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redazione
fondatore / founder Giulio G. Rizzo
direttore / director Gabriele Corsani
comitato scientifico / scientific committee Paolo Bürgi, Vittoria Calzolari, Christine Dalnoky, Guido Ferrara, Roberto Gambino, Jean-Paul Métailié, Giulio G. Rizzo, Mariella Zoppi
comitato di redazione / editorial board Debora Agostini, Laura Ferrari, Elisabetta Maino, Emanuela Morelli, Gabriele Paolinelli, Emma Salizzoni, Antonella Valentini Hanno collaborato alla redazione di questo numero: Enrica Campus, Silvia Mantovani, Maristella Storti
progetto grafico / graphic design / editing Laura Ferrari
scrivere alla redazione rivista.drpp@unifi.it
editore / publisher Firenze University Press Borgo degli Albizi 28 50122 Firenze e-press@unifi.it
Ri-Vista ricerche per la progettazione del paesaggio rivista elettronica semestrale del Dottorato di Ricerca in Progettazione Paesistica Facoltà di Architettura – Università degli Studi di Firenze registrazione presso il Tribunale di Firenze n. 5307 del 10 novembre 2003 ISSN 1724-6768
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Paesaggi del turismo
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sommario
I
Paesaggi del turismo
1
Editoriale Emma Salizzoni
tra parole e saggi 9
Paesaggi del bel paese, dal viaggio al turismo Gabriela Corsani
19
Turismo per il paesaggio? Paolo Castelnovi
29
Ecoturismo in Europa: metodologie per l’eccellenza Federico Niccolini, Daniela Marzo
41
Ecomusei e turismo Raffaella Riva
49
La divulgazione del paesaggio in ambito turistico: criteri, metodi, esperienze Frederick Bradley
lo (s)guardo estraneo 57
Les paradoxes du tourisme? Claude Raffestin
65
Paesaggi mentali e vivibilità nei luoghi alpini. Trasformazione dei luoghi in paesaggi. Percezione, sense-making e turismo Ugo Morelli
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II
Paesaggi del turismo
89
Imparare a guardare. Luisa Bonesio racconta come il Villaggio Morelli a Sondalo sia opportunità di turismo colto a cura di Elisabetta Maino
103
Un viaggio culturale attraverso le mostre fotografiche: dalla wilderness di A. Adams al parco dei divertimenti di M. Pesaresi Elisabetta Maino
113
Cultura dell’accoglienza e ospitalità diffusa. Conversazione con Giancarlo Dall'Ara a cura di Silvia Mantovani
paesaggi in gioco 119
Ecomuseo Urbano Metropolitano Milano Nord: per una biografia culturale del paesaggio collettivo Silvia Mascheroni, Alessandra Micoli
127
Da Area C alle vie d’acqua: Milano riscopre una vocazione turistica Antonello Boatti, Federica Zambellini
139
Paesaggi d’eccezione, paesaggi del quotidiano. I casi di Cinque Terre, Saint-Émilion, Tokaj Maristella Storti
149
Paesaggio rurale e turismo sostenibile nella Valtiberina Toscana Daniela Cinti
161
Il paesaggio tra conservazione e sviluppo: il caso del Chianti Matteo Pacetti
167
Allo Spedale del Bigallo. Dall’orto alla cucina, dall’accoglienza al paesaggio, dalle “camere con vista” ai percorsi esperienziali, verso un nuovo modello ospitale per il Contado Fiorentino Rita Micarelli
175
Carrara e le sue cave. Alla scoperta dei paesaggi del marmo Francesco Alberti
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sommario
187
III
Versilia: il paesaggio del turismo Mariella Zoppi
193
Paesaggio e sostenibilità nei processi turistici. Un caso di sostenibilità sociale in Sardegna Giuseppe Onni
207
Turismo lungo le aree costiere euro-mediterranee: dalla scoperta, al consumo, al progetto del paesaggio Emma Salizzoni
libri 221
Il paesaggio di Aldo Sestini (1963). Cinquant’anni dopo Leonardo Rombai
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editoriale
1
Editoriale Emma Salizzoni*
“Turismo-paesaggio” è il binomio su cui si concentra questo numero di Ri-vista, che si propone di sondare le molteplici e sfaccettate relazioni esistenti tra i due termini e concetti. Si tratta di un binomio di costante e, se possibile, rinnovata attualità. Oggi infatti, sulla scia di un dibattito 1 internazionale innescatosi già dai primi anni Novanta , è ormai consolidata (almeno nel dibattito teorico, meno, come vedremo, nelle pratiche) la consapevolezza della ambivalenza assunta dal fenomeno turistico di massa in termini di benefici, soprattutto economici, ma anche di costi indotti - ambientali, socio-economici e 2 culturali - e dunque della necessità di prefigurare nuove forme di turismo “sostenibile”. Entro tale processo di definizione dei paradigmi teorici del turismo sostenibile, nel 2000 ha “fatto irruzione” la Convenzione Europea del Paesaggio (CEP), che ha proposto il paesaggio come elemento di considerazione essenziale entro il dibattito sulla sostenibilità dello sviluppo in genere e su quella del turismo in particolare: “the concern for sustainable development expressed at the Rio de Janeiro conference makes landscape an essential consideration in striking a balance between preserving the natural and cultural heritage as a reflection of European identity and diversity, and using it as an economic resource capable of generating employment in the context of the boom in sustainable tourism”, recita infatti l’Explanatory Report della CEP (CoE 2000, art. 36), sancendo così la crucialità del rapporto “turismo-paesaggio” e affermando in sostanza che promuovere un turismo che rispetti e valorizzi il paesaggio, nelle sue molteplici dimensioni - ecologiche, 3 sceniche, socio-economiche, identitarie - significa promuovere un turismo sostenibile “a tutto tondo” ; questo numero di Ri-Vista pertanto, attraverso la lente di analisi adottata, incentrata sul rapporto “turismopaesaggio”, sonda la più generale tematica della sostenibilità del turismo, declinata in tutta la sua complessità. La relazione “turismo-paesaggio” presenta, inoltre, caratteri di rinnovata attualità perché l’urgenza operativa che già si percepiva nelle dichiarazioni della Carta per un Turismo Sostenibile di Lanzarote (1995), oggi, lungi dall’essere sfumata, si è se possibile accentuata. Non solo a causa della crescente fragilità di un paesaggio che, almeno a livello europeo, è sempre più diffusamente soggetto ad una “erosione” dei suoi valori, indotta soprattutto da incalzanti processi di urbanizzazione e infrastrutturazione, oltre che, a livello globale, dai processi di cambiamento climatico. Ma anche perché, in questo contesto di diffusa vulnerabilità del patrimonio paesaggistico - e di evidente difficoltà nel passare da una condivisione di enunciati teorici sul “turismo sostenibile” a pratiche efficacemente implementate - il fenomeno turistico continua a crescere in modo costante, conoscendo, proprio in anni recenti, una rinnovata vitalità. Il rapporto stilato quest’anno 4 (2012) dalla World Tourism Organization (UNWTO) sulle dinamiche del fenomeno turistico nel 2011 , infatti, parla chiaro: nonostante il significativo periodo di crisi economica che ha caratterizzato e continua a caratterizzare, almeno dal 2008, diversi paesi nel contesto
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Paesaggi del turismo
mondiale, i flussi turistici internazionali sono costantemente aumentati dal 2005 ad oggi e, in particolare, l’anno 2011 ha conosciuto incrementi percentuali estremamente significativi rispetto all’anno precedente. Entro tale tendenza complessiva è proprio la regione europea - che già accoglie più della metà degli arrivi 5 internazionali - ad aver registrato l’incremento più consistente tra 2010 e 2011 . Significative anche le prospettive di lunga durata, che vedono una costante crescita dei flussi turistici internazionali sino al 2030 (secondo una media, a livello mondiale, pari a circa +3% di arrivi all’anno), in particolare nelle cosiddette “emerging economies” (come l’Asia). Nonostante dunque occasionali “shock” del mercato turistico correlati ad eventi relativamente puntuali (oltre all’ancora attuale crisi economica, si pensi all’attacco al World Trade Center del 2001), aumenta la quota di turisti nel mondo e, tra questi, oltre la metà (51%) viaggia per 6 ragioni connesse a “leisure, recreation and holidays” . Una ricerca di “leisure” che sta peraltro facendo registrare, proprio in questi anni, importanti cambiamenti: cresce infatti la componente di domanda sensibile agli aspetti ambientali-ecologici della vacanza, valutati spesso come discriminanti per la scelta della meta, e interessata alle specificità del luoghi, dunque alle risorse naturali e culturali locali. In una parola, cresce l’ecoturismo, che, per quanto non possa ancora competere con settori consolidati (ma maturi) come il turismo balneare, si presenta come “mercato in sorprendente crescita relativamente ai flussi turistici 7 mondiali” . È quindi in questo momento di ormai consolidata consapevolezza critica circa la ambivalenza del fenomeno turistico in termini di benefici-costi, di coscienza dell’urgenza operativa rispetto ad un patrimonio paesaggistico sempre più vulnerabile, e, al contempo, di significativa mutazione sociale dei comportamenti turistici, che acquista particolare necessità e senso interrogarsi sulle relazioni tra turismo e paesaggio. In termini operativi, occorre pertanto cogliere le possibilità che si stanno oggi aprendo per la definizione di nuovi turismi (nuovi sistemi di domanda e offerta) che possano contribuire a ri-declinare modalità “stanche” e non sostenibili di fruizione. La sfida ovviamente è complessa e non banale: al di là del dibattito teorico, l’obiettivo è infatti quello di rintracciare “strategie di gestione lungimiranti nell’individuazione di un equilibrio tra costi e benefici, evitando sia di divenire succubi della domanda di fruizione turistica, sia di sottovalutarla 8 come fonte di sviluppo sostenibile” ; ricercare, dunque, un equilibrio delicato tra conservazione del patrimonio paesaggistico e suo sfruttamento a fini economici, superando quello che viene comunemente 9 definito il “paradosso del turismo” , attività economica che divora le stesse risorse su cui si fonda, e evitando dunque che alla valorizzazione turistica si leghi “inevitabilmente la svalorizzazione paesistico10 ambientale” . Nel tentativo di rintracciare elementi utili per rispondere a tale sfida, questo numero di Ri-vista propone un articolato panorama di riflessioni. Si tratta di un insieme di contributi che, non a caso, presenta un alto numero di interventi nella sezione “lo (s)guardo estraneo”, in relazione ad un tema che necessita in modo particolare di uno sguardo transdisciplinare, e un numero ancor più elevato di contributi entro la sezione “paesaggi in gioco”, che riporta esperienze specifiche di implementazione di strategie per la promozione di un turismo sostenibile. In quest’ultimo caso, si tratta di uno “sbilanciamento” espressamente ricercato in
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editoriale
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relazione alla convinzione che, se a fronte della maturazione del dibattito teorico le “pratiche” - ossia le azioni effettivamente sviluppate da imprenditori, tour-operators, enti gestori in generale - per un turismo sostenibile conoscono uno sviluppo decisamente più lento e difficoltoso, risulta quindi quanto mai importante porre l’accento su esperienze di applicazione dei paradigmi del turismo sostenibile, potenziali “buone pratiche”. Il percorso “progettuale” di questo numero, che mira appunto ad individuare prospettive d’azione per la definizione di una relazione turismo-paesaggio sostenibile, non può dunque che muovere dalla constatazione degli effetti che il turismo, nella sua declinazione di fenomeno di massa, comporta per il paesaggio. Proprio a questo tema è dedicata la prima parte del contributo di Paolo Castelnovi, che segnala come il turismo di massa, il “malo turismo” - nelle sue tipiche componenti “comportamentali” di affollamento e di contrazione del tempo a disposizione del turista (“5 notti tutto compreso”) - alteri profondamente la percezione spaziale e temporale dei luoghi, sino a far sì che se ne perda la “significatività profonda”, trasformando in non-luoghi persino i paesaggi più noti (da Venezia e Parigi). Interessante peraltro verificare come tali aspetti di “malo turismo” abbiano origini solo relativamente recenti: Gabriele Corsani richiama infatti la “tirannia delle mete, dei percorsi prestabiliti” che si impone già all’inizio del XX secolo, anche a causa “dell’obbligo” rappresentato dai novelli tracciati ferroviari, che percorrono l’Italia e che, secondo Borchart (citato in Corsani), “rendono l’Italia vera inaccessibile come case di cristallo di un qualche sogno”. Parte infatti anche da qui, dallo sviluppo dei mezzi di trasporto (prima la ferrovia, poi l’automobile e l’aereo), il processo verso l’affermazione e il consolidamento del turismo di massa che avviene compiutamente dal secondo dopoguerra. Un turismo che non solo altera la percezione del paesaggio, come ricorda Castelnovi, a causa dei comportamenti dei visitatori (domanda), ma che, attraverso prepotenti processi di urbanizzazione (offerta), lo divora letteralmente, “travolgendo i segni del territorio” (Zoppi): è quello che è accaduto e continua ad accadere ad esempio in modo particolarmente evidente lungo aree fragili e “appetite” come quelle costiere euro-mediterranee, ambito di massimo sviluppo del turismo balneare a partire dagli anni Sessanta (Salizzoni), e nel nostro paese in particolare (la Versilia, come ricorda Mariella Zoppi, rappresenta un caso emblematico in tal senso). Proprio la rilettura, a quasi cinquant’anni dalla sua prima edizione, de “Il paesaggio” di Aldo Sestini - “accurata e suggestiva descrizione panoramica dell’Italia nelle sue grandi partizioni regionali” (Rombai) scritta negli anni di avvio del miracolo economico italiano, dunque proprio agli inizi del processo di “consumo” paesaggistico che ha interessato il nostro paese, causato anche dalle “spinte” turistiche - può fornire un’idea efficace, se comparata con un’osservazione dello stato attuale dei luoghi, di quale impatto abbia avuto sul paesaggio nostrano lo sviluppo travolgente del turismo di massa. Quali le prospettive d’azione dinanzi a processi come quelli citati, ancora in atto? Parola chiave, che ritorna costantemente nei contributi dei diversi autori in risposta a tale domanda, è “responsabilità”: un turismo “responsabile”, che partecipa “alle decisioni che rendono fattibile e riproducibile il piacere culturale ed estetico” (Castelnovi), e che quindi, in altri termini, “conserva l’ambiente e migliora il benessere delle popolazioni locali” (Niccolini, Marzo) può costituire la chiave per l’instaurarsi di una auspicata simbiosi mutualistica tra turismo (turisti) e paesaggio (abitanti), in un processo da cui entrambe le componenti traggono giovamento. Si tratta di una prospettiva ambiziosa, ma che può contare su tendenze
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Paesaggi del turismo
importanti. Tra queste, il già richiamato costante incremento dell’ecoturismo (interessato alle risorse naturali e culturali e produttore di benefici socio-economici nel rispetto dei valori ambientali), la cui promozione efficace tuttavia, ricordano Federico Niccolini e Daniela Marzo, non può che passare attraverso un approccio gestionale di tipo sistemico e integrato. Inoltre, la sempre maggiore diffusione di soggetti quali gli ecomusei che, grazie alla loro “attenzione alla valorizzazione diffusa del paesaggio e dell’identità locale” e alla potenziale capacità di attivare “confronti e scambi” di ordine culturale tra turisti e abitanti, possono costituire un ambito privilegiato per la promozione e diffusione di un turismo rispettoso del patrimonio locale, “generatore di nuove economie nelle quali sia forte il dato culturale” (Riva). Certo, si tratta di prospettive che fanno affidamento su una predisposizione da parte dei turisti a godere e apprezzare le risorse naturali e culturali, e dunque il paesaggio, che, nonostante la crescita di “nuovi” turismi come quello “eco”, in realtà non è così diffusa come potrebbe sembrare: ce lo ricorda Frederick Bradley, quando afferma che generalmente “il turista è attratto dalla visione eccelsa del territorio e non dal suo significato” e che “il paesaggio (…) non esiste in quanto prodotto turistico e al suo posto si conviene abitualmente collocare il panorama”. Un’azione di sensibilizzazione ai valori del paesaggio - intesi nel senso complesso definito dalla CEP - attraverso metodi divulgativi mirati risulta quindi necessaria e auspicabile per promuovere una domanda turistica sostenibile (e proponendo peraltro così il turismo come “straordinario viatico dei dettami della CEP”, Bradley). Tale azione di “disvelamento” del significato profondo del paesaggio può passare anche attraverso il ricorso alle immagini, che si propongono come potenti mezzi non solo di diffusione di conoscenza, ma anche di vera e propria “creazione” di paesaggi turistici: si vedano ad esempio le fotografie di Ansel Adams, che, come scrive Elisabetta Maino, hanno permesso il nascere e il consolidarsi dell’immagine turistica dei paesaggi del West americano; o quelle utilizzate da Luisa Bonesio per raccontare ai visitatori il valore di un luogo dimenticato come l’Ex-Sanatorio Morelli, a Sondalo. Si tratta peraltro di un processo di “disvelamento” che in molti casi può e deve essere finalizzato non solo ai visitatori (outsiders), ma anche agli abitanti (insiders), in un proficuo processo di presa di coscienza comune di valori paesaggistici sino ad allora non riconosciuti (“per ‘vedere’ – e non solo guardare – qualcosa, occorre saperla riconoscere (…)”, sostiene Bonesio). Un processo che può essere attuato, secondo Claude Raffestin, in ogni luogo: non esistono infatti, secondo l’autore, luoghi a vocazione turistica “innata”, ma, anzi, questa è frutto di un processo di costruzione che può essere attivato in ogni luogo (e che spesso, come ricorda Raffestin, risulta auspicabile in un momento di crisi in cui i territori possono trovare un importante sostegno economico nella costruzione o riscoperta di una vocazione turistica, che può anche contribuire a preservare il patrimonio materiale e immateriale locale). Tale processo di costruzione, per essere efficace, deve non solo aver ben presente i soggetti su cui poter contare (una rete di attori locali che formi “un système d’intentionnalités favorables”), ma anche scegliere adeguati mediatori culturali per la costruzione di “immagini” paesaggistiche 11 (intese qui come rappresentazioni culturali del territorio ) a fini turistici, che siano ancorate alle risorse specifiche dei luoghi, oltre che condivise dai soggetti locali. La condivisione con i soggetti locali del processo di creazione di “immagini” dei paesaggi del turismo è infatti passo di cruciale importanza, se si vogliono evitare quei conflitti tanto frequenti nei contesti turistici tra 12 abitanti e visitatori , o, con le parole di Maristella Storti, tra “paesaggi intimi”, ossia quelli vissuti
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quotidianamente dai residenti e conosciuti palmo a palmo, e “paesaggi vetrina”, aperti al mondo e alla domanda turistica. È il caso ad esempio di alcuni paesaggi viticoli iscritti al Patrimonio mondiale UNESCO, la cui “rappresentazione paesistica (simbolica e identitaria)” proposta per la candidatura è stata il frutto di una “costruzione discrezionale dell’eccezionalità” (Storti), operata da gruppi limitati di attori e non sempre compresa e condivisa dagli abitanti, anche perché spesso frutto di operazioni di selezione storica condotte con l’obiettivo di ricostruire stereotipati e poco realistici “miti fondatori” dei luoghi. È quanto è accaduto anche, ad esempio, nel caso del Chianti, “uno dei più efficaci esempi di place branding” (Pacetti), in cui processi di narrazione selettiva, che tengono scarsamente conto delle componenti sociali ed economiche locali su cui si è basata nei secoli la costruzione del paesaggio chiantigiano, hanno creato il mito della “Toscana felix” ad uso e consumo turistico, determinando sul medio termine uno snaturamento dei luoghi e conflitti tra turisti ed abitanti. Processi molto simili interessano e continuano ad interessare anche i paesaggi alpini, come ci ricorda Ugo Morelli, oggetto privilegiato di un marketing turistico che, escludendo 13 una “lettura autoctona”, ne ha stereotipizzato e standardizzato l’immagine : le conseguenze di questo ipersfruttamento commerciale sono non solo condizioni territoriali in forte contrasto con le esigenze della “vivibilità” in montagna, ma anche una “saturazione materiale e simbolica di tali paesaggi”, con effetti deterioranti che, secondo Morelli, riguardano proprio “quei fattori che sono all’origine delle capacità attrattive (…) che sostengono l’appeal turistico” (si tratta del già citato paradosso del turismo). Processi quindi potenzialmente pericolosi se portati all’eccesso e che richiedono una attenta “cura del limite oltre il quale la risorsa simbolica si satura e si degrada”. La sfida è infatti quella prima richiamata: ricercare un 14 equilibrio tra valorizzazione e sfruttamento delle risorse paesaggistiche a fini turistici , promuovendo forme di sviluppo turistico che, valorizzando le specificità locali, possano apportare benefici sia agli outsiders, sia agli insiders. In questa prospettiva, diverse sono le risposte operative messe in campo in Italia come all’estero, di cui questo numero di Ri-Vista riporta alcuni casi afferenti a diversi contesti paesaggistici. In ambito urbano, ad esempio, interessante è l’esperienza degli ecomusei urbani e in particolare quella dell’Ecomuseo Urbano Metropolitano Milano Nord, EUMM, riferita da Silvia Mascheroni e Alessandra Micoli, che contribuisce alla riscoperta dei caratteri naturali e della vocazione agricola del Nord Milano a fini fruitivi, sia per gli abitanti, sia per potenziali flussi turistici; sempre a Milano, le iniziative riportate da Antonello Boatti e Federica Zambellini, relative alla definizione dell’Area C e al progetto di riscoperta e riapertura del tracciato dei navigli, possono contribuire alla riscoperta della vocazione turistica della città, attualmente sottovalutata, offrendo “nuove opportunità per tutti”, residenti e visitatori. In ambito rurale-montano, invece, si segnala l’iniziativa, presentata da Daniela Cinti, di promozione, nel territorio della Valtiberina Toscana, di un sistema di offerta turistica fondato sulla messa in rete di risorse eccezionali (il “Sistema dei Parchi”) e ordinarie (il paesaggio rurale), al fine di promuovere una realtà territoriale sino ad oggi non percepita nella sua unitarietà: “il paesaggio (…) può così assumere, per i fruitori esterni, una qualificazione che fino ad ora non ha avuto e può diventare un’opportunità per le popolazioni della Valtiberina” (Cinti). Un caso simile di “disvelamento” delle risorse locali ai fini della proposizione di
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Paesaggi del turismo
un’offerta turistica sostenibile è quello riportato da Francesco Alberti e riguardante la “scoperta dei paesaggi del marmo” nel territorio di Carrara e delle sue cave; qui è stato impostato da diversi anni un sistematico progetto di valorizzazione turistica degli agri marmiferi, “visti come risorsa paesaggistica e culturale oltre che produttiva”, ricercando un interessante intreccio tra gli interessi locali del comportato lapideo e le “istanze concorrenti nel segno della tutela dell’ambiente, della promozione culturale, di uno sviluppo locale sostenibile da perseguire attraverso la diversificazione delle attività economiche” (Alberti). In ambito costiero – contesto che abbiamo visto essere, storicamente e attualmente, uno dei maggiormente soggetti ai fenomeni del turismo di massa – significativa è l’iniziativa intrapresa in un piccolo insediamento lungo la costa sarda, Golfo di Cagliari, dove, come racconta Giuseppe Onni, è stato lanciato un progetto di valorizzazione e riqualificazione turistica del sito, attento a garantire servizi non solo per i visitatori, ma anche per il territorio (abitanti), al fine di superare potenziali conflitti tra turisti e residenti, in un’ottica generale di sostenibilità sociale del turismo. Sempre lungo l’area costiera euro-mediterranea, inoltre, sono situati tre casi di Paesaggi Protetti di cui vengono riportate le politiche mirate alla ricerca di un difficile equilibrio tra sviluppo turistico e conservazione paesaggistica (una conservazione volta non solo alla preservazione dei valori ecologici del paesaggio, ma anche di quelli socioeconomici e identitari), ritenute utili riferimenti operativi anche per i territori costieri non protetti (Salizzoni). Interessanti, infine, le esperienze riguardanti le nuove forme di ricettività che possono sostenere la promozione di sistemi turistici sostenibili: come l’hotel-podere, adatto e promuovere la valorizzazione delle risorse paesaggistiche locali, in particolare rurali (Micarelli), o come l’albergo diffuso, modalità ricettiva già presente in diverse regioni italiane, che ripropone, per la permanenza dei turisti, “il modello abitativo rurale e dei piccoli paesi del passato” (Dall’Ara), divenendo anche strumento di riqualificazione e di presidio di paesaggi fragili, come, ad esempio, quelli montani, frequentemente soggetti a fenomeni di abbandono. Varie e sempre più diffuse, dunque, le risposte operative che, sulla base di paradigmi teorici ormai consolidati, vengono rintracciate per superare il conflitto “turismo (di massa) – paesaggio”. Certo, si tratta generalmente di esperienze, come quelle riportate in questo numero di Ri-Vista, relativamente puntuali, ancora lontane dal divenire pratica comune tra imprenditori, turisti, abitanti. Tuttavia, sono indicative della crescente affermazione, anche nel mondo delle “pratiche” (e non solo dunque in quello del dibattito teorico) di un nuovo modo di intendere il turismo - per e non più versus, o, peggio, nonostante il paesaggio - la cui implementazione richiede creatività e sforzi (gestionali e finanziari) non indifferenti, ma, è importante sottolineare, “remunerativi” non solo per il paesaggio, ma anche per il turismo.
* Dottore di ricerca in Progettazione Paesistica presso l’Università degli Studi di Firenze.
