Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768 Università degli Studi di Firenze
Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/ Firenze University Press anno 3 – numero 4 – luglio - dicembre 2005 sezione: Editoriale pagg. 1 - 3
EDITORIALE Anna Lambertini*
Paesaggio urbano e viaggio: insieme o separatamente, in forma dichiarata o nascosta, per metafora o per estensione semantica, questi due temi sono scanditi con regolare puntualità fin dalla prima sezione di questo numero della Ri-Vista, senza che una precisa scelta di cura monografica sia stata operata dalla redazione. E’ attraverso il web che ci arriva dritto dal Dipartimento di Geografia Umana dell’Università di Siviglia il primo saggio proposto. Antonio García García ci sollecita ad una riflessione sul ruolo degli spazi pubblici come indispensabili contenitori di urbanità e vita sociale, difendendo una metodologia di indagine e valutazione centrata su un tipo di lettura sistemica e pluricategoriale. Nell’illustrarci gli esiti di una ricerca applicata all’area metropolitana di Siviglia, l’autore solleva giusti quesiti, poi propone al pianificatore un modus operandi basato sull’identificazione degli obiettivi di gestione, richiamando due casi studio emblematici: un parco-passeggiata storico ed un parco periurbano della città spagnola. Emblematico del ritardo culturale e politico in materia di gestione di parchi storici pubblici è invece, a Firenze, il caso del parco delle Cascine, al contempo fragile bene storicoarchitettonico e culturale, preziosa forma di paesaggio urbano e luogo collettivo. Lo studio dell’evoluzione delle sue componenti vegetali è al centro del contributo di Schiff e Pecchioli. Il difficile rapporto tra infrastruttura per la mobilità e territorio urbano attraversato, è l’argomento trattato da differenti punti di vista nei due saggi successivi, che restituiscono le riflessioni conclusive tratte da due precise occasioni di studio: una tesi di laurea in Architettura presso il Politecnico di Milano ed una ricerca svolta nell’ambito di un Programma CNR- Short Mobility Term. Ancora di parchi e giardini si parla nelle interviste fatte a Bernard Lassus e Pascal Cribier da Donatella Pennisi. La scrittrice ha incontrato i due noti paesaggisti francesi a Parigi e, invitandoli ad esprimere una valutazione sul Jardin Atlantique, li ha sollecitati ad una riflessione più ampia sulle forme ed i contenuti del parco urbano contemporaneo. Particolarmente nutrita la sezione degli Itinerari: il tema del viaggio trova qui, ovviamente, la sua dilatazione. Grazie ai cinque contributi proposti, i nostri lettori potranno muoversi su e giù per l’Italia, attraversando paesaggi reali e ideali, descritti o evocati dai diversi autori. Partiamo da Villa San Pedrino a Varese, al cui parco ebbe modo di lavorare Pietro Porcinai, tra il 1953 ed il 1957: differenti percorsi di lettura si intrecciano nel testo di Tessa Matteini. C’è il richiamo al Quinto viaggio di studio e aggiornamento professionale del Master in Paesaggistica dell’Università di Firenze, di cui Villa San Pedrino ha costituito la seconda tappa; c’è l’itinerario conoscitivo della ricerca, grazie alla disamina del “ricco corpus del materiale conservato presso l’Archivio Porcinai di Fiesole”; c’è, infine, il percorso storicoculturale nella memoria della nostra disciplina, che ci riporta a rievocare la figura di un maestro italiano dell’architettura del paesaggio e dell’arte dei giardini del Novecento.
Una fermata a Vicenza con Giulia Tettamanzi, per visitare mentalmente la mostra “Andrea Palladio e la Villa Veneta. Da Petrarca a Carlo Scarpa”, ed eccoci sollecitati a vivere un’altra esperienza odeporica. L’autrice ce la racconta così: “il viaggiatore, che approda a Palazzo Barbaran da Porto, si trova di fronte a due percorsi, i cui contenuti si intrecciano e si sostengono in modo inscindibile. Il primo consiste in una grande mostra che offre un viaggio nel tempo, alla scoperta delle origini della villa, fino all’affermazione di un modello tipologico, e alla sua rilettura nell’architettura contemporanea; il secondo è un itinerario che propone un viaggio nel paesaggio della campagna veneta, per imparare a conoscere concretamente, dal vero, quelle stesse ville, la cui storia si è inseguita nella mostra intra moenia.” Ancora di paesaggi veneti ci parla Gabriele Paolinelli, ma questa volta l’attenzione si appunta sulle forme della dispersione insediativa nelle campagne urbanizzate nel comune di Conegliano: rigore scientifico e strumenti di valutazione “esperta” sono applicati nella sperimentazione metodologica di un dispositivo diagnostico basato sul concetto di frammentazione paesistica. Il contributo costituisce la seconda parte della sintesi dello studio condotto nell’ambito del Programma Interegg III B – L.O.T.O Landscape Opportunities for Territorial Organization: per leggere la prima si rimanda al numero tre della Ri-Vista (curato da Antonella Valentini), che potete raggiungere, navigando in rete, con pochi click. Per una più ampia illustrazione del progetto L.O.T.O., c’è poi nell’ultima sezione di questo numero la segnalazione di Anna Rossi, dedicata ai lavori del seminario conclusivo organizzato a Milano nell’ottobre 2005, che ha visto la partecipazione dei numerosi soggetti coinvolti nel programma di ricerca e dei cui interventi qui ospitiamo i testi in allegato. Rimandi ad importanti Diari di viaggio e suggestioni da Grand Tour sono al centro dei contributi di Augusto Boggiano ed Ilaria Agostini. Dalla Piana di Lucca all’Agro aversano, dall’intimità della corte rurale lucchese alla vasta spazialità della ferace Campania felix, ad essere rievocato è il paesaggio storico agrario dell’Italia, così come si offriva ai colti viaggiatori della fine del Cinquecento quanto a quelli Sette-Ottocenteschi: una terra generosa e benefica, una enciclopedia di luoghi e paesaggi da sfogliare con la potenza dello sguardo. La citazione di apertura scelta da Boggiano proviene dal Giornale di viaggio di Michel de Montaigne, “sceso in Italia nel 1580 in cerca di acque termali capaci di lenire i suoi dolori renali” e a cui “la piana di Lucca si presentava come una pianura di eccezionale bellezza. Fra i campi di grano hanno molti alberi ben allineati, cui sono sposate viti che li allacciano gli uni agli altri: più che campi sembrano giardini. Le montagne che si scorgono lungo questo tragitto sono tutte coperte d’alberi, principalmente olivi, castagni e gelsi per i loro bachi da seta.” Le trasformazioni delle originarie matrici insediative hanno portato nel tempo alla definizione di ben altri scenari paesaggistici, ed oggi la Piana di Lucca appare piuttosto come un “un territorio profondamente destrutturato, continuamente sottoposto ad interventi che sembrano voler ignorare l'importanza e la valenza anche economica, oltre che culturale” delle permanenze storiche. Prezioso e denso l’itinerario di Ilaria Agostini, che ripercorre attraverso i resoconti dei viaggiatori francesi le tappe del vojage de Naples. Un tour che si afferma “a volte come appendice al soggiorno romano”, intorno alla metà del Settecento, “quando le città antiche di Ercolano prima, e Pompei in seconda battuta, cominciano ad offrire le prime colte tentazioni”. Anche qui, i viaggiatori stranieri restano incantati dall’amenità di una campagna giardino e dal trionfo della terza natura. In una guida del tempo si scrive ad esempio che la strada per Napoli “è un giardino continuo; l’aria vi è così dolce e le campagne così piene di tutti i tipi di verdure, in tutte le stagioni; è come un paradiso terrestre”. Testimonianze storiche e preoccupazioni contemporanee: il mito della campagna giardino è sempre attivo, e il dibattito culturale e politico sulla difficile interazione tra urbano e rurale e sulla ricerca di modelli insediativi “ibridi” non si è mai spento, dall’epoca proto-industriale all’attuale era telematica. Residential design e sustainability design, sono le due principali tematiche su cui si è incentrata la conferenza annuale dei paesaggisti statunitensi, tenutasi nell’ottobre 2005 in Florida. Ci racconta Paola Marzorati che tra i relatori c’è stato chi ha “presentato uno studio sulla costruzione di un modello di villaggio agricolo sostenibile, il Chattahoochee Hill Country, basato sulla ricerca di equilibrio tra l’esigenza di espansione
urbana e di tutela del territorio agricolo”. Concetti informatori (sostenibilità) e soluzioni attuali per vecchi problemi. Siamo arrivati in fondo, questo numero si chiude. Una pluralità di voci e di sguardi disciplinari (del geografo, del botanico, del paesaggista, dell’urbanista, dello storico dell’arte, dell’architetto) si è incontrata in un nodo della rete informatica: il nostro lavoro culturale sul progetto di paesaggio continua.
*Dottore di ricerca in Progettazione paesistica.
Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768 Università degli Studi di Firenze
Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/ Firenze University Press anno 3 – numero 4 – luglio - dicembre 2005 sezione: Saggi pagg. 4 - 19
IL
SISTEMA DEGLI SPAZI PUBBLICI DI 1 ALLA GESTIONE
SIVIGLIA:
DALLA PIANIFICAZIONE
Antonio García García* Summary The debate around the management of public space has become, in the last decades, one fundamental theme of the debate around the city. Nevertheless, there is an imbalance between the consensus of many theoretical approaches and the application of these on projects and urban plans, except for some paradigmatic cases. Through the case of Seville, the article goes into some issues of systems of public spaces: its cartographic representation, its hierarchic structure or the value of understanding the real scope of each space. All from the perspective of the importance of integrating physical and human planning in the management of these spaces, whose last sense is the sociability. Key-words Public space, urban management, citizen participation.
Abstract Il dibattito sulla gestione dello spazio pubblico si è trasformato, negli ultimi decenni, in un tema fondamentale del dibattito più ampio sulle trasformazioni della città. Esiste però un certo squilibrio tra la diffusa accettazione di molti presupposti teorici e la loro applicazione in progetti e piani urbanistici, ad eccezione di alcuni casi paradigmatici. Attraverso il caso-studio della città di Siviglia, questo contributo affronto alcuni temi base del sistema degli spazi aperti pubblici di una città: la rappresentazione cartografica, la struttura gerarchica, il valore del riconoscimento del reale bacino di influenza di ogni singolo spazio. Tutto ciò rispetto ad una prospettiva di integrazione tra la progettazione fisica e quella umana nella gestione degli spazi aperti pubblici, il cui fine ultimo è favorire la socializzazione. Parole chiave Spazio pubblico, gestione urbana, partecipazione cittadina.
* Dipartimento di Geografia Umana, Università di Siviglia
1 Questo contributo presenta considerazioni che trovano più ampia trattazione in “Vitalità e crisi degli spazi pubblici di Sevilla”, tesi di dottorato dell’autore, discussa nel 2004. La traduzione dallo spagnolo dell’articolo e la sua cura per la Ri-Vista è di Anna Lambertini.
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Sono molte le posizioni autorevoli che riconducono il valore degli spazi pubblici all’idea che la città è fatta prima di tutto da questi elementi, che sono fondamento e condizione necessaria alla vita collettiva2. E’ inoltre diffusa l’opinione, condivisa da vari autori, secondo cui le condizioni attuali della città favoriscono la crisi dello spazio pubblico e contribuiscono a metterne in discussione le sue caratteristiche dimensionali e sociali tradizionali. In alcuni casi paradigmatici, il ruolo chiave assegnato agli spazi aperti pubblici nell’ambito del dibattito teorico è stato tradotto in esperienza reale, e il tema della loro gestione è stato posto alla base di strategie di riforma, riabilitazione e sviluppo urbano. Nel panorama europeo sono noti in questo senso gli esempi di Parigi, dove i nuovi strumenti della pianificazione hanno attribuito allo spazio pubblico un ruolo da protagonista, soprattutto attraverso il sistema degli spazi verdi e la promozione di grandi opere architettoniche; di Barcellona, dove la riqualificazione urbana è stata attuata in forma diffusa attraverso molteplici e differenziati interventi; dei Dockland di Londra, dove si è operato sia con interventi concentrati sia predisponendo e applicando linee guida generali. Sono note anche le iniziative di pedonalizzazione e incremento della sociabilità nei centri storici, come quella realizzata a Copenaghen. Si possono citare ancora esempi più attuali, come quello del programma “Centopiazze” a Roma, con cui si sono cercate soluzioni operative per dotare di senso e logica funzionale alcuni spazi pubblici della città contemporanea, individuando anche nuovi criteri di qualità 3. Di fatto, la necessità di mettere a punto una rete di spazi pubblici tale da conformare un sistema continuo, saldo e articolato rispetto a diverse scale, rappresenta una costante nell’ambito della pianificazione ordinaria di molte città dell’Europa Occidentale, sia che si faccia riferimento a piani urbanistici che a piani di dettaglio. Detto questo, dal momento in cui cerchiamo di definire e articolare secondo un ordine funzionale un sistema di spazi aperti pubblici, siamo portati a porci alcuni necessari quesiti: in che modo integrare i vari elementi del sistema e quale importanza strategica attribuirgli rispetto ad altri sistemi della città? Quali criteri adottare per definire il bacino d’influenza reale di ognuno degli elementi che lo compongono? E soprattutto, quali sono gli obiettivi e gli scopi che si vogliono perseguire? Affrontare nella pratica la gestione degli spazi pubblici necessita, inoltre, che venga attribuita a questo tema la giusta collocazione nell’attuale dibattito tra la validità delle interrelazioni tra la pianificazione spaziale e quella umana, tra progettazione territoriale ed intervento sociale. Occorre inoltre considerare la difficoltà ad interpretare la varietà tipologica degli spazi pubblici presente oggi in una qualsiasi città.
POTENZIALITÀ, SFIDE E CRITICITÀ DELLO SPAZIO PUBBLICO DI SIVIGLIA
Le opportunità e le sfide offerte dalla realtà di Siviglia, rispetto alla sua pianificazione e ai suoi spazi pubblici, assomigliano a quelle di tante altre grandi città europee, dove la dimensione storica, materializzata in ampie porzioni del tessuto urbano, e quella contemporanea, plasmata sia nei processi di crescita della città diffusa sia nell’applicazione di rigorosi modelli metropolitani, convivono. Se ormai è riconosciuta l’inadeguatezza di un approccio di ricerca volto a definire modelli spaziali predeterminati e applicabili a qualunque realtà urbana, appare invece interessante la possibilità di individuare alcuni temi chiave principali, definiti in forma di criticità e potenzialità, utili per sviluppare le linee guida, i criteri di progettazione e le buone pratiche da considerare per la definizione di una strategia concreta, che possa risultare adeguata alla identità sociale e culturale di ogni città.
2 Ci si riferisce ad esempio ai contributi di autori come Jordi Borja, e Zaida Muxí, María Victoria Gómez e Jesús Prieto San Román; Maurice Cerasi. 3 Cfr. FRANCESCO CELLINI , 1999; RAFFAELE PANELLA, 1997.
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L’importanza di Siviglia come importante centro urbano mantenuta fino al secolo XIX, ha lasciato in eredità un tessuto storico che ancora oggi ne costituisce uno dei maggiori elementi di qualità. Nel corso del Novecento, Siviglia si è espansa fino a superare decisamente i limiti della città antica e negli ultimi decenni si è inserita in un processo di crescita metropolitana, dove si vanno consolidando altre centralità. Il risultato della saldatura di questi due modelli insediativi, quello della città compatta e monocentrica e quello della città espansa e policentrica, è la determinazione di un disegno degli spazi pubblici eterogeneo per dimensioni, per funzioni, per configurazione, per bacino di influenza, per valore identitario o figurativo. Un disegno caratterizzato inoltre da discontinuità e da contrasti: tra spazi aperti con valore storico e simbolico e semplici vuoti urbani; tra quartieri dotati di luoghi pubblici di qualità, molto animati, e quartieri, periferici di nuovo sviluppo o centrali, sprovvisti di una quantità ragionevole di spazi destinati alla vita pubblica quotidiana.
Figura 1. Il sistema degli spazi aperti pubblici di Siviglia. Sono stati indicati in violetto gli ambiti di valore metropolitano, in verde quelli di valore municipale, in giallo gli ambiti di valore strategico alla scala puntuale, in rosso i luoghi rappresentativi alla scala di quartiere.
E’ possibile così distinguere differenti tipologie spaziali, che corrispondono ad altrettanti modi di intendere e progettare lo spazio pubblico ed ai diversi modelli di città: spazi forestali, parchi peri-urbani, giardini storici e pubblici, spazi multifunzionali, passeggiate fluviali e cittadine, piazze o aree pedonali. Oltre a queste categorie spaziali, esistono capillari trame reticolari, sia di origine naturale che antropica, costituite da fiumi, canali, percorsi storici e sentieri per il bestiame, che si configurano come elementi disponibili ad articolare un valido e più saldo sistema di spazi pubblici.
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A primo acchito, quello sopra identificato può sembrare un sistema abbastanza ampio, ma è un’immagine errata perchè “si raggiunge a stento il valore di quattro metri quadrati di zona verde per abitante, molto lontano dalle medie europee e di quello che si considera ideale, e che si stabilisce tra i 25 ed i 30 metriquadrati per abitante”4. Il tessuto storico della città si caratterizza per l’esistenza di una ricca varietà tipologica di spazi aperti, la cui morfologia è stata modificata nel tempo, in applicazione di differenti modelli e criteri operativi, sia in seguito all’inserimento di nuove forme di vuoti, sia per le trasformazioni di tipologie esistenti: piazze medievali dalla forma geometrica, passeggiate, piazze con abbondante vegetazione o spazi sistemati a giardino5. Si tratta soprattutto di luoghi d’uso tradizionale, il cui bacino d’utenza è limitato alla scala di quartiere o vicinato. La tipologia della piazza è quella prevalente, con un repertorio che comprende piazzette di piccole dimensioni, così come grandi piazze ampie anche più di seimila metri quadrati, come quelle della Concordia, della Encarnación, Nueva e del Triunfo. Fanno parte del sistema degli spazi aperti della città compatta anche parchi e giardini di matrice storica, collocati nella zona meridionale e orientale della città, come il Parco di Catalina de Ribera, quello di Murillo, ed anche il più ampio Parco di María Luisa, modellato su una superficie di circa trentasei ettari. Tutti questi luoghi, saldamente integrati nel tessuto fisico cittadino e ben presenti nell’immaginario collettivo dei cittadini, sono caratterizzati da un alto livello di frequentazione quotidiana (anche se sempre ridotto rispetto ad altri periodi storici, e a dispetto del nuovo ruolo assunto rispetto ad una logica sistemica urbana). Molti di questi parchi e giardini si caratterizzano per loro specifici e peculiari caratteri semantici e figurativi, ma tra tutti prevale come carattere simbolico l´Alameda de Hércules (Pioppaia d´Ercole). La città diffusa è un modello urbano che rappresenta la risposta spaziale a nuove domande e in cui si tende a semplificare valore, ruolo e contenuto degli spazi pubblici. In contesti di questo tipo, i luoghi con una vocazione più o meno chiara di contenitori per attività ricreative sociali sono principalmente i grandi parchi urbani. Gli ambiti di piccole dimensioni e inseriti all’interno del tessuto dei quartieri sono solitamente vuoti anonimi, privi di una chiara organizzazione spaziale. In prevalenza funzionano come luoghi di transito, e sono utilizzati soprattutto come spazi per il mercato rionale, per la sosta o per attività ludiche occasionali. Occorre però sottolineare come anche nelle periferie urbane esistano spazi speciali, dotati di forte valore figurativo e attrattivo ed interessati da una attiva partecipazione sociale: tra tutti, appare di particolare rilievo la realtà del Parco di Miraflores. La città contemporanea presenta quindi, nelle sue trasformazioni, molte criticità, ma anche nuove domande ed opportunità. In questa luce, appaiono di particolare interesse tutte quelle aree di grande valore paesaggistico, culturale e territoriale, che hanno acquisito oggi una nuova centralità proprio grazie a quell’indefinitezza tra urb ed ager tipica dei processi metropolitani: zone forestali, antichi tracciati rurali per il bestiame, aree fluviali. In un certo senso, malgrado il loro attuale grado di indeterminazione, potremmo dire che proprio questi ambiti possono orientare la trasformazione del nuovo modello di città. Un modello, opposto a quello attualmente prevalente, dove la gestione e la valorizzazione degli spazi aperti pubblici potrebbe costituirsi come principale risorsa territoriale, ambientale e culturale. Per opporsi ad una effettiva disgregazione di un sistema come quello dalle potenzialità sopra descritte, sul piano teorico i vari strumenti di pianificazione urbana paiono concordare nel rilevare la necessità di realizzare un sistema strutturante di spazi aperti, che tenga conto di ambiti rilevanti alle diverse scale: di quartiere, di distretto, di città o di area metropolitana (Avance Plan General, 2003; POTAU, 2000; Avance Conjunto, 1995). Senza pretendere di addentrarsi nello specifico del conflitto tra situazione reale e previsioni teoriche dei piani, e tanto meno di voler trattare il tema della inadeguatezza della pianificazione ordinaria vigente 4
FERNANDO SANCHO, Medio ambiente urbano y calidad de vida: visión integral de Sevilla como ciudad habitable, in “Prediagnóstico de la mesa temática 3, Avance del Plan General de Sevilla”, 2001. Pag. 13. 5 Cfr. ANTONIO COLLANTES DE TERAN, , et al., 1993; VIOQUE et al., 1987; LINO ÁLVAREZ et al. 1982.
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a comprendere le potenzialità offerte dallo spazio aperto pubblico (questione delicata, che meriterebbe di essere trattata in forma ben più approfondita), possiamo proporre una riflessione sulla necessità di costituire tale sistema: questo tema sembra fornire già un buon punto di partenza.
TRE TEMI SULLA CONFIGURAZIONE DI UN SISTEMA DI SPAZI APERTI PUBBLICI
Non è semplice tradurre in realtà l’idea della configurazione di un sistema metropolitano che integri diverse scale di spazi aperti pubblici. Ecco perchè pare utile soffermarsi su qualche riflessione di carattere metodologico generale, tentando di definire i punti da cui partire per cominciare a sviluppare una strategia. Il presente contributo si concentrerà su tre temi chiave: il valore della rappresentazione cartografica, l’importanza della scelta dei nodi del sistema e la necessità di determinare il bacino di influenza di ogni singolo elemento del sistema. La rappresentazione cartografica La rappresentazione cartografica costituisce un requisito fondamentale per la pianificazione urbana. Uno schema cartografico come quello della figura uno permette l’analisi dello stato di fatto del sistema, con le sue potenzialità e le sue criticità. Come si desume dalla carta, a Siviglia i diversi spazi aperti hanno in apparenza una distribuzione omogenea, sebbene gli spazi metropolitani siano più concentrati nella zona sud ed in quella ovest, gli spazi di valore comunale siano più diffusi a nord e ad est, mentre nel centro storico della città, come è logico, si concentrano i piccoli spazi dalle tipologie tradizionali. Questi nodi sono a priori connessi con una articolata e vasta rete di tracciati e strade storiche e di corsi d’acqua. La rappresentazione cartografica del sistema deve però essere arricchita con dati ed informazioni dettagliate relative alla conoscenza di ogni singolo spazio. Nel caso di Siviglia, molti dei suoi spazi aperti non presentano neanche i minimi requisiti di qualità e sicurezza necessari ad incentivare la loro fruibilità. Tuttavia, la sfida principale per garantire una reale configurazione sistemica all’insieme degli spazi aperti pubblici deve prendere in considerazione i vuoti lineari. Le potenzialità offerte dalla rete idrografica e da quella degli antichi percorsi per il bestiame rispetto al loro regime di proprietà e giuridico (per esempio le servitù di passo), non sono sfruttate, ed al momento risultano poco utilizzabili a causa del degrado e della appropriazione illegale della maggior parte di qeustei, fatta eccezione il passaggio fluviale della darsena del Guadalquivir, situata nella città. Tuttavia, da un po’ di tempo a questa parte, si sta lavorando sulla riqualificazione dei corridoi verdi. Nonostante, il problema sia più complesso, la costruzione di un sistema di spazi aperti pubblici richiederebbe che fosse riconsiderato l’attuale modello abitativo basato sulla preponderanza della mobilità privata, in favore di uno più sostenibile legato al miglioramento del servizio di trasporto collettivo o, almeno, all’implementazione dei sistemi di mobilità a basso impatto ambientale estesi ad ogni scala. Inoltre, questo tipo di cartografia permette di confrontare la distribuzione del sistema degli spazi aperti pubblici con quello attuale dei nuovi centri del divertimento e del consumo. Spazi specializzati denominati tante volte nonluoghi o single-minded6, ma la cui importanza, come spazi di socialità e di incontro, nei modelli e nelle forme di vita urbana attuali li inserisce a buon diritto nel dibattito sulla gestione degli spazi pubblici. Soprattutto quando
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Cfr. MARC AUGÈ, 1992, MCHAEL WALZER, 1995.
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sono considerati come spazi riconosciuti e usati, e non solo come spazi la cui proprietà è giuridicamente pubblica7. Come si osserva nella figura due, confrontandola con la figura uno, i centri commerciali tradizionali si concentrano nel centro storico di Siviglia e nella zona orientale, mentre le tipologie più recenti di agglomerazioni commerciali o i Parchi di Grandi Superfici8 si estendono nel contesto metropolitano; soprattutto nelle zone di espansione caratterizzate dalla mancanza di spazi aperti di qualità, come per esempio l´Aljarafe Centrale, ad ovest del Guadalquivir.
Figura 2. Sistema dei nuovi spazi (aperti e chiusi) per il tempo libero dell´area metropolitana di Siviglia.
La struttura gerarchica del sistema degli spazi aperti pubblici e la scelta dei nodi puntuali Guardando l’attuale quadro degli spazi pubblici di Siviglia, l’idea di dare vita ad una sistema spaziale ben strutturato e calibrato tenendo conto delle diverse scale potrebbe apparire pura utopia. Così, dal punto di vista metodologico, la scelta più interessante appare quella di considerare la possibilità che, per lo meno, questo sistema si possa appoggiare sulla rete degli spazi più significativi. In questa ottica, prima di tutto occorre conoscere quali siano gli spazi più significativi e speciali, e, di conseguenza, scegliere gli indicatori necessari per la loro valutazione, tenendo conto del concetto di spazio speciale come di luogo di cui siano chiaramente riconoscibili le funzioni sociali, territoriali e simboliche proprie degli spazi pubblici in generale. Questi indicatori devono essere eterogenei, così come è eterogeneo lo spazio pubblico, possono essere considerati per esempio la dimensione, l´attrattività rispetto al contesto territoriale, la presenza o prossimità di assi storici o percettivi, il grado di fruizione quotidiano o periodico, la varietà di scene e di funzioni, l´importanza storica e simbolica, la presenza di elementi di valore storico-culturale, le relazioni spaziali e architettoniche (a 7
Cfr. JORDI BORJA e ZAIDA MUXÍ, 2003; RODRIGO SALCEDO, 2002; RAMÓN LÓPEZ, 2002; DANIEL MILLER et al., 1998; DAVID ZARA, 1994. 8 Cfr. RAMÓN LÓPEZ, 2002.
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livello di quartiere), l´accessibilità intermodale, le caratteristiche di singolarità e di qualità del contesto, il collegamento diretto con altri luoghi, la presenza di vegetazione e di una copertura vegetazionale più o meno densa (aspetto fondamentale nel caso di Siviglia, perché è rara la presenza vegetale all’interno dei suoi spazi aperti pubblici), il livello di comfort, la partecipazione di associazioni sociali, la monumentalità (a livello di quartiere e comunale) e la distanza rispetto ai nuclei residenziali (a livello metropolitano). L´integrazione tra questi nodi speciali intesa come struttura base del sistema di spazi pubblici, potrebbe costituire già un interessante punto di partenza per valutare la loro validità come elementi di mediazione tra diverse scale e aree della città e come risorsa per la pianificazione urbana. L´esperienza dimostra che l´esistenza di un sistema articolato di spazi aperti pubblici non determina di per se un suo uso cittadino9. Occorre che questo sistema sia dotato di contenuti, che sia multifunzionale e che sia in grado di stimolare sempre nuove pratiche e usi da parte dei cittadini. La definizione dell’area di influenza reale degli spazi aperti La conoscenza dettagliata del sistema degli spazi pubblici di una città basata sull’applicazione di alcuni indicatori come quelli sopra descritti e sull´analisi puntuale dei luoghi, dovrebbe mettere in discussione una classificazione scalare formulata a priori, e fondata sulla dimensione degli spazi (come quella della figura 1), per permettere di trovare il giusto ruolo di ogni singolo spazio attraverso l’applicazione di criteri più complessi, che tengano conto del valore simbolico e figurativo e del bacino di utenza valutato rispetto ai suoi diversi usi, quotidiani o occasionali. In tal senso, è utile fare riferimento, rispetto al caso di Siviglia, alle modalità di fruizione della doppia Piazza Maggiore, formata dalla storica Piazza di San Francisco e dalla più recente Piazza Nueva. Sede della pubblica amministrazione cittadina, questa piazza funziona come spazio d’uso quotidiano a livello di quartiere, ma acquista valore a livello metropolitano in occasione di manifestazioni collettive, cerimonie, feste o raduni politici. Una situazione analoga si riscontra rispetto ad altri luoghi storici, come l´Alameda de Hércules. Luoghi di maggiori dimensioni, come il Parco di Miraflores o quello della Infanta Elena, esercitano la loro influenza reale alla scala dei quartieri adiacenti. In altri casi, come il Parco Norte, il Charco della Pava o la Dehesa di Tablada, il livello di degrado, di scarsa utilizzazione o di difficoltà d´accesso, è tale da limitare il loro grado di attrattività come spazi per la socialità, rispetto a qualunque bacino di utenza si voglia considerare. Ciò detto, è vero che non sempre si riscontra queste differenze tra bacino di influenza reale e potenziale. In luoghi come il Parco metropolitano del Alamillo, ad esempio, l´area di influenza potenziale valutata rispetto alla sua dimensione coincide con il bacino di utenza reale.
IL RUOLO DELLA PIANIFICAZIONE UMANA NELLA GESTIONE DEGLI SPAZI PUBBLICI
La rappresentazione cartografica del sistema degli spazi pubblici e la considerazione del bacino d’utenza di ogni singolo spazio calcolata rispetto a parametri dimensionali, sono criteri propri di una pianificazione fisica più o meno ortodossa. Possono risultare entrambi criteri utili, ma avrebbero maggiore validità se messi a confronto con altri indicatori 9
Jan Ghel osserva ad esempio come in un quartiere di villette unifamiliari in Danimarca i bambini preferissero giocare, invece che all’interno degli spazi pedonali esistenti, nelle strade, perchè le strade erano i luoghi dove accadevano le cose vere (JAN GHEL, 1991, 27)
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qualitativi e con la conoscenza delle caratteristiche peculiari di ogni singolo spazio. In pratica, occorrerebbe riconoscere i principali nodi rispetto a cui configurare il sistema e, soprattutto, gli obiettivi che si vorrebbero raggiungere. Ai fini della presente ricerca, l’obiettivo è coniugare la macrogestione del sistema generale degli spazi pubblici, fisica ma integrata con l’analisi dei contenuti sociali, con una microgestione di ciascuno degli elementi componenti il sistema che possa tener conto delle singole specificità dei luoghi, delle incognite e delle potenzialità legate alla partecipazione sociale: aspetti, questi, più vicini alla pianificazione umana (figura 3). L’unione delle due prospettive permetterebbe di riconsiderare il significato degli spazi pubblici rispetto ai loro usi e di ripensare alle potenzialità di ogni specifico ambito come fondamentale collettore di relazioni sociali, dato che questo è l’obiettivo finale.
Ambito
Obiettivi
Il sistema degli spazi aperti pubblici della città, nel suo insieme.
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Tre scale di riferimento: Metropolitana Comunale Sottocomunale, di quartiere o puntuale
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Macro-gestione
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Ogni spazio singolarmente
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Micro-gestione
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Configurare una rete di collegamenti tra gli spazi di maggiore uso e valore simbolico; Individuare e riqualificare i corridoi naturali e culturali; Creare spazi di transizione intermodale tra scale spaziali differenti; Recuperare il tessuto pedonale della città; Dotare la città diffusa di spazi per la socialità; Superare il criterio di mera applicazione degli standard urbanistici; Partecipazione attiva della popolazione nei processi di pianificazione e gestione; Definire obiettivi e finalità dei processi di gestione; Creare nuove forme di amministrazione a scala metropolitana; Dare valore ai nuovi spazi di socialità; Comprendere e preservare la diversità dei vari spazi pubblici come indicatore di qualità della vita urbana; - Integrare la gestione degli spazi pubblici con quella di altri sistemi urbani.
Migliorare il livello di comfort, multifunzionalità, accessibilità, sicurezza dei luoghi; Offrire una dotazione di arredo adeguato e funzionale; Favorire le diverse attività di fruizione e la partecipazione sociale; Valutare la densità residenziale e commerciale del contesto; Riconoscere il valore della presenza di natura e di vegetazione, e applicare criteri da sostenibilità; Perseguire un grado di coerenza tra gli elementi spaziali interni ed esterni; Includere criteri paesaggistici e di qualità visuale nel processo di riordino delle componenti del luogo e del suo contesto; Integrare design e funzionalità dei singoli spazi ad altre politiche di gestione.
Figura 3. Scale della gestione dello spazio pubblico
I movimenti cittadini di Siviglia e la loro importanza per la rivitalizzazione dello spazio pubblico A Siviglia, nell´ultimo decennio ed in particolare negli ultimissimi anni, si sta riattivando un movimento cittadino di opinione sull’importanza gli spazi pubblici, che vengono rivendicati come luoghi di scambio e di incontro. Si tratta di una forma di lotta sociale che presenta
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molte analogie con quelle già attivate negli anni Settanta, anche se allora il movimento ebbe a Siviglia un’eco molto inferiore rispetto ad altre città spagnole, come ad esempio Barcellona. Oggi, movimenti di associazioni di quartiere e di vicinato interessati all’uso ed alla gestione di determinati spazi (aree identificate alla scala metropolitana, comunale o di quartiere), convivono con altri che portano avanti politiche culturali e ambientaliste di carattere trasversale, che sono concentrati sul valore di una precisa tipologia di spazio aperto o sulla difesa dello spazio pubblico in generale. Tra le numerose associazioni tre hanno avuto e continuano ad avere un ruolo particolarmente significativo10. L’ Asociación para la Defensa del Territorio del Aljarafe, che con il progetto RiopudioCorredor Verde del Aljarafe, promuove la creazione di uno spazio non considerato dalla pianificazione ufficiale della città: un grande corridoio verde ad ovest dei comuni dell´Aljarafe, lungo il ruscello Riopudio e la parallela Cañada Real de Medellín. Questo progetto coniuga criteri paesaggistici, ambientali e patrimoniali con la possibilità di orientare un’area di crescita urbana sproporzionata. Il movimento cittadino per la difesa della Dehesa di Tablada, si concentra sulla tutela dell´ultimo grande spazio naturale e inondabile rimasto al centro dell´agglomerato urbano di Siviglia, minacciato negli ultimi decenni da una forte pressione speculativa. L’obiettivo di questo movimento è di ottenere la classificazione di questa area come parco periurbano. Particolarmente interessante è, infine, il lavoro del Comité Pro-Parque Cultural de Miraflores, ed il Programa Huerta de las Moreras, di cui si parlerà più avanti11. Da una parte, in linea con la tendenza europea, un elevato numero di movimenti e di associazioni di Siviglia si concentra sulla difesa dei grandi spazi di natura dell’area metropolitana; dall’altra, sono numerosi i collettivi le cui attività e rivendicazioni si riferiscono agli spazi inseriti nella città, soprattutto quelli storici e maggiormente caratterizzati: esistono associazioni per le piazze di Cristo di Burgos, del Salvador o dell´Alfalfa, la Asociación Alameda Viva in difesa dell´Alameda de Hércules, e così via. L’attività politica e culturale di alcune di queste è stata talmente pressante da arrivare ad influire sulle previsioni degli strumenti della pianificazione urbana. Oltre all´esistenza di una rete di associazioni di quartiere, è interessante notare come negli ultimi anni nella città si sia andato consolidando un largo consenso sociale sul valore degli spazi pubblici urbani, che trova eco nella stampa locale e che è all´origine della domanda di interventi e forme di partecipazione sociale a cui l´amministrazione, sia a livello comunale che metropolitano, dovrebbe trovare il modo di dare risposta.
DUE CASI SPECIFICI. LA DIFFERENZA TRA I BACINI DI UTENZA POTENZIALE E REALE
A Siviglia sono numerosi i casi interessanti rispetto al tema della gestione degli spazi pubblici, sia nel senso del riconoscimento del loro ruolo nella dimensione urbana (a partire dalla loro importanza territoriale) quanto del loro valore come spazi sociali (in base alla loro importanza cittadina). Allo stesso modo, tanti altri esempi risultano per contro paradigmatici dell’applicazione di errate strategie di pianificazione, progettazione e gestione. In un’ottica positiva, due esempi sono particolarmente significativi rispetto al tema della multifunzionalità, della varietà di usi ed anche per la gamma di problemi legati alla loro gestione: l´Alameda de Hércules ed il Parco di Miraflores. 10 Anche se ne potremmo segnalare molte altre, come l’"Asociación de Amigos del Alamillo y Riveras del Guadalquivir", che concentra la sua attività nell’ambito specifico del Parco del Alamillo, esempio paradigmatico di qualità dello spazio aperto pubblico e vocazione partecipativa; o la "Movida Pro-Parque Tamarguillo. Parque Alcosa" ed il suo Progetto per il parco fluviale sorgente del Tamarguillo. In altri casi, i movimenti cittadini possono essere interessati ad una tipologia generica di spazio pubblico, come la "Plataforama ciudadana por los parques y jardines de Sevilla" o a temi più generali, come nel caso di vari collettivi ambientalisti, universitari, eccetera. 11 Cfr. MARIA SOLEDAD PASCUAL et al., 1997.
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Ognuno dei due casi risulta inoltre rappresentativo rispetto ad un certo modello di città e di spazio aperto: il parco storico della città consolidata, il grande parco delle nuove espansioni urbane. L´Alameda de Hércules Per diverse ragioni forse possiamo considerare l´Alameda de Hércules, situata al nord del centro storico di Siviglia, come il luogo più fortemente caratterizzato di tutta una area metropolitana: per le sue dimensioni, dato che con i suoi quasi trentamila metriquadrati si configura come il più grande spazio aperto intramuri; per il suo valore come elemento strutturante della parte nord della città storica e come ambito di raccordo con la periferia; per la diversità della sua gamma di utenti e la sua multifunzionalità rispetto a diverse scale geografiche; per il suo valore simbolico e culturale; per la particolarità della sua tipologia spaziale, pioniera nella città del secolo XVI, poi riprodotta nelle diverse varianti del viale alberato o del salone che si imposero in Europa e Sud America nei secoli XVIII e XIX 12.
Figura 4. Planimetria ed analisi morfologica e delle relazioni spaziali , visive e d’uso dell´Alameda de Hércules.
L’Alameda ha una lunga storia, che si potrebbe riassumere segnalando la sua progressiva perdita di importanza territoriale e soprattutto sociale nel quadro delle trasformazioni urbane: dal periodo di massima fortuna dei secoli XVIII e XIX come passeggiata urbana, frequentato da tutte le classi sociali (figura 5), fino agli ultimi decenni, quando è diventata un luogo abbandonato alla delinquenza, confinato nella marginalità 13.
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Cfr. ZOIDO F., 2000; ÁLVAREZ, L., et al., 1982. Questo processo si rifletta negli obiettivi dei progetti che si sono succeduti nel tempo, da quelli della prima urbanizzazione (Conto di Barajas, 1574) o di riforma e consolidamento della trama urbana (Larrumbe, 1764; Arjona,1827; Balbino Marrón, 1856; Eduardo García Pérez, 1868), fino ad altri sviluppati durante il secolo XX, finalizzati alla conversione del luogo in ambito accessibile ai veicoli motorizzati (Piano di Rinnovamento Urbano, 1977). Orientamento d’uso che cambia ancora, dopo gli anni Ottanta, con i progetti mirati al recupero del carattere pedonale e sociale del luogo (Piano del Settore Alameda-Feria, 1980; Progetto Urban San Luis-Alameda de Hércules, 1995). 13
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Questo processo va letto nel contesto di un più ampio processo di degrado della città storica, legato alla concentrazione di popolazione meno abbiente, ex-rurale e neourbanizzata, in abitazioni modeste, alla trasformazione del ruolo sociale del luogo, alla diffusione di pratiche illegali, come la prostituzione, alla mancanza di attenzione da parte dell’amministrazione, alla maggiore attrattività esercitata da spazi verdi di nuova creazione fuori del centro storico, come il Salone di Cristina14. Dinamiche che si inseriscono nel quadro generale delle trasformazioni del modello urbano di Siviglia, dove a partire dal secolo XIX, si è accentuata la tradizionale dicotomia fra il nord, povero, ed il sud della città, aristocratico e borghese. E’ dunque durante la seconda metà del secolo XX che l´Alameda de Hércules raggiunse il maggiore livello di degrado, dovuto alla bassa densità residenziale e di attività commerciali che caratterizzava il contesto urbano, alla presenza di una popolazione anziana e più debole dal punto di vista sociale ed economico, dalla proliferazione di attività illegali. Solo nell´ultimo decennio, grazie ad un illuminato cambio di orientamento delle politiche urbane, l´Alameda è stata inserita in un processo di rinnovamento destinato alla sua rivalutazione come spazio sociale. L’Alameda oggi ha riacquistato così una sua centralità. Un articolato programma di riqualificazione urbana ha favorito l’apertura di nuove attività commerciali, locali pubblici e negozi nel quartiere e tutt’intorno al parco: operazione che ha permesso di riconfigurarla come ambito ideale per lo svolgimento di varie attività di fruizione e di rivitalizzare un’ampia porzione di città antica, anche facendo leva sull´importanza storica e sul valore simbolico dell´Alameda nell´immaginario collettivo locale. Per valutare il bacino di utenza attuale dell´Alameda occorre prendere in considerazione proprio quest’ultimo aspetto del suo valore simbolico, riconosciuto ben oltre la scala locale. Accanto ad un uso quotidiano, che riguarda i residenti del quartiere, esiste un uso a carattere periodico settimanale, legato alla capacità attrattiva dell’Alameda come luogo di svago, feste e manifestazioni, per coloro che arrivano a Siviglia nei fine settimana da tutta l´area metropolitana. Una interessante notazione riguarda la distribuzione differenziata dell’utenza tipo: i residenti e i più anziani si concentrano nella zona nord; i giovani stazionano intorno ai caffè ed ai locali di svago distribuiti nel lato orientale e in parte di quello occidentale; le manifestazioni programmate ed i comizi pubblici si svolgono intorno al centro civico; le manifestazioni e le attività di fruizione di tipo occasionale (feste, concerti, cinema all´aperto) vengono organizzate nella parte nord; alcune feste comunali come le Feste di Pasqua, sono organizzate a sud.
Figura 5. Due immagini dell´Alameda de Hércules a confronto: una vista dei primi del secolo XX ed una del 2003. Da passeggiata a parcheggio abusivo.
L’acquisizione di una nuova centralità da parte di questo luogo non ha però eliminato alcune problematiche di fondo. Intanto, c’è la questione della mancata attuazione di un progetto di 14
J. LEON, 2000; P. A. CANTERO et al., 1999; L. ÁLVAREZ et al., 1982.
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restauro avviato nel 2002, e dell´approvazione, nel settembre 2004, di un nuovo progetto, diverso da quello precedente. Poi, c’è il tema di una gestione inadeguata, sia dal punto di vista delle attività di manutenzione, che di regolamentazione degli usi: l´alberatura è malata, sono abituali (e non perseguiti) atti vandalici sull´arredo, non sono stati sviluppati criteri di riqualificazione in chiave paesaggistica, e così via. Tra i vari problemi, due sembrano essere comunque particolarmente pressanti: l´invasione delle automobili, che nella prima metà del 2003 finì per trasformare il viale centrale in un enorme parcheggio abusivo, ed il rischio della perdita della identità storica del quartiere, dovuta alle operazioni di “ringiovanimento” attuate in base ad una forte pressione immobiliare speculativa. Rispetto alle sue potenzialità, occorre considerare il ruolo dell’Alameda come spazio fisico urbano e quello di luogo cittadino dove canalizzare e sviluppare diverse strategie di partecipazione sociale. Dal punto di vista fisico-geografico, la sua speciale localizzazione determina due opportunità: la vicinanza all´asse della darsena del Guadalquivir rende possibile la sua connessione con l’area naturale più importante della città ed il futuribile macrosistema degli spazi aperti metropolitani e comunali; la prossimità al centro storico, invece, anche grazie alla sua particolare morfologia lineare, rende disponibile l’Alameda come elemento di raccordo preferenziale tra la scala del macrosistema e quella del sistema sottomunicipale di spazi aperti storici. Il Parco di Miraflores Situato a nord del Comune di Siviglia, questo parco, con una superficie di circa novanta ettari, costituisce uno dei più grandi spazi aperti dell’area metropolitana. Le sue potenzialità e criticità si relazionano strettamente con tre temi relativi alla sua specifica localizzazione territoriale.
Figura 6. Planimetria ed analisi morfologica e delle relazioni spaziali, visive e d’uso del Parco di Miraflores.
Il primo: il parco è solcato dalla circonvallazione SE-30, che lo divide a metà lasciando a nord il nucleo originario e a sud la porzione creata in una seconda fase. Le due parti sono collegate soltanto da una passerella pedonale. Tra le due porzioni di parco esiste una chiara differenza di qualità formale, di distribuzione delle funzioni, e di intensità di fruizione che risulta più accentuata nella parte sud.
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Il secondo tema caratterizzante: la prossimità del canale del Tamarguillo, un ruscello che storicamente ha condizionato l’uso del suolo dell’area e la sua immagine paesaggistica, qualificandola sia positivamente, per l’utilizzo come area ricreativa e zona agricola, sia negativamente, come zona soggetta ad inondazioni. Attualmente questo corridoio naturale è molto degradato, ma costituisce una risorsa potenziale per il collegamento dei grandi spazi aperti del nord della città. Infine, va considerato il contesto in cui è collocato il parco, che è di tipo residenziale ad ovest, industriale a sud-est. La popolazione residente è il risultato dei processi di terziarizzazione del centro storico e del fenomeno di emigrazione dall’area rurale, soprattutto dalle province di Huelva e Siviglia: la dimensione abitativa è quella tipica dei quartieri popolari costruiti negli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Inserito all’interno di un denso tessuto urbano, il parco presenta forte relazione spaziale e simbolica con il territorio periurbano. Fino agli anni Sessanta, il distretto della Macarena era andato caratterizzandosi per il suo uso agricolo, con la diffusione di orti di piccola o media dimensione, che storicamente avevano condizionato la struttura insediativa ed il regime di proprietà dei terreni del nord della città 15. Questi caratteri originali hanno determinato la formazione di un paesaggio periurbano singolare, segnato anche dalla presenza di diversi elementi di valore storico-culturale, soprattutto rovine di insediamenti romani o islamici, e da orti, mulini ad acqua, vasche, ponti.
Figura 7. Festa di San Giovanni nel Parco di Miraflores
Lo speciale valore aggiunto che possiamo riconoscere al parco deriva dal suo speciale processo di creazione: il parco di Miraflores è infatti il “prodotto” di un movimento di quartiere, che, durante gli anni Sessanta, lottò per la sua realizzazione come elemento di qualificazione di un settore della città caratterizzato dalla presenza di un verde pubblico privo di valore estetico e figurativo. L’attività di questo movimento, e con particolare riferimento al Comité Pro-Parque Cultural de Miraflores, fu fondamentale per l´inserimento del parco nel Piano Regolatore di 1987. L’origine "dalla base" permette di comprendere l’ambivalenza di questo speciale spazio aperto, che da una parte presenta le caratteristiche del grande parco urbano pianificato come infrastruttura di servizio a tutta l’area comunale, dall’altra ha prevalente valore riconosciuto come luogo di socialità ed uso alla scala puntuale del quartiere.
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Dopo gli anni Sessanta, l´impronta territoriale degli orti si continua a leggere nella distribuzione spaziale degli isolati ed anche nei loro toponimi.
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Una attenzione speciale è stata posta fin dall’inizio sui temi della partecipazione diretta e della conservazione e valorizzazione, da parte degli abitanti, tanto del patrimonio storico architettonico esistente (e questo anche grazie al riconoscimento della zona archeologica, che include il resto di un insediamento romano, la Cascina di Miraflores, i pozzi-mulini d´acqua, un antico acquedotto, ed il ponte, come Bene d´Interesse Culturale) quanto delle risorse paesaggistiche e culturali (recupero del paesaggio orticolo, riqualificazione di un tratto del ruscello Tagarete, creazione di orti sociali, costituzione di itinerari didattici, attivazione di laboratori culturali e formativi). Esiste poi un ampio programma di attività di fruizione legato anche all’esistenza di diverse strutture sportive. Tutte queste caratteristiche favoriscono la presenza di una articolata varietà di classi di utenti, attratti dalle varie modalità di fruizione e dall’ampia gamma di servizi e di attività di gestione. Ciò ha influito sulla nascita di altre attività commerciali, ricreative, di uso sociale dello spazio, eccetera, sia all’interno del parco che nel suo immediato intorno. Insomma, il parco è diventato un vero e proprio collettore di relazioni sociali, individuali e di gruppo, ed esercita la sua forza attrattiva anche rispetto ai quartieri vicini. Nonostante questo successo, l’alto livello di riconoscimento locale e di uso da parte degli abitanti, negli anni non sono mancati purtroppo atti di vandalismo sugli arredi ed il sistema delle risorse architettoniche ed archeologiche. La portata di alcuni degli episodi vandalici registrati è stata tale, da far aprire un dibattito sulla necessità di applicare forme di controllo e di vigilanza sul territorio del parco. Tuttavia non si è giunti ancora all’introduzione di una regolamentazione degli usi, neanche nelle zone caratterizzate dalla presenza delle più fragili risorse storico-architettoniche ed archeologiche.
