Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768 Università degli Studi di Firenze
Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/ Firenze University Press anno 3 – numero 3 – gennaio - giugno 2005 sezione: Editoriale pagg. 1-3
EDITORIALE Antonella Valentini*
E’ un numero composito quello che qui si presenta - il primo del terzo anno di vita della RiVista del Dottorato di Progettazione paesistica - in cui si affrontano molti temi, apparentemente distanti tra di loro (dall’indagine sui ruoli del landscape architect statunitense, alla individuazione delle relazioni tra progetto e manutenzione nei giardini storici, ad esempio), ma tutti focalizzati attorno ad un unico soggetto, il paesaggio. Proprio sui diversi modi di intendere il paesaggio o sui suoi differenti significati ci si interroga nelle varie manifestazioni culturali rievocate: tentando di tratteggiare i contorni reali o ideali del paesaggio del Mediterraneo nella Biennale di Pescara; definendo i valori estetici e percettivi all’interno del concetto di paesaggio su cui ci si confronta nel convegno di Ascona; individuando la diversità degli approcci alla progettazione contemporanea del paesaggio, in quanto creazione della collettività, sui quali si investiga invece a Torino. Il tema del paesaggio ha riscosso negli ultimi anni un grande interesse, in seguito soprattutto all’emanazione nel 2000 della Convenzione Europea del Paesaggio nella quale, per la prima volta, si da una definizione condivisa del termine «paesaggio», almeno dai ventotto Stati membri del Consiglio d’Europa che hanno firmato la Convenzione, sebbene sia stata ratificata solo in tredici Stati, tra cui non l’Italia. Come scrivono Attilia Peano e Angioletta Voghera, “…si è definita una concezione del paesaggio complessa che va ben oltre gli aspetti estetici ed ecologici che trovavano riferimento nella normativa del 1939 e nella legge Galasso. La novità della visione sta nel ricercare un’integrazione tra questi aspetti e quelli culturali, identitari e soprattutto nell’attenzione posta al coinvolgimento della popolazione locale come attore della forma paesaggio e alla sua valenza anche economica…” Dalle necessità di proteggere, pianificare e gestire il paesaggio, esulando da forme di intervento di tipo vincolistico-programmatorio, ma proiettandole verso il progetto e la sua realizzazione operativa - principio che ispira anche il Nuovo Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio italiano – nasce la ricerca condotta dal Dipartimento Interateneo Territorio del Politecnico di Torino che vede la formulazione di un Manifesto per il territorio rurale in cui sono individuati principi e indirizzi di intervento finalizzati ad “…una ricongiunzione tra il territorio rurale e la città, sempre più legati da interdipendenze funzionali, sociali, economiche e simboliche, destinati a diventare componenti di un sistema territoriale dilatato e aperto ad una condivisione di valori e di risorse”. La ricerca utilizza una matrice interpretativa dei paesaggi composta di quattro approcci (geografico e socio-economico, storico, ecologico e urbanistico-edilizio) per individuare gli aspetti caratterizzanti e le criticità finalizzate a promuovere uno sviluppo rurale fondato sulla valorizzazione del paesaggio.
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Ancora proiettato verso la progettualità e la necessaria assunzione di responsabilità da parte dell’intera collettività, è il dibattito che si crea intorno alla rassegna Creare Paesaggi di Torino, il cui titolo si rifà proprio ad una delle politiche di paesaggio, forse la più innovativa, rispetto alle tradizionali di salvaguardia, gestione e pianificazione, indicate dalla Convenzione Europea. Il concetto della creazione di nuovi paesaggi è infatti una svolta significativa che tradisce l’esistenza di un approccio diverso al progetto, non solo tecnico ma culturale, che non utilizza solamente lo strumento del vincolo per tutelare o lo strumento del piano per pianificare: è il dialogo sempre aperto tra conservazione e innovazione. Delle tendenze progettuali contemporanee abbracciate dalla figura del landscape architect statunitense parla Danilo Palazzo che vuole esplorare la dimensione urbanistica qui presente, intendendo per questa “…lo spazio professionale dedicato alla progettazione di porzioni urbane specializzate (campus universitari, villaggi sportivi, centri ospedalieri, eccetera) o di natura mista (interventi di ri-progettazione di quartieri suburbani, miglioramento dell’immagine urbana attraverso interventi di e su spazi pubblici, eccetera)” al fine di mettere in luce le caratteristiche della professione dell’architetto del paesaggio negli Stati Uniti - “…dinamica, non iperspecialistica e capace di adattarsi alle diverse esigenze professionali e alle richieste della società”. Tali considerazioni costituiscono il primo passo verso una riflessione più ampia e a più voci che potrebbe essere sviluppata sul ruolo attuale del progettista di paesaggi in Italia. Il tema progettuale è affrontato, anche se ad una scala differente e su soggetti completamente diversi – in questo caso i parchi storici – nel saggio di Silvia Martelli che svolge un tema importante e spesso trascurato, sintomo di un ritardo non solo tecnico quanto culturale, quello della manutenzione programmata delle componenti vegetali dei parchi storici. La vegetazione ha infatti bisogno di cure manutentive continue, “sia perché sottoposta al ciclo biologico di nascita, crescita e morte, sia perché si tratta di natura sottoposta a forme artificiali ed a innaturali combinazioni di specie”, che esulano dai tempi di un grande ed unico intervento di restauro, più adatto alle componenti architettoniche di un giardino. La riflessione sul significato di conservazione della vegetazione in sistemi di paesaggio storici aiuta dunque a comprendere il ruolo della manutenzione ordinaria all’interno del delicato processo di restauro. Di nuovo a scala territoriale si collocano le riflessioni che Giorgio Costa fa con Vincenzo Cabianca, progettista e responsabile scientifico del Piano Paesistico dell’Arcipelago delle Isole Eolie, con il quale è affrontato il tema della conoscenza e della pianificazione del paesaggio nelle isole minori. In particolare, considerando l’eccezionalità dei luoghi, si riflette sui significati di insularità e di bene culturale, il cui riconoscimento ha portato alla individuazione da parte dell’Unesco delle Eolie quale Patrimonio Mondiale, oggetto di particolari studi a carattere internazionale. La sezione Itinerari della Ri-Vista propone un duplice percorso: nei paesaggi delle aree protette regionali dell’area metropolitana di Roma e nei paesaggi dei vigneti specializzati e della dispersione insediativa di Conegliano in Veneto. Le puntuali considerazioni svolte da Alessandra Cazzola sulle quattordici aree naturali gestite da RomaNatura, sono occasione per descrivere la complessità del paesaggio romano che, come qualunque paesaggio, è il risultato dell’interazione tra fattori antropici e naturali, frutto di una stratificazione storica che ha lasciato tracce visibili o latenti nel territorio: “Le preesistenze archeologiche, i monumenti, le ville e i casali rappresentano, in realtà, solo una parte, seppur importante, della ricchezza della dotazione delle aree protette gestite da RomaNatura. Il vero e proprio tesoro di queste riserve è rappresentato soprattutto dalle numerose ed importanti nicchie ecologiche presenti, caratterizzate da oltre mille specie vegetali, cinquemila specie di insetti e altre centocinquanta specie fra mammiferi, uccelli, anfibi e rettili. Molti dei parchi, inoltre, conservano una notevole vocazione agricola che, a tutt’oggi, fa del Comune di Roma il primo comune agricolo d’Italia”. Sul tema del rapporto tra permanenze e interferenze è incentrato lo studio condotto nell’ambito del Programma comunitario Interreg III B - L.O.T.O. Landscape Opportunities for Territorial Organization, di cui Gabriele Paolinelli presenta qui la prima parte, che 2
traccia una descrizione oggettiva delle trasformazioni del paesaggio di Conegliano, preludendo ad alcune applicazioni diagnostiche e progettuali riferite alle tematiche del rapporto fra elementi di permanenza ed elementi di interferenza che utilizzano come indicatore principale la frammentazione paesistica. Tra gli Eventi di questo numero della Ri-Vista, infine, si hanno i già citati convegni di Creare Paesaggi (Torino 2004) rievocato da Antonella Valentini, di Our Shared Landscape (Ascona 2005) presentato da Michela Saragoni e della Biennale del Paesaggio Mediterraneo (Pescara 2005) raccontata da Francesca Moretti. Di nuovo sul restauro, ma in questo caso urbano, ed ancora in tema di stratificazione storica, riflette Maristella Storti nel raccontare Genova Città Capitale Europea della Cultura, il quarto degli eventi presenti in questo numero. “Se il paesaggio attuale è il frutto delle varie stratificazioni che si sono succedute nel tempo, che hanno talvolta modificato o talvolta snaturato i palinsesti originari, ciò che vediamo oggi è il frutto della stretta (spesso scomoda) convivenza tra passato e presente, che la mostra Arti e Architettura ha ben dimostrato con i suoi contrasti, le esagerazioni, i punti di vista singolari. Con l’evento del 2004 si è innescato un meccanismo di riconoscimento del patrimonio culturale e paesistico genovese ormai irreversibile, che si auspica conduca la città a livelli ancora più alti di qualità e di crescita urbana, in accordo con i processi di ordinaria manutenzione e di recupero dell’esistente”.
*Dottore di Ricerca in Progettazione paesistica e specialista in Architettura dei Giardini e Progettazione del Paesaggio, Università di Firenze.
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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768 Università degli Studi di Firenze
Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/ Firenze University Press anno 3 – numero 3 – gennaio - giugno 2005 sezione: Saggi pagg. 4-22
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COSA FANNO GLI AMERICANI? UNA BREVE INDAGINE SUI RUOLI E I COMPITI DEI LANDSCAPE ARCHITECT STATUNITENSI – PARTE SECONDA Danilo Palazzo*
Summary American landscape architecture firms seem to have retained between their competences that of city and urban design. To look out how real is this feeling, that refers to what is published on specialized journals and books, the paper display a reconstruction of phases, protagonists, and modalities that characterized the division between the two disciplines, in terms of separate professional associations and academic curriculum. The division appeared to be slow and viscous. The evaluation of city-design-oriented activities conducted by self-defined landscape architecture’s firms is developed since the recognition of the design activities undertook by some of the American firms awarded in 2004 by the ASLA, the American Society of Landscape Architect. Key-words Landscape Architecture, Urban Planning, ASLA-American Society of Landscape Architect, ASLA Award. Abstract Gli studi di landscape architecture statunitensi sembrano aver conservato tra le proprie competenze la progettazione urbanistica. Per scoprire quanto sia autentica questa impressione, che sembra ricavarsi dalle riviste o dalla letteratura di settore, il paper si interroga sulle fasi, sui protagonisti e sui modi in cui avvenne, nei primi anni del XX secolo, il distacco tra la landscape architecture e il city planning sia sul piano dell’associazionismo professionale sia relativamente alla formazione degli specifici curricula formativi universitari. Una separazione che fu lenta e non priva di viscosità e resistenze. La valutazione delle attività, con orientamento urbanistico, degli studi di landscape architecture è sviluppata a partire dal riconoscimento delle attività di progettazione svolte da alcuni studi professionali, selezionati tra quelli premiati nel 2004 dalla ASLA, l’American Society of Landscape Architect. Parole chiave Architettura del paesaggio, progettazione urbanistica, ASLA-American Society of Landscape Architect, Premio ASLA.
* Professore associato, Politecnico di Milano.
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La ricostruzione storica delle attività delle associazioni professionali e dei percorsi formativi dei city planners e dei landscape architects statunitensi (pubblicata nel numero1/2004 della Ri-Vista), ha messo in evidenza la comune radice e la parte di percorso che queste due figure hanno compiuto assieme. Quanto di questo percorso comune ancora resta nella professione del landscape architect (giacché questo è il punto di vista, data la sede, che qui si è inteso privilegiare piuttosto che quello del city planner) è l’oggetto dell’indagine che seguirà. Si renderà conto, cioè, della dimensione urbanistica presente nell’insieme delle attività svolte da alcuni studi di landscape architecture statunitensi. Per dimensione “urbanistica”, come apparirà più chiaro nelle prossime pagine, intendo lo spazio professionale dedicato alla progettazione di porzioni urbane specializzate (campus universitari, villaggi sportivi, centri ospedalieri, eccetera) o di natura mista (interventi di ri-progettazione di quartieri suburbani, miglioramento dell’immagine urbana attraverso interventi di e su spazi pubblici, eccetera). L’esito che scaturirà, lo anticipo brevemente, è duplice. Da una parte si darà conto che, almeno per quanto riguarda gli studi di landscape architecture, vacilla pericolosamente il mito della iper-specializzazione che, almeno nell’immaginario collettivo, sembra contraddistinguere il panorama professionale statunitense. Dall’altra si scoprirà che la progettazione urbanistica (nel senso più corretto attribuibile al termine city o urban design piuttosto che a quello di city planning che contraddistingueva i primordi della disciplina1 è svolta, almeno in parte anche all’interno di studi di landscape architecture. L’INDAGINE Per comprendere quali sono i lavori a cui si dedicano i landscape architect statunitensi mi sono procurato un particolare paio di occhiali. Ne avevo a disposizione più d’uno. Avrei potuto occuparmi di singoli landscape architect, i più noti magari, usando come lenti le monografie a loro dedicate. Queste, d’altronde, oltre ad essere non tutte facilmente reperibili in Italia ed essere particolarmente numerose, hanno, anche, il difetto di essere a loro volta selettive, celebrative o fortemente incentrate su alcuni aspetti tematici, oppure di non essere sufficientemente aggiornate sui “professionisti emergenti”, poiché generalmente sono compilate una volta che il “protagonista” ha raggiunto una certa maturità professionale. Avrei potuto consultare la rete e, impostando idonei filtri di ricerca attraverso le lenti di un buon browser, raccogliere materiale di studio sul quale eseguire le mie indagini. Ma questa soluzione mi avrebbe ancora portato più lontano perché, per quanto severi possano essere i criteri di setaccio, è difficile non introdurne di opinabili per scendere da quattromilacinquecentonove (tanti sono i soci dell’ASLA, l’American Society of Landscape Architect, rintracciabili attraverso un motore di ricerca chiamato Firm Finder, www.asla.org/) ad un numero gestibile per gli obiettivi che mi sono posto. Ho scelto quindi di usare, per selezionare gli studi sui quali eseguire l’indagine, le lenti che l’ASLA utilizza ogni anno per premiare i migliori progetti di paesaggio realizzati da studi professionali o singoli professionisti. In particolare ho concentrato la mia attenzione sui premi conferiti per il 2004 a progetti eseguiti da professionisti (Professional Awards Category I-Design, vedi più sotto) selezionati da un’ampia giuria presieduta da Frederick Steiner, preside della School of Architecture della University of Texas at Austin e membro dell’associazione. Tra i progetti premiati nella categoria Design, ho selezionato quelli eseguiti da studi statunitensi (l’ASLA, infatti, premia anche studi non americani ma soci dell’associazione) che dichiarano, nella loro “ragione sociale”, di occuparsi di landscape architecture. Ho quindi visitato i loro web site, laddove attivi e raggiungibili, da cui ho ricavato alcune indicazioni circa i tipi di lavori ai quali si dedicano. Per gli studi privi di web site ho contattato via mail i titolari e ho posto loro alcune domande.
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Vedi la prima parte di questo articolo pubblicata sul numero 1/2004 della Ri-Vista.
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I PREMI L’ASLA annualmente premia professionisti, insegnanti, progetti, pubblicazioni e ricerche sulla base di una selezione realizzata da una giuria di architetti del paesaggio, architetti, docenti universitari, critici. I premi sono di vario genere. Una prima ampia categoria è quella delle medaglie: l’ASLA Medal, è il più alto riconoscimento dell’associazione a un landscape architect il cui impegno e i cui contributi professionali di tutta una vita hanno avuto un impatto unico e duraturo sul benessere sociale e ambientale. Nel 2004 la medaglia è andata a Peter Walker. Negli anni precedenti erano stati premiati, tra gli altri, Hideo Sasaki (1971), Garrett Eckbo (1975), Sir Geoffrey Jellicoe (1981), Charles W. Eliot II (1982) Ian McHarg (1984), Roberto Burle Marx (1985) Philip H. Lewis Jr. (1987) Sylvia Crowe (1988), Ervin H. Zube (1995), John T. Lyle (1996) Julius G. Fabos (1997), Richard Haag (2003); l’ASLA Design Medal, attribuita ad un singolo landscape architect che ha prodotto un corpus di progetti di alto livello per un periodo di almeno dieci anni; la Jot D. Carpenter Teaching Medal, attribuita a un singolo che ha dato un contributo significativo e rilevante all’insegnamento dell’architettura del paesaggio; la LaGasse Medal è attribuita a individui di cui è riconosciuto il rilevante contributo nella gestione e nella tutela delle risorse naturali e/o di suoli di proprietà pubblica. La medaglia può essere attribuita sia ad architetti del paesaggio (Landscape Architect Category) sia a singoli con altre formazioni professionali che occupino, da almeno cinque anni, una posizione di responsabilità nella gestione e conservazione di risorse naturali o suoli pubblici; la Olmsted Medal (dedicata alla figura di Frederick Law Olmsted considerato il fondatore della professione del landscape architect statunitense e custode – steward – dell’ambiente) istituita nel 1990 per premiare singoli, organizzazioni, agenzie o programmi esterni alla professione del landscape architect che si sono distinti per la capacità di incidere, promuovere e progettare la protezione ambientale; la Landscape Architecture Medal of Excellence, che riconosce i contributi più significativi nel campo della ricerca, dell’educazione, della progettazione della pianificazione o di una combinazione tra questi. L’insieme delle attività deve essere mantenuto ad un alto livello per almeno dieci anni. Oltre alle medaglie l’ASLA assegna anche dei premi: il Landscape Architecture Firm Award (andato, in questa edizione, allo studio Wallace, Roberts e Todd, LLC di Philadelphia2 e i Professionale Award. Il primo è attribuito a quegli studi che hanno prodotto un ampio corpus di lavori, in un periodo di continuità almeno decennale, capace di influenzare la pratica professionale dell’architettura del paesaggio; i secondi sono articolati in quattro categorie: Progetti (Design), Analisi e pianificazione (Analysis and Planning), Ricerche (Research), Comunicazione (Communication): la prima categoria, Design, premia progetti relativi a siti specifici nel campo dell’architettura del paesaggio estesa anche alla progettazione urbanistica. I giudizi sui progetti sono basati sulla qualità del progetto, la funzionalità, il contesto, la responsabilità nei confronti dell’ambiente e in relazione alle competenze professionali, al pubblico e all’ambiente. I premi sono articolati in due livelli: Award of Honor e l’Award of Merit. Questa è la categoria di premi che ho guardato per la mia indagine; la seconda categoria, Analysis & Planning, premia quella ampia varietà di attività dei landscape architect che orientano e guidano la progettazione urbana, territoriale e ambientale; la terza categoria, Research, premia quei progetti di ricerca che identificano, esaminano e indirizzano le sfide e i problemi che possono essere affrontati e risolti con soluzioni di valore nell’ambito della professione; 2
Lo studio fu fondato nel 1963 a Philadelphia da Ian L. McHarg e William H. Roberts. McHarg racconta della sua esperienza con lo studio, poi diventato Wallace, McHarg, Roberts e Todd, nella sua autobiografia A Quest for Life, An Autobiography, John Wiley & Sons, Inc, New York, 1996.
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la quarta, Communication, premia quelle attività di comunicazione e divulgazione di informazioni, tecnologie, teorie, e pratiche della landscape architecture realizzate da soggetti o enti interni o esterni alla disciplina. GLI STUDI PREMIATI Come dicevo in precedenza, ho eseguito la mia indagine su alcuni degli studi che sono stati premiati dall’ASLA con il Professional Award dedicato alla progettazione (categoria Design), escludendo di proposito le altre categorie e in particolare quella relativa ad analysis and planning, (anche se di grande interesse in quanto già di per sé dimostra l’interesse dell’associazione degli architetti del paesaggio ai vari temi della pianificazione), perché rischia di non permettere di esaminare a fondo il ruolo e i compiti del landscape architect statunitense visto che seleziona tipi troppo specifici di compiti progettuali e, forse, anche di studi professionali (inoltre, da sola, la presenza di questa categoria nella grande famiglia dei premi ASLA, auto-dimostrerebbe la tesi di questo articolo, che invece qui vuole essere maggiormente approfondita). Il 13 luglio 2004 una giuria riunita a Washington, composta da dieci membri rappresentanti dell’università, dell’editoria, della professione, delle associazioni protezionistiche, presieduta da Frederick Steiner, ha attribuito trentacinque premi di cui diciassette per la categoria progettazione3. Gli studi premiati sono prevalentemente statunitensi anche se alcuni riconoscimenti sono andati a studi europei (Lodewijk Baljon Landscape Architects, Amsterdam, The Netherlands e Ryo Yamada & Ayako Yamada, Oslo, Norway) e a uno studio sud coreano (Seoahn Total Landscape, Seoul, South Korea). Tra i rimanenti 14 progetti premiati ci sono delle ricorrenze nel nome degli studi. Per esempio Peter Walker & Partners, Berkeley, California è premiato per tre progetti, Ken Smith Landscape Architect, New York City e Nelson Byrd Woltz Landscape Architects di Charlottesville, Virginia per due. Dei dieci studi così selezionati solo sette hanno un sito web, gli altri tre (Andrea Cochran Landscape Architecture, San Francisco, Ken Smith Landscape Architect, New York City e W. Gary Smith, Austin, Texas) non avendo pagine web disponibili sono stati contattati via posta elettronica e sono state poste loro alcune domande. Per gli studi che hanno un sito web (al quale rimando con un link) ho riportato i contenuti in forma schematica, prestando una particolare attenzione ai tipi di lavori eseguiti o ad alcuni progetti presentati più vicini ai temi della progettazione urbana, per ricavarne alcune considerazioni finali che esporrò nelle conclusioni. I PROGETTI VINCITORI E LE ATTIVITÀ DEGLI STUDI PREMIATI Nelson Byrd Woltz Landscape Architects. Nelson Byrd Woltz Landscape Architects di Charlottesville, Virginia è il vincitore dell’Award of Honor per la Tidewater Residence a Virginia Beach, Virginia e dell’Award of Merit per il Charlotte Residence a Charlotte, North Carolina. 3
Della giuria, oltre a Steiner, facevano parte Christopher Dimond, FASLA (Fellows of ASLA), progettista e pianificatore urbano presidente della HNTB Corporation, Kansas City, Missouri; Barbara Faga, FASLA, presidente del consiglio di EDAW, Inc., Atlanta; Richard L. Haag, FASLA, socio principale della Richard Haag Associates,Inc., Seattle; Gary R. Hilderbrand, FASLA, socio principale della Reed Hilderbrand Associates,Inc., Watertown, Massachusetts; Bill Marken direttore della rivista Garden Design, Los Altos, California; Janice Cervelli Schach, FASLA, preside del College of Architecture, Arts, and Humanities, Clemson University, Clemson, South Carolina; Susan S. Szenasy direttore della rivista Metropolis, New York City; Carol A. Whipple, direttore di progetto del National Park Service, Denver. Paul Daniel Marriott, ex componente del National Trust for Historic Preservation, Washington, D.C. Per maggiori dettagli sui progetti premiati vedi l’articolo recentemente pubblicato su Landscape Architecture, scaricabile da: http://www.asla.org/nonmembers/publicrelations/pressreleases/press04/pdf/04awardsarticle.pdf
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Figura 1. Tidewater residence, Virginia Beach, Virginia. Il Tidewater residence è un progetto residenziale su un’area di sette acri (tre ettari circa) di proprietà privata sul quale il progettista è intervenuto utilizzando piante autoctone caratteristiche delle aree umide e con un approccio rispettoso dell’ecologia locale nell’instaurare il rapporto tra abitazioni, giardino e forme naturali del fiume sul quale la proprietà insiste.
Lo studio Nelson Byrd Woltz dichiara nel proprio sito internet (www.nelson-byrd.com/) che il proprio approccio alla progettazione del paesaggio: “si definisce a partire dall’ecologia e dai sistemi culturali del luogo ed esplora il potenziale progetto sostenibile di ogni ambito di intervento. Questa lettura del luogo (che è processo di osservazione, di interpretazione creativa e di costruzione) è la base della progettazione del paesaggio e crea un contesto per la collaborazione tra architetti del paesaggio, clienti, architetti e altri consulenti di progetto. Questo processo collaborativo ha come esito paesaggi progettati che rispettano le qualità esistenti di un sito (la storia locale e il contesto naturale) e al tempo stesso creano e rivelano nuove relazioni tra gli abitanti di questi ecosistemi. Le prime ipotesi progettuali sono guidate 8
da un’attenta osservazione delle dinamiche del sito di progetto con attenzione ai venti prevalenti, all’orientamento solare, all’idrologia, alla geologia, alla pedologia e alle comunità vegetali e animali esistenti. I componenti dello studio hanno formazioni universitarie differenziate dall’architettura del paesaggio, all’antropologia, biologia, economia, zoologia, orticoltura, architettura, arte, storia dell’arte e dell’architettura. La collaborazione è un importante impegno dello studio ed è considerato parte di un corretto processo progettuale”4. Il sito riporta alcune schede relative ai progetti realizzati suddivisi nelle categorie: istituzionali, botanici e zoologici, residenziali, aziendali, pianificazione urbana e installazioni. Tra i progetti di pianificazione urbana lo studio della Virginia ha partecipato alla progettazione del master plan di WaterColor in Florida la comunità residenziale che costituisce il completamento della celebre comunità di Seaside, la reificazione dei principi dei New Urbanist. Il progetto ha previsto l’individuazione, in collaborazione con gli architetti Cooper, Robertson & Partners di New York e gli ingegneri civili di PBS&J, Tallahassee, Florida, della sequenza di spazi da dedicare alle aree verdi, degli spazi pubblici, di un giardino botanico, di un parco lineare sui margini di un lago, dei percorsi pedonali e ciclabili.
Figura 2. Master Plan di WaterColor, Walton County, Florida
Un altro intervento tra i progetti inclusi nella categoria della progettazione urbana è il Master Plan relativo alla crescita della città di Portland lungo i suoi margini in un’area venticinque miglia quadrate (seicentocinquanta ettari circa) che dovrebbe ospitare centocinquantamila nuovi abitanti. Due gruppi non-governativi molto influenti in Oregon: 1000 Friends of Oregon (www.friends.org) e Coalition for a Livable Future (www.clfuture.org)5, hanno indetto una charrette per produrre un modello di insediamento sostenibile nell’area di progetto. La charrette si è articolata in tre gruppi, con differenti obiettivi progettuali che, alla fine del processo, hanno prodotto un unico master plan che indicava linee-guida progettuali 4
Il testo è ripreso, liberamente sintetizzato e tradotto dal sito dello studio da parte dell’autore. Questa avvertenza vale anche per i testi successive, laddove non diversamente specificato. 5 Vedi FREDERICK STEINER, Costruire il Paesaggio, McGraw-Hill Italia, Milano sia la 1a che la 2 a edizione (rispettivamente 1994 e 2004), per la descrizione di alcuni dei contributi di queste associazioni.
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sui quartieri, gli isolati, le sezioni stradali, le greenway e una serie di principi progettuali di ordine generale. Nelson Byrd Woltz ha guidato uno dei tre gruppi di progettazione, specificamente orientato alla progettazione ecologica sostenibile, all’interno del quale ha collaborato con esperti di diverse discipline: pianificatori, tecnici pubblici, architetti. Altri progetti di interesse nel campo della pianificazione urbana sono la partecipazione alla charrette per la progettazione del Somerset County Regional Plan, nel New Jersey in collaborazione con Regional Plan Association di New York. Anche nel campo dei cosiddetti progetti per istituzioni, Nelson Byrd Woltz ha partecipato a progetti di grande interesse e di grandi dimensioni come il master plan e la progettazione schematica eseguiti per il Museum of Life and the Environment della York County nel South Carolina o il master plan per l’Inger and Walter Rice Center at VCU nella Charles City County, Virginia. Entrambi questi progetti e i precedenti danno il segno di un’attenzione al contributo dell’architettura del paesaggio alla progettazione e alla pianificazione urbana, alla capacità di interpretare progetti pubblici e privati di grandi dimensioni e all’attitudine matura al confronto con altri esperti. Peter Walker & Partners Lo studio di Berkeley, California (www.pwpla.com/office/) si è aggiudicato l’Award of Honor per il Nasher Sculture Center a Dallas, Texas. Inoltre ha ottenuto l’Award of Merit per l’American Center for Wine, Food, and Arts e, in collaborazione con l’Ohtori Consultant Environmental Design Institute di Osaka e il NTT Urban Development di Tokio, per il progetto della Saitama Plaza in Giappone. Peter Walker, inoltre, ha ottenuto l’ASLA Medal.
Figura 3. American Center for Wine, Food, and Arts, Napa Valley, California. Il progetto riguarda il giardino e gli spazi aperti dell’American Center for Wine, Food, and Arts realizzato presso il fiume Napa, nella omonima valle in California, famosa per i suoi vigneti. Il giardino è composto da percorsi lungo i fiume e a uno stagno e da punti di sosta attrezzati anche per la cottura di cibi.
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Figura 4. Saitama Plaza, Giappone. Il progetto ha vinto un concorso indetto dalla prefettura di Saitama in Giappone. L’area del concorso comprende una nuova stazione ferroviaria, un palazzo dello sport, l’edificio più alto del Giappone, e migliaia di metri quadri di residenze, commercio e uffici. La piazza progettata è stata pensata come una metafora della foresta che circonda l’area urbana.
Lo studio è stato fondato nel 1983 per la pratica dell’architettura del paesaggio. “I progetti realizzati variano sia per la scala che per gli obiettivi. Vanno dalla progettazione e pianificazione urbana, ai campus aziendali e universitari, ai parchi, agli spazi pubblici, ai giardini. Il processo decisionale riflette il costante scambio con il cliente, gli architetti e i consulenti. Il lavoro dello studio è il risultato della comprensione sia concettuale che dei processi materiali, l’abilità costruttiva e l’attenzione agli aspetti artigianali e ai dettagli. Lo studio ha collaborato negli anni con architetti internazionali in importanti progetti: con Sir Norman Foster and Partners per il Clark Center for Biomedical Engineering and Sciences e il Center for Clinical Sciences Research alla Stanford University (U.S.A.), con John McAslan + Partners per la sede operativa della Max Mara (Italia), con Arata Isozaki per l’Harima Science Garden City e Town Park (Giappone); con Renzo Piano per la Nasher Foundation [premiato dall’ASLA]”. Altri progetti sono presentati nel sito dello studio. Tra questi, oltre al già citato progetto di Saitama in Giappone si può citare, tra quelli di scala urbana il noto Sony Center a Berlino: progetto vincitore del concorso in collaborazione con gli architetti Murphy/Jahn, Ove Arup & Partners per le parti strutturali e B.G.S. Il complesso della Sony a Berlino, sia nella sua parte di progetto architettonico sia per quanto riguarda la progettazione del paesaggio, ha, nelle dichiarazioni degli stessi progettisti, l’obiettivo di “ridefinire il modello di un isolato urbano”. Il progetto del paesaggio urbano ha l’obiettivo di enfatizzare l’osmosi tra le funzioni urbane e commerciali, dello spettacolo e dei servizi anche attraverso il trattamento della pavimentazione. Gli spazi pubblici e quelli privati sono sovrapposti, i materiali usati: l’alluminio, il granito, le fibre ottiche, l’acqua della fontana, sottolineano le diverse e le complesse funzioni dello spazio urbano. Un altro progetto urbano, completato nel 1991, è il Plaza Tower and Town Center Park a Costa Mesa in California. Il progetto è stato realizzato in collaborazione con gli architetti Cesar Pelli e C.R.S. Sirrine. L’area di progetto è un ambito di sviluppo terziario al quale lo 11
studio Walker ha collaborato per l’organizzazione degli spazi di uso pubblico a prevalente uso pedonale. L’intorno dell’area è caratterizzata dalla presenza di altri forti elementi urbani: un parco (progettato dallo stesso Walker negli anni Settanta con lo studio SWA), un teatro e un performing center che producevano un brano urbano privo di un centro. Il progetto di Peter Walker aveva l’obiettivo di individuare nuovi elementi della composizione urbana. La piazza a corte progettata è diventata il punto focale dell’ambito urbano circostante e il punto di congiunzione tra il traffico automobilistico e quello pedonale, grazie alla realizzazione di un parcheggio e di alcuni volumi commerciali. Nella piazza è stata installata una scultura in acciaio di Aiko Miyawaki, Utsurohi. Oslund.and.assoc. Oslund.and.assoc., Minneapolis, Minnesota (http://www.oaala.com/) ha ottenuto l’Award of Merit per l’espansione del General Mills Corporate Headquarters a Minneapolis.
Figura 5. General Mills Corporate Headquarters, Minneapolis, Minnesota. L’obiettivo del progetto era quello di individuare gli spazi per due nuovi edifici e una grande struttura per millesettecentocinquanta posti auto e di integrare questi spazi con il complesso originale progettato negli anni Cinquanta del secolo scorso da Skidmore, Owing e Merril.
Lo studio Oslund.and.assoc. è stato fondato nel 1998 a Minneapolis in Minnesota ma ha anche un ufficio a Chicago. Il socio fondatore e principal dello studio è Thomas Oslund, architetto del paesaggio formatosi ad Harvard e vincitore del Rome Prize nel 1991/92. La filosofia dello studio è descritta in una delle prime pagine del sito web (http://www.oaala.com/): “…alla oslund.and.assoc. dare forma al paesaggio non significa esclusivamente realizzare un luogo per interazioni sociali, fisiche o intellettuali, ma ha anche a che fare con la modellazione di spazi aperti in una forma d’arte che agisca come una pausa nel contesto di intervento. Noi pensiamo che attraverso il progetto sia possibile la scoperta. Noi pratichiamo coscientemente l’architettura del paesaggio come forma d’arte. Ogni progetto ci offre l’opportunità di definire un luogo”. I progetti presentati nel sito non sono articolati in categorie. Tra i progetti presentati di un certo interesse è il master plan della Valparaiso University in Indiana, un’istituzione universitaria privata di matrice luterana. Il master plan, relativo un’area di quattrocento acri, 12
è costruito intorno all’edificio principale, la Cappella della Resurrezione del campus capace di tremila posti a sedere. La cappella agisce da baricentro rispetto agli edifici universitari e partecipa alla fondazione del campus e della sua missione. Gli spazi aperti sono articolati in luoghi di raduno, di relax, di contemplazione e per le attività ricreative. Michael Van Valkenburgh Associates, INC. Michael Van Valkenburgh Associates, INC., New York City and Cambridge, Massachusetts ha ottenuto l’Award of Merit per il Feral Garden a Dallas.
Figura 6. Feral Garden, Dallas, Texas. L’intervento aveva come obiettivo quello di connettere una residenza di pregio con le sponde di un fiume attraverso un terreno in forte pendenza. Il progetto ha teso ad inserire nuovi elementi nel paesaggio rispettando la vegetazione e la topografia originale.
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Il sito web di Michael Van Valkenburgh Associates (www.mvvainc.com/) non ha tra le proprie pagine una dedicata alla filosofia o all’approccio che orienta la pratica professionale di questo studio, che ha sedi sia a New York sia a Cambridge, nel Massachusetts. Qualche informazione di questa natura si ricava dalla biografia professionale e accademica di Michael Van Valkenburgh, il socio principale dello studio che è anche Charles Eliot Professor of Landscape Architecture e Professor in Practice alla Harvard’s Graduate School of Design. Dalle note biografiche emerge che “…l’interesse è concentrato sul paesaggio, interpretato come medium progettuale vivente che arricchisce le persone che vivono nelle città, nei campus, nei giardini, ovunque. La dimensione esperenziale del paesaggio e gli aspetti legati al suo uso da parte degli esseri umani, sono gli elementi che lo motivano come progettista e definiscono scopo e ampiezza del suo lavoro”. La pagina dedicata ai progetti è articolata in cinque categorie: parchi, paesaggi pubblici o civici (civic landscape), campus, paesaggi aziendali, giardini e residenze. Nella categoria paesaggi pubblici sono riportate alcune schede relative a progetti di musei, di giardini botanici e di altri spazi pubblici. Tra questi uno dei più rilevanti, dal punto di vista simbolico e urbano, è il rifacimento di Pennsylvania Avenue, la strada che corre di fronte alla Casa Bianca di Washington, D.C., quinta scenografica degli insediamenti presidenziali, delle parate e delle molte foto dei turisti. Sempre nella capitale federale lo studio ha partecipato ad un concorso per la risistemazione degli spazi per i monumenti. Tra i campus universitari elenca ben otto interventi, alcuni relativi a progetti di grandi dimensioni. Tra questi il Case Western Reserve University Master Plan a Cleveland, Ohio e il Phillips Exeter Academy Master Plan a Exeter nel New Hampshire. Il landscape master plan per l’università dell’Ohio ha teso a connettere gli elementi urbani che circondano il campus e il campus stesso cresciuto nel corso dei decenni. Il paesaggio, secondo la scheda presente nel sito web, qui gioca un duplice ruolo: simbolico e funzionale alla vita quotidiana del posto. Il processo di realizzazione del master plan ha previsto una prima fase di analisi anche attraverso il confronto con gli utenti del paesaggio esistente. Le investigazioni iniziali hanno dato luogo ad alcuni principi progettuali utilizzati nella redazione della versione definitiva del master plan. Il master plan della Phillips Exeter Academy ha come obiettivo la ridefinizione della circolazione veicolare interna al campus per migliorare l’accesso pedonale, il ridisegno degli spazi aperti e l’individuazione di spazi da destinare a nuovi sviluppi dell’università. Charles Anderson Landscape Architecture Allo studio di Seattle, nello Stato di Washington i giurati dell’ASLA hanno riconosciuto l’Award of Merit per il Trillium project a Seattle. Nel profilo dello studio, che appare sul sito web (www.charlesanderson.com), è detto che l’obiettivo di Charles Anderson Landscape Architecture è “…di creare luoghi per l’espressione di una collettività e la rivelazione dei fenomeni, dei processi e delle relazioni ecologiche. I nostri progetti comprendono master plan di grande scala, parchi, paesaggi storici e recuperi ecologici, centri interpretativi oltre a paesaggi urbani e aziendali. La stewardship [che si può tradurre come la nostra responsabilità di specie nei confronti della terra che abitiamo o anche il nostro ruolo di custodi della terra], la diversità e la sostenibilità sono i principi che compongono l’etica della terra alla quale facciamo riferimento nei nostri incarichi”.
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Figura 7. Trillium project, Seattle, Washington. Il Trillium project è un insieme di interventi eseguiti su un’area a parco a partire dal 1994, quando l’idea di realizzare un giardino di piante native su una piccola superficie si concretizzò ed ebbe un così ampio successo da avviare la realizzazione di un’area che ora raggiunge i trecento acri.
La pagina dei progetti è articolata in quattro categorie: musei e istituzioni, parchi urbani, residenze e master plan. Tra questi ultimi sono presentati quattro progetti: Arboretum the Cascades, a Preston nello Stato di Washington, è un giardino botanico su un’area di trecento acri (circa centoventi ettari) che associa alle più tradizionali esposizioni di piante anche la conservazione di una foresta del nordovest; Satsop, nell’omonima località dello stato di Washington, è il progetto di riconversione di un’area nucleare dismessa in un uso misto di parco industriale e parco tecnologico oltre a una serie di installazioni aperte al pubblico. Il completamento del progetto è prevista nel 2020; Seattle Strand (letteralmente, il filo di Seattle) è il progetto della sistemazione di trecentotrentacinque acri di suolo pubblico lungo la parte urbana della costa di Seattle. Il progetto prevede il rifacimento dei moli per consentire la vita degli ecosistemi marini e l’uso da parte dell’uomo. Sono previsti spazi per manifestazioni e attività ricreative. La risistemazione dei flussi veicolari e l’interruzione dei versamenti di inquinanti a mare consentiranno il miglioramento dell’habitat dei giovani salmoni. Il master plan è inteso come una vision strategica che consentirà una realizzazione dell’intero progetto per parti e la progettazione di dettaglio da parte di diversi progettisti. L’ultimo progetto presentato è Fill Hill, che riguarda una parte della città di Seattle che si affaccia su Elliott Bay. Alle attività di carattere ricreativo, una spiaggia a Washington Street, sono associate funzioni di uso misto e la risistemazione di percorsi. Il paesaggio riprogettato e le coperture degli edifici sono pensati come collettori e filtri dell’acqua piovana. Charles Anderson Landscape Architecture è anche arrivato in finale il concorso per la progettazione degli spazi su cui si terranno le Olimpiadi del 2008 a Pechino. Il progetto, realizzato in collaborazione con XWHODESIGN e Richard Haag, prevede la realizzazione di una serie di giardini tematici espressione delle emozioni umane. Jones & Jones Architects and Landscape Architects Ltd. Jones & Jones Architects and Landscape Architects Ltd., Seattle, Washington hanno ottenuto l’Award of Merit per il Cedar River Watershed Education Center a Cedar Falls nello Stato di Washington. La pagina iniziale dello studio Jones & Jones (che nella titolazione, si fa notare, associa architetti e architetti del paesaggio, www.jonesandjones.com/) si apre su un panda, il simbolo dello studio, affiancato a una lunga “parabola” sui salmoni e le anguille, dove i primi sono i pesci che nuotano contro corrente e i secondi quelli che dalla corrente si fanno 15
trasportare. Allo stesso modo di questi pesci, ci sono architetti e architetti del paesaggio che sono orientati al territorio (i salmoni) e altri che sono orientati al mercato (le anguille): “noi crediamo che i veri architetti e architetti del paesaggio sono collegati al territorio, questi sono i coltivatori, i fattori, gli esploratori, gli scrittori che inventano nuovi mercati e compongono nuovi stili e si radicano, o si ri-radicano, in qualsiasi regione lavorino. Altri architetti e architetti del paesaggio sono collegati al mercato. Sono i consumatori, i mercanti, i collezionisti, i lettori che seguono lo stile, questi non si radicano ma portano il modernismo con sé ovunque vadano”.
Figura 8. Cedar River Watershed Education Center, Cedar Falls, Washington. Il Cedar River Watershed Education Center è un’iniziativa di carattere didattico-educativo. Il centro è stato voluto dalla città di Seattle per informare i cittadini sulle fonti idriche che alimentano la città. L’obiettivo del progetto era quello di integrare gli edifici e il paesaggio circostante per realizzare un’esposizione che descriva ai visitatori il bacino idrografico, il suo funzionamento e le sue ecologie.
Il sito presenta alcuni dei progetti realizzati dallo studio organizzati in quattro categorie, titolate con formule meno immediatamente comprensibili di quelli presenti in altri siti: infrastrutture verdi, luoghi per imparare, luoghi che vivono, culture che vivono. Le infrastrutture verdi sono definite come “un’infrastruttura visibile che conduce la natura all’interno delle comunità”. Tra questi progetti ve ne sono alcuni di dimensione urbana come il master plan per il Cedar Lake Park and Trail a Minneapolis, Minnesota, una serie di percorsi pedonali e ciclabili sul waterfront del Mississippi realizzato in collaborazione con Richard Haag; o il Common Parks a Denver, che fa parte del Riverfront Park System, una greenway di dieci virgola cinque miglia che ha come obiettivo quello di connettere, attraverso un sistema verde, la downtown e i quartieri circostanti e di attivare iniziative insediative. Il Madison Central Park a Madison, Wisconsin, è un progetto di “community vision”, voluto dalla Urban Open Space Foundation, per la rivitalizzazione di un’area urbana di diciassette acri che aveva ospitato industrie e due linee ferroviarie ora dismesse. Le culture che vivono (living culture) sono progetti di spazi museali; gli spazi che vivono (living places) come il Cedar River Watershed Education Center premiato dall’ASLA, sono spazi destinati alla educazione ambientale; i luoghi per imparare (learning places), infine, sono progetti all’interno di zoo o di ambienti per il contatto tra uomini e animali. 16
Figura 9. Eastbank Esplanade, Portland, Oregon. Il progetto riguarda il completamento della passeggiata di tre miglia nella parte centrale di Portland lungo il Willamette River. L’intervento ha previsto la progettazione del percorso pedonale e ciclabile, degli spazi di sosta, di osservazione e di interpretazione del paesaggio, gli interventi sulle sponde e sul paesaggio limitrofo e una torre che connette il percorso ad un ponte esistente.
Mayer/Reed Mayer/Reed, Portland, Oregon ha ottenuto l’Award of Merit per l’Eastbank Esplanade a Portland. Lo studio Mayer/Reed, dai nomi dei due soci principali, Carol Mayer-Reed e Michael Reed che hanno fondato lo studio nel 1977, divide le proprie attività tra l’architettura del paesaggio e la comunicazione visiva. Il profilo dello studio è così dichiarato nel sito web (www.mayerreed.com): “Mayer/Reed è uno studio di progettazione con sede a Portland che fornisce servizi nel campo dell’architettura del paesaggio, della progettazione urbana e della comunicazione visuale per gli ambienti nei quali viviamo, lavoriamo e giochiamo”. I principali progetti dello studio, relativi all’architettura del paesaggio, sono articolati in quattro categorie: parchi e spazi ricreativi; master plan; progettazione di siti; aree umide ed ecologia. Tra i progetti di master plan più significativi, per dimensioni e importanza, va citato il progetto del campus della Washington State University a Vancouver nel Canada occidentale, un’università per duemila studenti. L’area, di trecentoquarantotto acri di superficie (circa centoquaranta ettari), caratterizzata dalla presenza di ambiti collinari, aree umide e aree boscate. L’area è stata progettata dallo studio di Portland che ha individuato gli ambiti da destinare all’edificazione, oltre a progettare la piazza centrale del campus, un anfiteatro, gli spazi verdi e il sistema veicolare e pedonale. Tra gli altri progetti di Mayer/Reed si può citare il Sumpter Valley Dredge State Heritage Area e il Collins Circle Apartments. Il primo riguarda la progettazione di un piano di sviluppo per questa area occupata fino a cinquanta anni fa da una città fondata per accogliere i cercatori d’oro di una vicina miniera, ora esaurita. L’area di ottanta acri, sottoposta a vincolo storico (heritage area), è importante anche dal vista ambientale ed ecologico perché i rivoli d’acqua formatisi nella valle dalle attività di dragaggio (dredge), hanno formato delle interessanti formazioni di terreno e aree umide ora abitate da fauna selvatica. Il progetto ha come obiettivo l’integrazione dell’area con la città di Sumpter, la realizzazione di un’area
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visitatori, spazi per picnic, una rete di percorsi e l’individuazione di linee guida per la gestione delle risorse. Il Collins Circle Apartments è un progetto residenziale di centoventiquattro unità abitative per il quale Mayer/Reed ha progettato gli spazi aperti associando a indicazioni sull’accessibilità ai vari corpi edilizi, la creazione di spazi d’acqua, zone pedonali e corti terrazzate. Altri studi Tra gli studi premiati ce ne sono tre che, come dicevo in apertura, non hanno un sito web proprio. Li ho quindi contattati via posta elettronica e ho fatto quattro domande pertinenti all’obiettivo di questo articolo: Il suo studio, o Lei personalmente, ha realizzato progetti di urban design? Se si, questi progetti sono stati realizzati autonomamente o in collaborazione con altri esperti (architetti, progettisti o pianificatori urbani, eccetera? Generalmente collabora (o ha collaborato) con progettisti o pianificatori urbani? Pensa che l’architettura del paesaggio abbia dei limiti nella sua applicazione? In altre parole un architetto del paesaggio è solo un progettista di giardini e/o un progettista di spazi pubblici oppure la professione si sta spostando verso nuove scale o nuove dimensioni (la città, la regione, l’ambiente)? Quali sono le differenze che vede tra la sua professione e quella del progettista urbano?
