Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768 Università degli Studi di Firenze
Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/ Firenze University Press anno 4 – numero 6 – luglio-dicembre 2006 numero monografico Progettare sui limiti sezione: Saggi pagg. 1 - 3
EDITORIALE Antonella Valentini*
Questo numero della Ri-Vista è dedicato ad un tema tanto affascinante quanto ambiguo: quello del limite e del progetto dei paesaggi che si trovano sul limite: territori di margine urbano dei quali si progetta il “bordo” della città - mettendo in atto, ad esempio, strategie differenti in funzione del riconoscimento delle diverse specificità dei margini, come suggerisce Danilo Palazzo - oppure quello della campagna - attraverso approcci peculiari quali quello delle Community Forests, indagato da un gruppo di ricercatori dell’università di Bari e dei parchi agricoli, presentato da David Fanfani - o, più generalmente, lo spazio di contatto tra la città e i suoi bordi attraverso nuove categorie progettuali come quella del parco-margine proposto da Anna Lambertini. Ma i paesaggi di limite possono essere anche i territori che separano le emergenze naturalistiche dal contesto a cui sono strutturalmente legati - è il tema delle aree contigue affrontato da Simona Olivieri, oppure i territori di frontiera tra due elementi, la terra e il mare - argomento del saggio di Giorgio Costa. Quello del limite è divenuto un tema di attualità, ampiamente affrontato da pianificatori e progettisti, non solo in campo strettamente tecnico legato all’architettura, ma anche sul piano filosofico e generale. Limite è un termine che normalmente richiama sensazioni di negazione, di detrazione, di contenimento, ma, soprattutto in riferimento ai margini urbani, negli ultimi anni si sono registrati profondi mutamenti di questo concetto, determinati dal modificarsi delle modalità insediative che hanno portato alla negazione della tradizionale contrapposizione città-campagna, non solo per una crescente urbanizzazione e una nuova organizzazione territoriale reticolare, ma anche per una contrazione del rapporto spaziotempo e la conseguente pervasività della cultura urbana. La perdita della centralità e la formazione di una struttura reticolare hanno generato uno status quo al quale si è generalmente tentato di opporsi con il progetto architettonico di costruzione dei margini urbani (nel senso di costruzione di pieni per ricompattare i vuoti) e dunque con la definizione di nuovi limiti. Questa situazione per cui i paesaggi periurbani si avvertono carenti di una efficace connotazione dei caratteri distintivi e caratterizzati da una elevata instabilità tipologica, pur nella sua criticità, però, contiene alcune potenzialità. Qui, la presenza di un limite sfrangiato dalla diffusione urbana, può rappresentare una occasione per impostare il progetto su nuovi rapporti: il limite della città non è più elemento di delimitazione dello spazio, ma generatore di relazioni e di opportunità. L’esistenza di un confine rispondente a una geometria complessa - i margini edificati sono sempre più riconosciuti come “frattali” - può rendere il limite della città non più una barriera impenetrabile ma un elemento di sutura che, mettendo in contatto due zone diverse, le separa, o, separandole, le collega.
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Il progetto dei paesaggi che si pongono sul limite tra urbanità e ruralità (ma anche tra aree ad elevata naturalità e territorio “ordinario” o tra terra e mare) si propone come strumento di connotazione, riequilibrio e rigenerazione di tali luoghi di transizione. Qui, più che altrove, il paesaggio, che si dimostra pienamente nella sua intrinseca dinamicità, è anche passaggio, esperienza di transizione e di mutamento di (precari) equilibri. Il paesaggio di confine, spazio di mediazione e spazio del “fra”, ambito del conflitto e del malinteso, ma anche della pacificazione, come ci suggerisce Piero Zanini, può diventare strumento per la definizione figurale - la capacità di definirsi come luogo - e identitaria del territorio. Qui, come per Benjamin nella metropoli1, vale l’arte di perdesi poiché “…il disorientamento ci costringe a una consapevolezza dei nostri movimenti, come pure dei nostri reciproci rapporti spaziali”2. Il limite, così, diventa strumento di relazione, aprendosi a contenuti semantici latenti come mediazione, connessione e opportunità. La sezione Saggi si apre con il contributo di Maria Cristina Treu sul tema della “città in estensione”, attributo che rinvia ad un processo continuo di crescita, sulla quale si misurano oggi gli strumenti della progettazione volti, da un lato, all’organizzazione del sistema dei servizi e della struttura dello spazio pubblico e, dall’altro, alla creazione di un nuovo paesaggio di città organizzato in un rapporto di equilibrio con gli spazi verdi aperti della campagna urbana. Sono quindi messi in evidenza cinque diversi approcci, tra loro complementari, per il governo della crescita urbana e della qualità dello sviluppo degli insediamenti: lavorare sui margini, sulle strutture di area vasta, sulle reti ecologiche, per polarità, sui percorsi della nuova urbanità. Il saggio di Danilo Palazzo affronta il tema del progetto dei margini urbani sottolineando l’esistenza per il progettista di tre responsabilità: “La responsabilità di specie ci obbliga a confrontarci con il ruolo dominante che noi, esseri umani, abbiamo nei confronti della terra […]. La responsabilità di generazione ci costringe a metterci in relazione con ciò che abbiamo ereditato e a porci il problema di cosa lasceremo. […]. La responsabilità di competenza (o di progetto) è quella che chiama in causa gli operatori che agiscono sul territorio e sul paesaggio con autorità di progetto. […]. Queste responsabilità devono rinnovare la nostra capacità progettuale”. Il ragionamento procede poi con l’illustrazione di sei strategie – Attraversamento, Ruolo, Densità, Disegno, Cintura, Attesa – che rappresentano alcuni possibili orientamenti per trattare il tema dei margini urbani. Con Anna Lambertini si approfondisce lo studio del paesaggio urbano ad un grado di maggior dettaglio, osservando un tema del tutto particolare ed originale che è il parcomargine, “prodotto di un fare progettuale applicato ad una scala topografica, che assume il tema della riconfigurazione dei bordi e delle aree di contatto tra differenti ambiti o sistemi di spazi contigui come linea guida per dare soluzione locale a questioni di carattere fisicospaziale, ecologico-.ambientale, funzionale, formale, percettivo”. Una disamina della contemporanee esperienze di progettazione (tra cui Parc Citröen, Parque do Tejo e Trancão, Parc de Poble Neu) consente di riflettere sulle potenzialità di questa categoria progettuale che permette di trasformare “un luogo qualunque in un luogo unico e inconfondibile”. Il ragionamento di Simona Olivieri porta a riflettere sul tema del limite nella pianificazione dei parchi naturali ed in particolare sulla questione della contiguità tra territorio del parco e territorio immediatamente esterno ad esso. Qui il confine è palesemente usato per sancire differenze che spesso non hanno alcun riscontro nella reale configurazione paesistica dei luoghi; “…è il frutto di ordinamenti giuridico-istituzionali stabiliti dall’uomo per conferire a ciascuno (parco ed extra parco) funzioni diverse e specifiche (da un lato la conservazione e dall’altro lo sviluppo) che non possono, in realtà, essere intese in senso reciprocamente esclusivo”. Recentemente questo atteggiamento si è andato modificando e le tendenze del dibattito sui confini delle aree protette, come illustra Olivieri, sono orientate verso la 1
Scrive Benjamin: “Non sapersi orientare in una città non vuol dire molto. Ma smarrirsi in essa come ci si smarrisce in una foresta, è una cosa tutta da imparare”. WALTER BENJAMIN, Infanzia berlinese, (1950), trad. ita. Marisa Bertolini Peruzzi, Einaudi, Torino 1973, pag. 3. 2 PEPE BARBIERI, Metropoli piccole, Meltemi, Roma 2003, pag. 27.
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definizione di politiche d’integrazione che insistono nei territori d’interfaccia con l’obiettivo della valorizzazione complessiva del contesto paesistico locale. Con David Fanfani si osservano le attuali trasformazioni dei sistemi urbani e metropolitani sulle preesistenti strutture del paesaggio rurale, focalizzando l’attenzione sullo strumento del parco agricolo, di diffusa applicazione in Europa, attraverso il cui progetto si mira a “…affrontare in termini integrati e multifunzionali le problematiche poste dalla diffusione urbana e recuperare, attraverso innovativi progetti di territorio e di paesaggio, il valore identitario, economico e sociale degli spazi aperti”. Nella sezione Itinerari si continua ad esaminare il tema del progetto dei paesaggi ai margini delle città con il contributo di Colangelo-Davies-Lafortezza-Sanesi, che presentano l’esperienza inglese delle Community Forests, foreste multifunzionali localizzate nelle aree di frangia degli agglomerati urbani e costituite da un mosaico molto articolato di aree boscate e spazi verdi, dove le comunità locali sono attivamente coinvolte nella gestione. Sono messe in evidenza le potenzialità ed i benefici ottenibili e ottenuti in Gran Bretagna, con la creazione delle Community Forests e l’applicabilità al contesto italiano. Con il saggio di Giorgio Costa ci spostiamo in Sardegna con la descrizione del piano paesistico regionale e soprattutto con una riflessione sul tema della fascia costiera, intesa nella sua continuità e unitarietà di “bene paesaggistico”: “la costa come frontiera, come terra di confine fra mare e terra, con una sua dimensione e un suo spazio fisico, con le sue storie e i suoi abitanti, parte integrante dell’identità del luogo”. Il contributo di Gabriele Corsani ci guida invece nel capoluogo toscano ed in particolare nella Firenze del VX secolo per una poetica lettura del paesaggio periurbano attraverso la tavola dell’Assunzione della Vergine di Francesco Botticini che “…coglie in stato di grazia l’unione di Firenze con il suo territorio alla fine di un lungo ciclo che lo consegna al primo apparire della modernità. La varietà dei paesaggi e degli insediamenti è ricchezza di risorse e occasioni: l’occhio della città, fattore strutturante, partecipa ancora delle ragioni di quelle terre perché vi si stabilisca una duratura armonia fisica e spirituale”. La sezione Dialoghi presenta due interviste a cura di Antonella Valentini a Piero Zanini e Pippo Gianoni. Sollecitati tutti e due ad una riflessione sul tema del limite e del confine, sulle definizioni etimologiche e sulle considerazioni progettuali che ne conseguono, Zanini e Gianoni espongono le loro opinioni, che scaturiscono dalla confidenza di entrambi con questo complesso argomento, talvolta condividendo, talvolta dissentendo sia tra loro che con l’intervistatore. Alla domanda, probabilmente vaga ma volutamente provocatoria, su quali certezze si hanno per progettare paesaggi di confine, ambedue rispondono dimostrando come su questo argomento tutto abbia contorni indecisi e quanto sia in realtà un argomento dai limiti inesplorati. Scrive Zanini: “Cosa sono i paesaggi di confine? Lo chiedo, perché me lo sono chiesto in un’altra occasione e non sono mica riuscito a capirlo […] ho qualche difficoltà con quest’idea della progettazione del paesaggio. Che cos’è che si progetta? Un’intenzione? Una visione? Una prospettiva?”. Anche Gianoni replica in sintonia: “Faccio fatica a pensare che si possa progettare il paesaggio in generale, perché per me il paesaggio è lo spazio di espressione del collettivo […]. Ma ancor più difficile mi è immaginare di progettare uno spazio di confine, uno spazio di convivenza tra due sistemi…”. Tra gli Eventi sono riportati due convegni, entrambi svoltisi a Firenze nel giugno 2006. Il primo, del quale ci riferisce Maria Felicia Della Valle, sul tema centrale de “La Convenzione Europea: interpretazioni ed applicazioni” a cui hanno partecipato esperti di discipline giuridiche, rappresentanti delle istituzioni, urbanisti e architetti del paesaggio; il secondo, la cui segnalazione è a cura di Enrica Campus, è la presentazione al convegno internazionale “Il fiume nella città: una rete di esperienze a confronto” delle esperienze progettuali delle città partners (Firenze, Bordeaux, Tallinn, Dresda, Siviglia e Brema) al progetto RiverLinks promosso nell’ambito del programma Interreg IIIC Sud.
*Dottore di Ricerca in Progettazione paesistica, docente a contratto di Architettura del Paesaggio all’Università di Firenze. 3
Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768 Università degli Studi di Firenze
Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/ Firenze University Press anno 4 – numero 6 – luglio-dicembre 2006 numero monografico Progettare sui limiti sezione: Saggi pagg. 4 - 13
PROGETTI PER LA CITTÀ IN ESTENSIONE Maria Cristina Treu*
Summary Today’s city coincides with large urbanized areas or better with metropolitan regions where the majority of the world population live and work. This urban type is the city in extension, an attribute that refers to a growth process, in constant extension. In this urban type not live only the majority of the world population, but also the youngest. Today the projects have to contend with this kind of city and the themes to consider are: on one side the facilities’ system for the city and the public spaces, on the other a new city landscape integrated with the open green spaces of the urban countryside. Long since the instruments of city’s growth control and urbanization’s quality have tested some project’s practices. These practices can be distinguished in five different complementary approaches: work with the hedges, with structure on a large scale, with ecological networks, with polarities, with new urban paths. Key-words City In Extension, Hedges, Large Scale.
Abstract La città di oggi coincide con grandi territori urbanizzati, ovvero con regioni metropolitane dove abita, lavora e vive la maggioranza della popolazione mondiale. Questo tipo urbano è la città in estensione, un attributo che rinvia a un processo di crescita in continua espansione. In questo tipo urbano non solo vive la maggior parte della popolazione, ma è qui che si forma e immagina il proprio domani la popolazione più giovane del pianeta. E’ con la città in estensione che oggi si devono misurare gli strumenti della progettazione; e i temi su cui focalizzare l’attenzione sono, da un lato, il sistema dei servizi e la struttura dello spazio pubblico, dall’altro un nuovo paesaggio di città organizzato in un rapporto di equilibrio con gli spazi verdi aperti della campagna urbana. Da tempo gli strumenti di governo della crescita urbana e della qualità dello sviluppo degli insediamenti territoriali sperimentano alcune pratiche di progetto che si possono distinguere in cinque diversi approcci tra loro complementari: lavorare sui margini, sulle strutture di area vasta, sulle reti ecologiche, per polarità, sui percorsi della nuova urbanità. Parole chiave Città in estensione, margini, area vasta.
* Professore ordinario di Urbanistica, Politecnico di Milano.
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IL SOGGETTO URBANO DELLA CONTEMPORANEITÀ Il fenomeno della crescita e delle trasformazioni della città affonda le sue radici in tempi lontani. Da sempre, infatti, la città nelle sue diverse accezioni di città fortezza, di città porto, di città fabbrica e di città metropolitana, è un luogo di grande attrattività perché è fattore di innovazione e occasione di promozione sociale. Anche oggi, infatti, nonostante sembrasse avviata verso un declino inarrestabile a causa della perdita di attività e di popolazione, la città è ritornata ad essere riconosciuta come matrice di sviluppo. Tuttavia il soggetto con cui dobbiamo confrontarci non è più né la città storica del passato, né la città compatta tramandataci dalle grandi trasformazioni dell’Ottocento e nemmeno la città moderna della fase industriale. La città di oggi coincide con grandi estensioni di territori urbanizzati, ovvero con regioni metropolitane dove abita, lavora e vive la maggioranza della popolazione mondiale: l’ottanta percento nel caso delle grandi regioni urbane del mondo occidentale, più del cinquanta percento come valore medio esteso agli abitanti dell’intero pianeta. Se nell’antichità il termine metropoli veniva attribuito alle città madri generatrici di colonie (Atene) e alle grandi aggregazioni di etnie diverse (Babilonia), oggi le metropoli sono associate, da un lato, alle dimensioni multimilionarie delle grandi città dei paesi del sudamerica e dell’est asiatico, dall’altro alla qualità insediativa e alla presenza di attività strategiche delle storiche capitali europee e di alcune città statunitensi. Questo tipo urbano è la città in estensione, un attributo che rinvia a un processo di crescita in continua espansione e che si può comprendere nel suo insieme se lo si osserva dall’alto da dove si possono cogliere i suoi connotati distintivi: quelli di una frammentarietà, costituita da episodi di dispersione e di densificazione e da una costante accelerazione delle relazioni oltre ai confini regionali e della mobilità interna. I caratteri morfologici della città in estensione si possono descrivere attraverso una sequenza di vuoti e di pieni, di porzione urbane conservate e riqualificate e di situazioni di marginalità, di luoghi densi di urbanità e di volumi e ritagli di spazi abbandonati o dismessi. Tuttavia in questo tipo urbano non solo vive la maggior parte della popolazione, ma è qui che si forma e immagina il proprio domani la popolazione più giovane del pianeta. Nella città in estensione sono in atto profonde trasformazioni favorite dalla diffusione dell’informatizzazione e delle comunicazioni che ridisegna anche i rapporti di gerarchia tra i luoghi urbani e che introduce la sperimentazione di nuovi modelli di attività, di nuove pratiche sociali e di nuove forme di urbanità. E’ con questo tipo urbano che oggi si devono misurare gli strumenti della progettazione. I temi su cui focalizzare l’attenzione sono, da un lato, il sistema dei servizi e la struttura dello spazio pubblico, dall’altro un nuovo paesaggio di città basato su un rapporto di equilibrio con gli spazi verdi aperti della campagna urbana.
I TIPI URBANI DELLA CITTÀ IN ESTENSIONE E GLI STRUMENTI DI PIANO La città in estensione assume connotati diversi in rapporto ai tempi e ai contesti in cui è cresciuta e si è formata. Alcune immagini ci restituiscono queste differenze in modo estremamente diretto ed immediato. Sono le immagini che riportano: - il processo della crescita di città come Londra e Milano avvenuta nel corso di più di un secolo (figure 1, 2); - i frammenti di porzioni significative di alcune megalopoli cresciute secondo modelli diversi da quelli occidentali e in intervalli di tempo molto brevi e più recenti (figure 3, 4).
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Figura 1. Londra, il processo di urbanizzazione dal 1840 al 1929.
Figura 2. L’asse di Sesto San Giovanni-Monza nel 1880; nel 1914 con i primi insediamenti industriali; nel 1963 con la grande Y industriale, nel 1950-60 l’area metropolitana con l’espansione insediativa in cui rimane evidente il sistema industriale tra Milano e Sesto San Giovanni dove tra il 1890 e il 2000 si avvia, con il progetto Bicocca, il primo processo di riqualificazione di una grande area industriale dismessa.
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Figura 3. Banlieu des Anges. Miriadi e miriadi di quadrati lanciati nello spazio. Figura 4. Caracas, Venezuela, vista aerea.
La prospettiva è la concentrazione insediativa in alcune parti del pianeta secondo un processo di polarizzazione che sembra destinato a travolgere ogni ipotesi di possibile riequilibrio: l’accelerazione di questo processo è tale che, riprendendo Marc Augè, il rischio è che la nostra “storia futura non produrrà più rovine” perché “non ne ha tempo”. I tradizionali modelli di controllo della crescita urbana si trovano in difficoltà di fronte alla espansione delle grandi aree metropolitane e ai recenti temi di riqualificazione urbana. La loro inefficacia è stata evidenziata da tempo anche con l’anticipazione provocatoria di denunce documentate con immagini molto eloquenti.
Figura 5. La tela del ragno: crescita controllata. Figura 6. Raymond Unwin, diagramma di Londra con i suburbi e le città satellite.
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Figura 7. No-Stop-City,1969-70, Archizoom associati. Figura 8. Aldo di Domenico, “l’avanzare del possibile” disegno riferito all’estrema periferia di Roma.
I PROGETTI PER LA CITTÀ IN ESTENSIONE D’altra parte da tempo gli strumenti di governo della crescita urbana e della qualità dello sviluppo degli insediamenti territoriali sperimentano alcune pratiche di progetto che si possono distinguere in cinque diversi approcci tra loro complementari. 1. Lavorare sui margini Dalla prima ipotesi di green belt proposta nel 1943 da Patrick Abercrombie per attribuire un confine riconoscibile alla città di Londra, l’utilizzo della cintura verde è stata adottata da più città con programmi e soluzioni complesse e multifunzionali come nel caso delle proposte per la Regione dell’Ile de France. Più mirate sono le soluzioni di rimarginatura dei margini urbani avviate dal movimento New Urbanism con i progetti di crescita controllate per alcune città statunitensi e riprese, di recente, anche nei progetti di piano per alcune città italiane.
Figura 9. Atelier Parisien d’Urbanisme, Institut d’Aménagement et d’Urbanisme de la Region Ile-De-France, documento di sintesi delle analisi sulla corona, 1988.
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Figura 10. Pavia, PRG Cagnardi-Gregotti, 2000, la rimarginatura della città, i quartieri Est (particolare).
2. Lavorare sulle strutture di area vasta Sempre più di frequente la possibilità di poter intervenire con una certa efficacia sui singoli fatti urbani impone la necessità di dotarsi di una visione di più ampia scala soprattutto per quanto riguarda le infrastrutture strategiche a sostegno della mobilità e della qualità ambientale. Esemplare ancora una volta è il programma di sviluppo per l’area parigina; i progetti di valorizzazione dei sistemi ambientali e della rete ecologica nel caso del Piano Territoriale di Coordinamento per la Provincia di Lodi e nel caso del sistema museale per la provincia di Mantova. 3. Lavorare sulle reti ecologiche Con lo sviluppo dell’attenzione ai temi ambientali la programmazione di area vasta ha approfondito più di un progetto di rete ecologica che assume connotazioni e funzioni diverse: - nelle aree fortemente urbanizzate quelle di salvaguardia delle aree libere contro il rischio di saldatura tra i tessuti insediativi; - nelle aree prevalentemente agricole quelle di tutela della risorsa suolo e dei manufatti della cultura materiale; - nelle situazioni di rischio naturale e/o di contiguità a fonti di rischio tecnologico quella di salvaguardia attiva della popolazione residente oltre che della attività e dei beni patrimoniali presenti. In generale sono programmi che contengono interventi su più versanti con un carattere dove, da un lato, possono prevalere le funzioni di tutela, dall’altro, quelle di un progetto integrato tra i fattori ecologici e le permanenze storico-culturali.
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Figura 11. PTCP di Lodi (approvazione luglio 2005) – Estratto della tavola “Progetti di rilevanza sovralocale: sistema fisico naturale e paesistico”; in questo estratto si evidenzia la densità dei temi proposti in corrispondenza del capoluogo provinciale.
Figura 12. Quadro della progettualità prevista nei comuni. Il progetto, per radicare localmente il sistema degli interventi, deve prevedere che i Comuni partecipino alla definizione di strategie e siano in grado di svolgere un ruolo attivo condividendo le azioni e i progetti.
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4. Lavorare per polarità Nelle maggiori aree metropolitane la dispersione insediativa è affrontata con lo strumento dei programmi di riqualificazione urbanistica; sono progetti focalizzati su aree specifiche da bonificare e da ridisegnare sia per quanto riguarda i tracciati delle infrastrutture che per quanto attiene le funzioni da localizzare e la forma degli insediamenti. In questo senso, l’obiettivo è di “fertilizzare” le più recenti espansioni della città con una rete di nuove polarità urbane
Figura 13. Foglio 11, Sistemi e regole, Comune di Roma, Dipartimento Politiche e Territorio, Ufficio Nuovo Piano Regolatore, Luglio 2000, Direttore Prof. Arch. Maurizio Marcelloni. E’ l’estratto di una tavola del Piano Regolatore di Roma, adottato nel 2003 e approvato nel 2006, con l’indicazione di uno dei luoghi dove è prevista la realizzazione di una centralità urbana. Figura 14. Schemi contenuti nel documento Towards an Urban Renaissance del 1999. Gli insediamenti devono essere disegnati come nodi di una rete verde di connessione tra le aree residenziali, gli open space pubblici e i corridoi naturali con un diretto accesso alla campagna. Da una situazione attuale, fatta di brani verdi isolati si può arrivare a una rete che interconnetta le aree residenziali con gli open space pubblici e con i corridoi naturali di accesso alla campagna.
5. Lavorare sui percorsi della nuova urbanità Un ulteriore fronte di progettazione riguarda la dimensione della città pubblica, quella struttura di percorsi e di spazi di uso pubblico la cui qualità e continuità sono l’indicatore più rappresentativo della stessa qualità della città e che, oggi, deve assumere forme, contenuti e funzioni più consone al paesaggio della nuova forma urbana della città in estensione. Anche in questo caso gli approcci e le esperienze di progetto assumono connotazioni diverse: - quelle di un percorso verde alternativo di valorizzazione degli spazi aperti attraverso la cura dei luoghi naturali e coltivati e l’integrazione dello stesso percorso con quelli della mobilità urbana lenta; - quella della realizzazione di nuovi corridoi di urbanità con le funzioni di separazione in diversi comparti dell’area da bonificare e di connessione tra l’area urbana e la progressiva rimessa in gioco delle diverse aree bonificate e valorizzate con l’insediamento di nuove attività; - quella della messa in rete di un sistema di nuove polarità urbane attraverso un piano di servizi che integri gli investimenti nei percorsi urbani su gomma e di mobilità alternativa con la densificazione della residenza e delle attività di più servizi.
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Figura 15. Mantova, la struttura della città pubblica (particolare).
Figura 16. Un corridoio di nuova urbanità, Strategie per la riqualificazione multifunzionale dell’area industriale di Porto Torres.
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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Per uno sviluppo dei temi trattati nell’articolo si veda il testo: TREU MARIA CRISTINA, PALAZZO DANILO, Margini: descrizioni, strategie, progetti, Alinea, Firenze, 2006.
RIFERIMENTI ICONOGRAFICI Figura 1: KOOS BOSMA, HELLINGA HELMA, Mastering the city: North European city planning 1900-2000, The Ague EFL, Rotterdam 1997. Figura 2: SECCHI BERNARDO (a cura di), Progetto Bicocca: invito alla progettazione urbanistica e architettonica di un centro tecnologico integrato, Pirelli, Milano 1984. Figura 3: JELLICOE GEOFFREY ALAN, L’Architettura del Paesaggio, Edizioni di Comunità, Milano 1982. Figura 4: “Quaderns d’arquitectura i urbaniste”, n. 228, Col.legi Oficial d'Arquitectes de Catalunya, Barcellona, 2001. Figura 5: ABERCROMBIE PATRICK, Pianificazione urbana e del territorio, edizione italiana a cura di Mario Fosso, Unicopli, Milano 2001. Figura 6: UNWIN RAYMOND, La pratica della progettazione urbana, Il Saggiatore, Milano 1995. Figura 7: “Domus”, n. 878, Febbraio, Editoriale Domus, Milano 2005. Figura 8: SICHIENZE ARMANDO, Il limite e la città: la qualità del minimum urbano sul limite dell’edificio dalla Grecia antica al tempo della metropoli, Franco Angeli, Milano 1995. Figura 9: “Casabella”, n. 553-554, Gennaio-Febbraio, Editoriale Domus, Milano 1989. Figura 10: “Urbanistica”, n. 115, Luglio-Dicembre, INU Edizioni, Roma 2000. Figura 11: Documento di piano PTCP di Lodi. Figura 12: GHITTI ERIKA, MAZZALI MARTINA, MUDU ALESSANDRA, Tesi di Laurea “Centri per l’interpretazione, contenitori di percezioni. Dal sistema museale allo sviluppo di una rete di itinerari del patrimonio culturale per promuovere un turismo sostenibile nel territorio” relatore Arch. Carlo Peraboni. Figura 13: “Urbanistica”, n. 116, Gennaio-Giugno, INU Edizioni, Roma 2001. Figura 14: NUCCI LUCIA, Reti verdi e disegno della città contemporanea, Gangemi Editore, Roma 2004. Figura 15: Piano dei Servizi per la città di Mantova, approvazione settembre 2004. Figura 16: Scuola Estiva Internazionale sul progetto ambientale, Università di Sassari, Facoltà di Architettura, 2004, Un corridoio di nuova urbanità, Strategie per la riqualificazione multifunzionale dell’area industriale di Porto Torres, coordinamento gruppo di Maria Cristina Treu, Stefano Capolongo, Alessandra Casu.
Testo acquisito dalla redazione della rivista nel mese di novembre 2006. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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RESPONSABILITÀ PROGETTUALE E PAESAGGIO DEI MARGINI URBANI Danilo Palazzo*
Summary The paper deals with the theme of design responsibilities. This paper starts from a description of the role played by architects, landscape architects and urban designers in landscape changes. This role assumes the character of specific responsibility that is different from that played by public officials, or single citizen. A designer, in order to face landscape changes, need to deal consciously with three responsibilities: the species responsibility, the generation responsibility and the competence responsibility. Specie and generation responsibilities force us, as human beings, to balance our actions with the heritages left by who lived before. The competence responsibility drives us, as architects, towards a forced choice and the design authority gives us the expertise to accomplish this duty. The paper is closed by a description of six strategies on urban edges, inspired by designs and project implemented al local level both in Europe an in North-America. Key-words Landscape Design, Urban Edges, Design Responsibility. Abstract Il contributo tratta il tema delle responsabilità progettuali. Si inizia da una descrizione del ruolo giocato da architetti, architetti paesaggisti e progettisti urbani nelle trasformazioni del paesaggio. Questo ruolo assume carattere di specifica responsabilità che è differente da quella giocata da funzionari pubblici o da singoli cittadini. Un progettista, al fine di fronteggiare i cambiamenti del paesaggio, necessita di avere coscientemente a che fare con tre responsabilità: quelle della specie, quella relativa alla propria generazione, quella della competenza professionale. Le responsabilità di specie e di generazione ci forzano, come esseri umani, a bilanciare le nostre azioni con l’eredità lasciata da chi ha vissuto prima di noi. La responsabilità della competenza ci guida, come architetti, verso una scelta obbligata e l’autorità del progetto ci da la competenza di compiere questo compito. Il contributo si conclude con la descrizione di sei strategie sui margini urbani ispirate dai progetti e dalle realizzazioni a livello locale sia in Europa che nel Nord America. Parole chiave Progetto di paesaggio, margini urbani, responsabilità progettuale.
* Professore associato di Urbanistica, Politecnico di Milano.
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TRE RESPONSABILITÀ DELL’AZIONE INTENZIONALE Venti anni fa la terza pagina di un quotidiano nazionale anticipava una visita di Jorge Luis Borges in Italia. Mi colpì una frase, riportata da Marìa Kodama, “amica e accompagnatrice di una vita”, che l’anziano autore dell’Aleph pronunciò di fronte al deserto 1. In uno dei suoi ultimi viaggi, probabilmente quello del 1984 che lo portò in Egitto e in Marocco, Borges, ormai cieco, si trovava ai margini del Sahara, raccolse da terra un po’ di sabbia e dal pugno la fece scivolare così che il vento ne spargesse attorno i granelli. Mentre compiva questo gesto, apparentemente innocuo, infantile e antico insieme, pronunciò quattro semplici parole: “…sto modificando il paesaggio”. Non v’è dubbio che Borges, con la sua azione non casuale, abbia introdotto intenzionalmente una modificazione nel paesaggio. Non v’è neppure dubbio, però, che l’effetto dell’azione fosse una modificazione sostanzialmente e visivamente impercettibile né, ancora, v’è dubbio che la stessa modificazione poteva essere introdotta, con gli stessi effetti, da un breve refolo o da uno leggero zefiro o da uno dei molti passi pesanti di un dromedario. Ma la differenza tra la modificazione introdotta da Borges e quella del vento o del passo di un animale è che la prima, seppur minuta, è voluta, cercata, in qualche modo progettata: è un atto per certi versi creativo. Umano, si potrebbe dire con una sola parola. La stessa modifica introdotta dal vento risponde a leggi naturali e/o, per chi crede, divine, soprannaturali. Lo spostamento della sabbia dovuto al passaggio dell’animale è incidentale e collaterale al movimento indotto da chi lo guida e corrisponde alla sua volontà di spostarsi da una parte all’altra del deserto usando l’animale come vettore, non alla volontà di modificarlo attraverso il passaggio degli zoccoli dell’animale sulla superficie sabbiosa. Se poi, per completare la metafora, il dromedario percorre da solo un tratto di deserto per tornare da dove era venuto (che è caratteristico di questi animali), lo spostamento della sabbia e la conseguente modificazione del paesaggio, si può affermare con una buona dose di certezza, non starà in cima ai suoi pensieri. Borges, pronunciando le quattro parole: “sto modificando il paesaggio” contemporaneamente all’azione dello spargimento dei granelli di sabbia che scivolano dal pugno, ci avverte anche che insieme al tema della responsabilità della nostra, anche se minima, azione nei confronti del paesaggio c’è un’altra questione sulla quale riflettere: la modifica del paesaggio è un’azione cosciente che si consuma a partire dallo stesso momento in cui la si progetta. Borges dichiara la sua intenzione nell’istante in cui l’atto avviene e comunica l’azione quando sta avvenendo, anche per non lasciar dubbi sulla sua volontarietà. Ci dice, insomma, che l’atto di trasformazione va dichiarato (e quindi anche eventualmente accettando un contraddittorio con chi questo atto non lo condivida) e che deve essere un atto saturo di consapevolezza (del motivo per il quale si fa, degli effetti che potrà avere, del proprio ruolo personale nella modifica di un bene comune e delle modifiche di senso che si introducono in un palinsesto: nel “background della coscienza collettiva”, per usare le parole di John Brinckerhoff Jackson2. 1
Marìa Kodama è così chiamata da Domenico Porzio nell’introduzione al volume Meridiani di Mondadori Tutte le opere di Jorge Luis Borges, pubblicato nel 1984. Marìa Kodama divenne moglie dello scrittore argentino due mesi prima della morte avvenuta nel 1986. La ricostruzione dell’epoca e della meta del viaggio è anch’essa affidata alle note di Domenico Porzio. Non ho, infatti, ritrovato l’articolo originale pubblicato, mi pare di ricordare, su La Repubblica. 2 JOHN BRINCKERHOFF JACKSON, Discovering the Vernacular Landscape, Yale University Press, New Haven 1984.
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Le quattro parole di Borges, e l’atto che le accompagna, vanno però interrogati, oltre per ciò che dicono, anche per quello che potrebbe essere il loro risvolto pratico. Se ogni seppur piccola azione modifica il paesaggio (anche un paesaggio in continua trasformazione come un deserto o, poniamo, una città) dobbiamo forse rinunciarvi per tema delle conseguenze? Ci troviamo di fronte a un paradosso che è analogo a quello che deriverebbe dall’applicazione delle conseguenze ultime introdotte dal noto "principio di indeterminazione" di Heisenberg, per cui lo stesso atto del misurare disturba lo stato dell'oggetto osservato. Dovremo smettere di misurare? Dovremmo smettere di svolgere la pur minima azione? Oppure dovremmo considerare l’applicazione al paesaggio dell’altrettanto noto “effetto farfalla”, così vezzosamente chiamato dal meteorologo Edward Lorenz: “il volo capriccioso di una farfalla provoca uno spostamento d'aria che influirà sul tempo, non domani, certo, ma fra un anno”3, a somiglianza di quello che già intuitivamente sostenevano i seguaci di Guglielmo di Occam nel XV secolo: “se si muove una sola mosca tra gli esseri che compongono il mondo, quest'ultimo si arricchisce di un'enormità di modificazioni” o come Leibnitz più tardi: “niente si verifica in una parte qualunque del mondo senza ripercuotersi di fatto su tutte le cose in esso esistenti.”4 Ci arrendiamo dunque all’ineluttabilità delle nostre azioni, oppure vi rinunciamo? Con il paesaggio è sempre così. Ogni passo in avanti che si fa se ne fanno due indietro. Ma non possiamo né abbandonarci all’inevitabilità che ogni azione da noi progettata conduca a una modificazione seppur minima che si manifesterà subito o in futuro, né abiurare al nostro ruolo di trasformatori, di landscape-maker. C’è una terza opzione. Assumercene pienamente la responsabilità, anzi tre: di specie, di generazione, di competenza.
IL PAESAGGIO Per procedere con il ragionamento che ho iniziato devo introdurre una definizione di paesaggio. Decido perciò di adottare quella, per così dire, giuridico-normativa della Convenzione europea del paesaggio che ha fatto dell’accordo terminologico, data la natura istituzionale e transnazionale dell’iniziativa, il suo punto di forza. Per la Convenzione, «Paesaggio» designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”. Di particolare interesse, ai fini di questo scritto, sono anche altre definizioni che compaiono nell’articolo 1 della Convenzione, ovvero quelle di «Salvaguardia dei paesaggi», «Gestione dei paesaggi» e «Pianificazione dei paesaggi» che riporto di seguito, combinate al testo esplicativo contenuto nel commentario della Convenzione (in corsivo per distinguerlo): - «Salvaguardia dei paesaggi» indica le azioni di conservazione e di mantenimento degli aspetti significativi o caratteristici di un paesaggio, giustificate dal suo valore di patrimonio derivante dalla sua configurazione naturale e/o dal tipo d'intervento umano. Essa riguarda i provvedimenti presi allo scopo di preservare il carattere e la qualità di un determinato 3
IVAR EKELAND, Il calcolo. L'imprevisto. Il concetto di tempo da Keplero a Thom, Edizioni di Comunità, Milano 1985. 4 PAOLO ROSSI, “Fortune e sfortune della magia” in La rivista dei libri, n. 3, giugno 1991.
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paesaggio al quale le popolazioni accordano un grande valore, che sia per la sua configurazione naturale o culturale particolare. Tale salvaguardia deve essere attiva ed accompagnata da misure di conservazione per mantenere gli aspetti significativi di un paesaggio; - «Gestione dei paesaggi» indica le azioni volte, in una prospettiva di sviluppo sostenibile, a garantire il governo del paesaggio al fine di orientare e di armonizzare le sue trasformazioni provocate dai processi di sviluppo sociali, economici e ambientali. Essa riguarda i provvedimenti presi conformemente al principio dello sviluppo sostenibile per accompagnare le trasformazioni provocate dalle esigenze economiche, sociali o ambientali. Tali provvedimenti potranno riguardare l'organizzazione dei paesaggi o gli elementi che li compongono. Mirano a garantire la cura costante di un paesaggio e a vigilare affinché evolva in modo armonioso, allo scopo di soddisfare i fabbisogni economici e sociali. La gestione dovrà essere dinamica e dovrà tendere a migliorare la qualità dei paesaggi in funzione delle aspirazioni delle popolazioni; - «Pianificazione dei paesaggi» indica le azioni fortemente lungimiranti, volte alla valorizzazione, al ripristino o alla creazione di paesaggi. La pianificazione dei paesaggi riguarda il processo formale di studio, di progettazione e di costruzione mediante il quale vengono creati nuovi paesaggi per soddisfare le aspirazioni della popolazione interessata. Occorre elaborare autentici progetti di pianificazione, soprattutto nelle aree maggiormente colpite dal cambiamento e fortemente deteriorate (periferie, zone periurbane ed industriali, litorali). Tali progetti di pianificazione si pongono come obiettivo la radicale ristrutturazione dei paesaggi degradati. In ogni zona paesaggistica, continua la Convenzione, l'equilibrio tra questi tre tipi di attività dipenderà dal carattere della zona e dagli obiettivi definiti per il suo futuro paesaggio. Certe zone possono richiedere una protezione molto rigorosa. Invece, possono esserci delle zone il cui paesaggio estremamente rovinato richiede di essere completamente ristrutturato. Per la maggior parte dei paesaggi si rende necessario l'insieme delle tre tipologie di intervento, mentre altri richiedono uno specifico grado di intervento. Nella ricerca di un buon equilibrio tra la protezione, la gestione e la pianificazione di un paesaggio, occorre ricordare che non si cerca di preservare o di congelare dei paesaggi a un determinato stadio della loro lunga evoluzione. I paesaggi hanno sempre subito mutamenti e continueranno a cambiare, sia per effetto dei processi naturali, che dell'azione dell'uomo. In realtà, prosegue la Convenzione, l'obiettivo da perseguire dovrebbe essere quello di accompagnare i cambiamenti futuri riconoscendo la grande diversità e la qualità dei paesaggi che abbiamo ereditato dal passato, sforzandoci di preservare, o ancor meglio, di arricchire tale diversità e tale qualità invece di lasciarle andare in rovina. La pianificazione dei paesaggi - ci ricorda la Convenzione, alla quale va il giusto rispetto che deve essere accordato a un documento approvato da un ampio consesso internazionale che ci rappresenta tutti - riguarda il processo formale di studio, di progettazione e di costruzione mediante il quale sono creati nuovi paesaggi per soddisfare le aspirazioni della popolazione interessata. Quindi, l’atto del sollevare la sabbia per modificare il paesaggio, e quindi fuor di metafora, l’atto progettuale all’interno di un paesaggio, su un paesaggio o per costruire un nuovo paesaggio, è non solo ammesso ma anche promosso dalla Convenzione.