RIFERIMENTI ICONOGRAFICI
Figura 1, 2, 3, 4, 6: Elaborazioni di Antonio García. Figura 5b e 7: fotografia di Antonio García. Figura 5a: Archivio Storico della città di Siviglia.
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Testo acquisito dalla redazione della rivista nel mese di agosto 2005. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768 Università degli Studi di Firenze
Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/ Firenze University Press anno 3 – numero 4 – luglio - dicembre 2005 sezione: Saggi pagg. 20 - 31
LE CASCINE DI FIRENZE: DALL’ISOLA ALLA TRAMVIA Leonella Pecchioli*, Silvia Schiff**
Summary When Alessandro de’ Medici, Duke of the Florentine Republic, he recognized the possibility of creating a Royal Estate destined for his own use and enjoyment for agriculture and hunting, and ordered purchase of this vast area on the right bank of the Arno River. The area was outside the city walls, isolated by a dense network of canals, streams and ponds, and characterized by thick, spontaneous, riparian woodlands. Thus, in 1531 the first nucleus of the “Tenuta dell’isola” (Island Estate) was born. Today, it is the largest public park in Florence, with a total of 122 Ha, including the various sports instalments, roads, avenues and squares which alternate with large woodland areas. In 1985 an inventory was taken of the entire arboreal and shrubby vegetation of the park from a pathological, forestry and botanical point of view, following an agreement between the Municipality of Florence and the University of Florence. Based on the material and information gathered from the study, it is possible to outline a rather broad picture of the vegetative situation which can then be used to predict evolutionary trends. Key-words Cascine di Firenze, public park, vegetation survey.
Abstract Alessandro de’ Medici intravvede in una vasta area sulla riva destra dell’Arno, fuori dalle mura cittadine e isolata da una fitta rete di canali, ruscelli e laghetti, la possibilità di realizzare una Reale Tenuta agricola e Riserva di caccia a proprio esclusivo uso e beneficio e ne ordina l’acquisto. Nasce così, nel 1531, il primo nucleo della “Tenuta dell’isola. Oggi quello delle Cascine è il parco pubblico più grande di Firenze, con i suoi centoventidue ettari comprensivi di impianti sportivi, percorso da strade, viali e piazze alternati a vaste superfici a bosco. Risale al 1985 l’inventario della vegetazione arborea ed arbustiva dal punto di vista patologico, selvicolturale e botanico di tutto il Parco, redatto in seguito ad una convenzione tra il Comune di Firenze e l’Università degli Studi di Firenze. Sulla base del materiale e delle informazioni raccolte, è possibile delineare un quadro piuttosto ampio della situazione in cui versa la vegetazione, per tentare di prevedere le tendenze evolutive. Parole chiave Cascine di Firenze, Parco pubblico, rilievo vegetazionale. .
* Dottore Forestale ** Dipartimento di Biologia Vegetale, Università degli Studi di Firenze
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CENNI STORICI Il quadro storico politico che vuole la nomina di Alessandro de Medici come Duca della Repubblica fiorentina, vede la città capitolare all’eterno conflitto Francia-papato-impero il 12 agosto 1530. E’ la fine di quel regime repubblicano che anche aveva visto proclamare Cristo come re della città di Firenze, è la fine di quella garanzia democratica rappresentata dal Consiglio Grande fondato sulla partecipazione popolare ed è la fine di quel sentimento di avversione contro i Medici e quanto si fossero dimostrati loro partigiani, violentemente sfociata in una ondata di vandalismi contro tutti i loro beni. L’accordo tra l’Imperatore Carlo V e il Papa Clemente VII era basato sull’assicurazione della continuità della politica estera della città con una nuova instaurazione dei Medici come governanti ereditari, ma solo una profonda conoscenza della complessa situazione politica cittadina, convinse Clemente VII prima ad introdurre timidamente la figura di Alessandro a presiedere gli organi di governo e solo poi a metterlo a capo dei Quattro Consiglieri col titolo di Duca della Repubblica fiorentina. Il Principato della dinastia dei Medici era così assicurato ed avviato. Hale (1980) descrive il giovane Duca come un abile politico, amante dell’incognito, dotato di forte sensualità, tanto che il tranello in cui trovò la morte era stato abilmente intrecciato intorno ad un clandestino incontro con una donna, ma gli riconosce anche un’indole generosa, sinceramente incline ad ascoltare le miserie contadine. Hale sottolinea anche che queste peculiarità caratteriali sono dovute, secondo i suoi biografi, all’origine plebea da parte di madre: una giovane domestica di casa Medici a Roma. L’attenzione del primo Duca Medici verso quell’area naturale sulla destra dell’Arno a nord ovest della città, forse è dovuta alla volontà di aumentare il prestigio della famiglia anche potenziando la proprietà terriera; Alessandro decide infatti l’acquisto di alcuni di quei terreni fondando così il primo nucleo di quella che diventerà una Reale Tenuta Agricola e Riserva di Caccia conosciuta in seguito come le Cascine dell’Isola con chiara allusione alla sua posizione idrogeologica di isola circondata dall’acqua dei tanti rami secondari in cui in quella zona paludosa si divideva l’Arno. Consolida il concetto di isola anche la stessa costruzione della Fortezza di San Giovanni (oggi da Basso) voluta nel 1534 da Alessandro perché simboleggiasse, così come per Napoli, Milano e Ferrara, il potere politico della famiglia regnante ma anche perché molto più semplicemente, ma realisticamente, difendesse la stessa da un eventuale attacco interno alla città. Per quella costruzione viene dirottato il normale corso del Mugnone fino al suo congiungimento col Terzolle. Se giovane era Alessandro ancora più giovane, appena diciottenne, è il suo successore Cosimo I quando viene nominato capo e primario del governo della città e del dominio. Lusingato ma non illuso della sua relazione di privilegio nei rapporti con l’Imperatore, egli sa condurre una intelligente ed abile politica strategica non solo di espansione territoriale ma anche e soprattutto di migliorie grazie a grandi opere di sistemazioni idrauliche e di bonifica fino a ricevere da Filippo II, a sua volta succeduto a Carlo V, il titolo di Granduca della Toscana. Tra queste opere quella che interessa la neonata tenuta è la realizzazione nel 1563 del Fosso Macinante progettato per regimare la raccolta delle acque pluviali che veniva a delimitare, insieme ad una opportuna deviazione del Mugnone, la superficie della Tenuta. Rinaldi (1995) nota come solo intorno alla fine del ‘500 il termine Cascine dell’Isola compare ufficialmente nei documenti degli Ufficiali dei Fiumi e viene disegnata la mappa di tale area dove possono essere distinte tre zone diverse: una ad ovest ancora non sottoposta al controllo dell’uomo dove prevale il dissesto idrogeologico, uno ad est invece ricoperta da un rimboschimento di origine artificiale polispecifico ed infine una parte centrale a vocazione agricola sottolineata dalla presenza di un edificio rurale davanti al quale si aprono vaste aree prative attraversate da una geometrica viabilità interna. La tenuta era già attraversata nel senso della sua maggiore lunghezza da un viale centrale. In questa rappresentazione rimane esclusa la parte a nord del viale, ma sembra tuttavia facilmente intuibile continuare la descrizione riportando il prolungamento della viabilità regolare fino agli insediamenti urbani poderali disposti lungo il Fosso macinante. Grazie a questi documenti si ha dunque della
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tenuta un esempio di impostazione di una azienda agraria con anche vaste zone umide a vocazione faunistica venatoria. Intanto alla figura positivamente dominante di Cosimo I si affianca quella della moglie Eleonora di Toledo scelta, come per il precedente tra Alessandro e Margherita, dall’imperatore Carlo V in persona in quanto figlia del suo viceré di Napoli Don Pedro di Toledo. A questa figura femminile si deve l’acquisto nel 1549 di Palazzo Pitti e di un primo lotto di terreni retrostanti a questo e ai quali presto si aggiunsero altri sulla collina di Boboli. Contrariamente alla Tenuta dell’Isola che nasce quasi spontaneamente senza progettazione alcuna e nel corso dei tempi si modifica fino a prendere la forma di una azienda agraria a funzione puramente utilitaristica, il giardino di Boboli così come per altre Ville medicee, nasce da una volontà determinata e precisa progettazione di un giardino di corte, di rappresentanza ad uso esclusivo di poche persone per il piacere di un ritorno alla vita in campagna lontano, per quell’epoca, dalle mura del Palazzo Ducale, giardino dove sfogare i propri interessi naturalistici per la botanica, la coltura e la collezione di piante rare, fruttiferi e ornamentali appositamente fatte anche pervenire da paesi lontani. Per soddisfare queste precise esigenze di interesse scientifico e del piacere del bello vengono chiamati i migliori architetti del momento, e quindi i grandi nomi del Rinascimento, quali Tribolo al quale segue Ammannati e a questo Buontalenti. Il compito dell’architetto ingegnere in questo caso è quello quindi di creare, di plasmare, di tradurre in forma reale, tramite un progetto ben preciso i principali temi artistici del momento. Ecco allora qui realizzato il pensiero razionale-umanistico dell’epoca che afferma l’uomo dominatore della natura attraverso una realizzazione geometrica sia nella planimetria che nei volumi. Il giardino viene pensato, edificato e gestito secondo gli stessi canoni architettonici della casa essendone il prolungamento all’aperto, il tramite tra architettura e natura mediando gli effetti dell’una sull’altra. Così come il giardino di Boboli nasce per il piacere esclusivo di Cosimo I e della sua corte, la Villa di Pratolino con il suo vasto parco nasce per soddisfare le profonde passioni espresse dalla personalità crepuscolare e bizzarra di Francesco I, suo figlio maggiore e per il quale abdicò nel 1564. Infatti nella progettazione del giardino come delle costruzioni murarie e arredi architettonici affidati a Buontalenti nel corso di almeno quindici anni di lavori, viene realizzato quello che per l’Europa divenne una meraviglia dell’arte del giardino presa come esempio di imitazione ed espressione del Manierismo. Su impianto rinascimentale nel folto della vegetazione si alternavano statue, laghi, cascate, vasche e grotte che ospitavano automi ed altre macchine straordinarie azionate idraulicamente (Ferrara e Campioni, 1985). Grossoni (1999) nota come proprio gli artifici ottenuti mediante l’impiego di complessi meccanismi idraulici siano quelli che generavano nei visitatori stupore ed entusiasmo ma anche turbamento. Eloquente è Heikamp (1993) quando rileva come Montaigne scrivesse “Sembra che abbia scelto di proposito un luogo senza risorse, sterile e montuoso, assolutamente privo di sorgenti, per farsi un vanto di andarle a cercare sino a cinque miglia distanti…” ed ancora, che un inglese ritenesse che l’acqua in questo luogo dovesse essere più costosa del vino. Delle ville medicee e dei loro giardini vi sono molte rappresentazioni iconografiche tra le quali quelle di Giusto Utens, ma della Tenuta dell’Isola no e sempre perché pur offrendo reali servigi di approvvigionamento in preziose derrate alimentari tanto gradite a corte, pur comprendendo boschi e vaste zone a prato, non era certo intesa come un giardino pensato, voluto e realizzato da una équipe di professionisti, artisti e artigiani su richiesta di una precisa figura e volontà regnante. Per la Tenuta le opere di ingegneria idraulica riguardano la sistemazione degli argini dell’Arno. In questo caso è lo stesso architetto granducale Buontalenti che si fa carico del progetto dell’arginatura del fiume, anche se la realizzazione verrà compiuta solo dopo la sua morte. Solo grazie a quest’opera si stabiliscono quelle condizioni di sicurezza ed equilibrio idrogeologico di tutta la superficie (Conti e Scanzani 1991). Intanto per assenza di eredi maschi, a Francesco I succede il tanto avversato fratello Ferdinando che impegnato come Cardinale a Roma, lascia la Chiesa per assumere la
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reggenza dello Stato nel 1587. Nonostante venga descritto come amante di piaceri e cerimonie, estroverso ed astuto, Ferdinando riesce a ricreare il vigore del regno di Cosimo I (Hale 1980). Il suo interesse per la gestione del sistema delle ville medicee è rivolto oltre che a Boboli, alle costruzioni dell’Ambrogiana e Artimino. Dal suo matrimonio con Cristina di Lorena, nasce Cosimo II per il quale egli combina il matrimonio con l’arciduchessa Maria Maddalena d’Austria. Nominato Granduca nel 1609, la sua vita politica è compromessa dalla malaria, ma anche dall’interferenza della madre e della moglie alle quali non seppe mai opporsi. Il suo contributo alla Tenuta dell’Isola viene trovato nel documento delle “spese straordinarie” riportate nei Campioni dei Beni di Cosimo II, 1610-1615 e dimostra come ormai gli interventi fossero di ordinaria amministrazione e limitati al solo mantenimento di quella struttura già affermata e produttiva e visibile nella pianta dei Capitani di Parte, XIII, 17 del 1662 come una superficie attraversata da uno stradone centrale e dal quale si dipartono ortogonalmente le strade secondarie di servizio a nord verso la parte poderale a coltivi e a sud verso la zona silvo-pastorale. Sono distinguibili il Prato della Tinaia, delle Cornacchie e quello del Quercione. E’ da notare che in questa Tenuta sono presenti delle Ragnaie, ossia dense strutture vegetali a forma allungata rettangolare o circolare destinata alla caccia degli uccelli tramite reti dette, appunto, ragne. Baricentro della tenuta è la fattoria e i suoi annessi affacciati su una piazza rettangolare che raggiunge il fiume tramite un viale di cipressi (Rinaldi 1995). Merita attenzione il contributo sempre dato da Cosimo II o meglio, dall’architetto da lui preferito, Giulio Parigi. Infatti la sua opera è caratterizzata dalla concezione urbana sviluppata per assi che partendo dalle porte della città si inoltra nella campagna attigua e che è ritrovabile nella Tenuta dell’Isola nel Viottolone dei Pini. I contatti tra gli ultimi medici e la Tenuta dell’Isola non sono degni di nota non per una perdita di valore o di interesse di questa, ma per la mediocrità degli ultimi Granduchi. A proposito infatti di Gian Gastone, sintomatico è quanto riportato da Conti e Scanzani (1991) su un suo appunto fatto dalla fredda Boemia dove si trovava con la terribile moglie a proposito di alcune passeggiate in slitta “come sarà venuta ancora un palmo di neve, si darà principio a questo fastidiosissimo passatempo che io giudico minore assai dell’andare a primavera in calesse alle Cascine”. E’ appena cambiato il secolo, cambia una dinastia, cambiano i reggenti e cambia e matura lentamente la Tenuta che si trasforma in Parco a funzione pubblica grazie alla sua favorita posizione periurbana. E’ alla reggenza Lorenese che si deve riconoscere ed attribuire l’intuito nel vedere in quella grande superficie alle porte della città la potenzialità per la trasformazione lenta ma inesorabile in un parco da dedicare al piacere del “pubblico passeggio”. Infatti la trasformazione nel carattere e soprattutto nella destinazione d’uso avviene ad opera di Pietro Leopoldo d’Asburgo di Lorena (1747-1792), saggio amministratore che vede nella ormai trascurata e sfruttata tenuta granducale la possibilità di realizzare una fattoria modello basata su una salda politica agricola da destinare, solo però in opportune occasioni, anche al “pubblico passeggio”. Conti (1992) sa raccontare come l’impatto che il granduca ebbe con la Tenuta fu quando durante una sua passeggiata in carrozza lungo lo stradone dei Pini che dalla Porticciola del Prato introduceva alle Cascine, fu colpito in testa da una pigna e la cronaca dell’epoca riporta come immediatamente egli pretese che quegli alberi fossero sostituiti con dei, molto più innocui, gelsi e che quindi ciò comportasse di fatto anche la trasformazione del nome da Viale dei Pini a Viale dei Gelsi. Dato lo stato di totale decadimento e constatato che non era più possibile limitarsi ad un intervento di restauro, per la Fattoria, corpo centrale del sistema edificato della Tenuta, fu decisa la demolizione e conseguente progettazione e ricostruzione. Qui il merito del Granduca è quello di aver formato un altro di quei binomi vincenti nell’arte della riorganizzazione urbana e interpretazione del paesaggio affidandosi alla capacità e professionalità di Giuseppe Manetti un giovane architetto che viveva alla sua corte e che egli stesso aveva mantenuto agli studi a Roma. In realtà il facile entusiasmo e l’irrefrenabile intento di voler subito realizzare grandi e sfarzose opere secondo uno spirito palladiano, provocarono presto profonde divergenze fra il giovane architetto ed il più realista Granduca. A Manetti si deve la progettazione definitiva
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della residenza granducale in stile neoclassico finemente adornata e affrescata con ai lati le stalle con fienile sovrastante per la quale i lavori iniziarono nel 1786. Manetti interpreta poi la disposizione dello spazio aperto del Parterre davanti al Casino ricorrendo ad un impianto geometrico regolare che ben si addice, contrapponendosi, all’armonia delle forme naturali delle adiacenti zone boscate. Occasione della pubblica presentazione sarà la festa organizzata per l’incoronazione di Ferdinando III di Lorena nel luglio del 1791, festa che segnerà la nuova funzione della Tenuta chiamata a soddisfare il ruolo di parco pubblico per eccellenza. Dietro al reale Casino la stessa attenzione di neointerpretazione adattativa viene poi rivolta al complesso delle case rurali tra i poderi e i frutteti che vengono riammodernate per il benessere delle persone che le abitano, bovini compresi sistemati ai piani inferiori. Altri arredi disegnati e realizzati da Manetti secondo il particolare stile architettonico del periodo, furono le Pavoniere, un complesso che comprendeva anche tempietti destinati prima a uccelliere poi, secondo lo spirito crescente in estrosità, a fagianiere e quindi a pavoniere. Nelle vicinanze si trova anche la piramide che rappresentava un elemento architettonico inteso nella moda delle finte archeologie egiziane, ma che aveva anche una sua precisa funzionalità pratica essendo la conversione di una ghiacciaia. Sempre in stile neoclassico è il tempietto adornato da grandi maschere in pietra che rappresentavano, in realtà, le bocche di uscita per l’acqua visto che il suo uso era quello di servire come abbeveratoi per il bestiame al pascolo nel Prato del Quercione. Lungo tutto il parco furono inoltre realizzati e sistemati fontane, panchine, lampioni e statue in pietra allo scopo di abbellire ed adornare le aree destinate ad accogliere la popolazione, oltre che la corte, nei giorni di parate e di festa. Pregevole è che così come profonda attenzione è rivolta alla ristrutturazione delle fabbriche medicee, in non minor considerazione sono tenute le superfici boschive e prative responsabili del carattere aperto ed agreste del parco. Ecco che compaiono le prime indicazioni per la gestione delle zone forestali con tagli e diradamenti appositamente studiati sia per il piano arboreo che per quello arbustivo a macchia da realizzare con turni di nove anni e a zone alterne approfittando anche della disposizione regolare a particelle delimitate dalla viabilità interna. Lodevole è la modernità della proposta che pur rispettando la funzione pubblica ricreativa permette una rinnovazione naturale del soprassuolo vegetazionale. Per i prati, di basilare importanza per il foraggiamento del bestiame, vengono considerate e adottate opportune tecniche agronomiche quali canalizzazioni irrigue e lavorazioni del terreno. La funzione pubblica delle Cascine viene ulteriormente marcata durante il governo napoleonico delle due sorelle Paolina prima ed Elisa poi. Entrambe amano veramente il parco e insistono e proseguono nella realizzazione di migliorie con nuovi impianti arborei e ornamenti decorativi in pietra e terracotta di gran moda nei giardini di allora. A loro, per il parco, seguì un periodo di declino e di abbandono fino ad arrivare ad una sua chiusura per motivi di sicurezza nel 1840 con gli ultimi Lorena al governo. Lo stesso Casino mediceo e con esso tutto il parco romantico delle Cascine riacquista vitalità in occasione delle feste e celebrazioni quando, in seguito all’Unità d’Italia, Firenze diventa capitale d’Italia (18651870). E’ della fine degli anni sessanta l’acquisizione da parte del Comune di Firenze di un notevole patrimonio di verde pubblico tra cui il Parco delle Cascine occupa una notevole superficie. Sotto la direzione comunale condotta da notevoli figure quali i due tecnici Attilio e Angiolo Pucci voluti dall’architetto ingegnere Giuseppe Poggi che ricevette l’incarico di studiare il nuovo assetto urbano della città entro il quale le Cascine avrebbero svolto un ruolo determinante di ponte di collegamento entro il sistema a verde urbano, viene ulteriormente incrementata la funzione pubblica ricreativa rispetto a quella più tradizionale, ma ormai superata, produttiva. Gli interventi più radicali degli ultimi anni dell’ottocento e nel corso del primo novecento, riguardano la cessione della parte a nord del viale centrale a società private per l’insediamento di diversi impianti sportivi, mentre la parte a sud mantiene ancora quella sua vocazione storica di zona prativa e boschiva nella quale e grazie alla quale viene espresso la sua componente e forte potenzialità paesaggistica.
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Secondo il piano di ampliamento urbano previsto da Poggi, ma da lui non completato, il Parco delle Cascine avrebbe dovuto rappresentare il collegamento naturale verso la collina di Bellosguardo, Porta Romana fino ad arrivare al prolungamento del Viale dei Colli. In particolare per questo più recente periodo la letteratura è molto più abbondante e meglio definita e dettagliata per cui si rimanda la lettura ad esempio a Conti e Scanzani, 1991; Bencivenni e De Vico Fallani, 1998; Fanelli, 2002 e Rinaldi, 1995.
LA VEGETAZIONE ARBOREA NEL PARCO DELLE CASCINE (1985-2004) La storia del parco è sempre andata di pari passo con le vicende di Firenze, dai tempi dei Medici fino ai nostri giorni. Questo è uno degli aspetti peculiari che, insieme alla presenza nel parco di molti manufatti e di architetture ottocentesche, contribuirebbe ad alimentare il prestigio di cui potrebbe godere il parco, se non versasse in pessime condizioni di degrado.
Figura 1. Mappa del Parco delle Cascine. Sono evidenti i settori formatisi dall'incrocio di viali e vialetti.
Gli alberi sono la ragion d’essere del parco che viene studiato in termini biologici come un insieme di popolazioni vegetali, analizzandone sia i caratteri statici come la densità e la struttura per età, sia quelli dinamici che informano sulle trasformazioni in atto come la natalità e la mortalità. La vegetazione arborea in questa area può essere distinta in due tipi: quello orientale, con struttura verticale coetaneiforme e costituito da specie a temperamento tendenzialmente più termofilo, come il leccio (Quercus ilex L.), e quello occidentale, con struttura disetaneiforme e caratterizzato da una maggiore varietà di specie, tra le quali alcune, come la farnia (Quercus robur L.) e il frassino ossifillo (Fraxinus angustifolia Vahl), sono tipiche dell’antica foresta planiziaria che trovava, nei terreni fertili alluvionali dei fiumi, l’ambiente ideale per vivere. La differenza sostanziale tra i due tipi è dovuta anche ad una differente modalità di utilizzo. Nel settore orientale, più vicino alla città, l'uso è più intenso (il passaggio delle auto lungo viale degli Olmi, il mercato del martedì che occupa viale Lincoln e viale dei Lecci, il luna park su piazzale delle Cascine), richiedendo interventi, anche per motivi di sicurezza pubblica, continui e ripetuti da parte dell'Amministrazione Comunale che non possono non avere conseguenze pure sugli alberi. Da sempre nel Parco delle Cascine esiste un’alternanza tra zone a prato e aree boschive, presente in entrambe le fasce ai lati del viale degli olmi. Ad una prima e sommaria indagine complessiva si può affermare che nelle zone a bosco, all’interno dei settori formati dall’incrociarsi dei viali e dei
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vialetti caratteristici del parco (Figura 1), predominano il leccio e il bagolaro (Celtis australis L.) che possono assumere anche ragguardevoli dimensioni. Pure la farnia è frequente ma è da sottolineare la presenza di molte ceppaie che testimoniano la riduzione numerica complessiva della specie nel parco rispetto al passato. Si incontrano anche specie esotiche apprezzate come piante ornamentali tra le quali Ginkgo biloba L., il noce nero (Juglans nigra L.) e la quercia rossa (Quercus rubra L.) sono le più numerose. Tra le gimnosperme sono da ricordare, a parte il ginkgo già citato, il pino domestico (Pinus pinea L.), i cedri (Cedrus Trew) e il tasso (Taxus baccata L.). I filari lungo i viali sono per lo più costituiti da bagolari, tigli (Tilia L.), platano (Platanus x acerifolia (A.t. Willd.)), olmi (Ulmus L.), ippocastani (Aesculus hippocastanum L.). Lungo le sponde dell’Arno, nel primo tratto parallelo al viale dei Lecci, sono stati piantati pioppi bianchi (Populus alba L. var. peroneana), alcuni dei quali sono vecchi e di grosse dimensioni. Nel 2004, per una tesi di laurea in Botanica Forestale presso la Facoltà di Agraria di Firenze, sono stati eseguiti rilievi sulla vegetazione arborea esistente in alcuni settori scelti. I dati ottenuti sono stati confrontati con quelli acquisiti nel corso di una complessa e accurata indagine svolta nel 1985 su tutti gli alberi dell’intero parco, da un gruppo di ricerca della Facoltà di Agraria di Firenze, in seguito alla stipula di una convenzione tra il Comune di Firenze e l’Università. A tale scopo, il rilievo del 2004 è stato eseguito secondo gli stessi metodi e le identiche procedure seguite nel 1985. Fatto salvo il criterio di omogeneità dei dati, si è giudicato di notevole interesse lo studio dell’evoluzione nel tempo dell’area oggetto del lavoro. L’attenzione è stata rivolta non tanto a valutare le condizioni di stabilità degli alberi, quanto piuttosto a considerare l’evoluzione della vegetazione in un periodo di venti anni e le probabili cause che possano avere determinato i cambiamenti intervenuti in questo intervallo di tempo. Certo lo studio riferito al periodo di un solo ventennio può sembrare troppo breve ai fini dell’analisi della tendenza evolutiva della vegetazione. E’ pure vero che in un parco urbano agiscono intensamente alcuni fattori che giungono a provocare effetti più velocemente di quanto non facciano in zone meno perturbate, modificandone le componenti in misura diversa e, nel caso degli interventi da parte dell’uomo, a seconda del momento storico. Una corretta valutazione delle cause dei mutamenti può aiutare a delineare proposte per il recupero e la manutenzione del Parco delle Cascine. La disposizione delle chiome degli alberi è a strati orizzontali, a causa della presenza di specie diverse con differenti caratteristiche e con esigenze nei confronti della luce e modalità di accrescimento dissimili. Per questo si distinguono tre strati: superiore, intermedio, inferiore. Per ogni strato, e pure in totale, si evidenzia la distribuzione in classi di diametro che fornisce un’indicazione immediata sul numero e sulle dimensioni delle piante e che consente di fare pure una valutazione sull’età del soprassuolo. Essendo molto difficile misurare l’età di un albero in piedi, si prende in considerazione il diametro delle piante, anche se non esiste una precisa relazione che leghi età e diametro. Inoltre l’entità di accrescimento delle singole piante può dipendere da molteplici fattori: può facilmente verificarsi che due piante della stessa età abbiano dimensioni completamente diverse. Per ovviare a tutte queste lacune si raccolgono i dati in classi di frequenza e si analizza la distribuzione delle frequenze dei diametri. Poi viene fatto un raffronto tra le curve così ottenute e quelle dei due casi tipici (a campana per il bosco coetaneo, iperboliche per il bosco disetaneo) per avere un orientamento sulla valutazione della struttura per età. In generale, si osserva in tutti i settori una diminuzione nel numero di piante ad ettaro. Questo può essere dovuto al taglio degli alberi più grossi, tra i quali soprattutto farnia e leccio, appartenenti al piano superiore. D'altra parte, anche per motivi di sicurezza dei fruitori del parco, è stato effettuato il taglio del sottobosco in tutti i settori, cosicché pure il piano inferiore ha visto un forte calo per ciò che riguarda il numero di piante. Il piano con maggiore numero di alberi oggi risulta essere sempre quello intermedio. Non esistono, nei settori presi in considerazione per il lavoro del 2004, alberi appartenenti a classe di diametro maggiore di 110 cm. Nel 1985, invece, la situazione era differente. Molto spesso era il piano inferiore ad avere il numero più elevato di individui. Inoltre nel piano superiore si incontravano in misura molto
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maggiore gli alberi che probabilmente erano preesistenti alla creazione del parco, come ad esempio farnia e leccio. Anche per ciò che riguarda l'area basimetrica1 a ettaro, che può essere considerata come indice di densità nei settori, si nota una generale diminuzione. La presenza di farnia è quasi sempre notevolmente diminuita. Le piante di questa specie abbattute appartenevano al piano superiore ed erano tra le più grosse del parco. Sono ancora evidenti sul terreno molte ceppaie di grosso diametro. Poche di queste sembrerebbero vitali perché ancora in grado di emettere polloni. Il leccio risulta in linea generale avere lo stesso grado di partecipazione2 che aveva nel 1985. Per quanto riguarda il bagolaro, si può dire che è l'unica specie tra quelle considerate, a evidenziare un aumento. Inoltre le condizioni sanitarie sono discrete. L'olmo ha visto una lieve maggiorazione del grado di partecipazione nel corso dei passati venti anni in alcuni settori. Esso si trova soprattutto lungo i filari che incorniciano i settori. Non appare in buone condizioni: molte piante sono filate, molte presentano una chioma scadente, con poche foglie e molti rami secchi. Anche i danni arrecati al fusto e al colletto degli individui di questa specie sono numerosi. La robinia (Robinia pseudacacia L.) è una pianta infestante. Nel 1985 si temeva che potesse diffondersi considerevolmente in tutto il parco, insieme ad altre specie come l'ailanto. Oggi si presenta non in ottime condizioni: il numero di individui è diminuito, così come il suo grado di partecipazione nei settori. Il tiglio già nel corso dei rilievi sul campo è risultato essere una delle specie più promettenti per il futuro della componente arborea del Parco delle Cascine. L'elaborazione dei dati raccolti conferma l'impressione avuta in situ. Sono stati piantati diversi alberi appartenenti al genere Tilia, soprattutto nel settore posto in prossimità dell'anfiteatro, dietro la casermetta. Il grado di partecipazione all'interno dei settori è aumentato o è rimasto invariato. Le condizioni delle piante di tiglio sono buone. Inoltre, questo albero ha un elevato valore ornamentale che lo rende pianta adatta nel contesto di un parco come quello delle Cascine.
BREVE ANALISI SULLE CAUSE DEI CAMBIAMENTI DELLA VEGETAZIONE ARBOREA DELLE CASCINE (1985-2004) Come appare evidente, sarebbe impensabile escludere la presenza attiva dell’uomo all’interno delle Cascine, così come di un qualsiasi parco urbano. Essendo molteplici le funzioni svolte dalla vegetazione nel contesto cittadino, un parco, grazie alle caratteristiche che lo rendono prezioso per la vita dei cittadini, è in grado di offrire una serie di servizi per la comunità umana. Questi ultimi richiederebbero un corretto e appropriato uso, anche per garantire il loro mantenimento a favore delle generazioni future. Il Parco delle Cascine da decenni è un luogo socialmente degradato dove annidano malcostume e violenza, sporcizia e sfruttamento. E’ come se il parco avesse due anime. Da una parte le ore diurne consentono ai “fiorentini” di appropriarsi di questi luoghi per passeggiate nel verde con il cane o senza, per allenamenti sportivi in bicicletta, sui pattini, per la corsa o semplicemente per far giocare all’aperto i bambini; d’altra parte, nelle ore notturne tutta l’area è in mano alla delinquenza di ogni genere cosicché, per quanto si legge sui giornali, la fama del parco subisce per estensione un deterioramento continuo. Bisogna rilevare che, proprio grazie al taglio della vegetazione del sottobosco che ha diminuito e neanche di poco la densità della vegetazione in tutti i settori, rendendo possibile la visibilità da un viale all’altro attraverso il bosco, la frequentazione diurna ha visto negli ultimi anni un evidente miglioramento, grazie all’impressione di maggiore sicurezza personale che sempre si ha quando si nota una certa cura e attenzione nella manutenzione del verde. Molto importante ai fini della natalità nel 1
In Dendrometria si indica con il termine di area basimetrica (g) di un albero la superficie corrispondente alla sezione trasversale posta a 1,30 m dalla base della pianta. Noto il numero di piante corrispondente ad ogni classe diametrica, l’area basimetrica (G) di un soprassuolo è: G=n1 p/4 d12+n2 p/4 d22+…+nn p/4 dn2 2 Si definisce grado di partecipazione di una specie all’interno di un settore, il rapporto tra l’area basimetrica della specie e l’area basimetrica totale, relativa a tutte le specie appartenenti allo stesso settore.
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parco è l’introduzione di nuovi individui di diverse specie forestali, tra le quali ricordo ancora quelle appartenenti al genere Tilia e anche Quercus. Nel parco sono evidenti i segni degli interventi dei boscaioli, sono visibili tagli di alberi e frequenti potature (Figura 2).
Figura 2. La gestione degli alberi delle Cascine è difficile e onerosa sotto molti punti di vista.
L’uomo dunque entra nel complesso sistema del parco, essendo al contempo fruitore e curatore. La densità degli alberi è diminuita in tutti i settori, per effetto dei tagli effettuati per motivi di sicurezza e di quelli eseguiti per motivi fitosanitari. Molte piante poi sono state sradicate o spezzate, a causa del vento o di altri eventi meteorici come i fulmini, altre sono letteralmente crollate anche a causa dell’età vetusta o sotto l’azione di fattori che hanno agito contemporaneamente. In particolare, il piano inferiore e quello superiore sono impoveriti. D’altra parte nel piano intermedio esistono molti alberi filati anche in misura notevole, quindi veramente instabili nei confronti degli agenti esterni (Figura 3).
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Figura 3. I boschetti del Parco presentano evidenti segni di sofferenza. Molti alberi sono filati e crescono stentatamente. Tutto è pervaso da un'atmosfera particolare, a volte rasserenante e spaventevole oppure avvicinante e misteriosa, che rende questo parco unico nel suo genere.
Accanto alla componente antropica non sono da sottovalutare le ripercussioni di alcuni fattori ambientali che possono agire sugli alberi del parco definitivamente o anche in maniera violenta. E’ da ricordare a questo proposito il non trascurabile effetto sulla vegetazione determinato dall’abbassamento della falda. La farnia, così come il frassino ossifillo, è una specie della foresta planiziaria e non trova più le condizioni ideali per vivere nel bosco del parco. Molti alberi poi hanno subito sradicamenti e schianti, avendo apparati radicali poco o male sviluppati e con aspetto anche fortemente filato, determinato in considerevole misura dai diradamenti effettuati negli ultimi anni. In tale situazione il vento può causare danni notevolissimi al patrimonio arboreo ma soprattutto anche alle persone. Nell’anno 2003 ci fu un evento assolutamente eccezionale per Firenze: il 17 giugno la zona del parco compresa tra
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il prato del Quercione e l’Indiano fu investita da una vera e propria tempesta, durante la quale il vento arrivò a soffiare a velocità di 100 Km/ora. La violenza del vento, unita alle precarie condizioni di salute degli individui arborei che minano la stabilità degli stessi, hanno sradicato molti alberi, circa un centinaio, tra i quali oltre alle farnie, robinie, pioppi e ippocastani e spezzato rami enormi. Un evento simile si ricorda non soltanto per la sua eccezionalità ma purtroppo anche per il dramma che ha coinvolto una ragazza la quale, cercando riparo dalla tempesta sotto un platano, è stata gravemente ferita dalla caduta di un grosso ramo3. Per quanto finora detto, si può affermare con certezza quanto sono importanti le valutazioni in situ sulle condizioni di salute e di stabilità delle piante. Anche uno studio basato sul confronto tra situazioni riferite a periodi differenti permette di evidenziare tutti i cambiamenti intervenuti nel corso di un intervallo di tempo definito. Sarebbe opportuno potere estendere queste analisi all’intera area del parco, ripetendole poi pure a distanza di tempo regolare. Si arriverebbe ad avere un quadro sempre aggiornato, preciso, ampio ed esaustivo delle problematiche ma anche degli aspetti positivi, in modo da potere intervenire con oculatezza dove occorra. Qualunque intervento si ritenesse necessario, si dovrebbe prima chiarire quale aspetto, nonché quale uso, dovrebbe arrivare ad avere il bosco del parco. Si potrebbe desiderare un parco all’inglese, con prati alberati, con bosco a bassissima densità, che permetterebbe agli alberi di avere tutto lo spazio necessario per accrescersi e svilupparsi. Certo, in questo caso, si richiederebbero interventi tali da stravolgere totalmente l’aspetto storico delle Cascine dei fiorentini che, con dispiacere, perderebbero completamente i bei boschetti del loro parco. Anche se si volesse conservare una densità media del bosco, sarebbero in ogni caso necessarie operazioni di diradamento per sostituire piante malate, vecchie, indesiderate o cresciute stentate. Si potrebbe preferire la proposta di eliminare tutte le piante presenti, per poi ripiantare rispettando sesti di impianto appropriati, con la mira di ottenere una determinata densità arborea prescelta. Oppure si potrebbe intervenire con il taglio delle piante non per settori, ma piuttosto per zone scelte in modo da ridurre il più possibile l’impatto visivo e da evitare al massimo le condizioni di instabilità e di precarietà in cui si troverebbero gli alberi che dovessero rimanere, improvvisamente liberi dopo decenni di crescita stentata sotto copertura. Ricordando l’origine del Parco, ricordando la volontà dei regnanti e l’ingegno degli artefici capaci di quelle realizzazioni che nel corso di tutti questi secoli hanno contribuito alla sua caratterizzazione fisica ma anche un po’ spirituale, ricordando l’intuito di una idea di sistema unico a verde pubblico per Firenze, rimane grande la perplessità davanti all’ultima delle opere che lo interessano come il suo attraversamento da parte di una linea tranviaria e perlopiù nel punto più delicato e strategico che ci possa essere per un qualsiasi parco cittadino ossia quello del suo “invito” ad entrarvi.
RIFERIMENTI ICONOGRAFICI Tutte le immagini sono delle autrici.
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Informazioni che derivano da comunicazioni personali del Prof. Paolo Grossoni.
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CONTI MARCO, La pina di Leopoldo che mutò le sorti delle Cascine, in ASSESSORATO ALL’AMBIENTE DEL COMUNE DI FIRENZE (a cura di), Cascine: un parco per la città, I supp. 10, 1992, pagg. 9-10. FANELLI GIOVANNI, Firenze architettura e città, Mandragora, Firenze 2002. FERRARA GUIDO, CAMPIONI GIULIANA, Il Parco di Pratolino: nascita e rinascita di un capolavoro, in DEZZI BARDESCHI MARCO (a cura di), Il ritorno di Pan, ALINEA, Firenze 1985, pagg. 31-58. GROSSONI PAOLO, Formalismo e naturalità nel Parco di Pratolino, “Rivista di storia dell’agricoltura”, 2, 1999, pagg. 17-39. HALE JOHN RIGBY, Firenze e i Medici. Storia di una città e di una famiglia, Mursia, Milano 1980. DETLEF HEIKAMP , Il gigante verde. Il Parco di Pratolino,”FMR”, 8, 1993, pagg. 79-98. RINALDI ALESSANDRO, La caccia, il frutto, la delizia. Il Parco delle Cascine a Firenze, EDIFIR, Firenze 1995.
Testo acquisito dalla redazione della rivista nel mese di dicembre 2005. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768 Università degli Studi di Firenze
Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/ Firenze University Press anno 3 – numero 4 – luglio - dicembre 2005 sezione: Saggi pagg. 32 - 46
ARTE DEI GIARDINI PER LA QUALITÀ DEI PAESAGGI URBANI ATTRAVERSATI 1 Anna Lambertini *
Summary At present one of the most discussed topics is the relationship between infrastructures for mobility ant the crossed territories and landscapes. Starting from the definition of the concepts of crossing and urbanscape, the article proposes a reading of recent European experiences of construction and/or recovery of empty spaces leaved by active or lost railway or street infrastructures within the town, interpreted like expression of a contemporary garden and urbanscape art.
Key-words Townscape, urbanscape, landscape design, urban garden art, infrastructures.
Abstract Uno dei temi progettuali attualmente più dibattuti riguarda il rapporto tra infrastrutture per la mobilità e paesaggi e territori attraversati. A partire dalla definizione dei concetti di attraversamento e paesaggio urbano, il contributo propone una lettura di esperienze europee recenti di configurazione e/o riqualificazione dei vuoti di infrastrutture ferroviarie o stradali in ambito urbano, attive o dismesse, interpretate come espressione di un’arte contemporanea dei giardini urbani.
Parole chiave Paesaggio urbano, arte dei giardini urbani, attraversamento, infrastrutture.
*Dottore di ricerca in Progettazione paesistica, docente a contratto di Architettura del Paesaggio presso l’Università di Perugia. 1
Questo contributo costituisce parziale rielaborazione del rapporto di ricerca elaborato come borsista CNR del “Programma CNR/Università/Istituzioni scientifiche pubbliche italiane ed Istituzioni di ricerca straniere: mobilità di breve durata (Short-Term Mobility - anno 2005)”. L’autrice, durante il mese di novembre 2005, ha condotto la ricerca sul tema Arte dei giardini per la qualità dei paesaggi urbani “attraversati” presso il Laboratoire Post-Doc “Architecture, Milieux, Paysage”, dell’Ecole Nationale Superieure de Architecture de Paris la Villette. Si ringraziano il CNR, Guido Ferrara (tutor della ricerca), Jean-Pierre Le Dantec (responsabile scientifico del Laboratorio), e Rosa De Marco (ricercatrice presso l’A.M.P), per avere reso possibile, tutti in maniera fondamentale ed ognuno a vario titolo, questo lavoro.
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ATTRAVERSAMENTI E GIARDINI URBANI CONTEMPORANEI
Uno dei temi progettuali attualmente più dibattuti riguarda il rapporto (spaziale, funzionale, figurativo, percettivo, semantico) tra le infrastrutture per la mobilità ed i territori e i paesaggi attraversati. Come sottolineano più autori, se negli anni del fervore costruttivo post-bellico e del boom economico, l’idea di sviluppo delle reti della mobilità stradale e ferroviaria si è basata prevalentemente sul pragmatismo tecnico-economico e su una visione mono-obiettivo di riduzione delle distanze (calcolate sia in termini spaziali che di tempi di percorribilità), oggi è decisamente arrivato il momento di cambiare approccio culturale e operativo. Anche nell’ambito della comunità scientifica italiana sono molte le ricerche, gli studi, le esperienze recenti2 che testimoniano la volontà di contribuire a diffondere un nuovo paradigma culturale che veda nell’inserimento della grande infrastruttura una occasione per creare nuovi paesaggi, piuttosto che un dispositivo destinato a distruggere o alterare malamente quelli esistenti. Il tema dell’infrastruttura per la mobilità interpretata come enzima per la costruzione di nuovi paesaggi di qualità, non riguarda però solo i territori d’area vasta, le grandi opere (autostrade extraurbane, linee per l’alta mobilità e velocità, ponti) e le reti di collegamento a scala nazionale e transnazionale, ma investe chiaramente anche l’ambiente urbano della città consolidata e della città diffusa, la scala del quartiere, la dimensione dell’ordinario. Ed il rapporto tra infrastruttura e contesto non cessa di costituire ambito di riflessione progettuale, una volta che l’infrastruttura perde il suo ruolo funzionale prevalente di nastro trasportatore di flussi di mobilità: a restare attivo, impresso nella forma e nell’organizzazione del tessuto costruito, è il segno dell’attraversamento da parte dello spazio vuoto. Di fatto, i processi di modernizzazione urbana che storicamente si appoggiano sui concetti di canali, flussi, reti e sulla richiesta di una sempre più efficiente e articolata circolazione di mezzi, merci, persone, informazioni, denaro, hanno favorito nella città contemporanea la produzione di una notevole varietà delle tipologie e delle morfologie dell’attraversamento. Soprattutto a partire dalla fine degli anni Ottanta, in Europa, numerosi interventi di riqualificazione di comparti urbani e periurbani sono stati attuati proprio a partire dalla ridefinizione del rapporto infrastruttura/tessuto costruito: con la riconfigurazione dei tracciati in uso come di quelli dismessi, e/o mediante attente scelte progettuali relative all’inserimento di nuovi tracciati o di parti di essi. Così, significativi tratti stradali declassati o disattivati e ampie porzioni di ex sedi e tracciati ferroviari si sono resi disponibili all’interno del tessuto costruito per essere trasformati in parchi, giardini, piazze, passeggiate pedonali, zone ricreative; mentre aree residuali abbandonate o spazi marginali, intrappolati tra svincoli e tangenziali di periferie, attorno a cui è cresciuta la città ed entro cui la natura si è sviluppata spontaneamente, sono venuti a costituire cospicue riserve di biodiversità. Nel primo caso abbiamo a che fare con vuoti da rimodellare, per cui l’attraversamento o va ad acquisire diverso valore grazie ad un ampliamento delle sue forme di uso e fruizione (il viadotto trasformato in supporto per una sequenza di giardini lineari sospesi sulla città o l’area ferroviaria dismessa riconfigurata come area a parco) o viene diversamente declinato grazie all’introduzione di criteri multifunzionali (la strada a scorrimento veloce che diventa passeggiata pedonale o pista ciclabile, o il viale urbano che si fa supporto per il tracciato del tramway e così via). 2
A solo titolo esemplificativo di un ben più ampio panorama scientifico investigativo sul tema della progettazione delle infrastrutture per la mobilità, si citano le seguenti ricerche: (presso l’Università degli Studi di Firenze) EMANUELA MORELLI, Disegnare linee nel paesaggio. Metodologie di progettazione paesistica delle grandi infrastrutture viarie, Tesi di dottorato in Progettazione Paesistica, Florence University Press, Firenze 2005; LORENZO VALLERINI et alii, ricerca scientifica d’Ateneo ex quota 60% (2002/05) “Il Paesaggio attraversato: metodologie e linee guida per l’inserimento paesaggistico delle grandi infrastrutture”; (presso l’Università degli Studi di Chieti - Pescara) MOSÈ RICCI et alii, Programma Infrascape: Infrastrutture e Paesaggio.
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Nel secondo caso, quello dei vuoti urbani colonizzati dalla vegetazione spontanea, sfuggita al controllo e alla regola del “giardiniere”, l’attraversamento si carica di un valore ecologico-ambientale e paesaggistico aggiunto, ma anche di forti significati simbolici che ne amplificano il portato semantico, mutandolo in nuova figura di natura urbana. Insomma, forse è soprattutto nella dimensione urbana che le infrastrutture, interpretate come spazi per l’attraversamento, “comportano molti più temi e aspetti significativi per la costruzione, di quanto non appaia in una loro lettura come strumenti soltanto per la mobilità” 3: anche perché oltre a costituirsi come promettenti categorie progettuali di creazione di nuovi paesaggi, si candidano come validi dispositivi di fruizione, percezione e comprensione della dimensione metropolitana, al servizio quotidiano del cittadino. Qui, la qualità dell’attraversamento interessa la canalizzazione dei flussi veicolari a scorrimento veloce, di raccordo con i flussi extra-urbani, così come la mobilità intra-urbana legata ai piccoli spostamenti del quotidiano: quella più rumorosa e aggressiva del traffico motorizzato, quella ferroviaria, come anche la mobilità definita dolce ed eco-compatibile (tramway, piste ciclabili, metropolitana leggera). Il quadro europeo offre una notevole varietà di casi in cui si è lavorato sui vuoti delle infrastrutture che attraversano la città applicando una ricerca progettuale dove aspetti figurativi, istanze ecologico-ambientali e questioni sociali vengono saldate vantaggiosamente, per creare nuove forme di paesaggi urbani in cui il giardino (non solo come luogo reale, ma anche come metafora etica ed ambito ideale di cura, coltivazione e produzione di risorse naturali e culturali) appare figura di orientamento. Se è vero che uno dei rischi maggiori delle città-metropoli-megapoli dell’epoca digitale, è la perdita del senso dello spazio reale e del luogo, di una metrica spaziale4 e di leggibilità, è ugualmente evidente che, nel cercare risposte e soluzioni, si può dire che si assiste alla crescita di una rinnovata cultura del progetto urbano in cui competenze e modi operandi propri del paesaggista vengono applicati alla costruzione di nuovi pezzi di città, modellati appunto come parchi e giardini. Così, nella città europea che, oggi più che mai, “è mobile, va, non è ferma”5, ed è incerta nella definizione dei suoi limiti, delle sue forme, il nuovo giardino nasce dentro o attorno alle grandi infrastrutture (cantieri, autostrade, aree post-industriali) 6 per funzionare come elemento di qualificazione puntuale e per riaffermarsi come strategia figurativa di trasformazione della dimensione urbana, attraverso la costruzione di sistemi spaziali in cui naturale e artificiale si compenetrano vantaggiosamente. Per questo è possibile leggere il giardino urbano contemporaneo non come un contenitore chiuso (destinato cioè a promuovere esperienze di natura, divertimento, cultura, circoscritte ad un ambito autoreferenziato e cronicizzate come la malattia negli ospedali 7), bensì un ambito di relazioni aperte, che dialoga con i cicli della città e le ritualità dei suoi abitanti. Nuove estetiche della natura ne suggeriscono carattere e contenuti. Ben lontano dal riproporre asetticamente i modelli e le tipologie plasmati nella concezione Ottocentesca o clichè paesaggistici legati alla consunta demagogia figurativa del pittoresco, i nuovi giardini urbani si configurano prima di tutto come figure di misura dello spazio-tempo del territorio abitato oltre che suggestivi contenitori per un sistema di natura diffusa. A partire da queste riflessioni si propone una lettura della recente produzione di nuove specie di spazi aperti pubblici urbani (con particolare riferimento a Spagna e Francia) determinata dall’inserimento, la riqualificazione o la dismissione di infrastrutture per la mobilità 3
PEPE BARBIERI, Metropoli piccole, Meltemi Babele, Roma 2003, pag. 72. “L’energia che sprigiona il territorio post-metropolitano è essenzialmente de-territorializzante, anti-spaziale” MASSIMO CACCIARI , La città, Pazzini Editore, Rimini 2004. op.cit, pag. 13. 5 MASSIMO CACCIARI, op.cit, pag. 50. 6 Cfr. EDUARDO ROJO, Battle y Roig : lugares, ETSAB, Barcellona 1999. 7 Si fa qui ancora riferimento alle riflessioni di Cacciari, che contrappone il concetto di spazio chiuso, in cui l’esistenza metropolitana viene congelata, e che “naturalmente non è soltanto l’edificato definito in base ad una funzione, a una sola ‘proprietà’; è anche, e più ancora, il quartiere ‘residenziale’ e basta; spazi chiusi sono i parchi divertimento, dove il divertimento stesso viene ‘cronicizzato’, come la malattia negli ospedali, l’istruzione nelle scuole o nei campus, la cultura nei musei e nei teatri”. MASSIMO CACCIARI, op.cit., pag. 51. 4
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veicolare (su gomma o su rotaia), interpretata come espressione d’ arte contemporanea dei giardini e dei paesaggi urbani. Il contributo procede articolandosi rispetto a quattro temi chiave, paesaggio urbano, attraversamento, infrastruttura viaria come luogo per il movimento, categorie progettuali per lo spazio attraversato, nel tentativo di fornire alcuni strumenti culturali utili al progetto dei vuoti connessi alle infrastrutture per la mobilità.