Figura 10. Learning Garden for P.S. 19, New York. L’intervento di progetto dell’architetto del paesaggio, volontario e gratuito, fa parte di un’iniziativa della Robin Hood Foundation, che ha come obiettivo primario la realizzazione di biblioteche anche nelle zone meno ricche di New York. Qui il tema era il progetto di un giardino scolastico entro il quale studenti delle elementari potessero svolgere esperienze educative.
La prima risposta che ho ricevuto è quella di Ken Smith Landscape Architect, New York City che ha ottenuto l’Award of Merit per il progetto di restauro del paesaggio della Lever House e per il Learning Garden for P.S. 19, entrambi a New York City.
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Ken Smith ha risposto ad ogni singola domanda. Le risposte sono riportate di seguito nella mia traduzione6: “Siccome pratico la professione a New York City, il mio lavoro è per sua stessa natura urbano. In genere non faccio una grande distinzione tra architettura del paesaggio e progettazione urbana. Attualmente sono coinvolto in un grande progetto relativo gli accessi al waterfront dell’East River nella parte bassa di Manhattan. Nel corso degli anni sono stato coinvolto in numerosi progetti e piani urbani. Collaboro prevalentemente con architetti. La composizione tipica di un gruppo comprende ingegneri del traffico, ecologi, consulenti economici e finanziari, ingegneri della sostenibilità e, in qualche caso, artisti. La professione dell’architetto del paesaggio ha sempre avuto un’ampia base di competenze che si sovrappone a quelle di altre professioni collegate. Questo è il modello che è stato concepito dai primi professionisti come, per esempio, Frederick Law Olmsted, la cui attività professionale comprendeva la progettazione urbana, i parchi, la residenza, la viabilità e i campus universitari. Non vedo grandi differenze tra l’architettura del paesaggio e la progettazione urbana”. Un’altra risposta che ho ricevuto, più succinta ma altrettanto chiara anche se di orientamento opposto, è stata quella di Andrea Cochran Landscape Architecture, di San Francisco, alla quale è stato riconosciuto l’Award of Merit per il Pacific Heights Residence a San Francisco. Andrea Cochran mi risponde che preferisce concentrare il proprio lavoro su lavori a piccola scala, che non partecipa né realizza progetti urbani. Lo ha fatto in passato, quando lavorava per grandi studi di architettura e di progettazione urbana, ma dichiara che era frustrante sia per il tempo sia per la scala di intervento. La sua presente attività, dichiara, è fortemente orientata all’arte e all’attenzione al dettaglio. Alcuni suoi lavori sono visibili al sito www.california-architects.com7. W. Gary Smith, Austin, Texas, premiato con l’Award of Merit per il Peirce’s Woods, non ha risposto al mio questionario. CONCLUSIONI L’obiettivo dell’articolo, enunciato nella prima parte pubblicata e ribadito, anche se in forma ironica, nel titolo, è quello di capire quali siano i contributi, i campi di azione e le 6
Qui di seguito riporto le sue risposte in inglese. 1) Did you develop urban design projects during your career? If yes, by yourself or in collaboration with other experts (architects, urban planners, urban designers, ...)? Because I practice in New York City much of my work is urban in nature and often involves issues of public space. I typically don't make a strong distinction between landscape architecture and urban design. I am currently involved in a large waterfront access urban design study for the New York's East River in lower Manhattan. I have been involved in a number of planning and urban design projects over the years. 2) Do you usually collaborate (or you did) with Urban Planners or Urban Designers to develop projects with them? Mostly I collaborate with architects. Typical teams include traffic engineers, ecologists, economic and financial consultants, sustainability engineers, and sometimes artists. 3) Do you think that the Landscape Architecture profession has limits in their application? In other words a Landscape Architect is just a Garden Designer and/or a public space designer or the profession is moving toward new scales, new dimensions (the city, the region, the environment)? The profession of landscape architecture has always been a broad based profession which overlaps on other related design professions. This is the model set out by early practitioners such as Frederick Law Olmsted whose practice included urban design, parks, residences, streets, and campuses. 4) Do you see differences between your profession and that of Urban Designer? If yes which? I don't see much difference between landscape architecture and urban design. 7
Dalla risposta di Andrea Cochran: “You can view my work under the web site for www.californiaarchitects.com I really prefer to focus on small scale work. I do not do any urban design work. I have done this in the past while working for large architecture and urban design firms and was frustrated by the time and scale. My current work is very art and detail oriented”.
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competenze degli architetti del paesaggio statunitensi. Un sotto-obiettivo, alimentato dagli interessi di ricerca personali e dalla mia formazione, era rappresentato dalla ricerca, in un universo limitato ma rappresentativo degli studi di architettura del paesaggio statunitensi, della dimensione urbanistica e in particolare della progettazione urbana, quella forma di intervento nella città, o di brani della città, che struttura gli spazi pubblici e li mette in relazione con quelli semi-pubblici e quelli privati, individua il sedime dell’edificato, definisce i collegamenti e i punti di scambio, disegna luoghi adatti alla socializzazione, alla ricreazione, al relax, al gioco, alla contemplazione, allo studio. Luoghi che siano anche, o possibilmente, belli. L’indagine sui dieci studi fornisce esiti di un certo interesse sia di natura generale che particolare. In generale va ancora una volta sottolineato l’interesse che l’American Society of Landscape Architects (ASLA) presta ai temi della progettazione urbana e della pianificazione urbanistica e territoriale. Il premio dedicato ai progetti di “analysis and planning” nel 2004 è stato attribuito a dieci progetti di grande interesse dal punto di vista urbanistico e per l’applicazione dei principi di sostenibilità e di attenzione alla dimensione ecologica8. Ho già detto del motivo per cui non li ho guardati in questo contesto, ma una rapida lettura delle schede pubblicate sul sito dell’ASLA già predispongono verso un auspicabile ma futuro approfondimento. Il tema più curioso resterebbe appunto quello dell’attenzione a queste tematiche da parte dell’associazione degli architetti del paesaggio se non sapessimo delle vicende che hanno portato, faticosamente, landscape architect e city planners a dividersi ma non, evidentemente, a disinteressarsi l’uno dell’altro. Il city planning, nella sua versione più progettuale e meno normativa dell’urban design, è restato nel patrimonio degli architetti del paesaggio, nelle scuole che li hanno formati e nei loro progetti. Più in particolare sembra piuttosto evidente emergere dall’esplorazione dei siti web degli studi di architettura del paesaggio premiati nella categoria “Design”, restituita nell’articolo, un’attenzione particolare a tre dimensioni: la città, l’ecologia, la collaborazione interprofessionale. La prima, la dimensione urbana, è un orizzonte di ricerca e di applicazione presente chiaramente in buona parte degli studi. Alcuni hanno eseguito compiti professionali tipicamente svolti, altrove ma anche negli Stati Uniti, dagli urbanisti e dai progettisti urbani (stante che questa categoria non ha una sua precisa collocazione disciplinare a cavallo com’è tra l’urbanistica e la composizione architettonica laddove questa sconfina in quella urbana). Altri hanno partecipato, con il proprio sapere tecnico e creativo alla progettazione di parti anche dimensionalmente significative del territorio e della città. Progettare o riprogettare campus universitari, partecipare ad iniziative di progettazione partecipata come nelle charrette per il Master Plan di Portland o il Somerset County Regional Plan (Nelson Byrd Woltz), eseguire il progetto di spazi pubblici di rilevante importanza come la Pennsylvania Avenue o la spianata dei monumenti a Washington (Michael Van Valkenburgh Ass.) o il Sony Center a Berlino o la Saitama Plaza in Giappone (Peter Walker e partner), o anche occuparsi dei lay-out organizzativi di spazi residenziali (come il progetto per Fill Hill di Charles Anderson o il Collins Circle di Mayer/Reed) vuol dire svolgere un compito che è tipicamente di un urbanista ma con la capacità di riempire gli spazi tra gli edifici di significati, di ruoli, di funzioni e relazioni. La dimensione ecologica e quella della collaborazione interprofessionale (preferisco usare qui questo termine, perché più asettico, e meno compromettente di “interdisciplinare”, perché gli elementi a disposizione sono troppo pochi per parlare di scambio proficui e reciproci tra discipline9 emerge altrettanto chiaramente dall’indagine. L’attenzione ai 8 9
Vedi l’articolo di Landscape Architecture citato in precedenza.
Una definizione di interdisciplinarità di J. Piaget, ripresa da Vallega, spiega bene quale sia l’imbarazzo, in questo caso nell’usare questa parola spesso abusata. L'interdisciplinarità, è prodotta dalla “«collaborazione tra discipline diverse, o tra settori eterogenei di una stessa scienza [e] conduce ad interazioni propriamente dette, cioè ad una certa reciprocità negli scambi, sicché [ne] consegue un reciproco avvicinamento” J. Piaget, "L'epistemologie des relations interdisciplinaires" in OCDE, L'interdisciplinarité, problémes d'einseignement et
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materiali viventi, al contesto, alle sue ecologie è non solo dichiarato nei siti web, ma è frequentato nelle realizzazioni e alimentato dalle conoscenze e dall’attenzione a questi temi che ormai, stabilmente dagli anni Settanta del secolo scorso, pervade i corsi universitari graduate e post-graduate di architettura del paesaggio e di pianificazione. Interessanti, e sicuramente da approfondire, sono anche le nuove tipologie di paesaggi come i Learning Center o gli Environmental Education Center, spazi ricreativi e didattici insieme, dove il contributo progettuale ha come obiettivo la spiegazione del paesaggio, delle risorse che lo compongono, delle ecologie che lo hanno formato, del ruolo che svolge. Laddove la conoscenza dell’architetto del paesaggio non arriva interviene la collaborazione tra esperti. Lo dice chiaramente Ken Smith nella sua risposta alle mie domande, lo dichiarano nei loro siti gli studi (spesso composti da soci con provenienze universitarie e formazioni culturali differenti), emerge con evidenza dalle schede descrittive dei progetti. Il consolidamento della figura del landscape architect negli Stati Uniti, che ha superato qualche problema di identità professionale intervenuto proprio con l’avvento della pianificazione ecologica nelle scuole di planning, sembra passare proprio attraverso questa capacità di collaborare con altri portando un contributo riconoscibile. La città, il paesaggio, il territorio, l’ambiente nella sua globalità, sembrano quindi essere i campi di applicazione degli architetti del paesaggio statunitensi, che non sembrano arrendersi alla tradizione più antica, dalla quale orgogliosamente provengono, che li voleva solo progettisti di giardini. Evocano Olmsted come modello di riferimento e la stewardship come guida etica. Pochi (Andrea Cochran, in particolare) sembrano allontanarsi da questo modello e dichiarano una propria preferenza per la piccola scala. L’analisi ha svelato anche che la professione dell’architetto del paesaggio, negli Stati Uniti, è dinamica, non iperspecialistica e capace di adattarsi alle diverse esigenze professionali e alle richieste della società. La capacità di adattamento a un ambiente è quella che spinge, anche gli studi professionali, all’evoluzione e quindi a cambiare pelle, laddove necessario, per entrare nel mercato senza rinunciare alle proprie peculiarità ma, anzi, portando quei contributi che mancano. Una riflessione più ampia e a più voci, forse a partire da questa indagine, credo potrebbe contribuire ad una definizione di grana più fine del progettista di paesaggi oggi in Italia e a meglio precisare il ruolo di chi è chiamato alla loro formazione ai vari livelli. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Siti web: www.asla.org www.nelson-byrd.com www.friends.org www.pwpla.com/office www.clfuture.org www.oaala.com www.mvvainc.com www.charlesanderson.com www.jonesandjones.com www.mayerreed.com RIFERIMENTI ICONOGRAFICI
de recherche dans les universités, Paris, 1972, cit. da A. Vallega, Compendio di geografia regionale, Mursia, Milano, 1982.
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Figure 1, 2: dal sito web di Nelson Byrd Woltz Landscape Architect, www.nelson-byrd.com Figure 3, 4: dal sito web di Peter Walker, www.pwpla.com/office Figura 5: dal sito web di Oslund.and.ass., www.oaala.com Figura 6: dal sito web di Michael Van Valkenburghssociates, www.mvvainc.com Figura 7: dal sito web di Charles Anderson Landscape Architecture, www.charlesanderson.com
Testo acquisito dalla redazione della rivista nel mese di febbraio 2005. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768 Università degli Studi di Firenze
Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/ Firenze University Press anno 3 – numero 3 – gennaio - giugno 2005 sezione: Saggi pagg. 23-37
UN MANIFESTO PER IL PAESAGGIO RURALE Attilia Peano* e Angioletta Voghera**
Summary The landscape plays an important role in order to promote the multisectorial and multifunctional rural development. In this perspective, a research in the Province of Turin territory has developed. It uses an interpretative matrix composed of four analysis approaches: geographic and social-economic, historical, ecological and territorial. Each approach highlights the strengthens and weaknesses aspects in order to promote policy of rural development founded on the valorisation of the landscape. From the analysis, it achieves guidelines to address the territorial planning, the conservation and the valorisation policies aimed at rural development. Those guidelines propose to share values and resources between city and rural territory, founded on a natural and social cohesion contract between city and agriculture, aimed at regulating the territorial system, acting on the visible landscape, habitable and liveable landscape. The Manifesto summarizes some principles in order to innovate the rural environment and to promote its development. Key-words Rural Landscape, Rural Development, European Landscape Convention.
Abstract Il paesaggio gioca un ruolo importante nelle politiche di sviluppo plurisettoriale e plurifunzionale dell’agricoltura. In questa prospettiva, si colloca un’esperienza di ricerca nella Provincia di Torino che utilizza una matrice interpretativa dei paesaggi composta di quattro approcci: geografico e socio-economico, storico, ecologico e urbanistico-edilizio. Ciascun approccio individua gli aspetti caratterizzanti e le criticità per promuovere uno sviluppo rurale fondato sulla valorizzazione del paesaggio. Ne derivano indirizzi guida per la pianificazione e la gestione rivolti alla tutela e alla valorizzazione dei paesaggi per lo sviluppo rurale. Le proposte si aprono ad una condivisione di valori e di risorse fra città e campagna, fondata su un contratto di coesione naturale e sociale volto a regolare il sistema complessivo, agendo sul paesaggio visibile, abitabile e vivibile. Un Manifesto compendia alcuni principi per innovare l’ambiente rurale e promuoverne lo sviluppo. Parole chiave Paesaggio rurale, sviluppo rurale, Convenzione Europea del Paesaggio.
* Professore ordinario, Dipartimento Interateneo Territorio, Politecnico di Torino. ** Assegnista di ricerca, Dipartimento Interateneo Territorio, Politecnico di Torino. 23
DALL’INTERPRETAZIONE AL MANIFESTO1 Il tema del paesaggio ha assunto negli ultimi anni una visibilità nuova per l’interessamento del Consiglio d’Europa2; si è definita una concezione del paesaggio complessa che va ben oltre gli aspetti estetici ed ecologici che trovavano riferimento nella normativa del 1939 e nella legge Galasso. La novità della visione sta nel ricercare un’integrazione tra questi aspetti e quelli culturali, identitari e soprattutto nell’attenzione posta al coinvolgimento della popolazione locale come attore della forma paesaggio e alla sua valenza anche economica. Ulteriore contributo della Convenzione Europea all’articolazione dell’azione per il paesaggio è l’individuazione dell’esigenza di protezione, pianificazione e gestione ovvero di un intervento non solo vincolistico-programmatorio, ma proiettato al progetto e alla sua realizzazione operativa, che ispira anche il Nuovo Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio. E’ proprio in questo quadro che si è ritenuta di particolare interesse una domanda di ricerca sul paesaggio formulata da un’associazione di categoria, la Coldiretti della Provincia di Torino, e motivata dal ragionamento generato dalle sue specifiche necessità. Le prospettive dell’agricoltura italiana e in particolare di quella torinese, per l’andamento dei mercati, per l’apertura dell’Europa ai paesi dell’est, per la struttura delle aziende, e per le politiche che la PAC3 sta sviluppando, saranno sempre meno rivolgibili alla produzione estensiva tradizionale. Il futuro individuabile è unicamente quello della multisettorialità e multifunzionalità4 all’interno delle quali il paesaggio, in particolare quello rurale, gioca un ruolo rilevante. E’ sulla base di questo ragionamento che un’associazione di agricoltori si è mobilitata per promuovere una ricerca sul paesaggio come componente non secondaria dello sviluppo futuro della propria economia. Oltre ad essere rivolta alla promozione dello sviluppo rurale, la ricerca intende anche promuovere la conoscenza dei valori del territorio e l’identificazione di politiche, programmi e progetti da sviluppare insieme con le istituzioni al fine di: conservare i valori caratterizzanti delle identità locali, valorizzarli anche in funzione dello sviluppo occupazionale e di innovative attività economiche, gestirli nel quotidiano adeguamento all’evoluzione dei bisogni e dei cambiamenti della società e degli stili di vita. Nella prospettiva delineata la ricerca ha seguito un percorso particolare, soprattutto sotto l’aspetto del confronto continuo con l’associazione di categoria e con un comitato di indirizzo formato da rappresentanti delle istituzioni ai diversi livelli e degli organismi di promozione dello sviluppo (Camera di Commercio, Confartiginato, Torino Internazionale, Fondazione CRT Torino, eccetera). Attraverso questo percorso di confronto, la metodologia 1
Il contributo discute un’esperienza di ricerca svolta dal Dipartimento Interateneo Territorio del Politecnico di Torino per Coldiretti provinciale con contributo della Fondazione CRT, 2003-2004. Il gruppo di ricerca, coordinato da A. Peano, era composto da A. Bianco, A. Bottari, V. Defabiani, P. Fabbri, C. Raffestin, C. Simonetta. Hanno collaborato B. Drusi, F. Finotto, C. Giorda, D. Godone, G. Negrini, F. Rabellino, A. Voghera. Il Comitato di indirizzo scientifico coordinato da Alfredo Cammara, era composto da: L. Rivalta Provincia di Torino; E. Di Bella Provincia di Torino; F. M. Botta Regione Piemonte; G. Borgogno Regione Piemonte; L. Cassibba Regione Piemonte; F. Pernice Soprintendenza Beni Architettonici e Paesaggio; L. D’Alessandro Fondazione Italiana della Fotografia; R. Chiabrando Università degli Studi di Torino; G. Bolatto Camera di Commercio di Torino; P. Verri Torino Internazionale; M. Ferraro AGER Srl; V. Gesmundo, Confederazione Nazionale Coldiretti. 2 COE, European Landscape Convention, Firenze 2000. 3 A questo proposito si veda: Commission Of The European Communities, Communication from the Commission to the Council, The European Parliament, The Directions towards sustainable agricolture, Brussels 1999; Commissione Delle Comunità Europee, DG AGR, Riforma della PAC: sviluppo rurale, Bruxelles; EC, ESDP. European Spatial Development Perspective. Towards Balanced and Sustainable Development of the Territory of the European Union, Office for Official Pubblications of the European Communities, Luxembourg 1999; EC, DG AGR, CAP Reform: Rural Development, 1999; European Commission, The Cork Declaration, The European Conference on rural development, Cork 1996; European Commission, Directorate-General for agriculture, Reform of the common agricultural policy a long-term perspective for sustainable agriculture. Impact analysis, Luxemburg 2003. 4 Per la rifondazione dello sviluppo rurale, i più recenti programmi di sviluppo rurale promuovono: la multifunzionalità dell’agricoltura ovvero la salvaguardia e la promozione del ruolo polivalente dell’agricoltura in termini di offerta di beni e servizi (turistici, di accoglienza, cura e manutenzione del territorio rurale, eccetera ...); la multisettorialità ovvero l’ammodernamento dell’economia agricola attraverso la diversificazione delle attività, al fine di creare nuove fonti di reddito e di occupazione e contrastare lo spopolamento, l’invecchiamento degli addetti e l’abbandono del patrimonio edilizio rurale.
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e gli studi svolti con uno sguardo prima dilatato al territorio provinciale, approfondito successivamente su aree significative, la ricerca ha formulato proposte di valorizzazione e sviluppo di alcune aree, sia strutturali sia per progetti locali, concludendosi con un Manifesto per il paesaggio e lo sviluppo rurale rivolto alle istituzioni per azioni legislative, programmatorie e operative. Il Manifesto è documento di principi e di indirizzi che propone una ricongiunzione tra il territorio rurale e la città, sempre più legati da interdipendenze funzionali, sociali, economiche e simboliche, destinati a diventare componenti di un sistema territoriale dilatato e aperto ad una condivisione di valori e di risorse; diventa pertanto necessario che si instauri un contratto di coesione naturale e sociale tra città e campagna. Questo contratto è rivolto a regolare in modo innovativo il sistema complessivo, agendo non solo sul paesaggio visibile, ma sui flussi che costruiscono il paesaggio abitabile e vivibile. UNA MATRICE INTERPRETATIVA Al fine di cogliere la complessità del paesaggio rurale, la ricerca ha costruito una matrice interpretativa di diversi paesaggi provinciali composta di quattro approcci in dialogo tra loro: geografico e socio-economico, storico, ecologico e urbanistico-edilizio, testata su alcune aree esemplificative nel territorio degli ambiti Pinerolese e Canavese. Dei due ambiti selezionati, è stata poi verificata la rappresentatività dell’intero territorio provinciale per: diversità dei paesaggi rurali, potenzialità produttiva sotto il profilo agronomico, valutata a fronte della sostenibilità paesistico-ambientale della pressione antropica, significativa o limitata presenza di aree rurali soggette a fenomeni di “insularizzazione” per effetto di interventi pregressi di infrastrutturazione ed espansione insediativa a carattere urbano, e significativa presenza di tipologie insediative storiche. Ne è risultata una buona rappresentatività dal punto di vista geografico, socio-economico ed ecologico. Questo metodo ha consentito di definire una griglia interpretativa capace di restituire la storia, le ragioni e i processi trasformativi trascorsi ed in atto: - la lettura fisico-geografica con individuazione dei sistemi strutturali morfologico, idrografico, climatico delle diverse aree rurali, e socioeconomica delle aree rurali per organizzazione fondiaria, tipologia aziendale, conduzione dei fondi, tipi di produzione e loro dinamiche, e programmi di sviluppo; - la lettura diacronica delle identità e dei modelli insediativi rurali storici nei rapporti con l’organizzazione del paesaggio rurale al fine di individuare aree caratterizzate da specifiche permanenze, processi contraddistinti da continuità nel tempo, e preminenze storiche, elementi emergenti della caratterizzazione paesistica; - la lettura ecologica in relazione alle variazioni d’uso dello spazio rurale con riconoscimento delle diverse tipologie di paesaggio agrario e rurale e delle valutazioni della funzionalità ecologica, delle correlazioni e dei processi ecologici evolutivi; - la lettura urbanistico-edilizia dei rapporti tra trama infrastrutturale e viabilità rurale, delle tipologie e forme insediative, dell’organizzazione del territorio agricolo con valutazione dei processi di trasformazione in atto e prevedibili e del ruolo che svolgono gli strumenti di pianificazione relativamente alle trasformazioni. Dal dialogo tra i diversi approcci si è individuata la ricchezza e l’articolazione dei processi e delle dinamiche che hanno trasformato e trasformano il paesaggio rurale, considerandolo un elemento vivo e strettamente legato ai processi territoriali e sociali. L’intreccio delle matrici, attraverso la categoria analitico-descrittiva di “settori insediativi”5, conduce all’identificazione dei paesaggi rurali caratterizzanti il territorio, senza perdere la ricchezza e l’articolazione delle loro svariate forme.
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I settori insediativi sono una categoria analitico-descrittiva che consente di individuare tipologie di paesaggio attraverso l’analisi: dell’orografia, della funzionalità e delle barriere ecologiche, dell’infrastrutturazione, dei caratteri naturali e antropici, del tessuto delle colture, della morfologia insediativa e delle tipologie edilizie.
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Tale categoria interpretativa, fondata sulla forte “resilienza� del patrimonio insediativo ed infrastrutturale e della loro interazione, fornisce il quadro di una possibile articolazione del territorio rurale secondo paesaggi agrari e naturali diversamente caratterizzati, che possono costituire riferimento per la pianificazione e la tutela degli aspetti di forte caratterizzazione sotto il profilo geografico, insediativo, storico, agronomico ed ecologico (vedi Figura 1).
Figura 1. Paesaggi agrari e naturali.
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UN MOSAICO DI INTERPRETAZIONI Nella costruzione della matrice interpretativa dei paesaggi rurali la complessità di ciascun contributo disciplinare ha consentito, utilizzando specifici “descrittori”, di restituire un mosaico di interpretazioni dei valori, dei processi, delle pressioni e delle criticità. Il concetto di mosaico si riferisce alla ricchezza ed all’articolazione dei paesaggi rurali provinciali, ma vuole anche porre in evidenza la complessità delle relazioni fra le diverse interpretazioni, foriere di nuove categorie descrittive utili per tradursi in orientamenti operativi. Ne emerge che la struttura delle forme geografiche, che sostiene la trasformazione storica degli usi agricoli, condiziona la funzionalità ecologica delle diverse parti del territorio. Le aree di frangia, laddove intersecano l’urbano e il rurale, costituiscono luogo di più forte criticità ecologico-paesistica da ri-progettare attraverso la costruzione di possibili scenari di orientamento alla pianificazione, al controllo e alla progettazione dei processi insediativi rurali. Infatti, come emerge dalla lettura geografica, il paesaggio rurale risente quasi ovunque della progressiva espansione dello spazio urbano verso le aree circostanti. Le forme della periurbanizzazione e della città diffusa, che nel corso degli ultimi decenni hanno continuato a dilatarsi secondo raggi sempre più estesi fino ai fondovalle e ad ampie aree della collina e della pianura, arrivano ormai ad incontrare le aree industriali esterne allo spazio urbano. Queste ultime contano presenze storiche anche in quasi tutte le vallate, dal Pinerolese alla media Valle di Susa, alla zona di Lanzo e al Canavese. Di qui la presenza antropica raggiunge rapidamente le zone montane segnate dalla caratterizzazione turistica, prevalentemente invernale, legata ad alberghi e a seconde case. Questa commistione di forme del paesaggio rurale tradizionale con le ramificazioni del paesaggio urbano è tale da non permetterne la descrizione in ottica unicamente rurale e richiede la formulazione di categorie descrittive capaci di esprimere le nuove forme di integrazione tra le diverse attività umane rispetto all’uso del territorio. La lettura storica ricostruisce la “struttura-nerbo” di questi territori - significata dalla rete delle infrastrutture primarie su cui si innervano una serie di collegamenti, atti a chiarire l’identità delle relazioni tra i centri di potere e il loro intorno territoriale - si mantiene come segno forte nella morfologia dei siti e degli insediamenti. La lettura della Carta Topografica degli Stati in Terraferma di S.M. il Re di Sardegna alla scala di 1 A 50.000 opera del Corpo Reale dello Stato Maggiore del 1852 riporta la varietà colturale degli usi del suolo del paesaggio agrario ottocentesco e la complessa relazione che lega l’insediamento nei borghi urbani alla diramata estensione delle cascine e delle frazioni esterne. Ne deriva un’immagine del territorio al 1852, caratterizzato da nuclei urbani attorniati da un’estrema ricchezza di usi del suolo agricolo, tali da garantire una certa autosufficienza alimentare e diversità paesistica, oggi solo parzialmente rintracciabile (vedi Figura 2).
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Figura 2. Rielaborazione dello Stato di Fatto delle Componenti Colturali dell’uso del Suolo – 1852.
Con la meccanizzazione, l’utilizzazione dei fertilizzanti chimici e dei pesticidi, l’agricoltura moderna ha modificato considerevolmente i suoi rapporti con l'ambiente produttivo annullando la tradizionale capacità di sfruttare i condizionamenti esterni per adattarsi all’ambiente. L’agricoltura attuale, infatti, con il cambiamento di scala della parcella, la specializzazione delle produzioni, la messa in opera di tecniche moderne, ha prodotto un’eccessiva semplificazione della catena alimentare e quindi una regressione drastica della ricchezza paesistica. Ne è derivata una progressiva insularizzazione del paesaggio in micro-ecosistemi in cui le popolazioni animali e vegetali non dispongono più di un numero sufficiente di individui vitali per assicurare la loro propria diversità genetica e in cui le specie non riescono più ad adattarsi, riprodursi e alla fine si estinguono. La valutazione della funzionalità ecologica del paesaggio rurale, attraverso la costruzione del grafo, restituisce in modo evidente l’organizzazione del sistema ambientale complessivo, le aree di risorsa energetica (aree source), i collegamenti indispensabili per ovviare al problema della frammentazione, gli ostacoli e le interruzioni a questi collegamenti (vedi Figura 3).
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Figura 3. Grafo ecologico – Ambito di studio Pinerolese: in verde scuro aree source sconnesse in direzione est-ovest che necessitano di potenziamento delle connessioni ecologiche attraverso la rete naturale e infrastrutturale esistente.
Si segnala, inoltre, la presenza di porzioni significative di paesaggi agrari storici come le aree vitate che sono elemento di forte persistenza sul territorio (vedi Figura 4) e macchie residue di paesaggi a campi chiusi tra gli abitati di Baldissero C.se, Agliè, Oglianico e Busano, sull’Orco, e quelli di Nole, Caselle, San Maurizio C.se, sulla Stura.
Figura 4. Evoluzione delle aree vitate tra il 1852 ed il 1966. Ambito Pinerolese.
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L’importante ruolo di questa tipologia di paesaggio, in grado di imitare i processi ecologici degli ambienti indisturbati, soprattutto in relazione all’aumentata fragilità degli agrosistemi e alla riduzione della diversità biologica, è oggi ampiamente riconosciuto. Da qui l’esigenza di salvaguardare e, dove necessario, restaurare queste aree, proteggendole dall’erosione progressiva cui sono sottoposte con l’avanzare continuo delle aree di frangia. Nell’ottica di individuare, secondo le disposizioni della Convenzione Europea, differenti scenari possibili di trasformazione funzionale dell’assetto territoriale, della sua infrastrutturazione, oltre ad introdurre modificazioni edilizie e fisiche, la ricerca ha riconosciuto tre grandi famiglie di paesaggi rurali: i paesaggi stabilizzati, prodotto di condizioni storico-ambientali e di processi con effetti stabilizzanti; i paesaggi destabilizzati; i paesaggi in trasformazione (vedi Figura 5).
Figura 5. Prima caratterizzazione dei paesaggi rurali provinciali.
Stabilità e stabilizzazione, destabilizzazione e trasformazione possono essere sia l’effetto rapido di eventi naturali eccezionali (le catastrofi naturali, come terremoti, inondazioni, frane, eruzioni, eccetera), sia gli effetti, distribuiti più o meno a lungo nel tempo, del mutare di condizioni economiche, sociali, culturali, amministrative, demografiche, climatiche, sia del sistema di relazioni che le intreccia e le fa interagire nel quadro di una determinata realtà territoriale e paesaggistica. Si definisce, quindi, come paesaggio stabilizzato un assetto del territorio e del sistema insediativo in grado di presentarsi con una o più immagini chiaramente delimitate nei loro “confini” rispetto ad un’altra configurazione paesaggistica; sono quindi paesaggi identificabili in ragione di una forte evidenza figurativa e spaziale delle principali componenti strutturali, e per la presenza di un tessuto connettivo prevalentemente congruente in termini di efficienza organizzativa e funzionale, di economicità, di identità culturale, oltre che di componenti simboliche. Si definisce, di conseguenza, come paesaggio destabilizzato un assetto del territorio e del paesaggio che presenta evidenti e prevalenti elementi di eterogeneità, incongruenza ed 30
inefficienza, inesteticità, non economicità sotto il profilo funzionale e figurativo tale da non consentire di individuare sintomi o segni di tendenze evolutive verso assetti futuri più stabili. Infine si definisce come paesaggio in trasformazione, un assetto per il quale si possa parlare di transitorietà, nel senso che sono rintracciabili delle tendenze a far prevalere, con buona probabilità e nel medio-lungo periodo, un nuovo assetto assegnabile alla famiglia dei paesaggi stabilizzati. Politiche, piani e progetti devono svolgere un’azione di stabilizzazione e di indirizzo dei processi di trasformazione in atto su di un paesaggio, agendo come acceleratori, come fattori deterrenti, o consolidando i processi. In quest’ottica, i paesaggi del seminativo a rotazione, riconosciuti come stabili ed “integri” dal punto di vista ecologico-paesistico (Figura 5, colore giallo), devono essere oggetto di azioni di tutela e gestione sostenibile, mentre i paesaggi di frangia tra urbano e rurale riconosciuti come “paesaggi in trasformazione” necessitano di indirizzi di pianificazione e gestione volti a guidarne l’evoluzione nell’ottica dell’integrazione ecosistemica e formale (Figura 5, colore grigio). LA RICOMPOSIZIONE DEL MOSAICO La lettura delle matrici del paesaggio rurale ha consentito di interpretare il processo di trasformazione che, negli ultimi cento anni, ha prodotto rilevanti cambiamenti nella struttura morfologica e nella percezione visiva del tessuto delle colture e dell’assetto gerarchicofunzionale dei centri urbani e degli insediamenti. Strettamente connesso alla nuova dimensione dei mercati cui la produzione agricola deve dare una risposta competitiva, il paesaggio è stato infatti attraversato da trasformazioni di natura colturale, che hanno prodotto la specializzazione produttiva di ampie aree, con modificazioni della tessitura paesaggistica e dell’ecologia esistente e con il risultato di una diminuita diversità colturale e paesistica. In analogia, le modificazioni dell’assetto gerarchico-relazionale generate dallo sviluppo industriale, polarizzato nei maggiori centri urbani e diffuso in forme sparse sul territorio, hanno modificato i rapporti fra popolazione insediata in aree rurali e urbane sia per quanto concerne il mercato del lavoro che per il sistema dei servizi. Questo processo, supportato dalla crescita della motorizzazione e della mobilità privata, ha incentivato la diffusione della funzione residenziale nelle aree rurali, in grado di offrire opportunità insediative con qualità e costi competitivi rispetto a quelli delle aree urbane. Nuove attività residenziali, terziarie o produttive industriali costituiscono barriera fra paesaggi agrari ancora “integri” ed il resto del territorio, con diffusione di nuove non sempre positive forme paesistiche, tipologie edilizie e nuovi modelli abitativi. Questo paesaggio, che nasce dal progressivo sedimentarsi dell’azione umana attraverso l’interazione con l’ambiente, si caratterizza per la formazione di un ampio numero di forme “meticciate” in cui si intrecciano l’estensione dello spazio e dei modi urbani e la deruralizzazione delle campagne. Mentre la “fuga” della popolazione dalla città verso zone sempre più lontane è stata frequentemente tesa a recuperare o sperimentare modelli di vita non urbani – e in questo contesto il paesaggio assume un ruolo simbolico come attrattore e veicolo di significati culturali - l’edificato, i comportamenti, gli usi del suolo della periurbanizzazione e della città diffusa si richiamano alle prospettive cittadine. Il progetto di valorizzazione deve riconoscere le nuove forme con cui lo spazio rurale si ricostruisce, evidenziarne le matrici storiche con la loro rinnovata funzione, indagare quale percezione dei luoghi guida i movimenti della popolazione e le scelte insediative, per definire un progetto di sviluppo locale integrato che valorizzi le strategie già delineate dalla progettualità locale (Iniziativa Comunitaria Leader Plus, Patti Territoriali, DOCUP, Interreg, Piani di Sviluppo delle comunità montane, Agenda 21 della Provincia e dell’ATL 2 Montagnedoc e Piano di Sviluppo Rurale della Regione Piemonte 2000-2006). Uno sviluppo locale che non veda il territorio unicamente come un prodotto da offrire sul mercato, bensì punti in primo luogo sullo sviluppo endogeno del territorio stesso, sulla ricostruzione delle
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sue trame identitarie, sul riconoscimento delle sue specificità, che hanno nel paesaggio l’espressione visibile, dunque fortemente simbolica, cui poter ancorare la crescita sostenibile. Il paesaggio rurale può così diventare la porta di accesso di un sistema locale aperto verso l’esterno e coeso al suo interno, che tutela e valorizza le proprie specificità per rimetterle in circolazione nell’ambito del sistema globale di flussi. L’identità locale, in questa nuova prospettiva, diventa uno strumento relazionale e non più un elemento di divisione/confine/chiusura verso l’esterno: è invece, nella sua espressione paesaggistica, una forma visibile con valore anche di moneta di scambio tra sistemi territoriali locali nello spazio globalizzato. UN PROGETTO DI SVILUPPO SOSTENIBILE Per rifondare l’identità paesistica, economica e culturale rurale locale, sono stati formulati indirizzi per la stabilità e la valorizzazione del territorio rurale; le proposte di miglioramento del sistema ambientale e di riorganizzazione funzionale e fruitiva e le indicazioni di progetti paesistici locali prioritari, da accompagnare con azioni per lo sviluppo rurale in termini di plurifunzionalità, costituiscono un insieme di azioni coordinate e congruenti che concorrono, nel loro complesso, alla produzione di paesaggio, all’innovazione dell’economia delle aree agricole nei diversi settori di produzione dei beni e servizi e alla costruzione di un rapporto di cooperazione e interscambio più equilibrato fra città e campagna. Il miglioramento del sistema ambientale si fonda sulla costruzione di una gerarchia di sistema, che mira a conservare le aree di maggiore valore ecologico e a rifunzionalizzare gli assi privilegiati di connessione ecologica, eliminando barriere e strozzature. Ne consegue una struttura ecologica generale del territorio che rappresenta un progetto per il futuro, riferimento per azioni concrete di tutela e di ricostruzione dell’ecologia territoriale. La riorganizzazione funzionale e fruitiva, legata all’efficienza del sistema delle comunicazioni e dei servizi, consente un uso multifunzionale del territorio, dell’agricoltura e multisettoriale dell’economia rurale, che costituisce il perno delle prospettive di sviluppo rurale. Ne deriva la realizzazione di un sistema integrato di reti ecologiche ad efficacia di riqualificazione ambientale diffusa e di reti paesistiche che, operando selettivamente sui tracciati viari esistenti e sulla organizzazione funzionale dei centri, porti ad una rigerarchizzazione del territorio in senso funzionale e per la fruizione del paesaggio. Questo programma d’azione, integrandosi con gli orientamenti della pianificazione generale e di settore alla scala vasta, e con la programmazione 2007-2013 del Piano di Sviluppo Agricolo e Rurale Regionale, intende promuovere politiche di valorizzazione dei paesaggi intrecciate con il sostegno alle filiere agro-industriali, di prodotti di massa e di nicchia, e favorire le relazioni reciproche della città con la campagna. Questa prospettiva richiede la costruzione di un contratto di coesione tra città e territorio rurale capace di portare valore aggiunto ad entrambi. Da un lato, infatti, il mondo rurale persegue modelli di produzione fortemente condizionati dal mondo urbano, sia in termini di informazione che di esigenze di mercato determinando una forte limitazione dell’autonomia del mondo rurale. D’altro lato, la città produce impatti negativi sull’agricoltura e le sue risorse. Inoltre si sono anche diversificate le richieste rivolte all’agricoltura da parte della collettività. I legami di solidarietà, che erano esemplari nelle zone rurali, si sono sfaldati ed è oggi impossibile parlare di comunità rurale per chi vive dell’agricoltura e ancora lavora la terra. In sostanza, se è vero che il contadino controlla ancora un’enorme superficie di suolo, tuttavia non incide più sulle decisioni che riguardano lo sfruttamento delle risorse. Questa crisi del mondo agricolo è il rovescio della crisi urbana. Lo squilibrio che ne deriva può essere presentato così: la deterritorializzazione della campagna costituisce un enorme spreco di risorse, e l’eccesso di territorializzazione della città comporta una progressiva rarefazione delle risorse, in primo luogo di quelle primarie (acqua, suolo, aria, eccetera). In sintesi, il sistema appare completamente sregolato. 32
Il “contratto di coesione” tra città e campagna consente, dunque, di superare la separazione con cui vengono trattati i due sistemi, per metterli insieme, ciascuno con precise responsabilità, doveri e diritti. Il contratto naturale e sociale tra città e campagna può essere la via per dare nuovo significato contestualmente alla città e alla campagna, proiettandole entrambe nella prospettiva della sostenibilità dello sviluppo. Il problema non risiede solo nel paesaggio visibile, ma nei diversi flussi che costruiscono il paesaggio abitabile e vivibile. L’intervento innovativo sul paesaggio visibile non può cioè prescindere da una ricomposizione del territorio e del lavoro rurale. Soltanto in questo modo si può perseguire un accrescimento durevole del patrimonio territoriale in cui si rende possibile la costruzione di valore aggiunto. L’azienda agricola multifunzionale si dovrebbe caratterizzare attraverso l’attivazione di settori strettamente connessi alla produzione agricola, ma capaci anche di offrire un’ampia serie di servizi e di prodotti diversificati (prodotti di qualità e/o di agricoltura biologica o biodinamica, attività integrative agrituristiche, didattico-pedagogiche, terapeuticoriabilitative o di integrazione sociale in cascina, di itinerari ecomuseali, eccetera) attraverso il riuso e la riconversione dei fabbricati rurali e la manutenzione dell’immagine del territorio con ricadute dirette sul turismo. In tale contesto, l’integrazione fra produzione agricola, turismo rurale e cultura materiale diviene occasione di sviluppo e riattivazione di abilità e competenze capaci di concorrere alla rigenerazione di un paesaggio culturale locale che deve la sua identità non esclusivamente al retaggio storico, ma al proprio legame vivo, creativo e attuale col territorio. Anche il recupero del “saper fare” e della cultura materiale va inteso non tanto come ritorno al passato, ma piuttosto come innovazione creativa del processo produttivo e del prodotto locale. Per progettare lo sviluppo rurale e la valorizzazione del paesaggio nell’ottica della multidimensionalità predicata dagli orientamenti europei non è più sufficiente che il governo del territorio si orienti esclusivamente su indirizzi di tipo economico/produttivo. Occorre, invece, riconsiderare il valore ecologico, culturale ed estetico nella gestione del paesaggio rurale, sia per quanto riguarda le azioni connesse agli insediamenti, sia per quanto riguarda le scelte colturali e l’organizzazione del paesaggio, attuando forme di marketing capaci di attirare nuovi flussi turistici sul territorio e di commercializzare i prodotti locali legandone l’immagine di qualità al territorio stesso. In tale contesto, il territorio diventa il “marchio” di qualità dei prodotti locali, l’icona che ne veicola la diffusione garantendone, appunto, la qualità e la “tipicità”. Il complesso delle proposte di valorizzazione per lo sviluppo rurale (vedi Figura 6) è scaturito in un Manifesto (vedi Figura 7) che mette a sistema principi base di politiche ed azioni per innovare l’ambiente rurale e promuovere lo sviluppo di strategie di gestione sostenibile del paesaggio rurale in coesione con la città.
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Figura 6. Indirizzi guida per la struttura ecologica e funzionale-fruitiva e per i progetti locali.
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Un manifesto per il paesaggio e lo sviluppo rurale 1. Il territorio rurale rappresenta il futuro della città e dell’agricoltura e un elemento centrale della loro innovazione − − − −
perché la città necessita di spazio per le infrastrutture e lo svago dei cittadini perché soddisfa il desiderio dei cittadini di prodotti e luoghi della campagna perché è necessario per l’equilibrio ambientale del territorio perché costituisce la risorsa di una nuova economia agricola.
2. D’altra parte il mondo rurale teoricamente controlla l’uso del suolo, ma praticamente non è autonomo ed è condizionato
dalla città − −
perché tutte le trasformazioni dell’ambiente rurale sono influenzate dalla città attraverso l’informazione perché l’ambiente rurale è condizionato dalle esigenze e dai modelli del mondo urbano.
3. Occorre costruire un contratto di coesione naturale e sociale fra città e campagna ispirato ai principi dello sviluppo sostenibile − − −
perché si è rotto irreversibilmente il rapporto fra comunità insediata e gestione del territorio rurale perché si assiste ad una progressiva erosione delle risorse ambientali e del paesaggio perché si prospetta un progressivo indebolimento dell’agricoltura tradizionale.
4. L’essenza del contratto di coesione tra città e campagna consiste nel perseguire, da una parte, l’eliminazione dello spreco delle risorse naturali e culturali da parte della città e, dall’altra, nel rendere il mondo rurale immediatamente utile al mondo urbano attraverso prodotti e servizi. 5. Lo sviluppo rurale del futuro deve seguire la strada dell’integrazione multisettoriale e multifunzionale, caratteristiche, queste, entrambe strettamente legate al territorio. 6. Il paesaggio rurale, inteso nei suoi aspetti ecologici e culturali, identitari ed economici, costituisce una risorsa irrinunciabile dello sviluppo multifunzionale e multisettoriale. 7. Un progetto per il paesaggio e lo sviluppo rurale integrato nel progetto per la città nuova può sviluppare attrattività e visibilità grazie a nuove qualità produttive, insediative e fruitive. 8. Di conseguenza, il progetto del paesaggio rurale riguarda: − − −
gli spazi naturali agricoli infraurbani gli spazi periurbani ancora caratterizzati da tracce di organizzazione rurale gli spazi prettamente rurali.
9. Il paesaggio rurale ha bisogno di politiche, progetti ed azioni integrate per − − − − − −
dare fondamento e prospettive all’agricoltura multifunzionale conservare e ricostruire gli equilibri ecologici valorizzare le matrici delle persistenze storiche preminenti prospettare la riorganizzazione funzionale e fruitiva promuovere la formazione di nuove dimensioni comunitarie incentivare processi di sviluppo locale.
10.