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COSTRUIRE IL PAESAGGIO L’uomo, per sua natura, trasforma i luoghi. L’uomo è “un demiurgo creatore di luoghi che gli appartengono. Sono paesaggi, risultato di un’arte creatrice di una realtà connessa all’agire dell’individuo all’interno della sua comunità, che rientra nella sfera del mondo possibile secondo le scelte compiute. L’attività creativa trasforma il suolo attraverso la materia data dalla stessa natura […] l’uomo diventa artista rispetto alla natura quando l’accetta come «grande realtà presente».”5 “La protezione dell’ambiente […] non è di per sé stessa protezione del paesaggio, e la protezione del paesaggio in senso estetico richiede la consapevolezza del carattere culturale, storico di ogni paesaggio, ragione per cui non può essere pensata in meri termini di conservazione, ma deve contenere in sé anche una dimensione di progettualità.”6 Che il paesaggio possa essere trasformato (attraverso un atto creativo, progettuale) è ormai un dato riconosciuto anche dai cultori delle discipline estetiche quali sono, per esempio, Massimo Venturi Ferriolo e Paolo D’Angelo dai cui testi ho estratto le precedenti citazioni. Sembra di scorgere, nell’atteggiamento dei questi studiosi di estetica, un’apertura al ruolo e alla responsabilità dell’uomo contemporaneo. Sembra anche di riconoscere un’inversione di rotta rispetto alle condanne e al pessimismo, che si leggono, per esempio, in Rosario Assunto: “…il mondo vuole ora rivestirsi come di pustole disseccate: una ruvida crosta di asfalto, cemento, profilati metallici inquadranti pannelli di vetro oscurato, dietro i quali gli uomini-macchina e le donne-macchina ciberneticamente collaborano con altre macchine in assoluta reciproca parità, disciplinata dalla teoria della informazione.”7 Anche se la visione tragica e funesta - alla Blade Runner - di Assunto è la reazione agli insulti che il paesaggio costruito nel corso dei secoli dagli uomini del passato è cancellato o fortemente modificato dall’uomo del presente, il messaggio che filtra (e che in qualche modo si è materializzato in qualche iniziativa regionale fortemente conservatrice, nel senso più reazionario che si può attribuire al termine) è quello di guardare al passato come fonte sistematica di riferimento, spesso senza metterne in dubbio il valore, che pare essere intrinseco più nella loro vetustà che nella loro sostanza architettonica, urbanistica o storicopaesaggistica. È un messaggio che, scendendo più in dettaglio, alcune soprintendenze hanno interpretato portandolo alle estreme conseguenze, trasformando il proprio ufficio in una crociata contro il mutamento, un messaggio che ha portato verso sospensioni delle trasformazioni (“congelamento” lo chiama la Convenzione nella relazione esplicativa, par. 42) di parti di città e del paesaggio spesso per paura e scarsa capacità di esercitare le proprie responsabilità di specie, di generazione, di competenza. Dobbiamo convivere con queste responsabilità e rinnovarne il significato, proiettandole all’oggi e alle acquisizioni tecnico-scientifiche di cui disponiamo. La responsabilità di specie ci obbliga a confrontarci con il ruolo dominante che noi, esseri umani, abbiamo nei confronti della terra8. La responsabilità di specie non ci consente di utilizzare le forme più fondamentaliste dell’ecologismo per rinunciare al nostro ruolo. Le nostre azioni, nel corso dei secoli, hanno portato all’estinzione di specie animali e vegetali, alla distruzione di interi ambienti, nonché alla morte di altri esseri umani nelle catastrofi che abbiamo prodotto o sollecitato incoscientemente (o coscientemente). Siamo, d’altronde, sempre noi i componenti di quella stessa specie che aiuta il ripopolamento e la rivalorizzazione degli ambienti naturali degradati, che ha progettato e realizzato luoghi di 5
MASSIMO VENTURI FERRIOLO, Etiche del paesaggio. Il progetto del mondo umano, Editori Riuniti, Roma 2002. PAOLO D’ANGELO, Estetica della natura, Laterza, Roma-Bari 2001. 7 ROSARIO ASSUNTO, La città di Anfione e la città di Prometeo, Jaca Book, Milano 1983. 8 La responsabilità di specie può anche essere letta da un punto di vista religioso. Nel Vecchio Testamento c’è il comandamento Replete Terram, ripetuto due volte nella Genesi (Gen. 1, 28 per indicare il comandamento divino all’uomo di popolare la terra, e Gen. 9, 1 laddove Dio dà le sue istruzioni a Noè). Replete Terram è citato da Ildefonso Cerdà nel frontespizio della sua Teoria generale dell’urbanizzazione pubblicata nel 1867: “indipendenza dell’individuo nell’abitazione, indipendenza dell’abitazione nell’urbe, indipendenza dei movimenti nelle vie urbane. Ruralizzate l’urbano, urbanizzate la campagna… Replete Terram (Cerdà, 1984, p. 69). Ruralizar la vida urbana, urbanizar el campo diventerà anche il motto preferito di Arturo Soria y Mata (Collins, 1968). 6
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straordinaria bellezza. La responsabilità di specie ci obbliga a porci di fronte al dualismo, alla schizofrenia, al comportamento bi-polare degli esseri umani, non per scegliere da che parte stare (sarebbe troppo facile rispondere, a questo punto) ma almeno per prendere coscienza che le nostre azioni saranno giudicate come appartenenti più all’uno che all’altro lato dell’ampio spettro di comportamenti degli esseri umani. Dobbiamo essere in grado di rinunciare sia all’arroganza sia alla codardia che questa responsabilità comporta. Per dirla brutalmente siamo in cima alla catena alimentare e dobbiamo convivere con questa condizione, ciò che certamente non possiamo decidere è di cambiare posizione o di nasconderci aspettando che passi il nostro tempo. Non possiamo farlo perché siamo responsabili nei confronti del passato e del futuro e non possiamo farlo perché abbiamo scelto una professione che ce lo impedisce. La responsabilità di generazione ci costringe a metterci in relazione con ciò che abbiamo ereditato e a porci il problema di cosa lasceremo. Se leggiamo la nota definizione di sviluppo sostenibile della Commissione Bruntland9: “una forma di sviluppo che consenta il soddisfacimento dei bisogni attuali senza compromettere quelli delle generazioni future”, la possiamo interpretare come strategia alla quale riferirsi nelle attività di intervento sul territorio qualunque sia la scala. La sostenibilità può essere intesa come insieme di pratiche che orientano il processo di trasformazione e di valorizzazione del territorio e delle risorse. Nei termini che qui sto affrontando sviluppo sostenibile va inteso come “alleanza tra generazioni”. Si riconoscono i contributi delle generazioni passate, si difende il ruolo di quella attuale nell’individuare le forme di sviluppo che rispettino il patrimonio storico-culturale esistente e non compromettano lo sviluppo delle future generazioni. Lo sviluppo sostenibile è agire progettualmente per valorizzare le risorse esistenti. La responsabilità di competenza (o di progetto) è quella che chiama in causa gli operatori che agiscono sul territorio e sul paesaggio con autorità di progetto. Architetti, architetti del paesaggio, urbanisti, progettisti urbani più di altri professionisti e a differenza di altri attori che hanno a che fare con il territorio (dagli amministratori pubblici e privati, ai proprietari, ai cittadini - insomma coloro che sollevano la sabbia a vario titolo) dispongono delle capacità di reificare l’intenzionalità creativa combinandola con le proprie conoscenze scientifiche e di governo del processo. Anche questa responsabilità richiede che siano fatte delle scelte. Sono scelte relative alla formazione che si intende conseguire, all’aggiornamento degli strumenti che si hanno a disposizione, alla collaborazione con esperti di altre discipline, agli approcci che si intendono adottare in corso di processo, alla posizione e al ruolo che si intende proporre di sé stessi e della propria competenza rispetto agli attori politici, professionali e sociali che fanno parte a vario titolo del processo nel quale si è chiamati a svolgere la propria autorità. Le tre responsabilità, qui abbozzate, trovano fondamento in un’ampia letteratura e in molte esperienze 10. Queste responsabilità devono rinnovare la nostra capacità progettuale. Dipende 9
La Commissione Mondiale per l'Ambiente e lo Sviluppo, incaricata di stendere un rapporto sulle tematiche ambientali, termina i suoi lavori nel 1987 e presenta Our common future, noto anche come Rapporto Bruntland, dal Presidente, Gro Harlem Bruntland, ex primo ministro norvegese. 10 Ci solo autori e testi che rappresentano, per chi scrive, i fondamenti di riferimento di questa riflessione. Gli autori e i testi che citerò, operando tanto delle inevitabili semplificazioni, quanto delle fatali omissioni, hanno fatto derivare molteplici direttrici di studio e di approfondimento che lascio al lettore di completare. Non credo, d’altronde, sia possibile distinguere in modo preciso il contributo che i testi e gli autori hanno portato a ciascuna delle tre responsabilità giacché le vedo, e le interpreto, come una sola responsabilità articolata, per semplicità argomentativa, in tre. Un importante contributo è provenuto dal biologo statunitense Aldo Leopold che definì, negli anni Quaranta del XX secolo, un’etica della terra che si nutriva della critica a un’interpretazione stretta e rigida della Bibbia (Leopold, 1949) che a sua volta si alimentava della lezione di George Perkins Marsh e dei suoi scritti (in particolare Man and Nature del 1864). Gifford Pinchot, il forestale primo direttore dell’U.S. Forest Service ha mostrato come la nostra responsabilità di specie debba pragmaticamente sposarsi con quella dello sviluppo, trovando la saggezza (scientifica e professionale) nei modi per gestire l’uso delle risorse naturali, se non vuole rifugiarsi nelle poetiche di Henry David Thoureau o nel ricercato isolamento di John Muir. Compiendo un salto temporale di qualche decennio si può riconoscere a Ian McHarg di avere sintetizzato in Design with Nature del 1969, una straordinaria capacità di osservatore dei mutamenti e dei processi naturali con una raffinata cultura
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da noi convincere anche i più pietrificati e polverosi fautori del “congelamento” che l’uomo contemporaneo è portatore, alla pari di quelli che l’hanno preceduto, di un compito di custodia e di miglioramento del mondo. C’è una parola inglese che bene racchiude questo ruolo, questa responsabilità: stewardship. Stewardship è l’attività del buon pastore, del buon
del processo progettuale e dell’affermazione dell’autorità di progetto che si era già manifestata con straordinaria capacità nei molti lavori di Frederick Law Olmsted (Palazzo, 1997). In Italia, tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso, si possono riconoscere alcuni contributi alla modellazione del concetto di responsabilità. Di rilievo, almeno a livello teorico, fu la mozione finale del Congresso INU del 1957 che, a firma di Gori, Isotta, Michelucci, Ricci, Savioli, afferma che la città e il paesaggio: “sono entità vive e mutevoli dove l’uomo deve operare in continuità accettando anche il rischio di distruggere ciò che non fa più parte del nostro corpo vivente perché tenerlo falsamente in piedi è un insulto alla cosa in sé e all’intelligenza dell’uomo” (Aa.Vv., 1958, p. 534). Un’affermazione forte e coraggiosa che già stabiliva un ruolo e delle responsabilità per architetti e urbanisti. I contributi di Giovanni Astengo alla Commissione Franceschini, istituita con la L. 310 del 26.4.1964 e insediatasi l’11 novembre dello stesso anno con lo scopo di formulare “una proposta di legge intesa a destinare fondi speciali per salvaguardare dall’attuale abbandono il patrimonio artistico e culturale italiano” vanno nello stesso senso, in particolare laddove pone l’attenzione sul paesaggio umanizzato, meritevole di essere salvaguardato per le proprie testimonianze storiche, ma che deve anche poter essere trasformato per divenire testimonianza di una nuova civiltà. Occorre, scrive Astengo nel saggio Tutela e valorizzazione dei beni culturali ambientali (in Aa.Vv., 1967), con il quale contribuisce ai lavori della Commissione: “accostarsi al paesaggio non come a un «quadro naturale» immobile, da contemplare con distacco da lontano, dai «punti di vista o belvedere», secondo canoni pittorici che sono i presupposti culturali della L. 1497, ma per un’intima comprensione di strutture e di forme che consenta un’interpretazione storica e geografica globale, in una parola, urbanistica della complessa realtà culturale, di cui strutture e forme del paesaggio umanizzato sono espressione” (Aa.Vv., 1967, p. 451). I singoli accorgimenti vincolistici risulteranno, continua Astengo, perciò sempre meno efficaci di un “dispositivo” che crei uno “stato generale di consapevoli rapporti tra tutte le parti interessate allo sviluppo” e che studi preventivamente “l’equilibrio fra trasformazioni e ambiente”. Questo dispositivo - insostituibile – cui Astengo accenna continuamente nel testo, è il Piano (Astengo lo scrive con la maiuscola), capace di “inquadrare in una visione unitaria e finalizzata tutti gli eterogenei provvedimenti che con diversi intenti si rendono necessari per attuare una scelta razionale di sviluppo socio-economico e conseguentemente la correlativa disciplinata trasformazione del territorio” (Aa.Vv., 1967, p. 493). Ludovico Quaroni nel 1962, al IX Congresso INU, presenta una relazione dal titolo Metodologia del coordinamento interdisciplinare. Nel testo Quaroni si domanda quali siano le competenze disciplinari con le quali l’architettourbanista e quale il suo ruolo nella pianificazione territoriale e, più in generale nella società: “deve, quest’architetto-urbanista, diventare economista e sociologo, esperto di statistica e di ricerca operativa, di inchieste e di matematiche speciali o deve mantenere l’attuale sua approssimazione scientifica, e mettere invece in azione le sue qualità specifiche di osservatore, di seduttore, di interprete, di fantastico creatore di una realtà a venire, attraverso l’immaginazione, l’intuito, per quello che veramente chiede la società in cui vive, per ottenere un ambiente migliore di vita, un clima migliore di vita,una speranza più solida, più forte? Io credo che l’architetto-urbanista dovrà […] trovare il modo di essere l’una e l’altra cosa […]. Ma l’urbanista-architetto dovrà anche cercare di ritornare, ormai sicuro di aver posto in buone mani le basi del proprio lavoro morale e professionale, al suo naturale campo di azione: il disegno, inteso il termine nel senso antico e anglosassone della parola […] ma deve anche, se non soprattutto, considerare, senza complessi di superiorità o di inferiorità, la importanza, per quella stessa società, del suo lavoro di progettista, di «designer», di «inventore» di situazione e di soluzioni.” (p. XXXI). Qualche anno dopo, nel 1967, tornerà sul tema nello scritto Necessità e possibilità del controllo della forma da parte dell’architetto, dove parla di “diritto alla progettazione” per gli architetti e gli urbanisti. Più prossimi, temporalmente, nella fondazione dei principi di responsabilità sono stati altri contributi. Il testo introduttivo di Guido Ferrara al suo Risorse del territorio e politica di piano del 1976 combinava la fertile collaborazione e vicinanza intellettuale con autori statunitensi, britannici e olandesi e con ciò che si stava organizzando a livello europeo con la pubblicazione delle rivista Landscape Planning e Parametro e con i lavori della Landscape Planning Commission della metà degli anni Sessanta, con la necessità di sfidare il sonno profondo nel quale giaceva la pianificazione del paesaggio in Italia. Di rilevante importanza per la ridefinizione del ruolo dei contributi disciplinari e della necessità della collaborazione combinata ai progetti di trasformazione è stata l’estesa esperienza dei piani paesistici ex-lege Galasso che dal 1985 hanno fornito, oltre al laboratorio per la sperimentazione di prassi multi e (in qualche occasione) inter-disciplinari, anche le occasioni per un’elaborazione genuinamente nostrana della pianificazione ecologica quale si riconosce nei lavori e nelle riflessioni di Giovani Maciocco, Roberto Gambino e Alberto Magnaghi. Valerio Giacomini ha incarnato la capacità di collaborazione interdisciplinare e ne ha dimostrato l’efficacia (vedi le schede dei parchi del Pollino, Alto Garda Bresciano, monti della Tolfa e Alpi Liguri e la composizione dei gruppi di lavoro in Giacomini e Romani, 1986). Maria Cristina Treu, nella post-fazione della seconda edizione italiana di Costruire il paesaggio di Frederick Steiner (2004), ha operato una rassegna delle tecniche e delle elaborazioni metodologiche e cartografiche che hanno contraddistinto il suo lavoro sul campo segnato dall’aspirazione di unire esigenze di tutela, di conservazione attiva e ambizioni di sviluppo del territorio e dei suoi attori.
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gestore, dell’agricoltore che non manda in rovina il proprio raccolto, ma che anzi migliora, di anno in anno, la produttività del proprio campo. Stewardship è l’insieme di azioni che consentono di attuare la sostenibilità, di utilizzare le risorse per i bisogni attuali senza dimenticare quelli delle future generazioni, di progettare il presente. Stewardship non è inazione, non è stare seduti su un masso guardando le proprie greggi che si dirigono verso il precipizio, è progettare steccati, ma anche trovare e costruire nuovi pascoli. Stewardship è responsabilità attiva, progettualità consapevole, è una filosofia della responsabilità alla quale dobbiamo portare il nostro contributo di soggetti agenti nel territorio, nel paesaggio e nella natura che deve esprimere il superamento sia dell’idea di dominio sia quella di sottomissione. Il progetto del paesaggio, pur minimo (in senso borgesiano), deve essere insieme un’epifania della sostenibilità e una manifestazione della nostra abilità progettuale, della nostra capacità di segnare il paesaggio arricchendolo di un senso che è riconoscibilmente quello della generazione che rappresentiamo.
UN’APPLICAZIONE Ci sono ancora spazi nei quali esercitare la nostra responsabilità di competenza? E, se si, quali sono quelli da privilegiare? La Convenzione Europea del Paesaggio all’articolo 1 definisce, come già ricordato precedentemente, la pianificazione del paesaggio quale uno dei “tre principi di azione sul paesaggio previsti in modo dinamico e prospettivo” (comma 1, articolo 40 della relazione esplicativa): salvaguardia, gestione e, appunto, pianificazione. La pianificazione è l’azione più dichiaratamente progettuale delle tre che, secondo la relazione esplicativa, dovrebbe soprattutto applicarsi alle “aree maggiormente colpite dal cambiamento e fortemente deteriorate (periferie, zone periurbane ed industriali, litorali)”. Queste aree sono, a vario titolo, gli spazi dei margini, sui quali possiamo investire le nostre responsabilità. In particolare le periferie e le zone periurbane sono i luoghi dove, almeno in Europa, si metteranno alla prova le nostre capacità di specie, di generazione e di competenza. I margini urbani, e i paesaggi che hanno generato, in particolare, hanno ormai assorbito la crescita urbana e sono candidati a diventare i luoghi privilegiati della crescita/trasformazione al proprio interno, del recupero delle aree abbandonate dalle funzioni industriali, del miglioramento delle condizioni di vita e dell’innalzamento del benessere attraverso una maggiore diffusione dei servizi e del miglioramento estetico della città. Muoversi progettualmente dentro al tema dei margini vuol dire investirli di una riflessione che sarà, per forza di cose, locale ma che non può prescindere dall’essere, almeno inizialmente, generale11. In una recente pubblicazione12 ho proposto di affrontare il tema del progetto dei margini attraverso sei strategie che offrono spunti di natura propositiva di carattere generale e disegnano quadri di opportunità di intervento da approfondire localmente. Le sei strategie, che qui descriverò sinteticamente, sono le seguenti: I. Attraversamento. II. Ruolo. III. Densità. IV. Disegno. V. Cintura. VI. Attesa13. 11
Richard Ingersoll (2001) mette in evidenza non solo che i modelli di margini siano diversi tra gli Stati Uniti e l’Europa e l’Italia ma anche all’interno dello stesso territorio nazionale questi possano presentarsi con caratteristiche differenti da città a città. 12 DANILO PALAZZO, “5+1 strategie per i margini urbani” in MARIA CRISTINA TREU, DANILO PALAZZO (a cura di), Margini e bordi, Alinea, Firenze 2006.
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I. Attraversamento La strategia dell’attraversamento consiste nel riconoscimento e nell’esaltazione progettuale della porosità e della frammentazione del margine. Porosità e frammentazione diventano l’opportunità per mettere in collegamento risorse di diversa natura sfruttando gli spazi vuoti o abbandonati e mettendo in gioco gli elementi lineari come luoghi di passaggio e di spostamento. Mettere in azione una strategia di attraversamento vuol dire disporre a sistema linee e superfici che compongono il paesaggio di margine per costruire luoghi il cui obiettivo è quello di soddisfare sia processi dinamici di spostamento tra varie parti del territorio urbano ed extraurbano, sia per rispondere a esigenze di stanzialità, siano esse di carattere temporaneo - legate per esempio allo svolgimento di attività ricreative - che di carattere permanente, come quelle legate alla residenza o alla polarizzazione di servizi di quartiere. Un progetto di margine che assuma l’attraversamento come strategia di approccio individua nel territorio le risorse da collegare, sia di natura puntuale e di pregio (un centro storico, un nucleo di servizi, aree rurali ancora in attività, elementi naturali di pregio), sia spazi sostanzialmente privi di valore se visti singolarmente, ma che possono, a una scala più minuta, partecipare al sistema che si sta definendo (aree dismesse, open space abbandonati, vacant land, suoli in trasformazione o destinati a trasformazioni previste dal piano ma non ancora attuate), sia la rete di elementi lineari che agiscano da tramite tra le varie parti del territorio urbano che si intendono comprendere nel progetto (strade, sentieri, piste ciclabili, corsi d’acqua, sistemi naturali lineari). Il progetto che si ispira alla strategia dell’attraversamento deve affidare un ruolo rilevante alla mobilità perché è attraverso essa che costruisce il senso primario del progetto. Non si tratta, infatti, di connettere luoghi solo sulla carta ma progettare le attività e il movimento tra di essi e altre parti della città e del territorio. Pensare alla mobilità vuol dire favorire l’uso delle biciclette e dei pedoni in condizioni di sicurezza, ma anche fare uno scatto in avanti nel pensare alle infrastrutture viabilistiche come oggetti sui quali riflettere in termini progettuali. Progettare la mobilità e le infrastrutture che la consentono va fatto con la stessa capacità e la stessa consistenza estetica che emergono da tempo dal progetto dei ponti urbani e da qualche esempio di infrastruttura stradale14.
Figura 1. Attraversamento – Barcellona, Carles I Park, Josep Zuzurca (1989-1992). Il parco rappresenta un esempio di trattamento originale del tema della mobilità quale è auspicabile immaginare nei progetti che si ispirano alla strategia dell’attraversamento. Il progetto del parco fa parte del più ampio programma di sviluppo per il Villaggio Olimpico progettato da Oriol Bohigas, Josep M. Martorell, David Mackay, Albert Puigdomènech e J. Ramon de Clascà. L’infrastruttura per il superamento del tracciato ferroviario è trattato come contributo al disegno urbano complessivo previsto per accogliere l’evento olimpico.
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Il testo che segue riprende il contenuto di Palazzo, 2006, sul quale sono state eseguite soprattutto delle operazioni di adattamento al presente scritto. Si rimanda all’originale per una più approfondita disamina delle strategie e per gli esempi che ad esse associati. 14 EMANUELA MORELLI, Disegnare linee nel paesaggio. Metodologie di progettazione paesistica delle grandi infrastrutture viarie, Firenze University Press, Firenze 2005.
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Figura 2. Ruolo – Rho, Pero, Polo esterno della Fiera di Milano, Massimiliano Fuksas (2003-2005). La decisione –avvenuta dopo un lungo processo- di ri-localizzare la Fiera di Milano ha avuto l’effetto di mostrare che si possono collocare servizi di importanza metropolitana lontano dal centro urbano principale. La Fiera di Milano a Rho-Pero ha le potenzialità per diventare uno straordinario esempio della strategia del Ruolo.
II. Ruolo Non sempre il margine rappresenta un problema. Il margine assume connotazioni problematiche quando non possiede una riconoscibilità specifica, o meglio quando questa è persa nell’identità totalizzante della città o dell’insieme territoriale di cui fa parte. “La città moderna, nel suo evolversi metropolitano, irradia dal suo centro, travolgendo ogni antica persistenza. [...]. Quanto più la «rete nervosa» metropolitana si dilata, quanto più divora il territorio circostante, tanto più il suo «spirito» sembra smarrirsi; più essa diventa «potente», meno sembra in grado di ordinare-razionalizzare la vita che vi si svolge”15. La persistenza (fisica, sociale, morfologica), dice Massimo Cacciari, è travolta dalla città moderna nel suo evolversi metropolitano. Nonostante il fenomeno dell’omologazione soprattutto formale che la città nel suo espandersi trasmette all’intorno, restano riconoscibili alcune piccole sacche di resistenza nelle città o se ne creano di nuove. Non è raro imbattersi, anche nelle zone periferiche delle città che più hanno subìto i fenomeni di crescita, in ambiti che dichiarano con orgoglio la propria diversità e il fiero mantenimento di una configurazione e di valori che sono recepiti anche dai visitatori casuali attraverso il riconoscimento di un’inequivocabile stimmung. Altri fenomeni di rappresentatività locale si esprimono attraverso la richiesta di autonomia della comunità da un contesto che non sente proprio 16. 15
MASSIMO CACCIARI, “Nomadi in prigione” in ALDO BONOMI, ALBERTO ABRUZZESE (a cura di), La città infinita, Paravia Bruno Mondadori Editori, Milano 2004, pag. 51. 16 Dal 1975 a oggi, in Italia sono stati istituiti diciassette nuovi Comuni: in Veneto: Cavallino Treporti – VE (Lr 11/1999); Due Carrare – PD (Lr 14/1995); Porto Viro - RO (Lr 49/1994); Campania: Santa Maria la Carità – NA (Lr 60/1978); Bellizzi - SA (Lr 1/1990); Lazio: San Cesareo – Roma (Lr 32/1990); Fiumicino – Roma (Lr 25/1992); Boville - FR (Lr 56/1993); Fonte Nuova – Roma (Lr 25/1999); Lombardia: Baranzate – MI (Lr
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Figura 3. Densità – Copenhagen, Hedebygade, Urban Renewal Company – SBS (1995-2002). Questo intervento di rinnovamento urbano nel quartiere di Vesterbro, è stato promosso con l’intenzione di farlo diventare un progetto pilota di applicazione di tecniche di risparmio energetico e di utilizzo di fonti energetiche alternative. La densità del quartiere è da ritenersi uno dei fattori di successo dell’iniziativa.
Significative, ancora, sono le riluttanze all’omologazione, anche solo toponomastica, che emergono tra frazioni di una stessa unità amministrativa. Ma su quali basi si possono creare le condizioni per l’identità di un luogo periferico? Per tentare di rispondere a questa domanda è necessario partire da un approccio più modesto. Il tema dell’identità è troppo complesso e sfuggente per essere incluso in una qualsivoglia strategia che pretenda di essere possibile. Un passo in avanti è possibile se si sostituisce al termine identità il termine ruolo. Dare (o ridare, in qualche caso) ruolo ai margini sembra essere un traguardo più vicino ai compiti dell’urbanistica. Dare ruolo ai margini vuole anche dire pensare di localizzare servizi di importanza urbana lontano dal centro (un museo, una biblioteca, un teatro) non per ottenere, un generico effetto Bilbao, né sperare in un effetto domino che si riversi automaticamente sul contesto, ma per razionalizzare, attraverso l’intelligenza progettuale, questi possibili effetti. III. Densità Carattere peculiare dei margini, siano essi guardati alla scala urbana o a quella più ampia della regione, è la porosità. Ma se alla scala regionale (in senso geografico) i buchi, i vuoti, le intersezioni, ci appaiono spesso occupati da funzioni (spazi dell’agricoltura, campi aperti, boschi, parchi, eccetera), quanto più ci avviciniamo al suolo, quanto più zoomiamo verso la
13/2004); San Siro – CO (Lr 29/2002; Piemonte: Montiglio Monferrato – BI (Lr 65/1997); Mosso – BI (Lr 32/1998); Puglia: State – TA (Lr 6/1993); Sicilia: Maniace - CT (Lr 62/1981); Ragalna - CT (Lr 20/1985); Umbria: Avigliano Umbro - TR (Lr 20/1975).
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fascia periferica di una città, tanto più ci accorgiamo che gli spazi tra il costruito sono spesso privi di funzioni riconoscibili. Sono spazi relitti, terrain vague, luoghi dimenticati oppure usati e poi abbandonati nell’evolversi del tessuto insediativo: luoghi scuciti, involontariamente interposti tra spazi costruiti che trascinano nella loro irriconoscibilità di senso anche questi, in un effetto opposto a quello che Bohigas chiama “metastasi curativa”17. Qui il margine si fa frangia urbana. Sulle frange, sui territori di margine, sono possibili strategie di densificazione e di compattamento degli insediamenti per evitare il consumo di nuovi suoli. Tali strategie devono essere attentamente verificate con le condizioni ambientali, ecologiche e paesaggistiche che contrastino con il progetto. Le analisi di idoneità, di vulnerabilità ambientale, le carte delle sensibilità e delle compatibilità18 e le indagini sulla percezione del paesaggio possono infatti fare emergere condizioni di nulla o limitata opportunità di trasformazione delle aree libere nella frangia urbana. Il carattere di pregio di aree agricole residuali, il loro ruolo di difesa di coni ottici, le limitazioni di natura geologica o legata all’esistenza di condizioni del sottosuolo che suggeriscono di non costruire, sono aspetti da prendere in considerazione nel progetto complessivo. Le condizioni ambientali ed ecologiche possono, d’altronde, orientare il progetto ambientale19 o progetti di paesaggio per le aree da tutelare. IV Disegno Il margine è, per sua natura, privo di una morfologia riconoscibile. È il contrario del confine. Dove il confine è netto, il margine è frastagliato. Dove il confine è chiuso, il margine è aperto. Dove il confine è invalicabile e segna un interno e un esterno, il margine è attraversabile ed è insieme dentro e fuori. Dove il confine è disegnato, riconoscibile e, spesso, rappresentato da un manufatto o da un elemento naturale, il margine è casuale, non distinguibile e privo di elementi che fisicamente lo sostanzino. I tentativi di costruire un confine per segnare un luogo portano con sé quasi sempre effetti negativi o almeno non desiderabili. Le recinzioni che definiscono i quartieri residenziali esclusivi e, in generale, le gated-community statunitensi20, sono esempi di muri che tengono fuori, che escludono il diverso, l’altro che rompe l’omologazione, l’omogeneità di reddito, di etnia, di gruppo sociale. I muri servono anche a difendere come fortificazioni gli insediamenti dei coloni, dei falansteri, le abitazioni degli ultimi resistenti di un’etnia egemone poi ridotta a nucleo superstite: una comunità costretta a vivere nella paura di un ennesimo drammatico cambiamento di fronte. I muri possono funzionare anche in senso inverso. Possono essere usati per contenere, per rinchiudere, per non fare uscire. Ne sono un esempio i quartieri-ghetto, le coree abbandonate nel vuoto del nulla, deprivate di servizi, di opportunità di emancipazione. Sono i quartieri ultra-periferici, le città satellite, realizzati nella campagna non urbanizzata - teste di ponte e germi iniziali del territorio di margine - , i cui muri sono gli spazi aperti che segnano la distanza dalla città. Sono i quartieri dell’housing sociale murati da infrastrutture e aree industriali. Disegnare il margine si può. È un’azione progettuale, intenzionale che non si esaurisce nel dare al margine i caratteri del confine. Vuol dire, piuttosto, segnare, contraddistinguere, segnalare fisicamente e simbolicamente il passaggio tra condizioni differenti o per evidenziare il margine come luogo che ha legami stretti, anche se invisibili, con il resto, con ciò dentro al quale è immerso, con la matrice di cui è parte e alla quale ci si deve riferire in sede di progetto. 17
ORIOL BOHIGAS, “Barcellona: un’esperienza urbanistica. La Città Olimpica e il fronte mare” in BERNARDO SECCHI et al., La città europea del XXI secolo. Lezioni di storia urbana, Skira, Milano 2002. 18 MARIA CRISTINA TREU, “Un approccio ambientale alla pianificazione”, in FREDERICK STEINER, Costruire il paesaggio. Un approccio ecologico alla pianificazione, a cura di Maria Cristina Treu e Danilo Palazzo, McGrove Hill, Milano 2004. 19 Cfr. GIOVANNI MACIOCCO, PAOLA PITTALUGA , La città latente: il progetto ambientale in aree di bordo, FrancoAngeli, Milano 2001 e SERRELI SILVIA, Dimensioni plurali della città ambientale. Prospettive di integrazione ambientale nel progetto del territorio, FrancoAngeli, Milano 2004. 20 NAN ELLIN, Post-Modern Urbanism, Blackwell, Cambridge (Mass.) 1996.
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Figura 4. Disegno – Torino, passerella sulla ferrovia, Hugh Dutton e Benedetto Camerana (2005-2006). La passerella pedonale che collega il Lingotto con gli ex Mercati Generali e il Villaggio Olimpico è un esempio di strategia di disegno del margine urbano.
V. Cintura Una delle strategie più consolidate e sperimentate per attribuire al margine urbano un ruolo di limite, è quello che va sotto il nome generico di cintura verde. Gli esempi, in questo senso, sono noti e applicati da molti decenni21. Le cinture verdi rispondono, semplificando, a due modelli. Il primo agisce alla stregua di un dispositivo idraulico che regola o interrompe il flusso della crescita urbana. In questo modello la città è al centro dell’analisi interpretativa. Il secondo modello risponde alla salvaguardia delle risorse agricole e naturali residue intorno alla città. In questo caso, la primazia è assegnata alle risorse esterne alla città verso le quali il dispositivo di protezione è orientato. I due modelli possono essere descritti a partire da due importanti protagonisti del regional planning che li hanno sviluppati a livello teorico e pratico: lo statunitense Benton MacKaye e il planner inglese Patrick Abercrombie. 21
Cfr. ANTONELLA VALENTINI, Progettare paesaggi di limite, Firenze University Press, Firenze 2005.
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Benton MacKaye, co-fondatore con Lewis Mumford della Regional Planning Association of America negli anni Venti del Novecento, riteneva che la città stessa fosse la prima vittima della crescita metropolitana. MacKaye paragona le metropoli sparse negli Stati Uniti e i collegamenti fra di esse a un sistema fluviale. Esse sono insieme “terminali” dei flussi di beni e di merci che provengono dall’esterno e “sorgenti” di flussi di beni e di popolazione. Gli schemi che MacKaye propone per fermare la “piena metropolitana” prevedono due distinte strategie. La prima consiste nel concedere priorità al controllo dell’espansione della città principale del sistema metropolitano. La seconda strategia consiste nel controllare il fenomeno della crescita nei singoli punti di piena: nelle singole città disposte lungo i fiumi di collegamento, dotando le singole realtà urbane di dispositivi di limitazione della crescita fisica ben definiti: le cinture verdi22. Il modello prodotto da Patrick Abercrombie nel Regno Unito quasi in contemporanea alle elaborazioni di MacKaye si avvia dalla considerazione della necessità di proteggere le aree agricole minacciate dalla crescita urbana, un obiettivo che Abercrombie aveva già perseguito insieme al Council for the Protection of Rural England (Crpe) che aveva collaborato a fondare nel 192523. Abercrombie nel 1944 consegnerà, al governo inglese ancora in guerra, il Greater London Plan (pubblicato nel 1945) dove disegnerà, intorno alla città in crescita una serie di cinture verdi che nella versione originaria del Piano aveva uno spessore medio di otto chilometri e iniziava laddove nel 1939, all’inizio della seconda guerra mondiale, la conurbazione originaria si era fermata. La Green-Belt Ring è collocata intorno al Suburban Ring che a sua volta avvolge l’Inner Urban Ring. All’esterno della Green-Belt Ring è prevista una Outer Country Ring. La cintura verde della Grande Londra aveva primariamente l’obiettivo di fornire ai londinesi uno spazio per le attività ricreative e la protezione dei suoli agricoli, oltre che a servire da contenimento all’espansione urbana24. Il piano di Londra di Abercrombie (1945) riconosce alla Green-Belt Ring un ruolo essenzialmente ricreativo composto da open space da coordinare in un sistema strettamente connesso di parchi, mentre l’Outer Country Ring, più esterno, ha il compito di accogliere le New Towns previste dal piano e conservare le attività legate all’uso agricolo. I modelli di MacKaye e di Abercrombie sono esemplificativi di approcci diversi. Nel primo, alla cintura verde urbana è affidato il compito primario di agire da muro di contenimento della città, piuttosto che, come avviene invece nel secondo, da luoghi che contengono o che producono, anche attraverso il progetto di una rete di spazi verdi o di nuove città, un valore in sé. La proposta di MacKaye è esemplificativa di un modello funzionalista e tecnicista che ha dei forti limiti applicativi qualora si intenda attribuire a spazi aperti, attraverso il ricorso a un atto amministrativo (un piano regolatore, piuttosto che l’imposizione di un vincolo o l’istituzione di un parco) il compito di fare da muro, da diga o da argine alla crescita urbana. Più efficace è, come nel caso paradigmatico di Londra, che alla cintura sia attribuito un ruolo che se non è direttamente riferito al valore dei suoli in sé sia invece assegnato e prodotto da un piano di connessione degli spazi, da un progetto di sistema che agisca anche ad una scala vasta. La presenza di aree agricole, anche di pregio, intorno a una città o almeno a una sua parte, può essere sufficiente a fornire il movente della tutela e a costruire intorno all’iniziativa un movimento che la sostenga - come è avvenuto in molti parchi agricoli prossimi alle nostre città -, ma potrebbe invece non essere sufficiente a mantenere intatto nel tempo l’obiettivo iniziale. 22
BENTON MACKAYE, The New Exploration: A Philosophy of Regional Planning, Hartcourt, Brace and Company, New York 1928, ripubblicato con una prefazione di Lewis Mumford in The New Exploration: A Philosophy of Regional Planning, University of Illinois Press, Urbana 1962. 23 PETER HALL, Urban and Regional Planning, Routledge, London-New York 2002 (IV ed.). 24 Cfr. DAVID THOMAS, London’s Green Belt, Faber, London 1970; PETER HALL, R AY THOMAS, HARRY GRACEY, ROY DREWETT, The Containment of Urban England, Allen & Unwin 1973; LUCIA NUCCI, Reti verdi e disegno della città contemporanea, Gangemi Editore, Roma 2004.
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Figura 5. Cintura – Londra, Regional Park System, Greater London Plan, Patrick Abercrombie, 1944. Nella didascalia dell’immagine contenuta nel Piano di Londra di Abercrombie si legge: “Rappresentazione grafica del piano che mostra il coordinamento tra gli spazi aperti esistenti e proposti nell’area della contea e le aree non edificate e gli spazi pubblici aperti nel conteso regionale. Take coordinamento forma un sistema di parchi continuo. Il sistema è composto da cunei e percorsi verdi che collegano il centro di Londra con la green belt. L’obiettivo della proposta è di preservare un’ampia area di campagna non urbanizzata e di renderla di facile accesso agli abitanti di Londra.”
E’ necessario, anche in questo caso, aggredire con il progetto le condizioni di crisi che possono colpire il mercato agricolo e gli agricoltori che partecipano all’iniziativa. Un principio al quale ci si potrebbe rifare è l’agri-civismo, un neologismo, coniato da Richard Ingersoll che coniuga agricoltura e cultura urbana: “senza troppa nostalgia per la città perduta, vorrei proporre una tattica per cambiare, almeno in parte, l’attuale sistema urbano; nel suo insieme si potrebbe chiamare «agri-civismo». Ricordando il successo dell’ «agriturismo», dove l’ospitalità sovvenziona l’agricoltura, anche la versione urbana avrebbe un significato sociale. L’agri-civismo non sarebbe necessariamente mirato a visitatori occasionali, ma sarebbe piuttosto legato ai bisogni civici di educazione, ricreazione e mantenimento del verde. […] Gli obiettivi dell’agri-civismo sono due: 1) promuovere una sinergia tra l’abitato e l’ecosistema risanato; 2) fondare un senso di appartenenza e quindi di responsabilità verso lo spazio urbano.”25 VI Attesa Questa ultima strategia considera il margine e le sue componenti come risorse in sé. Gli urban infill, gli spazi vuoti o abbandonati, le aree derelitte, possono essere pensati per diventare luoghi da progettare non ora, ma in futuro. Carlo Olmo suggerisce di considerare le inerzie al cambiamento come un’occasione: “questa società, è una società che avrà sempre più bisogno di avere una città a dimensione dei processi di trasformazione e, per assurdo, la 25
INGERSOLL RICHARD, Sprawltown, Meltemi editore, Roma 2004, pagg. 199-200.
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nostra fortuna sarà quella che gli spazi urbani dismessi presenteranno tutte le resistenze a immediate trasformazioni e rifunzionalizzazioni […]. Se si vuole conservare questa che è un’opportunità e un elemento di non determinismo sociale, non solo produttivo o economico, si devono conservare, nello stesso tempo, il valore storico, la memoria delle grey areas urbane […], è necessario conservare come un bene ciò che oggi appare un limite, quando non un vuoto, anche concettuale.”26 Sulla soglia – parafrasando Crotti (2000) e Bertelli (2004) - si può anche esitare. Restare in attesa di entrare o di rimanere fuori da ciò che la soglia divide. Per mettere in azione una strategia dell’attesa è però necessario che l’urbanistica muti alcuni dei suoi paradigmi. Nell’urbanistica funzionalista, e in particolare nella pratica del piano, la destinazione “mancanza di funzione” non è prevista. Il funzionalismo dell’urbanistica dei piani tradizionali costringe a dare a qualsiasi area una destinazione d’uso, a incasellarla in una funzione anche se, spesso, questa non corrisponde realmente a ciò che l’area diventerà. Questo avviene spesso con le aree destinate agli standard urbanistici o quando sono destinate alcune aree all’agricoltura, nonostante l’assenza delle coltivazioni o di uno sfruttamento agrario reale. Manca nell’urbanistica il concetto del set-aside funzionale, la dinamica dell’attesa e della maturazione. Manca anche un riferimento al tempo e al condizionare le trasformazioni al compimento o al raggiungimento di certe condizioni. L’urbanistica, per corrispondere a questa strategia, che non è rinuncia ma spostamento nel tempo di una scelta, dovrà assumere tutte le conoscibili condizioni della complessità e della dinamicità della società contemporanea anche per imparare a sviluppare una competenza della rinuncia alla funzionalizzazione forzata all’oggi ed esercitare la capacità di indugiare, che è collocare in un altro tempo (o al realizzarsi di certe condizioni, queste certamente definibili dal piano) la scelta progettuale, essere cioè in grado di declinare dentro al piano, dentro alla pianificazione della città e del paesaggio, gli operatori logici if…then che indicano l’avvio di un’azione (then) solo (if) se si realizza un certo evento.
CONCLUSIONI Le responsabilità di specie e di generazione ci portano a misurare i nostri atti di esseri umani con le eredità lasciateci da chi è vissuto prima di noi e con la consapevolezza che le nostre azioni lasceranno in successione ai nostri figli e ai nostri nipoti un paesaggio comunque trasformato. Si tratta, a questo punto, di decidere se intendiamo “alzare la sabbia”: 1. solo il minimo necessario per muoverci nel deserto, per lasciare il minimo delle tracce del nostro passaggio; 2. per vedere dove va la sabbia, spostata casualmente dal vento; 3. per orientarne la caduta e costruire paesaggi. La responsabilità di competenza ci conduce a una sola scelta e l’autorità di progetto ci mette nelle condizioni di adempiere a questo compito. Sia che si tratti di un progetto di paesaggio, un progetto urbano, un progetto di piano o un progetto di architettura la responsabilità di competenza ci porta a enfatizzare la parola progetto e a interpretare le intenzionalità di cambiamento che la società, la popolazione interessata, esprime nelle proprie aspirazioni e a tradurre, attraverso l’autorità di progetto e la dimensione tecnico-scientifica che appartiene alle discipline delle quali siamo portatori, queste aspirazioni in costruzioni di paesaggio. Responsabilità di competenza e autorità di progetto non significano però autoritarismo. Corrispondere alle aspirazioni della popolazione interessata dal progetto, come sostiene la Convenzione europea del paesaggio, significa adottare le migliori tecniche disponibili per giungere alla loro interpretazione e a quella del territorio e del paesaggio che accoglieranno il progetto. Disporre dell’autorità di progetto significa anche adeguare il processo di progetto 26
CARLO OLMO, “La città e le sue storie” in BERNARDO SECCHI et al., op. cit., 2002, pagg. 26-27.
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alle condizioni esistenti, scegliendo, di caso in caso, di coinvolgere, nelle diverse fasi del progetto, la popolazione o gruppi selezionati di cittadini, amministratori, professionisti locali. Oppure di raccogliere le aspettative attraverso questionari e riunioni pubbliche. O ancora di esercitare la propria competenza in collaborazione con professionisti di altre discipline per giungere alla più completa comprensione del tema di progetto. O, infine, se il caso lo consente o lo richiede, di esercitare la propria competenza in autonomia. Il progetto è importante almeno quanto il processo per realizzarlo. Il progetto può essere l’esito di processi partecipativi di natura meta-progettuale, espressione di una cittadinanza attiva, piuttosto che squisitamente consultivi e alimentato dalle esigenze espresse dai diversi soggetti filtrate attraverso un robusto realismo. Un progetto può essere giudicato sulla carta, ma il suo completo apprezzamento va determinato in riferimento alla realizzabilità e all’attecchimento nel tessuto urbano o territoriale, oltre che in quello sociale, e al dialogo che instaura con altri progetti. La valutazione del progetto non va eseguita solo sull’architettura o sul disegno delle forme che produce, ma sulla realizzazione degli investimenti in aspettative (in aspirazioni possiamo dire citando la Convenzione) che i vari attori hanno concepito durante l’intero processo. Nel caso delle aree periferiche la Convenzione europea del paesaggio sollecita azioni di pianificazione e di progetto “sulle aree maggiormente colpite dal cambiamento e fortemente deteriorate”. Questi ambiti possono diventare, per l’urgenza che determina la loro condizione di abbandono che si riverbera, in vari modi, anche sugli spazi circostanti, il luogo privilegiato di un progetto dei margini sui quali esercitare le proprie responsabilità. Un progetto di origine pubblica e che privilegi la costruzione di spazi pubblici. Le sei strategie, brevemente descritte nella seconda parte del testo, sintetizzano alcuni (ma non gli unici) orientamenti possibili per trattare il tema dei margini urbani.
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Testo acquisito dalla redazione della rivista nel mese di settembre 2006. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte. 31
Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768 Università degli Studi di Firenze
Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/ Firenze University Press anno 4 – numero 6 – luglio-dicembre 2006 numero monografico Progettare sui limiti sezione: Saggi pagg. 32 - 43
I PARCHI-MARGINE: UNA SPECIE DI PARCO PER I PAESAGGI URBANI CONTEMPORANEI1 Anna Lambertini *
Summary Starting from the definition of the concepts of park’s specie, the article proposes a reading of recent European experiences of construction of urban park. The author focalizes attention over the edge-park, conceived as a mediation open space enter the town and its margins (geographic, natural, administrative) and/or enter parts different for role, function and characters.
Key-words Edge-Park, Urbanscape, Landscape Design.
Abstract A partire dalla introduzione del concetto di specie di parchi e dalla descrizione di diverse categorie progettuali, il contributo propone una lettura del progetto contemporaneo del parco urbano in Europa. L’attenzione viene precisata sulle esperienze dei parchi-margine, intesi come figura di mediazione tra la città ed i suoi limiti (fisicinaturali, amministrativi) e/o tra ambiti spaziali differenti per ruolo, funzione, caratteristiche fisiche. Parole chiave Parco-margine, paesaggio urbano, specie di parchi.
*Dottore di ricerca in Progettazione paesistica, docente a contratto di Architettura del Paesaggio presso l’Università di Perugia.
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Questo contributo propone una rielaborazione ed un approfondimento di temi trattati nella tesi di dottorato “Fare parchi urbani. Etiche ed estetiche del progetto contemporaneo in Europa”, discussa dall’autrice nell’aprile 2005 e di prossima pubblicazione per i tipi della Firenze University Press.
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PERCHÉ PARLARE DI SPECIE DI PARCHI “Viviamo nello spazio, in questi spazi, in queste città, in queste campagne, in questi corridoi, in questi giardini. Ci sembra evidente. Forse dovrebbe essere effettivamente evidente. Ma non è evidente, non è scontato. E’ reale, evidentemente, e probabilmente razionale, quindi. Si può toccare.”2
Nella città attuale, mobile, che non sta ferma3 e si trova incerta nella definizione dei suoi limiti e delle sue forme, il parco urbano ha assunto nuovi valori progettuali. La necessità di produrre senso del luogo e identità locale nei processi di morfogenesi urbana e di riqualificazione degli insediamenti spinge il progettista contemporaneo a reinventare continuamente ruolo e contenuti del parco, facendo leva soprattutto sulla sua vocazione ad essere duttile dispositivo relazionale tra materiali naturali e artificiali, processi, parti di città e parti di campagna. Il parco, come figura e come idea, sembra a buon diritto poter occupare “il rango più elevato nella contemporanea creazione di luoghi - place making, per citare Capability Brown”4. Camminando per le città europee, a Berlino, come a Barcellona, come a Parigi, solo ad un flanêur molto distratto potrebbero sfuggire gli effetti del processo di progressiva colonizzazione di nodi infrastrutturali, vuoti di risulta, ambiti di mediazione tra spazio metropolitano e spazio rurale, attuata da parte di parchi e giardini che oltre a presentare offerta di natura e di esperienze nella natura, sono accomunati dal fatto di proporre: “accesso pubblico, offerta di possibilità per il frequentatore di confrontarsi con se stesso, espressione dello Zeigeist”5. E poiché i nuovi parchi rispondono allo specifico contesto in cui sono inseriti esibendo una notevole capacità di adattamento morfologico, funzionale, figurativo, data la varietà di situazioni insediative esistenti, si è andata determinando una gamma di spazi aperti di una complessità tale da rendere inadeguata la tassonomia urbanistica disponibile, di matrice funzionalista. Si presta così l’occasione per adottare nuovi possibili criteri di lettura: proviamo a farlo utilizzando il concetto di specie. Parlare di specie di parchi ci permette di usufruire vantaggiosamente della metafora biologica: possiamo pensare al parco urbano, oltre che come ad una categoria progettuale di carattere trans-scalare, come ad una realtà vivente e dinamica, ad un luogo in cui si attivano processi naturali, ad uno spazio propizio alla vita di persone, piante, animali. Gli scenari europei dimostrano che, proprio come accade tra specie botaniche, anche tipologie differenti di spazi aperti si possono ibridare, dando origine ad entità con caratteristiche diverse dalle matrici originali: i confini tra parco e piazza, parco e boulevard, parco e area ricreativa, parco e parcheggio, parco e verde stradale sono diventati sempre più labili, fino quasi a dissolversi 6 . Così, nella creazione di nuovi paesaggi può succedere qualcosa di simile a ciò che accade in natura, “quando per accidenti diversi e diverse ragioni una specie si fa rara o muore o scompare” e “un’altra prende il suo posto dando al luogo la sua impronta e fisionomia”7. Insomma, anche se la tendenza all’ibridazione tra lo spazio verde ed un altro tipo di spazio aperto urbano non è certo una novità del nostro tempo (basti pensare alle parkways, o agli squares parigini, per esempio), non si può negare che oggi in questo atteggiamento progettuale si manifestano un senso della ricerca e dell’innovazione molto più forte rispetto al passato. Nelle sue varie declinazioni ibride, il parco del XXI secolo si propone come produttore di una nuova metrica spaziale e percettiva, affermandosi al contempo come elemento regolatore 2
GEORGES PEREC, Specie di spazi, Bollati Boringhieri, Torino 1989, pag. 12. Ed. orig. Espèces d’espaces, Paris 1974. 3 Cfr. MASSIMO CACCIARI, La città, Pazzini Editore, Rimini 2004, pag. 13. 4 COOPER GUY, TAYLOR GORDON, Giardini per il futuro, Logos, Modena 2000, pag. 32 . 5 ANDREU ARRIOLA, ADRIAAN GEUZE ed altri Modern park design, Uitgeverij thoth, Amsterdam 1993, pag 32. 6 Cfr. ANDREU ARRIOLA, ADRIAAN GEUZE ed altri, op. cit., 1993. 7 IPPOLITO PIZZETTI, Il genius loci arriva volando, “Urbanistica informazioni”, 186, 2002, pag. 7.
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dei processi di crescita e/o trasformazione di parti urbane e funzionando come strumento di mediazione per i salti di scala non risolti. Ipotizziamo allora che nella città in trasformazione prosperino più che tipi8, specie di parchi. E’ un atteggiamento culturale che aiuta a concepire i parchi contemporanei non come surrogati di presenza di natura in città, ma come vuoti promettenti destinati ad accogliere e favorire processi biologici e relazioni vitali: un attributo da non dare per scontato, ma che anzi può essere assunto come concetto guida per una progettazione attenta ad interpretare processi e tempi (della natura, della società, delle trasformazioni degli insediamenti), piuttosto che astratti modelli spaziali, fissati attraverso la verifica di parametri dimensionali o funzionali. Le specie di parchi di seguito proposte sono state individuate e descritte facendo ricorso a due differenti filtri di lettura, tra loro complementari. Un primo filtro indaga il parco come immagine/realtà paesaggistica e si riferisce alle caratteristiche che lo identificano come figura di natura urbana e alle sue diverse possibili funzioni come spazio pubblico. Il secondo filtro riguarda il ruolo che il parco interpreta rispetto alla fase del processo di trasformazione urbana che lo vede nascere: serve per mettere in evidenza il rapporto testo/contesto, parco/città, tenendo conto delle varie forme di insediamento e delle differenti modalità di urbanizzazione (città compatta o diffusa, metropoli, megalopoli, eccetera) che caratterizzano gli scenari europei contemporanei. Applicando il primo filtro, possiamo riconoscere le seguenti specie figurative: Parco - giardino. Speciale declinazione di parco, non necessariamente di dimensioni contenute, in cui anche gli aspetti tecnico-funzionali vengono trattati in modo tale da favorire l’amplificazione dei valori percettivi ed estetici e di richiamo alla tradizione figurativa dell’arte dei giardini e del paesaggio. E’ fortemente accentuato il valore della presenza delle componenti vegetali, sia quando il parco viene concepito come spazio totale della natura artificialis, sia quando viene affermata una estetica ecologica. Parco - piazza. Di derivazione storica, questa specie si presenta solitamente in forma di poligono regolare e coniuga le funzioni tradizionali della piazza con quelle del parco. Porzioni di natura libera sono inserite all’interno di uno spazio a carattere marcatamente architettonico e che presenta ampie superfici continue pavimentate con materiali duri, dove il movimento del visitatore non è guidato da un sistema gerarchizzato e predefinito di percorsi. Il parco-piazza è spesso caratterizzato dalla presenza di arredi o sculture di potente impatto scenografico. Parco – scultura. Il parco, o parti di esso, vengono modellate proprio come una grande opera scultorea a scala urbana. Il parco-scultura affonda le sue radici nell’esperienze dei land artist e dell’arte ambientale ed ecologica maturate a partire dagli anni Sessanta del Novecento, e nell’opera di Isamu Noguchi, indiscusso maestro dell’arte dei giardini e del paesaggio del XX secolo. Possiamo parlare di parco-scultura anche quando uno o più significativi elementi del programma iconografico generale si impongono nel determinare l’identità estetica complessiva del luogo. Parco - contenitore. Come un sistema di scatole cinesi, come un catalogo di luoghi, il parco si colloca nel paesaggio urbano per contenere altri parchi, giardini, o tipi di spazi aperti anche senza assumere una dimensione territoriale: è il caso specifico dei festival di arte dei giardini o delle grandi esposizioni di floricoltura, ad esempio le Buga tedesche o le Floriadi olandesi. Parco - passeggiata. Analogamente al modello storico delle promenade, il parco-passeggiata si sviluppa lungo uno spazio lineare, dove risulta privilegiato ed enfatizzato il tema del percorso e dell’andare. La scelta della distribuzione delle sequenze spaziali e delle modalità di movimento del fruitore costituisce il principale input progettuale. Bosco - parco. Una porzione importante del parco, se non addirittura tutta la sua estensione, è coperta da una macchia boscata, preesistente o di nuova piantagione. Il bosco-parco può assolvere obiettivi di tutela o creazione della risorsa bosco in città, e si connota come spazio a forte valore ecologico-ambientale di cui viene previsto un utilizzo ricreativo. 8
Se per tipo si intende un campione a cui è conformata una produzione di serie.