Figure 1 e 2: Una installazione nell’ambito del Festival di Arte dei Giardini di Losanna, e un tratto della linea dismessa della Petite Ceinture parigina, nei pressi di Belleville.
CAMPAGNA URBANA, METROPOLI PICCOLE, PAESAGGIO URBANO
Nel 2000 qualcosa di epocale è successo nella storia del pianeta: il numero degli abitanti delle città ha superato significativamente quello degli abitanti della campagna. La superficie agricola totale che nel 1990 arrivava a ventitre milioni di ettari, un decennio dopo non raggiungeva i venti milioni. E’ il trionfo della città diffusa: “una marmellata edilizia”, come l’ha definita Francesco Erbani, una concentrazione che “accorpa città un tempo distanti, si slabbra senza confini amministrativi, sembra una nebulosa, ma è pur sempre un oggetto concreto, visibile a occhio nudo, governato non si capisce da chi, certo non da organismi rappresentativi come il Comune o la Regione”8. Il futuro delle società del XXI secolo è decisamente urbano, insomma, dati e proiezioni parlano chiaro: la popolazione urbana mondiale è destinata a salire. Si calcola che nel 2015, ventitre metropoli avranno superato i dieci milioni di abitanti. In Europa, il continente più urbanizzato del pianeta, già sette abitanti su dieci sono urbani. L’espansione progressiva degli insediamenti umani, dalla città verso territori storicamente rurali, ha indotto Pierre Donadieu a mettere a punto il concetto di campagna urbana: “un ossimoro, diranno gli amanti della retorica (…) Come possono essere urbani dei campi di grano, dei prati pascoli o degli appezzamenti agricoli? Come potrebbe la città conservare al suo interno lo spazio di cui si nutre? Tutta la storia dell’umanità non è forse quella di una lente ed inesorabile costruzione dello spazio urbano a spese dello spazio agricolo e
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FRANCESCO ERBANI, Città. Come cambia e come ci cambia la vita, Repubblica del 22 ottobre 2004.
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forestale?”9. La campagna urbana è lo spazio abitato da cittadini che lavorano in città, ma non vi risiedono. “Come se la campagna, con i campi coltivati e le praterie, rappresentasse un vasto parco pubblico accessibile attraverso sentieri, risonante di canti di uccelli e animato da scene agricole antiche o moderne.”10 Insomma, se il potenziamento della rete dei collegamenti territoriali in una prima fase di sviluppo dei Trenta gloriosi ha portato all’abbandono degli ambiti rurali ed alla saturazione delle città, negli ultimi anni ha favorito una tendenza di segno esattamente opposto: la fuga dalla città compatta e la ricolonizzazione dello spazio rurale, trasformato secondo i criteri di una nuova urbanità ed agganciato agli spazi della mobilità11: è la dimensione della città diffusa. L’urbano si è dilatato, le città da addensate e circoscritte si sono fatte aperte e plurali, come precisa Pepe Barbieri12, che per definire la realtà della provincia italiana ha introdotto il concetto di metropoli piccole: “non la metropoli come artificio assoluto, corpo smisurato e indefinitamente iterato, che irrompe nella (quieta?) scena della provincia italiana e a questa si sovrappone. Non è la metropoli-corpo, trasformazione ingigantita della città-corpo, la cui terribile bellezza è nella straordinaria dimensione. Sono, semmai, queste metropoli piccole: parti di un territorio costantemente <<misurato>> dal paesaggio e dalle sue variazioni.”13 Ciò che rende tali le metropoli piccole è l’uso metropolitano dello spazio che salda tra loro differenti parti, anche in maniera inedita. Il risultato è che questi ambiti risultano abitati da “individui divenuti metropolitani spesso senza essere mai stati cittadini o almeno cittadini della grande città. Il paesaggio ne costituisce, anche se in modo quasi sempre inconsapevole, il continuo riferimento: il monumento, e anche, in un certo senso, la struttura unitaria. Una struttura però fluida, solcata dalla <<dismisura>> delle reti. Ancora più dilatata nel sistema invisibile delle connessioni con il mondo”14. A Barbieri il paesaggio appare come una sorta di collante, un contesto su cui scrivere il testo urbano, piuttosto che una realtà sistemica prodotta dalla costante interazione tra società e territorio. Possiamo leggere le definizioni di campagna urbana e metropoli piccole come due punti di vista differenti, adottati per interpretare analoghi fenomeni insediativi. Entrambe le posizioni in ogni caso enfatizzano il ruolo dei sistemi di mobilità e delle reti per gli spostamenti territoriali come produttori di nuove realtà insediative, e di nuovi modi di percepire ed abitare i paesaggi. Campagna urbana e metropoli piccole possono essere lette anche come facce diverse di una stessa categoria interpretativa: paesaggio urbano, che, a questo punto, occorre introdurre. Pare in effetti necessario soffermarsi su questo ambito di riflessione epistemologica, chiedersi una volta di più, che cosa sia il paesaggio urbano, soprattutto dopo che la Convenzione Europea del Paesaggio ha formalmente specificato che tutto è paesaggio. E quindi cosa è il paesaggio urbano? E’ solo un modo diverso di nominare la città diffusa e/o la metropoli, semplicemente esaltandone gli aspetti figurativi (colori, variabilità delle scene, eterogeneità degli elementi strutturanti, articolazione spaziale…)? O, al contrario, l’aggettivo urbano funziona da 9
Cfr.PIERRE DONADIEU , Campagnes Urbaines: de la réalité aux symboles, pagg. 79 – 93 in MICHEL GARIEPY ET ALTRI, Le paysage territoire d’intentions, Harmattan, 1999, pag. 79. Traduzione dal francese di Anna Lambertini. 10 PIERRE DONADIEU, ibidem. Questo cambiamento culturale e sociale, in cui la campagna assume la dimensione di immagine idilliaca, di pittura di paesaggio, piuttosto che di paesaggio di produzione, tende ad innescare gioco forza un meccanismo di rimozione di memoria collettiva rurale e di creazione di un universo artificiale di oggetti e di immagini. “In termini più generali, la ricerca di memoria e di autenticità, oltre alle idee legate alla biodiversità, porta alla creazione di ecomusei e di ambiti di conservazione di spazi coltivati o di razze antiche destinate più ad essere mostrate ad un pubblico che a servire la causa della conservazione della diversità genetica” (pag. 80). 11 Cfr. ALAIN LEVAVASSEUR, Des paysages de l’aunis ou de la vertu du vide, pagg. 63 – 82, in JACQUES BEACHAURD,a cura di, La Ville-Pays vers une alternative à la métropolisation, L’Aube - IAAT, Marseille, 1996, pag. 74. 12 Cfr. PEPE BARBIERI, Metropoli piccole, Meltemi Babele, Roma 2003, pag. 8. 13 PEPE BARBIERI, ibidem. 14 PEPE BARBIERI, op. cit., pag. 9.
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sottolineatura di una rappresentazione in negativo della forma che abbiamo dato all’ambiente in cui viviamo15, brutta e necessaria alternativa al paesaggio naturale e rurale? O ancora è il townscape indagato da Gordon Cullen, nel senso di un grande dramma generato dal rapporto tra tutti gli elementi che concorrono a creare l’ambiente urbano (edifici, alberi, natura, acqua, traffico, annunci pubblicitari…) ed interpretabile attraverso l’uso di una serie di categorie percettive e di organizzazione spaziale16? O invece, con l’espressione paesaggio urbano, si vuole fare appello ad una differente possibilità di progettare gli insediamenti umani, fondata sulla costruzione di un sistema articolato ed interconnesso di spazi aperti e sulla presenza variamente declinata di “verde”? Un ragionamento va speso, per chiarire la nostra posizione interpretativa. Per cominciare, c’è pur sempre da fare i conti con l’ambivalenza semantica del concetto chiave, Paesaggio, che designa al tempo stesso una veduta, un dipinto, un quadro così come un sistema spaziale reale, un’entità vivente, una configurazione di un territorio esistente. A tale ambivalenza, del paesaggio come immagine rappresentata e come realtà vivente, si deve in parte la persistenza di alcuni equivoci culturali che rendono difficile la definizione di un senso comune e condiviso del paesaggio contemporaneo, anche tra i possibili addetti ai lavori.
Figure 3 e 4: “Paesaggio urbano” di Mario Sironi, del 1921, e Paesaggio n.2, interpretazione in chiave pop di Tom Wesselmann, del 1964.
Se le modificazioni operate sui paesaggi italiani, soprattutto negli ultimi cinquant’anni, sono profonde e spesso radicali e, a buona ragione, ci si può lamentare della scomparsa dei bei paesaggi di un tempo e di quanto siano brutti e degradati quelli attuali, tuttavia non risulta ancora abbastanza chiaro, anche all’interno della comunità scientifica, come aggiornare gli strumenti di lettura e valutazione culturale a disposizione del tecnico, dell’amministratore, e del cittadino comune. Si può dire che la globalizzazione culturale, la potenza dell’informazione digitale e la velocità di diffusione delle nuove estetiche prodotte dal linguaggio dell’arte, del cinema, della fotografia, della computer graphic, abbiano determinato un surplus di immagini di bei paesaggi impalpabili, ma non favorito la formazione di un senso del paesaggio, del riconoscimento del suo valore come invenzione sociale continua, opera di tutta una collettività che agisce sul comparto pubblico come su quello privato, alla micro come alla macroscala. Secondo Paolella addirittura “sembrerebbe in molti casi che l’inserimento di segni con profondi e non positivi effetti, quali infrastrutture e strutture produttive di grandi dimensioni, non sia avvertito come un fatto negativo, o passi addirittura inavvertito. E’quasi come se 15
Quando ad esempio Adriano Paolella scrive “L’abitudine al paesaggio urbano, limitato e geometrico, ad essere chiusi in un enclave artistica, in spazi riproposti in qualunque situazione e contesto, sembra avere annullato l’interesse per ogni altro segno”, ne suggerisce una suggestione negativa. 16 Cfr. GORDON CULLEN, Il paesaggio urbano. Morfologia e progettazione, Calderini, Bologna 1976, pag. 4. Ed. orig. Townscape,The Architectural Press London 1961.
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tutta la capacità di esprimere un giudizio sulle forme, da parte della collettività, sia concentrata nelle automobili e nei vestiti, oggetti che, come noto, sono caratterizzati da una diversità apparente ma da una totale effettiva uniformità”17. Molto lavoro culturale va fatto. Anche per rimuovere dall’immaginario collettivo tanti preconcetti e stereotipi di bel paesaggio ormai insostenibili sotto il profilo economico, gestionale e pure figurativo, che, spostando il livello ideale verso modelli anacronistici, e quindi irriproducibili, impediscono la formazione di reali modelli etici ed estetici contemporanei, e di conseguenza la crescita di una vera cultura paesaggistica, basata sulla capacità di orientare l’inevitabile processo di trasformazione di luoghi, ambienti, paesaggi. Già nel 1973, durante un ormai storico convegno dal titolo secco “Architettura del paesaggio” organizzato a Bagni di Lucca, Guido Ferrara proponeva un’appassionata relazione in cui il paesaggio veniva definito come una risorsa dalla caratteristica particolare: la riproducibilità, ponendo così l’accento sul paesaggio come espressione del rapporto tra società e territorio abitato, usato e consumato, e come bene che si può produrre. E affermava: “se il bel paesaggio scompare, noi possiamo sempre fare in modo di attuare dei nuovi paesaggi, ancora belli ma in modo diverso, perché rispondenti maggiormente ai nostri nuovi bisogni, e certamente più rispondenti di quelli che si creano naturalmente rinunciando del tutto ad operare, magari nell’illusione di conservare. Occorre riconoscere che non si può continuare a nascondere (dietro la storia) la nostra sostanziale incapacità collettiva di produrre cultura, e di produrla, ed è quello che più conta, ancora una volta in senso collettivo.”18 Recentemente, nella sintesi redatta per illustrare i contenuti di un lavoro di ricerca francese19, il geografo Yves Luginbühl ha sottolineato come lo studio abbia evidenziato la difficoltà del non esperto a riconoscere il paesaggio prima di tutto come un costrutto sociale, e, in ambito scientifico, la tendenza a fare ancora confusione tra il Paesaggio, al singolare, oggetto teorico che traduce un modo di pensare ciò che si vede, e i paesaggi, al plurale, luoghi dove si costruiscono delle rappresentazioni, si esercitano delle attività e si mettono in pratica specifiche politiche di gestione. Sempre secondo quanto emerso dalla ricerca francese, inoltre, pare che si continuino ad interscambiare erroneamente e con disinvoltura i termini territori e paesaggi, facendo leva sul fatto che i primi come i secondi sono realtà spaziali, leggibili attraverso le coppie materialità/immaterialità, pratiche/rappresentazioni20. Insomma, se già la definizione di Paesaggio appare a tutt’oggi un campo di indagine complesso, figuriamoci quella di Paesaggio urbano: un ossimoro al quadrato, se pensiamo all’interpretazione di chi definisce la città come non-paesaggio per eccellenza 21. Ed anche a prescindere da posizioni teoriche così nette, riconosciamo che l’aggettivo urbano rinvia alla dimensione dell’artificio, del costruito, del manufatto minerale, del contrapposto al rurale, mentre l’idea di paesaggio nell’immaginario collettivo comune resta appunto tuttora fortemente correlata ad una idea di bella natura, coltivata o selvatica, e in ogni caso rigogliosa e diffusa. In una prospettiva di ricerca, proponiamo allora di interpretare il paesaggio urbano più che come un dato di fatto, come una categoria progettuale per cui formulare criteri di lettura e linee guida operative, che tengano conto del riconoscimento del valore di una presenza 17
ADRIANO PAOLELLA, Abitare i luoghi. Insediamenti, tecnologia e paesaggio, Edizioni BFS, Pisa 2004, pag. 30. GUIDO FERRARA, Per una fondazione disciplinare, pagg. 129 – 143 in Architettura del Paesaggio, atti del convegno di Bagni di Lucca, La Nuova Italia, Firenze 1973, pag. 138. 19 Il Programme de recherche “Politiques publiques et paysages. Analyse, evaluation, comparaisons” è stato commissionato dal Ministero francese dell’ecologia e dello sviluppo sostenibile a varie equipe di esperti nel 1998 e si è concluso alla fine del 2004. Nel quadro del programma sono state portate avanti ventiquattro ricerche, finalizzate alla definizione di un documento di linee guida teoriche e metodologiche per il progetto e la gestione dei paesaggi. 20 LUGINBÜHL YVES, Programme de recherche: politiques publiques et paysages. Analyse, evaluation, comparaisons. Synthèse, Cemagref, Parigi 2004. 21 Commenta ad esempio scetticamente Michel Jakob: “Le città stesse, luogo di partenza per la conquista del paesaggio e in questo senso non-paesaggio per eccellenza, non cessano di essere definite più o meno in termini naïf come “paesaggi urbani”. In JAKOB MICHAEL, L’Emergence du paysage, InFolio, Dijon 2004, pag. 37. Traduzione dal francese di Anna Lambertini.
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diffusa di natura, a cui attribuire un ruolo ecologico-funzionale e strutturante, oltre che simbolico ed estetico. Paesaggio urbano da intendersi quindi non solo in senso scenografico, come “lo spettacolo dell’attività della città su uno sfondo definito da permanenze sensibili e culturali, come la velocità di spostamento, le sonorità, le linee del cielo, la presenza degli alberi, dell’acqua, e gli elementi distintivi dell’organizzazione architettonica” 22, ma piuttosto come la configurazione di un sistema di insediamenti umani multifunzionali, caratterizzato da una presenza diffusa di natura e biodiversità ed organizzato rispetto a criteri ecologicofunzionali, economici, urbanistici ed estetico-percettivi; paesaggio urbano come forma di un ambiente vivente, eterogeneo e prevalentemente artificiale, dove la qualità della vita degli abitanti è dipendente dalle modalità con cui le dinamiche sociali, economici, politicogestionali e culturali e delle azioni antropiche si intrecciano con i processi biofisici e naturali, su cui influiscono direttamente e con cui interagiscono strettamente. Paesaggio urbano quindi come laboratorio di sperimentazione attiva di un modello culturale per le trasformazioni delle città.
Figure 5 e 6: La Plaine, Saint- Denis, copertura di un tratto dell’autostrada, e una strada secondaria del Quartiere della Villette a Parigi.
INFRASTRUTTURE VIARIE URBANE COME LUOGHI DEL MOVIMENTO
Il paesaggio urbano, come la città, è anche un campo di movimenti, “un vortice di forze e intensità che attraversano e mettono in relazione tutti i tipi di attori, umani e non umani, in tutti i modi di combinazione delle azioni” 23: è strutturato da una rete di attraversamenti. L’azione dell’attraversamento, passaggio da un lato a quello opposto, da una parte all’altra, comporta l’individuazione di una traiettoria e, quando questa viene fissata come segno permanente, la definizione di un ambito fisico-geometrico ad essa dedicato: la strada, la linea ferroviaria, il sentiero. 22
Dalla presentazione del tema di ricerca “Invention des formes urbaines et processus de démarche paysagère”, ERIC DANILE-LACOMBE, BRIGITTE NAVINER, ANDRÉAS CHRISTO-FOROUX, www.paris-lavillette.archi.fr/recherche/modele_detailsjardins4.htm Traduzione dal francese di Anna Lambertini. 23 ASH AMIN, NIGEL THRIFT, Città. Ripensare la dimensione urbana, (2001) Il Mulino, Bologna 2005, pag. 123.
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Ma attraversare gli spazi significa anche occupare un tempo, misurare la durata del movimento: così valutare la dimensione spaziale in termini di prossimità e distanze vuol dire anche calcolare in ore e minuti quanto sono lontani/vicini tra loro i luoghi che vogliamo raggiungere. Il tempo per arrivare dal luogo A al luogo B scorre coinvolgendo inevitabilmente tutto quello che sta in mezzo, e tutto quello che sta in mezzo diventa spaziotempo dell’attraversamento, che funziona da campo percettivo di variabile fascinazione e attrazione per il viaggiatore. Come categoria progettuale, l’attraversamento, guidato e fissato, si concretizza in una figura nastriforme che occupa uno spazio-tempo, dove per chi è in moto può apparire tanto più vera la notazione di Deleuze secondo cui “non è la successione che definisce il tempo, ma il tempo che definisce come successive le parti del movimento così come sono determinate”. L’attraversamento implica al contempo lo svolgimento di un’azione, l’individuazione di uno spazio entro cui svolgere l’azione, un tempo di fruizione ed uno di percezione. Il tema dell’infrastruttura che attraversa la città, assieme al problema funzionale della distribuzione dei flussi in movimento e di scelta del disegno, comporta inevitabilmente una riflessione sul valore della spazialità saldata alla temporalità entro cui si svolge l’azione. In questo senso lo spazio dell’attraversamento prende immediatamente consistenza come luogo del movimento, in cui possono essere offerti vari gradi di fruizione dinamica, calibrati rispetto al tipo di spostamento di attori con diverse necessità e caratteristiche, e differenti tempi di mobilità e di ricezione dello spazio attraversato: l’automobilista, il ciclista, il pedone, il viaggiatore distratto, il lavoratore pendolare, il turista, il residente e via dicendo. E’ altrove già ampiamente dimostrato che l’attraversamento del tessuto urbano da parte dell’infrastruttura può diventare fattore positivo ed elemento generatore di qualità, se si considerano alcuni semplici indirizzi progettuali, come ad esempio che: - una figura lineare che scorre su un piano ha un potere di dominanza visiva potente, esteso e continuo; - come indicato nel famoso studio di Appleyard e Lynch, il tracciato dell’infrastruttura può essere concepito come una sequenza cinematografica; - passare da una parte all’altra della città significa non collegare due punti estremi, ma una infinità di punti intermedi; - lo spazio dell’attraversamento deve essere a sua volta attraversabile, farsi permeabile e poroso e, grazie ai concetti di reticolarità e di stratificazione, da tradizionale figura della frattura diventare occasione per generare nuovi luoghi; - i luoghi del movimento in città non dovrebbero essere spazi per la velocità assoluta, ma per l’andare, per lo spostamento, per il viaggio breve; - lo spazio dell’attraversamento può essere un contenitore di natura, sia in forma permanente che transitoria; - l’infrastruttura non è destinata ad essere eterna ed immutabile nella sua connotazione e nelle sue funzioni: può essere dismessa, riconfigurata, ridimensionata in base all’evoluzione dei bisogni reali della collettività, in movimento. Prendendo atto che il modello di crescita insediativa del dopoguerra è stato tale che, attualmente, “più di tutto è la cultura della strada e dell’automobile che frulla il paesaggio: distributori, motel, indicazioni orizzontali e verticali per la circolazione, gli autoveicoli e le città lineari lungo le strade sono simili ovunque e garantiscono, tranquillizzano, il fruitore di una continuità della percezione che consolida il modello”24, e considerato che le infrastrutture per la mobilità costituiscono l’ossatura del territorio abitato, ci sembra che una buona alternativa per contrastare la tendenza all’omologazione dei luoghi attraversati, il degrado funzionale e figurativo e lo sperpero di territorio e di suolo, risieda nella possibilità di volgere l’attraversamento in elemento dinamico positivo, di tornarlo a fare essere luogo del movimento.
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ADRIANO PAOLELLA, op. cit., pagg. 31-32.
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Figure 7 e 8: Il Programma Espace Civilisè, attivato dall’amministrazione parigina dal 2004, introduce criteri di gestione paesaggistica in ambito urbano per conferire nuova identità figurativa e diverso valore funzionale a strade e piazze, attraverso l’immissione di materiale vegetale. Lo slogan utilizzato è decisamente eloquente: l’idea è di trasformare la strada in giardino.
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CATEGORIE PROGETTUALI PER LO SPAZIO APERTO ATTRAVERSATO
Possiamo a questo punto tentare di individuare varie categorie progettuali dei luoghi del movimento, partendo dall’applicazione di filtri diversi di lettura dello stesso concetto: lo spazio aperto attraversato. Reinterpretato in chiave positiva, come tema multifunzionale, strategia figurativa, ambito di mediazione e opportunità di creazione di paesaggio, piuttosto che come lacerazione, lesione o cesura tra parti, il rapporto spazio urbano attraversato/spazio dell’infrastruttura (esistente o di nuova creazione, attiva o dismessa) può essere affrontato a partire dalla definizione di specifici concetti informatori, che, tenendo conto delle condizioni di base, possono essere assunti come guida per nuove figure di natura urbana: innesto; stratificazione; impronta; scavalcamento; infiltrazione; riconfigurazione, colonizzazione. Vediamone il significato, in relazione ad alcune esperienze emblematiche di trasformazione di paesaggi urbani attraversati. Innesto La realizzazione di nuovi tratti della viabilità urbana viene effettuata a partire da una riflessione progettuale che associa al tema della funzionalità del collegamento viario, l’idea di infrastruttura stradale come luogo pubblico di incontro e di relazioni sociali, costruito applicando principi di buona figurabilità, abitabilità, eterogeneità spaziale. Il Boulevard Cézanne, realizzato nella cittadina francese di Gardanne nel 1990, istituisce nuove relazioni tra il centro della città e le zone di espansione. Il boulevard, che si sviluppa per circa un chilometro articolandosi in più tratti interrotti da cinque rotatorie, diventa un dispositivo ordinatore dello spazio attraversato e di produzione di nuove modalità di fruizione. E’ un percorso pensato per automobilisti, ciclisti, pedoni, su cui confluiscono e si aprono strade secondarie e passaggi pedonali (passerelle, scalinate, rampe) che lo rendono un organismo permeabile e a misura d’uomo, più che di macchina. Stratificazione Lo spazio dell’infrastruttura si sviluppa su un livello sovrapposto: è il caso del viadotto stradale e/o ferroviario. Nel progetto Carrasco Square per l’interscambio Teleport ad Amsterdam, dello studio olandese West 8, lo spazio sovrastato da un imponente tracciato autostradale e ferroviario diventa un divertente piazzale a disegni optical creati grazie all’alternanza di terra e asfalto. Il sistema di illuminazione gioca sull’opposizione naturale/artificiale tramite la dislocazione di una improbabile foresta di alberi tagliati al colletto, che proiettano la sagoma luminosa del tronco sezionato contro le campate del viadotto. Nel caso in cui l’infrastruttura sia stata dismessa, lo spazio sospeso sulla città può diventare occasione per definire un nuovo strato di spazio pubblico e di natura urbana. E’ il caso della famosa Promenade Plantè, realizzata a Parigi nel 1992, che organizza in una successione di fragranti giardini lineari l’ex piano ferroviario. Prende vita in questo intervento il concetto di coluée verte, messo a punto in Francia proprio per recuperare linee ferroviarie abbandonate o aree industriali dismesse, aumentando la presenza di vegetazione arborea ed arbustiva in ambito urbano ed allo stesso tempo favorendo la mobilità pedonale e ciclabile, mediante un sistema di percorsi protetti di collegamento tra ampie porzioni di città. Scavalcamento La realizzazione di piastre di copertura o piazze ponte, per ripristinare la continuità del tessuto urbano tagliato dal passaggio dell’infrastruttura lineare in trincea, rappresenta un tipo di intervento molto diffuso in questi ultimi anni. Nell’area metropolitana barcellonese, il Parco della Solidaridat si inserisce al di sopra della circonvallazione per connettere due quartieri periferici storicamente separati. Al fondamentale ruolo di elemento di raccordo spaziale tra parti di città e di costruzione di un nuovo luogo pubblico, si associa quello di dispositivo visivo a servizio degli automobilisti in
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movimento lungo la tangenziale: due linee luminose create da leggeri telai metallici, alti 12 metri, sfruttano l’effetto della percezione cinetica dal basso e costituiscono un efficace landmark nel paesaggio notturno. Infiltrazione Il processo di consumo di territorio e paesaggio da parte delle infrastrutture per la mobilità determina in prossimità di snodi, svincoli, scambi intermodali la formazione di vuoti e spazi di risulta, che si rendono disponibili per creare parchi, giardini, piazze, aree sportive e ricreative, riserve di natura. Nuovi spazi pubblici di natura si infiltrano nelle aree internodali, un tempo escluse da qualsiasi logica figurativa e di fruizione. L’esempio più noto è ancora barcellonese, il Parco del Nus della Trinidad può essere citato come esperienza guida di una nuova cultura del progetto di infrastruttura stradale e di soluzione del suo inserimento. All’interno dello svincolo di connessione tra due importanti nastri autostradali dell’area metropolitana barcellonese, la A17 e la A18, al posto di un’area degradata, si annida un parco circolare, dal disegno chiaro e pulito. Impronta L’interramento del tracciato stradale o ferroviario per un lungo tratto consente la creazione di giardini, parchi, piazze e ampie promenades urbane, che possono dispiegarsi anche senza mai rendere esplicita attraverso connessioni spaziali o segnalazioni visive la presenza dell’infrastruttura che corre al di sotto, pur replicandone in tutto o in parte la morfologia lineare. In questo senso lo spazio generato dall’interramento si qualifica come un’impronta dell’infrastruttura sottostante. Il Parco della Tramvia, nell’area metropolitana barcellonese, si sviluppa longitudinalmente per ottocentocinquanta metri, sopra un nuovo tratto in galleria dell’autostrada A19, costruita negli anni Cinquanta come collegamento tra la cittadina collinare Tiana e la fascia costiera . Il parco lineare è costituito da un nastro asfaltato colorato con un accattivante effetto a scacchiera nera e gialla, che riflette esattamente la sezione del tracciato sottostante e da una banda parallela alberata con specie adatte al clima locale (tra cui Robinia pseudoacacia, Jacaranda mimosifolia, Sophora japonica). Riconfigurazione Si interviene sull’infrastruttura esistente per rivederne il ruolo e conferirle un diverso assetto funzionale e nuova dignità estetica e figurativa. Le operazioni di riqualificazione di assi viari, in particolare, tendono a riconquistare un valore di luogo urbano e di spazio pubblico alla strada, di cui vengono ridisegnate le relazioni carreggiata-edifici, ridefiniti i ritmi di percorrenza ed aumentata significativamente la presenza vegetale. Il progetto di riqualificazione della RN6, strada nazionale di collegamento tra Lione e Parigi, nel tratto di attraversamento della cittadina di Maisons-Alfort, si colloca esattamente in questa politica di miglioramento del rapporto strada trafficata/centro urbano. Grazie alla riorganizzazione della ampia sezione stradale, variabile dai trentasei ai trentotto metri, e all’uso sapiente di diversi tipi di pavimentazione, la RN6 ha acquistato un carattere di spazio pubblico urbano, in cui accanto alla carreggiata per i veicoli corrono piste per le moto, piste ciclabili e ampie promenades alberate. Nel caso di infrastrutture dismesse, le operazioni di riconfigurazione di aree e strutture concorrono alla costruzione di nuovi paesaggi urbani, in cui il vuoto lasciato libero dalla funzione dell’attraversamento si candida come elemento di riaggregazione e di saldatura tra parti di città. Colonizzazione Se l’infrastruttura viene dismessa, il vuoto abbandonato finisce per essere lentamente colonizzato dalla vegetazione spontanea e a poco poco diventa teatro di una natura evolutiva che, inaspettatamente, conquista terreno. E’ quello che succede a vecchie linee e aree
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ferroviarie considerate ormai inadeguate o inutili nel quadro delle trasformazioni delle politiche di gestione della mobilità interurbana. In questi casi, le esperienze in corso denunciano due principali modalità di intervento: o il mantenimento del carattere originale dei luoghi, attraverso forme di gestione che limitano e regolano la fruizione pubblica, così da preservare il valore di naturalità diffusa acquisito; o il riconoscimento di una certa instabilità del sito e della possibilità di una sua possibile ulteriore e più complessa trasformazione e quindi l’attuazione di interventi di sistemazione leggeri e reversibili. Con il Parco Naturale Südgelände, a Berlino, un’ampia area ferroviaria rimasta inutilizzata per una cinquantina d’anni, è stata trasformata in riserva di natura in città, aperta al pubblico nel 2000. Il luogo è eccezionale: i visitatori si possono muovere seguendo i vecchi tracciati delle rotaie reinventati grazie agli interventi di un gruppo di artisti, Odius, che oggi ha la sua sede proprio nel vecchio deposito ferroviario e partecipa alle attività di gestione del parco. Il più sostanzioso intervento progettuale è costituito dalla costruzione di una passerella in grigliato metallico, rialzata di 80 cm dal suolo e collocata in corrispondenza dei binari, che permette di attraversare su percorso obbligato 4 ettari di riserva a maggiore grado di protezione della natura, altrimenti inaccessibili al pubblico. La Coulée verte di Colombes (Hautes-de-Seine) rappresenta invece un esempio del secondo tipo di intervento. Un tratto della linea ferroviaria di servizio nella periferia parigina al momento disattivato è stato temporaneamente trasformato in un collegamento pedonale verde, in attesa di un possibile recupero della strada ferrata.
RIFERIMENTI ICONOGRAFICI Figura 1: Fotografia di Gilles Clèment. Figura 2, 5,6,7,8: Fotografie di Anna Lambertini. Figura 3 e 4: tratte da ELISA MARIANI-TRAVI, La città moderna vista dai pittori, Testo&Immagine, Roma, 1996.
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Testo acquisito dalla redazione della rivista nel mese di gennaio del 2006. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768 Università degli Studi di Firenze
Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/ Firenze University Press anno 3 – numero 4 – luglio - dicembre 2005 sezione: Saggi pagg. 47 - 64
LA
RIQUALIFICAZIONE URBANISTICO – ARCHITETTONICA DELLA CINTURA FERROVIARIA DI MILANO. INFRASTRUTTURE E CITTÀ DIALOGANO PER UNA NUOVA QUALITÀ DEL PAESAGGIO URBANO Antonello Boatti*
Summary A degree thesis in Architetture (Politecnico di Milano) about the architectonic and urban improvement of the railways bel in Milan, offers the opportunità for a reflection on the complivcated topic between infrastructures and townscape. Key-words Railway, Town quality, Milan, Urban improvement.
Abstract Una tesi di laurea in Architettura sulla riqualificazione urbanistica e architettonica della cintura ferroviaria di Milano, offre l’occasione per una riflessione sul difficile tema del rapporto tra infrastrutture per la mobilità e paesaggio urbano. Parole chiave Infrastrutture ferroviarie, qualità urbana, Milano, riqualificazione urbanistica.
* Dipartimento di Architettura e Pianificazione, Politecnico di Milano.
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Talvolta una tesi di laurea travalica il suo significato e diventa occasione di studio e ricerche più ampi. E’ questo il caso di “Quattro personaggi in cerca di…” Analisi percettiva e proposte per la riqualificazione urbanistica e architettonica della cintura ferroviaria di Milano” (Relatore Prof. Arch. Antonello Boatti, Autori Simone Carzaniga, Annalisa Cingia), un vero e proprio saggio sull’importantissima infrastruttura che solca le periferie milanesi. La cintura ferroviaria milanese con il suo traffico passeggeri e merci costituisce uno dei nodi ferroviari più importanti d’Italia e d’Europa. Oltre trecentoventuno treni in transito al giorno su venti chilometri di tracciato (contando solo quelli passeggeri), destinati a diventare cinquecento o forse di più a regime e cioè quando la sua parte sud riprenderà a funzionare e quando i collegamenti con il sistema passante saranno completati. Un manufatto realizzato sostanzialmente nei primi tre decenni del Novecento, su rilevato a scarpata o su viadotto ad arcate, completamente fagocitato dallo sviluppo urbanistico della città e chiamato oggi ad unire funzionalità ferroviaria e miglioramento della qualità urbana della città: un rebus quasi insolubile e nello stesso tempo una sfida entusiasmante.
BREVE CRONISTORIA DELLA CINTURA FERROVIARIA Quando il 4 marzo 1861 il Parlamento cisalpino proclamava l’Unità d’Italia, Milano non era ancora pronta a diventarne la capitale economica e una città di livello europeo. Con 196.000 abitanti era largamente seconda a Napoli per popolazione (venti anni prima Londra aveva superato i due milioni di abitanti e Parigi si apprestava a superarne il milione), inferiore a Torino per dinamismo economico, in ritardo ancora sulla Toscana e il Piemonte come centro bancario. Meno collegata per ferrovia al resto del Paese di quanto non fossero altre città: i primi tronchi ferroviari avevano collegato Milano con Monza nel 1840 e con Treviglio nel 1846 mentre, nel panorama generale, la rete ferroviaria lombarda contava appena duecento chilometri, contro duecentocinquanta chilometri della Toscana, trecento chilometri del Veneto e ben ottocento chilometri del Piemonte. L’Unità d’Italia (1861) permette dunque a Milano di uscire dallo stato di provincia periferica dell’Impero Austro-Ungarico, le apre le porte di un mercato nazionale e più ancora quelle dei futuri legami economici con l’Europa occidentale1. L’elemento più significativo della modernizzazione di Milano è rappresentato dalla costruzione della rete ferroviaria, tracciata sulla base di presupposti culturali dell’ingegneria ferroviaria francese, ignorando però purtroppo sia lo schema rappresentato dalla cerchia dei Navigli e dai Bastioni, sia quello della continuità sud est/nord ovest (via Emilia/Corso Sempione) integrato con il Piano Napoleonico nel Foro Bonaparte. A partire dal raccordo con il primo tronco ferroviario già realizzato, cioè il tratto MilanoMonza, il nuovo tracciato nega gli schemi presenti nel corpo della città, ed attraversa addirittura lo storico Lazzaretto. Con il Piano Regolatore di Cesare Beruto (1884-1888) la cintura ferroviaria compare per la prima volta nella cartografia ufficiale del comune. A quel tempo l’espansione urbana era immaginata dal Beruto conclusa da una circonvallazione esterna, larga 40 metri, oltre la quale però già numerosi tracciati viari proseguivano le direttrici radiocentriche, lasciando intendere l’intenzione di continuare, anche oltre i limiti indicati, il processo di ampliamento a macchia d’olio. Il sistema infrastrutturale era completato dalla cintura ferroviaria, più interna di quella stradale, basata sulle stazioni esistenti (la Centrale, posta dove oggi è piazza della 1
Per una più esatta comprensione dei meccanismi di crescita della città di Milano dopo l’Unità d’Italia si consiglia la lettura del paragrafo Lo sviluppo di Milano dall’Unità d’Italia al secondo dopoguerra in G. Campos Venuti, A. Boatti, A.P. Canevari, V. Erba, F. Oliva, Un secolo di urbanistica a Milano, Clup, Milano, 1986. Pagg. 9-41
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Repubblica, e le stazioni Nord e di Porta Genova) e su due grandi scali, uno non realizzato nei pressi della Piazza d’Armi e un altro corrispondente all’attuale scalo di Porta Romana. Si sono così create le condizioni per una infelice dislocazione della cintura ferroviaria che ha messo in crisi l’intera città. In breve tempo le espansioni della città superano le linee delle circonvallazioni esterne e si impone la necessità di formulare un nuovo piano. E’ con il piano Pavia Masera che è prevista la nuova cintura ferroviaria, così come la conosciamo nel suo attuale tracciato, con le nuove stazioni Centrale e di Porta Vittoria e con la caratteristica forma a C rovesciata, estremamente esterna all’edificato di quell’epoca, ma anch’essa destinata a essere assorbita e superata dal costruito di una città che conoscerà presto il trionfo della rendita assoluta, scientificamente progettato dall’ingegner Albertini per soddisfare le esigenze del regime immobiliare milanese, uno dei veri pilastri del regime fascista. La soluzione vincente fatta propria dalle Ferrovie e dallo stesso Comune fin dal 1902, è improntata a criteri meramente quantitativi. La stazione divenuta di testa scorre verso l’esterno della città, e gli scali di smistamento per le merci del Sempione e a Porta Garibaldi sono da sostituire con infrastrutture più robuste, proiettate anch’esse lontano: a nord del Cimitero Monumentale e a Lambrate. L’arroccamento ferroviario da Bologna e da Genova può essere spostato a est, dando margine alla città che continua a essere guardata come un insediamento fisicamente “murato” dalla ferrovia e caratterizzato da rapporti tradizionali con il territorio e dentro sé stessa, nonostante la nuova dimensione che le viene attribuita. La breve stagione italiana del trasporto merci e persone su ferro, come modo esclusivo, volge rapidamente al suo termine ed è proprio il passaggio di ruolo nell’economia dal mezzo pubblico su rotaia al mezzo privato su gomma che informa di sé il nuovo piano urbanistico di stampo fascista dell’Ing. Albertini del 1934. E non sarà il successivo Piano Regolatore Generale del 1953 a modificare significativamente il sistema ferroviario milanese. Occorre giungere agli ultimi anni del 1970 per vedere un cambio di tendenza, con la rivalutazione del sistema ferroviario quale risorsa per risolvere i problemi del traffico automobilistico, ma soprattutto come possibile fattore di riequilibrio del territorio metropolitano e regionale e infine come propulsore per il rilancio dell’economia della città e strumento per il controllo dei processi di trasformazione urbana. Il progetto a cui si fa riferimento è il piano dei trasporti adottato nel 1979 dal Consiglio Comunale di Milano e approvato dal Consiglio regionale nell’anno successivo. Il piano si occupa della rete ferroviaria, della rete urbana di trasporto pubblico, del problema delle tariffe, della viabilità, dei punti di interscambio e dei semafori; sono i primi due argomenti a costituire comunque la sostanza del piano. La rete ferroviaria e quella urbana di trasporto pubblico costituiscono le parti principali del piano e comprendono le nuove scelte quali: - il “passante ferroviario”, collegamento urbano sotterraneo tra le stazioni FS di Porta Vittoria e di Porta Garibaldi e il relativo sistema di stazioni intermedie e di punti di interscambio; - il collegamento ferroviario tra le stazioni FNM di Bovisa e FS di Porta Garibaldi, unificando quindi le reti FNM e FS in un’ottica di organizzazione complessiva dei servizi comprensoriali e regionali; - la linea 3 della metropolitana da Rogoredo alla Stazione Centrale, attraverso tutto il centro cittadino, quindi secondo la logica delle prime due linee. Le nuove infrastrutture sono viste quindi, non più come risposta alla domanda generale di mobilità o come strumento di riequilibrio territoriale, ma come elemento fondamentale e propulsivo di un nuovo sviluppo di Milano, identificato in una rivalutazione e valorizzazione della città centrale. Il servizio ferroviario regionale diventerà “unitario”, unificando la rete delle Ferrovie dello Stato con quella delle Ferrovie Nord Milano (diventate regionali): tale unificazione viene realizzata con il collegamento tra la stazione FS Garibaldi e quella FNM Bovisa; questo sistema sarà anche “integrato”, cioè composto da tutti i sistemi di trasporto pubblico extraurbano ed urbano (FS, FNM, ATM, MM) che verranno utilizzati in modo
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coordinato e coinvolgendo tutti gli enti di appartenenza (Stato, Regione, Comune e aziende comunali); il servizio sarà infine “passante” cioè attraverserà la città prevalentemente con un percorso sotterraneo, il Passante Ferroviario appunto, che con i suoi quattro virgola sette chilometri del tratto urbano assicura la piena integrazione tra le linee urbane e metropolitane e quelle extraurbane. In questo quadro la cintura ferroviaria liberata da parecchie funzioni di transito interpolo può assumere, soprattutto da ovest a sud, un nuovo significato e la linea Milano – Mortara, che si dibatteva da tempo in una crisi che la stava portando ad essere considerata un ramo secco, diventa un occasione per rilanciare da un lato il trasporto merci e dall’altro può iniziare la trasformazione di questa infrastruttura in una linea principalmente rivolta al trasporto pubblico interurbano e metropolitano.
IL MANUFATTO : LA DESCRIZIONE DELLO STATO ATTUALE DA QUATTRO PUNTI DI VISTA DI DIVERSI UTILIZZATORI IL CITTADINO CHE CAMMINA, L’AUTOMOBILISTA, IL VIAGGIATORE E L ’ABITANTE
Il manufatto è, a un riscontro obiettivo, molto articolato nella sua forma (Figura 1) attraversando zone molto dense con diverse funzioni, dalla residenza, all’industria, ai servizi, eccetera.
Figura 1. Morfologia della cintura ferroviaria milanese.
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A nord, dalla stazione di Certosa a quella di Greco, il rilevato ferroviario è a scarpata e dopo il tratto prevalentemente industriale, in parte dismesso e parzialmente trasformato in sede universitaria del Politecnico, nei pressi di Bovisa, la ferrovia incontra zone più residenziali (Affori e Niguarda) e alla stazione di Greco la nuova sede dell’Università Statale a Bicocca. Proprio nel quartiere di Greco si trovano due scampoli di territorio disordinati e prevalentemente destinati ad orti, incastonati tra bretelle ferroviarie e più precisamente tre rampe, delle quali una porta i treni dalla cinta verso la linea per Como - Chiasso, una dalla cinta verso la stazione di porta Garibaldi e l’ultima è l’ingresso dalla cinta alla stazione Centrale. Da Greco sino a poco dopo viale Monza la ferrovia corre su viadotto ad arcate la cui funzione d’origine è quella di portare i treni alla quota giusta per poter scavalcare i raccordi in ingresso alla stazione Centrale delle linee provenienti da nord e da nord – ovest, garantendo la permeabilità tra i due fronti. In realtà oggi queste arcate in larga parte sono occupate da attività artigianali nella migliore delle ipotesi, e più spesso versano in condizioni di degrado e di abbandono.
Figura 2. Degrado nelle arcate nei pressi di Greco.
Proseguendo oltre la stazione Centrale sino alla stazione di Lambrate la ferrovia corre di nuovo in un rilevato a scarpata che interseca un edificato denso e misto. Dalla stazione di Lambrate all’Ortica la cintura si biforca e nel suo tratto più orientale la ferrovia corre su rilevato con contrafforti in C.A. e in minima parte a raso, mentre il fascio ferroviario più interno prosegue su scarpata sino alla stazione di Rogoredo. Il tessuto edificato residenziale principalmente più a nord, si trasforma rapidamente in prossimità di Rogoredo, incontrando le strutture dell’Ortomercato. Da Rogoredo alla Stazione di Porta Romana la ferrovia prosegue a raso in una zona con destinazione prevalentemente industriale e caratterizzata anche da attività miste.
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Dalla stazione di Porta Romana all’intersezione con il Naviglio Grande la ferrovia transita su un rilevato in scarpata per concludere poi il percorso con un ultimo tratto a raso di qui sino alla stazione di San Cristoforo. Il tratto destinato alla dismissione che giunge sino alla stazione di Porta Genova è a raso. Il punto di vista del paesaggista richiama però un modo diverso di lettura dello stato di fatto a partire dalla percezione che quattro diverse categorie di cittadini possono avere di esso. In ipotesi esistono quattro tipologie differenti di cittadini che osservano, vivono, utilizzano e subiscono la cintura ferroviaria: il cittadino che cammina, l’automobilista, l’abitante che risiede in prossimità e il viaggiatore. A queste categorie corrispondono diversi punti di vista che nascono sia dalla quota dell’osservazione come dall’intenzione dello sguardo. Così l’oggetto cintura ferroviaria presenta significati molto diversi e ad essa vengono attribuiti significati, aspettative e valori differenti dei diversi personaggi che la osservano.
IL CITTADINO CHE CAMMINA Come ha sostenuto Antonio Debenedetti 2 sul Corriere della Sera di mercoledì 6 novembre 2002 “Il pedone, cioè l’uomo o la donna a due gambe e senza altra forza motrice che la pompa del suo cuore, è stato fino a ieri, e dovrebbe continuare a essere oggi, lo sposo ideale o la sposa prediletta della città. Il suo dovrebbe costituire un matrimonio quasi perfetto con i marciapiedi, gli attraversamenti su strisce e tutti gli altri spazi urbani riservati agli utenti più indifesi, meno rumorosi e inquinanti che calchino il suolo cittadino. Il pedone dovrebbe insomma compiacersi della sua città e la città del suo pedone.” Se così fosse sarebbe possibile lasciarsi andare a una deriva ideale come la definisce Guy Debord3: “Per fare una deriva, andate in giro a piedi senza meta od orario. Scegliete man mano il percorso non in base a ciò che sapete, ma a ciò che vedete intorno. Bisogna essere straniati e guardare ogni cosa come se fosse la prima volta. Un modo per agevolarla è camminare con lo sguardo leggermente inclinato verso l'alto, in modo da portare al centro del campo visivo l'architettura e di lasciare il piano stradale sullo sfondo. Dovete percepire lo spazio come un insieme unitario e lasciarvi attrarre dai particolari. Tracciate il percorso effettuato per poterlo successivamente studiare o raccontare. Se vi sono passanti, importunateli chiedendo ad esempio dove credono che dobbiate andare, cosa è importante vedere…”. Ma non è così. Soprattutto lungo la grande barriera della cintura ferroviaria il pedone incontra la maggior parte delle situazioni di degrado e di abbandono che accompagnano la vita delle metropoli. E così lungo il suo tracciato si incontrano quasi cinquanta casi, punti o tratti dove è evidente la presenza di problemi anche seri come discariche abusive, rifugi provvisori di homeless, muraglie e terrapieni degradati e sporchi, arcate abbandonate e protezioni improprie e provvisorie. Non mancano tuttavia, seppure in quantità minore, le potenzialità e cioè quei luoghi o quei tratti in cui l’ambiente, mediante una proposta di intervento adeguata, potrebbe migliorare. L’intervento diviene indispensabile per impedire che alla lunga le potenzialità diventino 2
Antonio Debenedetti nato a Torino, attualmente risiede a Roma ed è inviato speciale per la cultura del "Corriere della Sera". Ha pubblicato Rifiuto di obbedienza, Monsieur Kitsch, In assenza del signor Plot, Ancora un bacio, La fine di un addio, Spavaldi e strambi, Se la vita non è vita, Racconti naturali e straordinari, Giacomino, Amarsi male. 3 Guy Debord si unì ai lettristi del rumeno trasferito a Parigi Isidore Isou. L'incontro avvenne al Festival del cinema di Cannes dove Isou, nello stile dei lettristi che predicavano la dissoluzione dell'industria dello spettacolo, stava esibendo un cortometraggio che illustrava materialmente la fine del cinema mediante la proiezione della distruzione della pellicola stessa. In seguito ai primi disaccordi nacque l'Internazionale Lettrista, capeggiata da Debord e composta da pochi seguaci. Tra le varie teorie proposte le più interessanti ed attuali risultano essere quella legata al tempo libero e quelle relative alle teorie architettoniche urbanistiche comportamentali, tra cui la psicogeografia.