Testo acquisito dalla redazione nel mese di luglio 2012. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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Un dibattito che muove a Rio, 1992 (Earth Summit) e a Lanzarote, 1995 (World Conference on Sustainable Tourism) i primi passi ufficiali. 2 Secondo Franca Battigelli, “senza sottovalutare alcune positive ricadute ambientali a cui il turismo contribuisce, e che pure esistono (basti pensare alla difesa della qualità dell’acqua marina nelle località balneari), e comunque consapevoli che gli impatti negativi non sempre sono integralmente mutuabili ad esso - che agisce piuttosto come concausa di degrado - il bilancio globale della relazione turismo/ambiente può considerarsi nel complesso piuttosto negativo” (Battigelli F., 2007, Turismo e ambiente nelle aree costiere del Mediterraneo. Regioni a confronto, Forum Edizioni, Udine, p. 21). Oltre agli impatti ambientali, un turismo non sostenibile può comportare anche criticità di ordine socio-economico, per lo più in relazione ad una disparità nella distribuzione dei benefici indotti dall’economia turistica, a favore generalmente di soggetti esterni (turisti e imprenditori) e raramente degli abitanti, oltre che di ordine culturale-identitario (stravolgimento e banalizzazione del significato dei luoghi). 3 Sono infatti strette le relazioni esistenti tra il concetto di paesaggio e quello di sviluppo sostenibile. È in particolare riconosciuta la potenzialità del paesaggio sia come indicatore di sviluppo sostenibile (Molesti R., Il paesaggio quale sensore dello sviluppo sostenibile. Il capitale naturale e la sopravvivenza umana - Le trasformazioni del paesaggio come testimonianze dello sviluppo economico, in “Economia e Ambiente”, 1-2, 2008), sia come mezzo - o forse condizione - per raggiungerlo. Come ricorda lo stesso Preambolo della CEP, infatti, il paesaggio “svolge importanti funzioni di interesse generale” su differenti piani (“culturale, ecologico, ambientale e sociale e costituisce una risorsa favorevole all'attività economica”). Si tratta di una “multifunzionalità” tipica (e unica) del paesaggio, che fa sì che porlo al centro della pianificazione territoriale, prendersene cura, rispondendo dunque ad obiettivi di qualità paesaggistica, può portare a rispondere in modo efficace anche ai molteplici obiettivi dello sviluppo sostenibile: “(...) the fact is that by taking care of the landscape we simultaneously promote communal well-being, safeguard the environment and protect economic activity. All four ingredients of sustainable development (social, ecological, economic and cultural improvement) are thus involved here” (CoE, 2006, Landscape and sustainable development. Challenges of the European Landscape Convention, p. 11). 4 World Turism Organisation (UNWTO), Tourism Highlights, 2012. 5
Occorre tuttavia specificare che, in tale contesto di crescita, l’Italia non brilla per risultati positivi. Un recente rapporto, edito dal “Sole 24 Ore” (14 febbraio 2012), sulle dinamiche turistiche in Italia nell’anno 2011, riporta la debolezza attrattiva del nostro Paese rispetto a flussi stranieri, che nel 2011 hanno conosciuto un vero e proprio picco negativo (5,1% di pernottamenti; cresce al contrario la domanda locale, + 3,4 %, sintomo probabile della crisi economica in atto, che ha fatto esplodere un turismo “domestico”). Si tratta di dinamiche rilevate anche dal XVII Rapporto sul Turismo Italiano - Becheri E., Maggiore G. (a cura di), 2011, XVII Rapporto sul Turismo Italiano, Franco Angeli, Milano - dove viene riportato il recente, forte calo di turisti stranieri in Italia soprattutto nel comparto del turismo balneare: una vera e propria “fuga dal mare”. Per un’analisi delle cause della perdita di competitività del turismo balneare italiano, si veda anche Ferrari F., 2008, Turismo e sviluppo economico, in Fuschi F. (a cura di), “Il Mediterraneo. Geografia della complessità, Franco Angeli”, Milano. 6 Ricordiamo la definizione di “turisti”, secondo la UNWTO (http://www.unwto.org/): “Tourists are people who are travelling to and staying in places outside their usual environment for not more than one consecutive year for leisure, business and other purposes not related to the exercise of an activity remunerated from within the place visited” (tra gli “other purposes” si contano ad esempio “health” o “religion”; chiaro che la sostenibilità del turismo si gioca soprattutto rispetto alla domanda connessa al “leisure”).
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Paesaggi del turismo
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Cfr. Cannas R., 2011, Ecoturismo: scenari internazionali e marketing turistico, in Becheri E., Maggiore G. (a cura di), “XVII Rapporto sul Turismo Italiano”, Franco Angeli, Milano. 8 Cfr. Gambino R., Castelnovi P., Grasso S., Salizzoni E., Thomasset F., 2009, Trasformazione del paesaggio e sviluppo turistico nelle fasce costiere interessate da aree protette, in Calcagno Maniglio A. (a cura di), “Paesaggio costiero, sviluppo turistico sostenibile”, Gangemi Editore, Roma, 9 Cfr. Viggiani S., “Turismo e tutela del patrimonio: un conflitto irresolubile?”, 2000, in Rosi M., Jannuzzi F. (a cura di), L'area costiera mediterranea, Giannini Editore, Napoli. 10 Lanzani A., 2003, I paesaggi italiani, Meltemi editore srl, Roma, p. 122. 11
Cfr. Raffestin C., Dalla nostalgia del territorio al desiderio di paesaggio, Alinea, Firenze, 2005.
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Conflitti ad esempio correlati all’aumento dei costi degli immobili in aree turistiche, o alla competizione che si innesca inevitabilmente, in luoghi ad alta frequentazione, per l’utilizzo delle risorse naturali presenti (si pensi al fenomeno italiano di “privatizzazione” delle spiagge). Conflitti che hanno peraltro origini non recenti, se si pensa che erano già chiaramente avvertibili ad esempio al Nizza, alla fine del XIX secolo: “A livello locale vi era anche molta ambivalenza. I turisti portavano ricchezza alla città, ma essa non veniva equamente ripartita. I turisti venivano sempre per primi, si lamentavano di frequente gli abitanti del luogo, e in aprile molti di loro erano felici di vederli andare via” (Löfgren O., 2006, Storia delle vacanze, Mondadori, Milano, p. 168). 13 Secondo un processo di “messa in scena” dei caratteri “tipici” dei luoghi che ha determinato in diversi contesti italiani (si pensi al Sud Tirolo o al già citato Chianti) effetti di ipostatizzazione del paesaggio (i cosiddetti “paesaggi cartolina”) tanto preoccupanti quanto quelli di degrado (indotti ad esempio da una urbanizzazione incontrollata): “la scena è così preservata, ma il suo senso cambia radicalmente (…). La tutela del paesaggio ereditato tende a diventare piuttosto la tutela di una scenografia del turismo globale o di nuove nicchie del turismo culturale (…). I processi di tipicizzazioneipostaticizzazione-stereotipizzazione guidano le regole di trasformabilità; la riduzione a cartolina dell’immagine paesistica ne modifica radicalmente le stesse forme (…). Il formalismo economicista del marketing territoriale e delle nuove ricerche sui consumi si appropria del paesaggio-patrimonio e si sostituisce ad un approccio sostantivo e socio-antropologico al paesaggio come bene culturale (…). Un paesaggio, inizialmente tutelato come espressione di particolari modi di produrre, in poco tempo si fa essenzialmente bene di consumo” (Arturo Lanzani, 2011, In cammino nel paesaggio. Questioni di geografia e urbanistica, Roma, Carocci Editore, p. 93). 14 Per quanto infatti la stessa CEP rammenti, nel Preambolo, l’importante valore economico del paesaggio (che costituisce anche “una risorsa favorevole all'attività economica”), “il patrimonio storico e artistico della nazione non è il petrolio d’Italia”, sottolinea in questo numero Ugo Morelli.
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tra parole e saggi
Paesaggi del bel paese, dal viaggio al turismo
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The landscapes of our beautiful country, from trips to tourism
Gabriele Corsani*
abstract Dopo l’unità nazionale (1861) e il primo collegamento effettivo fra le regioni italiane assicurato dalle ferrovie a partire dal decennio successivo, si diffonde il gusto dei viaggi alla ricerca dei caratteri monumentali, paesaggistici e storici della nuova dimensione politica, con i relativi resoconti letterari che ampliano le descrizioni stabilite negli stessi decenni dagli intellettuali e artisti stranieri residenti in Italia. A questa letteratura si accompagna la diffusione di collane divulgative dedicate alle singole città, ad ambiti geografici significativi e alle regioni, significative per le descrizioni e per l’apparato iconografico. Nelle espressioni letterarie sopra citate l’attenzione al paesaggio costituisce un riferimento centrale, non destituito di relazioni con la fortuna turistica dei luoghi e con le suggestioni degli stranieri, e soprattutto non ignaro di una discendenza negli apprezzamenti e nelle modalità percettive.
abstract The link between Northern and Southern Italy was created at the beginning of the decade following the national unity (1861) with the laying of the first railway network. Italian literary reviews, reports and collections of books devoted to the discovery of the ethnographic and physical features of the new Italian Kingdom spread quickly. At the same time, journals and memories of individual trips confirmed the hints given by the relevant literature and provided new tips about the most celebrated tourist destinations which were further developed by the suggestions of the foreign writers living in Italy. In this literature, landscape descriptions depict the face of a big variety of shapes, colours and habits as well as the sense of the national belonging. This type of interpretation showed such features until the 1960s when it was overthrown by the deal of mass tourism.
parole chiave Identità nazionale, rappresentazione letteraria del paesaggio, iconografia storica del paesaggio, apprezzamento del paesaggio
key-words National identity, literary representation of landscape, historic iconography of landscape, landscape appreciation.
* Università degli Studi di Firenze, Dipartimento di Urbanistica e Pianificazione del Territorio.
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La messe di diari e note scientifiche del viaggio in Italia si arricchisce dopo l’unità con gli apporti di autori italiani che visitano il nuovo regno per scoprirne i caratteri ambientali, estetici e storici. Alberto Savinio in Epoca Risorgimento (Hermaphrodito, 1918) richiama la comparsa di alcuni segni esteriori di una prima identità nazionale, in una ricostruzione sentimentale non scevra da implicazioni paesaggistiche: “Italiano: vocabolo che assume, durante quel periodo, un fascino palpitante. Crea dei caratteri negli oggetti, nelle cose, nei tipi: - Il sigaro Virginia, lo spaccio stemmato dei Sali e Tabacchi, il maresciallo dei Carabinieri; - lato del nostro miglior pittoresco nazionale, che è e rimarrà purissimo, poiché mai figurerà nei programmi turistici dell’agenzia Cook. Libro d’oro delle cose degne d’esser vedute in the beautiful Italy” (Savinio 1981, p. 37).
È avvertibile un moto di orgoglio nella rivendicazione di quella uniformità minima eppure radicata, propria di una patria prevalentemente rurale. Savinio vi contrappone l’Italia urbana reclamizzata dalle agenzie turistiche straniere, aduse al culto del riduzionismo stabilizzato di ‘culle dell’arte’, belleviste oleografiche e pittoresco stereotipato. Si presentano qui le principali tappe della diffusione della conoscenza e del gusto per i paesaggi della nuova Italia dagli anni postunitari fino alla metà del Novecento, sia attraverso le collane editoriali di ambito nazionale, per lo più a larga o larghissima diffusione, sia attraverso le testimonianze letterarie sull’apprezzamento di alcuni di quei paesaggi, con attenzione alla individuazione delle mete e alle eventuali influenze che essa può avere avuto sul più vasto ambito del turismo.
Paesaggi del bel paese, dal viaggio al turismo
Rispetto a “viaggio” - tradizionale elezione di mete per una ricerca antropologica, storica, estetica, letteraria o per il desiderio antico di “sfogare il cuore” attraverso tutte le metafore dell’itinerario – “turismo” è abbastanza recente anche come lemma. Alfredo Panzini nella edizione del 1905 del suo dizionario avverte che si tratta di un “neologismo che, per quanto spiacenti, i dizionari dovranno accogliere” (Turismo, in Grande Dizionario della Lingua Italiana, vol. XXI, 2002, 464). Ed esisteva già, anche se con scarsa diffusione, il termine “torista” con una prima comparsa nel 1837 – “turba di toristi britannici”, nel periodico “L’annotatore piemontese” registrata dal Grande Dizionario della Lingua Italiana (ibidem). Ben oltre l’accoglimento lessicale avallato obtorto collo da Panzini, nel Novecento il turismo si è affermato con varie aggettivazioni: domenicale, sociale ovvero societario, culturale, di massa. Si è sviluppato in anni recenti il turismo “responsabile”, o “sostenibile” con richiamo ai concetti ecologici ed economici della sostenibilità: versione aggiornata del turismo culturale e di più complessa definizione ma ugualmente legato per via elettiva al piccolo gruppo, ove la ridotta dimensione è definita non dal censo ma dal rapporto che si stabilisce con monumenti e luoghi. Il turismo responsabile e/o sostenibile, che si lega a pratiche e mode recenti come la riscoperta degli itinerari storici e delle loro implicazioni paesaggistiche, sembra poter fondare un rapporto realmente vivificatore fra visitatori, luoghi e comunità che li abitano. Quanto al turismo internazionale, le chiavi interpretative stabilite da Ruskin e dai letterati e artisti per lo più francesi, inglesi, tedeschi e statunitensi che popolano dalla fine dell’Ottocento i luoghi deputati della penisola, da Venezia a
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Firenze, da Roma a Napoli alla Sicilia con scoperte e ri-scoperte eccellenti, si erano ridotte a standard da grand tour in sedicesimo - più propriamente in ventiquattresimo - ben prima della kermesse attuale che le ha definitivamente obliterate. I primi viaggiatori-turisti stranieri ora detti hanno avuto un ruolo non trascurabile nei processi di apprezzamento delle località da loro elette. Se i loro scritti non erano conosciuti in Italia perché editi nelle rispettive patrie e lingue, la continuata presenza fisica nei luoghi di elezione e l’opera dei loro allievi hanno avuto un effetto diretto per la valorizzazione del nostro patrimonio storicoartistico. Oggi le ultime vestigia di questo humus sono relegate nelle lapidi commemorative (alcune a dir vero assai recenti) e nelle più attente guide turistiche, la cui lettura è ormai praticata da pochi “viaggiatori”. Registriamo tre casi di tempestive traduzioni in italiano di opere importanti per la percezione del paesaggio. La prima, L’uomo e la natura di John Perkins Marsh, compare a Firenze presso l’editore Barbèra nel 1870, da Man and Nature (New York, 1864); la seconda e la terza, Storia di un ruscello e Storia di una montagna, due auree operette di Elisée Reclus, sono pubblicate dall’editore Brigola di Milano nel 1885 (numerose traduzioni e ristampe compaiono fino agli anni Trenta e poi ai giorni nostri) da Historie d’un ruisseau (Paris, 1869) e Histoire d’une montagne (Paris, 1882). La prima impresa editoriale che si propone di descrivere e illustrare la nuova patria è la collana a dispense Le Cento Città d’Italia, pubblicate fra il 1871 e il 1872 con il sottotitolo Descrizione storica, politica, geografica, commerciale, religiosa, militare, curata da Ariodante Manfredi per l’editore Bestetti di Milano. Nella selezione proposta La città
tra parole e saggi
come principio ideale delle storie italiane (Cattaneo 1972, pp. 7-47) dispiega dal nord al sud una cospicua trama indagata nei suoi caratteri storici e contemporanei, senza dimenticare le implicazioni militari della localizzazione. Un ruolo insostituibile nel diffondere la conoscenza mediante la visita diretta delle singolarità naturali e artistiche d’Italia si deve alla fondazione di due sodalizi tuttora esistenti, il Club Alpino Italiano (CAI, 1863) e il Touring Club Italiano (TCI, 1894) che deriva dal Touring Club Ciclistico Italiano (TCCI), inteso a promuove il turismo ciclistico sul modello dell’analoga associazione nata in Inghilterra nel 1878. Il TCCI pubblica prontamente una assai nutrita serie di profili altimetrici e di “cartine panoramiche” in scala 1:125.000 (cm 75 x 21) dedicate a itinerari con distanze relativamente limitate e percorsi collinari o montani, da Tenda – Cuneo a Firenze - Siena, da Arsoli – Tivoli – Roma a Lagonegro – Eboli. Alle “cartine panoramiche”, che hanno una implicita valenza paesaggistica per l’accurata resa orografica, si accompagnano le guide regionali per il turismo ciclistico (la prima, dedicata alla Lombardia, esce nel 1897). Seguono ancora, a cura del TCI, le notissime guide delle regioni e delle città con i loro dintorni, diffuse in innumerevoli edizioni e ristampe, caratterizzate dalla ampiezza delle informazioni e da pertinenti apprezzamenti paesaggistici. Una componente apprezzata di queste guide è data dalle piccole e chiarissime planimetrie urbane. La fortuna del CAI e del TCI si deve anche alla diffusione dei rispettivi periodici. Nel 1868 compare il “Bollettino del Club Alpino Italiano”; nel 1895 la “Rivista mensile del TCI”, che dal 1917 al 1968, con il nome “Le Vie d’Italia”, è stata l’organo nazionale di promozione turistica più diffuso. Fra i sodalizi dedicati alla salvaguardia e alla promozione
del paesaggio spicca la “Associazione nazionale pei paesaggi e i monumenti pittoreschi d’Italia”, istituita a Bologna nel 1906, che nel 1913 confluisce nel TCI in cui sorge il “Comitato nazionale dei siti e dei monumenti pittoreschi”, presieduto dall’onorevole Luigi Rava (Parpagliolo 1923, p. 25 e sgg.). Ugualmente intitolata Le Cento Città d’Italia, è una seconda collana di dispense come supplemento mensile gratuito per gli abbonati de “Il Secolo d’Italia” di Milano, dall’inizio del 1887 al 1902. Le dispense, poco meno di meno di duecento, hanno un apparato iconografico cospicuo, formato da incisioni in legno ricavate da fotografie, rappresentative dei quadri urbani che saranno tramandati come icone delle singole città. A Firenze è dedicata la quinta dispensa e una delle ultime, la centottantanovesima (settembre 1902), con quattro pagine anziché le consuete otto, relativa a Firenze dal 1887 ad oggi. L’immagine rappresentativa della modernità è la nuova e mal riuscita piazza Vittorio Emanuele ricavata dalla distruzione del centro antico, ripresa con il monumento equestre del re sullo sfondo dell’arcone verso Via Strozzi. Altri segni minori della modernità fiorentina sono rappresentati nelle piccole foto dell’ultima pagina con i nuovi monumenti scultorei dedicati a personaggi contemporanei. Si nota la bella statua di Daniele Manin in Piazza Ognissanti, dello scultore veneziano Urbano Nono, rimossa nella seconda metà degli anni Trenta perché Manin era ebreo e confinata nel piazzale Galilei lungo il Viale dei Colli, sostituita dall’Ercole che strozza il leone di Romano Romanelli. La Collezione di monografie illustrate – Serie Italia Artistica, diretta da Corrado Ricci per le edizioni dell’Istituto Italiano di Arti Grafiche di Bergamo, apporta una nota innovativa dovuta alla grande
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personalità del curatore, che è anche autore della prima monografia dedicata alla sua città natale, Ravenna (1902), oltre che di Volterra (1905) e de La Repubblica di San Marino (1906). Precoce archeologo e brillante direttore di musei, Ricci orienta le numerose monografie, dedicate a una città, a una zona geograficamente individuata o a una città e al suo territorio, con una sintesi organica che ne unisce gli aspetti storico- artistici e naturalistici, dalle arti minori alla pittura, all’architettura ai quadri urbani e al paesaggio naturale. Quest’ultimo è rappresentato con sicura intelligenza della forma del territorio quale presupposto fisico della sua storia, al di là di ogni determinismo. La Collezione di Ricci si distingue fra l’altro per l’eccellente livello degli autori, fra cui citiamo Pompeo Molmenti (Venezia), Arturo Jahn Rusconi (Siena), Guido Carocci (Il Valdarno da Firenze al mare), Arduino Colasanti (L’Aniene), Salvatore Di Giacomo (Napoli, parte I), Diego Angeli (Roma, parte I), Nello Tarchiani (Firenze). Ancora con il titolo Le cento città d’Italia, fra il 1924 e il 1929 la casa editrice Sonzogno pubblica una collana che sarà definitiva e che raggiunge il numero di trecento fascicoli illustrati, confermando l’assoluta prevalenza dei piccoli centri urbani nella nostra penisola. Le numerose illustrazioni fotografiche delle dispense fissano l’immagine del patrimonio storico secondo canoni estetici e criteri omogenei che rimarranno quelli consumati dal turismo, anche oltre le distruzioni della seconda guerra mondiale. Altra impresa editoriale di rilievo è la collana Italia (negli scrittori italiani e stranieri), formata da monografie regionali promossa da Luigi Parpagliolo, cospicua figura di giurista, di scrittore e di illuminato funzionario della Direzione per le Antichità e Belle Arti del Ministero della Pubblica
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Istruzione dal 1900 agli anni Quaranta, che ha un ruolo rilevante nella nascita delle leggi sulla protezione del paesaggio ed è autore di studi di grande pregio. La collana di cui è autore unico prevedeva sedici monografie regionali e quattro monografie urbane dedicate a Roma, Firenze, Venezia e Napoli. Avviata nel 1928 con i tipi dell’editore romano Luciano Morpurgo, la collana pubblica sei monografie fino al 1941 (Lazio, Lombardia, Campania, Toscana, Roma, Sicilia); nel 1951 esce l’unico volume del dopoguerra, Calabria. I bei volumi in ottavo grande sono composti da passi di autori in gran parte contemporanei, con apposite traduzioni dalle edizioni originali di quelli stranieri, alternati a un apparato di sessanta immagini fotografiche (salvo pochissime incisioni) che offre un complemento assai godibile; si alternano, nei passi letterari e nelle foto, monumenti celebri e scorci campestri. Notiamo che fra gli autori del volume sulla Toscana (1932) non compare John Ruskin. L’attività di promozione e di valorizzazione delle mete turistiche si avvale dal 1919 dell’Ente Nazionale per l’incremento delle Industri Turistiche (ENIT) che, per lo più in collaborazione con le Ferrovie dello Stato, è autore di numerose pubblicazioni; ricordiamo l’impegnativa collana “Documentari fotografici delle Provincie d’Italia”, della quale risulta che sia comparso solo il volume dedicato a L’Aquila (1932). Ancora il TCI, dal 1932 al 1936, pubblica la Guida pratica ai luoghi di soggiorno e di cura d’Italia, formata da volumi in sedicesimo ad album, composta da cinque parti in sei volumi: Stazioni al Mare (due volumi; comprendono anche quelle di Rodi e della Libia), Stazioni Alpine, Stazioni dell’Appennino, Stazioni sui Laghi, Stazioni Idrominerali, con un ricco apparato iconografico di
Paesaggi del bel paese, dal viaggio al turismo
paesaggi incantati. La più compiuta iniziativa editoriale del TCI degli anni Trenta è la collana “Attraverso l’Italia, Illustrazione delle regioni italiane”, con i bei volumi in quarto dalla copertina color carta zucchero, composti da una breve introduzione e da centinaia di efficaci immagini fotografiche con ampie didascalie. Alla fine del decennio l’ente muta il nome in Consociazione Turistica Italiana (CTI), per la campagna di depurazione della “lingua nostra” dalle parole straniere. Alle collane, alle raccolte e ai periodici sopra accennati si accompagna un numero consistente di libri nati da viaggi episodici di letterati e di artisti, che hanno un impatto non incisivo per la diffusione limitata e per l’impostazione intellettuale ma che sono comunque indicativi di preferenze e suggestioni che non restano mai prive di conseguenze, come abbiamo osservato per i testi stranieri. Soprattutto hanno avuto il compito prezioso di descrivere e di apprezzare la bellezza dei paesaggi rurali che a noi appare intatta e la vecchiezza povera e decadente dei centri urbani, con la capacità di coglierne aspetti ed emozioni prive di componenti oleografiche o banalmente impressionistiche. Attraverso parametri quali estraneità e radicamento, apertura e pregiudizio, lontananza e vicinanza, che si sono mantenuti in termini analoghi fino alla metà del Novecento, le descrizioni si fanno lucide testimonianze della maniera in cui quel paesaggio e quel luogo erano vissuti. Per un orientamento in questa letteratura di viaggio, che commentiamo in alcuni esempi, ci riferiamo ove possibile al rapporto fra i mezzi di trasporto usati dai viaggiatori e la percezione del paesaggio. Ai primi viaggi compiuti in treno si affiancano quelli dovuti alla diffusione della
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bicicletta e poi dell’automobile, che implicano modi peculiari di visione del paesaggio, dell’arrivo nelle città, ecc., in una successione che seguiremo nel presentare i nostri testi. Consideriamo anzitutto una categoria di “itinerari spirituali” propriamente detti, cioè mentali, di cui sono prototipo e forse unico esempio le liriche de Le città del silenzio di D’Annunzio in Elettra (1904), che presentano una parte dell’eredità urbana d’Italia attraverso il contrasto fra la gloria passata e la contemporaneità avulsa dal flusso del moderno. Le memorie medievali e rinascimentali sono richiamate con sontuosa ridondanza ma non mancano, per cenni, illuminanti rispondenze fra quelle storie e la forma urbana. In Prato affiora un ricordo del periodo di studio lì trascorso dall’autore: “O lapidoso letto del Bisenzio / ove cercai le sìlici focaie / vigilato dal triste pedagogo, // camminando in disparte ed in silenzio, / mentre l’anima come le tue ghiaie / faceasi dura a frangere ogni giogo” (D’Annunzio 1939, p. 170). Uno dei primi libri dedicati a un percorso per l’Italia dopo il 1861, I discorsi del tempo in un viaggio in Italia, opera del filosofo e pedagogista toscano Augusto Conti, nasce anch’esso come viaggio immaginario, da Sorrento a Livorno via mare e da lì a Firenze e alle città del nord Italia, con ritorno a Sorrento; i due protagonisti, un Sorrentino e un Samminiatese (Conti era nato a San Miniato al Tedesco), oltre a numerosi altri attori non meno immaginari animano le “novelle e piccoli drammi” (Conti 1867, p. 1) su temi etici, politici, religiosi. Nei capitoli, intitolati Ricreazioni, ogni città è connotata da una virtù civile: la prima è Firenze o il Dubbio; segue Bologna, o gli effetti del Dubbio, fino a Milano o lo Stato, Torino o la Patria, Genova o la Casa. I virtuosi e non peregrini accostamenti versione avveduta della tradizionale connotazione
tra parole e saggi
delle città attraverso caratterizzazioni ed epiteti bizzarri - vorrebbero essere sorretti da riscontri nella struttura urbana ma le descrizioni di monumenti e paesaggi sono pochissime e manierate. La prima monografia dedicata agli aspetti fisici dell’Italia senza sovrastrutture ideologiche compare nello stesso decennio. Con un equivalente del noto aforisma di Massimo D’Azeglio – “Abbiamo fatto l’Italia, si tratta adesso di fare gli italiani” – il sacerdote rosminiano Antonio Stoppani, geologo, paleontologo e letterato di vaglia, si propone di descrivere com’è fatta l’Italia infine unita. Il Bel Paese. Conversazioni sulle bellezze naturali la geologia e la geografia fisica d’Italia, pubblicato nel 1876 e ristampato innumerevoli volte (nel 1915 presso lo stesso editore milanese del 1876 compare la “94.a edizione economica”), è la prima descrizione dei tratti salienti del sostrato geomorfologico della penisola. Nella condivisione di appassionata competenza naturalistica e status di chierico Stoppani si inserisce in una tradizione illustre, vivace in Inghilterra da Thomas Burnett a Hugh Miller (ricordato da Lewis Mumford ne The City in History) e in Italia, dal gesuita Lazzaro Spallanzani a don Alessio Amighetti, che ebbe Stoppani come mentore. Ugualmente radicato come genere – e caratterizzato da una fiorente tradizione italiana, come abbiamo accennato – è il resoconto di viaggi scientifici, che fino dal Settecento ha esempi illustri e generosi di descrizioni paesaggistiche, fra cui ricordo le Relazioni d’alcuni viaggi fatti in diverse parti della Toscana per osservare le produzioni naturali, e gli antichi monumenti di essa (in dodici volumi; 17511779) di Giovanni Targioni Tozzetti, il Viaggio alle due Sicilie e in alcune parti dell’Appennino dello
stesso Spallanzani (in sei volumi; 1792-1797), i testi dei naturalisti sulla Toscana (Rodolico 1945). Non ci sono concessioni agli aspetti storici e artistici nel libro di Stoppani: l’Italia appare una terra incantata di memorie naturalistiche venerabili, mentre l’impianto della narrazione impostato sul racconto fatto da uno zio ai suoi nipoti contribuisce ad alleggerire le parti più pesanti. Nel sottotitolo l’espressione ‘bellezze naturali’, che sarà ripresa dalle leggi di tutela del patrimonio storico artistico del 1922 e del 1939, fa una precoce comparsa riferita alle componenti geomorfologiche del paesaggio. Attraverso questo diretto richiamo le molteplici singolarità fisiche, sottratte alla mera dimensione del bizzarro e del pittoresco, sono ricondotte a una estetica comunitaria, cioè condivisa, dei fasti della antica tellus sancita infine come patria politica. Uno dei primi diari legati esplicitamente a un ampio viaggio ferroviario, da Napoli a Taranto, è Un mese in ferrovia, in Laghi monti e caverne, di Aurelia Cimino Folliero De Luna, vivace giornalista, scrittrice e riformatrice sociale. Le descrizioni di paesaggi, non immuni da sfumature di bon ton, formano una bella sequenza di piani nel percorso da Bari a Taranto: “Da Bari a Taranto vi sono circa 4 ore di ferrovia. La strada monotona fino a San Basilio, incomincia ad animarsi a questa stazione con l’apparire dei monti. Da Castellamare la vista si estende sul più vasto e ameno panorama che sogni fantasia di pittore. La pianura vastissima declina a dritta per gran distanza con smaglianti tinte di vegetazione; qui folti boschetti, là pasture e greggi, orti, giardini e spessi filari di ulivi a perdita di vista, in fondo qua e là un fabbricato bianchissimo in mezzo agli alberi, che in così grande distanza scambieresti per una nuvola di vapori che s’innalzi dalla terra. A sinistra poi, monti erbosi e
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scoscesi, gole profonde, burroni e roccie scheggiate, e lontano lontano, quando le colline si aprono, una schiera di picchi, aghiferi o rotondi, sentinelle avanzate di nuovi orizzonti, tra cui talvolta ti pare di intravedere in alto un paesello simile a nido di un’aquila. (…) Man mano che ci avanziamo, la pianura diminuisce, si rinserra, fra i pallidi ulivi si vedono le acque rifrangere i raggi del sole, e finalmente apparire l’imponente golfo di Taranto, col faro sulla lunghissima lingua di terra che lo chiude in semicerchio, ed a dritta l’altro faro sull’isoletta San Pietro” (Cimino Folliero De Luna 1880, p. 44).