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Parco - campagna. Espressione contemporanea della rus in urbe, il parco-campagna propone inserti di moderna natura coltivata a scopo agricolo e/o importanti citazioni di paesaggi rurali storici all’interno di un programma spaziale variamente articolato, e può ospitare anche insiemi di orti urbani, giardini di comunità e city farm. Concepito non solo come riproduzione di un’idea di paesaggio agrario, il parco-campagna può quindi comporsi di ambiti messi a disposizione dell’abitante urbano per favorire attività di coltivazione della natura, di tipo orticolo-produttivo o ornamentale. Parco - parcheggio. Declinazione progettuale felicemente indagata dai paesaggisti contemporanei. Dal concetto di uno spazio aperto mono-funzionale, strumentale alla sosta degli autoveicoli, si è arrivati all’ideazione di un ambito ibrido, flessibile e multifunzionale, che incorpora caratteri e materiali propri del giardino e del parco in un vuoto per lungo tempo relegato al ruolo di asettica e an-estetica infrastruttura a servizio e complemento del sistema della mobilità. Rispetto al secondo filtro, sono state invece individuate le seguenti specie spazialifunzionali: Parco - centrale. Mimando solo apparentemente i primi modelli Ottocenteschi, il parcocentrale viene a plasmare un ampio vuoto di forma regolare, contornato dal pieno del costruito che lo tiene racchiuso come in un recinto. Nella città contemporanea, più che alla scala urbana-metropolitana (come nel caso dello storico Central Park di New York), riesce a trovare più facile collocazione a quella di quartiere o di isolato, per costituire per lotti residenziali o aree commerciali un cuore di natura artificialis che intrattiene con il contorno una relazione di interdipendenza spaziale fondata sulla contrapposizione pieno/vuoto.
Figure1, 2, 3. Planimetria e viste dell’Ibryd-Parking Place (Parking dans l’Anse du Verdon), Martigue, Francia, progettato dal paesaggista francese Henry Bava, Agence Ter, e realizzato nel 2000.
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Infraparco. Nasce nei vuoti e negli interstizi del tessuto urbanizzato, negli spazi del “fra”, siano essi generati dall’inserimento o dalla dismissione di infrastrutture della mobilità (lineari o areali) o di aree industriali e/o commerciali. Una varietà speciale è quella leggibile come nuovo spessore urbano (piastra-parco, parco-ponte, eccetera), dove lo spazio plasmato come area a parco continua ad assolvere anche un ruolo infrastrutturale, di collegamento tra pezzi o livelli di città. Parco - connettivo. Il parco come tessuto di ricostruzione di rapporti spaziali, formali e funzionali tra parti diverse del costruito che presentano una configurazione frammentata e sfrangiata o tra pezzi di città e pezzi di campagna. Il parco lega, avvolge, riconfigura e in genere si caratterizza per l’alto grado di permeabilità e accessibilità e per la varietà dei collegamenti spaziali. Parco - cerniera. Il parco come elemento lineare di ricostruzione di rapporti spaziali, formali e funzionali tra parti diverse del tessuto costruito che presentano una configurazione chiaramente definita. Lo spazio vuoto in questo caso più che mediare, ricuce e ristabilisce necessarie continuità, rende porosa la comunicazione spaziale. Parco - pioniere. Il vuoto progettato come strategia di colonizzazione del territorio periurbano. Nel suo processo di avanzamento verso il non costruito, la città si espande a partire dalla definizione degli elementi del sistema degli spazi aperti, di cui il parco rappresenta la forma a maggiore valenza figurativa. Il parco-pioniere può caratterizzarsi sia come strumento di tutela e valorizzazione di realtà paesaggistiche esistenti e a rischio (aree agricole, zone boscate) oppure come riserva di una nuova natura a trasformazione indotta. Parco - margine. Il parco come soluzione formale per le situazioni spaziali che si creano al contatto tra la città e i suoi bordi, la città e i suoi limiti fisici-naturali e amministrativi, ma anche tra parti di paesaggio urbano ed elementi infrastrutturali. Il parco-margine è una figura di mediazione figurativa tra diverse aree omogenee, tra ambiti spaziali differenti per ruolo, funzione, caratteristiche fisiche. La morfologia prevalente (non assoluta), è quella della fascia. I due elenchi di specie di parchi non costituiscono classificazioni alternative: al contrario possono essere tra loro vantaggiosamente incrociati a reciproca integrazione. Le specie sono state descritte considerando aspetti parimenti connotativi del parco: quelli evocativi e semantici legati al suo valore di figura di natura e di forma di paesaggio urbano, e quelli funzionali spaziali, letti in rapporto ai caratteri del contesto in cui è inserito. In ogni caso, la casistica proposta non ha la pretesa di esaurire tutto un sistema di possibilità: funziona piuttosto come una lente bifocale con cui leggere le varietà più diffuse, le declinazioni più ricorrenti di uno stesso tema progettuale. L’obiettivo della definizione di questa chiave interpretativa è duplice: 1. fornire al pianificatore ed al progettista spunti per una riflessione tecnica e culturale, a partire dal riconoscimento dell’ampio spettro di sfumature funzionali e semantiche connesse al tema della progettazione della natura in città; 2. evidenziare una volta di più la necessità di un approccio sistemico alla progettazione del parco urbano; in questo senso la lettura per specie di spazi può integrare, intervenendo alla scala progettuale, l’operazione di pianificazione paesaggistica di definizione delle classi di ruolo degli spazi aperti.
PARCHI-MARGINE: MATRICI CULTURALI E APPLICAZIONI CONTEMPORANEE
Il parco-margine, come tema progettuale, trova le sue radici storiche nella formula declinata a scala territoriale per la creazione della cintura verde9, indagata già nell’Ottocento quale strumento di controllo delle espansioni della città proto-industriale. La cintura verde venne adottata nel corso del Novecento in numerose città europee: a Stoccolma, ad esempio, dove l’architetto Harold Blom, che nel 1938 aveva ricevuto l’incarico di direttore dei parchi della 9
Il tema è stato ampiamente analizzato e approfondito criticamente in ANTONELLA VALENTINI, Progettare paesaggi di limite, Firenze University Press, Firenze 2005.
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capitale, si operò per dare forma ad un programma di costruzione di un green belt system. Per rendere chiaro il suo obiettivo e facilitare la comprensione del futuro ruolo dei parchi anche presso il pubblico non esperto, Blom formulò nel 1946 una sorta di manifesto articolato in quattro punti programmatici.
Figura 4: I quattro punti programmatici fissati da Holger Blom per una politica a favore della costruzione del sistema di parchi, illustrato attraverso un’unica immagine.
Il primo punto recitava: “Il parco interrompe il flusso inesorabile dell’espansione della città. Considerati come un insieme, i parchi possono formare all’interno del tessuto urbano una rete che offre ai cittadini aria e luce necessarie. Possono diventare la linea di confine tra parti diverse della città, e dare ad ogni quartiere un carattere, una individualità, una propria identità”10. Al parco, inteso come parte integrante di un sistema lineare, continuo e articolato di spazi aperti, viene dunque attribuito il ruolo di elemento separatore tra diverse aree urbane, così come quello di dispositivo spaziale di caratterizzazione figurativa di porzioni di città e di quartieri. Un’idea che si rivela ancora oggi attuale, tuttavia ci fa notare Thonbjörn Andersson che “sebbene gli obiettivi di quel periodo fossero simili a quelli contemporanei, le motivazioni erano alquanto diverse, rispecchiando evidentemente le differenze tra le rispettive epoche. Dove ora c’è la tendenza a enfatizzare l’importanza di una struttura verde che consenta ad uccelli e microfauna di muoversi in habitat ecologici all’interno della città, Holger Blom
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Riportato in: THONBJÖRN ANDERSSON , Erik Glemme e il sistema dei parchi di Stoccolma, in DOMENICO LUCIANI, LUIGI LATINI, (a cura di), Scandinavia. Luoghi, figure, gesti di una civiltà del paesaggio, Edizioni Fondazione Benetton Studi Ricerche/Canova, Treviso 1998, pag. 86.
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parlò invece della necessità di creare «cinture di protezione contro gli incendi e contro le bombe»”11. In ogni caso, pur al variare degli obiettivi, il tema del parco come elemento di costruzione o ricomposizione di margini del costruito (con tutta la complessità di significati e di interpretazioni offerte dagli studi contemporanei sul tema12), costituisce un tópos ricorrente per il pianificatore ed un ambito privilegiato di speculazione e di ricerca figurativa per il progettista. Qui, con il concetto di parco-margine si intende presentare il prodotto di un fare progettuale applicato ad una scala topografica, che assume il tema della riconfigurazione dei bordi e delle aree di contatto tra differenti ambiti o sistemi di spazi contigui come linea guida per dare soluzione locale a questioni di carattere fisico-spaziale, ecologico-ambientale, funzionale, formale, percettivo. Le caratteristiche fisiche e morfologiche dell’area di intervento da sole non costituiscono pertanto condizione di esistenza del parco-margine; sono piuttosto gli obiettivi progettuali esplicitati dal progettista, gli esiti spaziali e gli input percettivi stimolati, i processi relazionali attivati, a determinare le caratteristiche di questa specie. Prediamo ad esempio uno tra i più noti parchi contemporanei, il parigino Parc Citröen. Realizzato nella zona ovest della capitale francese, in un terreno di quattordici ettari agganciato al lungo Senna, il parco non interviene affatto nella caratterizzazione del bordo tra la città ed il fiume. Piuttosto si preoccupa di intessere un nuovo sistema di relazioni (spaziali, visive, funzionali) con le varie parti del tessuto costruito e tra i vari elementi del sistema infrastutturale, funzionando da parco-connettivo. Tuttavia, è attraverso la disamina delle numerose esperienze contemporanee di progettazione dei water-front che possiamo comporre un nutrito repertorio di esempi di parchi-margine. Vediamone alcuni. Il Parque do Tejo e Trancão, realizzato a Lisbona in occasione dell’Expo 1998, e progettato dallo studio americano Hargraves & Associates in collaborazione con il paesaggista portoghese João Nunes, è un esempio di parco-margine che “non si preoccupa di trovare regole di composizione (campo chiuso), ma regole di catalisi (campo aperto) allo scopo di promuovere e ordinare complesse interazioni, (esso pone) l'ambiente come ‘soggetto’, come forza vivente che «agisce» nel luogo […]. E’ un paesaggio organico messo in movimento, mai concluso, per quanto apparentemente completo, nei dettagli del progetto. […] E' un'organizzazione «morbida», ma anche frammentaria, qualcosa di instabile tra continuità e discontinuità. Nella sua eterogeneità esso traccia la consapevolezza ecologica di un paesaggio che non è costituito da dualità, ma da un groviglio di reti spaziali, biologiche e sociali”. Sviluppato su un’area di circa novantadue ettari, in precedenza occupata da un’impianto industriale e poi segnata dall’abbandono e dal degrado ambientale, il Parque do Tejo e Trancão si colloca alla confluenza tra i due fiumi da cui prende il nome. Caratterizzato da una decisa manipolazione plastica del suolo, grazie a cui viene creato un serrato sistema dunare dalla morfologia inequivocabilmente artificiale, questo luogo si caratterizza anche come parco-scultura. Come spazio pubblico, il parco è un urban/environmental park: funziona come un nuovo paesaggio che incorpora impianti tecnologici, attrezzature sportive ed elementi infrastrutturali, per offrire un programma di fruizione basato su una sintesi tra attività ricreative tradizionali e servizi per l’educazione ambientale. Il sistema dunare assolve un duplice ruolo, simbolico ed ecologico-funzionale. L’aspetto formale delle dune, disegnate come flessibili e levigate lingue di terra che formano un bordo sfrangiato sull’acqua, presenta un richiamo allusivo all’incessante azione erosiva degli agenti naturali (vento ed acqua), che nel tempo hanno plasmato la morfologia della fascia costiera. Ma le dune trovano anche la loro ragione di essere nella necessità di dare collocazione alla 11
THONBJÖRN ANDERSSON , Holger Blom (1906-1996), in DOMENICO LUCIANI, LUIGI LATINI, (a cura di), op. cit., 1998, pag. 218. 12 Tra i vari contributi critici degli ultimi anni, citiamo l’illuminante testo di PIETRO ZANINI, Il significato del limite, Bruno Mondadori, Milano 2002.
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ingente volumetria di terreno (circa cinquecentosettantacinquemila metri cubi di materiale) dragato dal fondale del Tago. Procedendo dalla linea di costa verso l’interno, il mutare del ritmo e della forma degli elementi che modellano il suolo, suggerisce l’idea dell’allontanamento da una condizione naturale (il fiume) ad una costruita (la città). Anche nel barcellonese Parc de Poble Neu, realizzato su progetto di Manuel Ruisanchez e Xavier Vendrell, e terminato nel 1992, la costruzione di un sistema dunare, qui attuata secondo una strategia di mimesi delle forme naturali, costituisce un importante tema figurativo. Un moto ondivago, che pare generato dal mare, distribuisce le fasce di vegetazione composte da specie botaniche mediterranee e guida la distribuzione dei servizi e dei vari elementi di arredo. Al sistema di linee morbide, che richiama la processualità di una natura marina, si sovrappongono le linee rette, che tagliano il parco perpendicolarmente alla linea di costa e che si sviluppano a prosecuzione dei tracciati stradali che strutturano il ritmo del contesto urbano contiguo. Il margine è qui trattato, a livello compositivo, come spazio di conciliazione tra caratteri diversi, dove si ibridano gli elementi che caratterizzano struttura e forma dei due ambiti coinvolti nella mediazione.
Figure 5, 6: Progetti di water-front. Sopra il Parque do Tejo e Trençao, interfaccia tra Lisbona ed il fiume Tago, sotto il Parc de Poble Neu, che modella un tratto di costa marina a Barcellona.
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Figure 7, 8, 9, 10: L’Anchor Park a Malmo. Planimetria e immagini del parco.
Temporalità e biodiversità sono invece i principi informatori del progetto per l’Anchor Park, progettato dal paesaggista svedese Stig L. Andersson per la città di Malmö. In una ex area portuale trasformata in quartiere residenziale, il parco funziona come fascia di mediazione tra il nuovo tessuto costruito, a sua volta zona di frontiera tra la città ed il mare, e quello preesistente. Nell’applicare una corposa iniezione di materiali vegetali, e, più in generale, nella costruzione di uno spazio di nuova natura all’interno del tessuto costruito, il progettista ha adottato le suggestioni dell’astrattismo pittorico ed ha rielaborato la filosofia estetica di Burle Marx, per comporre un vitale lay-out dinamico e polimaterico, in cui il tema del bordo viene declinato passando attraverso vari gradienti. Allungato su un canale (bordo fluido) che diventa parte integrante della composizione, il parco accoglie quattro biotopi, ricostruiti artificialmente secondo una logica proteiforme, che vengono a creare una sorta di postazioni ecologiche: un boschetto di querce, uno di salici ed uno di faggi, ed una zona con vegetazione palustre. I quattro biotopi, chiaramente definiti e circoscritti, sono collocati all’interno di una fascia trattata in parte a prato, in parte con una vegetazione bassa di graminacee, piantate in varietà diverse a costituzione di spesse serpentine di diverso colore, texture, altezza (bordo morbido). Un percorso dall’andamento meandrifome (bordo duro) si sviluppa lungo il canale, opponendo alla durezza del cemento usato come materiale per la pavimentazione la morbidezza di un tracciato che si dispone, mai uguale a se stesso, a contatto con l’acqua. Oltre ad assecondare le possibilità di espressione progettuale offerte dai water-front, il parcomargine si può creare anche al contatto tra sistemi lineari continui e aree contigue. A Berlino, l’Hans-Balusche-Park (anche conosciuto come Priester-Pape-Park) interviene nella ridefinizione di una spessa striscia al margine di un tracciato ferroviario. Il parco, stretto e lungo, è incuneato lungo un tratto della metropolitana leggera di superficie che lo separa da un altro parco, il Natur-Park Südgelände, a cui è collegato tramite un arioso sottopassaggio creato in corrispondenza della fermata metro. Lungo il lato opposto, si estende un sistema di orti urbani (Kleingarten), a cui il parco, sviluppato su un livello rialzato, è raccordato tramite una successione di scalinate e rampe. La destinazione a parco
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urbano di questa ex terra di nessuno risale al 1997, quando venne inserita nel quadro degli interventi promossi dal piano di ristrutturazione urbana per il collegamento tra la nuova Potsdamer Platz e la zona del Gleisdreick. Il progetto, elaborato dalla paesaggista Gabriele Kiefer, interpreta il tema della dinamicità e del cambiamento adottando un disegno minimale, basato sulla impostazione di una lunga promenade asfaltata che scorre parallela al tracciato dei binari. “I percorsi sono insieme collegamenti – e frontiere. I percorsi strutturano e collegano gli spazi. Kiefer cita Wassily Kandinsky e la sua tesi secondo cui il ventesimo secolo era l’età del “e”, mentre il diciannovesimo secolo era caratterizzato da “l’altro-oppure” e arriva alle seguenti conclusioni: l’architettura del paesaggio deve vedere il mondo nella sua completezza, in altre parole non come una professione altamente specializzata, e tuttavia da un punto di vista professionale” 13 . Nell’Hans-Balusche-Park gli elementi costitutivi del parco-margine vengono trattati così da amplificare i caratteri di parco-passeggiata e viceversa.
Figure 11, 12, 13. Schemi concettuali e descrittivi della filosofia di progetto dell’Hans-Balusche-Park. Il margine, qui fascia lineare, allungata su un terrapieno al di sopra di un sistema di orti urbani e delimitata dalla ferrovia, diviene supporto per un tracciato al tempo stesso fisico e percettivo.
RIFLESSIONI AL MARGINE
Dal punto di vista dell’architettura del paesaggio, il progetto del margine, inteso come spessore spaziale e come entità mobile e dinamica, tende sempre ad assumere, alla scala territoriale così come a quella urbana e topografica, un valore speciale, perché costituisce l’occasione per lavorare contemporaneamente al riequilibrio di fattori fisici, urbani e/o ecologici-ambientali, interni ed esterni all’area di intervento (come nel caso del progetto per il Parque do Tejo e Trençao), e alla configurazione di una serie di gradienti percettivi, capaci 13
THIES SCHRÖDER, HANNS JOOSTEN, Büro Kiefer. Rekombinations, Stichting kunstboek, Stuttgart 2005, pag. 81.
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di attivare/riattivare relazioni di interscambio nel tempo e nello spazio tra luoghi e tra sistemi di luoghi. Il parco-margine è dunque uno spazio progettato con la natura che dà forma ad un ambito di transizione, trasformandolo da un luogo qualunque in un luogo unico e inconfondibile14. Nel parco-margine la messa in scena delle diverse forme dell’alterità non provoca malinteso15, ma favorisce reciprocità e scambi virtuosi.
Figure 14, 15. Percorsi al margine: la lunga passeggiata lineare asfaltata dell’Hans-Balusche-Park e la passerella di legno che asseconda l’andamento delle dune nel Parc de Poble Neu a Barcellona.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI ARRIOLA ANDREU, GEUZE ADRIAAN ed altri Modern park design, Uitgeverij thoth, Amsterdam 1993. COOPER GUY, TAYLOR GORDON, Giardini per il futuro, Logos, Modena 2000. BARIDON MICHEL, DONADIEU PIERRE ed altri, Les jardins et la nature dans la citè, Editeur Institut C.N. Ledoux, Besançon 2002. CACCIARI MASSIMO , La città, Pazzini editore, Rimini 2004. CORTESI ISOTTA, Il parco pubblico 1985- 2000, Federico Motta Editore, Milano 2000. CORTESI ISOTTA, Il progetto del vuoto. Public space in Motion 2000-2004, Alinea Editrice, Firenze 2004. DESVIGNE MICHEL, DALNOKY CHRISTINE, Trasformazioni indotte, “Lotus”, 87, 1995 pagg. 108-131. LAMBERTINI ANNA, Fare parchi urbani. Etiche ed estetiche del progetto contemporaneo in Europa, Tesi di dottorato in Progettazione paesistica, Università degli Studi di Firenze, aprile 2005. LUCIANI DOMENICO, LATINI LUIGI, (a cura di), Scandinavia. Luoghi, figure, gesti di una civiltà del paesaggio, Edizioni Fondazione Benetton Studi Ricerche/Canova, Treviso 1998. MOSTAEDI ARIAN, Landscape design today, Carles Broto Edit., Barcellona 2004.
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Cfr. con la citazione tratta da Rykwert riportata in PIETRO ZANINI, Il significato del limite, Bruno Mondadori, Milano 2002. Pag. 39. 15 Cfr. PIETRO ZANINI, op.cit. Pag 104.
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PEREC GEORGES , Specie di spazi, Bollati Boringhieri, Torino 1989. Ed. orig. Espèces d’espaces, Paris 1974. PIZZETTI IPPOLITO , Il genius loci arriva volando, “Urbanistica informazioni”, 186, 2002, pagg. 7 – 8. SCHRÖDER THIES, JOOSTEN HANNS, Büro Kiefer. Rekombinations, Stichting kunstboek, Stuttgart 2005. VALENTINI ANTONELLA, Progettare paesaggi di limite, Firenze University Press, Firenze 2005. ZANINI PIETRO, Il significato del limite, Bruno Mondadori, Milano 2002.
RIFERIMENTI ICONOGRAFICI Figure 1, 2, 3: immagini fornite da Henry Bava. Figura 4: LUCIANI DOMENICO, LATINI LUIGI, (a cura di), Scandinavia. Luoghi, figure, gesti di una civiltà del paesaggio, Edizioni Fondazione Benetton Studi Ricerche/Canova, Treviso 1998, pag. 89, rielaborazione. Figura 5: Folia supplemento di “Acer”, 3, maggio/giugno 2001, pag.6. Figura 6: CORTESI ISOTTA, Il parco pubblico 1985- 2000, Federico Motta Editore, Milano 2000, pag. 106. Figure 7, 8, 9, 10: MOSTAEDI ARIAN, Landscape design today Carles Broto Edit., Barcellona 2004, rielaborazione. Figure 11,12,13: SCHRÖDER THIES, JOOSTEN HANNS, Büro Kiefer. Rekombinations, Stichting kunstboek, Stuttgart 2005, pag. 82. Figura 14: SCHRÖDER THIES, JOOSTEN HANNS, Büro Kiefer. Rekombinations, Stichting kunstboek, Stuttgart 2005, pag. 83, rielaborazione. Figura 15: CORTESI ISOTTA, Il parco pubblico 1985- 2000, Federico Motta Editore, Milano 2000, pag. 107, rielaborazione.
Testo acquisito dalla redazione della rivista nel mese di novembre 2006. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768 Università degli Studi di Firenze
Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/ Firenze University Press anno 4 – numero 6 – luglio-dicembre 2006 numero monografico Progettare sui limiti sezione: Saggi pagg. 44-53
IL SIGNIFICATO DEL CONFINE NELLE POLITICHE DI CONSERVAZIONE DELLA NATURA Simona Olivieri*
Summary As in the most part of the world, also in Italy the protected areas at first were considered as nature enclosures. This concept, that sharply separate what is in from what is out, at present seems to be unsuitable both to the new social and economical condition and to the growing complexity of the involved issues. That kind of crisis of the traditional conservative politics is well represented by the loss of meaning of the boundary as operative instrument for the conservation of natural values. New opportunities for conservation policies rises from the awardness of the necessity, for the policies themselves to consider the entire system, with its internal and external connections. Many experiences are moving towards alternative approaches where the boundary loose its value as separation element: interesting examples goes from the issues of environmental continuity to the plans of some European parks and so on to the opportunities that rises from the contemporary laws on the landscape subject. Key-words Border, Protected Areas, Natural Parks, Landscape Conservation.
Abstract In Italia, come nella maggior parte del mondo, l’origine delle aree protette è connessa a una filosofia della conservazione che ha trovato nel recinto di natura il suo principale strumento attuativo, che pur nelle implicite potenzialità, oggi si rivela per larga parte inefficace rispetto alle mutate condizioni sociali ed economiche e alla crescente complessità delle questioni in gioco. La crisi delle politiche conservative tradizionali è simbolicamente, ma non solo, rappresentata dalla rottura del confine, linea immaginaria attraverso il quale si individuano un dentro (da tutelare) e un fuori (da trasformare ad uso e consumo delle esigenze dello sviluppo economico); ossia dalla crisi del suo significato operativo come strumento di conservazione di valori. La consapevolezza della inefficacia di qualunque strategia che non sia fondata sulla considerazione dell’intero sistema (e delle relazioni interne ed esterne) di riferimento ha aperto nuove possibilità al paradigma della conservazione. Nell’attuale panorama internazionale molte esperienze si muovono verso l’elaborazione di approcci alternativi, nei quali il tema del confine tende a perdere la sua valenza di elemento di separazione: dalle declinazioni sul tema della continuità ambientale ai piani di parchi naturali europei, fino alle possibilità offerte dai contemporanei riferimenti legislativi in materia di paesaggio. Parole chiave Confini, aree protette, parchi naturali, conservazione del paesaggio.
* Dottorando di ricerca in Progettazione paesistica, Università di Firenze.
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DALLE ISOLE ALLE RETI, ALLA QUALITÀ DIFFUSA: MUTAMENTI INTORNO ALL’IDEA DI CONFINE
In Italia, come nella maggior parte del mondo, l’origine delle aree protette è connessa a una filosofia della conservazione che ha trovato nel recinto di natura il suo principale strumento attuativo, che pur nelle implicite potenzialità, oggi si rivela per larga parte inefficace rispetto alle mutate condizioni sociali ed economiche e alla crescente complessità delle questioni in gioco. Tanto le acquisizioni teorico-scientifiche, quanto gli esiti empirici, hanno contribuito a destrutturare l’impalcatura delle politiche tradizionali di conservazione della natura e del paesaggio, basate sulla considerazione di valori di eccezionalità (naturalistico, estetico, culturale, eccetera) per i quali sono state legittimate politiche e azioni volte alla loro tutela. Dal vincolo imposto a singole monumentalità a quello riferito a specifiche categorie di risorse, passando attraverso la messa in salvaguardia di vaste superfici, si è comunque agito in coerenza ad una concezione settoriale e parziale dell’impianto conservativo. Già sul finire del XIX secolo nei primi movimenti ambientalisti di origine americana1 è possibile rintracciare istanze di apertura verso un approccio diverso, globale alla conservazione delle risorse, nella consapevolezza che essa è perseguibile solo se riferita all’intero territorio, piuttosto che a singole parti di pregio. A partire da questo riconoscimento le vicende legate alla conservazione della natura e alla protezione del paesaggio configurano un quadro complesso di riferimenti istituzionali, ricerche, dibattiti, in cui si assiste al graduale superamento del concetto di tutela del paesaggio di qualità all’idea di estensione della qualità a tutto il paesaggio (non a caso la Convenzione europea del paesaggio si riferisce anche ai paesaggi de-gradati, quelli cioè in cui esiste un minor grado di qualità). Si può affermare che il passaggio da una qualità pensata come attributo esterno al paesaggio attribuibile da un singolo individuo a proprietà intrinseca al paesaggio riconoscibile dalla società, sia simbolicamente rappresentato dalla rottura del confine, inteso non solo in riferimento alle questioni ambientali, ma anche come margine urbano, più propriamente legato alle tematiche formali e funzionali della crescita della città. La rottura del confine, ossia la crisi del suo significato operativo come strumento di conservazione di valori, deriva dalla presa di coscienza della inefficacia di qualunque strategia che non sia fondata sulla considerazione dell’intero sistema (e delle relazioni interne ed esterne) di riferimento. Se è vero che la consistenza di tali affermazioni è principalmente legata ai temi della conservazione naturalistica, dove la complessità dei sistemi è un riferimento scientifico consolidato, è pur vero che già la cultura urbanistica degli anni cinquanta affrontava questioni concettualmente affini quando nei “piani del secondo dopoguerra (piano di Assisi di Giovanni Astengo, piano di Bologna di Pier Luigi Cervellati) la regolazione degli interventi che avrebbero interessato l’intera città storica rendeva furenti (in quanto lesi nella loro creatività progettuale) alcuni tecnici abituati a considerare storici solo i monumenti o i fabbricati vincolati. La dicotomia, che sembra sopravvivere con pervicacia inusitata, si estende poi tra centri storici ed aree extraurbane, ed infine, nell’ultimo ventennio, tra emergenze naturalistiche (parchi, oasi e riserve) e contesto territoriale”2. L’attenzione si è dunque progressivamente spostata dalle isole alle reti, ai sistemi di aree protette, alla “territorializzazione delle politiche di tutela, estendendole al territorio esterno alle aree protette, fino al territorio complessivo”3. Non si tratta ovviamente di descrivere una semplice 1 Uno dei precursori del moderno paradigma della conservazione è riconosciuto in George Perkins Marsh (18011882) e nella sua opera più nota, L’uomo e la natura, ossia la superficie terrestre modificata per opera dell’uomo, Firenze (1872), G. Barbera Editore, ristampa anastatica F. Angeli, Milano 1988. 2 MASSIMO SARGOLINI, Le reti ecologiche e la pianificazione delle aree protette, in Ecoregioni e reti ecologiche. La pianificazione incontra la conservazione, WWF Italia, Unione Province d'Italia (UPI) e Provincia di Roma, 2005. 3 ATTILIA PEANO, Rapporti tra il piano del parco e la pianificazione del contesto, in BALLETTI FRANCA (a cura di), Il parco tra natura e cultura, Deferrari editore, Genova 2001, pag. 99.
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dilatazione fisica dei territori cui si fa riferimento oltre il perimetro del parco (o della città consolidata), ma di ragionare in una logica diversa che implica da un lato il riconoscimento della dinamicità, relazionalità e imprevedibilità del paesaggio, dall’altro di adeguare i processi pianificatori al ruolo che tale riconoscimento implica. Il ragionamento vale tanto per i confini tra interno ed esterno del parco, quanto per quelli interni legati all’articolazione del territorio in zone omogenee per gradi di protezione (modello di pianificazione zonale). Le risorse naturali per la cui conservazione ha origine l’idea di parco, si configurano come sistemi aperti e intimamente interconnessi con gli altri sistemi territoriali; l’ecologia ci insegna che essi sono organizzati secondo ordinamenti dinamici, da cui dipende la loro funzionalità e complessità. Le relazioni ecosistemiche richiedono un approccio che tenga in considerazione i legami, i flussi di energia e i continui scambi con l’ambiente esterno. Analogamente si può dire delle relazioni di tipo antropico, che, hanno una energia progressivamente più intensa nelle aree più vicine all’intervento umano, ma sono potenzialmente ovunque, data la natura fortemente antropizzata dei paesaggi italiani ed europei in generale. “Altri flussi appartengono all’ordine naturale ma sono separati dai precedenti solo concettualmente. Non è difficile immaginare come le human ways siano strettamente connesse alle natural ways da molteplici, reciproche interferenze”4. Appare evidente come, nella maggior parte dei casi, esista una forte contraddizione tra la configurazione strutturale dei sistemi di paesaggio e le forme di pianificazione tradizionalmente in uso per la loro gestione e conservazione. La pianificazione zonale, già applicata nel nostro paese prima della legge quadro del ’91 e, da questa convalidata, si basa su uno schema di fasce tendenzialmente concentriche di pressione vincolistica crescente dall’esterno verso l’interno dell’area protetta, che, creando rigide suddivisioni, mal si adatta alla struttura relazionale del paesaggio su cui si applica. Il tentativo di modellizzazione della realtà fondato sul riconoscimento di un valore rispetto al quale viene misurato il grado di uso consentito della risorsa, corrisponde ad una necessità di generalizzare e uniformare il processo di pianificazione, ma “rischia, di perdere ogni contatto con le specificità del territorio”5. “Il superamento del criterio delle zone omogenee, ai fini della differenziazione spaziale delle strategie di gestione e della disciplina recata dai piani, è tanto più importante in quanto implica la ricerca delle differenze e delle eterogeneità interne che alimentano le dinamiche interattive degli ecosistemi e dei paesaggi, caratterizzandone e rendendone riconoscibile l’identità”6. Se, sul piano teorico tali acquisizioni si possono considerare condivise e formalmente riconosciute sul piano istituzionale, non altrettanto scontata è la loro applicazione nei modelli operativi e negli strumenti di attuazione delle politiche conservazionali. La Legge nazionale sulle aree protette è impostata secondo una visione fortemente separatista: da una parte l’istituzione delle aree contigue, non bene identificate7 zone tampone le cui ragioni sono legate più ad aspetti di compensazione dell’attività venatoria che a criteri di tutela ambientale, dall’altra la totale autonomia e il principio di sostitutività del piano del parco sugli altri strumenti pianificatori. È stato notato come l’intero impianto giuridico della Legge 394/91 tenda a configurare “il sistema della protezione come una zona di rottura rispetto all’applicazione dei principi normali dell’amministrazione”8, consolidando 4
VALERIO GIACOMINI, VALERIO ROMANI, National parks as open system: an Italian overview, “Landscape Planning”, Elsevier Amsterdam 1978, pag. 92. 5 ROBERTO GAMBINO, La lezione di Giacomini a fronte degli orientamenti e delle esperienze europee, in JOLANDA NEGRI, SANDRO FLAIM (a cura di), Uomini e Parchi Oggi. Ricordando Valerio Giacomini, Atti del convegno, Gargnano (BS) 1996, pag. 73. 6 ROBERTO GAMBINO, Conservare innovare. Paesaggio, ambiente, territorio, UTET, Torino 1997, pag. 138. 7 La legge 394/91 all’art. 32 relativo alle aree contigue non fornisce una definizione, ma si limita a delegare alle Regioni il compito di redigere piani e programmi e le eventuali misure di disciplina della caccia, della pesca, delle attività estrattive e per la tutela dell’ambiente [...] ove occorra intervenire per assicurare la conservazione dei valori delle aree protette stesse. Art.32 comma 1, L. 394/91. 8 GIAMPIERO DI PLINIO, PASQUALE FIMIANI, L’ordinamento delle aree protette. Governo, amministrazione, tutela nella legislazione nazionale, comunitaria e della regione Abruzzo, Carsa edizioni, Teramo 1997.
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il divario tra le modalità di governo del sistema delle risorse e i processi reali che ne regolano le trasformazioni. L’approccio dicotomico che la pianificazione ha privilegiato nella gestione del patrimonio naturalistico, si basa in sostanza sul criterio dell’allontanamento degli usi conflittuali, piuttosto che sul loro orientamento verso modalità e forme compatibili con le risorse naturali, compatibilità da cui, tra l’altro, dipende il loro stesso mantenimento. Mettendo in relazione l’istituzione dei primi parchi naturali, avvenuta in America nel 1872, con la contemporanea creazione delle riserve per i nativi, Adriano Paolella pone l’accento sul significato sociale sotteso a questo meccanismo: “così facendo gli occupatori di un territorio risolsero il problema di quanto non fosse funzionale al loro sistema sociale. Il modello differenzia i territori e l’uso che di essi è praticabile. Territori protetti il cui obiettivo è la conservazione della natura, o la sopravvivenza delle società indigene, e il rimanente territorio in cui la natura, e le società indigene, non devono impedire la realizzazione degli interessi e dei profitti resi possibili dall’uso indiscriminato delle risorse. Una dicotomia profonda in cui mal si rilegge la continuità dei sistemi naturali e sociali, una separazione fittizia, strumentale”9.
LA CONDIZIONE DI CONTIGUITÀ TERRITORIALE. PARCO, NON PARCO, IL CONFINE FA LA DIFFERENZA (?)
Abbiamo accennato come le riflessioni sul concetto di confine, limite, margine, trovino ampio spazio in letteratura soprattutto in relazione alle problematiche di definizione del paesaggio periurbano, dove il confine è quello labile tra città e campagna, il limite è quello dell’espansione insediativa e il margine è legato alla progressiva dissoluzione del confine e del limite10. Il ragionamento sul confine che conduce all’idea di contiguità, come espressione della condizione di stato tra territorio del parco e territorio immediatamente esterno al parco, è rispetto al tema del margine urbano esattamente opposto.
Figura 1. Il confine dell’area protetta si ritaglia intorno ai nuclei abitati, lasciandoli fuori dal regime di tutela. Nella maggior parte dei casi la perimetrazione dei parchi segue logiche di compensazione economica del vincolo o motivazioni politico-sociali prive di valore in relazione alla struttura del paesaggio o alle relazioni ecosistemiche. A sinistra il parco nazionale del Gargano, a destra il parco regionale delle Alpi Apuane.
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ADRIANO PAOLELLA, Abitare i luoghi. Insediamenti, Tecnologia, Paesaggio, BFS Edizioni, Pisa 2004, pag. 39. In relazione al concetto di margine urbano si veda DANILO PALAZZO, 5+1 strategie per i margini urbani, in M. CRISTINA TREU, DANILO PALAZZO, (a cura di), Margini, Alinea, Firenze 2006. 10
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Se la città trova nel margine il problema irrisolto di un limite che, non disegnando più la forma urbana in modo preciso e tangibile, lascia il posto al sovrapporsi di funzioni e aspetti diversi, spesso ad essa estranei, il parco usa il confine per sancire differenze che non hanno in origine alcuna consistenza in termini di paesaggio; esso è il frutto di ordinamenti giuridico-istituzionali stabiliti dall’uomo per conferire a ciascuno (parco ed extra parco) funzioni diverse e specifiche (da un lato la conservazione e dall’altro lo sviluppo) che non possono, in realtà, essere intese in senso reciprocamente esclusivo. Mentre le problematiche urbane si sviluppano nella direzione di approntare delle strategie del margine11, come ipotesi di riconoscimento e progetto del margine stesso, il dibattito sui confini delle aree protette è orientato verso la definizione di politiche d’integrazione dei diversi livelli di piano che insistono nei territori d’interfaccia12, con l’obiettivo di minimizzare le differenze d’ordine istituzionale in un progetto di valorizzazione complessiva del contesto paesistico locale. “In questi termini qualsiasi territorio soggetto a processo di pianificazione, possiede dei problemi di margine a contatto con i territori limitrofi, ma tali problemi”, nel caso del sistema parco/non parco, “sono sensibilmente acuiti dalla particolare impostazione con cui sono determinate le strategie che danno volto allo sviluppo economico e sociale”13. Si fa riferimento al fatto che nei territori limitrofi alle aree protette, l’organizzazione e l’uso del sistema delle risorse non sia ispirato a criteri di pianificazione integrata uomo-ambiente, pianificazione, in cui si assuma come caratteristica strutturale il binomio conservazionesviluppo. Nonostante le differenze sostanziali che distinguono il ragionamento sul confine della città da quello sul confine del parco, da un punto di vista terminologico si riscontrano alcune contaminazioni delle teorie urbane nelle accezioni con cui di volta in volta sono state identificate le aree esterne al perimetro del parco. Si tratta, infatti, di collocare la discussione sui territori contigui al parco all’interno della più ampia dissertazione sui sistemi di margine, come categoria descrittiva, analitica, progettuale, propria dei paesaggi della contemporaneità, dove la perdita di funzioni consolidate legate ad ambiti palesemente riconoscibili, ha portato alla necessità di nuove immagini, nuove descrizioni, nuovi ruoli. Confrontando i contenuti funzionali e percettivi di mediazione, tensione, conflittualità, riferiti al paesaggio periurbano14, si notano alcune significative analogie con la descrizione dei territori adiacenti al confine del parco fornita da Giacomini e Romani, per i quali questi identificano “zone di conflittualità marginale”15, luoghi in cui è prevedibile l’instaurarsi di fenomeni incontrollati di pressioni insediative, flussi antropici, spinte o dipendenze economiche, luoghi dell’interfaccia tra sistemi diversi, terreno di scontro tra le molteplici e contrapposte esigenze delle comunità locali. È necessario tuttavia introdurre una chiara distinzione tra la definizione, che pur nella molteplicità di declinazioni, è univocamente restituibile con area contigua, e quella di territorio contiguo relativa a questo studio. Nel primo caso ci si riferisce – il termine area rimanda ad una superficie quantitativamente ben definita - ad una categoria zonale utilizzata dalla pianificazione per individuare una estensione, oltre i confini propriamente detti del parco, del regime di tutela, con finalità diverse rispetto all’area protetta, ma comunque funzionali al suo mantenimento; di fatto il problema del confine non viene affrontato ma dilatato nello spazio. Il territorio contiguo viceversa esprime un significato multiplo che dipende principalmente (ma non solo, essendo legato in modo imprescindibile alle specificità locali) dalla variabile tempo; può identificare una condizione puramente geometrica, nel suo 11
DANILO PALAZZO, op. cit., in M. CRISTINA TREU, DANILO PALAZZO, (a cura di), op. cit., Firenze 2006. Si vedano le numerose pubblicazioni di Roberto Gambino, Attilia Peano, Guido Ferrara. 13 VALERIO GIACOMINI, VALERIO ROMANI, (1982), Uomini e Parchi, F. Angeli, Milano 2002, pag. 129. 14 Tali attributi sono riferiti in realtà al concetto di paesaggio di limite come categoria progettuale in opposizione a quella analitico descrittiva di paesaggio periurbano o a quella concettualmente patologica di paesaggio di frangia. Si veda ANTONELLA VALENTINI, Progettare paesaggi di limite. Sperimentando nell’area metropolitana fiorentina. Firenze University Press, Firenze 2005. Sui caratteri specifici del paesaggio periurbano si veda CARLO SOCCO, Il paesaggio imperfetto. Uno sguardo semiotico sul punto di vista estetico, Tirrenia Stampatori, Torino 1998. 15 VALERIO GIACOMINI, VALERIO ROMANI, op.cit, 2002, pagg. 130-132. 12
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essere adiacente al confine del parco nel momento della sua istituzione, può diventare luogo di relazione, pressione, flusso, transizione, quando si innescano nuovi e reciproci processi trasformativi, infine assumere una sua propria connotazione paesistica, configurando funzioni e ruoli specifici, quando l’area protetta è ormai un sistema “a regime”. L’esistenza di una condizione di contiguità dipende sostanzialmente da due differenti fattori; da un lato è il risultato di una politica di gestione delle risorse che nella maggior parte dei casi ha delegato alla perimetrazione tra un dentro (da tutelare) e un fuori (ad uso e consumo delle esigenze di sviluppo) le opportunità di conservazione del paesaggio, dall’altro si configura in ordine a un problema di riconoscibilità del fenomeno, ossia della mancata identificazione degli aspetti che connotano il paesaggio all’esterno dei parchi e che possono essere messi in relazione con la sua presenza ed attività. Un primo passo verso lo studio delle motivazioni istituzionali riferibili alla condizione di contiguità va nella direzione di individuare le modalità con cui la pianificazione delle aree protette ha affrontato le problematiche di integrazione tra parco e contesto, con l’obiettivo prioritario di mettere in luce differenti possibilità di approccio al tema della conservazione.
STRATEGIE PER IL SUPERAMENTO DEL CONFINE
L’esperienza francese dei parchi naturali regionali dimostra, attraverso la charte constitutive, come sia possibile superare le problematiche legate alle logiche settoriali identificando con il parco un insieme coerente di azioni e progetti condivisi da tutti gli attori che a vario titolo sono interessati dalla sua creazione e che stipulano un contratto, la charte appunto. In questa logica, il superamento dei limiti spaziali avviene nel senso di una costante e programmata invasione delle politiche conservative all’interno degli strumenti di gestione territoriale ordinaria, che hanno il loro riferimento in ambiti più vasti o diversamente articolati rispetto al parco vero e proprio. La natura prettamente sociale e contrattuale della charte constitutive, ha il suo riferimento diretto nella adesione dei Comuni ad un programma d’azione condiviso e finalizzato alla protezione e valorizzazione del patrimonio di risorse di cui quel paesaggio è espressione. Nel caso del parco regionale dei Vosges du Nord, tra l’Alsace e la Lorraine, la charte privilegia i rapporti con le strutture sovralocali, la cui aggregazione nasce non solo da obiettivi e progetti comuni, ma anche dal riconoscimento di una specifica località che valica i confini amministrativi dei singoli comuni. La coerenza di azioni e processi riscontrabile tra gli strumenti di pianificazione ordinaria e la Charte du parc, tanto da essere definito più un modello di gestione integrata16 che di pianificazione territoriale, è il canale attraverso cui i confini istituzionali si dissolvono in quelli identitari riconosciuti nel patrimonio comune di risorse e valori da tutelare e potenziare. Il Parco naturale des Vosges du Nord, pone al centro del suo operare la logica del partenariato, come modalità alternativa, rispetto a quella puramente territoriale, di considerare il tema dell’integrazione parco/contesto. Uno degli strumenti finalizzati a perseguire tale obiettivo è ad esempio, il sindacato misto di gestione del parco, SYCOPARC, i cui membri comprendono tutte le figure politiche e sociali che hanno dei legami diretti o indiretti con la creazione del parco, e che collabora come struttura di supporto tecnico alla elaborazione degli strumenti di pianificazione ordinaria degli ambiti territoriali interessati. È stato notato come “sia molto più probabile trovare soluzioni all’interno dei piani ordinari piuttosto che in quelli speciali dei parchi, che nella maggior parte dei casi discendono da una tradizione ambientalista fortemente conservativa. È quindi più probabile rintracciare i temi del rapporto uomo-natura all’interno di quegli strumenti in cui l’uomo e le sue attività sono
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SILVIA ARNOLFI, Concezioni e strumenti innovativi nel governo degli spazi naturali: stimoli e suggerimenti dall’esperienza francese, in ANDREA FILPA (a cura di ), Il Parco Nazionale dei Monti Sibillini nel sistema dell’Appennino, SALAeditori, Camerino 2000.