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situazioni critiche. E’ questo il caso delle aree limitrofe utilizzabili, dei ponti sovrappassi e sottopassi che favoriscono la permeabilità, ed infine delle arcate, se solo fossero pensate come luoghi presidiati ad attività umane di qualità. E poi esistono anche vere risorse per il pedone, ovvero i luoghi in cui la situazione è già buona o talvolta ottima al punto da proporsi già come realtà positiva da sfruttare o sfruttabile.
L’AUTOMOBILISTA Piace riassumere la condizione dell’automobilista nella descrizione così ben eseguita da Gioele Dix4 in Ora e sempre automobilista: “[…] per esempio, tu stai andando per la tua strada, anzi non stai andando, sei in coda, ti muovi a passo d'uomo, sei già nervoso di tuo, ti saltano sei appuntamenti, non hai alcuna voglia di scherzare, quando improvvisamente a quello davanti viene in mente: "Devo comprare le paste! "... E allora... PH! PH!... mette le luci d'emergenza, si ferma in mezzo alla strada e se ne va... Ma ti sembra un'emergenza? Queste "PH! PH!" sono diventate l'alibi per commettere qualunque vaccata! […] Io sono un automobilista, ed essendo un automobilista, sarò sempre costantemente in...zzato come una bestia”. La percezione che l’automobilista ha della cintura ferroviaria è quella dei ponti che continuamente attraversa e in sostanza questo personaggio identifica la cintura con i ponti che gli appaiono tra l’altro almeno in venti circostanze diverse senza nessuna cura architettonica e nella maggior parte dei casi oberati da enormi cartelli pubblicitari. Il campo visivo a una velocità di cinquanta chilometri orari è molto ristretto e l’immagine parziale del ponte diventa nella percezione facilmente il tutto. Tutti i ponti attraversati dal traffico veicolari sono carichi di potenzialità dal punto di vista dell’immagine; essi potrebbero trasformarsi in vere porte di accesso cariche di significati simbolici riferiti ai diversi quartieri e luoghi della città. Vi sono inoltre criticità come la lunghezza di determinati attraversamenti in galleria, spesso squallidi e sporchi, o l’esistenza di passaggi a livello, ma il dato essenziale è quello della percezione particolarissima che dall’auto si ha delle infrastrutture.
IL VIAGGIATORE Il viaggiatore ha della cintura ferrovia la percezione più strutturale, più complessiva e cioè legata all’uso. La cintura ferroviaria mostra senza nessuno sconto il volto vero della città: periferie, retri di abitazioni, aree abbandonate e anche parchi, residenze e industrie. Da un punto di vista di immagine è letteralmente il biglietto da visita di una città in una situazione in cui l’osservatore – viaggiatore è tendenzialmente benevolo perché si giunge al termine di un viaggio, perché ci si attende una visione periferica, ma è anche molto ricettivo ed analitico – critico. Paradossalmente bisognerebbe cambiare talvolta le città e invece al contrario sono proprio le fasce di rispetto ferroviario che possono giocare un ruolo importante con le sistemazioni a verde, con le stazioni ed anche con adeguate strutture che aiutino il viaggiatore a percepire i quartieri e la storia della città. Il viaggiatore incontra lungo la cintura ferroviaria sette ingressi principali alla città che rappresentano altrettante essenziali potenzialità: nei pressi di Certosa con la grande occasione offerta dal parco di Quarto Oggiaro in corso di realizzazione, la seconda che traguarda la Martesana, la terza e la quarta tra l’Ortica e Lambrate a valorizzare la
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Davide Ottolenghi in arte Gioele Dix, attore comico.
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prospettiva del parco Lambro e del parco Forlanini, la quinta e la sesta a Rogoredo (Chiaravalle) e l’ultima sul Naviglio Grande.
L’ABITANTE L’abitante che risiede nei pressi della cintura ferroviaria vive questo manufatto in termini di vicinanza critica e cioè di perdita di privacy e di rumorosità, soprattutto ora che interi tratti, in particolare quelli della zona sud della cintura, vengono caricati di nuovi pesi in termini di treni viaggianti.
Figura 3. Le abitazioni vicino alla ferrovia in viale Monza.
Così le abitazioni più o meno recenti sono state costruite ai bordi e fino a ridosso della cintura come a Greco, in viale Monza, in via Palmanova, a Lambrate, in viale Forlanini, in viale Tibaldi, in via Fedro e in via Brioschi. In questi casi il problema e la percezione della cintura sono un tutt’uno: ridurre a tutti i costi il rumore che in molte parti della città è davvero insostenibile. Dove le ferrovie sono intervenute nel passato con provvedimenti di mitigazione del rumore l’aspetto estetico è impresentabile e disastroso.
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Figura 4. La muraglia delle barriere antirumore nei pressi dellâ&#x20AC;&#x2122;Ortomercato.
Figura 5. Lâ&#x20AC;&#x2122;analisi del rumore lungo la cintura (in rosso edifici molto sensibili, in blu edifici mediamente sensibili, in giallo edifici poco o per nulla sensibili).
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ALCUNE PRIME CONCLUSIONI La cintura ferroviaria quindi è un manufatto che segna, continuamente, per venti chilometri l’immagine stessa della città. Essa condiziona profondamente il modo di vivere e di abitare dei milanesi. Un progetto urbano e di paesaggio che riguardi la cintura ferroviaria non può non tenere conto del complesso delle esigenze emerse da questa analisi sfaccettata ed eccentrica a partire dai bisogni primari, eliminazione o mitigazione della rumorosità, rimozione del degrado sociale ed ambientale sino a giungere al miglioramento della qualità del paesaggio urbano attraverso il disegno delle fasce di rispetto, delle stazioni, dei rilevati e delle medesime barriere antirumore.L’infrastruttura di trasporto su ferro indispensabile per un futuro di una metropoli come quella milanese deve essere talmente amichevole e affabile per la città da essere amata e preferita alla automobile: e non è affatto facile. Tecnologie, innovazioni, colori, tecniche di comunicazione devono concorrere a trasformare il concetto stesso di infrastruttura ferroviaria: le fermate, ad esempio, non possono essere l’unica proposta per Milano e la sua cintura e la ferrovia deve ritrovarsi in un concetto nuovo di stazione, multifunzionale, aperta sino a tardi e molto presto. L’infrastruttura deve comunicare non solo attraverso i cartelli pubblicitari ma anche con l’informazione culturale. Le barriere antirumore, dai tunnel alle barriere verdi, devono essere opere di architettura e non manufatti casuali, sommatoria di tecniche ingegneristiche fini a se stesse. La cintura ferroviaria deve diventare quindi un elemento vivo e di cerniera utilizzando le arcate come catalizzatore di nuove attività commerciali e di servizio per tutta la città.
IL PROGETTO DELLA ITALFERR Di fronte a questa situazione la società Italferr (Società di ingegneria delle Ferrovie dello Stato) ha approntato un progetto per il “Raddoppio della linea Milano-Mortara e ammodernamento tecnologico”. I lavori sono previsti con inizio nel 2008, ma già da adesso sono sorte, soprattutto nella città di Milano, numerose perplessità riguardo l’intervento che hanno messo in luce una insufficiente considerazione per i quattro personaggi che hanno interpretato i ruoli nel precedente paragrafo. Nella seduta del 10 marzo 2005 di un Comitato paritetico cittadini, società Italferr e comune di Milano, si è riconosciuta la necessità di un concorso di idee per individuare le condizioni ottimali da adottare per la cintura sud che tengano conto, insieme alle prospettive nel medio e lungo termine del trasporto pubblico su ferro, dell’impatto ambientale ed urbanistico di questa infrastruttura, nonché della fruibilità delle fasce ferroviarie. La strada da percorrere in questo senso guardando il progetto dell’Italferr è molta. Il progetto prevede un intervento che coinvolge la tratta sud della cinta ferroviaria di Milano, fino alla stazione di Porta Romana e con esso la riattivazione a pieno regime del traffico ferroviario (passeggeri e merci), trascinando con sé tutti i conseguenti disagi e problemi connessi alla stretta convivenza di questo tracciato ferroviario con l’ambito cittadino in cui si colloca. La linea si sviluppa attualmente dalla stazione di Milano P.ta Genova alla stazione di Mortara, per una lunghezza complessiva di quarantacinque virgola sei chilometri; Il progetto Italferr prevede alcune sostanziali modifiche dello stato attuale e, in particolare con riferimento a quanto riguarda la tratta sud della cintura ferroviaria di Milano, si riportano in sintesi i principali interventi: - dismissione dello storico scalo di Milano P.ta Genova (l’amministrazione comunale ha proposto la realizzazione del “parco lineare” di S. Cristoforo, in aderenza al rilevato ferroviario parallelo a via Savona e destinato a proseguire, con la dismissione del fascio dei binari, fino alla stazione di Porta Genova.).
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Capolinea urbano diverrà lo scalo di Milano P.ta Romana: i treni provenienti da Mortara saranno istradati sulla cintura ferroviaria Sud che si stacca dal Bivio Vigevano. L’intervento prevede la riorganizzazione della stazione di P.ta Romana, in modo anche da favorire l’intermodalità con la MM 3 Romana-Lodi. - Realizzazione di nuove fermate: in area urbana quella di Milano Tibaldi (zona Bocconi) e Romolo (scambio previsto con la MM 2 Romolo, linea 90 e 91); in area extraurbana quella di Cesano Boscone e Albairate/C.na Bruciata, definita “capolinea della tratta comprensoriale”. In particolare i necessari interventi per ogni stazione/fermata della linea all’interno del comune milanese sono: Stazione di Milano Porta Romana. Questo scalo dovrebbe costituire la nuova stazione capotronco del servizio viaggiatori per Mortara – Alessandria. Il progetto prevede la realizzazione di un piccolo fascio di binari tronchi nella zona nord del piazzale, in prossimità di piazzale Lodi, così da facilitare l’accesso alla fermata della linea 3 della metropolitana. Fermata di Milano Ribaldi. Questa nuova fermata è finalizzata soprattutto a migliorare l’accessibilità dell’Università Bocconi e delle aree circostanti. L’intervento consiste nella realizzazione delle banchine ai lati del rilevato ferroviario e di pensiline di copertura poste nella parte centrale delle banchine. Il collegamento con il piano strada è garantito da rampe scale coperte. Fermata di Milano Romolo. L’utilità della fermata Romolo è rappresentata dall’interscambio con la linea metropolitana 2. Qui si attestano anche i capolinea dei servizi su gomma e la mobilità del mezzo privato. Anche in questo caso si prevede la realizzazione di banchine ai lati del rilevato e di pensiline metalliche nel tratto centrale. Oltre al collegamento con il piano strada e previsto un collegamento diretto con il piano mezzanino della MM2. IDEE PER IL PROGETTO L’esigenza primaria, tutta a favore degli abitanti, è l’applicazione corretta di sistemi anti – rumore adeguati dal punto di vista acustico, ma anche fedeli alle esigenze degli altri personaggi e attori sulla scena e cioè dei cittadini che camminano e osservano, degli automobilisti e dei viaggiatori. Per gli abitanti è la precedente figura dell’analisi del rumore lungo la cintura a determinare la tipologia del sistema anti – rumore. E così lungo il tracciato ferroviario, da nord verso sud, gli interventi anti – rumore saranno caratterizzati: - Tra Certosa e l’incrocio con le Ferrovie Milano Nord (linea Milano Asso) da barriere naturali mediante dune ed alberature nell’arco nord di questo tratto, mentre in quello sud da vele verticali. - Tra le Ferrovie Milano Nord (linea Milano Asso) e la stazione di Porta Romana da vele verticali con l’eccezione del versante esterno della cintura, subito a sud della diramazione dell’Ortica, dove potranno essere realizzate dune e barriere naturali e prima della stazione di Porta Romana tra le vie Sannio e Longanesi da tunnel chiuso. - Tra Porta Romana e la fermata di Romolo da un tunnel chiuso. - Tra Romolo e San Cristoforo da vele verticali. Ma la combinazione delle esigenze dei diversi soggetti fa interferire altre scelte e combinazioni meta progettuali con lo schema generale sopra descritto, e in particolare: - Lungo tutto il tratto Certosa Quarto Oggiaro, quasi sino a Riguarda, sono previsti gli interventi di rinverdimento curato delle sponde. - Tra Quarto Oggiaro e viale Zara dovranno essere previsti adeguamenti dei sottopassi pedonali. - A Greco è previsto il recupero funzionale e architettonico delle arcate con ipotesi di inserimento di attività pubblica e privata con elevate caratteristiche di attrattività.
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Tra la stazione Centrale e l’Ortica interventi di adeguamenti dei sottopassi pedonali con attenuazione dell’impatto visivo dei contrafforti in C.A. di contenimento del rilevato ferroviario. - A sud della diramazione dell’Ortica interventi di rinverdimento delle sponde e di riproposizione della frangia agricola come verde cittadino urbano con il recupero architettonico dei ponti storici. - Alla svolta della cintura dopo la diramazione per Rogoredo, riproposizione della frangia agricola come verde cittadino urbano con il recupero architettonico dei ponti storici. - A Tibaldi e a Romolo ipotesi di riadeguamento architettonico della fermata prevista dal progetto Italferr con formazione di vere stazioni. - Tra Romolo e San Cristoforo interventi di rinverdimento curato delle sponde e recupero funzionale e architettonico delle arcate. Inoltre lungo il tracciato, a Niguarda, in viale Zara, in viale Palmanova, a Lambrate, a sud dell’Ortica, in corso Lodi e al Naviglio Grande è previsto il conferimento ai ponti della dignità di portali cittadini attraverso un unico linguaggio architettonico. E da ancora in più punti della cintura ferroviaria, ove è possibile, inserimento di giardini lineari e di percorsi ciclopedonali integrati alle sponde ferroviarie, così come in corrispondenza delle vie storiche della città creazione di elementi rappresentativi visibili e rivolti ai viaggiatori.
Figura 6. Interventi anti – rumore lungo la cintura ferroviaria (in rosso barriere a tunnel chiuso, in giallo barriere a vele verticali, in verde barriere naturali attraverso dune e alberature).
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GENESI DELLA FORMA E TIPOLOGIE FINALI DELLA STRUTTURA “Il paesaggista descrive il comportamento del tracciato sperimentale…, inserendolo nei paesaggi precedentemente studiati. Questa analisi identifica e gerarchizza gli elementi forti, positivi e negativi dell’insieme della linea” 5. E ancora Sebastian Giorgis parlando dei compiti del paesaggista sostiene: “grazie alla trasversalità del suo approccio, alla coscienza dello spessore e di tutte le dimensioni della realtà territoriale e per il fatto che è il suo compito di dare forma all’insieme delle richieste e delle esigenze tecniche e settoriali, egli può proporre la sintesi formale della linea, quella che sarà restituita alla fine attraverso la forma delle configurazioni, il rapporto con il suolo originario, e la copertura vegetale” 6. Infine nella scelta dei riferimenti al contesto agricolo, rurale e naturale secondo Michel Desvigne7 esiste la necessità di un dialogo con determinate preesistenze del sito; compito del paesaggista è quello di riconoscere, gerarchizzare e classificare le componenti di questi paesaggi e quindi trasformarle in funzione delle nuove necessità per costituire una sorta di linguaggio. L’idea base che genera la forma si rintraccia nell’unico elemento sempre ricorrente lungo tutta la cintura ferroviaria, la vegetazione, ed in particolar modo la robinia (sì, proprio la tanto discussa robinia) che popola rigogliosa le scarpate ferroviarie a fianco dei binari e le riempie delle vibrazioni delle sue foglie che si intrecciano in un interessante gioco di chiaroscuri. L’idea di progetto prevede la creazione della forma dell’unità base, del modulo, ispirata al sistema ramo-foglie e tronco-chioma delle piante con regole che di volta in volta vengono dettate dall’ambiente diverso in cui ci si trova. Esiste uno stelo centrale che affonda nel terreno tramite un piccolo plinto di fondazione e affusolato verso l’alto.
Figura 7. Genesi della forma della tipologia finale degli elementi modulari di barriera.
Dalla base dello stelo centrale si dipartono aprendosi verso l’esterno tre montanti in verticale, ciascuno dei quali in pianta è incernierato a terra, al vertice di un triangolo di cui lo stelo centrale va a costituire il baricentro. 5 Jean Pierre Pujols, Nuovi paesaggi per le infrastrutture e le città, “Architettura del Paesaggio” Quaderno 1, 2000, pag. 18 6 Sebastian Giorgis, Una linea nel paesaggio, “Architettura del Paesaggio” Quaderno 1, 2000, pag. 34 7 Michel Desvigne, Christine Dalnoky, Inserimento paesaggistico della nuova stazione del TGV, Avignone 1995, “Architettura del Paesaggio” Quaderno 3, 2001, pag. 13
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Ogni montante è collegato allo stelo centrale tramite strutture tiranti lanceolate a forma di foglia o semplici cavi che lavorano per trazione, tenendo in posizione i montanti verticali. La “chioma” è costituita da altri tre montanti, che chiudono il triangolo fra gli estremi superiori di quelli verticali, i quali estremi possono trovarsi a quote differenti rispetto al terreno. Questi ultimi montanti reggono le predisposizioni per sostenere i pannelli trasparenti che arriveranno sino a terra per contenere la fonte di rumore. Il processo di sintesi tra i quattro fattori in gioco (ambiente, funzioni, requisiti, forma) fa sì che tali fattori vengano coniugati tra loro per arrivare a dare alla struttura una forma finale. Il fatto che la struttura, in coerenza con i requisiti analizzati, debba essere adattabile agli ambienti in cui deve sorgere, e versatile rispetto alle funzioni che può assumere oltre a quella di mitigare il rumore dei treni, implica che la sua forma, nata dall’idea di reinterpretare la morfologia vegetale, debba essere flessibile ed elastica, e sia pronta a mutare a seconda delle esigenze. Se la struttura intera deve essere pronta a questa mutazione, significa che ogni sua parte deve esserlo. Ciò comporta che, in ultima analisi, sia l’unità modulare l’elemento da cui deve partire tale capacità metamorfica. Il processo si completa con la definizione di alcune tipologie del modulo base, con cui la forma si concretizza nella composizione delle diverse strutture. Le diverse tipologie del modulo base possono essere così riassunte: 1. Modulo A – verticale L’unità modulare presenta la parte superiore (la “chioma” di larghezza media di sette metri) in posizione marcatamente inclinata e tendente alla verticalità. Su di essa andrà a saldarsi la struttura secondaria di supporto al materiale fonoriflettente (vetro, policarbonato o polimetilmetacrilato). Lo stesso modulo, composto diversamente e opportunamente completato dalla relativa struttura di supporto, è chiamato a sorreggere: le barriere antirumore verticali; il tunnel trasparente; altre possibili strutture architettoniche. 2. Modulo B – orizzontale L’unità modulare presenta la parte superiore (“chioma” con larghezza indicativa di cinque metri) in posizione orizzontale. Su di essa andrà a saldarsi la struttura secondaria di supporto al materiale trasparente, ma anche a vele opache, bianche o variopinte, per creare ombra e offrire riparo. Lo stesso modulo sorregge le strutture dei portali stradali e le strutture minori, come pergolati pedonali. 3. Modulo C – supporto opere L’unità modulare, concepita in quattro forme diverse, presenta la parte superiore come grandi vassoi per sorreggere sculture a grande scala, oppure predisposizioni per pannelli per immagini. Le opere sono pensate per la scala visiva del viaggiatore (distanza e velocità). Figura 8. Modulo di supporto per sculture e opere grafiche.
4. Modulo D – supporto manifesti pubblicitari e di comunicazione Questa unità modulare si ripropone di sostituire gli attuali supporti per i manifesti pubblicitari e di comunicazione, uniformando anche in questo settore il linguaggio architettonico a quello di tutta la cintura ferroviaria. 5. Modulo E – lampioni
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Il modulo lampione non è una unità modulare ma un’unità a sé stante, non viene cioè composta per creare una struttura più complessa. La sequenza di lampioni che andranno a illuminare un determinato tratto di cinta o di strada adiacente, comporrà idealmente un sistema di illuminazione che di fatto può porsi come struttura con una propria fisionomia. I lampioni funzionano a luce riflessa: la lampada dirige il fascio di luce verso l’alto e questo viene poi riflesso e diffuso verso terra da un’apposita superficie.
Figura 9. Tipologia di elementi di illuminazione.
6. Modulo F – protezioni Nel modulo protezioni la chioma si trasforma in un elemento di protezione verticale, a ringhiera o vetrato.
QUATTRO IDEE PROGETTUALI PER I QUATTRO PERSONAGGI. Il progetto per il cittadino che cammina: il recupero delle arcate del viadotto ferroviario nel quartiere di Greco Il progetto prevede il restauro del manufatto in stato di evidente degrado e la trasformazione di destinazione d’uso con l’inserimento di attività miste pubbliche e private fortemente attrattive; tali attività dovranno porsi come risorsa per il quartiere e la città, e impedire un nuovo degrado possibile nel caso in cui vengano nuovamente abbandonate a se stesse e alla loro unica funzione di sostenere i binari. I volumi al di sotto delle arcate, un tempo usati come officine, magazzini e altre svariate attività il cui abbandono ha portato alla grave situazione di degrado architettonico e sociale di oggi, vengono nel progetto recuperati come sede di spazi espositivi, atelier e residenze di artisti, botteghe, inseriti in un ambiente diverso, creato dall’inserimento di due colline verdi a nord e a sud del viadotto. Il riferimento principale è all’esperienza per esempio già realizzata a Parigi con il recupero delle arcate a Issy Le Moulineaux in presenza della linea ferroviaria in
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esercizio e al Viaduc des Arts dove il piano superiore è utilizzato come pista ciclabile e percorso vita. Sotto la collina meridionale troveranno collocazione anche spazi commerciali, di ristorazione, parcheggi, un piccolo auditorium. Tra il fronte della collina e quello delle arcate un accesso coperto da vele vetrate accompagna il pedone alla piazza inferiore, sotto la quale una grande hall distribuisce i visitatori verso gli spazi espositivi ricavati su due quote nei vani delle arcate, mentre una seconda piazza, quella superiore, accoglie i pedoni alla quota della collina verde per portarli tramite passerelle aeree alle scale che scendono alla piazza inferiore, oppure al ponte verde che scavalca i binari di accesso alla stazione centrale per collegarsi alla pista ciclabile sul Naviglio della Martesana, permettendo di connettere il quartiere di Greco alla linea 1 della metropolitana (fermata Turro), poco distante ma ora irraggiungibile a piedi proprio a causa del fascio di binari che isolano il quartiere. Per le case molto vicine al viadotto, è stato previsto anche l’inserimento di barriere antirumore che completano l’intervento uniformandone il linguaggio architettonico.
Figura 10: Recupero delle arcate del viadotto ferroviario nel quartiere di Greco
Il progetto per l’automobilista: il portale in viale Monza Lungo gli assi stradali principali è possibile la realizzazione di portali stradali pensati per l’ottica dell’automobilista che ha un campo visivo che fa convergere le sue linee sul ponte ferroviario sotto cui egli sta per passare. Un esempio di possibile realizzazione è quello sul Viale Monza, ma può esser valido su tutti i ponti della cinta. Oltre alla pulizia del ponte per riportarlo al suo aspetto originale dopo anni di incrostazioni dovute a smog e infiltrazioni d’acqua dalle rotaie soprastanti, e alla sua adeguata illuminazione notturna come si usa fare per i monumenti, l’intervento prevede la rimozione dei cartelli pubblicitari dalla struttura del ponte e la creazione di un portale a vele orizzontali trasparenti che segnala agli automobilisti l’ingresso al
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cuore della città, e su cui predisporre cromakit per messaggi variabili di pubblico interesse e – perché no? – anche messaggi pubblicitari, ricontestualizzati però con l’intervento. Il progetto per il viaggiatore: installazioni museali Il progetto prevede l’installazione di strutture su cui disporre opere d’arte pensate alla scala visiva di chi viaggia in treno. Se il finestrino è la vetrina da cui egli osserva la città, la città deve in qualche modo rispondere, soprattutto nelle zone in cui i treni fanno il loro ingresso nel tessuto cittadino. Il tratto urbano della cintura può trasformarsi così nell’occasione di diventare, in alcuni punti adatti alla velocità di transito e in rapporto alla distanza dai binari, una grande galleria espositiva per chi transita. Il progetto per l’abitante: tunnel antirumore e fermata in via Tibaldi Il progetto prevede la creazione di un tunnel antirumore nella zona sud della città, in particolare dove esso incontra la fermata Tibaldi prevista da Italferr. Il progetto si misura e confronta con quello dell’ente ferroviario, che viene recepito per quanto riguarda gli aspetti tecnici legati alla circolazione dei treni, e alla movimentazione dei passeggeri nell’ambito delle banchine previste. L’intervento mira all’attenuazione di alcuni aspetti negativi, legati soprattutto alla mancanza di ogni tipo di legame amichevole tra la fermata e il tessuto urbano circostante. A questo scopo la fermata si trasforma in stazione e utilizza, data la ristrettezza degli spazi, una collocazione eccentrica rispetto all’asse ferroviario e così anche simbolicamente una grande sfera trasparente rotola delicatamente sui giardini di piazza Ai Caduti Del Lavoro. Essa contiene sia la rampa che porta ai binari, sia i servizi minimi che una stazione di quartiere della città metropolitana deve possedere, come ad esempio un’edicola, locali igienici, e qualche attività commerciale legata alla presenza dei passeggeri e alla possibilità di veloci shopping.
Figura 11. Proposta progettuale di tunnel vetrato anti – rumore e studio alternativo alla fermata di Tibaldi
CONCLUSIONI “Un luogo, è stato più volte commentato e sottolineato, può diventare un non-luogo. Eppure può capitare, in alcuni frangenti, che proprio il fatto di essere un non-luogo
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risulti essere la sua peculiarità, forse l’unica, e che questa peculiarità lo connoti al punto di farlo quasi ritornare ad essere un luogo: un paradosso. Posti quasi fuori dal tempo e dallo spazio, dimenticati non si sa se volutamente in una dimensione sospesa tra essere e non essere. Nicchie che formano microcosmi che paiono non accorgersi di ciò che succede intorno e, scambievolmente, in una sorta di tacito accordo, ciò che sta intorno pare non accorgersi di ciò che lì vi avviene. Luoghi quasi segreti, intimi. Spazi negli inter-spazi. Architetture negli interstizi. Linee di confine che vivono di vita propria, fra un luogo ed un altro, fra una realtà ed un’altra, fra un modo di vivere ed un altro, ma anche barriere, cicatrici che tagliano e dividono. O più semplicemente: luoghi “Fra”. E’ possibile trasformare questi luoghi non-luoghi in risorse per tutti?” 8. Così si chiedevano i due autori della già citata tesi di laurea all’inizio del loro lavoro. In questo viaggio condotto insieme, l’analisi ha mostrato quali siano i problemi e quali le potenzialità, e le risorse legati a questa storica infrastruttura. Dalla quota zero, percepita camminando nei luoghi-non luoghi della cintura o chiusi in un’automobile e intersecando i quarantasette ponti del tracciato o salendo sui treni che tutti i giorni alimentano il flusso vitale della metropoli milanese o abitando a ridosso di essa e soffrendo dei rumori e del degrado di questa antica struttura è stata condotta un’analisi percettiva multiversa e molto sfaccettata. Il risultato del lavoro, gli schemi progettuali, si iscrivono nel libro delle grandi città e delle sue periferie “Fra speranza e rassegnazione. Fra rifugio e disperazione. Fra ignoto e conosciuto. Fra rispetto e degrado. Fra occupazione ed abbandono. Fra potenzialità e realtà. Fra bello e brutto. Sempre col presupposto di non tradire le sue peculiarità e cercando di trasformarle in risorse per tutti, anche laddove si presentavano solo come potenzialità inespresse o vere e proprie situazioni critiche…” 9.
Testo acquisito dalla redazione della rivista nel mese di gennaio del 2006. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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“Quattro personaggi in cerca di…” Analisi percettiva e proposte per la riqualificazione urbanistica e architettonica della cintura ferroviaria di Milano, Relatore Prof. Arch. Antonello Boatti, Autori Simone Carzaniga, Annalisa Cingia, Politecnico di Milano, Facoltà di Architettura e Società, Anno Accademico 2003-04. 9 Ibidem.
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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768 Università degli Studi di Firenze
Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/ Firenze University Press anno 3 – numero 3 – gennaio - giugno 2005 sezione: Dialoghi pagg. 65 - 76
IL
JARDIN ATLANTIQUE E IL DIBATTITO SUL PARCO PUBBLICO IN COLLOQUIO CON PASCAL CRIBIER E BERNARD LASSUS .
FRANCIA. A
Donatella Pennisi* Summary The contribution propose san extract of the research, conducted within a Maitrise in Art History (Department of Contemporary Architecture, paris University 1 – Panthéon Sorbonne) that had as object a critical survey on one of the most famous parks created in paris in the last twenty years: the Jardin Atlantique. Two of many interviews made to professionals and experts in landscape archietcuture have been taken from the last section of the theses. Bernard Lassus and Pascal Cribier were asked to supply their opinion on the specific park design and, more widely, on the topic of contemporary urban park. Key-words Jardin Atlantique, Bernard Lassus, Pascal Cribier, Public park.
Abstract Il contributo propone un estratto del lavoro di ricerca, condotto nell’ambito di una Maîtrise in Storia dell'Arte (dipartimento di Architettura Contemporanea, Università Paris 1- Panthéon Sorbonne, 2003), che aveva come oggetto una indagine critica su uno dei più noti parchi parigini realizzati nell’ultimo ventennio: il Jardin Atlantique. Dall’ultima sezione delle tesi sono state riportate due delle numerose interviste fatte a professionisti ed esperti di architettura del paesaggio, sollecitati a fornire la loro opinione sul progetto specifico e, più ampiamente, sul tema delle forme e dei contenuti del parco pubblico contemporaneo.
Parole chiave Jardin Atlantique, Bernard Lassus, Pascal Cribier, parco pubblico.
* Maîtrise in Storia dell'Arte, dipartimento di Architettura Contemporanea, Università Paris 1Panthéon Sorbonne.
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PREMESSA
Nell'ambito di una Maîtrise in Storia dell'Arte (dipartimento di Architettura Contemporanea, Università Paris 1- Panthéon Sorbonne, 2003) è stato realizzato un approfondito lavoro di ricerca sul Jardin Atlantique a Parigi. Il JA è un giardino pubblico pensile realizzato su una piattaforma di cemento sovrastante la stazione ferroviaria parigina di Montparnasse. Inaugurato nel 1994 dopo una gestazione trentennale e la risoluzione di non pochi problemi tecnici, politici e finanziari, viene considerato il giardino parigino più costoso del XX secolo. Per una visione sintetica d'insieme, si rinvia alla piantina illustrata e alla scheda riassuntiva. La tesi è stata articolata in tre parti: - l'esame della politica municipale in tema di parchi pubblici a Parigi nel Novecento e la loro relativa evoluzione stilistica, - l'analisi architettonica, paesaggistica e finanziaria del JA, - il resoconto della sua ricezione da parte del pubblico e della stampa. Quest'ultima sezione è stata corredata da una serie d'interviste a professionisti ed esperti di progettazione del paesaggio, che hanno espresso la loro opinione sul JA e sul più vasto tema del parco pubblico contemporaneo, offrendo interessanti spunti di riflessione. Per il presente contributo, sono stati selezionati i colloqui con Pascal Cribier e Bernard Lassus, che incarnano due voci, significative a livello internazionale, del dibattito contemporaneo sul progetto di paesaggio. Le due interviste sono precedute da un breve ma opportuno quadro conoscitivo del progetto e dell’opera, utile per fissare alcuni parametri tecnici, di ordine dimensionale ed economico.
BREVI NOTE INFORMATIVE SULLA GENESI DEL JARDIN ATLANTIQUE E LE SUE CARATTERISTICHE
Il progetto di un giardino pensile era stato contemplato sin dall'origine nell'operazione immobiliare Maine-Montparnasse, legata alla costruzione della nuova stazione ferroviaria (1965). Il giardino avrebbe dovuto arrecare un particolare beneficio agli abitanti della zona di Dubuisson, limitrofo alle vie ferrate. Il primo progetto di copertura dei binari risale al 1962, ma l'approvazione del progetto è giunta solo nel 1986, grazie al varo di una nuova operazione immobiliare destinata a coprire gli ingenti costi della sospensione parziale del traffico ferroviario. Per dare forma al nuovo parco fu indetto un concorso di progettazione ad inviti, a cui furono chiamati a partecipare cinque gruppi di progettisti. Ai concorrenti vennero fornite dal bando le seguenti linee guida: - conservare uno spazio unitario senza limitare la funzionalità delle varie zone (i cinque campi da tennis, le vie di circolazione, il "jardin clos"); - privilegiare la presenza vegetale; - rispettare due scale spaziali: quella monumentale degli edifici limitrofi e quella intima di un "jardin clos" che facesse dimenticare la cornice architettonica; - rispettare la vocazione di giardino di quartiere dotato di un'area gioco per bambini. Oltre a queste indicazioni, occorreva tenere conto anche di alcune precise direttive tecniche: - la piattaforma di cemento armato "précontraint", con i relativi vincoli di carico dettati dalla posizione delle travi; - le centotrentasei griglie d'aerazione e d'illuminazione della stazione e del parcheggio sottostanti; - le due corsie di emergenza per i pompieri (centrale e perimetrale).
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Dalla distribuzione dei carichi sulla piattaforma sono derivate inoltre quattro diverse profondità del terreno su cui lavorare (duecento, centosessanta, novanta e cinquanta centimetri). Vincitore del concorso è risultato il progetto elaborato dallo Studio Parages di François Brun e Michel Péna. Il sito è costituito da un rettangolo di duecento metri (asse nord-sud) per settanta. La pianta del giardino si può schematizzare in un grande quadrato centrale incastonato in due enormi e convergenti "C". L'asse longitudinale nord-sud è materializzato dalla corsia d'emergenza che bipartisce perfettamente lo spazio: verso ovest si trova il jardin clos articolato in una successione di zone (salles) a dominanza minerale, verso est i campi da tennis ed il sun deck, al centro il prato con la fontana a getti e i cinque grandi strumenti scientifici (anemometro, pluviometro, termometro, barometro e specchio). La metafora marina del viaggio tra i continenti, simbolicamente materializzati nelle due metà del giardino, è variamente illustrata (i due filari d'alberi lungo la corsia d'emergenza centrale, i monumentali "alberi" metallici sul lato nord, eccetera.). Secondo i paesaggisti Michel Péna e François Brun, i punti deboli del progetto sono essenzialmente la complessità, l'eccessiva eterogeneità dei materiali e la scarsa praticità di certi elementi di arredo ed attrezzature (ad esempio l'anemometro e lo specchio, il pavillon delle onde). Gli autori rivendicano tuttavia la scelta del disegno formalista, a loro avviso indispensabile in questo sito. Il punto forte è l'aver realizzato un giardino ben soleggiato, più vasto e diverso per contenuti da quanto richiesto dal piano programmatico fornito dalla municipalità al momento del concorso.
IL JARDIN ATLANTIQUE IN CIFRE
Nella tabella che segue sono state riportati alcuni dati dimensionali (desunti da un dossier stampa illustrativo fornito dal Comune di Parigi del 1994). Superficie totale Area Tennis Zone sportive (pavimentazione in legno) Sun deck Prato centrale Piattaforma centrale con strumenti (escluso fontana) Fontana centrale "Jardin clos"
34.200 mq 3.200 mq 1.100 mq 560 mq 5.800 mq 370 mq 260 mq 7.100 mq
La superficie effettiva di uso libero del giardino è di ventunmilaeottanta metriquadrati (superficie totale meno i campi da tennis, la corsia pompieri periferica, gli spazi di transizione fra il giardino e gli immobili sui lati Nord e Sud, le griglie d'aerazione e d'illuminazione). Il suolo vegetale effettivo è compreso fra novemilatrecentocinquanta metriquadrati (prato centrale e "jardin clos" ridotto approssimativamente del cinquanta per cento in ragione della forte componente minerale) e quattordicimilatrecentocinquanta metri quadrati, che includono anche le aiuole e la "bande jardinée". Il rapporto tra suolo vegetale e superficie totale oscilla quindi tra il quarantaquattro per cento ed il sessantotto per cento. Solo quest'ultimo valore si situa nella media (sessanta/settanta per cento)
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richiesta dalla municipalità per i giardini pubblici parigini.
IL BUDGET DEL JARDIN ATLANTIQUE (IN EURO)
Costo totale del giardino Costo effettivo del giardino (esclusi costi relativi alla realizzazione della piastra) Costo fontane Costo strutture in pietra Costo alberi Costo terra e piante
17.287.000 15.214.000 793.000 1.067.000 564.000 869.000
Il costo totale per metro quadrato risulta di cinquecentocinque euro, molto elevato secondo la Direzione Parchi e Giardini della Città di Parigi (il costo medio per opere a verde all'epoca era di centonovantotto euro/mq) e superiore anche ai trecentonovantasei euro/mq del prestigioso parco André-Citroën. L'incidenza delle costruzioni in pietra e delle fontane (diecivirgolasettantacinque per cento circa) è superiore alla media. L'incidenza delle spese per fornitura di terra, piante e alberi è dell'ottovirgolaventotto per cento, contro una media del dieci per cento.
Figure 1 e 2: Due immagini della fontana centrale.
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IL JARDIN ATLANTIQUE E IL PARCO PUBBLICO CONTEMPORANEO : INTERVISTA A PASCAL CRIBIER
D. : Cosa ne pensa del JA? R. : Il giardino è per definizione un artificio, che poggi o meno su una piattaforma di cemento, è esattamente la stessa cosa. Il problema non è si di introdurre la natura in città, ma di mostrare un savoir-faire, delle tecniche, degli utilizzi. La piattaforma non è un vincolo più importante di altri : è una questione di carichi, di evacuazioni idrauliche e di ventilazione. Più vincoli ci sono in un sito e più si può essere creativi, realizzare dei luoghi singolari che esistono da soli, senza aver bisogno di recuperare immagini rubate a destra e a manca. Questo è quel che fanno spesso i paesaggisti e che si avverte anche al JA, dove c'è un po' di Rio de Janeiro, un po' di Parc Güell, un po' di California.... E' questo che genera uno stile? Non ne sono certo. Quando si fa del design, si è sicuri di arrivare al risultato illustrato dal progetto e dalla maquette e questo rassicura sempre la committenza. Tutti sono contenti di poter controllare e comprendere la creazione. Quello che rassicura la committenza non sono le piante. Non si sa mai come evolveranno: se si parla di come crescerà il tal albero o dell'effetto della luce a un dato momento su una data pianta, si formulano delle ipotesi. E' questo che m'interessa nei giardini. Il design non m'interessa per niente. Lo stile è totalmente secondario: si può utilizzare qualsiasi stile in qualsiasi luogo, è la grande libertà dei giardini. Invece, puntare ad un risultato di design in un giardino è l'opposto dell'artificio del giardino. L'artificio del giardino esiste per far crescere la vegetazione con dei vincoli che non hanno nulla a che vedere con gli elementi naturali. Che l'artificio vivente delle piante e dei giardini - che ci commuovono in relazione alle stagioni, al clima, alla loro evoluzione - sia totalmente annullato da questa accumulazione di design toglie a mio avviso tutta la poesia che esiste in qualcosa di vivente. E, allo stesso modo, non si può decretare sulla carta quel che la gente farà in un certo luogo. Si può cercare di sfruttarne il potenziale, spesso un po' nascosto, di spingerlo in una certa direzione. Il JA è pieno di gente nelle giornate di sole? Se non è così, c'è un problema che non deriva dalla segnaletica. In città, soffriamo d'ipersegnaletica. Quando c'è un bel posto, la gente lo sa, il passaparola funziona. E' la topografia, la geografia, la presenza di un elemento naturale che ci condurrà verso un luogo piuttosto che un altro. I cartelli sono il sintomo del fallimento dell'urbanistica, del fallimento della città. Il giudizio sul JA ricalca esattamente quel che penso dell'insieme dei parchi francesi: si fa del design invece di gestire uno spazio vivente e di preoccuparsi degli utilizzi e delle prassi. Tutta la pianificazione dello spazio pubblico è una catastrofe per un insieme di ragioni complesse, storiche, radicate in un'amministrazione pesante, dove ognuno si uniforma, per rassicurarsi, a queste soluzioni invasive. E' il frutto di un gesto politico: occorre mostrare a tutti i costi che si è fatto qualcosa durante il proprio mandato e bisogna che questo qualcosa si veda. Invece, non è necessario essere sempre avvocati di un luogo. Molti luoghi esistono senza essere risistemati o potrebbero esistere con un minimo investimento. Ma non si noterebbe e quindi i nostri politici non sarebbero soddisfatti perché non si assisterebbe a un cambiamento durante il loro mandato. E' una catastrofe. La durata di un mandato non può coincidere con i tempi dell'evoluzione della città o del paesaggio. D. : Quali sono le tendenze attuali della paesaggistica francese? R. : La tendenza è un po' cambiata. Il JA appartiene ancora al genere "superdesign", mentre la stessa generazione di Brun e Péna e quella più giovane fanno cose più tranquille, in una specie di registro neoclassico. Per neoclassico intendo delle ricette che consistono in filari d'alberi ad alto
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fusto, pietre beige e piante parasole su grandi superfici. D. : Si riferisce ai giardini parigini, Citroën e gli altri? R. : Anche se è un successo straordinario sotto il profilo dell'utilizzo, stilisticamente Citroën è un fiasco, fatta eccezione per il "giardino in movimento". Ogni volta che ci vado, ho la curiosa impressione di trovarmi in un giardino pensile, sopra un garage. I piccoli giardini tematici, invece, sono dei veri gioielli. Trovo che, in questo giardino, abbiano trovato applicazione due concezioni totalmente diverse. Il giardino in movimento sarebbe stato un vero successo se fosse stato dieci volte più grande. Se si fosse potuta realizzare una transizione da questi edifici tipo "Sables d'Olonne" (nda.: Milano Marittima?) in pietra bianca a ettari interi di giardino in movimento, avremmo avuto una delle più belle transizioni urbane del mondo. Questo giardino è incantevole, fatto con una reale conoscenza delle piante. Ci ho trascorso dei momenti di pura poesia, guardando delle piante fantastiche, effimere, che sapevo di non ritrovare nello stesso posto l'anno seguente. Degli istanti legati a un momento preciso della vita del giardino, a certe condizioni meteorologiche e luminose. E' il contrario del JA e della sua fissità, laggiù ogni anno il design sarà lo stesso, il pino sarà cresciuto un po', ma non avrò assolutamente la sensazione di un istante privilegiato il giorno e l'ora in cui ci sarò, a seconda del tempo che farà, tutti elementi che m'interessano in un giardino. Il giardino in movimento è molto interessante perché mette in scena i cicli naturali e cambia il nostro modo di osservare la natura. Quel che è fantastico con Clément è che si comporta come un mediatore: ci mostra l'intelligenza della natura senza mettersi in evidenza. Cosa che non succede al JA, dove i progettisti si mettono in scena in un giardino pubblico. D. : Secondo lei, il JA, la Villette, Bercy e Citroën sono il frutto di una stesso stesso spirito, nel senso che rinnovano la tradizione del giardino regolare alla francese? R. : No. Desidero distinguere il giardino regolare dal giardino alla francese, che non è solo fatto di linee e di forme geometriche, ma esprime un vero dominio dello spazio da parte dell'osservatore. Questi giardini hanno in comune delle forme geometriche, sono estremamente disegnati, e, soprattutto, manifestano una mancanza assoluta di controllo dello spazio. Lo spazio è sovradisegnato e non dominato. Quando si passeggia in questi giardini, non si ritrova quella questa specie di sfasamento, di ritmo, di apertura, si ritrovano cose molto, molto laboriose. Penso che il JA, come la Villette, sia fra i giardini più macchinosi della fine del XX secolo. Non si ha affatto un'impressione di fluidità, di libertà e, soprattutto, di quel savoir-faire che dà l'impressione di non essere guidati, ma di scoprire il giardino da soli, e di poterlo modificare e animare. Si ha invece l'impressione di essere guidati su dei vialetti che non corrispondono affatto al ritmo di una passeggiata, guidati dalle smorfie del design. D. : Come dev'essere un parco urbano, secondo lei? R. : Non lo so. Non c'è una tipologia da ripetere com'è stato per le piazze di Haussmann. Faccio parte di uno dei sei gruppi di progettisti selezionati per un posto sublime che si chiama la Cour du Maroc a Parigi, in rue d'Aubervilliers: quattro ettari e mezzo limitrofi alla ferrovia della Gare de l'Est, salvati da un'associazione di cittadini. Penso che lo tratterò in modo totalmente singolare, in funzione della sua storia, del tessuto urbano che lo circonda, del quartiere, delle prassi degli abitanti della zona. Non esiste un modello da ricalcare per Citroën, il JA e la Cour du Maroc. Quel che guida un progetto sono le persone e le piante, gli utilizzi, le prassi e la gestione.
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D. : Cosa fa la gente in un parco pubblico? R. : Bisogna cominciare a esaminare quello che si aspettano da un parco, le prassi. A volte è molto complesso. Se, come al Luxembourg, per mostrare delle foto, si nascondono alla vista le magnolie asiatiche o americane in fiore, che si trovano esattamente dietro ai pannelli, trovo l'operazione totalmente idiota. E' il solito fascino dell'immagine. E' più semplice fare un museo, se ne fanno ovunque, piuttosto che gestire i desideri degli abitanti del quartiere. Io non sopporto i musei. D. : Eppure la Direzione Parchi e Giardini sostiene di ascoltare le necessità della gente per definire il progetto di un parco... R. : Sì, ed è straordinario. Il programma della Cour du Maroc ci ha imposto dei sociologi nell'équipe. C'è davvero una ricerca sociologica molto approfondita e continueremo noi stessi, d'altronde, ad analizzare e ad indagare. Questo studio sarà la colonna vertebrale del progetto che proporrò. D. : Ma, sempre secondo la Direzione dei Parchi, la gente del quartiere chiede sempre, più o meno, le stesse cose : attrezzature, aree di gioco... Quindi, il rischio è di ritrovarsi con uno spazio attrezzato... R.: Che non è più un giardino. E' vero. E' per questo che alla Cour du Maroc mi assumerò probabilmente la responsabilità di metterne meno. Con la polifunzionalità non si arriva a nulla. Quel che si ottiene non è un giardino perché si avverte lo sforzo dello sport. Non è neanche un terreno sportivo o uno stadio, perché non ci sono le attrezzature che richiedono gli sportivi e che sono di un livello sempre più sofisticato. E' ancora una volta qualcosa di ambiguo : sportivo e riposante, fiorito e con un prato calpestabile, l'uno e l'altro. Tutto oggigiorno è "e... e". Più "e" ci saranno, più le cose saranno sfocate e irregolari, meno ci sarà d'identità comune. Perché un luogo esista occorre che tutti ci si riconoscano nello stesso modo e nello stesso momento. E' quello che succede con la musica, in un concerto quando succede qualcosa di forte: a un dato momento, collettivamente, si condivide la stessa emozione. E se in un giardino queste differenti prassi, questi utilizzi sono scissi, distinti, non è più un luogo comunitario. D. : C'è un parco urbano che le sembra veramente riuscito, in Francia o all'estero? R. : Sì, il grande prato della Villette e i giardini tematici del Citroën. D. : Non ce n'è uno che le piaccia globalmente? R. : No, per l'appunto trovo che in tutti i parchi pubblici ci sia troppo design e ogni volta sono deluso. D. : Qual'è il suo giardino preferito a Parigi? R. : Non ne ho. Ho conosciuto degli istanti e delle passeggiate preferite. E fra le più belle passeggiate, ne ho fatte in giardini che non amo particolarmente, ma c'era qualcosa d'eccezionale nell'atmosfera, nel momento in cui li visitavo, nel modo in cui tutti gli elementi che per me sono importanti nei giardini e nei cinque sensi potevano coniugarsi in quell'istante esatto. Sono momenti che non potranno ripetersi, ed è quel che amo nei giardini. D. : Allora, diciamo piuttosto quali sono le emozioni uniche che ha provato nei giardini? R. : Ecco la buona domanda : quali sono le emozioni uniche che abbiamo provato. Non esistono luoghi preferiti, anche in posti che non amiamo particolarmente possiamo fare delle bellissime passeggiate.