Tra il 1882 e il 1886, per i tipi della Libreria editrice Felice Paggi di Firenze compaiono i tre volumi de Il viaggio per l’Italia di Giannettino di Carlo Collodi, che nel 1883 pubblica con lo stesso editore la versione definitiva de Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino. I tre volumi sono dedicati a L’Italia superiore (1882), L’Italia centrale (1883) e L’Italia meridionale (1886) e saranno riuniti in volume unico dall’editore fiorentino Bemporad nel 1918. I racconti dell’irrequieto adolescente Giannettino a un gruppo di amici hanno una notevole fortuna editoriale, anche se non paragonabile a quella di Stoppani. La scrittura ha un carattere frammentario e impressionistico anche l’episodio di un povero bambino di Udine che chiede l’elemosina è solo il pretesto per un saggio di dialetto friulano – inteso a fornire una miniera di notizie con l’immediatezza dell’aneddoto e con la preoccupazione di non trascurare alcun angolo dell’Italia. Rudolf Borchardt, appassionato “giardiniere” e interprete tedesco di città e paesaggi italiani che vive in Toscana dall’inizio del Novecento, in
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Volterra (1935) descrive il modo di arrivare a Volterra fino ai primi del Novecento, quando la carrozza affrontava il tratto dalla stazione ferroviaria di Saline, la più vicina alla città prima che il treno vi arrivasse direttamente all’inizio degli anni Dieci. La parte più direttamente legata alla descrizione dei paesaggi riguarda l’esempio di un robusto viaggiatore che, col favore del sole d’aprile, sceso dal treno lascia i bagagli sul “legno” e decide di percorrere la via fino a Volterra a piedi per scorciatoie, in una natura impervia e scabra, finché “dapprima incerta, poi più distinta, vede alzarsi sullo sterpame una ruina pietrosa; considera un attimo di quanto allunga il cammino, poi salta sul pietrisco tenendosi ancora un po’ verso monte, e nel rigoglio del verde primaverile si trova di fronte a mura ciclopiche” (Borchardt 1989, p. 114). La lenta ascensione offre splendidi paesaggi lontani, poi la città appare improvvisa, paesaggio ravvicinato di indomita forza che si sprigiona dagli enormi macigni commessi senza muratura, aspra bellezza che con-fonde i tempi della natura e della storia. Nel saggio Villa (1907) Borchardt richiama la percorrenza a bassa velocità sulle strade antiche, con l’agio della sosta, del tempo confacente alla meta e alla sedimentazione delle impressioni e che sono connesse al paesaggio aperto e urbano da rapporti organici. Di contro il percorso ferroviario è privo di relazione concrete con i luoghi: “L’Italia dei nostri avi, da quando le ferrovie l’hanno resa inaccessibile, è diventata, come tutti sanno, uno dei paesi più sconosciuti d’Europa” (ivi, p. 23). Alla tirannia dei percorsi prestabiliti si accompagnano altre difficoltà per la comprensione di ciò che si visita e Borchardt esprime la
Paesaggi del bel paese, dal viaggio al turismo
“compassione che proviamo per l’odierno viaggiatore, il quale resta tagliato fuori dalla realtà viva del paese a causa di tutta una congiura di amministrazioni ferroviarie, di albergatori tedeschi e svizzeri, di industrie turistiche, località turistiche, guide turistiche, prima fra tutte il Baedeker, e, costretto al ritorno da un biglietto valido in genere per un periodo di tempo assai limitato prima ancora che in lui possano sorgere anche solo dei dubbi sulla giustezza delle sue impressioni, riesce a portare a casa, invece, di quel profondo mutamento nel pensare e nel sentire vissuto da Goethe, nient’altro che ricordi di gallerie, tedio e una indigestione. Intanto, a un tiro di sasso dalla ferrovia che trascina lontano il viaggiatore a metà riluttante, si trova, dietro a un muro come per incanto trasparente, a lui negata, l’Italia vera, inaccessibile come le case di cristallo di un qualche sogno” (ivi, pp. 25-26).
Il giudizio di Borchardt resta ignoto in Italia e non ha alcuna influenza sulla formazione del gusto per il paesaggio da parte dei turisti. Si cita, ripetiamo, perché coglie aspetti rilevanti delle abitudini indotte dalla diffusione del turismo, come la tirannia delle mete, che si impone oggi non solo per l’obbligo dei tracciati ferroviari. La rete ferroviaria italiana, che dieci anni dopo l’unità superava i settemila chilometri, costituisce un assoluto progresso (Giuntini 2001). Il treno, oltre alla prima unificazione del paese, opera cambiamenti di rilievo nella percezione del paesaggio e dà origine a nuove forme insediative, le tipiche espansioni in piano delle città in collina, da Carrara, a San Miniato al Tedesco a Orvieto, innescando ufficialmente il gusto della contemplazione dello skyline del centro urbano in cima al colle, invertendo il panorama consueto verso la piana che caratterizzava ab antiquo il privilegio ora decaduto del colle.
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Ancora in Hermafrodito, nei capitoli La partenza dell’Argonauta, il soldato Savinio negli anni della grande guerra descrive il paesaggio visto dal treno nel trasferimento con un ansimante convoglio da Ferrara a Taranto, ove si imbarcherà per Salonicco. In una delle prime tappe, Ravenna, l’autore richiama la potenza evocativa del nome dei luoghi, che ha in Proust un paradigma ineguagliato (All’ombra delle fanciulle in fiore – Parte seconda – Nomi di paese: il Paese) e banalizza beffardamente quell’aura, già incrinata dal “chioschetto”, con un trito frammento di vita: “Finalmente ci fermiamo davanti a una stazione bassa e floreale. Nel centro della parete mezzana le piante, convenientemente potate, lasciano a nudo un quadrato di pietra su cui leggo il nome di Ravenna scritto con lettere turchine. Questo mio viaggio rinfresca straordinariamente le mie facoltà emotive. L’Italia barbara, l’Esarcato e il chioschetto di pietra ove dorme il nostro Poeta mi lampeggiano nella mente, e balzo sul terrazzino. Vedo un tenente-colonnello – di quegli anziani con i gambali logori e la giubba dimessa – che stringe la mano a un prete il quale regge un fagottino rosso e una pollastra legata per le zampe. Il prete sale in una carrozza di terza, e il treno riparte lungo la pineta” (Savinio 1981, pp. 148-149).
Una vera impresa, fisica prima che editoriale, compiuta prevalentemente in treno, è quella di Vittorio Alinari (fig. 1) che nel 1921, per il sesto centenario della morte di Dante Alighieri, aggiunge alla bibliografia delle celebrazioni un volume singolare. Membro della famiglia che dal 1852 aveva prodotto un celebre repertorio fotografico l’immagine del patrimonio artistico e monumentale italiano, Vittorio, censito ogni toponimo italiano della Divina Commedia, cura una raccolta
tra parole e saggi
fotografica di quei luoghi, che in buona parte fotografa direttamente. Nasce così il Paesaggio Italico della Divina Commedia, regesto di oltre duecento immagini (insieme a poche incisioni) che
Figura 1. Alinari V. 1921, copertina.
squaderna una vera e propria armatura paesaggistica della penisola per l’inclusione dei luoghi in un capolavoro letterario che è anche una summa della cultura geografia medievale. Le fotografie, ordinate per cantica e per canti e accompagnate dai versi in cui i luoghi sono evocati, al di là della loro bellezza mostrano una facies dei luoghi non urbani meno cambiata in sei secoli che in quello, ancora incompiuto, che ci separa da loro. Ancora un viaggio che presuppone il treno per le grandi distanze, ma contempla anche l’alternativa della “rotabile” per gli spostamenti a breve raggio, è Paesaggi d’Italia (fig. 2) di Camelia Fravolini (1925). Le mete – Le grotte di Postumia, Aquileia, Superga, Canossa, Carrara, L’Elba, Terni, Assisi, Capri, Castel del Monte, La Sila, Monte San Giuliano – sono interessanti per l’unione fra glorie antiche, memorie patriottiche, attenzione alle ricchezze minerarie e al loro sfruttamento, sempre con l’apprezzamento della bellezza dei luoghi. Quest’ultimo aspetto è reso dalla scrittrice con una vena discorsiva infarcita di frequenti digressioni storiche ma non priva di apprezzabili squarci descrittivi. Un diffuso contributo alla conoscenza delle città e dei paesaggi suburbani si deve ai treni popolari di terza classe promossi dal fascismo all’inizio degli anni Trenta per favorire con notevoli riduzioni della tariffa le gite familiari della domenica. La loro gestione era affidata all’Opera Nazionale Dopolavoro (OND) e la “littorina”, automotrice termica coeva, è stata il vettore ideale di questo turismo. Ne ricordiamo la fuggevole comparsa come treno per i pendolari in uno struggente contesto di periferia romana, proposta da Cronache dell’urbanistica italiana (Giancarlo De Carlo, Carlo Doglio, Ludovico Quaroni, Elio Vittorini), il primo
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dei tre film sull’urbanistica italiana presentati alla Triennale di Milano del 1954.
Figura 2. Fravolini C. 1925, copertina.
La bicicletta conosce una partecipata epopea nella società italiana, come testimonia il TCCI sopra
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ricordato. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento il quieto mezzo di locomozione è esaltato da letterati come Federigo Tozzi, Alfredo Panzini (La lanterna di Diogene, 1907) e Giovanni Pascoli; dalla sua lirica La bicicletta, dei Canti di Castelvecchio, riportiamo l’ultima strofa: “Mia terra, mia labile strada, / sei tu che trascorri o son io? / Che importa? Ch’io venga o tu vada, / non è che un addio! / Ma bello è quest’impeto d’ala, / ma grata è l’ebbrezza del giorno. / Pur dolce è il riposo... Già cala la notte: io ritorno. / La piccola lampada brilla / per mezzo all’oscura città. / Più lenta la piccola squilla / dà un palpito, e va... / dlin... dlin...”
Ove risalta la fascinosa pienezza del giorno, propizia all’andare, contrapposta al lento ritorno nella città notturna, “oscura” ma illuminata dalla “piccola lampada” della poesia e rallegrata dal lieve palpito del campanello. Alfredo Oriani è autore del racconto Sul pedale, diario dell’escursione ciclistica dell’estate del 1897 da Faenza in Toscana e ritorno: “andrò per Forlì a Santa Sofia, valicherò la doppia giogaia dell’Appennino al Carnaio e a Mandriole, salirò ai conventi della Verna e di Camaldoli, e poi da Poppi a Siena, da Siena a Pisa, da Pisa alla Collina, dalla Collina a Bologna e da Bologna a Faenza. Coprirò così un migliaio di chilometri in dieci o dodici giorni …” (Oriani 1918, pp. 221-222). Il frammento sulla via Emilia è un cammeo: “La via Emilia mi è apparsa dinanzi larga, dritta, bianca, polverosa: il sole vi cadeva acciecante, non una bava di vento: silenzio nei campi tutti coperti di sole, giacché le ombre stavano ancora rannicchiate sotto gli alberi. Per la strada, lungo i margini, veniva qualche figura lontana” (ivi, p. 221).
Paesaggi del bel paese, dal viaggio al turismo
La rappresentazione dei paesaggi appenninici ha passi di rilievo per il loro apprezzamento a bassa velocità, o addirittura a piedi nelle salite più ardue: “A mano a mano la luce sembra purificarsi e il silenzio diventa maestoso: appaiono le prime roccie tagliate nei fianchi dalla strada, poi boschi di abeti ed altre roccie e prati senza una casa: appena qua e là, lontano, un fumo diafano e azzurrino sale da una carbonaia, non un rintocco di campanaccio, non un muggito di vacca. È l’ora del meriggio acciecante ed inerte nella propria vampa. Solamente un falco disegna al di sopra dei monti larghe e pigre ruote colle ali che sembrano incendiarsi alle punte, ma il suo strido sottile si perde nel sereno” (ivi, p. 234).
Nonostante l’interesse generale del racconto, i passi descrittivi sono brevi, immersi in digressioni aneddotiche, memorie, incontri con gli abitanti delle campagne e dei borghi. Partecipe della loro vita e della loro esclusione da più ampi orizzonti economici e comunitari e non privo di ironia, Oriani cede non di rado a pesanti fantasie storicistiche ispirate soprattutto dai paesaggi urbani, con affermazioni – “Siena è morta” (ivi, p. 268); “dov’è Pisa?” (ivi, p. 276) – non riscattate dalla poesia, come avviene per le dannunziane “città del silenzio”. L’aereo non ha un ruolo specifico nella diffusione dell’apprezzamento del paesaggio, data la sua diffusione estremamente limitata come mezzo da diporto. Sono quindi rare le testimonianze di visioni aeree, limitate a poche immagini che dagli anni Trenta compaiono in alcuni repertori sopra citati.
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Figura 3. Marinetti F.T. 1931, copertina.
Una positiva eccezione è presentata da Il paesaggio e l'estetica futurista della macchina di Filippo Tommaso Martinetti (fig. 3), uno dei piccoli
tra parole e saggi
volumi della collana Visioni spirituali d’Italia curata da Jolanda De Blasi all’inizio degli anni Trenta per il Lyceum di Firenze, composta da cinquanta agili monografie affidate a letterati, artisti e poeti, con temi urbani (S. Benco, Trieste; G. Papini, Firenze), regionali (G. Deledda, Sardegna; A. Panzini, Romagna), percorsi sentimentali (I. De Blasi, Itinerari amorosi d’Italia), ecc. Ci soffermiamo anzitutto su una affermazione generale di Marinetti: “Quando, venti anni fa, armati di una passione ardente, sognammo di svecchiare ringiovanire l’Italia (…) sognammo anche di vederla, snella e rinnovata, svincolarsi dalla concezione turistica dei forestieri indispensabili” (Marinetti 1931, p. 11). L’ultima espressione sottende o può sottendere un apprezzamento delle bellezze patrie che si vorrebbe sottrarre al turismo standardizzato. Si apprezza qui una vivacità rispetto a Vincenzo Cardarelli che, in una riflessione sul paesaggio urbano di Roma, richiamato il Seicento e in particolare le invenzioni zoomorfe delle fontane di Bernini, afferma: “Viene poi, a distanza d’un secolo, Fontana di Trevi, che sarebbe come dire le cascate del Niagara in una piazzetta o l’oceano in uno scrigno. Qui possono ricrearsi gli amatori del paesaggio. Coloro che sentono il bisogno di alberi li troveranno scolpiti su quelle finte rocce, assai più vive e freschi, per esempio, delle palme di piazza di Spagna, che hanno il grave torto di ricordarci, in quella zona sacra al turismo, i paesaggi artificiali e alberghieri della Costa Azzurra” (Cardarelli 1939, pp. 63-64).
Se la citazione di Marinetti è impregnata di suggestioni campaniliste e di memorie del primo futurismo – l’opuscolo di Giovanni Papini Il mio futurismo stigmatizza con toni scomposti
l’atteggiamento servile della città nei confronti del turismo (Papini 1914) – risulta più pertinente della rivendicazione di una presunta aura purista per Piazza di Spagna rivendicata in nome del turismo. La cifra de Il paesaggio e l'estetica futurista della macchina, dicevamo, sta nella descrizione de Il paesaggio italiano sintetizzato dalla velocità, nel Paesaggio italiano degli aeropittori futuristi, mentre i capitoletti - Le prospettive aeree del paesaggio italiano e Il paesaggio aereo policentrico presentano direttamente l’interpretazione del paesaggio dall’aeroplano: “Noi futuristi dichiariamo che il principio delle prospettive aeree e conseguentemente il principio dell’Aeropittura è un’incessante e graduata moltiplicazione di forme e colori con dei crescendo e diminuendo elasticissimi, che si intensificano o si spaziano partorendo nuove gradazioni di forme e colori. Con qualsiasi traiettoria metodo o condizione di volo, i frammenti panoramici sono ognuno la continuazione dell’altro, legati tutti da un misterioso e fatale bisogno di sovrapporre le loro forme e i loro colori, pur conservando fra loro una perfetta e prodigiosa armonia” (Marinetti 1931, pp. 29-30).
L’automobile è la principale protagonista dello sviluppo del turismo novecentesco e le annate de “Le Vie d’Italia” fra le due guerre ne sono una diretta testimonianza, a cominciare dalla visitazione della regione dell’ex Sud Tirolo diventata Alto Adige in seguito alla prima guerra mondiale. Concludiamo questa rassegna con un cenno a un viaggio in automobile attraverso l’Italia nell’estate dei primi anni Sessanta, narrato in Fratelli d’Italia di Alberto Arbasino (1963). Notissima cronaca itinerante nell’Italia del boom, Fratelli d’Italia coglie
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con una sensibilità nervosa e coltissima le trasformazioni di riti e costumi rimaste epocali. Fra le numerose descrizioni paesaggistiche quella di Ferrara rivela una netta discendenza letteraria. Ricordiamo la prima delle liriche dannunziane di Elettra dedicata a Ferrara, Pisa, Ravenna: “O deserta bellezza di Ferrara, / (…) Loderò le tue vie piane, / grandi come fiumane, / che conducono all’infinito chi va solo / col suo pensiero ardente, / e quel loro silenzio ove stanno in ascolto / tutte le porte (…)” (D’Annunzio 1939, pp. 160-161).
Corrado Alvaro in Itinerario italiano riprende la fascinazione dannunziana: “Grande e vasta Ferrara, dalle strade che portano lontano e quasi infinite, come seguitando in una interminabile pianura, oltre la palude e il mare. Ci si aggira inseguendo un segreto come in un labirinto ariostesco, forse fino a trovare quella Circe del Dosso, che ci possa spiegare i segreti di questa città che più d’ogni altra serba nell’animo, nella fantasia e nei sensi, l’impeto di vita del Rinascimento” (Alvaro 1941, Lo spirito della pianura, p. 236).
Il passo di Arbasino su Ferrara discende in linea retta da questo ceppo rappresentativo, di cui amplifica il registro nella fusione di paesaggi pittorici e di unione fra città e suburbio, colti sia negli aspetti specifici sia in quelli propri di città italiane consimili: “Si torna verso Bologna; arrivando invece a Ferrara, stavolta; ma tardissimo, verso le due della mattina. L’ora giusta per vedere l’aspetto della città, dal momento che anche qui molti monumenti sono diventati invisibili di giorno per la mancanza di un
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Paesaggi del bel paese, dal viaggio al turismo
Parpagliolo L., 1932, Italia (negli scrittori italiani stranieri) . IV volume Toscana, Morpurgo, Roma.
vantage post per fermarsi a guardarli. C’è un plenilunio di pietra dura; e il Castello e la Cattedrale e i palazzi hanno davvero gli stessi lineamenti scolpiti, gli stessi profili grifagni, le stesse mèches di stagno delle Madonne di Cosmé Tura e dei manichini di De Chirico; le strade monumentali si spalancano incantate e ghiacciate tra facciate deserte di quarzo e di alabastro, d’allume; le corriamo tutte, una dopo l’altra, ci siamo solo noi. Partono dal centro maestose e bianche, ma si sperdono presto fra cascine e terreni vaghi, che sono già campagna in una qualche ansa dei bastioni; qui il cielo pare morbido come un grappolo di moscato, e dietro certi scenari da Rigoletto franante sopravvivono ancora nel tessuto urbano frutteti di pesche e improvvise corse notturne in bicicletta, come a Lucca e a Siena, a Modena, a Padova, a Pavia, a Vicenza, a Verona (…). (…) Non un filo d’aria, nemmeno dal mare. Voci lontane e inafferrabili, come a Chioggia, oltre distese d’acque oscure. E la sagoma del castello che riappare in fondo alle prospettive erculee, intarsiata come nella grande pittura, e negli studioli” (Arbasino, 1976, pp. 459-460).
Riferimenti bibliografici
Gli anni Sessanta sono l’effettiva cerniera verso il turismo di massa, mentre anche i riti recenti invecchiano e spariscono in un tempo rapidissimo. È la sorte dei “pellegrinaggi” in autobus ai paesaggi religiosi e patriottici – i “sacri monti”, i santuari e i sacrari della prima guerra dell’Italia del nord organizzati dalle associazioni combattentistiche e dalla parrocchie nella “bassa stagione” di inizio settembre. Sopravvive in qualche forma simile al passato il turismo religioso ma anch’esso, assorbito nella grande macchina standardizzata, è non meno indifferente alle occasioni delle mete laterali per la tirannia di tempi e di percorsi che, direbbe Borchardt, ancora rendono “l’Italia vera, inaccessibile come le case di cristallo di un qualche sogno”.