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da sempre il riferimento principale”17. Spostando il punto di vista dalla pianificazione speciale del parco agli strumenti di gestione ordinaria del territorio è possibile dilatare il ventaglio di opportunità, oltre che sperimentare forme di integrazione a partire dal contesto verso il parco piuttosto che dal parco verso il contesto. In tal senso è significativo il caso dell’ambito di Doñana, nella regione spagnola dell’Andalusia, dove il progressivo riconoscimento del valore identitario dell’ambito ha portato dall’istituzione del parco nazionale nel delta del fiume Guadalquivir (1969) alla costruzione di un ampio e ramificato sistema della conservazione con gradi differenti di tutela (2005), coordinato da un unico strumento di piano (Plan de Ordenaciòn Territorial) riferito all’intero ambito territoriale. Questo ha consentito sia di far fronte attraverso una visione organica delle condizioni strutturali e delle relazioni tra i sistemi alla crescente complessificazione dei problemi, difficilmente affrontabile all’interno di politiche di settore, e sia di amplificare (per intensità e per estensione) gli effetti conservativi derivanti dalla messa in rete degli spazi protetti. In Italia le condizioni di operabilità mutano sensibilmente a fronte di un forte scollamento tra la direzione del dibattito scientifico e delle applicazioni sperimentali che ne derivano, e le opportunità concrete offerte dai quadri istituzionali. In questo senso l’esperienza del parco nazionale dei Monti Sibillini appare di estremo interesse in ordine a due motivazioni principali, da un lato i contenuti specifici del piano del parco sperimentano un approccio pianificatorio alle aree protette secondo principi che considerano il parco come un sistema aperto e variabile; dall’altro il riferimento ad un parco italiano consente di verificare nell’applicazione i limiti e le potenzialità del quadro di riferimento normativo nazionale. Ossia le possibilità offerte da un’interpretazione creativa di superare le debolezze riconosciute al dettato istituzionale, e allo stesso tempo verificarne il grado di interferenza ritenuto inalienabile. L’intera impostazione del piano rivela la centralità di un’idea di conservazione estesa a tutto il territorio e non riducibile al solo ambito del parco, nella prospettiva di “tutelare, valorizzare ed estendere le caratteristiche di naturalità, integrità territoriale e ambientale” all’intero sistema paesistico su cui il parco insiste. Affinché ciò si verifichi è necessario considerare il sistema di relazioni esistenti e quelle potenzialmente attuabili o minacciate, a vari livelli, all’interno di tutto il processo di conoscenza, formazione e implementazione del piano. Il riconoscimento di tale struttura relazionale è affidata alle unità di paesaggio, che costituiscono una sintesi allo stesso tempo interpretativa e progettuale e si fanno carico di esprimere le esigenze di continuità e/o di rottura tra i sistemi e tra questi e le porzioni territoriali limitrofe.
Figura 2. Le unità di paesaggio (a destra) e il sistema delle aree protette nell’ambito di Doñana in Andalusia (a sinistra).
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MASSIMO SARGOLINI, trascrizione dell’intervista sul Paesaggio dei territori contigui ai parchi naturali, tenutasi a Firenze nell’ambito del Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica, coordinatore prof. Giulio G. Rizzo, 2006.
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Figura 3. Le diverse modalità di superamento del confine istituzionale del parco in alcune esperienze europee.
Alle unità di paesaggio è affidato il compito di descrivere la geografia spaziale cui si riferisce il progetto del parco configurandosi come microsistemi aperti e dinamici, individuati sia in rapporto alle unità circostanti, sia come struttura di relazione tra sistemi differenti (fisico, biologico, insediativo, percettivo, culturale). Il confronto tra la geografia territoriale descritta dalle unità di paesaggio e l’attuale perimetrazione del parco mette in luce situazioni di incongruenza rispetto alle quali il piano indica rischi e opportunità relativi alla conservazione e alla fruizione delle risorse paesaggistiche, alla evoluzione dei processi e alla continuità delle relazioni, suggerendo la revisione dei confini in via prioritaria per alcune aree specifiche. Tuttavia, la consapevolezza della necessità di dare efficacia operativa al piano, affinché le indicazioni si traducano in scelte di fatto, porta alla ricerca di un compromesso tra il rigore delle motivazioni tecnico scientifiche e l’opportunità concreta di modificare i confini del parco. Fornisce quindi due strategie alternative (non reciprocamente esclusive) che riguardano da un lato l’articolazione di una disciplina d’uso concertata con gli enti competenti relativamente alle aree contigue, dall’altra la costruzione di programmi e progetti specifici per gli ambiti di interfaccia, tali da consentire la convergenza delle linee di sviluppo locale con le indicazioni del piano. Questa posizione non implica la rinuncia all’azione, né una mancata coerenza con i principi teorici enunciati, ma definisce le condizioni reali che consentono di superare le difficoltà politiche, sociali ed economiche conseguenti ad una immediata riapertura del problema, che rischierebbe di paralizzare il processo di attuazione del piano.
PROSPETTIVE DI CAMBIAMENTO
Alla dissoluzione del confine come simbolo della visione separatista e iperspecializzata dello spazio contribuisce anche il “passaggio da una visione elitista ad una olistica”18, così come viene codificato nella Convenzione europea del paesaggio, che implica un notevole salto tanto negli ordinamenti teorici che negli apparati tecnici. Da un lato la Convenzione codifica e l’attuale dettato legislativo che la recepisce19 ordina giuridicamente, le riflessioni e le 18 RICCARDO PRIORE, Verso l’applicazione della Convenzione Europea del paesaggio in Italia, testo redatto in occasione della Conferenza pubblica organizzata dalla Fondazione Benetton Studi e Ricerche, Treviso 11 novembre 2004. 19 Legge n. 9 del 14 gennaio 2006.
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istanze che da anni la comunità scientifica rileva e propugna, dall’altro pone nuovi quesiti relativamente alle modalità con cui applicare nella prassi operativa tali principi. L’assunto di fondo con il quale si estende la dimensione paesaggistica a tutto il territorio richiede il confronto diretto con il tema della settorialità delle politiche territoriali nel nostro paese, dell’integrazione tra i livelli di governo del territorio, della trasversalità delle problematiche del paesaggio rispetto ai confini amministrativi, e si scontra con una tradizione conservativa fortemente radicata nell’impianto legislativo nazionale e che tradisce una certa reticenza a superare l’ottica della tutela puntiforme (Codice dei beni culturali e paesaggistici). Tuttavia si avvertono segnali di cambiamento in itinere; l’adozione della visione strutturale del territorio in molte regioni italiane, e la conseguente riforma dei piani locali, concede speranza alla ricomposizione della bipolarità parco/contesto, speciale/ordinario, nella misura in cui il riconoscimento della struttura di un paesaggio presuppone di superare l’idea del confine come elemento distintivo. In una logica di visione complessa e strutturale, non va sottovalutato il contributo in termini di conoscenza e di progettualità dell’esperienza delle reti ecologiche e dei postulati sulla continuità ambientale20 con il carico di declinazioni disciplinari che ha portato con se (infrastrutturazione ambientale, reti paesistiche, greenway, eccetera). A questo proposito è opportuno sottolineare due aspetti; da un lato il trasferimento del paradigma scientifico delle reti all’interno delle singole realtà locali, tuttora in corso sia nella definizione delle modalità sia nel numero di Enti (Regioni, Province e Comuni) che ne hanno disposto l’adozione, ma connotato da un intenso dinamismo, dall’altro il ruolo svolto dagli studi sulle reti ecologiche nella discussione sull’efficacia del confine e sulla necessità di superarne limiti e criticità. In questo senso non solo si è prodotto un effettivo spostamento d’attenzione dal paesaggio di qualità (all’interno dei parchi) alla qualità del paesaggio nel suo complesso, ma questo ha riguardato per estensione concettuale, anche gli aspetti non esclusivamente ecosistemici o biologici, interessando il più vasto complesso delle attività umane, delle relazioni sociali, storico-culturali ed economiche.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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RIFERIMENTI ICONOGRAFICI
Figura 1: elaborazione di Simona Olivieri su base dati Corine Land Cover 2000, confini Aree Protette, Ministero dell’Ambiente, 2000. Figura 2: JUNTA DE ANDALUCIA, CONSEJERÍA DE OBRAS PÚBLICAS Y TRANSPORTES , DIRECCIÓN GENERAL DE ORDENACIÓN DEL TERRITORIO Y URBANISMO, Plan de ordinacion del territorio del Ambito de Donana, dicembre 2003, relazione dal sito www.donana.es Figura 3: tabella elaborata da Simona Olivieri.
Testo acquisito dalla redazione della rivista nel mese di settembre 2006. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768 Università degli Studi di Firenze
Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/ Firenze University Press anno 4 – numero 6 – luglio-dicembre 2006 numero monografico Progettare sui limiti sezione: Saggi pagg. 54-69
IL GOVERNO DEL TERRITORIO E DEL “TERZO” PERIURBANO. IL PARCO
PAESAGGIO RURALE NELLO SPAZIO AGRICOLO COME STRUMENTO DI
POLITICHE E DI PROGETTO David Fanfani*
Summary The recent transformations and evolution of the urban and metropolitan systems in Europe, as well as in Italy, have often produced settlements forms where the edge between urban ad rural spaces goes to fade and where the legacy of the rural society and of the agricultural landscape is often eroded under the urban equipments and housing development pressure. Nevertheless in such as settlements the role of the open spaces remains still pivotal. Infact they can provide very helpful “public goods” - as such as urban ecosystem and urban-rural landscape quality - and - at the same time - goods, facilities and amenities for the urban people – as such as short foods supply chain, recreational, tourist, social and cultural services. For planning agenda facing this context of mingled urban-rural patterns and functions means to deal with new planning and governance strategies. Agricultural park device seems to fit with the problems at stake. In many cases in Europe and Italy it permits to pursue the multifunctional and integrated goals for managing the periuban places and to set up the operational framework to develop territory and landscape designs aimed to protect and, sometimes, recreate the identitary, environmental, social and economic values of the open spaces. Key-words Peri-urban Rural Landscape, Agricoltural Parks, Agricoltural Policies, Planning. Abstract In Europa, come in Italia, le recenti trasformazioni ed evoluzione dei sistemi urbani e metropolitani producono in molti casi forme insediative dove il confine fra urbano e rurale tende a sfumare e dove le preesistenti strutture rurali, socio economiche e del paesaggio sono molto spesso erose dalla pressione della rendita e delle attrezzature urbane. In questo tipo di insediamento rimane tuttavia centrale il ruolo degli spazi aperti sia come elementi strategici per la produzione di “beni pubblici” – come la qualità dell’ecosistema urbano e del paesaggio rurale che di beni e servizi per la popolazione urbana – come filiere alimentari corte, servizi ricreativi e turistici, servizi didattici e sociali. In questo contesto si rivela di crescente interesse ed applicazione in Europa lo strumento del parco agricolo come specifico supporto per strategie di governance e di planning in grado di affrontare in termini integrati e multifunzionali le problematiche poste dalla diffusione urbana e di recuperare, attraverso innovativi progetti di territorio e di paesaggio, il valore identitario, economico e sociale degli spazi aperti. Parole chiave Paesaggio rurale periurbano, parchi agricoli, politiche agricole, pianificazione.
* Ricercatore, Dipartimento di Urbanistica e Pianificazione del territorio, Università di Firenze.
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PREMESSA: LE TRASFORMAZIONI INSEDIATIVE E DEL PAESAGGIO ITALIANO “..il mondo sbalordito non sa più distinguere dai frutti una stagione dall’altra. E tutta questa progenie di mali discende dalle nostre liti, dalle nostre discordie: ne siamo noi i genitori e l’origine” (W. Shakespeare, Sogno di una notte di mezza estate)
La relativa stasi del sistema insediativo italiano, delle forme di paesaggio e delle relazioni città campagna si protrae all’incirca fino alla fine degli anni Quaranta, quando, in una fase di intensa ristrutturazione e crescita economica, cambiano radicalmente le forme di uso del suolo legate al forte processo di inurbamento che si verifica in quegli anni sotto la spinta della prima rivoluzione industriale italiana1. Fino a quel momento, malgrado alcuni relativi assestamenti dovuti ai primi insediamenti industriali urbani e vallivi, i quadri di vita legati all’agricoltura ed i paesaggi che ne erano espressione erano caratterizzati da una sostanziale stabilità e continuità espressa attraverso alcune tipologie specifiche di paesaggi agrari riconducibili ad alcuni contesti regionali ma, pur tuttavia, ben inscritti all’interno di una sostanziale ed univoca complementarità con una forma compatta della città e di una relazione gerarchica con la stessa. Con gli anni del boom economico si avvia un progressivo processo di drenaggio sociale, economico ed antropologico per cui la dimensione urbana diviene di fatto l’elemento largamente predominante rispetto ad un residuo rurale che perde progressivamente tenuta sotto il profilo delle sue strutture socio economiche aggregative e di identificazione. Il modello di produzione industriale, meccanizzata e seriale, tende ad estendersi anche alla campagna ed all’agricoltura, in questo ampiamente sostenuta dal modello di sviluppo rurale promosso dalla politica comunitaria e dalla progressiva perdita di un legame abitativo significativo con luoghi ove si può anche continuare a vivere ma dove di fatto non si lavora più. Malgrado ciò, la crescita della dimensione urbana è ancora fortemente determinata dalla sua avanzata fisica che, nelle espansioni a macchia d’olio e in aggiunta secondo processi di periurbanizzazione e controurbanizzazione2 che investono generalmente i comuni di prima cintura, non riesce ancora a investire un residuo campo di relazioni ancora fortemente permeate da una cultura dell’abitare di matrice rurale3. Il modello di espansione del campo urbano tende decisamente a modificarsi con gli anni Ottanta quando le dinamiche di sub urbanizzazione assumono un carattere decisamente amplificato e discreto procedendo per salti e disegnando un habitat a bassa densità difficilmente riconducibile alle forme più stabili del territorio e del paesaggio, ove la dimensione urbana si svolge attraverso relazioni di “comunità senza prossimità”4, che procedono per forme reticolari tendenzialmente non gerarchiche5 ed estese sul territorio, talvolta appoggiate ad una originaria policentricità dell’insediamento. Si tratta in questo caso di un modello qualitativamente nuovo di uso territorio, radicato in pratiche dovute all’emersione di una fortissima individualità di pratiche abitative e di consumo6 riconosciuto già in precedenza in altri contesti europei nelle forme della
1
ARTURO LANZANI, I paesaggi italiani, Meltemi, Roma 2003. JOE B. L. BERRY (editor), Urbanization and counterurbanization, Sage press, Beverly Hills 1976. 3 ARTURO LANZANI, op. cit., 2003, pag. 22. 4 MELVIN M. WEBBER, The Urban Place and the Nonplace Urban Realm in MELVIN M. WEBBER (Editor), Explorations into Urban Structure, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1964, pagg. 19-41. 5 GIUSEPPE DEMATTEIS, Modelli urbani a rete: considerazioni preliminari, in CURTI FAUSTO, DIAPPI LIDIA (a cura di), Gerarchie e reti di città, tendenze e politiche, F. Angeli, Milano1990, pagg. 27-48; ROBERTO CAMAGNI, 2
Strutture urbane gerarchiche e reticolari: verso una teprozzazione, in CURTI FAUSTO, DIAPPI LIDIA (a cura di), Gerarchie e reti di città, tendenze e politiche, F. Angeli, Milano 1990. 6
BERNARDO SECCHI, La città del ventesimo secolo, Laterza, Roma-Bari, 2005.
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rurubanization o ville eparpillée7, della spreaded town, e che talvolta può trovare desolanti espressioni che richiamano le cifre della subtopia. In Italia tale processo viene riconosciuto e molto spesso designato sotto la categoria della “città diffusa”8, intesa come fenomenologia dell’urbano a bassa densità che, tuttavia, alcune ricerche, in quegli stessi anni, tendono a cogliere nella sua tutt’altro che trascurabile pluralità sostanziata da specifiche forme dispositive e relazioni socio spaziali9, e dalla costruzione di originali, seppur problematiche, forme di paesaggio urbano legate anche ai diversi modelli di sviluppo e contesti delle “tre Italie”10. In questo contesto il territorio rurale e le sue caratteristiche paesistiche ed agroambientali sono ovviamente sottoposte ad una fortissima pressione e processi di trasformazione sia fisica che socio economica. In primo luogo si osserva, a parte alcuni specifici contesti territoriali prevalentemente appenninici, una sostanziale influenza dell’area di influenza urbana anche su gran parte del territorio generalmente classificato come rurale11. Si tratta di una pervasività che riguarda primariamente il modello di vita legato alla possibilità di svolgere attività lavorative, utilizzare servizi, intrattenere relazioni di carattere prevalentemente urbano generalmente non prossime al luogo di abitazione che esprime invece una ricerca di commodities lette però in un’ottica essenzialmente privatistica. A queste dinamiche si accompagnano processi di trasformazione fisica del territorio aperto, dell’ambiente costruito e del paesaggio tutt’altro che trascurabili. La diffusione dell’urbanizzazione, caratterizzata - non dimentichiamolo - anche dalla realizzazione spesso scarsamente razionale di numerose opere infrastrutturali e poli di servizio, impatta in maniera fortissima sul territorio agricolo, sia dal punto di vista del suo valore produttivo che fondiario. Da questo punto di vista il progressivo sfrangiamento dell’edificato produce una perdita netta del valore agronomico dei suoli – accompagnata peraltro da una cementificazione diffusa del territorio agricolo ottenuta anche attraverso opere minute12 - e il complementare effetto della crescita della attesa edificatoria e del conseguente valore fondiario come effetto dei noti meccanismi della rendita urbana. A questo si accompagnano i già ricordati nefasti effetti di una politica agricola comunitaria -e dei conseguenti modi di conduzione aziendale - che sovvertono radicalmente la struttura agraria e paesistica sedimentatasi nella lunga durata e la cui inerzia fisica ne aveva consentito la resistenza anche alla prima ondata di industrializzazione ed esodo dalle campagne verificatasi nel nostro paese. In Italia la pervasività del processo descritto tende ovviamente ad aumentare negli anni più recenti e si osserva come, anche alla luce dei dati dell’ultima rilevazione censuaria, in molti contesti metropolitani al rafforzarsi del carattere polarizzatore dal punto di vista dei servizi avanzati e dei posti di lavoro che si concentrano nel centro principale, tende decisamente ad aumentare il campo della sub urbanizzazione che trasferisce sui comuni di seconda e terza corona – molto spesso a forte caratterizzazione agricola - una pressione abitativa di carattere decisamente esogeno13. Le conseguenze sulla trasformazione del paesaggio rurale ed agricolo della combinazione di questi vari processi sono tutt’altro che trascurabili. In particolare nei territori della bassa densità tendono a configurarsi dei quadri insediativi che si definiscono attraverso una polarizzazione diversificata intorno alle attività residenziali, turistiche e produttive e nei 7
GERARD BAUER, JEAN MICHEL ROUX, La periubanization ou la ville éparpillée, Seuil, Paris 1976. FRANCESCO INDOVINA, La città diffusa, Quaderni DAEST, 1990. 9 STEFANO BOERI, ARTURO LANZANI, EDOARDO MARINI, Il territorio che cambia. Ambienti, paesaggi, immagini della regione urbana milanese, Segesta, Milano 1993. 10 ARNALDO BAGNASCO, Tre Italie, la problematica territoriale dello sviluppo italiano, Il Mulino, Bologna 1977. 11 Brun cit. in PIERRE DONADIEU, Campagne urbane, una nuova proposta di paesaggio della città, Donzelli, Roma 2004. 12 PIER LUIGI PAOLILLO, Contenimento degli sprechi e qualità morfologica territoriale, una correlazione inseparabile, in BOSCACCI FLAVIO, CAMAGNI ROBERTO (a cura di), Tra città e campagna, periurbanizzazione e politiche territoriali, Il Mulino, Bologna 1995, pagg. 145-177. 13 Dati Istat 2001. 8
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quali un sostanziale modello di slow urbanization trova ancora nel frame delle strutture agro paesistiche un contesto di sfondo di riferimento, seppure modificabile e duttile14. Molto più sostanziali e pesanti – anche se forse meno rilevanti nel contesto di questo contributo - sono le trasformazioni che investono da un lato le aree montane ed appenniniche – nelle quali, a parte poche eccezioni, i processi di esodo e di caduta del presidio antropico non accennano ad arrestarsi - e, dall’altro, le aree forti della agricoltura estensiva di pianura, ove i processi di meccanizzazione ed industrializzazione dell’agricoltura hanno, in generale, prodotto forme completamente nuove di assetto agrario e di paesaggio. Questo tipo di fenomenologia territoriale porta decisamente a riconcettualizzare lo stesso ambito periurbano e lo stesso modo di pensare il limite fra urbano e rurale non più come un confine relativamente netto ed individuabile in grado di stabilire e regolare relazioni fra ciò che sta dentro e ciò che sta fuori15. Di fatto questo limite sembra essere riassorbito all’interno di una realtà che non si configura più come una zona di transizione fra l’urbano ed il rurale secondo un gradiente più o meno marcato, ma come un ambito dotato di una fisionomia propria ed originale che capta usi specifici e funzioni, appunto, “di frangia”16. Si tratta di funzioni strategiche per la città e per l’ ecosistema urbano (approvvigionamento idrico, sicurezza idraulica, trattamento dei rifiuti, loisir e didattica, eccetera) che sono in grado anche di riconfigurare un ruolo innovativo e multifunzionale sia per gli spazi aperti urbani che per gli stessi spazi naturali periurbani17. In questa prospettiva non ha più molto senso, come invece ancora molto spesso si tende a fare18, operare una netta distinzione – almeno in ambiti di carattere metropolitano, fra politiche per la città e politiche per la campagna19, anche se vanno ovviamente mantenuti diversi criteri di approccio ai temi fisici e di assetto spaziale, verso la formazione di quella forma insediativa e paesistica originale incentrata sul concetto di “ruralità urbana” e che si esprime nella figura della “città-campagna”20. Questo tipo di lettura comporta la ricerca di nuove forme di governance e pianificazione fisica adeguate ad un approccio multisettoriale ed integrato idoneo a trattare questa nuova realtà. Tuttavia prima di indagare questo aspetto vale la pena approfondire il profilo della nuova domanda di ruralità e di agricoltura che emerge in riferimento a questo nuovo “spazio terzo”. UNA NUOVA DOMANDA DI RURALITÀ ED AGRICOLTURA NEI TERRITORI PERIURBANI Al processo di costruzione di nuove forme territoriali determinate dall’ampliamento del campo urbano verso il territorio rurale è di fatto corrisposto un significativo mutamento di attenzione rispetto ai possibili ruoli dell’agricoltura e del territorio rurale in genere.
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ARTURO LANZANI, op. cit., 2003, pagg. 179-181. “…Più in generale , in questi tipi di ambiente a minor densità nei territori ancora rurali e nei più integrati sistemi agroalimentari locali il ruolo dell’agricoltura nel plasmare il paesaggio rimane importante, pur nel quadro di una epocale rottura tra tipi di agricoltura e tipi di paesaggio”. ARTURO LANZANI, op. cit., 2003, pag. 181. 15 KEVIN LYNCH, Progettare la città, Etas, Milano 1990, pagg. 210-224; ANTONELLA VALENTINI, Progettare paesaggi di limite, Firenze University Press, Firenze 2005, pagg. 193-196. 16 NICK GALLENT, MARCO BIANCONI, JOHAN ANDERSSON, Planning on the edge: England’s rural-urban fringe and the spatial-planning agenda, “Environment and planning”, vol. 33, 2006, pagg. 457-476. 17 Cfr. Fedenatur, The place of periurban natural spaces for a sustainable city, European Commission Direction general Environment, Brussels, 2004. 18 Esemplare da questo punto di vista la difficile relazione, spesso di reciproca ignoranza, fra pianificazione territoriale di livello regionale e provinciale, e le politiche e le misure di sviluppo rurale definite attraverso i vari P.S.R. dagli stessi soggetti istituzionali. 19 SERGE BONNEFOY, Agricoltura e diritto di cittadinanza, in MININNI MARIAVALERIA (a cura di), Dallo spazio agricolo alla campagna urbana, “Urbanistica”, n. 128, 2005, pag. 29. 20 PIERRE DONADIEU, op. cit., Roma 2004; PIERRE DONADIEU, La construction de la ville campagne. Vers la production d’un bien commun agriurbain, “Colloqui”, Torino Juillet 2004.
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Quello che si è verificato - ed in parte ancora si sta verificando - è l’emergere di una consapevolezza nuova rispetto al carattere originale e specifico dello spazio periurbano pur nella pluralità di contesti e fenomenologie. Tale riconoscimento, in Europa in particolare, percorre diverse realtà, da quelle istituzionali ai diversi livelli fino alle comunità locali ed ai gruppi di abitanti. Già dal livello di governo comunitario si è sviluppato un importante orientamento e supporto alla valorizzazione della agricoltura nella sua dimensione multifunzionale come produttrice di esternalità ambientali e paesaggistiche e, più in generale di “beni pubblici” e “semi pubblici”21. La seconda misura della politica agricola comunitaria (Pac) è di fatto ormai orientata, attraverso le cosiddette “misure agroambientali”, al sostegno di una attività agricola cui deve essere riconosciuto un valore non solo in termini strettamente collegati alla economia di mercato e alla produzione di beni relativi – spesso peraltro sottoposta a fattori distorsivi dalle stesse politiche commerciali - ma anche in relazione alla capacità di mantenere le condizioni di abitabilità, sicurezza e salubrità di un territorio e di un sistema insediativo alle diverse scale. In maniera ancora più diretta il ruolo ed il valore strategico della agricoltura periubana sono riconosciuti anche da altri documenti di livello comunitario che ne riconoscono la necessità di mantenimento come elemento determinante di equilibrio e qualità del sistema insediativo e dell’ambiente urbano stesso pur in una condizione di notevole svantaggio e fragilità da un punto di vista di stretta redditività economica22. Va inoltre segnalato come anche specifiche iniziative di livello comunitario si siano orientate al tema del governo degli spazi aperti periurbani come nel caso di alcuni programmi Interreg, di iniziative come Metropole nature, Extramet o Purple (Rete europea delle regioni periurbane). La complessità ed il valore delle relazioni fra rurale ed urbano che si sviluppano nelle aree periurbane, con particolare riguardo ai nuovi ruoli per l’agricoltura, sono evidenziate anche da alcune esperienze di livello nazionale. In particolare in Francia, ove è venuta progressivamente maturando una sensibilità al ruolo degli spazi periurbani nel contesto delle agglomerazioni metropolitane e che ha portato alla formazione sia di forme associative come terres en ville - orientate alla promozione di iniziative su questo tema sia di specifici strumenti di governance del territorio periurbano associate alle politiche di amenagement come nel caso delle charte agricole23. Di particolare interesse nel caso francese risulta il diffuso approccio intercomunale nelle varie agglomerazioni metropolitane tramite il quale vengono coordinate ed integrate politiche e strumenti di uso del suolo di diverso livello (Scot e Slu), politiche per i parchi naturali regionali e per le aree periurbane. In Italia, con particolare riferimento alle politiche innovative per una agricoltura multifunzionale vale la pena ricordare la recente disposizione normativa del 200124 per la “modernizzazione del settore agricolo” che riconosce specificamente il ruolo di produzione di esternalità ambientali da parte dell’agricoltura e, in relazione a ciò, propone anche forme di statuizione contrattuale con gli agricoltori per lo svolgimento di tali funzioni. A ciò si aggiunge, dal punto di vista degli stessi agricoltori, la significativa e recente elaborazione da parte della Confederazione Italiana Agricoltori (Cia) della “Carta per l’agricoltura periurbana” che di fatto recupera e ribadisce i principi enunciati dal già richiamato documento del Cese sul tema.
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FRANCO SOTTE , Per un nuovo patto fra agricoltori e società, “La questione agraria”, n. 65, 1997; CARLO MAGNI, VALERIA COSTANTINI, Politiche di sviluppo rurale, multifunzionalità e beni pubblici. Un tentativo di sistemazione, “La questione agraria”, n. 4, 2004. 22 Val la pena segnalare in particolare il parere del Comitato Economico Sociale Europeo (Cese) sul tema L’agricoltura periurbana, Bruxelles 2004. 23 Per un quadro sintetico, ma efficace, del tema del governo degli spazi periurbani in Francia e delle relative politiche territoriali si veda: MARIAVALERIA MININNI (a cura di), Dallo spazio agricolo alla campagna urbana, “Urbanistica”, 128, 2005, pagg. 7-37. Per un quadro più dettagliato sul tema delle politiche per l’agricoltura periurbana con particolare riferimento alle aggregazioni metropolitane francesi si veda: ANDRÉ FLEURY (coord.), L’agricolture periurbaine, “Le Cahiers de la multifonctionnalité”, 8, 2005. 24 Cfr. D.Lgs 228/2001 emanato ai sensi dell’art. 7 della L. n. 57 del 05/03/2001.
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Ma quali sono, più nel dettaglio, le funzioni e le prestazioni che le forme della agricoltura periurbana sono chiamate a svolgere, ed in particolare quali quelle che fanno diretto riferimento alla produzione di beni pubblici, “semi pubblici” o comuni25 e, quindi, di valori extramercato cui, in misura crescente, gli abitanti urbani orientano la propria domanda? Su questo tema i contributi sono innumerevoli, tuttavia gli ambiti di esternalità positiva ed i relativi campi tematici sono sintetizzabili in maniera relativamente semplice. Un primo ambito di carattere generale riguarda senz’altro la possibilità di ricostruzione di uno “spazio abitabile” attraverso la riappropriazione di un senso di appartenenza da parte degli abitanti fondato sul recupero di valori “eco simbolici”26 e dell’ambiente costruito (patrimonio territoriale) in grado di costituire gli elementi “fondativi” e statutari di nuove regole insediative nella prospettiva metropolitana e policentrica27. Questo tipo di domanda è probabilmente quella che muove non tanto le popolazioni che migrano verso le aree agricole di seconda cintura, molto spesso tese a riprodurre valori urbani tout court in contesti agricoli vitali, quanto gli abitanti urbani che non riconoscono più in molti spazi pubblici e verdi della città quella dimensione simbolica, percettiva e relazionale in grado di fondare il proprio senso di appartenenza ad un territorio ed a una società locale. Centrale da questo punto di vista diviene la capacità di pensare il territorio rurale periurbano - o la “città campagna” - attraverso nuovi “progetti di territorio e di paesaggio” in cui anche la dimensione paesistica e le sue relazioni con la società vengano ripensati in termini innovativi attraverso la collaborazione fra amministrazioni, agricoltori ed abitanti28. A questa nuova, spesso latente, domanda di spazio abitabile la campagna urbana pare poter rispondere attraverso un profilo multifunzionale che di fatto corrisponde a tutta un’altra serie di istanze che provengono dal mondo urbano e che riguardano dimensioni e prestazioni di carattere molto più utilitaristico. In primo luogo, proprio sul versante dei beni pubblici si evidenzia la dimensione prestazionale ecosistemica che le diverse tipologie di paesaggio agricolo di frangia possono assolvere29. In questo caso le esternalità ambientali del presidio agricolo nel territorio periurbano possono, attraverso una spesso necessaria riconversione delle forme di conduzione, contribuire da un lato al più generale miglioramento dell’ecosistema urbano (ciclo delle acque, depurazione, ciclo dei rifiuti, qualità dell’aria e clima, fauna, eccetera) dall’altro curare le stesse dimensioni paesistiche e di senso cui ho appena accennato. Inoltre alla già richiamata dimensione simbolica e di messa in valore del patrimonio territoriale anche nelle sue forme più minute (petit patrimonie) si collega il recupero di una dimensione fruitiva sia di tipo colto che ordinario con importanti ricadute anche sulle economie della ricettività e del turismo. E’ del tutto evidente che questa dimensione può ricostituire –in filiera- tutta una economia dell’ “itineranza”30 che collega alla fruizione dello spazio aperto anche la possibilità di un contatto diretto con la presenza agricola riconducibile a più dimensioni quali: - didattica ambientale e naturalistica; - forme ed attrezzature specifiche di fruizione; - welfare urbano (attività socio sanitarie, orti sociali e hobby farming); 25
PIERRE DONADIEU, op. cit., Torino Juillet 2004, pag. 3. AUGUSTIN BERQUE, Etre Humains sur la terre, Gallimard, Paris 1996; HERVE DAVODEAU, L’enjeu paysager, vecteur de l’appropriation de l’espace: un exemple de projet de territoire à Saint-Léger des Bois (Maine et Loire), “Espace et societé”, n. 21, 2004, pagg. 79-83. 27 ALBERTO MAGNAGHI, Il progetto locale, Bollati Boringhieri, Torino 2000, pagg. 176-213. 28 Interessante, ma al contempo estremamente problematica, appare la ipotesi avanzata da Donadieu di “società paesaggista” come soggetto in grado di riproporre forme di cura del territorio aperto”disagricolizzato” in mancanza di un presidio agricolo e vitale, come nel caso del ripristino di alcuni assetti a bocage sperimentati in Francia. 29 MARIA GIOIA GIBELLI, F RANCESCA OGGIONNI, R ICCARDO SANTOLINI, Il paesaggio agrario delle aree di frangia urbana, paper presentato al Convegno internazionale “Il sistema rurale. Una sfida per la progettazione, tra salvaguardia, sostenibilità e governo delle trasformazioni”, Milano 13-14 Ottobre 2004. 30 PIERRE DONADIEU, op. cit., Torino Juillet 2004, pag. 75. 26
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- acquisto diretto prodotti agricoli alimentari e non. In particolare la domanda di “sicurezza alimentare” originatasi nelle comunità urbane negli ultimi anni porta ad evidenziare il potenziale ruolo dell’agricoltura periubana nello strutturare “filiere corte” produzione-consumo (shorter food supply chain) in grado di corrispondere da un lato al recupero di produzione autoctone e locali il cui valore va ben oltre le quantità e gli esiti economici corrispondenti e, dall’altro di consentire la tracciabilità e certificabilità dei prodotti al consumo ottenendo, talvolta, anche significative riduzioni del prezzo finale in rapporto a specifiche forme di vendita diretta31. Le nuove domande poste alla agricoltura poste dalla dimensione periurbana, delle quali ho dato brevemente conto, pongono all’agricoltura stessa la necessità di un ripensamento del profilo della propria presenza ed attività in questi contesti. Tale trasformazione non può essere realizzata di fatto senza l’ “accompagnamento” di politiche e strumenti di governance attiva in grado di supportare i diversi attori coinvolti, in primis, gli agricoltori in questo processo di cambiamento 32. Nel paragrafo successivo mi soffermerò proprio su alcune delle strategie messe in atto in questo ambito e su di uno strumento specifico – il parco agricolo che risulta essere oggetto di un certo interesse in questi ultimi anni.
STRATEGIE E POLITICHE PER IL GOVERNO DELLA CAMPAGNA URBANA:IL CASO DEI PARCHI AGRICOLI La necessità di strutturare processi e politiche di messa in valore del territorio aperto periurbano e delle attività di un agricoltura ad esso legate, ha portato alla progressiva definizione di strumenti innovativi per affrontare un problema relativamente nuovo nel campo della pianificazione e del governo del territorio. Recentemente su questo argomento e sulle problematiche legate a questa terra di mezzo. fra urbano e rurale sono stati sviluppati numerosi contributi, sia in termini di ricerche e quadri interpretativi cui ho fatto riferimento nella prima parte di questo contributo, sia in riferimento a specifici modelli istituzionali e di governo. Di particolare interesse, da questo secondo punto di vista, è il già ricordato parere del Comitato economico e sociale europeo sul tema dell’agricoltura periurbana33. In questo documento, dopo aver messo in evidenza il ruolo multifunzionale e dinamico dell’agricoltura periurbana, con la sua importante funzione di produttrice di “beni pubblici”, vengono evidenziati alcuni obiettivi di “conservazione e sviluppo dell’agricoltura periurbana” da sottoporre ai diversi livelli di governo del territorio, ed, in particolare, a quello locale34. Di particolare interesse, dal nostro punto di vista, nell’ambio del terzo obiettivo (garantire uno sviluppo dinamico e sostenibile dell’agricoltura periurbana e degli spazi in cui viene praticata) viene individuata la necessità che “..i diversi territori periurbani si uniscano e si dotino di un organismo che persegua, come obiettivo fondamentale, non solo la difesa ma anche il rilancio degli spazi agricoli e dell’attività agricola, mediante piani sovracomunali di conservazione uso e gestione del suolo”35. Oltre alla valorizzazione della dimensione intercomunale – effettivamente centrale rispetto alle casistiche più usuali - le caratteristiche di questo organismo, i suoi principi ispiratori e le modalità operative vengono enumerate nei punti del documento che seguono e riguardano in particolare: - carattere partenariale delle relazioni fra attori pubblici ed operatori privati, in particolare agricoltori, ispirato al principio di sussidiarietà e collaborazione orizzontale e verticale; 31
E’ il caso di alcune forme associative fra produttori e consumatori quali per esempio, in Italia, i Gruppi di acquisto solidale (Gas). 32 Cfr. ANDRÉ FLEURY, La costruzione dei territori agriurbani nell’Ile de France, in MININNI MARIAVALERIA (a cura di), Dallo spazio agricolo alla campagna urbana, “Urbanistica”, n. 128, 2005, pag. 23. 33 Cese, op. cit., 2004. 34 Gli obiettivi generali sono tre, articolati a loro volta i sub obiettivi. 35 Cese, op. cit., 2004, pag. 7.
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- assunzione di un atteggiamento “creativo” e progettuale da parte dei diversi attori e sviluppo di azioni fondate su di modalità pattizie e contrattuali di impegno; - creazione di un’ “ente di partecipazione e gestione” in grado di coordinare le diverse azioni e di stimolare e valorizzare la creazione di reti di cooperazione fra i diversi attori. “…un ente che stabilisca le condizioni generali, sorvegli la loro applicazione e promuova azioni di sostegno e sviluppo rivolte allo spazio urbano che le vuole dinamizzare”36. A questi aspetti va inoltre aggiunto che lo stesso documento individua, dopo aver disegnato il profilo del modello di governance per il territorio periurbano e le modalità pattizie di gestione sostenibile della attività agricola, anche specifiche modalità di accordo fra amministrazioni ed enti di gestione del territorio rurubano al fine di gestire la dimensione della pianificazione urbana e territoriale attraverso la messa a punto di veri e propri “progetti rurubani” ispirati a principi di multisettorialità ed integrazione, riferiti alla costruzione di “piani strategici di gestione e sviluppo sostenibile” di questi ambiti territoriali e fondati su specifici “accordi istituzionali tra i soggetti coinvolti nella gestione di detto spazio (le amministrazioni, in particolare quelle locali, e il settore agricolo)37. E’ evidente che da questi indirizzi scaturiscono numerosi presupposti per il rinnovamento del modello di governo e gestione degli spazi aperti caratterizzati da influenza urbana, prevalentemente trattati, fino a tempi recentissimi, come “residuo” dell’urbano sia sul piano concettuale che su quello concreto. Da questo punto di vista il documento del Cese propone un modello di governo ed una fisionomia istituzionale che può essere variamente interpretata, che ha riferimento in numerose esperienze già condotte sia in Italia che all’estero e che può trovare una efficace rappresentazione nel concetto istituzionale ed operativo del parco agricolo. Il modello del parco agricolo si è venuto progressivamente definendo in relazione a questa domanda di governo del territorio pur mantenendo un profilo relativamente vago, molto spesso riconducibile alle esigenze specifiche dei contesti in cui esso è stato sperimentato 38. Nel contesto europeo alcune ricerche riconducibili a questo tema39 evidenziano sostanzialmente due possibili interpretazioni di base di questo strumento: - una “istituzione” di governo del territorio, formalizzata ed esplicitamene riconducibile a normative quadro di carattere territoriale od ambientale; - una “aggregazione volontaria” ed attiva di attori, prevalentemente locali – istituzionali e non - che sviluppano un processo ed un soggetto gestionale e di progetto relativo al territorio agricolo periurbano. Nel primo caso le garanzie formali di attuazione del progetto - e di tutela dei beni pubblici di riferimento del territorio periurbano - sembrano garantire un quadro più stabile al contesto di azione e maggiori certezze circa la efficacia del processo attivato. Questo soprattutto in riferimento al controllo del consumo di suolo. Tuttavia, questo tipo di approccio, tende a privilegiare una dimensione top down della azione che non sempre garantisce circa 36
Cfr. Cese, op. cit., 2004, pag. 7. Cfr. Cese, op. cit., 2004, pag. 7. 38 Per un vasto repertorio di casi nel trattamento delle aree agricole periurbane, con caratterizzazione agricola multifunzionale si veda: Fedenatur, The place of periurban natural spaces for a sustainable city, European Commission Direction general Environment, Brussels, 2004. 39 Di particolare interesse per la diffusione e pluriformità delle esperienze vale la pena ricordare il caso francese sul quale, oltre al già citato rapporto Fedenatur si segnala: AA.VV., Le nouvelles formes de lien urbain rural. Articoler les intercommunaliteès: Coammunautes de communes, Communautes d’agglomeration, Pays et parcs naturel regionaux, La Documentation française-Parcs naturel regionaux de France, Actes de rencontre, 2005. Sul concetto e pratiche di parco agricolo si veda anche PIERRE DONADIEU, op. cit., Torino Juillet 2004, pagg. 7-8. Nel caso Italiano il processo ha una storia decisamente più recente anche se vanno segnalate, con diversi esiti, alcune esperienze in particolare: il caso del Parco Nord Milano nel contesto del sistema dei parchi della Brianza ed il Parco agricolo provinciale Sud Milano – questa forse l’esperienza più “metropolitana” in Italia; il parco naturale delle Cinque terre in Liguria; il processo di formazione del sistema dei parchi agricoli del comune di Roma con l’avvio del parco agricolo periurbano di Casal dè Marmi; il parco agricolo ed archeologico di Ciaculli (Ag) i cui esiti purtroppo, dopo un promettente avvio, sono sfociati in un fallimento della iniziativa; l’avvio del parco metropolitano dell’area Fiorentina con la firma di un primo protocollo di intesa nel Maggio 2006 e sul quale mi soffermerò più avanti. 37
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l’affettivo coinvolgimento degli attori locali e l’inclusione delle varie e complesse dimensioni territoriali implicate. Senza trascurare poi il fatto che, molto spesso, soprattutto in territori fortemente antropizzati ed anche da parte degli agricoltori, l’istituzione di un parco viene letta non tanto come opportunità, ma come apposizione di un forte carico vincolistico rispetto alle proprie possibilità operative economiche e di impresa. In ogni caso, ove l’istituzione formalizzata del parco è esito di un processo bottom up di mobilitazione degli attori locali, anche questa formula può consentire di raggiungere un adeguato livello di condivisione sociale (si veda il caso del Parco Agricolo Sud Milano). Il secondo tipo di approccio, come detto, si configura invece come una politica attiva di messa in valore del patrimonio agricolo, paesistico ed ambientale del territorio periurbano attraverso la mobilitazione ed il coordinamento di diversi attori che si aggregano intorno ad un definito riconoscimento di valori patrimoniali, obiettivi ed azioni da sviluppare. In questo secondo caso, anche se non si può escludere a priori un approdo normativo, prevale un tipo di logica “pattizia” fra gli attori stessi e diviene determinate il ruolo di guida e governance del processo che in genere viene svolto da una “agenzia” di gestione. I processi generativi di questo tipo di esperienza possono essere disparati. Talvolta sono esito di una attività di promozione e coordinamento territoriale sollecitata dagli enti locali e che vede la partenership di associazioni di categoria e di altri attori locali (esemplare da questo punto di vista è il caso di molte “comunità di comuni” nelle aggregazioni metropolitane francesi), in altri casi i soggetti promotori possono essere prevalentemente privati ed associazioni, che, dal basso, sollecitano una azione di sensibilizzazione presso gli enti pubblici ed altri soggetti privati potenzialmente interessati al tema del territorio periurbano. Ciò che vale la pena sottolineare, in entrambi i casi, è che le caratteristiche particolari dei contesti di tipo periurbano e, pertanto, la complessità della interazione socio economica e delle dimensioni patrimoniali implicate, richiede senza dubbio la capacità di concepire il parco agricolo come un processo di carattere comunicativo riferito preferibilmente ad una visione progettuale di territorio e di paesaggio, non disgiunta dalla dimensione produttiva40,
Figura 1. L’ “ellisse” del sistema metropolitano della Toscana centrale al 2001.
40
PIERRE DONADIEU, op. cit., Roma 2004, pag. 154.
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Figura 2. Il processo di periurbanizzazione nel “cuore urbano” della Toscana centrale.
uno scenario strategico un grado di combinare obiettivi di carattere sostantivo e prestazionale circa l’uso sostenibile delle risorse insieme ad un progetto di sviluppo locale integrato e multisettoriale condiviso. Le condizioni di base per l’avvio e conduzione di questo processo muovono inevitabilmente da un ruolo attivo di stimolo, coordinamento e garanzia svolto dall’attore pubblico 41 – data anche la debolezza socio economica ma anche la complessità di molto di questi contesti - ed in particolare fanno riferimento a tre specifici aspetti riconducibili a: definizione di una politica territoriale unica per il territorio rurale ed urbano, garanzia della destinazione e di uso agricolo del suolo, regole pattizie e forme contrattuali fra agricoltori ed enti locali42.
IL CONTESTO DELLA “CITTÀ DELLA TOSCANA CENTRALE”: PRIME IPOTESI ED AZIONI PER L’AVVIO DI SISTEMA DI PARCO AGRICOLO METROPOLITANO Come conclusione, ed anche nel contesto di ricerca cui questo contributo fa riferimento 43, vale la pena esaminare sinteticamente il caso del sistema urbano della Toscana centrale che, nel sistema urbano “ad anello” cha va da Firenze a Pisa attraverso le valli dell’Arno e della Nievole, vede configurarsi un contesto di urbanizzazione diffusa e sfrangiamento urbano che, in molti casi, ha prodotto una decisa perdita del limite urbano-rurale e un conseguente spazio incerto in cui molti parametri di riferimento analitici e descrittivi, progettuali e di governo sembrano inutilizzabili. Anche in questo caso, inoltre, il fenomeno dello sprawl urbano ha prodotto l’erosione non solo dell’economia agricola tradizionale e delle sue forme paesistiche ma anche la possibilità stessa di riconoscere specifiche morfologie sociali di carattere rurale, come peraltro già evidenziato da ricerche svolte in un ampio arco temporale44, espandendo al contempo, per salti il campo della periurbanizzazione e dei fenomeni di mobilità connessi. In questo contesto, come in molte delle situazioni metropolitane europee, la possibilità di una riconquista di una dimensione di abitabilità dello spazio passa attraverso il recupero di una dimensione attiva del progetto sul territorio aperto e la costituzione di un modello di governance intercomunale in grado di sviluppare un 41
PIERRE DONADIEU, op. cit., Roma 2004; CARLO MAGNI, VALERIA COSTANTINI, op. cit., 2004. PIERRE DONADIEU, op. cit., Roma 2004, pag. 128. 43 Il presente lavoro è riconducibile in gran parte alla attività svolta nell’ambito della ricerca nazionale cofinanziata Miur su “Il parco agricolo come strumento di pianificazione degli spazi aperti” (coordinatore nazionale Alberto Magnaghi). 44 GIACOMO BECATTINI, Sviluppo economico in Toscana, Irpet, Firenze 1975; LUCIANO VETTORETTO, Forme insediative e morfologie economico sociali. Il caso toscano, Irpet, Firenze 1994; LORENZO BACCI, Sistemi locali in Toscana, F. Angeli, Milano 2002. 42
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sistema di parchi agricoli che, in rapporto al gradiente di ruralità e dei processi insediativi in cui essi sono inseriti, definiscono la propria natura e caratteristiche. Data la consistenza demografica45 e la complessità ambientale di questo contesto, il modello del parco agricolo metropolitano pare essere un riferimento assolutamente pertinente in grado di affrontare da un lato la dimensione della qualità ed autosostenibilità ecosistemica del contesto policentrico metropolitano, e, dall’altro, lo sviluppo ed il rafforzamento di un sistema agricolo in grado di riqualificare paesisticamente il territorio aperto per la fruizione dei cittadini e di produrre ancora beni alimentari per la rilevantissima domanda potenziale esprimibile dai mercati urbani di prossimità. Da questo punto di vista segnalo il lavoro di contesto sviluppato nell’ambito della ricerca Prin “Parchi Agricoli” già citata e che sviluppa un primo scenario di area vasta per un “cuore verde” della Toscana centrale ove identificare politiche locali per la creazione di un sistema di parchi agricoli multifunzionali. Sotto questo profilo va comunque evidenziato che, in relazione ai tre punti necessari per una adeguata politica del territorio periurbano segnalati da Donadieu, non tutti gli aspetti, in questo contesto, vanno nella direzione auspicabile. Infatti, mentre vi è una generale base di opportunità legate al riconoscimento di uso agricolo della gran parte dei suoli da parte della strumentazione urbanistica e territoriale, nel campo delle politiche attive – riferite alla partnership pubblico privato e ad un modello unificato di governo del territorio - si riscontra qualche difficoltà.In particolare sul secondo punto, anche se le ultime due leggi della Regione Toscana - la 5/95 ed 1/05 - propongono in effetti un modello integrato di governo del territorio, di fatto i processi di trasformazione territoriale e le politiche di sviluppo rurale, carenti peraltro nei contesti periurbani, continuano ad essere definite in maniera relativamente autonoma e con scarsa considerazione delle specificità locali46.