Si può sostenere il paesaggio rurale attraverso
− − − − −
azioni legislative, finanziarie e tecniche documentazione e ricerca sull’ambiente, la cultura, il patrimonio, l’economia rurale promozione dell’associazionismo e dell’animazione locale incentivo alla cooperazione istituzionale e sociale sviluppo di progetti comuni tra comunità urbana e rurale
−
riconoscimento dei diversi attori della conservazione e dello sviluppo.
Indicazioni specifiche per la pianificazione urbanistica e territoriale: − − − − − − −
ridefinire rispetto alla legge urbanistica regionale n. 56/1977 nuovi soggetti e nuovi oggetti della pianificazione del territorio e del paesaggio rurale ripensare le analisi e i contenuti della pianificazione strategica e strutturale con attenzione all’integrazione interdisciplinare e territoriale fra città metropolitane ed ambiente rurale ridefinire il “locale” attraverso il superamento della dimensione amministrativa come riferimento unico della costruzione dei Piani e dei relativi attori individuare forme di compensazione indirizzate alla costituzione di una banca di suoli, strategicamente collocati rispetto alle scelte di riqualificazione e valorizzazione ambientale, anche in alternativa all’applicazione di oneri e alla cessione di aree in ambiti di espansione definire un piano del traffico e dei trasporti a scala regionale e metropolitana che consideri il nuovo ruolo ambientale e fruitivo delle aree rurali accrescere l’offerta di qualità residenziale della città mediante azioni di miglioramento del territorio infraurbano e periurbano, capaci di disincentivare la domanda di diffusione insediativa contenere l’erosione e la frammentazione del suolo agricolo mediante scelte localizzative e tipologiche adeguate negli interventi di completamento urbanistico e di nuovo impianto.
per la gestione:
rifunzionalizzare il quadro legislativo e programmatorio esistente di settore per farlo convergere verso politiche ed azioni integrate per il paesaggio rurale
Figura 7. Un Manifesto per il paesaggio e lo sviluppo rurale.
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RIFERIMENTI DOCUMENTARI Commission of the European Communities, Community Strategy for Biological Diversity, Communication COM, 42, 1998. Commissione delle Comunità Europee, 2001, Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento Europeo. Indicatori per l’integrazione della problematica ambientale nella politica agricola comune, Communication COM, 20, 2000. Commissione Delle Comunità Europee, DG AGR, Riforma della PAC: sviluppo rurale, Bruxelles 1999. Commissione Europea, Ambiente 2010: Il Nostro Futuro, La Nostra scelta. Il Sesto Programma di azione per l’ambiente della Comunità europea, Ufficio delle pubblicazioni ufficiali della Comunità Europea, Lussemburgo 2001. Commissione Europea, DG XI, Quinto programma d’azione per l’ambiente e lo sviluppo sostenibile della Comunità Europea, Ufficio delle pubblicazioni ufficiali della Comunità Europea, Lussemburgo 1993. Commissione Europea, ESDP, European Spatial Development Perspective. Towards Balanced and Sustainable Development of the Territory of the European Union, Office for Official Pubblications of the European Communities, Luxembourg 1999. Commissione Europea, Directorate-General for agriculture, CAP Reform: Rural Development, 1999. Council of Europe, Convention for the Protection of the Archaeological Heritage, 1969. Council of Europe, Convention for the Protection of the Architectural Heritage, 1985. Council of Europe, Committee of Ministers, Recommendation 95 (9) on the integrated conservation of cultural landscape areas, 1995. Council of Europe, ECNC, The Face of Europe. Policy Perspectives for European Landscape, Dirk M. Wascher (Editor), Tilburg 2000. Council of Europe, European Landscape Convention, Firenze 2000. Council of Europe, UNEP, ECNC, Pan-European Biological and Landscape diversity Strategy, ECNC, Tilburg 1995. ECNC & ALTERRA, Action Plan for European Landscapes, ECNC, Tilburg 1997. European Commission, Directorate-General for agriculture, Reform of the common agricultural policy a long-term perspective for sustainable agriculture. Impact analysis, 2003. European Commission, Birds Directive EC/79/409, 1979. European Commission, Habitats Directive EC/92/43, 1992. European Commission, The Cork Declaration, The European Conference on rural development, Cork 1996. European Commission, European Spatial Development Perspective. Towards Balanced and Sustainable Development of the Territory of the European Union, Published by the European Commission, Lussemburgo 1999. European Commission, DG AGR, Agenda 2000: CAP Reform Decisions. Impact Analyses, http://europa.eu.int/comm/agriculture/publi/caprep/impact/imp_en.pdf. European Environmental Agency, Europe’s Environment: the Dobris Assessment, Copenhagen 1995. Unesco, Convention concerning the Protection of the World Cultural and Natural Heritage, 1972. Unesco, Draft Revised Operational Guidelinees for the Implementation of the World Heritage Convention, UNESCO, Paris 2002. United Nations, Convention on Biological Diversity, Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente e lo Sviluppo (UNCED), Rio de Janeiro1992. IUCN-CNPPA (The World Conservation Union-Commission of National Parks and Protected Areas), Guidelines for Protected Area Management Categories, Gland 1994.
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IUCN-CNPPA (The World Conservation Union-Commission of National Parks and Protected Areas), Parks for Life. Action for Protected Areas in Europe, Report on the IV World Congress on National Parks and Protected Areas, Bellegarde 1995. IUCN-WCPA (The World Conservation Union-Commission of National Parks and Protected Areas), Parks for Life 1997. Proceedings of the IUCN/WCPA European Regional Working Session on Protecting Europe’s Natural Heritage,IUCN, Gland 1998. IUCN-WCPA (The World Conservation Union-Commission of National Parks and Protected Areas), Guidelines for Protected Area Management Categories. Interpretation and Application of the Protected Area Management Categories in Europe, Gland 1998. IUCN-WCPA (The World Conservation Union-Commission of National Parks and Protected Areas), IUCN Protected Area Management Categories, in National System Planning for Protected Areas. Best Practice Protected Area Guidelines Series, Gland 1998. IUCN-Working Group, A future of Rural Europe: integrating biological and landscape diversity into the agricultural sector in Europe, EC-IUCN, Strasbourg 1998.
Testo acquisito dalla redazione della rivista nel mese di maggio 2005. Il contributo è frutto della collaborazione tra i due autori, ma i paragrafi Dall’interpretazione al manifesto e Un progetto di sviluppo sostenibile sono stati redatti da Attilia Peano, mentre i paragrafi Una matrice interpretativa, Un mosaico di interpretazioni, La ricomposizione del mosaico, da Angioletta Voghera © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768 Università degli Studi di Firenze
Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/ Firenze University Press anno 3 – numero 3 – gennaio - giugno 2005 sezione: Saggi pagg. 38-47
RELAZIONI
TRA PROGETTO E MANUTENZIONE DELLE COMPONENTI VEGETALI IN UN GIARDINO STORICO. IL PARCO DEL NETO A CALENZANO (FIRENZE) Silvia Martelli*
Summary This note about the meaning of conservation of vegetable elements in historical gardens, driver us to an interpretation of the role of routine maintenance in the delicate restoration process. Plants are part of the biological cycle of birth, growth and death, so the need continuous growing cares that has times longer than a normal restoration work. For this reason the routine maintenance has to be part of an unitary restoration plan that drives also the easier works, in a conscious way. Key-words Maintenance, Historical Gardens, Parco del Neto, Gardening Techniques.
Abstract Questa riflessione sul significato di conservazione delle componenti vegetali di un giardino storico ci porta ad interpretare il ruolo della manutenzione ordinaria all’interno del delicato processo di restauro. Le piante, proprio perché sottoposte al ciclo biologico di nascita, crescita e morte, necessitano di cure culturali continue che esulano dai tempi di un grande ed unico intervento di restauro, più adatto alle componenti architettoniche di un giardino. Proprio per questo motivo è indispensabile che la manutenzione ordinaria faccia parte di un progetto unitario di restauro che permetta di indirizzare, in modo consapevole, anche i più semplici interventi. Parole chiave Manutenzione, giardini storici, Parco del Neto, tecniche di giardinaggio.
* Dottore forestale, specialista in Architettura dei Giardini e Progettazione del Paesaggio, Università di Firenze.
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IL SIGNIFICATO DELLA MANUTENZIONE ED I SUOI EFFETTI SULLA CONSERVAZIONE E TRASFORMAZIONE DI UN BENE STORICO
La manutenzione delle componenti vegetali viene normalmente intesa come un insieme di semplici azioni che permettono di “tenere in ordine” ed in sicurezza un parco o un giardino: lo sfalcio dei prati, la potatura delle siepi, l’eliminazione di specie infestanti, eccetera. A questi interventi non viene attribuito, nella pratica corrente, il loro reale valore e gli effetti, positivi o negativi, che essi possono avere sulla conservazione o trasformazione di un bene storico. Spesso anche solo attraverso queste semplici cure colturali è possibile operare delle modifiche inconsapevoli all’impianto del giardino ed è per questo che esse dovrebbero sempre essere il frutto di una progettazione approfondita. Non è pensabile infatti di effettuare anche dei semplici sfalci dei prati senza avere operato una ricerca (storica ed ambientale) del luogo ed avere, di conseguenza, predisposto un progetto. Nella pratica si assiste in modo ricorrente al seguente fenomeno: i proprietari di giardini, sia pubblici che privati, realizzano, con estrema sollecitudine, interventi di potatura o decespugliamento sulla base di un generico concetto di ordine e pulizia e nella convinzione di operare per la conservazione del luogo. Se a tutto questo si aggiunge che spesso tali interventi vengono realizzati dopo periodi di trascuratezza o addirittura abbandono si può capire come essi possano essere devastanti per la conservazione degli elementi che costituiscono la storicità del giardino. Tali operazioni colturali eliminano infatti con un colpo di spugna tanti elementi nascosti che rappresentano la complessità di un giardino e che spesso difficilmente possono essere rintracciabili in testi o documenti, ma che sono ricavabili solo da un attento esame del sito, anche se in stato di semi abbandono. Si pensi ad esempio alle specie vegetali, facenti parte dell’impianto originario, che risultano non appariscenti perché soffocate dalle specie infestanti e che possono essere eliminate con un semplice decespugliamento, oppure ai segni delle potature delle siepi, ancora leggibili da un occhio esperto, facilmente cancellabili con una potatura improvvisata. Queste pratiche, purtroppo molto frequenti, tolgono ai giardini le loro piccole e grandi peculiarità storiche, spesso anche di tipo locale, che difficilmente possono essere recuperate anche da un successivo intervento di restauro. Al contrario, invece, una manutenzione consapevole della storicità di un ambiente può evitare onerosi e complessi interventi straordinari e permette di conservare elementi preziosi e spesso irrecuperabili dopo un periodo di trascuratezza o abbandono. LA “MANUTENZIONE PROGETTATA” COME METODOLOGIA DI RESTAURO CONSERVATIVO Alla luce delle precedenti considerazioni è possibile pensare al restauro conservativo di un giardino storico non solo attraverso un grande ed unico intervento, ma anche per mezzo di una politica di piccoli passi, legata alle operazioni di manutenzione, spesso più adatta alle esigenze economiche sia degli enti pubblici che dei privati. Le operazioni colturali di manutenzione, necessariamente definite all’interno di un progetto di restauro, risultano spesso preparatorie ad un intervento di maggiori dimensioni da realizzarsi in un momento che risulti il più adatto alla proprietà (possibilità di accesso a finanziamenti, situazioni contingenti più favorevoli, eccetera). Questa metodologia, se praticata sulla base di un attento progetto, permette di diluire nel tempo l’impegno economico e consente, nell’immediato, la fruizione di un luogo così da offrire, nel caso di proprietà pubblica, ai cittadini un parco o un giardino che lentamente, di anno in anno, riacquista le proprie caratteristiche. Rendere di nuovo fruibile un giardino storico consente inoltre di avviare un meccanismo di riappropriazione da parte della cittadinanza, che senz’altro facilita nel tempo gli interventi successivi (si pensi ad esempio alla possibilità di sponsorizzazioni). L’alternativa, cui spesso si assiste, a questa politica di piccoli passi è che in attesa di grandi investimenti per realizzare un unico intervento di restauro, certi luoghi rimangono semi abbandonati o del tutto chiusi al pubblico. Oppure, al contrario, vengono realizzate in fretta e senza il sostegno di un progetto, operazioni colturali atte all’immediata fruizione ed alla 39
messa in sicurezza che, come abbiamo visto precedentemente, portano ad un progressivo degrado della fragile architettura di un giardino. E’ infine necessario esporre un’ultima considerazione di tipo tecnico relativa all’applicazione di questa metodologia di restauro graduale. Molti parchi hanno una struttura di base costituita da specie arboree (boschetti, filari, piante isolate), sia autoctone che esotiche, impiantate in base ai dettami del gusto del tempo (creazione di visuali, contrasto tra pieni e vuoti, uso di specie esotiche, eccetera). Oggi i molti parchi che ci sono pervenuti soffrono quasi tutti dello stesso problema: sono costituiti da piante coetanee che hanno superato ampiamente la fase di maturità. In altre parole si assiste ad un invecchiamento collettivo delle specie arboree, e non esiste una nuova generazione di piante che dovrebbe andare a sostituire quelle ormai giunte a fine carriera e che darebbe la garanzia della continuità nel tempo del parco stesso. Quando questa nuova generazione di alberi esiste essa risulta il frutto della casualità della natura ed il parco non corrisponde più (per distribuzione e specie) all’idea originale del progettista (piante che chiudono visuali importanti, riduzione della varietà di specie, eccetera). Per recuperare questa situazione molto generalizzata di degrado è necessario che il progetto di restauro preveda interventi in grado di innescare la graduale rinnovazione che, per ovvi motivi di tipo biologico, necessita di tempi lunghi per realizzarsi. E’ necessario in questi casi stimolare e controllare la rinnovazione delle specie arboree esistenti ed in alcuni casi prevedere anche la messa a dimora di specie esotiche che non sono in grado di rinnovarsi da sole, al fine di costituire dei soprassuoli disetanei che corrispondano, seppure modificati dallo scorrere del tempo, all’idea originale del progetto. E’ per questo motivo che il restauro di tali elementi non può essere realizzato con un unico grande progetto conservativo, ma ha bisogno di interventi lievi, costanti e protratti nel tempo. IL CASO DEL PARCO DEL NETO A CALENZANO (FIRENZE)1 Descrizione e note storiche Lungo Via Arrighetto da Settimello si può notare, sul lato destro procedendo verso Calenzano, villa Gamba, edificio di stile eclettico con merlature2, affiancato da un giardino di modeste dimensioni che tuttavia presenta ancora alcuni elementi del suo aspetto originale. Sul lato opposto della medesima strada è collocato il parco romantico del Neto, un tempo di pertinenza della villa, a cui risulta ancora adesso collegato tramite un passaggio sotterraneo posto sotto la viabilità. L’insieme si trova in un’area oggi fortemente urbanizzata del territorio di Calenzano, quasi al limite con il Comune di Sesto Fiorentino. Il parco del Neto oggi di proprietà del Comune di Calenzano, è realizzato in base ai canoni romantici dell’arte dei giardini: ha forma irregolare, presenta grandi superfici a prato separate da soprassuoli di specie caducifoglie e sempreverdi, viali rettilinei d’ingresso e numerosi percorsi secondari sinuosi, un laghetto grande con isolotto, un secondo, più piccolo, a forma di airone, canali, eccetera. La superficie complessiva del parco è di circa sessantamila metri quadrati ed esso rappresenta uno spazio verde ad uso pubblico di grande interesse per i residenti della zona. Uno degli aspetti più significativi del parco è dato dalla ricchezza d’acqua che si presenta organizzata in forma di canali e laghetti. Il parco del Neto non solo costituisce un’opera d’arte dei giardini di elevato valore, ma anche una zona residua del paesaggio della piana, che con l’intensa urbanizzazione è andata lentamente scomparendo. La storia di questo luogo è documentata fin dai primi anni del Cinquecento. Già nel 1504 esisteva un semplice edificio di proprietà della famiglia Mareti collocato dove ora esiste l’attuale Villa Gamba3 ed è possibile vedere l’edificio in una planimetria del XVI secolo4. 1
Cfr. SILVIA MARTELLI, Giardini e parchi di Calenzano, Alinea, Firenze 2005. Cfr. DANIELA LAMBERINI, Calenzano e la Val di Marina – storia di un territorio fiorentino, Del Palazzo, Bologna 1987. 3 Cfr. GUIDO CAROCCI, I dintorni di Firenze, vol. I, Sulla destra dell’Arno, Galletti e Cocci tipografi editori, Firenze 1906, pag. 324. 2
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Successivamente si assiste ad alcuni passaggi di proprietà: nel 1593 l’edificio passa a Bastiano di Giovanni Ubaldini, successivamente ai fratelli Michele e Bartolomeo Buffati5. In questo secolo tuttavia non esiste ancora alcun giardino nei pressi dell’edificio e la zona dove attualmente si trova il parco non appare progettata come area verde. Nel 1645 la proprietà viene acquistata da Zanobi di Lorenzo Ridolfi, ma è con il passaggio ai Querci, importante famiglia locale, che l’edificio assume maggiore importanza soprattutto in seguito ad una ristrutturazione avvenuta nel 16836. Tra le varie opere viene realizzato anche un oratorio, ancora oggi esistente, intitolato a San Francesco7. Villa Querci è visibile in una planimetria del 1777 in cui si notano sia l’attuale via Arrighetto da Settimello che via Vittorio Emanuele8. Dal Catasto Lorenese del 1789 si ricavano altre notizie relative alla villa che viene chiamata adesso Villa Minucci dato che risulta di proprietà di Maria Lucrezia Maddalena Querci moglie di Bartolomeo Minucci. In questo documento inoltre, per la prima volta, viene citato e brevemente descritto il luogo in cui oggi esiste il parco: un “pezzo di terra prativa e paludosa […] detto il Neto”9. Quindi ancora alla fine del Settecento il luogo appare completamente diverso dall’attualità. Esistono solo prati e superfici coltivate, spesso con ristagni d’acqua, peraltro caratteristici delle campagne della piana di quel periodo.
Figure 1, 2, 3. Veduta autunnale del parco del Neto; uno dei numerosi canali che attraversano il parco; il lago grande. Figura 4. Planimetria allegata al progetto di manutenzione del parco del Neto. 4
Cfr. Pianta del Popolo di Santa Lucia a Settimello, XVI secolo (in ASF, Cap. di Parte, Piante di Popoli e Strade, Tomo 121, parte 2°, c. 436). 5 Cfr. GUIDO CAROCCI, op. cit., Firenze 1906, pag. 324. 6 Cfr. GUIDO CAROCCI, op. cit., Firenze 1906, pag. 324; cfr. GARIBALDO PANERAI, Calenzano, Firenze 1933, pag. 100. 7 Cfr. DANIELA LAMBERINI, op. cit., Bologna 1987. 8 Cfr. VINCENZO GABBRIELLI, Campione di Strade della Comunità di Campi, Pianta del popolo di Santa Lucia a Settimello, a. 1777, in ACCB, c. 16. 9 Cfr. ASF, Catasto Lorenese, Comunità di Campi, Arroto 1789, Campione 1776– 665 “… pezzo di terra prativa e paludosa, posto nella potesteria di Campi, Popolo di Santa Lucia a Settimello. Luogo detto il Neto (…) I quali beni si pongono in conto della suddetta Maria Lucrezia Maddalena Querci al presente moglie di Bartolomeo Minacci …”.
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La famiglia Minucci mantiene la villa per molti anni. Essa poi passerà ai Ciapetti e nel 1833 ai Gherardi – Uguccioni10. Sono di questo periodo tre planimetrie che mostrano lo stato dei luoghi: nella pianta del Fossombroni del 1810 ed in quella del 1817 la villa viene ancora denominata Querci ed è chiaramente visibile il tracciato stradale della Pistojese, oggi via Vittorio Emanuele, e la Strada Maestra di Barberino, oggi via Arrighetto da Settimello; in quella del 1830 – 35 è visibile di nuovo la villa, questa volta senza nome11. In quest’ultima pianta appare per la prima volta il toponimo de La Muffata, la casa del giardiniere, ed il luogo dove oggi sorge il parco è denominato il Boscaccio12. Inoltre le particelle catastali relative al terreno occupato oggi dal parco vengono descritte come “Lav. olivato vitato con gelsi frutti e pioppi”. La metà del secolo rappresenta un momento importante per la vita del luogo. Infatti nel 1852 la villa passa di nuovo di proprietà e viene acquistata da Ilario Ronillè Marchese di Boissy, marito della contessa Teresa Gamba13. Sarà con questa nuova proprietà che verranno finalmente realizzati il giardino in prossimità della villa ed il parco con il passaggio sotterraneo di collegamento: “…Dall’altra parte della strada ove erano acquitrini e canneti (d’onde il nome di Neto) egli creò un vasto parco con laghi, canali…”14. Il Marchese fece anche rinnovare l’edificio dall’architetto Grinotti, secondo il gusto del tempo15. Purtroppo non esistono al momento disegni originali del progetto del parco e la prima planimetria, anche se molto sommaria, che ci conferma l’esistenza del parco di fronte a villa Gamba è datata 1883 da cui purtroppo non è possibile avere particolari (viabilità, specie vegetali impiegate, eccetera) dato che si tratta di una cartografia la cui scala non esprime dettaglio e la presenza del parco è espressa simbolicamente con un puntinato16.
Figura 5. Planimetria del XVI secolo.
Figura 6. Cartografia I.G.M. del 1883.
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Cfr. GUIDO CAROCCI, op. cit., Firenze 1906, pag. 324. Pianta del Fossombroni, 1810 in Biblioteca I.G.M.; Pianta dei contorni di Firenze, 1817 in Biblioteca I.G.M.; Atlanti. Comune di Calenzano. Sezione E, foglio 3°, 1830 – 35, in ASF. 12 Cfr. LUCIANA CAPACCIOLI, Relazione storica allegata al progetto di recupero e restauro del parco del Neto, 1987. 13 Cfr. GUIDO CAROCCI , op. cit., Firenze 1906, pag. 324; cfr. GIULIO CESARE LENSI ORLANDI CARDINI, Le ville di Firenze di qua d’Arno, Vallecchi, Firenze 1965, pag. 30; cfr. GARIBALDO PANERAI, op. cit., Firenze 1933, pagg. 100-101. 14 Cfr. GARIBALDO PANERAI, op. cit., Firenze 1933, pagg. 100-101: “Dall’altra parte della strada ove erano acquitrini e canneti (d’onde il nome di Neto) egli creò un vasto parco con laghi, canali, arricchiti costantemente dai successivi proprietari con varietà di piante che hanno raggiunto in toscana sviluppi notevoli”. Cfr. Assessorato all’Ambiente del Comune di Calenzano, (a cura di), Parco del Neto, Calenzano 1996. 15 Cfr. GARIBALDO PANERAI, op. cit., Firenze 1933, pagg. 100- 101: “al disegno dell’Architetto Grinotti egli aggiunse alla vecchia villa un salone e una torre e rivestì il prospetto con blocchi di pietra rustica e con merlature, dandole un carattere romantico del tutto particolare”. Cfr. Assessorato all’Ambiente del Comune di Calenzano (a cura di), op. cit., Calenzano 1996. 16 Cfr. Archivio I.G.M., Firenze, Tavoletta del 1883, Foglio 106 della Carta 1:100.000. 11
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A questo punto risulta importante soffermarci sul personaggio di Teresa Gamba, moglie del marchese di Boissy, a cui passò la proprietà dopo la sua morte. Attraverso la sua storia, e quella di alcuni personaggi a lei vicini, risulta ancora più facile comprendere l’atmosfera del tempo in cui venne realizzato il parco. Teresa, nata a Ravenna, aveva un attivo interesse per la causa del Risorgimento italiano, tanto da seguire il padre ed il fratello a Firenze dove erano stati esiliati perché carbonari. E’ da ricordare il suo legame con George Gordon Byron, eroe romantico che morì in Grecia per difendere l’indipendenza del paese dal dominio turco. Teresa Gamba muore nel 1873 e viene sepolta all’interno dell’oratorio della villa dove si trova anche il suo busto scolpito da Lorenzo Bartolini17. Nel XX secolo la villa passa in eredità al nipote di Teresa Gamba, conte Paolo Gamba – Ghiselli, importante produttore agricolo, che realizza all’interno del parco, fra il 1918 e il 1919, esperimenti per l’allevamento di carpe18. E’ possibile dunque ipotizzare che in questo periodo sia stato ampliato il parco e realizzati i laghetti, uno dei quali a forma di airone. Nel 1926 la proprietà passa al figlio del conte, Carlo Gamba Ghiselli, anche lui produttore agricolo, che impianta gli esemplari di cipresso calvo all’interno del giardino e che oggi rappresentano la principale peculiarità botanica del luogo19. Sono di questi anni le maggiori testimonianze sulla storia del parco che ci provengono soprattutto dalle foto degli album di famiglia. Queste immagini ci consentono di ammirare finalmente in dettaglio le bellezze del Neto nel suo periodo di maggiore splendore. Sono visibili i cancelli, i laghetti, i canali, le fioriture, gli alberi e gli arredi. Nel 1943 il parco viene posto sotto tutela con la notifica del vincolo della legge 1089/1939 al conte Carlo Gamba da parte del Ministero dell’Educazione Nazionale, Direzione Generale delle Arti “per tutto quello che riflette l’arte e la storia e per la bellezza ambientale d’insieme”20. Con gli anni Sessanta inizia il lento degrado del parco a causa soprattutto dell’intensa urbanizzazione che lentamente va ad occupare le zone non vincolate. Oltre a ciò il parco viene trasformato in maneggio e la sua struttura, con questo uso improprio ne viene sconvolta. Successivamente viene acquistato dal Comune di Calenzano e negli anni Ottanta viene realizzato un Consorzio tra i Comuni di Calenzano e di Sesto Fiorentino finalizzato alla sua conservazione.
Figura 7. Immagine di Teresa Gamba del 1839. Figura 8. Lord Byron nel ritratto a matita da lui donato a Teresa. Figura 9. Immagine del parco nel 1955.
I principali interventi Il Comune di Calenzano, proprietario del Parco, sta realizzando da anni il restauro conservativo del luogo attraverso una politica di piccoli passi. Il Comune ha avuto come principale obiettivo l’apertura al pubblico ed, affinché questo fosse possibile, è apparso 17 Cfr. GARIBALDO PANERAI, op. cit., Firenze 1933, pagg. 100-101; cfr. LUCIANA CAPACCIOLI, op. cit., 1987; cfr. NATALE GRAZIANI, Byron e Teresa, l’amore italiano, Mursia, Milano 1995. 18 Cfr. BERNARDINO PETROCCHI, L’agricoltura nella Provincia di Firenze, Camera di Commercio e Industria della Provincia di Firenze, Firenze 1927, pagg. 345-346. 19 Cfr. LUCIANA CAPACCIOLI , op. cit., 1987.; cfr. LAMBERINI DANIELA, op. cit., Bologna 1987. 20 Cfr. LUCIANA CAPACCIOLI, op. cit., 1987.
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necessario effettuare alcuni interventi per rendere il luogo, da molto tempo in pesante stato di degrado, accessibile e sicuro. Dal 1996 è nata una collaborazione con l’Ente che aveva inizialmente la necessità di effettuare un intervento legato alla messa in sicurezza del parco, dato che erano presenti numerosi esemplari arborei in condizioni critiche di stabilità. Da questa richiesta dell’Amministrazione è scaturito il bisogno di effettuare un progetto mirato di conservazione delle componenti vegetali del parco che da circa dieci anni viene applicato con costanza e gradualità. I lavori che si sono svolti, e che continuano a svolgersi all’interno del parco, sono tesi alla salvaguardia ed al recupero degli elementi originali del giardino (metà Ottocento) e di quelli successivamente introdotti (primi anni del Novecento). I lavori che annualmente vengono eseguiti riguardano varie categorie di opere, dagli sfalci, ai decespugliamenti, ai diradamenti, eccetera. Gli sfalci vengono effettuati al fine di recuperare gli ampi e numerosi prati presenti nel parco che nel 1996, data di inizio degli interventi regolari di manutenzione, si presentavano notevolmente degradati. Il recupero del cotico erboso è stato realizzato attraverso un programma di tagli che favoriscono l'accestimento delle specie presenti e permettono di ottenere prati con buone caratteristiche di rusticità e resistenza al calpestio. Lo sfalcio dei prati viene eseguito con macchine che effettuano una triturazione fine del materiale e con decespugliatore per rifinire il lavoro a regola d'arte. L'erba sfalciata non viene rimossa per consentire un apporto di sostanza organica al terreno. L'esecuzione del primo sfalcio viene realizzato quando l'erba ha raggiunto gli otto centimetri circa di altezza, in modo da eliminare le gemme a fiore e favorire l'accestimento. Gli altri sfalci mantengono l'altezza dell'erba al di sotto dei dodici centimetri, mentre lo sfalcio finale (settembre – ottobre) mantiene l'erba ad un'altezza di quattro-sei centimetri. Attualmente, dopo l’applicazione annuale di questo programma, i prati del parco si presentano uniformi senza lacune e ben accestiti, malgrado l’uso intenso da parte dei cittadini, soprattutto nella stagione primaverile ed estiva. inizialmente i fossi, che rappresentano un elemento di grande valore all’interno del parco, apparivano solo a tratti visibili dato che la vegetazione infestante si sviluppava sia all’interno che sul bordo stesso dei canali. Dallo studio delle foto storiche e dalle testimonianze orali degli ex proprietari, è emerso invece che la rete dei corsi d’acqua del Neto era mantenuta chiaramente libera dalle specie arbustive per enfatizzarne la presenza. A questo scopo è stato previsto di conservare a prato il margine dei fossi per una distanza dal corso d'acqua di un metro per ogni lato. Questo intervento ha permesso nell’arco di circa due anni di ridare visibilità al sistema delle acque del Neto per conservarne il valore estetico, storico ed ambientale. Per mantenere a prato il margine dei fossi viene eseguito un decespugliamento più volte l’anno ed il materiale vegetale in questo caso viene allontanato in modo che all’interno dei corsi d’acqua non si accumulino elementi che ridurrebbero la portata e favorirebbero fenomeni di marcescenza. All’inizio dei lavori inoltre, vaste aree “boscate” risultavano invase da vegetazione infestante di Sambucus nigra (sambuco) che soffocava la rinnovazione delle specie arboree togliendo loro luce e spazio. E’ stato previsto dunque un intervento teso a ridurre drasticamente il sambuco per permettere la crescita della rinnovazione delle specie arboree che andranno a sostituire nel tempo il piano dominante. Questo lavoro, che ha avuto, ed ha tutt’oggi, molta importanza per la fisionomia del parco, ha inizialmente creato un vuoto nel sottobosco, ma gradualmente si è insediato il novellame delle specie dominate. Oggi, dopo dieci anni, sono visibili giovani alberi di Acer campestre (acero campestre), Quercus pedunculata (farnia), Populus alba (pioppo bianco) ed anche Taxodium distichum (cipresso calvo), specie esotica considerata la particolarità botanica e storica del parco, che attualmente si rinnova in modo autonomo. Il diradamento selettivo delle specie arbustive infestanti, realizzato più volte all’anno a mano e con decespugliatore, consente oggi di tenere sotto controllo la crescita dei giovani alberi che fanno parte delle specie originali del parco e rappresenta l’unico mezzo per garantire un futuro alla vegetazione arborea del parco. Dato che i soprassuoli arborei del Neto, come di qualunque altro parco romantico, non sono un bosco spontaneo, ma natura progettata, è indispensabile ripetere ogni anno questo intervento. Se ciò non venisse fatto, in 44
breve tempo le specie infestanti si insedierebbero di nuovo, lentamente si perderebbero le particolarità botaniche (soprattutto le specie esotiche) e le future generazioni avrebbero in eredità un bosco e non più la ricca e complessa composizione progettata nell’Ottocento dalla famiglia Gamba. Gli abbattimenti che sono stati previsti nel parco hanno riguardato esclusivamente le piante morte, pericolose o appartenenti a specie infestanti che con la loro diffusione mettevano a rischio la conservazione delle specie storiche del Neto. L’eliminazione di alcune piante ha inoltre permesso di valorizzare gli esemplari arborei di grandi dimensioni che risultavano ormai chiusi all'interno di una vegetazione eccessivamente densa. Sono state inoltre quasi del tutto eliminate le piante di Robinia pseudoacacia (robinia), specie infestante recentemente insediatasi nel parco, compresa la sua rinnovazione. Quest’ultimo obiettivo è stato raggiunto effettuando, dopo l'abbattimento, un’opportuna bruciatura della ceppaia che ha ridotto, ed in alcuni casi completamente eliminato, la capacità pollonifera della pianta. Un intervento particolare ha riguardato gli alberi monumentali che compongono l’attuale viale di accesso al parco: il Viale dei Platani. Il progetto di restauro di questo viale è nato da una precisa esigenza relativa alla sicurezza dei visitatori dato che le piante presentavano numerosi seccumi o nei casi più gravi risultavano totalmente compromesse tanto che si erano verificate delle improvvise cadute. In progetto è stato necessario prevedere l’abbattimento di molte piante perché non davano sufficienti garanzie di stabilità. Inoltre dato che il platano risulta oggi frequentemente attaccato da gravi malattie (cancro colorato) è apparso estremamente rischioso mettere a dimora piante della stessa specie ad integrazione di quelle abbattute dato che il loro futuro sarebbe risultato incerto. E’ stato così necessario decidere di sostituire gradualmente la specie originale con una nuova specie la Quercus pedunculata (farnia), un tempo molto diffusa nella pianura e che potrà sostituire degnamente, sia per portamento che per dimensioni, la specie esistente. In progetto inoltre è stata prevista la modifica della distanza d'impianto (in origine molto densa, circa tre-quattro metri tra una pianta e l’altra) in modo da consentire uno sviluppo più armonioso delle chiome e ridurre quindi le potature. L’obiettivo di questo intervento, prevede, nel breve periodo, un viale misto di platani e farnie che nel lungo periodo diventerà monospecifico di farnia.
Figura 10. Il viale d’ingresso dopo la messa a dimora delle farnie.
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La scelta di sostituire la specie è risultata molto sofferta e delicata, tuttavia la presenza del cancro colorato, che sta continuando a decimare in Italia le piante di platano, non ha lasciato molte altre possibilità di azione. Molti alberi del parco, inoltre, data l’età e l’esigua distanza tra le piante, hanno avuto la necessità di essere potate. Si tratta quasi sempre di potature del secco ed ogni anno, secondo un preciso turno, le piante vengono alleggerite delle branche morte o pericolose. Il materiale di risulta delle potature delle piante non aggredite da patogeni viene cippato e distribuito sul fondo dei vialetti secondari non inghiaiati per evitare la formazione di fango nei momenti di pioggia. A parte il caso particolare del Viale dei Platani all’interno del Parco del Neto non sono state messe a dimora nuove piante. Si è preferito fare in modo che le specie si rinnovassero da sole, per evitare di introdurre, anche accidentalmente, materiale genetico diverso da quello originale. CONCLUSIONI Alla luce delle considerazioni emerse è possibile sostenere che le componenti vegetali di un giardino, a differenza degli elementi prettamente architettonici, dovrebbero essere oggetto di un perenne cantiere affinché si possano conservare nel tempo ed essere tramandate alle future generazioni. La parte vivente di un giardino ha bisogno di cure manutentive continue sia perché sottoposta al ciclo biologico di nascita, crescita e morte, sia perché si tratta di natura sottoposta a forme artificiali ed a innaturali combinazioni di specie. Gli sforzi, sia tecnici che economici che vengono compiuti per restaurare un giardino possono essere infatti vanificati in un breve lasso di tempo se gli interventi di manutenzione non risultano regolari ed appropriati. La manutenzione progettata, insieme ovviamente ad interventi straordinari di restauro, rappresenta la strada per ottenere questo importante risultato ed è auspicabile che possa essere sempre più spesso applicata sia dagli enti pubblici che dai proprietari privati di beni storici. Esiste infine un ultimo importante elemento da esaminare e che riguarda le capacità tecniche e professionali di coloro che intervengono direttamente nella realizzazione dei lavori Per effettuare una manutenzione corretta di un giardino è importante infatti disporre di giardinieri specializzati che siano in grado di leggere un progetto e di applicare le tecniche di giardinaggio in un contesto storico. Oggi fortunatamente sta nascendo da parte dei committenti, sia pubblici che privati, la consapevolezza di questa necessità e conseguentemente viene preteso che il personale incaricato di un lavoro sia specializzato e che risulti all’altezza del compito da svolgere. Oggi fortunatamente sono sempre più le ditte di giardinaggio in grado di saper lavorare all’interno di un giardino o parco storico proprio perché la committenza appare più esigente e colta ed il mercato del lavoro più articolato. Questo progressivo sviluppo è frutto sia della sensibilità individuale degli operatori che hanno deciso di approfondire le loro conoscenze in ambito storico, sia di corsi di formazione finalizzati alla preparazione di giardinieri professionisti. Anche la possibilità che le ditte di giardinaggio dispongano di macchine speciali, spesso indispensabili per operare in ambito storico, appare oggi più frequente. Molto spesso infatti in un giardino storico gli spazi per operare risultano esigui e le normali macchine operatrici non consentono di svolgere le operazioni colturali in sicurezza, sia per gli operatori che per gli elementi che costituiscono il complesso (statue, vasche, scale, eccetera). Attualmente si assiste alla lenta scomparsa della figura del giardiniere improvvisato, molto diffuso in Italia fino a qualche anno fa, o per lo meno esso risulta relegato a svolgere interventi all’interno di un mercato di più basso livello in cui non sono richiesti interventi delicati come quelli indispensabili in ambito storico. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Amministrazione Comunale di Calenzano (a cura di), Calenzano 75 – 80, numero unico, s.d. 46
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Testo acquisito dalla redazione della rivista nel mese di agosto 2005. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768 Università degli Studi di Firenze
Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/ Firenze University Press anno 3 – numero 3 – gennaio - giugno 2004 sezione: Dialoghi pagg. 48-57
RIFLESSIONI CON VINCENZO CABIANCA* SULLE ISOLE EOLIE Giorgio Costa**
Summary With Vincenzo Cabianca, planner of Aeolian Islands landscape, we talk about scientific knowledge and landscape planning in small islands. In particular, when natural system is so strongly giving shape from the viewpoint of geophysics and vulcanology. During the discussion we carry out deep reflections upon significant of cultural heritage and insularity in this geographical contest, so unique like an insular Vulcan arc can be. Before partially lived in, then place of permanent and productive life, today archipelago’s landscape plan challenges the strong tourist pressure and business to protect his cultural scientific heritage, subject of specific international research. Key-words Landscape Planning, Aeolian Islands, Small Island, Archipelago.
Abstract Con Vincenzo Cabianca, progettista e responsabile scientifico del Piano Paesistico dell’Arcipelago delle isole Eolie, si è affrontato il tema della conoscenza e della pianificazione del paesaggio nelle isole minori. In particolar modo in presenza di un sistema naturale fortemente configurante dal punto di vista della geodinamica matrice, della geomorfologia in funzione del carattere totalmente vulcanico. Nella discussione si effettuano profonde riflessioni sul significato di bene culturale e di insularità in un contesto geografico così unico come solo un arco insulare vulcanico può essere. Prima parzialmente abitato, poi sede di vita stabile e produttiva, l’arcipelago con il Piano paesistico sfida oggi la forte pressione turistica e i forti interessi speculativi per salvaguardare i suoi beni culturali scientifici alla base del riconoscimento di appartenenza al Patrimonio Mondiale da parte dell’Unesco, oggetto di particolari studi a carattere internazionale. Parole chiave Piano paesistico, Eolie, isola minore, arcipelago.
* Architetto, professore ordinario di Pianificazione del territorio, già direttore del dipartimento “Città e territorio” dell’Università di Palermo, già professore di Urbanistica all’Università di Catania, già vice presidente nazionale dell’I.N.U., attualmente impegnato nella “Poesia della scienza” di cui sta curando il XII volume. ** Dottorando di ricerca in Progettazione paesistica, Università di Firenze. 48
Figura 1. Isola di Stromboli. Vista della sciara da nord-ovest.
Come coordinatore del Piano paesistico delle Isole Eolie o Piano strutturale dei beni culturali e territoriali, come lei lo ha sempre definito, come introdurrebbe l’argomento delle isole minori e in maniera specifica delle Eolie? La prima cosa che farei è di suddividere le isole minori in tre macro-categorie secondo il loro carattere genetico: sedimentario, plutonico, vulcanico. Agli effetti della configurazione spaziale nella tipologia vulcanica risultano molto più evidenti gli elementi di carattere naturale rispetto a quelli di carattere antropico. Sono cioè caratteri fortemente configuranti e dominanti. In particolare alle Eolie, il paesaggio di carattere vulcanico, può essere diviso a sua volta in tre grandi categorie: il paesaggio dei coni stromboliani, dei solidi platonici di tipo conico; quello delle cupole di ristagno, solidi anch’essi platonici a semisfera; la terza categoria è costituita dai crateri di esplosione, di tipo idromagmatico, che hanno delle configurazioni legate alla veemenza dell’eruzione, tipicamente esplosiva. Questi tre elementi costituiscono già una caratteristica dominante del paesaggio che è da difendere perché nel mondo il numero dei vulcani è limitato, degli archi insulari è limitatissimo, di archi insulari con le caratteristiche tipiche delle Eolie, direi quasi unico. Dal punto di vista ambientale, quindi, per quanto riguarda le isole minori ed in particolare le isole vulcaniche dell’arcipelago delle Eolie, queste si presentano con una alta tipicità paesaggisica e geografica, geografico-strutturale e geografico-percettiva. Geograficopercettiva come arcipelago e geografico-strutturale per la matrice dovuta all’arco vulcanico. La condizione insulare ha sempre comportato problemi di difesa. Salvo brevi intervalli di tranquillità fino alla battaglia di Lepanto (1571) il pericolo era la condizione prevalente: l’alta probabilità di essere rapiti e di subire ogni tipo di violenza, di essere venduti come schiavi, utilizzati nel peggiore dei modi, era un destino quasi automatico. Dopo, per oltre un secolo, al clima di paura è subentrato un rasserenamento della situazione. Dalla fine del settecento, comincia ad esserci una relativa tranquillità ed una condizione decisamente diversa; la configurazione degli insediamenti non è più la stessa. Nella prima fase, cioè prima della battaglia di Lepanto, gli Eoliani cercavano di non mettere in comunicazione gli insediamenti; per questo motivo solo dopo la realizzazione della circonvallazione dell’isola negli anni ’50 gli insediamenti sono in comunicazione terrestre tra loro; questo costringeva chi avesse voluto impadronirsi del territorio a dividersi e ad approdare in più punti separati senza potere, con uno sbarco unico, raggiungere liberamente ogni punto dell’isola. L’isola diventa una specie di labirinto di difesa per la presenza in generale della fitta macchia mediterranea, che rendeva lenti gli spostamenti, all’interno della 49
quale potevano nascondersi e guadagnare tempo per raggiungere poi le parti alte, come il Castello di Salvamento; dopodiché era impossibile catturarli perché le condizioni morfologiche non lo permettevano. Gli altri insediamenti, contrariamente a quelli sparsi spontanei, quando avevano bisogno di essere concentrati, perché legati ad interessi molto grandi, di tipo commerciale strategico o perché legati ad esempio, come localizzazione, ad una situazione di portuosità naturale, andavano ovviamente alla ricerca di singolarità morfologiche che permettessero attraverso falesie, faglie, frane o elementi morfologicamente confacenti soprattutto del vulcanismo idromagmatico, di sfruttare le situazioni di difesa naturale integrate con elementi di difesa artificiale. Aggiungendo piccole modifiche alle già favorevoli condizioni naturali, l’insediamento diventava inespugnabile. Pensiamo per esempio all’acropoli di Lipari che è posizionata su una cupola di ristagno del penultimo periodo di attività eruttiva. Si tratta di una cupola che si forma nel periodo di passaggio dalla fase stromboliana a quella idromagmatica (in relazione alla viscosità del magma); due di queste ad esempio sono quelle del Castello e del Monastero, che costituiscono proprio l’acropoli di Lipari. Pensiamo al periodo compreso tra la prima età del bronzo e la sua fase terminale, a Panarea. Dove sorge Cala Junco? Sorge su uno sperone di colata lavica che da una parte è interrotto da una strettoia, dall’altra parte è assolutamente non scalabile perché si tratta di un sesto grado quasi verticale e quindi aggredibile e difendibile solo da un numero minimo di persone. Insediamenti su sistemi naturali di questo tipo si trovano anche sulla terraferma. Quindi, un’isola di piccole dimensioni e per di più di origine vulcanica è ad un tempo: un bene culturale di tipo storico-paesistico, per il suo singolare rapporto con il mare che la circonda e per la logica insediativa di mimetica difensiva; un insieme di beni culturali singoli costituiti dagli apparati vulcanici; un ulteriore bene scientifico perché si tratta di una finestra vulcanica sulla geochimica terrestre, sulla geodinamica e sulla vulcanologia come matrice. Ho letto su un suo testo scritto che la sola Lipari è stata abitata in passato con forme di aggregazione urbana, una sola isola di un arcipelago, mentre le altre erano dedite all’agricoltura e al pascolo. Esiste ancora questo carattere? No. Non più perché i terreni hanno un valore enorme, e questo li rende appetibili dal punto di vista del mercato delle seconde case. La dialettica è tra il brutale insediamento e la voglia invece di valorizzare queste preesistenze naturali straordinarie come elementi di valore che comportano attrazione, ma per essere visti e fruiti da parte di tutti in regime compatibile, non devono essere privatizzati e resi disponibili per l’insediamento abitativo. Qui interviene un aspetto ulteriore che è quello che va al di là del Piano paesistico creando quello che deve essere un vero dialogo. Per raggiungere certi obiettivi, bisogna garantire certe condizioni. Quando ebbi l’incarico del Piano paesistico delle Eolie, ho sempre avuto un grande rigetto per la parola “paesistico” o “paesaggistico” non perché il paesaggio inteso in senso esteticopercettivo non sia importante, ma perché la Legge Bottai, che doveva presiedere alla formazione del piano, dava un carattere prettamente percettivo (con valutazione estetica e soggettiva) al termine “paesaggio”, mentre è invece la Legge Galasso la vera Legge, il vero caposaldo di difesa del paesaggio come Bene Culturale, legge che per autorevoli interpreti non era valida in Sicilia perché non approvata con Legge regionale. Il paesaggio visto come insieme armonioso di relazioni tra elementi antropici e elementi naturali è una definizione della prima metà del secolo scorso, ma non è affatto detto che la definizione sia esaustiva. Io ad esempio guardo il paesaggio da un punto di vista strutturale. Per prima cosa dico che il parametro della bellezza è importante se relazionato alle diverse culture, a varie sensibilità, ma quando si tratta di beni culturali che sono singolarità, legate alle scienze della terra e alla bellezza della terra, quando si tratta di vulcani non vale più il discorso se stia bene o male una villetta, se debba essere occultata o meno, un vulcano è un vulcano, come il mare è il mare, un lago è un lago, un fiume è un fiume. Hanno delle identità così precise, singolari ed 50
emergenti che devono essere patrimonio di tutti. Non si può pensare di risolvere i problemi con una accomodante compatibilità estetico-percettiva. Quando si tratta di vulcani, orli craterici, crateri e caldere, faglie e falesie, di coni stromboliani, di colate e di fronti di colate, un paesaggio dove ci sono tutte le tipologie tranne forse quella effusiva, il tesoro dei tesori, ciascuno di questi elementi ha ragione di essere considerato già di per sé una risorsa straordinaria. Ma in questo caso il valore della risorsa passa attraverso il valore della conoscenza. Se l’ossidiana fosse rarissima non ci sarebbe motivo di considerarla meno preziosa di un diamante, col fatto invece che ne esistono grandi colate è considerata una pietra e non una pietra preziosa. Con il fatto che il carapace sia, non dico vergine ma scarsamente rovinato come la colata del ‘700 d.c. del Pilato Rocche rosse, differentemente dalle altre colate che troviamo nel mondo di epoca ben più lontana e quindi ossidate e ormai alterate, fa sì che questa sia un bene assolutamente eccezionale. La non conoscenza di queste eccezionalità dà luogo alla sua disconoscenza e quindi ad ignorare totalmente il loro valore. Quindi, il problema della conoscenza è un problema fondamentale. Lo vediamo con il mercato dell’arte. Se si prende un Leonardo da Vinci vero ed uno falso, oppure un Modigliani vero ed uno falso, quello autentico vale molti milioni di euro, mentre quello falso avrà meno della millesima parte di quel valore che nel tempo è stato attribuito all’opera autentica, progressivamente dalla critica e dal suo valore culturale globale accettato anche simbolicamente dalla società. La conoscenza del mondo naturale, del campo delle scienze della terra, farebbe sì che non si ignorassero certi elementi di tipo naturalistico. Alle Eolie ci sono i Michelangelo, i Leonardo da Vinci, i Renoir, i Picasso, i Vermeer di una natura e di una geodinamica capace di opere assai più straordinarie. Il problema della tutela è un fatto culturale, non solo di culture specifiche nel campo vulcanologico, delle scienze della terra, della geomorfologia, della storia dell’arte, dell’antropologia, ma è qualcosa di più vasto che riguarda la filosofia. La filosofia greca della scuola ionica vede la centralità non dell’uomo, ma del rapporto in equilibrio fra uomo e natura, entrambi con lo stesso peso. La natura semmai deve avere il peso principale, ed il problema è quello dell’armonizzazione del comportamento umano. Socrate, invece, pur essendo un benemerito del pensiero filosofico, è parte di una corrente del pensiero filosofico che rende l’uomo al centro del tutto e favorendo questo antropocentrismo considera ovviamente tutto il resto al suo servizio. Questo viene poi sancito nell’ambito delle religioni, in particolare quella Cristiana, teorizzato poi dai Gesuiti i quali giustificano l’allevamento finalizzato all’alimentazione dell’uomo in quanto l’animale stesso è stato creato da Dio per nutrire l’uomo e non invece visto come un elemento che appartiene all’economia più generale, di una natura di cui l’uomo fa parte. Quindi, quando arriviamo a valutazioni di questo genere è una finezza di quinto grado parlare di paesaggio. Gli Scintoisti per esempio hanno milleseicentosettanta dei: il dio delle piante da frutto, il dio dei fiori, il dio della foresta, … cioè hanno individuato in ogni cosa una presenza di un valore straordinario. Nell’ambito del pensiero scientifico evoluzionista c’è stato Taillard de Chardin, uno scienziato che contemporaneamente aveva la sfortuna di essere vincolato dall’appartenenza ad un Ordine Religioso, per cui aveva continua necessità di conciliare la sua permanenza all’interno della chiesa, di carattere statico, con quella di carattere dinamico e dialettico del mondo della scienza, il quale ha detto una cosa assolutamente straordinaria e fondata, che la creazione è continua. In realtà la prima volta che si ascolta questa affermazione la si intende come una mediazione salvifica, per salvare la sua condizione all’interno di un contesto nel quale una affermazione evoluzionista non sarebbe accettabile. Successivamente e progressivamente è apparso chiaro che Taillard de Chardin ha perfettamente ragione. Pensiamo per esempio alla micro scala dove assistiamo nel medesimo istante a miliardi di nascite, ciò avviene anche nel nostro midollo osseo con la creazione continua dei globuli rossi, e così via. Come si fa a dire che non è una creazione continua? Nello stesso periodo di Humboldt, anzi un po’ prima c’è Athanasius Kircher (1602-1680) il quale capisce perfettamente che può esistere una deriva dei continenti, ma bisogna arrivare al 1910 con 51
Alfred Lothar Wegener (1880-1930) per la prima enunciazione. Kircher ha una idea, un sospetto di questo genere, ma essendo una gesuita, una grande e prestigiosa figura ufficiale di cultura del tempo, deve mettersi in condizioni di non farsi bruciare vivo sul rogo per eresia. Quindi lo assale il problema di spiegare teologicamente come mai tutti gli animali creati da Dio vengono salvati nell’arca, come raccontato nella Bibbia, mentre ce ne sono altri nel nuovo mondo, ben conosciuti alla fine del XVIII secolo. Per cui ipotizza che dopo il diluvio la marea di fango che è rimasta sul fondo abbia creato dei ponti di terra che permisero agli animali di passare da una terra all’altra e di incrociarsi poi fra loro. Quindi, l’armadillo è il risultato di un incrocio fra la tartaruga e un tasso, oppure un cammello … Kircher ha lasciato un testo incredibile che io ritengo sia stato scritto, dall’alto della sua autorità scientifica, prendendo in giro il mondo di allora, un po’ come un certo Presidente Magistrato recentemente assolto che si è divertito con le sue sentenze a dire delle cose assolutamente inaccettabili per il senso comune, contro gli interessi sociali, però rigorosamente nel rispetto delle leggi, proprio per una profonda conoscenza della materia e della sue contraddizioni nascoste e delle sue interpretazioni alternative possibili.