Fravolini A., 1925, Paesaggi d’Italia, R. Bemporad & Figlio, Firenze.
Alinari V., 1921, Il paesaggio Commedia, Alinari, Firenze.
italico
Alvaro C., 1941, Itinerario italiano, Novissima, Roma (ed. orig. 1933).
della
Divina
Quaderni
e
Rodolico F., 1945, La Toscana descritta dai naturalisti del Settecento, Le Monnier, Firenze.
di
Savinio A., 1981, Hermaphrodito, Einaudi, Torino (ed. orig. 1918).
Arbasino A., 1976, Fratelli d’Italia, Einaudi, Torino (ed. orig. 1963).
Stoppani A., 1876, Il bel paese. Conversazioni sulle bellezze naturali la geologia e la geografia fisica d'Italia, Tipografia e Libreria ed. Giacomo Agnelli, Milano.
Borchardt R., 1989, Città italiane, Adelphi, Milano. Cattaneo C., 1972, La città come principio, a cura di M. Brusatin, Marsilio, Padova (ed. orig. 1858). Cardarelli V., 1939, Il cielo sulle città, Bompiani, Milano.
Riferimenti iconografici
Cimino Folliero De Luna A., 1880, Lagune, monti e caverne. Ricordi dei miei viaggi, Tipografia Cooperativa, Firenze.
Figura 1: Alinari V., 1921, Il paesaggio italico della Divina Commedia, Alinari, Firenze, copertina. Figura 2: Fravolini A., 1925, Paesaggi d’Italia, R. Bemporad & Figlio, Firenze, copertina. Figura 3: Marinetti F.T., 1931, Il paesaggio e l’estetica futurista della macchina, Nemi, Firenze, copertina.
[Conti A.], 1867, I discorsi del tempo in un viaggio d’Italia. Ricreazioni di Augusto Conti Deputato, coi tipi di M. Cellini e C. alla Galileiana, Firenze. D’Annunzio G., 1939, Elettra. Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi, Libro secondo (ed. orig. 1904).
Giuntini A., 2001, Il paese che si muove. Le ferrovie in Italia fra ‘800 e ‘900, Angeli, Milano. Marinetti F.T., 1931, Il paesaggio e l’estetica futurista della macchina, Nemi, Firenze. Oriani A., 1918, Sul pedale, in La bicicletta, Laterza, Bari (ed. orig. 1902). Papini G., 1914, Il mio futurismo. Seconda edizione con l’aggiunta del discorso Contro Firenze passatista, Edizioni di “Lacerba”, Firenze. Parpagliolo L., 1922, Il catalogo delle bellezze naturali d’Italia e la legislazione estera in materia delle bellezze naturali e del paesaggio, Touring Club Italiano, Milano.
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Testo acquisito dalla redazione nel mese di giugno 2012. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
tra parole e saggi
Turismo per il paesaggio?
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Tourism for landscape?
Paolo Castelnovi*
abstract Il turismo può distruggere il senso del paesaggio di luoghi di straordinaria importanza, quando è di massa e asservisce il territorio, ma può anche essere il motore di un modello di sviluppo locale equilibrato, quando è motivato dalla curiosità per la diversità e dal gusto del personale arricchimento culturale e psicofisico. Se il processo di distruzione del paesaggio è strutturalmente implicito nel turismo di massa, ci sono particolari attenzioni da seguire per fare del turismo motivato un motore di sviluppo locale e di valorizzazione del paesaggio.
abstract Mass tourism can destroy the sense of the landscape in areas of extraordinary value. Howether, if it is lead by curiosity towards diversity and by the search for a cultural and psychophysical enrichment, tourism can also act as a driving force for pursuing a balanced local development. While mass tourism entails, implicitly, the disruption of the landscape, some specific measures can be activated for promoting a “motivated” tourism as a driving force for local development and landscape valorisation.
parole chiave Turismo, paesaggio, locale.
Key-words Tourism, landscape, economy.
sviluppo
locale,
economia
local
development,
local
* Paesaggista e pianificatore, già docente al Politecnico di Torino, www.landscapefor.eu.
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In generale nulla si può paragonare alla novella vita che l’osservazione di un paese nuovo infonde all’uomo che pensa. Sebbene io sia sempre lo stesso, mi sembra di essere mutato sino al midollo delle ossa. Wolfang Goethe a Roma 22 novembre 1786
Turismo, come tutti gli ismi, si porta addosso un connotato negativo: al mondo rurale dei secoli scorsi l’“andare in giro” appare, appunto, come una stravaganza, riservata agli eccentrici abbienti, una mania di chi rinuncia agli agi della residenza per cercare non si sa quali diversi (e quindi perversi) piaceri. Perché, al di là del disprezzo sintetizzato nel monito contadino “sta a ca’ tua”, è chiaro a tutti che di piaceri si tratta: il turismo comporta un andare in luoghi poco conosciuti per scelta, per curiosità, per il gusto del personale arricchimento culturale e psicofisico. Insomma il turismo è una versione borghese del viaggio romantico, la riproduzione comoda dell’esplorazione avventurosa e dei piaceri adolescenziali che quell’emozione comporta. Sembra molto più politically correct la storia recente del termine Paesaggio, che è stato dedicato, nella Convenzione europea, a corredo del senso di identità “delle popolazioni”. Nel senso comune, ancora influenzato dalla civiltà stanziale contadina, le “popolazioni” sono le società abitanti: il senso di identità si suppone crescere come una pianta, legata al suolo, quindi patrimonio di chi ha una relazione stabile, radicata, con il “suo” paesaggio. Il turista, ad una lettura preconcetta, sembra estraneo alla definizione della Convezione: un intruso, uno che sbircia o, peggio, potenzialmente calpesta il paesaggio altrui. Ma, come capita per il colesterolo, la versione negativa, che vede immediatamente gli aspetti dannosi provocati dall’intasamento e dall’accumulo,
Turismo per il paesaggio?
non spiega tutto il fenomeno: se si approfondisce si scopre che un certo turismo non solo è utile, ma costituisce una risorsa fondamentale per la valorizzazione (e quindi la manutenzione) dei paesaggi che amiamo.
Il malo turismo Certo l’impostazione critica non è infondata se si chiama turista lo stanziale in vacanza. Siamo reduci da almeno mezzo secolo di disastri provocati dalla pressione turistica delle ferie: dalle fiumane di cittadini che come lemmings vanno al mare (e non si annegano), alle mandrie di sciatori che vanno alla neve. Sono genti urbane, stanziali casa-lavoro, che si mobilitano per qualche settimana all’anno, escono a tutti i costi dalla propria città ma chiedono in altri luoghi commodities urbane generiche: case, parcheggi, bar e pizzerie. Sono attrezzature pret-aporter in ogni luogo, che finiscono per generare di fatto non-luoghi: paesaggi anonimi, privi di specificità (fig. 1), rassicuranti il turista ansioso, come offrire ad un italiano in Ruanda un piatto di spaghetti. Con queste polarizzazioni si fracassano territori fragili, ma soprattutto si azzera il senso comune della diversità paesistica. Pesa sul paesaggio non solo un effetto oggettivo indotto, cioè la modificazione permanente dello spazio, ma anche un effetto soggettivo diretto: la densità di presenze impedisce di percepire il senso dei luoghi, soprattutto dove il silenzio e la solitudine sono connotati strutturali: far la fila in montagna per scalare una vetta; trovarsi in una decina di barche nelle calette “irraggiungibili” delle coste rocciose; visitare in centinaia contemporaneamente il romito dei monaci.
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Figura 1. Case di “vacanza” per valenciani, alle porte di Valencia.
Il senso complessivo del rapporto con lo spazio sconosciuto si perde, come si perde il senso dell’Inno alla gioia ascoltato sull’ipod in metropolitana, o l’emozione della Gioconda vista attraverso una selva di teste e un vetro riflettente nella calura soffocante del Louvre d’agosto. In questi viaggi diventa inconsistente la componente di piacere estetico che dovrebbe motivare il turista, quella assegnata alle sensazioni complesse e alle emozioni connesse all’esperienza diretta. Immersi nella calca, il valore della vacanza diventa sede di riti simbolici: farsi fotografare presso il monumento, poter dire di essere stato in un posto, di aver passato la notte brava nella movida locale. Lo stereotipo dello stanziale in vacanza non solo si perde le specificità dello spazio, ma è isterico anche con il tempo. Infatti l’ossessione della velocità e l’horror vacui degli intervalli senza scopo hanno ridotto la durata della vacanza, cancellato il fruttuoso costume della villeggiatura noiosa a favore di incursioni di massa brevi e iperattive. Ma,
tra parole e saggi
per contrappasso, nei convulsi week-end o settimane (5 notti, tutto compreso) è proprio l’intensità degli affluenti a provocare l’ipertrofia dei “tempi morti”: il tempo-autostrada (o più recentemente, il tempo-aereo e d’aeroporto) spesso prevale sul tempo a disposizione alla meta del viaggio, per la quale ci si è agitati. E il tempo contratto a disposizione alla meta, dove si entra in contatto con luoghi sconosciuti, riduce le possibilità di essere curiosi e di godersi i particolari, elimina ogni possibile serendipity, fino a rendere inutile l’essere lì, fino a far apparire la visione di un buon video più semplice e gratificante dell’esperienza diretta. Insomma il vacanziere, con i suoi comportamenti di massa, non solo riduce ai minimi termini il piacere che teoricamente è posto alla base del turismo, ma si porta dietro una cappa di non-luogo, sotto la quale la probabile sensazione più vicina alla sindrome di Stendhal è il mal di piedi unito all’arsura e il paesaggio percepito direttamente è quasi sempre molto più deludente e banale di quello promesso dai documentari o dai depliant (fig. 2). Nel muoversi in massa non solo è alto il rischio di sprecare il tempo e lo spazio del proprio viaggio, riducendo al minimo le possibilità di una percezione interessante del nuovo, ma si incide profondamente sulle forme del territorio e sul senso del paesaggio di tutti gli altri. L’autoriduzione della capacità percettiva del turista di massa innesca comportamenti fuori controllo, ciechi, che riducono drasticamente per tutti la componente di piacere emotivo per cui molti luoghi sono stati deputati o addirittura costruiti. Il senso di banalizzazione provocato dall’affollamento e dal chiasso, dalla banalità delle seconde case o dalla
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Figura 2. Venezia, Molo S. Marco.
stanchezza delle visite obbligate corrompe e umilia in primis i luoghi-cartolina, quelli illustri per le
illustrazioni diffuse e famose, stabiliti nell’immaginario dai libri illustrati come quelli del
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Touring Club (appunto). Si salvano dall’umiliazione i luoghi urbani predisposti per il commercio e lo scambio. Le Mercerie, Piazza delle Erbe o via de’ Calzolari da settecento anni accolgono folle di compratori, i cui comportamenti non si sono nel tempo modificati strutturalmente: le istruzioni per l’uso dei luoghi e dei rapporti dei locali con i forestieri rimangono le stesse. Invece, ad essere quasi consumati dall’affluenza turistica, sono i luoghi famosi per la monumentalità o l’eccezionalità delle viste, quelli che più potrebbero essere evocativi e appassionanti per la loro straordinarietà. A far perdere la significatività profonda di quei paesaggi in molti casi bastano i diversi comportamenti dei visitatori, devianti anche se i contenitori monumentali sono perfetti, come imbalsamati nella loro stessa museificazione. Infatti le nuove liturgie turistiche non riscontrano più il senso e le regole di chi aveva costruito: certo a Teotihuacán non c’è più alcuna aura rituale, ma anche in Piazza dei Miracoli ci si è dimenticati dell’importante presenza del Cimitero e dell’Ospedale, e il prato, ancora intangibile fino a pochi anni fa, è ora bivacco e solarium dei turisti. Inoltre capita spesso che i luoghi più importanti siano oggetto di lunghissimi interventi di conservazione e quindi risultino quasi invisibili, ingombri di impalcature su cui campeggiano megaimmagini di sponsor e video rutilanti (fig. 3). D’altra parte ai margini dei luoghi deputati il paesaggio è quasi in ogni caso alterato dalle attrezzature che il turismo di massa richiede, generando un effetto complessivo di generale invivibilità, presi in mezzo da luoghi imbalsamati o, peggio, “incellofanati”, e da non-luoghi di servizio. È così difficile evitare gli effetti devastanti del turismo di massa che l’abitante nauseato e il
Turismo per il paesaggio?
Figura 3. Restauri al Ponte dei sospiri.
viaggiatore più ricercato, pur amando spassionatamente i luoghi deputati e rappresentativi, si rintanano in quartieri e nicchie, ritrovandosi identificati ed emozionati da paesaggi fuori dalle rotte frequentate, forse di serie B, ma finalmente capaci di suscitare un senso complesso e specifico. Insomma ci si accontenta di godere
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dell’identità particolare di tempi e spazi minori, dato che i paesaggi più noti negli orari “normali” sono ormai impraticabili, o irriconoscibili. La storia dell’occupazione turistica delle città storiche e delle località di mare o di montagna è fatta, come tutte le storie di occupazione, di due dialettiche. La dialettica fondamentale, tra locali e forestieri, innesca per forza un contrasto che divide i locali tra collaborazionisti e antagonisti. Il modello collaborazionista, che normalmente prevale, comporta di assecondare la domanda turistica promuovendola quantitativamente, in nome di uno sviluppo socioeconomico imprevisto, non dovuto al naturale processo evolutivo della comunità locale, che per lo più era prima generato dalle produzioni primarie o dal terziario tradizionale dei borghi. Dove è cresciuto il turismo di massa, gli abitanti, legati sino ad allora al mondo rurale, si sono ritrovati operatori del terziario ricettivo o, più spesso, redditieri sull’onda del valore fondiario acquisito dai propri campi, terrazzamenti e fienili, da trasformare in seconde case o minimarket. Nell’assecondare una domanda incontrollata si consumano presto le proprie risorse, si altera un territorio appetibile proprio per le qualità che va perdendo, e si arriva a generare valori fondiari così alti che impediscono agli indigeni di trovar casa per i figli, costretti ad abitare fuori del loro centro, oggi completamente padroneggiato dal turista (fig. 4). Questa dinamica escludente, ormai prepotente a Greve in Chianti come a Venezia, ad Alassio come a Courmayeur, provoca la definitiva rotta del senso di proprietà culturale e quindi di identità che i nativi assegnano tradizionalmente al loro paesaggio. È ciò che avviene quando si separano i luoghi di abitazione da quelli di lavoro (in questi casi quasi esclusivamente terziario di servizio per il turismo). Si finisce per sentire i luoghi più rappresentativi del
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Figura 4. Cagnes, seconde case con piscina a 200 metri dal mare.
proprio territorio come una patria perduta, da cui si è esclusi per i costi troppo alti e per i comportamenti alieni dei nuovi occupanti. Oggi il miraggio sta svanendo: si è praticamente esaurita la spinta redditiera e solo in qualche capace ambito territoriale l’attività ricettiva, gestita dagli abitanti, si è consolidata in una nuova economia locale duratura. Cominciano a trovare ascolto le critiche degli antagonisti, quelli che da anni lamentano la svendita delle risorse da parte del modello collaborazionista, l’esproprio del patrimonio collettivo costituito dal “proprio” paesaggio, a fronte di una ricchezza di breve durata e piena di contraddizioni. In molti casi monta una protesta antagonista generica, che invoca la conservazione di spazi, modalità di comportamento e valori ormai trascorsi e quasi mai va al di là della giusta rivendicazione di indisponibilità di beni comuni e della preoccupazione per l’erosione di risorse primarie:
l’acqua, il suolo fertile, il contatto con la natura, la presenza di beni culturali ancora vissuti. In qualche raro caso, però, il modello “antagonista” locale riesce da solo a dare vita, per un congruo periodo, a amministrazione e governo del territorio, e a dimostrare che mantenere la proprietà culturale ed economica del proprio territorio paga. Quasi tutti i casi felici in cui è valso un comportamento fermo di manutenzione del senso del paesaggio identitario sono quelli in cui si è consolidata un’alleanza positiva degli abitanti con una certa tipologia di turisti. I turisti che spontaneamente si alleano con i manutentori del territorio sono quelli che vengono considerati (e considerano se stessi) ospiti, e non si appropriano né culturalmente del paesaggio, né economicamente degli spazi e dei tempi, che vengono apprezzati in quanto propri di coloro che li ospitano. È su questa alleanza tra ospiti che si può puntare per una positiva fase di governo del territorio.
Il buon turismo Prima di tratteggiare i requisiti della fausta alleanza tra abitanti che sanno ospitare e turisti che sanno essere ospiti, va disegnato il profilo del TB (“Turista Buono”). E per questo bisogna risalire alla definizione iniziale: il turismo è un piacere, che comporta un andare in luoghi poco conosciuti per scelta, per curiosità, per il gusto del personale arricchimento culturale e psicofisico. Il turista che ricerca questo tipo di piacere: è curioso e sta attento a percepire il più possibile i tratti di novità e di differenza dei paesaggi che incontra, rispetto a quelli già conosciuti;
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relativizza le sue esigenze abituali alle situazioni che incontra, anche in termini di confort, di dieta, di comportamento sociale; riconosce il valore aggiunto della cultura del paesaggio di chi abita, e con quella cultura, fatta di competenze e visioni diverse dalle proprie, entra in relazione, le ascolta (nell’accezione arguta del termine che ne dà Barthes nell’Enciclopedia Einaudi, 1977), godendosi in quella relazione una bella fetta del piacere del tour. Questi requisiti del TB inducono pratiche comportamentali che vanno al di là di quelle dettate dalla buona creanza o dall’etica dell’egualitarismo. Le motivazioni del TB sono la base stessa del viaggio, della esplorazione dell’altro da sé, del postulato secondo cui la propria identità si arricchisce attraverso la comprensione di altre identità. Senza quelle curiosità e riconoscimenti della diversità paesistica, l’attenzione a se stessi prevale, offusca l’ascolto e il gusto delle specificità si perde: il piacere del viaggio sfuma e finisce per non valerne più la pena. Ovviamente, se si pongono queste priorità di attenzione e di ascolto, ne conseguono condizioni di tempo e di spazio inderogabili: il TB deve essere libero di muoversi e di fermarsi, di guardarsi intorno, di chiacchierare, di deviare da rotte preventivate, di attendere occasioni per superare la naturale diffidenza che si riserva ai forestieri. In una metafora classica: si devono creare le condizioni per la serendipity, quella situazione che Perec ed altri hanno esplorato con tanta dedizione (Perec 1989, Bagnasco 1994). Questa condizione fondamentale separa in modo definitivo il buon turista da quello cattivo, di massa, col tempo contato e autoriferito. -
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D’altra parte l’abitante stabile fruisce quotidianamente del paesaggio con competenza e nel quadro di un sapere profondo e radicato, ma nella disattenzione. Normalmente non si riflette sugli aspetti di piacere e di risorsa per la qualità della vita che ci provengono dal paesaggio che abitiamo. Il rapporto ordinario con il paesaggio è implicito, trascurato come un muscolo involontario, di cui ci si accorge pienamente solo quando fa difetto, quando manca (Raffestin 2005). Se il motore dell’attenzione al paesaggio viene mosso dal desiderio di qualcosa che non si ha (o si rischia di non avere più), non parte dall’abitante se non quando si teme per la sua perdita. Quindi, in condizioni normali, l’abitante non conta consapevolmente sul paesaggio per la propria qualità della vita: deve essere suscitato, deve riscontrare qualcuno che invece il paesaggio lo cerca, qualcuno che ha piacere di ascoltare la “sua” relazione con i “suoi” luoghi: il suo senso del paesaggio. Dunque quasi sempre l’abitante riesce ad attivare la pratica fondamentale della consapevolezza del paesaggio solo assumendo come target il TB: ci si rende conto del patrimonio di cui si dispone proprio all’atto di offrirlo alla fruizione del forestiero. Una straordinaria testimonianza del processo virtuoso, di integrazione tra consapevolezza del proprio e attenzione all’altrui paesaggio, è data dalla raccolta di segnalazioni di “Luoghi del cuore” messa in campo dal 2003 per iniziativa del FAI in collaborazione con Intesa Sanpaolo. Nelle varie edizioni tra il 2003 e il 2008, anche indipendentemente dalle intenzioni dei promotori, si è verificata una metamorfosi dei messaggi prevalenti (ogni anno più di 100.000).
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In una prima fase venivano segnalati per lo più i luoghi natali, spesso trascurati o sconosciuti, ma ritenuti interessanti dagli abitanti, che vi erano naturalmente affezionatissimi. A questi si sono affiancate, e poi hanno prevalso, le segnalazioni di paesaggi “d’elezione”, di turisti che hanno voluto testimoniare l’emozione di luoghi scoperti e gustati in tutta la loro specificità. Sono proprio i paesaggi d’elezione ad essere posti, in una terza fase, al centro della metamorfosi del turista (e qualche volta dell’abitante) in “militante”: le segnalazioni diventano via via sempre più preoccupate per la salvaguardia dei siti amati, denunciano progetti pericolosi, fanno appelli contro il degrado. Insomma si verifica, statisticamente e su un campione, un processo “politico”, per il quale emergono diverse fasi salienti: dalla consapevolezza di una risorsa paesistica non scelta (da parte dell’abitante locale) ad una ricerca di riconoscimento di risorse cercate e scelte (da parte del TB), alla “presa in carico” di un paesaggio d’affezione, atteggiamento che è ormai dominante nelle segnalazioni al FAI degli ultimi anni, che siano di turisti o di abitanti, o, come avviene sempre più frequentemente, di esponenti dei due gruppi solidali. Di fase in fase è in crescendo l’assunzione di responsabilità, che si manifesta all’inizio nel rendere pubblica la propria posizione: il primo e il secondo passaggio sono una sorta di “outing paesistico”, in cui l’abitante e il turista si dichiarano impegnati proprio nell’atto di riconoscere un paesaggio; la terza fase è un balzo in avanti, per cittadini che possiamo pensare normalmente estranei ad un ruolo forte di impegno civile, che si mobilitano per una causa non legata ad interessi o a vantaggi personali o di categoria, ma per difendere e valorizzare un bene comune. Si
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vogliono innescare processi di pubblicizzazione, di chiamata di tutti a valutare, a partecipare di un bene comune e a prendersene carico, difendendolo non in quanto specifici utilizzatori ma in quanto rappresentanti del mondo (presente e futuro). È evidente la diversità in radice di questo processo di integrazione culturale rispetto a quel processo di dis-integrazione che normalmente si manifesta nella reazione negativa di una comunità locale rispetto ad ogni proposta di cambiamento esogeno (raramente l’opinione pubblica locale si mobilita per casi, diffusissimi, di massacri del proprio paesaggio fatti da componenti della comunità locale stessa). Così le proteste NIMBY, indipendentemente dal fatto che siano nate per nobili cause o per egoismi locali, risultano comunque concentrate in difese dello status quo di situazioni spesso marginali o di declino, prive di capacità di innesco di processi di sviluppo locale e di utilizzo innovativo delle risorse. Il limite, difficile da superare, dei “comitati NO...” si verifica quando diventa dominante l’atteggiamento reazionario, che spesso è alla base della nascita stessa dei movimenti, ad escludendum e non ad includendum. Troppo spesso dalla reazione ad un progetto ritenuto dannoso si innescano dinamiche di chiusura che poi diventano antagonismi ad ogni tipo di proposta trasformativa e di input esogeni, visti con sospetto “a prescindere”. Sembra quindi che una relazione virtuosa tra TB ed abitante consapevole permetta di superare il blocco entropico della logica che motiva i “cartelli NO…”. Ma si intuiscono altri aspetti di una sperata simbiosi mutualistica tra i due tipi di soggetti, che potrebbero ben fruttare strategie di valorizzazione del paesaggio. Infatti ciascuno dei due tipi di comportamento e di competenze ha caratteri fondamentali che forse costituiscono un limite
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nell’azione isolata, ma che possono essere utili per dare forza all’operare dell’altro, per passare dalle opinioni e dai sentimenti ad iniziative che incidano sulla realtà delle situazioni locali e per dare corpo a strategie lungimiranti anche di interesse generale. In primo luogo il TB, oltre al contributo al “disvelamento” della risorsa paesistica come bene comune, si propone come portatore di istanze molto specifiche, non massificate, che sfaccettano la potenziale domanda di paesaggio e introducono nei rapporti con il territorio un criterio generalista. Il TB è per definizione aperto a tutte le offerte di paesaggio e costituisce quindi un mercato indefinito, tutto da promuovere, senza lasciarsi dominare da schemi preconcetti o tour operator oligopolistici. Il turismo buono esce dal mercato unico dei grandi numeri e dei BIT, in cui i territori devono conquistare i tedeschi e i russi (venendo di fatto conquistati da loro) e si costituisce come domanda per un mercato diverso, i cui numeri sono molto minori ma diffusi, e soprattutto scelto, fatto di relazioni dirette, conquistate on web attraverso il confronto, il passaparola, l’autopresentazione accattivante. Dalla parte degli abitanti, la modalità “democratica” dell’autopresentazione di un territorio sul web è molto più interessante, per chi si interessa di paesaggio, di una normale vetrina di prodotti: in essa si verifica, da qualche anno, la capacità di una comunità di raccontare il complesso di offerte del territorio in una sintesi che assume come target principale il TB, con le sue curiosità e desideri sopra tratteggiati. La presentazione è ormai diventata una vera e propria pratica paesistica, che cerca di far percepire gli elementi importanti, su cui far leva, per portare a frequentare, consumare e servirsi in un nuovo territorio i “forestieri” (ma
tenendo conto che ormai non si vien più dalle foreste ma da città, e i gusti sono sempre più “cittadini”). Una lettura comparata dei siti web promozionali di territori fa emergere alcune tipologie di narrazione paesistica: siti professionali, fatti da pubblicitari che si sono anche studiati i contenuti dei messaggi, sono molto accattivanti nell’immagine offerta ma rivelano un ridotto spessore nella presentazione della sostanza viva del paesaggio, quella fatta non solo dei luoghi ma dei suoi abitanti e delle loro attività. Questi siti quindi non esercitano un grande appeal per il TB, che dobbiamo immaginare scafato, poco disponibile ai pacchetti troppo ben confezionati, che cerca i tesori nascosti, gli incontri inusitati, le esperienze dirette di aspetti sconosciuti ma reali; siti self-made, messi insieme localmente, spesso ingenui dal punto di vista comunicativo, ma in molti casi ricchi di suggestioni per il catalogo delle opportunità, il convergere di iniziative e di microimprese che formano nei siti dei piccoli portali territoriali, qualche volta del tutto sovrapposti e ormai indistinguibili da quelli dei centri amministrativi. Questi siti assumono uno specifico effetto di pratica paesistica dove presentano territori ampi, formati da molti comuni (più facilmente in situazioni montane o collinari e più raramente per le città d’arte o per i turismi costieri): in quei casi il sito appare quasi un atto fondativo di una strategia di azione territoriale basata sul paesaggio, un punto di raccolta informale delle risorse ambientali e culturali ma anche imprenditoriali e sociali, che si rendono
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disponibili nell’insieme ad un confronto con l’esterno; siti integrati, promossi per lo più da soggetti che hanno a qualche titolo ruolo di coordinamento territoriale (enti gestori di aree protette, agenzie di sviluppo locale, in qualche caso province), che si prestano, in forma di servizio al territorio, a costituire una presentazione strutturata di iniziative e produzioni, lanciano marchi, promuovono gemellaggi e reti di produttori o di servizi per il turismo e il tempo libero. Sono siti meno ruspanti di quelli self-made, in cui talvolta prevale l’aspetto retorico istituzionale rispetto alla parte di narrazione delle attività e del paesaggio reale e che quindi attraggono meno il TB più esigente, ma hanno il pregio di fornire quadri complessivi, sistemi di paesaggi e reti di punti di interesse, intercettando così una componente significativa del nuovo turismo, anche buono, che è il carattere itinerante, forse su quiet lines, ma mobile e desideroso di portare a casa collane di esperienze piuttosto che poche e stanziali. Non tutte le presentazioni del territorio sono sfacciatamente market-oriented, anzi in molti dei siti self made o integrati l’obiettivo del sito sembra più essere l’esaltazione delle componenti identitarie, di testimonianza delle proprie caratteristiche locali, ma ciò non toglie che nel rapporto tra l’abitante e il TB la narrazione del territorio abbia un ruolo fondamentale. E qui conta molto il taglio delle presentazioni. Infatti, è chiaro che se la presentazione identitaria si concentra su alcuni aspetti simbolici, gridati, come un rito (le innumerevoli Tarante che fioriscono in questi anni) o il disegno di un luogo (le numerose Bilbao con altrettanti Guggenheim,
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anch’essi rampollati dopo il primo benemerito), l’effetto paesistico e territoriale della narrazione rimane offuscato dall’impatto del messaggio prioritario, e anche l’affluenza turistica, anche se motivata e curiosa, tenderà a ad essere monopolizzata dall’evento e dal monumento.