Figura 3. Il “cuore verde” della città della Toscana centrale.
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In base al censimento Istat 2001, sommando gli ambiti metropolitani della piana fiorentina, del sistema Lucca, Pisa , Livorno e il Circondario Empolese Valdelsa, la popolazione di questo territorio raggiunge oltre un milione e seicentottomilanovecentoventuno abitanti , quasi il quarantasei percento di tutta la popolazione toscana. 46 Significativo da questo punto di vista è per esempio la interpretazione del territorio rurale che la Regione Toscana da nel Piano di Indirizzo territoriale (Pit) in fase di elaborazione, assumendo tale territorio sotto l’unica categoria della “moderna ruralità”. Su questo e sulla integrazione fra politiche di sviluppo rurale e governo del territorio in fase di costruzione, si veda: DAVID FANFANI, ADALGISA RUBINO, Governo del territorio, sviluppo rurale e paesaggio in Toscana, “Urbanistica informazioni”, n. 210, INU edizioni, Roma Novembre-Dicembre 2006 (in corso di pubblicazione).
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Un efficace coordinamento intercomunale ed interistituzionale, come avvenuto in Francia può forse consentire di superare alcuni dei problemi richiamati. Malgrado questi limiti di carattere generale e di contesto, alcune esperienze di pianificazione innovativa del territorio periurbano sembrano prendere avvio in quest’area negli ultimi tempi. Per l’approccio di coordinamento intercomunale ed interistituzionale vale la pena segnalare in particolare l’avvio di un accordo fra alcuni comuni dell’area metropolitana fiorentina per la creazione di un “parco metropolitano” ove sviluppare e recuperare nuove dimensioni fruitive e di valorizzazione del territorio aperto 47. Tale iniziativa si può inoltre collegare ad altre due sperimentazioni locali riferite ad aree contigue al sistema metropolitano. La prima riguarda l’ipotesi di un progetto integrato del Ptcp di Prato per il “parco agricolo della piana” ove sviluppare un recupero di una agricoltura multifunzionale legata -non solo alla fruizione e riqualificazione ambientale e a produzioni alimentari in filiera e di nicchia- ma anche a forme no food affini alle stesse attività produttive del distretto tessile, ed incentrata sulla emergenza storica ed ambientale della fattoria sperimentale medicea delle Cascine di Tavola. In questo caso l’idea del “parco agricolo della piana”, malgrado il profilo istituzionale del contesto, nasce e si sviluppa attraverso un processo strutturato e bottom up di partecipazione che ha visto mobilitare, grazie a specifiche “conferenze d’area” e “tavoli tematici”, operatori del settore agroalimentare, artigiani, associazioni ed abitanti. A fronte di questa mobilitazione, si registra, tuttavia, una debole azione di accompagnamento dei soggetti pubblici (Provincia in particolare e Comune) che non ha consentito per ora l’avvio del progetto. L’altra esperienza riguarda lo studio di fattibilità per il Parco fluviale dell’Arno nel tratto del Circondario Empolese Valdelsa dove il progetto nuova di fruibilità e navigabilità del fiume si incentra anche sul recupero paesistico ed ecosistemico dei residui di territorio rurale periurbano ancora fortemente caratterizzati da trame e sistemazioni di valenza paesistica e storica e da valorizzare e reintepretare in alcuni casi anche in funzione di una agricoltura urbana multifunzionale.
Figura 4. Il progetto integrato multifunzionale del parco agricolo della piana pratese.
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Il riferimento è ad un protocollo di intesa stipulato nel 2006 fra Regione Toscana e comuni di Firenze, Campi Bisenzio, e Sesto Fiorentino, per la creazione e recupero di spazi agricoli multifunzionali in grado di connettere la pianura con il sistema collinare ed altre importanti emergenze ambientali e culturali dell’area Parco fluviale dei Renai (Signa), Villa Montalvo (Campi), Villa Medicea di Castello (Sesto), alcune aree naturali protette di interesse locale (Anpil), le Cascine medicee di Tavola (Prato).
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Figura 5. Il progetto di riqualificazione agro paesistica del paleo alveo dell’Arno nel Circondario Empolese Valdelsa (Firenze).
Il contesto per questo lavoro si produce grazie ad una stretta interazione fra il Circondario Empolese Valdelsa e i corsi di Laurea triennale e magistrale della Facoltà di Architettura di Firenze con sede ad Empoli. Il Circondario infatti ha attribuito ai ricercatori del Corso di Laurea l’incarico di redigere uno scenario progettuale di fattibilità per il parco fluviale, scenario la cui redazione si inserisce poi in un più ampio contesto di ricostruzione di una “consapevolezza del fiume” tra gli abitanti promosso da varie associazioni, comitati, amministrazioni. L’attuazione dello studio di fattibilità e dello scenario progettuale è al momento ipotizzata attraverso la definizione di uno specifico “contratto di fiume”48 da inserire all’interno del Piano di Indirizzo Territoriale regionale.
ALCUNE BREVI CONSIDERAZIONI DI SINTESI A fronte dei crescenti processi di diffusione insediativa che caratterizza anche molti contesti italiani, il territorio rurale è assorbito in maniera crescente nell’ambito della sfera urbana e sottoposto, di conseguenza, ad una pressione che oltre a destrutturare progressivamente la sua organizzazione agricola porta a consistenti fenomeni di degrado ambientale e paesistico e molto spesso alla configurazione di un “paesaggio terzo” e di “residui”49 non riconducibile né ai parametri cognitivi e descrittivi dell’urbano né a quelli del rurale. Paradossalmente proprio in questi contesti, in particolare in quelli a più diretto contatto con la città, si possono creare le condizioni per una virtuosa sinergia fra agro ecosistema residuo e ambiente costruito urbano. Infatti il primo se adeguatamente tutelato e riqualificato pare in grado di sviluppare delle prestazioni di carattere ambientale e di offerta di spazio pubblico aperto fondamentali per il miglioramento dello spazio abitabile della città. Mentre il secondo, presenta delle rilevanti potenzialità ed opportunità per sollecitare nel territorio aperto periurbano forme di agricoltura multifunzionale da valorizzare sia in relazione alla produzione di beni comuni e servizi di tipo pubblico extramercato che di offerta di prodotti e servizi alimentari e non per il mercato urbano di prossimità. 48 49
Sul modello dei contrats de riviere francesi e belgi o di quello recentemente istituito dalla Regione Lombardia. GILLES CLÉMENT, Manifesto del terzo paesaggio, Quodlibet, Macerata 2005.
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Figura 6. Progetto di riqualificazione agro paesistica con valenza di produzione energetica da biomasse dell’area di frangia urbana di Serravalle nel comune di Empoli (Firenze).
Centrale in questa prospettiva diviene la possibilità e la propensione da parte delle amministrazioni pubbliche a sviluppare una azione di governo in grado di affrontare in maniera integrata il tema dello spazio aperto periurbano e di svolgere un ruolo di animazione adeguato a sollecitare ed accompagnare processi e progetti di sviluppo locale incentrati su forme pattizie fra imprenditori agricoli, abitanti, terzo settore ed altri operatori economici. Critica appare semmai, nel contesto italiano e toscano, la dimensione della intercomunalità necessaria per sviluppare politiche e progetti di questa natura e rispetto alla quale le amministrazioni – ai diversi livelli - non sembrano dotate di una adeguata cultura e strutture di governance. Sul versante della pianificazione e del progetto, infine, il governo del territorio periurbano fa emergere una domanda di una forte innovazione della scatola degli attrezzi scientifica e disciplinare. Esso pone in particolare il problema di un approccio multisettoriale incentrato sulla integrazione fra ambiente urbano e rurale e su progetti di territorio e scenari strategici in grado di coniugare coinvolgimento della società locale con regole progettuali e statutarie volte al mantenimento e messa in valore del patrimonio territoriale50. Di grande importanza nella produzione di questi progetti strategici può divenire lo strumento del parco agricolo, soprattutto se supportato a livello istituzionale e strettamente connesso a forme di visione e a progetti di territorio e di paesaggio - spesso in contesti di limite e frammentazione - incentrati su forme di rappresentazione identitaria vivide e metodi e pratiche progettuali innovativi51, adeguati a rafforzare il senso di identificazione e di appartenenza ai luoghi da parte degli abitanti. In tal modo il parco agricolo non appare funzionale solo alla creazione di nuove economie ed esternalità ambientali, peraltro preziose, ma anche a sollecitare un nuovo sguardo e cura verso il patrimonio territoriale e paesaggistico, una diversa percezione delle relazioni che percorrono il margine fra città e campagna verso una nuova realtà che le comprende entrambe. 50
ALBERTO MAGNAGHI, A green core for the polycentric urban region of central Tuscany and the Arno master plan, “Isocarp Reviw 02”, Cites between integration opportunities and challenges, 2006. 51 GABRIELE PAOLINELLI, La frammentazione del paesaggio urbano. Criteri progettuali per la piana di Firenze, Firenze University Press, Firenze 2003; ANTONELLA VALENTINI, op. cit., Firenze 2005.
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Figure 7, 8. Simulazioni degli interventi per la produzione energetica nell’area di frangia urbana di Serravalle.
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RIFERIMENTI ICONOGRAFICI Figure 1,3: elaborazioni di Giovanni Ruffini e di Iacopo Bernetti. Figura 2: elaborazione dell’autore su dati Istat. Figura 4: Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale di Prato, 2003. Figura 5: tesi di M. Bolognesi al Corso di Laurea triennale in Urbanistica e Pianificazione Territoriale e Ambientale di Empoli, rel. prof. A. Magnaghi, corr. prof. C.A. Garzonio 2005. Figure 6, 7 e 8: tesi di A. Leoniddi al Corso di Laurea triennale in UPTA di Empoli, rel. prof. I. Bernetti, corr. arch. G. Ruffini, 2006.
Testo acquisito dalla redazione della rivista nel mese di ottobre 2006. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte. 69
Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768 Università degli Studi di Firenze
Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/ Firenze University Press anno 4 – numero 6 – luglio-dicembre 2006 numero monografico Progettare sui limiti sezione: Dialoghi pagg. 70-74
IL SENSO DEL CONFINE
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COLLOQUIO CON PIERO ZANINI*
Antonella Valentini**
Summary This interview with Piero Zanini has a particular interest. At the end of Nineties he firstly faced the theme of boundary, explored through a wide range of sources, not only related to architecture but also referred to geography, moving, literature, anthropology. This argument is now one of the most discussed between planners and designers and therefore the considerations here showed, that send to the complex discussion begun in 1997, are particularly actual and source of suggestions. Key-words Limits, Boundaries, Frontiers, Borders, Thresholds.
Abstract Questa intervista con Piero Zanini è di particolare interesse. Tra i primi, alla fine degli anni Novanta, Zanini affronta il tema del confine, esplorato attraverso un vasto campionario di fonti, non solo relativamente all’architettura, ma anche in riferimento alla geografia, al cinema, alla letteratura, all’antropologia. Questo argomento è oggi uno dei più discussi da pianificatori e progettisti e dunque le osservazioni qui condotte, che richiamano l’articolato discorso iniziato nel 1997, sono quanto mai attuali e fonte di suggestioni.
Parole chiave Limiti, confini, frontiere, margini, soglie.
* Laureato in architettura, è docente a contratto di Geografia politica ed economica presso l'Università di Trento. Ha pubblicato Significati del confine. I limiti naturali, storici, mentali, Bruno Mondadori, Milano 1997 e Lo stretto indispensabile, Bruno Mondadori, Milano 2004 (con Franco La Cecla). ** Dottore di ricerca in Progettazione paesistica, docente a contratto di Architettura del paesaggio presso l’Università di Firenze.
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“Quello che vorremmo provare a fare con questo lavoro è descrivere un percorso attraverso il confine, luogo misterioso e non abbastanza frequentato. Luogo che incontriamo molte volte nei nostri spostamenti, luogo dove è facile imbattersi nell’imprevisto e muoversi, spesso a tentoni, nella scomodità. Vorremo cioè cominciare a osservare quello strano spazio che si trova «tra» le cose, quello che mettendo in contatto separa, o, forse, separando mette in contatto, persone, cose, culture, identità, spazi tra loro differenti. Lo spazio di confine quindi, ma anche (almeno questa è una delle ipotesi) il confine come spazio. Spazio che può avere un margine esterno, quello dove l’uomo abita, lavora, si muove e si diverte, quelle delle architetture più concrete ed evidenti, ma anche un margine interno, interiore, intimo, legato ai nostri stati d’animo, alle speranze e alle utopie che li accompagnano. Margini che difficilmente riusciamo ad osservare chiaramente, anche se spesso ne affermiamo con certezza l’esistenza”1. Così scrive nell’introduzione al suo libro Piero Zanini nel 1997 e da qui oggi si parte per riflettere e ri-pensare con lui ai molteplici significati del confine. Quali sono le differenze ma anche le affinità e forse le ambiguità, soprattutto nell’epoca contemporanea, tra confine, limite e frontiera? Sicuramente il termine “confine” negli ultimi decenni è diventato una sorta di passepartout, onnipresente, tanto nel linguaggio degli architetti, che talvolta subiscono il potenziale metaforico di certe parole, quanto in quello pubblicitario o artistico. E questa fascinazione, che ha una radice ideologica, ne ha banalizzato e confuso il senso. Tutto è diventato “di confine”, un po’ come per troppo tempo - in Italia, non certo in Francia - tutto era “nonluogo”. La fortuna, improvvida almeno sul piano della comprensione, di certe paroleconcetti sta in dinamiche più ampie che hanno a che fare anche con la storia del mondo in un determinato periodo. Se ragioniamo in termini di storia lunga, la percezione è cambiata, più volte, a seconda del contesto. Ma poi bisognerebbe entrare nello specifico. La stessa cosa vale per il discorso sulle ambiguità semantiche. E’ interessante osservare come cambia a seconda del contesto storico e/o geografico il senso di termini come “confine” e “frontiera”. Per l’italiano e per il francese sono ormai diventati quasi dei sinonimi, laddove l’inglese al contrario attribuisce ai termini border, boundary, frontier significati ben distinti. L’idea di frontiera è certamente anche per gli americani ben diversa dalla nostra, in quanto rappresenta tutto un mondo in cui è racchiusa anche una porzione di storia.
Figura 1. La città di Firenze e il paesaggio collinare che la circonda e la de-limita. 1
PIERO ZANINI, Significati del confine. I limiti naturali, storici, mentali, Bruno Mondadori, Milano 1997, pagg. XIII-XIV.
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Non credo che vi siano due persone che condividano la stessa identica idea sui concetti di limite-confine-frontiera; le diverse declinazioni traggono origine anche dai differenti contesti culturali. Confini e frontiere sono costruzioni culturali che possono assumere molti significati diversi. “In forme e modi differenti, confini e frontiere hanno entrambi a che vedere con la modificazione del nostro paesaggio reale, trasformando il territorio che fisicamente occupiamo e abitiamo. Allo stesso tempo, influiscono in maniera profonda con i luoghi e gli spazi che segnano e danno forma ai nostri orizzonti mentali, alle nostre identità, più o meno autentiche”2.
Gli spazi di confine sono generalmente luoghi di grande ricchezza, sotto vari profili: ricchezza biologica in quanto spesso la biodiversità è qui maggiore che in altri luoghi – gli spazi “residui”, come indicati recentemente da Gilles Clément, “frammenti di paesaggio” che costituiscono “rifugio per la diversità”3, dei quali in realtà ormai da tempo gli ecologi avevano indicato l’importanza; ricchezza spaziale in quanto territori generalmente caratterizzati da usi e funzioni differenti; ricchezza relazionale in quanto luoghi in cui si manifestano antinomie, contrapposizioni, giustapposizioni, contraddizioni. Proprio questa complessità può forse essere origine delle difficoltà a comprenderli? La questione della complessità non ha niente a che vedere con una sua presunta positività, col fatto che sia una fonte di ricchezza o meno. E’ lì, la complessità. Ci siamo in mezzo. Se vogliamo provare a legare le cose assieme, cioè a com-prenderle, dobbiamo necessariamente ricominciare a pensare il nostro rapporto con le soglie, come esperienza del limite, e questo è un compito difficile e impegnativo. Sia perché possono metterci di fronte a situazioni paradossali, sia perché spesso cambiano di senso nel tempo, sono fluttuanti. In questo senso, terrain vague, confini, limiti, eccetera, sono immagini affascinanti, metaforicamente potenti, e che però proprio per questo possono anche abbagliare, e ingannarci, un po’ come un miraggio. Soprattutto quando le carichiamo di aspettative che mal si accordano poi con il peso che queste immagini hanno nella vita concreta delle persone. Ed è con questa che dobbiamo fare i conti, anche e soprattutto in quanto progettisti.
Figura 2. Le espansioni di Firenze mostrano una frangiatura dei margini urbani nel paesaggio della pianura fiorentina.
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PIERO ZANINI, op. cit., pag. XIV. Per questi spazi Clément propone il termine “Terzo Paesaggio”. GILLES CLÉMENT, Manifeste du Tiers paysage, Editions Sujet/Objet, 2004, trad. ita. a cura di Filippo De Pieri, Manifesto del Terzo paesaggio, Quodlibet, Macerata 2005.
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Il luogo del passaggio ha sempre avuto una valenza simbolica e, come scrive Barbara Bogoni, gli stessi elementi che lo costituiscono “… hanno intenti antropologici e filosofici, ancor prima e forse più che pratici e funzionali” 4. Intorno alla città il paesaggio è anche passaggio, in cui si verificano transizioni e mutazioni di equilibri e di rapporti. Il paesaggio periurbano può essere vissuto come soglia5 e cioè come spazio in cui si esprimono relazioni tra interno ed esterno? Le soglie sono elementi che marcano un passaggio, gli danno uno spessore, lo ritualizzano. Varcarle in maniera consapevole significa essere in grado di riconoscerne i tratti simbolici e non che le distinguono da ciò che le circonda. E’ qualcosa che si apprende nella consuetudine dell’abitare un luogo. Nella relazione che intessiamo con esso. Il paesaggio è uno dei riscontri possibili, forse il principale, che abbiamo di questa relazione. In questo senso, mi viene da dire che l'attenzione che dedichiamo al paesaggio (come relazione con il mondo che abitiamo) e quella che riserviamo ai confini che produciamo (come relazione tra mondi diversi) sono allo stesso tempo misura dell'attenzione che abbiamo per noi stessi, in quanto esseri umani.
Nell’Ottocento si assiste al processo di demolizione delle mura perché ormai anacronistiche dal punto di vista militare e per ovvie necessità di espansione. Non conseguenza diretta e usuale ma talvolta, cadute le mura, la paura dello spazio illimitato ha portato a proporre cinture di verde, che nascono dunque come strumento di contenimento urbano. L’elemento “cintura di verde” sebbene permeabile e non come barriera fisica al pari delle mura, aveva però la stessa funzione di “limitare” l’espansione della città. Questa funzione di contenimento ha funzionato solo in parte, sì limitando la crescita dei quartieri periferici, ma questa è generalmente proceduta oltre la cintura. In entrambi i casi, però – delle mura e delle cinture verdi – si può dire che l’elemento circolare voleva segnalare una distinzione, una conclusione, un limite. Può invece il limite possedere la capacità di collegare, mettere in relazione e mediare due realtà distinte? Il limite, in particolare nella nostra epoca, può diventare elemento generatore di relazioni e opportunità? Ma le mura o le cinture verdi sono già dei modi di costruire delle relazioni. La funzione prettamente difensiva delle prime non è di per sé in contraddizione con l’esistenza, talvolta sul medesimo sedime, delle seconde, no? Gli esempi non mancano. Ciò che cambia è la sensibilità, la maniera di mettere in scena, di ritualizzare, una transizione, in questo caso quella tra città e campagna. Poi è una questione di parole. Il termine “limite” non prende necessariamente in considerazione ciò che sta al di là di esso, come invece accade nel termine “confine”, che è “fine comune” e che rinviava in origine a un segno importante nel paesaggio come quello del sentiero tra due campi. E’ un passaggio, ma è anche un modo di organizzare, e controllare, l'esperienza della realtà in cui si vive. Poi, lo sappiamo bene, non tutte le relazioni sono di per sé felici, o rivelatrici. A volte, ci mettono davanti a paradossi spiazzanti, in altri casi essere banali, dolorose oppure tragiche. Insomma, dipende.
Se risolvere l’antinomia città-campagna ha sempre improntato il progetto di cintura verde, attualmente proporre questo binomio non appare più funzionale a capire la realtà dei paesaggi di margine e di frangia, dove si avverte un mutamento del concetto di limite urbano prodotto dal modificarsi delle forme insediative e culturali. Alla luce di questi fenomeni non appare più utile proporre la contrapposizione città-campagna per descrivere i paesaggi periurbani contemporanei o porre a confronto schemi astratti come città diffusa e città compatta. I paesaggi periurbani, che possiedono le caratteristiche e le contraddizioni 4 5
BARBARA BOGONI, Internità della soglia. Il passaggio come gesto e come luogo, Aracne, Roma 2006, pagg. 11. Di cui la traduzione latina comprende, accanto a solea cioè suola, anche limen cioè limite.
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di entrambe le due categorie (città e campagna), hanno valore di mediazione, di risoluzione delle inevitabili tensioni tra urbanità e ruralità. Cosa dunque può significare progettare questi paesaggi di confine? Cosa sono i paesaggi di confine? Lo chiedo, perché me lo sono chiesto in un'altra occasione e non sono mica riuscito a capirlo. Il muro costruito a Padova è un paesaggio di confine? Il ponte sullo stretto di Messina è un paesaggio di confine? E la piana fiorentina? Che senso ha l’attributo “di confine” quando si parla del paesaggio? Insomma, diciamo che ho qualche difficoltà con quest’idea della progettazione del paesaggio. Che cos’è che si progetta? Un’intenzione? Una visione? Una prospettiva? Una decina di anni fa entrando nel padiglione olandese ai Giardini della Biennale si veniva accolti e avvolti da un paesaggio nebbioso dove, tra improvvisi addensamenti e diradamenti, apparivano e scomparivano le figure che lo attraversavano e, se ricordo bene, i pochi oggetti che conteneva. Su una delle pareti all’ingresso del padiglione si poteva leggere una storiella che diceva: “Il padre di Max Ernst stava ritraendo il proprio giardino. Non dipinse la siepe in fondo al giardino. Terminato il dipinto, andò in giardino e rimosse la siepe.” Non so. Ho spesso l’impressione che in questa storiella ci sia dentro tutto quello che serve sapere. Solo che non lo sappiamo più.
Figure 3, 4 e 5. Nelle aree di interfaccia urbano-rurale è necessario riacquistare un efficace controllo dei conflitti tra usi del suolo, mettere in atto forme idonee di mediazione spaziale finalizzate a separare ambiti diversi e misure di inserimento paesistico che concorrano alla formazione di configurazioni equilibrate, stabilire modalità di compensazione e riequilibrio del bilancio complessivo della diversità paesistica.
RIFERIMENTI ICONOGRAFICI Figure 1-5: fotografie di Antonella Valentini, 2004.
Testo acquisito dalla redazione della rivista nel mese di settembre 2006. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768 Università degli Studi di Firenze
Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/ Firenze University Press anno 4 – numero 6 – luglio-dicembre 2006 numero monografico Progettare sui limiti sezione: Dialoghi pagg. 75-81
LIMITI, CONFINI, INTERFACCE –
RIFLESSIONI CON PIPPO GIANONI *
Antonella Valentini** Summary This dialogue is the result of a virtual meeting on the theme of limits with Pippo Gianoni. These reflections are the result of an exchange of epistolary opinions - using the contemporary means of communication – suffering perhaps the freshness of a real conversation, but enjoying the possibilities to face this complex and perhaps wandering theme, through a pondered reflection on the distance between mind (the first idea of limit) and action (the registration of that idea). Pippo Gianoni answers the questions expressing some reflection on the sense of limit that come from a comprehension of the reality in which is daily tried the perception of limit, as expert in ecology and planner, based on tradition, and from a wide knowledge of culture in its different forms of expression. Key-words Borders, Barriers, Transition Spaces, Threshold, Terrain Vagues.
Abstract Questo dialogo è il frutto di un incontro virtuale sul tema del limite con Pippo Gianoni. Le riflessioni qui contenute sono dunque il prodotto di uno scambio di opinioni epistolare – che utilizza i contemporanei mezzi di comunicazione – soffrendo probabilmente un po’ della freschezza di una vera conversazione, ma godendo della possibilità di affrontare questo complesso e forse sfuggente tema attraverso una riflessione meditata sulla distanza che intercorre tra pensiero (l’idea istintiva di limite) e azione (la trascrizione di quell’idea). Pippo Gianoni risponde alle domande esprimendo a ruota libera alcune riflessioni sul senso del limite che gli derivano da una comprensione della realtà in cui si sperimenta quotidianamente la percezione del limite in qualità di ecologo e di pianificatore, forte degli insegnamenti della tradizione, e da una grande conoscenza della cultura nelle sue varie forme di espressione. Parole chiave Margini, barriere, spazi di transizione, soglie, terrain vagues.
* Ingegnere forestale svizzero, docente a contratto all’Università IUAV di Venezia. ** Dottore di ricerca in Progettazione paesistica, docente a contratto di Architettura del paesaggio presso l’Università di Firenze.
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Può una particolare considerazione del concetto del limite - diversa dal senso comune che ci propone il limite come conclusione e distinzione - fornirci gli spunti per progettare quello che per gli antichi romani era, al di là della frontiera-limes, un desertum ostile? Oggi in molti ci insegnano che al di là della linea di confine non c’è il vuoto e il nemico, ma una complessità, che provoca innegabilmente difficoltà a comprenderla, fonte di ricchezza: “…il termine terrain vague […] ricopre qui per me un desiderio e insieme un’immagine eletta: la confusione che annebbia qua e là i confini delle città e li trasforma in spazi di sogno e allo stesso tempo di libero vagabondaggio” (Julien Gracq, 1985); “…un confine può essere in tempi diversi il simbolo di una chiusura, ma anche quello di un’apertura […] racchiude in sé tutto e il contrario di tutto a seconda di come, e soprattutto da che punto, lo guardiamo” (Piero Zanini, 1997); “I limiti – interfacce, canopee, limitari, margini, bordure – costituiscono, in sé, spessori biologici. La loro ricchezza è spesso superiore a quella degli ambienti che separano” (Gilles Clément, 2005)1. Molti autori si sono interessanti ai limiti, perché in fondo i limiti rappresentano la sfida dell’andare oltre, del superamento, della diversità, del mondo nuovo, ma pure uno strumento di conoscenza per cercare di comprendere la normalità. Parlando di limiti mi piace ricordare il libro di Alessandro Baricco Oceano Mare e la figura del professor Ismael Bartleboom fermo sulla spiaggia ad osservare il bagnasciuga nell’intento di fermare l’attimo in cui l’onda si ferma e scoprire il punto in cui finisce il mare. Bartleboom sta scrivendo l’Enciclopedia dei limiti riscontrabili in natura con un supplemento dedicato ai limiti delle facoltà umane, un libro che non finisce mai. Esistono delle dimensioni fatte di punti che collegati possono dare luogo a limiti, si tratta però di limiti mai stabili che dipendono fortemente dalla capacità di osservazione, di scoperta, di lettura da parte nostra e pertanto per definizioni mai definitivi. Barleboom studia i limiti di mare, fiumi, tramonti in funzione della fine, di una Natura perfetta legata al non essere infinita, di una Natura che laddove decide di collocare i propri limiti, fa esplodere lo spettacolo. Ebbene gli spazi in cui i limiti si esprimono sono in realtà delle zone di margine, di transizione. Gli ecologi li chiamano ecotoni, ambienti in cui si esprimono delle relazioni intense tra gli ambienti che si toccano. Sono le aree di grande vitalità, di grande ricchezza specifica, di grandi relazioni perché lì si possono trovare le specie adattate a quelle aree specifiche come pure quelle che occasionalmente, per motivi legati alle loro funzioni vitali (caccia, riproduzione, movimento, eccetera) provengono dai due ambienti limitrofi. E’ tipicamente un’area di scambio, di flusso di energia, materia e informazioni e pertanto essenziale alla vita, complessa e dinamica. Questo aspetto vale anche in altre situazioni: si pensi al Sahel, orlo meridionale del Sahara che Eugenio Turri ha definito “confine permeabile”, luogo di scambio e di confronto tra la città nomade e quella sedentaria. Lei ha parlato di terrains vagues e a tale proposito mi viene in mente Constant e la sua New Babylon, un progetto utopiano (che si distingue dagli utopisti per il fatto di avere utopie concrete e non astratte, secondo una definizione del filosofo Henry Lefevre) che progetta la città dell’Homo ludens. Constant, come scrive Francesco Carreri nel suoi testi, definisce i suoi Terrains vagues come spazi neobabilonesi, in cui tutto possono mettersi a fare quello che gli piace. E’ un’idea che mi da speranza, quella di uno spazio di libera creatività collettiva in cui è possibile immaginare nuove vie per abitare il mondo, superando le logiche dell’urbanistica funzionalista, che peraltro mostrano evidenti segni di affanno. 1 JULIEN GRACQ, La forme d’une ville, Libraire José Corti, 1985, trad. ita. Annuska Palme Sanavio, La forma di una città, Edizioni Quasar, Roma 2001; PIERO ZANINI, Significati del confine. I limiti naturali, storici, mentali, Bruno Mondadori, Milano 1997; GILLES CLÉMENT, Manifeste du Tiers paysage, Editions Sujet/Objet, 2004, trad. ita. a cura di Filippo De Pieri, Manifesto del Terzo paesaggio, Quodlibet, Macerata 2005.
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Figura 1. Isola Pellestrina. Limite, confine, ecotono, frontiera?
Terrain vague dunque come spazio in movimento, vissuto secondo regole non comuni, in cui si sviluppano delle trasformazioni non controllate dal potere e si producono nuove forme di vissuti a volte trasgressivi, a volte innovativi, a volte distruttivi, ma certamente mai banali. I terrain vagues, per i botanici sono spazi di alto interesse, perché occupati da ricchissime ed in parte rare comunità vegetali specifiche e non, chiamate ruderali. Gli spazi ruderali pluriennali possono essere ambiti di lato pregio naturalistico grazie alle loro facoltà di rifugio, ospiti per specie minacciate di estinzione. La correlazione con gli esseri umani credo sia possibile, in quanto luoghi in cui la vita si esprime in modo diverso essi rappresentano gli ambiti di nuove scoperte proprio perché aree di margine. Aree dimenticate in cui la Natura tende a esprimere la sua potenzialità di recupero, meravigliandoci ogni volta delle sue capacità di recupero e delle possibilità di trovare gli ambiti non normali, quelli dimenticati e pertanto più interessanti sia come territorio di scoperta sia come territorio di progetto.
E’ cambiata nella società contemporanea la percezione del confine, il senso del limite? Quali le ambiguità semantiche tra confine, limite e frontiera? Può il limite possedere una qualità definibile “sinaptica”, cioè la capacità di collegare, mettere in relazione e mediare due realtà distinte? Il limite, in particolare nella nostra epoca, può diventare elemento generatore di relazioni e opportunità? Prendiamo il recente esempio della costruzione di un muro divisorio in un quartiere residenziale a Padova: si tratta di un confine, di un limite, di una frontiera? Si può pensare a questo termine parlando di frontiera e partendo dall’etimo di Fronte dunque fronte a, rivolto a o contro qualcuno. Una frontiera determina quindi forze contrapposte, che si confrontano rendendo instabile, in evoluzione il margine stesso e dunque determinando uno spazio piuttosto che una linea retta. Lungo una frontiera si aprono le zone franche, le aree in cui tra le parti si instaurano rapporti particolari, ispirati a situazioni singolari, prive di identità, di
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storia, aree di malintesi reciproci, come ci ricorda Zanini. La frontiera non è pertanto mai fissa, definitiva, ma sempre in cambiamento in funzione della situazione politica, economica, sociale delle due realtà che tende a mettere a confronto. Nella costruzione del muro di Padova non vi è la volontà, nemmeno inconscia, di costruire una frontiera per riuscire a definire uno spazio di relazioni: se così fosse si tratterebbe di un’azione artistica. Leggo piuttosto la volontà di reclusione, di separazione che ci riporta immediatamente al concetto di confine attraverso la recinzione, qui espressa in modo estremo. Un segno forte, violento, una barriera fisica e psicologica costruita da chi si ritiene proprietario della terra e dunque la confina mettendo al confino l’altro, il diverso e fondamentalmente anche sé stesso. Con questo gesto, comune a gran parte delle aree residenziali di villette del Veneto e qui semplicemente esasperato, ci si illude di ritrovare un’identità perduta nel proprio interno, magari sottoterra nei caveau ricchi di suppellettili rurali appese ai muri, protetti da sempre maggiori sistemi di sicurezza che ormai comprendono cani, uomini e tecnologie satellitari. Sono relazioni date dalla paura di perdere ciò che, in realtà, si è già perduto perché incapaci di mantenerlo vivo attraverso la ricerca di nuovi modelli identitari, contemporanei e privi di paure. Il limite è per me qualcosa di più fragile, che quando si trasforma in confine o frontiera, assume un altro significato, in cui di perde la dimensione del confronto civico, del rispetto, della ricerca. Mia madre mi diceva sempre “tu es en train de passer la limite” e per me questo era una sfida meravigliosa ricca di rischio e affetto. Vi è pure una componente tragica e di magica nel limite, come ricorda il poeta ticinese Fabio Pusterla2 che ci riporta al concetto di limite, in particolare di quello invalicabile riferito all’uomo e non alla natura, ricordando la modifica del limite di una riserva di caccia e delle sue tragiche conseguenze per la popolazione di cervi che vi si era rifugiata da anni e pensava di poter vivere tranquilla. Promemoria dei cervi «E i cervi come sempre salirono verso le rocce e la neve verso il limite invalicabile che era stato valicato e distrutto. Roccia aperta, ora, merce da preda. Ma i cervi come sempre salirono fino alla schiena grigia dello gneiss, nudo sasso di vetta. Dopo, rosso, per giorni. Non c’è altro» In quanto all’ultima domanda, mi chiedo se il limite mette in relazione due realtà distinte oppure se due realtà distinte producono un limite. Ritengo che sia la seconda ipotesi che va perseguita e semmai è il come vivere il limite il problema da porsi e decidere se questo va trasformato in confine, frontiera e elemento generatore di opportunità. Oppure più semplicemente va avviata una nuova capacità di superare il limite da noi definito e leggere questi ambiti con strumenti diversi fino a percepire le tonalità di un continuum in trasformazione.
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FABIO PUSTERLA, tratto da Pietra sangue, Marcos y Marcos, 1999.
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Figure 2 e 3. Passo della Garina, Svizzera. Segni nel paesaggio che mostrano una ineffabile presenza del limite del continuum.
In effetti va analizzata la dimensione del limite o confine o frontiera: in realtà in queste aree esistono sempre delle forme di scambio, anche se a volte a noi non percettibili. Per talune specie o flussi gli scambi di interrompono, ma per altri no e un elemento di base alla comprensione del tipo di contesto con cui abbiamo a che fare e proprio legata all’identificazione delle continuità, permeabilità ancora esistenti, processo per il quale normalmente non dedichiamo tempo sia a livelli di piano che di progetto. In Natura i limiti sono sostituiti dagli ecotoni, da spazi di transizione da continuum di trasformazione. Siamo noi con le nostre azioni che creiamo dei limiti o delle frontiere.
La soglia in architettura è uno spazio di transizione dove “ci si sente in due territori contemporaneamente con la possibilità di entrare nell’uno o nell’altro a scelta” (Kevin Lynch 1981)3. Il paesaggio che circonda la città può essere inteso come soglia? Non essendo architetto parto dal punto di vista etimologico. La soglia è la parte inferiore della porta di entrata o il valore minimo perché qualcosa si produca. Una specie di gradino da oltrepassare con l’immissione di una dose di energia dunque di volontà. Quando si parla di soglia non è importante quello che sta fuori o dietro ma piuttosto quello che sta al di là della soglia, quello in cui stiamo entrando. La soglia è una specie di limbo, una terra in cui il regime di proprietà o le caratteristiche sono già modificate, ma che in realtà questo cambio non è ancora definitivo. Su una soglia, normalmente, prima di entrare si bussa, ci si pulisce i piedi e si chiede permesso anche in casa dei nemici, come ci ricordava Rigoni Stern. Non sono relazioni di margine, quello che è fuori resta fuori dalla porta e dalla soglia.
3 KEVIN LYNCH, A theory of good city form, The Mit Press, Cambridge (Mass.) 1981, trad. ita. Roberto Melai, Progettare la città. La qualità della forma urbana, Etaslibri, Milano 1990.
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Il significato di soglia indicato da Lynch lo riconduco piuttosto al territorio di margine di cui abbiamo già discusso prima. Se utilizzando il termine di soglia, Lynch voleva inserire anche l’idea del rispetto, allora devo rilevare che nei territori che circondano le città non esistono aree di rispetto, semmai vi si trovano ambiti di sopraffazione monofunzionale, di abbandono, di margine in cui si possono produrre nuove forme di dialogo, ma certamente lontano da un discorso tra il modo della città e quello rurale.
Cosa significa, dal suo punto di vista, progettare paesaggi di confine nell’era contemporanea ed in particolare quei territori di interfaccia dove si manifesta la tensione tra metropoli e ruralità? La tensione qui esistente, infatti, non necessariamente produce effetti negativi (conflitti), ma tali “relazioni tese” possono progredire verso condizioni evolutive diverse, che necessitano però di essere guidate. Faccio fatica a pensare che si possa progettare il paesaggio in generale, perché per me il paesaggio è lo spazio di espressione del collettivo e pertanto non può essere progettato da un esperto di qualsivoglia formazione. Ma ancor più difficile mi è immaginare di progettare uno spazio di confine, uno spazio di convivenza tra due sistemi come quello della metropoli e della ruralità, anche se oggi si è progressivamente perduta la dimensione di paesaggio collettivo a favore di un paesaggio frutto di approcci individualisti, con i risultati che ben vediamo. Non credo sia possibile oggi definire degli spazi di transizione coerenti tra questi due ambiti costruttivi, vista l’odierna difficoltà a identificare e comprendere la metropoli e ruralità. In questi due sistemi è ormai impossibile definire dei “centri”, delle relazioni chiare, dei margini e di conseguenza comprendere dove gli stessi producono effettivamente territori di interfaccia reali oppure si tratta solo di margini sbrecciati, resti territoriali prodotti da frammentazione e perdita di senso produttivo/culturale/affettivo, in attesa di essere sfruttati grazie a nuovi incentivi.
Figura 4. Longarone e la diga del Vajont: malgrado la storia, i limiti, frontiere, confini presenti frammentano il territorio confinando le acque in spazi sempre più esigui e marginali. Fino alla prossima strage?
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Questa discussione deve essere riportata a diverse realtà e scale territoriali e forse così è possibile identificare alcuni indirizzi per la pianificazione e gestione di questi territori. La prima cosa da fare ritengo sia quella di recuperare il senso del luogo in base a criteri sociali, ambientali ed anche economici. Vanno definiti quali sono gli elementi di un patrimonio storico- culturale che devono essere mantenuti, vanno identificate le questioni di flusso ambientale, di materiale ed energia dei siti, vanno ripresi alcuni paradigmi da diverse discipline attraverso un lavoro di lettura ed analisi interdisciplinare ed intercomunicativo. Per discutere della complessità è necessario ridefinire un nuovo minimo comune denominatore per capire l’oggi e poi iniziare la discussione su cosa si vuole un domani. Questo ci permette di definire quali sono gli spazi di trasformazione che dobbiamo scoprire e immaginare o lasciarlo fare dalle nuove generazioni, perché ogni generazione è portatrice di innovazioni e deve avere degli spazi di espressione contemporanea. Queste aree possono essere di interfaccia tra realtà mutevoli e tra generazioni, dove si sviluppano tensioni fondamentali per la crescita e l’espansione del pensiero, a condizione che esse non vengano subite, ma siano il frutto di scelte coraggiose. Per concludere, ritengo che le aree di confine, di margine, vanno prima di tutto vissute nel profondo e vanno investigate le relazioni che sempre esistono in queste zone perché fondamentalmente siamo di fronte a dei continuum anche se a volte non visibili a prima vista. Solo in una seconda fase vanno identificate quelle azioni utili a affermare o attivare il senso del luogo, siano esse di ordine materiale o immateriale.
RIFERIMENTI ICONOGRAFICI Figure 1-4: fotografie di Pippo Gianoni.
Testo acquisito dalla redazione della rivista nel mese di settembre 2006. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768 Università degli Studi di Firenze
Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/ Firenze University Press anno 4 – numero 6 – luglio-dicembre 2006 numero monografico Progettare sui limiti sezione: Itinerari pagg. 82-92
L’ESPERIENZA DELLE COMMUNITY FORESTS IN INGHILTERRA* Giuseppe Colangelo**, Clive Davies***, Raffaele Lafortezza**, Giovanni Sanesi**
Summary Community Forests can be described as multi-purpose forests that are close to people and that deliver environmental, social and economic benefits. Community Forests involve local communities in the planning, design, management and use of trees, woodland and associated green-spaces. In England, Community Forests are a national programme of environmental regeneration reaching half of the England’s population, enhancing the countryside around major towns and cities, creating beautiful landscapes, rich in wildlife with associated opportunities for recreation and education. Overall, Community Forests cover an area of over four hundred and fifty thousand hectares in England: one of the largest environmental initiatives in Europe. After twenty years, the great involvement of people shows the importance of this new strategy for environmental planning and management. Key-words Community Forests, Fringe Areas, Urban Forests Management, People Involvement, Sustainability, GreenSpaces. Abstract In Inghilterra le Community Forests hanno assunto in breve tempo il ruolo di strumento per la pianificazione e di rivitalizzazione del territorio e del tessuto socioeconomico. Avviate all’inizio degli anni Novanta, si sono sviluppate nel corso di pochi anni e, attualmente, interessano buona parte delle aree di frangia, in prossimità delle principali città inglesi. Dal punto di vista strutturale sono costituite da un mosaico molto articolato di aree boscate e spazi verdi in cui sono valorizzate tutte le possibili funzioni attribuibili alle risorse territoriali in termini di benefici economici, sociali ed ambientali. L’obiettivo della loro costituzione, inizialmente, era quello di creare un paesaggio ben gestito, prossimo ai luoghi di lavoro, di vita e di ricreazione della popolazione inglese. L’ampio coinvolgimento delle persone in tutte le fasi di pianificazione e fruizione delle Community Forests mostra il significativo successo di tale strategia di gestione dell’ambiente.
Parole chiave Community Forests, aree verdi urbane periurbane, gestione del verde urbano, partecipazione delle comunità locali.
* Ricerca effettuata nell’ambito del progetto Interface finanziato dal programma British Council della CRUI. **Dipartimento di Scienze delle Produzioni Vegetali, Università degli Studi di Bari. ***North East Community Forests, United Kingdom.
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INTRODUZIONE Le Community Forests (CF) possono essere descritte, nel senso più ampio del termine, come foreste multifunzionali localizzate in prossimità degli agglomerati urbani, che producono benefici e coinvolgono le comunità locali nelle fasi di pianificazione, gestione, fruizione delle foreste e delle relative aree verdi. Le Community Forests sono, spesso, associate ad una serie di contesti urbani e periurbani dove le comunità locali giocano un ruolo attivo nel miglioramento della qualità ambientale1. Negli USA, ad esempio, dove il governo federale possiede circa la metà dei territori forestali, la definizione riguarda un insieme di processi entro cui gli utilizzatori di risorse forestali, gli ambientalisti e altri portatori di interessi, si mettono insieme per gestire terreni di proprietà pubblica. Negli USA il ruolo delle Community Forests e le possibilità di una loro organizzazione sono sanciti dal Forestry Act (2004)2. Nel Sud-Est asiatico3, così come in altri paesi in via di sviluppo, le Community Forests rivestono finalità simili tra loro e coinvolgono le popolazioni indigene che dalla foresta traggono sostentamento dal punto di vista energetico ed alimentare4. Una situazione assimilabile alle Community Forests si riscontra nei cosiddetti satoyama giapponesi caratterizzati dalla presenza di boschi di latifoglie (es. Quercus serrata Thunb. e Quercus acutissima Carruth.) governati a ceduo e da campi coltivati a risaia. Le comunità locali sono coinvolte direttamente nella gestione di queste aree che altrimenti sarebbero abbandonate, recuperando tradizioni culturali del passato, particolarmente apprezzate dalla civiltà giapponese5. In Italia una situazione analoga alle Community Forests può essere quella delle proprietà collettive, quali la “Magnifica Comunità della Val di Fiemme”, le “Regole Ampezzane” e le foreste che comunque sono gestite e soggette ad usi civici. In molti casi, quindi, la matrice forestale è l’elemento predominate delle Community Forests. La gestione e la tutela di questa risorsa genera ricadute positive sugli aspetti ambientali, economici, culturali e sociali delle comunità interessate, ma, al tempo stesso, non ne rappresentano l’aspetto prioritario. Nel caso delle Community Forests inglesi esistono alcuni elementi6, quali l’interesse specifico per la totalità delle risorse ambientali del territorio, la localizzazione, le forme di coinvolgimento delle popolazioni locali e l’interesse suscitato a diversi livelli che le rendono differenti dai modelli precedentemente visti e che le fanno apprezzare in vista della possibilità di seguire un approccio simile anche nel contesto italiano. Questa esperienza di pianificazione è nata e si è sviluppata nel corso degli ultimi venti anni non solo in Inghilterra, ma in tutta la Gran Bretagna. Inizialmente l’obiettivo perseguito dalle Community Forests era di incrementare le superfici forestali del trenta percento circa, in trenta-quaranta anni. Successivamente l’interesse è stato rivolto alla realizzazione e salvaguardia di nuovi spazi di tipo rurale7. Nel corso della loro pur breve vita, le Community Forests inglesi hanno mostrato una grande dinamicità strutturale e hanno conseguito risultati davvero significativi, spesso anche oltre gli obiettivi progettuali prefissati nella pianificazione delle attività. Partendo dalla descrizione della struttura organizzativa il presente contributo intende analizzare gli aspetti salienti delle Community inglesi. 1
CECIL C. KONIJNENDIJK, R OBERT M. RICARD, ANDY KENNEY, T HOMAS B. R ANDRUP, Defining urban forestry – A comparative perspective of North America and Europe, “Urban Forestry & Urban Greening”, n. 4, 2006, pagg. 93-103. 2 http://www.communityforestryinternational.org 3 http://www.asiaforestnetwork.org 4 JEM ARNOLD, Community Forestry: Ten Years in Review, FAO, 1995; K. FREERK WIERSUM, Indigenous explotation and management of tropical forest resources: an evolutionary continuum in forest-people interactions, “Agricolture Ecosystems & Environment”, 63, 1997. 5 KAZUHISA TAKEUCHI, ROBERT D. BROWN, IZUMI WASHITANI, ATSUSHI TSUNEKAWA, MAKOTO YOKOHARI, Satoyama The traditional Rural Landscape of Japan, Sprinter, 2003. 6 http://www.necf.org.uk 7 http://www.communityforest.org.uk
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Figura 1. Localizzazione delle Community Forests in Inghilterra.
In particolare, il lavoro si propone di: 1) analizzare le funzioni attribuite alle Community; 2) illustrare le forme di gestione partecipata messe in atto; 3) esaminare i risultati che sono stati perseguiti negli ultimi anni con le CF. Il contributo si conclude con alcune considerazioni sulle possibilità di applicare analoghe forme di gestione anche nel nostro paese.