Figure 2, 3. I centri abitati di Ginostra e Stromboli.
Le isole sono state sempre luoghi vissuti, abitati da popolazioni locali che sono riuscite a creare per lunghi periodi una economia capace di renderle per certi versi autonome. La pesca e l’agricoltura ovviamente sono state le attività economiche principali che hanno modificato o condizionato la risultante paesaggio. Data la sua esperienza nel campo della pianificazione si può parlare di caratteri peculiari del paesaggio delle isole minori? Certamente. Esistono due tipi di caratterizzazione: una di tipo configurante e una seconda di tipo connotante. Per quanto riguarda quella di tipo configurante le isole Eolie devono essere viste come la sommità di vulcani sommersi che appartengono ad un arco magmatico, evento che determina le singolarità paesistiche sia dell’arcipelago a livello geografico sia della singola isola vulcanica. Il carattere esplosivo del vulcanismo accentua ulteriormente le peculiarità che possono essere divise in tre tipologie: le morfotipologie stromboliane, le morfotipologie delle cupole di ristagno, le morfotipologie delle esplosioni idromagmatiche. Tutte le didascalie di piano relative alla parte configurante riportano le caratteristiche particolari specifiche primarie di questo paesaggio e dovrebbero essere tutte demanializzate, secondo la mia opinione. Per quanto riguarda il secondo aspetto, la caratterizzazione di tipo connotante, queste peculiarità riguardano l’azione antropica. Esistono varie tipologie insediative: 1) villaggi non protetti in riva al mare, fattibili solo in assenza di pirati marittimi, con possibilità di spiaggiamento delle prime chiatte e barconi, in presenza di grandi quantità di ciottoli di rotolamento prodotto delle eustasie marine, usati poi come materiale edile per i muri delle capanne; 2) villaggi arroccati sugli alti pendii di cupole di ristagno, in prossimità di villaggi precedenti divenuti pericolosi per l’insorgere della pirateria; 3) insediamenti
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sempre più a carattere urbano, come Lipari, fortificati, localizzati su domi vulcanici o in altri casi sulla sommità di falesie con retro monte di fuga; 4) insediamenti sparsi rurali mimetici con le rocce vulcaniche e con vie di fuga verso la sommità craterica; 5) insediamenti sparsi con nuclei di riferimento sociale; 6) sedi umane rivitalizzate a seguito del recupero di insediamenti precedentemente abbandonati; 7) insediamenti abusivi dettati da logiche di mercato o da opportunità occasionali nell’ambito del processo di turistizzazione che ha portato nella lusinga di produzione di benessere a distruggere parti preziose dei beni culturali del territorio costituenti la materia prima della sua ricchezza. In definitiva i problemi di mimetica difensiva hanno agito in maniera parallela e coerente con il processo di selezione naturale delle specie. Ciò che ha avuto maggiore probabilità di sopravvivere ed è stato quindi selezionato dagli eventi della storia è stato ciò che rispondeva alla massima difendibilità ed alla massima concorrenza e convergenza difensiva tra forme della natura e forme della difesa integrativa. Nel caso degli insediamenti minori a queste caratteristiche si aggiungeva la mimeticità dell’azione antropica con le situazioni naturali.
Figure 4, 5. Isola di Vulcano.
Il paesaggio nella pianificazione entra spesso solo secondo una accezione estetico percettiva e, quindi, come un qualcosa che si deve “tutelare e salvaguardare”. Esiste una possibilità di pianificare il paesaggio con azioni attive e anche innovative per le isole minori? Non solo esiste, ma si deve. Tutto il piano delle Eolie per esempio, a partire dal titolo: Piano strutturale dei beni culturali e territoriali eoliani, è visto come lettura scientifica e proposta di interpretazione e comunicazione scientifica in cui tutti gli elementi sono interpretati come elementi culturali da mettere in corrispondenza biunivoca con destinazioni attive coerenti e conformi. Questa è la filosofia del piano e la definizione tipologica. La lettura scientifica e quella in termini di sviluppo sono sinotticamente in un grande tabellone matriciale che include destinazioni compatibili e incompatibili ben esplicitate. Le isole minori sono sempre entrate nell’immaginario collettivo come luoghi in cui potesse specchiarsi la profonda interiorità dell’uomo: penso all’isola nella letteratura o nella cinematografia. È giusto oggi mantenere e/o incrementare questa immagine e in che maniera si può conciliare la richiesta di poter fruire queste isole anche turisticamente, quindi di conseguenza con una mutazione del paesaggio naturale e antropico? Non è così scontata questa deduzione della modificazione del paesaggio in funzione dello sviluppo turistico. Il problema riguarda il “come” risolverla. Nel caso delle Eolie il tentativo di soluzione è affrontato e proposto attraverso il piano paesistico come piano strutturale dei beni culturali. L’Unesco ha accolto le Eolie nella lista dei siti patrimonio dell’umanità
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proprio per l’aspetto della tutela e salvaguardia nelle trasformazioni, perché l’Unesco non si accontenta della conservazione della condizione naturale, ma vuole la compresenza di questi due aspetti, naturale e antropico, con la diffusione della conoscenza e con l’assunzione di atti da parte della popolazione che dimostrino la compresenza dell’importanza degli elementi in gioco. Questo attraverso la loro elezione a “idoli culturali” da difendere, nella comprensione che da loro dipendono tutte le forme di lavoro qualificato non autodistruttivo e sostenibile. Fa parte del piano paesistico anche il piano letterario che io ho prodotto assieme ad Adriana Mangoni Pignatelli che fa vedere come, ad esempio, la letteratura ed il cinema entrino a pieno titolo a far parte di questo aspetto, nella storicizzazione interpretativa delle isole
Figure 6, 7. I due volti di Lipari, un paesaggio insulare unico e la cava di pomice, ancora attiva.
Quindi è possibile prevedere una mutazione in termini positivi? Io dico date a Cesare quel che è di Cesare e date ad altri solo e soltanto quello che non è di Cesare. La parte turistica fruisce (senza possederlo) di quello che è di Cesare, andando a visitarlo, conoscendolo prima attraverso la letteratura, le guide, vedendolo dal mare e in alcuni casi accedendovi, leggendo le didascalie localizzate nei Visitors Centres e nel territorio per conoscerne l’importanza e il valore. Per quanto riguarda il fenomeno turistico e le sedi a rotazione d’uso è fondamentale il recupero fisico e funzionale. Quello che il piano delle Eolie propone è quello della città albergo, cioè quello di favorire che la popolazione ospiti con facilitazioni comunali i turisti, perché è infinitamente più piacevole conoscere queste persone che sono ex muratori, ex pescatori con i loro figli, le loro mogli, i loro problemi, i loro ricordi che non andare in alberghi dove spesso i costi sono molto alti, dove si mangiano cose che provengono da altri luoghi, con l’aria condizionata e non con il riscontro d’aria attraverso l’occhio di bue, una serie di piccole attenzioni che hanno reso abitabili e confortevoli in maniera semplice le abitazioni tradizionali di questi luoghi.
Figure 8, 9. Immagini tratte dal film di MICHAEL RADFORD, Il Postino, 1994, ambientato nell’Isola di Salina.
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Il Piano paesistico delle isole Eolie in quale maniera si relaziona con le disposizioni introdotte con il “Codice Urbani”? Il Piano dissente dalla linea di privatizzazione estesa ai beni culturali, perché il piano paesistico dà molta importanza alla demanialità, cioè all’appartenenza pubblica delle risorse configuranti. Prima di Urbani comunque hanno pensato ad anticiparlo tutte quelle forze politiche che hanno fatto scomparire questa componente, riducendo a paesaggio percettivo quello che era bene demaniale culturale o paesistico in regime di tutela, riserva protetta, parco, uso civico. Tutto questo avviene all’interno di un processo di privatizzazione che va a beneficio di quei pochi che avevano concessioni su gli usi civici del demanio comunale in concessione creando un danno inimmaginabile. Dare in concessione il “demanio delle pomici” a chi già lo stava distruggendo a livello industriale, togliere al pubblico tutte le spiagge accessibili da terra, creando un monopolio dell’uso del mare è di una gravità insopportabile. Non esisteranno più i pescatori perché nel frattempo o saranno diventati ricchissimi grazie alla vendita dei terreni, al potenziale abusivismo o i figli se ne saranno andati. Esisteranno alla fine solo seconde case ed alberghi dove accederanno solo pochi con cifre favolose e poi per stanchezza verrà abbandonato il tutto da turisti alla ricerca di qualche altra isola selvaggia, mentre gli abitanti avranno alla fine perduto tutta la disponibilità dei beni immobiliari. Pensando alla quantità di isole che ci sono nell’Egeo settentrionale, i turisti andranno altrove e questi beni saranno stupidamente ceduti a chi accedendovi crederà di accedere a una classe sociale superiore spendendo molto e non avendo più la possibilità di fruire di una culturalità ormai spenta. La carrying capacity, parametro utilizzato anche dall’Unesco, sarà superata e moltiplicata. Per questo l’Unesco ha ritenuto il piano lo strumento di tutela che consente di indicare al mondo le Eolie come uno degli esempi di bene culturale individuato, conosciuto, interpretato, gestito e tutelato in maniera esemplare. Si comprende facilmente che perdere tutto questo vuol dire buttare via un privilegio mondiale e consentire una squalificazione demoralizzante, insostenibile, definitiva, totale.
Figura 10. L’acropoli di Lipari.
Possono le isole minori costituire nel loro specifico una sorta di laboratorio di sperimentazione di azioni tese al raggiungimento della fruizione programmata o programmabile e nella salvaguardia dei caratteri matrice per avviare un laboratorio? Certo. E’ come dire in area consumistica: possiamo passare dall’andare a piedi, andare in monopattino in un mondo in cui già esiste la Ferrari. Non solo possiamo, ma dobbiamo, dovremmo averlo già fatto. Passare dal carcere di massima sicurezza, dal confino politico, dalla mortificazione della cultura, dalla inaccessibilità ad un luogo culturale è un vanto 55
mondiale. Le Eolie sono da tempo luogo di ricerca e osservatorio con le sedi del CNR, dell’Istituto Internazionale di Vulcanologia, fin dai tempi di Rittmann, poi l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, il museo di Vulcanologia (con le sue sezioni di Cultura Materiale, Cosmica, Generale, Eoliana e Sottomarina), lo straordinario museo Archeologico, il museo di Biogeografia evolutiva generale e eoliana, il Visitor Center di Vulcano, la postazione di sorveglianza della Protezione civile a Stromboli, ora le nuove sezioni distaccate del Museo Eoliano di Lipari nelle altre isole, quindi un vero laboratorio a livello internazionale per il livello mondiale di interesse delle Eolie e degli operatori internazionali che vi operano. E’ possibile “isolare” il paesaggio delle isole minori dalle relazioni strutturali, strumentali con il resto della terraferma? Le relazioni si riferiscono sia al paesaggio geodinamico sia al paesaggio antropizzato. Dalle relazioni di fruizione no, dal punto di vista dell’identità sì, certamente sì. Si tratta quindi di isolare per allacciare un tipo di relazione che diventa a questo punto il viceversa dell’isolamento, che è la conoscenza strutturale e storicizzata, è la fruizione, una fruizione compatibile che può essere fisica, visuale, cognitiva, virtuale, economica, eccetera. Quindi, quando si dice una cosa bisogna sempre aggiungerci una serie di aggettivi che sono di carattere modale, quantitativo, qualitativo, parametri di alleanza e di conflittualità. In questo senso la risposta va data, in maniera fine, in maniera molto articolata: bisogna esaltarne l’identità, quindi differenziarla per favorire l’accessibilità culturale che non è affatto favorita senza conoscenza, senza vincoli, senza musealizzazione, senza piano di tutela, senza parco e al tempo stesso bisogna consentire di vedere, di toccare ma non certo di insediarvisi, di distruggerla, di utilizzarla in superficie per attività minerarie e così via. La trasformazione è un’altra cosa e può e deve avvenire, ma solo negli ambiti di trasformazione. Tra due vulcani, ad esempio, ci sarà una zona intervulcanica dove potranno essere utilizzate le sedi esistenti od altre nuove coerenti urbanisticamente e paesisticamente, che non saranno però esclusivamente turistiche, anzi possibilmente per gli abitanti, che potranno con vantaggio ospitare temporaneamente i turisti. Ma, per tornare alla domanda, dobbiamo vedere la cosa anzitutto geneticamente. Un’isola da “punto caldo” nel Pacifico (come le Hawaii) è isolata strutturalmente dai continenti circumpacifici, mentre un’isola “chersonesica” ha fatto parte della terra ferma sino a quando la geodinamica non l’ha distaccata dal territorio originario. Un’isola di un arco insulare vulcanico è autonoma dalla terraferma; un’isola come la Corsica e la Sardegna vengono dalla Catalogna in deriva, e così via. Premesso ciò, per definire l’identità è poi indispensabile ricorrere alla selezione delle relazioni ed appartenenze come componenti di caratterizzazione identitaria, individuarne le specificità, in una parola la sua insularità fisica e culturale.
Figura 11. Stromboli.
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RIFERIMENTI ICONOGRAFICI Figure 1, 3, 5, 7, 10,13: tratte dal sito www.quasarsail.it. Figura 4: tratta dal sito www.villaeoliana.it Figure 8, 9: tratte dal film di RADFORD MICHAEL, Il Postino, 1994.
Testo acquisito dalla redazione della rivista nel mese di aprile 2005. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768 Università degli Studi di Firenze
Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/ Firenze University Press anno 3 – numero 3 – gennaio - giugno 2005 sezione: Itinerari pagg. 58-70
I PARCHI GESTITI DALL’ENTE ROMANATURA. Alessandra Cazzola *
Summary The Lazio’s system of preservation areas is divided in sixteen Regional Parks, twenty seven Natural Preserves, five Natural Monuments and four Humid Zones. The regional territory is interested by three National Parks and eight National Natural Preserves, too. Fourteen preservation areas, since 1998, are managed by one corporation, RomaNatura, which is a public law subject, with administrative and financial autonomy. It is composed by City of Rome, Regione Lazio and Provincia of Rome. The article describes the landscapes’ situations of this preservation areas and the planning and programming experiences that, in this period, are conduced by RomaNatura. Key-words Rome, Preservation Areas, Landscape Planning.
Abstract Il sistema delle aree protette regionali del Lazio è composto da sedici Parchi regionali, da ventisette Riserve Naturali Protette, da cinque Monumenti Naturali e da quattro Zone Umide. Il territorio regionale è inoltre interessato da tre Parchi Nazionali e otto Riserve Naturali Statali. Ben quattordici di queste sono state affidate, dal 1998, alla gestione di un unico Ente, RomaNatura, un Ente di diritto pubblico dotato di autonomia amministrativa, finanziaria e patrimoniale, al quale partecipano il Comune di Roma, la Regione Lazio e la Provincia di Roma. Nel testo viene fatta una descrizione sintetica delle diverse situazioni paesistiche di queste aree e delle esperienze pianificatorie e programmatorie in atto oggi da parte di RomaNatura. Parole chiave Roma, aree protette, pianificazione paesistica.
* Dottore di ricerca in Progettazione paesistica, Università di Firenze; specialista in Pianificazione Urbanistica, Università di Roma “La Sapienza”.
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L’ENTE ROMANATURA E LA GESTIONE DELLE AREE NATURALI PROTETTE NEL COMUNE DI ROMA Nell’ottobre del 1997 la Regione Lazio - con la Legge Regionale n. 29 - istituiva ben nove nuove aree naturali protette, affidandole, nell’aprile dell’anno successivo, alla gestione di un unico Ente, RomaNatura, al quale partecipano il Comune di Roma, la Regione Lazio e la Provincia di Roma. Alle nuove aree protette si aggiunsero anche il Parco Regionale del Pineto e quello di Aguzzano, istituiti alcuni anni prima. Nel corso del 1999 e del 2000 venne poi sancita la tutela di altri due Monumenti Naturali di grande importanza: quello di Galeria Antica e quello di Mazzalupetto-Quarto degli Ebrei. Nel novembre del 2000, infine, il Ministero dell’Ambiente istituì l’Area Marina Protetta delle Secchi di Tor Paterno, affidandone la gestione a RomaNatura. Ad oggi nel Comune di Roma esistono diciotto aree protette, aventi strutture e responsabili distinti: - la Riserva Statale del Litorale romano con la Tenuta Presidenziale di Castel Porziano, gestita dal Corpo Forestale dello Stato con la collaborazione delle Amministrazioni Comunali di Roma e Fiumicino; - i Parchi Regionali dell’Appia Antica, di Bracciano-Martignano e di Veio, dotati di gestione autonoma perché estesi anche al di fuori del territorio comunale; - le quattordici Aree Naturali, pari a circa quattordicimila ettari, tutte interne al Comune di Roma e gestite da RomaNatura (Aguzzano, Decima-Malafede, Galeria Antica, Insugherata, Laurentino-Acqua Acetosa, Marcigliana, Monte Mario, Pineto, Tenuta dei Massimi, Tenuta dell’Acquafredda, Valle dei Casali, Valle dell’Aniene, MazzalupettoQuarto degli Ebrei e Secche di Tor Paterno). Gli obiettivi che stanno alla base del lavoro dell’Ente sono, da una parte, la tutela del patrimonio naturalistico e paesaggistico, che presenta una notevole ricchezza di fauna e flora e scenari di bellezza non indifferente, dall'altra, lo sviluppo di tutte quelle strutture ed attività compatibili che possano rendere i parchi naturali ancora più "vivi" e frequentati dai cittadini (centri visita e sentieri natura, punti di ristoro, agriturismo e sport, agricoltura biologica e vendita di prodotti di qualità, eccetera). In particolare, le principali attività svolte dall'Ente per la gestione del sistema delle aree naturali e la tutela del patrimonio sono state: - la redazione dei piani di assetto delle Riserve Naturali e la stesura del regolamento delle aree naturali protette gestite da RomaNatura; - il rilascio, come previsto dalle Leggi Regionali 29/97 e 24/98, di pareri e di autorizzazioni relativi ad interventi da realizzare nelle aree protette; - lo svolgimento di attività di sorveglianza ambientale e di controllo sul rispetto delle leggi e dei regolamenti, che sono svolte da Guardiaparco grazie ad una convenzione con le associazioni ambientaliste (Legambiente, LIPU e WWF). Le attività che hanno, poi, riguardato la promozione delle aree naturali protette e delle attività eco-compatibili sono state: - l’organizzazione di un sistema di visite guidate, di corsi di educazione ambientale e di servizi al pubblico, affidato a cooperative ed associazioni legate al territorio; - la realizzazione di sentieri natura per facilitare la scoperta del patrimonio naturalistico dei parchi e la tabellazione lungo i confini, ritenendo tale strumento fondamentale, tanto per rendere più visibili le Riserve ai cittadini, quanto per scoraggiare le trasgressioni ai vincoli esistenti; - la promozione di studi, ricerche e tesi universitarie sui temi ambientali e sul territorio gestito dall'Ente; - la promozione delle aziende agricole, dell'agricoltura biologica e dei prodotti tipici locali;
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l’attivazione di uno sportello informativo sulle opportunità offerte dal Piano Regionale di Sviluppo Rurale 2000-2006 (PSR) agli imprenditori agricoli per supportare le attività agricole nelle aree protette; la realizzazione di una rete di fattorie didattiche, realizzata con il contributo dell'Assessorato alle Politiche Educative e Scolastiche del Comune di Roma, con lo scopo di far conoscere ai bambini la vita di campagna, l'origine e la trasformazione degli alimenti, gli animali e le piante; l’apertura delle Case del Parco come luoghi dove offrire ai visitatori i servizi principali, un centro visite, un presidio per la vigilanza; l’organizzazione di eventi e manifestazioni per promuovere la conoscenza dei Parchi e lo sviluppo dei servizi eco-compatibili.
GLI OBIETTIVI GENERALI DELL’ENTE E LE AZIONI INTRAPRESE E PROGRAMMATE L’impegno maggiore di RomaNatura è stato rivolto principalmente all’analisi puntuale del territorio e del grande patrimonio naturalistico e storico in esso contenuto, al fine soprattutto di predisporre, per ciascun parco, un proprio Piano di Assetto e un proprio Regolamento di Attuazione1. Gli obiettivi generali che, istituzionalmente, RomaNatura si è sin dall’origine posta sono: - la tutela, il recupero e la difesa degli habitat e degli equilibri naturali; - la valorizzazione dei beni e delle aree archeologiche; - l’integrazione tra l’uomo e l’ambiente, mediante la salvaguardia dei valori antropologici, storico-archeologici e delle attività silvopastorali; - l’educazione, la formazione e la ricerca scientifica;
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Tutti i Piani di Assetto sono stati adottati dall’Ente; i Piani del Parco della Riserva Naturale del LaurentinoAcqua Acetosa, della Riserva Naturale di Monte Mario, della Riserva Naturale dell’Insugherata e della Riserva Naturale della Tenuta dei Massimi sono stati approvati dalle Regione, gli altri sono in via di approvazione come specificato nella tabella seguente [i dati sono desunti dal sito www.romanatura.roma.it]. Riserva Naturale Laurentino Acqua Acetosa Monte Mario Insugherata Tenuta dei Massimi Valle dei Casali Decima Malafede Marcigliana Tenuta dell’Acquafredda Valle dell’Aniene
Adozione 30/07/2001 Deliberazione RomaNatura n. 47 5/11/2001 Deliberazione RomaNatura n. 52 28/01/2002 Deliberazione RomaNatura n. 4 8/04/2002 Deliberazione RomaNatura n. 8 1/07/2002 Deliberazione RomaNatura n. 23 25/11/2002 Deliberazione RomaNatura n. 45 10/02/2003 Deliberazione RomaNatura n. 5 03/03/2003 Deliberazione RomaNatura n. 15 24/03/2003 Deliberazione RomaNatura n. 21
Pubblicazione 21/01/2002 13/04/2002 12/08/2002 13/12/2002 28/03/2003 23/05/2003 25/10/2003 inviato alla Regione per la pubblicazione inviato alla Regione per la pubblicazione
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Controdeduzioni 1/08/2002 Deliberazione RomaNatura n. 28 23/12/2002 Deliberazione RomaNatura n. 52 13/01/2003 Deliberazione RomaNatura n. 2 28/03/2003 Deliberazione RomaNatura n. 26 Da controdedurre da parte del Consiglio Direttivo dell’Ente Da controdedurre da parte del Consiglio Direttivo dell’Ente
Note Trasmesso alla Regione il 18/11/2002 Trasmesso alla Regione il 28/03/2003 Trasmesso alla Regione il 28/03/2003 Trasmesso alla Regione il 05/08/2003
- la creazione di nuovi posti di lavoro attraverso lo sviluppo dell’agriturismo, dell’agricoltura biologica, dei servizi e delle attività ricreative; - il coinvolgimento dei cittadini, delle associazioni ambientaliste e di volontariato. Il programma di ricerca sul sistema di aree protette di Roma è stato caratterizzato da una prima fase di inquadramento delle indagini nel più vasto ambito di riferimento dato dall’intero territorio del Comune di Roma. Durante tale fase di inquadramento sono stati prodotti diversi elaborati estesi a tutta l’area romana: una Carta di uso del suolo e dei caratteri della vegetazione2, una Carta dei caratteri paesaggistici, una Carta geologica, alcune Carte idrologiche, idrogeologiche e dei caratteri morfometrici. L'inquadramento territoriale è stato poi completato dalla realizzazione di una Carta fitoclimatica (che costituisce l'aggiornamento e l'approfondimento per il territorio romano della Carta del fitoclima regionale)3. Nel quadro delle ricerche per i piani delle aree protette le carte generali hanno costituito il riferimento per una valutazione del valore strutturale e sistemico delle componenti territoriali, della rappresentatività e unicità dei valori naturalistici e paesaggistici rilevati, delle interferenze e interruzioni delle continuità ambientali. Sin dalle fasi iniziali è stato dato un significato strutturante la definizione degli elementi legati alla geologia e idrogeologia e alle caratteristiche climatiche del territorio. Successivamente alla realizzazione degli studi di inquadramento territoriale, le singole aree protette sono state indagate nel dettaglio entro diversi settori di ricerca, che hanno elaborato a conclusione delle indagini carte alla scala 1:10.000 per le aree protette più estese, con approfondimenti al 5.000 per le aree protette di minore ampiezza e maggiore frammentazione. Nell’ultima fase di vera e propria definizione dei Piani del sistema di aree naturali protette, si è tenuto conto di due fondamentali esigenze: - una esigenza di unitarietà della disciplina del sistema, motivata da ragioni scientifiche (unitarietà dell’ecosistema urbano) e gestionali (sia per gli utenti, che per l’Ente Parco), - una esigenza di valorizzazione delle informazioni e delle analisi specifiche relative a ciascuna area protetta. La scelta finale ha, dunque, previsto la definizione di una normativa valida per tutte le aree protette del sistema, contenente i fondamenti della disciplina di gestione e attuazione dei piani, e la redazione di un agile elaborato normativo integrativo contenente la disciplina specifica della singola area protetta. Ciascun Piano ha inoltre individuato una sorta di “parco progetti” attraverso il quale la pianificazione del sistema di aree naturali protette di RomaNatura ha assunto dimensione strategica, con immediati riflessi attuativi ma con un orizzonte di medio-lungo periodo. L’insieme dei progetti individuati rappresenta, in sovrapposizione alle azioni di buona gestione del territorio previste dalla normativa, un insieme di opportunità per la riqualificazione delle situazioni di degrado dell’ambiente e per la promozione della qualità, un insieme di interventi di miglioramento e valorizzazione delle risorse esistenti e un insieme di interventi organici per la fruizione delle aree protette, lo sviluppo economico delle aziende agricole e delle attività compatibili con il contesto delle riserve naturali di Roma. Essi costituiscono l’insieme di interventi - talvolta non previsti specificamente dalla normativa ordinaria di gestione per le singole zone normative (la zona A di Riserva Integrale, la zona B di Riserva Generale, la zona C di Protezione, la zona D di Promozione economica e sociale) - la cui funzione specifica nel sistema territoriale e la cui relazione con l’ambiente dell’area naturale protetta sono state valutate positivamente nel quadro del piano territoriale e sono risultate coerenti con gli obiettivi perseguiti. 2
Per la redazione della Carta al 50.000 dell’uso del suolo è stata utilizzata la legenda Corine Land Cover di II e III livello per le superfici artificiali, le aree agricole, i corpi e corsi d’acqua, di III e IV livello per le aree forestali e seminaturali; per le carte di dettaglio 1:10.000/5.000 è stato utilizzato il IV livello. 3 CARLO BLASI, Fitoclimatologia del Lazio, tip. Borgia, Roma 1994.
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Alcuni progetti si applicano a singoli ambiti determinati, in altri casi hanno una applicazione estesa a situazioni ambientali diffuse, indicate dal Piano. La loro attuazione avviene attraverso l’uso di apposite schede progetto che hanno un valore prescrittivo per ciò che riguarda la localizzazione e la descrizione dell’intervento, gli obiettivi specifici ai quali esso mira, le prescrizioni e raccomandazioni progettuali. Hanno, invece, un valore meramente programmatico le indicazioni riguardanti i soggetti coinvolti e le modalità attuative, i riferimenti programmatici, le linee di finanziamento e le priorità dell'intervento. Nelle schede è inoltre contenuta una stima preliminare dei costi che consente di definire la dimensione finanziaria dell’intervento per l’accesso ai finanziamenti. Così come sono stati impostati, i vari Piani di Assetto presentano una doppia anima. In primo luogo sono Piani prevalentemente di gestione, cioè mirano prevalentemente a definire i criteri di manutenzione del territorio e dell’ambiente; in secondo luogo sono Piani di interventi specifici mirati allo sviluppo della fruizione, delle attività agroambientali e di interventi legati alla riqualificazione e miglioramento paesistico e ambientale dei luoghi. Sono, quindi, strumenti gestionali e pianificatori che si pongono precisi obiettivi, fondati su principi di sostenibilità verificati sulla base delle specifiche politiche di conservazione delle risorse naturali che, a loro volta, sono applicate in modo differenziato in relazione alla conoscenza particolareggiata dei valori e delle sensibilità ambientali. Sono al contempo Piani generalisti, nel senso che prevedono la pianificazione integrale del territorio sulla base di una disciplina di gestione differenziata per zone, e Piani di dettaglio, perché definiscono in modo specifico gli interventi legati alla fruizione, all’accessibilità, alla riqualificazione ambientale e paesaggistica. Le previsioni di ciascun Piano sono strettamente legate agli studi scientifici della prima fase, che, come allegati, divengono strumento di verifica della sua attuazione. Il lavoro di predisposizione dei Piani di Assetto è stato svolto in parallelo con attività di consultazione pubblica e incontri di collaborazione interistituzionale con il Comune di Roma (in particolare con i settori dell’ambiente e dell’urbanistica), con le amministrazioni decentrate (Municipi), con la Soprintendenza Archeologica di Roma, con l’Autorità di Bacino del Fiume Tevere, con il Consorzio di Bonifica dell’Agro Romano oltre che con l’Agenzia Regionale Parchi, interlocutore tecnico in tema di aree naturali protette per conto della Regione Lazio. LE AREE PROTETTE DI ROMANATURA Da un punto di vista operativo, le maggiori risorse di RomaNatura dal 1997 ad oggi sono state spese nel tentativo di trasformare in aree verdi a disposizione della città territori segnati in molte parti dall’incuria e dall’abbandono e destinati, prima che diventassero parchi, ad accogliere l’espansione di tessuti insediativi che presto avrebbero sostituito con cemento e asfalto i boschi e i prati ancora esistenti nell’area urbana. Le preesistenze archeologiche, i monumenti, le ville e i casali rappresentano, in realtà, solo una parte, seppur importante, della ricchezza della dotazione delle aree protette gestite da RomaNatura. Il vero e proprio tesoro di queste riserve è rappresentato soprattutto dalle numerose ed importanti nicchie ecologiche presenti, caratterizzate da oltre mille specie vegetali, cinquemila specie di insetti e altre centocinquanta specie fra mammiferi, uccelli, anfibi e rettili. Molti dei parchi, inoltre, conservano una notevole vocazione agricola che, a tutt’oggi, fa del Comune di Roma il primo comune agricolo d’Italia.
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Figura 1 Le aree protette dell’Agro romano: 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18.
Galeria Antica Mazzalupetto Marcigliana Insugherata Monte Mario Pineto Aguzzano Valle dell’Aniene Tenuta dell’Acquafredda Tenuta dei Massimi Valle dei Casali Laurentino-Acqua Acetosa Decima-Malafede Parco di Veio Parco dell’Appia Antica Riserva del Litorale romano Parco di BraccianoMartignano Secche di Tor Paterno
Monumento Naturale di Galeria Antica L’area protetta è costituita dalle rovine di un borgo medievale, arroccato su un alto sperone di tufo lambito dal fiume Arrone nei pressi della via Braccianense nella zona ovest di Roma, le cui origini risalgono probabilmente al tempo degli etruschi. La valle dell'Arrone ha rappresentato per migliaia di anni un elemento catalizzatore della frequentazione e dell'insediamento stanziale dell'uomo sin dall'epoca preistorica, come testimoniato dai ritrovamenti di manufatti in selce e dei resti di fauna del Paleolitico nell'era iniziale dell'emissario e nel basso corso dell'Arrone e dalle indagini archeologiche dell'insediamento neolitico della "Marmotta" presso Anguillara Sabazia. Il borgo, ormai abbandonato da oltre due secoli e le cui origini sono confuse e contraddittorie, fu probabilmente abitato già da epoche remotissime vista la sua posizione strategica estremamente favorevole, e rappresenta forse la più affascinante tra le “città morte” del Lazio; esso è ricoperto da una fitta ed intricata vegetazione che ha fatto sì che vi si venisse a formare un ecosistema di notevole interesse.
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Figure 2 e 3. Campanile della Chiesa (a sinistra) e una piccola cascata (a destra) nell’area protetta Galeria Antica.
Monumento Naturale di Mazzalupetto Quest’area protetta, situata nel quadrante nord-ovest del Comune di Roma tra la ferrovia Roma-Viterbo e il Raccordo Anulare, racchiude altopiani e fondivalle caratteristici della campagna a nord di Roma ed è in realtà formata da due tenute, non lontane tra loro, divise dall’urbanizzazione presente nella fascia nord dell’agro romano. La più grande delle tenute è detta “di Mazzalupetto” ed è costituita da centoquaranta ettari di campagna in massima parte coltivata, con spallette boschive lungo i dossi. La seconda, estesa su circa quaranta ettari, denominata “Quarto degli ebrei”, presenta caratteristiche del tutto analoghe alla precedente. Le due zone di cui è composta questa Riserva si trovano al di là del Grande Raccordo Anulare, vicino alla “Tomba di Nerone”, ubicate a stretto contatto con la colata di cemento della borgata Ottavia e delle diverse lottizzazioni presenti nella zona. Tanto la “tenuta di Mazzalupetto”, quanto quella del “Quarto degli ebrei” diventeranno presto zone per la produzione di agricoltura biologica, prevedendo anche la creazione di un vivaio-laboratorio dedicato alle piante officinali. Attualmente l’area protetta mette a disposizione dei quartieri vicini un importante laboratorio agro-ambientale, per promuovere tra i cittadini, bambini e adulti, la conoscenza della vita agricola e il consumo alimentare consapevole. Riserva Naturale della Marcigliana La Riserva si estende a nord-est, per una superficie di 4.696 ettari, su una serie di alture delimitate dal corso del Tevere ad ovest, dal fosso della Bufalotta a sud e dal Rio del Casale, che segna anche il limite del Comune di Roma, a nord. Le basse colline arrotondate sulle quali si sviluppa l’area protetta sono ancora coltivate a seminativo estensivo o destinate a pascolo, mentre le valli risultano per lo più ricoperte da una vegetazione a macchia mediterranea: si tratta dei residui di bosco di querce (cerro, farnia, roverella e farnetto) spesso accompagnate da aceri e olmi. La fauna, minacciata dall’urbanizzazione e dalla caccia fino all'istituzione della Riserva, è di estremo interesse: rilevanti le presenze dei mammiferi (volpe, faina, donnola, ma anche tasso e istrice), tra cui spicca quella della lepre italica.
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L’area riveste inoltre un grande interesse per il sistema storico-paesistico delle grandi tenute (le più famose sono quelle della Marcigliana e di Tor S. Giovanni), che ancor oggi sono caratterizzate dalla presenza dei casali, spesso costruiti sui nuclei delle ville romane, e delle torri medievali che creano un continuum storico pressoché unico.
Figure 4 e 5. Riserva Naturale della Marcigliana (a sinistra) e Parco di Aguzzano (a destra).
Parco Regionale Urbano di Aguzzano Il Parco, ampio circa sessanta ettari, istituito nel 1989, si trova nella zona est della città ed è compreso tra la via Nomentana, la via Tiburtina e il Grande Raccordo Anulare. Esso rappresenta un vero e proprio polmone verde in mezzo ai quartieri densamente edificati, costituendo un punto di svago e di incontro per i cittadini. Qui esisteva il “fondo Auzano”, un’enorme tenuta agricola della gens Acutia, oggi territorio dedicato all’agricoltura che, seppur dopo aver subito numerosi frazionamenti, è sostanzialmente sopravvissuto. Un elemento caratteristico del Parco è rappresentato da un reticolo di filari ad alto fusto, costituiti da pini, pioppi e platani. Nel luglio del 2002 è stata aperta la “Casa del Parco”, a seguito del restauro di un casale rurale dei primi del Novecento situato all’interno dell’area protetta. Riserva Naturale dell’Insugherata La Riserva, posta nella zona nord dell’area romana ed ampia più di seicento ettari, è compresa nell’area del bacino idrografico del fosso dell’Acqua Traversa ed è delimitata dalle vie Trionfale e Cassia, lungo le quali sono numerosi e visibili i resti archeologici di ville e sepolcri romani. L' area rappresenta un rilevante corridoio naturalistico tra i confini urbanizzati a nord della città ed il grande sistema Veio - Cesano. Il paesaggio vegetale è assai articolato. Nei versanti più caldi troviamo la sughera insieme alla roverella, oppure il leccio sugli affioramenti rocciosi, mentre in quelli più freschi si ha una vegetazione completamente diversa con boschi misti di notevole rilevanza costituiti da carpino, orniello, farnia e acero. Nelle parti più basse dei versanti è inoltre presente il castagno e il nocciolo. Lungo i corsi d'acqua sono presenti il salice e il pioppo e notevole è la presenza di felci.
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Ricca è la fauna della zona: tra i mammiferi il riccio, la talpa, l'istrice, il moscardino; tra gli uccelli nidificanti il gheppio, il fagiano, la tortora e il cuculo. Tra i rettili l'orbettino, la biscia dal collare e tra gli anfibi è da segnalare la presenza della salamandrina dagli occhiali, specie esclusiva della penisola italiana. Parco Regionale Urbano del Pineto Il Parco, grande duecentoquarantatre ettari, è costituito da una vallata denominata la “Valle dell’Inferno”, situata a nord-ovest della città che un tempo era estesa fino alle Mura della Città del Vaticano ed era caratterizzata da fornaci per il calcare destinato alla Fabbrica di San Pietro e dalla presenza di casali e vigne. Nei particolari ed unici paesaggi del Parco si possono, infatti, ritrovare le tracce di circa due milioni di anni di avvenimenti geologici, dal mare tropicale profondo alle eruzioni del vulcano Sabatino, attraverso le sabbie e le ghiaie. Alla fine del XVI secolo fu edificata da Pietro da Cortona per la famiglia Sacchetti una grande villa, oggi andata completamente distrutta. La vegetazione presente è quasi esclusivamente formata da macchia mediterranea con uno strato arboreo dominato dalla sughera; nel sottobosco sono presenti essenze quali erica arborea, cisto, lentisco, mirto e corbezzolo con splendide fioriture primaverili. Ricca anche la fauna con il moscardino, il topo selvatico e la biscia dal collare.
Figure 6 e 7. La grande sughera presente nella Riserva dell’Insugherata (a sinistra) e il bosco di pini del Parco del Pineto (a destra).
Riserva Naturale di Monte Mario Monte Mario, con i suoi centotrentanove metri di altezza, è il rilievo più imponente del sistema dei colli denominati “Monti della Farnesina”, situati nella zona nord della città, e rappresenta per le sue caratteristiche ambientali un vero e proprio mosaico di diversità biologica, quale ormai raramente è possibile rintracciare a Roma. L’area, grande circa duecento ettari, presenta nelle zone più basse una vegetazione mediterranea (leccio, sughera e cisto), che si contrappone a quella tipica di condizioni submontane nelle aree più alte (carpino, tiglio, acero, orniello, nocciolo, ligustro e corniolo). La composizione del terreno è caratterizzata da sabbie e ghiaie di antica origine, dalle quali si ricostruisce facilmente la storia geologica dell'area in cui è sorta la città. L'antropizzazione dell'area ha fortemente disturbato la presenza di una fauna originaria: presenti oggi sono roditori (moscardino, topolino delle case, topo selvatico) e uccelli (pettirosso, merlo, codibugnolo, verdone, cardellino, taccola e storno). L'area costituisce per la città un bene di inestimabile valore culturale ed ambientale, del quale fanno parte ville storiche tra cui Villa Mazzanti, sede di RomaNatura, e la Villa Mellini, sede del celebre Osservatorio Astronomico.
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Riserva Naturale della Valle dell’Aniene Le numerose anse del fiume Aniene, a nord della città, caratterizzano - all’interno del Grande Raccordo Anulare - il tratto urbano dell’area; nel tratto extraurbano invece, oggi non ancora inserito nel perimetro della Riserva, predomina la morfologia tipica della Campagna Romana. Il territorio è pressoché pianeggiante, tanto da favorire l’instaurarsi di numerosi querceti che si vanno ad affiancare alla tipica vegetazione ripariale. Da un punto di vista faunistico è importante ricordare la presenza del gambero e del granchio di fiume che, abitatori di acque pulite, costituiscono due indicatori ecologici molto validi, nonché di alcune colonie di pipistrelli. All'interno della Riserva si segnalano per la particolare rilevanza naturalistica il Pratone delle Valli e il comprensorio della Cervelletta. Monumento rilevante è il Ponte Nomentano, che risalirebbe all'epoca di Menenio Agrippa e che, con le sue sovrastrutture di epoca medievale e rinascimentale, è stato mille volte ritratto da pittori di tutte le epoche.
