un minimo di rilevanza ambientale divengano parchi, mentre le parti restanti assorbano tutte le massicce pressioni di trasformazione e di consumo? E’ credibile, infine, che la sola forma di garanzia per il mantenimento delle qualità ambientali di un certo luogo sia la sua inclusione in un’area protetta? Interrogativi, questi, che già da tempo sollecitano l’interesse e la riflessione degli esponenti dell’ambientalismo scientifico italiano e che stanno trovando qualche risposta nella affermazione dei concetti di reticolarità ambientale intesa come modo di estendere sull’intero


territorio le logiche della conservazione e del restauro ecosistemico ai fini della salvaguardia della biodiversità. Procedere per isole protette è indubbiamente più facile. Il confine del parco diventa una barriera verso l’esterno che, alla scala simbolica e interpretativa, omogeneizza il contenuto sotto il profilo delle qualità ambientali. In un dominio spaziale chiuso è più facile indagare gli aspetti naturalistici e fisici, così come è più facile definire le dinamiche della componente insediativa e demografica, supponendo tecnicamente il più delle volte che tutti i fenomeni siano autocontenuti e impermeabili verso l’esterno, così come è indubbiamente più agevole esercitare azioni di governo e di controllo con un numero limitato di interlocutori e con un’autorità sovracollocata e parzialmente svincolata dalla griglia delle interfacce amministrative locali. In questa breve sintesi emergono alcuni dei principali “difetti” della modalità di conservazione ambientale praticata per mezzo di “unità chiuse di tutela”, ma è ben noto come, forse grazie proprio ai definiti “difetti”, siano stati innegabilmente raggiunti alcuni grandi risultati di sottrazione delle maggiori aree naturali del mondo da incresciosi episodi di alterazione irreversibile. Però ci sono innumerevoli aree nazionali e internazionali di enorme pregio ecologico, ma che non sono comprese in aree protette e che, pertanto, restano esposte ad assalti distruttivi con poche possibilità di difesa. D’altro canto, come già accennato e ben noto, sono altrettanto numerose le zone interne ai parchi pressoché prive di valore ambientale “residente” e per le quali non ha alcun senso parlare di “conservazione”, ma, semmai, esclusivamente di “restauro” ambientale. Un restauro che non deve sembrare facoltativo nei confronti della qualità ambientale complessiva che, secondo la logica tradizionale e utilitaristica, è sufficiente preservare nei parchi, ma che è da considerarsi indispensabile se si vogliono perseguire scenari di integrità territoriale sia per l’Uomo che per le altre specie. In tal senso l’attenzione si sposta verso quella enorme estensione di aree coltivate, ma, soprattutto, di zone non insediate (incolte, degradate, residuali), ma pressoché prive di quei valori naturali “in situ”, visibili e testimoniati mediante i quali la cultura scientifica italiana, sia essa delle Scienze Naturali che delle Scienze del Territorio, è tradizionalmente avvezza a catalogare, in forma un po’ manichea, le risorse naturalistiche e la conseguente istanza intrinseca di conservazione. Si tratta di categorie per le quali va reinventato un metodo di valutazione non legato alle peculiarità residenti, ma al valore relazionale, ovvero alla capacità di funzionare da corridoi di trasferimento delle specie solamente grazie al fatto di non essere oggetto di disturbi antropici eccessivi e di avere ancora una seppur modesta copertura vegetazionale. Secondo la logica corrente non può essere credibile proporre per tali luoghi un regime di gestione da area protetta, parco o riserva che sia, in quanto risulterebbe certamente sovradimensionato negli effetti e altrettanto certamente causa di opposizioni sociali diffuse, almeno nel momento storico attuale, con conseguente inapplicabilità di norme di conservazione. Basti pensare all’ipotesi di trasformare in parchi o riserve tutte le aree censite dal programma Natura 2000 che assommano a 2300 siti per oltre 4.500.000 di ettari in Italia, solamente considerando i Siti di Interesse Comunitario (SIC), ovvero circa il 30% in più dell’attuale estensione complessiva di parchi nazionali e altri tipi di parchi e riserve presenti nel paese. L’unico modo di conservare l’ambiente è quello di istituire parchi e riserve? Forse no. Forse ci possono essere strumenti diversi di governo di talune risorse come la matrice seminaturale, o anche agricola, del territorio, con l’insieme dei filtri ecotonali e degli ecomosaici che risultano fondamentali per il mantenimento della biodiversità e che possono, alla fine, anche per garantire l’efficienza delle stesse aree protette facendo di esse non più scrigni, ma diffusori di qualità ecologica. Se le aree protette, almeno quelle nazionali, devono essere prevalentemente il regno di una “non trasformazione”, all’esterno dei parchi, e dentro gli stessi tessuti urbani, un accurato e mirato progetto di pianificazione finalizzata al recupero ambientale e agli assetti bio-compatibili può fornire contributi essenziali alla geografia ecosistemica.


LA CONTINUITÀ AMBIENTALE La definizione di “continuità ambientale” presuppone la ricerca e lo studio di criteri per individuare prima, e gestire poi, lo strato naturale e semi-naturale del territorio che inviluppa ed avvolge gli oggetti funzionali dell’insediamento umano, quali aree urbanizzate, strade e spazi produttivi. Si tratta del “contenitore” originario che, seppur variamente trasformato dalle iniziative umane nel corso dei secoli, ancor oggi costituisce l’interfaccia per le trasformazioni indotte dalla componente antropica, e costituisce inoltre la parte territoriale che soccombe gradualmente alla continua richiesta di espansione degli spazi vitali dell’Uomo. La metodologia della “continuità ambientale” è stata elaborata attraverso diverse fasi di sperimentazione, ritenendo questo aspetto territoriale, dipendente prevalentemente dalla geografia delle componenti urbanistico-insediative e dalle modalità di uso del suolo, un riferimento basale per le considerazioni attinenti invece la sfera della reticolarità ecologica, dipendente a sua volta essenzialmente dalle componenti di carattere biologico-naturalistico. Il rilevamento, la caratterizzazione e la definizione della geografia della continuità ambientale si pongono ad un livello precedente rispetto a quello del più accurato, ma anche estremamente più complesso, dello studio degli assetti ecosistemici. Si ritiene che la presenza di una maglia diffusa di spazi naturali e seminaturali, all’interno della quale si articola, si snoda, e a tratti si concentra, il tessuto urbanizzato, rappresenti comunque un elemento di elevata qualità territoriale per le numerose funzioni che essa può assolvere a tutte le scale di considerazione: - miglioramento delle condizioni di qualità dell’aria attraverso la distribuzione delle aree con vegetazione; - riduzione delle polveri; - assorbimento dei disturbi sonori; - offerta variegata di spazi ricreativi ed educativi con discreta qualità naturalistica; - possibilità di mantenimento ed espansione delle specie vegetali che vengono soppresse nelle aree agricole ed urbane; - possibilità di integrazione con i percorsi di collegamento urbano con modalità alternative senza commistione nel traffico (pedonale, bicicletta, mezzi elettrici, natanti,...); - possibilità di mantenimento e movimento delle specie faunistiche presenti sul territorio; - formazione del supporto territoriale per eventuali azioni future di ripristino e riqualificazione ecosistemica; - riduzione della insularità ecologica delle aree protette; - controllo dei fenomeni esasperati di sprawl insediativo, favorendo l’applicazione di tecniche di progettazione urbana che ottimizzino e contengano lo spazio della città; - diffusione delle modalità di gestione della conservazione naturale a paesaggistica su tutto il territorio, anche quello non interessato da provvedimenti localizzati di tutela ambientale. La funzione ecosistemica effettiva degli spazi considerati, e quindi l’individuazione degli areali delle specie, dei corridoi specifici e di tutti gli altri oggetti correlati alle dinamiche biocenotiche, viene pertanto vista come una precisazione ulteriore che ha la possibilità di intervenire nel quadro delle conoscenze in tempi tanto più lunghi quanto più è elevato il dettaglio e il numero delle specie considerate. Inoltre è ragionevole pensare che le informazioni ecosistemiche particolareggiate siano di più facile e veloce acquisizione per aree ristrette (relative quindi agli stadi della pianificazione locale), mentre le difficoltà aumentano considerevolmente nel caso delle estensioni regionali e nazionali per le quali appare estremamente complesso oggi pensare ad un corredo di dati che non debbano avvalersi di implementazioni probabilistiche e statisticamente stimate.


La metodologia della continuità ambientale è stata elaborata essenzialmente con questo obiettivo, cioè per fornire uno strumento di lettura con riferimento ecosistemico alla pianificazione di area vasta, e costituire un primo strato di interpretazione ecologicorelazionale per i prodotti di pianificazione comunale e intercomunale. Con tali presupposti si formula la congettura che il maggior numero di spazi strategicamente rilevanti per la qualità ecosistemica (core areas, buffer zones, stepping stones, corridors) siano contenuti all’interno della matrice di continuità. La struttura della continuità presenta comunque tutta l’altra serie di connotati qualitativi precedentemente elencati che la rendono importante per il territorio e, conseguentemente, in grado di controllare l’azione ambientale del piano in via preliminare soprattutto in merito alle grandi dislocazioni insediative, alle principali vie di comunicazione, alle più rilevanti cause di impatto ambientale, alle normative di salvaguardia generale, ai criteri di impianto metodologico della pianificazione dei parchi, obbligando gli operatori a guardare ben al di là dei confini dell’area protetta. Quando l’analisi ecologica perviene alla localizzazione, mediante tecniche adeguate, degli elementi reali della struttura eco-funzionale e relazionale, si completa la base conoscitiva della pianificazione e si possono introdurre sul piano gli strumenti del controllo dettagliato che riguardano ad esempio le tipologie edilizie, i progetti di deframmentazione localizzata, gli impianti di verde pubblico e privato, le attenzioni di impermeabilizzazione del suolo, i regimi idrici, le normative di mitigazione circoscritta delle barriere. Una fase fondamentale della interpretazione delle condizioni di continuità ambientale è poi affidata ad alcuni indicatori in grado di descrivere il ruolo corrente dell’insediamento nel determinare i fenomeni di frammentazione. Sono stati elaborati diversi indici che si collegano a forme diverse della frammentazione stessa, ridefinita quale “attuale” (quella che è presente e condiziona gli assetti ecosistemici oggi rilevabili), “potenziale” (quella ad alta probabilità di attuazione, conseguente alla messa in pratica delle previsioni insediative degli strumenti urbanistici vigenti) e quella “tendenziale” (dipendente dall’”etologia” delle comunità antropiche presenti in un certo luogo e quindi dalle loro morfologie sociali, dagli stili di vita, dai modelli comportamentali standard di sviluppo economico).

Figura 1 L’indice di frammentazione da insediamento (SFI – Settlement Fragmentation Index) elaborato da Bernardino Romano nel 2003 sulla Regione Umbria nel progetto RERU (Rete Ecologica dell’Umbria).


A parità di condizioni economiche e di modelli sociali la diffusione tendenziale dell’urbanizzazione è condizionata da parametri quali la distanza delle aree prese in esame dalle polarità urbane e dalle principali infrastrutture di trasporto, dall’acclività e dall’esposizione dei terreni, dalle risorse ambientali presenti, nonché, in misura certamente più limitata, dalla destinazione produttiva degli stessi. La pianificazione, pur introducendo meccanismi di controllo cogente alle evoluzioni libere dei fenomeni insediativi, non riesce, almeno in generale, ad impedire che le spinte generate dai modelli di comportamento collettivo e dalle dinamiche economiche possano esplicarsi nella loro configurazione tendenziale, anche se su tempi più o meno lunghi in ragione delle forze di pressione e di opposizione che giocano un ruolo nel campo dei vari fenomeni. In una logica di aggancio e di interfaccia delle convenienze, alcuni recenti programmi di ricerca che coinvolgono settori delle Scienze del Territorio e delle Scienze Naturali, stanno consolidando alcuni concetti che potrebbero fornire utili contributi al raggiungimento dei risultati appena descritti. CONCETTO DI “IMPALCATURA ECORELAZIONALE” DEL TERRITORIO INSEDIATO Si basa sulla congettura della continuità ambientale ed è uno “scheletro portante” delle funzioni ecosistemiche in senso lato del territorio che comprende l’insieme degli spazi naturali, seminaturali e residuali, ovvero tutti quei siti che già posseggono una valenza ambientale riconosciuta o che, oggi degradati o abbandonati o dimessi, potrebbero comunque acquisirla in prospettiva tramite interventi mirati o semplicemente se lasciati ad un’evoluzione indisturbata. Alcune proprietà di tale impalcatura sono le seguenti: - e’ un sistema “multimaterico”, fatto di terra e di acqua che assumono molteplici fisionomie e caratteri; - integra il concetto di “impalcatura infrastrutturale” quale riferimento per le azioni di modificazione del territorio, affiancandosi ad essa come layer portante delle scelte; - assolve funzioni di mitigazione degli effetti urbani deteriori (rumore, inquinamento, alterazioni paesaggistiche, …); - smorza le rigorose geometrie urbane; - può ospitare percorsi urbani alternativi (pedonali, ciclabili, handicap,..); - fa da supporto alle reti ecologiche delle specie più importanti (che sono di essa un sottosistema) e può favorire un incremento di biodiversità; - crea vantaggi per tutte le biocenosi presenti sul territorio; - detiene funzione di controllo per una larga varietà di rischi ambientali; - ridistribuisce sul territorio le penalità economiche dei vincoli, così come lo sprawl urbano distribuisce i vantaggi delle rendite immobiliari; - è attuabile in una vasta gamma di realtà territoriali: avrà connotati di “matrice” nei territori con più alti livelli di naturalità diffusa, mentre assumerà più fisionomia di “greenway” (griglia) nei contesti più densamente insediati; - pone in connessione ambienti e paesaggi di maggiore caratura adiacenti seppur con un minor livello di pregio naturale; - è identificabile in tutte le realtà territoriali e insediative: varia la qualità, le dimensioni e il livello funzionale; - è ottenibile con impegni tecnico-economici fortemente variabili; - potrebbe consentire maggiori carichi utilizzativi urbanistici degli spazi interstiziali non strategici in senso ecosistemico-strutturale.


Figura 2 La struttura delle relazioni ambientali a livello di paesaggio e le implicazioni sociali e di pianificazione elaborata dal progetto Planeco nel 2002.

L’allestimento e la definizione della impalcatura eco-relazionale presuppone però la sperimentazione sia di criteri e di metodi scientifici per l’identificazione e la caratterizzazione delle prerogative e delle qualità, sia d’altra parte un’analoga sperimentazione nelle procedure di istituzione e di management. Ciò rappresenta oggi ancora un problema decisivo che pone una sfida al mondo della ricerca territoriale, naturalistica e giurisprudenziale.


CONCETTO DI REVERSIBILITÀ AMBIENTALE PER L’INCREMENTO DI SOSTENIBILITÀ DEGLI INTERVENTI DI TRASFORMAZIONE E DI “FLESSIBILITÀ” NELLA PIANIFICAZIONE La reversibilità ambientale del territorio esprime l’esigenza di “energia” politica, tecnologica e finanziaria, necessaria a riportare una determinata porzione di suolo nelle condizioni di naturalità “di base”. Tali condizioni sono in sostanza quelle che il suolo interessato assumerebbe spontaneamente se lasciato in evoluzione libera per un arco indefinito di tempo e in ogni caso coerenti con lo standard biologico, geomorfologico e fitoclimatico della ecoregione in cui si situa geograficamente. Le soluzioni di recupero e di ripristino della qualità ambientale perduta vengono allora attuate con modalità diverse: un intervento progettuale di dettaglio tende a risolvere i livelli di degrado molto avanzati e circoscritti, mentre esistono spazi di azione per la pianificazione tutte le volte che è ancora possibile contemperare forme di utilizzazione con esigenze di conservazione ed uso sostenibile. Ma il ruolo del piano sembra oggi importante soprattutto per l’allestimento di quelle condizioni di attenzione che possono rivelarsi nel tempo fondamentali per poter in primo luogo adeguare le scelte di governo del territorio a nuove circostanze imprevedibili. In secondo luogo sembra importante lasciare spazi di flessibilità più o meno ampi a pratiche gestionali che possono subire nel tempo “ammodernamenti” nella concezione, evitando di provocare situazioni troppo incisive in senso tecnico, almeno quando urgenze e rischi sociali non lo richiedano. L’inserimento sistematico di una chiave di reversibilità nel piano territoriale potrebbe assolvere anche funzioni importanti nei termini di una maggiore flessibilità di questo attributo su cui il dibattito disciplinare si sta consumando da quasi trent’anni. Il carattere di reversibilità può assumere forme molto diverse e, proprio per questo, essere utilizzato in un’assortita gamma di casi: - totale: l’intervento di modificazione, quando invertito o consumato, permette un recupero completo delle condizioni di partenza; - parziale: la rimozione o la consunzione degli oggetti dell’intervento lasciano una traccia non eliminabile, realizzando solo parzialmente il recupero delle condizioni pregresse; - spazio-funzionale: le funzioni svolte su un certo spazio non ne compromettono struttura e fisionomia e quindi possono essere cessate restituendo lo spazio stesso alle condizioni precedenti; - progettuale: le trasformazioni introdotte vengono progettate in modo da poter essere rimosse o riconvertite ad altri usi, totalmente o parzialmente; - da decostruzione: gli interventi effettuati possono essere fisicamente rimossi del tutto o in parte; - da storicizzabilità: gli oggetti installati sul territorio, grazie alle tecniche ed ai materiali impiegati, sono suscettibili di assumere, in tempi lunghi, valenza storicotestimoniale; - da consunzione: tecniche e materiali utilizzati per la realizzazione degli interventi comportano la totale o parziale sparizione di questi in tempi lunghi per disfacimento causato da agenti esterni; - da riconversione: le installazioni inserite sul territorio con certe funzioni d’uso possono essere adibite nel tempo a funzioni differenti con ampio spettro di flessibilità.


Figura 3 La carta nazionale della Reversibilità ambientale allestita su base comunale nell’ambito del progetto RePlan dell’Università degli Studi dell’Aquila nel 2003.

CONCLUSIONI Gli argomenti trattati nel presente contributo si inquadrano nel palinsesto elaborativo che caratterizza le ricerche sulla frammentazione ambientale sia alla scala territoriale, sia alla scala urbana. L’uso di indicatori permette di costruire una base cognitiva per gli strumenti di pianificazione che possa utilizzare efficacemente tecniche sofisticate di simulazione degli effetti conseguenti alle scelte di trasformazione del territorio.


Le attuali tecnologie di allestimento e di gestione dei Sistemi Informativi Geografici (SIT), consentono in effetti un ampio e complesso approccio tramite scenari le cui fisionomie devono essere supportate opportunamente da descrittori analitici in grado di restituire informazioni sulla evoluzione dei fenomeni per poter intervenire, con metodi di controllo adattativi, nel momento in cui le linee dinamiche si discostano dai riferimenti fissati in sede di programmazione. Se è vero, come è vero, che la frammentazione ambientale e l’insularizzazione degli ecosistemi costituisce un momento centrale per il conseguimento degli standards di “sostenibilità” nelle procedure di governo del territorio, è allora indispensabile che, così come accade per forme di impatto più consolidate nella cultura amministrativa e sociale (inquinamenti, degrado fisico e paesaggistico del suolo, etc..), le tematiche della disgregazione ecosistemica assumano un carattere “misurabile”, entrando nel novero degli indicatori di qualità urbana e territoriale che gli indirizzi europei alle comunità nazionali, tra i quali spicca l’Agenda XXI, attualmente considerano irrinunciabili e decisivi per denunciare l’efficienza della gestione e le correzioni apportate al management ambientale. L’uso degli indicatori ambientali attiene le fasi di ricognizione e di ricostruzione delle fisionomie ecosistemiche attuali del territorio (prima delle azioni previste di pianificazione), nell’allestimento degli scenari previsionali alternativi e, infine, nel monitoraggio e nel controllo degli esiti progressivi conseguenti all’attuazione delle trasformazioni introdotte nel piano. Il ruolo di descrittori nelle tre circostanze elencate (reali la prima e la terza, virtuale la seconda) comporta per gli indicatori la fissazione di criteri univoci di individuazione e di rilevamento, criteri che dovranno, ovviamente, perdurare inalterati per tutto l’arco di tempo nel quale si estende il processo di progetto e di controllo adattativo dello strumento di pianificazione. Gli indicatori andranno sistematicamente rilevati alla scala di operatività degli strumenti urbanistici considerati (il livello significativo è quello comunale) attraverso procedure standardizzate (luoghi, tempi, metodologie di raccolta dei dati, etc.). Un obiettivo della ricerca corrente è quello di ricavare, dalla elaborazione e dal campionamento degli indicatori, dei parametri urbanistici da far confluire nell’equipaggiamento dotazionale normativo del piano, per il controllo degli sviluppi insediativi in termini di geografie e tipologie in forma compatibile con la salvaguardia delle maglie ecosistemiche strategiche del territorio. Un procedimento significativo che attualmente va affermandosi in merito all’attenzione per le reti ecologiche nella pianificazione territoriale è comunque quello cautelativo, tendente ad introdurre negli impianti normativi degli strumenti, anche in carenza di dati ecologici dettagliati, una serie di precauzioni atte ad evitare fenomeni di frammentazione irreversibile. Si riportano in chiusura alcuni di tali comportamenti pregiudiziali di piano ponendoli in relazione di volta in volta con il livello di competenza: Piani di coordinamento e piani strutturali Mantenimento di una parte di aree interstiziali abbandonate ed incolte in adiacenza e continuità con il verde pubblico, lasciate alla naturale rievoluzione vegetazionale, soprattutto quando limitrofe a corsi e bacini d’acqua. Piani di coordinamento, piani dei parchi Studio di strumenti collaborativi di pianificazione delle aree protette per estendere forme mirate di tutela sulle aree interstiziali. Piani di coordinamento, piani di settore Introduzione di procedure di riconversione produttiva e di conduzione agricola negli spazi ecosistemicamente rilevanti. Piani di coordinamento, piani dei parchi, piani di settore, piani strutturali Introduzione di procedure di acquisizione e di riassetto ecologico negli spazi ecosistemicamente strategici. Attivazione di procedure di copianificazione sulla base della carta ecosistemica.