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Una delle emozioni più intense che abbia provato in un giardino è stata in Cina, in questi giardini giganteschi, non molto fotogenici peraltro, e di un livello inaudito di concezione e composizione, con un significato legato al paesaggio, al pianeta intero, che si coglie inconsapevolmente all'inizio e che vi viene spiegato in seguito. Era la fine di novembre, il freddo è arrivato prima del previsto e i laghi sono gelati molto in fretta. Una neve leggera e polverosa è caduta sui laghi. Abbiamo potuto cominciare a camminare, ad avventurarci sul ghiaccio in mezzo ai laghi. E nonostante facesse notte, c'era una luminosità eccezionale sulla neve e sul ghiaccio... Abbiamo continuato a camminare e i pattinatori ci sfioravano, camminavamo nella notte... ed era sublime. Ho consigliato a degli amici di andarci, più tardi. Era il mese d'agosto, era tutto polveroso e pieno di turisti. Pascal Cribier è architetto, ha appreso la botanica da un vivaista e, più tardi, ha lavorato per il paesaggista Edward Avdeew. Nel 1982 si è messo in proprio e ha lavorato con Patrick Ecoutin, urbanista, ad un'analisi paesaggistica del Pays de Caux per conto della Drac di Haute Normandie. Le commesse si sono susseguite: giardini privati, le Tuileries con Louis Benech, i progetti di sistemazione del Fort d'Aubervilliers e degli ingressi della città di Evry (non realizzati), il giardino sperimentale di Méry-sur-Oise per Vivendi. Attualmente lavora in Polinesia, in Gran Bretagna e in Francia.
Figure 3 e 4: due episodi del Jardin Atlantique
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IL JARDIN ATLANTIQUE E IL PARCO PUBBLICO CONTEMPORANEO . INTERVISTA A BERNARD LASSUS
D. : Che ne pensa del JA? R. : Penso che sia un'opera giovanile. Ha grandi qualità, i progettisti mostrano tutte le loro potenzialità. persino Dixon Hunt ne ha parlato recentemente. Ci sono delle cose molto riuscite, come la fontana delle umidità o la passerella. Nel contempo, ha dei difetti : la parte del "jardin clos" è troppo densa, ci sono troppe cose. L'asse d'ingresso è troppo vuoto e sembra quasi una strada: lo sguardo si dirige immediatamente verso la spianata centrale ed è deviato sugli edifici laterali. Io avrei messo un "tappo" vegetale all'ingresso: da una parte per segnalare l'entrata del giardino, e dall'altra per accompagnare i visitatori verso la destra o la sinistra. Il loro sguardo avrebbe allora aggirato l'ostacolo per approdare alla radura centrale. Ciononostante, considero questo giardino una delle creazioni più interessanti degli ultimi tempi in Francia. E' più interessante di Bercy, del Citroën o della Villette. C'è un bel lavoro di design. D. : Io trovo che si collochi nella tradizione di questi parchi, tutti molto architettonici. Si direbbe che i paesaggisti in Francia abbiano rinunciato a utilizzare gli strumenti principali del loro lavoro... R. : Sì, in quel senso, è molto architettonico, come gli altri. Si tratta di una tendenza contro la quale mi batto. Il paesaggio francese è controllato dagli architetti. D. : Da quando? R. : Diciamo dagli anni Settanta. Anche la formazione è orientata in quel senso all'Ecole Nationale Supérieure de Paysage di Versailles. Tuttavia, occorre intendersi bene. Quel che scrive Le Dantec (n.d.a. Confronta con J. P. Le Dantec, Le sauvage et le régulier, art des jardins et paysagisme en France au XXe siècle, Le Moniteur, 2002, p.209) è falso : io non ero in conflitto con Corajoud. Dalla fondazione della scuola, nel 1976, eravamo responsabili di due ateliers di progettazione. Lui era favorevole ad un approccio architettonico, io alla ricerca. Volevo creare un terzo ciclo di studi nell'ambito dell'Ecole, ma il Ministro dell'agricoltura e Corajoud si erano opposti. Ed è per questo che sono andato via e ho creato un dottorato all'Ecole d'Architecture di Paris-La Villette. Ero già professore d'architettura, uno degli ultimi usciti dall'Ecole des Beaux-Arts, nominato professore a soli venticinque anni. Ma mi sono indirizzato verso il paesaggio, perché m'interessava di più e avevo capito che si trattava di un tema emergente. Un grande interesse per il paesaggio si è andato formando, attraverso delle tappe cruciali: 1962, creazione dell'indirizzo paesaggistico all'Ecole Nationale d'Horticulture di Versailles, 1976, fondazione dell'Ecole Nationale Supérieure de Paysage di Versailles, 1990, creazione del dottorato. D. : Perché i paesaggisti francesi sono soggiogati dagli architetti? R. : E' una caratteristica di tutti i paesi latini. E' solo una delle manifestazioni della distanza che esiste, in tema di paesaggio, fra i paesi latini e quelli anglosassoni. Hanno una sensibilità completamente differente dalla nostra. In Francia, la committenza pubblica si dirige verso gli architetti e, da loro, eventualmente in un secondo tempo, verso i paesaggisti. Lo status dei paesaggisti non si è ancora sufficientemente affermato. Prova ne è che Alexandre Chemetoff, paesaggista, ha dovuto diventare architetto per poter accedere alle commesse pubbliche più importanti. Un'altra ragione importante è il denaro. I paesaggisti sono mal pagati e i budget degli interventi paesaggistici sono spesso ridicoli, soprattutto in confronto a quelli architettonici. Inoltre, come per gli architetti, i loro onorari si calcolano in percentuale sul costo dei lavori realizzati. E da qui
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nasce l'interesse a costruire il più possibile. Le piante costano meno delle strutture minerali e anche i paesaggisti devono guadagnarsi il pane. Un'altra ragione ancora è la necessità di mediatizzazione: i paesaggisti devono promuovere il loro lavoro con l'ausilio della fotografia e le piante crescono lentamente. Il lavoro deve essere a pronto effetto. Le opere architettoniche garantiscono il risultato in tempi certi. D. : Lei di cosa si occupa? R. : Lavoro su una scala territoriale. Mi occupo di interventi stradali e autostradali. Attualmente sto seguendo la costruzione di una strada di duecento chilometri (n.d.a: indica un modellino). La strada passerà sopra la Loira e risalirà così. Io intervengo sul tracciato, sulle adiacenze. Ho proposto che si faccia un tunnel nella collina, qui, per evitare d'alterare la vista dalle alture sulla vallata... D. : C'è più lavoro in questo settore? R. : No, le commesse pubbliche concernenti il territorio si stanno riducendo. E poi il paesaggio non è più tanto alla moda, per ragioni politiche, finanziarie.... Anche l'urbanistica è in ribasso. Gli urbanisti stanno misurando il fallimento della loro disciplina e, benché incompetenti in materia di paesaggio, invadono questo campo con delle proposte vegetali, molto facili e molto economiche. D. : Come dovrebbe essere un parco urbano del XXI secolo? R. : Non esiste una soluzione generale. Il parco urbano è da reinventare. I parchi attuali sono ancora troppo accademici e in ritardo sulle esigenze sociali. In Francia c'è una paralisi, ma anche in Inghilterra: il paesaggio è asfissiato dall'approccio patrimonialistico delle autorità. E poi manca il denaro. Pensi che il Jardin des Retours (n.d.a. Il Jardin des Retours a Rochefort-sur-mer è stato ristrutturato in seguito ad un concorso vinto nel 1982 da Lassus. Inaugurato nel 1991, ha ricevuto il Grand Prix du Patrimoine nel 1993), uno dei parchi dei "grandi progetti presidenziali" come la Villette, non è stato terminato per mancanza di denaro. C'era un budget di sette milioni e seicentomila euro contro i centoottantatre milioni della Villette, che è solo il triplo della sua superficie. Nota la sproporzione? Per una piazza a Parigi c'è un budget di duecentoventotto euro per metro quadrato: cosa si può fare con questa cifra? D. : Al Citroën, alla Villette e al JA c'era molto di più a disposizione... R. : E' vero. D. : La mia domanda era volontariamente generica, per conoscere la sua concezione del parco pubblico, spazio attrezzato polifunzionale o eremo di pace al riparo dalla città. Quale idea di natura deve illustrare un parco oggi, secondo lei? R. : Il parco è un insieme di atmosfere polisensoriali, non deve illustrare nessuna idea di natura. Queste atmosfere si possono realizzare con elementi naturali o artificiali. Quel che conta è creare un rapporto con gli elementi, ascoltare il rumore dei passi, dell'acqua, guardare un effetto di luce sulle foglie, avvertire un suolo duro o soffice sotto i piedi... Un giardino è un insieme di ipotesi di natura, si potrebbe definire così. Non sono un filosofo. Per me, quello che conta è che questo sistema di atmosfere polisensoriali funzioni, che si avverta una pienezza sensoriale. Che cos'è la natura? Non lo so, e la gente neppure. Il termine "atmosfera" corrisponde meglio a quel che voglio realizzare. Il giardino è uno spazio di libertà, in cui è possibile trovare un senso oppure no. Bisogna, innanzi tutto, che una signora possa spingere facilmente il suo passeggino, che sia al riparo dal rumore. Dei piccoli stimoli
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possono eventualmente attirare la sua attenzione e risvegliare la sua immaginazione. Il significato è importante, ma non deve essere autoritario, non deve imporsi. Occorre una sollecitazione della fantasia piuttosto che un senso, una "sollecitazione non autoritaria". D. : Eppure tutti i progetti contemporanei si distinguono per l'utilizzo di metafore molto sofisticate. R. : Probabilmente col loro approccio architettonico, i paesaggisti trasferiscono l'autoritarismo della città al paesaggio. Il mio approccio è diverso. Per esempio, a Rochefort-sur-mer ho utilizzato tre tipi di suolo cemento, terra battuta e pietra - per simbolizzare tre epoche diverse e proporre una scoperta archeologica del sito. I tre rivestimenti si trovano a tre livelli differenti : il prato - l'erba che invadeva questo posto - si srotola come un tappeto al di sopra del pavé. Col tempo, l'aveva ricoperto. Un gradino serve allora a indicare il salto temporale. Poi c'è un lavoro sulla forma e l'ampiezza dei vialetti. Quelli in terra battuta sono più stretti perché tutti i punti di vista dall'edificio sono concepiti per ammirare il giardino senza interruzioni, i vialetti sono abbastanza esigui per scomparire otticamente come se il prato fosse una distesa ininterrotta. Ho fatto modellare delle ceste di cemento che riproducono quelle originali in vimini. Servono come vasi e contengono delle piante oggi considerate banali, ma che non erano affatto tali nel XVII e XVIII secolo, quando sono state acclimatate. Venivano trasportate per mare, in queste ceste coperte da una specie di cappello conico che le proteggeva dall'acqua salata. Nel giardino, alcune di queste ceste sono coperte da un cappello per attirare l'attenzione. Servono a provocare la curiosità. Ci si può domandare : perché queste piante? A cosa serve il cappello? Questo semplice escamotage serve a renderle meno banali, a raccontare una storia. M'interessa, fa parte del mio lavoro. Ecco cosa intendo con "incitazione non autoritaria all'immaginazione". Non metto delle etichette con delle didascalie didattiche. Potrei enumerare molti altri dettagli di questo tipo. Questo giardino sembra semplice ma è pieno di storie. Altrove farei una cosa diversa, non esistono dei modelli. Ogni luogo ha la sua storia e richiede un approccio unico e singolare. D. : Capisco. E' esattamente a causa di questo approccio puramente paesaggistico che la caratterizza, che sono un po' sorpresa dal fatto che le piaccia il JA... R. : Ho detto che è un'opera giovanile. Se l'avesse progettato un uomo di cinquant'anni, non avrei espresso la stessa opinione. Q. : Qual'è il suo giardino preferito a Parigi? R. : Monsouris. E' magnifico e il modo in cui lo attraversa la ferrovia è una vera riuscita. E' funzionale, la gente lo utilizza con più disinvoltura rispetto alle Buttes-Chaumont, si sente più a proprio agio. E' meno spettacolare, o, piuttosto, di una spettacolarità più discreta. Il frutto di un genio straordinario. Bernard Lassus è artista, ex allievo di Fernand Léger, architetto diplomato alle Beaux-Arts, paesaggista diplomato dal Ministero dell'Agricoltura. Si è progressivamente specializzato nel paesaggio, a partire da una ricerca condotta alla fine degli anni sessanta sugli "Abitanti paesaggisti". Professore all'ENSP di Versailles dal 76 all'86, attuale direttore del DEA "Jardins, Paysages, Territoires" all'Ecole d'Architecture di Paris-La Villette, dal 1995 è professore associato all'Università della Pennsylvania.
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E' stato vincitore del primo premio ex-aequo nel concorso per il parco della Villette, vincitore del concorso per il Jardin des Retours e del Gran Prix du paysage 1996. Consultato per le Tuileries e per un parco a Duisburg-Nord, ha realizzato, fra l'altro, l'aerea di sosta autostradale Nîmes-Caissargue. Si occupa attualmente di pianificazione autostradale, in particolare per le Autostrade del Sud della Francia, Cofiroute.
RIFERIMENTI ICONOGRAFICI Figure 1,2,3,4: fotografie di Donatella Pennisi.
Testo acquisito dalla redazione della rivista nel mese di luglio del 2005. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768 Università degli Studi di Firenze
Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/ Firenze University Press anno 3 – numero 4 – luglio - dicembre 2005 sezione: Itinerari pagg. 77 - 83
IL GIARDINO NEI DOCUMENTI D’ARCHIVIO. I PROGETTI DI PIETRO PORCINAI PER LE SISTEMAZIONI DEL PARCO DI VILLA S AN P EDRINO A VARESE Tessa Matteini*
Summary The article deal with a thematic visit, proposed in the fifth educational and professional bringing up to date journey, organised by the Master in Paesaggistica of the Florence University, on 23 july 2005, to Villa San Pedrino park in Varese, where Pietro Porcinai did landscape settlements from 1953 to 1957. In the early Fifties Silvio Mazzucchelli asked the florentine landscape architect for designing the most tecnological and specialized parts in Villa San Pedrino’s park: the orchid’s glasshouse, the winter garden and the technical grouop formed by the compost heap and the loam’s store, the rose garden and the rock garden. Keiwords Porcinai, archive, San Pedrino, garden design.
Abstract Una delle visite tematiche proposte nel corso del Quinto viaggio di istruzione e aggiornamento professionale del Master in Paesaggistica dell’Università di Firenze, svoltosi tra il 23 ed il 27 luglio 2005, ha riguardato il parco di Villa San Pedrino a Varese, dove Pietro Porcinai ha effettuato una serie di sistemazioni paesaggistiche tra il 1953 ed il 1957. Agli inizi degli anni Cinquanta Silvio Mazzucchelli aveva interpellato il paesaggista fiorentino per la progettazione delle porzioni più tecnologiche e specializzate del parco di Villa San Pedrino: la serra per le orchidee, il giardino d’inverno, il gruppo tecnico costituito dalla concimaia e dal magazzino per i terricci, il roseto ed il giardino roccioso. Così, in un assetto compositivo generale già definito in precedenza, lo Studio di progettazione del Lungarno Corsini, si occupa di risolvere tecnicamente una serie di ambiti specifici, ma anche di ricalibrare il disegno dell’intero parco, conferendogli un’immagine unitaria ed organica. Parole chiave Porcinai, archivio, San Pedrino, giardino, progetto.
* Dottoranda di Ricerca in Progettazione paesistica, Università di Firenze
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“Le piante adatte al giardino sono tutte quelle, anche rare ed esotiche, che riescano ad arrivare alla loro più perfetta bellezza e risultino in armonia estetica e biologica con l’ambiente.” Pietro Porcinai1
Una delle visite proposte all’interno degli itinerari tematici del Quinto viaggio di istruzione e aggiornamento professionale del Master in Paesaggistica dell’Università di Firenze, svoltosi tra il 23 ed il 27 luglio 2005, ha interessato il parco di Villa San Pedrino a Varese, dove si trovano una serie di sistemazioni paesaggistiche, realizzate da Pietro Porcinai per la famiglia Mazzucchelli tra il 1953 ed il 1957. Il ricco corpus del materiale conservato presso l’Archivio Porcinai di Fiesole, consente, cinquanta anni dopo la realizzazione del giardino, lo svolgimento di un altro itinerario, quello conoscitivo, basato su documenti e testimonianze, epistolari, fotografiche ed iconografiche2 e finalizzato a ricomporre la storia e l’evoluzione del processo progettuale. Agli inizi degli anni Cinquanta, Porcinai è già un professionista affermato, conosciuto in Italia e all’estero3, che si occupa del disegno di giardini privati, ma anche di sistemazioni paesaggistiche e di parchi pubblici od aziendali, collaborando con alcuni dei maggiori studi di progettazione italiani, come quello di Luigi Cosenza 4 a Napoli o quello dei BBPR 5a Milano. I progetti e le realizzazioni elaborati dallo Studio Porcinai per il Parco di Villa San Pedrino a Varese, mostrano in effetti una raggiunta maturità progettuale ed operativa ed una completa padronanza nella gestione di flussi funzionali, meccanismi percettivi, e del materiale minerale e vegetale che compone il giardino. La vicenda della moderna redazione del parco ha inizio tra il 1938 ed il 1940, quando Silvio Mazzucchelli si rivolge per una prima fase dei lavori di sistemazione del giardino, organizzato intorno alla preesistenze architettoniche settecentesche, allo Studio Roda di Torino6 che ridisegna tutta l’area della piscina ad est della villa, e inserisce il nuovo campo da tennis. Negli anni successivi, l’avvento della seconda guerra mondiale rallenta i lavori per la trasformazione della proprietà, mentre Mazzucchelli incrementa la sua collezione botanica, con numerosi viaggi che lo portano a visitare le migliori aziende florovivaistiche d’Europa e d’America. Nel secondo dopoguerra, si rende necessaria una nuova serie di lavori di sistemazione del giardino e Mazzucchelli decide di rivolgersi a Pietro Porcinai, al quale scrive, alla fine di
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PIETRO PORCINAI, Giardino e Paesaggio, in “I GEORGOFILI, Atti della Regia Accademia”, aprile–giugno, Sesta serie, volume VIII, 1942. 2 Per la redazione di questa breve nota, ringrazio Anna Porcinai, per il prezioso aiuto in Archivio e Davide Orsi Mazzucchelli per la cortese disponibilità. 3 Per una analisi completa e circostanziata sulla formazione culturale e sulla vicenda professionale ed umana di Porcinai vedi MILENA MATTEINI, Porcinai, architetto del Giardino e del paesaggio , Electa , Milano 2004. 4 Ingegnere napoletano, (1905-1984), laureato presso l’Università di Napoli nel 1928. Autore del Piano Regionale per la Campania del 1943, del Piano Regolatore di Napoli (1945-’48), del Quartiere Sperimentale a Posillipo, realizzato nel corso degli anni ’40 e della nuova Facoltà di Ingegneria di Napoli, progettata negli anni ’50. 5 L’acronimo indica il gruppo di progettazione costituito nel 1932 a Milano da Gian Luigi Banfi, Ludovico Barbiano di Belgiojoso, Enrico Peressutti ed Ernesto Nathan Rogers. Tra le opere principali il Piano Regolatore della Val d’Aosta (1936-1937), la Colonia Elioterapica di Legnano (1939) e nel dopoguerrra, dopo la scomparsa di Banfi, la Torre Velasca a Milano (1958). Cfr. la testimonianza di Belgiojoso in MILENA MATTEINI, op.cit., pagg. 283-284. 6 Sulla base delle testimonianze fornite dalla famiglia Mazzucchelli, il referente per questi lavori potrebbe essere Giuseppe Roda (1866-1951), erede della celebre dinastia torinese di paesaggisti. Riguardo ai contatti tra Porcinai ed i Roda, il paesaggista fiorentino e Guido Roda, figlio di Giuseppe, si incontrano nel 1938 al XII Congresso Internazionale di Florofrutticultura di Berlino. Cfr MILENA MATTEINI, op.cit., Electa , Milano 2004, pag. 28 e pag. 241, nota 34. Inoltre, proprio in quegli anni Porcinai lavora con i colleghi architetti Nello Baroni e Maurizio Tempestini per i giardini dei due complessi di Villa Bona (1938-’41) e Villa Maggia (1938-’43), nell’area torinese.
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giugno del 1953, richiedendo una consulenza a proposito della “costruzione della nuova serra e la sistemazione del piazzaletto davanti alla...vecchia casa”.7 Tra il professionista fiorentino e l’industriale lombardo esiste già una corrispondenza, dovuta a conoscenze comuni e agli specifici interessi del paesaggista riguardo alle innovazioni tecnologiche nel campo dei materiali da giardino. La famiglia Mazzucchelli possiede infatti la S.I.C., la Società Italiana Celluloide e Porcinai, stimolato dalle informazioni sulle attrezzature per l’irrigazione provenienti dalle ditte statunitensi con le quali ha contatti (come la Bruckner o la Rainbird), richiede ai Mazzucchelli una serie di informazioni sulla possibilità di realizzare i componenti dei sistemi in materiale plastico.
Figura 1. Immagine della scala che collega il livello della villa con la parte inferiore del giardino.
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Archivio Porcinai, Fiesole, Faldone n. 338, lettera del 30 giugno 1953.
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Nel 1953 Mazzucchelli interpella Porcinai per la progettazione delle porzioni piĂš tecnologiche e specializzate del parco di Villa San Pedrino: la serra per le orchidee, il giardino dâ&#x20AC;&#x2122;inverno, il gruppo tecnico costituito dalla concimaia e dal magazzino per i terricci, il roseto ed il giardino roccioso.
Figura 2. Le collezioni di palme e acidofile nella zona inferiore del giardino.
Figura 3. Le sistemazioni della scarpata sopra il campo da tennis.
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Così, in un assetto compositivo generale già definito in precedenza, lo Studio di progettazione del Lungarno Corsini8, si occupa di risolvere tecnicamente una serie di ambiti specifici, ma anche di ricalibrare il disegno dell’intero parco, conferendogli un’immagine unitaria ed organica.
Figura 4. Immagine del campo da tennis. Fiesole, Archivio, Porcinai.
La corrispondenza conservata nell’Archivio di Fiesole consente di ricostruire un iter progettuale lungo e complesso, caratterizzato da vivaci e frequenti scambi dialettici fra il committente e il paesaggista 9. Numerose le ditte contattate per le forniture, anche oltreoceano, come la Floricultura Guerrieri a San Paulo del Brasile10, che propone a Porcinai, dei bulbi di Calabium da utilizzare nella proprietà Mazzucchelli e nel giardino di villa Riva ad Alpino (Novara), dove proprio in quegli anni (1951-1958), Porcinai collabora con lo studio BBPR11 per la creazione di uno dei suoi lavori di maggior rilievo, la creazione di un vasto parco prospiciente il lago Maggiore, nei pressi di Stresa. In una lettera del novembre 1954 12 Porcinai comunica a Mazzucchelli gli esiti di un viaggio in Germania dove ad Amburgo, Westerstede e Bad Zwischenam, ha visitato i vivai Dees, 8
Lo Studio Porcinai si trasferirà a villa Rondinelli nel 1957. Sul fondamentale ruolo della committenza, si esprime così Porcinai: “Da Filarete a Wright, tutti hanno ammesso che per fare dell’architettura – e questo vale anche per il giardino, che è un aspetto dell’architettura - occorrono tre elementi: il Committente, l’Architetto ed il Costruttore. Mancando uno dei tre non si possono eseguire buone e belle costruzioni. Se il Committente non ha passione per il giardino, mentre ne hanno l’Architetto e il Costruttore, il risultato non può essere buono. Lo stesso avviene se l’Architetto o il Costruttore non sono adeguatamente preparati.”, dall’introduzione al libro di RENZO BERETTA, Composizione e costruzione dei giardini, Edagricole, Bologna 1970. 10 Archivio Porcinai, Fiesole, Faldone n. 338, lettera del 11 maggio 1954. 11 Sul rapporto tra Porcinai e BBPR, vedi la testimonianza di Belgiojoso in MILENA MATTEINI, op.cit., pagg. 283-284. 12 Archivio Porcinai, Fiesole, Faldone n.338, lettera del 18 novembre 1954. 9
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Hobbie e Böhlije e consiglia, per la piantagione estensiva delle scarpate della proprietà, rododendri ibridi e repens, come quelli che ha potuto ammirare presso le fornitissime ditte tedesche. In effetti la sistemazione attuale delle scarpate a valle della proprietà, è in alcuni tratti, risolta con associazioni di acidofile, tra cui diverse varietà di rododendri. Nella stessa lettera Porcinai riferisce che la migliore ditta tedesca per la produzione delle serre viene considerata la Kräe e Wöhr di Ludwigsburg, presso Stoccarda, che fornisce ottimi materiali ad un prezzo indicativo di 60 marchi tedeschi per ogni metro quadro di superficie coperta. Tuttavia nel febbraio del 1955 Porcinai richiede una serie di preventivi per le strutture metalliche necessarie alla costruzione delle serre, alla Premiata Ditta Fratelli Greppi di Milano, che risponde inviando una relazione dettagliata ed un quadro articolato di offerte comparate.13 Per il giardino d’inverno, Porcinai elabora, tra il 1955 ed il 1956, numerose proposte sugli arredi, interpellando la ditta di Giovanni Contri di Settignano e quella umbra di Aldo Ajò, per la produzione di mobili in ferro laccato 14, mentre il tavolo per la serra viene ordinato da Mazzucchelli presso la ditta “Casa e Giardino” di Milano. In una lettera del giugno del 1956, Giacinto De Grandi, incaricato della realizzazione della scala del soggiorno della serra, in legno e ferro riferisce che Silvio Mazzucchelli desidera rivestire in plastica i tubi del parapetto e applicare, come protezione una rete a disegni a filo quadro, in luogo della lamiera forata proposta negli elaborati di progetto 15. In quegli anni lo Studio Porcinai sta realizzando un’altro giardino d’inverno, quello di Villa La Terrazza sul viale Machiavelli a Firenze (1951-’58), per la proprietà Rangoni, dove si sperimentano materiali e soluzioni riproposte in seguito anche nello wintergarden di Villa San Pedrino, come ad esempio, l’utilizzo di un jardin de rocaille per la messa a dimora di piante tropicali. In archivio sono reperibili diverse liste di specie consigliate dallo Studio Porcinai per l’ornamento delle serre di Villa San Pedrino, spesso con indicazione delle epoche di semina e fioritura, tra cui un elenco dattiloscritto di “Piante annuali a fioritura invernale in serra temperata e calda” 16, in cui figurano: Calendula officinalis, Gamolepis tagetes 17, Nemesia strumosa, Viola hiemalis, Asperula azurea setosa, Reseda odorosa “Machet-Rubin”, Myosotis alpestris, Schizantus maximus nanus, Browallia viscosa, Tropaeolum “Spitfire”, Godetia “Azaleeenschau”, Ageratum mexicanum, Iberis umbellata, Verbena hybrida, Vicaria oculata, Nierembergia frutescens. Un’altra lista dattiloscritta riporta invece una serie di “Piante ornamentali da fiore da serra temperata e calda” 18 ed indica tra le altre: Cineraria hybrida, Kalanchoe Typ Thiede, Streptocarpus miscuglio, Begonia “Gloire de Lorraine”, Echeveria retusa, Calceolaria hybr. e Saintpaulia, mentre nello stesso foglio, tra le piante bulbose per la fioritura invernale in serra, vengono suggerite Freesia, Crocus vernus, Lachenalia, Oxalis esculenta e Gloxinia. Per le sistemazioni relative al giardino roccioso, Porcinai propone pietre a filari del tipo Castel Govone di produzione piemontese, di colore ruggine chiarissimo, ed ordina la produzione di un piccolo modello in gesso, a suo parere necessario per una realizzazione impeccabile, da affidare a maestranze specializzate 19. Nell’ottobre del 1956 Porcinai contatta l’Institut für Technik in Gartenbau und Landwirtshaft della Tecnische HochSchule di Hannover per richiedere informazioni su materiali e forniture per gli impianti di nebulizzazione e irrigazione da inserire nelle serre per le orchidee.20 13
Archivio Porcinai, Fiesole, Faldone n.338, lettera del 19 febbraio 1955. Per il colore viene proposto al committente un ‘verde seta’ della DucoTone, spedito in visione anche ad Enrico Piaggio per gli arredi della tenuta di Varramista (Pisa), a cui Porcinai sta lavorando nello stesso periodo. 15 Archivio Porcinai, Fiesole, Faldone n. 338, lettera del 13 giugno 1956. 16 Archivio Porcinai, Fiesole, Faldone n. 338, lista piante senza data. La grafia delle specie è riportata come nel documento, senza alcuna correzione. 17 Per cui si consiglia una messa a dimora massiva di almeno 8 o 10 piante per vaso. 18 Archivio Porcinai, Fiesole, Faldone n. 338, lista piante senza data. Anche in questo caso, la grafia delle specie è riportata senza correzioni. 19 Archivio Porcinai, Fiesole, Faldone n.338, lettera del 12 dicembre 1954. 20 Archivio Porcinai, Fiesole, Faldone n. 338, lettera del 11 ottobre 1956.
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Nella zona del nuovo roseto, Porcinai disegna la trama delle aiuole, concordando con il committente le specie da inserire, mentre per la piscina, preesistente all’intervento, vengono prodotti dallo Studio elaborati diversi, con proposte variate per ringhiere e parapetti, destinati alla sicurezza dei bambini. L’area del campo da tennis, infine, realizzata dallo Studio Roda alla fine degli anni ‘30, viene ripensata da Porcinai per integrarsi con le nuove sistemazioni, attraverso l’uso di una quinta verde che ne enfatizza l’immagine scenografica, composta per offrire una percezione ottimale dalla zona di seduta del belvedere, posto sotto il grande cedro.
RIFERIMENTI ICONOGRAFICI Figure 1 e 2: Fotografie di Arianna Gentile, luglio 2005. Figura 3: Fotografia di Maria Grazia Gazzani, luglio 2005. Figura 4: Fiesole, Archivio Porcinai.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI PORCINAI PIETRO, Introduzione in BERETTA RENZO, Composizione e costruzione dei giardini, Edagricole, Bologna 1970, s.p.. LATINI LUIGI, Disegno del giardino e paesaggi italiani del Novecento. Note per una ricerca. in La cultura del paesaggio, Atti del convegno di Studi, Centro italo-tedesco di Villa Vigoni, 2-3 novembre 2003, Olschki, Firenze 2005. MATTEINI MILENA, Porcinai, architetto del Giardino e del paesaggio, Electa , Milano 2004 POZZANA MARIACHIARA (a cura di), I giardini del XX secolo, l’opera di Pietro Porcinai, Alinea, Firenze 1998. ZANGHERI LUIGI, I giardini di Pietro Porcinai, in ZANGHERI LUIGI, Storia del giardino e del paesaggio. Il verde nella cultura occidentale, Leo S.Olshki, Firenze 2003, pagg.243-255. “Architettura del Paesaggio Notiziario AIAP”, Pietro Porcinai, architetto del Giardino e del paesaggio, ottobre 1986, n.10.
REGESTO DOCUMENTI D’ARCHIVIO CONSULTATI ARCHIVIO PORCINAI, Fiesole, Firenze.
Disegni: Rotolo San Pedrino Documenti Archivio Porcinai, Fiesole, Faldone n. 338 lettera del 30 giugno 1953. Archivio Porcinai, Fiesole, Faldone n. 338, lettera del 11 maggio 1954. Archivio Porcinai, Fiesole, Faldone n. 338lettera del 18 novembre 1954. Archivio Porcinai, Fiesole, Faldone n. 338, lettera del 12 dicembre 1954. Archivio Porcinai, Fiesole, Faldone n. 338, lettera del 19 febbraio 1955. Archivio Porcinai, Fiesole, Faldone n. 338, lettera del 13 giugno 1956. Archivio Porcinai, Fiesole, Faldone n. 338, lettera del 11 ottobre 1956. Archivio Porcinai, Fiesole, Faldone n. 338, lista piante senza data.
Testo acquisito dalla redazione della rivista nel mese di novembre del 2005. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768 Università degli Studi di Firenze
Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/ Firenze University Press anno 3 – numero 4 – luglio - dicembre 2005 sezione: Itinerari pagg. 84 - 99
“ANDREA P ALLADIO E SCARPA”, UN VIAGGIO PARTE PRIMA
LA VILLA V ENETA. D A P ETRARCA A CARLO ALLA SCOPERTA DELLA CIVILTÀ DELLA VILLA .
Giulia Tettamanzi*
Summary The exposition “Andrea Palladio e la Villa Veneta. Da Petrarca a Carlo Scarpa” (Andrea Palladio and the villa veneta. From Petrarca to Carlo Scarpa) offers a trip through the history of the villa, in places of time, space and culture. The exposition crosses the seven centuries of the villa civilisation, suggests an itinerary of the most celebrated villas in Veneto, and has the start point in the latin culture. In this contest, we’ll explore, in latin authors original texts and in art-works showed, the typolocigical, ideological, literary archetypes of the villa, discovering the landscape relationship, read in the ancient Rome. Palladio is the concrete and conceptual centre of the exposition, and in his work, we’ll find the same ideological elements of the villa, grow up in latin culture. This text, divided in two parts, proposes, in this first piece, the born, the consolidation, the growth of the myth of an idea, that from the ancient Rom till today, doesn’t cease amazing end evolving. Key-words Palladio, villa, latin literature, Cato, Varro, Vergil.
Abstract La mostra “Andrea Palladio e la Villa Veneta. Da Petrarca a Carlo Scarpa” propone un viaggio attraverso la storia della villa in luoghi del tempo, dello spazio e della cultura: la mostra attraversa i sette secoli della civiltà della villa, propone un itinerario che tocca e conosce alcune della più significative ville venete e colloca il punto di partenza del viaggio nella cultura latina. È in questo contesto che si esplorano, nei testi originali degli autori e nelle opere esposte nella mostra, gli archetipi tipologici, ideologici, letterari della villa, indagandone anche il rapporto con il paesaggio, opportunamente letto nel contesto della Roma antica. Palladio è il centro fisico e concettuale dell’esposizione, e nella sua opera si ritroveranno, ripresi e articolati, gli elementi dell’ideologia della villa, sviluppati dalla cultura latina. Questo scritto, articolato in due parti, propone in questa trattazione iniziale la nascita, il consolidamento, la mitizzazione di un idea, che dall’antica Roma ad oggi, non cessa di meravigliare ed evolversi. Parole chiave Palladio, villa, letteratura latina, Catone, Varrone, Virgilio.
* Dottoranda di Ricerca in Progettazione paesistica, Università di Firenze.
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PREMESSA La mostra “Andrea Palladio e la Villa Veneta. Da Petrarca a Carlo Scarpa”1 presenta, anche se non in modo palese e intenzionale, il viaggio come filo conduttore. Questo tema accompagna il pubblico da dentro lo spazio museale a fuori, estendendo l’ambito di interesse espositivo al paesaggio, di cui la villa, in questo preciso contesto territoriale2, è un elemento fondante e identificativo. Un viaggio alla scoperta del Palladio, un tour palladiano, che, attraverso tappe scandite e meditate, conduce in luoghi fisici, storici e in esplorazioni culturali che ricercano e indagano le radici di un fenomeno fondativo per la cultura occidentale, dal paesaggio all’architettura, dalla società all’economia. Questo scritto, diviso in due parti, propone, in questa prima trattazione, le tappe iniziali di un viaggio, che inizia a Vicenza nelle sale di Palazzo Barbaran da Porto, e di un itinerario culturale, che getta le radici nella ricchezza e nella complessità della cultura latina, tema iniziale dell’esposizione stessa. Il viaggio, nell’esperienza comune, significa mutare luogo, percorrere una distanza, sia questa nello spazio (località, paesi differenti), o nel tempo (epoche diverse). Ma il viaggio, facendo riferimento solo ad una minima componente dell’ampio campo metaforico che investe, è, appunto, intrinsecamente portatore di una serie di significati 3 per cui i luoghi non vengono solo visitati o guardati, ma scoperti, osservati a fondo, con il fine di una conoscenza che mira all’essenza. Il viaggiatore, che approda a Palazzo Barbaran da Porto, si trova di fronte a due percorsi4, i cui contenuti si intrecciano e si sostengono in modo inscindibile. Il primo consiste in una grande mostra che offre un viaggio nel tempo, alla scoperta delle origini della villa, fino all’affermazione di un modello tipologico, e alla sua rilettura nell’architettura contemporanea; il secondo è un itinerario che propone un viaggio nel paesaggio della campagna veneta, per imparare a conoscere concretamente, dal vero, quelle stesse ville, la cui storia si è inseguita nella mostra intra moenia. L’esposizione non tratta solo dell’ architettura e degli aspetti tipologici della villa, ma indaga il modo di organizzare la produzione, le società e le culture, in cui “è nata e vissuta” la villa, proponendo un percorso serrato e intenso attraverso circa duecentocinquanta opere, provenienti da oltre settanta musei e istituzioni internazionali 5. 1
La Mostra si è svolta a Vicenza, presso Palazzo Barbaran da Porto, dal 4 marzo al 3 luglio 2005; catalogo GUIDO BELTRAMINI, HOWARD BURNS (a cura di), Andrea Palladio e la Villa Veneta. Da Petrarca a Carlo Scarpa, Marsilio, Venezia 2005. Promotori dell’evento: Regione del Veneto, Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio, Istituto Regionale Ville Venete, Ministro per i Beni e le Attività Culturali. Curatori della mostra: Guido Beltramini, direttore del CISA A. Palladio, e Howard Burns, presidente del consiglio scientifico del CISA A. Palladio. Allestimento della mostra a cura dello studio Cibic & Partners. 2 Le regioni Veneto e Friuli Venezia Giulia, sui cui territori sono censite circa quattromila ville. 3 Il viaggio, tema rilevante e riconosciuto universalmente, affonda le radici nella storia della letteratura (Odissea), ed è giunto alla cultura attuale con un ampio spettro semantico, arricchitosi nelle esperienze e nel pensiero delle varie epoche succedutesi, particolarmente nel periodo romantico, dal quale eredita il senso della scoperta e della libertà dell’individuo, fino ad arrivare al senso del viaggio dell’epoca moderna, fuga, in luoghi esotici alla ricerca di certezze, che poi si rivela illusoria, come insegnava Seneca, già nel I sec. d. C., citando a sua volta Lucrezio: “Aliud ex alio iter suscipitur et spectacula spectaculis mutantur. Ut ait Lucretius:” hoc se quisque modo semper fugit”. Sed quod prodest si non effugit? Sequitur se ipse et urget gravissimus comes.” (Si intraprende un viaggio dopo l’altro e si cambiano spettacoli con altri spettacoli. Come dice Lucrezio “In questo modo ciascuno fugge sempre a se stesso”. Ma a che cosa serve se non si sfugge? Uno si segue da sé e si incalza come un compagno assolutamente insopportabile.), SENECA, De traquillitate animi, 2, 14-15. Per un rapido escursus sul tema del viaggio nel pensiero occidentale, MARIA ROSA ALESSANDRINI, In viaggio nel viaggio, in “F/L – Film e Letterature”, 3, 2005, rivista on-line dell’ Università di Bologna. 4 Con un progetto innovativo, il biglietto della mostra comprende, oltre alla visita all’esposizione di Palazzo Barbaran da Porto, l’acceso alle più belle ville del Veneto, e ai principali siti palladiani della città di Vicenza. Questa iniziativa ha il merito di promuovere e rendere fruibili le risorse diffuse, che costituiscono “l’armatura culturale” (MAURIZIO CARTA, L’armatura culturale del territorio. Il patrimonio culturale come matrice di identità di sviluppo, Francoangeli, Milano 1999) di un territorio, quello del Veneto e del Friuli Venezia Giulia, in cui sono censite circa quattromila ville, e quasi tutti i comuni veneti ne ospitano almeno una (dati pubblicati dal CISA Andrea Palladio). 5 Elenco dei musei e degli istituti prestatori in CISA Andrea Palladio, “Il percorso della mostra in palazzo Barbaran da Porto”, in www.cisapalladio.org, sezione archivio mostre, cartella stampa.
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Il corpus espositivo è dunque composto da materiali eterogenei, al fine di documentare un fenomeno culturale complesso; accanto a dipinti, si trovano preziosi mosaici, affreschi, bronzi, aediculae di epoca romana, manoscritti del rinascimento, incisioni, mappe e libri rari, filmati e modelli architettonici originali o realizzati ad hoc per la mostra, il tutto scandito secondo un ordine temporale, che segue l’idea di villa nella storia, nella letteratura, nell’architettura, nel suo nascere ed evolvere. Un ulteriore tappa di questo viaggio nei luoghi e nel tempo è il Gioco della Villa, elaborato da Howard Burns6: “[il gioco] parte dai Quattro libri di Palladio (1570) e dalla constatazione che l’architettura palladiana si fonda su un sistema compositivo [...] costituito da una grammatica di regole (per gli ordini e per le proporzioni)"7. Nel cortile del palazzo, sede della mostra, un grande tavolo ospita dunque il vivacissimo gioco di costruzioni dotato di una serie di solidi lignei, alle cui diverse forme è associato un colore e una funzione dello schema abitativo palladiano, che assemblati in vario modo danno forma, di volta in volta, alle ville che Palladio ha progettato rendendo chiaro, a visitatori e viaggiatori di tutte le età, la rigorosità nell’uso delle proporzioni e della modularità e il sistema progettuale dell’architetto vicentino8, al cui nome è legato in modo inscindibile la villa.
Figura 1. Il Gioco della Villa: alcuni elementi del gioco in fase di assemblaggio. Figura 2. Disegno di Mauro Zocchetta. Analisi grafiche delle ville Emo, Cornaro e Badoer di Andrea Palladio per la realizzazione del gioco della villa.
L’obiettivo di questo progetto culturale è dunque guardare alla villa oltre al fenomeno artistico che rappresenta, per leggere la complessità culturale di un elemento che è stato fondante nella organizzazione politica ed economico-territoriale, e foriere di strutture fondiarie e produttive che hanno creato i caratteri identitari del paesaggio, così come lo viviamo e percepiamo oggi, in un territorio che ha mantenuto comunque la sua tradizionale vocazione di luogo di produzione9. Gli studi affrontati, in occasione di questa mostra a Vicenza, rilanciano l’occasione di “conoscere a fondo la genesi e l’affermarsi della civiltà delle ville per ritrovare le matrici
6 Howard Burns, presidente del consiglio scientifico del CISA Andrea Palladio dal 1993, è uno degli ideatori dell’esposizione e tra i curatori del catalogo della mostra. È considerato a livello internazionale la massima autorità negli studi sull'architettura rinascimentale di Andrea Palladio, grande specialista di disegni di architettura, è professore ordinario di Storia dell'architettura all'Istituto universitario di Architettura di Venezia. 7 HOWARD BURNS, Il gioco della villa, in GUIDO BELTRAMINI, HOWARD BURNS (a cura di), Andrea Palladio e la Villa Veneta. Da Petrarca a Carlo Scarpa, Marsilio, Venezia 2005, pag. 442. 8 Palladio non è nativo di Vicenza, ma vi dimorò e lavorò fino alla morte. Andrea di Pietro della Gondola, detto il Palladio, nacque a Padova nel 1508 e morì a Vicenza nel 1580, dove si era trasferito giovanissimo (1523). 9 Lo sviluppo economico di quest’area del nord-est Italia negli ultimi decenni ha portato sul territorio una forte pressione antropica, che ha mantenuto la funzione produttiva e di rilevanza economica delle campagne, ma ne ha compromesso il carattere rurale, cancellandolo o danneggiandolo seriamente.
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originarie di un rapporto corretto tra sviluppo e territorio”10, che può contribuire a individuare linee per il progetto di paesaggio, in questo contesto fortemente segnato dalla presenza della villa. A questo scopo il progetto “Andrea Palladio e la Villa Veneta” fissa un meta concreta, ovvero la sedimentazione degli studi fatti e delle conoscenze acquisite nel Museo della Civiltà della Villa Veneta 11, che dovrà costituire il baricentro di riferimento culturale e scientifico per la valorizzazione del patrimonio delle ville.
LA MOSTRA A PALAZZO BARBARAN DA PORTO: IL PAESAGGIO IERI Il viaggio ha inizio a palazzo Barbaran da Porto: il visitatore viene come rapito e allontanato dalla realtà presente, per essere condotto alla scoperta della civiltà della villa. Dal momento in cui si entra nel vestibolo cubico giallo, segnacolo dell’avvio del percorso, la luce naturale e ogni contatto visivo con l’esterno vengono banditi, fino all’approdo nel luminoso cortile del palazzo, che nel Gioco della Villa pone il suggello finale. Per il visitatore, attraverso i marcati chiaroscuri della luce artificiale e le tinte forti che caratterizzano le pareti, è allestita una realtà parallela nelle tredici stanze del museo che, con colori diversi, scandiscono, secondo un ordine cronologico, i sette secoli di civiltà della villa, descritti tramite le immagini perdute del paesaggio, della vita e del lavoro dei contadini, con un nucleo centrale imperniato su Andrea Palladio12.
Figura 3. Una delle sale centrali dell’esposizione a Palazzo Barbaran da Porto, con dipinti, modelli, libri, disegni.
La cultura della villa nasce nel mondo romano, viene ripresa secoli dopo come ideale letterario, con Francesco Petrarca; comincia a prendere forma architettonica nella Firenze di Lorenzo il Magnifico, per dar vita poi a diverse sperimentazioni nella Roma di Bramante e 10 CISA Andrea Palladio, “L’orizzonte del progetto”, in www.cisapalladio.org, sezione archivio mostre, cartella stampa, pag. 2. 11 Le Foresterie vecchie di Villa Contarini, a Piazzola sul Brenta (PD), sono state acquistate dall’Istituto Regionale per le Ville Venete, e con un progetto di conservazione e sviluppo, sono destinate ad ospitare la sede del Museo della Civiltà della Villa Veneta. “I materiali emersi nel corso del progetto di ricerca per la mostra dipinti con iconografie di villa, disegni di progetto, stampe, modelli, macrofotografie, video, libri - costituiranno l’ossatura scientifica del futuro Museo, che li conserverà come originali, quando possibile, o in riproduzione, organizzati in un efficace sistema espositivo multimediale. Al tempo stesso il sistema degli itinerari continuerà integrato al Museo stesso.”(CISA A. Palladio, “Museo della Civiltà della Villa Veneta”, in www.cisapalladio.org, sezione archivio mostre, cartella stampa, pag. 2). 12 Le sale dedicate ad Andrea Palladio assumono una posizione centrale nella narrazione della storia della villa.