Figure 8 e 9. Riserva Naturale della Valle dell’Aniene (sinistra) e Riserva Naturale del Laurentino – Acqua Acetosa (destra).
Riserva Naturale del Laurentino - Acqua Acetosa L’area è delimitata a nord dal sistema insediativo di tipo intensivo del Piano di Edilizia Economica e Popolare “Laurentino 38”, e si estende nella zona a sud di Roma, tra la via Pontina ed il comprensorio dell’Acqua Acetosa. La morfologia della zona risulta caratterizzata dalla presenza della valle entro la quale scorre il fosso dell’Acqua Acetosa, ove si trova la sorgente dell’acqua minerale. Qui, in anni recenti, è venuta alla luce una vasta necropoli di età preromana, testimonianza di un'antica città conquistata dai Romani. La vegetazione esistente, ormai fortemente ridotta e modificata da un intenso sfruttamento agricolo e, soprattutto, dall’urbanizzazione, è presente solo nelle zone più umide e lungo i pendii particolarmente accidentati che fanno da cornice all’intera valle. Riserva Naturale della Tenuta di Acquafredda La Riserva, un antico possedimento di circa duecentocinquanta ettari dei monaci di S.Pancrazio, prende il nome dalle freschezza delle acque del fosso della Maglianella e fa parte, dal punto di vista ambientale, del più ampio ecosistema Ponte Galeria - Arrone nel settore nord-ovest della città. L’ampia valle dell’Acquafredda è fiancheggiata da numerose piccole valli aperte su sedimenti di sabbia e argilla o di tufo, lungo le quali è presente una folta e rilevante vegetazione ripariale. Il suolo è particolarmente fertile: infatti è presente un’ampia varietà naturale rappresentata da sughere, olmi, equiseti, rosa canina, ginestra, cardi e orchidee. Gran parte delle specie vegetali permane solo in prossimità del reticolo idrografico.
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L'ambiente ripariale, distribuito lungo il fosso, svolge un importante ruolo ecologico: nelle formazioni a salici e canneti si possono trovare uccelli tipici degli ambienti umidi, come la folaga, la gallinella d'acqua, l'usignolo di fiume e il pendolino. L’area comprende inoltre pregevoli tenute agricole ed una torre medievale ancora oggi in un buono stato di conservazione.
Figure 10 e 11. La torre di epoca medievale presente nella Riserva Naturale della Tenuta di Acquafredda (a sinistra) e un casale tipico della Valle dei Casali (a destra).
Riserva Naturale della Valle dei Casali La Riserva, estesa per oltre quattrocento ettari nella zona a sud-ovest della città, è caratterizzata da un altopiano che raggiunge gli ottanta metri e degrada poi fino al livello del mare, con un caratteristico andamento movimentato da piccole colline. La vegetazione presente rispecchia un uso del suolo prevalentemente agricolo e dipende in larga misura dalla presenza di una fitta rete di fossi, del fiume Tevere e dalla vicinanza con le aree urbanizzate della città. La valle si insinua infatti da sud-ovest nel tessuto urbano, rappresentando un cuneo di verde che collega le ampie pianure alluvionali costiere con il centro della città, attraverso un continuum con la Villa Pamphili ed il Gianicolo. Nelle zone sfuggite allo sfruttamento insediativo si è mantenuta una condizione seminaturale caratterizzata dalla presenza, tra le altre specie, di querce, aceri, ginestre e alaterno. Tra gli animali più significativi, il cervone, il barbagianni, il riccio e la donnola. Da un punto di vista storico l'interesse maggiore della zona risiede nella conservazione dell’articolato sistema di ville e casali di cui l’area era ricca nel passato. Nell’area protetta l’interesse maggiore è, infatti, rappresentato dalla settecentesca “Villa York” e da alcune aree rurali caratterizzate dalla presenza di casali e strutture agricole . Riserva Naturale della Tenuta dei Massimi È un’area di elevato valore naturalistico estesa per settecentosettanta ettari, comprendente alcune alture che sono l’immediata propaggine dell’altopiano della Valle dei Casali. In diretta continuità con quest’ultima, essa fa parte del corridoio naturalistico posto a sud-ovest della città, tra la piana alluvionale del fiume Tevere, le vaste aree costiere ad ovest del Grande Raccordo Anulare e le aree urbane. Il paesaggio dell'area protetta è scandito da dolci rilievi incisi dal reticolo idrografico del Fosso della Magliana. E' l'aspetto tipico della campagna romana, in cui vaste aree pianeggianti, occupate prevalentemente da coltivi e prati-pascoli, si alternano a colline e piccole valli laterali ricoperte, sui versanti più ripidi, da formazioni boschive. Il fondovalle del Fosso della Magliana, nella parte tra la via della Pisana e la foce, è insolitamente ampio rispetto alle altre valli dell'Agro. Nei secoli passati questo territorio offriva allo sguardo del visitatore boschi, pantani, fiumicelli, monumenti, casali, fontanili, torri d'avvistamento. Su questi terreni da sempre
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l'uomo ha praticato l'agricoltura e l'allevamento: nel Rinascimento il fiorire di ville urbane favorì l'insediamento delle "vigne", gli orti romani dove si coltivavano frutta, verdure in quantità, cereali. Solo nei secoli successivi la malaria ha provocato lo spopolamento di parte della campagna, ma sulle zone più alte hanno continuano ad essere costruite ville suburbane quali luoghi di villeggiatura. La struttura del latifondo è rimasta inalterata fino ai nostri giorni. La Riserva presenta, infatti, alcune piccole zone boscate, ma è in gran parte adibita a coltivi, tanto che ai suoi margini è in attività l’unica azienda agrituristica presente oggi nel territorio comunale.
Figure 12 e 13. Tenuta dei Massimi (destra) e Riserva Naturale di Decima-Malafede (sinistra).
Riserva Naturale di Decima - Malafede L’area, istituita nel 1997 ed estesa per 6.145 ettari, è ubicata nella zona sud del territorio comunale, tra il Grande Raccordo Anulare, la via Pontina, la via Laurentina ed è situata a contatto con il confine del Comune di Pomezia. Le maggiori aree boschive dell'Agro Romano sono comprese in questa zona e costituiscono una delle maggiori foreste planiziali del bacino del Mediterraneo4. Quest'area è, dunque, caratteristica per la presenza di una della maggiori zone boscate ancora presenti nell’agro romano e vanta insediamenti umani che risalgono addirittura all’epoca preistorica. La zona potrebbe essere presa come modello dell’evoluzione complessiva della campagna romana: in epoca imperiale, infatti, fu costellata di ville che successivamente, in periodo altomedievale, sono state trasformate in grandi casali ed edifici fortificati e torri, dedicate ad assicurare il controllo del territorio. Il primo vincolo paesistico risale al 1985, ma è soltanto nel 1996 che si arriva alla perimetrazione dell'area e alla successiva istituzione (1997) della riserva naturale.
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Uno studio del WWF ha infatti qui censito ben oltre ottocento specie vegetali.
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Secche di Tor Paterno La zona delle secche di Tor Paterno è stata dichiarata dal Ministero dell'Ambiente “area marina protetta” nel 2000. Questa è l'unica Area Marina Protetta in Italia ad essere completamente sommersa e a non includere alcun tratto di costa. Le Secche di Tor Paterno sono costituite da una formazione rocciosa, coperta da organismi animali e vegetali che, scavando o costruendo i loro rifugi nel corso dei secoli, ne hanno modificato la forma. Si presentano come una vera e propria isola sul fondo del mare, in un ampio deserto di sabbia e fango. La profondità massima è di circa sessanta metri, mentre la sommità della montagna giunge a diciotto metri sotto il livello del mare. Nulla emerge dall'acqua, né è normalmente visibile dalla superficie. Le condizioni di torbidità, assai variabili, sono legate agli improvvisi mutamenti del regime delle correnti, causati dalla vicinanza con il delta del Tevere. Proprio il fiume offre un importante contributo per lo sviluppo della vegetazione marina, essendo responsabile dell’alta “produttività ecologica” della zona. La sommità del banco roccioso è popolata dalla posidonia oceanica, che qui vive fino a circa venticinque metri di profondità. Più in profondità si trovano interessanti colonie di celenterati, (gorgonia rossa e alcionari) che sono solitamente rarissime. Sono inoltre numerose le specie di pesci, sia di fondale (la murena, il gronco e la rana pescatrice) che di acque libere (la spigola, il cefalo, l'occhiata, il sarago). In superficie, in alcune stagioni, non è difficile avvistare i delfini. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI ARDITO STEFANO, Quanto sei verde Roma, in Airone n.254, pagg. 38-56, Giorgio Mondadori, Milano 2002. BLASI CARLO, Fitoclimatologia del Lazio, tip. Borgia, Roma 1994. CARBONE FABRIZIO, FRASSINETTI MIMMO, I parchi naturali di Roma. Atlante fotografico delle quattordici aree naturali protette di RomaNatura, a cura dell’Ente, Roma 2001. Siti web: www.romanatura.roma.it www.parchilazio.it RIFERIMENTI ICONOGRAFICI Figura 1: ARDITO STEFANO, Quanto sei verde Roma, in Airone n.254, pagg.38-56, Giorgio Mondadori, Milano giugno 2002, pag.48. Figure 2, 3, 10: www.romanatura.roma.it. Figure 4, 5, 8, 9, 12, 13: CARBONE FABRIZIO, FRASSINETTI MIMMO, I parchi naturali di Roma. Atlante fotografico delle quattordici aree naturali protette di RomaNatura, a cura dell’Ente, Roma 2001. Figure 6, 7, 11: fotografie di Alessandra Cazzola, 2005.
Testo acquisito dalla redazione della rivista nel mese di agosto 2005. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768 Università degli Studi di Firenze
Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/ Firenze University Press anno 3 – numero 3 – gennaio-giugno 2005 sezione: Itinerari pagg. 71-85
L.O.T.O. - LANDSCAPE OPPORTUNITIES FOR TERRITORIAL ORGANIZATION. FRAMMENTAZIONE PAESISTICA: PERMANENZE E INTERFERENZE – PARTE PRIMA: LE ANALISI Gabriele Paolinelli*
Summary Some topics from a study about Conegliano territory (Treviso – Italy) in the INTERREG III B Program of the European Union L.O.T.O. (Landscape Opportunities for Territorial Organization) put up an objective description of landscape changes. They are part of diagnosis and planning themes about landscape permanences and interferences. Landscape fragmentation is the main indicator used and improved in the study. Key-words Agricultural Landscape, Urban Landscape, Permanence, Land Consumption.
Abstract Alcuni esiti dello studio condotto sul territorio di Conegliano (Treviso – Italia) nell’ambito del Programma comunitario Interreg III B - L.O.T.O. (Landscape Opportunities for Territorial Organization) tracciano una descrizione oggettiva delle trasformazioni del paesaggio, preludendo ad alcune applicazioni diagnostiche e progettuali riferite alle tematiche del rapporto fra permanenze e interferenze, che utilizzano come indicatore principale la frammentazione paesistica, ricercando elementi di affinamento e precisazione metodologica. Parole chiave Paesaggio agrario, paesaggio urbano, permanenza, consumo di suolo.
* Dottore di ricerca in Progettazione paesistica, professore a contratto alle Università di Firenze e Bologna. 71
Il progetto L.O.T.O.1 si riferisce a una concezione progettuale del paesaggio tesa a estenderne la centralità ai diversi processi decisionali che investono le forme di organizzazione territoriale. Questa sintesi dell’azione pilota condotta dalla Regione del Veneto2 nell’ambito delle applicazioni previste dal progetto riporta, nella prima parte, le principali acquisizioni della sezione di studio dedicata alle configurazioni storiche e alle trasformazioni del paesaggio. La seconda parte, che sarà pubblicata successivamente, descrive alcuni esiti di impostazione delle diagnosi di frammentazione paesistica in relazione alla applicabilità alla pianificazione territoriale in coerenza con la Convenzione Europea del Paesaggio e il Codice italiano dei Beni culturali e del paesaggio. Il Veneto costituisce un importante ambito di studio dei processi evolutivi contemporanei che connotano il paesaggio europeo secondo le diverse declinazioni locali. La regione fa parte del paese con la maggiore complessità e sedimentazione storica dei processi di formazione del paesaggio e presenta un territorio dove intense e diffuse trasformazioni hanno investito ed investono peculiari configurazioni naturali e culturali.
Figura 1. Schema generale delle elaborazioni dell’azione pilota curata dalla Regione del Veneto nell’ambito delle applicazioni sperimentali del progetto L.O.T.O.
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Il progetto LOTO - Landscape Opportunities for Territorial Organization è un progetto comunitario del Programma Interreg III B, che si colloca nell’area di cooperazione CADSES (Central, Adriatic, Danubian and South-Eastern European Space); è congiuntamente finanziato dall’Unione Europea tramite il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (FESR) e dagli Stati membri, tramite il Fondo di Rotazione (FDR). E’ leader la Regione Lombardia; sono partners italiani il Ministero per i Beni e le Attività culturali, la Regione Emilia-Romagna, la Regione Marche, la Regione Umbria, la Regione Veneto; sono partners esteri la Regione Istriana, il Ministero dell’Ambiente e della Pianificazione del territorio della Slovenia, la Technical University di Monaco di Baviera; sono osservatori lo Urban Project Institut di Bucarest e la Corvinus University di Budapest. 2 Regione del Veneto: Vincenzo Fabris (dirigente), Antonella Camatta (dirigente responsabile regionale del progetto LOTO), Serena Bressan, Beniamino Faganello, Linda Mavian. Consulenti incaricati: Biagio Guccione (coordinamento generale), Andrea Meli (coordinamento operativo), Gabriele Paolinelli (coordinamento operativo), Bernardino Romano (coordinamento SIT), Francesca Fasano, Renato Giannetti, Michele Giunti (NEMO srl), Luigi Latini, Leonardo Lombardi (NEMO srl), Emanuela Morelli. Consulenti: Debora Agostini, Enrica Campus, Simona Cappellini, Giovanna Corridore, Catia Lenzi, Simona Olivieri, Michela Saragoni, Antonella Valentini, Paola Venturi.
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Il territorio di Conegliano, individuato come ambito specifico di studio, costituisce un transetto rappresentativo del paesaggio veneto dell’entroterra, segnato dalle trasformazioni insediative ed infrastrutturali connesse alla diffusione urbana, sia a carattere residenziale che produttivo, e da quelle agrarie, connesse alla diffusione delle coltivazioni vitivinicole specializzate e delle monocolture erbacee. Rispetto ad una sezione macroscopica delle principali formazioni del paesaggio veneto, che dalla costa e dalla laguna passa alla pianura, alla collina, ai contrafforti alpini ed alle valli e dorsali alpine e dolomitiche, lo studio ha interessato i paesaggi di transizione, da sempre di grande importanza negli equilibri complessivi. “L’apertura geografica dell’area veneta – nel Medioevo terra di incontro e di scambio – contribuì in maniera determinante al fitto proliferare di insediamenti grandi e piccoli: città, grossi borghi, castelli, capoluoghi di contado, costituivano una trama molto fitta e fino all’affermarsi di Venezia, all’inizio del Quattrocento, conobbero ciascuno un proprio sviluppo individuale. Si parla infatti nel caso veneto di policentrismo, con riferimento non solo alla presenza di almeno quattro città propriamente dette, ma anche a tutti quei centri minori che spesso arrivarono alle soglie della vera e propria condizione cittadina. L’eredità che il policentrismo ci ha lasciato è oggi evidente nei moltissimi centri storici che punteggiano il Veneto attuale nei quali è chiaramente riconoscibile l’impronta medievale”3. “Per un periodo come quello compreso tra il XIII e il XVII secolo, in cui per considerare città un insediamento è sufficiente che questo conti una popolazione di 5000 abitanti (ma nel nord Europa si considerano città centri di appena 2000 abitanti), il Veneto si presenta come un’area di medie e grandi città, la cui evoluzione demografica segue quella europea: una prima fase di espansione dal X secolo alla metà del XIV; una seconda fase di contrazione, che comprende la seconda metà del Trecento e la prima metà del Quattrocento; una nuova espansione a partire più o meno dalla metà del XV secolo, che dura fino al Seicento; un XVII secolo, infine, costellato da crisi brevi (come la carestia del 1627-28 e la peste del 1630-31). [...] Fra il Quattrocento e il Cinquecento, sei centri del Trevigiano hanno superato la soglia dei 2000 abitanti: Castelfranco (fra i 3000 e i 4500), Asolo, Serravalle, Conegliano, Noale e Oderzo”4. Tale policentrismo urbano, non deve certo tradire l’immagine complessiva reale del paesaggio veneto nella storia. Tra il XVI e il XVII secolo “nelle campagne viveva più dell’80 per cento della popolazione di terra ferma, in grande maggioranza dedita a un’agricoltura allo stesso tempo simile e diversissima da quella odierna. Simile se guardiamo le tipologie di uso del suolo e le colture: cereali come il frumento, ma anche colture per uso manifatturiero, come il lino, la vigna, l’olivo, altri alberi variamente utili, compresi i gelsi (in aumento soprattutto dal Cinquecento: le foglie servivano a nutrire i bachi da seta); prati e pascoli per l’allevamento; terre marginali – boschive e paludose – che fornivano castagne, legname, canne, pascolo brado ecc. Ma anche diversissima, si diceva: per la pratica ancora diffusa, anche se in calo graduale, dell’agricoltura da autoconsumo (produrre per i propri bisogni, comprando e vendendo poco o niente); la presenza minoritaria ma consistente di cereali come segale, sorgo, miglio e di legumi vari – solo dal primo Seicento si diffuse significativamente il mais venuto dal Nuovo Mondo, che dava rese molto più elevate delle altre granaglie seminate a primavera; limitata la specializzazione delle colture, anche se in collina c'erano più vigne, pascoli e boschi che in pianura; le scarse conoscenze agronomiche, la frequente carenza di investimenti capitali, la fertilizzazione limitata a letame (raramente sufficiente); la frequenza di cattive annate, le rese comunque basse (una media di circa 6 quintali di frumento per ettaro nelle pianure padovana e veronese di metà Cinquecento,
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DARIO CANZIAN, Nuove realtà politiche tra 1100 e 1350, in CARLO FUMIAN, ANGELO VENTURA (a cura di), Storia del Veneto, 2 voll., Bari 2004, vol 1, pagg. 107 - 108. 4 EDOARDO DEMO, Popolazione e vita materiale, in CARLO FUMIAN, ANGELO VENTURA (a cura di), op. cit., Bari 2004, vol. 1, pagg. 151-152.
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contro più di 40 quintali di oggi): tutti fattori che assieme alla massiccia dipendenza dallo sforzo muscolare umano, inchiodavano l’agricoltura a bassi livelli di produttività”5. “La maggiore domanda di cibo fra secondo Quattrocento e primo Seicento fece aumentare la percentuale di terreni usati per cereali: rosicchiò i prati, riducendo la presenza comunque scarsa dell’allevamento e perciò la disponibilità di letame; intaccò anche le terre marginali, boschive. Il paesaggio agrario fu perciò notevolmente modificato, causando anche fenomeni di degrado ambientale che troviamo descritti in una legge veneziana del 1531 […]: el dito desboscar è causa manifestissima de far atterar [interrare, n.d.a.] questa nostra lacuna, non avendo le pioge et altre inundation alcun retegno né obstaculo, come aveano da essi boschi, ad confluir in esse lacune […]. La maggiore domanda di cibo comportò anche una notevole espansione delle superfici complessive destinate a uso agrario, in gran parte – per molte migliaia di ettari – tramite la bonifica di zone paludose”6. Negli ultimi due decenni del XIX secolo la regione faceva registrare una emigrazione transoceanica, per gran parte verso l’America Latina, di circa trecentomila persone, oltre il dieci per cento delle popolazione regionale. “Nell’ampia zona centrale della regione […] dominava l’agricoltura di tipo poderale, sia che le aziende fossero condotte direttamente da piccoli proprietari coltivatori, sia che venissero date a famiglie contadine in affitto o a mezzadria. Ciò accadeva anche per i possedimenti più vasti, frazionati in unità di 15-30 ettari, nelle quali era d’obbligo praticare la coltura mista: granturco per l’alimentazione della famiglia, frumento e vite per pagare il canone o corrispondere al padrone la parte di sua spettanza. L’allevamento del baco da seta, diffuso fra Settecento e primo Ottocento, aveva integrato e consolidato il sistema senza modificarlo nei suoi caratteri essenziali. Era una agricoltura poco vitale, statica e sonnolenta, che rivelò i suoi limiti specialmente dopo il diffondersi delle malattie che colpirono il baco da seta e la vite alla metà del secolo e ancor più con la crisi agraria generale, iniziata intorno al 1880”7. “Seta e vino erano i cardini delle piccole aziende contadine della collina e dell’alta pianura [tipologie territoriali ampiamente rappresentate nel territorio di Conegliano, n.d.r.]. Nella seconda metà dell’Ottocento queste due produzioni furono devastate dagli attacchi di parassiti particolarmente aggressivi. “Passati gli sconvolgimenti della prima guerra mondiale, durante gli anni Venti si accentuarono i progressi tecnico-produttivi […]. La stretta dipendenza dell’economia italiana, e in particolare dell’agricoltura, dal ciclo economico internazionale stabilì tuttavia una netta cesura tra gli anni Venti e gli anni Trenta, periodo solcato dalla crisi congiunturale del 1927 dovuta alla rivalutazione della lira. Le politiche del regime fascista, inoltre, finirono col consolidare gli elementi di staticità e arretratezza dell’agricoltura veneta […]. La ruralizzazione e la sbracciantizzazione perseguite dal fascismo dilatarono la schiera dei piccoli coltivatori che producevano quasi esclusivamente per l’autoconsumo. Finì così con il rafforzarsi, anche per le modalità di pagamento del canone padronale, il trinomio frumento-mais-vite, ordinamento storicamente dominante l’economia agraria della regione. In collina e nell’alta pianura, il crollo dei redditi della viticoltura, della bachicoltura e dei prodotti della stalla indussero, per motivi di sopravvivenza, a espandere i cereali […] Al censimento del 1936 oltre la metà della popolazione attiva del Veneto risultava appartenere ancora al settore primario, ma il peso reale era superiore se si considera la larga presenza della tipica figura dell’operaio-contadino legato alla terra per condizione familiare e per i ritorni quotidiani e stagionali ai lavori agricoli. Nel 1951 gli occupati in agricoltura erano ancora il 47,4 per cento contro il 27,5 per cento dell’industria e il 25,1 per cento delle altre attività. L’agricoltura tuttavia concorreva alla formazione del reddito della regione per il 31,3 per cento contro il 53,6 per cento dell’industria (il 15,1 per cento spettava alle altre attività). La polverizzazione e la dispersione della proprietà rimase la regola delle zone alpine e prealpine, ma nel dopoguerra 5
MICHAEL KNAPTON, La terraferma, in CARLO FUMIAN, ANGELO VENTURA (a cura di), op. cit., Bari 2004, vol. 1, pagg. 173 - 174. 6 MICHAEL KNAPTON, op. cit., Bari 2004, pagg. 177 - 181. 7 ANTONIO LAZZARINI, Emigrazione e società, in CARLO FUMIAN, ANGELO VENTURA (a cura di), op. cit., Bari 2004, vol. 2, pag. 124.
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andò aumentando anche in pianura per il frazionamento delle grandi proprietà terriere. Molti coloni e mezzadri divennero proprietari; il bracciantato fu sostituito in molti luoghi da forme di compartecipazione. Dal secondo dopoguerra l’agricoltura veneta conobbe una marcata accelerazione sul piano tecnico-produttivo. […] Rispetto all’anteguerra l’estensione dei terreni adibiti alla coltura del frumento non aveva subito variazioni di rilievo, ma era aumentata sensibilmente la produzione unitaria […]. In collina intanto era diminuita la coltura promiscua e si era affermata la viticoltura specializzata dalla regione del Garda al Veronese, dal Vicentino al Trevigiano, dai Lessini, ai Berici, agli Euganei”8. Le forti radici storiche del policentrismo insediativo e della diffusione della struttura economica della regione hanno una indiscutibile rilevanza nel processo di connotazione culturale del paesaggio. Ma, in epoca contemporanea, a questa matrice si è sostituita la nebulosa veneta. Non si tratta più di policentrismo equilibrato, ma di diffusione squilibrante, delle cui disfunzioni economiche, sociali e ambientali si trovano sempre maggiori segnali e esigenze di correzione, riduzione e compensazione. Una forma di ricchezza territoriale si è trasformata in una entità megapolitana dalle dinamiche sempre più fagocitanti e congestionanti. Nella misura in cui ne fa le spese il paesaggio nel suo complesso, il paesaggio agrario ne risente in forma pesante e generalizzata. Del concetto di paesaggio rurale viene meno il significato precipuo di espressione di una realtà sociale, economica ed ambientale, ormai sostanzialmente soppiantata, anche nella produzione agraria, da altre forme legate alla società industriale.
Figura 2. Conegliano (Treviso): il paesaggio agrario collinare, connotato in modo dominante dai vigneti, conserva apprezzabili condizioni di diversità spaziale, che contrastano, anche in forza dei condizionamenti geomorfologici, la tendenza alla semplificazione e alla omogeneizzazione tipica delle colture specializzate.
“La caratteristica della megalopoli sta [...] nella rapporto di contiguità esistente tra le sue numerose centralità, grandi e piccole, le cellule componenti la macchia megapolitana: il 8
GIOVANNI LUIGI FONTANA, Lo sviluppo economico dall’Unità d oggi, in CARLO FUMIAN, ANGELO VENTURA (a cura di), op. cit., Bari 2004, vol. 2, pagg. 180 – 182.
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grande insieme che genera poi tutt’intorno dispersione di più piccole macchie, produzione di effetti urbani, omologhi sebbene più radi, dell’organismo che vive, deiettando, secretando la propria essenza negli spazi intorno. Questo caratteristico disegno dell’immagine spaziale della megalopoli corrisponde, dal punto di vista della morfologia urbana, alla cosiddetta città diffusa o città sparpagliata, la quale costituisce una sorta di alone intorno al nucleo più denso, e ad una successiva corona, come un’aureola di densità minore, come di un organismo che germogli proprie filiazioni intorno a sé, e che si dirada viavia che la distanza da esso aumenta, al punto che ormai si può parlare di città diffusa (ieri di campagna urbanizzata) o di spazio che cerca in qualche modo di ispessire di germogli le radure tra le aree urbanizzate, gli addensamenti al cui interno si trovano i cuori solidi e antichi che hanno dato forma allo spazio padano”9. “Chi oggi provi ad osservare il Veneto percorrendo ad esempio le sue strade, coglie in primo luogo la dispersione nel territorio di una considerevole quantità di oggetti, di materiali, di edifici, spazi e funzioni posti l’uno dopo e accanto all’altro, senza apparente ordine né necessità. Un territorio pieno di oggetti e di segni; un territorio scritto in ogni sua minima parte, pervasivamente segnato da processi antropici e da un ingente e rilevante patrimonio edilizio recente e di buona qualità, che sembra rinviare a storie ed eventi minimi, ciascuno dei quali acquista rilevanza attraverso il suo iterarsi e diventare fenomeno pervasivo. […] Possiamo osservare come i capannoni, gli edifici adibiti ad attività produttive e commerciali, si allineino prevalentemente lungo particolari assi del fitto reticolo stradale oppure, se di più recente costruzione, si trovino organizzati entro le larghe maglie delle lottizzazioni industriali localizzate intorno ai numerosi paesi. In modo analogo, possiamo osservare come la residenza di recente costruzione abbia, da un lato, iterato modelli localizzativi precedenti, per esempio continuando ad allinearsi lungo le maglie dei differenti reticoli stradali, ma dall’altro, in maniera consistente, abbia modificato le modalità insediative tradizionali, consolidando la miriade di medi e piccoli centri che costellano il territorio […]. Rilevanti poi rimangono le relazioni che è possibile osservare tra la presenza della piccola azienda agricola o della piccola proprietà terriera e l’organizzazione della dispersione insediativa. Se si esclude l’area costiera delle bonifiche recenti, l’assoluta prevalenza di aziende agricole di ridotte dimensioni permette di descrivere lo spazio rurale della pianura veneta come una grande, immensa lottizzazione che ritaglia lotti di due-tre ettari di superficie variamente coltivata (un campo di mais, un filare di vite, un piccolo orto in vicinanza della casa, qualche albero) sui quali insiste un complesso edilizio costituito dall’originaria casa rurale, dalle abitazioni costruite a partire dal dopoguerra, testimoni del processo di nuclearizzazione della famiglia patriarcale, e da un insieme di edifici annessi destinati a ospitare variegate funzioni produttivo-ricreative (ricovero degli attrezzi, garage per le automobili, piccole officine e depositi, cantine e taverne)”10. “Fra il 1980 e il 1996 sono stati costruiti nel Veneto, secondo l’ISTAT, 84.000 edifici residenziali, per un totale di 145 milioni di metri cubi. […] Solamente il 10 per cento di questi edifici è stato costruito nelle città capoluogo. […] Il 70 per cento di tutti gli edifici tirati su dal 1980 al 1996 è composto da uno a due alloggi”11. “Nell’arco dei decenni fra il 1961 e il 1981 – si legge nel saggio di Domenico Luciani contenuto nel Rapporto 2002 della Fondazione Nord-Est – hanno cambiato destinazione d’uso più aree agricole di quanto non fosse accaduto nella storia dei due millenni precedenti […]. E il fenomeno appare ancora più concentrato e impressionante se togliamo dal computo le aree non disponibili – montagne, bonifiche e zone protette – e le aree già occupate da altri insediamenti, dai corsi d’acqua, dalle infrastrutture, dalle cave. In quello stesso ventennio, aggiunge Luciani, risulta costruita la metà dell’intero patrimonio immobiliare esistente oggi in quell’area e ciò avviene in un 9
EUGENIO TURRI, La megalopoli padana, Venezia 2000, pag. 24 e pagg. 46-47. STEFANO MUNARIN, MARIA CHIARA TOSI, PAOLA VIGANÒ, Veneto, in ALBERTO CLEMENTI, GIUSEPPE DEMATTEIS, PIER CARLO PALERMO (a cura di), Le forme del territorio italiano, vol. 2, Ambienti insediativi e contesti locali, pubblicazione della ricerca nazionale ITATEN, Bari 1996, pagg. 133 – 134. 11 FRANCESCO ERBANI, L’Italia maltrattata, Roma-Bari 2003, pag. 75. 10
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quadro di aumento assai relativo del numero di abitanti”12. “Sono villette il 58 per cento delle case che si costruiscono in Italia (il 20 sono villette bifamiliari). E il modello pare domini anche l’Europa: il 42 per cento degli investimenti per le abitazioni è indirizzato a quel tipo di case. Il rosario di villette si ripete lungo la strada Castellana nel tratto che da Mestre porta a Zelariono, Martellago, Scorzè e Trebalseghe, ma proseguendo verso Castelfranco diventa ossessivo […]. Le villette si ergono su un terrapieno decorato da ciuffi di ortensie colorate e statuette di gesso […]. Il rialzo serve per la tavernetta, un locale seminterrato che occupa completamente l’area della casa. E’ il luogo della socialità, il simulacro delle osterie di un tempo, dei bar di paese dove si consumavano le ore e il bianco secco dei colli trevigiani. La casa con giardino è diventata ipertrofica […], estende il proprio dominio perché include gli spazi collettivi, ingloba il tempo libero”13.
Figure 3, 4. Conegliano (Treviso): il paesaggio dell’alta pianura registra diffusamente le trasformazioni insediative recenti mutando in modo significativo il proprio carattere storico rurale nella drastica scissione agrario-urbano. Le pertinenze di edifici residenziali di evidente impronta urbana generano giardini incapaci di instaurare un rapporto paesaggisticamente equilibrato e significativo con le colture agrarie specializzate, prevalentemente nude. Rispetto al modello storico della villa veneta, la diffusione sociale e spaziale delle residenze sparse, denuncia la loro marcata deficienza di connotazione paesistica, che lascia spazio nell’intorno solo al vuoto intercorrente fra una villetta e l’altra.
“Francesco Indovina ricostruisce il formarsi della città diffusa partendo dai mutamenti che investono la campagna veneta fra gli anni Cinquanta e Sessanta. La proprietà agricola è frazionata e chi possiede un piccolo casolare pensa a ristrutturarlo o a demolirlo e ricostruirlo, affiancando all’agricoltura un’altra attività più redditizia, artigianale, industriale o di commercio (le campagne venete ospitano opifici e aziende fin dall’Ottocento). Il tempo trascorre e questo schema si perfeziona: la dispersione iniziale si densifica. La ricchezza che si ricava dall’industria non è paragonabile a quella che forniva il lavoro nei campi e così le case, una volta coloniche, perdono ogni rapporto con la terra. Il rustico si trasforma in villetta. Famiglia e produzione industriale diventano gli ingredienti del modello veneto […]. La città diffusa prende corpo senza grandi lottizzazioni, senza l’intervento della speculazione o di incombenti interessi immobiliari. Cresce per frammenti, rosicchiando più che divorando, e ognuno in essa si sente padrone del proprio destino […]. Un capannone si edifica dove appare più conveniente, senza valutare quanto traffico aggiunga a una strada già intasata. Ed è la loro stessa natura a spingere queste piccole aziende a distribuirsi come meglio credono, senza necessità di aggregarsi fra loro. Distretti industriali si trovano nella riviera del Brenta (calzature), a Montebelluna e Trivignano (articoli sportivi), a Susegana e Conegliano (elettrodomestici). Per il resto, sostiene Indovina, le piccole aziende scelgono il diffuso perché preferiscono non apparire. Nel frattempo perdono rilievo i piccoli paesi, che in qualche modo si deurbanizzano”14. 12
FRANCESCO ERBANI, op. cit., Roma-Bari 2003, pagg. 76 - 77. FRANCESCO ERBANI, op. cit., Roma-Bari 2003, pagg. 75 - 76. 14 FRANCESCO ERBANI, op. cit., Roma-Bari 2003, pagg. 79 - 80. 13
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Nell’arco dell’ultimo secolo, dal 1901 al 2001, la densità territoriale della popolazione è cresciuta sensibilmente e praticamente senza interruzioni. Il comune di Conegliano fa registrare due sole flessioni, la prima a seguito della grande crisi economica fra le due guerre mondiali (la densità scende da 474 a 424 abitanti a chilometro quadrato tra il 1931 e il 1936) e la seconda è contemporanea e di entità ancora minore (la densità scende da 980 a 965 abitanti a chilometro quadrato tra il 1991 e il 2001). Il dato impressionante, registrato poi dalle analisi del consumo di suolo, è il salto dai 226 abitanti a chilometro quadrato del 1901 ai 965 dell’ultimo censimento. L’area fa parte della conurbazione che da Treviso a sud, corre lungo l’alta pianura a ridosso dell’arco prealpino fino a Pordenone in Friuli Venezia Giulia, ma i comuni limitrofi a Conegliano presentano caratteristiche meno marcate, nonostante la presenza della diffusione insediativa. I valori massimi del 2001 si registrano nel territorio di Santa Lucia di Piave, con 391 abitanti a chilometro quadrato, oltre 500 in meno di Conegliano, fino ai valori minimi di Susegana, con 244 abitanti a chilometro quadrato, che Conegliano aveva raggiunto già alla fine dell’Ottocento. Tipologicamente il territorio di Conegliano appartiene pertanto a quelli a tasso di urbanizzazione molto elevato, infatti se riferito ai valori sovralocali di densità abitativa tende più a quelli del comune di Treviso (1442 abitanti a chilometro quadrato nel 2001) che a quelli medi della provincia (321 abitanti a chilometro quadrato nel 2001) che, ancor meno, a quelli medi della regione (246 abitanti a chilometro quadrato nel 2001)15. Alle variazioni socioeconomiche corrispondono immancabilmente variazioni della distribuzione quantitativa e spaziale delle componenti del mosaico paesistico, quando non profonde mutazioni del paesaggio. In riferimento all’ambito territoriale amministrativo della provincia di Treviso, la lettura dei dati Corine Land Cover 1990-2000, rileva le trasformazioni di entità macroscopica permettendo una loro descrizione quantitativa. Al fine di considerare le articolazioni subregionali del paesaggio dei rilievi subalpini che coinvolgono territori limitrofi alla provincia in condizioni morfotonali collina-pianura, lo studio è stato condotto anche su un ambito geografico transprovinciale. Il quadro delle trasformazioni del paesaggio derivante dall’interpretazione dei dati Corine Land Cover (scala di acquisizione 1:100.000) nel decennio 1990-2000, mette in luce alcune direttrici di tendenza delle dinamiche paesistiche riferite all’ambito territoriale della provincia di Treviso (si veda la tabella riportata nella figura 5). Progredisce l’urbanizzazione dei suoli ad uso agricolo e degli ambiti a prevalente naturalità: il sessantatre per cento del seminativo trasformato è assorbito da processi insediativi, così come accade alla totalità delle aree caratterizzate da promiscuità di spazi naturali e colturali. Progredisce anche la specializzazione e l’omologazione delle colture agrarie: il sessantasette per cento delle aree classificate come sistemi colturali e particellari complessi diventano colture a vigneto e il venticinque per cento aree industriali. Il recupero dei boschi sulle colture agrarie erbacee si attesta al di sotto dell’uno per cento dei seminativi soggetti a trasformazione. Il venticinque per cento di queste colture in trasformazione assume la configurazione dei sistemi colturali e particellari complessi, la cui interpretazione richiede un maggiore dettaglio conoscitivo. Si può infatti trattare di fenomeni semipassivi, conseguenti al ritiro delle pratiche agrarie industrializzate, ma anche di processi subinsediativi, quali la formazione di aree a orti urbani, come anche di fenomeni di trasformazione agraria relativi ad esempio a produzioni orticole o florovivaistiche, pertanto di paesaggi decisamente diversi, per configurazione attuale e per dinamiche evolutive. Lo studio diacronico del mosaico paesistico dei soprassuoli condotto sul territorio di Conegliano ha permesso di raggiungere questo congruo grado di dettaglio analitico e intepretativo, necessariamente complementare alla letture di scala vasta condotte con dati macroscopici.
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Elaborazioni di dati ISTAT forniti dalla Direzione del Sistema statistico della Regione del Veneto.
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Figura 5. Quadro delle trasformazioni del paesaggio registrate dai dati Corine Land Cover 1990-2000 relativamente all’ambito amministrativo subregionale della Provincia di Treviso. S: superficie interessata dalle trasformazioni. St: ripartizioni della superficie trasformata nelle diverse categorie di uso del suolo risultanti. (*) L’incidenza delle aree di cantiere costituisce un parametro da considerare come incremento delle aree urbanizzate e delle infrastrutture con margini di errore trascurabili.
Se l’analisi cartografica si è avvalsa di due soglie storiche significative, 1890, 1948 e del rilevamento originale condotto tra la fine del 2004 e l’inizio del 2005, l’approfondimento interpretativo delle ricostruzioni e dei confronti cartografici ha beneficiato di una ricca bibliografia locale e della carta austriaca del Ducato di Venezia, della fine del Settecento16. La presenza determinante dei rilievi collinari nel paesaggio di Conegliano e la diffusione storica della coltura della vite hanno richiesto specifici approfondimenti sulle dinamiche di diffusione e di trasformazione colturale, fortemente influenzate da una tradizione enologica locale di fama europea. Antonio Carpené “[…] dopo aver, nel 1872, segnalato in una relazione al Ministero dell’Agricoltura il triste stato della viticoltura veneta a paragone delle molte cure che alla viticoltura venivano dedicate in Germania in Francia, associatosi ad Angelo Malvolti, diede vita personalmente ad una azienda di vinificazione fondata su più moderni processi tecnici. […] Non a caso quindi è lo stesso Carpené – assieme a uno scrittore ruralista quale il trevigiano Caccianiga ed a due tecnici della viticoltura di alto livello quali il Cerletti e il Dalmasso – tra i promotori della scuola di viticoltura ed enologia 16
Per la bibliografia locale si veda GIANCARLO GALAN e altri, Frammentazione paesistica: permanenze e interferenze nel territorio di Conegliano, Regione del Veneto, Venezia 2005. Per la carta austriaca del Ducato di Venezia si veda MASSIMO ROSSI (a cura di), Kriegskarte 1798-1805 – Il Ducato di Venezia nella carta di Anton von Zach, Fondazione Benetton Studi Ricerche, Treviso 2005.
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che venne inaugurata nel 1876 con il contributo dell’amministrazione comunale”17. La presenza sul territorio di esperti viticoltori e enologi, dedicati alla ricerca e alla sperimentazione, fa sì che risultino anticipate rispetto ad altre aree italiane le spinte per la mutazione delle tecniche agrarie. “Il metodo usuale di coltivare le viti a noi tramandato da secoli – scrivono Vianello e Carpené – è quello a filari sostenuti da alberi vivi, con festoni correnti tra albero e albero. Fra un filare e l’altro sono interposti larghi spazi che vengono coltivati a cereali. Questo metodo antichissimo può sembrare buono, anche per il fatto che è stato ampiamente sperimentato e conservato, ma non è così. Il filare – infatti – anche se occupa poco spazio, rende quasi infeconda la terra circostante per una larghezza di 5-6 metri, poiché quasi tutto il nutrimento di questa sezione di terreno va a beneficio della vite e non delle altre colture. Inoltre non si possono fare né arature trasversali nè si possono concimare le viti e la maturazione dell’uva risulta incompleta. E’ ora di cambiare sistema: sono necessari vigneti con o senza sostegno o palo secco”18. Nel 1850 arrivò in Italia la prima malattia della vite a larga diffusione, la crittogama. L’impiego dello zolfo, sebbene con ritardi dovuti sia alla sperimentazione fitosanitaria che alla diffidenza dei contadini, riuscì a bloccare la malattia tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. “Trent’anni dopo arrivano dall’America le altre due tremende malattie, la filossera [...] e la peronospora [...] e ci vorranno anni per trovare la difesa idonea. [...] Tutto il Veneto sofferse per queste pestilenze che colpirono la viticoltura e si ritiene che il conseguente impoverimento delle campagne sia stata una delle cause immediate che determinarono le grandi migrazioni verso i paesi americani. [...] Ma, nonostante le grandi malattie avessero contribuito a rinnovare e mutare il volto viticolo del trevigiano e del veneziano, alla fine del secolo i vitigni coltivati sono ancora quel centinaio che era presente nel 1871 e non c’è assolutamente traccia, in queste terre, dei vitigni francesi, oggi così diffusi. Il vero rinnovamento, consistente nell’abbandono di tantissimi vecchi vitigni non più idonei qualitativamente e quantitativamente e nell’importazione di vitigni stranieri [...] si ha solo a partire dalla Grande Guerra, che, flagello più grave di ogni altro, aveva distrutto la maggior parte delle vigne trevigiane e veneziane”19. L’inchiesta agraria del 1936 documenta le variazioni delle coltivazioni vitivinicole20. Il dato paesaggistico di maggiore rilievo ai fini della documentazione delle interpretazioni cartografiche e tipologiche delle trasformazioni del paesaggio è senz’altro costituito dalla consistenza delle colture a vigneto specializzato. Esse risultavano pari a 3.215 ettari nel secondo decennio del secolo a fronte di una ancora netta prevalenza delle colture promiscue, che interessavano 134.139 ettari. Dopo la guerra, nel 1930, le colture specializzate risultano calate a 2.720 ettari, a fronte di un più drastico calo a 91.400 ettari di quelle promiscue. Se ne ricavano due indicazioni significative della caratterizzazione del mosaico paesistico della provincia che nelle analisi diacroniche elaborate sul territorio comunale di Conegliano trovano conferme eclatanti, facendo presupporre il ruolo di queste aree nel processo di trasformazione legato all’innovazione agraria. Con più decenni di anticipo sulla diffusione della meccanizzazione e industrializzazione agraria rispetto a altre parti d’Italia, le colture specializzate erano già presenti e registrano nel periodo a cavallo della guerra una calo relativo pari alla metà circa di quello delle colture promiscue, vedendo crescere la loro incidenza sul totale dei vigneti. A Conegliano, già dopo la Seconda Guerra Mondiale la presenza di vigneti specializzati al 1948, sotto l’importante influsso dell’Istituto Enologico “Cerletti”, registra, secondo le cartografie IGMI del 1948, una incidenza superiore al cinquantasette per cento. Infatti già nel 1936 si segnalava relativamente al territorio di Treviso che “... è in corso la ricostruzione viticola su ampia scala, ed è facile prevedere che tra pochi anni la Provincia riconquisterà le posizioni dell’anteguerra”21. Nonostante ciò, il 17
E. BRUNETTA, Storia di Conegliano, Padova 1989, pagg. 33-35. GIAMPIERO RORATO, Civiltà della vite e del vino nel Trevigiano e nel Veneziano, Treviso 1990, pag. 55. 19 GIAMPIERO RORATO, op. cit., Treviso 1990, pagg. 58-59. 20 VITTORIO RONCHI, Inchiesta sulla piccola proprietà coltivatrice formatasi nel dopoguerra, Istituto Nazionale di Economia Agraria, vol. XIII, Tre Venezie, Roma 1936, pag. 221. 21 VITTORIO RONCHI, op. cit., Roma 1936, pag. 221. 18
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secondo dopoguerra fa registrare forme di arretratezza agraria ancora sostanziali: frammentazione fondiaria elevata, prevalenza della ricerca dell’innalzamento quantitativo della produzione unitaria, persistenza delle tradizioni22. Siamo alla metà del Novecento quando il “[…] nuovo apparato industriale non cadde dal cielo […], ma venne, in alcuni casi avviato, ed in altri consolidato, dalla legge sulle aree depresse del centro-nord, senza la quale legge, ad esempio, non si spiegherebbe la creazione della zona industriale di Susegana ed il fatto conseguente per il quale Susegana si è configurata come un’area depressa funzionale allo sviluppo di un polo attiguo (Conegliano, cioè) già industrializzato. Ciò che, dal punto di vista sociale, tese a rompere la dicotomia tra il contadino-mezzadro dei paesi del mandamento e l’operaio urbano, per dar vita invece, alla figura mista dell’operaio contadino con quanto ciò comporta in termini di reddito, di stabilizzazione sociale e di scelte politiche”23. E’ in quegli anni che “la Zoppas funse da volano di una industrializzazione accelerata che si avvaleva […] del serbatoio di manodopera eccedente offerto dalla campagna, dalla massa dei mezzadri e dei figli di mezzadri espulsi dalla terra e che divennero operai anche a condizioni salariali e normative non particolarmente allettanti, ma comunque sempre preferibili alla disoccupazione o alla vita stentata di una agricoltura che non era in grado di sostenere più tante famiglie. La figura mista sostituisce così quello che era stato un tempo l’ausilio offerto dalle fanciulle impiegate nelle filande, con la non lieve differenza peraltro che non si trattava più ora di un lavoro stagionale e precario, bensì stabilizzato e tale da far assumere al lavoratore uno status diverso”24.