L’INGHILTERRA E LE COMMUNITY FORESTS Agli inizi degli anni Novanta la Countryside Commission, un’Agenzia Governativa Nazionale (poi trasformatasi in Countryside Agency), avanzava alcune ipotesi progettuali per mettere in connessione le aree agricole con il contesto urbano di alcune città inglesi. La necessità derivava dal fatto che alle aree rurali di frangia o intercluse nel tessuto urbano non era riconosciuta alcuna funzione di carattere ecologico e divenivano, molto spesso, territori potenzialmente interessati dall’espansione degli agglomerati. La Countryside Commission, tuttavia, aveva la consapevolezza che attraverso una connessione tra città e relative aree di frangia fosse possibile delineare un nuovo modello di sviluppo delle aree urbane. Tale approccio permetteva di soddisfare, tra l’altro, una nuova domanda sociale di migliore qualità della vita avanzata delle stesse comunità locali. L’obiettivo primario di questa nuova forma di pianificazione dei territori extraurbani era di migliorare lo stato dell’ambiente e del paesaggio di aree circostanti le città, creando immagini del territorio più gradevoli, aumentando la biodiversità animale e vegetale, favorendo l’accesso e promuovendo attività ricreative e di educazione. Obiettivi collegati erano quelli di rendere maggiormente attrattivi i luoghi, fornendo nuove possibilità di vita salutare e di sviluppo economico. Ovviamente questi obiettivi interessavano maggiormente quei contesti e quelle città nelle quali se ne verificava un particolare ed effettivo bisogno (i.e. zone urbane interessate dal recupero di aree post industriali). In sede di pianificazione, la Countryside Commission, per mettere in atto questa strategia, decise di utilizzare le aree forestali come possibile strumento 84
di connessione (green infrastructure), ponendosi l’obiettivo di dimostrare come gli interventi di miglioramento ambientale potessero avere anche ricadute positive sugli aspetti economici e sociali delle comunità. Nel progetto iniziale di CF, furono individuati dodici contesti territoriali che, per localizzazione e caratteristiche, fossero accessibili almeno dalla metà della popolazione inglese (Figura 1) e che coinvolgessero aree interessate da un certo degrado socio-economico (i.e. aree interessate nell’immediato passato dall’estrazione del carbone e dalle relative industrie collegate). Le dodici aree costituiscono tuttora la base del Community Forest Programme della Countryside Agency8.
STRUTTURA E FINALITÀ DELLE COMMUNITY FORESTS Sul piano organizzativo le Community Forests sono assimilabili a “consorzi” di comunità locali. Ogni “consorzio” interessa il territorio di più comuni e di altre entità amministrative ed è coordinato da un team che contempla tutte le figure professionali (pianificatori, paesaggisti, forestali, managers ambientali e agricoli, eccetera) che ha il ruolo di pianificare e gestire tutte le attività delle CF. Nel caso della North East Community Forest, ad esempio, la gestione coinvolge venticinque-trenta persone che si occupano, ognuno con proprie competenze, delle fasi e delle funzioni della Community9. Il compito del team di gestione è di facilitare e rendere possibile la creazione e l’espansione della stessa Community, seguendo una serie di obiettivi strategici. L’attenzione di questi obiettivi è posta su tutti gli ambiti di intervento legati alla molteplicità delle funzioni e benefici che si possono attribuire alle risorse ambientali. Il ruolo della CF è pertanto quello di catalizzatore di iniziative e di promotore di attività che poi vedono interessare altri soggetti di natura pubblica e privata. Ogni Community si dota di un piano a scadenza quinquennale nel quale sono riportate tutte le attività che saranno messe in atto al fine di concretizzare gli obiettivi istitutivi. Con la loro istituzione, le Community Forests, si sono poste una serie di obiettivi e di strategie di intervento atti a migliorare e rigenerare l’ambiente perché questo sia in buono stato, fruibile in maniera permanente e diversificato per i vari aspetti funzionali. Un ambiente migliore ha ricadute immediate sul benessere umano e sulle economie delle comunità coinvolte. Nella pianificazione e gestione delle risorse ambientali la Community pone attenzione su ambiti di intervento quali: a. Educazione ambientale; b. Agricoltura; c. Conservazione della Natura e della Biodiversità; d. Turismo; e. Ambiente e gestione sostenibile; f. Collegamento tra le comunità; g. Differenziazione delle attività agricole; h. Paesaggio Forestale; i. Sport e Ricreazione; j. Salute e Benessere Umano; k. Archeologia, Storia e Tradizione Locale; l. Arte e Mestieri. Per ogni ambito la Community individua target progettuali di breve e medio termine attraverso una pianificazione a scadenza quinquennale. Annualmente produce un report per la verifica dei risultati parziali perseguiti Per meglio esplicitare gli obiettivi istitutivi delle Community è possibile farne una descrizione raggruppandoli per ambiti di intervento. 8 9
http://www.communityforest.org.uk http://www.necf.org.uk
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- Nuovi territori: gli interventi sono finalizzati ad innescare evoluzioni di lungo periodo del paesaggio rendendolo ecologicamente diversificato, accessibile, attrattivo, e soprattutto gestito secondo i paradigmi della sostenibilità. In questo ambito ricadono le attività prettamente agricole, le iniziative di gestione delle aree rurali, la gestione delle aree forestali e delle sistemazioni arboree (i.e. filari), la realizzazione di nuove aree boscate, la promozione del mercato dei prodotti correlati (i.e. local food), le iniziative atte a favorire l’accesso e la fruizione, a preservare i luoghi e le tradizioni culturali. In ogni specifico settore la Community offre il proprio supporto tecnico al fine di promuovere lo sviluppo sociale delle nuove aree e per innescare, di conseguenza, processi per un loro autosostentamento economico. - Sviluppo e rigenerazione: in questo ambito tutti gli interventi sono finalizzati ad assicurare che gli sviluppi futuri della Community Forest diano un contributo positivo alle aspettative sociali, economiche e ambientali delle comunità. Per far questo vengono redatti piani di sviluppo locali e regionali relativi alle diverse risorse che ricadono nell’ambito del consorzio. - Persone e luoghi: questo ambito rappresenta il punto di forza delle Community perché finalizzato a stimolare e facilitare il coinvolgimento di tutti i settori della comunità nella pianificazione, nella creazione e gestione, nella fruizione delle risorse ambientali. La Community Forest riconosce come essenziale il coinvolgimento delle comunità locali in vista delle ricadute che la qualità dell’ambiente può avere sulla salute, il benessere umano e la qualità della vita. Per coinvolgimento si deve intendere la partecipazione a tutte le fasi e le attività della Community. Un primo livello è rappresentato dal coinvolgimento nella fruizione. La Community Forest individua in quattro ambiti specifici la possibilità di creare un collegamento con le popolazioni che ricadono nei propri ambiti: a. Sport e ricreazione: sono comprese tutte le attività di carattere sportivo amatoriale e non. La CF realizza percorsi e strutture che valorizza attraverso la proposta di un’ampia serie di iniziative specifiche per ogni fascia di età. La quantità di percorsi e iniziative e l’elevato numero di fruitori dimostrano concretamente la validità del coinvolgimento della popolazione. b. Educazione ambientale: si concretizza attraverso attività di educazione informale proposte ad hoc per tutte le fasce di età o attraverso il coinvolgimento delle scuole o delle municipalità presenti nel territorio. c. Attività culturali e artistiche: vengono realizzati progetti, eventi, iniziative per promuovere il confronto e la conoscenza delle tradizioni locali. d. Volontariato: in ogni comparto o attività della Community Forest c’è spazio per attività di volontariato (o di riabilitazione sociale). Il coinvolgimento è possibile anche nelle fasi di pianificazione e gestione delle risorse. La Community Forest offre una serie di livelli differenti di sviluppo ai quali le persone possono prendere parte. e. Informazione: finalizzata alla conoscenza e comprensione delle potenzialità della CF da parte delle persone per favorirne la fruizione e il gradimento. f. Consultazione: per costituire un canale preferenziale di comunicazione al fine di raccogliere risposte di feedback nelle fasi di progettazione e realizzazione delle attività della CF. Il team propone eventi e progetti di coinvolgimento per consentire alla gente di esprimere i desiderata e le aspettative e per assicurare in qualsiasi momento la trasparenza delle scelte effettuate. g. Partecipazione: le comunità possono prendere parte alle fasi realizzative delle attività della Community Forest. h. Amministrazione: la CF favorisce la formazione e fornisce il supporto perché gruppi locali coinvolti siano in grado di proporre iniziative proprie finalizzate alla conservazione, alla promozione e al gradimento delle risorse ambientali proprie. - Compartimenti di gestione: in questo ambito gli interventi sono finalizzati ad assicurare che l’evoluzione della Community Forest sia pianificata in maniera sostenibile e sia in sinergia con le peculiarità, le caratteristiche e le differenze delle realtà locali. Una serie di strategie 86
gestionali indica la scala di riferimento, la direzione e la natura dei cambiamenti possibili in accordo con le caratteristiche dei luoghi: a. Conservazione: finalizzata a mantenere e gestire le caratteristiche presenti, promuovere lo stato di salute e la stabilità dei modelli esistenti favorendo le dinamiche interne di aumento della biodiversità. b. Miglioramento delle caratteristiche: atta a ricostituire e migliorare le caratteristiche del paesaggio esistente laddove questo abbia subito fenomeni di degrado o si sia perso per effetto dei cambiamenti di destinazione del suolo. La creazione di nuove aree boscate, ad esempio, potrebbe essere una possibile risposta alle esigenze di carattere storico e ambientale. c. Aumento delle superfici e delle funzioni: in questo caso si tende a favorire lo sviluppo o le variazioni delle caratteristiche ambientali attraverso una significativa espansione della copertura forestale e cambiamenti nella gestione delle aree agricole in direzione di un paesaggio in grado di assolvere ad una più larga molteplicità di funzioni. d. Ricostruzione: finalizzata ad agevolare cambi più sostanziali nell’uso del suolo e nelle forme di gestione in quelle aree in cui la struttura del paesaggio esistente ha subito eccessiva banalizzazione. Questo può avvenire attraverso la creazione di nuovi paesaggi che offrano una maggiore gamma di benefici sociali, economici ed ambientali.
LA FUNZIONE RICREATIVA COME ESEMPIO DI GESTIONE PARTECIPATA Nella pianificazione le Community Forests pongono particolare attenzione alla fruizione dell’ambiente da parte delle comunità mediante la realizzazione di strutture e la promozione di eventi e iniziative sportive, culturali, ricreative aperte e pensate per tutte le fasce di età. La Community Forest, inoltre, differenziando i percorsi, evita che vengano a crearsi conflitti tra le diverse attività. Qui di seguito un’ampia lista di possibilità offerte ai cittadini. Attività turistiche: - vie di trasporto sostenibile; - greenways, strade che congiungono le diverse città e non sono percorse da automezzi; - gateways, strutture ricettive con punti ristoro e negozi. Attività sportive: - piste ciclabili (la C2C, coast to coast, collega fisicamente da est ad ovest le coste inglesi realizzando una pista ciclabile di circa cinquemila miglia) - percorsi sportivi per bmx e per mountain bike; - piste per equitazione; - strutture per pesca sportiva;
Figura 2. piste per bmx ed equitazione e sentieri pedonali si sviluppano, spesso, attigui ma su percorsi separati. Figura 3. Rapide artificiali create attraverso la deviazione di un corso d’acqua per attività di canottaggio e rafting. L’impianto è in funzione solo durante i weekend.
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Figura 4. struttura per arrampicate in sicurezza. Figura 5. gruppo di anziani coinvolti in iniziative di Health Walking.
- percorsi di orienteering; - percorsi ed eventi per corridori; - sport acquatici, canottaggio, rafting; - boulder per free climbing; - strutture per arrampicata in sicurezza; - pendii per dry-skiing; - aree per tiro con l’arco. Attività ricreative e culturali: - attrazioni di interesse scientifico/didattico; - attività per il coinvolgimento delle scuole (piantumazione di nuove aree boscate); - percorsi per Health Walking10; - attività di vario genere per approfondire la conoscenza dei luoghi e delle tradizioni culturali; - festivals musicali, teatro; - iniziative di educazione ambientale o ludiche per bambini; - raccolta e messa a dimora di semi di alberi o fiori; - strutture di aggregazione per anziani. Ovviamente, in ogni struttura o attività pianificata e realizzata la Community Forest promuove la collaborazione con le varie agenzie nazionali, le autorità pubbliche locali e le organizzazioni private.
COINVOLGIMENTO DEI CITTADINI NELLE FASI DI GESTIONE. La Community Forest si pone l’obiettivo di promuovere la cultura e la gestione partecipata del verde incentivando forme di volontariato. L’esempio riportato aiuta a comprendere la valenza e le concrete potenzialità di tale strategia. In alcuni periodi dell’anno i cittadini vengono coinvolti nella raccolta di semi di alberi o fiori selvatici in parchi e aree verdi della Community Forest. I semi vengono conferiti, opportunamente separati, ad alcuni punti di raccolta e gestiti direttamente dal vivaio interno della Community.
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Per Health Walking si intende un’iniziativa che coinvolge in maniera particolare persone di età avanzata: gli anziani partecipano a passeggiate nelle aree verdi organizzate dalle comunità locali al fine di migliorare lo stato di salute con attività fisica e facilitare la socializzazione di persone sole (spesso vedovi) che in quanto tali possono più facilmente avere problemi di dipendenza da alcool, depressione, eccetera. E’ stato dimostrato che un simile approccio può ridurre la spesa legata all’assistenza sanitaria di dette fasce di popolazione.
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Figure 6 e 7. Mini Monster, attività di cattura e riconoscimento di pesci di piccola taglia e insetti condotta nel corso d’acqua del parco pubblico.
Anche in questo caso è prevista la partecipazione dei cittadini alla semina e nelle prime operazioni di gestione del vivaio e nella successiva messa a dimora delle piantine. In tutte le fasi viene promossa la partecipazione di associazioni (disabili, eccetera), scuole, comunità locali, organizzazioni per il reinserimento sociale (carceri, eccetera). Le comunità locali, da parte loro, incentivano e supportano la produzione di piantine pianificando nuove aree di espansione delle foreste e utilizzando in via preferenziale postime proveniente dal vivaio della Community. Viene così a crearsi un circolo virtuoso che presenta notevoli vantaggi: - utilizzo di manodopera volontaria che in quanto tale ha costi molto contenuti; - scarso rischio di inquinamento genetico dei boschi per produzione e piantumazione di postime autoctono; - possibilità di vendita per intero dello stock di piantine prodotte ai privati e alle comunità locali; - coinvolgimento attivo dei cittadini.
DIFFUSIONE DELLE COMMUNITY FORESTS IN INGHILTERRA Come già accennato in precedenza, la Countryside Agency si poneva, all’inizio, l’obiettivo di dimostrare che interventi di miglioramento ambientale potessero migliorare le condizioni sociali ed economiche delle comunità coinvolte. Analizzando gli esiti dal punto di vista quantitativo si possono cogliere, oggi, le differenze di risultato che le CF inglesi hanno raggiunto rispetto alle analoghe esperienze in altre nazioni. Ad oggi le CF vantano risultati quali11: - gestione di oltre ventisettemila ettari di aree boscate già esistenti; - realizzazione di oltre diecimila ettari di nuove aree boscate; - gestione di altri dodicimila ettari di habitat differenti; - sedicimila ettari di aree aperte alla pubblica fruizione; - più di quattromila chilometri di percorsi ripristinati o creati ex novo; - migliaia di eventi e attività per il coinvolgimento delle comunità locali.
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Tutte le informazioni riportate in questo articolo sono state raccolte nei report annuali prodotti dalle Community Forests.
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Figura 8. volantino della North East Community Forest per le attività di raccolta dei semi in bosco. Figura 9. Vivaio Forestale della Community Forest.
RISORSE FINANZIARIE A SUPPORTO DELLE ATTIVITÀ DELLA COMMUNITY FOREST Nel modello inglese le Community Forests hanno la disponibilità di una larga serie di forme di finanziamento messe a disposizione a livello nazionale e locale. La realizzazione di nuove aree boscate, l’acquisto di nuove aree da imboschire, la diversificazione delle attività agricole, la realizzazione di strutture per le attività sportive e di ricreazione sono finanziate in primo luogo dai ministeri e agenzie nazionali (i.e. Ministero delle Foreste, Countryside Agency, Ufficio del Primo Ministro) e dai dipartimenti regionali e locali (i.e. Dipartimento per l’Ambiente, Alimentazione e Affari Rurali). Altri finanziamenti possono pervenire da Agenzie Regionali per lo sviluppo e dalle strutture di Governo Locale (i.e. Comuni). Una fonte economica di interesse è quella rappresentata dal settore industriale che viene coinvolto come sponsor delle Community Forests in vista della possibilità di attingere ai prodotti interni della Community (i.e. legname, prodotti locali, strutture sportive). Molto utile è anche l’apporto economico e pratico che deriva dal volontariato e da organizzazioni pubbliche e private coinvolti nelle fasi di gestione e pianificazione delle Community. Fin dalla loro istituzione, inoltre, le Community Forests hanno la possibilità di attingere a fondi provenienti da lotterie nazionali, tasse di proprietà, programmi di finanziamento Comunitari, sponsorizzazioni, contributi e donazioni da parte di fondazioni e cittadini. Nelle pagine web delle diverse Community Forests, ad esempio, sono molto frequenti gli inviti alla donazione quale strumento per contribuire attivamente ed in prima persona alle finalità delle Community.
CONCLUSIONI In qualsiasi luogo in cui alla presenza delle risorse forestali sono associate attività di gestione può essere legittimo aspettarsi e pianificare benefici di diversa natura (economica, sociale, ambientale, paesaggistica). In maniera analoga possono essere pianificati interventi atti a 90
favorire la fruizione di queste nuove foreste e delle relative risorse associate da parte delle comunità e dei cittadini. Nella maggior parte dei casi tali benefici sono di tipo diretto. L’esperienza delle Community Forests in Inghilterra ha evidenziato come determinate strategie di gestione, in aggiunta a detti benefici diretti, possono generare una serie di benefici indiretti attraverso la valorizzare delle risorse forestali ed ambientali. In tal senso una delle caratteristiche maggiormente apprezzabili nelle Community inglesi è la partecipazione attiva dei cittadini, degli enti locali e delle imprese nella loro pianificazione, realizzazione e gestione. Tutte queste attività sono portate avanti con efficacia a livello locale grazie ad una specifica conoscenza dei luoghi, delle problematiche e delle aspettative che è posseduta dai soggetti locali che a diverso livello vengono coinvolti. Questo coinvolgimento permette uno scambio continuo di informazioni attraverso il quale è possibile delineare in maniera effettiva i reali fabbisogni o desideri delle comunità locali. Nelle Community Forests inglesi i cittadini diventano soggetti attivi della pianificazione e, oltre che fruitori delle risorse ambientali e dei benefici che ne derivano diventano essi stessi “produttori di territorio”. I buoni esiti delle Community Forests sono legati a tali processi di pianificazione condivisa e attraverso il protagonismo attivo degli attori sociali perseguono un livello più elevato di efficienza organizzativa e operativa. Particolare attenzione nelle Community Forests viene data alla comunicazione allargata delle finalità degli interventi, al dialogo con cittadini, comunità e imprese al fine di valorizzare l’ascolto e l’interpretazione dei bisogni individuali e collettivi. Tale approccio diventa, oltre che uno strumento di applicazione della democrazia e dello sviluppo sostenibile, un requisito tecnico essenziale per la gestione del territorio. Notevoli sono i vantaggi che ne derivano: non si verifica l’esclusione di fasce della popolazione che altrimenti non verrebbero di norma coinvolte nei processi di pianificazione (i.e anziani, giovani), viene favorita la negoziazione tra cittadini - destinatari dei progetti - e amministrazioni locali, vengono considerate e valorizzate le radici culturali dei luoghi e delle comunità in tutti i molteplici aspetti. La qualità delle iniziative proposte, il significativo aumento delle aree incluse nella gestione delle Community Forests, l’enorme quantità di persone coinvolte a tutti i livelli nelle attività possono dimostrare come il coinvolgimento della popolazione sia il volano che più di ogni altra strategia rende possibile il successo delle Community in Inghilterra e di qualsiasi analoga esperienza in altre nazioni. La scelta di realizzare le Community Forests in prossimità di aree urbane deficitarie in questo senso consente di avere un riscontro immediato della effettiva validità dell’esperienza Inglese. Resta da comprendere se il modello proposto dalle Community Forests inglesi possa essere applicato nel contesto italiano. Sono comunque da evidenziare alcune analogie: vi è una maggiore sensibilità sociale per i problemi ambientali e, oggi in maggior misura, un aumento delle esperienze di partecipazione condivisa nella gestione del verde da parte di cittadini e associazioni; alle risorse forestali ed ambientali è riconosciuta importanza strategica e un ruolo multifunzionale che è da valorizzare attraverso una gestione sostenibile sotto il profilo culturale, economico e sociale. Molteplici, tuttavia, risultano essere le differenze. In primo luogo manca un indirizzo strategico di carattere nazionale che, come nell’esperienza inglese, faccia da traino per le comunità locali e promuova sia economicamente che dal punto di vista normativo l’incremento e la gestione sostenibile delle risorse ambientali. Molto spesso, inoltre, sono scarse o occasionali le iniziative di diffusione degli obiettivi e delle strategie di pianificazione: la carenza di comunicazione di obiettivi e strategie di intervento non crea i presupposti per un dialogo diretto tra amministrazione e cittadini. Come già esposto in precedenza, questo è, invece, auspicabile e costituisce il volano e lo strumento preferenziale per una gestione partecipata delle risorse. In alcune esperienze locali italiane si è visto che quando le carenze dovute ad un adeguato quadro normativo sono risolte attraverso piani di gestione ad hoc (Aree protette che si sono dotate di certificazione Emas) e viene posta particolare attenzione al coinvolgimento attivo dei cittadini (Parco Nord di Milano) attraverso tutte le forme di comunicazione possibile gli 91
esiti della gestione possano essere del tutto assimilabili al modello proposto dalle Community Forests inglesi.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI AMATI MARCO, LAFORTEZZA RAFFAELE, SANESI GIOVANNI, YOKOHARI MAKOTO, Il sistema delle green belt londinesi: problematiche e prospettive in vista di una riforma, “Genio Rurale - Estimo e Territorio”, n. 3, 2006, pagg. 38- 46. ARNOLD JEM, Community Forestry: Ten Years in Review, FAO, 1995. HIBBERD B.G., Urban Forestry Practice, Forestry Commission handbook 5, HMSO London 1989. KONIJNENDIJK CECIL C., RICARD ROBERT M., KENNEY ANDY, RANDRUP THOMAS B., Defining urban forestry – A comparative perspective of North America and Europe, “Urban Forestry & Urban Greening”, n. 4, 2006, pagg. 93-103. ALAN J. LONG, NAIR P.K.RAMACHANDRAN, Trees outside forests: agro-, community, and urban forestry, “New Forests”, Springer 17, 1999, pagg. 145-174. MERLO MAURIZIO, Common Property forest management in northern Italy: a historical and socio-economic profile, Unasylva 180, n. 46, 1995, pagg. 58-63. TAKEUCHI KAZUHISA, BROWN ROBERT D., WASHITANI IZUMI, TSUNEKAWA ATSUSHI, YOKOHARI MAKOTO, Satoyama The traditional Rural Landscape of Japan, Sprinter, 2003. WIERSUM K. FREERK, Indigenous explotation and management of tropical forest resources: an evolutionary continuum in forest-people interactions, “Agricolture Ecosystems & Environment”, n. 63, 1997, pagg. 1-16. Siti web: http://www.communityforestryinternational.org http://www.asiaforestnetwork.org http://www.communityforest.org.uk http://www.necf.org.uk
RIFERIMENTI ICONOGRAFICI Figura 1: Report di fine anno della North East Community Forest (Necf). Figura 8: volantino prodotto dalla North East Community Forest (Necf). Figure 2-7 e 9: fotografie di Giuseppe Colangelo.
Testo acquisito dalla redazione della rivista nel mese di novembre 2006. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768 Università degli Studi di Firenze
Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/ Firenze University Press anno 4 – numero 6 – luglio – dicembre 2006 numero monografico Progettare sui limiti sezione: Itinerari pagg. 93-101
IL LIMITE DEL TERRITORIO COSTIERO NEL PIANO PAESAGGISTICO DELLA SARDEGNA Giorgio Costa*
Summary The costal area is considered as a border, between see and earth, with its own dimension and physical space, with its history and inhabitants, in a little big word, with its identity. The landscape regions are an instruments to identify territory where it’s possible to recognize similar geographic, historical, social characteristics. Inside these regions it has been identified the costal zone. It has been considered like a public heritage, of all inhabitants. Its identification is based about scientific criterions that consider natural elements, ecosystems and habitats as single units in relationship among them, with environmental, formal and functional dynamics. Key-words Costal Zone, Border, Boundary, Natural Heritage, Landscape Plan.
Abstract La costa come frontiera, come terra di confine fra mare e terra, con una sua dimensione e un suo spazio fisico, con le sue storie e i suoi abitanti, parte integrante dell’identità del luogo. Gli Ambiti di paesaggio nel piano paesaggistico dell’isola di Sardegna identificano territori in cui è riconoscibile una unitarietà spaziale, geografica, storica, sociale. La fascia costiera contenuta all’interno degli Ambiti di paesaggio diventa un bene da tutelare e viene considerata come un patrimonio di tutti gli abitanti. La sua individuazione è basata su criteri prevalentemente scientifici che considerano elementi naturali, ecosistemi e habitat come unità in relazione fra loro, secondo dinamiche evolutive, ambientali, formali, funzionali. Parole chiave Territorio costiero, confine, frontiera, patrimonio ambientale, piano paesaggistico.
* Dottore di Ricerca in Progettazione paesistica, Università di Firenze.
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TRASFORMAZIONI DEL PAESAGGIO NELLE COSTE E L’IDENTIFICAZIONE DEGLI AMBITI DI PAESAGGIO
Le coste del Mediterraneo sono state il luogo dove per migliaia di anni si sono sviluppate le civiltà che hanno dato vita alla cultura mediterranea, al ricco commercio, agli scambi sociali, alle guerre e alle dominazioni. Il mare è stato un elemento di unione e di divisione allo stesso tempo, il centro della vita e dell’identità dei popoli mediterranei. Fino ad almeno tutto il secolo scorso, prima che l’aereo sostituisse la nave come mezzo per il trasporto delle genti, il mare ha svolto il suo ruolo, come ragione e fonte di vita delle popolazioni. Le coste non sono state però sempre luoghi sicuri e produttivi, quanto invece luoghi insicuri, aperti, troppo aperti a razzie e scorribande da parte delle popolazioni saracene o nemiche, come pure luoghi acquitrinosi e malsani, in cui le epidemie e le calamità naturali spesso decimavano le popolazioni insediate. Eppure, in questa striscia tra terra e acqua, sul limite delle due materie di cui è fatto il nostro pianeta si sono concentrate attività produttive, industriali e agricole, porti, piccoli e grandi insediamenti, su geografie differenti: coste alte, sabbiose, pianure e deserti, piccole o grandi isole, nei mari tropicali come in quelli ghiacciati. La costa come frontiera, come terra di confine fra mare e terra, con una sua dimensione e un suo spazio fisico, con le sue storie e i suoi abitanti, parte integrante dell’identità del luogo. “La frontiera è qualcosa in continua evoluzione, non è un dato certo e può cambiare dall’interno o dall’esterno in qualsiasi momento. La frontiera è instabile, e questa incertezza si percepisce non solo a livello politico o spaziale, ma anche nella lingua, nelle abitudini e nei costumi di una società” 1. Proprio in questi termini il Piano paesaggistico regionale dell’isola di Sardegna traccia i suoi Ambiti di paesaggio costieri, identificandoli come spazi all’interno dei quali le relazioni fra elementi restituiscono una fisionomia comune che è identificata con un unico termine: paesaggio. Gli Ambiti costieri, discendenti concettualmente dalla “regione geografica”, vogliono dare una fisionomia ai territori costieri. La loro identificazione è conseguenza dell’applicazione spaziale di criteri che concepiscono l’ambito come spazio naturale, dentro il quale si consumano le interrelazioni ambientali, i cui limiti sono naturali: un monte, un crinale, una foresta. Non si possono però considerare limiti di divisione ma, per riprendere Lucien Lebvre, “costituiscono anche punti di congiunzione, centri di espansione e d’irraggiamento, piccoli mondi dotati di un proprio valore e capaci di attrarre, di legare fra loro, strettamente uomini e paesi intermedi. In ogni modo, mai limiti necessari”2. L’individuazione dell’ambito non è solamente una questione legata alla sua forma geografica e allo spazio naturale dove una comunità si organizza e disegna il suo territorio. Il significato e la sua dimensione sono plasmati principalmente dalla struttura non sempre evidente, che regola le dimensioni biologiche e culturali dell’abitare, che tiene in relazione le parti con il tutto dove le azioni previste e pianificate prevedono proprio alla sua conservazione o ricostruzione. È il luogo del progetto unitario, il luogo dove sono riconosciute e proiettate le aspettative di una comunità, delle sue attività e anche delle sue istituzioni. L’ambito quindi non è solo una derivazione di dati ed elementi fisici, ma è uno spazio progettuale, in cui le idee, le credenze, le aspettative, i desideri diventano gli elementi trainanti e la base di discussione delle popolazioni e delle loro espressioni istituzionali. Uno spazio in cui il rapporto fra la società e il territorio è fatto anche di conflitti e di contraddizioni, motore al tempo stesso di evoluzioni dinamiche innovative dei processi in atto, lontano quindi dal concetto di spazio tendenzialmente invariante. Le istituzioni sono chiamate a misurarsi direttamente sul campo per l’attuazione di un “progetto ambientale che si fonda su ipotesi di soluzione legate alla gestione di processi significativi, per creare nuove forme di contrattualità e di interazione, innescando processi auto-gestionali e non escludendo nessuna possibilità, ma al contrario aprendone continuamente di nuove”3. 1
PIERO ZANINI, Significati del confine. I limiti naturali, storici, mentali, Mondadori, Milano 1997, pag. 14. LUCIEN LEBVRE, La terra e l’evoluzione umana, Einaudi, Torino 1980, pag. 354. 3 Tratto dalla Relazione tecnica generale del Piano paesaggistico regionale della Regione Sardegna, pag. 107. 2
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Figura 1. Il primo stralcio del Piano paesaggistico regionale della Regione Sardegna, in cui sono stati individuati ventisette Ambiti di paesaggio costieri, tutti identificati con una toponomastica propria. Figura 2. I ventisette Ambiti di paesaggio in rosso, sovrapposti al territorio dei comuni coinvolti all’interno del Piano paesaggistico regionale per tutta la superficie, in grigio scuro i comuni costieri e grigio chiaro caldo i non costieri; in grigio chiaro freddo, il territorio dei comuni coinvolti solo parzialmente; la linea nera continua lungo costa identifica la fascia costiera.
L’insieme degli Ambiti di paesaggio identificati in base ai criteri enunciati, figura un territorio, o insieme di territori, che hanno una più stretta relazione con il mare. Di fatto tutta l’isola è sotto l’influenza sovrana del mare perché se così non fosse non si potrebbe definire come tale4. Ma l’isola ha anche un suo territorio interno e questa prima identificazione degli Ambiti permette una lettura che sottolinea, senza tuttavia doverla considerare spaccata in due, la natura stessa di un’isola, e cioè il fatto, da più persone condiviso, che su un’isola esiste sempre una parte interna e una costiera, che si rispecchia nei territori come nelle comunità. In questi territori di frontiera, sul limite tra terra e acqua si definisce una fisionomia del tutto specifica dei paesaggi e una alta concentrazione di risorse e di potenzialità. Si potrebbero ritrovare molte motivazioni valide per giustificare, quindi, la necessità di considerare le risorse presenti nelle coste come vitali e pertanto altamente significative per la stessa 4
Lucien Lebvre nel volume citato, La terra e l’evoluzione umana, nel 1922 ha provato a formulare tre punti essenziali perché si potesse parlare di un’isola: un perimetro costiero definito (habitat litoraneo), un luogo in cui si esercita sovrano l’influsso del mare, e infine l’esistenza di una situazione marittima che favorisce l’isolamento con le sue conseguenze. È chiaro il tentativo di basare l’identità di un’isola sulle sue specifiche condizioni insulari e sulle differenze dalla terra continentale.
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sopravvivenza dell’uomo, e che meritano la salvaguardia e la tutela. Negli ultimi decenni si è assistito ad una vera e propria sottrazione del territorio costiero da parte dell’industria turistica, con l’espansione degli agglomerati urbani e la conseguente scomparsa delle colture agrarie proprie delle zone costiere, l’abbandono dei terrazzamenti o appezzamenti da parte dei produttori agricoli che hanno preferito al lavoro della terra attività dal guadagno più facile e veloce, senza considerare che il turista è attirato proprio da un paesaggio non banale, per certi versi integro e differenziato. Invece, troppo spesso ritroviamo lungo le coste edifici immensi, tipologie costruttive del tutto inusuali per la tradizione locale, viabilità prive di un interesse generale, che occupano in continuità una gran parte della fascia costiera, tanto da far perdere del tutto o in parte il carattere paesaggistico originario. È da queste considerazioni che prende corpo l’idea di considerare la fascia costiera nella sua continuità e unitarietà come bene paesaggistico. Il concetto di bene esteso ai territori costieri è già compreso nel Codice di tutela dei beni culturali e del paesaggio 5, esattamente nel punto in cui viene considerato bene la fascia che intercorre fra la linea di battigia e la sua parallela di trecento metri verso terra. Un limite dettato da oggettive distanze numeriche che però non garantisce, come dovrebbe, una reale salvaguardia e tutela del bene stesso, in virtù del fatto che le relazioni e i processi ambientali, economici, sociali e storico-culturali sotto l’influenza del mare e, quindi, il paesaggio costiero esulano dalla distanza metrica, dettata come è invece dalla geomorfologia dei luoghi, dai fattori climatici, dalla esposizione e dalla geografia, dalla natura geologica e fitosociologica, dalla spiaggia sommersa fino alla prateria di posidonia.Un luogo dove si consumano le interrelazioni fra terra e mare e che presenta, in quanto margine fra due principali ecosistemi, marino e terrestre, una alta concentrazione di biodiversità.
Figura 3. Ambito di paesaggio denominato Bassa valle del Flumendosa, n.25, che comprende le tre comunità che vivono sulla foce del fiume Flumendosa, sulla costa orientale dell’isola di Sardegna. I tre insediamenti sono riportati con evidenziato il nucleo di antica formazione e le sue espansioni più recenti. La linea nera puntinata delimita la fascia costiera come bene paesaggistico, ricadente sempre all’interno della linea d’identificazione dell’Ambito. Il progetto dell’Ambito in questo caso interessa prioritariamente la zona rurale, struttura paesaggistica e fonte di sostentamento economico attorno alla quale ruotano tutti e tre i centri abitati. 5
Il riferimento normativo è da ricercare nell’Articolo numero 142 del decreto legislativo n. 42 del 2004, recentemente modificato, che riprende l’ex legge Galasso, in cui sono elencate le aree tutelate per legge, il punto 1. recita così: “fino all’approvazione del piano paesaggistico ai sensi dell’articolo 156, sono comunque sottoposti alle disposizioni di questo Titolo per il loro interesse paesaggistico: a) i territori costieri compresi in una fascia della profondità di trecento metri dalla linea di battigia, anche per i terreni elevati sul mare”.
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Figura 4. Elaborazione schematica della fascia costiera effettuata dalla California Coastal Zone Conservation Commissions, nel 1975 a San Francisco, U.S.A., per il California Coastal Plan. Si può notare come la fascia costiera si estende dalla linea delle tre miglia, limite giurisdizionale delle acque territoriali, fino al crinale più prossimo verso l’interno, tale da identificare il bacino idrografico costiero.
Una definizione universalmente valida e condivisa, quindi, è di difficile formulazione. I precedenti tentativi hanno preso in considerazione separatamente criteri geomorfologici, idrografici, oppure criteri di distribuzione della vegetazione, le dinamiche economiche. Nessuno però preso singolarmente risponde appieno al concetto di fascia costiera come superficie unitaria e inscindibile, espressione del paesaggio insulare, cornice essenziale alla storia e cultura dell’isola. Un’unitarietà e continuità fisico-biologica che non può essere interrotta se non da esigenze amministrative in maniera artificiosa, fonte di ricchezza anche in termini economici. Attorno ad essa ruotano realmente molteplici interessi, attività imprenditoriali di vario genere e dimensione, e che pertanto risulta di estrema importanza per la sopravvivenza delle popolazioni insediate. A questo punto si apre un’altra problematica legata alla interpretazione del termine “territorio costiero”, utilizzato dal Codice di tutela dei beni culturali. Se si dovesse attribuire al termine “territorio” il significato di una porzione di spazio in cui è applicata la giurisdizione di una collettività, uno spazio in cui avvengono in maniera manifesta le relazioni tra l’uomo e l’ambiente e che ne giustificano la sua appartenenza, si dovrebbe considerare la tutela come bene paesaggistico estesa ad uno spazio molto simile all’insieme degli Ambiti di paesaggio costieri individuati. Tuttavia così non è stato e si è scelto di attribuire il significato di spazio entro il quale si manifestano le relazioni più strettamente ambientali fra terra e mare, una fascia all’interno della quale ricadono inevitabilmente anche insediamenti urbanizzati, ma che si può individuare indipendentemente dall’uso attuale dei suoli. La fascia costiera in sé, quindi, non è una risorsa rinnovabile, perché una volta compromessa in maniera permanente si è persa un’opportunità e si è ridotto il suo valore. Per questi motivi è quindi un dovere valutare la sostenibilità delle iniziative e delle trasformazioni programmate. La fascia costiera è un bene per noi ora e deve continuare ad esserlo per le future generazioni.
I CRITERI DI INDIVIDUAZIONE DEL TERRITORIO COSTIERO COME BENE PAESAGGISTICO Nell’identificare la fascia costiera come bene paesaggistico, definito all’interno del piano paesaggistico “bene d’insieme” per differenziarlo dalle categorie dei “beni puntuali”, si è
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reso necessario stabilire criteri validi in grado di sostenere una delimitazione dal punto di vista scientifico e gestionale. In coerenza quindi con quanto previsto dai singoli programmi attuativi del più ampio Programma M.A.P.6 per il Mediterraneo, che hanno individuato come una delle strategie possibili ed efficaci la predisposizione e attuazione di piani finalizzati alla gestione integrata delle coste. Da un lato quindi sono stati individuati gli Ambiti di paesaggio costieri, dall’altro lato è stata individuata, sempre contenuta all’interno degli Ambiti, la fascia costiera come bene paesaggistico, su basi strettamente scientifico-ambientali e tutte documentabili con dati oggettivi. La fascia costiera come sistema è data prioritariamente da numerose categorie di beni paesaggistici, riconosciuti ai sensi dalla legge 42/2004, come dai diversi ecosistemi, i complessi dunali, le zone umide, la fascia alofila-casmofila, i diversi tipi di vegetazione dei terrazzi, dalle scogliere e dalle falesie calcaree. Inoltre, proprio sulle coste sono ubicate numerose e importanti specie e habitat prioritari ai sensi della Direttiva 43/92 dell’Unione Europea. Il principio di non frammentazione ecologico-funzionale ha guidato la formulazione dei criteri e la loro applicazione, nei confronti delle componenti e dei sistemi ambientali che rispondono ai requisiti di unitarietà spaziale, con caratteristiche funzionali, evolutive, strutturali compiute; la stessa integrità spaziale si è mantenuta per le unità spaziali minori periferiche o verso l’interno rispetto alla fascia costiera di prima individuazione, per non interrompere la continuità, la correlazione strutturale ed ecologico-funzionale. Il primo criterio di individuazione prende in considerazione gli elementi geomorfologici e vegetazionali. Come elementi geomorfologici: “1. scogli e isole minori; 2. sistemi di spiaggia; 3. campi dunari; 4. zone umide costiere; 5. terrazzi e versanti costieri a bassa energia; 6. falesie e versanti costieri alti; 7. promontori; 8. sistemi a baie e promontori; 9. territori carsici; 10. piane di colmamento alluvionale olocenico; 11. piane terrazzate e aree di colmamento alluvionale antico; 12. sistemi di versante pedemontani; 13. componenti artificiali (centri abitati, opere portuali, peschiere, banchinamenti vari).” Sotto il profilo vegetazionale si possono distinguere: 1. La prima fascia sommersa con l’apporto dalla terraferma di materiali inerti e nutrienti che vivificano il mare e ne determinano anche alcuni parametri fisici e biologici, come la presenza delle praterie di posidonia; 2. Le aree direttamente interessate dai marosi e dall’aerosol marino con la vegetazione rada della battigia, la fascia psammofila antedunale e retrodunale, le boscaglie a ginepri delle dune più o meno consolidate e la vegetazione rada delle scogliere e delle falesie. Anche in questo caso il limite verso terra è molto variabile in relazione ai fattori climatici secondari come la ventosità, l’esposizione e la natura geomorfologica e pedologica dei luoghi; 3. Le zone umide con gli stagni, le lagune e le foci dei sistemi fluviali che li alimentano con la vegetazione igrofitica peculiare. Non mancano aree umide temporanee alimentate dalla precipitazioni e dipendenti dalla variazioni del livello piezometrico di falda; 4. Il sistema dei terrazzi a diversa litologia con garighe, macchia mediterranea e boscaglie termo-xerofile, dove l’influenza del mare e il clima giocano un ruolo determinante nella caratterizzazione di una fascia più o meno larga, con un’impronta riconoscibile grazie agli elementi vegetali talora esclusivi, che sono condizionati per la loro vita, oltre che dal substrato, dai fattori climatici” 7.
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Mediterranean Action Program, programma per la protezione del mare Mediterraneo dell’U.N.E.P. che risale al 1976, anno in cui fu sottoscritta la Convenzione di Barcellona, successivamente attuata con protocolli d’intesa fra gli Stati mediterranei e modificata attraverso integrazioni che hanno portato ad adottare, per esempio, la gestione integrata delle coste (Integrated Costal Zone Management) come una soluzione praticabile per la tutela delle coste. Ulteriori programmi hanno proposto e sviluppato casi studio per perfezionare metodologie, analisi, progetti, linee guida utili agli Stati mediterranei per attuare nuove strategie per la tutela delle coste. ICAM (Integrated Costal Area Management), PAP-RAC (Priority Actions Programme Regional Activity Centre) sono alcuni programmi in attuazione. 7 Tratto dalla Relazione tecnica generale allegata al Piano paesaggistico regionale della Sardegna, pag. 112.
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Figura 5. Diagramma esemplificativo del processo che ha portato alla individuazione della fascia costiera, in cui il dominio terrestre e marino sono visti come punto di partenza che a monte guidano il riconoscimento degli elementi e delle relazioni fra essi.
Oltre ad elementi geomorfologici e vegetazionali, definiscono la fascia costiera l’insieme di ecosistemi naturali e seminaturali, gli habitat prioritari che in parte già sono considerati come Siti di Interesse Comunitario ai sensi della Direttiva Habitat, soprattutto se si considera che lungo la costa si concentra il settantacinque percento delle specie floristiche dell’intera isola, di cui molte specie endemiche, quasi “il cinquanta percento di quelle eclusive, rare e di grande interesse fito-geografico, spesso con localizzazione puntiforme, per esempio: Limonium lausianum, Polygala sinisica, Helianthemum caput-felis concentrate a Capo San Marco del Sinis, Phelum sardoum delle dune di Rena Majore e Is Arenas, nonché Anchusa litorea, soggetta alla Convenzione di Berna, solo per citarne alcune”8. La fascia costiera, importante per l’avifauna stanziale e migratoria, è luogo di concentrazione del novanta percento dell’avifauna nidificante, sopratutto nelle lagune e zone umide in genere, falesie, in quanto luoghi particolarmente favorevoli. La fascia costiera non può essere però costituita da una sommatoria di elementi e unità spaziali già identificate per le loro caratteristiche ambientali attraverso altri dispositivi di legge. La presa in considerazione degli elementi, spesso già considerati beni paesaggistici, è dettata dalla loro rappresentatività e significatività lungo la costa dell’isola. Soprattutto, la loro presenza ha nella prima fase determinato la forma della fascia costiera, quale risultato di uno sforzo generale e puntuale per poterli comprendere nella loro interezza. Il processo però assume una maggiore completezza e rigore scientifico nel sottoporre sotto esame tutto il territorio costiero per individuare le “unità fisiche discrete, interagenti e significative” sulla base di una risposta ai requisiti di riconoscibilità e di organicità sistemica, e della 8
Tratto dalla Relazione tecnica generale allegata al Piano paesaggistico regionale della Sardegna, pag. 113.
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interpretazione dei nessi relazionali di una entità complessa. Le specifiche relazioni strutturali, genetiche ed evolutive, la cui riconoscibilità si basa sulla assunzione della inscindibilità e della complementarità tra forme e processi del sistema ambientale, sono le seguenti: “1. processi di relazione superficiale e sotterranea tra corpi idrici marini e continentali, riferiti in particolare alla variabilità e all’equilibrio dei rapporti tra acque dolci e acque salate, all’azione delle maree, agli impulsi meteo-marini e alla azione delle correnti costiere; 2. Processi morfogenetici e morfoevolutivi legati alle dinamiche fluviali condizionati direttamente dai rapporti di stretto equilibrio con il livello di base marino. Tali processi assumono prevalentemente caratteri di accumulo detritico e alluvionamento, all’interno di sistemi ambientali di piana costiera, nonché di erosione in corrispondenza dei sistemi orografici di versante. In ambito più strettamente litoraneo questi processi risultano coinvolti nelle dinamiche di ripascimento detritico dei sistemi di spiaggia, nonché nella definizione dell’assetto strutturale ed evolutivo di importanti categorie di zone umide costiere; 3. Processi morfo-evolutivi e morfo-genetici litoranei, sia erosivi che di accumulo detritico, legati prevalentemente all’azione delle correnti e del moto ondoso; 4. Processi morfoevolutivi e morfogenetici di origine eolica connessi in particolare con il trasporto e l’accumulo delle componenti detritiche sabbiose costiere. Tali processi assumono una rilevanza particolare in relazione alla formazione ed evoluzione dei complessi dunari e dei fenomeni connessi a queste dinamiche come quelli di sbarramento fluviale da parte dei corpi sabbiosi; 5. Processi di relazione meteo-climatica e condizioni di esposizione diretta ai principali impulsi meteo-marini e marino-atmosferici, determinati in rapporto alla rilevanza assunta nella caratterizzazione fisico-ambientale ed ecologica del settore; 6. Processi morfogenetici di natura strutturale ed endogena (strutturazione tettonica, morfogenesi magmatica intrusiva o effusiva, eccetera) determinanti in funzione del controllo esercitato nella definizione dell’assetto fisico e morfo-strutturale del settore costiero; 7. Connettività fisica e funzionale tra sistemi ambientali, definita seguendo requisiti di continuità strutturale dell’assetto fisico costiero”9. Nonostante si rilevi una alta variabilità dei casi lungo la fascia costiera dell’isola, si è potuto rilevare un alto grado di riproducibilità dei modelli e degli schemi interpretativi, rispetto ai caratteri tipologici e morfo-evolutivi dell’assetto fisico-ambientale. Il risultato finale di questa operazione di rilievo e di identificazione sul campo della fascia costiera come bene paesaggistico è la variabilità delle dimensioni che si spingono da un minimo di trecento metri dalla battigia, fino a qualche chilometro verso l’interno, ma con la restituzione sempre evidente di un territorio che vive in stretta relazione con il mare, ai piedi dei primi rilievi interni. Ovviamente la disciplina per questi territori è molto ferrea e qualsiasi azione prevista o di nuova programmazione è subordinata ad autorizzazione rilasciata dagli uffici competenti.
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Tratto dalla Relazione tecnica generale allegata al Piano paesaggistico regionale della Sardegna, pag. 114.