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Raffaello. Ma è Palladio a inventare la villa moderna, mettendo d’accordo esigenze funzionali, strutturali ed estetiche, per creare questi meravigliosi centri di attività e di residenza. Le ville palladiane saranno imitate e riproposte per secoli nel Veneto e nel mondo: dalle ville-reggia del Settecento, ai villini liberty, fino alle geniali riletture di Carlo Scarpa.13 La struttura portante della mostra è dunque la villa, o meglio la “ideologia della villa”, richiamando il celebre saggio di James Ackerman14, che acutamente fa emergere l’aspetto paradigmatico di questa tipologia, non solo come tipo architettonico, ma anche ideologico, nel senso di un “concetto o di un mito così saldamente radicato nella sfera dell’inconscio che tutti coloro che lo possiedono lo propugnano come verità inconfutabile”15. Così questo fenomeno attraversa i secoli della storia occidentale con una straordinaria coerenza ideologica a partire dall’epoca della Roma repubblicana, fino alla villa moderna attraverso un processo di “democratizzazione”16, e contraddistinguendosi per avere articolato e stimolato, nel corso della storia, riflessioni circa il “rapporto dialogico tra città e campagna, artificio e natura, formalismo e informalità.” 17. La letteratura e la pittura fungono da sostegno ideologico e sono le principali depositarie del mito della villa che, radicatosi nella cultura, evolutosi e permanendo fino ad oggi, trova espressione nell’esposizione, palesandosi per mezzo di manoscritti, scritti e iconografie. La villa in epoca romana e l’origine dell’antitesi città/campagna La genesi della villa nel mondo romano è quindi il primo tassello di questa complessa vicenda, e pone l’accento, tramite la selezione delle opere esposte nella prima sala18, sui caratteri di questa cultura che saranno studiati e imitati per secoli. Infatti, l’ideologia 19 della villa che appartiene alla cultura attuale è figlia di una tradizione classica, che rilanciata dall’umanesimo, è presente a ancora oggi, anche se spesso stereotipizzata in binomi antitetici come rus-urbs, otium-negotium, calma-frenesia, che non possono essere banalmente ripresi e trasposti nella consueta e semplicistica antitesi contemporanea di “città/campagna”, proprio perché, nella cultura latina, tale binomio possedeva uno spessore assai profondo, di riferimento a valori tradizionali morali e ad un substrato culturale di attivismo politico e propagandistico, attualmente non immediatamente comprensibili ad una lettura superficiale. In epoca romana, senza dubbio, si sviluppa accanto alla tipologia di villa il tema del dialogo tra città e campagna, concretizzandosi rapidamente in un contrasto, tra le due entità, che propone le virtù e i piaceri dell’una, contro i vizi e gli eccessi dell’altra. In tutto il corpus letterario latino si incontra questo tema da Varrone a Lucrezio, da Virgilio a Seneca20, sia come genuino paradigma della vita in campagna, sia come polemica alla viziosa vita di città. Catone il Censore21 nel De Agri Cultura aveva indicato nell’agricoltura l’attività economica socialmente e moralmente più degna, il mezzo per arricchirsi più conveniente per i cittadini
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Excursus dei contenuti dell’esposizione tratto dal sito www.cisapalladio.org, sezione archivio mostre. JAMES S. ACKERMAN, La villa. Forma e Ideologia (1990), Einaudi, Torino 1992. 15 JAMES S. ACKERMAN , op. cit., Torino 1992, pag. 5. 16 JAMES S. ACKERMAN , op. cit., Torino 1992, pag. 342. 17 JAMES S. ACKERMAN , op. cit., Torino 1992, pag. 36. 18 Le sezioni tematiche corrispondono a precisi stralci temporali, suddivisi nelle diverse sale. Parte I dell’esposizione: “La villa e il mito della campagna nel mondo romano, Petrarca e la fortuna rinascimentale”. 19 JAMES S. ACKERMAN , La Villa. Forma e Ideologia, in GUIDO BELTRAMINI, HOWARD BURNS (a cura di), Andrea Palladio e la Villa Veneta. Da Petrarca a Carlo Scarpa, Marsilio, Venezia 2005, pagg. 3-11. 20 Sono solo alcuni degli autori latini in cui in modo evidente è trattato questa tema, legato strettamente al mos maiorum della società romana basata sull’agricoltura, ideologia che sopravvisse in parte nel ceto intellettuale romano in epoca repubblicana, e successivamente, in epoca augustea, dal momento che Ottaviano aveva fondato il suo progetto politico su una restaurazione e propaganda della pace basata proprio sugli antichi valori e costumi più genuini della romanità, strettamente correlati all’agricoltura. 21 Marco Porcio Catone (234-149 a. C.) uomo politico e scrittore nella Roma repubblicana, celebre per la sua oratoria. Tra le opere letterarie compose il De agri cultura, centosessantadue capitoli in prosa, contro il diffondersi del latifondo e a favore della piccola e media proprietà terriera; è il testo di prosa latina più antico pervenuto integro. 14
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dei ceti superiori22. E dunque è nella celebre Praefatio del trattato che si trovano subito introdotti questi concetti e il mito del pius agricola: “Est interdum praestare mercaturis rem quaerere, nisi tam periculosum sit, et item foenerari, si tam honestum. Maiores nostri sic habuerunt et ita in legibus posiverunt: furem dupli condemnari, foeneratorem quadrupli. Quanto peiorem civem existimarint foeneratorem quam furem, hinc licet existimare. Et virum bonum quom laudabant, ita laudabant: bonum agricolam bonumque colonum; amplissime laudari existimabatur qui ita laudabatur. Mercatorem autem strenuum studiosumque rei quaerendae existimo, verum, ut supra dixi, periculosum et calamitosum. At ex agricolis et viri fortissimi et milites strenuissimi gignuntur, maximeque [...] minimeque male cogitantes sunt qui in eo studio occupati sunt.” (Si dà a volte il caso che farsi un patrimonio con il commercio sia vantaggioso, se non fosse tanto pieno di rischi, e così dare denaro a usura, se fosse altrettanto decoroso. I nostri vecchi così ritennero e fissarono in questo modo nelle Leggi delle Dodici Tavole: “si condanni il ladro a rifondere il doppio, l’usuraio al quadruplo”. Quanto peggior cittadino abbiano valutato l’usuraio che non il ladro, si può valutare da qui. E quando elogiavano un uomo dabbene, così lo elogiavano: che era un buon agricoltore e buon contadino; si riteneva che fosse sommamente elogiato chi era elogiato in questo modo. Per altro verso valuto il commerciante energico e impegnato a farsi un patrimonio, ma, come dicevo sopra, esposto a rischi e a disastri. Viceversa dagli agricoltori si hanno uomini fortissimi e soldati valorosissimi [...] e per niente malpensanti sono coloro che si dedicano a questa attività.)23. Il pius agricola è qui propagandato con vere e proprie finalità politiche (si noti l’uso del termine cives) e così idealizzato rappresenta “ il colono italico, espressione di un sistema in cui la villa diventò il nucleo principale di un contesto rurale politicamente e amministrativamente strutturato.”24. Alla villa infatti è dedicato un capitolo finalizzato a descriverne il ruolo e gli attori principali, il luogo di ubicazione, schema letterario che sarà ripreso in tutti i successivi trattati, compresi i Quattro Libri del Palladio 25. Varrone26, con il suo dialogo in tre libri dal titolo De re rustica, focalizzato prevalentemente su aspetti tecnici, conferisce comunque risalto ai temi morali legati all’attività agricola. Si inserisce quindi nella linea trattatistica inaugurata da Catone e, affermando valori genuinamente romani, è in perfetta sintonia con la tradizione, contrapponendo i mores del passato al presente, e introducendo nuovamente il tema della villa, fortemente e inscindibilmente connessa alle funzioni agricole:“Itaque illorum villae rusticae erant maioris preti quam urbanae, quae nunc sunt pleraque contra. Illic laudabatur villa, si habebat culinam rusticam bonam, praesepis laxas, cellam vinariam et oleariam ad modum agri aptam et pavimento proclivi in lacum, quod saepe, ubi conditum novum vinum, orcae in Hispania fervore musti ruptae neque non dolea in Italia. Item cetera ut essent in villa huiusce modi, quae cultura quaereret, providebant. Nunc contra villam urbanam quam maximam ac politissimam habeant dant operam [...]. Quo hi laborant ut spectent sua aestiva triclinaria ad frigus orientis, hiberna ad solem occidentem, potius quam, ut antiqui, in quam partem cella vinaria aut olearia fenestras haberet, cum fructus in ea vinarius quaerat ad dolia aera frigidiorem, item olearia calidiorem. Item videre oportet, si est collis, nisi quid impedit, ut ibi potissimum ponatur villa.” (Pertanto le loro case di campagna valevano di più 22 Il tema della villa è fortemente correlato anche alla classe sociale cui appartiene la committenza. La villa, di fatto, nella sua genesi ed evoluzione è necessariamente prerogativa delle classi sociali privilegiate e potenti, almeno fino all’Ottocento, quando tale tipologia si diffuse anche tra ceti medi di inferiori capacità economiche. 23 CATONE, De agri cultura, Praefatio, (traduzione Alberto Grilli). 24 OSVALDO SACCHI, Il mito del pius agricola e riflessi del conflitto agrario dell’epoca catoniana nella terminologia dei giuristi medio/tardo repubblicani, “RIDA - Revue Internationale des Droits de l'Antiquité”, 3e Série, Tome XLVIX, 2002, pagg. 241-287. 25 Palladio introduce l’argomento nel capitolo dodicesimo del libro secondo “Del sito da eleggersi per le fabbriche di villa”. ANDREA PALLADIO, I quattro libri dell’architettura, Edizione Studio Tesi, Pordenone 1992, pag. 144. 26 Marco Terenzio Varrone Reatino (116-27 a. C.), letterato romano, figura rappresentativa della cultura del suo tempo. Una delle opere conservate è il De Rustica, del 37 a. C. . GIOVANNA GARBARINO , Letteratura Latina. L’età di Cesare e di Augusto, Paravia, Torino 1997, pagg. 295-311.
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di quelle di città, mentre ora avviene nella maggior parte dei casi tutto il contrario. Allora si lodava una villa se aveva una buona cucina rustica, ampie stalle, cantina e cella per l’olio proporzionate alla estensione del fondo e con il pavimento inclinato verso un serbatoio, poiché spesso, quando ci si mette il vino nuovo, gli orci in Spagna e le botti in Italia si rompono per l’effervescenza del mosto. Parimenti provvedevano in una villa di tal genere a tutto ciò che la coltivazione richiedesse. Ora ci si adopera al contrario per avere una villa in città più grande e più lussuosa possibile […]. E perciò si adoperano perché le loro sale da pranzo estive siano esposte al fresco di oriente e quelle d’inverno al tepore di occidente, invece di preoccuparsi, come gli antichi da quale parte la cantina o la cella dell’olio dovesse avere le finestre, perché in una cantina il vino richiede per le botti una temperatura più bassa, per la cella olearia ci vuole una temperatura più elevata. Dunque è necessario constatare, se c’è una collina, e se non c’è nulla di impedimento, che là è davvero possibile insediare una villa.)27. E ancora, nel secondo capitolo vengono contrapposti i migliori rusticos romanos agli urbanos, che preferiscono usare le mani per applaudire a teatro e al circo, piuttosto che per utilizzare la falce e l’aratro e vivere in villa 28. Il forte contrasto tra i benefici della vita agreste e la città, diviene così un topos letterario che, passando per la visione stoica di Seneca, si trova riproposta in Palladio. Una riflessone a parte (in questa sede si propongono solo alcuni brevi spunti) meriterebbe la questione filosofica nella Roma antica, imperniata sul dibattito di antitesi e contaminazione, tra epicureismo e stoicismo, i cui principi spesso emergono dietro le concezioni di vita, legate alla villa, che si sono susseguite. Infatti, pur prevalendo l’una o l’altra dottrina, i vantaggi e i piaceri della vita in villa permangono attraverso i secoli, ma con pesi e significati differenti. James Ackerman li riassume in “benefici pratici della vita agricola, buona salute del corpo, aria pura ed esercizio fisico, riposo e distensione favoriti dalle letture e dalla conversazioni con amici virtuosi, la contemplazione e la piacevolezza del paesaggio.” 29. È fondamentale sottolineare che la concezione del paesaggio nella cultura latina non è assimilabile all’interpretazione contemporanea, ma piuttosto, pur essendo un paragone forzato, alla concezione estetica crociana, per cui si valuta e si considera il luogo per la sua bellezza naturale, infatti non esiste un termine latino che significhi paesaggio 30, ma vengono usate spesso locuzioni strettamente legate al senso geografico dei luoghi (locus-i, regio-onis), o riferite ad elementi della natura (fiumi, monti, boschi). Quindi il ruolo del paesaggio cambia, e assume uno spessore diverso proprio in base al contesto filosofico in cui si sviluppa, in quanto, da un lato, è ammesso come bene finalizzato al raggiungimento della voluptas31, e la villa come luogo destinato all’otium, dall’altro, la villa, fulcro del fondo agricolo, è protagonista del paesaggio (nel senso contemporaneo), ma in modo non consapevole e finalizzato, in quanto la villa è una struttura economicamente produttiva, l’agricoltura è un’attività civica, il fondo agricolo la base della res publica, e fondamento per il raggiungimento della virtus. Passando dall’età repubblicana a quella imperiale, lo stoicismo matura sempre più contraddizioni legate allo storico impegno politico propugnato, e al nuovo desiderio di condurre una vita ritirata in campagna, che si avvicina maggiormente al motto epicureo del “???e ß??sa?”, ma con la differenza che il vero otium,
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VARRONE, De re rustica, I, 13, 6-7, (traduzione AntonioTraglia). VARRONE, op. cit., II, 1, 1-3. 29 JAMES S. ACKERMAN , La villa. Forma e Ideologia (1990), Einaudi, Torino 1992, pag. 10. 30 La locuzione locorum amenitas-atis viene intesa nel senso di bellezza, ricchezza di un luogo, e spesso è tradotta in italiano come paesaggio. LUIGI CASTIGLIONI, SCEVOLA MARIOTTI, Il Vocabolario della lingua latina, Loescher Editore, Torino 1990. 31 Nella filosofia epicurea il bene consiste nel cercare il piacere (voluptas, per i romani) e fuggire il dolore. La dottrina epicurea si sintetizza in tre dettami: la massima espressione del piacere consiste nel non avere dolore (ap???a), e nella mancanza di turbamento nell’anima (ata?a??a); i piaceri ed i dolori dell’animo sono superiori a quelli del corpo; la suprema virtù (f???es??) è la ragione applicata al piacere. La vita proposta era ritirata e lontana dagli affari politic i, nascosta, da qui il motto “???e ß??sa?” (vivi nascosto). 28
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lodato e proposto da Seneca32 è finalizzato alla ricerca della felicità per mezzo della virtù e non del piacere. A questo proposito si legge nel De brevitate vitae, una vera e propria definizione che l’autore dà degli uomini otiosi: “Soli omnium otiosi sunt qui sapientiae vacant, soli viuunt; nec enim suam tantum aetatem bene tuentur: omne aevum suo adiciunt; quicquid annorum ante illos actum est, illis adquisitum est. Nisi ingratissimi sumus, illi clarissimi sacrarum opinionum conditores nobis nati sunt, nobis vitam praeparaverunt.” (Soli tra tutti sono oziosi quelli che si dedicano alla sapienza, solo queste persone vivono davvero; infatti non si limitano soltanto a conservare bene la loro vita; ogni tempo aggiungono al loro (tempo di vita); ciascuno degli anni che è trascorso prima di loro è da loro acquisito. Se non siamo del tutto incapaci di godere di un beneficio quei famosissimi fondatori di sacre dottrine, per noi sono nati e a noi hanno preparato la vita.)33. Dalle fonti letterarie emerge che proprio la villa era il luogo più idoneo per dedicarsi alle attività intellettuali, al contrario della residenza in città, come si evince da numerosi passi delle Epistole di Plinio il Giovane: “Erat Miseni classemque imperio praesens regebat. […] Usus ille sole, mox frigida, gustaverat iacens studebatque; poscit soleas, ascendit locum ex quo maxime miraculum illud conspici poterat” (Era a Miseno e teneva direttamente il comando della flotta. […] Egli dopo avere preso un bagno di sole e poi un altro nell’acqua fredda attendeva allo studio; si fa portare i sandali e sale ad una località che offriva le migliori condizioni per contemplare quel prodigio)34. Il tema del rapporto dialettico - antitetico tra città e campagna si esplicita, prima che in Plinio, in Virgilio. Le opere dell’autore simbolo dell’età augustea 35, inserendosi nella politica culturale di Ottaviano, che con la fine delle guerre civili, inizia una grande restaurazione basata sulla propaganda della pace, della legalità e delle tradizioni, trovando nelle opere di letterati e artisti un valido fondamento36, sostengono con forza la positività della pratica agricola, il valore morale e affittivo legato alla terra; tuttavia in Virgilio si intravede una possibilità di incontro tra la visione stoica e legata al valore morale (Catone, Varrone, Cicerone) e quella che sosteneva l’ideale dell’otium, come condizione ideale per la vita agreste. Virgilio “ritiene che l’otium rappresenti la ricompensa per il duro lavoro fisico”37. Il poeta “di quel giusto figliuol d’Anchise” scrisse due opre dedicate alla vita rurale e, proprio in virtù delle ambientazioni agresti e delle tematiche trattate, le Bucoliche e le Georgiche offrono importanti spunti sul tema paesaggio. Da un lato sicuramente vi è l’uso di topoi letterari: Virgilio, inserendosi nella tradizione della poesia pastorale, non poté ignorare i modelli dell’antichità38, per cui la regione dell’Arcadia, a cui si fa riferimento nelle 32
Lucio Anneo Seneca (12/1 a. C. - 65 d. C.), è l’esponente più illustre insieme a Cicerone della prosa filosofica romana, divulgatore della dottrina stoica, tragediografo. Attivo uomo politico in età imperiale, si ritirò poi alla agognata vita contemplativa. GIOVANNA GARBARINO, Letteratura Latina. L’età imperiale, Paravia, Torino 1997, pagg. 67-148. 33 : SENECA, De bervitate vitae, 14, 1. L’opera è databile al 49 a. C. circa e appartiene ai Dialogi, gruppo di opere d’argomento filosofico. 34 PLINIO IL GIOVANE, Epistole, VI, 16, 4-5, (traduzione Francesco Trisoglio). Il passo si riferisce alla famosa lettera di Plinio allo storico Tacito, circa la morte di Plinio il Vecchio. L’autore descrivendo i fatti dell’eruzione del Vesuvio si sofferma sulle consuete attività svolte nella lussuosa villa nel golfo di Napoli. GIOVANNA GARBARINO, op. cit., Torino 1997, pag. 366. 35 Publio Virgilio Marone (70-19 a. C.), figura emblematica e simbolica del mondo latino, poeta e letterato del circolo dell’ imperatore Ottaviano Augusto, autore delle Bucoliche, raccolta di dieci carmi di argomento pastorale (42-39 a. C.), delle Georgiche, poema epico-didascalico sul lavoro agricolo (37-30 a.C.), e dell’Eneide, poema epico che celebra la grandezza di Roma (30-19 a. C.). GIOVANNA GARBARINO, Letteratura Latina. L’età di Cesare e di Augusto, Paravia, Torino 1997, pagg. 323-416. 36 Il progetto politico di Ottaviano basa la propaganda dei nuovi ideali dell’impero su una intelligente politica culturale, che deve la sua riuscita soprattutto alla forte personalità di Mecenate, che non agì con una dittatura dirigista applicata alle lettere in modo autoritario, ma allontanò ogni forma di elogio cortigiano, o falsa condiscendenza, puntando ad una vera condivisione, da parte degli artisti e letterati del circolo dell’imperatore, dei valori della pax augusta, in modo che nei lori versi aleggiasse l’impegno di Ottaviano, nella serenità e nell’equilibrio, nella vita semplice di campagna della tanto attesa “età dell’oro”. 37 JAMES S. ACKERMAN , op. cit., Torino 1992, pag. 46. 38 L’archetipo del genere bucolico è individuato negli Idilli di Teocrito di Siracusa, che visse e operò nel terzo secolo a. C. .
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Bucoliche39, non è un luogo reale, ma ideale, in cui le caratteristiche del paesaggio siciliano, greco e italico si assommano per creare un luogo indefinito, che rappresenta simbolicamente lo sfondo ideale dell’attività poetica, ovvero il canto dei pastori. Ma accanto all’ideale, Virgilio è poi capace di sfumature che vanno oltre l’esempio greco degli Idilli teocritei, e definisce un paesaggio diverso, che non appartiene ai modelli, ma è riconducibile alle tinte scure e alle paludi della sua regione natia, la pianura padana, opposta ai colori caldi della Sicilia, sfondo delle opere di Teocrito. Il paesaggio teocriteo infatti è per lo più quello dell’isola, ma solo nei suoi aspetti di rigoglio della vegetazione mediterranea, nei suoi contrasti fra “luce e calura ed ombra e frescura”40, visti e narrati sempre con un certo distacco; il poeta latino, al contrario, si immerge nella natura, ed è partecipe dei sentimenti dei suoi personaggi, delineando nelle egloghe un paesaggio di fantasia, attinto tanto dalla memoria autobiografica, quanto da quella letteraria e iconografica del suo tempo. Troviamo, dunque, accanto alla idillica “fontis sacros frigus [...] opacum” (frescura ombrosa [presso] le fonti sacre)41, elementi che riportano il paesaggio nelle terre natie del poeta, “lapis omnia nudis | limosque palus obducat pascua iunco” (la nuda pietra e le paludi [che] invadono tutti i pascoli, con fangoso giunco)42, e ancora i versi riecheggiano salices, lenta vite, gelidi fontes, mollia prata, nemus (salici, vite flessibile, fresche fonti, soffici prati, bosco)43, come luoghi ideali per gli amori e la poesia dei pastori. Le Georgiche, in cui affluiscono, oltre ai modelli poetici greci della letteratura didascalica, gli apporti della citata opera di Catone e, in particolare, della contemporanea De re rustica di Varrone, cantano “Haec super arvorum cultu pecorumque [...] | et super arboribus” (della cura dei campi e del bestiame e degli alberi)44, che sono i veri protagonisti, ancora più dell’uomo. Virgilio descrive una natura viva, palpitante che cresce ed è caratterizzata nelle stagioni e nelle varie specie o tipi, e scrive: “quid maiora sequar? salices humilesque genistae, | aut illae pecori frondem aut pastoribus umbram|sufficiunt saepemque satis et pabula melli. | et iuvat undantem buxo spectare Cytorum | Naryciaeque picis lucos, iuvat arva videre | non rastris, hominum non ulli obnoxia curae.” (Ma perchè continuo a descrivere la vegetazione maggiore? I salici e le basse ginestre, quelli forniscono fogliame al gregge oppure ombra ai pastori, siepi per i seminati o alimentano il miele. È bello parlare anche del monte Citoro, ondeggiante di bosso, e dei boschi di pece della Naricia, piace vedere territori non assoggettati da rastrelli e da alcuna cura umana.)45. Si nota ancora una volta come il paesaggio, nell’accezione estetica propria della cultura latina, sia perlopiù la natura incontaminata, non ancora assoggettata alle cure dell’agricoltore, come sottolinea appunto l’anafora Virgiliana “non rastris non hominum curae”. La genuinità del sentimento virgiliano, il tono stoico e morale dei Catone e Varrone lasciano spazio, in età imperiale, ad nuovo modo di vedere e vivere la villa, che trova piena
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“Tristis at ille: «Tamen cantabitis, Arcades, inquit, montibus haec uestris, soli cantare periti Arcades.” VIRGILIO, Bucoliche, X, 31-32. 40 RITA ALOSI, SERGIO NICOLA, PIERA PAGLIANI, Optimi Scriptores. Antologia Latina, Volume 1, Petrini editore, Torino 1995, pag. 16. 41 VIRGILIO, op.cit., I, 52. Il verso richiama il modello pastorale teocriteo: “Molti pioppi e olmi s’agitavano sul nostro capo e vicini mormorava l’acqua sacra [...] Trai rami ombrosi si stancavano a cantar le cicale bruciate dal sole”. TEOCRITO, Idilli, VII, 135-146, (traduzione Gaetano Perrotta). RITA ALOSI, SERGIO NICOLA , PIERA PAGLIANI, op. cit., Torino 1995, pag.29. 42 VIRGILIO, op. cit., I, 47-48. 43 VIRGILIO, op. cit., X, 40-43. 44 VIRGILIO, Georgiche, IV, 559-560. È l’inizio del suggello posto dall’autore a chiusura del poema, che costituisce l’unico passo dichiaratamente autobiografico, e una sorta di firma autografa: “Haec super arvorum cultu pecorumque canebam |et super arboribus, Caesar dum magnus ad altum | fulminat Euphraten bello victorque volentes| per populos dat iura viamque adfectat Olympo. | Illo Vergilium me tempore dulcis alebat | Parthenope studiis florentem ignobilis oti, | carmina qui lusi pastorum audaxque iuventa, | Tityre, te patulae cecini sub tegmine fagi.”, VIRGILIO, Georgiche, IV, 559-566. 45 VIRGILIO, op.cit., II, 434-439, (traduzione di Cono Antonio Mangeri, Biblioteca dei Classici Italiani, su www.classicitaliani.it).
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formalizzazione nei possedimenti di Plinio il Giovane46, di cui poco è sopravissuto, ma sono conosciuti grazie alle approfondite descrizioni delle sue Epistole. La vita in villa appare sempre migliore di quella urbana, è luogo ideale per l’otium, opposto al negotium, è da questo momento, legata ad un concetto di lussuosità, estraneo ai romani rustici della res publica, ma che rimase poi il concetto prevalente e di esempio per le reinterpretazioni successive e riletture dal Rinascimento in poi. Plinio consolidò, anche dal punto di vista letterario, la forma di encomio della vita in villa, le cui linee furono seguite dagli autori successivi; scrive, a proposito della villa i Tusci47: “Nam super illa quae rettuli, altius ibi otium et pinguius eoque securius: nulla necessitas togae, nemo accersitor ex proximo, placida omnia et quiescentia, quod ipsum salubritati regionis ut purius caelum, ut aer liquidior accedit. Ibi animo, ibi corpore maxime valeo. Nam studiis animum, venatu corpus exerceo. Mei quoque nusquam salubrius degunt; usque adhuc certe neminem ex iis quos eduxeram mecum, - venia sit dicto - ibi amisi. Di modo in posterum hoc mihi gaudium, hanc gloriam loco servent!” (Giacché, oltre a tutte le ragione sopraddette, la possibilità di riposo è più grande, più completa e senza noie, non c’è bisogno di mettersi la toga; nessun seccatore nelle vicinanze; tutto è calma e pace; vi contribuiscono la salubrità della regione, la serenità del cielo e l’aria pura. Là sto bene di spirito e di corpo. Giacché esercito lo spirito con lo studio, il corpo con la caccia. Anche la mia gente sta meglio di salute più che in qualsiasi altro posto; e fino a oggi nessuno di coloro che condussi colà con me -spero che dirlo non porti sfortuna!-, vi ho perduto. Mi auguro solo che gli dei mantengano, anche per l’avvenire, a me questa gioia e al luogo questo vanto.)48. Analogamente, quindici secoli più tardi, Palladio introduce la parte relativa alla villa, del suo trattato di architettura, basandosi sugli schemi proposti dalla cultura e letteratura latina: “Le case delle città sono veramente al gentiluomo di molto splendore e commodità, avendo in esse ad abitare tutto quel tempo che li bisognerà per la amministrazione della republica e governo delle cose proprie49. Ma non minore utilità e consolazione caverà forse dalla case di villa, dove il resto del tempo si passerà in vedere et ornare le sue possessioni e con industria et arte dell’agricultura accrescer la facultà, dove, anco per l’esercizio che nella villa si suol fare a piedi et a cavallo, il corpo più agevolmente conserverà la sua sanità e robustezza, e dove finalmente l’animo stanco delle agitazioni della città prenderà molto ristauro e consolazione, e quietamente potrà attendere agli studi delle lettere et alla contemplazione50. Come per questo gli antichi savi solevano spesse volte usare di ritirarsi in simili luoghi, ove visitati da virtuosi amici e parenti loro, avendo case, giardini, fontane e simili luoghi sollazzevoli e sopra tutto la lor vertù, potevano facilmente conseguir quella beata vita che qua giù si può ottenere.”51. Gli elementi, la struttura semantica e sintattica sono i medesimi. Accanto ai temi della salute della vita agricola, e dell’attività dell’otium, fondamentale è il tema del paesaggio, anch’esso introdotto, con le dovute specifiche, in epoca romana. In particolare, dai sopraccitati passi dalle Epistole V e VI di Plinio, si percepisce il ruolo del paesaggio, o meglio delle locorum amenitates. Nella lettera a Tacito infatti si intuisce come il luogo in cui si trovava la villa fosse in una posizione privilegiata rispetto alla vista sul golfo di Napoli, proprio perché si poteva ben vedere la nube di eruzione del Vesuvio. L’aspetto del piacere che deriva dalla contemplazione dei paesaggi naturali lo ritroviamo ripreso più volte, e anche questo aspetto rimarrà come invariante, da Palladio a Le Corbusier. 46
Gaio Cecilio Plinio Secondo (61-112 d. C.), nipote di Plinio il Vecchio, fu uomo politico e letterato, vicino all’imperatore Domiziano e poi Traiano. L’opera più importante è una raccolta di Epistole (Epistularum libri decem) indirizzate ad amici e all’imperatore Traiano, pubblicate tra il 110 e il 113 d. C. . GIOVANNA GARBARINO, Letteratura Latina. L’etàimperiale, Torino 1997, pagg. 363-369. 47 Proprietà costruita sugli Appennini della Toscana meridionale, era dotata di ampi vigneti e frutteti. 48 PLINIO IL GIOVANE, Epistole, V, 6, 45-46. Traduzione riportata in JAMES S. ACKERMAN, La Villa. Forma e Ideologia, in GUIDO BELTRAMINI, HOWARD BURNS (a cura di), Andrea Palladio e la Villa Veneta. Da Petrarca a Carlo Scarpa, Marsilio, Venezia 2005, pag. 3. 49 É il concetto del negotium latino. 50 É il concetto dell’ otium latino, in antitesi col precedente concetto di negotium. 51 ANDREA PALLADIO, I quattro Libri dell’architettura (1570), Edizione Studio Tesi, Pordenone 1992, pag. 144, (libro II, capitolo XII).
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Scrive Plinio: “Regionis forma pulcherrima. Imaginare amphitheatrum aliquod immensum, et quale sola rerum natura possit effingere. Lata et diffusa planities montibus cingitur, montes summa sui parte procera nemora et antiqua habent. Frequens ibi et varia venatio. Inde caeduae silvae cum ipso monte descendunt. Has inter pingues terrenique colles - neque enim facile usquam saxum etiam si quaeratur occurrit- [...]. Magnam capies voluptatem, si hunc regionis situm ex monte prospexeris. Neque enim terras tibi sed formam aliquam ad eximiam pulchritudinem pictam videberis cernere: ea varietate, ea descriptione, quocumque inciderint oculi, reficientur.” (Assoluta bellezza del luogo. Immagina un anfiteatro e quale soltanto la natura può crearlo. Una vasta e aperta piana è cinta da monti, e le cime dei monti hanno boschi imponenti e antichi. La cacciagione vi è abbondante e varia: boschi cedui degradano con pendici dai monti. [...] Proveresti un gran piacere se guardassi questa regione dall’alto dei colli: ti parrebbe infatti di scorgere non delle terre, ma una quadro dipinto con incredibile maestria: da tanta varietà, da così felice disposizione gli occhi traggono diletto ovunque si posino.)52. Significativo il richiamo dell’autore alla pittura paesaggistica, che si era sviluppata in una raffinata forma artistica nei due secoli precedenti, per lo più nella forma di decorazioni parietali delle ville 53. Il legame villa – paesaggio lo ritroviamo così espresso nel ventesimo secolo dal maestro svizzero del movimento moderno che, circa l’importanza del paesaggio circostante, scrive: “Gli abitanti, che sono venuti qui dal momento che questa regione rurale era bella anche per il tipo di vita che vi si può godere, la contempleranno dall’alto dei loro tetti giardino o dalle finestre in lunghezza. La loro vita domestica trascorrerà come in un sogno virgliano.”54. Non è possibile sapere quanto fosse definita nelle mente e nel ricordo di Le Corbusier la poesia di Virgilio, ma certamente l’immagine è fortemente evocativa, grazie ad un consolidamento ideologico dell’ambientazione agreste, proprio della cultura occidentale. Il mondo latino, tappa dell’itinerario culturale che si muove tra città e campagna, è concretamente il primo tema del viaggio espositivo a Palazzo Barbaran da Porto, che dedica la prima sezione all’epoca romana. Il tema del paesaggio emerge da subito come significativamente correlato alla villa, oggetto principale della mostra, e la prima stanza propone iconografie che ne rivelano l’intimo rapporto. Sono esposti infatti “Frammenti con paesaggi architettonici” del 40-45 d. C. 55, due quadretti di intonaco dipinto, provenienti da Pompei, probabilmente dallo stesso ambiente e un mosaico con “Raffigurazioni di paesaggio marino” di epoca romana56, di provenienza e originalità incerta. La tipicità del soggetto pittorico testimonia come possedere una villa fosse desiderio della classe media romana, per cui, rappresentare complessi architettonici ricchi e complessi, accompagnati dalla presenza di giardini, aveva, da un lato, una sorta di funzione catartica, dell’altro era emblema di aggiornamento culturale dei padroni di casa: ampi giardini transennati da recinti marmorei sono iscritti in costruzioni porticate a tre bracci, e si caratterizzano per la presenza di grandi alberi isolati. La cura pittorica è al dettaglio delle foglie, degli acroteri e dei capitelli, rappresentati con un puntino di bianco. Anche il mosaico presenta una struttura architettonica complessa fatta di cortili e giardini, tutti strettamente correlati al mare: queste iconografie richiamano la tipologia della villa aperta, descritta copiosamente da Plinio, che, con piante aperte e asimmetriche, si espande nell’ambiente circostante, creando un intimo rapporto con il paesaggio, anche attraverso i “colori che 52
PLINIO IL GIOVANE, Epistole, V, 6, 7-9, 13. Traduzione riportata in JAMES S. ACKERMAN, op. cit., Venezia 2005, pag. 4. 53 Per un approfondimento sulla pittura in epoca romana: ANGELA DONATI (a cura di), Romana Pictura, la pittura romana dalle origini all’età bizantina, Electa, Milano 1998. 54 JAMES S. ACKERMAN , La Villa. Forma e Ideologia, (1990), Einaudi, Torino 1992, pag. 10. 55 Opera n. 3, intonaco dipinto 22 (h) x 53 cm, provenienza Pompei, Napoli, Museo Archeologico Nazionale, inv. 9406, Catalogo delle opere, GUIDO BELTRAMINI, HOWARD BURNS (a cura di), Andrea Palladio e la Villa Veneta. Da Petrarca a Carlo Scarpa, Marsilio, Venezia 2005, pag. 186. 56 Opera n. 4, emblema in mosaico, 55 x 57 cm, provenienza Italia centro meridionale, Venezia, Museo Archeologico Nazionale, inv. 53 Correr, Catalogo delle opere, GUIDO BELTRAMINI, HOWARD BURNS, op. cit., Venezia 2005, pagg. 186-188.
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rispecchiano la policromia dello scenario nel quale è immersa [la villa]”57. Ecco quindi presentato un “Frammento di Pittura da giardino”, 20-40 d. C. 58, in cui si riconoscono alcuni dei principali elementi della pittura di giardino, diffusasi in epoca tardo repubblicana e imperiale, finalizzata ad ampliare le dimensioni degli ambienti, attraverso la rappresentazione, sulle pareti di fondo dei giardini, ma anche degli ambienti interni, di rigogliosa vegetazione, alberi fioriti, piante da frutto, animali selvatici ed esotici, che aprivano illusorie visuali su un mondo ricco di felicità, abbondanza e benessere59.
Figura 4. Frammento pompeiano di intonaco dipinto con paesaggi architettonici e giardini. La struttura a porticus triplex descrive ampi giardini con alberi isolati.
Figura 5. Mosaico con raffigurazione di paesaggio marino. Figura 6. Frammento di intonaco dipinto con pittura da giardino. Una transenna incannucciata racchiude, accanto ad una pianta di lauro, un albero di pesco ricco di frutti. Al centro un variopinto uccello esotico. 57
JAMES S. ACKERMAN , op. cit., Torino 1992, pag. 30. Opera n. 7, intonaco dipinto, 12 (h) x 75 cm, provenienza vesuviana, Napoli, Museo Archeologico Nazionale, inv. 9719, Catalogo delle opere, GUIDO BELTRAMINI, HOWARD BURNS, op. cit., Venezia 2005, pagg. 190-191. 59 PAOLA RUBINO , Frammento di Pittura da Giardino, in GUIDO BELTRAMINI, HOWARD BURNS, op. cit., Venezia 2005, pagg. 190-191. 58
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Di estremo interesse, per quanto riguarda la tipologia della villa e il rapporto con l’intorno, sono due opere del I-III secolo d.C., che formalizzano concretamente la villa romana. Una “Aedicula”60, legata al culto religioso domestico, e un “Modello di villa gallo-romana”61 rappresentano in miniatura il corpo principale di ville romane extraurbane, rivelando la presenza di elementi frontonati, copertura in lastre, simmetria della pianta con ambienti che si sviluppano nelle ali estreme dell’edificio, dotati di finestre quadrate, e con ambiente centrale, coronato da un timpano, che si apre al paesaggio tramite un profondo portico. Questi due esempi, a differenza delle evocazioni pittoriche, riconducono alla villa di tipo cubico a struttura compatta, con pianta simmetrica chiusa, che rivela un distacco concettuale dal luogo.
Figura 7. Aedicula in pietra calcaraea, che rappresenta parte di una villa di campagna della Lorena. Figura 8. Modello di villa gallo romana in pietra calcaraea, rinvenuto nel 1970.
Sono emerse, dunque, due tipologie, seppure approssimative, di villa: la villa a “struttura cubica” e la villa ad “ampia struttura aperta”62. Queste mutarono gradualmente, seguendo man mano le tendenze stilistiche di ogni tempo, che sempre di più prendevano coscienza dei piaceri che la contemplazione del panorama poteva arrecare. La villa quindi non solo inquadra e ammira visivamente le bellezze naturali, ma essa stessa diventa oggetto di funzione estetica, parte di quelle stesse bellezze e parte integrante del paesaggio.
CONCLUSIONI Queste due posizioni antitetiche di tipologia, quella aperta e quella compatta, che incontriamo nella tradizione romana, trovano una soluzione in Palladio, punto focale e di riferimento di questo viaggio a tappe, che, profondo conoscitore dell’antichità, fu estremamente prolifico e inventivo nel progetto di villa, riuscendo a collegarla intimante al paesaggio.
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Opera n. 5, pietra calcarea gialla, 17 (h) x 22,8 x 12,3 cm, provenienza Fontoy, Francia, Thionville, Musèe de la Tour aux Puces, inv. 1987.07.01, Catalogo delle opere, GUIDO BELTRAMINI, HOWARD BURNS, op. cit., Venezia 2005, pag. 188. 61 Opera n. 6, pietra calcarea, 20,5 (h) x 21,5 x 19 cm, provenienza oppidum del Titerberg, Lussemburgo, Musèe National d’Histoire et d’Art, inv. 2067, Catalogo delle opere, GUIDO BELTRAMINI, HOWARD BURNS, op. cit., Venezia 2005, pag. 188. 62 JAMES S. ACKERMAN , op. cit., Torino 1992, pag. 19.
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Così affiancando eleganti barchesse, tipici elementi di uso agricolo, alle classicheggianti facciate delle ville, accoglie l’ambiente in un ampio abbraccio, che è alla base del legame tra villa e paesaggio, poiché è la villa stessa che affonda e propaga in esso le sue radici. Analogamente, pur nella compattezza della celeberrima Villa Almerico Capra, detta La Rotonda, che si riferisce tipologicamente alla villa compatta, Palladio ottiene un profondo rapporto con il paesaggio, su cui la villa domina. Questa è infatti posta a suggello di una collina, essendovi “nella sommità del colle [...] la sala ridonda, circondata dalle stanze [...]. E perchè ciascuna faccia ha bellissime viste, [vi sono] quattro logge di ordine corinthio”63. L’autore dichiara apertamente quindi come gli intenti progettuali siano correlati al paesaggio, certo ancora strettamente legato ad una concezione estetica, ma già risultato di un progetto. Risulta chiaro allora come la villa sia concretamente un elemento creatore di paesaggi, e il progetto di villa, di fatto, coinvolgendo molteplici elementi del territorio,sia un progetto di paesaggio.
Figura 9. Andrea Palladio, Villa Almerico Capra detta La Rotonda, Vicenza, 1556.
Si evidenzia in questo modo la continuità del “mito della campagna” (nella sua oscillazione e ambiguità tra il tema del diletto e quello dell’utile) attraverso i secoli, dall’inizio, in epoca romana, alla maturità dell’architettura del Palladio, e come questo tema sia stato variamente accompagnato dal ruolo e della concezione del paesaggio. Nessuna villa di epoca romana è sopravvissuta al crollo dell’impero, ma l’idea di villa dell’antichità classica è giunta fino ad oggi, più duratura e tangibile di qualsiasi architettura, trovando appoggio, secolo dopo secolo, non solo nella letteratura, nella pittura, ma soprattutto nei fecondi e innovativi progetti del rinascimento, dalle ville medicee, a quelle romane, fino a quelle Palladiane, che furono poi di impulso per i successivi “survival” e “revival”64dall’Inghilterra del Settecento al movimento moderno.
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ANDREA PALLADIO , op. cit., Pordenone 1992, pag. 163, (libro II, capitolo XV). JAMES S. ACKERMAN , op. cit., Torino 1992, pag. 28.
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Il viaggio nella storia della villa e nelle terre del Palladio, ha sostato lungamente in questa prima tappa, in quanto fondante e fondamentale per la comprensione di idee, e ideologie, così profondamente radicate nella cultura da essere quasi imperscrutabili, e perchè culla degli originali modelli antichi, imitati e studiati dalla grande cultura del Rinascimento, prossima meta del nostro viaggio, che non tardi si addentrerà nei territori delle celeberrime ville venete65.
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La seconda parte di questo scritto percorrerà le tappe espositive, proponendo un rapido excursus della civiltà della villa dall’umanesimo alla contemporaneità. Un approfondimento specifico meriterà il tema della ville palladiane, attraverso un vero e proprio viaggio a tappe che, dalla vicentina villa Almerico Capra approderà alla villa Badoer, nei pressi di Rovigo, con una tappa fuori percorso al complesso funerario della famiglia Brion, dell’architetto Carlo Scarpa, un approdo contemporaneo in questo itinerario nel tempo e nello spazio.
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Siti internet www.almapress.unibo.it/fl/default.htm www.basilicapalladiana.it/4libri/4libri.htm www.biblio-net.com/index.html www.cisapalladio.org www.classicitaliani.it www.forumromanum.org/literature/index.html www.itempidellaterra.org www.latinovivo.com www.rassegna.unibo.it/autlat.html www.thelatinlibrary.com www.veneto.net/ville-venete.asp
RIFERIMENTI ICONOGRAFICI Figura 1: immagine tratta dalla brochure di presentazione della mostra, a cura del CISA Andrea Palladio. Figura 2: BELTRAMINI GUIDO, BURNS HOWARD, Andrea Palladio e la Villa Veneta. Da Petrarca a Carlo Scarpa, Marsilio Venezia 2005, pag. 442, cat.168. Figura 3: immagine tratta dal sito www.cisapalladio.org, sezione archivio mostre, visite virtuali. Figura 4: BELTRAMINI GUIDO, BURNS HOWARD, Andrea Palladio e la Villa Veneta. Da Petrarca a Carlo Scarpa, Marsilio Venezia 2005, pag. 187, cat.3. Figura 5: BELTRAMINI GUIDO, BURNS HOWARD, Andrea Palladio e la Villa Veneta. Da Petrarca a Carlo Scarpa, Marsilio Venezia 2005, pag. 187, cat.4. Figura 6: BELTRAMINI GUIDO, BURNS HOWARD, Andrea Palladio e la Villa Veneta. Da Petrarca a Carlo Scarpa, Marsilio Venezia 2005, pag. 189, cat. 7. Figura 7: BELTRAMINI GUIDO, BURNS HOWARD, Andrea Palladio e la Villa Veneta. Da Petrarca a Carlo Scarpa, Marsilio Venezia 2005, pag. 188, cat. 5. Figura 8: BELTRAMINI GUIDO, BURNS HOWARD, Andrea Palladio e la Villa Veneta. Da Petrarca a Carlo Scarpa, Marsilio Venezia 2005, pag. 188, cat. 6. Figura 9: foto per cartolina di Kina Italia Eurografica.
Testo acquisito dalla redazione della rivista nel mese di Dicembre 2005. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768 Università degli Studi di Firenze
Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/ Firenze University Press anno 3 – numero 4 – luglio - dicembre 2005 sezione: Itinerari pagg. 100 - 109
L.O.T.O. - LANDSCAPE OPPORTUNITIES FOR TERRITORIAL ORGANIZATION FRAMMENTAZIONE PAESISTICA: PERMANENZE E INTERFERENZE PARTE SECONDA: LE DIAGNOSI DI PERFORAZIONE DELLA MATRICE RURALE Gabriele Paolinelli*
Summary Some topics coming from a study about Conegliano territory (Treviso – Italy), part of the project L.O.T.O. Landscape Opportunities for Territorial Organization (european program INTERREG IIIB CADSES), underline an objective description of landscape changes. Perforation diagnosis may be useful in landscape quality assessment. The outputs may be applied at territorial organization planning. Key-words Habitat fragmentation, landscape fragmentation, landscape matrix, perforation.
Abstract Alcuni esiti di uno studio condotto sul territorio di Conegliano (Treviso – Italia), nell’ambito del progetto L.O.T.O. Landscape Opportunities for Territorial Organization (programma comunitario INTERREG IIIB CADSES), tracciano una descrizione oggettiva delle trasformazioni del paesaggio. Le diagnosi delle condizioni di perforazione della matrice rurale permettono valutazioni di qualità del paesaggio applicabili alla progettazione dei piani territoriali. Parole chiave Frammentazione ambientale, frammentazione paesistica, matrice paesaggistica, perforazione.
* Dottore di ricerca in Progettazione paesistica, professore a contratto di Architettura del paesaggio alle Università di Firenze e Bologna.
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La seconda e ultima parte di questo contributo di sintesi di alcuni esiti della applicazione elaborata dalla Regione del Veneto sul territorio comunale di Conegliano (Treviso), nell’ambito degli studi del progetto L.O.T.O.1, è incentrata su una manifestazione dei processi di frammentazione paesistica 2 direttamente connessa ai fenomeni di dispersione insediativa. Si tratta della perforazione della matrice paesaggistica rurale, imputabile per lo più, sebbene non esclusivamente, alla costruzione di edifici residenziali civili, generalmente mono o bi-familiari, frequente nelle aree collinari, soprattutto se limitrofe a insediamenti urbani, ma sempre più presente anche nel bilancio della connotazione contemporanea del paesaggio delle pianure. La declinazione della frammentazione paesistica può fare riferimento a tre assunti metodologici di base. In prima analisi, la distinzione fisionomica delle forme di alterazione della matrice rurale 3 del paesaggio fornisce un quadro della articolazione spaziale e tipologica del fenomeno. Inoltre, la distinzione dei fattori territoriali di frammentazione paesistica, in base alla loro geometria spaziale dominante e alla complessità delle configurazioni paesaggistiche che concorrono a generare, permette una parziale correlazione causa-effetto, limitata ai fattori riconoscibili sul territorio. Occorre considerare però che essi, non sono in genere le uniche cause del fenomeno, sebbene siano direttamente responsabili degli stati di frammentazione. Infine, la classificazione spaziale della frammentazione paesistica può essere articolata in tre quadri distinti, strettamente complementari in termini di capacità informativa diagnostica e progettuale. Si tratta della frammentazione reale (condizioni di stato), di quella potenziale (rischi relativi a stati giuridicamente definiti), e di quella tendenziale (rischi relativi a scenari strategici e a processi riferibili alle dinamiche in atto). La perforazione della matrice rurale dovuta ai processi di dispersione insediativa dipende dalla presenza di fattori puntuali di frammentazione4. Il loro specifico potenziale critico è connesso alla reiterazione del singolo fenomeno di perforazione della matrice rurale, senza la quale esso non sarebbe contemplato in una analisi dei fattori di frammentazione paesistica per oggettiva estraneità alla categoria. La reiterazione su vasti ambiti geografici e spesso con densità spaziali elevate genera infatti una condizione paesaggistica critica diversa dalla somma delle singole alterazioni. 1 Il progetto LOTO - Landscape Opportunities for Territorial Organization è un progetto comunitario del Programma Interreg IIIB che si colloca nell’area di cooperazione CADSES (Central, Adriatic, Danubian and South-Eastern European Space); è congiuntamente finanziato dall’Unione Europea tramite il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (FESR) e dagli Stati membri, tramite il Fondo di Rotazione (FDR). E’ leader la Regione Lombardia; sono partners italiani il Ministero per i Beni e le Attività culturali, la Regione Emilia-Romagna, la Regione Marche, la Regione Umbria, la Regione del Veneto; sono partners esteri la Regione Istriana, il Ministero dell’Ambiente e della Pianificazione del territorio della Slovenia, la Technical University di Monaco di Baviera; sono osservatori lo Urban Project Institut di Bucarest e la Corvinus University di Budapest. Il testo del presente contributo è parzialmente tratto e adattato da GABRIELE PAOLINELLI e altri, LOTO – Landscape Opportunities. Frammentazione paesistica: permanenze e interferenze nel territorio di Conegliano, Regione del Veneto, Venezia, 2005. 2 In merito alle basi definitorie della categoria della frammentazione paesistica e specificamente della perforazione, si veda RICHARD T. T. FORMAN, Land mosaics, the ecology of landscapes and regions, Cambridge, 1995, pgg. 406-415. Su l’applicazione della categoria della frammentazione ambientale alla pianificazione territoriale, si veda anche: BERNARDINO ROMANO, Continuità ambientale. Pianificare per il riassetto ecologico del territorio, Andromeda, Teramo, 2000; BERNARDINO ROMANO e altri, Pianificazione e reti ecologiche PLANECO Planning in ecological network, Gangemi, Roma 2003; BERNARDINO ROMANO, Ambiente e piano?, Andromeda, Teramo, 2004. Relativamente alle estensioni della categoria della frammentazione ambientale a quella della frammentazione paesaggistica e alle relative modalità di studio, si veda anche: GABRIELE PAOLINELLI , La frammentazione del paesaggio periurbano, Firenze University Press, Firenze, 2003; GABRIELE PAOLINELLI , La frammentazione paesistica, in GIULIO G. RIZZO (a cura di), Leggere i luoghi per Fondamenti di urbanistica, Aracne, Roma, 2004, pagg. 125-142; GABRIELE PAOLINELLI e altri, op. cit., Venezia, 2005, pagg. 91-98. 3 Nei territori italiani e europei, le matrici naturali e conseguentemente le loro alterazioni costituiscono una casistica sensibilmente limitata per estensione e diffusione, ma, per gli stessi motivi, risulta di grande importanza la corretta considerazione delle diverse condizioni di naturalità dei paesaggi rurali. 4 In merito alle possibili modalità di classificazione dei fattori territoriali di frammentazione, si veda anche: BERNARDINO ROMANO, op. cit., Teramo, 2000, pagg. 64-80 e GABRIELE PAOLINELLI op. cit., Firenze, 2003, pagg. 43-55 e 153-189.