Figura 6. Il paesaggio pedecollinare e dell’alta pianura a Conegliano secondo i rilevamenti militari austriaci della fine del Settecento (estratto della carta militare del Ducato di Venezia del 1798-1805).
L’analisi delle trasformazioni del paesaggio ha fatto riferimento alle possibilità di documentazione cartografica a soglie storiche significative delle caratteristiche tipologiche e della distribuzione spaziale del mosaico dei soprassuoli, comprendendovi oltre a quelli 22
GIAMPIERO RORATO, op. cit., Treviso 1990, pag. 62. E. BRUNETTA, op. cit., Padova 1989, pagg. 115-116. 24 E. BRUNETTA, op. cit., Padova 1989, pagg. 118-119. 23
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forestali e a quelli agrari, il sistema insediativo e quello idrico superficiale. Ăˆ stata definita una legenda comune per accorpamento delle categorie del mosaico paesistico dei soprassuoli, al fine di consentire il confronto tra le differenti cartografie: 2004 (Regione Veneto, NEMO srl - Firenze, 1:10.000), 1948 (IGMI, 1:25.000) e 1890 (IGMI, 1:25.000).
Figura 7. Uso del suolo al 1890 (a sinistra) e al 1948 (al centro): ricostruzioni cartografiche basate su la cartografia IGMI 1890 e 1948 e su documenti bibliografici locali - elaborazioni originali in scala 1:25000. Uso del suolo al 2004 (a destra), semplificato per il confronto con le soglie storiche 1890 e 1948: rilevamento originale eseguito nel 2004 alla scala 1:10000, sulla base della cartografia regionale del 1995 e delle fotografie aeree nadirali regionali del 2000).
Figura 8. Variazioni del mosaico paesistico degli usi del suolo 1890-1948-2004. (*) Le colture a vigneto specializzato non sono presenti nelle tavolette IGMI del 1890. Le fonti bibliografiche le segnalano già nella prima metà del Novecento, come risulta dalle tavolette IGMI del 1948. (**) Le lievi variazioni di superficie complessiva risultante per il territorio comunale sono dovute ai processi di ricostruzione degli strati informativi delle soglie storiche 1890 e 1948; la differenza media è pari a otto ettari circa, con un corrispondente margine di errore delle valutazioni dello 0,2 per cento, comunque irrilevante anche in relazione al grado di dettaglio proprio delle cartografie originali in scala 1:25000.
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Figura 9. Distribuzione delle trasformazioni 1890-2004 delle zone umide relativamente alle principali categorie di uso del suolo riscontrabili.
Figura 10. Distribuzione delle trasformazioni 1890-2004 delle colture agrarie arborate promiscue relativamente alle principali categorie di uso del suolo riscontrabili.
Gli usi del suolo configurano un mosaico attuale del paesaggio che conserva significative condizioni di diversificazione spaziale, ma vede fortemente ridotta la gamma delle tipologie dominanti. In ordine di importanza per estensione, insediamenti, vigneti e seminativi semplici, superano complessivamente il sessantasette per cento del territorio comunale. Gli insediamenti, presenti in modo esclusivo nella fascia dell’alta pianura, dove si trova la conurbazione, stanno crescendo nelle aree collinari con destinazione residenziale prevalentemente unifamiliare, e interessano nel complesso oltre il trenta per cento del territorio. I vigneti ne connotano sostanzialmente la parte collinare, con un’incidenza pari a oltre un quinto dell’intero territorio, mentre i seminativi semplici, prevalenti nella pianura e nei fondovalle ne interessano quasi il diciannove per cento. La presenza di prati stabili, vicina all’undici per cento, contribuisce a compensare l’impoverimento e la semplificazione morfologici e biologici connessi alla diffusione di queste tre categorie. Ulteriori presidi di diversità paesistica sono costituiti dai cosiddetti sistemi colturali e particellari complessi e dalle frange di boschi misti di latifoglie termofile, sebbene non esprimano in genere condizioni qualitative eccellenti. Le molte altre categorie presenti esprimono incidenze territoriali prevalentemente inferiori all’uno per cento. Anche lo studio del processo di consumo di suolo è stato condotto in termini diacronici, in riferimento alle stesse soglie di analisi del mosaico degli usi del suolo. “Pur essendo crescente tra il 1890 e il 1995 il consumo di suolo dovuto allo sviluppo della rete infrastrutturale e facendo registrare un impegno di oltre 120 ettari, il suo peso rispetto a quello degli edifici nel bilancio complessivo del territorio comunale diminuisce in valore relativo sensibilmente, da oltre i tre quinti del 1890, risulta quasi dimezzato nel 1948, per arrivare a un’incidenza inferiore a un quinto nel 1995. Ciò è principalmente dovuto all’incremento rilevante del peso delle espansioni insediative. Queste fanno registrare un saldo positivo pari a oltre il 1500 per cento, corrispondente ad un consumo di suolo di poco inferiore a 1.000 ettari. Ciò significa che nell’arco di tempo considerato la sola crescita 83
edilizia ha occupato oltre il 26 per cento del territorio comunale. Tale dato sale al 30per cento, considerando il complesso di edifici e infrastrutture viarie. Il paesaggio registra gli effetti qualitativi e quantitativi delle evoluzioni già descritte in relazione alle analisi diacroniche del mosaico paesistico. All’incremento del peso assoluto del nucleo insediativo urbano dal 1,2 per cento al 22,6 per cento corrisponde una inversione dell’incidenza relativa dell’insediamento sparso, che cala dal 31 per cento al 20 per cento. Non si tratta in realtà di una variazione relativa a una diminuzione degli edifici extraurbani, cresciuti dai 19 ettari del 1890 ai 210 ettari del 1995, bensì del rapporto di queste quantità con quelle ancora più rilevanti dell’incremento del nucleo urbano, pari quasi a 800 ettari, corrispondenti a poco meno di un quarto dell’intero territorio comunale”25.
Figura 11. Andamento del processo di consumo di suolo tra il 1890 e in 1995: elaborazione dati cartografici cartacei IGMI 1890 e 1948 in scala 1:25000, su base vettoriale CTR Regione Veneto 1995 in scala 1:10000. A sinistra, la crescita dei valori assoluti, a destra, la variazione dell’importanza relativa degli edifici e delle infrastrutture viarie nel processo di consumo di suolo.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI DOLCETTA BRUNO (a cura di), Il paesaggio veneto, Giunta Regionale, Milano 1984. ERBANI FRANCESCO, L’Italia maltrattata, Laterza, Roma-Bari 2003. FUMIAN CARLO, VENTURA ANGELO (a cura di), Storia del Veneto, 2 voll., Bari 2004. MUNARIN STEFANO, TOSI MARIA CHIARA, VIGANÒ PAOLA, Veneto, in CLEMENTI ALBERTO, DEMATTEIS GIUSEPPE, PALERMO PIER CARLO (a cura di), Le forme del territorio italiano, vol. 2, Ambienti insediativi e contesti locali, pubblicazione della ricerca nazionale ITATEN, Bari 1996. RONCHI VITTORIO, Inchiesta sulla piccola proprietà coltivatrice formatasi nel dopoguerra, Istituto Nazionale di Economia Agraria, vol XIII, Tre Venezie, Roma 1936. RORATO GIAMPIERO, Civiltà della vite e del vino nel Trevigiano e nel Veneziano, Treviso 1990. SCARPELLI LIDIA, Geografia dei sistemi agricoli italiani. Veneto, Università di Roma La Sapienza, CNR, coordinamento scientifico Maria Gemma Grillotti Di Giacomo, Roma 1996. TURRI EUGENIO, La megalopoli padana, Marsilio, Venezia 2000. RIFERIMENTI ICONOGRAFICI Figure 2-4: fotografie di Gabriele Paolinelli, 2004. 25
MICHELA SARAGONI, Il processo di consumo di suolo, in GIANCARLO GALAN e altri, Frammentazione paesistica: permanenze e interferenze nel territorio di Conegliano, Regione del Veneto, Venezia 2005, pagg. 4749.
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Figura 6: MASSIMO ROSSI (a cura di), Kriegskarte 1798-1805 – Il Ducato di Venezia nella carta di Anton von Zach, Fondazione Benetton Studi Ricerche, Treviso 2005.
Testo acquisito dalla redazione della rivista nel mese di settembre 2005. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768 Università degli Studi di Firenze
Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/ Firenze University Press anno 3 – numero 3 – gennaio - giugno 2005 sezione: Eventi pagg. 86-96
GENOVA CAPITALE EUROPEA DELLA CULTURA 2004 Maristella Storti*
Summary In 2004 Genoa lived its fourth extraordinary occasion in little more than ten years between the second and third millennium: the World Football Championship in 1990, the Celebration of the Fifth Centenary of America Discovery in 1992, the G8 Summit in 2001, the nomination of Genoa as European Capital of Culture in 2004. Each event is granted special financing, both for the manifestations and for the decorum of the city. On each of the first three occasion, the same burocratic retards, the same anxiety in projecting, authorizations and executions have been experienced. The special opportunity of 2004 was a real occasion for Genoa not only to show itself as a city of art and culture, but first of all to awake in its citizens and institutions a constant attention towards their city, its precious historical heritage, its everyday care, the requirement for the highest quality in every small or large intervention, the quality of its urban landscape, summing up, towards the quality of their life itself. The financing ensured by the special event has been spent on the monuments, in works of re-qualification, as repairs of paving and lighting plants, rearrangement of streets and squares, but also in great public manifestations as far as “Arts and Architecture 1900/2000” urban exhibition. Key-words Genoa European Capital of Culture 2004, Art and Architecture, Historical Heritage, Urban Landscape.
Abstract Nel 2004 Genova ha vissuto la quarta occasione straordinaria in poco più di un decennio a cavallo del volgere del terzo millennio: i Campionati Mondiali di Calcio del 1990, le Celebrazioni per il Quinto Centenario della Scoperta dell’America nel 1992, il Vertice Mondiale degli Otto Grandi della Terra nel 2001, il titolo di Capitale Europea della Cultura nel 2004. Tutti eventi che hanno portato fondi speciali, finalizzati sia all’attuazione delle manifestazioni, sia al decoro della città. Per ognuna delle prime tre occasioni, si sono vissuti gli stessi ritardi normativi, gli stessi tardivi finanziamenti, gli stessi affanni per progettazioni, autorizzazioni, esecuzioni. La speciale opportunità del 2004 si è dimostrata una reale occasione per Genova non solo per mostrarsi come città d’arte e di cultura, ma soprattutto per consolidare nei cittadini e nelle istituzioni la crescita della consapevolezza e attenzione costante al corpo della città, al suo prezioso palinsesto storico, alle necessità della sua cura quotidiana, al dovere di pretendere la massima qualità da ogni intervento, alla sua qualità urbana. I finanziamenti stanziati sono stati spesi per il restauro di monumenti, per il rifacimento di pavimentazioni di vie e piazze e di impianti di illuminazione, ma anche per l’allestimento di importanti mostre come “Arti e Architettura 1900/2000”. Parole chiave Genova Capitale della Cultura 2004, Arti e Architettura, patrimonio storico, paesaggio urbano.
* Dottore di ricerca in Progettazione paesistica, Università di Firenze. 86
PICCOLI GRANDI AVVENIMENTI ED EVENTI
Genova in questi ultimi quindici anni ha cambiato volto e, di conseguenza, la qualità urbana della città ha assunto livelli molto più alti rispetto al passato, vuoi per l’aver saputo sfruttare al meglio eventi eccezionali che hanno portato grossi finanziamenti stanziati proprio per il recupero di monumenti cittadini, vuoi per la volontà delle varie Amministrazioni che, spesso congiuntamente, hanno programmato e portato a termine ingenti lavori di recupero urbano e paesistico. Lentamente interi quartieri del centro storico sono rinati: tuttora gli abitanti convivono con il rumore assordante delle gru, delle betoniere, delle grida degli operai che lavorano nei cantieri, ma per i genovesi ormai questa “convivenza” è ritenuta familiare, quasi scontata, dato che si tratta della lenta ma continua rinascita della loro città. Oggi Genova mostra i suoi angoli più nascosti, le meraviglie misconosciute, i preziosi “carruggi” qua e là ancora caratterizzati da zone off limits al passante. Il paesaggio genovese si è arricchito di cromatismi, di emergenze architettoniche, di gomitoli di vicoli ora aperti al visitatore, dove si possono godere punti panoramici straordinari sulla città, “bianca” da sempre per i tetti di ardesia, accovacciata attorno al suo porto.
Figura 1. Genova. Particolare del centro storico e del porto. Figura 2. Frammenti di Genova. In particolare, nelle sagome più grandi si individuano la Cattedrale di San Lorenzo e il prospetto laterale di Palazzo Ducale con i lavori in corso sulla piazza de Ferrari.
Sono state numerosissime le manifestazioni tenutesi a Genova nel 2004, alla grande e alla piccola scala, relative a importanti avvenimenti, pubblicizzati e fortemente evocativi e a piccoli grandi eventi a carattere locale legati alle tradizioni, alla cucina, all’arte e alla cultura genovese. Fra i grandi avvenimenti, l’apertura dell’imponente Museo del Mare alla Darsena, in prossimità del Porto Antico della città, ritenuto il più grande Museo Marittimo del Mediterraneo, che ospita una ricchissima e straordinaria collezione di documenti e reperti relativi alla storia marinara genovese, suddivisa in tre Sezioni principali: l’Epoca del Remo,
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l’Età della Vela e i Transatlantici1; la mostra dell’architetto Renzo Piano pensata a Sessioni e articolata sapientemente nel suggestivo ambiente di Porta Siberia sempre al Porto Antico; il complesso allestimento museale denominato “Arti e Architettura” di Germano Celant (che approfondiremo in seguito); la mostra “Da Tintoretto a Rubens. Capolavori della Collezione Durazzo” all’interno del restaurato Teatro del Falcone a Palazzo Reale; la Giornata dedicata a Cristoforo Colombo (il 12 Ottobre) e poi l’apertura straordinaria di chiese, palazzi, musei e monumenti in genere, tornati alla luce dopo i lunghi lavori di recupero e restauro. Numerose strade cittadine sono state rimesse a nuovo in termini di arredo urbano (pavimentazione, illuminazione, facciate degli edifici prospettanti, fontane, insegne, eccetera) e di viabilità (molte vie del centro storico sono state chiuse definitivamente al traffico veicolare), dando la possibilità al passante di effettuare il viaggio lento, all’interno di un patrimonio artistico enorme e ancora poco conosciuto. Inoltre, si stanno portando avanti con successo i lavori di scavo relativi ai rivi sotterranei e il progetto di realizzazione delle rete metropolitana del centro (in itinere ormai da più di vent’anni) che ha già collegato diverse parti della città, in prossimità di piazze importanti, delle stazioni ferroviarie e degli sbarchi marittimi. Genova è rinata nelle luci, nei colori, nel pullulare delle persone anche nei vincoli più impenetrabili; è rinata nelle continue melodie dei cantanti di strada, nelle bancarelle artigianali, nell’apertura di nuovi e caratteristici locali nel centro storico, nei bar all’aperto e nel suo “fazzoletto di svaghi” del Porto Antico, dove oggi si concentrano attrazioni di eco internazionale come l’Acquario, la Città dei Bambini, il Museo Nazionale dell’Antartide e il già citato Museo del Mare e della Navigazione.
Figura 3. Il Porto Antico e le sue attrazioni.
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Il Galata Museo del Mare, con i suoi diecimila metri quadrati di spazi espositivi, è ritenuto il più grande museo nell’area mediterranea. Esso combina tradizione e innovazione tecnologica. Diciassette grandi sale, ricostruzioni di ambienti portuali e cantieri, postazioni multimediali, spettacolari effetti sonori e visivi, integrano la ricca esposizione di strumenti, atlanti, carte nautiche, armi e quadri antichi, per una visita esemplare e divertente al tempo stesso. Quattro piani per ripercorrere negli ambienti dell’antico Arsenale della Repubblica di Genova la storia della navigazione dal remo alla vela, dai piroscafi a vapore alle lussuose navi da crociera. Un viaggio nel tempo per scoprire il rapporto dell’uomo con il mare.
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DAL G8 AL 2004
Come si è già accennato, le esperienze maturate nella realizzazione di opere eseguite al momento di eventi eccezionali, lasciano il segno. Nel 2004 Genova ha vissuto la quarta occasione straordinaria in poco più di un decennio a cavallo del volgere del terzo millennio: i Campionati Mondiali di calcio nel 1990, le Celebrazioni per il Quinto Centenario della Scoperta dell’America nel 1992, il Vertice Mondiale degli Otto Grandi della Terra nel 2001 (G8) e, infine, la designazione di Genova Città Capitale Europea della Cultura nel 2004. Tutti eventi che hanno portato a Genova fondi speciali, finalizzati sia all’attuazione delle manifestazioni, sia al decoro della città. Per ognuna delle prime tre occasioni, si sono anche vissuti gli stessi ritardi normativi, gli stessi tardivi finanziamenti, gli stessi affanni per progettazioni, autorizzazioni, esecuzioni. Per l’ultimo grande evento del 2004, invece, la città ha cominciato a dare segnali di programmazione già dal 2001, quando ancora i cantieri del G8 erano attivi. Questo perché quella del 2004 doveva essere riconosciuta come l’opportunità speciale, per permettere a Genova non solo di porsi agli occhi del mondo come città d’arte e di cultura, ma soprattutto di consolidare nei cittadini e nelle istituzioni la crescita della consapevolezza e dell’attenzione costante per l’ambito cittadino, per il suo prezioso palinsesto storico, per la sua manutenzione, per il dovere di pretendere la massima qualità da ogni intervento sia di piccola sia di grande scala, per il suo ambiente urbano; in definitiva, per la qualità del paesaggio e dei suoi abitanti. Le Istituzioni locali e le Soprintendenze, ma anche tante nuove Associazioni, hanno da tempo lavorato per delineare programmi condivisi e per prepararsi a operare attraverso la definizione istituzionale del “Comitato” che in sede locale ha coordinato e gestito l’intera operazione 2004, attraverso la richiesta di una norma di legge che ha assicurato per tempo un finanziamento ad hoc, attraverso l’elaborazione delle intese istituzionali2. Le prime linee programmatiche relative all’evento del 2004, infatti, risalgono al 2001, costituiscono la cornice delle scelte per il Vertice del G8 e aiutano a calare nel concreto i disposti della legge speciale n. 149/2000 appositamente emanata. Da allora, la “Speciale Commissione”3 di cui all’art. 1 c. 2 della legge, si è riunita con scadenza almeno settimanale per “individuare e approvare” gli interventi definiti dall’art. 1 della legge, cioè gli “…interventi di sistemazione urbana, di manutenzione e arredo stradale, di realizzazione di parcheggi e di allestimento di spazi di servizio, di supporto logistico e di esposizione della ricerca tecnologica nel territorio della città di Genova […] allo scopo di assicurare condizioni di decoro alle aree interessate da tale evento”. Al di là delle opere finalizzate specificatamente all’attuazione del Vertice e al supporto logistico, la somma resa disponibile dalla legge speciale, dal suo finanziamento, dai soggetti istituzionali impegnati e da alcuni grandi sponsors è stata investita sul patrimonio dei beni monumentali e in opere di “decoro” e riqualificazione della città stessa, quali rifacimenti di pavimentazioni e di impianti di illuminazione, interventi di riordino di vie e piazze cittadine. Tutta la città è stata coinvolta in un fervore di lavori che continua tuttora ed è esaltante vedere ponteggi ovunque, anche nel profondo dei vicoli, dove molte proprietà private, in questi casi senza aiuti economici, si adoperano per fare “belle” le loro case. Non c’era lo stesso concreto entusiasmo durante la preparazione delle celebrazioni colombiane, che pure hanno ridato alla città il piacere di affacciarsi al mare del suo Porto Antico, dal quale era stata separata fin dal Cinquecento, dapprima con la cinta delle fortificazioni a mare, poi con i recinti del porto commerciale.
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Come quella firmata il giorno 11 maggio 2001, per il G8, dal Ministro per i Beni e le Attività Culturali, dal Direttore dell’Agenzia del Demanio e dal Sindaco della città, che ha impegnato il Ministero a investire trentuno miliardi su monumenti cittadini. 3 Presieduta dal Prefetto e formata per legge dal Sindaco, dal Presidente della Provincia di Genova, dal Presidente della Regione Liguria, dal Questore, dal Provveditore regionale alle opere pubbliche, dal Soprintendente per i Beni Ambientali e Architettonici, dal Comandante provinciale dei Vigili del fuoco e dal Presidente dell’Autorità Portuale della città di Genova.
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Dalle celebrazioni del 1992 ci si aspettava la rinascita della città, dopo la crisi dell’industria pesante di Stato e le difficoltà del porto; ma la rinascita non venne immediata, anzi, vennero le polemiche e gli scandali del dopo-celebrazioni. Nel corso degli anni Novanta, però, si concretizzò sempre più la consapevolezza che i lavori “colombiani” avevano lasciato un patrimonio di opere durature, una ricchezza che nel tempo la città ha imparato a gestire, a valorizzare, a fruire: il Porto Antico è divenuto luogo molto visitato per lo svago e il relax, l’Acquario ha più di un milione di visitatori l’anno, Palazzo Ducale è ricco di iniziative e di eventi, nel Chiostro dei Canonici di San Lorenzo è stato allestito il Museo Diocesano con fondi per il grande Giubileo del 2000 e per la Commenda di Pré si è delineato un ruolo preciso all’interno del complesso del Museo del Mare allestito di recente nel Porto Antico. Abbiamo quindi assistito ad un significativo processo di valorizzazione dell’esistente, visto il consolidamento della consapevolezza del ruolo importante che ha avuto in questo percorso il denso e ricco patrimonio culturale cittadino. Genova, città policentrica, a lungo dimentica, distratta o addirittura infastidita del suo specialissimo e importante patrimonio monumentale e paesistico, nonostante il porto e molte attività economiche abbiano ripreso vitalità, ha puntato sui suoi musei, teatri, palazzi, ville, forti, sul suo fitto centro storico di origine medievale, sui centri antichi e sul suo mare, per essere sempre più riconosciuta come città d’arte e per dare ai suoi cittadini un ambiente migliore. Si tratta di un programma complesso, lento, difficile, costruito su tantissime variabili e con tantissimi soggetti e tasselli, ma quel che conta è che si tratta di un processo avviato e consolidato. A testimonianza di ciò sta la vitalità dell’iniziativa pubblica nel programmare e farsi regista di operazioni sulle quali vengono attratti fondi anche privati. Ne sono prova le tante iniziative che animano il dibattito cittadino, come la questione del rimuovere o meno parte della “Sopraelevata”, se si passerà da Levante a Ponente dell’ansa del Porto Antico con un ponte o un tunnel, se piacciono ai Genovesi le fontane di piazza de Ferrari, e così via. In questo fervore di iniziative (si ricordi la vicenda dell’affresco molto discusso progettato da Renzo Piano per il nuovo waterfront), dai tempi del G8 la città ha avviato processi di recupero urbano e paesistico di una certa rilevanza. Finalmente, dopo tanti decenni di disattenzione, sporcizia, trascuratezza, disordine, si assiste a una grande operazione finalizzata al decoro urbano, quel “decoro” di cui Genova fu maestra fra Ottocento e Novecento. Una grande operazione fatta di interventi molteplici, soprattutto relativi alle facciate di case e palazzi, che si è voluto non fossero sommari lavori di ridipinture o abbellimento, ma che si basassero sulle regole di restauro, traendo da esse quella unità di metodo4 che permette di affrontare con qualità tutti gli interventi, con differenziato grado di delicatezza, dal semplice ripristino del fronte monocromo di una casa, al restauro di quello affrescato di un palazzo. Per un settore importante del centro storico genovese, questa operazione si è risolta in un vero e proprio intervento di restauro urbano, fatto di opere molteplici: il ripristino delle pavimentazioni, il restauro delle facciate monumentali, la ridecorazione dei fronti degli edifici del tessuto cittadino, la sostituzione con oggetti disegnati degli elementi di arredo, la riapertura di negozi e locali pubblici. Oggi, dopo l’ultimo importante evento del 2004, occorre che la città garantisca le modalità e i finanziamenti per una cura costante e periodica delle sue strade e dei suoi palazzi, che si instauri cioè la prassi delle manutenzioni attente, mirate, qualificate, che garantiscano il risparmio economico e tutelino dal degrado l’edilizia storica, le vie e le piazze cittadine. Solo così si potrà proseguire nel processo di risanamento e rivitalizzazione del corpo fisico della città, senza dover contare su altri eventi speciali per effettuare (anche) le opere di manutenzione ordinaria e straordinaria.
4 Dalle indagini dello stato conservativo, agli studi delle cromie e dei decori originali, al progetto di risanamento basato sul minimo intervento e sul rispetto dei materiali antichi, al restauro delle decorazioni preesistenti oppure alla riproposta del colore con materiali compatibili.
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QUEL “GUSTO URBANO” GENOVESE
Dai tempi del G8 ad oggi, i più importanti edifici storici sono stati restaurati, numerose chiese rivivono presentandosi agli occhi dei visitatori nel loro migliore aspetto. La “Lanterna”, da sempre simbolo cittadino, viene rivisitata con una nuova passeggiata, via San Lorenzo, con lo sfondo della Cattedrale, rinasce nel suo splendore con una nuova pavimentazione pedonale. La città ne ha tratto grande vantaggio, recuperando siti di grande bellezza e, contemporaneamente, si è meglio definito un quadro delle conoscenze sulla storia del gusto e sulle tecniche edilizie localmente in uso fra il Seicento e il Novecento. E’ noto il rischio che gli interventi straordinari, spesso eseguiti in clima d’urgenza e sotto la spinta di motivazioni, ancor prima che culturali, politiche o più semplicemente di prestigio, suscitano nei confronti del patrimonio storico-architettonico. La dottrina del restauro, nonostante quanto si sente affermare da più o meno improvvisati “esperti” in materia e, qualche volta, dalle stesse Istituzioni preposte all’attività di tutela, ormai da decenni invita a fare l’esatto contrario, cioè a favorire i finanziamenti diffusi sul territorio, scalati secondo le situazioni di rischio, orientati più alla continua manutenzione che all’intervento di restauro vero e proprio; in una parola, raccomanda iniziative rigorosamente programmate. Nel caso genovese, l’imponente campagna di restauri eseguita nel cuore della città, ormai pressoché felicemente ultimata, è stata accompagnata da rigorose analisi e indagini preliminari che ormai fanno parte della metodologia operativa locale. Dalle molte ricerche svolte che si sono avvalse – nel senso di quella “filologia dei materiali” – tanto dell’apporto di studiosi attivi in ambito universitario, quanto di operatori del restauro pubblici e privati, è derivata un’ampia indagine sulla storia del “gusto urbano” a Genova: predilezioni cromatiche e scale coloristiche prevalenti sui prospetti monumentali; loro modificazione nel tempo, la particolarità degli stucchi, l’uso di tinte a olio e tempera, nell’Ottocento, su precedenti coloriture a calce, e così via. Diversi linguaggi e diverse modalità esecutive per una Genova affascinante che si sta riproponendo agli occhi dei visitatori, per mostrare anche solo alcune delle sue importanti orme del passato. Fascino che scaturisce anche dalla diversità dei singoli edifici, costruiti in epoche storiche più o meno lontane, relativi a questioni che vanno dalle esperienze di conservazione architettoniche ad altre di restauro del paesaggio o di antichi percorsi, come nel caso della Lanterna ad altre di programmato e unitario recupero urbano come nel caso di via San Lorenzo o di via Garibaldi. L’intervento su via San Lorenzo, in particolare, è emblematico perché si condensano in esso gli obiettivi a vasto raggio posti in essere per il rilancio e la valorizzazione del grande patrimonio urbano che Genova da tempo ha conservato sotto uno strato di degrado e di trascurata manutenzione. L’avvio del processo virtuoso di riconferimento di senso a tale patrimonio è stato il restauro della Cattedrale avvenuto in occasione dell’Anno Giubilare del 2000. La sontuosa opera di valorizzazione di questo monumento non poteva non avere un seguito e così la scelta della pedonalizzazione del suo intorno è stata concepita secondo un disegno uniforme, valorizzato dal restauro delle facciate degli edifici prospicienti la via e la piazza della Cattedrale stessa. Quando fu realizzata, la via doveva apparire ai cittadini come un’innovazione urbanistica di grande decoro urbano. Le condizioni di traffico del secolo successivo la condannarono al degrado, che si risolse in una perdita di valore immobiliare e, ciò che fu più grave, in una disaffezione da parte dei cittadini. In questa caduta di valori fu coinvolta la Cattedrale stessa, offesa da una polluzione che ne minava le pur solide murature e ne cancellava le raffinate tessiture e i preziosi inserti marmorei. La rinascita del monumento e della via omonima, in continuità con piazza Matteotti e Palazzo Ducale, oggi stupiscono in quanto non sembrava neppure immaginabile questa ricchezza architettonica, ritenuta da molti, occorre dirlo, di scarso interesse. Dal G8 ad oggi, inoltre, con la conclusione del restauro dei palazzi storici di via Garibaldi, ha preso corpo una radicale trasformazione in senso spiccatamente culturale di una delle più belle strade del 91
tardo Rinascimento italiano, testimonianza di una ricchezza e di un fasto, privati per appartenenza molti, ma di significato pubblico e politico motivati dalla storia della città.
Figura 4. I palazzi di via Garibaldi. Schema planimetrico.
Figura 5. Vista del prospetto interno (lato mare) di Palazzo Reale, del cortile interno e parte del giardino pensile con l’antico risseau. Figura 6. Palazzo Ducale. Sulla facciata sono posti i due stendardi relativi al logo di “Genova Capitale Europea della Cultura 2004” e nel centro il manifesto della mostra “Arti e Architettura”. Di fronte, la “Torre del Filosofo” di Alessandro Mendini e, sullo sfondo, in prossimità dello scalone principale, si notano i pilastri dell’opera “The Harbor” di Pedro Cabrita Reis.
Anche Palazzo Reale, sito nella secentesca via Balbi (ora esclusa al traffico veicolare), in prossimità della Stazione Principe, sede estiva dei Savoia sino al 1923, ha subito numerosi interventi di restauro e di recupero urbano e con i suoi spazi aperti, il teatro Falcone, il cortile, la terrazza e il giardino pensile su via Pré (uno dei vicoli più caratteristici e antichi del centro storico genovese), rappresenta un grande complesso urbano di una certa importanza e originalità per Genova5, dove si può godere la vista della città affacciata sul mare. L’auspicio è che esempi come questi diventino comune prassi per il miglioramento della qualità urbana, affinché Genova possa mostrare i suoi tanti tesori ancora nascosti.
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E’ stato progettato, infatti, dall’architetto romano Carlo Fontana all’inizio del Seicento e il suo schema a pianta a U con cortile interno, giardino pensile e terrazza a tripla arcata, rappresenta un’eccezione per Genova.
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ARTI E ARCHITETTURA 1900/2000
Un pesce colossale dalle squame lignee e la lunga coda lascia intravedere con qualche trasparenza l’interno che potrebbe essere un’abitazione; la scultura, dal titolo “The Gift Fish”, ha invaso per molti mesi un’intera sala all’ultimo piano di Palazzo Ducale. In un’altra zona ecco imporsi il modellino del “Museo Guggenheim” che il medesimo autore del pesce, Frank O. Gehry ha creato facendo correre il nome di Bilbao per le vie del mondo. Altrove, uno splendido dipinto accenna a molteplici edifici o fantasmi di essi, coprendo un’intera parete d’un enorme salone, opera dell’artista tedesco Anselm Kiefer. Una sala speciale poi illustra i differenti interessi di Mollino, foto, disegni, oggetti, design, il modellino del “Galoppatoio di Torino”, mentre il “Cimitero di Urbino”, progetto dello scultore Arnaldo Pomodoro, è appeso ad una parete in tutta la sua attualità, inciso nel bronzo ormai da decenni. Erano questi alcuni degli sconfinamenti, delle commistioni o contaminazioni che hanno segnato e continuano a imporre l’interdisciplinarietà nelle arti e nell’architettura, dall’alba del secolo scorso ai giorni nostri. Questo il viaggio originale, personale quanto suggestivo e conturbante che ha proposto Germano Celant nella mostra “Arti e Architettura 1900/2000”, con inventivo quanto ingegnoso allestimento di Gae Aulenti e ha costituito (con la mostra dedicata a Rubens allestita a Palazzo Reale) l’episodio cruciale e conclusivo di Genova Capitale Europea della Cultura 2004, all’insegna della contemporaneità e della cultura attuale. Il percorso è stato arricchito da foto, film, proiezioni di ogni tipo, ed è lungo questa “avventura utopica” di prestiti fra arti e architetture, raffronti e confronti che si è svolta l’intera manifestazione, nel segno del recupero dell’immagine, del colore, dei materiali e delle forme che l’architettura, al di là della funzione, mutua dalla ricerca artistica, fotografica o cinematografica e viceversa. L’evento, che ha schierato in campo ben più di mille pezzi, ha richiesto tempi di visita non brevi, procurando sorprese ed emozioni. Si è composto di tre parti: l’esposizione storica dentro Palazzo Ducale, suddivisa in due Sezioni, la prima dal 1900 al 1960 e la seconda dal 1970 al 2000; la terza si è scomposta per le piazze della città con installazioni, progetti, proposte di vasto respiro che hanno avuto l’ambizione di entrare a far parte dell’ambito urbano genovese, di stupire e divertire il passante. Idea centrale di Celant, anzi “ossessiva” la definisce lui stesso, è che tali invasioni di campo risalgano al principio del Novecento, abbiano poi continuato il loro corso, individualmente con personaggi quali Soleri o Gaetano Pesce, visto il funzionalismo e il razionalismo imperanti, con cubi e severità di linee e colori, fino all’esplodere della Pop Art che riconquistò l’immagine, il colore, la fantasia, la commistione fra foto, cartelloni, film, immagini di consumo, libri, architettura. Effettuando una rapidissima carrellata sulle opere esposte, si è assistito ai prodotti dell’architettura Radicale e di quella Minimale, tra cui è comparso Peter Eisenman, oggi apostolo dell’architettura più originale di quest’ultimo movimento, mentre Richard Meier, severo seguace di certa rigidità, con edifici marmorei dai giochi di luce e gli spazi severi, è rappresentato pure come scultore, agglomeratore di forme ed oggetti. Il Postmoderno è risultato molto fruttuoso, seguito dal Decostruzionismo, con Gehry che ha imposto i suoi famosi pesci e le case a pesce e naturalmente musei faraonici nel mondo intero e ha rappresentato la continuazione dell’architettura fantasiosa e appariscente, dalle forme e colori singolari di oggi, che lavora per immagini. Tutto ciò è stato ben illustrato da disegni ravvicinati a progetti, sculture a modellini, dipinti superbi ad architetture. Punto d’avvio, oltre a un accenno al “Deutsche Werbund”, è il Futurismo, ecco Balla con dipinti di “Linee di forza” ravvicinato a disegni del Sant’Elia, Terragni a Sironi, Panneggi con il secondo Futurismo a Libera, e tanti altri. Poi il Futurismo russo, il Suprematismo e il Costruttivismo con i Malevich, Tatlin, Rodchenko, El Lissitskj, progetti o disegni inediti, film, sicché si sono succedute architetture di artisti e pitture o disegni di architetti, come 93
accade per Mondrian, di cui sono stati esposti veri gioielli in una sala per “De Stijl”, caratterizzata dai superbi esempi di Theo Van Doesburg. L’Espressionismo è stato illustrato con trasparenze e luminosità; né è mancato Léger che con il suo cubismo “tubista” dipinse costruzioni in ferro, né De Chirico con la Metafisica, torri, stazioni, costruzioni che influenzarono architetti come Aldo Rossi. C’è stata pure una sala Dada che certo come movimento non costruì nulla ma taluni disegnarono progetti. Anche i Surrealisti con i collages offrirono il loro apporto a film, così i fotografi come la Modotti e Florence Henry e altri immortalarono edifici. Mondrian e Kandinsky sono stati accostati a Le Corbusier, è comparso Wright, poi un’area dedicata al “Bauhaus” con oggetti di Walter Gropius, e poi ancora a seguire Giò Ponti, architetto, disegnatore, designer. Alvar Aalto è apparso vicino a Carlo Scarpa per un’eguale ricerca sui materiali, e poi ancora Scharoun e Burri, accanto alle sculture nello spazio di Vedova e ovviamente Fontana. Con gli anni Sessanta entrano in scena Sottsass pittore e Dubuffet che genera figure scultoree e architettoniche. Di Piero Manzoni è ricostruito il “Planetarium”, il teatro da “respirare” che egli immaginò con le tre bolle, si procede con Klein e così via. La seconda parte della mostra ha riguardato il periodo dagli anni Settanta fino al Duemila: presenti gli architetti più famosi, alcuni già citati e tra i quali si ricorda Gae Aulenti di cui è stato esposto lo splendido Museo di Barcellona, e poi Botta, Arata Isozaki, Venturi, Michael Graves, Fuksas, Bellini, Libeskind, la Nevelsohn e Jean Nouvel. Sono solo accenni, flash, che non hanno la pretesa di raccontare la mostra (sarebbe impossibile, visto la vastità e la complessità delle opere esposte), bensì di ricordare un grande evento che ha fatto riflettere, ha meravigliato, ha provocato ed ha invaso l’intera città, in uno stretto confronto fra arti, architettura e ambito urbano. L’ESPOSIZIONE ITINERANTE E L’IMPATTO CON L’AMBIENTE URBANO GENOVESE
In occasione della mostra “Arti e Architettura”, in varie piazze della città abbiamo visto spuntare e poi completare le installazioni che famosissimi artisti hanno offerto a Genova in occasione del 2004, e che hanno interessato soprattutto il cuore del centro storico, da piazza Caricamento a piazza Matteotti, dove si trovano il vecchio Palazzo Comunale di San Giorgio, la Cattedrale di San Lorenzo e Palazzo Ducale. In sequenza, si ricordano il “Teatro del Mondo” di Aldo Rossi, l’avveniristico “Ginger and Fred” di Frank O. Gehry, il coloratissimo totem denominato “Torre del Filosofo” di Alessandro Mendini, lo sperimentale “The Harbor” di Pedro Cabrata Reis. Quattro perle dell’architettura moderna per testimoniare come il contemporaneo possa integrarsi nel tessuto antico della città, un processo che, tra l’altro, come si ricordava già precedentemente, Genova ha vissuto in prima persona in questi ultimi dieci anni. Il percorso itinerante ha avuto come punto di partenza proprio piazza Caricamento, con il “Teatro del Mondo” di Aldo Rossi, la struttura più complessa dell’intero allestimento ma sicuramente anche la più suggestiva. Pensato dal celebre architetto per la Biennale di Venezia, fu inaugurato l’11 novembre del 1979 per essere smantellato nel 1981. Da quella data non è stato più ricostruito e l’aver portato a termine questo allestimento ha rappresentato un fatto eccezionale per la storia dell’architettura moderna. Il “Teatro del Mondo” fu concepito come una struttura circolare, sul modello dei teatrini cinquecenteschi: al suo interno potrebbe ospitare circa trecento persone, ma va detto al condizionale in quanto non esistono misure di sicurezza per mettere in scena spettacoli. Questo fatto può essere ben ovviato dai video, ma ciò che più lascia sbalorditi è la mancanza di fondamenta; l’installazione è stata ancorata a terra, soprattutto per impedirne il ribaltamento da parte del vento, ma tutto è stato sagomato, sicché si ha la sensazione che il “Teatro” sia semplicemente appoggiato a terra. Ben visibili, invece, i blocchi di cemento che sorreggono in piazza San Lorenzo, proprio di fronte alla Cattedrale, “Ginger and Fred”, ancora progetto dell’architetto canadese Gehry che rappresenta il prototipo per l’edificio della “Nazionale-Nederlanden” a Praga. 94
I diversi modelli e i tagli delle superfici reali, in vetro, sono stati progettati con tecnologie digitali mentre il titolo dell’opera allude in maniera suggestiva alla grazia e alla leggerezza dei due noti ballerini, Ginger Rogers e Fred Astaire.
Figura 7. Il “Teatro del Mondo” di Aldo Rossi allestito in piazza Caricamento. Figura 8. “Ginger and Fred” di Frank O. Gehry innalzato in piazza San Lorenzo.
Lasciata piazza San Lorenzo, si entra nel vivo della mostra con le tre installazioni di Piazza Matteotti: la “Torre del Filosofo” di Mendini, “The Harbor” di Pedro Cabrita Reis e la “Modular House Mobile” dell’Atelier van Lieshout. La “Torre”, in particolare, è stata creata per rappresentare la nuova tendenza dell’architettura, ribadendo l’importanza del decoro a scapito della funzionalità. Nel cortile Minore di Palazzo Ducale si incontrano invece le opere “Wave UFO” di Mariko Mori e “Architect’s Handkerchief” di Claes Oldenburg (con la moglie van Bruggen). Per quest’ultima opera, si tratta del “Fazzoletto dell’architetto”, datato 1999: un candido fazzoletto in lana di vetro, resina e lacca che si librava nell’aria con tanto di pieghe ed angoli da una base scura. Nel cortile Maggiore, trovavano invece posto i “74 Gradini” e gli “Igloo” di Mario Merz, la “Gigantografia” di Rem Koolhaas, “Cloud Prototype” di Inigo Manglano Ovalle e “Triangular Solid” di Dan Granham. Altri allestimenti sono stati sistemati tra piazza Matteotti e via Garibaldi: davanti alla chiesa di San Matteo era stata collocata “Cornelia”, opera di Anselm Kiefer; in piazza Sarzano, nel chiostro di Sant’Agostino, “Hyperbuilding” di Rem Koolhaas; in piazza De Ferrari “Chiosco per Genova 2004” di Gaetano Pesce, “Muri interni del Chiosco” di Mimmo Rotella e “Arti & Architettura” di Pierluigi Cerri; Renzo Piano nei giardini di via XII Ottobre ha innalzato il “Modello di una casa” che progettò in legno di larice per la Nuova Caledonia nel 1991-98, mentre esplorava le possibilità del vento e le abitudini locali per il “Centro” che ha creato. In piazza Fontane Marose ancora oggi si può ammirare il “Treno d’oro” denominato “The Golden Calf” di Hans Hollein (forse lasciato in questo luogo in maniera permanente) e, infine, in alcuni cortili dei palazzi di via Garibaldi, “Togok Towers” di Rem Koolhaas a Palazzo Lomellino, “Giardini di vetro” di Andrea Branzi a Palazzo Tursi e la “Mobile Lighthouse” di Denis Oppenheim. A Palazzo Reale, infine, si poteva ammirare l’installazione senza titolo di Maria Nordman. 95
Un allestimento itinerante che ha trovato collocazione prevalentemente nei luoghi significativi della Genova monumentale e queste “sculture” provvisorie, talvolta giganti, maestose, coloratissime o imponenti, hanno sollevato non poco dibattito tra i più o meno esperti e i passanti in genere. Senza entrare nel merito, vorrei sollevare solo una questione: oggi si rimane sbalorditi dal “diverso”, dallo strabiliante esagerato senso del moderno, che si manifesta in vari espressioni artistiche, mentre la riqualificazione e il recupero del patrimonio culturale genovese ha messo in evidenza la straordinaria e poderosa presenza di edicole, case porticate, portali monumentali, fontane e arredi vari del nostro passato che oggi più che mai testimoniano della ricchezza della Genova medievale e rinascimentale. Come le imponenti installazioni moderne, questi importanti espressioni artistiche ci sorprendono, ci appaiono inaspettatamente davanti agli occhi, uscendo da un carruggio a gomito o alzando gli occhi nello slargo di un edificio nobiliare. Se il paesaggio attuale è il frutto delle varie stratificazioni che si sono succedute nel tempo, che hanno talvolta modificato o talvolta snaturato i palinsesti originari, ciò che vediamo oggi è il frutto della stretta (spesso scomoda) convivenza tra passato e presente, che la mostra “Arti e Architettura” ha ben dimostrato con i suoi contrasti, le esagerazioni, i punti di vista singolari. Con l’evento del 2004 si è innescato un meccanismo di riconoscimento del patrimonio culturale e paesistico genovese ormai irreversibile, che si auspica conduca la città a livelli ancora più alti di qualità e di crescita urbana, in accordo con i processi di ordinaria manutenzione e di recupero dell’esistente.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
PITTARELLO LILIANA, Molti lavori per un intervento di restauro urbano, “Speciale G8 Genova. Supplemento ad Arkos”, 1, 2001, pagg. 11-17.
RIFERIMENTI ICONOGRAFICI
Figura 1: “Speciale G8 – Genova. Supplemento ad Arkos”, 1, 2001, foto di copertina. Figura 2: “Speciale G8 – Genova. Supplemento ad Arkos”, op. cit., foto di retro-copertina. Figura 3: Schema planimetrico sul depliant “Galata Museo del Mare”, 2004. Figura 4: “Speciale G8 – Genova. Supplemento ad Arkos”, op. cit., pag. 47. Figura 5: Comune di Genova, Direzione Comunicazione, 2001. Figure 6, 7 e 8: fotografie di Maristella Storti, 2004.
Testo acquisito dalla redazione della rivista nel mese di agosto 2005. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768 Università degli Studi di Firenze
Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/ Firenze University Press anno 3 – numero 3 – gennaio - giugno 2005 sezione: Eventi pagg. 97-107
CREARE PAESAGGI Antonella Valentini*
Summary The proceedings of an international meeting are recently published. It was realized in Turin in 2004, related with the second edition of the Creare Paesaggi, during which was presented the exhibition of the IIIrd Biennial of Landscape that has been in Barcelona the year before. The occasion for the Italian event is to reflect on the different forms and ways to present-day project of landscape. The title of the review - Creare Paesaggi – recalls one, may be the most innovative, politics for landscape as the European Convention says, while the title of the meeting - In ogni modo – wants to underline the richness and diversity of the approaches to the creation of landscape through tree big themes, or instruments, to operate: the project, the culture, the government. Key-words European Biennial of Landscape, European Landscape Award, Creare Paesaggi 2004, Turin.