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MACIOCCO GIOVANNI, PITTALUGA PAOLA (a cura di), Territorio e progetto. Prospettive di ricerca orientate in senso ambientale, F. Angeli, Milano 2003. MATVEJEVIC PREDRAG, Breviario Mediterraneo, Garzanti, Milano1991. ROMANI VALERIO, Il paesaggio. Teoria e pianificazione, F. Angeli, Milano 1994. Mediterranean Commission on Sustainable Development, Toward sustainable development in the Mediterrean region, UNEP-MAP, 2002. Mediterranean Commission on Sustainable Development, For a sound coastal management in the Mediterranean, UNEP-MAP, Athens 2002. Unep - Mediterranean Action Plan – Ocean and coastal areas programme activity centre, Guidelines for integrated management of coastal and marine areas. With special reference to the Mediterranean basin, Pap-Rac Regional activity centre, Split 1994. ZANINI PIERO, Significati del confine. I limiti naturali, storici, mentali, Mondatori, Milano 1997. ZOPPI CORRADO , Aree protette marine costiere, Gangemi, Roma 1994. Siti web: www.sardegnaterritorio.it/pianificazione/pianopaesaggistico/ www.pap-thecoastcentre.org www.unep.org/regionalseas/Programmes/UNEP_Administered_Programmes/Mediterranean _Region/default.asp
RIFERIMENTI ICONOGRAFICI Figura 1: Immagine tratta da Regione Autonoma della Sardegna, Piano Paesaggistico Regionale, Tavola degli Ambiti di paesaggio, Cagliari 2006. Figura 2: Immagine tratta da Regione Autonoma della Sardegna, Piano Paesaggistico Regionale, Relazione tecnica generale, Cagliari 2006. Figura 3: Immagine tratta dall’Atlante degli Ambiti di paesaggio, Regione Autonoma della Sardegna, Piano Paesaggistico Regionale, Ambito n.25 – Bassa valle del Flumendosa, Cagliari 2006. Figura 4: Immagine tratta da Unep - Mediterranean Action Plan – Ocean and coastal areas programme activity centre, Guidelines for integrated management of coastal and marine areas. With special reference to the Mediterranean basin, Pap-Rac Regional activity centre, Split 1994, pag. 52.
Testo acquisito dalla redazione della rivista nel mese di ottobre 2006. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768 Università degli Studi di Firenze
Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/ Firenze University Press anno 4 – numero 6 – luglio-dicembre 2006 numero monografico Progettare sui limiti sezione: Itinerari pagg. 102-109
MISURE E LIMITI DEL PAESAGGIO FIORENTINO (XV SECOLO) Gabriele Corsani*
Summary In the XV century the relationship between Florence and its surroundings, given by natural and fortified limits, reaches a height of big intensity. The painting of Botticini (tavola dell’Assunzione della Vergine, 1475) is one of the most singular expression of that correspondence. The lightness of the ceiling, painted as an huge green upset basket, overhangs the Florentine region. In the meanwhile the ground scene is impressed by the majestic dome of S. Maria del Fiore. Between these two realities is established a series of correspondences and implications, expressed by others iconographic and literary expressions, in which - in an explicit way or not - the reference to the circle is central. We remind the Laudatio of Florence written by L. Bruni (1403), the synthetic praise of the dome expressed by L.B. Alberti (1436) and, in particular, the drawings of Botticelli inspired by the Dante’s Divina Commedia. Key-words Florence in XV century, Florentine Surroundings, Literary and Iconographic Description of Florence.
Abstract Nel XV secolo il rapporto fra Firenze e la corona del suo territorio domestico, individuato da soglie naturali e fortificate, raggiunge un apice di grande intensità. La tavola dell’Assunzione della Vergine di F. Botticini (1475) è fra le espressioni più singolari di tale corrispondenza. Lo splendore della volta celeste, raffigurata in forma di immenso canestro vegetale rovesciato, sovrasta la regione fiorentina. A sua volta la scena terrena è pervasa dalla maestà della cupola della cattedrale di S. Maria del Fiore. Fra le due realtà si stabilisce così una serie di rimandi e di implicazioni, espresse da altre espressioni iconografiche e letterarie, in cui è ugualmente centrale, in forma implicita o esplicita, il riferimento archetipo del cerchio. Ricordiamo la Laudatio di Firenze di L. Bruni (1403), la sintetica lode della cupola di L.B. Alberti (1436) e soprattutto i disegni di Botticelli ispirati alla Divina Commedia di Dante. Parole chiave Firenze nel XV secolo, contado fiorentino, rappresentazioni letterarie e pittoriche di Firenze.
* Professore ordinario di Urbanistica, Università di Firenze.
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Queste note prendono spunto dal rapporto fra Firenze e il suo territorio suburbano, nella dimensione che si stabilizza all’inizio del XV secolo. Si propone la lettura di alcuni possibili significati di tale soglia, limite del più intenso irraggiamento della città, in rapporto soprattutto alle implicazioni paesaggistiche. Guida di questa ricognizione sarà il modello del cerchio che - riferimento archetipo dell’immaginario urbano e delle forme reali delle città - a Firenze ha modellato la struttura profonda del territorio suburbano, a cominciare dal “quadrivio” originario (Pisa a ovest, Bologna a nord, Arezzo a est, Roma a sud). L’immagine del cerchio è ricorrente nella rappresentazione letteraria e iconografica di Firenze e del suo territorio circostante. La realtà geo-morfologica non è il presupposto favorevole alla identificazione di un paesaggio unitario (una maggiore omogeneità sarebbe riscontrabile assumendo il modello dell’iperbole, con il polo urbano come fuoco circondato dalle colline che si aprono verso ovest). A conferma della pertinenza del cerchio prevalgono però, come vedremo, ragioni diverse da quelle puramente topografiche. Dal X secolo Firenze ottiene una esplicita autorità sul contado: nel 962 Ottone I concede il dominio sul territorio entro il raggio di sei miglia dalla città. Nel 1188 l’imperatore Federico di Svevia detto il Barbarossa si ferma a Firenze e i nobili del contado lamentano la politica aggressiva dei fiorentini che distruggono i loro castelli; come punizione alla città l’Imperatore revoca alcuni privilegi e stabilisce che il contado su cui Firenze ha giurisdizione sia ridotto di dimensioni. Poco dopo, per il valoroso comportamento dei fiorentini alla III Crociata, si ha un nuovo ampliamento fino a dieci miglia di raggio. Alla metà del XIV secolo la colorita descrizione di Giovanni Villani mostra un assetto stabilizzato dalla nuova passione dei cittadini dei cittadini, che nella corona più vicina alle mura urbane, fino a tre miglia, ha modellato il territorio in base a finalità economiche ed estetiche, fino a configurare una mirabile “città senza mura”, innervata dal verde dei campi e dei giardini: “Non v’era cittadino popolano o grande che non avesse edificato o che non edificasse in contado grande e ricca possessione, e abitura molto ricca, e con belli edifici, e molto meglio che in città: e in questo ciascuno ci peccava, e per le disordinate spese erano tenuti per matti. E sì magnifica cosa era a vedere, che i forestieri non usati a Firenze venendo di fuore, i più credevano per li ricchi edifici e belli palagi ch’erano di fuori alla città d’intorno a tre miglia, che tutti fossero della città a modo di Roma, sanza i ricchi palagi, torri, cortili, e giardini murati più di lungi alla città, che in altre contrade si sarebbero chiamate castella. In somma si stimava che intorno alla città a tre miglia aveva tanti ricchi e nobili abituri che due Firenze avrebbero tanti”1. Il mito del territorio equilibrato fa qui una precoce comparsa, pendant letterario all’affresco senese del Buon governo di Ambrogio Lorenzetti. Le architetture tendono a stemperare la severità dell’assetto medievale e sono armonizzate, nel nuovo ordine irraggiato dalla città, con le belle forme della natura domestica. Le difficoltà politiche e sociali di Firenze alla fine del XIV secolo non ostacolano il rafforzamento del quadro descritto. Questo stato di equilibrio riceve all’inizio del Quattrocento una definizione teorica che, prescindendo direttamente dalle componenti naturalistiche e architettoniche, le ingloba in una visione più ampia. È la bellezza di Firenze narrata da Leonardo Bruni nella celebre Laudatio Florentinae urbis (circa 1403). In essa le componenti paesaggistiche, alla scala urbana e territoriale, sono in più punti esplicite fino dall’inizio. Anche tenendo presente il registro retorico tipico della laudatio siamo di fronte a un sentire intenso, espresso con “giovanile baldanza”2 fino dall’inizio, in termini chiaramente partecipi del fervore scientifico ed artistico di Firenze in quegli anni cruciali: “Si può davvero affermare che nella Laudatio viene compiuto il primo tentativo di scoprire le leggi segrete dell’ottica e della prospettiva che fanno apparire il panorama fiorentino come
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GIOVANNI VILLANI, Cronica, XI, cap. XCIV. HANS BARON, La crisi del primo rinascimento italiano, Sansoni, Firenze 1970, pag. 210.
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una sola grande struttura scenica. L’ubicazione della città, come rileva il Bruni, è quasi al centro geometrico di quattro cerchi concentrici”3. Essi sono: - il Palazzo della Signoria, cittadella imperniato sulla torre, prima isola urbana e rocca della libertà - la città nel suo cerchio di mura che ha come perno il Palazzo della Signoria - la prima corona di case e ville intorno alle mura; Infine il quarto cerchio, descritto con una enfasi addirittura cosmologica. Bruni, quasi a schermirsi per l’ardita metafora, evoca la potenza della poesia: “La città sta al centro, come guardiana e padrona; è circondata da cittadine, ognuna al suo posto. Un poeta potrebbe giustamente parlare a questo proposito, della luna circondata dalle stelle; e il panorama è una cosa splendida a contemplarsi. Come in uno scudo rotondo, ove si succedano cerchi concentrici, il più interno di questi coincide col centro stesso dello scudo, così qui vediamo le diverse regioni succedersi come cerchi concentrici. Prima tra queste è la città che, simile al centro dello scudo, si trova in mezzo al disco completo. Essa poi è circondata da mura e da sobborghi. Intorno ai sobborghi si trova una cinta di ville e intorno ad esse un cerchio di cittadine; e tutta questa zona più esterna è racchiusa da un’orbita circolare ancora più vasta. Fra le cittadine stanno castelli e torri che sembrano toccare il cielo”4. A proposito di questo passo Eugenio Garin nota che l’immagine dello scudo è di Elio Aristide “ma più alta si intravede quella, sostanzialmente identica, delineata nel libro sesto delle Leggi di Platone; anch’essa a cerchi concentrici intorno all’agorà e ai pubblici edifici”5. Leon Battista Alberti, nella introduzione al De pictura6, amplia il registro dell’irraggiamento di Firenze, con la famosa immagine della cupola di S. Maria del Fiore “erta sopra e’ cieli, ampla da coprire con sua ombra tutti e’ popoli toscani”. Più direttamente naturalistico è il paragone fra Firenze e il suo cerchio di cittadine che aveva usato Coluccio Salutati riprendendo la metafora usata da Virgilio per Roma nella prima Ecloga: “Verum haec tantum alias inter caput extulit urbes / Quantum lenta solent inter viburna cupressi.» («Ma quella città tanto svetta il capo sulle altre / quanto i cipressi fra gli arbusti flessibili”7. Per Roma quella preminenza significò sopraffazione, come afferma Leonardo Bruni riprendendo implicitamente la metafora virgiliana: “Siccome i grandi alberi alle piccole piante, quando sono vicini, danno impedimento al crescere, così l’amplissima potenza di Roma offuscava quella di tutte le altre”8. Le piccole città intorno a Firenze non sono invece diminuite dalla sua grandezza, ma ne partecipano, ognuna nella sua misura. Le interpretazioni di Salutati, Bruni e Alberti sono indicative del superamento della fase del dominio territoriale; la centralità di Firenze, costruita soprattutto nei due secoli precedenti, si manifesta ora con l’evidenza delle simmetrie formali e delle tensioni spirituali, in uno slancio che deriva dall’ebbrezza per la contemplazione di questo compiuto organismo. Nell’ultimo scorcio del XV secolo si collocano due apici celebrativi della gloria di Firenze e del suo territorio suburbano: la grande tavola dell’Assunzione della Vergine di Francesco Botticini9, ove appare un esplicito confronto fra cielo e terra; i disegni per il Paradiso dantesco di Botticelli, con gli “aerei cerchi” che sono in relazione diretta con la raffigurazione di una Firenze ideale. 3
HANS BARON, op. cit., Firenze 1970, pag. 218. HANS BARON, op. cit., Firenze 1970, pag. 219. 5 EUGENIO GARIN, Scienza e vita civile nel rinascimento italiano, Laterza, Bari 1965, pag. 41. 6 1435; edizione in volgare, con la dedica a Brunelleschi: 1436. 7 Cfr. HENRI DE LUBAC, L’alba incompiuta del Rinascimento. Pico della Mirandola, Jaca Book, Milano 1977, pag. 36. 8 EUGENIO GARIN, (1961), La cultura filosofica del rinascimento italiano, Sansoni, Firenze 1979, pag. 21. 9 1475; Londra, National Gallery, n. 1126; 3.77 x 2,28 metri. 4
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Figura 1. Francesco Botticini, Assunzione della Vergine, Londra, National Gallery.
Se volessimo verificare questa raffigurazione con una corrispondenza nel territorio fisico, ci soccorrerebbe la figura della corona circolare che con un raggio fra i venticinque e i trenta chilometri dal centro di Firenze, dimensione memore di antichi confini amministrativi (la dimensione minore tocca a ovest e a est i confini del municipium romano), intercetta un sistema di soglie fisiche e difensive di compiuto equilibrio e di grande complessità. Si tratta di un organismo assai vario per conformazione topografica, a tacer d’altro, dalla piana alla collina alla montagna. Questo territorio è segnato a est e a ovest da due confini naturali: a est il passo della Consuma, nella “montagna fiorentina” (come era detta la parte nord del Pratomagno per la memore e affettuosa consuetudine fra Firenze e quei luoghi fino dall’inizio del secolo XI, cioè da quando Giovanni Gualberto aveva fondato nella vicina Vallombrosa il monastero benedettino); a ovest il passo di San Baronto, nel massiccio del monte Albano, fra la piana di Pistoia e la valle inferiore dell’Arno. A nord, fra le propaggini dell’Appennino (monti della Calvana, monte Morello, Monte Giovi) e a sud, fra le colline che segnano le valli dell’Era, dell’Elsa, della Pesa e dell’Ema, fino ai monti del Chianti che formano il baluardo occidentale della valle dell’Arno al suo immettersi nella piana di Firenze, le strade sono punteggiate di castelli e borghi fortificati. Nella raffigurazione di Botticini Firenze è il centro della piana e dell’intera regione. Non centro geometrico, ma baricentro ideale. La nuova visione prospettica, dopo la trascrizione verbale nella Laudatio del Bruni, risolve questo assunto con un artificio, come si vede nell’Assunzione di Botticini ove “Firenze sta al centro di terre fertili e ricche d’acque, con un preciso riferimento simbolico […] alla città suprerna”10. La grande tavola mostra in primo piano la cima scoscesa di una montagna: nel breve ripiano centrale due piccoli gruppi osservano sbigottiti e pensosi l’arca marmorea posta al centro, priva del corpo sepolto e piena di gigli. In alto, in asse con l’arca, Cristo in trono benedice la Vergine inginocchiata davanti a lui; ai lati dei personaggi intorno all’arca, su un ripiano appena più basso, i committenti della tavola: Matteo Palmieri (a sinistra) e sua moglie Niccolosa Serragli (a destra). Il degradare della montagna scopre il paesaggio dalle due parti: a sinistra Firenze, fiancheggiata dalla teoria di colline; a destra un altro fiume scorre ai piedi 10
MINA GREGORI, SILVIA BLASIO, Firenze nella pittura e nel disegno dal Trecento al Settecento, Pizzi - Cassa di Risparmio di San Miniato, Milano 1994, pag. 62.
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di un’altra serie di colline che, come quelle dell’altro lato, trascolorano nella distanza, dal bruno verde all’azzurro, al bianco di cime più alte sullo sfondo. Firenze è raffigurata sul lato sinistro; metaforicamente essa è presente al centro della composizione, sotto specie dell’arca marmorea piena di gigli al sommo del rilievo, perno inferiore, in controluce, dell’asse che si conclude in alto con l’immagine del Cristo in trono che ha di fronte la Madonna inginocchiata. Tutta la scena del paesaggio è mantenuta nei brevi scorci ai due lati delle figure centrali, mentre le cime più lontane fanno da lieve corona al tappeto di gigli che fuoriesce dall’arca. Fra le colline, la piana, percorsa da strade e punteggiata di piante: traccia intuìta dell’antico lago, sostrato immemoriale della palude e poi della valle, che la storia ha modulato estendendo le coltivazioni anche sulle pendici delle sponde selvose di un tempo. Sulle propaggini delle colline in primo piano, alle spalle dei committenti, si apprezzano due squarci paesistici dettagliati, con ville e case in mezzo alla tessitura dei campi. Sono stati identificati i possessi campestri dei coniugi Palmieri: a sinistra, alle spalle di Matteo, la sua villa fiesolana; a destra, analogamente, le terre dotali di Niccolosa, situate in Val d’Elsa11 e rappresentate in ogni caso con una forzatura topografica che le mostra dirimpetto alla collina di Fiesole. Notiamo che la Val d’Elsa è compresa nella corona circolare sopra ricordata, mentre la campagna fiesolana è adiacente al baricentro del territorio suburbano di Firenze. Anche in questo caso, dunque, sono uniti il cuore la soglia estrema della dimensione individuata. Separata da un breve spazio di cielo, la volta dell’empireo si libra sulla piana, in forma di immenso canestro vegetale semisferico che definisce e misura per congruenza la forma circolare del territorio fisico, immagine e attesa di quello celeste. Le sottolineature del bordo del canestro e della sua struttura orizzontale che traspare nel fondo oro scandiscono la posizione delle schiere celesti, disposte in due grandi cerchi, oltre al cerchio più alto con i cherubini e i serafini intorno a Cristo e alla Vergine. La sfera celeste è intessuta di fibre vegetali, limite leggero e tenace della storia umana, storia sacra ritornata natura: “Ur-zopf, traccia primordiale, aveva definito Semper il primo conglomerato materiale tessuto o intrecciato, che agiva da cordonatura a un oggetto”12. La volta-canestro di Botticini è speculare a un’altra traccia primordiale, quella delle alture che cingono la piana.
Figura 2. Particolare della tavola di Botticini. Sulla collina di Fiesole spicca il possesso di Matteo Palmieri; la valle del Mugnone sfocia nella piana, con Firenze sullo sfondo. 11
KATHERINE KING, The Dowry farms of Niccolosa Serragli and the altarpiece of the Assumption in the national Gallery London (1126) ascribed to Francesco Botticini, “Zeitschrifts für Kunstgeschichte”, 50 Bd, 1987, pagg. 275-278. 12 GUGLIELMO BILANCIONI, Spirito fantastico e architettura moderna, Pendragon, Bologna 2000, pag. 397.
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Figura 3. Sul fianco della collina sono raffigurate le terre dotali in Val d’Elsa di Niccolosa Serragli.
L’antico catino del lago e lo spazio sferico della volta celeste sono legati da una corrispondenza proprio dalla definizione delle cornici: la stratificazione geologica massiva eppure elegante dei colli e il leggero intreccio espressione del mondo campestre. È noto che il significato religioso della tavola potrebbe essere venato di eresia, qualora Matteo Palmieri fosse l’ideatore del programma iconologico in accordo alle teorie esposte nella sua opera Città di vita. Ove è espressa la convinzione, mutuata da Origene, che gli uomini sono gli angeli che non presero posizione nella rivolta di Lucifero: passano quindi un periodo di prova (la vita terrena) nella speranza, che si avvera solo per alcuni, di recuperare la condizione primitiva. Questa interpretazione si è affermata dal XVI secolo, dato che Città di Vita fu pubblicato solo dopo la morte di Palmieri, avvenuta nello stesso 1475 (è probabile che la pala sia immediatamente successiva alla scomparsa di Matteo, poiché Nicolosa è vestita a lutto). Interessa qui sottolineare che il dipinto è espressione del rapporto fra Firenze e il suo territorio con la realtà celeste. Botticini coglie la dimensione del frattempo, tempo umano per eccellenza, luogo dell’inveramento dell’eterno, non terra d’esilio. La connotazione eretica potrebbe essere allora funzionale alla pienezza che Firenze ha realizzato intorno a sé. L’attesa dell’eterno è una occasione concreta che ha come luogo ideale di prova una dimensione stabilita da eventi idealmente antichi come la rivolta luciferina. Di questo rapporto è garante la cupola della cattedrale di Firenze: nelle concavità delle spicchiature e nel grande spazio interno, è interpretazione e anticipazione terrena della volta celeste: munumentum insigne; animal (come la definì F.L. Wright nella sua visita fiorentina del 1951, quando non stancava di ammirarla da Palazzo Vecchio); soffice e lieve vela (O. Rosai: tele degli anni Trenta): sigillo del rapporto fra Firenze e la piana, in cui vivono le storie della conquista, della prosperità agricola e dell’operoso otium campestre. Dall’oscurità fiorita del sepolcro come dallo spazio della cupola promana l’ombra vivificante di cui parla Leon Battista Alberti. Il ruolo della cupola è definito dagli otto grandi occhi del tamburo - spirituale panopticon ante litteram - che amplificano e diffondono il messaggio salvifico degli otto lati della prima cattedrale fiorentina, il Battistero di San Giovanni: occhi che irraggiano in tutte le direzioni la luce divina sul buon governo civile; accordo, ancora, di tempo eterno e tempo umano, ove converge e da dove si irraggia il brulicare della città, della piana e della regione, accolto e sublimato nello spazio bianco degli spicchi della cupola, colorato dalle vetrate con la storia di Cristo, dall’Annunciazione (perduta) all’Ascensione di Maria.
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Figura 4. Il territorio della “grande Firenze” nella Carta geometrica della Toscana ricavata dal vero nella proporzione di 1:200.000 (1830) di Giovanni Inghirami. Lo stato di equilibrio della fine del Medioevo appare sostanzialmente invariato (le trasformazioni più rilevanti riguardano la rete viaria). All’interno della corona circolare individuata i castelli e i borghi fortificati scandiscono la trama dei presìdi del contado fiorentino, congruente con le soglie naturali più significative. Questo organismo territoriale è caratterizzato dai rilievi collinari, incisi dalle piccole valli degli affluenti dell’Arno, che circondano la piana a ovest; il confine est è costituito dal cuore della catena del Pratomagno.
L’idea di Brunelleschi di rivestire l’interno della cupola con mosaici, alla maniera antica, con una ripresa della forma decorativa della cupola del Battistero, è pienamente espressiva della lode albertiana: l’oro delle tessere musive, attraverso il colore delle vetrate, avrebbe rifratto un fulgore spirituale su Firenze e sulla sua regio: elemento fecondatore del mezzo molle, umido, che è l’ombra. È da rimpiangere anche la mancata realizzazione dell’idea di Botticelli, di cui restano gli straordinari disegni, di affrescare la Divina Commedia nel tamburo e nella cupola. Quest’ultima avrebbe accolto la raffigurazione del Paradiso: dopo la composizione dedicata al XXXIII canto del Purgatorio al I canto del Paradiso, all’inizio della curvatura della cupola, si sarebbero susseguite una serie di raffigurazioni composte entro cerchi, ognuno dedicato a un canto, disposti a loro volta in modo da essere inanellati idealmente da circonferenze concentriche verso l’alto; infine “La figura del canto XXXI mostra soltanto Cristo e la Vergine Maria impercettibili perché lontanissimi […]. Poi più nulla. Ma non perché all’alta fantasia botticelliana «qui mancò possa», ma perché la
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raffigurazione di questi canti si considerava riassunta nell’ottagono luminoso dell’«occhio di sopra»”13. Alla fine del XVI, con decisione granducale, l’interno della cupola è affrescato con il velleitario Giudizio universale di Federico Zuccari. Al di là dello scarso valore del risultato, l’intrusione della dinastia medicea nella vita spirituale della città azzera il ruolo di tramite luminoso di cui le bianche vele erano oramai pegno. Firenze diventa a tutti gli effetti “la dominante”, della Toscana come del suo territorio domestico. La trama dei paesaggi del contado fiorentino con il XVII e XVIII secolo continua e definisce la sua perfezione di “natura pettinata”, solcata da lacerti di indomita natura, come le gole della Golfolina, verso il limite ovest del nostro territorio, che Giuseppe Zocchi effigia nelle sue Vedute delle ville e d’altri luoghi della Toscana (1744; tavv. 13-16), pendant dell’ordine dei campi, dei giardini e dei boschi. Il secolo XIX segna l’apice del paesaggio produttivo della mezzadria; prima dell’inizio del XX è già avvertibile l’inizio della sua consunzione. La tavola di Francesco Botticini coglie in stato di grazia l’unione di Firenze con il suo territorio alla fine di un lungo ciclo che lo consegna al primo apparire della modernità. La varietà dei paesaggi e degli insediamenti è ricchezza di risorse e occasioni: l’occhio della città, fattore strutturante, partecipa ancora delle ragioni di quelle terre perché vi si stabilisca una duratura armonia fisica e spirituale.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI BARON HANS, La crisi del primo rinascimento italiano, Sansoni, Firenze 1970. BILANCIONI GUGLIELMO, Spirito fantastico e architettura moderna, Pendragon, Bologna 2000. DE LUBAC HENRI, L’alba incompiuta del Rinascimento. Pico della Mirandola, Jaca Book, Milano 1977. GARIN EUGENIO, Scienza e vita civile nel rinascimento italiano, Laterza, Bari 1965. GARIN EUGENIO, (1961), La cultura filosofica del rinascimento italiano, Sansoni, Firenze 1979. GREGORI MINA, BLASIO SILVIA, Firenze nella pittura e nel disegno dal Trecento al Settecento, Pizzi - Cassa di Risparmio di San Miniato, Milano 1994. KING Katherine, The Dowry farms of Niccolosa Serragli and the altarpiece of the Assumption in the national Gallery London (1126) ascribed to Francesco Botticini, “Zeitschrifts für Kunstgeschichte”, 50 Bd, 1987. PARRONCHI ALESSANDRO, Botticelli fra Dante e Petrarca, Nardini, Firenze 1985. VILLANI GIOVANNI, Cronica, XI, cap. XCIV. RIFERIMENTI ICONOGRAFICI Figure 1-3: Francesco Botticini, Assunzione della Vergine (1475), Londra, National Gallery, in GREGORI MINA, BLASIO SILVIA, Firenze nella pittura e nel disegno dal Trecento al Settecento, Pizzi - Cassa di Risparmio di San Miniato, Milano 1994, pagg. 60-61. Figura 4: Giovanni Inghirami, Carta geometrica della Toscana ricavata dal vero nella proporzione di 1:200.000 (1830).
Testo acquisito dalla redazione della rivista nel mese di novembre 2006. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte. 13
ALESSANDRO PARRONCHI, Botticelli fra Dante e Petrarca, Nardini, Firenze 1985, pag. 43.
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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768 Università degli Studi di Firenze
Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/ Firenze University Press anno 4 – numero 6 – luglio – dicembre 2006 numero monografico Progettare sui limiti sezione: Eventi e Segnalazioni pagg. 110-120
LA
CONVENZIONE APPLICAZIONI
EUROPEA
DEL
PAESAGGIO:
INTERPRETAZIONI
ED
Maria Felicia Della Valle*
Summary The University of Florence, the Municipality of Florence and the Tuscan Region have promoted a conference on “The European Landscape Convention: interpretations and applications” that took place, last June 16, 2006, in the Salone dei Cinquecento of Palazzo Vecchio in Florence. Academics from the most important Italian universities, experts in law, representatives of the institutions, city-planners and landscape architects took part in the conference. Aim of the conference was to examine principles expressed by the Convention and their integration in the Italian laws. The themes dealt with, in the interventions of the speakers and in the debate, landscape policies, management of the territory, the role played by planning, the relationship between State and local bodies about selfguarding and discipline of landscape, the relationship between the Convention and Codice dei beni culturali e del paesaggio recently changed. Key-words European Landscape Convention, Italian Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, Selfguarding of Landscape.
Abstract L’Università degli Studi di Firenze, il Comune di Firenze e la Regione Toscana hanno promosso il convegno di studi “La Convenzione Europea: interpretazioni ed applicazioni” che si è svolto il 16 giugno 2006 nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio a Firenze. Al convegno hanno partecipato accademici dei maggiori atenei italiani, esperti di discipline giuridiche, rappresentanti delle istituzioni, urbanisti e architetti del paesaggio. Scopo del convegno è stato riflettere sui principi espressi dalla Convenzione e sulla loro integrazione nel quadro normativo italiano. I temi affrontati, negli interventi dei relatori e nel dibattito, hanno riguardato le politiche del paesaggio, il governo del territorio, il ruolo della pianificazione, il rapporto tra Stato ed Enti locali in materia di tutela e disciplina del paesaggio, il rapporto tra la Convenzione e il Codice dei beni culturali e del paesaggio recentemente modificato. Parole chiave Convenzione Europea del Paesaggio, Codice dei beni culturali e del paesaggio, tutela del paesaggio.
* Dottorando di Ricerca in Progettazione paesistica, Università di Firenze.
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Il convegno “La Convenzione Europea del Paesaggio: interpretazioni ed applicazioni” si è svolto il 16 giugno scorso presso il Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio con il patrocinio dell’Università degli Studi di Firenze, del Comune di Firenze e della Regione Toscana. La giornata di studi, strutturata in due sessioni, ha visto la partecipazione di esponenti del mondo della cultura accademica, della giurisprudenza, dell’amministrazione pubblica riuniti in un confronto interdisciplinare sul tema del paesaggio che coinvolge settori e competenze molteplici. Negli indirizzi di saluto, l’Assessore all’Ambiente del Comune di Firenze, Claudio Del Lungo, ha evidenziato l’importanza di una tale occasione a pochi mesi dall’entrata in vigore della Convenzione, il primo settembre 2006, ribadendo la necessità di affrontare “il tema della qualità in un’ottica fortemente disciplinare per regolare gli interventi di innovazione urbanistica facendoli coesistere e mimetizzandoli con il paesaggio in cui sono inseriti per conservarlo nel miglior modo possibile”. I contributi dei diversi relatori hanno delineato una riflessione ricca di spunti sulle prospettive concettuali ed applicative che la Convenzione europea del paesaggio ha introdotto e su come e quanto esse siano state accolte nella compagine dell’ordinamento giurisprudenziale italiano e negli strumenti della pianificazione territoriale. Nell’introdurre i lavori della prima sessione, il Professore Gianfranco Cartei1, sottolineando l’importanza giuridica del dettato europeo, ha posto, infatti, l’accento sul quadro normativo nel quale esso si colloca: un quadro saturo, con una tradizione non priva di riferimenti2, ma dove, la disciplina in materia presenta, ancora, “un carattere esclusivo e una dimensione dualistica in cui il paesaggio si configura come il luogo delle antitesi: urbanisticapaesaggistica, piano urbanistico-piano paesistico, permesso di costruire-autorizzazione paesaggistica, vincolo urbanistico-vincolo paesaggistico”. Lo stesso Codice dei beni culturali e del paesaggio, pur presentando degli aspetti positivi, ripropone il tema di una tutela paesaggistica parallela ad una tutela urbanistica, di una doppia strumentazione pianificatoria e di una definizione dei beni paesaggistici che ricalca le formulazioni adottate dalle leggi precedenti (L. 1089/39, L. 1497/39, L. 431/85, L. 490/99) esprimendo, secondo Cartei, “l’immagine di un paesaggio che si eredita, non si crea e riflette, dunque, un approccio di tutela fortemente conservativo teso ad esaltare il carattere di eccezionalità statica, frutto di un’attività conoscitiva e non modificativa”. La svolta concettuale che, invece, la Convenzione europea del paesaggio opera sul paesaggio è già insita nella chiarezza con cui essa lo definisce: “il paesaggio designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni” (Convenzione, art. 1 comma a). In virtù di quest’affermazione il campo di applicazione si estende agli ambiti naturali, rurali, urbani e periurbani comprendendo “sia i paesaggi che possono essere considerati eccezionali, sia i paesaggi della vita quotidiana, sia i paesaggi degradati” (Convenzione, art. 2). Il paesaggio, dunque, non è solo un elenco di eccellenze estetiche dove il riconoscimento del valore storico-culturale si fonde con la stasi iconografica della “bella veduta”, ma è la risultante di un sistema complesso di relazioni che si stratifica e si evolve con i processi naturali e di vita delle popolazioni. Riconoscendolo come elemento chiave di interesse generale per il benessere degli individui, la Convenzione introduce un diritto al paesaggio e alla sua qualità come diritto essenziale del cittadino. Inoltre,“il paesaggio definito dalla Convenzione è il frutto di un’attività di modificazione del territorio che si integra con tutte le attività connesse per cui è chiamato a coordinare, a dirigere gli altri aspetti che fanno capo al territorio”, afferma Cartei facendo notare come il concetto di integrazione rompe con la tradizione italiana di un approccio differenziato e parallelo. A tal riguardo egli fa riferimento a quanto la Convenzione formula richiamando 1
Docente ordinario di Diritto amministrativo, Facoltà di Giurisprudenza, Università degli Studi di Firenze. Il relatore richiama il primo atto di tutela paesaggistica, la legge 411/1905 (Legge di tutela sulla pineta di Ravenna) a cui seguono la L. 778/1922, le leggi 1089 e 1497 del 1939 (Leggi Bottai), la L. 431/1985 (Legge Galasso), la L. 490/1999 (Testo Unico) e il D. Lgs. 42/2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio) modificato con i DD.Lg. nn. 156 e 157 del 24 marzo 2006. 2
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all’impegno di integrare il paesaggio “nelle politiche di pianificazione del territorio, urbanistiche e in quelle a carattere culturale, ambientale, agricolo, sociale ed economico, nonché nelle altre politiche che possono avere un’incidenza diretta o indiretta” su di esso (Convenzione, art. 5 comma d). Alla luce di queste considerazioni , si è discusso, nel corso del convegno, su alcuni problemi di coerenza con gli indirizzi della Convenzione lasciati aperti dal Codice dei beni culturali e del paesaggio. Le tematiche sulle quali si sono incentrate le analisi e il relativo dibattito hanno toccato il concetto di paesaggio, il governo del territorio, il ruolo della pianificazione, le competenze dei vari Enti a fronte del conflitto Stato-Regioni-Enti locali in materia di tutela e disciplina del paesaggio.
Figura 1. Le trasformazioni contemporanee dei paesaggi urbani sono spesso in contrasto stridente con il paesaggio periurbano di matrice rurale. Questo è un tema di grande attualità su la Convenzione europea del paesaggio porta un contributo significativo sollecitando di rivolgere l’attenzione ai paesaggi di ordinaria qualità.
Il Professore Erminio Ferrari3, nel suo intervento, si è soffermato proprio sul nodo delle competenze dei vari organi istituzionali. Il recente iter normativo, dal Testo Unico del 1999 (D. Lgs 490/99) alla riforma del titolo V della Costituzione, al Codice dei beni culturali e del paesaggio (D. Lgs 42/2004), alle sue ultime correzioni del 2006, ha riconosciuto la funzione di governo del territorio e la questione del paesaggio come interessi pubblici generali e ha portato alla costituzione di due Ministeri, Beni e Attività culturali e Ambiente. Ferrari fa notare, però, come il Codice, nel separare la tutela dalla valorizzazione, affidando la prima allo Stato, la seconda alle Regioni, operi “una distinzione artificiosa perché la tutela non può non essere valorizzazione, la valorizzazione non può non essere tutela”. Se una tale distinzione, può assumere valore per un bene culturale non è così per il paesaggio eppure il 3
Docente ordinario di Diritto amministrativo, Facoltà di Giurisprudenza, Università degli Studi di Milano e Presidente dell’Associazione Italiana di Diritto Amministrativo.
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Codice, nell’art. 6 inerente la valorizzazione del patrimonio culturale, applica questo criterio anche ai beni paesaggistici sulla base di quello adottato per i beni culturali. Nell’art. 138, invece, non sussiste la distinzione tra tutela e valorizzazione, lì dove, precisa Ferrari, “il legislatore chiede all’ente di effettuare un esame comparativo in cui entrano in gioco il paesaggio e l’ambiente, delineando, quindi, non più la specificità, la settorialità, ma una necessaria sinergia”. Lo stesso Professore Roberto Gambino4 ravvisa nella separazione tra tutela e valorizzazione, peraltro già introdotta con la riforma del Titolo V della Costituzione (art. 117), un problema cruciale perché, nonostante i richiami diffusi alla cooperazione interistituzionale per l’esercizio delle due funzioni, nonché per la definizione dei relativi indirizzi e criteri, il Codice non configura strumenti, metodologie e risorse per attuare un reale coordinamento tra poteri centrali e locali. Gambino osserva che il Codice non tocca nemmeno la problematica dei rapporti tra conservazione e sviluppo sostenibile: “rapporti tanto più stretti e condizionanti quanto più la conservazione tende ad allargarsi a tutto il territorio, interessando le aree e i sistemi della marginalità e dell’abbandono, che coprono ormai una larga parte del territorio nazionale: qui non solo le misure di vincolo e protezione passiva, se sganciate dalle politiche di investimento e di sostegno economico e sociale, non possono concorrere alla rivalorizzazione territoriale, ma in molti casi non possono essere neppure applicate. Quali vincoli, ad esempio, potrebbero mai fermare lo sfacelo dei versanti terrazzati o la ruderizzazione incalzante dei villaggi montani?”. Le recenti modifiche del Codice, introdotte nello scorcio finale della precedente legislatura, in merito alle responsabilità istituzionali, al ruolo degli enti locali e degli altri soggetti interessati sembrano confermare i timori di un concreto indebolimento del ruolo delle Regioni nei confronti dello Stato. Questo indirizzo si coglie, per esempio, nella nuova formulazione dell’art. 135 in merito alla titolarità e ai contenuti della pianificazione paesaggistica5 o, nell’art. 142, al comma 1, dove nelle aree tutelate per legge, viene ridotta la facoltà dei piani paesaggistici di ridefinire i vincoli sulla base di criteri oggettivi e non parametrici. Nel nuovo Codice, emerge, in particolare, come annota il Professore Guido Ferrara6, “un orientamento contrario alla subdelega ai Comuni in materia di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica” che viene proposta come ultima eventualità e subordinata all’entrata in vigore dei piani paesaggistici, con l’obbligo di una nuova loro redazione. Attraverso tali orientamenti gli interessi urbanistici ed edilizi prevalgono, nella gestione del Comune, sulle esigenze della tutela paesaggistica, così come “riaffiora la predominanza assegnata al vincolo autorizzativo rispetto alla responsabilità pubblica nella determinazione degli indirizzi di piano e progetto sul paesaggio”. Ciò delinea un allontanamento dal dettato della Convenzione europea del paesaggio allorché si richiama l’impegno di ogni parte “ad accrescere la sensibilizzazione della società civile, delle organizzazioni private e delle autorità pubbliche al valore dei paesaggi, al loro ruolo e alla loro trasformazione” (Convenzione, art. 6 A). Una distanza progressiva, sottolinea Ferrara, espressa già dalle Regioni che ravvisano nella portata delle attuali modifiche “la vanificazione delle attività, già svolta, in materia di pianificazione paesaggistica sulla base delle intese o accordi sinora raggiunti con il Ministero stesso, con grave nocumento della programmazione regionale in essere, tesa allo sviluppo sostenibile”7. 4
Docente ordinario di Pianificazione territoriale presso il Dipartimento interateneo del Territorio del Politecnico di Torino e direttore del Centro europeo di documentazione sulla Pianificazione dei parchi naturali. 5 Il nuovo disposto normativo sancisce la possibilità di elaborare i piani urbanistico-territoriali, in luogo dei piani paesaggistici in senso stretto, affidando ad entrambi gli strumenti di pianificazione il compito di dettare una disciplina sugli ambiti vincolati, in contrasto con quanto sancito dalle sentenze della Corte Costituzionale n. 327/1990 e n. 378/2000. 6 Docente ordinario di Architettura del Paesaggio e Coordinatore del Master in Paesaggistica, Facoltà di Architettura, Università degli Studi di Firenze. 7 Osservazione del dibattito del Tavolo Tecnico delle Regioni in vista della riunione tra funzionari statali e regionali presso la Conferenza Unificata convocata per il 6.12.2005 relativamente allo “Schema di decreto
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Sul versante delle competenze si è inserito anche il contributo di Ruggero Martines8 il quale ha individuato la problematicità, ai fini di un concreto governo del territorio, nell’eccesso normativo e nel numero oltremodo considerevole di strumenti di pianificazione che affrontano separatamente la tematica del settore e sono gestiti da altrettante autorità di diverso livello, non sempre interagenti sul piano della comunicazione. Secondo Martines il conflitto tra i poteri locali delle Regioni e delle Soprintendenze con gli organi dello Stato si genera perché “dopo processi di pianificazione complessi i poteri di veto (annullamento) intervengono molto a valle, alla scala dell’edilizia, spesso in contrasto plateale con la pianificazione”. La soluzione più ovvia, sembra essere quell’ipotesi già avanzata nel corso della Conferenza Nazionale per il Paesaggio, svoltasi a Roma nel 2000, ovvero, spiega Martines, “il concetto di co-pianificazione a monte, per rendere automatici e comunque leggeri i controlli conclusivi e comunque per unificare, ad una scala che non vanifichi i diritti dei cittadini, l’attività pianificatoria in capo alle Regioni con la tutela”. Il relatore ha evidenziato, inoltre, come la Convenzione, trasformando la graduatoria del tema paesaggio in un diritto soggettivo al suo godimento, induca ad un ripensamento generale sul valore anche normativo della pianificazione paesaggistica. In tale ottica, conclude Martines, il piano “quale strumento di gestione prefigura il futuro, il vincolo, quale trasformabilità lenta, esiste non in contrasto, ma come parte di uno stesso ramo e il paesaggio si eleva, a ben più di un palcoscenico dell’esistenza, di un attributo avulso dal territorio, di un dato sovrastrutturale per essere progettato nelle aree di grande qualità e lì dove la mano dell’uomo lo ha manomesso.”
Figura 2. Il rapporto tra paesaggio e infrastrutture è oggi una questione sempre più delicata, che richiede una progettazione attenta ai valori paesistici e all’integrità dei luoghi.
legislativo recante disposizioni correttive e integrative del Codice dei beni culturali e del paesaggio”, di cui al D. Lgs 22 gennaio n. 42- Parte Terza. 8 Direttore generale per i Beni culturali e il paesaggio per la Puglia e Molise, Ministero per i beni e le attività culturali.
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Nel presentare una disamina sulle matrici politico-culturali e sui contenuti concettuali che hanno caratterizzato il dibattito in seno al Consiglio d’Europa9, Riccardo Priore10 ha evidenziato come il testo della Convenzione corrisponde alla volontà esplicita di tradurre, a livello giuridico, due esigenze fondamentali quali il diritto delle popolazioni al godimento di un paesaggio di qualità e il diritto della partecipazione alle decisioni inerenti la dimensione paesaggistica del proprio territorio. L’idea di fondo, espressa dalla Convenzione, e definita dallo stesso Priore “rivoluzionaria”, è quella di trattare il paesaggio come “una categoria concettuale che si riferisce all’intero territorio, un bene con la stessa valenza giuridica riconosciuta ad altri beni, come quelli ambientali (aria, acqua, suolo), che merita di essere considerato e curato indipendentemente dal suo valore specifico. La qualificazione del paesaggio renderebbe vana la volontà di non distinguere i paesaggi dell’eccellenza dal paesaggio altro, per questo ci si riferisce al paesaggio prescindendo dalla sua qualità”. Richiamando l’articolo 6 come “cuore della Convezione Europea” Priore ha evidenziato l’importanza del processo decisionale pubblico che deve fondarsi sulla sensibilizzazione delle popolazioni per l’espressione di una coscienza paesaggistica. E’ sul tavolo di questa consapevolezza che si gioca la grande scommessa sul paesaggio, perchè “esso comporta un progetto, un processo seduttivo, emotivo e va visto non solo come fondamento d’identità ma anche come bene risorsa per lo sviluppo economico”. La realtà europea è molto differenziata e nella consapevolezza di ciò la Convenzione affida la scelta degli strumenti d’intervento ai singoli Stati e ai propri enti territoriali. Priore precisa, inoltre, che l’allusione della Convenzione al termine “pianificazione del paesaggio”, di frequente riscontro (artticoli 1f, 6B-b, 6E), non è rivolta “ad uno strumento di gestione specificatamente definito, quanto piuttosto ad una modalità di azione che prevede una vasta gamma di attività (valorizzazione, riqualificazione, formazione, sensibilizzazione, eccetera) ben intuibile nella parola amenagement presente nel testo francese della Convenzione”. Il dettato europeo, aggiunge Priore, nel riferirsi ad “una politica del paesaggio come politica generale e al paesaggio nelle politiche come politiche settoriali” senza esclusione dell’una o dell’altra sfera, va ben oltre la definizione di singoli strumenti amministrativi nella convinzione che non sono possibili soluzioni uniche, ma che esse dipendono dalle variabili richieste dai luoghi e dai loro abitanti. Appare significativa pertanto, come sottolinea il relatore, una sempre maggiore cooperazione nella gestione delle risorse e un crescente riferimento al ruolo degli attori locali secondo politiche di bottom-up per accrescere il processo di sensibilizzazione dei cittadini verso i propri paesaggi. In tale processo rientrano anche le iniziative della Rete europea degli enti locali e regionali per l’attuazione della Convenzione11 che, attraverso lo scambio di informazioni, ricerche ed esperienze promuovono la tutela e la valorizzazione del paesaggio. Proprio le implicazioni del dettato europeo sulle politiche del paesaggio - ha evidenziato il Professor Gambino - pongono l’esigenza di “una flessibilizzazione degli apparati normativi, di una regolazione pubblica ben oltre le misure di vincolo circoscritte a singoli oggetti 9
La Convenzione Europea del Paesaggio nasce da un progetto elaborato a partire dal 1994 dal Congresso dei Poteri Locali e Regionali in cui le delegazioni degli allora quarantasei paesi membri, sensibili di fronte al tema della qualità della vita e preoccupate per il progressivo stato di degrado dei propri paesaggi, si sono orientate ad una risposta politica in sede europea. La Convenzione è stata approvata il 19 luglio del 2000 dal Comitato dei Ministri della Cultura e dell’Ambiente del Consiglio d’Europa e resa pubblica il 20 ottobre dello stesso anno in Palazzo Vecchio a Firenze. In Italia il documento europeo è stato ratificato lo scorso maggio ed è entrato in vigore il primo settembre di quest’anno. 10 Coordinatore del Segretariato della Commissione istituzionale del Congresso dei Poteri Locali del Consiglio d’Europa e del programma di leggi comunitarie a tutela del paesaggio; responsabile del Comitato di redazione del progetto di Convenzione Europea del Paesaggio, dell’organizzazione del negoziato intergovernativo e delle attività relative alla costituzione della RECEP (Rete europea degli enti territoriali per l’attuazione della Convenzione). Insegna Politiche e Diritto europeo del paesaggio presso il Politecnico di Torino. 11 Il 30 maggio 2006 a Strasburgo, presso il Consiglio d’Europa, è stato sottoscritto lo Statuto della “Rete europea degli enti locali e regionali per l’attuazione della Convenzione Europea del Paesaggio” con cui le amministrazioni locali europee si impegnano a collaborare per garantire la salvaguardia e uno sviluppo di qualità dei propri paesaggi.
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individualmente considerati e alle tradizionali funzioni di comando/controllo”. Il regime vincolistico, afferma Gambino, appare inadeguato ad “esprimere la natura olistica, sistemica e dinamica dei processi da controllare, sia sotto il profilo dell’articolazione spaziale, che deve riguardare l’intero territorio e non singoli soggetti, sia sotto il profilo dei contenuti da sviluppare (valenze ecologiche, storico-culturali, estetiche e semiologiche, eccetera), sia, ancora, sotto il profilo revisionale ed evolutivo”. A fronte di ciò si configura la nuova centralità della pianificazione territoriale che è chiamata, non solo ad un nuovo modo di concepire le regole, ma a situare le proprie scelte in una dimensione strategica capace di esprimere, sulla base di opportune previsioni, obiettivi e indirizzi condivisi dai soggetti coinvolti. Gambino ha sostenuto che la pianificazione strategica, esercitando “una funzione di stewardship, di guida, di seduzione e persuasione nel corso dei processi decisionali complessi e aperti, i cui esiti non possono essere fissati del tutto apriori”, non indebolisce l’efficacia dell’azione pubblica, ma, al contrario, “consente di allargare l’area di influenza e la platea dei soggetti coinvolti, favorendo la concertazione inter-istituzionale, la cooperazione tra i diversi portatori di interessi e la regolazione dei conflitti d’interesse non risolvibili per via autoritativa”.