Piani strutturali Allestimento di strumenti di compensazione della rendita edilizia che evitino il fenomeno dello sprawl. Piani operativi e regolamenti edilizi Studio di orientamenti progettuali nelle tipologie urbanistiche e edilizie, nel verde urbano pubblico e privato, che limitino l’effetto di frammentazione causato dagli spazi residenziali e produttivi.

* Università degli Studi dell’Aquila RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Informazioni e documenti sulle ricerche in tema di nuova nomenclatura delle aree protette, di continuità e di reversibilità ambientale possono trovarsi nella bibliografia indicata e consultando il sito web http://www.planeco.org. BIONDI MAURIZIO, CORRIDORE GIOVANNA, ROMANO BERNARDINO, TAMBURINI GIULIO, TETÈ PIERANTONIO, Evaluation and planning control of the ecosystem fragmentation due to urban development, Ersa 2003 Congress, Agosto 2003, Jyvaskyla, Finland 2003. FILPA ANDREA, ROMANO BERNARDINO (Eds.), Pianificazione e reti ecologiche, Planeco, p. 300, Gangemi, Roma 2003. GAMBINO ROBERTO, ROMANO BERNARDINO, Territorial strategies and environmental continuity in mountain systems, the case of the Apennines, IUCN, World Heritage Mountain Protected Area Field Workshop, 5th World Parks Congress, Durban, South Africa 2003.Ministero Ambiente, Servizio Conservazione Natura, AP, Aree Protette, Carsa, Roma 2002. ROMANO BERNARDINO, Continuità ambientale, pianificare per il riassetto ecologico del territorio, p. 240 (monografia), Andromeda, Teramo 2000.Romano Bernardino, “Evaluation of urban fragmentation in the ecosystems”, Proceedings of International Conference on Mountain Environment and Development (ICMED), ottobre 2002, Chengdu, China 2002. ROMANO BERNARDINO, CORRIDORE GIOVANNA, TAMBURINI GIULIO, “La reversibilità ambientale del territorio, un parametro per l’individuazione della credenziale ambientale dei distretti territoriali”, AISRE, Atti XXIV Conferenza Italiana di Scienze Regionali, Perugia 811 ottobre 2003. ROMANO BERNARDINO, TAMBURINI GIULIO, “Evoluzione urbana e assetto ecosistemico: dalle invarianti alla reversibilità”, AISRE, Atti XXII Conferenza Italiana di Scienze Regionali, Reggio Calabria 11-14 ottobre 2002. RIFERIMENTI ICONOGRAFICI Figure 1, 2, 3: per gentile concessione dell’autore.


Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio anno1 - numero 0 - luglio/dicembre 2003 Firenze University Press

RIFLESSIONI CON LUIGI ZANGHERI SUL GIARDINO STORICO Emanuela Morelli *

Luigi Zangheri, architetto, è docente di ‘Storia del giardino e del paesaggio’ presso la Facoltà di Architettura di Firenze ed è vicepresidente del ‘Comité international des jardins et sites historiques ICOMOS-IFLA’, oltre all’essere segretario generale dell’Accademia delle Arti del Disegno. Molte sono le sue pubblicazioni scientifiche riguardanti la storia del giardino. Tra queste si citano: Pratolino, il giardino delle meraviglie, Gonnelli, Firenze 1979; Le ville della Provincia di Firenze, La città, Rusconi, Milano 1989, e La legislazione medicea sull’ambiente (con G. Cascio Pratilli), Leo S. Olschki, Firenze 1994-96. In particolare nel suo ultimo volume Storia del giardino e del paesaggio. Il verde nella cultura occidentale, Leo S. Olschki, Firenze 2003, frutto dell’attività didattica svolta presso la Facoltà, si ripercorre la storia del giardino attraverso un’attenta e solida metodologia storica.

Figura 1 Il giardino della Villa di Castello.

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L’art.1 della ‘Carta di Firenze’ (redatta nel 1981 e registrata dall’ICOMOS nel 1982 a completamento della ‘Carta di Venezia’) definisce il giardino come “una composizione architettonica e vegetale che dal punto di vista storico e artistico presenta un interesse pubblico. Come tale è considerato monumento.” La storia del giardino inevitabilmente corre parallelamente alla storia del paesaggio. Secondo lei quali sono i punti di contatto salienti tra questi due termini e quanto l’uno ha influenzato l’altro? In questo periodo sto conducendo una ricerca sul restauro dei giardini tra la fine del 1800 e i primi del 1900 che mi ha consentito di approfondire l’argomento che mi propone. Presso la Biblioteca Marucelliana di Firenze ho ritrovato, non senza qualche difficoltà, Il giardino italiano scritto da Maria Pasolini Ponti nel 1915. È un volumetto di circa trenta pagine in cui vengono trascurati gli aspetti storici e le metodiche del restauro, ma che presenta i caratteri speciali del giardino italiano. Cosa si intende per caratteri speciali? Essi sono quei parametri che evidenziano come il giardino sia correlato con l’abitazione, e sottolineano come l’insieme abitazione e giardino deve essere studiato in relazione all’ambiente. Questa tesi viene poi ricondotta alla storia del giardino italiano. Nel 1931, a circa sedici anni di distanza dalla stesura di questo volumetto, un’altra giovane signora, Maria Teresa Parpagliolo, si interessa al medesimo tema e si riallaccia al pensiero della Maria Pasolini Ponti. Maria Teresa Parpagliolo, responsabile della rubrica sul verde e sul giardino della rivista Domus, è una importante figura della storia del giardino italiano perché con Pietro Porcinai e altri pochi ne sarà l’anima critica. La Parpagliolo ebbe il suo maggior incarico nel 1939, quando fu invitata a progettare l’intero sistema degli spazi aperti dell’EUR. Il progetto non fu realizzato a causa della guerra, ma rimane ancora oggi un documento interessante da studiare: per quanto sembri un collage di giardini italiani (si trovano riferimenti espliciti ad esempio ai giardini di Tivoli, di Bagnaia e di Boboli) è interessante difatti vedere come, a grande scala, l’insieme funziona. In Domus del 1931 scrive un articolo sui principi ordinatori del giardino italiano ricollegandosi al testo del 1915 della Pasolini Ponti e mette in risalto come giardino e paesaggio fossero parte dello stesso quadro. I principi a cui l’autrice fa riferimento sono di ordine estetico–architettonico, in quanto armonizzano le linee della casa con quelle dell’ambiente naturale, e di ordine pratico, in quanto impongono di considerare le condizioni particolari in rapporto ai desideri del proprietario e quindi la vista, l’orientamento, il clima, la direzione dei venti. Da ciò veniva “una equilibrata e logica disposizione degli spazi in virtù della quale le terrazze e i giardini presso la casa lasciavano questa nel centro libera dalla luce e dall’aria, e i viali di lecci e di lauri, tagliati regolarmente in proporzione della larghezza dei viali stessi, portavano a gradi a gradi dalle linee severe dell’edificio alla linea della libera campagna così che ogni passo lo intonava dalla massa costruttiva per avvicinarsi alla natura”. Ebbene questi sono per me ancora dei concetti abbastanza importanti che evidenziano lo stretto legame del giardino con il paesaggio, ma, per comprenderli appieno, si deve cosiderare il contesto in cui Maria Teresa Parpagliolo opera e fare riferimento ad altre esperienze. Tra la fine del 1800 e i primi del Novecento sorgono in Italia nuove forme di associazioni, quali il Touring Club Italiano, il Club Alpino Italiano, il Comitato nazionale per la difesa dei monumenti italici, che avranno un’importanza fondamentale per lo sviluppo di una coscienza naturalistica ed artistica. Al Touring Club Italiano, grazie alla possibilità di partecipare a gite ed escursioni, si iscrivono nel corso di pochi anni circa mezzo milione di persone. Queste iniziative riescono quindi a suscitare una certa sensibilità e desiderio di conoscenza verso il paesaggio, l’ambiente e la natura, e a promuovere una serie di studi e di interessi particolarissimi su temi quali le indagini sulla flora delle Alpi. Tra gli avvenimenti del periodo si ricorda inoltre la fondazione, tra il 1907 e il 1909, del ‘Museo del paesaggio’ a Verbania, sul lago Maggiore, in cui venivano mostrati e catalogati i vari tipi di paesaggio, fotografie e quadri di pittori anche illustri riguardanti lo stesso tema.

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Figura 2 Il giardino della Villa Petraia. Sullo sfondo la periferia di Firenze.

Questi nuovi interessi e sollecitazioni raggiungeranno anche la politica che emanerà tutta una serie di leggi, ad esempio la numero 185 del 1902 per la conservazione dei monumenti e degli oggetti di antichità e di arte, oppure la 362 del 1912, dove si parla di protezione di monumenti, ville e parchi. Nasce quindi in questi anni una attenzione particolare verso il paesaggio e verso i singoli elementi che lo compongono. Attenzione che però nel primo dopoguerra va a sparire. È difatti nel ventennio fascista, con l’urbanistica che diviene più speculazione che pianificazione, che il paesaggio viene ad essere trascurato. Ecco, vedere come il giardino sia correlato con l’abitazione e con lo stesso paesaggio è un concetto estremamente moderno che avevamo dimenticato. Per questo c’è molto ancora da indagare, da studiare e da approfondire, per comprendere bene ciò che è successo. Lei non solo insegna ‘Storia del giardino e del paesaggio’ ma si è sempre adoperato per la conoscenza e la diffusione della cultura del giardino. Quanto è importante conoscere e studiare la storia del giardino per poter ben operare nel presente? Importante è effettuare una corretta lettura sia del giardino stesso che di questo in relazione al paesaggio. Io sono perfettamente convinto che Maria Pasolini Ponti avesse ragione: se oggi andiamo alla Villa della Petraia o alla Villa di Castello l’ambiente di questi giardini è completamente diverso, perché diverso è il suo contesto. Il paesaggio di queste due ville difatti è stato terribilmente rovinato: dopo la grande guerra il re regalò le corrispettive fattorie ai grandi invalidi, ai mutilati e ai reduci della guerra. Loro lottizzarono il terreno per ricavare denaro con una logica che non teneva assolutamente conto dei caratteri storici di quell’ambiente. Ciò di cui quindi oggi si deve tenere conto, sia quando si realizza un giardino sia quando si opera una trasformazione di un paesaggio, è questo delicato equilibrio tra gli spazi e i volumi che legano gli edifici, i giardini, l’aperta campagna e la natura. Un giardino, piccolo o grande che sia, non può essere uguale a New York o a Tokio. Anche alla distanza di 100 metri, esso deve essere diverso, speciale. Esemplare è la progettazione che Pietro Porcinai realizzò,

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attorno agli anni Sessanta, per la sistemazione a verde dell’autostrada del Brennero. Egli percorse a piedi l’intero tratto stradale per potere dare quelle disposizioni particolari in cui ogni sosta, ogni scarpata che doveva essere rinverdita, avessero in qualche modo una propria soluzione diversa dalle altre, evidenziando la specificità di ogni luogo. Non stilò quindi un capitolato che indicava delle soluzioni tipo: esse potevano essere da un certo punto di vista comode, ma non avrebbero avuta una corretta coerenza con il paesaggio. Porcinai era della stessa scuola della Parpagliolo, essi scrissero spesso affiancati in Domus, su Giardino Fiorito e su Casabella. Si evidenzia quindi l’importanza degli studi sulla storia del giardino e del paesaggio. Quale è la situazione in Italia, in relazione sia alle pubblicazioni che alle ricerche svolte in campo scientifico? Potrebbe indicare quali approfondimenti dovrebbero avere priorità? La storia del giardino non è mai stata studiata fino alla metà del secolo scorso. In Italia il primo libro è di Francesco Fariello, (Architettura dei giardini, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1967) al quale seguono i testi di Alessandro Tagliolini (Storia del giardino italiano, La Casa Uscher, Firenze, 1968) e di Mariella Zoppi (Storia del giardino europeo, Laterza, Bari, 1995), che hanno colmato una lacuna che è stata davvero scandalosa. Negli altri paesi europei invece numerosi manuali e manoscritti sul giardino e sul paesaggio, prevalentemente inglesi, erano disponibili già dalla metà dell’Ottocento. Tra questi si ricordano i testi di Arthur Mangin (1867), Jacob von Falkes (1884), August Grisebach (1910), Marcel Fouquier (1911), Henry Inigo Triggs (1913) e Marie Luisa Gothein (1914). Negli ultimi anni il numero delle pubblicazioni riguardanti il tema dei giardini è notevolmente aumentato, in gran parte però si tratta di libri fotografici, comunque utili ma non sufficienti a comprendere e a conoscere.

Figura 3 P. Le Pautre. Planimetria generale di Versailles.

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Recentemente sono stato in Marocco e sono entrato in una libreria. Quasi tutti i testi sui giardini erano rassegne di immagini a cui raramente si affiancavano scritti. Solo uno era dotato di planimetrie. Ecco, poter osservare la pianta, soprattutto per noi architetti, è molto importante per capire la composizione e la struttura del giardino. Molti sono quindi gli argomenti che dovrebbero essere approfonditi in campo scientifico, dai parchi agrari a quelli venatori, ai diversi approcci con cui, nel corso della storia, il paesaggio è stato trasformato. La mancanza di testi che lei sottolinea, in particolare in relazione agli altri paesi europei, ha portato evidentemente a concepire agli inizi del secolo scorso il restauro in modo diverso da ciò che intendiamo oggi e soprattutto a eseguire realizzazioni particolari. Per restauro noi oggi intendiamo conservazione, ma è interessante studiare come questo concetto si sia evoluto nel corso del tempo. Come ho già detto, in questo periodo sto lavorando su un tema a me nuovo che riguarda il modo di operare il restauro tra il il 1800 ed il 1900, in particolare in epoca fascista, periodo in cui era difficile parlare di restauro come appunto si intende oggi. Possiamo ricordare che già dalla seconda metà dell’Ottocento, in campo architettonico, ci sono stati importantissimi interventi di restauro quali il completamento della facciata del duomo di Milano, di San Petronio a Bologna e di S. Maria del Fiore a Firenze. Il dibattito su questi interventi era molto acceso: si parlava di completamento stilistico, ricostruzione integrata, rigorosità filologica, eccetera. Se andiamo a vedere come questi concetti erano applicati al giardino abbiamo il vuoto, perché nella cultura italiana esso non era considerato monumento. Possiamo ricordare la ‘Mostra sul giardino italiano’, che si svolse a Firenze nel 1931, con la quale si voleva “radicare nel pubblico la persuasione che nella architettura del giardino l’Italia ha un primato indiscutibile di tempo, di quantità e di qualità”. Una affermazione retorica se riscontriamo come le operazioni ed i restauri importanti, gli interventi fatti nei giardini italiani in quel periodo, vengano condotti generalmente da stranieri.

Figura 4 Ars topiaria nel giardino di Villa Gamberaia.

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Figura 5 Villa Gamberaia vista dall’esedra di cipressi.

Alcuni esempi li abbiamo con la Villa medicea di Careggi, acquistata nel 1848 da Francis Sloane, e che praticamente realizza un giardino all’inglese, e la Villa Rufolo di Ravello, comprata da un inglese che coniuga la mediterraneità con la sua cultura anglosassone e fa un’ambientazione che è magnifica grazie anche agli scorci del mare sottostante. Tra le innovazioni di questi interventi è da segnalare l’immissione di piante esotiche come le palme e le sequoie. Un terzo esempio interessante è Villa Sciarra a Roma, dove i proprietari sono degli americani che acquistano presso alcuni antiquari decine di gruppi scultorei provenienti dalla vendita di Villa Visconti di Bergamo. Quest’ultima era una villa degli inizi del Settecento, dove era stato adottato il tema iconologico dell’Arcadia in una restituzione barocca. A Villa Sciarra gli stessi gruppi scultorei vengono ambientati nel parco insieme ad una serie di elementi in ars topiaria con caratteristiche che li privano della loro connotazione primitiva. Non a caso, grazie all’Inghilterra che dalla metà dell’Ottocento aveva recuperato i tipi del giardino formale e costruito, era tornato a diffondersi in tutta Europa l’utilizzo della topiaria come sinonimo di giardino italiano. Il caso più eclatante di restauro di un giardino resta comunque quello voluto dalla principessa romena Catherine Jeanne Ghika che trasforma il giardino di Villa Gamberaia a Settignano. Quando lei l’aveva acquistato nel 1896 era formato da una composizione quadripartita con aiuole rettangolari, la fontanina nel mezzo e in fondo una vasca ovale (che in realtà era una conigliera dove le rocce ospitavano le abitazioni degli animali). La principessa trasforma le quattro aiuole in quattro vasche d’acqua, taglia a mezzo la conigliera e costruisce l’esedra. L’intervento della principessa Ghika viene considerato un restauro, ma in realtà si tratta della costruzione di un nuovo giardino che nell’arco di pochi anni viene sempre più apprezzato: Harold Acton lo descrive come il più bel piccolo giardino toscano, e ancora nel 1967 Julia Berall lo definisce come una gemma che conserva intatto il suo carattere rinascimentale. In

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molti scritti questa composizione viene considerata il più bel giardino rinascimentale d’Italia quando in realtà si tratta di una creazione dei primi del Novecento. In Europa il dibattitto su come condurre un restauro di un giardino storico è ancora molto acceso e diverso in ogni paese. Quali sono le attuali tendenze del restauro a livello europeo? Penso a grandi interventi recenti condotti in Italia e quelli condotti all’estero come i Privy Garden a Hampton Court o al famoso restauro di Het Loo che ha suscitato tanta polemica. Al tempo stesso però, grazie all’attività dell’ICOMOS-IFLA, si ritrovano studi e pubblicazioni come quelli di Carmen Añón Feliú, Culture and Nature. International legislative texts refering to the safaguard of natural and cultural heritage (2002) in cui si avverte l’esigenza, attraverso il confronto degli strumenti legislativi, di trovare una filosofia di base che ci accomuna. La figura del restauratore dei giardini storici negli ultimi anni si è sempre più affermata, lo sottolineano l’attivazioni di corsi universitari di ‘restauro dei giardini’ a fianco dei corsi di ‘storia del giardino e del paesaggio’, oltre a corsi di formazione professionale per architetti restauratori di parchi e giardini storici. La loro formazione necessita di numerose conoscenze che vanno dalla storia del giardino, alla botanica, all’idraulica, alla biologia e alla fisiologia delle piante, e all’archeologia. Quest’ultima in particolare si sta sempre più affermando come strumento significativo per una conoscenza più completa dei giardini storici da restaurare. Importante è quindi conoscere con attenzione il percorso storico del giardino attraverso i secoli, la sua composizione e come ogni luogo abbia reagito alle influenze derivanti dalle esperienze di altre epoche e paesi. Una parte importante della storia del giardino europeo è influenzata dalle realizzazioni avvenute in epoca medicea. Perché tali opere ebbero questo successo e diffusione in tutta Europa? L’influenza dei giardini medicei verso gli altri paesi è legata essenzialmente a molte circostanze e alle donne. Indubbiamente tra queste Caterina dei Medici, ma anche Maria de’ Medici e Eleonora di Toledo. Ancora da approfondire è la relazione tra la moglie di Cosimo I e il Giardino di Boboli. Suo padre era Vicerè di Napoli e proprio in questa città si trovava il più grande giardino europeo dell’epoca: la reggia napoletana difatti era dotata di congegni e scherzi d’acqua, agrumi, fontane, grotte, eccetera. Eleonora di Toledo si sposa a Firenze con il giovane Cosimo I ma, ammalata di tubercolosi, avverte sempre più la necessità di avere a disposizione un luogo aperto in cui sia possibile passeggiare. Avviene così l’acquisto di Palazzo Pitti dove, grazie all’incontro di artisti quali il Tribolo, il Vasari e l’Ammannati, viene realizzato il giardino di Boboli. In questo, il giardino della grotticina detta “di Madama” evoca il giardino di Napoli. Contemporaneamente, gli stessi artisti che realizzano Boboli sono gli autori del disegno del giardino della Villa di Castello. Composizioni che vengono ripetute e copiate, grazie anche ai numerosi matrimoni della famiglia Medici con i sovrani degli altri paesi europei. Maria de’ Medici ad esempio, figlia di Francesco I, si sposa con il re di Francia e nei giardini del Lussemburgo ripropone e vuole un giardino simile a quello di Boboli.

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Figura 6 Il Palazzo Pitti e il Giardino di Boboli in una immagine di T. Buzzi, C.B. Negri (1931).

È soprattutto però con Francesco I che si avverte uno scatto di qualità. A metà del Cinquecento quasi metà dei terreni del Granducato di Toscana sono sommersi da acquitrini. Il granduca si rende conto che la Val di Chiana, il lago di Bientina, Fucecchio, Castiglione non sono nient’altro che una serie di grandi paludi e per risolvere scientificamente il problema e bonificarli si deve studiare la meccanica dell’acqua. Così Francesco I costruisce a Pratolino una sorta di laboratorio dove è possibile studiare per la prima volta l’idraulica. Noi oggi conosciamo questo giardino per i giochi e gli scherzi d’acqua, per le fontane e per tutte quelle meraviglie che mandavano in visibilio i visitatori. Essi erano però in realtà studi sulla meccanica idraulica utili proprio per poter poi lavorare sulla bonifiche. Difatti le prime regimazioni idrauliche della Val di Chiana inizieranno con Ferdinando I che succederà al fratello Francesco I morto precocemente nel 1587. Il giardino quindi diviene occasione di sperimentazione e laboratorio scientifico e ciò viene avvertito in tutta Europa. Di conseguenza, in visita a Pratolino non si recheranno solo artisti, ma anche scienziati, quali lo Schichkardt che copierà tutti i meccanismi idraulici, oppure Salomon de Caus che utilizzerà le invenzioni di Pratolino per l’Hortus Palatinus di Heidelberg e altri ancora: è la tecnologia avanzata del momento che viene ad essere imitata e che si diffonde in tutta Europa. Allora i tecnici fiorentini vengono sempre più richiesti all’estero: il principe Enrico di Galles chiama Costantino de’ Servi a Richmond, in Spagna si recano due giardinieri di Boboli oltre a Cosimo Lotti, inventore di numerosi automi di Pratolino, per i grandi giardini di Aranjuez di Filippo III e Filippo IV, mentre Giovanni Gargiolli opera a Praga per i giardini reali di Rodolfo II. Però l’importanza dei giardini medicei è soprattutto testimoniata dai fratelli Tommaso e Alessandro Francini, costruttori degli automi di Pratolino, che vengono richiesti espressamente da Enrico IV di Francia.