Abstract Sono stati recentemente pubblicati gli atti della seconda edizione della rassegna torinese Creare Paesaggi 2004, all’interno della quale è stata presentata la mostra itinerante della III Biennale del Paesaggio di Barcellona. Motivo dell’evento torinese è stato riflettere sulle diverse forme e modalità della progettazione contemporanea del paesaggio. Il titolo della rassegna – Creare paesaggi - richiama una, forse la più innovativa, delle politiche per il paesaggio indicate dalla Convenzione Europea, mentre quello del convegno - In ogni modo - intende dar voce alla ricchezza e alla diversità degli approcci verso la creazione di nuovi paesaggi attraverso tre grandi temi, o strumenti, mediante i quali operare: il progetto, la cultura e il governo. Parole chiave Biennale Europea del Paesaggio, Premio Europeo del Paesaggio, Creare Paesaggi 2004, Torino.
*Dottore di Ricerca in Progettazione paesistica e specialista in Architettura dei Giardini e Progettazione del Paesaggio, Università di Firenze.
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PREMESSA Negli ultimi anni si sono intensificate le occasioni per riflettere sui ruoli e significati dell’architettura del paesaggio in Europa prendendo spunto dal confronto delle diverse esperienze progettuali: iniziano ad essere numerose le opere bibliografiche1 scritte per far conoscere al pubblico, sia esperto che semplicemente interessato, il panorama delle realizzazioni fortunatamente sempre più frequenti rispetto al vastissimo elenco dei progetti e si sono consolidati alcuni appuntamenti con mostre e convegni. In Italia si è svolta recentemente la prima edizione della Biennale del Paesaggio Mediterraneo di Pescara (2005), mentre la rassegna Creare Paesaggi di Torino è giunta alla seconda edizione (2004). L’evento torinese ha avuto il merito di portare ancora una volta in Italia la mostra itinerante della Biennale del Paesaggio spagnola del 2003; alla rassegna, promossa dall’Ordine degli Architetti PPC della Provincia di Torino con il sostegno della Regione Piemonte, sono legati, infatti, sia la mostra Only with Nature della III Biennale Europea del Paesaggio di Barcellona, sia il convegno internazionale In ogni modo/Allways /De toute façon conclusosi con una tavola rotonda dedicata al tema dell’applicazione del nuovo Codice dei beni culturali e del paesaggio. Obiettivo principale del convegno è stato riflettere sulle diverse forme e modalità della progettazione contemporanea del paesaggio; lo stesso nome della rassegna trae origine proprio da una delle politiche indicate dalla Convenzione Europea2 relativa alla creazione di nuovi paesaggi che, accanto a quelle più tradizionali di salvaguardia, gestione e pianificazione, rappresenta una espressione eloquente delle condizioni attuali di governo del territorio. Il concetto della creazione di nuovi paesaggi è infatti una svolta significativa che tradisce l’esistenza di un approccio diverso al progetto, non solo tecnico ma culturale, che non utilizza solamente lo strumento del vincolo per tutelare o lo strumento del piano per pianificare. E’ il dialogo sempre aperto tra conservazione e innovazione, in cui la trasformazione riveste un ruolo principale, che non si traduce in opposizione in quanto si è oramai giunti alla constatazione “…che non può esservi autentica conservazione di valori senza l’innovazione continua delle forme, delle funzioni o quanto meno del senso che viene loro attribuito, come non può esservi innovazione durevole e sostenibile se non sulla base di una gestione saggia e conservativa del patrimonio di risorse di cui si dispone…”3. Nel paesaggio, contraddistinto dalla dinamicità, la stessa modificazione è riconosciuta come valore e il controllo dinamico delle trasformazioni diventa obiettivo prioritario4, soprattutto in quei territori per così dire ordinari a cui la Convenzione si rivolge. 1
Si citano, dagli anni Novanta ad oggi: MICHAEL LANCASTER, The New European Landscape, Butterworth Architecture, Oxford 1994; GIANPIERO DONIN, Parchi. L’architettura del giardino pubblico nel progetto europeo contemporaneo, Biblioteca del Cenide, Reggio Calabria 1999; GUY COOPER, GORDON TAYLOR, Giardini per il futuro, Logos, Modena 2000; ISOTTA CORTESI, Il parco pubblico, paesaggi 1985-2000, Federico Motta, Milano 2000; BIAGIO GUCCIONE, Parchi e giardini contemporanei. Cenni sullo specifico paesaggistico, Alinea, Firenze 2001; THIES SCHRÖDER, Changes in scenery. Contemporary landscape architecture in Europe, Birkhäuser, Basel 2001; ROBERT HOLDEN, Progettare l’ambiente, Logos, Modena 2003. 2 La Convenzione Europea del Paesaggio è firmata a Firenze nel 2000 da vari Stati membri. Per politica del paesaggio si intende “…la formulazione, da parte delle autorità pubbliche competenti, dei principi generali, delle strategie e degli orientamenti che consentono l’adozione di misure specifiche finalizzate a salvaguardare, gestire e pianificare il paesaggio”. Convenzione Europea del Paesaggio, 2000, Art. 1, comma b). 3 ROBERTO GAMBINO, Il paesaggio tra conservazione e innovazione, in ANTONIO DE ROSSI, GIOVANNI DURBIANO, FRANCESCA GOVERNA, LUCA REINERIO, MATTEO ROBIGLIO, Linee nel paesaggio. Esplorazioni nei territori della trasformazione, Utet, Torino 1999, pag. 26. 4 Ciò emerge anche a Napoli nel 1999, al convegno AIAPP-FEDAP “La trasformazione sostenibile del paesaggio”, quando è presentata la Carta di Napoli. Il parere degli specialisti sulla riforma degli ordinamenti di tutela del paesaggio in Italia, venti raccomandazioni strategiche in linea con la Convenzione Europea finalizzate all’avvio di nuovi strumenti procedurali e legislativi in Italia. L’analisi “delle dinamiche di trasformazione del territorio attraverso l’individuazione dei fattori di rischio e degli elementi di vulnerabilità del paesaggio…” è anche uno degli obiettivi di qualità paesaggistica introdotti dal Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, Dlsg. n. 42 del 22 gennaio 2004 (Art. 143, lett. b).
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Figure 1, 2. Immagini della mostra torinese.
La Convenzione Europea del Paesaggio ha infatti sottolineato la necessità di estendere l’attenzione dalle aree di maggiore interesse e rilevanza ambientale a tutti i paesaggi di qualità comune o addirittura compromessi dalle pressioni dello sviluppo insediativo, spostando l’interesse dalla tutela di tipo vincolistico di ambiti di particolare importanza alla individuazione di politiche volte alla gestione e pianificazione di tutto il paesaggio5. Ecco dunque che il convegno si articola attorno ai temi introdotti dalla Convenzione toccando problematiche come la riqualificazione di aree degradate o il difficile mantenimento dell’agricoltura periurbana, presentando progetti sia in corso nell’area metropolitana torinese, sia in varie regioni europee, a scale diverse, come il giardino botanico di Bordeaux (nato su terreni bonificati) o l’imponente operazione IBA nel paesaggio segnato dalle attività minerarie della Lusazia; si analizzano poi i problemi di applicazione, soprattutto in mancanza della ratifica di questo importante documento da parte del governo italiano e con l’introduzione del nuovo Codice dei beni culturali e del paesaggio entrato in vigore nel maggio 2004. In un quadro legislativo e culturale come quello italiano6, appare particolarmente importante possedere strumenti progettuali adatti a riconoscere i valori comuni, diffusi e talvolta latenti dei territori ordinari, le cui trasformazioni sono forse più evidenti che le permanenze - e a tal fine iniziative come la rassegna torinese sono particolarmente utili a diffondere la cultura del progetto - ed emerge la necessità di attivare politiche paesistiche in grado di generare azioni progettuali finalizzate a salvaguardare, gestire, pianificare e creare i paesaggi nei quali viviamo. Una possibile direzione da intraprendere al fine di raggiungere gli obiettivi sopra esposti può essere ravvisata nell’attivare strategie di lungo periodo, capaci di seguire l’evoluzione e la trasformazione del paesaggio, e di carattere sistemico in grado di superare, come suggerisce la Carta di Napoli, una visione puntuale e isolata a favore di una “strategia di gestione totale del territorio”7. L’individuazione di strategie non è ovviamente di per sé sufficiente a 5
“…la Convenzione si applica a tutto il territorio delle Parti e riguarda gli spazi naturali, rurali, urbani e periurbani […] Concerne sia i paesaggi che possono essere considerati eccezionali, che i paesaggi della vita quotidiana e i paesaggi degradati” (Art. 2). 6 Dagli anni Novanta l’interesse per il paesaggio si intensifica: nel 1999 a Roma si tiene la Prima Conferenza Nazionale per il Paesaggio; una prima applicazione dei principi della Convenzione è tentata con l’Accordo tra Ministero per i Beni e le Attività Culturali, le Regioni e le Province Autonome di Trento e Bolzano, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 19 aprile 2001. Il Ministero ha inoltre affidato alla SIU-Società Italiana Urbanisti, sotto il coordinamento scientifico di Alberto Clementi, una ricerca per definire criteri e modalità dei piani paesistici. In merito ai risultati della ricerca cfr. ALBERTO CLEMENTI (a cura di), Interpretazioni di paesaggio. Convenzione Europea e innovazioni di metodo, Meltemi, Roma 2002. 7 Carta di Napoli, 1999, art. 2. Più sopra si scrive: “Si sottolinea l’urgenza di mettere in campo strategie di intervento di lungo periodo e di carattere il più possibile integrato al fine di attuare le opportune politiche che
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garantire il controllo delle trasformazioni del paesaggio, poiché queste spesso avvengono a livello di azioni e progetti puntuali, di piani e programmi di breve e medio periodo che hanno una ricaduta immediata sulla qualità paesistica, ma consente di avere una visione superiore rispetto ai particolarismi e agli interessi settoriali, capace di ricomporli nel disegno complessivo di una politica di tutela del paesaggio e dell’ambiente. Ecco dunque che la rassegna torinese analizza progetti e strumenti giuridici al fine di delineare le strategie e le modalità operative per intervenire nel paesaggio secondo una molteplicità di approcci. PROGETTARE PAESAGGI: FORZE, SUPPORTI E ARTICOLAZIONI Nella prima edizione del 2002 la rassegna torinese riallestisce la mostra della Biennale Europea del Paesaggio di Barcellona, Gardens in Arms8, permettendo così al pubblico italiano di conoscere l’importante manifestazione spagnola che rappresenta l’unico evento di respiro europeo che si ripete periodicamente consentendo il dibattito disciplinare e il confronto tra coloro che si occupano a vario titolo di paesaggio. Per la selezione del Premio Europeo, infatti, sono stati presi in esame ben mille e cinquecento progetti di architettura del paesaggio, dal 1994 ad oggi, tutti rigorosamente realizzati (e questo costituisce un elemento discriminante importante sapendo come questa professione sia lenta ad affermarsi e quanto si difficile il passaggio dall’ideazione alla attuazione). Anche nella seconda edizione del 2004 a Torino è riproposta la mostra spagnola, il cui tema, Only with Nature, richiama l’importanza dell’uso di processi naturali, ovvero il tempo, e di materiali viventi come la vegetazione. Se la prima edizione della Biennale Rifare Paesaggi rilevava l’esistenza di uno spazio, quello promosso dal COAC Collegi d’Arquitectes de Catalunya, per riflettere sul progetto di paesaggio e la seconda edizione Giardini insorgenti, evidenziava l’idea del giardino come mezzo per interpretare la tradizione e progettare la trasformazione urbana, questa terza esposizione Solo con la Natura “….sottolinea il fatto che il paesaggio è un campo di conoscenza che promuove il pensiero ibrido e aiuta a rimettere a fuoco la nostra relazione con la natura”9. La mostra spagnola è articolata secondo tre grandi temi - forze, articolazioni e supporti - che rispondono ad una logica di catalogazione dei lavori presentati, sebbene talvolta questi tematismi possono coesistere all’interno di ogni singolo progetto, premiato soprattutto per gli elementi di innovazione introdotti e per i caratteri sperimentali che possono delineare nuovi percorsi della progettazione paesaggistica. Il primo premio ex-aequo è attribuito al giardino botanico di Bordeaux di Catherine Mosbach e al progetto Cardada di Paolo L. Bürgi, mentre le opere di difesa dalle valanghe realizzate nella cittadina islandese di Siglufjorour dallo studio Landslag hanno meritato una menzione speciale. Le barriere antivalanghe esemplificano bene l’idea della prima categoria, quella relativa alle forze, in quanto intervento che assume quale argomento principale il lavoro con la materia e con l’energia. Quest’opera “…trascende l’atteggiamento convenzionale della maggioranza dei progetti, mediante una forma semplice […], esplorando i limiti fra l’ingegneria ed il lato ludico di un paesaggismo di base, quasi primitivo”10. Il giardino botanico di Bordeaux, invece, oltre proporre innovazione rispetto al tema dell’orto botanico, scommettendo sulla consentono di esplicare la più efficace prevenzione nei confronti delle minacce e pressioni che incombono sul paesaggio…” 8 Jardins insurgents. Arquitectura del Paisaje en Europa 1999-2000, Colección Arquíthemas n. 11, catalogo della II Biennale del Paesaggio 2001, Edición Fundación Caja de Arquitectos, Barcellona 2002. Questo volume è preceduto da: Rehacer paisajes. Arquitectura del Paisaje en Europa 1994-1999, Colección Arquíthemas n. 6, catalogo della I Biennale del Paesaggio 1999, Edición Fundación Caja de Arquitectos, Barcellona 2000. 9 MARIA GOULA, Uno sguardo al paesaggio che si costruisce in Europa, in CLAUDIA CASSATELLA, FRANCESCA BAGLIANI, (a cura di), In ogni modo/Allways /De toute façon, Alinea, Firenze 2005, pag. 15. 10 MARIA GOULA, op. cit., Firenze 2005, pag. 18.
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compatibilità tra museo all’aperto (che necessita di una manutenzione costante) e parco pubblico inserito all’interno di una nuova area residenziale, corrisponde alla seconda delle categorie ipotizzate, le articolazioni, per la volontà di stabilire corrispondenze e continuità tra i diversi punti dello spazio, creando una forma di narrazione. Cardada, nelle Alpi Svizzere, infine, stabilisce un dialogo perfetto tra il supporto, l’alta montagna svizzera, e l’intervento, cioè i supporti aggiunti (terza categoria). “L’innovazione risiede nel grado di compromesso dei supporti aggiunti con ciò che già esiste. Potremmo affermare che ogni progetto è una sovrapposizione e, in fondo, la scommessa consiste nell’osservare come la nuova realtà si integri con le preesistenze, interpretandole senza eliminarle, aggiungendo complessità al luogo”11. CREARE PAESAGGI CON IL PROGETTO, LA CULTURA E IL GOVERNO Il progetto di paesaggio è dunque un progetto complesso che deriva dal confronto con una pluralità di interessi, obiettivi e valori che a loro volta scaturiscono da diversi interlocutori che con il paesaggio interagiscono. Il convegno torinese intende dar voce proprio a queste distinte modalità di intervento - In ogni modo - e sintetizza la ricchezza e la diversità degli approcci alla creazione di nuovi paesaggi attraverso tre grandi temi o strumenti mediante i quali operare: il progetto, la cultura e il governo. La prima delle sezioni in cui è articolato il convegno illustra l’intervento sul/nel paesaggio con il progetto fisico dei luoghi tramite alcune opere realizzate in Francia, Spagna, Germania e Islanda presentate direttamente dai loro autori e da Maria Goula, osservatrice privilegiata in quanto membro del Comitato Organizzatore della Biennale spagnola e della giuria per la selezione del Premio Europeo del Paesaggio Rosa Barba. Due dei relatori al convegno di Torino, Catherine Mosbach e Reynir Vilhjalsson con Thrainn Hauksson dello studio Landslag, sono proprio tra i premiati del concorso. Si tratta di progetti alquanto diversi tra loro quello del giardino botanico di Bordeaux della paesaggista francese che ha ottenuto il primo premio e quello dello studio islandese Landslag, menzione speciale della Biennale. Entrambi, però, ben esemplificano il processo creativo di manipolazione dello spazio, dei materiali e delle forme, rispondendo alle suggestioni che i curatori della rassegna torinese intravedono nel “creare con il progetto”12.
Figura 3. La barriera anti-valanghe realizzata dallo Studio Landslag per la città islandese di Siglufjorour.
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MARIA GOULA, op. cit., Firenze 2005, pag. 19. Cfr. CLAUDIA CASSATELLA, FRANCESCA BAGLIANI, op. cit., Firenze 2005. Gli Atti della prima edizione sono contenuti in: CLAUDIA CASSATELLA, FRANCESCA BAGLIANI, (a cura di), Creare paesaggi. Realizzazioni, teorie e progetti in Europa, Alinea, Firenze 2003. 12
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Figura 4. La barriera anti-valanghe crea un segno netto ed evidente nella morfologia montuosa pur adattandosi alla configurazione dei luoghi.
Il progetto diviene lo strumento attraverso cui illustrare i processi di costruzione delle forme, come nel caso della Mosbach le cui opere presentate al convegno13 rispondono tutte alla volontà di sottolineare o negare l’evoluzione e i processi di sostituzione delle funzioni e delle strutture urbane, oppure il mezzo attraverso il quale, plasmando semplicemente la morfologia, descrivere la conformazione del terreno e sottolineare la materialità della neve, come accade con le barriere antivalanghe in Islanda. L’esigenza di proteggere dal rischio valanghe la città di Siglufjorour, situata lungo la costa a pochi chilometri a Sud del circolo polare artico con alle spalle montagne alte mille metri e le necessità tecniche di costruzione delle muraglie di deviazione, non hanno impedito ad un’opera tecnologica di diventare un elemento di architettura del paesaggio grazie alla sensibilità dei progettisti capaci di manipolare la morfologia dei luoghi costruendo un segno artificiale che si inserisse e al tempo stesso si distinguesse emergendo nettamente dal profilo della montagna. Con l’introduzione della lunga linea curva di terra alle spalle dell’insediamento si crea così un paesaggio nuovo e si offrono nuove prospettive della montagna (sono realizzati sentieri per passeggiate ed escursioni, allietate da un corso d’acqua e uno stagno circolare ai piedi dei bastioni), la quale, sicuramente anche per la vastità del contesto nel quale un’opera così massiccia si inserisce, sembra assorbire le profonde modificazioni14. La trasformazione del paesaggio avviene dunque su un duplice livello: sia nell’aspetto visibile dei luoghi sia nella percezione e nelle modalità di uso (ora ricreativo) da parte della popolazione che contribuisce alla creazione del paesaggio. Nei progetti di Catherine Mosbach è ancora la trasformazione – l’evoluzione del paesaggio, tema centrale, come si è visto, per la Convenzione Europea e la Carta di Napoli - il soggetto principale sottolineato sia in negativo come nel giardino botanico di Bordeaux, sia in positivo come nel parco ecologico di Anglet o nel parco archeologico di Solutré in cui “…le temporalità naturali – istantanee o lunghe - conservano un processo di formazione, di accumulo o di prelievo di materiale…”15. A Bordeaux, invece, la sostituzione delle funzioni 13
Accanto al Jardin Botanique de Bordeaux (1999-2006), sono presentati il Parc archéologique de Solutré (19982005) e lo studio di definizione per il Parc écologique d’Anglet (2003). 14 Una delle strutture di deviazione ha una lunghezza di duecento metri e un’altezza tra i quattordici e i sedici metri, l’altra è lunga settecento metri e alta diciotto, per un totale di trecentosessantunomila metri cubi di terra, proveniente dallo scavo del fianco della montagna, distribuita su un’area di centoquarantaseimila metri quadrati. 15 CATHERINE MOSBACH, Progetti e realizzazioni, in CLAUDIA CASSATELLA, FRANCESCA BAGLIANI, (a cura di), op. cit. , Firenze 2005, pag. 25. Ad Anglet quello delle antiche dune mobili lungo l’estuario di un fiume è un paesaggio in continua evoluzione, mentre a Solutré l’apparente immobilità del paesaggio attuale fa intravedere gli antichi movimenti tettonici testimoniati dalle dorsali granitiche.
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esistenti (piccole e medie imprese, depositi abbandonati) per introdurre nuove forme (il giardino) nell’ambito di una trasformazione urbana, evidenzia “…le temporalità del ‘fare’ umano [che] cancellano per rimozione”16 i segni precedenti. Scrive la Mosbach: “Tutti e tre creano luoghi di transizione in cui i paesaggi si formano, si trasformano, si indeboliscono e poi ritornano: testimonianza dinamica, queste forme continuamente rielaborate introducono i luoghi da cui ognuno può proiettarsi in immagini, memorie e intensità sensoriali”17. E, continuando a parlare del giardino botanico, la progettista lo descrive come soggetto ideale a rappresentare il paesaggio come scrittura: “In quest’ambito, fare paesaggio consiste nel ritrovare le condizioni di esistenza degli ambienti, la sopravvivenza dei gesti la cui immagine è sempre presente. In tal senso il giardino suggerisce la durata interattiva come soggetto e l’intersoggettività come luogo: le mutazioni continue dell’immaginario che i cittadini hanno dei paesaggi rimandano alla loro temporalità nella loro relazione con il mondo”18. Il giardino botanico, concepito per una percezione in movimento, che coinvolge facendo partecipare i visitatori ai ritmi della natura, è anche luogo esemplare a sottolineare la dinamicità, precedentemente ricordata come carattere specifico del paesaggio nella sua complessità e totalità. Ancora di trasformazione e soprattutto di stratificazioni parla Henri Bava presentando alcuni lavori del suo studio Agence Ter. In ogni progetto, infatti, l’interpretazione del paesaggio (che necessariamente deve avvenire a livello di sintesi del sistema di relazioni tra i singoli elementi che lo compongono) permette di riconoscere gli strati della struttura di un luogo, alcuni evidenti altri invisibili, che devono essere sottolineati in funzione degli obiettivi progettuali. Ne è un esempio il parco a Bad Oeynhausen in Germania, vicino ad Hannover, cittadina nota per le cure termali. Qui l’obiettivo del progetto è stato far comparire lo strato non visibile dell’acqua termale e delle linee delle faglie sotterranee in città, creando una nuova passeggiata. Creare paesaggi con la cultura è il secondo tema trattato dal convegno ed è riferito alla capacità di operare trasformazioni attraverso la ricerca e la formazione (traendo occasione per presentare le iniziative di sostegno a progetti sul paesaggio piemontese avviate dalla Compagnia di San Paolo e l’oramai consolidato lavoro condotto dalla Fondazione Benetton Studi Ricerche di Treviso), ma soprattutto agendo sulle immagini e sulle rappresentazioni. Sono discussi temi importanti e difficili come il significato stesso di paesaggio o la questione dell’identità paesistica in relazione anche alla prospettiva aperta dalla Convenzione Europea. Claude Raffestin19 si interroga sul significato di “paesaggio” per spiegare il progetto della Galleria del Paesaggio, museo che sarà realizzato nel Borgo Castello della Mandria a La Venaria Reale, mettendo in evidenza le differenze con un altro termine, quello di territorio, spesso usato erroneamente quale sinonimo. La stessa Convenzione Europea, ricorda Raffestin, ha contribuito a generare confusione dichiarando che il paesaggio “…è una parte del territorio…”20. “Il territorio è [invece] la realtà materiale in evoluzione, mentre il paesaggio è la rappresentazione, secondo un linguaggio naturale, plastico, matematico o logico-formale, di questa realtà. […] Il territorio è una realtà materiale unica, singolare, un’opera d’arte collettiva […]. Il territorio autentico è legato a un insieme di pratiche e di conoscenze la cui combinazione è stata unica in un luogo e in un momento del tempo. Come direbbe Benjamin a proposito dell’opera d’arte, è lo stesso processo per il territorio perché questo è legato a un rituale (basti ricordare il complesso rituale che accompagna la creazione della città antica). Il paesaggio, al contrario, è molteplice: ci sono tanti paesaggi quanti sono gli osservatori e i linguaggi a disposizione […] la condizione necessaria, ma non sufficiente, perché il territorio diventi paesaggio è di «essere pensato». […] Come rappresentazione, il
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Ibidem. CATHERINE MOSBACH, op. cit., Firenze 2005, pag. 30. 18 Ibidem. 19 Geografo ed ecologo umano, è coordinatore del comitato scientifico per la creazione della Galleria del Paesaggio. 20 Convenzione Europea del Paesaggio, 2000, Art. 1, comma a). 17
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paesaggio è una concezione del mondo, concezione sentimentale e affettiva, concezione intellettuale, filosofica e estetica, concezione morale, religiosa e probabilmente etica”21. La futura Galleria del Paesaggio di Torino, dunque, nel rappresentare i paesaggi naturali e umanizzati del mondo e dell’Italia, li descriverà ricorrendo a tutte le rappresentazioni possibili della pittura, della fotografia, della letteratura, della musica, delle scienze naturali e sociali, al fine di stimolare memoria e immaginazione “…per imparare a guardare al di là del visibile con uno sguardo pieno di curiosità per quello che non si vede immediatamente”22. Il paesaggio coinvolge soggetti che operano, come si è visto, con il progetto o con la cultura, ma anche con il governo, agendo sulle regole d’uso del territorio. La terza sessione del convegno affronta dunque il tema della pianificazione delle trasformazioni che talvolta interessa porzioni di territorio enormi e tempi molto lunghi, come nel progetto IBA in Lusazia presentato da Rolf Kuhn, innescando cambiamenti profondi non solo dell’aspetto visibile quanto delle relazioni sociali ed economiche della popolazione. Il lavoro del paesaggista, infatti, sottolinea Domenico Luciani, non è di imbellettamento ma è quello di guidare le modificazioni “…le quali hanno nel tempo esiti non tutti prevedibili, poiché il rapporto tra immaginazione e concretizzazione, che possiamo utilizzare nel lavoro paesaggistico, non dispone delle iconografie millimetriche e della cronometria che invece sono date nel rapporto tra progetto, cantiere e realizzazione nell’architettura”23. I temi che questa sessione del convegno affronta, presentando lavori di pianificazione con una particolare attenzione al contesto locale24, sono proprio le due variabili fondamentali che condizionano il risultato di un progetto paesaggistico: lo spazio e il tempo.
Figura 5. Le vasche del giardino botanico, realizzato da Catherine Mosbach a Bordeaux, con diversi tipi di vegetazione.
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CLAUDE RAFFESTIN, Un Museo del Paesaggio per un percorso della memoria, in CLAUDIA CASSATELLA, FRANCESCA BAGLIANI, (a cura di), op. cit., Firenze 2005, pagg. 58-60. 22 CLAUDE RAFFESTIN, op. cit., Firenze 2005, pag. 63. 23 DOMENICO LUCIANI, Studi e ricerche per il disegno e il governo dei paesaggi, in CLAUDIA CASSATELLA, FRANCESCA BAGLIANI, (a cura di), op. cit., Firenze 2005, pag. 67. 24 Sono illustrati il progetto regionale di Corona Verde, l’attività condotta dal settore Verde Pubblico della Città di Torino, il piano territoriale di coordinamento provinciale, il piano strategico delle aree verdi per l’area metropolitana torinese, i piani di Pollenzo e Racconigi, due aree di elevata qualità paesistica.
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Figure 6, 7. Il giardino botanico di Bordeaux con la rappresentazione degli ecosistemi della regione.
Vaste superfici (ottantamila ettari di territori risanati) e tempi lunghi (dieci anni, dal 2000 al 2010) per la mostra internazionale di architettura La terra del principe Pückler che intende portare anche in Lusazia i principi IBA che hanno guidato la ristrutturazione del bacino della Ruhr, cioè la correlazione tra trasformazione del paesaggio e processo di sviluppo economico. Scenari spazialmente e temporalmente ancora più ampi per i progetti presentati da Pierre Donadieu che interessano il tema dell’agricoltura periurbana, indispensabile presenza nella città contemporanea a cui il professore francese riconosce il ruolo di infrastruttura economica e sociale, capace di fornire alla città anche servizi non agricoli. Il convegno torinese si conclude con una discussione attorno ai temi introdotti dalla Convenzione Europea. Riccardo Priore, in qualità di dirigente dell’amministrazione del Consiglio d’Europa che ha promosso e seguito la nascita della Convenzione, mette in evidenza alcuni punti salienti ed innovativi riconosciuti con l’importante strumento giuridico internazionale: che il paesaggio è un “bene”, indipendentemente dal valore concreto che gli viene attribuito, cioè il paesaggio è individuato come una vera e propria categoria concettuale da proteggere creando “…una netta distinzione tra il concetto di «paesaggio» ed i vari «paesaggi» che danno forma al territorio europeo”25; che il concetto di paesaggio comprende contemporaneamente una componente soggettiva (la percezione umana) ed una oggettiva (il territorio) attribuendo alle popolazioni una “coscienza paesaggistica”; che il paesaggio nella sua totalità riveste un interesse culturale, in quanto sempre prodotto dell’interazione natura-cultura, definizione questa incompatibile con il concetto di “paesaggio culturale”26 che vede attribuire solo a determinati paesaggi tali qualità; che il paesaggio va salvaguardato, gestito o pianificato a prescindere dal suo valore intrinseco e dunque indipendentemente dal carattere di eccezionalità che alcuni paesaggi mostrano, non più, dunque, i soli degni di tutela. Ciò non vuol dire non assecondare e valorizzare le differenze locali, articolando differentemente le forme di tutela e di intervento, poiché questo non implica attribuire un valore diverso ai vari paesaggi: “La graduazione delle tutele non va intesa come traduzione speculare di una concezione gerarchizzata dei valori del paesaggio, ma come espressione di una progettualità che combina diversamente azioni di salvaguardia, di sviluppo compatibile e di riqualificazione pianificata in relazione ai diversi profili di identità e di valori patrimoniali riconosciuti come caratterizzanti per le diverse parti del territorio…”27. Definito dunque il concetto di paesaggio contenuto nella Convenzione Europea, si riflette anche sulla sua mancata ratifica da parte dello Stato Italiano e sulla recente introduzione del 25
RICCARDO PRIORE, L’applicazione della Convenzione europea del paesaggio, in CLAUDIA CASSATELLA, FRANCESCA BAGLIANI, (a cura di), op. cit., Firenze 2005, pag. 108. 26 “…il concetto di paesaggio culturale non è infatti ospitato nella Convenzione Europea, che sottolinea invece il significato culturale intrinseco ad ogni paesaggio…” ROBERTO GAMBINO, Maniere di intendere il paesaggio, in ALBERTO CLEMENTI (a cura di), op. cit., 2002, pag. 57. 27 ALBERTO CLEMENTI , Introduzione. Revisione di paesaggio, in ALBERTO CLEMENTI, op. cit., 2002, pag. 34.
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Codice dei Beni culturali e del paesaggio. In particolare, quest’ultimo sebbene non attribuisca alla componente soggettiva del paesaggio quella rilevanza data nella Convenzione, fa alcune importanti affermazioni nell’indicare il paesaggio quale patrimonio culturale, riportandolo tra le materie di legislazione esclusiva dello Stato, e nell’attribuire ai piani paesaggistici regionali valore cogente per gli strumenti urbanistici comunali e provinciali. “Certo l’eterna divisione tra pianificazione territoriale, pianificazione paesistica e ambientale, che forse rappresenta una delle ragioni maggiori di difficoltà di governare bene il territorio, nel nostro Paese, non sembra ancora superata e comunque lo sforzo di integrazione non appare del tutto compiuto. Due, in particolar modo, sono i passaggi su cui si possono soffermare le critiche: quella parte del Codice in cui sembra che l’attenzione si debba concentrare sui singoli oggetti più che sull’insieme e sulle relazioni costitutive del paesaggio; e poi quella parte relativa alla mancanza di «respiro europeo» che dovrebbe avere […] un testo volto a por fine alla ricerca di una specifica definizione del paesaggio”28. Per l’importanza delle questioni sollevate è auspicabile che su questi temi possano essere sviluppate sostanziali riflessioni. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI CASSATELLA CLAUDIA, BAGLIANI FRANCESCA, (a cura di), Creare paesaggi. Realizzazioni, teorie e progetti in Europa, Alinea, Firenze 2003. CASSATELLA CLAUDIA, BAGLIANI FRANCESCA, (a cura di), In ogni modo/Allways /De toute façon, Alinea, Firenze 2005. CLEMENTI ALBERTO (a cura di), Interpretazioni di paesaggio. Convenzione Europea e innovazioni di metodo, Meltemi, Roma 2002. COOPER GUY, TAYLOR GORDON, Giardini per il futuro, Logos, Modena 2000. CORTESI ISOTTA, Il parco pubblico, paesaggi 1985-2000, Federico Motta, Milano 2000. DONIN GIANPIERO, Parchi. L’architettura del giardino pubblico nel progetto europeo contemporaneo, Biblioteca del Cenide, Reggio Calabria 1999. GAMBINO ROBERTO, Il paesaggio tra conservazione e innovazione, in ANTONIO DE ROSSI, GIOVANNI DURBIANO, FRANCESCA GOVERNA, LUCA REINERIO, MATTEO ROBIGLIO, Linee nel paesaggio. Esplorazioni nei territori della trasformazione, Utet, Torino 1999. GUCCIONE BIAGIO, Parchi e giardini contemporanei. Cenni sullo specifico paesaggistico, Alinea, Firenze 2001. HOLDEN ROBERT, Progettare l’ambiente, Logos, Modena 2003. Jardins insurgents. Arquitectura del Paisaje en Europa 1999-2000, Colección Arquíthemas n. 11, catalogo della II Biennale del Paesaggio 2001, Edición Fundación Caja de Arquitectos, Barcellona 2002. LANCASTER MICHAEL, The New European Landscape, Butterworth Architecture, Oxford 1994. Rehacer paisajes. Arquitectura del Paisaje en Europa 1994-1999, Colección Arquíthemas n. 6, catalogo della I Biennale del Paesaggio 1999, Edición Fundación Caja de Arquitectos, Barcellona 2000. SCHRÖDER THIES, Changes in scenery. Contemporary landscape architecture in Europe, Birkhäuser, Basel 2001. RIFERIMENTI ICONOGRAFICI Figure 1-4: CASSATELLA CLAUDIA, BAGLIANI FRANCESCA, (a cura di), In ogni modo/Allways /De toute façon, Alinea, Firenze 2005, pagg. 9, 17, 39. 28
RICCARDO BEDRONE, Dalla Convenzione europea al Codice italiano, in CLAUDIA CASSATELLA, FRANCESCA BAGLIANI, (a cura di), op. cit., Firenze 2005, pag. 115.
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Figure 5-7: fotografie di Isabella Caciolli.
Testo acquisito dalla redazione della rivista nel mese di agosto 2005. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768
Università degli Studi di Firenze
Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/
Firenze University Press anno 3 – numero 3 – gennaio - giugno 2005 sezione: Eventi pagg. 108-117
LA BIENNALE DEL PAESAGGIO MEDITERRANEO Francesca Moretti*
Summary The biennial exhibition of Mediterranean Landscape is an opportunity to understand the reasons of the new landscapes, to revise the interpretative models. It’s also a chance to wonder about new ways for sustainable development that could take up the legacy of a millenary civilization. The conference had the fixed aim to compare some contemporary thesis about the concept of landscape and to analyze the Mediterranean area in a historical, social, cultural and political perspective, offering the necessary stuffs for consideration and debate. Key-words Biennial Exhibition, Landscape, Mediterranean, Pescara, Conference.
Abstract La Biennale del Paesaggio Mediterraneo è l'occasione per comprendere le ragioni dei nuovi paesaggi, riformulare modelli interpretativi e interrogarsi sulle nuove vie verso uno sviluppo sostenibile, in grado di raccogliere l'eredità delle stratificazioni di una civiltà millenaria. Il convegno si è prefisso come intento, quello di mettere a confronto alcune tesi contemporanee sul concetto di paesaggio e di analizzare il Mediterraneo nella prospettiva storica, sociale, culturale e politica offrendo i necessari materiali di riflessione e discussione. Parole chiave Biennale, Mediterraneo, Pescara, paesaggio, convegno.
* Architetto, specialista in Architettura dei Giardini e Progettazione del Paesaggio, Università di Firenze. 108
PREMESSA Nel mese di maggio 2005 si è svolta a Pescara la Biennale del Paesaggio Mediterraneo organizzata da ACMA Centro di Architettura, in collaborazione con la Provincia e l'Assessorato all'Ambiente di Pescara. Tre giorni di dibattiti, laboratori, mostre, proiezioni per tornare a parlare di Mediterraneo, un'area sottoposta a fenomeni di rapida riformulazione del senso dei propri territori. Assistiamo, da un lato, all'abbandono delle pratiche colturali e di quella forma di appropriazione antropica del territorio che ha determinato nei secoli la stratificazione di civiltà, e dall'altro, alla nascita di nuovi fenomeni sociali ed economici che necessitano la formazione di nuove logiche di impiego del territorio. La crescita abnorme di megalopoli, i crescenti flussi migratori, la produzione estensiva, la rete di comunicazione, richiedono modelli interpretativi nuovi, una sensibilità adeguata a comprendere i fenomeni sociali e le peculiarità del paesaggio mediterraneo contemporaneo. Nuove centralità, nelle transazioni globali, necessitano di un progetto politico in grado di ricollocare al giusto posto l'area meridionale d'Europa, quella del medio Oriente e del nord Africa che progressivamente vengono escluse dai nuovi processi di sviluppo. Il paesaggio può diventare il luogo privilegiato di una politica che sia in grado di incentivare la consapevolezza sulle reali risorse del territorio, individuare parametri di lettura e strumenti per la loro valorizzazione, comunicare correttamente tali valori. Tre laboratori coordinati da Franco Farinelli (La natura del Paesaggio), Walter Ganapini (Paesaggi sostenibili) e Alessandro Dal Lago (I Paesaggi della Geopolitica) hanno cercato di affrontare le principali questioni, non tanto per trovare delle soluzioni, ma come momento di confronto su tematiche quanto mai attuali. Le mostre collaterali (Mediterraneo capovolto, Luoghi e paesaggi sostenibili della provincia di Pescara, Progetti di Paesaggio nel Mediterraneo, Proiezioni) aprono una finestra sullo stato dei lavori nel mondo artistico, nelle esperienze progettuali e di studio che hanno affrontato, consapevolmente, la tematica, arricchendo così il dibattito di elementi significativi. LA NATURA DEL PAESAGGIO Secondo l'opinione di Franco Farinelli fisiograficamente il Mediterraneo non è altro che un'ingolfatura dell'oceano e, in quanto tale, non è l'unico caso. Ne esistono ben tre sul globo: quello afro-europeo, quello americano (Golfo del Messico) e quello cino-malese. Ma la sua unicità viene determinata nel momento in cui si smette di pensarlo come ambito e lo si considera, invece, come condizione determinata dalla fisiografia e dalla cultura. Il ritrovato ruolo di centralità pre-moderna gli viene oggi restituito dalla integrazione dell'Asia nel circuito economico e commerciale globale. Il paesaggio è tutto ciò che sfugge alla carta geografica, ossia allo spazio misurabile in maniera lineare, figlio della modernità. Lo spazio letto secondo le regole della prospettiva è uno spazio immobile che funziona solo se il soggetto osservante è fermo. La mobilità non è un concetto accettato dalla modernità, mentre diventa basilare nella concezione contemporanea. Nel 1969 in California nasceva la rete, all'interno della quale non esiste più né spazio né tempo. Per la prima volta l'occidente fa i conti con il mondo come un'entità sferica. E' iniziata così una sorta di smaterializzazione, che rende necessario avere un nuovo sguardo sulla natura e sulla cultura. Si pensi alla forma dei campi mediterranei, ancora oggi inquadrata secondo l'opposizione del modello francese, definito da Mark Block negli anni Trenta tra campi aperti e campi chiusi, mentre nel Mediterraneo la maggior parte delle forme dell'architettura campestre hanno uno specifico modulo intermedio, ancora da riconoscere e definire. Si tratta di un esempio per indicare la necessità di intraprendere nuovi discorsi, che non coinvolgono solo le forme paesaggistiche, ma riguardano anche la logica dello sviluppo territoriale non più basata sul modulo spaziale moderno. La crisi della continuità, dell'omogeneità (per lo Stato, la nazione dovrebbe essere una) e dell'isotropismo (lo sguardo rivolto verso la capitale) territoriale, insieme alla materializzazione della produzione e della sua trasnazionalizzazione, sono processi che “....riguardano in maniera inedita il continente, ma nel mediterraneo afroeuropeo risultano fondanti e archetipi” (Franco Farinelli). Rafforzano questo concetto le 109
parole di Predrag Matvejević: “ Il mediterraneo non è solo geografia. I suoi confini non sono definiti né nello spazio, né nel tempo. Non sappiamo come fare a determinarli e in che modo: sono irriducibili alla sovranità o alla storia, non sono né statali, né nazionali: somigliano al cerchio di gesso che continua ad essere descritto e cancellato, che le onde e i venti, le imprese e le ispirazioni allargano o restringono […]. Qui popoli e razze per secoli hanno continuato a mescolarsi, fondersi e contrapporsi gli uni sugli altri, come forse in nessun'altra regione del pianeta: si esagera evidenziando le loro convergenze e somiglianze, e trascurando invece i loro antagonismi e le differenze. Il Mediterraneo non è solo storia”1. E sempre Matvejevic si occupa della città mediterranea e della sua identità. Secondo alcuni studi sembrerebbe che la loro formazione non sia avvenuta dai villaggi, ma, al contrario, le città stesse generano nel loro intorno villaggi determinandone la funzione. Vanno poi distinte le città con il porto dalle città-porto. Nelle prime i porti sono una necessità, le seconde sono create secondo la natura dei luoghi; sono città che si sono evolute perdendo o ritrovando unità nel passato o nel presente. Oggi hanno gli stessi problemi delle città continentali: conservazione e gestione, mancanza di spazio o eccessiva estensione, pianificazione del territorio e salvaguardia ambientale, immigrazione e integrazione tra cittadini vecchi e nuovi. Le città più antiche sono caratterizzate da una stratificazione che determina una verticalità difficile da gestire e da conservare. L'orizzontalità invece che differisce dall'estensione rischia invece di perdere le sue caratteristiche e di identificarsi con l'uniformità. Il rischio maggiore è che l'identità dell'essere non incontri più l'identità del fare. PAESAGGI SOSTENIBILI All'interno del laboratorio si è trattato il tema della sostenibilità ambientale affrontando questioni connesse alle problematiche globali dell'esaurimento delle risorse o dell'effetto serra. Walter Ganapini ha introdotto il principio di precauzione in base al quale di fronte a situazioni di incertezza vanno sempre ricercate soluzioni reversibili, ha definito lo spazio di lavoro come inter-generazionale e intra-generazionale, traducendo così la formula della Commissione Brundtland2 che ha definito quello sostenibile uno sviluppo che soddisfa i bisogni delle generazioni presenti senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri. La sostenibilità va intesa come l'insieme delle relazioni tra le attività umane e la biosfera, con le sue dinamiche, generalmente più lente. Due sono i problemi ad essa connessi: il primo riguarda la sostenibilità globale, che dipende dai rapporti che il sistema territoriale ha con i sistemi che lo circondano e la biosfera; il secondo invece è connesso alla sostenibilità locale, ovvero ai temi del rischio, della qualità della vita e dello stato di salute dell'ambiente naturale all'interno di confini circoscritti. Per definire la sostenibilità globale di un territorio bisogna principalmente capire come quel sistema biologico, economico e sociale si comporta rispetto alle dinamiche e ai bilanci della biosfera, ossia comprendere quante sono le risorse consumate, i rifiuti emessi, sia in forma assoluta che relativamente alla sua capacità di produzione e assorbimento. Questo non significa che un sistema con una buona qualità ambientale sia necessariamente sostenibile. Bisogna quindi tentare di orientare le attività, che interessano il territorio, verso un migliore uso delle risorse, cercando contemporaneamente di mantenere o di migliorare lo stato di salute del sistema. Quindi oltre ai meccanismi interni, vanno indagati quante e quali risorse il sistema stesso attinga all'esterno per mantenere i suoi equilibri locali e contemporaneamente, quanti rifiuti e degrado energetico arrivi a produrre. Per permettere un'attenta analisi delle risorse e della sostenibilità globale, esistono degli indicatori, la cui applicazione costituisce una sorta di 1
PREDRAG MATVEJECIĆ, Mediterraneo.Un nuovo brevario, Garzanti, Milano 1991, pagg. 17-18. Nel 1972, con la Conferenza di Stoccolma, vengono enunciati, per la prima volta in sede internazionale, alcuni di quei principi che avrebbero portato, più tardi, ad una precisa definizione del concetto di sviluppo sostenibile. Occorrerà attendere fino al 1983 perché le nazioni unite istituiscano la Commissione Mondiale per l'Ambiente (WCED) meglio nota come Commissione Brundtland (dal nome del suo presidente). Nel 1987 si svolge a Tokio la Conferenza delle Nazioni Unite per l'Ambiente ed è in quella occasione che viene presentato il Rapporto Brundtland, secondo il quale la protezione dell'ambiente smette di essere considerata come un limite allo sviluppo economico e sociale, per diventare un presupposto fondamentale. 2
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sperimentazione sul territorio. Tali indicatori non devono essere riferiti a singoli aspetti ambientali, economici e sociali, l'uno separato dall'altro, senza evidenziare le rispettive connessioni. La misura della sostenibilità deve passare da un approccio di tipo riduzionistico ad uno di tipo olistico, prendendo così in considerazione la complessità e includendo la perdita della biodiversità, la valutazione del capitale naturale e il bilancio dei gas climalteranti. Un indicatore, quindi, deve essere sistemico ed evolutivo, ossia caratterizzato da un alto numero di relazioni e dal parametro tempo. In questi ultimi anni diversi gruppi di studio si sono occupati del problema e hanno messo a punto nuovi indicatori e metodologie3. Tali indicatori hanno molteplici campi di applicabilità: dall'analisi a livello territoriale (impronta ecologica e analisi eMergetica), all'analisi dei sistemi di produzione (analisi exergetica, analisi del ciclo di vita e analisi eMergetica), dal bilancio serra, all'analisi dei dati dal satellite (remote sensing). Si affronta, così, la complessità dei sistemi ambientali, visto che più un sistema è complesso, più il suo funzionamento dipende dalle interazioni che ha fra diversi elementi. Un esempio di questa metodologia è rappresentata dal lavoro svolto, sulla Provincia di Pescara, dal gruppo di ricerca coordinato dal Prof. Enrico Tiezzi (Università degli Studi di Siena). Gli indicatori scelti per il progetto di valutazione di sostenibilità del territorio sono l'impronta ecologica e l'analisi eMergetica4 territoriale, mirata alla stesura delle mappe di sostenibilità. L'uso congiunto di tali metodi ha generato una valutazione più esaustiva del sistema e delle criticità presenti. L'analisi eMergetica permette di focalizzare quali e quanti sono i consumi di risorse imputabili al territorio provinciale. Tale approccio consiste nel considerare i differenti input che alimentano un certo sistema su di una base comune: l'energia solare. L'eMergia misura, quindi la convergenza globale di energia solare per ottenere un prodotto o per rigenerarlo una volta consumato.