Figura 3. Quello della ruralità contemporanea è un tema molto dibattuto sia a livello nazionale che internazionale sul quale documenti come l’European Spatial Development Perspective (Esdp, 1999) riflettono, sollecitando l’integrazione delle aree agricole di margine urbano nella pianificazione delle città.
Inserita in tale dimensione, la pianificazione, secondo Gambino, deve essere in grado di “produrre una conoscenza regolatrice” intesa come capacità di “motivare e giustificare le scelte e di valutarne gli effetti, di individuare i valori non negoziabili e i campi di negoziabilità, di sollecitare l’attenzione di tutti gli interessati per le poste in gioco perchè non si difende ciò che non si conosce”. L’espletamento della funzione conoscitiva implica l’uso di letture non settoriali come per esempio, le sperimentazioni, tuttora in corso, delle 116
“interpretazioni strutturali” del territorio, richieste da alcune legislazioni regionali (Toscana, Campania, Emilia-Romagna, eccetera) tese ad evidenziare gli elementi e le relazioni da poter considerare stabili o “invarianti” rispetto a qualunque ipotesi di trasformazione. Inoltre il rapporto con la realtà del territorio non può eludere la considerazione delle sue possibili evoluzioni che comporta l’introduzione, nei processi di pianificazione, di procedure di valutazione preventiva già in uso (valutazioni d’impatto, valutazioni d’incidenza, valutazioni ambientali strategiche) supportate dagli aspetti prettamente paesaggistici. Quindi una politica del paesaggio basata su regole di gestione, stabilite dalle autorità competenti, secondo una graduatoria di valori riconosciuti e criteri conservativi allargati a tutto il territorio, appare debole di fronte alle aggressioni dell’abusivismo e all’ incombenza dei rischi. Di qui, soggiunge Gambino,“la corsa disperata e comprensibile delle nostre Soprintendenze a cercare rifugio negli elenchi delle cose intoccabili, dei tesori non negoziabili. Ma non si salva il paesaggio se non si salva il paese. Staccare le eccellenze, siano essi monumenti o le bellezze naturali dal variegato mosaico dei paesaggi umanizzati, anche se degradati o sconvolti dalle trasformazioni recenti, significa ignorare le mille pieghe del territorio e le ragioni profonde dell’attuale domanda di qualità, il ruolo dei valori identitari, il rapporto costitutivo che lega la gente ai luoghi”. Senza negare il valore dei paesaggi eccezionali, né diluire l’azione di tutela nei paesaggi della ordinarietà e del degrado, allargare l’attenzione al territorio, conclude Gambino, “è la strada obbligata per cogliere le differenze, diversificare l’azione di tutela, rispondere diversamente, nelle diverse situazioni, alla domanda di qualità”. Nell’aprire la seconda sessione del convegno il Professor Mario Chiti12, ha affrontato il tema della Convenzione nella questione generale della disciplina del paesaggio, evidenziando come l’apparato normativo in materia si sia notevolmente moltiplicato per l’accentuazione degli enti emanatori e si sia affiancato ad una pluralità di fonti, spesso, non ben combinate. Secondo Chiti “la legislazione multilivello è un problema presente in tutta la disciplina e il diritto europeo, pur avendo il pregio di assumere una posizione di fronte al diritto internazionale, inerisce principi generali, (principio della sostenibilità, della coesione, principio precauzionale, nuovo approccio vincolante applicato a tutto l’ambito delle politiche del territorio e del paesaggio), che non toccano specificatamente il tema del paesaggio e non offrono un chiaro quadro per la definizione degli atti normativi”. Per quanto riguarda il rapporto tra il documento europeo e la legislazione nazionale Chiti ha sostenuto che “l’idea sottostante la Convenzione, in termini di paesaggio molto antropizzato, si sposa con il sistema delle competenze del Codice Urbani, ossia l’idea che affinché il paesaggio funzioni occorre la cooperazione e la coesione nel fare di tutti con il coinvolgimento non solo della dimensione comunale ma anche sovracomunale”. Tuttavia egli sottolinea la necessità di un forte coordinamento normativo in una disciplina, come quella del paesaggio, dove regna “una pluralità di approcci e una diversità di fonti” e dove sarebbe bene mantenere “le singole competenze e le specificità ma combinandole con delle linee e dei criteri guida”. Sulle perplessità di un’opportuna conciliazione dell’approccio della Convenzione europea del paesaggio con il diritto nostrano si è incentrato l’intervento del Magistrato Paolo Carpentieri13 che ha esaminato il rapporto tra regime vincolistico e Convenzione Europea. Egli non concorda con una lettura “panurbanistica della Convenzione perché essa potrebbe dare nuova forza al mito del piano e al proceduralismo consensualistico rischiando di ridurre la portata giuridica della tutela paesaggistica alla mera presa in considerazione del valore del paesaggio, con l’esclusione dell’efficacia autoritativa della conformazione del regime della proprietà”. Soprattutto in campo giuridico, aggiunge Carpentieri “dire che tutto è paesaggio significa negare un’autonoma ragion d’essere alla nozione giuridica di paesaggio, perché si esclude la possibilità stessa di un regime speciale dei beni”.
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Docente ordinario di Diritto amministrativo, Facoltà di Scienze Politiche, Università degli Studi di Firenze. Magistrato e Consigliere del Tar- Regione Campania.
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In tale ottica interpretativa il relatore vede come preminente, nel recepimento del dettato europeo, “uno sforzo di interpretazione adeguatrice che consenta il rinvenimento di punti di equilibrio e di convergenza con la tradizione giuridica interna […] Convergenza senz’altro possibile nel caso della Convenzione Europea che, pur non parlando di vincoli, ne postula e ne ammette la sussistenza, lì dove costruisce un sistema articolato sui diversi momenti della identificazione di parti di territorio da assoggettare a misure specifiche di salvaguardia, intesa soprattutto come conservazione e mantenimento”. Secondo Carpentieri la distinzione tra paesaggio e beni paesaggistici, operata dal Codice, trova una sua composizione, sul piano giuridico nel considerare “il paesaggio come area dove si estende l’interesse pianificatorio e, quindi, come trama continua in cui gli stessi beni paesaggistici sono inseriti, anche attraverso interventi non autoritativi di valorizzazione” e nel considerare “i beni paesaggistici come ambito in cui il regime vincolistico esplica i suoi effetti limitativi della proprietà e di assoggettamento al previo controllo autorizzatorio degli immobili e delle aree dichiarati di notevole interesse pubblico paesaggistico, secondo il modulo giuridico del vincolo”.
Figura 4. I paesaggi dei fondovalle fluviali spesso appartengono alla categoria dei paesaggi compromessi, poiché oggetto di intensi fenomeni di urbanizzazione; laddove questo non è avvenuto essi hanno comunque un importante significato di paesaggi fragili.
Il convegno si è concluso con il contributo del Professor Guido Ferrara che, raccogliendo le questioni critiche poste nei precedenti interventi, ha proposto una lettura delle problematiche attraverso l’illustrazione di casi studio riguardanti l’iter della pianificazione del paesaggio nella realtà nazionale. Ferrara ha evidenziato come “dalle origini della pianificazione paesistica fino alla Legge Galasso, l’intervento entro il tema delle bellezze naturali era assolutamente difensivo ed affidato al vincolo autorizzativo espresso caso per caso dai nulla osta, con pratica rinunzia da parte della pubblica amministrazione a qualsiasi intervento programmatico o strategico. Con qualche eccezione, naturalmente, anche se rileggere oggi le esperienze compiute dai piani paesistici in Italia dal 1939 al 1985 è soprattutto un 118
promemoria per ciò che non di deve fare.” Emblematico, a tal proposito, il caso di Agrigento dove, come ricorda Ferrara, “fu esteso un vincolo non edificandi con il decreto (decreto Mancini, convertito nella legge 749/1966) più restrittivo che la legge abbia mai prodotto. Gli abusi si verificarono nelle zone di massima edificabilità, mentre quelli più gravi hanno riguardato le zone di filtro con il parco archeologico della Valle dei Templi e il centro storico. Eppure tutto era regolamentato”. Sulla necessità di una Convenzione sul Paesaggio e sulla sua ragion d’essere, Ferrara evidenzia come uno dei punti chiave, espresso dal testo europeo, sia la considerazione delle trasformazioni del paesaggio, per cui “il problema risiede nello sviluppo e nella trasformabilità di fronte ai quali il regime vincolistico, per come è stato concepito, risulta non adeguato a cogliere e ad esprimere tali mutamenti.” Questo nuovo orientamento emerge anche nella prima Conferenza Nazionale sul Paesaggio (1999) a cui segue la stesura dell’ “accordo Regioni/Ministero Beni e Attività Culturali” su compiti, contenuti e procedure “sull’esercizio dei poteri in materia di paesaggio” (2001), che si richiama, in più punti, ai contenuti della Convenzione. Esso, spiega Ferrara, persegue l’intento di definire gli obiettivi di qualità paesaggistica “estendendoli a tutto il territorio nazionale e articolandoli in protezione, gestione e riqualificazione in funzione dei diversi livelli di valore previamente riconosciuti sulla base di parametri e indicatori convalidati”. Questi obiettivi tendono sia alla conservazione dei valori costitutivi e delle morfologie dei territori, prevedendo linee di sviluppo compatibile, sia alla riqualificazione delle aree compromesse o degradate. In tale ottica si staglia il recepimento dell’indirizzo europeo, ovvero nell’importanza riconosciuta anche ai paesaggi periferici, degradati che sono, come li definisce Ferrara, “i paesaggi del futuro” e nella considerazione non solo della dimensione “della salvaguardia, ma anche della gestione, controllo e progetto”. Il Codice Urbani, afferma Ferrara, “nei suoi pregi e nei suoi difetti è figlio della Convenzione” e pur nella considerazione dei suoi limiti, il disposto normativo, “ha già avuto delle ricadute che possono essere lette in positivo: il costituirsi quale riferimento per alcune delle più recenti leggi regionali per il governo del territorio, nell’indirizzo dei piani paesistici ai vari livelli, per il richiamo al contenuto paesaggistico esplicito entro i piani riguardanti le aree naturali protette e i parchi archeologici, per la considerazione strategica del paesaggio che a poco a poco può rientrare entro la prassi ordinaria degli stessi piani regolatori comunali”. Ferrara sottolinea come, in realtà, il nodo della questione risieda nell’ uso che l’operatore fa dei disposti normativi e, presentando il caso studio del nuovo piano del Parco archeologico e paesaggistico di Agrigento, mostra come “pensare ad un’alternativa totale tra vincolo e piano non ha senso. Il vincolo fa sì che il Comune riesca a far maturare la consapevolezza di proteggere là dove essa è assente, come nell’esempio di Agrigento, e i temi del paesaggio come luogo di esperienze, specchio della vita delle comunità, possono essere strutturati in un progetto attraverso istanze antropiche e naturali da cui si può far scaturire una strategia”. Calzante, a tal riguardo, il raffronto tra la realtà di Agrigento dove c’è moltissimo da salvaguardare e quella di Livigno dove il paesaggio è motore di sviluppo della realtà comunale. Il problema, secondo Ferrara, è “nel rapporto tra paesaggio e società locale dove occorre una chiamata in causa e la corresponsabilizzazione, dove tutela e valorizzazione sono due facce della stessa medaglia e dove è compito della società civile farsi carico del paesaggio che le appartiene”. Il paesaggio non è un’entità fissa, immobile, esso muta e si riproduce, per questo, conclude Ferrara, “non si tratta di limitarsi a segnalare i possibili rischi e i pericoli a carico del paesaggio da parte delle trasformazioni, ma si propone di indicare le potenzialità e le opportunità da cogliere per uno sviluppo fondato sul paesaggio stesso e proprio per questo capace di garantirne la qualità e la durata nel tempo”.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI ASSINI NICOLA, CORDINI GIOVANNI, (a cura di), Beni culturali e paesaggistici. Diritto interno, comunitario comparato e internazionale, CEDAM, Padova 2006. 119
BOGGIANO AUGUSTO, Cent’anni di paesaggio italiano,in BOGGIANO AUGUSTO (a cura di), Il paesaggio italiano negli ultimi cento anni, Atti del convegno, Cafaggiolo 13 e 14 febbraio 2004, Regione Toscana, TCI, Firenze 2005, pagg. 13-24. Consiglio d’Europa, Convenzione Europea sul Paesaggio, Congresso dei poteri locali e regionali d’Europa, Firenze 2000. FERRARA GUIDO, Progettare paesaggi, in BOGGIANO AUGUSTO (a cura di), Il paesaggio italiano negli ultimi cento anni, Atti del convegno, Cafaggiolo 13e 14 febbraio 2004,Regione Toscana, TCI, Firenze 2005, pagg. 143-154. GAMBINO ROBERTO, Conservare innovare: paesaggio, ambiente, territorio, Utet, Torino 1997. GAMBINO ROBERTO, I paesaggi dell’identità europea, Prolusione a.a. 2004-2005, Politecnico di Torino, Torino 2004. PRIORE RICCARDO , Verso l’applicazione della Convenzione europea del paesaggio in Italia, “Aedon”, rivista informatica di arti e diritto on line, 3, 2005, http: // www.aedon.mulino.it. SANDULLI MARIA ALESSANDRA (a cura di), Codice dei beni culturali e del paesaggio, Giuffrè, Milano 2006.
CONTRIBUTI PRESENTATI AL CONVEGNO Carpentieri Paolo, “Regime dei vincoli e Convenzione Europea”. Cartei Gian Franco, “Introduzione ai lavori”. Chiti Mario P., “Disciplina del paesaggio e pluralismo delle fonti : il caso della Convenzione Europea del Paesaggio”. Del Lungo Claudio, “Indirizzi di saluto”. Ferrara Guido, “La pianificazione del paesaggio nel Codice Urbani e le prospettive della Convenzione Europea”. Ferrari Erminio, “Il paesaggio tra Convenzione Europea e Codice dei beni culturali”. Gambino Roberto, “Il ruolo della pianificazione territoriale nel processo di attuazione della Convenzione”. Martines Ruggero, “La soluzione del conflitto Stato-Regioni alla luce della Convenzione”. Priore Riccardo, “La Convenzione Europea del Paesaggio: matrici politico-cuturali ed itinerari applicativi”.
Siti web : www.darc.beni culturali.it www. bap.beniculturali.it www.coe.it (Consiglio d’Europa) www.spazioeuropa.it www. Centroculturale europeo.it www.camera.it
RIFERIMENTI ICONOGRAFICI Figure 1, 2, 3, 4 : fotografie di Maria Felicia Della Valle.
Testo acquisito dalla redazione della rivista nel mese di ottobre 2006. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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Ri-Vista Ricerche per la progettazione del paesaggio ISSN 1724-6768 Università degli Studi di Firenze
Dottorato di ricerca in Progettazione Paesistica http://www.unifi.it/drprogettazionepaesistica/ Firenze University Press anno 4 – numero 6 – luglio – dicembre 2006 numero monografico Progettare sui limiti sezione: Eventi e Segnalazioni pagg. 121-132
IL FIUME NELLA CITTA’: UNA RETE DI ESPERIENZE A CONFRONTO Enrica Campus*
Summary The European Commission promoted, within the context of the InterReg IIIC South program, “The RiverLink”s Project/Program". This particular program is undoubtedly an excellent occasion as an example for a sustainable river-city project. Six European cities are involved in this project: Florence, Bordeaux, Tallinn, Dresden, Seville and Bremen, coordinated by the Environment Direction of Florence. The complete aim of this project is the exchange of experiences and knowledge-base about the management of transformations of this particular urban framework of cities with a river, and the areas surrounding it. Partner cities displayed projects in an International Congress titled, “The River in the City: a networking of experiences to confront and discuss”, that took place in Florence on June, 9th, 2006, and was organized by the Town Planning Department of Environment Direction of Florence Municipality. Key-words RiverLinks, Progetto Interreg IIIC Sud, River-City Relationship.
Abstract La Commissione Europea ha promosso nell’ambito del programma Interreg IIIC Sud il progetto RiverLinks: interfaccia di eccellenza per un rapporto sostenibile città-fiume. Al progetto hanno preso parte sei città europee: Firenze, Bordeaux, Tallinn, Dresda, Siviglia e Brema, coordinate dalla Direzione Ambiente del Comune di Firenze. Scopo del progetto è stato quello di favorire lo scambio di esperienze e conoscenze sulle modalità di gestione delle trasformazioni degli ambiti urbani interessati dal fiume. Il progetto si è concluso con la presentazione dei progetti delle città partners nel convegno internazionale “Il fiume nella città: una rete di esperienze a confronto”, tenuto a Firenze il 9 giugno 2006. Parole chiave RiverLinks, Progetto Interreg IIIC Sud, rapporto città-fiume.
* Dottorando di Ricerca in Progettazione paesistica, Università di Firenze.
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PREMESSA Il Convegno Internazionale, svoltosi a Firenze il 9 giugno 2006 nel Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio, è stato l’incontro conclusivo del Progetto Interreg IIIC RiverLinks. Il convegno, suddiviso in due sessioni, ha visto protagonisti i sei partners di RiverLinks e altre città europee, invitate a portare sul tavolo di confronto le loro esperienze. In generale il Progetto Interreg IIIC1 ha come obiettivo quello di rinforzare il rapporto economico e sociale dell’Unione Europea, favorendo la promozione di cooperazioni interregionali, per permettere a tutti gli attori partecipanti lo scambio di esperienze e per poter creare delle sinergie comuni di buone pratiche. A ciascuno dei progetti Interreg viene attributo un titolo, solitamente esplicativo degli obiettivi e delle finalità che i partners partecipanti intendono perseguire e sviluppare nelle loro città. Il progetto RiverLinks: interfaccia di eccellenza per un rapporto sostenibile città-fiume, ha avuto, e tuttora ha come finalità principale quella di favorire lo scambio di esperienze e conoscenze sulle modalità di gestione e trasformazione degli ambiti urbani interessati dal fiume2. Lo sviluppo durevole dello spazio urbano è un elemento sensibile là dove la città incontra gli spazi fluviali. Le città fluviali, che sono in maggioranza in Europa, non hanno sempre un'interfaccia positiva con i fiumi ed i loro spazi, spesso in disuso, in alcuni casi, a seguito del declino delle attività portuali o industriali. I fiumi sono visti spesso come bordo e limite della città e della sua estensione, o come fronti della città (waterfront definisce sinteticamente la condizione di relazione degli spazi del fronte della città e del corpo acqua, sia esso fiume, mare o lago), e solo recentemente si vede nel rapporto con il fiume l’occasione per la ridefinizione di quello che era considerato come margine urbano, e che oggi si pone come luogo di nuova costruzione della città e delle sue relazioni spaziali e sociali. RiverLinks si propone di mettere in rete sei città con problematiche simili, tutte in procinto di intraprendere delle azioni di miglioramento dei loro territori fluviali, con la prospettiva di risultati effettivi relativamente al miglioramento ambientale, alla protezione dei sistemi naturali e dei paesaggi culturali e della messa in sicurezza dei cittadini. I fiumi e le città coinvolti nel progetto sono stati: l’Arno a Firenze 3 (Italia), la Garonne a Bordeaux (Francia), il Pirita a Tallinn (Estonia), l’Elba a Dresda (Germania), il Guadalquivir a Siviglia (Spagna) e il Weser a Brema (Germania). Il progetto è stato condotto in tre fasi: una prima fase di ricerca e analisi di casi studio, che ciascun partner ha proposto in funzione delle problematiche e delle esigenze legate alla propria città e delle aree di sperimentazione selezionate, la seconda fase dell’infrastruttura pilota e la terza fase del progetto pilota. La prima fase ha portato alla redazione di sedici schede, una per ciascun caso europeo selezionato; il tutto è stato raccolto nel volume dal titolo A selection of advanced river cities in Europe… a good practice guide4. Nel prima parte della pubblicazione sono presentate le città partners e le aree pilota di sperimentazione, nella seconda parte vengono mostrati i casi studio, dei quali viene descritta la metodologia, gli obiettivi perseguiti e i risultati ottenuti. L’analisi dei casi studio è stata svolta secondo dei parametri prefissati, comuni alle esigenze dei partners, ed in particolare è stato tenuto conto dei seguenti fattori: a) natura e cultura del paesaggio fluviale, b) equipaggiamento dei parchi fluviali, c) navigabilità, d) rischio idraulico. 1
Per maggiori informazioni sui Progetti Interreg IIIC si consiglia di visitare il sito ufficiale della Comunità Europea www.interreg3c.net 2 All’interno delle azioni del progetto è stata prevista anche la redazione di un sito web, www.riverlinks.org, dal quale posso essere scaricati documenti e informazioni 3 Il Capofila e Coordinatore del Progetto è stata la città di Firenze attraverso la Direzione Ambiente e il suo responsabile il Dottor Giovanni Malin. Per contatti con la Direzione Ambiente si può scrivere all’indirizzo e-mail direz.ambiente@comune.fi.it oppure uff.parchi@comune.fi.it . 4 BIAGIO GUCCIONE (a cura di), A selection of advanced river cities in Europe… a good practice guide, Edifir, Firenze 2005.
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Nella seconda fase del progetto, definita Infrastruttura Pilota, i partners hanno portato avanti il progetto in forma di macro-progetto o master plan, nel quale sono state date delle indicazioni e linee guida progettuali su tutta l’area di indagine e studio. Nella maggior parte dei casi l’area individuata ha coinciso con aree già soggette a progetti di pianificazione e riqualificazione. La terza ed ultima fase, il Progetto Pilota, ha portato alla redazione e realizzazione di un progetto, che potesse contribuire a risolvere in parte, alcune delle problematiche emerse nelle fasi precedenti. Nel corso dei tre anni di durata del progetto i partners si sono confrontati sui temi del rapporto città/fiume in ciascuna delle città coinvolte, incontrandosi, di volta in volta, in ciascuna di esse, per vedere e valutare insieme e per comprendere appieno le problematiche evidenziate. Gli incontri hanno dato vita in alcuni casi a veri e propri workshop, nei quali ciascun partner ha elaborato idee e suggerimenti, in sostegno degli altri colleghi europei. L’incontrarsi in città differenti ha permesso di maturare sempre nuove conoscenze, che alla fine hanno stimolato e arricchito i progetti sperimentali. Nei viaggi di studio e lavoro sono state coinvolte anche le città prese in analisi nei casi studio, come Lione, che ha portato la propria esperienza anche al convegno conclusivo.
L’ESPERIENZA DEL PROGETTO RIVERLINKS Nella prima sessione del convegno il coordinatore del progetto, Dottor Giovanni Malin, ha introdotto le esperienze maturate nel corso dei tre anni, che hanno portato alla redazione dei progetti realizzati in ciascuna città, sottolineando quelli che sono stati gli obiettivi generali di RiverLinks: - ridefinizione del rapporto città – fiume; - miglioramento degli interventi di sicurezza idraulica; - miglioramento della fruizione delle aree fluviali; - valorizzazione del paesaggio culturale e del patrimonio ambientale; - integrazione delle politiche urbane sul sistema degli spazi aperti in relazione agli ambiti fluviali. I risultati presentati al convegno, che di seguito verranno descritti, sono stati raccolti in una pubblicazione dal titolo A networking experience for successful city-river interfaces5. Il libro in inglese ha al suo interno brevi sommari in italiano, spagnolo, francese tedesco ed estone, per facilitare la diffusione ai cittadini, come perseguito dagli obiettivi generali dei progetti Interreg. Durante l’introduzione alla sessione del convegno il coordinatore ha messo in evidenza come i vari progetti abbiano portato all’individuazione di dieci categorie/intervento 6 che hanno accomunato le diverse città: 1. il fiume come elemento generatore di un parco naturalistico ad alta valenza ecologica; 2. il fiume come elemento di collegamento e giunzione; 3. il fiume come sistema di interconnessione e articolazione del verde; 4. nuovo disegno e nuova visione delle sponde fluviali a fini ricreativi; 5. nuova regimazione delle acque che tenda a non escludere il rapporto città/fiume; 6. progettazione della casse di espansione come occasione di miglioramento paesistico; 7. navigabilità dei fiumi per i flussi di pendolarità; 8. navigabilità dei fiumi come occasione di sviluppo ricreativo-turistico; 9. miglioramento della qualità delle acque; 10. interventi di rinnovo urbano.
5 BIAGIO GUCCIONE, ANDREA MELI, GIORGIO RISICARIS, (a cura di), A networking experience for successful cityriver interfaces, Edifir, Firenze 2006. Il testo è scaricabile gratuitamente dal sito ufficiale del progetto http://www.riverlinks.org 6 Cfr. BIAGIO GUCCIONE, ANDREA MELI, GIORGIO RISICARIS, (a cura di), op. cit., Firenze 2006, pag. 29.
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Brema: progetto di riqualificazione del sito storico del Porto della Torba Il progetto realizzato dalla città di Brema è stato presentato al convegno da Hans-Peter Weigel7, che ha seguito il progetto nel corso dei tre anni. Il progetto ha riguardato un area non sul fiume Weser, ma in stretta connessione con esso, attraverso un sistema di canali che caratterizzano una parte della città di Brema. L’antico porto-canale per il commercio della torba e per la navigazione, era un’area in stato di abbandono, in un punto nodale della città per la vicinanza al Burger Park, parco storico della città, alla stazione ferroviaria e ad un centro commerciale di forte attrattiva. Il progetto di recupero e rivitalizzazione del porticciolo è passato attraverso un processo di progettazione partecipata che ha coinvolto tutto il quartiere. Contemporaneamente è stata migliorata anche la qualità delle acque del porto, pessima in origine, dove finivano le fognature obsolete di tipo misto con acqua non sufficientemente depurata, specialmente dopo grosse precipitazioni. L’acqua piovana è stata intercettata, filtrata ed immessa in bacini di raccolta. Successivamente ossigenata e portata attraverso tubature sotterranee al porticciolo della torba. A completare la riqualificazione sono state inserite fasce di vegetazione riparia che svolgono funzione di filtro contro gli inquinanti. La particolarità del progetto consiste anche nella sua definizione in pieno ambito urbano, con necessità quindi di notevole consenso e partecipazione da parte dei cittadini. Siviglia: progetto di riqualificazione del Paseo de la O Il progetto della città di Siviglia ha interessato un tratto del fiume Guadalquivir denominato Paseo de Nuestra Señora de la O, il progetto si inserisce all’interno del Piano di Riqualificazione di Triana. Obiettivo del progetto è stato quello di ricollegare attraverso semplici interventi il fiume alle città. L’area infatti si presentava notevolmente frammentata per la presenza di molti parcheggi privati che ne impedivano una continuità fruitiva. Il progetto prevede in particolare la realizzazione di piste ciclabili e pedonali e la realizzazione di piattaforme per la pesca sulla sponda del fiume. Alla realizzazione dei percorsi pedonali e ciclabili si affianca la creazione di punti di accesso al fiume che permettano di avere un rapporto costante con il resto della città, sempre attraverso la connessione con il sistema di mobilità leggera.
Figura 1. Il nuovo Porto della Torba a Brema, durante la festa di inaugurazione. Figura 2. L’area di progetto del Paseo de la O a Siviglia, durante il sopraluogo con i Partners.
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Hans-Peter Weigel è Biology Director del Senator of Building and Environment di Brema
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Figura 3. Il Planimetria di progetto del Paseo de la O a Siviglia.
Dresda: progetto di salvaguardia dalle alluvioni della Inner City Il rapporto conflittuale che la città di Dresda vive nei confronti del fiume Elba, a causa delle alluvioni subite, da ultima quella dell’agosto del 2002, è emerso immediatamente dai primi incontri tra i partners. Il problema per Dresda e i suoi amministratori è stato, sin dall’inizio del progetto, quello di difendersi dal fiume più che crearne un rapporto. Questo timore manifestato più volte dal responsabile del progetto il dottor Franz Frenzel, è stato più volte motivo di discussioni animate, perché in netto contrasto con l’obiettivo principale di RiverLinks, ossia ritrovare e/o creare ex-novo un rapporto tra la città e il fiume. Il risultato dei tre anni di lavoro è stato sicuramente soddisfacente, in quanto la città di Dresda ha studiato soluzioni ingegneristiche innovative, attraverso le quali viene assicurata la difesa idraulica ma allo stesso tempo non viene perduto il rapporto con il fiume, anzi viene esaltato grazie alla riqualificazione degli spazi pubblici. Il progetto si inserisce all’interno del Piano per le Inondazioni, e consiste principalmente nella realizzazione di muri di protezione, che creano una sorta di muro di fortificazione, che riprende il concetto delle mura storiche della città, e che termina con un parapetto lungo la passeggiata pedonale, all’interno di questo parapetto si trova un elemento mobile, che in caso di alluvione fuoriesce dal muro, aumentando la superfici verticale di protezione. Il progetto sarà concluso interamente nel 2008.
Figura 4. Il Teatro dell’Opera di Dresda nell’alluvione del 17 agosto 2002.
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Figura 5. Sezione dei muri di protezione allo stato attuale (immagine a sinistra) e sezione di progetto (immagine a destra).
Firenze: il sistema dei parchi urbani e metropolitani dell’area fiorentina e le CascineArgingrosso Il tema dell’infrastruttura pilota affrontato dalla città di Firenze, attraverso un gruppo di consulenti coordinati dal Professor Biagio Guccione8, dell’Università di Firenze, ha riguardato un’area in cui già da anni il dibattito del rapporto città-fiume è alquanto acceso. Il rapporto tra la città e l’Arno, molto stretto nel passato, è diventato sempre più labile e conflittuale, soprattutto nella storia recente in seguito all’alluvione del 1966. Come sottolinea il Professor Guccione, “il progetto pilota di Firenze si innesta nel più ampio processo nel quale la centralità rimane il Parco Metropolitano dell’Arno, infatti le linee guida tracciate nello studio di fattibilità, attribuiscono a tutte le aste fluviali un ruolo fondamentale per l’interconnessione degli spazi aperti nel sistema metropolitano fiorentino”. Così il parco dell’Arno dovrà avere queste caratteristiche: - Il parco si costituisce come sistema metropolitano di spazi aperti gerarchizzati e differenziati per destinazioni d’uso e ruoli paesistico-ambientali; - Il parco assume come obiettivi primari la promozione e l’equipaggiamento funzionale del paesaggio per la fruizione ricreativa e la sua valorizzazione turistica; - Il parco adotta come politica strategica primaria la costituzione di un sistema a rete di greenways, basata sull’adattamento alla realtà culturale e paesistica fiorentina di modelli collaudati; - Il parco attribuisce al sistema di greenways un doppio ruolo, in grado di innescare progressivamente interventi e modalità di gestione sensibili alla qualità del paesaggio, e di struttura funzionale, essenziale per la fruizione ricreativa. L’ambito di studio ha riguardato in particolare l’area Cascine-Argingrosso, dove da anni si discute di creare un grande parco urbano che vada ad integrare il Parco storico delle Cascine. Qui il fiume non scorre costretto tra gli argini artificiali, ma tra argini in qualche modo rinaturalizzati. In questo tratto del fiume si sente la necessità di ritrovare il rapporto con l’Arno, come dimostrano le molte persone che vanno a pesca, mentre altre si soffermano a riposarsi e a prendere il sole. Nonostante siano in uno stato di degrado le sponde vengono comunque utilizzate; da qui la necessità di creare degli spazi gradevoli e fruibili, nel rispetto dei vincoli posti dall’Autorità di Bacino dell’Arno, in termini di gestione e manutenzione delle sponde.
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Docente di Architettura del Paesaggio della Facoltà di Architettura, Università degli Studi di Firenze e del Master in Paesaggistica della stessa Università, da anni porta avanti studi e ricerche sul tema del Parco Metropolitano dell’Arno.
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Figura 6. Realizzazione degli interventi nell’area delle Cascine.
Il progetto pilota, redatto dall’architetto Gabriele Paolinelli9, ha avuto come obiettivo quello di restituire, ai fruitori del Parco delle Cascine, le sponde del fiume, attraverso un progetto di ridefinizione dell’argine e l’inerbimento dello stesso con un particolare miscuglio di sementi, che permettessero di avere una superficie a prato, di migliore qualità, dove potersi sedere e sdraiare, camminare e rilassarsi. Il progetto che inizialmente sembrava fallito, a causa principalmente delle condizioni meteorologiche durante l’esecuzione dei lavori, che non potevano essere interrotti, per rispettare i tempi di conclusione e rendicontazione del progetto, ha portato poi a dei risultati positivi e ormai inaspettati, tanto che le stesse tecniche sono state estese ad altri tratti delle sponde del fiume. Parallelamente al progetto pilota sulle Cascine è stato portato avanti un Master Plan 10 per il Parco dell’Argingrosso, che rappresenta il naturale sviluppo di una idea di parco cittadino. Per far fronte al problema alluvioni, lungo tutto il corso del fiume Arno si stanno realizzando le casse di espansione, tra cui una dovrà essere realizzata nell’area dell’Argingrosso, che condizionerà in maniera rilevante l’evoluzione della forma e della natura del luogo nel suo complesso. Il Progetto RiverLinks si è occupato di comprendere e fare emergere quali siano le principali relazioni ambientali e funzionali, interne ed esterne all’Argingrosso, anche in relazione alla previsione (attualmente in fase di discussione), di procedere nel futuro verso un sistema metropolitano di parchi ed aree protette11 (in parte già esistenti), che vedano nell’Arno la dorsale principale del sistema. Il Progetto RiverLinks12, anche sulla scorta dello scambio di esperienze con gli altri partner europei, ha individuato alcuni criteri strategici rispetto ai quali, ogni azione futura che interessi l’Argingrosso, dovrebbe confrontarsi, e che possono essere così sintetizzati: - continuità ecologica; - conservazione e miglioramento del sistema dei valori paesaggistici e naturali; - permeabilità e continuità territoriale; - valorizzazione della funzione sociale ed aggregativi; - sicurezza idraulica; - valorizzazione di servizi ed attività ricreative. 9
Gabriele Paolinelli è Professore a Contratto all’Università di Bologna e Dottore di Ricerca in Progettazione Paesistica. 10 Alla redazione del Master Plan ha partecipato anche l’autrice del presente recensione. 11 Per quanto riguarda il lavoro svolto dal Comune di Firenze, nell’ambito dell’attività dell’Ufficio Tematico e di Progetto Parchi Urbani e Metropolitani, si veda MALIN GIOVANNI (a cura di), Il sistema del verde nell’area metropolitana fiorentina, Edifir, Firenze 2004. 12 I risultati completi sono contenuti in BIAGIO GUCCIONE, ANDREA MELI, GIORGIO RISICARIS (a cura di), op. cit, Firenze 2006.
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Figura 7. Schema del Master Plan per il parco dell’Argingrosso.
Rispetto a questi, i principi progettuali generali secondo i quali ogni piano/progetto sull’area dovrebbe dialogare, in una prospettiva di una trasformazione dell’area verso l’assetto proprio di un grande parco urbano di rilievo metropolitano, connesso funzionalmente in modo diretto con le Cascine, possono essere riassunte in: 1. tutela, miglioramento o realizzazione del sistema di connessione ecologica, che interessa gli elementi naturali, naturalizzati e potenzialmente rinaturalizzabili, definendo una rete di relazioni interne al parco che possano essere messe a sistema con le risorse ambientali della città; 2. conservazione e valorizzazione del sistema puntuale e areale delle risorse, identificato non solo nelle aree di valenza paesaggistica ma anche in relazione all’ipotesi di cassa di espansione, nelle zone umide e negli elementi che costituiscono il paesaggio agrario; 3. valorizzazione della potenzialità legata agli interventi di forestazione urbana, quale mezzo per ricomporre e ridefinire un sistema di valori paesistici legati alla continuità ecologica e territoriale; 4. mantenimento di una funzione diffusa legata al sistema minuto agrario esistente, interpretato in relazione alla matrice urbana; 5. garantire i rapporti tra il sistema degli spazi del parco e, potenzialmente, relazionarli con il sistema degli spazi aperti della città, attraverso elementi puntuali e lineari di connessione e collegamento ambientale e funzionale; 6. valorizzazione in chiave paesaggistica della previsione di cassa di espansione, quale modalità di trasformazione del paesaggio in linea con gli obiettivi di riqualificazione complessiva dell’area; 7. valorizzazione e potenziamento dei servizi delle attività ricreative all'aria aperta compatibili con i caratteri ambientali e paesistici dell'Argingrosso, che possono e devono contribuire a garantire un sistema di fruizione del parco, capace di svolgere un ruolo in relazione con il Parco delle Cascine. Tallinn: il Piano del Parco della Valle del fiume Pirita La città di Tallinn ha partecipato al progetto RiverLinks con il Distretto Amministrativo di Pirita. Il fiume Pirita è situato a nord dell’Estonia e sfocia nel Mar Baltico, e riveste una 128
notevole importanza per la città di Tallinn, non solo perché il fiume è l’elemento di connessione con il lago Ulemiste, riserva idrica della città, ma anche perché la sue sponde hanno mantenuto un carattere di naturalità; quest’ultimo aspetto è stato possibile anche grazie all’istituzione dell’Area Protetta del Fiume Pirita nel 1957. L’area protetta si estende per cinquecentoventitre ettari, di cui il quarantadue percento è ricoperto di boschi. La riforma fondiaria in atto in Estonia si sta dimostrando per certi versi una minaccia per la conservazione dell’area protetta, in quanto i terreni restituiti ai precedenti proprietari potrebbero essere sottoposti ad una pressante speculazione edilizia. Il progetto RiverLinks, come spiega Enno Tamm Mayor, Sindaco del Distretto di Pirita, durante il Convegno, ha dato l’opportunità a Pirita di impostare uno strumento di pianificazione per la tutela e conservazione dell’area, che non trascurasse le esigenze di sviluppo economico e sociale dell’area stessa. Molti degli aspetti sviluppati nel Piano sono emersi durante il workshop, tenutosi a Pirita nel maggio del 2005, dove ai partners è stato chiesto di fornire idee e suggerimenti per porre le basi del piano.
Figura 8. Piano del Parco della Valle del fiume Pirita.
Bordeaux: il Piano della Garonne e il Progetto Lormont La città di Bordeaux, come spiega l’Ingegnere Jean François Guérin 13, ha calato il progetto RiverLinks all’interno di un progetto di piano di maggiori dimensioni, che interessa tutto il corso della Garonna all’interno del territorio della Comunità Urbana di Bordeaux (Cub), il progetto Plan Garonne. Il Piano approvato nel 2000 ha tra gli obiettivi strategici principali: la promozione e riscoperta del fiume da parte della popolazione, la creazione di un diretto e funzionale contatto con il fiume e la valorizzazione del fiume e degli spazi naturali ad esso connessi; gli stessi obiettivi sono stati perseguiti con il progetto RiverLinks, che ha permesso alla Cub di trasformare le azioni di piano in progetti esecutivi. Il progetto dell’infrastruttura pilota e del progetto pilota ha riguardato in particolar modo il Comune di Lormont, dove è stato promosso un progetto di recupero e di valorizzazione degli spazi portuali, con la realizzazione di percorsi pedonali, aree di accoglienza, percorsi 13
Jean François Guérin è ingegnere alla Direzione Sviluppo sostenibile e Ecologia Urbana della Comunità Urbana di Bordeaux.
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ciclabili, aree di sosta e quant’altro necessario al miglioramento della fruizione dell’area fluviale. Come è accaduto a Brema, anche a Bordeaux il progetto è stato condotto attraverso la partecipazione dei cittadini, mediante incontri, assemblee, svoltesi nei tre anni di durata del progetto europeo. A Bordeaux il rapporto stretto tra città e fiume, o meglio tra i cittadini e il fiume è evidente anche per la festa che ogni anno si svolge nel mese di giugno, detta appunto la Festa del Fiume. Nei giorni dei festeggiamenti il Fiume è il vero protagonista, tutte le manifestazioni e gli spettacoli si svolgono lungo le sue sponde e nelle aree prossime al fiume.
Figura 9. Bordeaux, Lormot il belvedere Les Iris.
CITTÀ EUROPEE E INTERFACCIA CITTÀ- FIUME La sessione pomeridiana del convegno ha visto alcune città europee confrontarsi sul tema del rapporto città-fiume. Grande protagonista è stata la città di Lione, che nel corso degli ultimi anni ha dato vita ad una serie di progetti di trasformazione che hanno avuto al centro i due fiume che la attraversano, il Rodano e la Saône. Non a caso Lione è stata selezionata tra i casi studio, ed è stata sede di un incontro/seminario tra i partners di RiverLinks. Durante il Convegno è stato presentato il progetto Lyon Conflunece14, un progetto di trasformazione e riqualificazione urbana di una ex-area industriale posta a sud della Presqu’île alla confluenza della Saône nel Rodano. Per la sua localizzazione, la sua dimensione (centocinquanta ettari) e la sua storia, il sito si presta naturalmente all’espansione metropolitana di Lione, con la realizzazione di spazi per il commercio, le attività terziarie, le attività culturali, le attività ricreative e soprattutto per la realizzazione di un sistema di spazi aperti (il progetto riserva circa il sessanta percento dell’area allo spazio pubblico), a incrementare la già ricca articolazione che caratterizza il sistema del verde della città. La realizzazione del progetto, come spiega il direttore di Lyon Confluence Pierre Joutard, è stato realizzato dalla stretta collaborazione tra diverse figure professionali: architetti, urbanisti, paesaggisti, ingegneri e economisti. La collaborazione con grandi paesaggisti come Georges Descombes o Michel Desvigne, spiega ancora Joutard, ha contribuito ad aumentare notevolmente l’immagine di qualità del progetto.
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Per maggiori notizie sul progetto Lyon Confluence è possibile consultare il sito web www.lyon-confluence.fr.
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L’importanza del ruolo del fiume e dell’acqua nella città, e del rapporto che con esso viene instaurato, è ben rappresentato dal progetto del Parco della Saône, presentato al convegno dall’architetto paesaggista Georges Descombes15. Il parco si estende lungo le sponde della Saône, penetrando nel tessuto urbano, tra i palazzi e nelle strade. Il nodo centrale del Parco si sviluppa attorno alla Place Nautique. Il grande piano d’acqua riprende la tradizione delle grandi piazze lionesi, ma l’elemento centrale è l’acqua a rimarcare il rapporto che tra città e fiume si stabilisce.
Figura 10. Progetto del Parco della Saône.
Sempre a Lione è in corso di realizzazione il progetto di riqualificazione delle sponde del Rodano Rive Gauche, presentato al Convegno dalla sua progettista l’architetto paesaggista Annie Tardivon16. Nel progetto le sponde del fiume diventano parte integrante della città, trasformandosi in una sorta di piazza continua che si affaccia sul Rodano, dove si alternano percorsi pedonali, ciclabili e spazi ricreativi, giocando con materiali diversi e con la vegetazione. Nonostante una connotazione fortemente urbana, non viene trascurato nel progetto l’aspetto naturalistico, attraverso la realizzazione di isole, dove la fauna può stazionare indisturbata. Alla conclusione del suo intervento l’Architetto Tardivon commenta: “Quando si crea un progetto di gestione la difficoltà principale sta nella difficile articolazione tra l’uso passo e l’uso per il quale il nuovo spazio è definito”. Il rapporto città-fiume si instaura quindi tra il fiume e gli spazi aperti e gli spazi verdi della città. L’esempio della città di Berlino, con gli interventi lungo il fiume Spree, mette in evidenza come il rapporto con il fiume in ambito urbano sia legato non solo al rapporto con gli spazi aperti, ma anche al rapporto fiume/edificato, come emerge dall’intervento di Hilmer von Lojewski, responsabile dell’ufficio Piano e Progetto di Berlino. Infine il dottor Paolo Odone, ex dirigente all’assessorato per ambiente e lo sviluppo sostenibile del Comune di Torino, ha illustrato l’esperienza di Torino con il progetto “Torino città d’acque”, esempio che pone il capoluogo piemontese all’avanguardia nel nostro paese in questo campo. Il progetto-programma ha avviato la realizzazione di un sistema di parchi fluviali che crea connessioni ecologiche e fruitive tra Po, Dora Riparia, Stura e Sangone. I principali tipi di intervento riguardano, l’incremento dei bacini di esondazione, la bonifica delle fasce spondali e il consolidamento degli argini, l’acquisizione delle aree interessate dai progetti e il potenziamento della navigazione turistica. 15
Gorge Decombes, architetto e architetto paesaggista, è Professore all’Università di Ginevra. Annie Tardivon, architetto paesaggista, dello studio In-situ, è incaricata del progetto di gestione Berges du Rhône.
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Il convegno si è concluso con una discussione/confronto dove è emerso il diverso rapporto che ciascuna città instaura con il proprio fiume, a seconda delle caratteristiche, tra cui dominano quelle idrauliche; di conseguenza le amministrazioni portano avanti e governano il rapporto con il fiume. Sicuramente RiverLinks, mettendo in rete le diverse esperienze europee, ha fornito nuovi stimoli e occasioni per approfondire la ricerca sul tema città-fiume, cercando di affrontare il dibattito partendo da differenti approcci tecnici e culturali.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Corona verde. Torino città d’acque, “Folia speciale”, suppl. al n. 6 di “Acer”, Il Verde Editoriale, Milano 2001. FORINO ALESSANDRA, Paesaggi sull’acqua, Alinea, Firenze 2003. GUCCIONE BIAGIO, MELI ANDREA, RISICARIS GIORGIO , (a cura di), A networking experience for successful city-river interfaces, Edifir, Firenze 2006. GUCCIONE BIAGIO (a cura di), A selection of advanced river cities in Europe…a good practice guide, Edifir, Firenze 2005. MALIN GIOVANNI (a cura di), Il sistema del verde nell’area metropolitana fiorentina, Edifir, Firenze 2004. RIZZO GIULIO GINO, VALENTINI ANTONELLA (a cura di), Luoghi e Paesaggi in Italia, University Press, Firenze 2004. Siti web: www.riverlinks.org (Progetto RiverLinks) www.comune.firenze.it (Comune di Firenze) www.bremen.de (Landes Bremen) www.dresden.de (Landeshauptstadt Dresden – Startseite) www.lacub.com (La communauté urbaine de Bordeaux – Cub) www.tallinn.ee/est/g15 (Tallinn Pirita Linnaosa Valitsus) www.urbanismosevilla.org (Gerencia de Urbanismo - Ayuntamiento de Se villa) www.grandlyon.com (Communauté Urbaine de Lyon) www.lyon-confluence.fr (Projet Lyon Confluence) www.comune.torino.it/ambiente/verde/index.htm (Torino città d’acque) www.berlin.de (Berlin)
RIFERIMENTI ICONOGRAFICI Figura 1: Fotografia di Hans-Peter Weigel, Biology Director Bremen Senate. Figura 2: Fotografia di Enrica Campus. Figure 3, 5, 8: GUCCIONE BIAGIO, MELI ANDREA, RISICARIS GIORGIO (a cura), A networking experience for successful city-river interfaces, Edifir, Firenze 2006, pagg. 78, 74, 41. Figura 4: http:// www.riverlinks.org. Figura 6: Fotografie di Gabriele Paolinelli. Figura 7: Elaborazione di Enrica Campus e Catia Lenzi per il Master Plan dell’Argingrosso. Figura 9: Fotografia di Jean Francois Guérin, Director of Sustenaile Development and urban Ecology, Communnauté Urbane de Bordeaux. Figura 10: Lyon Confluance, GRAND LYON Infographies, marzo 2005.
Testo acquisito dalla redazione della rivista nel mese di ottobre 2006. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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