Figura 5. Bilbao è una città intorno al Guggenheim.
Gli investimenti del TB, in tempo e in denaro, probabilmente saranno polarizzati dal viaggio a dai consumi intorno all’evento e al monumento, con poche ricadute esterne. Se si tiene conto che gli investimenti del TB sono in molti casi l’unico flusso di risorse in entrata, la forza esogena potenzialmente propulsiva per processi economici locali stagnanti, si capisce che in quei termini lo sforzo di offerta del proprio paesaggio difficilmente potrà generare sviluppi socioeconomici duraturi. È probabilmente importante “gridare” per avviare l’investimento iniziale, essere presenti nell’atlante del TB, convincerlo al viaggio: certo, prima di Gehry Bilbao non era citata negli atlanti turistici e
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senza la Taranta il Salento sarebbe ancora meta di pochi aficionados. Ma dove nella presentazione la narrazione assume aspetti complessi, strutturati, che incidono davvero sulla sostanza del paesaggio, si può contare sulla capacità di intercettare più utilmente gli orientamenti di investimento del TB. Infatti, dove emergono le competenze e il realismo dell’abitante consapevole, il TB è condotto a riprendere contatto con il tema fondamentale della responsabilità: per valorizzare si deve entrare nel merito della produzione e della gestione del paesaggio, non basta saper valutare attraverso il personale senso di piacere culturale ed estetico. Bisogna anche partecipare, direttamente o meno, ma sempre consapevolmente, alle decisioni che rendono fattibile e riproducibile il piacere culturale ed estetico desiderato, o viceversa lo degradano e lo perdono. È chiaro infatti che la capacità di investimento portata dal TB, assume valenze positive o negative rispetto alla valorizzazione del paesaggio a seconda se appoggia interventi che aumentano o viceversa diminuiscono la diversità paesistica e in particolare la specificità paesistica locale, a partire dalla conservazione di quella già accumulata. Non è banale distinguere tra TC e TB in termini di investimento, perché è necessario condividere un progetto di territorio, non semplicemente discutere se si conserva un prato o si butta giù un campanile. È necessario un disegno del futuro, con una capacità di contare le risorse disponibili che hanno solo gli abitanti e di contare le energie da investire, che hanno solo i TB. Nella sua straordinaria campagna per la qualità nei rapporti tra produttori e consumatori, Petrini punta proprio su una coppia di forze, in cui il braccio è costituito dai capitali esogeni del TB (ovvero del
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consumatore consapevole) e la mente dirigente è quella dell’abitante, produttore rurale. Nei casi virtuosi, come quelli promossi da Petrini, dalla relazione economica tra TB e abitante emergono programmi a lungo termine, in cui non si discute più tanto di sostenibilità del turismo, ma di partecipazione del TB alla sostenibilità dei progetti di paesaggio. In quei casi il consumatore consapevole entra direttamente come operatore nei processi economico- territoriali, in aiuto e non in aggressione della diversità paesistica, come accade con i GAS (Gruppi di Acquisto Solidali) in molte province dell’Italia centrale a favore delle produzioni agricole qualificate o, con progetti appena nati, per le produzioni casearie di alcuni pascoli alpini. Sono casi di seconda generazione, in cui il turismo e il consumo si costituiscono come attori e non semplici fruitori del paesaggio, mettendo a frutto i risultati della prima lezione: il turismo è un piacere, un’arte di ospitalità, con i precetti della seconda: che comporta responsabilità reciproche e imprese comuni tra ospiti.
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www.Bing.com/maps Paolo Castelnovi, 2010. Paolo Castelnovi, 2010. www.Bing.com/maps www.Bing.com/maps
Testo acquisito dalla redazione nel mese di maggio 2012. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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Ecoturismo in Europa: metodologie per l’eccellenza
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Ecotourism in Europe: methodologies for excellence assessment
Federico Niccolini*, Daniela Marzo**
abstract L’ecoturismo è un segmento che presenta forti potenzialità per indirizzare l’intero comparto turistico nella direzione della conservazione della natura, della Corporate Social Responsibility e dello sviluppo sostenibile. Per il raggiungimento di tale complessa sfida, è fondamentale che le organizzazioni impegnate nella filiera ecoturistica sviluppino un approccio sistemico riguardo l’organizzazione, il management e il processo strategico. Per la valutazione dell’efficacia di un sistema ecoturistico, è essenziale sviluppare una riflessione sulle varie metodologie per la ricognizione delle esperienze di successo.
abstract Ecotourism is a sector with strong potentials to address the entire tourism industry in the direction of the ecosystems conservation, Corporate Social Responsibility and Sustainable Development. In order to reach this complex challenge, organizations involved in the ecotourism sector should develop a systemic approach related to the organization, management and strategic process of ecotourism supply. To evaluate the effectiveness of an eco tourism system it is essential to have an overview on the different methodologies used to identify the successful experiences in this field.
parole chiave Ecoturismo, organizzazione, approccio sistemico.
key-words Ecotourism, organization, systemic approach.
* Università di Macerata, Dipartimento di Economia e Diritto, Professore associato. ** Università di Macerata, Dipartimento di Economia e Diritto, Dottore di Ricerca.
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Fonti nazionali (ENIT) e internazionali (UNWTO, OCSE) riconoscono da decenni un ruolo chiave al turismo nell’ambito delle dinamiche e degli assetti socio-economici a livello planetario. Il turismo può impattare in modo rilevante non solo sull’economia e sulla società più in generale, ma anche sull’ambiente naturale e sulla cultura della regione ospitante. L’ecoturismo è un segmento che presenta forti potenzialità per indirizzare l’intero comparto turistico nella direzione della Corporate Social Responsibility e dello sviluppo sostenibile. L’attenzione ai temi della responsabilità sociale (Asgary, Mitschow 2002; Carroll, Buchholtz 2011; Epstein 1987; Freeman, Velamuri 2006) ha alimentato in maniera rilevante il dibattito accademico, ponendo importanti interrogativi riguardo lo sviluppo sociale, economico e ambientale (Conferenze di Stoccolma, e Rio de Janeiro, 1972, 1992 e 2012). Anche per il settore turistico, la ricerca di modelli di sviluppo più responsabili è ritenuta necessaria da più di un decennio (Carta di Lanzarote per un Turismo Sostenibile, 1995). L’ecoturismo rappresenta un segmento particolarmente interessante per l’implementazione di strategie di sviluppo volte a orientare l’intero sistema socioeconomico verso soddisfacenti standard di responsabilità sociale. Esistono, infatti, diverse aree in cui l’ecoturismo è riuscito a generare benefici non solo di tipo economico, ma anche di tipo sociale, contribuendo anche a conservare e valorizzare le risorse naturali e culturali locali. Non è però semplice stabilire cosa possa correttamente intendersi per ecoturismo e, una volta definito questo concetto, capire come valutare l’efficacia di un sistema ecoturistico. Risulta quindi essenziale individuare alcuni criteri e
Ecoturismo in Europa: metodologie per l’eccellenza
principi che permettano di identificare con sufficiente rigore scientifico le attività ecoturistiche e le benchmark realities operanti in tale settore.
Ecoturismo, protette
responsabilità
sociale
e
aree
La definizione di ecoturismo più utilizzata a livello internazionale è quella elaborata nel 1996 dall’Unione Internazionale per la Conservazione delle Natura (di seguito cit. IUCN) per mano di Ceballos-Lascuràin. L’ecoturismo è definito come “un viaggio ecologicamente responsabile e una visita ad aree naturali relativamente indisturbate per godere e apprezzare la natura (e ogni dotazione culturale collegata, sia storica sia attuale), un viaggio che promuove la conservazione, riduce al minimo l’impatto negativo dei visitatori e stimola il coinvolgimento della popolazione locale nella condivisione dei benefici socio-economici” (IUCN 1996, p. 12). L’autore ha rilevato in particolar modo la responsabilità sociale ed etica insita in questa tipologia di turismo che promuove la conservazione delle risorse naturali e culturali, ma contribuisce anche a generare benessere per la comunità locale. La “The International Ecotourism Society” (TIES), una delle maggiori organizzazioni no profit mondiali impegnata nel settore ecoturistico, ha sintetizzato la definizione di ecoturismo in un “viaggio responsabile nelle aree naturalistiche che conserva l’ambiente e migliora il benessere della popolazione locale”. L’ecoturismo è quindi una modalità ed una filosofia di fruizione che permette il pieno godimento delle risorse naturali e culturali, producendo allo stesso tempo benefici socio-economici nel rispetto dei
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valori ambientali. Tale prospettiva è stata ufficialmente accolta in occasione del Summit Mondiale sull’Ecoturismo, organizzato in Quebec nel 2002 (anno designato dalle Nazioni Unite come anno Internazionale dell’Ecoturismo, IYE), sottolineando appunto che con il termine ecoturismo si intende superare il concetto di turismo ecologico per incorporare anche gli aspetti legati al rispetto delle comunità locali e al loro sviluppo socio-economico. Tra le molteplici forme di turismo sostenibile, l’ecoturismo sembra dunque rappresentare il segmento con le maggiori potenzialità nella creazione di circuiti virtuosi in grado di generare oltre ad elevati standard di conservazione della natura, benefici socioeconomici di lungo periodo per la popolazione locale. L’ecoturismo può quindi essere metodologicamente inquadrato nell’ambito di quelle forme di turismo che sono orientate alla sostenibilità o alla responsabilità sociale. Le aree protette rappresentano a livello mondiale la tipologia di organizzazione che in modo più ampio, diffuso e capillare è riuscita a promuovere i principi della sostenibilità e della responsabilità sociale, dando vita in molti casi a delle importanti esperienze di successo anche nel settore dell’ecoturismo. La dinamica di costante e progressiva diffusione delle aree protette a livello planetario evidenzia come vi sia un legame biunivoco tra la mission dell’area protetta e i principi della responsabilità sociale, del turismo sostenibile e dell’ecoturismo, in particolare quello centrale della conservazione del patrimonio naturale e culturale “for this and future generations” (US Public Law 1916). L’area protetta rappresenta infatti da oltre un secolo lo strumento organizzativo principale attraverso cui i governi nazionali e regionali
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perseguono la finalità della conservazione delle risorse naturali e degli elementi culturali associati per le generazioni future: risorse che soprattutto negli ultimi decenni sono divenute l’attrazione primaria per gli ecoturisti. La definizione più utilizzata a livello mondiale di area protetta è quella fornita dalla IUCN, che identifica tale istituzione come “uno spazio geografico ben definito, riconosciuto, dedicato e gestito, attraverso strumenti giuridici o altri mezzi efficaci, per conseguire nel lungo periodo la conservazione della natura con i servizi dell’ecosistema e i valori culturali a essa associati” (IUCN 2008, p. 8). Alla mission della conservazione dell’ambiente naturale e culturale (A), si legano una serie di obiettivi funzionali al raggiungimento della stessa (tab. 1): l’educazione ambientale (B), la ricerca scientifica (C), la ricreazione compatibile (D) e la promozione di forme di sviluppo socio economico sostenibile (E). L’educazione e la ricerca scientifica rappresentano delle finalità intrinseche all’area protetta: per conservare è infatti necessario “educare a conservare” e studiare ciò che si ha intenzione di conservare. La fruizione turistica delle risorse naturali e il collegato sviluppo socio economico, che il turismo attiva, sono finalità allo stesso tempo secondarie ed ineliminabili. Tali ultime finalità per essere perseguite necessitano spesso di una saggia opera di pianificazione strategica, soprattutto di tipo socio-economico. Le attività ecoturistiche, possono quindi simultaneamente coniugare le finalità educative, ricreative e di incentivo allo sviluppo socioeconomico delle aree protette, “nutrendosi” della finalità conservativa che costituisce il fine ultimo di tale istituzione.
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naturali e culturali presenti nelle aree protette come attrazioni turistiche primarie; allo stesso tempo, le aree protette orientano la propria gestione verso forme di turismo responsabile che siano fonte di reddito per le popolazioni locali affinché le stesse non ricorrano a modalità di sviluppo economico poco compatibili con la conservazione dell’ambiente. Il turismo, dunque, se guidato dai principi della responsabilità sociale può concretamente rappresentare il motore trainante dello sviluppo economico e sociale della popolazione locale e creare un tessuto economico e relazionale utile all’affermazione dell’area protetta.
Profili di organizzazione, management e strategia: la visione sistemica dell’offerta ecoturistica
Tabella 1. Le finalità dell’area protetta (fonte: elaborazione degli autori muovendo da Niccolini 2005 e da IUCN 2008).
I concetti di turismo responsabile ed in particolar modo di ecoturismo trovano dunque l’humus ideale nel contesto organizzativo e istituzionale nelle aree protette, in virtù del fatto che “l’area protetta è per sua natura l’istituzione deputata al perseguimento della missione di conservazione di beni che in molti casi costituiscono attrazioni ecoturistiche di primaria importanza” (Niccolini 2005, p. 61). Il legame tra ecoturismo e area protetta si esplica ancora più concretamente nel loro rapporto reciproco: l’ecoturismo si fonda sulle risorse
Affinché il raggiungimento di elevati standard di conservazione della natura possa coniugarsi con la promozione del turismo e con lo sviluppo economico sostenibile, occorre che le organizzazioni deputate alla gestione del territorio abbiano una visione sistemica (Emery, 1969; Senge, 2006) che tenga in debita considerazione le complesse relazioni tra gli aspetti ecologici, biologici, sociali, culturali ed economici che insistono sul territorio protetto. Come opportunamente sottolineato anche da Hulme e Murphre (2003), la definizione di una qualsiasi strategia ecoturistica richiede l’acquisizione di competenze distintive da parte delle organizzazioni (in primis, enti pubblici e non-profit e di riflesso anche attori privati) chiamate a guidare il processo di sviluppo turistico di un territorio. Risulta in particolar modo fondamentale focalizzare l’attenzione su alcuni aspetti di carattere
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organizzativo, strategico e manageriale, in grado di favorire un approccio sistemico alla creazione, gestione e promozione dell’offerta ecoturistica. Per svolgere adeguatamente le articolate e complesse funzioni che sono essenziali per lo sviluppo responsabile di un territorio, occorre che tali organizzazioni abbiano un personale qualificato in grado di rispondere alle aspettative degli stakeholders e svolgere l’importante azione di coordinamento e di catalizzazione delle attività su tutto il territorio. Il rafforzamento delle capacità manageriali e delle competenze professionali degli enti deputati alla gestione di un sistema ecoturistico determina in primo luogo l’istituzione di figure professionali che coordinino le attività ecoturistiche tout-court: quelle educative e quelle relative allo sviluppo socio economico sostenibile. Per sviluppare ed affermare una visione sistemica di sviluppo ecoturistico, è fondamentale inoltre che si instaurino relazioni simbiotiche e sinergiche tra i principali attori, e che tali relazioni siano imperniate sulle stesse finalità dell’ecoturismo: la conservazione delle risorse naturali e culturali e lo sviluppo economico e sociale sostenibile . La cooperazione tra gli attori turistici, in particolar modo tra gli enti pubblici, i tour operators, le imprese turistiche, le comunità locali e i visitatori è quindi un fattore essenziale nel processo di creazione di un’offerta turistica integrata che coinvolga il numero più ampio possibile di attori e che conferisca alla destinazione turistica un’identità unitaria. Il ruolo delle organizzazioni pubbliche responsabili della gestione delle attrazioni turistiche primarie privilegiate dagli ecoturisti (le aree naturali protette) è spesso centrale nel coordinamento di tutti gli attori sociali. Tali organizzazioni sono in alcuni casi riuscite a creare dei laboratori di
Ecoturismo in Europa: metodologie per l’eccellenza
gestione ecoturistica ed a fornire delle linee guida per impostare strategie a carattere sistemico che hanno travalicato i loro confini dei territori di loro stretta competenza. La corretta implementazione di una strategia ecoturistica con valenza sistemica rappresenta un processo manageriale fondamentale da cui dipende in misura rilevante il successo o l’insuccesso del progetto di sviluppo sostenibile di un intero territorio. In quest’ottica, il processo di indirizzo dello sviluppo di un territorio secondo i principi dell’ecoturismo, oltre che della pianificazione e dell’organizzazione di un sistema ecoturistico, necessita anche di un corpo organico di azioni di implementazione e monitoraggio delle attività ecoturistiche basato su solide fondamenta scientifiche. Lo sviluppo di una strategia ecoturistica, se non adeguatamente implementata e monitorata secondo i principi elaborati a livello internazionale, potrebbe, infatti, generare effetti anche negativi sul territorio, quali l’alterazione della cultura e dello stile di vita delle popolazioni locali o il deterioramento degli standard ambientali, dovuto ad esempio all’inquinamento e al sovrasfruttamento dei siti turistici (Gouvea 2004). La Carta Europea del Turismo Sostenibile ha al riguardo sollecitato le organizzazioni impegnate nella gestione delle risorse eco turistiche a seguire un rigoroso processo strategico di implementazione, sviluppo e monitoraggio di piani eco turistici. Le fasi del processo strategico sono da tempo note agli esperti (Snow, Hrebiniak, 1980) e si possono sintetizzare nell’analisi contingente, che permette di individuare le principali minacce e opportunità rispetto al raggiungimento delle finalità ecoturistiche, e nell’analisi interna, che, valutando aspetti maggiormente correlati alle caratteristiche
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dell’organizzazione – soprattutto in termini di competenze e risorse finanziarie –, ne desume i punti di forza e di debolezza. Le due fasi ora enunciate sono conosciute anche con l’acronimo SWOT, dall’inglese Strenghts, Weakness, Opportunities and Threats. Importante a questo punto che la strategia si soffermi diffusamente sul rafforzamento della mission. Chiarire, affermare e diffondere tra gli attori presenti nel territorio la mission del progetto ecoturistico è il punto nevralgico, la “key to success”, dell’intero percorso strategico. Gli action plans sono gli strumenti attraverso cui perseguire gli obiettivi individuati a livello strategico. Il monitoraggio dei principali indicatori di sostenibilità delle attività turistiche dirette e indotte chiude un processo strategico e fornisce l’input informativo per l’attivazione ciclica e continua di uno successivo. A tal riguardo, è utile segnalare che gli indicatori utilizzabili al livello europeo sono numerosi e dipendono principalmente dalla tipologia di ambienti interessati (montani, costieri, collinari…) e dalla tipologia e rilevanza degli habitat naturali oggetto di visita (secondo le categorie individuate dalla IUCN). Data la complessità dei parametri sottoponibili al monitoraggio, la letteratura riflette un elevato livello di eterogeneità. Gli indicatori utilizzabili per la valutazione dell’efficacia dell’azione svolta dalle aree protette, almeno per quanto riguarda il segmento della ricreazione, sono spesso razionalmente applicabili nelle strategie di sviluppo ecoturistico. Al riguardo, è da segnalare ancora il prezioso lavoro degli esperti dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura e di altre organizzazioni (WWF, UNEP) che hanno raccolto, catalogato e ordinato per continente e nazioni gli indicatori utilizzabili per il monitoraggio
tra parole e saggi
e la valutazione dell’efficacia più in generale. A tal proposito, è emerso un quadro di metodologie molto ampio che comprende tecniche di valutazione internazionali, tra cui Rapid Assessment and Prioritization of Protected Area Management (RAPPAM), Management Effectiveness Tracking Tool (METT), Marine Tracking Tool, Governance of Biodiversity (GoBi) assessment, Integrative Protected Area Management (IPAM) analysis; e numerose metodologie sviluppate a livello nazionale, tra cui Management Effectiveness Study (Finlandia), Nature Park’s Quality Campaign (Germania), Monitoring and Evaluation of Protected Areas (MEPAV, Italia). Di particolare interesse, il report “Protected Area Management Effectiveness Assessments in Europe” (Leverington et al., 2010a), che offre un quadro organico e sintetico dei principali metodi di valutazione maggiormente utilizzati nelle aree protette europee. Nell’impostazione di una strategia eco turistica occorre inoltre porre attenzione su alcuni aspetti chiave per lo sviluppo di un reale sistema ecoturistico integrato, in grado di generare circuiti virtuosi tra gli standard ecologici, economici e sociali locali. Creare un’offerta turistica integrata significa innanzitutto focalizzare l’attenzione sull’attrazione turistica territoriale primaria, cuore e punto di arrivo di ogni attività eco turistica. Una volta individuata l’attrazione primaria, diventa essenziale identificare i core services come le attività informative ed educative, ossia quei servizi che permettono al turista di “toccare con mano”, conoscere e vivere il territorio e le sue risorse naturali (Niccolini 2005, p. 42). Ai servizi educativi e informativi si aggiungono poi i consueti servizi di alloggio, vitto, trasporto, di cui solitamente si compone l’offerta turistica. Un ulteriore aspetto che qualifica una strategia ecoturistica sistemica è il
livello di differenziazione (Porter 1985) dei servizi. L’eterogeneità dell’offerta è correlata positivamente alla capillarità del tessuto microimprenditoriale locale e alla custode satisfaction delle esperienze di visita. Essenziale, inoltre, la previsione di politiche di distribuzione temporale e spaziale dei visitatori, guidate da parametri di carrying capacity del territorio e tali da favorire la destagionalizzazione e la localizzazione dei flussi turistici anche nelle aree meno note, ma interessanti dal punto di vista naturalistico e culturale. Alla luce delle riflessioni svolte in questo paragrafo appare evidente come una gestione efficiente ed efficace dell’ecoturismo sia strettamente legata ad un’impostazione sistemica (Senge 2006) dell’offerta eco turistica stessa. Tali considerazioni hanno spinto numerosi studiosi a sviluppare metodologie di valutazione delle esperienze di successo nel campo dell’ecoturismo nelle aree protette, al fine di delineare alcune linee guida in grado di aiutare le organizzazioni impegnate nella gestione delle aree protette e delle attività collaterali a sviluppare un approccio sistemico nella gestione delle attività eco turistiche.