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Figura 7 Una grotta della prima galleria a Saint Germain en Laye. T. Francini (1599).

Qui diventano “Sovrintendenti generali alle acque e alle fontane di Francia” e per generazioni e generazioni, fino alla metà del Settecento, non ci sarà acquedotto, pozzo, o grande impianto pubblico in Francia, che non sarà strutturato, organizzato dalla famiglia Francini. Sempre ai Francini, che lavoreranno anche alla grande macchina di Marly o agli acquedotti di Versailles, si deve, agli inizi del Settecento, l’invenzione del primo acquedotto in ferro. All’origine queste tubazioni davano qualche incoveniente poiché l’acqua arrivava rossa per l’ossidazione, ma portavano indubbiamente dei vantaggi per il maggior risparmio economico rispetto all’acquedotto in canne di piombo, oltre ad essere più sicuri rispetto a quello in cotto. Oggi tutti noi abbiamo l’acqua in casa, ma è affascinante sapere che le nostre tubazioni metalliche provengono in qualche maniera dall’esperienza di Pratolino, letta e maturata dai tecnici.

RIFERIMENTI ICONOGRAFICI Figura 1-2: fotografie di Emanuela Morelli. Figura 3: Immagine tratta da ZANGHERI LUIGI, Storia del giardino e del paesaggio. Il verde nella cultura occidentale, Leo S. Olschki, Firenze 2003, pag. 107. Figura 4–5: fotografie di Antonella Valentini. Figura 6: Immagine tratta da ZANGHERI LUIGI, Storia del giardino e del paesaggio. Il verde nella cultura occidentale, Leo S. Olschki, Firenze 2003, pag. 35. Figura 7: Immagine tratta da ZANGHERI LUIGI, Storia del giardino e del paesaggio. Il verde nella cultura occidentale, Leo S. Olschki, Firenze 2003, pag. 337.

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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio anno1 - numero 0 - luglio–dicembre 2003 Firenze University Press

MILANO RI-TROVA L’ACQUA E LA SUA STORIA. GLI ELEMENTI NATURALI E LE RISORSE IDRICHE COME NUOVI VALORI DELLA QUALITÀ URBANA NELLA METROPOLI ANTONELLO BOATTI *

MILANO E L’ACQUA NEGATA Milano è da tempo caratterizzata da acuti problemi tipici di molte grandi aree urbane e segnatamente da tutta la gamma dei fenomeni relativi all’inquinamento dell’acqua, del suolo e dell’aria e nell’ultimo periodo anche dal progressivo impoverimento delle risorse idriche. Paradossalmente Milano è situata in una zona ricca d’acque superficiali sotterranee, come testimoniano la notevole rete delle rogge, dei canali irrigui e dei fontanili.

Figura 1 Marcite, 1987.

Nell’ultimo secolo Milano ha voluto progressivamente negare la sua identità di città d’acqua, per una malintesa sensazione che questo elemento naturale potesse rappresentare un intralcio alla modernità e alla mobilità e quindi in omaggio alla crescita di una Milano che si voleva proiettata verso un futuro di grande metropoli. L’evoluzione socio-economica della Lombardia ed in particolare dell’area urbana milanese ha portato ad una netta separazione tra zone rurali, in cui l’agricoltura conserva un ruolo significativo, e le aree urbane e periurbane in cui l’agricoltura è di fatto marginale.

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I corsi d’acqua a valle e a monte della città costruita sono gli spettatori di queste trasformazioni e delle specializzazioni funzionali e ad essi può essere attribuito un ruolo fondamentale nel ricucire la trama territoriale. Nel territorio rurale l’abbandono delle tradizioni agricole ha portato alla progressiva eliminazione o al danneggiamento dei sistemi irrigui (rogge, canali e fontanili). La Bassa irrigua era il frutto del lavoro di generazioni di agricoltori come sostiene l’agronomo inglese Arthur Young, che tra i primi, ammirandola nel Settecento segnala le docili trasformazioni del paesaggio agrario alle esigenze della produzione agricola. Il figlio di un grande proprietario del Cremonese descrive in modo mirabile le campagne del sud milanese: “ogni palmo di terreno è stato predisposto in pendii artificiali acciocché potesse ricevere le acque irrigatrici a periodi determinati e trasmetterle ulteriormente al fondo vicino; e ciò nel modo più economico e in armonia colla vasta rete e col complicato sistema dei condotti idraulici derivatori, dispensatori, scaricatori, raccoglitori e restitutori, i quali coll’aiuto di chiuse, di chiaviche, d’incastri, di tombini, di ponti canali, di sifoni, sono destinati a distribuire le acque sulla maggiore superficie possibile”1. Come scrive Giorgio Bigatti nel suo saggio Un “Paese basso e pieno di canali”2 “la creazione di questo complicato sistema di rogge e cavi distributori ha favorito la precoce comparsa di forme di agricoltura di tipo intensivo ad elevata capitalizzazione” portando con sé la progressiva riduzione della presenza dei boschi e la formazione di un nuovo e più moderno concetto di agricoltura accompagnato da estesi processi di ricomposizione fondiaria e colturale. Quindi si è realizzato nella Bassa Lombarda una sorta di addomesticamento del paesaggio naturale con un rimodellamento comunque molto leggibile come schema di funzionamento della produzione agricola.

Figura 2 Roggia, 1984.

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Relazione del Commissario Conte Stefano Jacini sulla decima Circoscrizione in Atti della Giunta per l’inchiesta agraria e sulle condizioni delle classi agricole, Roma 1882, pag. 101. 2 BIGATTI GIORGIO, Un “Paese basso e pieno di canali”, in ANGILERI VINCENZO, Le vie d’acqua: rogge, navigli e canali, Electa, Milano 2000.

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L’ADDOMESTICAMENTO DEL PAESAGGIO NATURALE Il processo si è accentuato nella seconda metà del Novecento con l’ingresso sulla scena delle grandi macchine agricole e del dominio incontrastato della mono-coltura. Il problema di oggi quindi in un’area come quella milanese che mette a contatto l’area urbana densa del Nord e della città centrale con le zone periurbane del Sud che si sfrangiano nel territorio agricolo è quello di garantire una nuova leggibilità del paesaggio che accettando le trasformazioni strutturali promuova un nuovo modello di uso del territorio. Accettato il sistema agricolo mono-colturale come unico in grado di competere sul mercato e imposti criteri di salvaguardia dei valori ecologici fondamentali connessi a tecniche razionali e senza sprechi di irrigazione e di coltivazione biologica, si tratta di dichiarare apertamente che l’agricoltura, che ad esempio nella produzione non coinvolge più la vita dell’uomo con quel vincolo biunivoco che legava indissolubilmente terra e contadini, può accettare ed ospitare in una dimensione tempo liberata anche una nuova esigenza della metropoli che è quella della fruizione degli spazi aperti preziosi come l’aria e come l’acqua. Paradossalmente l’agricoltore che giunge ormai sul luogo del lavoro in automobile abitando spesso in città può essere lui stesso un fruitore dei percorsi e delle strutture del Parco Agricolo. Il problema è quindi quello di rendere visibile questo nuovo addomesticamento del paesaggio in una sinergia di valorizzazione tra agricoltura, tempo libero, città e campagna. In questo senso nella realtà milanese di acque superficiali negate ed interrotte nella città, il Naviglio Grande, il Naviglio Pavese, il Canale Martesana, la Vettabia, il Redefossi il torrente Seveso, i fiumi Lambro e Olona sono, nel loro corso tra la città e il territorio agricolo, gli elementi sensibili di contatto tra urbanizzato, periurbano ed agricolo. Valga per tutti l’esempio del Seveso che se in un’idea progettuale fosse nuovamente sospinto a tornare in superficie nel territorio cittadino dovrebbe quindi vedere una sistemazione spondale affidata prevalentemente a materiali lapidei nella città costruita ed essere invece totalmente naturalizzata nel territorio agricolo. Questi punti di contatto dovranno essere segnati e non mimetizzati per dichiarare la differenza di ruolo che il fiume giocherà nei diversi contesti territoriali. D’altra parte l’ecologia delle aree urbane impone di salvaguardare i corsi d’acqua esistenti e ritrovati come corridoi ambientali in grado di favorire e sviluppare le presenze della fauna ed aumentare il livello della bio-diversità. I filari degli alberi sono certamente l’imbastitura su cui appoggiare i corridoi ecologici salvaguardando ed unificando in questo caso le diversità città-campagna attraverso una scelta accurata e mirata delle specie arboree. Nella città costruita i Navigli, persa la loro funzione di via di trasporto merci, hanno subito interramenti e stravolgimenti. Nell’arco di quarant’anni, tra il 1925 e il 1965, Milano ha deciso di poter rinunciare al suo sistema di vie d’acque interne.

LA PERDITA DEI NAVIGLI Come ricorda Marco Comolli nel libro La cancellazione dei Navigli la perdita è consistente per il paesaggio urbano: “(…) una via cittadina ha una sua doppia dimensione e funzione: non può essere solo un luogo di razionali spostamenti, ma va considerata anche come luogo irrazionale di sentimenti e umano vagabondare. I Navigli, in questo senso non erano certo da meno: via di comunicazione e trasporto erano al tempo stesso una via adatta a passeggiate pensose e fantasticherie. In epoche precedenti questa doppia dimensione era sempre raggiunta con naturalezza, oggi non sembra esserlo più. Apparteniamo a un’epoca positiva e programmatrice che si muove molto maldestramente quando entrano in campo dimensioni non quantificabili. Eppure anche queste dimensioni esistono e chiedono un loro spazio.

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Costeggiando dunque con qualche scopo i Navigli si poteva (…) scomporre il proprio agire in vista di un fine in una serie indefinita di atti minimi, autonomi e in se stessi sempre significativi (realizzando così di volta in volta l’archetipo dell’attraversare un ponte, dell’appoggiarsi a un parapetto, del guardare un portale o un albero, ecc. ecc.)” 3. I sistemi delle acque, quando esistevano, avevano una propria viva e assai differenziata percezione così come la possiamo leggere attraverso i quadri, le illustrazioni, le fotografie, il cinema.

Figura 3 Seveso a Niguarda. Foto anni ’50.

Il Seveso ad esempio, trascorsa l’epoca romantica assume presto la funzione di fiume dell’industria dapprima fornitore di energia e contemporaneamente, subito dopo, ricettore dei reflui industriali: docilmente le immagini che ci giungono attraverso le sole cartoline postali ci parlano di un fiume scuro, minaccioso che esonda in continuazione allagando interi quartieri.

Figura 4 Navigli di Milano di Giovanni Segantini, 1879-1881.

I Navigli, al contrario, persa nel tempo la funzione di vie di trasporto efficienti si cullano nell’immagine classica dell’iconografia milanese tra Ottocento e Novecento: polverosi, 3

COMOLLI MARCO, La cancellazione dei Navigli: declino di un’affabilità urbana, Theoria, Roma 1994.

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amichevoli, magari malinconici quanto basta avvolti come erano nella nebbia e ricchi di tutte quelle molteplici caratteristiche così ben descritte da Comolli. Basti osservare nei Navigli di Milano del primo Segantini (1880) il contrasto tra le figure di operaie in movimento e la cruda povertà dell’ambiente, quasi che fossero proprio i Navigli coperti di neve a rendere divertente la fredda atmosfera invernale. Così da un altro versante, quello del fascino malinconico di una bellezza effimera, è il De Pisis che soggiornò a Milano nei primi anni ’40 a volgere il suo interesse al bacino della Darsena annotando nei suoi diari “faccio un bel paesaggio sul Naviglio e sotto la pioggia”. Si fondono in De Pisis realtà industriali e risvolti fantastici come le barche e i barconi fatti simili alle gondole con un affaccendarsi dei barcaioli con ritmi tutti lombardi e per nulla veneti.

Figura 5 La darsena di Milano di Filippo De Pisis, 1943.

Comunque in tutte le rappresentazioni pittoriche dei Navigli è sempre presente e imminente un pericolo, una provvisorietà e una netta percezione del rischio della perdita di un bene prezioso, ma in contrasto con le esigenze dello sviluppo materiale della città. Tutta questa rete di acque negli anni venti del secolo scorso subisce infatti l’aggressione di un sistema insediativo in rapida crescita e che non sa rispondere alla sfida della modernità, trasformando i Navigli in una gigantesca rete fognaria, come al contrario Parigi, molti anni prima, era riuscita a fare con Haussmann. Spariscono rapidamente i valori del paesaggio urbano e il miraggio di ricavare una circonvallazione interna per le macchine, annunciate dal futurismo, conquista l’opinione dei gruppi dirigenti della società milanese e costituisce la spinta decisiva alla distruzione e all’interramento dei Navigli.

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In nuce la questione della distruzione dei Navigli ha in sé gli elementi del contrasto, che ancora oggi è bene evidente, tra le esigenze dello sviluppo, la tutela dell’ambiente e la salvaguardia di forme accettabili di paesaggio urbano. Oggi la metropoli ha inglobato i Navigli nel tessuto urbano oltrepassando la cerchia, le mura spagnole, la seconda circonvallazione, invadendo la prima cintura metropolitana ed è ormai giunta alla seconda. Dei Navigli, e più in generale del sistema delle acque, sono rimasti i tratti più periferici, brutalmente amputati essi appaiono nella città centrale come inutili appendici.

Figura 6 Un panorama dall’alto della darsena a Milano negli anni ’80. In basso a destra il tratto iniziale del Naviglio Pavese.

RITROVARE L’ACQUA COME RISORSA La sfida più entusiasmante è quella di ritrovare i Navigli, di farli riemergere inserendoli in un programma di risanamento ecologico e ambientale della città e di ritorno della natura nei quartieri e nella sua vita. L’accusa più facile che può venir mossa verso un simile progetto è quella insieme di perseguire un’utopia e di essere una sorta di moderni luddisti innamorati del passato. Tutto al contrario: il ritorno della natura nelle metropoli è quanto di più moderno si possa pensare e richiede il ricorso a tecnologie nuove e non sperimentate in grado di garantire il bilancio ecologicamente compatibile del progetto. Il versante dell’innovazione è costituito da un uso nuovo e alternativo dell’acqua della prima falda, che a seguito del processo di deindustrializzazione e con il calo dei consistenti prelievi

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necessari una volta alla produzione si è alzata in modo consistente giungendo a pochi metri dalla superficie. Con gli anni Novanta la falda inizia ad interagire con le strutture sotterranee, in primo luogo le linee della metropolitana ed i parcheggi interrati multipiano, a partire dalle zone a sud di Milano per estendersi progressivamente verso nord. Con il passare degli anni, quello che era un allarme confinato a specifiche strutture molto profonde, si amplia a strutture residenziali, specialmente nella porzione sud-est della città, portando il problema all’attenzione generale. La risposta immediata alle infiltrazioni si è concretizzata in un massiccio e diffuso utilizzo di sistemi d’allontanamento delle acque mediante pompe idrauliche attuato dai singoli interessati, con recapito dei reflui in fognatura. Tale pratica, oltre a presentare potenziali rischi per la stabilità strutturale degli edifici interessati, poiché il pompaggio asporta anche sabbie e ghiaia assieme alle acque di falda, porta ad un drammatico incremento nelle portate del sistema fognario, che appare in progressivo collasso. Altra metodologia d’intervento consiste nel prelievo d’acque dalla falda nella zona sud di Milano per aumentare la velocità di deflusso, sia riattivando, in via sperimentale, alcuni fontanili, sia tramite una serie di pozzi scavati ad hoc nell’ambito di progetti per la riattivazione di alcuni corsi d’acqua superficiali. Il progetto Vettabbia, nell’ambito della trasformazione urbanistica di un’area industriale dismessa, è il primo progetto realizzato di quelli elaborati con questa metodologia ed ha portato, mediante l’immissione di acqua di prima falda e la disconnessione di due collettori fognari, alla pulizia del corso d’acqua e al contemporaneo abbassamento della superficie piezometrica di prima falda di circa 1 metro. Molto di più può essere fatto sulla base di questa impostazione sul versante del rinnovo urbano della città, a partire dai suoi spazi pubblici, con l’ingresso consistente dell’acqua nei quartieri centrali della città, nel suo stesso cuore pulsante, la Cerchia dei Navigli. È possibile pensare a un progetto che attraversi Milano da nord a sud lungo i tracciati originari del Seveso, del Naviglio Martesana, della Cerchia e della Vettabia, esteso quindi su 11 Km di territorio cittadino in grado di proporre un’idea di Milano che va oltre allo stereotipo di un dinamismo economico, fisico e sociale, per altro ampiamente in crisi, introducendo la qualità urbana e il paesaggio urbano come elemento essenziale e condizionante dello sviluppo della città. Tale progetto si è recentemente concretizzato nei risultati di una ricerca di Ateneo del Politecnico di Milano finanziata dal C.N.R.4 nell’ambito delle esperienze di “Agenzia 2000” purtroppo tra gli ultimi esempi di fattiva collaborazione tra l’università e il prestigioso ente di ricerca visto l’orientamento fatto assumere a quest’ultimo dai recenti provvedimenti governativi. La riapertura del Seveso e la riscoperta dei tracciati storici del Naviglio Martesana, della Cerchia e della Vettabbia attraverso la creazione di un sistema continuo di canali di dimensioni variabili in grado di migliorare in modo significativo il paesaggio urbano dalla periferia nord, attraverso il centro storico, sino alle frange urbane del sud-est costituiscono il fulcro del progetto. Un progetto di questo tipo collega in modo interdisciplinare diversi aspetti spesso incongruenti se non in conflitto quali il riassetto idrogeologico, la sicurezza dalle inondazioni, la qualità della vita nella città e il rinnovamento del paesaggio urbano.

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Progetto Coordinato C.N.R. “Esaltazione delle risorse idriche come valori della nuova qualità urbana e rete delle aree verdi e pedonali”, responsabile Antonello Boatti.

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LA RIAPERTURA DEL SEVESO Per quanto concerne il Seveso è maggiormente rilevante l’aspetto idrogeologico e la messa in sicurezza di un intero quartiere di Milano, quello di Niguarda dalle ricorrenti inondazioni del fiume attraverso bacini naturalizzati di laminazione. Tale sistema dovrebbe garantire l’afflusso delle acque di piena per tutto il tempo necessario nei bacini di laminazione (che dovranno avere la forma di laghi artificiali in cui innestare progressivi elementi di naturalizzazione) e il successivo scarico nell’alveo del fiume solo quando quest’ultimo fosse in grado di accettare tali acque (passata l’onda di piena). Immediatamente dopo o attraverso l’aspirazione di acqua di prima falda o mediante l’uso di canali di irrigazione, i bacini dovranno acquisire nuovamente acqua pulita.

Figura 7 Schema di funzionamento dei bacini di laminazione del Seveso.

I bacini artificiali dovrebbero essere localizzati nel territorio del Parco Nord Milano, parco di cintura metropolitana e tra le maggiori positive realizzazioni dell’ultimo ventennio a Milano. Proprio la natura del luogo destinato a ricevere i bacini di laminazione rappresenta una sfida per il progetto. Si tratta di immaginare questo manufatto artificiale non come un corpo estraneo al disegno del Parco, ma come una necessità sociale che è anche motore della trasformazione del paesaggio esattamente come i sistemi irrigui dell’inizio del Medioevo hanno disegnato le forme del paesaggio agrario della Bassa pianura irrigua. Si toccano qui i temi fondamentali del nesso tra il paesaggio e il ruolo dell’uomo nelle trasformazioni indotte dall’uso antropico del territorio. Le vasche di laminazione naturalizzate possono essere insieme continuità del progetto del Parco Nord e nuovo sguardo verso problemi più generali: si chiede ad un Parco consolidato e apprezzato di ospitare una macchina che può significare una svolta per decine di migliaia di milanesi nella qualità della loro vita esattamente come quando i canali imbrigliando le acque hanno cambiato il volto del paesaggio selvatico trasformandolo progressivamente nel paesaggio agrario come oggi lo conosciamo.

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Figura 8 Bacini di laminazione del Seveso nella costruzione del paesaggio urbano.

LA RISCOPERTA DEI NAVIGLI COME REALTÀ VISIBILE Per quanto riguarda la valorizzazione dei Navigli milanesi nella città il telaio portante dell’esperimento è costituito dal recupero dei tracciati storici della Martesana e della Cerchia interna che in più punti della città può trovare gli spazi per uscire allo scoperto. Alcuni modelli già realizzati L’idea nasce dallo studio di altri interventi già realizzati in Europa quali quello del recupero del canale Robec a Rouen in Francia e quello sviluppato a Friburgo in Germania. L’intervento francese offre fortissime analogie con il caso di Milano: anche a Rouen il canale Robec nel XX secolo aveva perso di significato e di valore. Come in uno specchio rispetto a Milano il canale era diventato una fognatura a cielo aperto, la strada aveva conosciuto un declino sociale ed economico fino a quando nel 1939 l’antico

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canale fu definitivamente coperto deviando l’acqua che lo percorreva in nuovi collettori sotterranei. La strada, che porta il nome di Rue Eau de Robec, conobbe così una nuova valorizzazione dal punto di vista economico e sociale sino a quando negli anni ’80, in modo prepotente, da un questionario inviato dall’Amministrazione per accogliere idee e desideri dei residenti emerse tra gli obbiettivi principali il ripristino della presenza d’acqua quale simbolo e testimonianza dell’antico canale Robec. Gli obiettivi del progetto segnalati dai cittadini erano, oltre al recupero della presenza dell’acqua, la sistemazione pedonale della strada con la creazione di nuovi spazi pubblici, la rivitalizzazione delle attività commerciali, il miglioramento della qualità ambientale e paesistica del quartiere e la valorizzazione della strada come centralità urbana, sociale ed economica. Il progetto assunse come centrale la costruzione di un nuovo ruscello sul sedime del canale originario nel quale immettere acqua corrente accumulata e riciclata per garantire flussi a portata controllata. La novità è la dimensione variabile del ruscello, da un primo tratto poco profondo e largo 1,5 metri, ad un secondo più largo e più profondo. Il progetto ha affiancato al disegno e alla progettazione del ruscello anche il trattamento della pavimentazioni che lo fiancheggiano e dei ponticelli pedonali che lo attraversano da parte a parte. I lavori sono durati meno di un anno dimostrando la fattibilità concreta dell’opera.