Figura 1. Fasi di realizzazione di una analisi eMergetica territoriale. Figura 2. Il diagramma eMergetico della Provincia di Pescara.
L'impronta ecologica invece è un indicatore che permette di stimare l'impatto che una popolazione esercita sull'ambiente con i propri consumi, quantificando l'area di ecosistemi terrestri ed acquatici necessaria per fornire, in modo sostenibile, tutte le risorse utilizzate e per assorbire tutte le emissioni prodotte. I risultati di entrambe le analisi, applicate alla Provincia di Pescara, evidenziano l'eccessivo ricorso a beni di importazione. Questi ultimi 3
L'analisi del ciclo della vita (life cycle analysis), l'analisi eMergetica (eMergy analysis), l'impronta ecologica (ecological footprint), la valutazione del capitale naturale (natural capital), l'analisi exergetica (exergy analysis), il bilancio dei gas serra (greenhouse gas inventory), l'analisi di dati del satellite (remote sensing), la contabilità ambientale e altre ancora. 4 E' un' analisi termodinamica, basata sui concetti di solar eMergy e solar trasformity, introdotta negli anni Ottanta dal prof. H.T. Odum (Università della Florida), per analizzare il grado di organizzazione e la complessità dei sistemi aperti (sistemi in grado di scambiare energia e materia).
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risultano, dal punto di vista del consumo di risorse, molto impattanti, dato che determinano una serie di costi, di tipo energetico e materiale, elevati a causa della produzione e del trasporto. Nel caso di Pescara si ha una situazione per cui sia l'indicatore di impronta ecologica pro-capite, che l'eMergia utilizzata pro-capite risultano superiori alla media nazionale. Il sistema è ancora lontano da un ideale di sviluppo sostenibile, che potrà essere raggiunto solo con una diminuzione dei consumi generalizzata. Politiche che incentivino lo sfruttamento delle risorse rinnovabili presenti sul territorio, insieme ad interventi mirati a diminuire il consumo di risorse fossili e di materiali (ottimizzazione del consumo di acqua, isolamento termico delle abitazioni), sono auspicabili per andare nella direzione della sostenibilità. Gli strumenti utilizzati in questo lavoro possono essere usati anche per il monitoraggio e la verifica delle scelte compiute in fase di pianificazione. IL PAESAGGIO DELLA GEOPOLITICA Alessandro dal Lago mette in evidenza come, verso la fine degli anni Ottanta, sembrava che si fosse costituito un nuovo ordine all'interno del Mediterraneo. A parte il conflitto palestinese, l'umanità che viveva sulle sue sponde aveva trovato un sistema di convivenza. Lo spettro dei clandestini non era ancora apparso e soprattutto sembrava che si potesse realizzare una certa interferenza e ibridazione tra i mondi che gravitavano sulle sponde del mare nostrum. Lo sviluppo indirizzava i suoi influssi verso il Pacifico e l'Asia. Ma nel 1991 la situazione cambia radicalmente: il Mediterraneo diventa il cuore di una guerra mondiale per le risorse (acqua, gas, petrolio), la retrovia delle guerre combattute dalla coalizione occidentale, il punto di rottura di un ordine costruito su regimi tributari dell'Occidente: Marocco, Tunisia, Egitto, eccetera. Cominciavano ad evidenziarsi le reali intenzioni. Le potenze occidentali mettevano mani sulla struttura politica dell'altro mondo, per appropriarsi delle risorse energetiche. Si è venuta così a creare una fascia di stati assoggettati, che va dall'Algeria all'Asia Centrale, passando per il Medio-Oriente, l'Iran e L'Afghanistan. Tirando una linea ideale da Tijuana, al Confine tra Usa e Messico, continuando verso l'Atlantico, il Mediterraneo (a sud dell'UE) i deserti asiatici e il pacifico sud occidentale, troviamo il confine tra il nord ricco e il sud povero. Dal Lago legge l'attacco alle Torri Gemelle come il riflesso di questa divisione mondiale. L'attacco alla sua pace interna ha svelato l'obiettivo strategico del mondo occidentale: combattere chiunque si opponga al suo dominio ed alla sua cultura economica e politica, basata sulle multinazionali e sul consenso come unico indicatore di democrazia. Mentre l'America Latina è sorvegliata a distanza, l'Africa abbandonata a se stessa, l'Asia è tornata al centro di un conflitto di cui il Mediterraneo si pone come cerniera essenziale5. MEDITERRANEO CAPOVOLTO. LUOGHI E IMMAGINI DEL CONTEMPORANEO Storicamente non si può considerare il Mediterraneo come un insieme omogeneo e coerente. Fernand Braudel lo definisce “... un crocevia antichissimo. Da millenni tutto vi confluisce complicandone e arricchendone la storia: bestie da soma, vetture, merci, navi, religioni, modi di vivere”6. Tali differenze sono tuttora vive, così come le tensioni e le fratture che lo attraversano: dalla Palestina al Libano, da Cipro al Maghreb fino alla ex Jugoslavia. Le migrazioni contemporanee creano nuove relazioni che sollecitano una progettualità politica che investe l'intera area. Guardare in ottica contemporanea il Mediterraneo significa abbandonare una prospettiva forte e rassicurante, per adottare uno sguardo mobile, che metta in relazione punti di vista discontinui e distanti. 5
“Si appartiene sempre ad una costa piuttosto che ad un'altra, ma una costa è sempre anche confine. E il confine è il luogo dove due differenze si toccano, esperiscono ognuna tramite l'altra, la propria limitatezza.” Cfr. FRANCO CASSANO, Il pensiero meridiano, Laterza, Bari 1996, pag. 48. 6 Cfr. FERNAND BRAUDEL, Il Mediterraneo, Ed. Bompiani, Milano 1987, pag. 8.
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E' proprio questo l'orizzonte verso il quale si è rivolto il progetto Mediterraneo Capovolto curato da Plug_in (Alessandro Lanzetta, Emanuele Piccardo, Luisa Siotto) non spiegando, ma descrivendo le modificazioni in atto. Un tentativo di raccontare un paesaggio “fluido e mobile”. Attraverso vari medium - fotografia, video e film-documentari - si è cercato di raccontare luoghi: luoghi vissuti, attraversati, visitati, tentando di dare vita ad una loro rappresentazione, in un continuo passaggio dall'interno all'esterno, da una dimensione locale ad una estensione globale. Le opere presentate caratterizzano i luoghi immaginati come rappresentativi di tematiche sovrapposte, realtà sommerse e invisibili. La problematica dell'immigrazione legale-illegale è al centro delle opere di Bertozzi, Di Cocco e Van Denderen. Il fulcro del documentario di Marco Bertozzi Rimini Lampedusa Italia (film-documentario del 1978), è la comunità di pescatori lampedusani insediatosi negli anni Sessanta a Rimini e le attività e le tradizioni di cui si ritrova la traccia nel luogo del divertimento per antonomasia. E' l'occasione per trattare le storie di migrazioni antiche e moderne e i ripetuti tentativi di integrazione. La comunità lampedusana ha fatto rivivere il mercato ittico locale ridefinendo il microcosmo-Rimini che ha un collegamento diretto con il macrocosmo-ItaliaEuropa-Mediterraneo. “Raccontare la vita delle comunità di pescatori di Lampedusa a Rimini significa raccontare una sovrapposizione invisibile di realtà, scoprire linguaggi, abitudini e storie mai rivelate prima. Significa scavare in territori inediti con la consapevolezza di un'appartenenza perduta e ritrovata: accostare e stanare nuove iconografie, con uno sguardo trasversale, capace di divenire riflessione più vasta sul destino dei popoli” (M. Bertozzi). Nel reportage fotografico Ceuta. L'ultima frontiera del sogno europeo, Francesco di Cocco tratta dell'ultima frontiera meridionale tra l'Europa e l'Africa, una tappa di passaggio per gli immigrati clandestini provenienti dal continente africano. Lo Stretto di Gibilterra come unico, pericoloso ostacolo, che li separa dal sogno europeo. Spesso il viaggio non continua oltre Ceuta, sia perché non tutti se la sentono di affrontare le tumultuose acque dello stretto, sia perché non è facile salire sulle imbarcazioni dei trafficanti di clandestini. Alcuni restano nei centri di accoglienza governativi, altri nelle associazioni cattoliche, i più in accampamenti di fortuna tra la vegetazione nella periferia della città, in un clima di grande ostilità creato dalle popolazioni locali. Per tredici anni, invece, l'olandese Van Denderen, ha viaggiato attraverso i confini del trattato di Schengen, fotografando i migranti che entrano ed escono dall'Europa. Iniziando dai rifugiati curdi in Turchia fino ai luoghi e vie di comunicazione più familiari: Italia, Turchia, Spagna, Polonia, Grecia fino al Nord della Francia nei pressi dell'Eurotunnel. Cosa si aspettano dall'Europa? Come risponderà l'Europa? Il Progetto Go no go intende generare una discussione, nazionale, internazionale con politici, cittadini, scuole, università. Jorge Semprun, che accompagna con un testo le foto, sottolinea come “l'immigrazione è stata sempre la forza del progresso delle nostre società, noi non abbiamo mai considerato l'arrivo di un popolo da altre culture come un impedimento”. Andrea Dapueto, invece, in Palestina. Tra gli ulivi e le pietre affronta il tema del diritto di cittadinanza. Racconta con le immagini la quotidianità nei territori occupati palestinesi. Per l'artista la persona è l'attore protagonista della storia calata nel paesaggio urbano, distrutto delle città di Gaza e Jenin. In Domino Genova ampi paesaggi notturni e diurni, androni di palazzi, dettagli di cose e persone, mettono in scena il diario di viaggio di Filippo Romano, in cui si tengono insieme diverse scale della forma urbana. In questa geografia di frammenti codificabili, ovunque risaltano i ritratti degli androni genovesi come variabile di una formula apparentemente applicabili ad ogni città. TAMA invece è il progetto ideato dall'artista greca Maria Papadimitriou ad Avliza a dieci chilometri da Atene dove le popolazioni nomadi rumene provenienti dal nord della Grecia sostano durante i loro spostamenti. Paesaggio, vestiti, interni, edifici non finiti, auto, strade, gente, una città mobile fatta di case temporanee sono gli elementi di attrattiva per il lavoro dell'artista. TAMA (Temporary Autonomus Museum for All) è un progetto che coinvolge architetti, antropologi, filmakers, artisti e gente del luogo e prevede una serie di programmi architettonici, concepiti per i particolari stili di vita della comunità. Una casa prefabbricata 113
dal disegno architettonico sobrio può essere trasformata in altro, lasciando liberi gli abitanti di completare i progetti secondo la propria estetica. Il sottotitolo del progetto (Strutture sociali per le popolazioni nomadi), ne indica la natura: non è una catalogazione di immagini o di indicazioni visive, ma piuttosto ci introduce nel fulcro della rete dei rapporti espressivi fra gli abitanti e il luogo, fra l'emarginazione, lo stato incerto, l'estraneità e l'ambiente circostante. Concludendo, il tema dell'attraversamento è l'elemento comune dei progetti Stateless nation, Xurban e del lavoro di Bruno Cogez. Stateless nation-Sul confine è un progetto di ricerca e una mostra sulle frontiere della cittadinanza. I territori occupati palestinesi sono il luogo di indagine e osservazione delle nuove relazioni tra territorio, stato e popolazioni, sui suoi nuovi significati e sulle sue implicazioni nello spazio fisico e sociale. E' nella pianificazione del territorio che le strategie israeliane appaiono chiare. La conquista e la conservazione degli spazi, nei territori occupati, palestinesi sono il teatro di un conflitto quotidiano. L'installazione presenta il territorio della West Bank attraverso una nuova topografia che fa uso di tre punti di vista diversi, le pratiche quotidiane, le mappe mentali e le foto satellitari. Il tentativo è di restituire una lettura e un' interpretazione in grado di cogliere le conseguenze dell'occupazione. Due video sono stati presentati all'interno del progetto Xurban. Il primo The Containment Contained (2003) è una sorta di ricerca archeologica di cisterne speciali che venivano messe sotto gli autocarri, che trasportavano merci tra la Turchia e l'Iraq. Inutili e fuorilegge ora queste cisterne sono sparse lungo le strade principali, come i resti di uno scambio di un'economia di classe. I sistemi globalizzati di trasporto permettono a beni di valore, come il petrolio di viaggiare con una priorità elevata, mentre gli spostamenti delle persone vengono contenuti. Il viaggio è una riflessione sulla geografia e sullo stato di impoverimento della popolazione. Il secondo - The Territory Confined (2005) - è la cronaca di un viaggio fatto, attraverso l'Anatolia da est a ovest, con particolare attenzione per i siti del Neolitico e alla prospettiva contemporanea del suo entroterra. Il paesaggio preistorico ha lasciato tutti i suoi segni sulle strade che i popoli hanno tracciato con le loro vite, con l'interazione, con l'accettazione del fato, con la rivolta. La violenza con cui essi si sono separati dalla terra per ragioni economiche, la guerra e la disperazione, è portata avanti nelle città che hanno colonizzato. Il ricordo della distruzione invece accompagna Bruno Cogez nel suo viaggio da Belgrado a Sarajevo. La route Belgrade/Sarajevo:Bienvenue en Enfer. “… Attraversare le vecchie zone franche. Sentire la guerra, sentirsi spettatore degli anni durante l'assedio a Sarajevo. Le stimmate della guerra sono tuttora presenti. Case incendiate, case bombardate. Paesaggi inquietanti senza persone. Il bus prende le strade controllate dai Serbi di Bosnia. Non entra a Sarajevo. Gira intorno alla città. Si distingue in lontananza il biancore delle lastre tombali di pietra del cimitero di guerra. Destinazione: la città dalla parte serba di Sarajevo. Poi un tram. E' un vecchio bacino. Una città intrappolata. Siamo nel 2003; la guerra è terminata da tempo ma è pressoché impossibile venire in questa città senza immaginarsi l'assedio, senza sentire la morte dappertutto” (Bruno Cogez). LUOGHI E PAESAGGI SOSTENIBILI DELLA PROVINCIA DI PESCARA La mostra è incentrata sulle numerose attività realizzate dall'Amministrazione Provinciale di Pescara per lo sviluppo del proprio territorio e la protezione e valorizzazione del paesaggio. La provincia di Pescara ha approvato definitivamente il Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale che include un processo attivo di tutela, fruizione e governo del paesaggio. La sua specificità è quella “... di consentire uno sguardo di insieme e ravvicinato dei caratteri più stabili del territorio, delle sue modificazioni lente e di un lungo periodo ed al contempo, uno sguardo ravvicinato dei fenomeni innovativi, del costituirsi di nuovi paesaggi che si sovrappongono o si sostituiscono rapidamente ad altri ...”7. La discontinuità degli 7
ACMA, (a cura di), Progetto Montesquieu. Reti di osservatori del paesaggio della Provincia di Pescara, La Musica Moderna, Milano 2004, pag. 8.
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avvenimenti lungo l'asse temporale crea punti di contatto e di sfrido tra le cose, che si muovono a velocità diverse. Leggere spazi e tempi del territorio, attraverso l'analisi delle permanenze di luoghi e manufatti, è un'operazione che il Piano stesso ha cercato di compiere in modo esemplare. Centrale è, nel Piano, l'idea che una corretta politica di conservazione non possa essere disgiunta dai meccanismi di funzionamento di un territorio ed è, proprio all'interno di questi, che deve essere ritrovata una guida per la pianificazione. Un corretto funzionamento del sistema ecologico è ritenuto l'obiettivo principale nella politica per l'ambiente e per questo vengono ritenuti fondamentali i serbatoi di naturalità (connessioni, aree di filtro ambientale, reti di verde urbano ed aree della produzione agricola), che sono la principale difesa della biodiversità di un territorio. Le azioni politiche che devono governare il territorio devono, quindi, tendere a salvaguardarne le funzioni e a riconoscerne il valore di risorsa per il sistema locale. E' con queste premesse che si sono poi sviluppati i progetti preliminari dei quattro schemi direttori, presentati nella mostra: -Schema direttore della strada dei due parchi (Lucina Caravaggi, Cristina Imbruglini) -Schema direttore del fiume Pescara (Cristina Bianchetti, Rosario Pavia) -Schema direttore del Parco attrezzato del fiume Tavo (Fabrizio Paone); -Schema direttore della città costiera (Tommaso di Biase, Pierluigi Della Valle); La seconda sezione della mostra, invece, presenta un'altra iniziativa della Provincia di Pescara denominata Progetto Montesquieu. Gli obiettivi del progetto sono valorizzare il territorio provinciale mettendo in risalto i caratteri ambientali, storici e artistici, ripensarne l'identità culturale basandosi sulla realtà locale e sull'osservazione dei paesaggi. Attraverso l'istituzione di una rete di osservatori del territorio, si è cercato di creare un sistema di luoghi fruibili, come itinerario ambientale, culturale e turistico. Al fine di promuovere questo progetto la Provincia ha chiamato a partecipare tutti gli enti locali interessati, invitandoli a sottoscrivere un Protocollo di Intesa, con cui si assume l'impegno a promuovere un'iniziativa che fornisca indicazioni utili circa la successiva redazione di un progetto esecutivo per la valorizzazione integrata e la trasformazione dei luoghi interessati. L'impostazione del seminario è avvenuta su due livelli: il primo relativo all'approccio progettuale sui singoli siti, il secondo sullo studio per la strutturazione della rete di osservatori. La definizione del concetto di rete ha avuto un percorso specifico all'interno del Progetto Montesquieu: “...se la centralità di un singolo punto viene definita dalla quantità di interrelazioni rese possibili tra i differenti livelli di reti (locali e globali, fisiche e immateriali), l'individuazione dei siti di osservazione, come attrattori dello sviluppo sostenibile del territorio, non può prescindere da un'indagine conoscitiva dei rapporti esistenti, risultati da storici processi socio-culturali locali. La sovrapposizione di un'ulteriore rete in grado di mediare i vari livelli, rappresenta il valore aggiunto del Progetto Montesquieu, al processo di sviluppo equilibrato del territorio”8. Un sito-osservatorio sarà tanto più importante, quanto più verrà considerato un nodo fondamentale anche dalle altre reti (storiche locali e moderne e globali), con cui dovrà interagire e quanto più sarà riconoscibile nel paesaggio. João Nunes nel suo contributo al progetto parla della possibilità di leggere il paesaggio collinare abruzzese su tre livelli diversi: il primo legato ad una genesi geologica complessa, fatta di accavallamenti e sovrapposizioni, che hanno dato come risultato segni visibili e riconoscibili ancora oggi; il secondo costituito dai segni relazionati con la dinamica dell'acqua e i relativi processi erosivi; l'ultimo livello invece determinato dall'appropriazione, da parte dell'uomo, del territorio. Tale processo ha generato una matrice costituita dalla geometria dell'impianto della costruzione umana del territorio (la suddivisione catastale, la parcellizzazione agricola, le geometrie inerenti le pratiche colturali). La comprensione di tutto ciò e l'indicazione di un sistema di riconoscimento, strutturato secondo il principio della rete, ha determinato la scelta di forme e metodi di osservazione, che permettessero di conoscere una realtà complessa. E' un tipo di lettura dinamica e attiva, che si appoggia alla rete di strade e camminamenti esistenti, si aggiunge “... al senso visivo del contatto con il 8
ANTONIO ANGELILLO, Progetto Montesquieu, in ACMA, op. cit., 2004, pag. 12.
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paesaggio il senso della sua comprensione dal punto di vista funzionale e genetico, non in quanto complemento di approfondimento culturale, ma come forma e modo differente di vedere e comprendere ciò che si ha davanti gli occhi”9. Quattro gruppi di lavoro si sono occupati di porzioni diverse di territorio: la fascia costiera, la fascia collinare e le aree pedemontane della Majella e del Gran Sasso. La ricerca si è concentrata su punti comuni quali: l'accessibilità agli osservatori; la tematizzazione degli studi progettuali su tre punti, quali l'attacco alla rete stradale, il percorso di collegamento strada-osservatorio; il punto di osservazione; la definizione di funzioni specifiche, attraverso cui si è cercato di creare dei link tra la rete Montesquieu e quelle esistenti (culturali, sociali, produttive). A conclusione del seminario l'analisi tra le diverse proposte progettuali ha portato alla definizione di problematiche relative alla costituzione di una rete di osservatori nel paesaggio pescarese. Una volta fissate le modalità della fruizione di tali punti, sarà possibile costruire una carta delle mete attrattive, che raccoglierà punti di interesse paesaggistico, servizi attrezzature, punti informativi, di ospitalità e di supporto alla visita. Fondamentale è il sistema di accessibilità, che apre un quesito sulla qualità delle reti stradali. Non può passare in secondo piano la strutturazione di un “sistema complesso” di mobilità (piste ciclabili, sentieri, eccetera), che agevolino il movimento e la sosta sul territorio. L'analisi della struttura della rete di trasporto, in funzione dei punti di osservazione, farebbe emergere percorsi secondari, per l'area metropolitana costiera (percorsi di crinale e intervallivi), ma importanti per lo sviluppo del resto del territorio. L'ultimo aspetto affrontato è quello della comunicazione delle qualità attrattive del paesaggio attraverso un attento piano di marketing territoriale. I siti selezionati attrarranno nuove progettualità, nuove energie generate dall'incontro tra più soggetti (globali e locali). Attraverso il Progetto Montesquieu il territorio acquisisce nuove funzionalità, la cui costruzione coinvolge la collettività locale e diventa parte integrante della politica territoriale delle amministrazioni coinvolte.
Figura 3. La strada per Turrivalignani, Pescara. Figura 4. Veduta panoramica delle colline.
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JOÃO NUNES, Area collinare litoranea/Area collinare interna, in ACMA, op. cit., pag. 29.
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Progetti di Paesaggio nel Mediterraneo Una ultima sezione della mostra è configurata come panoramica delle esperienze di studio (progetti, piani, studi, ricerche), che in qualche modo hanno come tema centrale il paesaggio del Mediterraneo, con l'obiettivo di comprenderlo e valorizzarlo. Sono selezionati una serie di interventi provenienti da soggetti diversi, pubblici e privati, che, a varie scale e con diversi livelli di approfondimento, hanno dato la misura di quanto la tematica del paesaggio sia diventata importante negli ultimi anni. Se ne denota un'aumentata sensibilità dovuta anche al rischio di modificare ad alterare la struttura del paesaggio da parte di interventi che hanno un grosso impatto sul territorio. Frammenti cinematografici di paesaggio Mediterraneo Una attenzione particolare è stata dedicata ad analizzare come il cinema ha guardato il paesaggio con occhi diversi, dandogli un ruolo di primo piano. Giorgio Cremonini ha curato la selezione di spezzoni di film estremamente significativi da questo punto di vista. Tra i film scelti figurano: A propos de Nice” (J. Vigo, 1930), Stromboli (R. Rossellini 1950), Porcile (P.P. Pasolini 1969), Caro diario (N. Moretti, 1963), Marius e Jannette (R. Guediguian,1977). Infine, nel concludere, si ritiene utile citare il film-documentario di Cristina Vuolo e Federico Tuzi che, in Viaggio d'inverno, raccontano la storia di un viaggio in sedia a rotelle elettrica di un'ottantenne, il quale decide di lasciare le montagne innevate del Parco Nazionale d'Abruzzo, per percorrere il tragitto di ottanta chilometri che lo separa dal mare, alla ricerca del cambiamento e di nuovi stimoli. E' un vero e proprio inno al viaggio come metafora della vita. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI ACMA, (a cura di), Progetto Montesquieu. Rete di osservatori del paesaggio della Provincia di Pescara, La Musica Moderna, Milano 2004. BRAUDEL FERNAND, Il mediterraneo, Bompiani, Milano 1987. CASSANO FRANCO, Il pensiero meridiano, Laterza, Bari 1996. MATVEJEVIĆ PREDRAG, Mediterraneo. Un nuovo breviario, Garzanti, Milano 1991. TIZZI ENRICO, (a cura del gruppo diretto da), Analisi di Sostenibilità per la Provincia di Pescara. Mappe di sostenibilità ed impronta ecologica, Lp Grafiche, Pescara. Siti web: www.acmaweb.com RIFERIMENTI ICONOGRAFICI Figure 1, 2: ENRICO TIEZZI, (a cura del gruppo diretto da), Analisi di Sostenibilità per la Provincia di Pescara. Mappe di sostenibilità ed impronta ecologica, Lp Grafiche, Pescara pagg. 24, 42. Figure 3, 4: Foto di Antonio Angelillo in ACMA, (a cura di), Progetto Montesquieu. Rete di osservatori del paesaggio della provincia di Pescara, La Musica Moderna, Milano 2004, pagg. 31, 61.
Testo acquisito dalla redazione della rivista nel mese di agosto 2005. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768 Università degli Studi di Firenze
Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/ Firenze University Press anno 3 – numero 3 – gennaio-giugno 2005 sezione: Eventi pagg. 118-126
VISUAL RESOURCES, VISUAL QUALITY, LANDSCAPE EVOLUZIONI DI UN CONCETTO: 1979-1999-2005
AESTHETICS.
OUR SHARED LANDSCAPE. INTEGRATING ECOLOGICAL, SOCIO-ECONOMIC AND AESTHETIC ASPECTS IN LANDSCAPE PLANNING AND MANAGEMENT. ASCONA, SVIZZERA, 2-6 MAGGIO 2005 Michela Saragoni*
Summary The conference Our Shared Landscape held in Ascona (Ch) in past May, it’s been a kind of periodic date for take stock of the state of things about landscape perception and its visual, aesthetic, social and economical aspects. It’s been the third meeting of a chain started in the United States in 1979, with the conference Our National Landscape and went on in 1999 with the conference Our Visual Landscape. The distribution in the time of this three meetings and the different slant that they took in the three historical moments are representative of the tendency of the cultural debate about this issues: in 1979 they were pre-eminent but for the next twenty years they undergo a progressive lost of interest, till it’s been felt the necessity of rediscover the value of these issues, at first in strictly visual terms and then evolving the debate toward the related aesthetic and social values and toward the integration of this several aspects. Key-words Our Shared Landscape, Our Visual Landscape, Our National Landscape, Landscape Aesthetics, Landscape Perception.
Abstract La conferenza Our Shared Landscape tenutasi ad Ascona nel maggio scorso ha rappresentato una sorta di scadenza periodica, per fare il punto sullo stato dell’arte delle tematiche di percezione del paesaggio, dei suoi aspetti visuali, estetici e socio-economici. Si è trattato infatti del terzo incontro di una serie cominciata negli Stati Uniti nel 1979 con la conferenza Our National Landscape, e proseguita nel 1999 con la conferenza Our Visual Landscape. La dislocazione temporale dei tre incontri e il diverso taglio che hanno assunto nei tre momenti storici sono rappresentativi dell’andamento del dibattito culturale intorno a questi temi: se nel 1979 erano temi focali, per il successivo ventennio hanno subito una progressiva perdita di interesse finché non si è sentita la necessità di riscoprire il valore di queste tematiche, prima in termini strettamente visivi ed in seguito evolvendo il dibattito verso i relativi valori estetici e sociali e verso l’integrazione dei diversi aspetti. Parole chiave (corpo 9. corsivo) Our Shared Landscape, Our Visual Landscape, Our National Landscape, estetica del paesaggio, percezione del paesaggio.
* Dottorando di Ricerca in Progettazione paesistica, Università di Firenze.
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La conferenza Our Shared Landscape tenutasi ad Ascona nella splendida cornice del Centro Franscini di Monte Verità, sede congressuale dell’Eidgenössische Technische Hochschule1 , ha rappresentato per molti dei partecipanti una sorta di scadenza periodica di revisione, per fare il punto sullo stato dell’arte delle tematiche di percezione del paesaggio, dei suoi aspetti visuali, estetici e socio-economici. Si è trattato infatti del terzo incontro di una serie cominciata negli Stati Uniti nel 1979 con la conferenza Our National Landscape, che ha avuto una forte influenza sul dibattito di quegli anni e di quelli a seguire, tanto che nel 1999, in occasione del ventennale, l’ETH di Zurigo nella persona di Eckart Lange, ha deciso di rinnovare l’appuntamento con la conferenza Our Visual Landscape; l’ultima tappa, per ora, del percorso è rappresentata dall’incontro del maggio scorso, Our Shared Landscape. La dislocazione temporale dei tre incontri e il diverso taglio che hanno assunto nei tre momenti sono rappresentativi dell’andamento del dibattito culturale intorno a questi temi: se nel 1979 erano temi focali, per il successivo ventennio hanno subito una progressiva perdita di interesse a favore degli aspetti ecologici, finché non si è sentita la necessità di riscoprire il valore di queste tematiche, prima in termini strettamente visivi ed in seguito evolvendo il dibattito verso i relativi valori estetici e sociali e verso l’integrazione dei diversi aspetti. La prima conferenza è stata la matrice, il punto di partenza del dibattito, mentre le successive hanno rappresentato in sostanza momenti di confronto e verifica delle ricerche condotte, separatamente, da un gruppo di paesaggisti che hanno costituito in questi ventisei anni il nucleo del dibattito statunitense ed internazionale (Carl Steinitz, Eckart Lange, Ian Bishop, Terry C. Daniel, James Palmer, Stephen Sheppard e molti altri) su questi temi: l’evoluzione leggibile nei titoli delle conferenza è quindi rappresentativa dell’evoluzione nelle loro ricerche e nel dibattito internazionale.
Figura 1. Il logo della conferenza del 1999.
Figura 2. I partecipanti alla conferenza del 1999.
OUR VISUAL LANDSCAPE, 1999 Sulla conferenza del 1979 non è stato possibile rintracciare nessun tipo materiale consultabile2; su Our Visual Landscape del 1999 sono invece disponibili sia gli abstract, 1
L’ETH è l’Istituto di Tecnologia Federale Svizzero, equivalente del più famoso MIT statunitense, con il quale condivide la filosofia di base ed è in stretti rapporti. 2 L’unico testo in proposito di cui si è trovata menzione è R. ANDREWS, Landscape values in public decision, abstract preparato per la conferenza Our National Landscape: a conference on applied techniques for analysis and management of the visual resource, Incline Village, Nevada, USA – april 23-25 1979, citato da Steinitz sul sito web www.gsd.harvard.edu/people/faculty/steinitz/gsd2301.htm
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scaricabili dal sito web della conferenza3, che i proceedings, pubblicati come supplemento della rivista Landscape and Urban Planning4 . Questa conferenza prendeva in considerazione le tecniche di analisi, visualizzazione e protezione delle risorse visive, con un attenzione particolare alle possibilità offerte dallo sviluppo dei GIS e dei programmi di computer graphic, come supporto ai processi decisionali e di comunicazione. L’approccio era comunque ampio e si articolava su diverse aree tematiche quali percezione del paesaggio (con riferimento agli aspetti teorici e psicofisici), mappatura delle risorse visive, tecniche di simulazione (dal rendering alle simulazioni animate), validità delle simulazioni, integrazione dei diversi strumenti. Significativo il titolo dell’intervento di apertura, affidato a Willy Schmid, “Ecological Planning with aesthetics in mind”, che riassume la necessità di dichiarare che l’approccio visivo non esclude né riduce il valore dell’approccio ecologico, considerato in quegli anni come quello scientificamente più valido, ma al contrario lo integra. OUR SHARED LANDSCAPE, 2005 La conferenza di quest’anno ha allargato il dibattito rispetto alle precedenti, mettendo gli aspetti visuali ed estetici sullo stesso piano degli aspetti ecologici e socio-economici, riferendosi in particolare agli effetti dell’azione umana sull’estetica del paesaggio e sull’ecologia. Lo scopo dichiarato dell’incontro era di esplorare gli elementi comuni ed i conflitti tra questi aspetti per capire come integrarli sia dal punto di vista teorico che in una prospettiva pratica.
Figura 3. Il flyer della conferenza Our Shared Landscape. 3 4
www.orl.arch.etzh.ch/MonteVerita “Landscape and Urban Planning”, Vol. 54, Issues 1-4, 25 May 2001.
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Il programma si è articolato su quattro giorni densi, comprendendo più di cinquanta interventi: il primo giorno è stato dedicato ad una sessione plenaria in cui sono stati presentati ed introdotti i “grandi temi” della conferenza (visualization and decision-making, perceived ecological and aesthetic quality, landscape aesthetic), mentre i due giorni successivi si sono articolati in sessioni tematiche parallele (landscape abandonment and rehabilitation, landscape modelling, scenario-based approach, infrastructure and landscape, landscape policy and landscape economics, scale of landscape, analysis and process of landscape change, integrative approaches, management of rivers, agricultural use and landscape, indicatine landscape quality, issues in landscape ecology) con un taglio più pratico, finalizzati soprattutto a mostrare casi studio ed esempi applicativi; l’ultimo giorno infine ha visto una sessione plenaria su sustainability and multifunctional landscape e naturalmente le osservazioni ed il dibattito conclusivo. Come si è detto anche questa terza conferenza del ciclo è stata pensata come un incontro tra addetti ai lavori, tra personaggi coinvolti da anni nel dibattito, e si ha conferma di ciò sia nel numero relativamente esiguo di semplici uditori (circa novanta presenti di cui cinquantacinque relatori, molti dei quali presentavano ricerche condotte in team con alcuni uditori), sia nell’organizzazione, impeccabile, molto improntata alla socializzazione tra i presenti, a favorire il dibattito anche al di fuori dell’auditorium, insomma alla full-immersion nell’argomento.
Figura 4. Foto di gruppo dei partecipanti alla conferenza di maggio 2005.
ESTETICA DEL PAESAGGIO: SCENIC BEAUTY O ECOLOGICAL AESTHETIC? Il cuore dell’evento è stato senz’altro il dibattito tenutosi nella sessione serale del martedì tra un gruppo di esperti costituito da Terry C. Daniels, Paul H. Gobster e Joan Iverson Nassauer, ed il pubblico, introdotto e moderato da Eckart Lange. Lo scopo di questo tavolo di discussione era di mettere a confronto le opinioni sul tema dell’estetica del paesaggio, che 121
sta diventando un tema sempre più sentito in ragione del crescente interesse sociale verso i temi della sostenibilità e dello stato di salute degli ecosistemi. Se il paesaggio non è più, finalmente, quello dei vedutisti e delle cartoline, ci si chiede cos’è allora l’estetica del paesaggio e da più parti viene proposta una nuova estetica dell’ecologia come alternativa al paradigma dominante della scenic beauty. Il dibattito si proponeva quindi di indagare le relazioni tra estetica del paesaggio ed ecologia e le relative implicazioni per la progettazione, la pianificazione, la gestione e la ricerca. Apre l’incontro l’intervento di Terry C. Daniel (Professore di Psicologia e Risorse Naturali Rinnovabili, University of Arizona) con un intervento il cui titolo è una aperta provocazione (warning. scenic beauty may be hazardous to your ecology!) rivolta soprattutto verso un corretto intendimento delle definizioni di ecological values, aesthtic values e scenic beauty. Daniel parte mettendo ordine tra le varie definizioni e chiarendone il campo d’azione, sottolineando come prima cosa che tutti i valori, tutte le valutazioni sono antropogeniche (la natura non ha preferenze), ma non necessariamente antropocentriche. I valori ecologici sono antropogenici ma non antropocentrici, in quanto afferiscono all’ecosistema naturale che, per la sua stessa natura di sistema, coinvolge più soggetti ed è fonte di molti diversi valori. I valori estetici sono invece strettamente antropocentrici e richiedono un momentaneo disinteresse, un distacco, verso gli altri valori. Secondo Daniel sarebbe corretto anche dal punto di vista pratico e scientifico tenere distinti valori estetici e valori ecologici in quanto quello che ci serve per valutare e gestire gli uni è sostanzialmente differente da quello che serve per misurare e gestire gli altri. Il ragionamento prosegue entrando nel merito della differenza tra Landscape Scenic Beauty, che è qualcosa di prettamente e abbastanza strettamente visivo, e Landscape Aesthetic Value che è invece un valore più ampio, multisensoriale e non solo sensoriale. All’interno del Landscape Aesthetic Value Daniel distingue tra Scenic Aesthetic ed Ecological Aesthetic, che rappresentano i due estremi del concetto (figura 4), e per entrambe da una duplice definizione che mette in evidenza la possibilità di considerare l'una e l'altra in un ottica propositiva ed educativa o invece in modo riduttivo e superficiale, sottolineando così che entrambi gli aspetti possono avere o non avere spessore scientifico e che nessuno dei due prevale sull’altro. La Scenic Aesthetic può essere espressa attraverso immagini forti, cartoline pittoresche da destinarsi agli “analfabeti ecologici5 ”, oppure attraverso icone del paesaggio naturale da utilizzarsi come “campione esplicativo” dei valori ecologici. Allo stesso modo l’Ecological Aesthetic può considerare il paesaggio come uno strumento per promuovere un ideologia ecologica in qualche modo elitaria, oppure può essere semplicemente quell’espressione del paesaggio che interessa ed attrae uno spirito critico educato dal punto di vista eco-estetico. Per meglio esplicare quest’ultimo concetto, ci si rifà alla seconda provocazione di Daniel, riportata nel sottotitolo dell’intervento: enjoy your next picnic beside a rotting elk carcass to attain a proper ecological aesthetic, per poter realmente godere di un’estetica dell’ecologia bisogna saper vedere la bellezza di una carcassa di animale in putrefazione. Come spesso avviene, anche in questo caso la giusta via sta nel mezzo, ovvero nel punto di incontro tra questi due estremi definito Ecological-Scenic Convergence; una via che secondo Daniel è ancora immatura e ha bisogno di un maggiore approfondimento scientifico.
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La definizione di Daniel è ecologically illiterate
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Figura 5. Lo schema presentato da Daniel durante il dibattito.
Il secondo relatore è Gobster (Risearch Social Scientist presso il USDA Forest Service), che propone un confronto tra gli aspetti legati alla scenic aesthetic e quelli legati all’ecological aesthetic rispetto alla percezione del paesaggio, riportando gli elementi evidenziati da diversi autori, da Carlson a Leopold, Gibson, Zube, Ribe, Kaplan e altri. La trattazione analizza prima l’atteggiamento dell’individuo rispetto alle due linee, poi come viene inteso il paesaggio nei due casi, le due diverse modalità di interazione uomo-paesaggio ed infine gli outcomes cui portano le due linee teoriche (figura 5). L’intervento di Gobster mette in luce una caratteristica rilevante dell’approccio a che ha dominato la scena statunitense nell’ultimo decennio: alla scenic aesthetic viene riconosciuto un ruolo strettamente descrittivo, negandogli quel ruolo di catalizzatore dei processi di significazione, degli aspetti psicologici e culturali che viceversa gli è normalmente riconosciuto in Europa, ma anche negli Stati Uniti da autori più datati o molto recenti. Il senso del luogo, ad esempio, viene classificato come uno degli outcomes dell’ecological aesthetic, riferendosi quindi ad un senso del luogo meno antropocentrico e più legato a quel sentimento strisciante nella cultura statunitense della natura sovrana, vera essenza delle cose che in un certo senso prescinde dalle sovrastrutture culturali umane. Gobster termina mettendo a fuoco alcuni ben noti punti chiave per la ricerca sulla percezione del paesaggio, dai quali trae la conclusione che ecological aesthetic e scenic aesthetic devono essere considerate parallelamente in quanto costituiscono due aspetti, entrambi essenziali, dell’estetica del paesaggio.
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Figura 6. La tabella del rapporto scenic aesthetic/ecological aesthetic secondo Gobster.
La terza panelist è Joan Iverson Nassauer (direttrice del Landscape Ecology, Perception and Design Lab presso la School of Natural Resources and Environment, University of Michigan), che nel suo intervento mostra come i valori estetici ed i valori ecologici, che per lei restano due elementi ben distinti, intrinsecamente differenti, possano comunicare ed interagire attraverso l’ecological design. I valori ecologici, pur essendo antropogenici, non sono finalizzati al piacere della popolazione in senso diretto; non sono cioè antropocentrici e hanno invece un valore strutturale. I valori estetici invece nascono al di fuori dei processi biologici e rappresentano dei costrutti culturali. In qualche modo cioè i due tipi di valori sono intrinsecamente diversi perché hanno diversi riferimenti: l’uomo gli uni, la biosfera gli altri. Entrambi però si riferiscono allo stesso unico paesaggio materiale: se i valori ecologici sono radicati nella materia-paesaggio, i valori estetici ne rappresentano la speaking image, l’aspetto comunicativo, e l’azione sugli uni ha effetti anche sugli altri. Quando si tratta di gestire i cambiamenti del paesaggio è importante tenere presente questa relazione tra estetica del paesaggio ed ecologia in un mondo che, di fatto, è dominato dall’uomo. Sono molte e diverse le possibilità per progettare un paesaggio ecologicamente corretto, ma raramente ci si trova in una situazione di sola protezione delle funzioni ecologiche; molto più spesso ci si trova a dover valutare e gestire pattern culturali imposti o doverne inventare di nuovi. Ed è proprio in questo delicato settore che deve entrare in gioco l’ecological design: si tratta in 124
sostanza di progettare con valori estetici che siano dimostrativi delle valenze ecologiche (figura 6). Non è qualcosa di incidentale, né di intrinseco; un’immagine accettata e gradita del paesaggio non è la diretta risultante di un alto valore ecologico: è una precisa scelta umana che va costruita. Il paesaggio culturalmente sostenibile è quello progettato per essere ecologicamente sano e anche per essere gradito, per evocare piacere. Come sottolineerà poi Gobster nel dibattito, questo tipo di progettazione estende l’area di convergenza tra scenic aesthetic ed ecological aesthetic riportata nel grafico di Daniel.
Figura 7. Graficizzazione del concetto di ecological design proposto dalla Nassauer.
Ai tre interventi iniziali del panel di esperti segue il dibattito con il pubblico, costituito comunque da professionisti internazionalmente noti, esperti anch’essi dunque, che verte essenzialmente sulla opportunità o meno di separare scenic aesthetic ed ecological aesthetic. Le questioni sono essenzialmente due: la prima è come operare questa separazione quando si è appena definito che anche l’ecologia ha un ritorno culturale e che esiste una estetica ecologica; la seconda è in un certo senso opposta, ovvero si sostiene che, nel progettare, la questione non è come separare questi due valori ma come considerarli insieme e si chiede ai panelist di dare esempi pratici. Se i tre relatori nel rispondere ripropongono sostanzialmente le loro posizioni iniziali, mantenendo il dibattito volutamente su un livello più teorico, è l’intervento di Carl Steinitz a riportare tutti “con i piedi per terra” proponendo un esempio di un pragmatismo quasi brutale. Riporta il caso del lavoro da lui svolto per l’Acadia National Park, dove è stata fatta una valutazione del paesaggio sia dal punto di vista visuale che da quello ecologico. In questo lavoro i due aspetti sono stati nettamente separati in maniera anche poco raffinata, “using an axe” come ha detto Steinitz stesso, e per ognuno dei due è stato assegnato al paesaggio un valore alto o basso. Il risultato è stato che dove entrambi i valori erano alti l’unica azione possibile era la protezione; lo stesso avveniva però anche dove uno solo dei due era alto, dimostrando che i due aspetti hanno la stessa importanza, nessuno prevalente. La prospettiva ottimale per mettere in atto un cambiamento del paesaggio e quindi una progettazione completa dello stesso risulta quindi essere quella in cui entrambi i valori sono bassi. Questo intervento, che pure mostra i vantaggi di un sano pragmatismo operativo, mette in luce il limite maggiore di questo interessante dibattito che, come del resto tutta la conferenza, è segnato nell’approccio culturale dalla presenza statunitense o di matrice culturale simile, massiccia nel numero ma soprattutto nel peso dei relatori, e del resto nucleo originale di partenza di delle tre conferenze. Così come avviene spesso negli Stati Uniti, anche in questo caso se pure il dibattito teorico sui temi della percezione e dell’estetica del paesaggio mantiene livelli alti e tematiche diversificate, nel passaggio alla pratica la scenic aesthetic si riduce nella maggior parte dei casi alla visual quality, alla valutazione delle preferenze visive, operando un appiattimento considerevole del concetto. A conferma di questa tendenza ad una eccessiva semplificazione di concetti e processi per loro natura molto complessi, si cita anche Gobster, che a chi chiedeva ragguagli progettuali per considerare unitariamente scenic aesthetic ed ecological aesthetic ha proposto i metodi della landscape visualization, che in realtà di progettuale hanno solo gli effetti partecipativi che possono coadiuvare.
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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI LANGE ECKART, MILLER D., Our Shared Landscape. Integrating ecologica, socio-economic and aesthetic aspects in landscape planning and management. Proceedings, Ascona 2005. “Landscape and Urban Planning”, vol. 54, Issues 1-4, 25 May 2001. GOBSTER PAUL H., An ecological aesthetic for forest landscape management, “Landscape journal”, 18, 1999. GOBSTER PAUL H., PALMER JAMES ed altri, The significance and impact of his contributions to environmental-behavior studies, “Environment and Behavior”, 35, 2003. GOBSTER PAUL H., WESTPHAL L.M., The human dimensions of urban greenways: planning for recreation and related experiences, “Landscape and Urban Planning”, 68, 2004. NASSAUER JOAN I., The appearance of ecological systems as a matter of policy, “Landscape Ecology”, 6, 1992. NASSAUER JOAN I., Placing nature: culture in landscape ecology, Washington 1997. Siti web: http://osl.ethz.ch/ http://www.orl.arch.etzh.ch/MonteVerita http://eplab.psych.arizona.edu/daniel.htm http://www.ncrs.fs.fed.us/people/Gobster http://www-personal.umich.edu/~nassauer/ RIFERIMENTI ICONOGRAFICI Figure 1, 2: http://www.orl.arch.etzh.ch/MonteVerita Figura 3: flyer della conferenza Our Shared Landscape Figura 4: http://osl.ethz.ch Figura 5: tratta dal paper distribuito da Terry C. Daniel in occasione del dibattito, rielaborazione grafica dell’autore. Figura 6: tratta dal paper distribuito da Paul H. Gobster in occasione del dibattito, rielaborazione grafica dell’autore. Figura 7: tratta dal paper distribuito da Joan I. Nassauer in occasione del dibattito, rielaborazione grafica dell’autore.
Testo acquisito dalla redazione della rivista nel mese di settembre 2005. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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