Buone pratiche nell’ecoturismo: metodologie per la valutazione
criteri
e
Il processo di identificazione di buone pratiche nel settore dell’ecoturismo richiede un approccio metodologico che integri le prospettive ed esperienze riconosciute a livello internazionale con la conoscenza delle specificità dei contesti di indagine. È importante che tale approccio si basi su un quadro teorico scientificamente rigoroso che offra anche strumenti per valutare casi studio e fornisca dei riferimenti utili per comprendere che
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cosa possa essere ritenuto realmente una “buona pratica”. Dal punto di vista concettuale appare rilevante innanzitutto chiarire le differenze tra il concetto di “good practice” e quello di matrice anglosassone di “best practice”. Il termine “best practice”, letteralmente “miglior pratica”, è definito come “un’osservazione selettiva di un insieme di modelli in contesti differenti al fine di derivarne principi più generalizzabili e teorie” (Overman, Boyd 1994, p. 69). Il concetto di best practice, legato a una visione pragmatica e utilitaristica di matrice Taylorista (1916), implica che il ricercatore possa prendere le pratiche di successo e applicarle in situazioni differenti, ottenendo il medesimo risultato positivo. Superati, con la spinta del paradigma della razionalità limitata (Simon 1947), già nel periodo modernista, gli imperativi assoluti e statici della “ricerca del best” ed introdotti paradigmi più flessibili della “fitness” di una pratica ad un contesto, diventa più sensato parlare di “good practice”. Una “buona pratica” rappresenta dunque una situazione, un’esperienza, una conoscenza, un know-how realizzati in una determinata situazione, che per l’efficacia dei risultati e per il contributo di valore dimostrato nella risoluzione di determinate problematiche, mostrano un buon livello di trasferibilità e applicabilità in altri contesti (O’Dell, Grayson 1998, p. 167). Non si tratta quindi di esperienze ritenute “ottime” in assoluto, ma di azioni positive che potrebbero offrire utili indirizzi ed essere almeno parzialmente riprodotte, anche in situazioni differenti rispetto a quelle in cui sono state realizzate positivamente. Il concetto di buona pratica, dunque, rimanda a un confronto, a un benchmarking, che è definito “un processo di identificazione, comprensione, e adattamento di
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pratiche di successo dalle organizzazioni, inclusa la propria, ad altre presenti in ogni parte del mondo (O’Dell, Grayson 1998, p. 160). In quest’ottica, dunque, il confronto, o benchmarking, rappresenta “il modus operandi” attraverso cui si perviene all’identificazione delle buone pratiche. Con riferimento all’oggetto di questo lavoro, le buone pratiche nel settore ecoturistico riguardano azioni e strategie che per i risultati positivi conseguiti nella conservazione della natura e nella gestione delle attività ricreative ecocompatibili, sono passibili di essere almeno parzialmente riprodotte e applicate in contesti e realtà differenti rispetto a quelli in cui sono state originariamente osservate. Hulme e Murphree (2001, p. 293) utilizzano una prospettiva organizzativa e manageriale, sostenendo che “la buona pratica nella conservazione non è tanto il trasferimento di buone esperienze da un programma a un altro. Piuttosto, essa fa riferimento al rafforzamento delle capacità delle agenzie conservative, delle comunità e dei manager, di sperimentare, apprendere e di prendere decisioni efficaci all’interno dei vincoli presenti nel contesto in cui si opera”. Anche nel settore oggetto di indagine si rigetta quindi l’impostazione classica di trasferire “in toto” un’esperienza da un contesto ad un altro tenendo presente come unico criterio il successo pregresso, e confermando la visione della buona pratica come opportunità dialettica di apprendimento. L’applicabilità delle buone pratiche deve quindi sempre tener conto delle specificità contingenti, in particolare di quelle territoriali che riguardano le
Ecoturismo in Europa: metodologie per l’eccellenza
Tabella 2. I criteri per la valutazione delle buone pratiche (fonte: elaborazione degli autori, muovendo da Overman, Boyd, 1994).
caratteristiche naturali e culturali di un luogo, ma anche di quelle sociali riferite alle attese, alle aspirazioni degli stakeholders ed alle programmazioni in essere. A livello più operativo, la redazione di uno studio di buone pratiche nel settore ecoturistico richiede innanzitutto la specificazione delle “coordinate” che guideranno la selezione di quelle esperienze ritenute positive, e potenzialmente applicabili in altri contesti. Affinché un’esperienza possa essere
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valutata come positiva, e quindi, essere considerata una buona pratica, occorre che risponda in primis ad alcuni criteri generali sulla base dei quali è appunto “misurata” la bontà dell’esperienza. Una buona pratica è identificata sulla base dei criteri del pragmatismo, della capacità innovativa, della parziale riproducibilità e del riconoscimento che ha ricevuto o è in grado di ricevere a livello internazionale (tab. 2) Per sostenere che un’esperienza sia una buona pratica, occorre inoltre che risponda a determinati parametri che sono legati più specificatamente alle caratteristiche del settore ecoturistico. Per tale ragione, è importante che la ricognizione delle buone pratiche segua un “orientamento focalizzato” volto a individuare i parametri e gli indicatori sulla base dei quali reperire informazioni strettamente legate all’efficacia della strategia ecoturistica (includendo anche quella di conservazione delle attrazioni primarie per l’offerta ecoturistica, ovvero le aree di pregio naturalistico). È essenziale dunque che la scelta delle metodologie rispecchi una prospettiva, espressa da una consolidata letteratura in campo organizzativo, di carattere sistemico (Senge 2006). Lo sviluppo di un approccio di tipo sistemico nell’organizzazione e pianificazione delle attività ecoturistiche richiede innanzitutto l’attuazione di un processo strategico basato su alcuni aspetti fondamentali: politiche di conservazione di vaste aree di pregio naturalistico; piani di sviluppo turistico sostenibile; piani di sviluppo socio-economico responsabile del territorio; piani, programmi e strutture finalizzati a creare stabili rapporti di collaborazione internazionale. Tale aspetto può assumere connotazioni applicative ed operative interessanti per le aree
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ad elevato interesse naturalistico a carattere transfrontaliero. La ricognizione delle buone pratiche necessita poi di un quadro conoscitivo delle metodologie già utilizzate a livello internazionale per la valutazione dell’efficacia nelle strategie ecoturistiche e conservative, con particolare riferimento alla realtà organizzativa delle aree protette. Per il contesto europeo esistono alcune corroborate metodologie finalizzate a individuare principi e orientamenti validi per la pianificazione e gestione del turismo sostenibile in generale e dell’ecoturismo più nello specifico, che rispecchiano i quattro principi precedentemente evidenziati. Tali iniziative, oltre ad essere applicate a casi europei, sono riconosciute a livello internazionale. Nello specifico si tratta delle seguenti metodologie: Diploma Europeo delle Aree Protette; Carta Europea per il Turismo Sostenibile; PAN Parks (Protected Area Network), Europe; Europarc Transboundary Park Evaluation. Nella tabella 3 si riporta una sintesi delle metodologie internazionali.
Tabella 3. Principali criteri per la valutazione dell'efficacia delle strategie ecoturistiche di gestione delle aree protette utilizzate a livello europeo (fonte: elaborazione degli autori).
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Case study: l’area transfrontaliera Parco Naturale Regionali Alpi Marittime – Parc National du Mercantour Sulla base delle metodologie evidenziate nel precedente paragrafo, è stato individuato come caso di eccellenza il sistema di organizzazioni italofrancesi deputate alla gestione dell’area tranfrontaliera “Parco Regionale Alpi Marittime – Parc National du Mercantour”. L’analisi delle politiche di gestione effettuate da tali organizzazioni ha evidenziato complessivamente un elevato livello di pragmatismo, capacità innovativa e di potenziale riproducibilità delle scelte e delle strategie effettuate, nonché una valenza internazionale delle stesse. L’esame dei percorsi strategici compiuti ha inoltre mostrato come le esigue risorse a disposizione delle organizzazioni pubbliche siano state investite in modo da attivare i sistemi socio-economici nella direzione dello sviluppo responsabile. Le organizzazioni deputate alla gestione dell’area tranfrontaliera “Parco Regionale Alpi Marittime – Parc National du Mercantour sono state poi pioniere nel: raggiungimento di standard di eccellenza europei nella conservazione della natura (tra le prime aree in Europa ad aver ottenuto il Diploma di Conservazione della Natura del Consiglio di Europa); ottenimento di standard di eccellenza europea nell’ecoturismo (tra le prime aree in Europa ad aver aderito alla Carta del Turismo durevole); ideazione, concertazione e applicazione di lungimiranti strategie di sviluppo socioeconomico responsabile; applicazione pionieristica di accordi transfrontalieri per la gestione integrata
Ecoturismo in Europa: metodologie per l’eccellenza
dell’ecoturismo (gemellaggio ultradecennale Parchi Alpi Marittime e Mercantour, che supera per efficacia le indicazioni dell’Europarc Transboundary Park Evaluation). L’analisi degli interessanti progetti che le organizzazioni italo-francesi stanno realizzando all’interno del territorio amministrato fa emergere una potenziale riproducibilità delle esperienze positive anche in altri contesti, tenendo comunque conto che la loro implementazione è stata supportata da una preventiva e costante azione di coordinamento su tutto il sistema territoriale. Il fulcro della strategia ecoturistica nel territorio oggetto di analisi è riconducibile in maniera rilevante al quarto dei criteri precedentemente elencati: l’orientamento collaborativo internazionale, che è qui divenuto un vero e proprio “modus cogitandi et agendi”. La collaborazione tra il Parco Nazionale del Mercantour e il Parco naturale regionale delle Alpi Marittime non è frutto di un comportamento episodico, ma è il risultato di un approccio cooperativo sistemico e stabile di lungo periodo, sostenuto da strutture organizzative ah-hoc, quali task force progettuali, comitati, e altre strutture stabili, come il “Gruppo Europeo di Cooperazione Territoriale” (GECT) di cui al Regolamento (CE) n. 1082/2006. L’area possiede un’identità e una strategia ecoturistica unitaria ottenuta grazie a un processo di cooperazione e gemellaggio tra il Parco Nazionale francese Mercantour e il Parco Naturale Regionale italiano delle Alpi Marittime. La collaborazione a livello sistemico si fonda sulla ricerca di una vision condivisa (Senge 2006) in grado di catalizzare le energie dei due parchi e delle aree limitrofe nell’ottica di un percorso strategico comune, di cui l’impegno per la creazione di una riserva transfrontaliera della
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biosfera e l’iscrizione al Patrimonio Mondiale rappresentano obiettivi allo stesso tempo realistici e audaci (Collins, Porras 1996). La collaborazione strutturale tra le organizzazioni italo-francesi è stata realmente finalizzata a creare una vera e propria fusione dei due parchi in una sola entità internazionale basata sulla “vision di uno spazio transfrontaliero unico e protetto”. La visione strategica unitaria e condivisa ha impregnato le attività quotidiane dei due versanti, creando un sistema di collaborazione tra gli attori coinvolti nella creazione di una rete integrata di operatori istituzionali ed ecoturistici e l’integrazione degli strumenti della pianificazione turistica e territoriale (strategie e piani d’azione per il turismo sostenibile, piani di parco, piani pluriennali economici e sociali). La strategia ecoturistica e di sviluppo socioeconomico responsabile del sistema diadico Alpi Marittime-Mercantour è stata basata su una politica di conservazione rigorosa, scientifica, che ha portato a progressivi miglioramenti delle condizioni ecologiche dell’area, in particolare la biodiversità della flora alpina e mediterranea, come indicato nei principi alla base del Diploma Europeo delle Aree Protette. Significative al riguardo le dinamiche di salvaguardia degli animali simbolo, i quali non solo sono i più ricercati dai wildlife observers, ma attraggono molti turisti perché indicatori di un ecosistema sano e incontaminato. Le politiche di conservazione hanno infatti portato a importanti risultati per specie come il camoscio (che trova nell’area una delle più alte concentrazioni di tutte le Alpi), i rapaci (il raro gipeto, volutamente reintrodotto, le aquile e altri ancora), fino ai grandi predatori che spontaneamente hanno riconquistato il territorio (come il lupo), per i quali sono però ancora da compiere importanti passi per favorirne
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l’accettazione sociale nel versante francese. Le strategie di conservazione non hanno coinvolto solo la diversità biogenetica locale, ma anche quella culturale, con importanti interventi di recupero del patrimonio culturale, come le abitazioni rurali tipiche della cultura contadina, i siti archeologici, le piccole cappelle e altri elementi storici. Condizioni territoriali ed ecologiche di eccellenza fortemente volute e progressivamente ottenute, sono divenute dunque un fattore di Porteriana unicità (Porter 1985) nel panorama delle strategie di differenziazione ecoturistica. Le risorse naturali e culturali in ottimo stato di conservazione - e per questo uniche - hanno, infatti, svolto un importante ruolo di attrattore per i segmenti di domanda ecoturistica e heritage. Tali forme di turismo sostenibile hanno a loro volta svolto la funzione di volano per un percorso di sviluppo socio-economico che si ponga in sinergia e non in contrapposizione con la missione conservativa delle aree protette. Al centro delle strategie di sviluppo responsabile sistemico dell’area transfrontaliera “Parco Regionale Alpi Marittime – Parc National du Mercantour” esistono infatti le attività ecoturistiche che rappresentano il motore trainante dell’intera area transfrontaliera italo-francese Marittime/Mercantour. La lungimiranza, la visione e le competenze di alcuni amministratori pubblici, in particolare il management delle due aree protette, ha stimolato la realizzazione di un progetto strategico congiunto, che ha fatto dell’ecoturismo il fattore trainante per un percorso di sviluppo socioeconomico responsabile. Le due aree protette hanno sviluppato, anzi concretizzato, come afferma il loro attuale Piano Integrato Transfrontaliero, “una identità e una visione comune”. Il processo di envisioning è scaturito dall’azione congiunta di queste due
organizzazioni “mission driven”, che hanno avuto il coraggio e la perseveranza di impostare un percorso strategico di lungo periodo. Tale processo è stato stimolato anche attraverso l’adesione pionieristica alla Carta Europea del Turismo Sostenibile (il parco delle Alpi Marittime faceva parte dello “Steering Committee of the ten Europeans Pilot Parks for Sustainable Tourism” già negli anni Novanta). Come teorizzato nel modello precedente, le caratteristiche naturalistiche distintive del territorio sono state poste al centro della strategia ecoturistica. La visione sistemica della strategia turistica è stata rafforzata da un approccio non difensivo ma esplorativo (Miles, Snow 1978), volto a coinvolgere anche i territori comunali nei quali le aree protette ricadono, nell’ottica della trasformazione da un turismo di massa prima molto stagionalizzato ad una gestione turistica ripartita il più possibile nel corso dell’anno. La conservazione e valorizzazione delle risorse naturali, la differenziazione dell’offerta ecoturistica, il miglioramento delle infrastrutture di accoglienza e l’incremento della professionalità degli operatori del sistema turistico sono stati i quattro pilastri del pensiero ecoturistico sistemico che ha caratterizzato la strategia. L’attività educativa rappresenta il core service, che anche se delegato a soggetti privati o non profit (come alcune cooperative) è sempre stato guidato dalle istituzioni pubbliche che possiedono nella loro missione la conservazione e lo sviluppo responsabile del territorio protetto. Importante anche l’offerta educativa rivolta alle scuole. Emblematico al riguardo è il progetto “Scuola di Montagna” volto a creare l’opportunità di apprendere gli antichi mestieri, rafforzando la capacità attrattiva delle scuole locali, elevando la
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qualità dell’offerta educativa e aumentando la conoscenza del territorio, anche attraverso l’apprendimento delle lingue e delle nuove tecnologie. Un esempio importante di approccio sistemico allo sviluppo ecoturistico realizzato nell’area è il cosiddetto progetto “Grand Tour Alpi MarittimeMercantour”, un itinerario stradale che, collegando i vari centri abitati dell’area (comprese le città di Nizza e Cuneo), propone più di venti punti di interesse ambientale e storico-culturale, creando differenti opportunità di visita del territorio. La visione sistemica riguarda anche la valorizzazione della cosiddetta mobilità sostenibile all’interno dell’area del Grand Tour attraverso il potenziamento dei mezzi di trasporto alternativi agli spostamenti individuali in automobile. In quest’ottica il progetto punta al potenziamento del sistema ferroviario e di altri mezzi di trasporto collettivi come ad esempio le navette, l’incentivo della cosiddetta mobilità dolce (ad esempio percorsi a piedi o in bicicletta) e lo sviluppo di percorsi realizzati appositamente per le persone diversamente abili, per le scolaresche e per gli escursionisti. La valorizzazione della mobilità sostenibile ha in questo modo una duplice finalità: da un lato, stimolare l’interesse dei turisti a visitare le aree naturali e semi-naturali presenti lungo il tracciato (anche attraverso la presenza di punti informativi che illustrano le opportunità di fruizione), dall’altro, accrescere lo sviluppo economico del territorio nell’ottica del rispetto dell’ambiente. Il caso studio esaminato offre alcuni preziosi spunti di apprendimento sotto il profilo delle strategie organizzative. In particolare, rilava la presenza di: una visione di sviluppo ecologico, culturale, sociale ed economico realistica ed audace,
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sufficientemente ed autenticamente condivisa dagli attori chiave; un correlato processo strategico lungimirante e perseverante basato su un mutuo e sinergico potenziamento tra il raggiungimento degli obiettivi di conservazione e quelli di sviluppo socio-economico responsabili; una strategia focalizzata su processi sinergici che hanno assegnato un ruolo centrale alle attività ecoturistiche; collaborazioni stabili, durature ed espansive tra organizzazioni deputate alla gestione di aree di pregio naturalistico contigue; una focalizzazione – spesso implicita - su alcuni core values comuni e coerenti tra le culture dei diversi sub sistemi locali che hanno rafforzato l’attaccamento al territorio e il carattere identitario dello stesso.
Spunti di riflessione: pensiero ecoturistico sistemico e responsabilità sociale Nei contesti socio-economici maturi e progrediti, come quello europeo, il potenziamento dell’offerta ecoturistica può offrire rilevanti opportunità per indirizzare l’intero comparto turistico verso maggiori livelli di responsabilità sociale e di qualità della vita delle popolazioni delle regioni coinvolte. Al riguardo è fondamentale che i key players stimolino lo sviluppo di “visioni turistiche condivise e un pensiero turistico sistemico”. Nei contesti turisticamente maturi come quello europeo, dove il patrimonio naturalistico rappresenta un tassello di un mosaico ricco di risorse anche di tipo culturale, storico, archeologico e paesaggistico, è essenziale che l’ecoturismo sia posto in ottica sinergica con altre forme di turismo
Ecoturismo in Europa: metodologie per l’eccellenza
coerenti, all’interno di una strategia integrata e sistemica. In tale prospettiva integrata e sinergica, l’ecoturismo può servire da volano per stimolare uno sviluppo economico, sociale e culturale più responsabile e verosimilmente anche più prospero e durevole. La tipologia di turista che può apprezzare particolarmente i contesti europei di offerta turistica integrata di tipo eco-agri ed heritage non è tanto il wilderness tourist, che ricerca le grandi aree ancora poco contaminate del pianeta. L’ecoturista target per gli operatori europei è colui che apprezza alcune specie animali, alcuni lembi o “tratti incantati” di terra o di mare di pregio naturalistico posti in relazione con altre eccellenze di tipo culturale, storico, archeologico all’interno di un’area più vasta, Tale turista apprezza la natura così come è scaturita da un processo prolungato di interazione tra l’uomo e l’ambiente naturale. I territori, come quello europeo, offrono quindi eccellenti potenzialità per la promozione di un’offerta ecoturistica integrata e sistemica che permetta di differenziare il prodotto turistico proponendo esperienze complementari ai prodotti sole-mare o agli scatti fotografici dei monumenti più famosi. È possibile immaginare strategie turistiche sistemiche sia a livello regionale sia a livello transfrontaliero che privilegino una focalizzazione sulle varie forme di turismo sostenibile, come l’ecoturismo, l’heritage tourism e l’agriturismo. In molti contesti, le aree protette, le heritage attractions, le reti agrituristiche regionali, se armonizzate e organizzate in una strategia a livello sovra regionale (e talvolta anche transfrontaliero), possono creare “un’offerta integrata e sistemica di destinazioni” con caratteristiche distintive di
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unicità, in grado di attrarre turisti internazionali e anche di incidere positivamente sulla destagionalizzazione dei flussi turistici e sull’aumento del periodo di permanenza media dei turisti, soprattutto di quelli esteri. Tale obiettivo richiede la necessità di creare un’immagine unica delle specificità e peculiarità territoriali (magari qualificate da marchi che permettano di identificare i servizi e i prodotti nelle loro qualità distintive), che costituisca un valore competitivo non solo all’interno dei processi produttivi aziendali, ma, nondimeno, per il sistema territoriale nel suo insieme. In quest’ottica, dunque, è importante che la visione sistemica dell’offerta eco turistica sia basata su un’identità coordinata e integrata delle attrazioni turistiche primarie e secondarie offerte. L’analisi delle buone pratiche nella prospettiva collaborativa transfrontaliera ha evidenziato inoltre che promuovere la cooperazione tra le aree protette rappresenta uno dei punti nevralgici su cui occorre agire anche nello sviluppo di una strategia ecoturistica. Dal punto di vista organizzativo-manageriale, la prospettiva sistemica richiederebbe la creazione di un organismo pubblico, con una chiara missione di conservazione e incentivo allo sviluppo sostenibile, che sviluppi competenze distintive nella gestione delle relazioni tra i diversi partner (stimolando anche processi di cooperazione transfrontalieri), che agisca per chiarire e radicare la vision di appartenenza al sistema ecoturistico e che possieda sufficienti poteri per guidare l’intero sistema nella direzione della responsabilità sociale, anche attraverso la regolamentazione di alcune attività cruciali, come quelle turistiche o quelle maggiormente impattanti sull’ambiente naturale.
tra parole e saggi
Il fattore che pertanto potrebbe aumentare le performance non solo sociali e ecologiche, ma anche economiche di lungo periodo dell’intera filiera turistica sostenibile, potrebbe essere dunque quello della creazione di strutture organizzative dotate di una missione con un chiaro orientamento alla responsabilità sociale e tavoli permanenti di partenariato che siano in grado di guidare un processo strategico di offerta turistica basata su un pensiero di tipo sistemico e su visioni comuni di lungo periodo, al fine di motivare e tenere viva la partecipazione degli attori coinvolti. Attuare strategie sistemiche ecoturistiche significa orientare lo sviluppo verso criteri ed obiettivi di responsabilità sociale che contemplino la creazione di modelli di sviluppo fondati sulla conservazione delle risorse naturali e il rafforzamento dell’identità culturale locale, anche attraverso la promozione di azioni concernenti la distribuzione della ricchezza in modo più capillare tra molti micro- operatori locali. L’ecoturismo nel panorama europeo rappresenta un fenomeno variegato che, nella maggior parte dei casi, non si esaurisce nella dimensione naturalistica, ma è indissolubilmente legato anche alla cultura e alle tradizioni delle regioni ospitanti. In quest’ottica, dunque, l’unicità dell’esperienza ecoturistica europea si coglie in una caratterizzazione ampia e sistemica della fruizione delle risorse. In particolare, si evidenzia come in Europa sia spesso possibile compiere un’esperienza ecoturistica che possa prevedere la compresenza di altri elementi, che, sebbene siano distinti, intercambiabili e scindibili, sono integrabili in una strategia di fruizione integrata di tipo modulare. L’ecoturismo europeo, pur nella sua dimensione intrinseca di tipo naturalistico, se inquadrato in una visione sistemica, presenta un elevato livello di sviluppo sinergico con le dimensioni heritage,
rurali, storiche, archeologiche e religiose che sono molto radicate sul territorio. Il turista è raramente solo “eco”, “heritage” o “agri”. E’ pertanto facile immaginare che l’heritage tourist internazionale, attratto dall’unicità dei numerosi patrimoni mondiali dell’umanità disseminati sul territorio europeo, diventi per qualche giorno anche un ecoturista, aggiungendo uno o più pernottamenti per compiere un’immersione in un’area marina protetta, un percorso di trekking in montagna o una gita a cavallo in un’ippovia. Simmetricamente, è possibile immaginare come l’ecoturista in visita in Europa voglia coniugare al percorso naturalistico la visita presso un santuario presente durante il tragitto, una degustazione dei prodotti tipici locali presso un agriturismo o una sosta in una struttura storica del luogo. L’analisi delle buone pratiche fa emergere proprio la necessità di saper cogliere, organizzare e gestire il carattere sistemico dell’esperienza eco turistica.