Figura 9 Planimetria e geometria degli edifici di Rue Eau de Robec a Rouen.

Il caso di Friburgo mostra una presenza assai più diffusa dei canali, che per altro non furono mai totalmente coperti o chiusi, salvo per alcuni limitati tratti e fatta eccezione per alcuni spostamenti dall’alveo principale centrale in posizioni più defilate e laterali. Con il nuovo impianto Novecentesco della città la vecchia canalizzazione perse la sua funzione principale divenendo una eredità storica e particolare per Friburgo. Una eliminazione dei canali a Friburgo non venne mai presa in considerazione, ma alcuni di essi furono coperti con grate metalliche anche qui per motivi di sicurezza stradale.

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Nonostante molte di esse fossero stati distrutte nel 1944 al tempo della Seconda Guerra Mondiale, le canalizzazioni vennero rimesse in uso anche nei vecchi sobborghi popolari. Infine gli interventi di pedonalizzazione di metà degli anni ’70 costituirono un deciso impulso per la ricostruzione complessiva di un sistema di canalizzazioni ancora oggi considerate come elemento attrattivo in ogni ambiente di attività lavorativa o di rilevanza sociale. Il caso di Friburgo propone l’ipotesi di un intervento esteso e della sostenibilità di tale intervento rispetto ai ritmi della vita contemporanea di una città moderna e competitiva.

Figura 10 Freiburg, “Bachle”.

Una sfida e una nuova visione di Milano La sfida è complessa e comporta scelte coraggiose per Milano che, optando per uno sviluppo sostenibile, dovrebbe decidere di non svilupparsi più su aree agricole o libere, ma limitarsi a valorizzare le proprie e ancora numerose aree dismesse, puntando sullo sviluppo policentrico dell’hinterland e giocando sul rientro dei valori naturali nella città: a partire dall’aria pulita, attraverso la moderazione del traffico veicolare privato, per continuare con le aree verdi e con l’acqua intesa come risorsa per il riequilibrio ecologico e per la rinascita dell’idea stessa di paesaggio urbano a Milano. La ricchezza della storia dei navigli Milanesi impone una ricognizione puntuale dei luoghi significativi affrontata da diversi punti di vista quali la permanenza di valori architettonici paesaggistici, la rilevanza dei valori perduti, i progetti in corso di realizzazione che possano compromettere ulteriormente la lettura storica del paesaggio ed infine i luoghi obbiettivamente disponibili che una città come Milano può in una visione anche coraggiosa riservare ad un progetto come questo senza cadere nell’utopia pura che spesso sconfina nell’insensatezza.

ELEMENTI ESSENZIALI DI STORIA DEI NAVIGLI MILANESI Il Naviglio Martesana da Cassina de’ pomm alla cerchia È l’ultimo in ordine di tempo dei Navigli milanesi, derivato dall’Adda a Concesa (Trezzo sull’Adda) fu costruito su iniziativa dei Visconti e poi degli Sforza a partire dal 1440 sino al 1460 per raggiungere la località di Cascina de’ Pomm divenuta poi periferia milanese e oggi ultimo luogo di visibilità del canale prima dell’interramento.

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Figura 11 Barchetti in arrivo a Milano in giorno di mercato dal Naviglio della Martesana, appena superato il sottopasso di Porta Nuova, Raimondo Giovanetti 1932.

Il canale, come del resto gli altri Navigli, ha una larghezza di 8-12 metri e una profondità media di circa 2 metri. La congiunzione del Naviglio Martesana con la Fossa interna viene realizzata tra il 1464 e il 1496 alle spalle della chiesa dell’Incoronata mediante la realizzazione di due conche quella dell’Incoronata appunto e quella di San Marco che trae anch’essa il nome dalla chiesa omonima.

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La conca dell’Incoronata riveste particolare importanza nella storia di Milano anche perché legata da un lato ad un possibile intervento-progetto di Leonardo (mai del tutto accertato) ma più pragmaticamente alla esazione dei dazi di navigazione. La realizzazione dell’ultimo tratto del Naviglio Martesana comportò costi così elevati che si decise di porli a carico “dei sudditi milanesi sotto forma del già ben collaudato dazio della catena per le barche in transito a partire dal 1500. La Martesana era entrata così in città in quel punto che fu poi definito delle gabelle per via di quelle operazioni daziarie che venivano effettuate sulle merci in entrata. Un ramo del canale si staccò poi sulla destra di fianco alla conca per poter far funzionare un grosso molino (…)”5. La cerchia interna da via San Marco a via Fatebenefratelli (1338-1494) Con una debole curva il fossato, oltrepassata a destra la via Cernaia e varcata una conca ed il ponte Marcellino, toccava un altro fiore dell’architettura milanese: San Marco. Sull’ampio piazzale un tempo, il Martesana formava un bacino che, col Laghetto dell’Ospedale e con la Darsena, costituiva il complesso degli approdi commerciali del Naviglio ed era un luogo estremamente pittoresco con case umili, orticelli, pergolati. Questa grande conca presso S. Marco con l’arcone che metteva in comunicazione il Laghetto col Naviglio, era detta “Tombone di S. Marco”.

Figura 12 Il Laghetto di San Marco nella via omonima con il Ponte dei Medici, sullo sfondo, tra la casa detta “degli scultori” (sede storica del Corriere della Sera) e la via Montebello.

La cerchia interna da via San Marco a via Senato (1338-1494) Dopo S. Marco il Naviglio riprendeva un aspetto trasandato: depositi di sabbia, “sciostre” di legname, magazzini di pietre. Unica eccezione, nella via del Pontaccio, il vasto e imponente palazzo dei Crivelli, che un tempo estendeva il suo ampio parco a tutto il territorio fra la via Solferino e Garibaldi. Dalla Porta Renza alla Nuova, nella strada che ora si chiama via Senato, il Naviglio prendeva il nome della chiesa di S. Pietro Celestino ed anche qui manteneva il suo tono aristocratico. 5

REGGIANI FERMO, Avventure di fiumi e navigli milanesi e lombardi, Arti Grafiche Vaj, Milano 1987.

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Di fronte c’era una Conca del Naviglio che la tradizione vorrebbe ideata da Leonardo; poco più avanti un piccolo ponte collegava la contrada di S. Andrea con quella di S. Primo. Da via Senato a via Santa Sofia (1338-1494) Con i giardini dell’Ospedale Ca’ Granda oggi prestigiosa sede dell’Università e dei giardini della Guastalla il Naviglio assumeva un aspetto ricco e fastoso, ancora maggiore dopo la Porta Tosa, là dove cominciava la zona aristocratica: bei palazzi del patriziato e dimore decorose della borghesia. Ai palazzi si accedeva, dai “terraggi”, cioè dalle vie parallele al canale, verso l’interno della città, ma generalmente la facciata migliore prospettava verso il Naviglio con porte e finestre quasi coperte dalla fitta vegetazione. Da via Santa Sofia a corso di Porta Romana Lungo il canale che, a questo punto, attraversava invece una zona fra le più popolari, si affacciano le famose “lobbie”(depositi di legno), rustici, loggiati, balconate e terrazze di legno. Qui si aprivano grandi depositi di pietra e i fragorosi laboratori degli scalpellini, e poco oltre, in Santa Sofia, si raggruppavano le tintorie. Poco prima di scavalcare il ponte di Porta Romana, le acque del fossato costeggiavano i monasteri di S. Apollinare e della Visitazione.

Figura 13 Il Naviglio in via Francesco Sforza.

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Figura 14 La cerchia dei Navigli in via Santa Sofia in una foto dei primi del Novecento.

Da corso di porta Romana a Porta Genova (1600-1920) L’elemento fondamentale di questo tratto è costituto dalla Darsena vero snodo o angolo di un ventaglio nel quale sono raccolte le acque milanesi. La Darsena scavata ai piedi delle Mura Spagnole risulta come la confluenza dell’Olona proveniente da ovest ovvero da quello che oggi è definito come viale Papiniano, del Naviglio Martesana che ha già percorso la Fossa interna sopra descritta attraverso la Conca di via Arena, del Naviglio Grande e del Naviglio Pavese. Vero porto di Milano ha attirato l’interesse di artisti, fotografi e poeti che hanno colto in essa il fragile cardine del passaggio delle civiltà misurate sui modi dell’uso dell’acqua. Attorno a questo snodo si articola un ricco patrimonio storico architettonico e archeologico i cui capisaldi sono costituiti dalle Basiliche di San Lorenzo e di S. Eustorgio, dal parco che le collega e dai resti dell’Arena romana legati da un tessuto urbano costituito da un significativo insieme di vecchie abitazioni popolari e di opifici ottocenteschi.

Figura 15 La Darsena di Porta Ticinese in una cartolina del 1902.

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Le Chiuse e Leonardo Nei primi cinquanta anni del 1400, periodo di grandi realizzazioni idrauliche, Leonardo soggiornò in alcuni periodi a Milano; non fu l’inventore delle conche, ma ne perfezionò la tecnica e le impiegò per primo, nella lettura e nello studio dei corsi d’acqua. La Conca è un manufatto che consente di regolare il livello di un canale, trasformandone la pendenza da continua a “gradinata”. A ogni salto d’acqua corrisponde una conca, cioè un bacino di limitate dimensioni, compreso tra due chiuse mobili, dove è possibile far scendere e salire il livello dell’acqua e quindi delle imbarcazioni in transito. Una delle prime conche realizzate è quella di Viarenna o via Arena, ubicata all’esterno delle mura della città di Milano, sul Redefossi di Porta Ticinese in corrispondenza dello sbocco di via Conca del Naviglio. Realizzata nel 1439 tale conca doveva servire per superare il dislivello di 5 braccia esistente tra il Naviglio Grande ed il fossato interno. Il sistema delle conche consisteva nell’accostare le chiuse a due a due per attuare il passaggio a differenti piani, una sorta di scala, da cui le imbarcazioni salivano o scendevano i gradoni con una certa velocità.

Figura 16 La Conca di via Arena detta “Viarenna”, Raimondo Giovanetti 1933.

LA COSCIENZA DEI VALORI PERDUTI La copertura della Fossa I lavori di copertura dei Navigli furono iniziati nel 1857 a partire da quelli che erano pensati come punti critici e che in realtà oggi sarebbero i punti di eccellenza di un centro storico come il Laghetto di Santo Stefano e cioè quello che consentì l’approdo dei barconi che trasportavano il marmo di Candoglia usato nella costruzione del Duomo.

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Figura 17 Lavori di copertura della cerchia dei Navigli in via Senato alla fine degli anni ’20.

Nel 1882-83 fu smantellata la prima conca della cerchia, quella di Sant' Ambrogio. La copertura della Fossa interna avvenne nel 1929 e le motivazioni di questa drastica scelta furono: il problema del traffico e le questioni di carattere igienico legate all’inconveniente dei cattivi odori emanati, in particolare, durante lo svuotamento dei Navigli per la pulizia annuale. In quel periodo l’urbanistica ufficiale propugnava sventramenti e allargamenti di strade, non soltanto per motivi legati alla retorica del regime politico, ma anche per agevolare la circolazione automobilistica allora in fase di rapido sviluppo. Si è poi constatato quanto la seconda motivazione fosse errata; il rinnovo urbano ed edilizio a Milano, avvenuto attraverso un continuo processo di sostituzione di edifici poveri con edificazioni di tono economico più elevato, ha creato localmente nuove fonti di traffico assai maggiori di quelle che l’ampliamento delle sedi stradali, compresa la copertura dei Navigli, potesse risolvere. Il Naviglio Martesana sarà coperto poi, in via Melchiorre Gioia, a tratte successive, tra il 1961 (da via Paoli a via Tonale) e il 1969, fino ad arrivare al 1981 alla griglia della Cassina de’ Pomm.

I PROGETTI IN CORSO DI REALIZZAZIONE CHE POSSONO COMPROMETTERE ULTERIORMENTE LA LETTURA STORICA DEL PAESAGGIO Si parla spesso ed erroneamente di morte del paesaggio nelle realtà urbane più dense e congestionate come è quella milanese. Mi sembra interessante a questo proposito riprendere alcune affermazioni contenute in un saggio di Jacques Leenhardt sul recupero dei terreni minerari abbandonati (ma il ragionamento può valere per una industria dismessa, per uno scalo ferroviario abbandonato o per un fiume combinato): “Ciò che in verità è morto in

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questo paesaggio, è il rapporto tra l’uomo e la natura. Per tutto il tempo in cui l’uomo ha lavorato la natura, sia nel passato lontano, col suo fieno, il suo bestiame e le sue mietiture, o nel passato recente con le sue escavatrici divoratrici di spazio, sono stati stabiliti dei rapporti costanti e funzionali. Nel quadro di questo dominio l’uomo aveva preso possesso di questa natura e dato un senso a tale manomissione” 6. In questo senso noto che a Milano sotto la spinta ultra liberista impressa dalla Amministrazione Comunale, qualsiasi area resasi edificabile nel tempo per l’abbandono della destinazione originaria, viene proposta per una edificazione purchessia omogeneamente destinata in parte a residenza (preferibilmente grattacieli ritenuti belli in sé, consoni a una immagine astratta di rilancio economico), in parte a terziario e corredata dall’immancabile scatola a forma di ipermercato. Così in barba a qualsiasi memoria storica, presenza fisica superficiale o sotterranea, ad esempio dell’acqua, si propone sull’area dell’ex rilevato ferroviario della stazione Varesina a Porta Garibaldi nel cuore dello storico quartiere dell’Isola un’insensata Città della moda non desiderata neppure dagli operatori interessati ed in realtà mero pretesto per un’operazione immobiliare di proporzioni gigantesche. Non vi è traccia del rapporto uomo natura acqua nonostante sotto l’area (oggi libera e quindi senza ostacoli di nessuna sorta rispetto ad una riscoperta della preziosa risorsa) scorra il Naviglio Martesana che ha già accolto il Seveso e duecento metri più in là lo stesso Naviglio si getti nella Cerchia interna proprio nello storica conca dell’Incoronata miracolosamente intatta anche se completamente privata dell’acqua. Ma non è questo l’unico caso di progetti in corso che rifiutano di prendere in considerazione l’esistenza stessa della risorsa idrica nella città. Mi riferisco all’idea di affidare in project financing la realizzazione di un parcheggio multipiano sotterraneo nel letto della Darsena incuranti delle distruzioni parziali del manufatto e soprattutto separando la sistemazione superficiale che sarà affidata al vincitore di un concorso internazionale di progettazione dalla realizzazione dell’opera in sottosuolo, come se ciò fosse possibile senza grave pregiudizio per il risultato finale. È da questo modo di vedere lo sviluppo della città che nasce l’esigenza di un progetto generale che abbia come focus il recupero della visibilità del tracciato storico dei navigli e l’effettiva riapertura di parti consistenti degli storici canali Milanesi.

UN PROGETTO PER MILANO: I NAVIGLI RI-TROVATI COME OSSATURA DELLA NUOVA QUALITÀ URBANA

“Ci sono, certo, paesaggi la cui particolare natura impone innanzitutto una loro conservazione, ma è importante anche recuperare la capacità di progettare dei mutamenti che sappiano essere esteticamente validi, cioè tali da non sfigurare l’identità dei luoghi pur trasformandola ove questo è necessario”7. Così afferma Paolo D’Angelo nel suo saggio Morte e resurrezione del paesaggio per poi proseguire sostenendo: “Riconoscere la compresenza di natura, cultura e storia nel paesaggio e assumere l’identità estetica di un luogo come frutto della interazione di questi tre elementi comporta però un impegno nuovo anche a pensare la tutela del paesaggio”. Nel caso di Milano i Navigli rappresentano magicamente le tre componenti: quella naturale con le acque che in essi scorrono, quella storica che abbiamo appena passato in rassegna e quella culturale non solo legata alle tradizioni popolari ma anche a pensatori, poeti e pittori che ne sono stati attratti. 6

LEENHARDT JACQUES, Note sul recupero dei terreni minerari abbandonati della Germania Orientale, “Parametro”, 245, Edizioni C.E.L.I., Faenza 2003, pag. 9. 7 D’ANGELO PAOLO, Morte e resurrezione del paesaggio, “Parametro”, 245, Edizioni C.E.L.I., Faenza 2003, pag. 49.

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Così l’ossatura del progetto è costituita da un canale di sezione variabile continuo, riconoscibile che si snoda per oltre undici chilometri e ha il compito di tramandare la memoria storica di questi canali in modo chiaro non mimetico e dichiarato. Naturalmente la variabilità del canale gli farà assumere di volta in volta le caratteristiche di un segno d’acqua di un metro di larghezza e pochi decimetri di profondità là dove le esigenze di viabilità e anche il minor significato storico lo consigliano, piuttosto che un vero ruscello urbano in corrispondenza di situazioni meno congestionate per concludere con la riconquista del letto originario del Naviglio ove possibile. L’ingresso del naviglio Martesana nell’area Garibaldi Repubblica segna una delle occasioni più importanti per il Progetto. L’ipotesi che riprende alcune delle idee maturate nel campo di esperienze di urbanistica partecipata e in particolare alcuni spunti progettuali dell’arch. Andrea Milella è assai differente da quella della Città della Moda che l’Amministrazione Comunale sta portando avanti. Infatti la proposta fa leva sul ruolo degli spazi verdi e dell’acqua che al centro dell’area emergono in un grande spazio pubblico sopraelevato con sottopasso veicolare. Tutto attorno si sviluppa un Campus della cultura, dei saperi e del “loisir” dedicato principalmente al mondo degli studenti universitari (tutte le sedi sono raggiungibili con ferrovia o metropolitane) pensando anche a residenze a loro riservate ad esempio sull’ex rilevato ferroviario delle Varesine.

Figura 18 e 19 Il Naviglio Martesana riconquista la Conca dell’Incoronata – stato di fatto e progetto.

In questo modo nell’area Garibaldi-Repubblica l’acqua disegnerà e valorizzerà una vera nuova porta di Milano. Qualche centinaio di metri più a sud si innesta un altro sistema rilevantissimo e cioè quello di Ponte delle Gabelle, Conca dell’Incoronata e San Marco. L’occasione è troppo importante e qui l’acqua, sia pure prelevata dalla prima falda, riconquista il tracciato originario del Martesana, miracolosamente intatto insieme alle storiche paratie della conca, testimonianze essenziali dei primi passi dell’ingegneria idraulica.

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In via San Marco un segno d’acqua di due metri di larghezza appoggiato sul versante interno della Cerchia che comunque consente la permanenza di una strada di due carreggiate di 4 metri, di parcheggi alternati a pettine e bordo strada, di marciapiedi, di un filare di alberi e di una pista ciclabile ci accompagna verso lo storico “tumbun” qui ricordato da una grande e lunga fontana, unica possibilità lasciata dalla presenza di un consistente manufatto interrato dedicato al ricovero degli autoveicoli. Da San Marco in via Fatebenefratelli uno specchio d’acqua simboleggia l’antica chiusa e di lì un segno d’acqua costante di 2 metri sempre sul versante interno, interrotto solamente dagli incroci e dai passi carrai e accompagnato dalla pista ciclabile conduce lungo la Cerchia all’altro importante appuntamento col Palazzo del Senato. Davanti al Palazzo del Senato il progetto suggerisce la riproposizione della storica Conca di via Senato situata in realtà qualche decina di metri più verso il centro. Simbolicamente l’obiettivo di rintracciare la memoria storica della città unito alla necessità di valorizzare il patrimonio storico monumentale si coniuga con la particolarità del luogo. Il paesaggio dei boschetti, di via Marina e del prestigioso giardino della Villa Reale viene arricchito dal corso d’acqua che nascendo dal canale perimetrale del giardino (anch’esso valorizzato) confluisce simbolicamente nella nuova conca. La via Senato riservata al traffico dei soli residenti e del mezzo pubblico tende ad ampliare con il gioco delle pavimentazioni la prospettiva barocca della facciata del palazzo del Senato.

Figura 20 Via Senato e via Marina: un sito in equilibrio tra natura e monumentalità – prospettive e suggestioni.

Da via Senato un segno d’acqua costante di 2 metri sempre sul versante interno, interrotto solamente dagli incroci e dai passi carrai e accompagnato dalla pista ciclabile conduce lungo la cerchia a valorizzare con fontane e giochi d’acqua gli edifici della Ca’ Granda (l’Università Statale) e i complessi monastici di via Santa Sofia. Prima dell’ultima rilevante stazione (la Darsena) una diramazione del nuovo canale si congiunge con la Vettabia che ha un suo passato navigabile, come per altro segnala il suo etimo: “vectabilis” e cioè trasportabile e quindi navigabile.

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Una navigabilità finita nel 1100 come testimonia il cronista milanese di allora, Landolfo Seniore. In realtà la Vettabia, oggi ridimensionata dal disuso, fu in epoca romana la prima via navigabile con la sua immissione nel Lambro e di qui nel Po. L’interesse di questo tratto sta nel delicato equilibrio che deve presiedere il passaggio tra canale urbano e fiume nel territorio agricolo e cioè in un contesto più specificatamente naturale. Un complesso storico monumentale di assoluto valore può essere messo a sistema in un progetto unitario che collega Darsena, Parco delle Basiliche, Arena Romana, la Conca e Porta Ticinese. La Darsena è il fulcro del progetto: l’interramento di via Gabriele D’Annunzio (conservando due corsie una per senso di marcia e molti dei parcheggi esistenti bordo strada) regala decine di metri al Water–Front che passa nella sua estensione massima nei pressi di Piazza XXIV Maggio dai trenta metri originari ai cinquanta del progetto.

Figura 21 La Darsena e il sistema dei parchi.

Lungo la sistemazione a verde della Darsena tre pietre miliari: il Museo dei navigli in Piazza Cantore, proteso verso il canale, la piazza panoramica alla confluenza con via Ronzoni che simbolicamente rappresenta con la grande fontana l’immissione di acque vive provenienti dalla Conca storica “ riaperta” di Viarenna, la Piazza XXIV Maggio che diventa grande isola pedonale (attraversata solo dagli storici tram che fanno ormai parte del paesaggio del luogo) e che si allarga sino a comprendere un anfiteatro rivolto verso l’acqua. Completano il progetto, un ponte pedonale che consente di attraversare il naviglio in corrispondenza del complesso dei Marinai d’Italia, spalti per le manifestazioni sull’acqua

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sulla sponda di via Gorizia e un imbarcadero per la navigazione collettiva, una banchina per piccole imbarcazioni, una piazza per traguardare l’imbocco del Naviglio Grande, la trasformazione del vecchio mercato comunale in mercato multietnico organizzato seguendo la già consolidata vocazione spontanea del luogo.