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La valutazione di questi fenomeni nel bilancio territoriale di frammentazione paesistica deve tenere conto anche della reversibilità non significativa caratteristica dei fattori insediativi. Per la profonda differenziazione dei fattori di frammentazione paesistica, che, oltre che insediativi e infrastrutturali, possono essere anche agrari e idraulici, è in genere corretto distinguere i livelli di reversibilità delle condizioni diagnosticate. Da essi dipendono infatti i potenziali di rigenerazione del paesaggio e le effettive possibilità di correzione degli specifici stati critici. Un’evidenza di questo aspetto si ottiene anche dalla sola considerazione esemplificativa della diversa reversibilità tipica delle condizioni di frammentazione paesistica riferibili alla diffusione delle monocolture agrarie rispetto a quelle proprie delle lottizzazioni per insediamenti industriali. Lo studio della perforazione insediativa della matrice rurale del territorio comunale di Conegliano si riferisce alle aree extraurbane di pianura e collina a valle e a monte della conurbazione che comprende l’insediamento capoluogo, impostata sulle aree morfotonali della collina e dell’alta pianura venete. Le indagini riguardano gli effetti alteranti della introduzione di edifici e complessi di edifici isolati estranei al paesaggio rurale. Una prima procedura di individuazione delle condizioni di perforazione ha considerato la geografia delle relazioni spaziali indotte nel paesaggio dall’incremento complessivo degli edifici extraurbani. Se, per definizione, sono classificabili come perforanti gli edifici estranei al paesaggio rurale, è però vero infatti che le relazioni critiche da essi innescate coinvolgono sia gli edifici con tali proprietà che quelli appartenenti al sistema insediativo rurale. Gli stessi edifici rurali, in condizioni anomale di densità spaziale dovute alla presenza di edifici con connotati e destinazioni di genere urbano, perdono i propri caratteri identificativi dipendenti dai rapporti con il contesto paesaggistico. E’ possibile riferire agli edifici extraurbani tre fasce di interazione paesaggistica, approssimandone la geometria come omogenea e concentrica, in assenza di ulteriori e più sofisticati parametri di identificazione.
Figura 1. Evoluzione dell’insediamento aggregato e sparso nel territorio comunale di Conegliano dal 1890 al 1995 (non sono disponibili soglie cartografiche più recenti; la ricostruzione cartografica al 1890 è stata elaborata sullo strato vettoriale della cartografia regionale 1995, secondo i dati della cartografia IGMI 1890).
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La prima (a), di diretta pertinenza degli edifici; agli edifici viene riferita una fascia convenzionale di cinque metri lineari dal perimetro (figura 3), stimata precauzionalmente per difetto, in relazione alle dimensioni medie delle pertinenze, che, dal successivo campionamento condotto per l’analisi del consumo di suolo, sono risultate di fatto ben superiori, pari mediamente a circa undici metri lineari. La seconda (b), di diretta influenza paesaggistica degli edifici; agli edifici viene riferita una fascia convenzionale di trenta metri lineari dal perimetro (figura 3), stimata precauzionalmente per difetto, in relazione a osservazioni condotte su campioni. La terza (c) di interferenza paesaggistica degli edifici; agli edifici viene riferita una fascia convenzionale di ottanta metri lineari dal perimetro (figura 7), stimata precauzionalmente per difetto in relazione a osservazioni condotte su campioni e modulata su la reale densità edilizia del territorio extraurbano di Conegliano. La modulazione dell’ampiezza della fascia di interferenza paesaggistica degli edifici su la reale densità edilizia extraurbana è dovuta alla considerazione applicativa del fatto che l’eventuale impiego di fasce di interferenza più estese, frequente ad esempio nello studio degli effetti delle infrastrutture sulla fauna, produrrebbe in questo caso una copertura pressoché completa del territorio comunale. Precludendo ogni orientamento progettuale delle scelte di governo per la conservazione e la valorizzazione del paesaggio riferibile alla individuazione di differenze, l’indicatore diverrebbe di fatto inutilizzabile anche ove fosse scientificamente possibile dimostrarne in modo oggettivo la precisione dei parametri di riferimento valutativo.
a
b
c
Figura 2. Ideogramma del processo di perforazione insediativa della matrice rurale del paesaggio (verde) e delle relative categorie ipotizzate per l’approssimazione spaziale della distribuzione delle condizioni di alterazione (azzurro): (a) la bassa densità territoriale di edifici isolati impropri (perforazione della matrice rurale) non genera effetti di alterazione paesaggistica ascrivibili alla categoria della frammentazione reale; si è piuttosto in presenza di rischi e tendenze, ma le condizioni di stato fanno registrare aree di diretta influenza paesaggistica (azzurro) sensibilmente distanziate; (b) la crescita della densità territoriale degli edifici con effetti di perforazione della matrice rurale genera effetti di avvicinamento delle aree di diretta influenza paesaggistica (azzurro) e di quelle di interferenza (blu a righe); le seconde, sebbene non generino ancora aggregazioni, comportano una sensibile riduzione delle aree interposte a matrice rurale integra; (c) le aree di interferenza paesaggistica si saldano in conseguenza dell’incremento della densità territoriale degli edifici perforanti, producendo una aggregazione degli effetti di disturbo, con una forma di criticità complessa, diversa dalla sommatoria dei singoli fenomeni intesi come entità unitarie.
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Figura 3. Rappresentazione dei primi due livelli di disturbo paesaggistico relativi ai fenomeni di perforazione della matrice rurale: diretta pertinenza degli edifici (a sinistra) e diretta influenza paesaggistica degli edifici (a destra). In grigio sono esclusi dalle elaborazioni tematiche gli insediamenti urbani e quelli minori ad essi assimilati per complessitĂ del tessuto e per estensione del complesso.
Figura 4. Verifica del secondo livello di disturbo paesaggistico relativo ai fenomeni di perforazione della matrice rurale (diretta influenza paesaggistica degli edifici) attraverso una fascia inferiore, pari a venti metri lineari (a sinistra), e una superiore, pari a quaranta metri lineari (a destra). Le principali forme di alterazione/integritĂ risultano stabili rispetto al parametro intermedio dei trenta metri lineari (figura 3, a destra), per quanto concerne le aggregazioni delle aree di disturbo, come per le conseguenti continuitĂ paesaggistiche ad esse reciproche. In grigio sono esclusi dalle elaborazioni tematiche gli insediamenti urbani e quelli minori ad essi assimilati per complessitĂ del tessuto e per estensione del complesso. 104
L’obiettivo della approssimazione della distribuzione spaziale dei fenomeni di interferenza paesaggistica degli edifici è concretamente rivolto alla distinzione delle aree interessate rispetto a quelle integre dalle condizioni di criticità qualitativa del paesaggio caratteristiche della classe di frammentazione definita come perforazione. Attraverso scenari di disturbo paesaggistico relativi a fasce di dimensioni minori e maggiori di quelle preliminarmente ipotizzate, le fasce di diretta influenza paesaggistica e di interferenza paesaggistica degli edifici sono state testate, per verificarne capacità e congruenza di descrizione della peculiare articolazione insediativa del territorio di Conegliano. Sono stati costruiti gli scenari di verifica relativi alle fasce di venti e quaranta metri lineari per gli effetti di diretta influenza degli edifici (figura 4) e quelli relativi alle fasce di sessanta e cento metri lineari per l’interferenza paesaggistica degli edifici (figura 8). Essi mostrano come la geografia delle alterazioni paesaggistiche imputabili alla perforazione non si discosti sostanzialmente da quanto indicato dalla ipotesi iniziale per quanto concerne gli aspetti sostanziali della distribuzione e della aggregazione spaziale delle aree. La diagnosi è stata elaborata attraverso l’attribuzione tipologica delle effettive proprietà perforanti degli edifici extraurbani. Ai fini della applicabilità alle indagini di scala vasta o comunque su ambiti territoriali assai estesi, la procedura ottimale di elaborazione di questo filtro prevede la classificazione degli edifici come rurali o civili attraverso le banche dati comunali. Nel caso studio di Conegliano, in assenza della disponibilità di tali dati e per verificare empiricamente la consistenza paesaggistica effettiva del fenomeno trattato, si è proceduto per campionamento, attraverso una campagna di sopralluoghi estesa a tutto il territorio extraurbano del comune, a copertura dei diversi tipi di paesaggio e di configurazione insediativa. Il rilevamento è stato riferito a una selezione preliminare di edifici che sono stati presunti perforanti in base alla datazione. Sono stati isolati in questo modo gli edifici posteriori al 1948 (soglia cartografica disponibile in prossimità della profonda mutazione socioeconomica della metà del Novecento), ritenendo gli altri non perforanti per le generalizzate condizioni di ruralità riferibili all’insediamento extraurbano fino al secondo dopoguerra. Gli edifici presunti in condizioni di perforazione secondo le modalità descritte sopra sono risultati oltre duemilatrecento, pari a circa il settantaquattro per cento del patrimonio edilizio extraurbano. Il campionamento ha riguardato il quarantuno per cento degli edifici extraurbani (milleduecentonovantasette su un patrimonio complessivo di tremilacentotrentatre). Ne è derivata anche una evidenza della entità e della progressione dei fenomeni di dispersione insediativa riferibili alla costruzione di edifici sparsi. Dalla selezione cronologica preliminare degli edifici presunti perforanti sono stati eliminati tutti i casi di edifici e complessi rurali costruiti dopo la metà del secolo scorso che, per i connotati funzionali e morfologici riscontrati, sono parte integrante del paesaggio rurale e delle relative forme di gestione. Gli edifici effettivamente risultati in condizioni di perforazione sono settecentotrentacinque, pari a circa il cinquantasette per cento del campione. Considerando la significativa copertura delle diverse configurazioni paesaggistiche del territorio comunale con cui è stato condotto il campionamento e applicando l’incidenza di perforazione rilevata da quest’ultimo, assunta ipoteticamente come estendibile all’intero territorio comunale extraurbano, si ricava un probabile numero di edifici generatori di perforazione paesaggistica pari a oltre le millesettecentocinquanta unità su le tremilacentotrentatre totali. Ai fini della discussione delle possibilità di applicazione connesse alla individuazione delle aree di integrità paesaggistica, concetto relativo, in questo caso alle alterazioni di frammentazione paesistica, è significativo completare il quadro diagnostico attraverso la descrizione sommaria degli esiti di studio, considerando le altre categorie concorrenti alla configurazione complessiva della patologia nel territorio studiato: suddivisione, frammentazione, riduzione e eliminazione. Le condizioni di frammentazione paesistica delle matrici rurali del territorio comunale (figura 9) fanno registrare un tasso complessivo pari al cinquantotto per cento della superficie territoriale, che risulta interessata dalle condizioni di criticità secondo livelli diversi. 105
Figure 5, 6, 7. Esempio di edificio perforante e di condizioni spaziali tipiche del fenomeno della perforazione (a sinistra dallâ&#x20AC;&#x2122;alto). Rappresentazione del terzo livello di disturbo paesaggistico (a destra) relativo ai fenomeni di perforazione della matrice rurale: interferenza paesaggistica degli edifici (raggio convenzionale stimato pari a ottanta metri lineari). In grigio sono esclusi dalle elaborazioni tematiche gli insediamenti urbani e quelli minori ad essi assimilati per complessitĂ del tessuto e per estensione del complesso.
Figura 8. Verifica del terzo livello di disturbo paesaggistico relativo ai fenomeni di perforazione della matrice rurale (interferenza paesaggistica degli edifici) attraverso una fascia inferiore, pari a sessanta metri lineari (a sinistra), e una superiore, pari a cento metri lineari (a destra). Le principali forme di alterazione/integritĂ risultano stabili rispetto al parametro intermedio di ottanta metri lineari (figura 7), per quanto concerne le aggregazioni delle aree di disturbo, come per le conseguenti continuitĂ paesaggistiche ad esse reciproche.
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Figura 9. Distribuzione delle diverse condizioni reali di frammentazione della matrice paesaggistica (a sinistra, dal giallo chiaro all’arancio intenso, perforazione, suddivisione, frammentazione, eliminazione). Distribuzione territoriale e aggregazione spaziale delle aree di integrità paesaggistica relativa alle condizioni di frammentazione (a destra).
Per il diciotto per cento del territorio comunale si rilevano esclusivamente condizioni di perforazione, per il tre per cento condizioni di suddivisione (comprensive delle eventuali compresenze di condizioni di perforazione), per il quindici per cento condizioni di frammentazione (comprensive delle eventuali compresenze di condizioni di perforazione e suddivisione), infine per ben il ventidue per cento condizioni di eliminazione delle matrici rurali, a seguito della sostituzione con quelle urbane. La distribuzione delle aree di integrità paesaggistica (figura 9) relativa alle condizioni di frammentazione può essere dedotta in prima approssimazione come reciproco delle condizioni complessive di criticità individuate. La connotazione empirica del set di indicatori completato da questo ultimo genere di informazione, affinabile e da sottoporre a ulteriori test applicativi, è strettamente funzionale alla progettazione dei piani territoriali. Ulteriori sviluppi diagnostici e altre tematiche potranno precisare le indicazioni di integrità, ma anche a questo livello esse risultano riferibili alla interpretazione progettuale del paesaggio nell’ambito della definizione delle politiche strutturali e di quelle strategiche per un corretto governo territoriale del delicato bilancio tra conservazione e trasformazione. La relativa semplicità di configurazione e applicazione degli indicatori di frammentazione, di cui questo contributo sviluppa una proposta per quanto concerne la perforazione, ne permette un potenziale uso agevole negli studi territoriali riguardanti la conservazione del paesaggio di pregio, come la riqualificazione di quello con criticità e degradi (piani regolatori comunali, piani territoriali provinciali di coordinamento, piani territoriali regionali, piani paesaggistici). L’osservazione della distribuzione delle aree di integrità paesaggistica relativa permette infatti di sgrossare la distinzione essenziale di due livelli di base di vulnerabilità del paesaggio, secondo un parametro tematico, la frammentazione, caratterizzato da un significativo grado di sintesi delle caratteristiche del paesaggio. Le aree extraurbane interessate da condizioni di interferenza paesaggistica di singoli edifici (perforazione), di
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singole infrastrutture (suddivisione), di aggregati insediativi e/o infrastrutturali (frammentazione), sono connotate da una vulnerabilità relativa maggiore rispetto a quelle in condizioni di integrità. La salvaguardia di queste ultime e anche l’orientamento dell’applicazione del regime speciale delle tutele possono trovare in tale distinzione di base un indirizzo da interpretare in termini e sedi progettuali in merito alle scelte territoriali da compiere e attuare. Tale indirizzo non può però essere disgiunto dalla natura tematica e pertanto parziale delle elaborazioni diagnostiche da cui ha esito, così che il processo di progettazione necessita, come è noto, anche di altri parametri per la distinzione delle condizioni relative di integrità e di vulnerabilità. Quanto trattato costituisce una proposta di sperimentazione e affinamento di uno strumento essenzialmente diagnostico, pre-progettuale. A fianco della indubbia utilità dello sviluppo di strumenti di studio del paesaggio sempre più finalizzati e efficaci, resta essenziale distinguere che alle loro indicazioni, proprio in quanto strumenti, non è utilmente e correttamente riferibile una concezione deterministica del progetto dei piani territoriali, in una sorta di semplicistica e affatto improbabile automazione delle scelte. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI BATTISTI CORRADO, Frammentazione ambientale, connettività, reti ecologiche. Un contributo teorico e metodologico con particolare riferimento alla fauna selvatica. Provincia di Roma, Assessorato alle politiche agricole, ambientali e Protezione civile, Roma 2004. BISOGNI LUCA, GARIBOLDI ARMANDO , MALCEVSCHI S ERGIO , Reti ecologiche ed interventi di miglioramento ambientale, Il Verde Editoriale, Milano, 1996. BOITANI LUIGI, La tutela e la valorizzazione della biodiversità terrestre in Italia: appunti per la Rete Ecologica Nazionale, atti del seminario nazionale Conservazione della natura e sviluppo locale: il sistema delle aree protette e la Rete Ecologica Nazionale, ECOLAVORO99, Legambiente, Ministero dell’Ambiente, Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali, Firenze 14 dicembre 1999. COOK EDWARD A., VAN LIER HUBERT N., (a cura di), Landscape planning and ecological networks, Elsevier, Amsterdam, 1994. DOLCETTA BRUNO (a cura di), Il paesaggio veneto, Giunta Regionale, Milano 1984. DRAMSTAD WENCHE E., OLSON JAMES D., FORMAN RICHARD T.T., Landscape Ecology Principles in Landscape Architecture and Land-Use Planning, Harvard University Graduate School of Design - Island Press - American Society of Landscape Architects, Washington, 1996. FORMAN RICHARD T.T., Land mosaics, the ecology of landscapes and regions, Cambridge, 1995. FUMIAN CARLO, VENTURA ANGELO ., (a cura di), Storia del Veneto, 2 voll., Roma, 2004. PAOLINELLI GABRIELE, La frammentazione del paesaggio periurbano, Firenze University Press, Firenze, 2003. PAOLINELLI GABRIELE, La frammentazione paesistica, in Rizzo G. G. (a cura di), Leggere i luoghi per Fondamenti di urbanistica, Aracne, Roma, 2004, pagg. 125-142. PAOLINELLI GABRIELE e altri, LOTO – Landscape Opportunities. Frammentazione paesistica: permanenze e interferenze nel territorio di Conegliano, Regione del Veneto, Venezia, 2005. ROMANO BERNARDINO , Continuità ambientale. Pianificare per il riassetto ecologico del territorio, Andromeda, Teramo, 2000. ROMANO BERNARDINO, e altri, Pianificazione e reti ecologiche PLANECO Planning in ecological network, Gangemi, Roma 2003. ROMANO BERNARDINO, Ambiente e piano?, Andromeda, Teramo, 2004. SCARPELLI LIDIA, Geografia dei sistemi agricoli italiani. Veneto, Università di Roma La Sapienza, CNR, coordinamento scientifico di Maria Gemma Grillotti Di Giacomo, Roma, 1996. SESTINI ALDO, Il paesaggio, Touring Club, Milano, 1963. 108
TURRI EUGENIO , La megalopoli padana, Venezia 2000. RIFERIMENTI ICONOGRAFICI Tutte le immagini sono tratte da GABRIELE PAOLINELLI e altri, LOTO – Landscape Opportunities. Frammentazione paesistica: permanenze e interferenze nel territorio di Conegliano, Regione del Veneto, Venezia, 2005 e dal dattiloscritto della relazione di consulenza alla Regione del Veneto denominato LOTO – A transnational cooperation project – Work package 4 Pilot action. Frammentazione paesistica: permanenze e interferenze nel territorio di Conegliano, Venezia, luglio 2005.
Testo acquisito dalla redazione della rivista nel mese di gennaio del 2005. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768 Università degli Studi di Firenze
Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/ Firenze University Press anno 3 – numero 4 – luglio - dicembre 2005 sezione: Itinerari pagg. 110 - 120
LA CORTE RURALE LUCCHESE. ALL’INDIVIDUALISMO POPOLARE
DALLA
SOLIDARIETÀ
CONTADINA
Augusto Boggiano*
Summary A short but rich and documented journey to the placet of the peasant tradition of Lucca’s plain, dedicated to the reading of typical forms of settlement, the rural coutryards. Historical model of residence in the agricultural territory, the rural courtyard in Lucca’s territory, is not only a well definited architectonic typology, but also a real container of social and human values cultivates in the rural traditional culture. Key-words Rural courtyards, Lucca’plain, local identity.
Abstract Un breve quanto ricco e documentato percorso nei luoghi della tradizione contadina della piana lucchese, dedicato alla lettura di tipiche forme di insediamento, le corti rurali. Modello storico di residenza del territorio agricolo, la corte rurale lucchese costituisce non solo una ben definita tipologia spaziale architettonica, ma anche un vero e proprio contenitore dei valori sociali e umani coltivati nella cultura contadina tradizionale. Parole chiave Corti rurali, piana lucchese, identità locale.
*Dipartimento di Urbanistica e Pianificazione del territorio, Università degli Studi di Firenze.
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A Michel de Montaigne, sceso in Italia nel 1580 in cerca di acque termali capaci di lenire i suoi dolori renali, la piana di Lucca si presentava come “una pianura di eccezionale bellezza. Fra i campi di grano hanno molti alberi ben allineati, cui sono sposate viti che li allacciano gli uni agli altri: più che campi sembrano giardini. Le montagne che si scorgono lungo questo tragitto sono tutte coperte d’alberi, principalmente olivi, castagni e gelsi per i loro bachi da seta.”1 Lucca stava completando la costruzione della sua terza e definitiva cerchia muraria, all’ avanguardia della tecnologia militare dell’epoca, mai penetrata da eserciti ma espugnata una sola volta, ironia della sorte, dal suo fiume che agli inizi dell’ottocento, minacciava di sommergere l’intera città se non si fossero chiusi in tempo i portoni di ingresso. Lucca, quindi è una splendida città contornata per sei miglia d’intorno (tanta era la giurisdizione territoriale della Repubblica) da una campagna che sembra un giardino ed i colli più vicini alla città “fittamente disseminati d’amene dimore”2.
Figura 1. Villa Santini, poi Torrigiani, a Camigliano (Lucca). 1 2
Giornale del viaggio di Michel de Montagne in Italia. Vol. II, Edit. Parenti, Firenze, 1959. Ibidem
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Ed era proprio in quella seconda parte del sedicesimo secolo che le ricche famiglie mercantili assorbivano la crisi economica dei loro commerci internazionali investendo le loro finanze nella mai abbandonata agricoltura. Nel Primo libro, capitolo ottavo, del suo Trattato d’agricoltura “nel quale si tratta dell’eletione del sito per edificare in Villa…..”3, Giovanni di Vincenzo Saminiati fornisce i seguenti consigli: “il sito per edificar il palazzo jn villa per uzo del patrone si dev’eleggere non nella più grassa, ma nella più degna parte della villa; et dove risede la maggior perfezione dell’Aere, vento, sole e veduta, jn luogo eminente tra’ l’ Monte et il piano, jn sito però piano, spazioso et aperto, et atto a ricevere li debiti Compartimenti de’ cortili, giardini et orti, murati o chiusi di belle siepi,con lungo e largo stradone che riscontri per le porte principali d’esso palazzo, et altri che attraversino et incrocino quello. Et sia il luogo atto per condurvi vive fonti, con tal caduta che possino farsi elevare in alto………sia la regione in Aere saluberrimo, puro,lucido e leggiero, no grave o molesto, né dove spesso si ragunino grosse nebbie et puzzolenti vapori.” Val la pena, per esaltare il contrasto con i saggi orientamenti del Saminiati ed evidenziare le reali condizioni di vita delle popolazioni dell’epoca, citare una Ordinanza degli ufficiali della Sanità di Firenze del 4 maggio 16224, quasi contemporanea al Trattato del Saminiati, che dà chiaramente il quadro sociosanitario del momento: “avendo molte volte l’esperienza dimostrato che le contagioni et i mali sono per lo più stati cagionati perché gl’homini nelle case loro o nelle Città, Terre e Castelli ne’ quali abitano stanno sporchi e con quantità d’immondizie tali che ben spesso suole loro nuocere onde ne’ luoghi ben ordinati sono statuti et ordini quali proibiscono che nelle strade, piazze et altri luoghi non si tenghino immondezze dalle quali suole esalare puzzo e fetore tanto nocivo al conservarsi sano; per il che invigilando…………... volendo provedere…………… intendendo noi massime……….. vi commettiamo che subito per parte nostra e per publico bando comandiate in tutti i luoghi di vostra giurisdizione civile a ciascheduno che levi e faccia levar via davanti alle case loro tutte le immondezze e sporcizie che vi si trovino sì come ancora letame et altro che possa e soglia cagionar puzzo e fetore e quelle che sono per le piazze et altri luoghi publici si faccino levar via dalli rappresentanti le Comunità……………” 5. Erano queste le condizioni di vita del momento, pervase da epidemie, da miasmi malarici e da cerusici che improvvisavano cure con cataplasmi e pozioni ben poco appropriate alle malattie. Malattie che del resto si propagavano velocemente e mietevano vittime forse anche per la impreparazione della medicina a curarle, tanto che il Dottor Durazzini ebbe a considerare nella sua relazione su Figline, nel 1622, che “ più ne muore di quelli che hanno il modo di governarsi che de’ poveri” 6. E di situazioni ben poco salubri era costituita la piana di Lucca disegnata nel secondo quarto dell’Ottocento dallo Zuccagni Orlandini7, che mette chiaramente in evidenza il fitto reticolo delle acque che scendono dalle Pizzorne e si vanno ad impaludare nel lago di Sesto. Ben evidenziate sono anche quelle portate dal Serchio, che continua a travasare parte del suo carico idrico nella piana anche dopo il suo spostamento artificiale alla sinistra della cinta muraria. 3
G.V. Saminiati, Trattato d’ Agricoltura, 1580-1590, in Inventario dell’Archivio di Stato di Lucca, IV, a cura di S. Bongi, Lucca 1888, p. 307. Riprodotto da Isa Belli Barsali in La Villa a Lucca dal XV al XIX Secolo, Ed. De Luca, Roma 1964. 4 Anche se la Repubblica di Lucca non ricadeva sotto la giurisdizione degli Ufficiali della Sanità di Firenze è legittimo pensare che le condizioni igieniche dei due territori non fossero molto dissimili. 5 in CARLO M. CIPOLLA, Miasmi ed umori, Edizioni Il mulino, Bologna 1989. 6 In Miasmi ed umori, op.cit. 7 A. ZUCCAGNI ORLANDINI, Atlante geografico, fisico e storico della Toscana, Firenze 1828-32.
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Figura 2. La piana di Lucca disegnata nel secondo quarto dell’Ottocento dallo Zuccagni Orlandini.
Le condizioni geomorfologiche della piana risultano ancor più evidenti nel rilevamento militare effettuato e tradotto in cartografia nella mappa del 1853 ad opera dell’Istituto Geografico Militare ed è fuor di dubbio che sono queste difficili ed improbe condizioni a produrre un processo di colonizzazione che vedeva nelle popolazioni più povere e diseredate gli operatori deputati. Nell’ambito della giurisdizione lucchese delle sei miglia, ritagliata sul reticolo della centuriazione romana, “i paesi a sud di Marlia, compresi tra i canali Azzeri e Rogio, acquistarono rilevanti potenzialità agricole solo quando riuscirono a bonificare le improduttive terre palustri. E ciò in parte si ottenne con i frequenti allivellamenti di porzioni
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di terra talora incolte che ricchi possidenti cittadini, la chiesa e l’ospedale lucchese di San Luca fecero alla gente del luogo.”8
Figura 3. La mappa del 1853 della piana di Lucca.
Prende le mosse da qui la grande diffusione del frazionamento fondiario in appezzamenti di terreno di modeste entità che, secondo regole ereditarie antiche, porta alla odierna frantumazione delle proprietà frequentemente ridotte a dimensioni di due-trecento metri quadrati. Ma se questo frazionamento della proprietà oggi risulta un indiscutibile limite alle possibilità di gestione produttiva di questi territori, così non era allora quando “la possibilità consentita ai singoli contadini di poter diventare proprietari di una terra con il solo gravame di un livello o di poter contare sull’intero suo fruttato pagando un affitto in natura dopo il raccolto, evitò almeno nel piano,l’affermarsi della mezzadria”9 e permise invece il formarsi di piccole comunità insediate in organismi edilizi in gran parte autosufficienti, quali le corti, dove la proprietà della casa si univa spesso a quella della terra circostante, e dove la solidarietà contadina si concretizzava nell’uso comune di porzioni di proprietà privata messa a disposizione dell’uso collettivo sia nei momenti di lavoro che nei momenti ludici, che nei momenti topici della vita contadina. Non vorrei che questa apparisse come una mia personale mitizzazione della solidarietà comunitaria dell’epoca e, pertanto, vorrei far notare che negli statuti delle comunità contadine della campagna fiorentina “una rubrica prescriveva la partecipazione ai funerali di ogni abitante dei popoli di Torri di almeno un rappresentante per ogni casa, ponendo addirittura una pena di 15 soldi per l’assenza non giustificata del capofamiglia al funerale di uno dello stesso popolo e di 10 soldi per il funerale di una persona di popolo diverso.”10 8
G. LERA, Capannoni,vicende di una civiltà contadina, PromoLucca editrice, 1996. G. LERA, Ibidem. 10 M. BICCHIERAI, Statuto et ordinato è…,Centrilibro, Firenze, 1995.
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Il fenomeno delle corti organizzate sulle maglie degli antichi tracciati della centuriazione romana si è configurato come modello di residenza rurale di forma aperta, corredato da moduli edilizi in funzione delle attività agricole, che ha avuto la massima diffusione ed ha costituito il modello di gran lunga più importante ed originale della cultura insediativa lucchese. Questo modello di residenza rurale è stato alla base anche della formazione e del consolidamento delle varie identità locali della piana in quanto dai fenomeni di sviluppo e di aggregazione dell'insediamento della corte sono nati nella piana nuclei e centri abitati di una certa consistenza intorno alle chiese parrocchiali, la cui giurisdizione spirituale ha improntato la formazione delle frazioni amministrative in tutto il territorio, con la creazione di "popoli" ben distinti tra loro, poi adunatisi in realtà municipali diverse. E la fitta rete di relazioni tra le corti, i popoli ed i campi coltivati ha determinato un'altrettanta fitta rete di strade, stradine, tratturi, sentieri e redole che, aggirando i confini delle colture, innervavano capillarmente il territorio, penetrandolo con una trama dal disegno singolare che tuttora caratterizza certa parte della piana, anche se su larga parte di essa più recentemente si sono sovrapposte le direttrici viarie del traffico pesante carrabile, che difficilmente riesce a convivere con la sua dimensione storica e fisica. Alla diffusa residenza contadina di pianura ed ai suoi "popoli" identificati nelle Pievi e nelle chiese, si contrappongono i nuclei ed i centri arroccati sulle propaggini collinari delle Pizzorne e dei Monti Pisani: luoghi serrati e protetti, ma fortemente integrati con la pianura in una economia caratterizzata dalla complementarità delle diverse colture agricole e delle diverse produzioni artigianali, ed anche sostanzialmente unificati da una comunione di miti, di riti, di spostamenti e di migrazioni, che ancora oggi richiede di essere profondamente sviscerata e conosciuta. L'immenso giardino descritto da Montaigne alla fine del cinquecento era tale in virtù ed in funzione proprio del sistema complesso degli insediamenti in Villa ed in Corte che oggi rimangono episodi isolati e sporadici all'interno di un territorio profondamente destrutturato e continuamente sottoposto ad interventi che sembrano voler ignorare l'importanza e la valenza anche economica oltreché culturale di questa risorsa. Con un po’ di sano manicheismo potremmo descrivere l’insediamento umano nel territorio di Lucca diviso in due ben distinte realtà strettamente correlate tra loro: l’insediamento dei ricchi sulle pendici collinari, amene e ubertose con la strutturazione classica della campagna toscana articolata secondo la sequenza piramidale di Villa, fattoria/e e case coloniche mezzadrili, e l’insediamento dei poveri acchiocciati intorno alle Pievi o aggregati nelle corti della piana malarica e miasmatica. Entrambi gli insediamenti fanno capo alla città fortificata, alla quale trasferiscono le loro produzioni (di bachi da seta, di legname, di olio, di vino,eccetera) perché vengano trasformate con duro lavoro dagli artigiani e commercializzate con furbizia dai mercanti. LA CORTE LUCCHESE: UN MODELLO INSEDIATIVO SINGOLARE11 Il termine corte porta con se una immagine edilizia molto definita nella cortina muraria continua e chiusa che rinserra uno spazio interno, più o meno comunicante con l’esterno attraverso fornici o androni, ma decisamente conchiuso. Nel caso in questione ci troviamo in presenza di una struttura edilizia anomala, mai chiusa sui quattro lati e quasi mai chiusa su tre. Si tratta sostanzialmente di una semplice contrapposizione di due corpi di fabbrica lineari, distanziati da uno spazio intermedio di 11
Una ampia documentazione sulla corte lucchese è contenuta negli Atti del Convegno di Studi tenuto a Lucca nei giorni 18 e19 giugno 2004, ed organizzato dalla Sezione di Lucca di Italia Nostra. La pubblicazione, curata da R. Mannocci ed edita nel maggio 2005 dalla tipografia Tommasi di Lucca, contiene anche una ampia bibliografia sulle corti ed il paesaggio della piana lucchese.
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larghezza contenuta tra i venticinque ed i trenta metri lineari. Da una parte sono collocate le residenze affiancate a mo’ di casa a schiera di due o tre piani, mentre nella parte contrapposta sono collocati tutti gli annessi rustici (fienili, essiccatoi, carraie, stalle, eccetera) caratterizzati da un tipo singolare di paramento esterno chiamato mandolata e costituito da mattoni in cotto sovrapposti in vari modi ma sempre distanziati tra di loro in modo da garantire una perfetta aerazione dei locali.
Figura 4. Mandolate.
Le mandolate sono l’unico elemento architettonico rimasto ancora direttamente percepibile di tutto ciò che è stata la civiltà delle corti rurali lucchesi. Su questo aspetto formale esteriore si è esercitata una certa attenzione e tutela da parte delle Amministrazioni Pubbliche, tesa ad evitare che venissero completamente travolte dalle ondate edificatorie degli anni Settanta e Ottanta. Così oggi spesso troviamo dietro alle arabescate cortine di mattoni, tecnologiche paratie di vetri termici che riparano ampi soggiorni residenziali. Molto poco si è fatto, e forse poco si poteva fare, per evitare che la struttura nel suo complesso andasse a completo deperimento. Sicuramente le normative di P.R.G. dei Comuni di Lucca e di Capannoni degli anni Sessanta e Settanta non hanno facilitato la loro tutela 12, ma è ovvio che strutture come queste richiedono una maturità economica, sociale e culturale che non si poteva certo pretendere in momenti della nostra storia recente in cui i problemi urbanistici erano di ben altra dimensione.
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Il P.R.G. di Lucca del 1958 consentiva l’edificazione residenziale nel raggio di cinquanta metri dall’insediamento a corte con parametri urbanistici e indici di fabbricabilità di carattere urbano.
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La Corte Pellegrini, una delle tante insediate nella piana lucchese, è stata rilevata da miei studenti alla fine degli anni Settanta e mette in evidenza gli elementi costitutivi e ricorrenti di questo modello insediativi.
Figura 5. La Corte Pellegrini in un rilievo degli anni Settanta del Novecento.
Da un confronto delle due levate catastali del 1836 e del 1950, è possibile rilevare la lenta progressione di implementazione dell’edificato legato alle esigenze della comunità, e, nello stesso tempo, il permanere della struttura di base come regola ordinatrice caratterizzata da alcuni elementi di “saggezza” nelle scelte localizzative e nella predominante “utilità” per la comunità: aspetti che è opportuno evidenziare per comprendere la singolarità dell’impianto.
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Figura 6. La levate catastali del 1836 (sopra) e quella del 1950 (sotto).
1. La corte si impianta sempre sui tracciati viari di attraversamento della piana13 in senso estovest, mantenendo un costante riferimento al reticolo della centuriazione romana ed incorporando il percorso od affiancandolo. In questo modo la corte evitava di configurarsi come nucleo socialmente chiuso ma diveniva luogo di transito, di relazioni, di ospitalitĂ , 13
Si consideri che è ormai ampiamente accertato che la Via Francigena proveniente dal nord si dipartiva da Lucca con una pluralità di tracciati la cui scelta era dipendente dalle condizioni metereologiche e fisiche dei territori della piana che dovevano essere attraversati e che potevano dimostrarsi difficilmente agibili per la diffusa presenza di terreni palustri.
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mantenendosi aperta sia nel transito est-ovest, sia in quello perpendicolare di attraversamento della pianura dalle colline nord alle colline del monte Pisano. 2. Nel posizionarsi lungo gli assi orizzontali della centuriazione romana, la cortina edilizia si disponeva con le facciate lunghe esposte a sud ed a nord lasciando ad est e ad ovest i lati corti dei corpi di fabbrica. Tale disposizione consentiva un ottimo riparo dai venti troppo freddi del nord e da quelli troppo caldi e umidi da sud, mentre garantiva una perfetta ventilazione degli spazi interni della corte dove si svolgevano le maggiori attività della comunità agricola: la battitura del grano, l’essiccazione del mais, la raccolta della olive, eccetera;
Figura 7. L’essiccazione del mais.
3. La distanza di venticinque-trenta metri tra corpi di fabbrica non più alti di otto, nove metri consentiva un ottimo soleggiamento della corte pavimentata normalmente in lastre di pietra proprio per garantire la salubrità di questo spazio indispensabile all’intera comunità. Ma la grande singolarità dell’impianto risiede non tanto nelle condizioni fisico-ambientali della corte, quanto piuttosto nella gestione comunitaria di questo spazio. Nella planimetria della corte è ben visibile la scomposizione della stessa in strette e lunghe strisce corrispondenti alle singole proprietà che si estendevano dall’abitazione agli annessi rustici, ed all’esterno sui campi coltivati a costituire quella varietà di impianti agricoli che dava come risultato un paesaggio di diffuso giardino. Non esistevano in realtà confini fisici apprezzabili che parcellizzassero questo spazio definito dai volumi edilizi: la corte era un unico spazio a disposizione di tutti sulla quale tutti gli abitanti condividevano gli eventi significativi della dura vita contadina. E’ proprio questa condivisione comunitaria che nel tempo è andata svanendo per trasformarsi gradatamente in separatezza individuale. Laddove non è stata rimossa la
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pavimentazione originaria (e pochi sono i casi in cui ciò non è avvenuto) su di essa sono stati innalzati muretti di delimitazione o reticolati, in altri casi, laddove è rimasta di uso comune, si è trasformata in parcheggio condominiale con tanto di sacrosanta asfaltatura. Ormai solo le mandolate, e non sempre, rimangono a testimoniare una stagione in cui la solidarietà contadina riusciva ad attenuare la pesantezza di una esistenza dura e faticosa ed a tradurre quell’infinito lavoro in una immagine edenica di splendido giardino. Ma forse è giusto che sia così: in un mondo in cui la bellezza serve a mistificare la realtà ben venga una realtà che sa dire la verità.
Figura 8. Quello che resta della Corte Pellegrini.
RIFERIMENTI ICONOGRAFICI Figura 1. Rielaborazione da ISA BELLI BARSALI, La villa a Lucca dal XV al XIX secolo Figura 2. Rielaborazione da A. ZUCCAGNI ORLANDINI, Atlante geografico, fisico e storico della Toscana, Firenze 1828-32. Figura 3. Archivio Storico IGM, tratta da “Aion” n° 1, 2002. Figure 4 e 7. Fotografie di Andrea Perelli. Figura 6. Rielaborazioni tratte dal Piano Strutturale del Comune di Capannoni. Figura 8. Fotografia di Augusto Boggiano.
Testo acquisito dalla redazione della rivista nel mese di dicembre del 2005. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768 Università degli Studi di Firenze
Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/ Firenze University Press anno 3 – numero 4 – luglio - dicembre 2005 sezione: Itinerari pagg. 121 - 132
IL TERRITORIO COME UN PRESEPIO: IL PAESAGGIO AGRARIO NEI VOYAGES DE NAPLES TRA S ETTE E OTTOCENTO Ilaria Agostini*
Summary The voyage de Naples made a name for itself in the second half of the eighteenth century: tourists are attracted by the new archeological discoveries and the richness of its natural resources. The accounts of the journey and guides focus their attention on these themes and dedicate several pages to natural and historical monuments. The background is the rural landscape, constantly present, but never playing a leading role. The landscape of the countryside of Aversa is an exception: where the method of training vines onto poplars by mean of tall shoots takes on such proportions that the guidebooks cannot fail to mention them. The french odeporic literature deals with rural landscape in a multi-faceted manner. It is possible, however, to find a common stance in the appreciation of those landscapes which present strong geophysical features, well-cultivated countryside, great monumental value and the intense liveliness of the local population: territories where these elements appear to have been artistically arranged. Keywords Journey to Italy, Rural Landscape, Historical Landscape, Naples, Coltura promiscua.
Abstract È nella seconda metà del Settecento che si afferma il voyage de Naples: i viaggiatori sono attratti dalle recenti scoperte archeologiche e dalle ricchezze naturali. I resoconti di viaggio e le guide focalizzano l’attenzione su questi temi, dedicando molte pagine ai monumenti, sia naturali che architettonici. Il paesaggio agrario ne costituisce lo sfondo, sempre presente ma raramente protagonista della scena. Un caso di eccezione è quello dell’agro aversano dove la coltivazione della vite, maritata al pioppo e tenuta a tralcio lungo, assume dimensioni paesaggistiche tali che anche le guide non si dispensano dal segnalarla. Il paesaggio agrario è trattato dalla letteratura odeporica francese sotto molteplici sfaccettature. È possibile però trovare una nota comune nell’apprezzamento di quadri paesistici che presentano una forte connotazione geofisica, una campagna ben coltivata, un alto valore monumentale e gran vivacità di genti: territori in cui queste componenti appaiono disposte ad arte. Parole chiave Viaggio in Italia, Paesaggio agrario, Paesaggio storico, Napoli, Coltura promiscua.
* Dottore di ricerca in Storia e critica dell’Architettura. Docente a contratto di Geografia presso la Facoltà di Architettura, Università degli Studi di Firenze.
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LA SCOPERTA DEL SUD
La Campania felix, o Campanie heureuse, si mostra ferace ai viaggiatori francesi che nel XVIII secolo cominciano a calcare le strade del regno di Napoli in cerca di novità archeologiche e di natura esuberante, che in questi luoghi appaiono sapientemente combinate. Il voyage de Naples si afferma, a volte come appendice al soggiorno romano, intorno alla metà del secolo, quando le città antiche di Ercolano prima, e Pompei in seconda battuta, cominciano ad offrire le prime colte tentazioni. La letteratura odeporica registra poi nel 1750, data del viaggio di Soufflot, architetto del Panthéon parigino, il primo viaggio francese alle rovine di Pæstum, la testimonianza della civiltà greca geograficamente più prossima all’Europa media1. Sebbene la densa presenza di testimonianze monumentali abbia costituito un’importante attrattiva per i turisti francesi, è da sottolineare che un ciclo parossistico, che conobbe il suo acme negli anni ’70 del Settecento, rese il Vesuvio una delle maggiori attrazioni per i naturalisti dell’epoca, cui non rimasero indifferenti gli artisti e gli antiquaires. Il viaggio si compie in carrozza, il più delle volte con la vettura pubblica, il procaccio 2. Se il viaggio ha luogo in estate il terrore della mal’aria spinge le vetture a coprire le distanze con tappe notturne; i viaggiatori protetti da tende di cuoio non vedono e non annotano: il percorso tra Roma e Fondi – la prima città del regno partenopeo che si incontra lungo l’Appia – è trattato in poche righe. Dopo Fondi le strade sono migliori3, il paesaggio cambia: da Gaeta ci si trova a tutti gli effetti nel sud. «Lasciando Fondi – scrive Chateaubriand nel 1804 – ho salutato il primo aranceto: questi begli alberi erano carichi di frutti maturi, così come potrebbero esserlo i meli più fecondi della Normandia»4. La fertilità dei suoli stupisce: in una guida si legge che la strada per Napoli «è un giardino continuo; l’aria vi è così dolce e le campagne così piene di tutti i tipi di verdure, in tutte le stagioni; è come un paradiso terrestre»5. Il jardin continuel sembra però mettere in evidenza la rada vegetazione dei monti calcarei che si affacciano sulla pianura, in un contrasto di forme e colori che rende poco credibile la fama dei vini che, cantati dai poeti romani, si ottenevano dalle vigne di queste ormai brulle pendici. «Falerno e Massico, che si lasciano a sinistra, dalla parte di Minturno – scrive De Brosses nel 1739 –, non sono più che cime di roccia assolutamente nude e calcinate. Per mancanza di coltura e per non aver avuto cura di riportar in alto la terra via via che le piogge la trascinavano via da queste coste ripide, le vigne sono state da tempo interamente distrutte»6. Le traduzioni, ove non altrimenti specificato, sono dell’autrice. 1 Soufflot accompagna, insieme a Cochin e all’Abbé Le Blanc, il giovane de la Vandière, fratello di Madame Pompadour e futuro Marquis de Marigny, nel viaggio di formazione in Italia. Frutto della visita a Pæstum è la Suitte Des Plans, Coupes, Profils, Elévations géometrales et perspectives de trois Temples antiques, tels qu’ils existoient en mil sept cent cinquante, dans la Bourgade de Pesto… Ils ont été mésurés et dessinés par J. G. Soufflot, Architecte du Roy. &c. en 1750. Et mis au jour par les soins de G. M. Dumont, en 1764, Chez Dumont, Paris, 1764. 2 L’itinerario da Roma a Napoli si trova rappresentato nella quinta tavola di [JEAN-DOMINIQUE CASSINI], Manuel de l’étranger qui voyage en Italie, Contenant les détails de la position des lieux, de leurs distances, des routes de communication, du nombre & du prix des postes, des curiosités qui se trouvent dans chaque Ville, comme les tableaux les plus célebres, les plus beaux morceaux de sculpture, les antiquités, les cabinets, bibliotheques, &c., avec des cartes particulieres des principales routes, Duchesne, Paris, 1778. 3 Le migliori condizioni della strada dopo Fondi sono segnalate dalle guide: «La strada da Terracina a Napoli è una delle più belle d’Europa, fu costruita sulla via Appia (che serve da fondazione) per ricevere la presente Regina di Napoli», [LOUIS DUTENS], Itinéraire des routes les plus fréquentées, ou Journal de plusieurs voyages aux villes principales de l’Europe, Chez Thomas Masi, Livourne, 1789, pag. 22 (la prima edizione è edita a Parigi nel 1783). 4 FRANÇOIS-RENE DE CHATEAUBRIAND, Voyage en Italie, in ID., Oeuvres, III (Itinéraire de Paris à Jérusalem, Voyage en Italie, etc.), Lefèvre et Ledentu, Paris, 1838, pag. 524. 5 Le Guide d’Italie. Pour faire agréablement le Voyage de Rome, Naples & autres lieux; tant par la Poste que par les Voitures publiques, Berton et Gauguery, Paris, 1775, pag. 123. Il termine francese jardin, nel duplice significato di giardino ed orto, costringe il traduttore ad una scelta inevitabilmente riduttiva. 6 CHARLES DE BROSSES, Viaggio in Italia, Laterza, Roma-Bari, 1973, pag. 241.
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Fig. 1. Le Routes des Postes d’Italie, in una carta francese del primo Settecento (particolare). Fig. 2. La regione partenopea rilevata dal geografo Giovanni Anonio Rizzi Zannoni.
L’AGRO AVERSANO Si attraversa il Volturno a Capua, dove i viaggiatori non mancano di osservare la grande quantità di cippi e di fregi romani riutilizzati nei muri delle case della città nuova; la città antica, Capua Vetere, con i suoi importanti resti architettonici, si trova a poche miglia ed è tappa obbligata. Proseguendo sulla via Appia e approssimandosi alla città di Aversa, si apre agli occhi dei francesi uno strano, importante per dimensioni, paesaggio agrario: la coltivazione promiscua tra cereali, viti e alberi - che doveva pur essere a quei tempi ben più frequente, lungo la penisola, che ai giorni nostri! - assumeva nella campagna pianeggiante che copre la distanza tra Capua e Napoli un tale valore estetico che anche le guide dell’epoca si trovano nella necessità di preparare il viaggiatore ad un simile, nuovo paesaggio. La guida di Lalande, collaboratore di Diderot e d’Alembert nell’opera che da sola dà la cifra del secolo, descrive l’agro aversano sottolineandone il valore di reperto di paesaggio storico: «Le viti che si trovano in abbondanza nei dintorni di Napoli si maritano ai pioppi, così come Virgilio e Omero dicono essere state ai loro tempi. Ergo aut adultâ vitium propagine / Alta maritat Populos. Hor. Epod. II. Nel resto d’Italia invece sono gli olmi, o altri alberi, ad essere utilizzati; tutto ciò rende le campagne molto fresche e molto ridenti; non se ne può vedere di più piacevoli di quella che si attraversa arrivando da Roma a Napoli per Capua; la strada è costeggiata da campagne coperte da alti pioppi; questi alberi sono uniti da vigne che vanno serrate dall’uno all’altro, in forma di ghirlande. Ci sono tre o quattro ceppi di vite a ciascun pioppo e da dieci a dodici passi di distanza da un albero all’altro»7. L’enciclopedico Lalande, la cui guida diventa uno strumento indispensabile nel voyage di fine Settecento, descrive la maniera di educare la vite in uso nella pianura a sud dei Regi Lagni, coltura che presenta, proporzionalmente all’avvicinarsi alla città partenopea, un incremento di densità. La vite governata a tralcio lungo è tradizionalmente maritata al pioppo, in festoni tesi tra una pianta e l’altra. I festoni, in cui i tralci sono sistemati a rete – a rezz’ ‘e pecore8 –, possono raggiungere gli otto/dieci metri di altezza; nel rigoglio estivo costituiscono un vero e proprio sistema di quinte verdi dal comportamento tessile, al di sopra 7 JOSEPH -JEROME DE LALANDE, Voyage en Italie, Contenant l’Histoire & les Anecdotes les plus singulieres de l’Italie, & sa description; les Usages, le Gouvernement, le Commerce, la Littérature, les Arts, l’Histoire Naturelle, & les Antiquités; avec des jugemens sur les Ouvrages de Peinture, Sculpture & Architecture, & les Plans de toutes les grandes villes d’Italie. Seconde Edition corrigée & augmentée, Chez la Veuve Desaint, Paris, 1786, VII, pag. 296. 8 Da una conversazione con alcuni agricoltori dell’area di Fertilia, a ovest di Capua.
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delle quali sono rade le cacciate dei pioppi, potati senza scrupolo nei mesi invernali per rifornire di combustibile la grande città. Il seminativo arborato, localmente detto arbustato, gode della fertilità dei terreni di origine piroclastica della pianura napoletana e ospita, suscitando la meraviglia dei viaggiatori, una rotazione continua di cereali ed ortaggi. Ancora Lalande parla di tre semine annuali («Altri seminano tre volte all’anno, e in successione, i differenti grani»9) ed elenca le colture: grano, trifoglio, panico, lupini e rape, dandoci così un indizio dell’uso del sovescio e della semina di foraggi.