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Testo acquisito dalla redazione nel mese di maggio 2012. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
tra parole e saggi
Ecomusei e turismo
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Ecomuseums and tourism
Raffaella Riva*
abstract Con il disegno di legge quadro presentato alla Camera dei Deputati nell’ottobre 2009 e la volontà di istituire una commissione per lo sviluppo degli ecomusei presso il Ministero del Turismo, si è aperta una fase di dibattito sul rapporto tra sistemi ecomuseali e promozione turistica del territorio. Un turismo certamente non di massa, ma rispettoso del patrimonio culturale che gli ecomusei, per la loro natura partecipativa e l’attenzione alla valorizzazione diffusa del paesaggio e dell’identità locale, possono adeguatamente supportare. Il turismo, in questa sua accezione di scambio culturale, rappresenta una leva di sviluppo locale, in grado di favorire l’attivazione di risorse nella gestione del territorio e generare nuove economie nelle quali sia forte il dato culturale, di cui l’ecomuseo rappresenta una innovata potenzialità. In quest’ottica l’indotto economico non è il solo valore aggiunto dell’integrazione tra ecomusei e turismo, ma lo è anche la costruzione di relazioni, culturali e socio-economiche, con soggetti anche esterni al sistema locale, che consente di superare il rischio implicito di autoreferenzialità e chiusura.
abstract The drafting of the bill presented to the House of Representatives in October 2009 and the will to establish a commission within the Ministry of Tourism for the development of ecomuseums have fostered a period of debate on the relationship between ecomuseum systems and the touristic promotion of the territory. This is certainly not to invite mass tourism, but the tourism that is respectful to cultural heritage and that the ecomuseums, with their participatory nature and their attention to the diffuse valorisation of the local landscape and identity, can adequately support. Tourism, seen as cultural exchange, is a lever for local development, able to promote the activation of resources in territorial management and to generate new economies with a strong cultural component, among which the eco-museum has an innovative potential. In this perspective, the economical aim is not only the value-added integration of eco-museums and tourism, but it also regards building cultural and socio-economic relationships, with internal and external entities to the local system, eliminating the implicit dangers of becoming self-referential and obsolete.
parole chiave Turismo responsabile, ecomusei, sviluppo locale, scambio culturale.
key-words Responsible tourism, ecomuseums, development, cultural exchange.
local
* Politecnico di Milano, Dipartimento BEST, Ricercatore in Tecnologia dell’Architettura.
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La Carta internazionale del turismo culturale Nell’ottobre del 1999 in Messico, durante la XII Assemblea generale dell’Icomos (International council of monuments and sites - organizzazione non governativa referente dell’Unesco), è stata adottata la Carta internazionale del turismo culturale1, che definisce gli obiettivi prioritari per rendere il patrimonio naturale e culturale fruibile dalla popolazione, e quindi per promuovere un turismo responsabile, rispettoso della cultura locale e fonte di sviluppo sostenibile. La Carta pone l’accento sull’importanza del dialogo tra l’industria turistica e i soggetti che ai diversi livelli sono preposti alla tutela, alla valorizzazione e alla gestione del patrimonio culturale, nella sua più ampia accezione, fatta di monumenti e beni di valore eccezionale, paesaggi, elementi della cultura materiale e immateriale. Al patrimonio culturale si riconosce un valore che, pur ampiamente connotato di valenze sociali e d’uso, esprime anche una rilevanza economica principalmente commisurata alle attività, ai servizi e ai prodotti correlati alla sua gestione e fruizione, che sono più evidenti proprio nel settore del turismo. Implicazioni al tempo stesso delicate perché richiedono una continua ricerca di equilibrio tra l’uso del patrimonio e la sua salvaguardia, nonché la messa in campo di competenze e capacità di gestione e di programmazione strategica di breve periodo, legate alle logiche e ai tempi del settore turistico, ma anche di medio e lungo periodo, legate alle esigenze dello sviluppo locale. La Carta riconosce il turismo come uno dei principali veicoli di scambio culturale. Questo implica la partecipazione attiva della comunità allo sviluppo, anche turistico, del territorio, con l’attuazione di strategie, programmi e progetti per
Ecomusei e turismo
accrescere la qualità dei servizi erogati ai turisti, come diretta conseguenza dell’aumento di qualità di quelli erogati alla comunità locale stessa. Obiettivi specifici di tale approccio sono il potenziamento dei sistemi di gestione del territorio, la qualificazione dell’industria turistica nel suo impegno per la conservazione e la valorizzazione del patrimonio, il continuo dialogo tra le esigenze della conservazione e gli interessi dello sviluppo turistico. Intendendo la “conservazione” non come il fine ultimo dell’intervento sul patrimonio culturale ma, in linea con gli orientamenti strategici europei, come elemento fondamentale per dare concretezza al più generale obiettivo di sviluppo del sistema locale, a livello economico, sociale e ambientale. È questo peraltro quanto emerge anche dal Codice per i beni culturali e il paesaggio che, accanto alla “tutela”2, introduce il concetto di “valorizzazione”3, aprendo alla promozione, all’utilizzo e alla fruizione pubblica dei beni, con interventi gestiti anche da operatori privati. Questo modo di intendere la promozione turistica si muove nella logica della gestione dei visitatori, della destagionalizzazione, della distribuzione su tutto il territorio, dell’articolazione e diversificazione dell’offerta, dell’integrazione tra le strutture, le risorse culturali e il sistema produttivo locale. È quindi un approccio che bene si coniuga con un patrimonio culturale diffuso quale è quello italiano, fatto di elementi di eccellenza culturale e ambientale, ma che certamente trova gran parte del suo forte carattere identitario, che ne fa un unicum a livello internazionale, nel connubio tra paesaggio, cultura materiale e patrimonio immateriale, quindi nelle strette relazioni che intercorrono tra i diversi elementi del sistema.
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Il turismo responsabile come ambito dell’azione ecomuseale: potenzialità e criticità Tali concetti e approcci sono propri anche dei sistemi ecomuseali che, in una accezione aggiornata e innovativa, hanno certamente tra i loro ambiti di azione anche quello della promozione e dello sviluppo di un turismo responsabile. L’ecomuseo, nato come istituzione culturale negli anni settanta nella Francia della Nouvelle Muséologie, su iniziativa di Georges-Henri Rivière e Hugues de Varine4, attraversa oggi in Italia una fase di forte espansione e crescita, seppure in ritardo rispetto al contesto internazionale, con significative sperimentazioni in ambiti anche molto diversi tra loro (dalle aree urbane, a quelle di montagna, ai contesti marini, lacustri e fluviali, alle zone agricole, a quelle della produzione industriale) e con l’emanazione di specifici provvedimenti legislativi regionali5. Nei dispositivi di legge in vigore, tra gli obiettivi dell’attività ecomuseale si rimanda spesso alla partecipazione della popolazione locale alla conservazione e valorizzazione del paesaggio e degli elementi del patrimonio materiale e immateriale, alla creazione e promozione di itinerari culturali e turistici, all’integrazione con i programmi di valorizzazione territoriale e i sistemi turistici locali. Chiari quindi i riferimenti al legame che intercorre tra ecomusei e turismo, legame peraltro evidenziato anche nella proposta di legge quadro presentata alla Camera dei Deputati nell’ottobre del 2009 e nella volontà di istituire una commissione per lo sviluppo degli ecomusei presso l’allora Ministero del Turismo. Un turismo certamente non di massa, ma sostenibile e rispettoso del patrimonio culturale che gli ecomusei, per la loro stessa natura fortemente partecipativa e per l’attenzione alla valorizzazione
tra parole e saggi
diffusa del paesaggio e dell’identità locale, possono adeguatamente sostenere e supportare. Nella pratica l’azione ecomuseale è principalmente incentrata sul processo di costruzione di una nuova cittadinanza attiva che acquista coscienza del proprio ruolo nella gestione del territorio e quindi della propria responsabilità nella condivisione delle scelte per il suo sviluppo. Gli ecomusei sono dunque il luogo della negoziazione, ossia della riformulazione degli “interessi” dei singoli in termini di interessi collettivi, e rappresentano la sede ideale per lavorare sulla ricerca di quegli equilibri compromissori, nel senso positivo del termine, tra conservazione e sviluppo, in grado di produrre vantaggi per la comunità locale. Un ruolo di facilitatore del dialogo e dello scambio tra i soggetti interni ma anche esterni al sistema locale, dove il turismo si configura sia come uno degli ambiti operativi per generare sviluppo, sia come valore aggiunto in grado di favorire proprio il confronto con l’esterno, quindi di superare il rischio implicito di “autoreferenzialità” e di “immobilismo”, spesso presente in molte strutture che si definiscono ecomusei. In particolare per quanto riguarda il caso italiano l’ecomuseo è concepito come presidio diffuso di competenze tecniche e scientifiche e osservatorio sul paesaggio e sul patrimonio culturale, e può essere assimilato alla cabina di regia di un programma integrato di tutela e valorizzazione di un sistema locale, la cui azione è principalmente rivolta all’individuazione del capitale territoriale e alla definizione di “percorsi” per la sua interpretazione, affidandone le gestione alla comunità locale. È dunque un laboratorio di sostenibilità, struttura flessibile e modificabile nel tempo che può svolgere il compito di educare ad “abitare” il territorio (e non solo a occuparlo e
utilizzarlo), creare nuovi valori nei quali sia fondante il dato culturale, produrre sviluppo in termini di redditi e benefici alla popolazione e quindi promuovere nuove economie locali, tra le quali anche il turismo. L’ecomuseo ha proprio come requisito imprescindibile quello di produrre sviluppo, anche in termini di redditi misurabili e benefici alla popolazione, di cui gli Enti locali sono garanti. All’ecomuseo dovrebbe dunque essere affidato il compito di redigere un vero e proprio bilancio sociale della gestione del territorio, nel quale individuare puntualmente le risorse e dal quale dedurre condizioni (sia materiali sia etiche) e costi dei programmi di sviluppo. Un bilancio che comprende elementi oggettivi e misurabili, ma anche elementi soggettivi da determinare in modo partecipato, con logiche che vadano oltre gli approcci dell’analisi costi-ricavi e di mercato, considerando parametri quali la trasformazione del territorio, gli effetti indotti sull’attività economica a lungo termine, l’utilità sociale diretta e indiretta, i rapporti con le risorse umane locali, il valore aggiunto al patrimonio culturale esistente, al paesaggio e alle risorse in termini di conoscenze e competenze pratiche, la creazione ed espansione del capitale fisso locale. Così concepito, l’ecomuseo favorisce i processi di conoscenza e di riconoscimento dei valori identitari, individuando percorsi, fisici e di senso, che uniscono gli elementi “noti” del patrimonio con altri considerati “minori” perché ancora non adeguatamente valorizzati, in una logica di museo diffuso. In questo senso l’ecomuseo si fa promotore del turismo inteso come strategia di filiera: dal recupero ambientale, alla creazione di nuovi valori di paesaggio, al riuso dei manufatti tradizionali, alla realizzazione di una rete dell’ospitalità e di servizi
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di qualità per la fruizione del territorio, alla promozione di un mercato di prodotti locali, anche allo scopo di creare nuove occasioni di impiego. Il turismo dunque rappresenta certamente una potenzialità per lo sviluppo ecomuseale proprio perché consente di rigenerare le economie locali in quella logica di filiera che coinvolge più ampiamente la comunità. Esiste comunque il rischio di “musealizzazione” fine a se stessa: questo rischio è presente laddove si favoriscano le sole azioni di promozione, a discapito della ricerca e della diffusione della conoscenza del patrimonio con azioni che comportano il confronto con l’esterno; per un “accreditamento” che vada oltre i riconoscimenti di legge, peraltro limitati solo ad alcuni contesti regionali. Questo confronto esterno si esprime a livello di “reti lunghe” con la creazione di comunità di pratica6 o reti regionali7, per la formazione degli operatori, lo scambio di buone pratiche e la collaborazione a progetti di sistema. A livello più diffuso il confronto esterno è dato dalla possibilità che ciascun “utente” dell’ecomuseo, quindi ciascun “abitante” anche temporaneo (ad esempio il turista), ha di relazionarsi con gli altri. Se alla definizione del patrimonio culturale contribuiscono tutti i componenti della comunità locale in quanto depositari di conoscenze e valori, analogamente al riconoscimento di tali valori contribuiscono tutte le relazioni che si instaurano all’interno e all’esterno del sistema. In questo senso il turista non è solo portatore di benefici economici, ma anche di conoscenza, creatività e innovazione.
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Il contributo degli ecomusei allo sviluppo turistico: buone pratiche Nella realtà italiana spesso si evidenzia una discrasia tra questi principi teorici di sviluppo sostenibile e di partecipazione che connotano l’azione ecomuseale, e la pratica delle sperimentazioni. I motivi sono da ricercare nella mancanza di status giuridico degli ecomusei (anche nelle Regioni in cui sono riconosciuti, lo status è legato a quello del soggetto gestore) e quindi nella scarsa autorevolezza ai tavoli decisionali, nella episodicità delle azioni promosse sul territorio, conseguenza di strutture marcatamente di tipo volontario o che operano prevalentemente sulla base di occasioni di finanziamento, nella difficoltà di instaurare forme di integrazione e collaborazione stabili con gli Enti locali, i professionisti e la comunità scientifica. Queste criticità, che hanno ragioni di carattere strutturale, portano generalmente a una distorsione del rapporto tra ecomusei e turismo, con la “musealizzazione” del sistema locale e la conseguente “involuzione”. Non mancano però esempi virtuosi, nei quali le azioni anche di promozione turistica sono state concepite come occasioni di crescita culturale, di confronto con l’esterno, di qualificazione dell’offerta dei servizi alla collettività. In particolare, gli ambiti dell’azione ecomuseale legati allo sviluppo di un turismo responsabile si possono evidenziare nella promozione della partecipazione e della formazione, nella valorizzazione del patrimonio culturale, nell’implementazione dell’accessibilità del territorio e della mobilità lenta, nella conservazione del patrimonio architettonico e paesaggistico, nella diffusione della cultura dell’accoglienza e nella
Ecomusei e turismo
promozione dei prodotti locali e delle certificazioni di comunità. Certamente, per un soggetto che si pone come obiettivo la sensibilizzazione della collettività rispetto alla tutela dei valori identitari del territorio, la prima azione da porre in essere è quella di far prendere coscienza, conoscere e diffondere tali valori, ad esempio attraverso sopralluoghi collettivi o la redazione di “mappe di comunità”. Le mappe di comunità, di derivazione anglosassone8, sono rappresentazioni soggettive del territorio elaborate dalla comunità locale. Il processo di formazione della mappa, ben più importante dell’esito in sé, prevede una prima fase con la definizione del gruppo di lavoro e la sua formazione. Il processo generalmente occupa circa un anno e mezzo di lavoro, scandito da incontri periodici tra le persone appartenenti al gruppo di riferimento che, attraverso discussioni, raccolta di documenti, testimonianze, interviste, sopralluoghi, ricerche e analisi cartografiche, individuano gli elementi peculiari del territorio (sia materiali, sia immateriali), attribuendogli un valore che tenga conto dell’esperienza personale e delle diverse informazioni raccolte. Si tratta di un valore simbolico, mutevole nel tempo e rappresentativo per la collettività che lo attribuisce, ma che da un “esterno” potrebbe oggettivamente non essere percepito. Per questa ragione diviene fondamentale anche la scelta di come rappresentarlo. L’esito di una mappa di comunità non è infatti necessariamente una cartografia, molteplici sono le modalità rappresentative: dal quadro, al video, al gioco in scatola, al sito web. L’Ecomuseo del Vanoi, in Trentino, ad esempio, ha deciso di rappresentarsi attraverso un drappo ricamato, a richiamare una pratica largamente diffusa nel passato. L’Ecomuseo del Paesaggio di Parabiago, in
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Provincia di Milano, ha corredato la mappa con una “descrizione sonora”, realizzando registrazioni di rumori, l’acqua e alcune lavorazioni tradizionali, ritenuti caratterizzanti il territorio. Una scelta diversa ha portato l’Ecomuseo Urbano Metropolitano di Milano Nord a operare principalmente attraverso interviste e quindi con lo strumento del video e una mappa interattiva online dove ciascuno (anche gli eventuali turisti) ha potuto e può inserire annotazioni, conoscenze ed esperienze da condividere con gli altri. In particolare il sistema è diviso in tre sezioni: l’utente può scegliere se lasciare testimonianze legate al passato nella sezione “ieri”, in “oggi” può fare riferimento ai progetti e alle azioni di trasformazione del territorio in essere, nella sezione “domani” può avanzare suggerimenti e proposte. Si tratta di un modello diffuso nella pianificazione territoriale e strategica, particolarmente adatto a raccogliere osservazioni, desiderata e critiche, in un sistema aperto e implementabile. Un sistema che bene si presta anche a registrare i feedback di chi il territorio lo vive da “esterno”, come i turisti9. Una volta individuati e condivisi i valori identitari del sistema locale, l’ecomuseo deve fornire le chiavi di lettura e di interpretazione del territorio, attrezzando itinerari e percorsi conoscitivi, a disposizione sia degli abitanti sia dei turisti. È il caso dell’Ecomuseo del Vanoi che, sulla base anche di quanto emerso dai processi per la redazione delle mappe di comunità, ha individuato i temi caratterizzanti e rappresentativi del patrimonio locale (l’acqua; il sacro; la mobilità, dai fondovalle ai prati alti dei pascoli; l’erba; il legno, dalla coltivazione del bosco alla sua lavorazione; la guerra, con i segni del primo conflitto mondiale; la pietra, sulle tracce di cave e miniere) e su questi
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ha strutturato gli itinerari di visita per descrivere il territorio. In particolare i temi hanno trovato espressione nell’interazione di quattro elementi: le “persone” (che abitano stabilmente o temporaneamente il territorio), intese come portatrici di conoscenze e strumenti di interpretazione del patrimonio; i “percorsi”, ovvero gli strumenti di approccio al territorio; i “siti”, individuati con l’inserimento di elementi puntuali denominati “cilindri del tempo” e “cilindri della mobilità” che invitano il visitatore a fare delle soste e osservare in modo critico il paesaggio, riflettendo su come si sia modificato nel tempo (ad esempio con l’avanzamento del bosco a seguito dell’abbandono dei pascoli) e su come ancora oggi sia diversamente vissuto durante l’anno; infine i “centri di interpretazione”, concepiti come luoghi per la prima informazione, dove trovare approfondimenti e spunti per la fruizione del territorio. Analoga la scelta dell’Ecomuseo del Casentino, in Provincia di Arezzo, che ha suddiviso gli elementi individuati come identitari in sei diversi sistemi tematici: l’archeologia; la civiltà castellana, con il sistema delle fortificazioni e dei castelli; il bosco; l’acqua; il manifatturiero, legato in particolare alla filatura della lana; l’agropastorale. L’esplicitazione di chiavi di lettura del territorio consente principalmente al turista di comprenderne in modo più efficace la complessità e l’articolazione, e lo pone nelle condizioni di selezionare i luoghi e i percorsi di visita sulla base dei propri interessi. Azioni di carattere strutturale sono poi promosse dagli ecomusei per il recupero e il riuso del patrimonio architettonico tradizionale, con l’obiettivo in primo luogo della “manutenzione” e valorizzazione del paesaggio, ma anche della
creazione di un sistema di ricettività sostenibile, e quindi della diffusione della cultura dell’accoglienza. Significativa l’esperienza dell’Ecomuseo Val Taleggio, in Provincia di Bergamo, per il recupero delle baite con i tetti in piöde (pietre scure locali) a falde molto spioventi, la cui manutenzione, proprio per le peculiarità costruttive, è particolarmente onerosa (fino a quattro volte più costosa rispetto a una copertura comune con pendenze più contenute) e quindi economicamente non vantaggiosa per i privati proprietari degli immobili. Per incentivare il recupero, e quindi la tutela degli elementi identitari del paesaggio, anche da parte privata, l’Ecomuseo ha promosso due azioni pilota sulle baite di sua proprietà. Nelle strutture restaurate hanno trovato sede il consorzio per la tutela del taleggio e dello strachìtunt (prodotti per cui è nota la Val Taleggio), e una “baita&breakfast”, con l’obiettivo di stimolare la creazione di un sistema di bed&brekfast diffusi sul territorio (nella valle sono presenti circa un migliaio di baite). Il recupero delle baite e lo sviluppo di una rete diffusa di strutture ricettive consentirebbe infatti un significativo aumento dell’offerta turistica, agendo anche da volano in un territorio che basa la propria economia principalmente sull’allevamento e la produzione casearia. Il recupero del patrimonio edilizio in funzione della creazione di baite&breakfast diviene dunque una leva di sviluppo economico del sistema locale in grado di contrastare, almeno in parte, la tendenza al progressivo abbandono della valle. Anche l’Ecomuseo dell’Alta Val Sangone, in Provincia di Torino, ha promosso un’iniziativa nella direzione della valorizzazione del patrimonio edilizio locale. La zona, molto apprezzata dal punto di vista paesaggistico, presenta infatti problemi di ricettività, con un’offerta inadeguata rispetto alla
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domanda, non risolvibile con infrastrutture di nuova costruzione, incompatibili con i caratteri del paesaggio, caratterizzato da costruzioni isolate e piccoli borghi di montagna. La scelta dell’Ecomuseo è stata quindi quella di intervenire riqualificando un vecchio borgo ormai abbandonato, Borgata Tonda, per trasformarlo in “albergo diffuso”. Il progetto ha innanzitutto previsto una mappatura dello stato di conservazione degli edifici, valutando quelli che potevano essere recuperati e individuando le funzioni compatibili per il loro riuso. Nei manufatti recuperati sono quindi state “ridistribuite” le funzioni tipiche di un albergo. La creazione di un albergo diffuso, qui favorita dalla vicinanza degli edifici interessati dall’intervento, trova possibilità di sviluppo anche in contesti più strutturati e articolati, ne è un esempio la città di Mantova, dove la Provincia, gestore dell’iniziativa, ha concepito l’albergo diffuso come messa a sistema di strutture alberghiere di dimensioni ridotte, consentendo di qualificare e accrescere la capacità ricettiva della città, che ha visto aumentare il numero di visitatori a seguito dell’inserimento nel 2008 nella lista del patrimonio mondiale dell’Unesco. Ma non solo tutela e valorizzazione del patrimonio edilizio, interessante anche l’impegno di alcuni ecomusei per la valorizzazione delle produzioni locali, legate al mondo dell’agricoltura e dell’allevamento che, con l’avvento della grande distribuzione e del mercato globale, sono diventate non più economicamente sostenibili e perciò poco competitive. L’idea alla base è quella di recuperare le lavorazioni tradizionali, anche innovandole, per destinarle al mercato locale e a mercati “di nicchia”, superando le difficoltà principalmente legate alla ridotta dimensione delle imprese coinvolte, spesso addirittura costituite da una o due
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persone, che singolarmente non hanno la forza e le risorse per potersi innovare e presentare sul mercato. Una soluzione può essere trovata nella creazione di consorzi e nella promozione di marchi di qualità, riferiti all’intero ciclo produttivo e ai valori culturali del territorio d’origine per i quali gli ecomusei possono fare da garanti. La perdita infatti di tali produzioni si ripercuote sul patrimonio culturale, che ne risulta certamente impoverito, oltre che sull’abbandono anche di porzioni di territorio e di paesaggio, non più manutenuti. Per veicolare i principi di sostenibilità e di responsabilità , anche attraverso i “prodotti” locali, l’Ecomuseo della Valle Elvo e Serra, in Provincia di Biella, si è fatto promotore di una ricerca presso i pochi produttori rimasti di formaggi ricavati dalla lavorazione di latte crudo, tipica della valle, stimolando la formazione di una rete, che ha portato nel 2005 alla creazione del marchio “Lattevivo”. Oggi il marchio è una vera e propria “certificazione di comunità”, dove la qualità del formaggio e del ciclo produttivo è garantita dai produttori stessi, mentre l’Ecomuseo garantisce il “valore d’origine”. L’Ecomuseo delle Acque del Gemonese, in Provincia di Udine, si è invece mosso nella direzione del recupero di una produzione locale (andata in disuso per l’abbandono della pratica della coltivazione del mais a ciclo vegetativo breve e i mutati gusti alimentari), il “pan di sorc”, nella logica di favorire ricerca e sviluppo, intesi anche come reinterpretazione del patrimonio di conoscenze e di saperi della comunità. Il processo ha interessato tutte le fasi del ciclo produttivo: dalla reintroduzione della coltivazione del mais cinquantino, andandone a recuperare l’originaria semente e promuovendo contestualmente lo sviluppo di pratiche rurali, anche sperimentali,
Ecomusei e turismo
incentrate sulla sostenibilità ambientale e, di conseguenza, la riqualificazione del paesaggio; all’organizzazione di una rete di produttori/conservatori impegnati a preservare la specie a livello locale; alla strutturazione di una filiera agroalimentare, dalla produzione, alla macinazione delle farine, alla realizzazione del pane, alla commercializzazione locale, compresa la fornitura delle mense scolastiche, alla promozione a scala nazionale attraverso progetti di ricerca e di scambio. Un’iniziativa che, oltre a reintrodurre e valorizzare produzione locale, portatrice di valori culturali, ha consentito di creare nuove occasioni imprenditoriali e di impiego.