Figura 22 La Darsena – prospettive e suggestioni.

Il progetto rielabora alcuni dei concetti e delle idee già presenti nel Piano Particolareggiato adottato dal Comune di Milano il 25 settembre del 1989 degli Arch. P. Marabelli , C. Casolo e C. Fontana. In questo modo, non retorico, Milano può forse riconciliarsi con le acque che ha negato e dimenticato insieme alla sua storia. Condizione essenziale è riconoscere la fine della città industriale e ragionare sul destino di questa metropoli disorientata a partire da una tranquilla accettazione di un ruolo diverso che per esempio ne esalti le possibilità di fruizione da parte dei city user dati per scontati il permanere e lo svilupparsi dei fattori di eccellenza della città (ricerca, cultura, università, design, moda, finanza). Tutto ciò è possibile se diminuisce il traffico e l’inquinamento, se passeggiare torna possibile, se la visione della città migliora sensibilmente, attraverso segni architettonici e urbanistici che vadano in questa direzione. Il segno più forte di discontinuità che riesco a immaginare rispetto alle dominanti tendenze sviluppiste e quantitative è proprio l’irruzione dei valori naturali nella città guidati e catalizzati dalla ri-scoperta dell’acqua. Se poi il ritorno dei valori naturali portasse anche a una riconciliazione dei milanesi con l’idea di abitare in città, invertendo una tendenza che ha fatto perdere alla città circa mezzo milione di abitanti in trent’anni, allora davvero si potrebbe parlare con una certa tranquillità di un rilancio vero di Milano e della sua area urbana.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI BELTRAME GIANNI, Un paesaggio regolato e modellato dalle acque, in BELTRAME GIANNI, Il Parco Agricolo Sud Milano, Arienti & Maccarini Editore, Montacuto 2000. BIGATTI GIORGIO, Un “Paese basso e pieno di canali”, in ANGILERI VINCENZO, Le vie d’acqua: rogge, navigli e canali, Electa, Milano 2000. CHIERICHETTI ARNALDO, Itinerario nostalgico alla riscoperta del Naviglio, Ottica Chierichetti, Milano 1974. COMOLLI MARCO, La cancellazione dei Navigli: declino di un’affabilità urbana, Theoria, Roma 1994. CORDANI ROBERTA, I Navigli da Milano lungo i canali: la bellezza nell’arte e nel paesaggio, Edizioni CELIP, Milano 2002. D’ANGELO PAOLO, Morte e resurrezione del paesaggio, “Parametro”, 245, Edizioni C.E.L.I., Faenza 2003. FANTONI GIULIANA, L’acqua a Milano: uso e gestione nel basso medioevo (1385-1535), Cappelli Editore, Bologna 1990. GIOVANETTI QUINTO, I maestri della pittura. La Milano di Giovanetti, Euroarte, Roma 1982. Il Mondo nuovo. Milano 1890-1915, catalogo della mostra, Palazzo Reale Milano, 10 novembre 2002-28 febbraio 2003, Electa, Milano 2002. LEENHARDT JACQUES, Note sul recupero dei terreni minerari abbandonati della Germania Orientale, “Parametro”, 245, Edizioni C.E.L.I., Faenza 2003. MALARA EMPIO, Milano e Navigli: un parco lineare tra il Ticino e l’Adda, Di Baio Editore, Milano 1990. NEGRI GIORGIO G., Comprendere il paesaggio: studi sulla pianura lombarda, Electa, Milano 1998. “Parametro”, n. 245, Mutazioni del paesaggio, Edizioni C.E.L.I., Faenza 2003. PIFFERI ENZO, Milano. I Navigli come erano, Enzo Pifferi Editore, Como 2000. PIFFERI ENZO, Navigli di Milano, Enzo Pifferi Editore, Como 2002. RASIO ROMANO, La terra e le acque, Electa, Milano 1999. REGGIANI FERMO, Avventure di Fiumi e Navigli milanesi e lombardi, Arti Grafiche Vaj, Milano 1987. SALVI ANNA, FAVA FRANCO, I Navigli del milanese, Libreria Meravigli Editrice, Milano 2001. SCARPARI TOMMASO, La grammatica dell’acqua: tecnologie non convenzionali per uno sviluppo locale autosostenibile, Editoriale DAEST, Venezia 1999. TURRI EUGENIO, Molti e complessi paesaggi della pianura lombarda, in NEGRI GIORGIO G., Comprendere il paesaggio: studi sulla pianura lombarda, Electa, Milano 1998. VERGANI ORIO, Addio, vecchia Milano!, Silvana Editoriale d’arte, Milano 1958.

RIFERIMENTI ICONOGRAFICI Figura 1: Foto di Eugenio Turri. Figura 2: Foto di Gianni Berengo Gardin. Figura 4: Collezione privata Silbernagl. Figura 5: Civica Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, Torino. Figura 6: Foto di Piero e Rosy Orlandi. Figura 7, 8, 18, 19, 20, 21 e 22: Progetto Coordinato CNR “Esaltazione delle risorse idriche come valori della nuova qualità urbana e rete delle aree verdi e pedonali”, responsabile Antonello Boatti. Figura 9: COLLETER Y., Rue Eau de Robec. Strada pedonale a Rouen, “AU rivista dell’arredo urbano”, 24, 1988, pag. 143.

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Figura 14: Civico Archivio Fotografico del Castello Sforzesco, Milano. Figura 15: Collezione Mario Comincini. Figura 17: Civico Archivio Fotografico del Castello Sforzesco, Milano.

* Politecnico di Milano Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purchè sia correttamente citata la fonte.

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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio anno1 - numero 0 - luglio–dicembre 2003 Firenze University Press

CORONA VERDE: UN SISTEMA DI PARCHI PER L’AREA METROPOLITANA TORINESE Francesca Bagliani*, Ermanno De Biaggi**

1. L’ORIGINE DEL CONCETTO DI “SISTEMA” DI PARCHI IN AREA URBANA TRA OTTOCENTO E NOVECENTO

A partire dalla seconda metà dell’Ottocento il tema del verde diventa un elemento centrale nell’ambito delle trasformazioni urbane. In tutta Europa si avviano grandi processi di espansione, che obbligano le amministrazioni municipali e i governi a confrontarsi con i temi progettuali legati all’ampliamento delle città. La demolizione delle mura, che inizia già per molte città europee durante la prima metà del XIX secolo, permette la libera espansione della struttura urbana e dunque una riorganizzazione globale in vista di un miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie, di quelle legate al traffico, delle infrastrutture, dell’edilizia, eccetera. L’apporto delle differenti discipline scientifiche - la statistica, le inchieste sulla mortalità, i progressi in campo scientifico - ha un peso sempre più rilevante nell’Ottocento per la risoluzione dei problemi legati all’espansione urbana. Le prime teorizzazioni sulla pianificazione urbana danno un valore di grande centralità al tema del verde: esso diventa un elemento del “piano” e assume funzioni specifiche legate sia ai canoni estetici dell’abbellimento, sia a quelli funzionali per il miglioramento delle condizioni di igiene pubblica. Parchi e giardini assumono un ruolo definito e si collocano con precisione nell’insieme delle altre tematiche progettuali legate all’espansione della città: già materia dei paesaggisti e dei cultori dell’arte dei giardini, il verde urbano diventa anche materia trattata e discussa dagli urbanisti, cioè dai nuovi protagonisti e specialisti delle trasformazioni urbane. Nell’ambito delle trasformazioni della seconda metà del XIX secolo, assume sempre più importanza la necessità di creare un “sistema” vegetale: la creazione, cioè, di un insieme di spazi verdi, con diverse dimensioni e diverse funzioni (dai grandi parchi urbani e suburbani, ai giardini, alle piazze alberate, e infine ai viali) fra loro collegati e interrelati. I concetti di equidistanza e di distribuzione omogenea diventano il punto centrale delle nuove teorie urbane e delle politiche di trasformazione: si concretizza così la necessità di creare una rete di spazi verdi per rispondere alle esigenze igienico-sanitarie delle città sovraffollate e ai bisogni sociali di svago e loisir. Con sempre maggiore enfasi il diciannovesimo secolo vede, a seguito dei grandi fenomeni sociali ed economici dovuti alla rivoluzione industriale, la necessità d’inserire programmaticamente nella gestione e nella progettazione della città, spazi e luoghi destinati esclusivamente ai parchi e giardini pubblici. Ecco che, a fronte di un’inedita complessità gestionale della città, estetica e funzionalità assumono spesso valori antitetici, anche nella definizione del verde urbano. In ambito europeo tutta la seconda metà dell’Ottocento è fortemente influenzata dall’esperienza di trasformazione urbana e dalla realizzazione del complesso sistema del verde pubblico, attuato a Parigi durante il Secondo Impero. Nella capitale francese si compie uno dei fenomeni più interessanti e complessi della storia urbana ottocentesca: i Grands Travaux per un riassetto complessivo della città, promossi da Napoleone III, gestiti e attuati dal prefetto barone Georges Eugène Haussmann tra gli anni 1850 e 1860. Tali iniziative

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urbane legittimano quelle ristrutturazioni e quei rinnovamenti del verde quali complessi valori interagenti con la vita della città: per la prima volta in Europa, un piano globale comprende la possibilità di operare a grande scala un rinnovamento urbano fondato sull’introduzione sistematica della vegetazione e sull’organizzazione “capillare” di spazi verdi, passeggi e giardini. Non più interventi sporadici o isolati per la costruzione di un giardino o di un parco (come era avvenuto nella prima metà dell’Ottocento in molte città inglesi, come Londra, Manchester, eccetera), ma una revisione sistematica nell’approccio programmatico. Jean-Charles Adolphe Alphand, braccio destro del prefetto Haussmann nella gestione dei lavori di trasformazione di Parigi come direttore della sezione dei lavori pubblici del Service des Promenades et Plantations de la Ville de Paris, diventa il protagonista e l’interprete principale della creazione degli spazi verdi parigini. L’insieme delle realizzazioni è molto complesso e si pone come obiettivo la distribuzione “omogenea” del verde in città, come è espresso nelle parole di Haussmann nelle sue Mémoires.1 Il nuovo programma comprende un complesso e variegato insieme di passeggiate, viali e giardini classificati per tipologie differenti: i grandi boschi suburbani attrezzati, situati ai limiti della città e sistemati con gusto paesaggistico; i parchi e i giardini urbani; gli squares; le piazze alberate; i boulevards. La sistematizzazione della costruzione di viali nel tessuto della città, a un livello inedito per le metropoli europee, si accompagna ai complessi progetti eclettici di parchi urbani e suburbani.2 L’albero comincia a strutturare fortemente lo spazio urbano, e proprio perché uniformemente distribuito su tutto il tessuto, trasforma la città in un ininterrotto passeggio pubblico. Ogni strada, larga almeno 26 metri, viene dotata di due filari di alberi per formare tre corsie di cui quella centrale carrozzabile e le altre due pedonali. Queste strade diventano le strade verdi di collegamento fra i parchi e i giardini della città. Il verde viene considerato come rete, come infrastruttura al quale si sovrappone un piano globale di verde pubblico. Parallelamente negli Stati Uniti con le esperienze progettuali di Law Frederich Olmsted, viene progressivamente consolidandosi il concetto del park-system ovvero di sistema di parchi intorno alla città fra loro collegati, di una cintura verde ininterrotta. Uno degli esempi più importanti è il progetto di un sistema di parchi attorno alla città di Boston collegato fra loro da strade-passeggio, in un anello ininterrotto di verde metropolitano. Il concetto di sistema di verde urbano viene successivamente teorizzato da alcuni trattatisti tedeschi che danno avvio alla pubblicazione dei primi manuali di progettazione urbana. Uno fra i più noti è Hermann Joseph Stübben, considerato dalla critica uno dei primi e più importanti urbanisti di fine Ottocento in Germania, che nel suo Der Städtebau, Handbuch der Architektur, pubblicato per la prima volta a Darmstad nel 1890 (e successivamente nel 1907 e nel 1924), dedica numerose pagine al tema del verde urbano, considerandolo uno dei temi principali della pianificazione della città. L’individuazione di numerose tipologie di verde, divise in verde ornamentale (viali e piazze) e verde sanitario (parchi e giardini) è accompagnato dall’analisi di alcuni schemi interpretativi di sviluppo del verde pubblico rispetto alla struttura urbana: vengono messi a confronto, in particolare quello di Eberstadt, Möhring e Petersen, con quello dell’inglese Mawson e con quello di Brix, volti ad individuare la porzione di superficie da destinare a verde pubblico su grande scala, un esempio in fieri di zonizzazione, valutato sulla quantità parziale rispetto a quella globale. Camillo Sitte, noto cultore di arte urbana, contemporeano di Stübben, afferma nel suo celebre saggio Der Städtebau nach seine Künstlerischen Gründsatzen. Ein Beitrag zur Lösung moderner Fragen der Architektur und monumentalen Plastik unter besonderer Beziehung auf Wien, pubblicato a Vienna nel 1889: «I giardini pubblici dovranno essere 1 Cfr. Mémoires du baron Haussmann: I. Avant l’Hôtel de Ville; II. Préfecture de la Seine; III. Grands travaux de Paris, Havard, Paris 1890-1893 (riedito: tomo 3 Grands Travaux de Paris, Guy Durier, Paris 1979). 2 Cfr. Pierre Pinon, Le système végétal, in Jean Des Cars, Pierre Pinon, Paris-Haussmann. “Le pari d’Haussmann”, Picard Editeur, Paris, pp. 162-165; Fraçoise Choay, La nature urbanisée, in Jean Dethier, Alain Guiheux (a cura di), La ville, art et architecture en Europe, 1870-1993, Éditions du Centre Pompidou, Paris 1993, pagg. 61-66.

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posti, per quanto possibile, a distanze uguali e per le ragioni prima indicate non dovrebbero fiancheggiare le strade. Sarebbe meglio, invece, che fossero circondati da case e che avessero due o tre porte per l’accesso, architettate in armonia con l’ambiente. In tal modo i giardini saranno protetti al massimo e si darà maggior valore alle facciate, anche se allineate. Si otterrà così la miglior garanzia contro la crescita del sistema a blocchi»3, sistema che pianificava tutti gli elementi della città attraverso una rigida maglia ortogonale. Inoltre lo sviluppo sistematico dei giardini chiusi, all’interno di isolati, avrebbe evitato il problema dell’effetto schermante degli alberi, e favorito la costruzione di cortili interni molto larghi, in opposizione alla fitta maglia del sistema a blocchi. L’unico beneficio reale per migliorare la salute dei cittadini era, secondo Sitte, quello di offrire spazi di natura “incontaminata”, lontani dai “mali” della città (traffico, rumore, ma soprattutto polvere), concentrati all’interno di grandi corti riparate. La sua Grosstadt-Grün era dunque organizzata secondo un verde di tipo funzionale realizzato con parchi e giardini fra loro equidistanti in modo da realizzare un vero e proprio sistema di verde urbano.4 Nei primi anni del Novecento uno dei contributi teorici più significativi sul concetto di “sistema” di spazi verdi è quello definito da Jean-Claude Nicolas Forestier (1861-1930) considerato uno dei principali protagonisti dell’urbanistica francese all’inizio del Novecento, conservatore del Service des Promenades et Plantations de la ville de Paris, fino al 1927. Il contributo teorico più importante di Forestier sul tema del verde urbano è il saggio scritto nel 1905, e pubblicato successivamente nel 1908 a Parigi, dal titolo Grandes villes et systèmes de parcs. Forestier manifesta un’approfondita e appassionata conoscenza dei progetti e delle realizzazioni d’oltreoceano (in America) e una profonda ammirazione per l’invenzione del Park-system, messo in atto per la prima volta a Boston, negli Stati Uniti da F. L. Olmsted. L’analisi comparativa fra città americane, inglesi, tedesche e francesi sottende una cultura molto vasta e scientificamente approfondita, frutto della lettura di riviste, saggi e giornali in un continuo aggiornamento sui temi di progettazione del verde urbano. Grandes villes et systèmes de parcs è un testo teorico che, a partire da esempi concreti di pianificazione urbana avanzata, propone un progetto non solo sulla città entro i suoi confini amministrativi, ma su tutta l’agglomerazione urbana, compresi i comuni limitrofi, e i territori posti all’intorno. Forestier propone dunque un salto di scala dirompente con i modelli tradizionali di pianificazione, che mira a conservare il più possibile terreni liberi intorno alla città da destinare alla creazione di grandi riserve verdi, sottraendoli alla speculazione fondiaria. La sua proposta consiste nella creazione di un vero e proprio sistema di parchi, gerarchicamente differenziati e ordinati, collegati fra loro da parkways o avenuepromenades, che assumono nel suo pensiero una funzione e un’importanza preponderanti. Già Eugène Hénard, architetto e urbanista francese contemporaneo di Forestier, prevedeva la possibilità di un collegamento panoramico e piacevolmente percorribile fra i diversi parchi urbani, situati omogeneamente sul territorio in modo equidistante. Si trattava tuttavia di una possibilità facoltativa.5 Ben diverso è l’approccio di Forestier che teorizza un sistema analogo a quello americano, dove una gestione a livello “regionale” e un’avanzata politica di previsione dell’espansione futura delle città, porta all’attuazione dei cosiddetti park-system. 2. CORONA VERDE NELL’AMBITO DELLA POLITICA DELLE CINTURE VERDI IN ITALIA E ALL’ESTERO Il serrato confronto tra esiti progettuali e riflessioni teoriche ha lentamente portato tra Ottocento e Novecento alla formazione dell’urbanistica, finalizzata alla gestione e alla 3

Camillo Sitte, L’arte di costruire le città. L’urbanistica secondo i suoi fondamenti artistici, note a cura di Daniel Wieczorek, Jaca Book, Milano 1996, p.164. 4 Camillo Sitte, Grosstadt-Grün, in “Der Lotse, Hamburgische Wochenschrift für deutsche Kultur”, I, 1900, pagg. 139-146 e pagg. 225-232. 5 Cfr. Eugène Hénard, Études sur les transformations de Paris, fascicule 3: Les grands espaces libres. Les parcs et jardins de Paris et de Londres, Paris 1903

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progettazione delle città. Le esperienze di pianificazione urbana e territoriale delle metropoli europee e americane, nella proposizione di green-belts, costituiscono punti di riferimento e modelli attuati di volta in volta secondo approcci e opzioni differenti. Uno delle esperienze europee più importanti e complesse è sicuramente quella della Green Belt di Londra, ampia fascia verde attorno alla città nata per contenere lo sviluppo dell’agglomerato urbano e per tutelare ampie porzioni di terreno ad uso agricolo: l’espansione urbana si sarebbe concentrata oltre i limiti della green belt nelle cosiddette new towns. Processo lungo e complesso nato già in seno alle politiche di pianificazione degli anni venti sostenute da Raymond Unnwin, la formazione di questa fascia verde è diventata nodo strategico del Greater London Plan di Patrick Abercombrie nel dopoguerra (1944-1945), attraverso un processo di pianificazione a livello sovracomunale e attraverso l’istituzione di questo nuovo strumento di controllo urbanistico. Altre esperienze europee come quella della cintura verde di Parigi o di alcune città tedesche, nonché la stessa proposta della Corona Verde intorno a Torino, nascono successivamente negli anni settanta, sull’onda dei pesanti esiti del boom economico del dopoguerra, nell’ambito di una ormai forte e consolidata coscienza dei problemi legati alla qualità ambientale. La Cinture Verte di Parigi rappresenta il tentativo da parte delle politiche di pianificazione comunali e regionali di creare un’ampia fascia verde attorno alla metropoli in grado di valorizzare e consolidare le reti ecologiche esistenti e di fornire un vero e proprio sistema metropolitano di spazi verdi per la fruizione pubblica. Nell’esperienza tedesca diventa importante, come nel caso della GrünGürtel di Francoforte promossa alla fine degli anni ottanta, il sistema della progettazione “partecipata”, dove la popolazione assume un ruolo di primo piano nell’indicazione di necessità riguardanti i servizi, lo sviluppo sostenibile e le istanze sociali e ambientali. Obiettivo principale della GrünGürtel è la realizzazione di una serie parchi suburbani attorno alla città e la promozione di una riqualificazione ecologica di ampie porzioni di territorio. Anche in Italia a partire dagli anni ottanta del XX secolo alcune città hanno dato avvio a politiche di tutela del territorio metropolitano con la creazione di fasce verdi peri-urbane. Città come Milano, Roma, Torino, Pavia, Ravenna ecc. sono esempi importanti di greenway metropolitane finalizzate alla salvaguardia del territorio da un punto di vista paesaggistico, ambientale ed ecologico e alla creazione di un sistema di spazi verdi e di parchi fruibili e collegati fra loro da percorsi pedonali e ciclabili. Il parco agricolo nord di Milano, la Greenway di Pavia e il sistema di parchi per Ravenna 2000 sono esempi concreti di politiche comunali e sovracomunali per la riqualificazione ambientale delle zone periferiche e , il risanamento e la valorizzazione delle aree naturali e la corretta fruibilità degli spazi pubblici. Il progetto Corona Verde della Regione Piemonte s’inserisce nell’ambito di questo complesso sistema di politiche. 3. IL PROGETTO CORONA VERDE NELL’AREA METROPOLITANA TORINESE Il progetto Corona Verde rappresenta un processo di pianificazione del territorio metropolitano della città di Torino, inserito nell’ambito delle politiche comunali e sovracomunali che mirano alla costituzione di un sistema integrato del verde, di una green belt attorno all’area metropolitana con doppia funzionalità: creare una continuità delle reti ecologiche esistenti, con una generale riqualificazione e valorizzazione del territorio circostante, e creare un sistema di aree verdi fra loro connesse utilizzabili a fini ricreativi. In particolare il progetto Corona Verde s’inserisce in un contesto ambientale e territoriale particolarmente complesso, ricco di stratificazioni storiche. E’ possibile individuare un sistema di beni architettonici e ambientali che valorizzano e strutturano il territorio circostante.