Figura 3. Viti maritate a pioppi nell’agro aversano, in veste invernale. Le viti, mantenute a tralcio lungo, possono raggiungere i dieci metri di altezza. Figura 4. I tralci, disposti a formare una rete, sono legati col salice ai fili di ferro tirati in orizzontale da un tronco all’altro.
Il giudizio estetico dei viaggiatori francesi non è omogeneo: apprezzata univocamente l’unicità del paesaggio, i diari divergono in merito alla sua bellezza. Questo il giudizio di Roland de la Platière, ispettore delle manifatture di Lione, che arriva a percepire il paesaggio agrario come una foresta, in cui si trovano radure, maisons de plaisance e città, collegate da viali magnifici (il ricordo delle allées delle foreste francesi è inevitabile). È una foresta in cui lo sguardo è costretto, ma allorquando ci si alza dal livello della distesa verde il paesaggio si apre generoso allo sguardo del viaggiatore. «Tutte le campagne dei dintorni, fino a Napoli sono coperte di vigne sostenute da alberi, pioppi o aceri, piantati in linea retta a formare dei larghi viali. Si tirano i tralci nella direzione degli alberi; e al momento in cui riescono a toccarsi reciprocamente, si legano insieme: in questo modo, quando la foglia cresce e i grappoli crescono sui tralci allungati orizzontalmente, il peso dà loro una curvatura a festoni, che produce un effetto affascinante. Figuratevi tutta una campagna così ornata di ghirlande, di verdura e di frutti che prendono colore e le terre al disotto ben coltivate a grano, tuberi, ortaggi o prati artificiali e avrete un’idea di questo eccellente e bel paese. È, fino a Napoli, un orto continuo, con paesi e case di campagna in gran numero e viali superbi. In pianura il colpo d’occhio è limitato; ci si trova come in una foresta; ma la minima altura dispiega con pompa e magnificenza tutte queste ricchezze della natura»10. Diversa è l’opinione di Pierre Adrien Pâris, architetto, che ha occasione di visitare più volte il regno di Napoli. Nel journal del 1774, sostanzialmente contemporaneo a quello di Roland de la Platière, si legge che la pianura «è bella e ben coltivata» 11; in un viaggio successivo, la cui testimonianza odeporica si limita ad una lettera, Pâris si attarda sul paesaggio aversano dandone un commento da cui traspare un senso di spiacevolezza dato dall’angustia del coup 9
LALANDE, op. cit., VII, pag. 291. [JEAN-MARIE ROLAND DE LA PLATIERE], Lettres écrites de Suisse, d’Italie, de Sicile et de Malthe, Par M.***, Avocat en Parlement, de plusieurs Académies de France, & des Arcades de Rome, Qui mores hominum multorum vidit, & Urbes, A Mlle . ** à Paris En 1776, 1777 & 1778, Amsterdam, 1780, IV, pagg. 226-227. 11 Il diario, manoscritto, è conservato alla Bibliothèque Municipale de Besançon (Fonds Pâris, Route de Rome a Naples, ms. 12, f. 98r). 10
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d’œil, unito al disincanto nei confronti di una campagna tanto produttiva, ma priva dei reperti archeologici così cari all’autore. «L’effetto di queste campagne è più bello nella descrizione che nella realtà. Il primo colpo d’occhio incanta, ma ben presto la noia sopraggiunge, poiché queste alberate monotone chiudono la vista e non lasciano scoprire nulla di una regione d’altra parte così interessante»12. Il giudizio, espresso nel 1807, si può avvicinare all’assenza di pittoresco lamentata da Chateaubriand negli stessi anni, «la regione è fertile, ma poco pittoresca». La campagna ben coltivata è solo una delle componenti necessarie per il beau pays. Le guide settecentesche, generalmente attente agli ingressi di città, segnalano l’apparato vegetale della via Appia che conduce a Napoli13: inserito nella stessa logica agraria, presenta un duplice, consueto, alto filare di viti maritate ai pioppi, i cui festoni inducono il marchese de Sade, presente a Napoli nel 1776, a pensare ad una strada parata a festa. «Una strada superba, fiancheggiata su entrambi i lati da grandi pioppi e ornata di pampini. Insomma, tutto dà l’impressione di una festa» 14.
PAGINE NAPOLETANE L’ingresso a Napoli, per chi giunga da Roma, non è maestoso: l’Appia, ormai affiancata da una sequenza ininterrotta di case, si inoltra in città con un percorso scavato nel tufo del poggio di Capodichino. «L’entrata in città – scrive Dominique-Vivant Denon, “inventore” del napoleonico museo del Louvre – è più pittoresca che imponente. La grande strada, tagliata in una montagna di tufo ha l’aria di un burrone attraverso il quale si scopre una piccola parte della città, in cui gli edifici si coprono l’un l’altro su un piano inclinato. Più si avanza, più il teatro si allarga»15. Si noti come, ancora una volta, la categoria estetica cui si riferisce il viaggiatore sia quella del pittoresco: è pittoresco il burrone, la natura in contrasto con l’opera umana, che in questo caso è un’opera collettiva, la città, qui vista come un ammasso scomposto di architetture adattantisi ai dislivelli che si lascia scoprire un poco alla volta e stupisce lo spettatore come in una scena teatrale. Ancora dal diario di Denon, traiamo una acuta osservazione intorno al rapporto tra costruito e natura che nella città partenopea sembra essere, nel XVIII secolo, profondamente intrecciato e ricco di rimandi. A Napoli ci sono «grandi case coperte a terrazza, un terreno montuoso e tormentato – che dà giardini pensili, corona gli edifici, porta la campagna in città e porta la città nella campagna – dei punti di vista vari e superbi di mare, pianura e montagne, infine aspetti alternativamente abbondanti, ridenti e terribili, con un cielo sempre puro e un clima felice [che] fanno di Napoli una delle più belle e deliziose città del mondo»16. La città, si sa, offre visuali magnifiche e la letteratura è ridondante di descrizioni dei panorami napoletani. Riportiamo un passo dal diario di Roland de la Platière in cui l’autore opera una brillante sintesi della situazione geografica napoletana risolvendola in forma di diorama. Lo sguardo, dalla Certosa, si svolge a tutto tondo sulla regione: «Dalla terrazza del giardino si ha il colpo d’occhio più bello, forse, dell’universo. Tutta la città si mostra fino a poter osservare la forma e la dimensione degli edifici, seguire la direzione delle strade e 12
BMB, Fonds Pâris, ms. 1, f. 5r. Il brano è tratto dalla minuta. La lettera, indirizzata a Madame FoacheGrégoire, è conservata a Parigi (Archives Nationales, Papiers Bégouen-Demeaux, 442 AP, liasse 1, III, 4). 13 LALANDE, op. cit., VI, pag. 499. 14 DONATIEN-ALPHONSE-FRANÇOIS DE SADE, Viaggio in Italia, a cura di Maurice Lever, Bollati Boringhieri, Torino, 1996, pag. 201. 15 HENRY SWINBURNE, Voyage dans les deux Siciles, en 1777, 1778, 1779 et 1780, traduit de l’Anglois par un Voyageur François, Paris, 1785-1787, pag. 151. Il journal di Dominique-Vivant Denon viene scritto tra il 1777 e il 1778 nell’ambito della lunga vicenda editoriale del Voyage pittoresque ou Description des Royaumes de Naples et de Sicile (1781-86), promossa dall’Abbé de Saint-Non. Il diario fu rielaborato e riadattato da questi, fino a creare un noto caso di conflitto in merito alla proprietà intellettuale dell’opera letteraria; la versione originaria sarà in seguito pubblicata, in nota, da Laborde, ex socio del Saint-Non, nella traduzione del viaggio di Swinburne. 16 DOMINIQUE -VIVANT DENON, Voyage au Royaume de Naples, a cura di Mathieu Couty, prefazione di Pierre Rosenberg, Perrin, s.l., 1997, pag. 59.
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quasi circoscrivere le piazze. Si sente il rumore che vi viene fatto. Si vede il porto, l’intero bacino; il golfo, le rive, Posillipo, il Vesuvio, la piana fino a Caserta, a quindici sedici miglia, e tutta la catena degli Appennini che circondano questa vasta distesa, da dietro Capua, fino alle montagne che sovrastano Salerno e a quelle ritornano per separarne il golfo da quello di Napoli»17. La ricchezza degli Orti di Napoli si riversa necessariamente in città. I diari – pur non cogliendo la forte presenza di di brani di campagna inclusi nel tessuto urbano – pullulano di annotazioni dense di meraviglia per l’abbondanza delle merci e dei prodotti della terra. Si legga, una fra tante, la testimonianza di Pâris: «Il pane è eccellente a Napoli. La carne mi è parsa egualmente buona. Quanto alla frutta e alle verdure, sono di una abbondanza straordinaria. Tra la frutta, oltre a quella che noi coltiviamo, hanno la giuggiola e la sorba, che non conosciamo. La giuggiola ha una polpa secca, secondo me poco gradevole alla vista (somiglia a una grossa ghianda) e al gusto. La sorba somiglia a una pera della grandezza della grossa pera ruggine. È straordinariamente dorata su un lato; ma deve essere molle per essere mangiata, allora è un po’ migliore di una nespola. Hanno anche la carruba, ma non ne ho mangiate. La melagrana è estremamente grossa, e chi l’apprezza la trova eccellente»18. La vendita dei prodotti orticoli porta così in ambito urbano il riflesso di un contado incredibilmente generoso. I viaggiatori apprezzano, anche visivamente, la presentazione e lo scambio di merci: tutto avviene con un rumore che stupisce per intensità e costanza.
Figura 5. Abraham-Louis-Rodolphe Ducros, il Tempio della Fortuna a Marechiaro.
I CAMPI FLEGREI Delle antiche delizie baiane restano ormai poche, decadenti vestigia; «una sola idea mi ha colpito mentre le contemplavo – scrive Sade di fronte alle rovine dell’antica Baia – ossia che presto o tardi il lusso, la grandezza e la magnificenza umane si annullano davanti alle sublimi meraviglie della natura, come la rugiada si dissolve sotto l’ardore bruciante del 17 18
[DE LA PLATIERE], op. cit., IV, pagg. 169-170. BMB, Fonds Pâris, ms. 1, f. 6v.
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sole»19. I Campi Flegrei attraggono per la «combinazione di acqua e fuoco»20, per la velocità nelle trasformazioni dell’aspetto del territorio – il Monte Nuovo «la cosa più straordinaria d’Italia»21 si innalza nel giro di una notte nel 1538 – e per i miti infernali che gli autori classici vi avevano ambientato. «I dintorni di Napoli – si legge in una guida del 1789 – sono estremamente curiosi e soddisfacenti per gli amanti dell’antichità e della storia naturale» 22. Non risulta strano che nei diari non siano registrati con particolare attenzione gli aspetti agricoli dei luoghi. Le descrizioni si attardano piuttosto sull’equilibrio instabile tra insediamento umano, ricco di reperti archeologici, e natura geologica della regione. Denon, archeologo e uomo di lettere, delinea in breve le bellezze flegree, che, pur mutevoli (e qui anche sta la loro bellezza!), perpetuano nel tempo il loro valore estetico. «Ritornammo verso Pozzuoli, situata nella regione più bella, più curiosa, la più interessante che esista al mondo, per le singolarità naturali del suolo, per i capolavori dell’arte che l’hanno coperta per così lungo tempo e che i fenomeni della natura hanno sepolto. Sembra che l’acqua, il fuoco, gli uomini, l’arte e la natura si siano disputati l’imperio di questo piccolo angolo della terra, avendolo alternativamente occupato, devastato, abbellito, sconvolto, senza cambiare niente in lui che la maniera di essere bello»23. Nei mémoires di Gorani, citoyen françois, in Italia negli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione, cogliamo un’idea progettuale che prende spunto da una visita in questi luoghi. Il progetto, a scala territoriale, affronta il tema della strada di accesso alla città: nell’area flegrea essa si snoda su una costa dal profilo accidentato, in una campagna densamente coltivata e presenta al viaggiatore, nella varietà dei paesaggi, anche tenebrosi tratti ipogei scavati nel tufo. «Si potrebbero insediare delle manifatture in tutti questi luoghi e formare una promenade da Napoli fino a Pozzuoli […]. Vi si potrebbero piazzare, di tratto in tratto, delle tombe, delle urne antiche e questa promenade, per la quale non sarebbero spesi molti denari, diverrebbe la più bella dell’universo»24. Il progetto, fermo restando il paesaggio agrario e naturale, propone la collocazione di reperti archeologici e di manifatture – e quindi di artigiani. Il bello naturale, sebbene dirompente, non sembra essere sufficiente, il paesaggio diventa bello se il territorio è arricchito di opere d’arte e di uomini.
Figura 6. Jean-Louis Desprez, Vue Perspective de la Colonnade du Quartier des Soldats à Pompeii, prise dans l’interieur des Fouilles sur la partie latérale à droite. Si notino, al livello di campagna, le viti maritate ai pioppi sovrastanti gli scavi della Caserma dei Gladiatori. Figura 7. Hubert Robert, Vue du Temple de Venus, Scitué sur le bord de la mer dans le Golphe de Baÿes près de Pouzzols. Si tratta in realtà del cosiddetto tempio di Diana.
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SADE, op. cit., pag. 300. [DE LA PLATIERE], op. cit., II, pag. 295. 21 ANNE-CLAUDE-PHILIPPE COMTE DE CAYLUS, Voyage d’Italie. 1714-1715, a cura di Amilda A. Pons, Fischbacher, Paris, 1914, pag. 210. 22 [DUTENS], op. cit., pag. 24. 23 SWINBURNE, op. cit., IV, pag. 193. 24 JOSEPH GORANI, Mémoires secrets et critiques des Cours, des Gouvernemens, et des Mœurs des principaux États de l’Italie, Chez Buisson, Paris, 1793, I, pag. 107. 20
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Figura 8. Pierre-Jacques Volaire, a Napoli negli anni Settanta del XVIII secolo, è noto ai suoi contemporanei per le rappresentazioni del Vesuvio.
IL VESUVIO E LE CITTÀ VESUVIANE Più ricco di stimoli, per una riflessione sulla percezione del paesaggio agrario da parte dei viaggiatori francesi, appare il percorso che, lasciata la capitale borbonica al ponte della Maddalena in direzione delle città archeologiche, prende il nome evocativo di Miglio d’Oro. Una strada che corre tra le pendici coltivate del Vesuvio e il mare, costantemente fiancheggiata da abitazioni e ricca di abitanti – «bien peuplée» scrivono i voyageurs, secondo una categoria estetica che ci è attualmente estranea. «Nulla è più bello della strada che da Napoli porta a Pompei! Passando dal sobborgo della Maddalena, Portici, Resina, Torre del Greco, Torre dell’Annunziata, è una strada continua di 13 miglia di lunghezza, fiancheggiata da una moltitudine di palazzi, dei quali alcuni molto belli e gli altri almeno grandi e sorprendenti, animata da un popolo immenso e da un inferno di vetture che vanno le une più veloci delle altre come in una corsa di carri. Le interruzioni nel costruito offrono, a destra, degli affascinanti giardini che finiscono sul mare, al di là del quale Napoli, Posillipo e numerose isole incantano la vista, mentre sul lato sinistro il formidabile Vesuvio mostra la sua cima minacciosa e la sua massa solcata da ruscelli di lava più o meno neri che spesso attraversano la strada fino al mare, e fanno l’effetto di una bottiglia d’inchiostro rovesciata sul vestito tessuto di fiori di una giovane sposa. Il fluido infernale e nero, dove ha potuto penetrare, non ha risparmiato nulla, e ciò che ha lasciato scoperto serve solo a far rimpiangere più amaramente ciò che ha invaso e imbrattato»25. La descrizione di Pâris mostra, con l’immagine affascinante dell’inchiostro versato sul vestito intessuto di fiori, una caratteristica specifica del paesaggio vesuviano: l’alternanza stridente tra la natura rigogliosa dei jardins e la desolazione minerale dei «torrenti di ferro rosso colati dall’alto»26. Sui fianchi del Vesuvio è coltivato il vitigno del Lacrima Christi, a sostegno morto, su palo di castagno. Il vino che se ne ottiene gode, nel XVIII secolo, di fama europea e, come attesta il commento di Delamonce relativo al suo viaggio del 1719, poteva essere perfino il motivo di 25 26
BMB, Fonds Pâris, ms. 1, f. 7v. DE BROSSES, op. cit., pag. 259.
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un viaggio a Napoli: «il famoso vino chiamato Lacrima Cristi […] dalla forza sorprendente […è] celebre su tutte le tavole dei signori inglesi, tedeschi e degli altri abitanti del nord che viaggiano in Italia, molti dei quali fanno espressamente il voyage de Naples»27. Nei journaux è testimoniata una grande curiosità per la capacità del vitigno di crescere su suoli relativamente giovani: alcuni studi naturalistici a proposito della formazione di suolo fertile sulle colate laviche sono inseriti nei diari28. Duclos, historiographe de France, in Italia nella seconda metà degli anni sessanta, delinea il quadro del susseguirsi di coltivazioni, distruzioni e successiva ripresa di possesso delle lave da parte dei vigneti. «Questa montagna spinge in aria una colonna densa di fumo, frammisto a scintille, anche quando il vulcano è molto tranquillo. Questo non impedisce che essa sia perfettamente coltivata fino alla metà della sua altezza, soprattutto di vigne che danno l’eccellente vino del lacrima Christi. Nelle eruzioni, la lava, in torrenti di fuoco liquido, distrugge le vigne, gli alberi e le case. Quando, passato del tempo, la lava raffreddata è stata coperta da una coltre di cenere e di terra portate dal vento e legate dalla pioggia, si semina, si pianta e si costruisce di nuovo. Si troverebbero, scavando in più luoghi, degli strati di lava coperti gli uni dagli altri, inframezzati da letti di terra che furono coltivati» 29. La letteratura, come è noto, abbonda di ascese al Vesuvio, a corredo delle quali i viaggiatori non tralasciano di compiere il rito dell’assaggio di questo vino; non tratteremo il tema, riservandoci, però, una citazione da una lettera di De Brosses in cui la visuale dalla sommità del vulcano è restituita come paesaggio agrario attraverso una metafora tessile. «La sommità degli alberi e i vigneti stesi sotto i vostri piedi, [è] come un tappeto al quale fanno da bordo i villaggi di Portici, Resina ed altri, e le case di campagna sparse lungo tutta la riva»30.
Figura 9. Gli scavi di Pompei in un’incisione di Mazois dei primi anni del XIX secolo. I resti della città antica vennero alla luce in un paesaggio agrario dove era prevalente la coltura della vite maritata al pioppo, rappresentata con verità sullo sfondo dell’immagine. Si notino, sulla sinistra, i festoni di vite a palchi. 27
FERDINAND DELAMONCE, Le «Voyage de Naple» (1719) de Ferdinand Delamonce, a cura di Laura Mascoli, Centre Jean Bérard, Napoli, 1984, pag. 121. 28 Si vedano, ad esempio, il Saggio di calcolo sulla data del decimo strato di lave del Vesuvio trovato da Pichetti, nel 1689, nel luogo dove sorgeva la città di Pompei, ad un miglio dal mare, all’interno di una lettera di De Brosses del 1739 indirizzata a Buffon (DE BROSSES, op. cit., pagg. 294-296) o i Remarques sur le sol de Pompéii di Latapie (FRANÇOIS DE PAULE LATAPIE, Description des fouilles de Pompeii (a. 1776), a cura di Pierre Barrière e Amedeo Maiuri, “Rendiconti della Accademia di Archeologia Lettere e Belle Arti”, Napoli, 1953, vol. XXVIII, pag. 226). 29 CHARLES DUCLOS, Voyage en Italie, ou Considérations sur l’Italie, Ches Des Essarts, Paris, 1797, pag. 134. 30 DE BROSSES, op. cit., pagg. 259-260.
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La visita alle località archeologiche, in particolare a Pompei, essendo ancora gli scavi ercolanesi condotti in galleria, relega in posizione marginale la descrizione delle campagne. Meraviglia però il ruolo che il lavoro della terra ha avuto, a detta dei voyageurs, nella scoperta e nella conservazione dei reperti pompeiani. La voce popolare vuole che la scoperta della città – situata in una zona agricola detta Civita, toponimo che già prometteva importanti rinvenimenti – sia avvenuta durante la piantumazione di alberi che sabbero serviti da tutori per le viti. Latapie va oltre: secondo il discepolo di Montesquieu, la popolazione contadina avrebbe da tempo conosciuto l’esistenza di una città sepolta, «i contadini – si legge infatti nel mémoire – dovevano aver scoperto da lungo tempo queste rovine nel farvi le fosse per piantare la vigna, perché la sommità di queste è al livello del terreno»31. Nel 1776, quando Latapie visita Pompei, ancora gran parte del sito era coperto da seminativo arborato – «si attraversa un terreno piantato di vigne sostenute da alti pioppi e seminato a lupini che qui servono per l’alimentazione dei buoi» – da cui si potevano perfino scorgere le rovine spuntare dal piano di campagna. L’autore si spinge a dire che è proprio l’azione plurisecolare del lavoro dei campi ad aver impedito la perfetta conservazione dei reperti, in particolare della loro parte sommitale. «Osservo qui che la grande causa di distruzione della parte superiore di tutte le case di Pompei è la coltivazione del terreno che le ricopre. I contadini […] hanno distrutto con la vanga e qualche volta con la zappa quanto hanno trovato delle costruzioni che facevano resistenza e si sono serviti in seguito delle pietre, sia per costruire delle case sia per separare le loro proprietà con muri a secco». A tutto ciò si aggiunga il lavoro delle radici degli alberi e delle viti. «Senza tutto questo – conclude – si ha l’impressione che la città di Pompei sarebbe stata ritrovata in uno stato di perfetta conservazione» 32.
VERSO PAESTUM Il viaggio a Pæstum presenta maggiori difficoltà legate all’insalubrità e alla mancanza di strade sicure nelle ultime miglia, quando l’itinerario, dopo Salerno, si inoltra nelle deserte paludi della piana del Sele. Il primo tratto di strada invece, da Napoli a Salerno, percorre l’agro nocerino e si rivela assai più piacevole: lasciata la corona delle città vesuviane, se ne distacca tangenzialmente, raggiunge Nocera, lasciando il promontorio del monte Faito con Sorrento e Amalfi a destra, e, per la valle di Cava dei Tirreni, dai ripidi versanti boscati, approda finalmente alla città salernitana. È proprio la ricchezza e la varietà di questi paesaggi a stupire Gorani, che non si potrà trattenere dal paragonare i luoghi alla fantastica realtà del presepio. «Da Napoli fino ad otto miglia prima di Pæstum, non si incontrano che città, paesi, borghi, castelli e case di campagna. Le montagne, le colline, le valli sono coperte di vigne, di olivi, di aranci, di limoni. I punti di vista sono ammirevoli e sistemati con arte pari a quella del presepio di padre della Torre» 33. Il presepio del naturalista napoletano, oggetto di un intero capitolo dei Mémoires secrets di Gorani34, è una rappresentazione verosimile dei luoghi – il presepio presenta «Le vedute più pittoresche dei dintorni di Napoli, il castello, il Vesuvio, il monte di Somma» –, in cui la creatività non si limita al mélange di stagioni – «Si vedono superbe cascate, ruscelli argentini che serpeggiano in praterie smaltate, o pronte a cedere alla falce ricche messi in stato di maturità. Più lontano montagne e pianure coperte di neve, stagni ghiacciati, alberi con rami privi di foglie, accanto ad alberi con la chioma verde e frutti pronti ad essere colti» –, ma anche «vi si mescola l’anacronismo» essendo presenti nella stessa scena i re magi e l’arcivescovo con la processione di San Gennaro. La scena si completa con «urne, vasi etruschi e statue antiche». Sembra proprio essere questo il 31
LATAPIE, op. cit., pag. 226. LATAPIE, op. cit., pagg. 233-234. 33 GORANI, op. cit., I, pag. 379. 34 GORANI, op. cit., I, pag. 324 e segg. Le citazioni che seguono sono tratte da questo capitolo (La Crêche singulière). 32
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paesaggio che i voyageurs settecenteschi si aspettano dalle campagne napoletane: un territorio bien peuplé, in un pittoresco quadro naturale, dove un’attenta sistemazione della natura sia «abbellita dagli sforzi dell’arte».
Figura 10. L’eruzione del Vesuvio del 1779 in una pagina dell’opera monumentale dell’abbé de Saint-Non.
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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768 Università degli Studi di Firenze
Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/ Firenze University Press anno 3 – numero 4 – luglio - dicembre 2005 sezione: Progetti, eventi e segnalazioni pagg. 133 - 135
L.O.T.O. - LANDSCAPE OPPORTUNITIES FOR TERRITORIAL ORGANIZATION Anna Rossi*
Summary The European Union promoted the transnational cooperation project L.O.T.O. (Landscape Opportunities for Territorial Organization) by the program Interreg IIIB CADSES. The project gave up the illustration of some outputs in the seminar Landscape opportunities. Guidelines for the landscape management of the territorial transformations (Milan, 2005, October 6th-7th). This paper is a summary of introduction at the project. The attaches are the original reports of the end seminar. Key-words Landscape, territorial transformations.
Abstract L’Unione Europea ha promosso il progetto di cooperazione transnazionale L.O.T.O. (Landscape Opportunities for Territorial Organization) nell’ambito del programma Interreg IIIB CADSES. Il progetto si è concluso con la presentazione degli esiti di studio nel seminario Landscape opportunities. Linee guida per la gestione paesistica delle trasformazioni territoriali (Milano, 6 e 7 ottobre 2005). Queste note costituiscono una introduzione sommaria al progetto: sono allegati gli interventi al seminario conclusivo nelle versioni originali presentate dagli autori. Parole chiave Paesaggio, trasformazioni territoriali.
* Architetto, Regione Lombardia, Direzione Territorio e Urbanistica, coordinatrice del Progetto L.O.T.O.
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Il progetto di cooperazione transnazionale L.O.T.O. (Landscape Opportunities for Territorial Organization), cofinanziato dall’Unione Europea nell’ambito del Programma Interreg IIIB CADSES, si è proposto di individuare una metodologia di lettura interpretativa del paesaggio che possa costituire un riferimento operativo condiviso, a livello transnazionale e locale, per guidare e verificare le scelte di trasformazione, di recupero e di valorizzazione del territorio. Coordinato dalla Regione Lombardia, il progetto ha visto la partecipazione di altri otto partner – Ministero italiano per i Beni e le Attività culturali, Regione Umbria, Regione Marche, Regione Emilia Romagna, Regione del Veneto, Regione Istriana, Ministero sloveno per l’Ambiente e la Pianificazione territoriale, Università Tecnica di Monaco – e di due osservatori – Istituto Urbani project di Bucarest e Università Corvinus di Budapest. Le premesse del lavoro si fondano sui principi contenuti nello Schema di Sviluppo dello Spazio Europeo (SSSE) e nella Convenzione Europea per il Paesaggio, in particolare, la consapevolezza che la differente caratterizzazione paesaggistica dei territori europei rappresenta un elemento fondamentale per la qualità dei luoghi dell’abitare e costituisce una ricchezza da salvaguardare, la convinzione che tutto il territorio è paesaggio e in quanto tale richiede un’attenta politica paesaggistica. Il progetto ha costruito i propri obiettivi a partire dal riconoscimento che, troppo spesso, le scelte di trasformazione territoriale e gli strumenti per governarle non considerano appieno il tema della qualificazione e della gestione paesaggistica dei luoghi su cui intervengono; di conseguenza i processi di mutamento economici e sociali rischiano di stravolgere i delicati equilibri e i sistemi di relazione che caratterizzano i paesaggi tradizionali, come quelli di più recente formazione. Occorre invece prendere atto che se tutto il territorio è paesaggio, le sue inevitabili trasformazioni devono essere consapevolmente guidate, formulando con chiarezza strategie volte ad indirizzare la contestualizzazione paesaggistica degli interventi di trasformazione, la valorizzazione delle caratteristiche e delle potenzialità paesaggistiche locali, nonché la riqualificazione dei paesaggi degradati. L’approccio assunto propone di superare la visione settoriale, che considera il paesaggio in modo alternativo secondo diverse chiavi di lettura, per ricercare una visione integrata del paesaggio, capace di interpretarne l’evoluzione in quanto sistema unitario, nel quale le componenti ecologica e naturale interagiscono con quelle insediativa, economica e socioculturale. Integrare questo approccio al paesaggio nei processi di pianificazione e progettazione del territorio richiede, però, che si mettano a punto modalità di lettura paesaggistica agili, mirate e non dispersive. Le finalità di condivisione tra i diversi soggetti territoriali richiedono, inoltre, uno sforzo verso sintesi efficaci e forme chiare e trasparenti di costruzione ed enunciazione dei risultati della lettura del paesaggio e delle possibili strategie paesaggistiche proponibili per un determinato territorio, per rendere possibile, all’interno dei processi di definizione delle scelte di trasformazione, il confronto allargato e aperto su quale paesaggio abbiamo, verso quale paesaggio andiamo, quale paesaggio vogliamo? LOTO ha voluto, in tal senso, fornire un contributo per l’individuazione di strumenti atti a governare l’evoluzione del paesaggio, assumendo il paesaggio quale quadro di riferimento per qualsiasi progetto a scala puntuale e territoriale, al fine di orientare su di esso in modo complementare gli strumenti di pianificazione e progettazione del territorio. Per raggiungere l’obiettivo di arrivare ad una proposta metodologica ampiamente condivisa tra tutti i partner e ripetibile nelle diverse situazioni, il progetto si è articolato su tre fasi di lavoro, che si sono susseguite nel tempo, interagendo l’una con le altre, e che hanno fornito nel loro complesso i riferimenti per la costruzione del prodotto finale. Una fase preliminare, volta ad esplorare e a mettere in luce possibili contributi derivanti da altre esperienze, nonché a comprendere meglio conoscenze, approcci e metodi di lettura e pianificazione del paesaggio attualmente vigenti nei diversi paesi partner, ma non solo.
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Una fase intermedia, focalizzata sulla definizione dei punti salienti di una proposta metodologica rispondente ai requisiti sopra delineati e mirata a testarne i possibili sviluppi nella soluzione sperimentale di situazioni concrete (azioni pilota). Una fase finale, di messa a punto, in relazione ai diversi risultati emersi, di un documento condiviso di Linee guida per una lettura ed interpretazione del paesaggio finalizzate ad orientare le scelte e la gestione paesaggistica delle trasformazioni territoriali. Il volume delle Linee guida è stato pubblicato in lingua italiana e in lingua inglese, oltre che come atto del progetto previsto dal relativo programma, anche in formato digitale a cura della rivista Architettura del paesaggio (n. 13, novembre 2005 – aprile 2006). L’elevato numero di partner ed enti coinvolti ha costituito una grande ricchezza del progetto, permettendo un confronto impegnativo, ma molto ampio, sui diversi temi affrontati. E’ stato sviluppato un intenso lavoro di approfondimento e riflessione su come affrontare l’obiettivo comune di arrivare ad una più attenta ed efficace gestione paesaggistica dei processi di trasformazione del territorio, in attuazione dei principi della Convenzione Europea per il Paesaggio, per riuscire a garantire l’articolazione delle differenti caratterizzazioni paesaggistiche insieme ad una più elevata qualificazione e valorizzazione dei territori in cui viviamo. Il seminario conclusivo, tenutosi a Milano il 6 e 7 ottobre 2005, ha voluto riportare i risultati di queste riflessioni in una sede più ampia di confronto internazionale, presentando il documento di Linee guida e una rassegna/mostra dei risultati delle azioni pilota. Il seminario ha però soprattutto voluto coinvolgere enti, istituzioni e comunità scientifiche in un dibattito approfondito sulle prospettive che si aprono, per la pianificazione e il governo del territorio, assumendo il paesaggio quale quadro di riferimento per qualsiasi progetto di intervento. I relatori e i partecipanti hanno accettato di provare a declinare in tal senso diversi aspetti connessi ad un approccio integrato al paesaggio, senza eludere i problemi operativi e concettuali che sappiamo essere ancora aperti. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI ROSSI ANNA e altri, LOTO – LANDSCAPE OPPORTUNITIES. LA GESTIONE PAESISTICA DELLE TRASFORMAZIONI TERRITORIALI: LINEE GUIDA E CASI PILOTA, Unione Europea, Regione Lombardia, Milano, 2005.
Testo acquisito dalla redazione della rivista nel mese di gennaio del 2006. © Copyright dell’autore del testo e degli autori dei singoli allegati degli atti del convegno. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768 Università degli Studi di Firenze
Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/ Firenze University Press anno 3 – numero 4 – luglio - dicembre 2005 sezione: Progetti, eventi e segnalazioni pagg. 136 - 142
WINDS OF CHANGE, KEYS TO THE FUTURE. CONFERENZA ANNUALE ASLA. Paola Marzorati*
Summary Last October 7–10, 2005, in Ft. Lauderdale, Florida there was the ASLA 2005 Annual Meeting & EXPO. This conference’s theme, Winds of Change, Keys to the Future, represented the ASLA’s will to provide the participants with the top-notch instruments for managing the winds of change in their profession and in their communities. In addition, the ASLA’s organization has selected an outstanding roster of keynote speakers, the mayor of Charleston, South Carolina; Laurie D. Olin, FASLA, Principal, Olin Partnership, Ltd., and Susan S. Szenasy, Editor-in-Chief, Metropolis magazine. Also the venue for the conference is very interesting: Fort Lauderdale known as the “Venice of America,” offers a fascinating array of natural and built landscapes and boasts twenty-three miles of beaches and three hundreds miles of inland waterways. Key-words American Society of Landscape Architects, sprawl, community, sustainability, residential design
Abstract Lo scorso 7–10 Ottobre, 2005, a Ft. Lauderdale, Florida si è tenuta la conferenza annuale dell’ASLA 2005 & EXPO. Il tema di questa conferenza, Venti di cambiamento, le chiavi del futuro, rappresentava la volontà dell’ASLA di fornire ai partecipanti i migliori strumenti per gestire i cambiamenti nella professione e nella società. Inoltre alla conferenza ha partecipato uno straordinario numero di personalità del mondo delle istituzioni ed importanti esponenti di studi professionali e riviste di architettura (il sindaco della città di Charleston, South Carolina; Laurie D. Olin dello studio Olin Partnership, Ltd., e Susan S. Szenasy, Metropolis magazine). Infine si è dimostrata essere di notevole interesse anche la sede della conferenza, la città di Fort Lauderdale conosciuta come la “Venezia d’America,”offre un’affascinante serie di paesaggi naturali e costruiti, e vanta trentasei chilometri di spiagge e quattrocentottanta chilometri di canali. Parole chiave Società americana degli architetti del paesaggio, espansione insediativa incontrollata, comunità, sostenibilità, progettazione degli insediamenti residenziali
* Dottoranda di Ricerca in Progettazione paesistica, Università di Firenze
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LA CONFERENZA ANNUALE DELL ’ASLA Nello scorso 7-10 Ottobre 2005, a Ft. Lauderdale, Florida si è tenuta la conferenza annuale dell’ASLA 20051, dal titolo “Venti di cambiamento, le chiavi del futuro”2. Il tema di questa conferenza rappresenta la volontà dell’ASLA di fornire ai partecipanti i migliori strumenti per gestire i cambiamenti nella professione e nella società. La conferenza si è articolata nel seguente modo: sessioni generali con importanti esponenti del mondo delle istituzioni, degli studi professionali e delle riviste di architettura, seminari di studio per l’abilitazione degli architetti del paesaggio, lezioni sull’uso di alcuni software specifici per la progettazione paesistica, premiazioni dei migliori progetti svolti dagli studenti (ASLA Student Awards), dai professionisti (ASLA Professional Awards) ed infine la consegna dei più alti riconoscimenti dell’ASLA ai membri dell’associzione: ASLA Medal, Olmsted Medal, Landscape Architecture Medal of Excellence, LaGasse Medals, Jot D. Carpenter Teaching Medal; ASLA Design Medal; President’s Medal che quest’anno ha ricevuto Frederick Steiner e Landscape Architecture Firm Award ricevuta dallo studio di Peter Walker Associated. Durante il fine settimana, si è svolta parallelamente alle sessioni della conferenza, l’esposizione commerciale dove sono stati presentati nuovi prodotti, servizi, applicazioni tecnologiche e soluzioni progettuali utili all’architetto del paesaggio.
Figura 1. Copertina degli Atti del convegno. Figura 2. Sede della conferenza, il Broward County Convention Center, a Fort Lauderdale, Florida..
LE PRINCIPALI TEMATICHE AFFRONTATE: PROBLEMATICITA’ E STRUMENTI La conferenza si è incentrata sull’approfondimento di due tematiche principali, residential design e sustainability design attorno alle quali sono stati sviluppati i contributi delle diverse sessioni. Per sustainability design, s’intende la sostenibilità nella progettazione quale azione di progettare i luoghi del lavoro, del tempo libero e dell’abitare, essendo consapevoli della scarsità delle risorse del territorio con l’obiettivo quindi di preservare per le generazioni 1
Sito ufficiale: http://www.asla.org/meetings/am2005/
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Traduzione dell’autrice.
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future la qualità di tutte le componenti dell’ambiente in cui viviamo (suolo, aria, acqua, paesaggio,…). Una progettazione sostenibile deve quindi creare il minimo impatto ambientale in caso di sviluppi insediativi, deve prevedere l’uso di tecnologie rispettose dell’ambiente, dell’ecologia dei sistemi naturali, deve garantire il risparmio di energia, un minor uso di combustibili ed infine deve essere ispirata al principio: più camminare, meno guidare. La seconda tematica approfondita al meeting di quest’anno è il residential design, ossia la progettazione degli insediamenti residenziali, che negli Stati Uniti vengono definiti communities e la cui progettazione costituisce il principale settore di mercato degli architetti del paesaggio, per il 40 % su investimenti privati. Le sessioni sono state numerose ed afferenti a più filoni disciplinari, dall’arte e la storia dei giardini, alla progettazione architettonica, alla bioarchitettura, alla pianificazione territoriale. Nel complesso da tutte le relazioni traspare una generale presa di coscienza del degrado del paesaggio, ambientale e sociale causato dall’urbanizzazione periurbana diffusa e la necessità di porvi rimedio, applicando i principi della progettazione sostenibile, non completamente presi in considerazione dal movimento New Urbanism e dalle Smart Growth development strategies. E’ apparsa chiaramente l’urgenza di migliorare gli strumenti esistenti di controllo e di gestione della crescita insediativa, alla luce delle esperienze realizzate negli ultimi anni. Nella fattispecie alla conferenza è stata presentato dall’architetto Peter Katz3, importante esponente del New Urbanism4, uno Smart Code revisionato, una specie di regolamento edilizio realizzato sulla base dei principi del movimento e finalizzato ad indirizzare la progettazione di una città più a misura d’uomo. La revisione dello SmartCode segue dopo centinaia di espansioni new urbanists e tenta di perfezionarlo in alcune parti, contrapponendo il principio del coding (fissare delle indicazioni progettuali, tipo un regolamento edilizio) allo zoning. Ciò consiste nell’elaborazione di un piano comunale che definisca criteri progettuali diversificati per funzione d’uso che si intende insediare in piccoli porzioni di territorio, anziché la suddivisione del territorio in macroaree monofunzionali, in cui la destinazione d’uso è difficilmente rappresentata dall’edificio, a causa della scelta di soluzioni architettoniche omologate e di dubbio gusto.
Figure 3 e 4. Una diapositiva della presentazione di Peter Katz e un estratto dello Smart Code revisionato con rappresentazioni di sviluppi ideali delle differenti parti della città: area periurbana (T3), area periferica (T4), zona centrale della città (T5) e quello che in Europa definiremmo il centro storico, in America chiamato comunemente downtown e ribattezzato dal movimento New Urbanism the urban core zone (T6). 3
Relatore/Curriculum/Fonti bibliografiche: Peter Katz, ex direttore esecutivo del Congress for New Urbanism, Urban Theorist. Di Katz, Peter: The New Urbanism: Toward an Architecture of Community. New York: McGraw-Hill, 1993; “A New Urbanist Perspective on Regionalism.” The Regionalist (Volume 2, Number 4 Winter 1997) 50-55. 4 Questo movimento, pur proponendo stili architettonici discutibili (villaggio inglese del XIX secolo), ha avuto il merito di aver introdotto nella pianificazione americana, alcuni principi di stampo europeo che si rifanno ad una città più a misura d’uomo. Questi principi sono: pedonalizzazione, zooning con destinazioni d’uso miste e diversificazione della popolazione, qualità architettonica e dell’arredo urbano, aumento della densità degli edifici, dotazione di sistemi di trasporto pubblico, sostenibilità e qualità della vita. Per maggiori informazioni vedi lo Smartcode 2005 scaricabile dal sito internet: www.dpz.com
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ESPERIENZE PROGETTUALI PRESENTATE Sul tema della sostenibilità dei progetti è intervenuto l’onorevole Joseph P. Riley Jr., membro onorario dell’ASLA e sindaco della città di Charleston, South Carolina. Partendo dalla convinzione che il sindaco di una città debba esserne anche il principale architetto, nel 1986 ha costituito il Mayors’ Institute for City Design (MICD), un istituto, i cui membri sono sindaci, finalizzato a fornire informazioni e supporto alle amministrazioni nel campo della progettazione urbana. In vent’anni il MICD ha collaborato con circa seicento sindaci di città degli Stati Uniti. Riley, considerato uno dei più lungimiranti amministratori d’America, ha ottenuto il plauso nazionale per aver contribuito al rilancio della città di Charleston ed aver pensato a tutelare il ricco patrimonio di risorse naturali e culturali esistente per le generazioni future. Sotto la sua guida è stato riqualificato il downtown business district, sono stati creati parchi ed altri spazi pubblici ed è stato incoraggiato lo sviluppo di residenza accessibile alle classi meno abbienti. Riley ha attentamente pianificato lo sviluppo futuro della città, e ne ha guidato la crescita, assicurandosi la salvaguardia sia dell’ambiente costruito, che di quello naturale. Oggi Charleston è considerata una delle città più vivibili e innovative degli Stati Uniti. Il Sindaco nel discorso di apertura ha sottolineato l’importanza di una progettazione di eccellenza nel pubblico settore, ricordando che: “una grande città è quella che ha il coraggio di destinare le migliori parti del territorio all’uso pubblico”.5 Warren T. Byrd e Diane M. Dale 6, architetti del paesaggio facenti parte degli studi Nelson Byrd Woltz Landscape Architects and William McDonough + Partners, hanno proposto un intervento che ha tentato di integrare le due tematiche principali sul quale era stata incentrata la conferenza, ossia residential design e sustainability design, presentando alcuni progetti realizzati di quartieri residenziali sostenibili. I relatori sostengono che il progetto contemporaneo debba essere capace di integrare in sé l’estetica con la sostenibilità. Per questo motivo hanno sottolineato la necessità di proporre una progettazione ecologica di miglior livello per i paesaggi residenziali di frangia, ad esempio progetti più attenti alla qualità dell’acqua anche in situazioni ordinarie (villetta a schiera, villino su lotto singolo,…). La funzionalità degli ecosistemi naturali, la sicurezza e la qualità della vita sono tematiche da tener presenti quando si progettano insediamenti sostenibili. La qualità progettuale delle residenze individuali e dei giardini influenza lo stato dei sistemi naturali, che in molti casi vengono frammentati dall’urbanizzazione. In particolare sono stati presentati i punti salienti di uno studio, premiato dall’ASLA nel 2004, sull’impatto dei paesaggi residenziali suburbani sulla qualità dell’acqua e dell’habitat acquatico in un’area del nord-ovest degli Stati Uniti che si affaccia sull’oceano Pacifico. Thomas W. Balsley 7, architetto del paesaggio fondatore dello studio Thomas Balsley Associates, sostiene che la progettazione sostenibile non è soltanto basata sui principi del controllo dell’urbanizzazione diffusa, della tutela delle zone umide e dell’appoggio al Movimento New Urbanism e identifica nella città un’altrettanto importante chiave verso un futuro più sostenibile. Il relatore sottolinea la possibilità di invertire il declino delle città americane, attraverso piccoli interventi incrementali che possano rendere l’ambiente urbano un’appetibile alternativa al fenomeno dell’urbanizzazione periurbana. 5
Traduzione dell’autrice. In lingua originale:“A great city is one that has the courage to give the best pieces of land to the public”. 6 Relatore/Curriculum/Fonti bibliografiche: Sally Schauman, FASLA, Duke University, Durham, NC, University of Washington; Warren T. Byrd, FASLA, Nelson-Byrd Landscape Architects; Diane M. Dale, ASLA, William Mc- Donough + Partners. Booth, Derek B, Karr, J.R. and Sally Schauman, 2004. “Reviving Urban Streams: Land Use, Biology and Human Behavior,” JOURNAL OF THE AMERICAN WATER RESOURCES ASSOCIATION, October, pp. 1351-1364. 7 Relatore/Curriculum/Fonti bibliografiche: Thomas W. Balsley, FASLA, Thomas Balsley Associates www.tbany.com The Urban Landscape; Thomas Balsley, 2000 Vision + Voice 3, Changing the Course of Federal Architecture, US General Services Administration, 2004
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La sua lezione dal titolo molto evocativo Urban Miracles, Miracoli urbani, attraverso immagini, casi studio, e aneddoti ha esplorato alcuni interventi, realizzati nella città di New York, consistiti nella trasformazione di piccoli parchi urbani e piazze in stato d’abbandono, in spazi di ritrovo sociale che risvegliano l’immaginazione della gente e ricreano il senso di identità e di appartenenza al quartiere e alla comunità. Balsley ha sottolineato che il Central Park è importante per la città di New York, tanto quanto il parco di quartiere è importante per chi lo frequenta quotidianamente; il piccolo spazio pubblico viene quindi indicato dal relatore come il luogo più facile da cui iniziare a rendere più vivibile ed a misura d’uomo la città. Gli architetti del paesaggio Kerry Blind e Shannon G. Kettering8 hanno presentato una ricerca sulla costruzione di un modello di villaggio agricolo sostenibile, denominata Chattahoochee Hill Country, basato sulla ricerca di equilibrio tra l’esigenza di espansione urbana e di tutela del territorio agricolo. L’area oggetto di studio di circa 40.000 acri è l’ultima porzione di territorio agricolo rimasta nell’area metropolitana di Atlanta. La Chattahoochee Hill Country Alliance, una associazione senza scopo di lucro finalizzata alla tutela del territorio agricolo insieme con la Nature Conservancy of Georgia e il Fulton County’s Environment and Community Development Department, hanno chiesto ad un team di architetti del paesaggio di predisporre un master plan per la definizione di un modello di villaggio più denso rispetto alle tradizionali espansioni residenziali, che lasciasse quindi libera maggior superficie agricola. Viene proposto un concetto di villaggio compatto con un mix di funzioni d’uso che formano una città di servizi per vivere, lavorare, trascorrere il tempo libero e che integri e preservi le risorse agricole esistenti e le aree naturali. L’importanza di questo studio è che model sustainable village plan è un prototipo che, secondo i relatori, può essere seguito dai piani di sviluppo locali e sovralocali degli Stati Uniti, inoltre è un piano che tiene conto di tutti gli attori coinvolti, e quindi ciò ne rende meno difficoltosa l’attuazione.
Figura 5. Chattahoochee Hill Country da una fotografia aerea, con in primo piano l’aeroporto di Atlanta. Figura 6. Chattahoochee Hill Country Model Sustainable Village Plan.
La seconda fase è consistita nella predisposizione di tre progetti alternativi del villaggio, basati sui criteri richiesti dalla popolazione residente: agglomerato di piccole dimensioni, ispirato allo stile dei paesi europei e fornito di servizi di vicinato. 8 Kerry Blind, FASLA; Shannon G. Kettering, ASLA, AICP. Titolo originale della lezione: The Model Chattahoochee Hill Country Sustainable Village: Balancing Growth and Rural Preservation. Riferimenti fase I: Consulenti: Ecos Environmental Design, Inc.; Preston & Associates/ Village Habitat Design; Associated Engineering Consultants, Inc. Fase II: Consulenti: Ecos Environmental Design, Inc.; Preston & Associates/ Village Habitat Design ; Torti Gallas and Partners CHK ; Wilbur Smith Associates Mercer University: Dr. Alice Collins, Ph. D. Per maggiori informazioni si veda: www.chatthillcountry.org; www.atlantaregional.org .
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Figura 7. Il calendario delle sessioni.
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Figure 8 e 9. Due momenti della premiazione finale ASLA Honor Presentation durante la quale è avvenuta la consegna dei più alti riconoscimenti dell’ASLA. Jot D. Carpenter Teaching Medal assegnata al professor Robert S. Reich della Louisiana State University per la sua attività di insegnamento che continua da oltre sessant’anni e la President’s Medal che quest’anno ha ricevuto Frederick Steiner, Preside della Facoltà di Architettura di Austin, Texas.
SITI INTERNET Per maggiori informazioni su questo evento e sull’edizione 2006: http://www.asla.org
RIFERIMENTI ICONOGRAFICI
Figure 1, 6, 7: immagini tratte dal Cd degli Atti del convegno, ASLA 2005 Annual Meeting & EXPO, Winds of Change, Keys to the Future, Fort Lauderdale, 2005. Figure 2, 3, 5, 8, 9: fotografie dell’autore. Figura 4: immagini tratte dal documento Smart Code 2005 e scaricabile dal sito internet: www.dpz.com
Testo acquisito dalla redazione della rivista nel mese di dicembre 2005. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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