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3.1 IL SISTEMA DELLE RESIDENZE SABAUDE L’idea di una “corona verde” attorno alla città risale già al XVI secolo, quando lo spostamento della capitale sabauda da Chambery a Torino, innescò immediatamente un processo di acquisizione fondiaria dei possedimenti attorno alla città da parte dei duchi sabaudi per assicurarsi il controllo e la gestione diretta del territorio in senso assolutistico. Per due secoli tra fine Cinquecento e fine Settecento venne realizzata quella che è stata definita la “Corona di Delizie” ossia quel sistema di residenze extraurbane di loisir, rivolte principalmente alle attività venatorie della famiglia regnante e della corte. Tale complesso ha costituito per secoli e costituisce ancora oggi il principale sistema di beni architettonici e ambientali dell’area metropolitana torinese. Ampie estensioni di foreste e boschi venivano definite per tracciare le rotte di caccia e ampie porzioni di territorio venivano investite da ambiziosi progetti di arte dei giardini. Ricordiamo fra questi i complessi di Miraflores (ormai scomparso), del Regio Parco, e della più tarda Venaria Reale (seconda metà del Seicento), firmata dall’architetto ducale Amedeo di Castellamonte; le realizzazioni di tipo fluviale, il castello del Valentino, e di tipo collinare, le vigne ducali quali l’attuale villa della Regina e villa Abegg, i castelli riconvertiti in residenze di loisir quali Moncalieri e Rivoli. Nel Settecento venne promossa la realizzazione di grandi complessi fra cui la Palazzina di Caccia di Stupinigi, con la relativa organizzazione del territorio circostante.6 Tale insieme di residenze e di possedimenti ha costituito un sistema vero e proprio, sul quale si è strutturata la pianificazione del territorio intorno alla città di Torino: i collegamenti fra la città e le residenze erano spesso realizzati attraverso lunghi viali alberati, che costituiscono ancora oggi gli assi principali della rete stradale metropolitana di Torino. I giardini ducali e reali di gusto formale e paesaggistico, realizzati fra il XVI e il XIX secolo costituiscono un patrimonio unico, che richiede oggi un’attenta politica di salvaguardia e conservazione. Il sistema delle Residenze Sabaude e la sua valorizzazione costituisce uno degli obiettivi delle politiche della Regione Piemonte e rientra in modo generale nel progetto Corona Verde. 3.2 IL SISTEMA DELLE AREE PROTETTE INTORNO ALLA CITTÀ DI TORINO La Regione Piemonte ha avviato a partire dal 1975 una politica di salvaguardia del territorio, con l’istituzione di un sistema di aree protette con l’approvazione della prima legge-quadro regionale in materia di parchi e riserve naturali. Il principio di tale politica è stato quello di considerare le aree protette come una parte del processo complessivo di pianificazione territoriale, non prescindendo dunque dalle altre politiche di gestione del territorio nel suo complesso. Seguendo tali indicazioni la Regione Piemonte è riuscita a realizzare sul proprio territorio un vero e proprio sistema di aree naturali protette che attualmente ammontano a 56, classificate come regionali, oltre a due parchi nazionali e ad un parco provinciale. Si tratta di una situazione consolidata che ancor oggi è portata ad esempio a livello nazionale per il grado di efficacia e di efficienza. Undici di queste aree protette sono comprese all’interno del progetto Corona Verde: la riserva naturale orientata della Vauda, l’area attrezzata del ponte del Diavolo, la zona di salvaguardia della Stura di Lanzo, il Parco Regionale “La Mandria”, la riserva naturale integrale della Madonna della Neve sul monte Lera, la riserva naturale speciale del bosco del Vaj, il parco naturale dei laghi di Avigliana, l’area attrezzata della collina di Rivoli, il parco naturale della collina di Superga, il parco naturale di Stupinigi, il sistema delle aree protette della fascia fluviale del Po. Oltre alle aree protette istituite con la legge del 1975 esistono altre aree naturali tutelate attraverso una legge regionale del 3 aprile 1995, “Norme per la tutela dei biotopi”. 6

Per il sistema della Corona di Delizie cfr. Vera Comoli Mandracci, Torino, Laterza, Bari-Roma 1983; Id., La città-capitale e la «corona di delitie», in Michela Di Macco, Giovanni Romano (a cura di), Diana trionfatrice. Arte di Corte nel Piemonte dei Seicento, catalogo della mostra, Allemandi, Torino 1989, pagg. 304-347; Costanza Roggero Bardelli, Maria Grazia Vinardi, Vittorio Defabiani, Ville Sabaude- Piemonte 2, Rusconi, Milano 1990.

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Nell’ambito del progetto Corona Verde ne sono state definite cinque: il bosco del Vaj e il bosco Grand, Moncuni, i laghi di Casellette, il Monte Musiné e la Maculinea telesius proposto dalla provincia di Torino. I biotopi definiti nell’ambito della provincia di Torino ricadono interamente all’interno delle aree naturali protette regionali: la confluenza del Po-Orco-Malone, la collina di Superga, Spupinigi, i laghi di Avigliana, la Madonna della Neve sul Monte Lera, La Mandria, la Stura di Lanzo. Tali biotopi sono stati proposti, attraverso il Decreto del Ministro dell’Ambiente del 3 aprile 2000, come Siti d’Interesse Comunitario (SIC) in applicazione alla direttiva “Habitat” 92/43/CEE (con esclusione di quello contrassegnato con il numero 2 che è stato individuato come SIR, Sito di Importanza Regionale: il loro riconoscimento da parte dell’Unione Europea comporta l’inserimento nella Rete Natura 2000, programma di tutela del territorio europeo che dovrà concretizzarsi entro l’anno 2004). All’interno dell’area di Corona Verde sono state individuate anche tre ZPS (Zone di Protezione Speciale) che confluiranno anch’esse nella Rete Natura 2000: la confluenza PoOrco-Malone (già proposta come SIC), il Meisino e i Laghi di Avigliana. Il sistema del verde dell’area metropolitana di Torino è poi completata da numerosi parchi urbani che sono stati realizzati negli anni dalle diverse amministrazioni. Di grande interesse è il progetto “Torino Città d’Acque”, progetto di coordinamento di tutti i parchi pubblici della città di Torino, gestito dal Settore Verde Pubblico del Comune di Torino. 3.3 IL PROGETTO CORONA VERDE NEGLI ANNI NOVANTA Il progetto “Corona Verde” è nato nell’ambito delle politiche regionali negli anni ottanta. Nel 1997, gli Enti di Gestione di alcune aree protette della regione Piemonte hanno predisposto e hanno adottato un documento programmatico, nel quale si proponeva di collegare tra loro le diverse aree protette regionali esistenti in Torino e attorno a Torino, integrando le rispettive politiche di gestione e di tutela. Le aree protette – parte del complessivo territorio dell’area metropolitana torinese – rappresentavano un elemento decisivo per sviluppare una politica territoriale ambientalmente compatibile. Tale consapevolezza si poteva concretizzare con una relazione continua e reciproca con il territorio circostante. E in tal senso risultava decisivo il sistema, la rete di relazioni e di corridoi ecologici da conservare e valorizzare, nonché la qualità ambientale complessiva e il recupero delle accessibilità. Nell’ambito della frammentarietà amministrativa tra le diverse realtà comunali dell’area metropolitana, il progetto Corona Verde si è configurato come la proposta di un modello di gestione unitario, e di uso consapevole, equilibrato e compatibile del territorio e del paesaggio. Le politiche di tutela delle aree protette acquisiscono senso e prospettiva, solamente all’interno di un confronto con le scelte che interessano i territori circostanti. La riqualificazione ambientale, naturalistica, culturale e ricreativa dell’Area metropolitana torinese, che assume un ruolo prioritario e strategico nei programmi delle Istituzioni competenti per il miglioramento della qualità della vita urbana e per le ricadute economiche che ne possono conseguire, è diventato l’obiettivo principale del progetto Corona Verde. 3.4 LA POLITICA REGIONALE La Regione Piemonte ha approvato, nel marzo 2000, un documento programmatico per il progetto Corona Verde, finalizzato a sviluppare la proposta progettuale e culturale del Comitato Promotore del progetto, coordinato dall’Ente di Gestione del Parco fluviale del Po – tratto torinese. L’importanza di questa iniziativa per l’Area metropolitana torinese è di grande centralità: l’ambizioso obiettivo di progettare, definire e ricostruire un sistema di relazioni (culturale, ecologico, infrastrutturale e di servizi) efficiente rispetto ai temi di riqualificazione ambientale, urbana e territoriale, di recupero dell’accessibilità e della fruizione è complesso, e risulta perseguibile solamente nell’ambito di una azione coordinata ed integrata di tutti i 6


soggetti pubblici e privati. I programmi e le previsioni di piano delle istituzioni variamente interessate possono trovare adeguata concretizzazione e armonizzazione, nel contesto del Progetto Corona Verde. Sempre nel 2000, la Regione Piemonte ha affidato all’istituto Finpiemonte, (Ente strumentale della Regione Piemonte, che già opera per la realizzazione del progetto di restauro del recupero del complesso della Venaria Reale e del Borgo Castello della Mandria e per la predisposizione dello Studio di fattibilità del Circuito delle Residenze Sabaude) la predisposizione di uno Studio di Fattibilità del Progetto, completato nel maggio 2001, finalizzato, attraverso un complesso sistema di analisi a livello ambientale e territoriale, a individuare le linee guida di sviluppo del progetto Corona Verde. Recentemente, il progetto Corona Verde, come misura specifica a titolarità regionale, rientra tra gli obiettivi strategici perseguiti dalla Regione Piemonte nell’ambito del Documento Unico di Programmazione (DOCUP, misura 3.1.b), con un finanziamento di 12.500.000 euro, entro l’anno 2006. 3.5 I LUOGHI Nel contesto del Progetto Corona Verde assumono, pertanto, un’importanza fondamentale le esistenti aree protette regionali (il Parco della Mandria e la fascia fluviale della Stura di Lanzo, il Parco fluviale del Po e la fascia fluviale del torrente Sangone, il Parco naturale dei laghi di Avigliana e della Collina torinese, il Parco delle Vaude, la Riserva del Bosco del Vaj), la rete dei biotopi e dei siti di interesse comunitario, le aree verdi gestite dalle amministrazioni comunali e provinciale ed i loro progetti di recupero e di riqualificazione ambientale (in primo luogo, il progetto “Torino Città d’acque”, dell’amministrazione comunale torinese), aree e monumenti di particolare rilievo storico-culturale, le iniziative di inquadramento e recupero storico-paesaggistico legate alle politiche degli ecomusei, alla bonifica delle aree degradate e al recupero delle fasce fluviali. Un ruolo strategico assumono il sistema delle fasce fluviali - le aree lungo i corsi d’acqua (Po, Stura di Lanzo, Dora Riparia, Sangone, Chisola, Orco e Malone) – il reticolo idrografico minore, i sistemi della Collina di Torino e della Collina morenica di Rivoli e Avigliana. L’attività agricola, ancora presente, ha ampiamente strutturato questi territori ed è tuttora elemento e strumento di lettura e di salvaguardia dal degrado e dalla indifferenziazione connessa con l’espansione delle periferie e con l’infrastrutturazione. Sono tasselli fondamentali, per il recupero di una soddisfacente qualità ambientale ed urbana, gli stessi territori marginali, interstiziali e non costruiti (talora degradati e considerati residuali). All’interno dell’area interessata si sviluppa il Sistema delle Residenze Sabaude, a cui sono o erano collegate aree a parco o giardini. Si trovano centri storici, edifici religiosi, monumenti, beni documentari (solo apparentemente “minori”), qualificanti elementi di paesaggio. Numerosi, talora invasivi, gli elementi di criticità. Forti i rischi di frammentazione. 3.6 L’AREA DI RIFERIMENTO Il territorio del Progetto Corona Verde può essere individuato sulla base di alcuni riferimenti di carattere morfologico, ecosistemico, territoriale e culturale. Tra gli elementi prioritari la rete delle connessioni ecologiche, il reticolo idrografico (ivi compreso il reticolo idrografico minore), le aree protette regionali ed i biotopi dell’area metropolitana torinese, il paesaggio agricolo, il circuito delle Residenze Sabaude. I criteri di carattere amministrativo sono subordinati ai precedenti. Il “perimetro” del Progetto Corona Verde comprende: l’area attrezzata del Ponte del Diavolo (Lanzo) e della Piana di Germagnano; l’area protetta regionale della Vauda ed il Rio delle Moglisse; il tratto di pianura del torrente Orco; il centro urbano di Chivasso e le adiacenti aree agricole; l’area protetta del bosco del Vaj e l’adiacente biotopo; la collina torinese, da Casalborgone a Santena; il territorio di Chieri; il torrente Banna; il corso del torrente Chisola, la dorsale dal Monte San Giorgio (Piossasco) fino a Lanzo Torinese, attraverso la Sagra di San Michele ed il Musinè. L’area interessata comprende, in tutto o in parte, il territorio di circa 80 comuni. 7


Elenco comuni in “Obiettivo 2” (soggetti direttamente al finanziamento della misura 3.1.b): Almese, Alpignano, Avigliana, Beinasco, Borgaro Torinese, Brandizzo, Bruino, Buttigliera Alta, Candiolo, Caselette, Castagneto Po, Castiglione Torinese, Chiavasso, Collegno, Cruento, Foglizzo, Gassino Torinese, Rivoletto, Grugliasco, La Loggia, Leinì, Moncalieri (l’intero territorio comunale con esclusione dell’area collinare residenziale confinante con i comuni di Torino, Pecetto, Trofarello, il fiume Po, e delimitata da strada Moriondo, strada Revigliasco, via Cavour, Stazione ferroviaria), Montanaro, Nichelino, Orbassano, Pecetto Torinese, Pianezza, Piobesi Torinese, Piossasco, Reano, Rivalta di Torino, Rivoli, Rosta, San Benigno Canadese, San Gillio, San Mauro Torinese, San Raffaele Cimena, Sangano, Settimo Torinese, Torino (solo quattro quartieri: Mirafiori Sud, Rebaudengo-Falchera-Villaretto, Madonna di Campagna-Lanzo, Regio Parco-Barca-Bertolla), Trana, Trofarello, Val della Torre, Venaria Reale, Villarbasse, Vinovo, Volpino. Elenco comuni “Phasing out” (non soggetti direttamente al finanziamento della misura 3.1.b): Balangero, Baldissero Torinese, Bosconero, Cafasse, Cambiano, Caselle Torinese, Chieri, Cirié, Favria, Feletto, Fiano, Front, Germagnano, Grosso, La Cassa, Lanzo Torinese, Lombardore, Mathi, Moncalieri (parziale), Nole, None, Pavarolo, Pino Torinese, Rivarolo Canadese, Rivarossa, Robassomero, San Carlo Canadese, San Francesco al Campo, San Maurizio Canadese, Santena, Scalenghe, Torino (solo le circoscrizioni 4,5,6,10 e i quartieri Nizza Millefonti, San Salvario, ValdoccoAurora, Rossini, San Paolo), Vallo Torinese, Varicella, Vauda Canadese, Villanova Canadese, Volvera. 4. LO STUDIO DI FATTIBILITÀ Il lavoro si è concentrato sull’identificazione e sull’analisi di una serie di zone riconosciute come aree di completamento della rete ecologica dell’area metropolitana torinese ad elevato pregio naturalistico e ambientale, da affiancare alle Aree Protette e a quel sistema di parchi urbani, compresi nel progetto “Torino, città d’Acque”, coordinato dal Comune di Torino. Tali realtà costituiscono il binomio di pianificazione e di programmazione sul quale Corona Verde fonda le sue linee strategiche e la sua operatività. Definito il valore naturalistico delle nuove aree, è stato studiato il grado di connessione esistente fra i vari ambiti individuati. Una parte consistente del lavoro si è concentrato sull’analisi e sullo studio dei sistemi fluviali e delle acque metropolitane per la ricostruzione della rete ecologica: recupero e riutilizzo delle fasce fluviali e delle aree golenali, accessibilità e percorribilità degli argini e delle sponde, rinaturalizzazione, allontanamento delle attività improprie. La componente agricola ha costituito un’altra parte importante dello studio nell’individuazione delle situazioni agricole esistenti, con la valutazione dell’efficienza ecologica della componente agricola in termini di biodiversità, la valutazione del ruolo del paesaggio agrario nella stabilità ambientale, la valutazione di potenziali fattori di pressione, delle continuità territoriali e delle componenti paesaggistiche con carattere di persistenza. Sono state inoltre individuate le permanenze colturali e i sistemi colturali tradizionali. Lo studio ha prodotto una classificazione degli agroecosistemi attraverso la definizione di fattori di pressione-interferenza. La qualità ambientale e l’uso del suolo hanno poi costituito la fase successiva dello studio di fattibilità. L’analisi del sistema delle accessibilità, anche in rapporto alle emergenze architettoniche e monumentali distribuite sul territorio metropolitano, ha costituito la parte finale dello studio per definire un insieme di proposte progettuali in grado di sostenere il modello della “Greenway” nella città di Torino. Il disegno della Corona Verde dovrebbe rappresentare il quadro strategico all’interno del quale si collocano le azioni volte a rendere i collegamenti più efficaci e a rispondere alla domanda potenziale. Tali analisi sono supportate dallo studio e dal confronto con tutte quelle azioni progettuali in corso nell’area metropolitana di Torino, prima fra tutte l’ambizioso progetto “Torino, città d’acque”, che coordina tutti i progetti di parchi e giardini attualmente in corso nel comune di Torino. 8


Gli interventi di riqualificazione valutati dallo Studio di Fattibilità sono stimati per circa 1000 miliardi in 10 anni. 4.1 OPZIONI DI FONDO E ATTENZIONI PROGETTUALI Opzioni di fondo del progetto Corona Verde sono la conservazione e la ricomposizione di una rete, di un sistema di connessioni e di corridoi ecologici; il mantenimento, la conservazione e la riqualificazione delle aree verdi esistenti; la riconversione di aree dismesse e degradate; la realizzazione di un nuovo paesaggio e di nuovi spazi di fruizione, nell’ambito di una valorizzazione generale in termini naturalistici e culturali dell’area metropolitana torinese. Queste opzioni sono richiamate nei provvedimenti che riguardano la misura a titolarità regionale “Corona Verde”: • Promozione di progetti coordinati di riqualificazione ambientale e paesaggistica del territorio metropolitano, rivolti in particolare ad aree marginali e interstiziali, non costruite, spesso considerate elementi residuali ma, in quanto parti integranti del paesaggio urbano, fondamentali per il recupero di una qualità urbana soddisfacente • Promozione di progetti di riconnessione ecologica del territorio, ricostituendo corridoi ecologici e ampliando o istituendo nuove aree protette. Recupero di modalità di uso del territorio e attività tradizionali, riorganizzando spazi e paesaggi agricoli • Miglioramento della rete delle infrastrutture e della viabilità, (quali per esempio sentieri e percorsi ciclopedonali, sentieri collinari, aree attrezzate per la sosta, strutture per l’agriturismo) • Potenziamento di strutture per l’ospitalità “dolce” e il sistema dei servizi, anche nell’ambito di una rifunzionalizzazione del patrimonio immobiliare esistente • Promozione della conoscenza dei valori naturali, storici e culturali delle aree interessate, focalizzati innanzitutto sull’estesa rete di residenze reali extraurbane, costruite dai Savoia a partire dal XVII secolo, e fortemente caratterizzanti l’area metropolitana torinese, sia nei sistemi di accesso sul territorio, sia nelle sistemazioni a parco e a giardino realizzate ai limiti delle residenze, quali luoghi di loisir e di caccia. • Definizione di un’identità politica, amministrativa e culturale del Progetto Corona Verde (con l’individuazione di opzioni, strategie e azioni) attraverso la ricerca di un modello gestionale condiviso, attento alle caratteristiche del territorio e alle potenzialità progettuali. • Creazione di un sistema di regole, norme e procedure comuni e condivise, omogeneizzando il sistema di gestione dei progetti in corso. Coordinamento dei diversi strumenti urbanistici regionali e comunali, e i progetti nei diversi ambiti d’intervento. L’attenzione progettuale riguarda inoltre una rete di piste ciclabili, percorsi pedonali, aree attrezzate e sportive, punti di ristoro e di servizio all’interno di una fascia verde riqualificata paesaggisticamente e naturalisticamente, di corridoi ecologici che connettono siti e centri storici, residenze reali, testimonianze di architettura rurale, di archeologia idraulica, aree di particolare interesse naturalistico ed aree protette, costruendo relazioni interne alla città e tra la città ed il territorio circostante. Risulta molto importante la riqualificazione del sistema delle Residenze Sabaude, dei parchi e dei giardini a esse connessi, sviluppando approcci di educazione e informazione incentrati su temi naturalistici e ambientali, in modo da fornire una risposta di qualità alla domanda di mobilità legata allo svago e al tempo libero. Corona Verde costituisce un approccio nuovo, testimone della tendenza che non riconosce più nel trasporto motorizzato l’unica risposta all’esigenza di mobilità del cittadino e cerca nuove soluzioni in linea con gli obiettivi di “Agenda 21” e della “Carta di Ålborg” per lo sviluppo sostenibile della città.

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4.2 STRATEGIE Le strategie attraverso le quali perseguire gli obiettivi sopra descritti possono essere definite attraverso l’azione sul territorio e sulla gestione. Sul territorio: • Si tratta innanzitutto di creare interventi “modello”, promuovendo processi di trasformazione “di lunga durata”, capaci di indurre trasformazioni “a catena” sul territorio e processi di sviluppo economico sociale, e capaci di costruire un’identità specifica del Progetto Corona Verde, in grado di influenzare le successive fasi di attuazione del processo e garantire la qualità e la finalità degli interventi. • Creare un sistema a rete di corridoi ecologici, definendo opportune e specifiche pianificazioni per queste aree di maggiore pregio, anche attraverso un sistema normativo specifico. • Attivare processi di sviluppo economico sul territorio, legati a progetti di riqualificazione ambientale, curandone le ricadute in termini di miglioramento della qualità ambientale diffusa, attraverso la creazione di posti di lavoro e sviluppo di imprenditorialità giovanile, diffusione di modelli culturali. • Avviare processi di riqualificazione del territorio e del paesaggio rurale, attraverso il recupero di antiche modalità di uso del suolo e di attività tradizionali. Sulla gestione: • Creare le strutture di coordinamento del Progetto Corona Verde: il coordinamento a carattere “politico” (Regione Piemonte, Provincia di Torino, Città di Torino, Ente di Gestione Parco fluviale del Po); la Conferenza delle amministrazioni locali, eventualmente articolata per aree a carattere omogeneo, di ampiezza più limitata; un coordinamento di carattere amministrativo ed un coordinamento di carattere tecnico. • Definire strutture per la gestione di ambiti di particolare significato strategico per il raggiungimento degli obiettivi di Corona Verde. • Coordinare i progetti e i programmi di riqualificazione avviati nell’ambito del Progetto Corona Verde; coordinare le amministrazioni e gli Enti coinvolti (soggetti pubblici), attraverso una puntuale e sistematica informazione e attraverso momenti di compartecipazione per tutti gli enti pubblici coinvolti. • Creare momenti di sintesi e di confronto scientifico, attraverso l’organizzazione di Forum e di convegni nazionali e internazionali. • Rapportarsi ad altre iniziative e ad altri enti che stanno avviando e gestendo attività di conoscenza e di trasformazione sul territorio dell’area metropolitana torinese: Torino Internazionale, Torino 2006, Agenda XXI, Circuito Residenze Sabaude, Progetto AMT dell’Autorità di Bacino. • Garantire la compatibilità tra gli strumenti della pianificazione comunale e di settore con gli obiettivi, le strategie e le finalità di Corona Verde. • Avviare la gestione dei finanziamenti a titolarità regionale, di cui alla Misura 3.1.b del DOCUP. • Avviare processi di trasformazione coordinati ad altre misure contenute nel DOCUP (misure 3.1.a, 3.2., 3.3. e 2.5), costituendo accordi di programma per cofinanziamenti con la misura 3.1.b. • Avviare procedure di co-finanziamento con l’utilizzo di altri fondi, su iniziative di matrice diversa, al fine di incrementare la realizzazione dei progetti promossi da Corona Verde. 4.3 STRUTTURA DI GESTIONE Tali ambiziosi obiettivi possono essere ottenuti attraverso la definizione di un soggetto istituzionale con una specifica identità politica e amministrativa che garantisca la partecipazione dei numerosi soggetti già operanti nell’area della Corona Verde, la rapidità e

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l’autorevolezza decisionale, in considerazione della complessità del tessuto territoriale e istituzionale. Sulla base di queste considerazioni è stato pertanto previsto un “Comitato per la Corona Verde” con compiti di coordinamento delle iniziative, di confronto, di indirizzo e di vigilanza. Di questo Comitato fanno parte la Regione Piemonte, la Provincia di Torino, il Comune di Torino e il Parco Fluviale del Po – tratto torinese. Il Comitato deve garantire la realizzazione dei progetti legati a Corona Verde in stretto collegamento con le attività della Commissione Regionale per le Residenze e le Collezioni Sabaude. Avrà anche il compito di proporre le attività attraverso Accordi di Programma, di attivare iniziative di comunicazione e di valorizzazione, di costruire un sistema comune e integrato di servizi, di valutare i progetti, di individuare partner istituzionali e finanziari anche privati. Tale Comitato è direttamente collegato alla Conferenza degli Enti Locali, costituita da tutte le strutture amministrative dei comuni partecipanti al progetto. Il Comitato per la sua attività si avvarrà anche di una struttura amministrativa (di cui faranno parte i diversi soggetti coinvolti) e di una struttura tecnico-operativa, con funzioni anche di supporto alle istituzioni locali che, alle dirette dipendenze del Presidente della Giunta Regionale, gestirà l’attuazione dei progetti. La struttura potrà avvalersi di un ufficio di supporto tecnico, operativo e progettuale intergrato con quello già costituito per la gestione del progetto di restauro e valorizzazione della Reggia della Venaria Reale e del Borgo Castello della Mandria. La proposta di un modello gestionale ha previsto l’analisi di alcuni modelli fra cui la costituzione di un’Agenzia Regionale o di una Authority, per attuare la migliore soluzione nella gestione complessiva del processo Corona Verde. Deve esser uno strumento di gestione capace di garantire e assicurare: la partecipazione e l’adesione della molteplicità dei soggetti operanti nell’area; una rapida operatività che consenta di prendere decisioni rapide ed efficaci; un’autorevolezza dal punto di vista istituzionale; una flessibilità, considerate le differenti attività necessarie sia nella fase di costruzione del progetto sia in quella di gestione. 4.5 QUADRO DI RIFERIMENTO Il quadro normativo di riferimento del progetto Corona Verde è costituito da una serie di strumenti di pianificazione territoriale e comunale, coordinati e gestiti dai differenti Enti pubblici di riferimento. Il Piano Territoriale Regionale approvato con D.C.R. n. 388-9126 del 19 giungo 1997 individua una serie di aree di elevata qualità ambientale e paesistica nell’area metropolitana di Torino: le zone della Collina di Torino, la Collina di Rivoli e il Castello con i giardini reali della Venaria e di Druento, destinati a pianificazione paesistica di competenza regionale, tramite la redazione di piani paesistici. Inoltre riconosce la funzione essenziale che può essere svolta nel sistema territoriale dal tessuto agricolo, con riferimento ai suoli ad eccellente e buona produttività che costituiscono elementi connettivi tra le varie emergenze naturali e possono essere nodi di ricucitura del tessuto territoriale. Inoltre individua il valore storico-culturale di alcuni edifici e complessi architettonici, fra cui le residenze sabaude (Castello del Valentino, Villa della Regina, Reggia della Venaria Reale, Palazzina di Caccia di Stupinigi ecc.) e alcune emergenze quali la Basilica di Superga. Definisce il ruolo di valorizzazione e connessione del paesaggio e dell’ambiente svolto dai corsi d’acqua. Il Piano territoriale della Provincia di Torino, predisposto con Deliberazione del Consiglio Provinciale n. 621-71253 del 7 aprile 1999, costituisce un elaborato molto importante in relazione alla fattibilità del Progetto “Corona Verde” con riferimento specifico all’assetto naturalistico e paesistico del territorio: individua e norma le proposte di parchi o riserve naturali promossi dalla Provincia, i biotopi individuati ai sensi dell’articolo 4 della L.R. 47/95, le aree di pregio ambientale e paesistico, le aree di approfondimento con specifica

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valenza paesistica e le aree di pregio ambientale individuate negli strumenti urbanistici comunali. I Piani d’area delle aree naturali protette hanno valore di piano paesistico o piano urbanistico e sostituiscono i piani paesistici e i piani territoriali o urbanistici di qualsiasi livello. Si tratta pertanto di norme che attribuiscono cogenza ai contenuti dei Piani di area e che ne stabiliscono una particolare forza, proprio in quanto sostitutivi di ogni altra previsione urbanistica, territoriale o paesistica da qualsiasi livello istituzionale approvata. Ad oggi risultano approvati solo due Piani d’Area di aree protette compresi nel progetto Corona Verde: quello del parco Regionale della Mandria e quello del Sistema delle aree protette della fascia Fluviale del Po. I Piani Naturalistici sono strumenti di pianificazione che tendono a valorizzare il patrimonio naturalistico delle aree protette. La maggior parte delle aree protette comprese in Corona Verde non sono dotate di questo strumento. Esistono i piani regolatori generali comunali e tutte quella serie di strumenti di pianificazione a livello comunale che gestiscono la trasformazione di determinate aree. Nell’area metropolitana torinese esiste infatti una complessa serie di progettualità in corso con cui il progetto Corona Verde deve confrontarsi e relazionarsi. 4.6 LE CRITICITÀ E GLI AMBITI D’INTERVENTO Un controllo specifico degli strumenti di pianificazione in area metropolitana dovrebbe essere garantito dalla Provincia di Torino che, attraverso un monitoraggio generale dei diversi livelli di pianificazione, delle norme, delle procedure esistenti e degli avanzamenti in ambito progettuale, diventa il contesto entro il quale operare e direzionare le scelte d’intervento. A partire dalle opzioni di fondo, è stato possibile individuare più specificamente alcuni ambiti d’intervento, definiti come criticità sulle quali costruire dei progetti di recupero e di riqualificazione: 1. Degrado del sistema idrico- la mancanza d’acqua 2. La riqualificazione delle aree sulle quali sono localizzati i rottamatori 3. Degrado delle aree di attività estrattive 4. Degrado delle fasce fluviali 5. Degrado del sistema idrico: derivazioni e regimazioni 6. Degrado urbano della periferia: le aree interstiziali 7. Dequalificazione di strade, aree pubbliche e private 8. Degrado degli orti urbani 9. Invadenza della cartellonistica pubblicitaria 10. Impatto paesaggistico delle grandi infrastrutture 11. Ex-aree industriali: i vuoti urbani 12. Grandi impianti tecnologici 13. Impianti ad elevato impatto ambientale 14. Discariche 15. Grandi aree da bonificare 16. Disgregarsi del tradizionale tessuto degli insediamenti agricoli 17. Abbandono e dequalificazione dei beni culturali 18. Eccessiva e disordinata fruizione dei beni ambientali 19. Il kitsch La scelta degli ambiti d’intervento è ancora in fase di definizione, ma sicuramente sarà rivolta verso quelle progettualità in corso e verso quelle volontà di pianificazione sulle quali il progetto Corona Verde potrà trovare un inserimento adeguato, nel completamento di azioni già avviate e sostenute dagli enti locali. I numerosi progetti avviati dal Comune di Torino e dai comuni limitrofi per la valorizzazione del territorio saranno punti di partenza per sviluppare il progetto Corona Verde, che nell’ambito di questa prima fase di finanziamento, intende promuovere progetti “modello” 12


capaci di avviare una trasformazione “di lunga durata”, inducendo trasformazioni “a catena” sul territorio e processi di sviluppo economico sociale, in grado di influenzare le successive fasi di attuazione del processo e garantire la qualità e la finalità degli interventi individuati corrispondono a quelle aree dove esistono già delle strutturate progettualità in corso e dove il progetto “Corona Verde” si può inserire nel completare azioni già sostenute e promosse dagli enti locali o dove ci sia l’interesse specifico avviare una determinata progettualità sostenuta dai gruppo politici. In particolare le aree dove si potrebbe intervenire sono le aste fluviali nonché l’area a ovest di Torino compresa fra i comuni di Grugnisco, Beinasco, Collegno, Rivoli, eccetera. Gli ambiti d’intervento più importanti riguarderanno sicuramente le aste fluviali e i territori limitrofi; un’area dove saranno concentrati progetti d finanziamenti per promuovere una valorizzazione del territorio è quella compresa nei comuni di Grugliasco, Collegno, Rivoli, Beinasco e Rivalta. Un altro tema di grande interesse è quello degli orti urbani e della riorganizzazione di spazi da coltivazione, utili alla collettività, sapientemente organizzati e gestiti. 5. AMPLIAMENTO DELLE AREE PROTETTE REGIONALI Una delle prime azioni avviate all’interno del progetto Corona Verde, è stata il completamento del sistema delle aree protette regionali, già di per sé costituenti un importante operazione di tutela ambientale, ma necessario tuttavia di un completamento per garantire la valorizzazione di tutte quelle aree naturali potenzialmente valorizzabili. Si tratta di limitate integrazioni, fra le quali ricordiamo: ampliamento della riserva naturale speciale della Confluenza dell’Orco e del Malone, ricadente all’interno del sistema delle aree protette della fascia fluviale del Po; ampliamento della riserva naturale speciale del Bosco del Vaj; ampliamento del parco naturale della collina di Superga; collegamento tra il parco naturale dei Laghi di Avigliana e l’Area attrezzata della Collina di Rivoli attraverso una Zona di salvaguardia della Collina morenica di Rivoli; ampliamento del pre-parco del parco Regionale La Mandria e della Zona di salvaguardia della Stura di lanzo per quanto riguarda la fascia fluviale della Stura di Lanzo; costituzione di un sistema di connessione di parchi urbani lungo la Dora Riparia. Sono anche previste tre aree provinciali, di cui soltanto una (Monte san Giorgio di Piossasco) ricompressa nella Corona Verde e le altre due (Tre Denti del Freidour e Colle del Lys) ai margini della stessa, ma importanti ai fini della connessione della Corona Verde con il territorio circostante.

BIBLIOGRAFIA BORIANI MAURIZIO E SCAZZOSI LIONELLA (a cura di), Natura e architettura. La conservazione del patrimonio paesistico, Città Studi, Milano 1992. DI FIDIO MARIO, Architettura del paesaggio, Pirola Editore, Milano 1993 FERRARESI GIORGIO E ROSSI ANNA, Il parco come cura e coltura del territorio. Un percorso di ricerca sull’ipotesi del parco agricolo, Grafo, Brescia 1993. “Folia”, inserto di Acer, n. 1, Speciale Ravenna, Verde editoriale, Milano 1998, pagg. 43-58. LITTLEWOOD CLARE, La greenway della battaglia di Pavia, in “Architettura del Paesaggio”, n. 5, Alinea, Firenze 2000, pagg. 38-45.

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FINPIEMONTE, Studio di fattibilità, Progetto Corona Verde, Torino 2001. “Folia”, inserto di Acer, n. 6, Speciale Corona Verde, Torino Città d’Acque, Verde editoriale, Milano 2001, pagg. 4-16

*Politecnico di Torino **Regione Piemonte Copyright degli autori. Ne è consentito l’uso purchè sia correttamente citata la fonte

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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio anno1 - numero 0 - luglio–dicembre 2003 Firenze University Press Politecnico di Torino Scuola di Specializzazione in Storia, Analisi e Valutazione dei Beni Architettonici e Ambientali Dottorato di Ricerca in Storia e Critica dei Beni Architettonici e Ambientali Dottorato di Ricerca in Pianificazione Territoriale e Sviluppo Locale Giornate di studio Patrimonio culturale e territorialità 16-17 aprile 2002 Claudia Cassatella*

IL “PATRIMONIO

DELL’UMANITÀ” E UNA POSSIBILE TERRITORIALITÀ A SCALA PLANETARIA

Prendendo spunto dalla ricorrenza del ventennale della Convenzione sulla protezione del patrimonio mondiale culturale e naturale, mi propongo di riflettere intorno al concetto di “Patrimonio dell’Umanità”, e sulla possibile forma di territorialità che esso sottintende – sembrerebbe trattarsi di una territorialità a scala planetaria, quella dell’Uomo abitante del pianeta, quindi quella di qualsiasi uomo, o forse invece solo dell’uomo “abitante del mondo”. Farò riferimento alla teoria di Claude Raffestin sul ciclo della territorialità e ad alcune teorie riguardanti la globalizzazione, traendone alcune ipotesi riguardo al tema del paesaggio, con riferimento alla Convenzione Europea. L’espressione “Patrimonio dell’Umanità”, come noto, è quella usata dall’Unesco nella Convenzione sulla protezione del patrimonio mondiale culturale e naturale (Parigi, 16 novembre 1972), della quale citiamo alcune motivazioni: “Considerando che il degrado e la sparizione di un bene del patrimonio culturale e naturale costituisce un impoverimento nefasto del patrimonio di tutti i popoli del mondo (…) beni unici ed insostituibili a qualsiasi popolo essi appartengano (…) Considerando che alcuni beni del patrimonio culturale e naturale presentano un interesse eccezionale che richiede la loro conservazione come parte del patrimonio mondiale di tutta l’umanità (…)” eccetera. Possiamo già sottolineare una sorta di ossimoro tra il concetto di patrimonio, che implica il possesso da parte di qualcuno e l’esclusione dal possesso di tutti gli altri, e la pretesa universalità di questo possesso, fondata su un’ipotetica universalità di valori (i quali, al momento, sono condivisi almeno dai 153 paesi aderenti alla Convenzione). Il valore del patrimonio sta nel rappresentare un’identità locale, ma gli si riconosce valore universale. Il patrimonio culturale ha un ruolo fondamentale nei processi di territorializzazione, in quanto fattore di costruzione dell’identità locale: si appartiene ad una comunità in quanto si condivide un patrimonio, quello ereditato dagli antenati (che si suppongono idealmente comuni). Questa è l’ipotesi teorica di coincidenza di luogo, cultura e identità, l’ipotesi di un’identità locale sostanzialmente chiusa e autoreferenziale, e di un senso del luogo basato

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sull’appartenenza al luogo stesso, sul radicamento1. Questa identità locale chiusa è proprio basata sull’esclusione dell’alterità e degli altri, ad esempio dal possesso di un certo patrimonio culturale e materiale che loro non appartiene per tradizione (la tradizione è un fattore essenziale perché sposta l’origine dell’identità indietro nel tempo, in un momento quindi intangibile2). Nell’epoca attuale e nei nostri contesti è sempre più difficile far riferimento a comunità radicate, legittimi possessori - per tradizione ed eredità - del loro patrimonio. Cresce la comunità degli “sradicati”, che hanno qualche legame con il patrimonio delle loro origini e interagiscono con un patrimonio diverso. Oltre al caso dei migranti per i più diversi motivi, c’è il caso dell’élite cosmopolita (gli “abitanti del mondo” con i mezzi per frequentarlo). Il caso più emblematico è comunque quello della diaspora, ossia di gente che non ha, neppure volendo, un luogo di origine a cui tornare3. I commentatori della Postmodernità (o della Tarda Modernità) parlano di nomadismo. Vorrei proporre delle riflessioni sull’ipotesi, analizzata da geografi e sociologi soprattutto anglosassoni4, che stiano emergendo forme di territorialità che fanno riferimento ad una scala sovralocale5, ad una rete di luoghi, fino, per usare le parole di Doreen Massey, all’emergere di un possibile Global Sense of Place6, che mi sembra interessante ai fini delle politiche sul patrimonio. Farò riferimento soprattutto ai saggi contenuti nel volume a cura di Doreen Massey e Pat Jess, tradotto lo scorso anno da UTET con il titolo Luoghi, culture e globalizzazione, tentando di incrociare la teoria di Raffestin sul ciclo della territorialità. Il locale può avere diverse scale: come spiega Raffestin a proposito della territorialità umana, ci si può sentire abitanti di una stanza, di un luogo, di un’intera nazione, il tutto contemporaneamente. La dialettica fondamentale tra locale e globale7 ha origine dall’Ego hic et nunc8. Quando intervengono elementi turbativi, ad una fase di deterritorializzazione subentra una nuova riterritorializzazione. Se consideriamo la globalizzazione come fattore turbativo9 si possono osservare due tipi di reazioni: - da un lato la chiusura, la costruzione di “identità armate”10, che utilizza il patrimonio per una riscoperta delle radici che è spesso una vera invenzione (pensiamo ad esempio alla Padania); - dall’altro la costruzione di comunità legate a luoghi non predeterminati, non subiti come quelli dei padri, ma piuttosto scelti11, luoghi cui si sceglie di appartenere12 e di cui si sceglie di aver cura13. 1

Cfr. Rose (1995 (2001)) per i possibili rapporti tra luogo e identità (es. identificarsi con il luogo, identificarsi contro un luogo, non identificarsi). 2 “Pensare a se stesso come “inglese” o “britannico” è porsi inevitabilmente entro una serie di significati che hanno una lunga storia e continuità. Le culture antidatano l’individuo” (Hall 1995 (2001): 146). 3 Hall usa l’immagine della diaspora come altri quella del nomadismo (ad es. Deleuze e Guattari ed i loro interpreti): “Essi rappresentano tipi nuovi di identità – nuovi modi di “essere qualcuno” – nel mondo tardomoderno.” (Hall 1995 (2001): 181). 4 Cfr. Massey and Jess, 1995, anche per una rassegna di altri autori. 5 “E’ anche possibile provare un senso del luogo su scala sovranazionale. (…) Infine si può provare un senso del luogo su scala globale.” (Rose 1995 (2001): 70-71). 6 Cfr. le riflessioni di Dematteis 2000. 7 “Il locale e il globale si costituiscono l’un l’altro (…)” (Massey e Jess 1995 (2001): 199). 8 “Tutto ha origine con il “regere fines” dell’“Io” o del “Noi”, cioè la proiezione dello spazio concreto o astratto di una informazione “giusta” di cui l’Io e/o il Noi sono portatori. L’insieme dei confini definisce, inquadra, distingue una interiorità caratterizzata da un contenuto” (Raffestin 1986: 85). 9 “Si può parlare della nozione di ciclo della territorialità non soltanto a piccola, ma anche a grande scala” (Raffestin 1986: 87). 10 Remotti, 1996. 11 Rochefort ha parlato di passaggio dalla “territorializzazione-destino” alla “riterritorializzazione-aspirazione” (Rochefort 1986). 12 Cfr le riflessioni di Castelnovi sull’“abitante di ritorno” (Castelnovi 1996, 2000) 13 Cfr Daniela Poli tratteggia la figura del care taker, colui che si prende cura dei luoghi, superamento delle classiche figure dell’insider e dell’outsider.

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Molti hanno osservato che i riferimenti territoriali della vita di ognuno si sono reticolarizzati: i luoghi di residenza, di lavoro, di vacanza, i luoghi “di famiglia”, i luoghi frequentati per relazioni di amicizia, possono non coincidere e cambiare nel corso della vita molto più che in passato, quando accadeva che un solo luogo racchiudesse tutte le relazioni di un’esistenza14. La mia ipotesi è che proprio questa reticolarizzazione, e lo sradicamento di una quota crescente di popolazione, favorisca lo svilupparsi di una sorta di territorialità “aperta”15. Una prova mi sembra il fatto che sempre più persone sono disposte ad impegnarsi attivamente per la difesa di luoghi in cui non metteranno mai piede, ad esempio l’Amazzonia, proprio in base ad un senso di comune appartenenza al pianeta (il concetto di comunità umana da cui nasce quello di patrimonio mondiale). Le stesse persone possono partecipare a gruppi interessati a problematiche strettamente locali, ad esempio la difesa di un’area verde o simili. Si può notare inoltre che spesso le battaglie per problemi locali vengono condotte ponendole come simbolo di problematiche generali, per cercare l’appoggio della comunità globale. A questo punto interessa capire se il patrimonio, che è nato “di qualcuno”, può essere il patrimonio “di tutti”. Per quanto fin qui detto, sembrerebbe di poter descrivere le cose in questo modo: la fase di deterritorializzazione è una fase in cui il patrimonio non è più di nessuno, ed allora può essere di tutti16. Mi pare che si possa ricondurre a quest’ipotesi la teoria di Raffestin a proposito del paesaggio: il paesaggio per lo sguardo contemporaneo sarebbe solo la memoria di una territorialità scomparsa17. Il fine del mio discorso è sottolineare che il concetto di “patrimonio culturale dell’umanità” è una costruzione (il patrimonio è sempre una costruzione) che implica la scelta di adottare elementi di alterità (anziché di escluderli, come avviene invece nella costruzione di identità chiuse) per condividerli tra persone che proprio nel fare ciò si costituiscono come comunità (comunità umana, comunità internazionale, élite colta, eccetera). La comunità internazionale colta e cosmopolita ha eletto i propri luoghi: sono i siti “patrimonio dell’umanità”, e sono i più diversi, ciascuno rappresentando le più diverse forme di civiltà e di paesaggio naturale. Il processo di costruzione dell’identità europea sta utilizzando lo stesso schema simbolico: quello dell’identità fatta di diversità18. L’esempio migliore mi pare provenire dalla Convenzione Europea del Paesaggio (Firenze, 20 ottobre 2000), che si propone la tutela di quel particolare patrimonio, culturale e naturale insieme, fatto tanto di materiali che di pratiche, che è il paesaggio. Il paesaggio, come spiega Raffestin, è la rappresentazione del territorio (Raffestin 2000). Esso è spesso usato come rappresentazione simbolica di identità locali19, ad esempio di identità nazionali, ma altrettanto spesso come simbolo di valori universali (ad esempio come immagine di iniziative sovralocali, a volte con l’opposizione o il disinteresse dei locali). “L’uomo abita veramente il territorio soltanto se ne ha prodotto una rappresentazione paesaggistica”, afferma Raffestin (2000: 31). E’ estremamente significativo, a mio parere, che il Consiglio d’Europa individui proprio la diversità dei paesaggi come elemento

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Cfr ancora Castelnovi e Dematteis in Castelnovi 2000. Cfr. Cassatella 2001. 16 Esistono inoltre anche casi in cui proprio chi possiede un patrimonio non lo riconosce più, il più drammatico è certo quello delle statue di Buddha recentemente abbattute in Afganistan. 17 “ Si può dire che il paesaggio nasce, per lo sguardo contemporaneo, quando la territorialià che ha creato il territorio si trasforma e non è più vivente nel mondo rurale o industriale. Il paesaggio è il prodotto mentale dello spostamento nel tempo dei resti di un territorio abbandonato” (Raffestin 2000: 28). 18 Sulla costruzione dell’identità europea, parallelamente a processi di deterritorializzazione, cfr. Rose 1995. 19 Gillian Rose fornisce alcuni casi interessanti di paesaggio usato in chiave nazionalistica – ad es. quadri come Mr and Mrs Andrews (1748, Thomas Gainsborough) in cui una coppia di possidenti è rappresentata nella cornice di un classico paesaggio inglese, simbolo dell’Englishness, cui i nazionalisti irlandesi opposero i paesaggi aspri della costa occidentale come simbolo dell’Irishness - e di cambiamenti di significato di queste immagini (Rose 1995). 15

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identificativo del patrimonio europeo20. Il paesaggio è una costruzione simbolica, e così l’identità, e mi sembra di buon auspicio che, di fronte a fenomeni di globalizzazione, tra unificazioni, divisioni e segregazioni, la riterritorializzazione in atto sembri andare nella direzione della costruzione di un’identità fondata sulla condivisione di un patrimonio di differenze, un’identità meticcia e aperta21. Se si possano trarre conclusioni ai fini della gestione di questo patrimonio mi pare questione nient’affatto banale. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI CASSATELLA CLAUDIA, Iperpaesaggi, Testo&Immagine, Torino 2001. Castelnovi Paolo, “Alla ricerca delle strutture del patrimonio e dell’environnement”, in Recomposition des territoires des Alpes Occidentales, Atti del Premier Séminaire Transfrontalier de la Vallée d’Aoste, St.Oyen, 18-19 ottobre 1996. Castelnovi Paolo (a cura di), “Il senso del paesaggio”, Atti del Seminario internazionale, Torino, 8-9 maggio 1998, Istituto di Ricerche Economico-Sociali del Piemonte, Torino, 2000. Castelnovi Paolo, “Il valore del paesaggio”, Relazione introduttiva in Il valore del paesaggio, Contributi al Seminario internazionale, Torino, 9 giugno 2000, pagg. 5-21. Consiglio d’Europa, Convenzione Europea del paesaggio, Firenze, 20 ottobre 2000. Council of Europe, UNEP, ECNC, The Pan-European Biological and Landscape Diversity Strategy, Tilburg, The Netherlands, European Centre for Nature Conservation, 1996. Dematteis Giuseppe, “Il senso comune del paesaggio come risorsa progettuale” in Castelnovi 2000, pagg. 259-261. Hall Stuart, “Culture nuove in cambio di culture vecchie” in Massey & Jess, 1995 (ed. it. 2000), pagg. 145-180. MASSEY DOREEN e JESS PAT, A place in the World? Places, Cultures and Globalization, The Open University Press, Cambridge 1995; ed. it. a cura di Elena Dell’Agnese, Luoghi, culture e globalizzazione, UTET Libreria, Torino 2001. Poli Daniela, “Il cartografo-biografo come attore della rappresentazione dello spazio in comune” in Castelnovi 2000, pagg. 205-214. Raffestin Claude, “Punti di riferimento per una teoria della territorialità umana” in Clara Copeta (a cura di), Esistere e abitare. Prospettive umanistiche nella geografia francofona, Franco Angeli, Milano 1986, pagg. 75-89. Raffestin Claude, “Il paesaggio introvabile” in Paolo Castelnovi (a cura di), Il valore del paesaggio, Contributi al Seminario internazionale, Torino, 9 giugno 2000, pagg. 25-36. REMOTTI FRANCESCO, Contro l’identità, Laterza, Roma/ Bari 1996 (20002).

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“La diversità e la qualità dei valori culturali e naturali legati ai paesaggi europei costituiscono un patrimonio comune degli Stati europei, elemento che li obbliga a definire insieme i mezzi atti a garantire in modo concertato la tutela di tali valori” (Consiglio d’Europa, 2000, Relazione esplicativa della Convenzione Europea del Paesaggio). Nel testo della Convenzione: “Consapevoli del fatto che il paesaggio concorre all’elaborazione delle culture locali e rappresenta una componente fondamentale del patrimonio culturale e naturale dell’Europa, contribuendo così al benessere e alla soddisfazione degli esseri umani e al consolidamento dell’identità europea; (…) Riconoscendo che la qualità e la diversità dei paesaggi europei costituisce una risorsa comune per la cui salvaguardia, gestione e pianificazione occorre cooperare; [eccetera]” (Consiglio d’Europa). E’ previsto che ogni stato identifichi i propri paesaggi e li valuti “tenendo conto dei valori specifici che sono loro attribuiti dai soggetti e dalle popolazioni interessate”. La prima motivazione dell’estensione delle politiche paesistiche promossa dalla Convenzione è il fatto che il paesaggio costituisce “l’ambito di vita” dei cittadini europei. Essa fa quindi riferimento ad una territorialità piuttosto radicata, “locale”, ed ammetto che la mia interpretazione nella direzione del “senso globale del paesaggio” è leggermente forzata. 21 L’antropologo Francesco Remotti ha dedicato il suo saggio Contro l’identità (Bari, Laterza, 1996) al rapporto tra identità e alterità, e alla dimostrazione del fatto che l’identità è inscindibile dall’alterità.

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Rochefort Renée, “Luoghi per gli uomini” in Clara Copeta (a cura di), Esistere e abitare. Prospettive umanistiche nella geografia francofona, Franco Angeli, Milano 1986, pagg. 261271. Rose Gillian, “Luogo e identità: un senso del luogo” in Massey & Jess, 1995 (ed. it. 2000), pagg. 65-96. Unesco (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura), Convenzione sulla protezione del patrimonio mondiale culturale e naturale, Parigi, 16 novembre 1972. *Dottorato di ricerca in Progettazione paesistica Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purchè sia correttamente citata la fonte

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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio anno1 - numero 0 - luglio–dicembre 2003 Firenze University Press LA CAMPAGNA ROMANA DA HACKERT A BALLA Alessandra Cazzola *

Nella mostra “La Campagna Romana da Hackert a Balla”1 vengono esposte più di un centinaio di opere pittoriche e scultoree (ottenute da musei italiani e stranieri, così come da collezioni private) attraverso le quali viene documentato sotto diverse sfaccettature il significato che la Campagna Romana ha avuto nella cultura europea ed italiana a partire dall’ultimo quarto del ‘700 fino agli inizi del ‘900. La Campagna Romana appare ai protagonisti del Gran Tour come la terra della solitudine e del silenzio: paludi, prati con orizzonti segnati dal dolce profilo di colline, ampie distese disabitate punteggiate da ruderi di acquedotti e torri, catene montuose fitte di boschi, di forre inaccessibili, burroni scoscesi. Il territorio rappresentato in pittura è quello che circondava Roma estendendosi a nord fino a Civitavecchia, il Monte Soratte e la riva destra del Tevere; a sud arrivava fino a Terracina lungo il litorale; nella fascia interna andava dai monti Tiburtini ai Monti Lepini e ai Monti Ausoni. Era anche una campagna che entrava dentro la città con orti e vigne che occupavano, sino a un recente passato, ampie porzioni all’interno delle mura. La mostra è strutturata come un racconto e si divide in capitoli, corrispondenti alle sale dell’esposizione. Il primo capitolo è quello della città che diventa campagna e viceversa, con una sorta di dissolvenza incrociata: le molte ville, costruite dai cardinali e dalle famiglie patrizie durante i secoli precedenti nella campagna intorno a Roma, non sono state ancora cancellate dalla speculazione edilizia e il territorio urbano recintato dalle Mura Aureliane non è ancora completamente saturo di abitanti. Natura e storia si integrano nella metropoli, così come nei quadri esposti. In epoca neoclassica, ad esempio, François Keiserman confonde la veduta di Roma con quella dell’Agro, ponendosi sulla cima di Monte Mario, e il grande pittore romantico Jean Baptiste Camille Corot, sempre da Monte Mario, costruisce la scena con blocchi di luce impastati di colore ritraendo ponte Milvio e il territorio della Campagna Romana completamente desolato alle sue spalle, con i monti Cornicolani all’orizzonte. Anche Diego Angeli, in diverse piccole vedute, riprende vari angoli di Roma nei quali si alternano elementi storici e della città (cupole, tempietti, case, …) con altri della campagna (covoni di fieno, forre, contadini, …). Finisce, però, presto questo felice equilibrio tra storia e natura. La metropoli è condannata a non essere più agreste, come testimonia l’archeologo Rodolfo Lanciani: “è impossibile dare un’idea della crudele tenacia con la quale fogliame, vegetazione, alberi, ogni cosa che è di verde è stata perseguitata dentro e intorno a Roma”.

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La Mostra si è tenuta a Roma, presso il Museo del Corso, dal 22 novembre 2001 al 24 febbraio 2002 (Catalogo DE ROSA PIER ANDREA e TRASTULLI PAOLO EMILIO (a cura di), La Campagna Romana da Hackert a Balla, Edizioni Studio Ottocento / Edizioni De Luca, Roma 2001) con la promozione della Cassa di Risparmio di Roma e l’allestimento curato da Pier Andrea De Rosa e Paolo Emilio Trastulli.


Figura 1 - Jean Baptiste Camille Corot, Ponte Milvio e la Campagna Romana dalle pendici di Monte Mario, olio su carta incollata su tela.

Il secondo capitolo affronta la visione della Campagna Romana attraverso l’occhio dei pittori puristi neoclassici, già sfiorati da qualche vena di pre-romanticismo. Tra la fine del ‘700 e l’inizio dell‘800, Roma è ancora la città del Gran Tour: una “solitudine abitata” che attira pittori da tutta Europa per il suo carattere di grande decaduta, ricca di antichità ma anche di un presente ritenuto particolarmente pittoresco. Jakob Philipp Hackert è uno dei primi autori che sceglie la Campagna Romana come protagonista di molte sue opere e teorizza, come rappresentante del razionalismo illuminista, il paesaggio come precisa trascrizione dell’osservazione naturale; l’artista è inoltre il precursore di tutta una serie di pittori che spogliano la tavolozza del superfluo, dipingendo dal vero una natura tutta mentale ed astratta. Il terzo capitolo presenta gli abitanti di quella landa desolata: il vastissimo paesaggio desolato comincia a popolarsi, agli occhi dei pittori, degli uomini e del loro lavoro che si rivela, di volta in volta, come dannazione o come redenzione. Ad esempio, nel dipinto del gallese Penry Williams viene ritratta la fine della mietitura poco fuori porta, dove l’acquedotto di Claudio sembra quasi sorvegliare i carri con i covoni di grano, in una campagna, è proprio il caso di dirlo, strappata via all’aggressione selvatica. Anche nel quadro del pittore romano Filippo Indoni viene celebrata la trebbiatura in un quadro lungo come l’orizzonte, dove la Campagna Romana si bilancia tra la torre antica e le capanne recenti, in una visione del lavoro inteso come dannazione, ma anche come redenzione. In alcuni autori, forestieri soprattutto, sembra però tornare alla luce, nel periodico lavoro dei campi, il senso dionisiaco del lavoro che è anche vitalità e senso della rinascita. Il quarto capitolo è poi dedicato completamente a Charles Coleman, primo illuminista nella città dei Papi, e a Nino Costa. Dalle brulle colline dello Yorkshire, Charles Coleman arriva a Roma nel 1831 e si mostra un pittore appassionato del territorio che circonda l’urbe, pubblicando alla metà del secolo, presso la libreria Spithover, un ricco volume con 53 acqueforti. I paesaggi che Coleman rappresenta somigliano molto alle vedute desolate del suo Yorkshire, “ventose e abitate soltanto dall’erica”2. Nella gran parte delle vedute dell’artista inglese il paesaggio si presenta con vivaci contrapposti (scontri di rocce laviche e alberi fronzuti, masse di colli che si alternano in 2

FAGIOLO DELL’ARCO MAURIZIO, Esotico e pittoresco alle porte di casa. Ragioni di una mostra, in DE ROSA PIER ANDREA, TRASTULLI PAOLO EMILIO (a cura di), “La Campagna Romana da Hackert a Balla”, catalogo della mostra, Edizioni Studio Ottocento / Edizioni De Luca, Roma 2001, pag. 16.


scenografie quasi titaniche…), facendo sì che Coleman rappresenti un vero e proprio maestro per una o due generazioni di pittori romani e non solo. Trasteverino e patriota, Nino Costa si iscrive nel 1847 alla “Giovine Italia” ed è tra i massimi difensori della Repubblica Romana. Il soggetto preferito dall’autore romano è il paesaggio presentato in una visione essenzialmente politica, tanto che viene rappresentata la realtà della Campagna Romana (i bufali, le paludi, gli uomini), che non viene dipinta come un paradiso perduto. Il Monte Antenne o la macchia mediterranea verso Ardea, il paesaggio fuori porta S.Giovanni o una torre abbandonata nella campagna, il ponte di Ariccia o la veduta dal Macao, acquistano nuove luci nel formato allungato di quadri che riprendono la pacata linea dell’orizzonte.

Figura 2 - Charles Coleman, Mandria di buoi condotti a Roma, 1849, olio su tela.

Nel quinto capitolo vengono esposte alcune opere dei protagonisti del Romanticismo e del Realismo, anche se in realtà il passaggio dal Neoclassicismo al Romanticismo e poi al Realismo è quasi impercettibile nella pittura del paesaggio, che sembra presentarsi sempre con lo stesso spirito. Da Corot a Fattori, la febbre del Vero pervade la pittura italiana, mentre la visione sfuma nella veduta che vorrebbe essere obiettiva: “eseguite scrupolosamente ciò che vedete” è il primo comandamento di Jean Baptiste Camille Corot. L’esigenza è quella di andare oltre l’ideale del Neoclassicismo, oltre il sentimento del Romanticismo, raggiungendo il risultato di precorrere quasi l’Impressionismo in quadri impostati prevalentemente sul rapporto colore-luce. Tutte queste intenzioni si leggono in filigrana in una veduta dell’autore francese del Monte Soratte, così come sempre il colore e la luce sono i protagonisti dei quadri del pittore svizzero Charles François Knèbel che, come nel caso di una sua veduta di Isola Farnese, contempla e ritrae un mondo antico e moderno nello stesso tempo. Nel sesto capitolo l’attenzione viene di nuovo posta su animali e butteri e mandriani, i quali ricordano come la landa desolata, in fondo, abbia avuto qualche funzione vitale. Alcuni autori, fra cui ad esempio il pittore ligure Giuseppe Raggio, si soffermano a ritrarre la vita sacrificata dei pastori in montagna; altri raffigurano mandrie di puledri o greggi di pecore; altri ancora colgono il lato festoso degli abitanti della Campagna Romana,


soffermandosi su balli e sagre paesane, oppure su un divertimento sportivo come la caccia alla volpe.

Figura 3 - Marianna Candidi Dionigi, Acquedotti nella Campagna, 1797, tempera su carta riportata su tela.

Figura 4 - Edward Lear, La sedia del Diavolo presso la via Nomentana, olio su tela.

Nel settimo capitolo viene registrata la presenza delle antichità nelle vedute della Campagna Romana: la desolazione del moderno si combina con il senso pittoresco delle antiche rovine. Non si deve dimenticare, infatti, che il fenomeno stesso del Gran Tour nasce dal desiderio dei giovani nobili di prendere contatto con l’eredità dell’antica Roma. Le antichità cui fanno riferimento i viaggiatori sono quelle del periodo romano, ma sono anche le numerose torri medievali, acquedotti ancora poderosi, ponti e sepolcri monumentali che si trovano ancor oggi nella campagna romana. I quadri in mostra in questa sala presentano, dunque, alcuni di questi monumenti dispersi nel paesaggio sconfinato, come nel caso dell’opera di Marianna Dionigi, che ritrae gli acquedotti nella campagna desolata; o come nel lavoro dell’inglese Edward Lear, che si incanta a dipingere l’orizzonte della campagna romana con toni pastello, tenendo come punto focale d’appoggio quel rudere denominato “Sedia del Diavolo” che allora era del tutto isolato e che oggi, al contrario, è difficile da individuare nel tumulto edilizio del Quartiere Africano. L’ottavo capitolo è, poi, dedicato ai Castelli Romani, che rappresentano una vera e propria appendice di Roma, creata per le delizie estive di Papi e patrizi, cardinali e funzionari della corte pontificia. Frascati e Albano, Ariccia e Castel Gandolfo, Monteporzio e Marino, Genzano e Grottaferrata: non si tratta di insediamenti anonimi, ma sono le propaggini di quella Roma barocca che non ammette confini. Tra i quadri esposti si vede come Jakob Philipp Hackert si è spinto nella campagna fra Marino e Castel Gandolfo per “cercare un paesaggio in grado di rinnovare l’arcadia barocca”3. Nel penultimo capitolo viene, invece, presentato il piccolo cosmo delle Paludi Pontine, un problema antichissimo con il quale tutti, dagli antichi romani ai Pontefici, da Leonardo a Napoleone, fino a Garibaldi, si sono dovuti confrontare. La soluzione definitiva viene attuata dal regime fascista che, in qualche anno, ha nella bonificato la zona malsana attraverso un’operazione idraulica imponente. Su questi temi, fra le opere in mostra, va ricordato un bellissimo acquerello di Ettore Roesler Franz con una veduta desolata di Maccarese, oppure il monumentale pannello di Giulio Aristide Sartorio, “Nel paese di Circe”, dove viene raffigurato “quell’antico luogo dove sbarcò la nave di Ulisse, tra la terra, la palude e il cielo dove si irraggia il sole dell’avvenire”4. L’ultimo capitolo, infine, è dedicato alla redenzione della Campagna Romana ed alla missione sociale di cui si fanno carico gli artisti.

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FAGIOLO DELL’ARCO MAURIZIO, op. cit., pag.20. FAGIOLO DELL’ARCO MAURIZIO, ibidem.


Figura 5 - Jakob Philipp Hackert, Veduta della valle Tuscolana con Marino e Castel Gandolfo, 1789, olio su tela.

Duilio Cambellotti e Giacomo Balla riflettono infatti sulla Campagna Romana con un atteggiamento dolente e molto attento alla vita dei “miserabili”, tanto che il Balla, dopo aver dipinto per tutta la giovinezza gli aspetti più pittoreschi del paesaggio romano, passa all’azione e con Alessandro Marcucci e Sibilla Aleramo fa dell’alfabetizzazione dei contadini e della redenzione delle paludi una vera e propria missione sociale. Nel 1911, nell’ambito dell’Esposizione Universale, i tre propongono un padiglione dedicato in modo semplice e spoglio proprio alla Campagna Romana, che non rappresenta più lo specchio della rassegnazione, ma per la quale comincia il cammino della redenzione. Il fatto straordinario di tutto ciò è che questo impegno, sociale ancor prima che estetico, è guidato, all’inizio del ‘900, soprattutto da uomini che usavano il pennello, la penna, lo scalpello, più che da politici. Fonte di emozioni e di suggestioni incomparabili, soprattutto per chi, provenendo da Paesi già da tempo in piena civiltà industriale, trovava qui un mondo che apparteneva, di fatto, a stagioni lontane, la Campagna Romana ha, dunque, avuto un ruolo determinante nel nascere e nell’affermarsi del "paesaggio di pittura". La troppo disinvolta antropizzazione del territorio, col riscatto per tanti versi benefico delle Paludi Pontine, ma anche con tutte le conseguenze ambientali connesse, ha mutato radicalmente la fisionomia della Campagna Romana, che le immagini dei pittori presenti in questa mostra restituiscono con seducente immediatezza artistica e cromatica. Le paludi sono state prosciugate, sono nate nuove città, Roma si è estesa a macchia d’olio e queste immagini rappresentano testimonianze e documenti insostituibili di un periodo storico e umano. Dottorato di ricerca in Progettazione paesistica Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purchè sia correttamente citata la fonte


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