Prospettive di sviluppo Se l’indotto economico non è il solo valore aggiunto dell’integrazione tra ecomusei e turismo, occorre però constatare che allo stato attuale le esperienze, anche virtuose, sul territorio italiano spesso limitano a questo il loro potenziale d’azione. Sicuramente il turismo, correttamente gestito, può rappresentare un volano per il rilancio economico e quindi sociale di un territorio, ed è anche occasione e stimolo, oltre che risorsa, per garantire il mantenimento dei valori culturali e del paesaggio. Poco è però finora stato fatto rispetto al potenziale di confronto e scambio che è in grado di attivare. Molti ecomusei agiscono in una logica di rete allargata e stabiliscono rapporti stabili con le altre realtà del territorio e con altre strutture ecomuseali omogenee con le proprie specificità locali. Tali relazioni consentono di strutturare progetti di rete, rivolti alla ricerca, alla conservazione, alla valorizzazione, alla fruizione e alla formazione. Si tratta però di confronti con interlocutori in un certo
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senso “privilegiati”, appartenenti alla stessa comunità scientifica, con orizzonti culturali comuni, che condividono esperienze analoghe. Ulteriori e forse in alcuni casi anche più interessanti stimoli si potrebbero derivare dal confronto esteso con il “generico” visitatore, per sua natura portatore delle più diverse aspettative, esperienze, interessi e competenze. Gli scambi artistici, generalmente con donazioni di opere in cambio dell’ospitalità ricevuta, pur presenti anche in ambito ecomuseale, testimoniano come questi siano di sicuro stimolo per il sistema locale, che solo dal confronto e dalla “contaminazione” può innovarsi e rinnovarsi, trasferendo al sistema locale buone pratiche e conoscenze mutuate da altri contesti, e generando quindi sviluppo sostenibile. Occorrerebbe quindi favorire e “progettare” questi momenti di scambio, considerando innanzitutto il turista non come “spettatore” della trasformazione, ma come “attore” di essa. Progetto del processo di acquisizione e di integrazione dei contributi esterni all’interno dei programmi di sviluppo, ma anche progetto degli spazi dell’interazione, sia fisici sia immateriali. Si apre dunque un ampio ventaglio di azioni: dalla raccolta di osservazioni attraverso questionari o forum, alla richiesta di punti di vista personali di interpretazione del patrimonio culturale, alla partecipazione attiva durante sopralluoghi, ricerche, eventi, al coinvolgimento diretto negli interventi di conservazione e valorizzazione attraverso campi di lavoro, alla compartecipazione ai costi di gestione ordinaria e straordinaria, ma anche al confronto sulle modalità di intervento. Un ambito ancora poco esplorato nel quale il contributo degli ecomusei può essere di grande interesse e rilievo per i processi di sviluppo locale, perché agisce sull’integrazione culturale.
tra parole e saggi
Riferimenti bibliografici
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Testo acquisito dalla redazione nel mese di maggio 2012. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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Rielaborazione della precedente Carta del 1976.
L’art. 3 comma 1 del D.Lgs. 22 gennaio 2004 n. 42 e s.m.i., stabilisce che “La tutela consiste nell'esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette, sulla base di un'adeguata attività conoscitiva, ad individuare i beni costituenti il patrimonio culturale ed a garantirne la protezione e la conservazione per fini di pubblica fruizione”. 3 L’art. 6 comma 1 afferma che “La valorizzazione consiste nell'esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso, anche da parte delle persone diversamente abili, al fine di
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promuovere lo sviluppo della cultura. Essa comprende anche la promozione ed il sostegno degli interventi di conservazione del patrimonio culturale. In riferimento al paesaggio, la valorizzazione comprende altresì la riqualificazione degli immobili e delle aree sottoposti a tutela compromessi o degradati, ovvero la realizzazione di nuovi valori paesaggistici coerenti ed integrati”. 4 L’ecomuseo di Rivière e de Varine è l’espressione di un nuovo concetto di istituzione museale che si muove tra valenze sociali e reti di relazioni, e si caratterizza per una grande attenzione al contesto e alle espressioni culturali cosiddette “minori”. Per Rivière, più legato al rapporto tra uomo e ambiente (inteso sia come ambiente naturale sia come contesto di vita), “L’ecomuseo è uno strumento che un potere e una popolazione concepiscono, fabbricano e utilizzano insieme. Uno specchio in cui la popolazione si guarda. Un’espressione dell’uomo e della natura. Un’espressione del tempo. Una interpretazione dello spazio” (1980). Per de Varine, più attento agli aspetti della partecipazione sociale, “L’ecomuseo è un’istituzione che gestisce, studia, utilizza a scopi scientifici, educativi e culturali in genere, il patrimonio complessivo di una comunità, comprendente l’insieme dell’ambiente naturale e culturale di tale comunità. L’ecomuseo è uno strumento di partecipazione popolare alla gestione del territorio e allo sviluppo comunitario” (1976). 5 Ai primi provvedimenti della Regione Piemonte nel 1995 e della Provincia Autonoma di Trento del 2000, hanno fatto seguito il Friuli Venezia Giulia e la Sardegna nel 2006, la Lombardia e l’Umbria nel 2007, il Molise nel 2008, la Toscana nel 2010 e la Puglia nel 2011. Soprattutto queste ultime leggi, cosiddette di seconda generazione, promuovono un approccio bottom-up, affidando alla comunità locale un ruolo centrale nella decisione di creare e istituire una struttura ecomuseale, e ne sottolineano l’autonomia e l’“autosufficienza” intesa come capacità di generare sviluppo anche economico. 6 Ne è un esempio la comunità di pratica Mondi Locali che dal 2004 riunisce strutture ecomuseali e ricercatori, italiani ed europei, che si riconoscono in un’idea di nuova
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Ecomusei e turismo
museologia basata sul rispetto del patrimonio materiale e immateriale locale e sulle diversità entro e fra le culture. La comunità opera attraverso gruppi di lavoro tematici, momenti di confronto, scambi di buone pratiche, iniziative collettive. Per approfondimenti si rimanda al sito: www.mondilocali.it. 7 La necessità di un coordinamento e dell’ottimizzazione delle risorse ha portato alla creazione di reti regionali, con funzioni di supporto tecnico e operativo per le singole realtà ecomuseali, sia per accompagnarne la fase di start up iniziale, sia per una gestione “a regime”, attraverso l’erogazione di servizi comuni, quali corsi di formazione (è ad esempio il caso della Rete Ecomusei di Lombardia con i corsi per operatore e facilitatore ecomuseale), o progetti di sistema (come per la Rete Mondi Locali del Trentino che ha promosso il progetto “mappe di comunità” e si sta attualmente occupando della redazione dei bilanci sociali, sia dei singoli ecomusei, sia della rete nel suo complesso), o gestione dell’immagine coordinata (il riconoscimento in Lombardia e Trentino corrisponde all’apposizione di un vero e proprio marchio di qualità, utilizzato per materiali promozionali, eventi, segnaletica sul territorio, linea di merchandising). 8 Le mappe di comunità traggono origine dalle parish map inglesi, introdotte a metà degli anni ottanta da Common Ground, ente non-profit, per la promozione del sentimento di appartenenza degli abitanti ai luoghi. 9 Per un approfondimento sulle mappe di comunità si rimanda al sito www.mappadicomunita.it, gestito dall’Ecomuseo delle Acque del Gemonese in collaborazione con Mondi Locali.
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Tra parole e saggi
La divulgazione del paesaggio in ambito turistico: criteri, metodi, esperienze
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The popularization of the landscape concept in the tourist context: criteria, methods, experiences
Frederick Bradley*
abstract In ambito turistico il paesaggio non ha ancora assunto il significato che gli attribuisce la Convenzione Europea del Paesaggio, essendo di fatto concepito come una visione scenica del territorio con fini essenzialmente esteticoemozionali (panorama). Questa condizione impedisce all’osservazione paesaggistica di acquisire il ruolo che le dovrebbe competere in una politica di sviluppo turistico sostenibile e competitivo. Affinché il paesaggio divenga elemento di primo piano nella visita e nella conoscenza del territorio è necessario adottare pratiche di divulgazione in grado di captare e stimolare l’interesse del turista. Poiché le stesse pratiche di divulgazione sono anche importanti strumenti di sensibilizzazione al paesaggio, con la loro adozione il turismo diverrebbe uno straordinario viatico dei dettami della CEP
abstract In the tourist context, the landscape meaning, as defined by the European Landscape Convention (ELC), is not yet well understood: actually, landscape is just conceived as a scenic view of the territory (panorama). This situation limits the role that landcape observation should play in policies aimed at promoting a sustainable and competitive tourism development. In order that landscape become a crucial element in visiting and knowing the territory, it is necessary to activate popularization methods able to capture and stimulate the tourist interests. The adoption of polularization methods could make tourism an extraorinary opportunity for applying the ELC principles, as they contitute important tools also for landscape sensitization.
parole chiave Paesaggio, turismo, divulgazione, sensibilizzazione
key-words Landscape, tourism, popularization, sensitization.
* GUIPA, Guide al Paesaggio d’Italia, www.guipa.it
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Chi si occupa di paesaggio dal punto di vista professionale o accademico non potrà non rilevare che il binomio “turismo e paesaggio” racchiude invariabilmente un’incongruenza: come può un concetto accessibile a una ristretta élite culturale e la cui definizione convenuta a livello internazionale risale a poco più di una decina d’anni avere lo spessore sufficiente a supportare un’industria turistica? Come può una materia che per la sua stessa natura interdisciplinare non ha ancora connotati precisi fare da riferimento per la fruizione turistica del territorio? Ma, soprattutto, come può una visione strutturalmente così lontana dal pensiero comune essere oggetto di un’attività del tutto popolare, quale è quella turistica? In realtà la risposta è nota: in ambito turistico il paesaggio comunemente inteso non riguarda la percezione dei caratteri del territorio, bensì la sua restituzione scenica indotta e mediata dal gusto estetico dell’osservatore (Bradley 2012). Il paesaggio così come concepito dalla Convenzione Europea del Paesaggio non esiste in quanto prodotto turistico e al suo posto si conviene abitualmente collocare il panorama, elemento, questo sì, del tutto consono agli scopi del turista (Bradley 2011b). Una sostituzione che trova precisi riscontri sia nelle icone classiche del “paesaggio” turistico mondiale come la Monument Valley (fig. 1), sia in quelle culturalmente più accessibili come il paesaggio delle Cinque Terre (fig. 2), dove la scena contiene effettivamente i vigneti terrazzati ma questi vi entrano come elemento statico, quasi autoreferenziale, e non già come parte di un tutto dinamico che comprenda e dia un senso alle altre componenti del territorio. Ecco dunque che se la spiaggia dà adito al turismo balneare, la campagna a quello rurale, al di fuori dei casi più eclatanti come quelli prima citati, il paesaggio in sé non può
La divulgazione del paesaggio in ambito turistico: criteri, metodi, esperienze
Figura 1. La Monument Valley.
Figura 2. Le Cinque Terre.
generare il “turismo paesaggistico” perché in realtà si tratta solo di panorama e come tale assume una valenza di corollario estetico e non di sostanza. In pratica, il turista è attratto dalla visione eccelsa del territorio e non dal suo significato. Lo si ripete: si tratta di una condizione ben nota agli addetti ai lavori ma risulta sempre desolante sentirsi dire, com’è capitato a chi scrive, che in un luogo come la Lunigiana, essendo coperta da boschi, non c’è paesaggio! E il quadro diviene addirittura preoccupante se questa convinta asserzione proviene dal responsabile di un’associazione preposta alla promozione territoriale. Un piccolo esempio che dà la misura dell’importanza e l’urgenza della sensibilizzazione al paesaggio e dell’immenso lavoro che tale obiettivo comporta.
difficile ma rischia di essere addirittura controproducente laddove non vi sia la possibilità di introdurre e sviluppare il tema paesaggistico nella forma che gli dovrebbe competere. La difficoltà maggiore consiste nel trasmettere al fruitore turistico, o al promotore dell’attività turistica, che il paesaggio è ben altra cosa rispetto al panorama e, a differenza di questo, consente di arrivare alla comprensione complessiva del territorio, avvalendosi sia della visione panoramica, sia di elementi puntuali del territorio non necessariamente visibili in una scena di ampio raggio. A questa difficoltà si aggiunge il fatto che spesso l’interlocutore, anche perché ritiene di sapere cos’è un paesaggio, rifiuta un approfondimento della materia bollandolo come un esercizio didattico poco attinente al suo interesse di turista. Nel quadro dell’attività divulgativa è assolutamente necessario tenere sempre ben presente questa doppia difficoltà, pena la vanità di ogni sforzo e il rischio che l’interlocutore veda rafforzate le sue errate convinzioni in tema di
Criteri e metodi di divulgazione A fronte di questa situazione si capisce come parlare di paesaggio in ambito turistico sia non solo
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Tra parole e saggi
paesaggio. Dunque, le condizioni chiave della divulgazione del paesaggio in ambito turistico sono sostanzialmente due: l’adozione di pratiche che consentano di aprire un dialogo indiretto con l’interlocutore, così che egli non lo rifiuti a priori; la capacità di stimolare costantemente l’interesse dell’interlocutore coinvolgendolo attivamente nel processo divulgativo. È noto che l’attività divulgativa pertiene al campo della comunicazione, funzione che nell’ambito delle strategie di sensibilizzazione al paesaggio rappresenta il primo atto di un processo complesso che interviene nei vari aspetti del rapporto tra paesaggio e popolazione (Bradley 2011b, Bradley et al. 2012). Ne consegue che, potendo fare divulgazione attraverso il turismo, questo diverrebbe un formidabile strumento di sensibilizzazione che si pone a lato delle politiche promosse ad hoc per la diffusione della cultura del paesaggio nei termini espressi dalla CEP, non certo sostituendosi ad esse, ma integrandole con le forme comunicative e i bacini d’utenza tipici dell’industria turistica. In realtà, forme di divulgazione paesaggistica in ambito turistico esistono da tempo ma in genere soffrono dei medesimi problemi cha affliggono il concetto di paesaggio tra i non specialisti. E non potrebbe essere altrimenti essendo il quadro di riferimento per chi attua una divulgazione, per così dire, inappropriata, il medesimo dei destinatari della stessa. Si rende dunque necessaria la creazione di nuove forme divulgative in conformità con il concetto corretto di paesaggio e la loro adozione negli ambiti d’intervento tipici del settore turistico, definiti sia in base ai mezzi di comunicazione utilizzati, sia dal livello culturale dei fruitori. Presupposto indispensabile per questa
operazione è l’individuazione dei possibili punti di contatto tra la tipica fruizione turistica e il paesaggio propriamente inteso. Fortunatamente, tali punti d’incontro sono piuttosto frequenti nel territorio e si possono raggruppare nelle seguenti categorie: punti di osservazione panoramica, siti di valore naturale, storico e culturale, produzioni eno-gastronomiche tipiche, eventi storici e culturali. Ognuna di questa categorie comprende elementi che sono a un tempo interesse diretto del turista e componenti essenziali per la corretta fruizione del paesaggio. Essi sono dunque gli strumenti ideali per soddisfare le condizioni chiave prima citate e l’azione divulgativa avrà inizio nel momento in cui saremo in grado di parlare correttamente di paesaggio presentando questi stessi elementi al nostro interlocutore in forma nuova rispetto a come lui è abituato a vederli: una forma che ovviamente sarà funzionale a trasmettere il nostro messaggio. All’atto pratico questa consiste in una serie di metodi comunicativi che nel complesso possono dare vita a un progetto articolato su più fasi tra loro conseguenti, ma possono essere anche oggetto di singoli programmi attuativi pensati in funzione del target specifico della divulgazione e dei mezzi di comunicazione più idonei allo scopo. Lo schema che qui proponiamo segue un processo logico di trasmissione dell’informazione che attraverso vari momenti conoscitivi vuole portare l’interlocutore a apprendere il meccanismo interpretativo del paesaggio e a farlo gradualmente proprio, prima in forma puntuale e frammentaria, poi sotto forma di normale modus operandi da adottare nella visita al territorio. È ovvio che il risultato finale sarà funzione oltre che della capacità del divulgatore di interloquire
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efficacemente con il destinatario della divulgazione, anche della disponibilità di quest’ultimo a recepire il messaggio trasmesso. Ma al di là della qualità del risultato, resterà il fatto che il nostro interlocutore avrà comunque preso coscienza di un modo nuovo di fare turismo in cui il paesaggio da elemento estetico di contorno può diventare l’oggetto primo del suo interesse di turista. Lo schema di divulgazione paesaggistica in ambito turistico, qui proposto, si ispira a due fattori: una condizione che in passato doveva essere comune a gran parte della popolazione; un carattere tipico del pensiero umano. La condizione del passato si riferisce alla necessità dell’uomo di leggere e interpretare il paesaggio in cui viveva e con cui si doveva confrontare pressoché quotidianamente per far fronte alle proprie esigenze di vita. L’esempio più classico a questo proposito è riferibile ai membri della società contadina prima che l’attività agricola si svincolasse dall’ambiente di coltura e dai ritmi stagionali, come spesso avviene nelle moderne pratiche agrarie: se anche allora non mancava certo una visione estetica del paesaggio, la sua osservazione era finalizzata soprattutto a capirne i segni per poi procedere di conseguenza (Bradley 2010). Interpretare il paesaggio era prima di tutto una necessità imprescindibile per le scelte di tutti i giorni. Ebbene, il parallelismo con l’attività divulgativa consiste nel fatto che il turista deve essere indotto a vedere nel paesaggio una fonte di informazioni che, se non sono certo necessità imprescindibili, costituiscono senz’altro elementi utilissimi a capire il territorio e pianificarne la visita. Relativamente al carattere del pensiero umano, questo è la naturale predisposizione dell’uomo a porsi delle domande. Qui il collegamento con
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l’attività divulgativa si espleta inducendo il turista a interrogarsi sul possibile significato di quanto sta osservando nel paesaggio di fronte a sé. Acquisiti questi fattori come capisaldi di riferimento, lo schema di divulgazione prevede le seguenti fasi (fig. 3).
1. Indurre all’osservazione del paesaggio
2. Focalizzare l’attenzione sugli elementi “sensibili” del paesaggio
3. Indurre la visita diretta agli elementi individuati nel paesaggio
4. Rilevare eventuali variazioni dei singoli tipi di elemento in territori attigui a quello visitato
Figura 3. Le fasi del processo paesaggistica in ambito turistico.
di
divulgazione
1. INDURRE ALL’OSSERVAZIONE DEL PAESAGGIO. La prima fase del processo divulgativo consiste nel portare il turista a osservare un territorio che mostri elementi sufficienti a comprenderne il carattere complessivo. Sfruttando la propensione e la disponibilità dello stesso turista ad osservare un
La divulgazione del paesaggio in ambito turistico: criteri, metodi, esperienze
panorama, è possibile indurlo a soffermarsi su aree che, oltre ad avere un invitante valore scenico, soddisfino anche i suddetti elementi di interesse divulgativo. È importante che i punti di osservazione siano facilmente accessibili così da trasmettere l’idea che l’osservazione di un territorio non richieda necessariamente il raggiungimento di aree remote, e di fatto è alla portata di tutti. 2. FOCALIZZARE L’ATTENZIONE SUGLI ELEMENTI “SENSIBILI” DEL PAESAGGIO. Nel corso dell’osservazione del territorio, il turista sarà naturalmente portato a cercare di identificare gli elementi che conosce e/o che suscitano la sua curiosità. Sfruttando questa tendenza è possibile indurlo a estendere l’attenzione sugli elementi di interesse divulgativo e informarlo sui loro seguenti aspetti: il possibile significato dell’elemento; il possibile rapporto dell’elemento con altri elementi del medesimo paesaggio; il possibile rapporto dell’elemento con il contesto che lo contiene. Scopo di questa fase è introdurre il nostro interlocutore all’idea che: ogni elemento del territorio ha un preciso significato che è funzione della percezione che ne ha il singolo osservatore; ogni elemento del territorio mantiene relazioni spazio/temporali con gli altri elementi; nel quadro di queste relazioni, ogni elemento del territorio può essere visto come parte di un insieme dinamico che ne costituisce il contesto di riferimento.
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3. INDURRE
LA VISITA DIRETTA AGLI ELEMENTI INDIVIDUATI
NEL PAESAGGIO.
Dopo il trasferimento di informazioni attraverso la vista d’insieme, il turista dovrà essere stimolato a osservare nel dettaglio i singoli elementi riconosciuti sulla scena panoramica e approfondirne la conoscenza. Egli viene quindi invitato a lasciare la postazione panoramica per osservare da vicino i vari elementi e acquisirne la conoscenza secondo gli schemi abituali dell’informazione turistica. L’elaborazione congiunta di questa conoscenza e di quanto emerso dalla vista d’insieme della fase precedente porta a dare un senso compiuto all’elemento sia sulla sua specifica natura, sia come parte di un contesto con cui mantiene un preciso rapporto spazio/temporale. Così facendo il turista avrà modo di capire l’importanza della percezione personale dei vari elementi, inserendoli in una visione olistica e dinamica del territorio. Il panorama iniziale si trasforma così nella percezione di un territorio il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni nello spazio e nel tempo, cioè in un paesaggio. Nell’ottica di rendere automatico tale meccanismo percettivo, dopo le prime esperienze in cui l’informazione è resa disponibile dal divulgatore, il turista dovrà essere stimolato a porsi lui stesso delle domande di fronte a quanto percepito e a darsi una risposta per quanto gli consentirà la conoscenza che del territorio ha potuto/saputo acquisire. Per fare un esempio di applicazione pratica del suddetto processo divulgativo si pensi a come questo potrebbe essere sviluppato in un’area di forte interesse turistico e paesaggistico al tempo stesso. Nel caso qui sotto riportato l’aera di riferimento è la città di Istanbul e i territori ad essa limitrofi.
Tra parole e saggi
Fase 1 - Indurre all’osservazione del paesaggio Il panorama di Santa Sofia con il Bosforo sullo sfondo è una classica icona turistica, una visione obbligata durante la visita alla città levantina. La medesima scena mostra un paesaggio altamente significativo di Istanbul.
In particolari condizioni territoriali, la suddetta procedura divulgativa offre la possibilità di estendere l’informazione anche a aspetti più profondi e complessi del concetto di paesaggio. Riprendendo la serie della attività prima definite ciò può avvenire completando il percorso con il:
Fase 2 - Focalizzare l’attenzione sugli elementi “sensibili” del paesaggio Il rapporto tra Santa Sofia e il Canale del Bosforo affollato da navi mercantili, e il Canale del Bosforo che separa il continente europeo da quello asiatico, sono elementi il cui significato permette di capire in estrema sintesi: i motivi alla base dell’importanza storica di Istanbul, l’importanza attuale della città dal punto di vista commerciale, politico e religioso.
4. RILEVARE
Fase 3 - Indurre la visita diretta agli elementi percepiti nel paesaggio La vista ravvicinata di Santa Sofia permette di esaminare la stretta associazione tra i minareti e la ex-basilica, i dettagli strutturali interni dell’edificio religioso e la sua storia portando a capire: il ruolo della città nel rapporto tra le religioni cristiana e islamica. il dualismo del rapporto storico tra le due religioni, alternativamente conflittuale e di tolleranza. Il panorama di Santa Sofia con il Bosforo sullo sfondo si trasforma così nella percezione della città turca in rapporto alla sua localizzazione geografica, alla sua evoluzione storica e all’avvicendamento delle culture religiose dei popoli che l’hanno abitata, si trasforma cioè nella percezione, pur estremamente sintetica, del paesaggio di Istanbul.
EVENTUALI VARIAZIONI DEI SINGOLI TIPI DI
ELEMENTO IN TERRITORI ATTIGUI A QUELLO VISITATO.
La conoscenza dettagliata dell’elemento e del suo rapporto con il contesto assume particolare rilevanza divulgativa nel momento in cui consente di percepire eventuali variazioni rispetto a elementi dello stesso tipo presenti in territori, e quindi in contesti, attigui a quello visitato. Al turista si palesa così la condizione che un determinato tipo di elemento può variare da luogo a luogo con il variare del suo contesto di riferimento. Pertanto, il paesaggio apparirà ora come un insieme di elementi privo di una vera soluzione di continuità nello spazio e in grado, attraverso le variazioni dei suoi elementi, di trasformarsi più o meno gradualmente passando da un luogo all’altro. Si introduce così il concetto che il paesaggio non è limitato alla visione panoramica di aree definite, ma di fatto è riferibile a tutto il territorio a prescindere dal suo aspetto estetico. Nel quadro dell’esempio di Istanbul tale quadro si può concretizzare nella seguente forma: Fase 4 - Rilevare eventuali variazioni dei singoli tipi di elemento in territori attigui a quello visitato Considerando la componente rappresentata dagli edifici religiosi, il paesaggio di Istanbul si caratterizza per una forte commistione tra chiese e moschee. Procedendo dalla città in direzione della Grecia o della penisola anatolica, a questa condizione si sostituisce la predominanza assoluta
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di edifici religiosi espressione di una sola delle due fedi religiose, rispettivamente quella cristiana e quella musulmana. Il paesaggio che il turista incontra viaggiando dalla Grecia all’Anatolia testimonia così del passaggio tra due aree geografiche storicamente diverse dal punto di vista religioso e che trovano nella metropoli turca una fascia di contatto in cui evidentemente è avvenuta una sovrapposizione culturale del tutto assimilabile a un ecotono. Riconoscendo il significato di una chiesa e di una moschea il turista è quindi nella possibilità di percepire come il paesaggio riferito all’elemento “edificio religioso” vari più o meno gradualmente senza tuttavia incontrare soluzioni di continuità; nel porre l’attenzione sulle variazioni di un definito elemento del paesaggio egli non si cura più del valore scenico del territorio e prende atto che tutto il territorio che sta attraversando esprime un significato percepibile, cioè, in definitiva, si rende indirettamente conto che tutto è paesaggio.
Esperienze pratiche di divulgazione Per essere funzionale ai propri scopi, la procedura di divulgazione ora descritta deve dotarsi di un linguaggio comprensibile a un pubblico estremamente variegato dal punto di vista culturale, attitudinale e di livello di scolarizzazione, quale è quello turistico. È vero che il termine di riferimento principale per il suddetto tipo di osservazioni è il turista culturale, essendo egli naturalmente predisposto a recepirne il messaggio, ciò non toglie che lo stesso messaggio possa essere trasmesso anche a soggetti meno attenti all’aspetto culturale del territorio. In questo caso sarà opportuno focalizzare l’attenzione del turista su elementi più accessibili e stimolanti di quanto non
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possano essere i caratteri strutturali di una chiesa o di una moschea. Tra questi assumono rilevanza le componenti paesaggistiche legate alla produzione eno-gastronomica tipica del territorio. Estensione e coltura dei vigneti, presenza di boschi di castagno interrotti da aree di pascolo, colture agrarie particolari, sono a questo proposito elementi che attirano di per sé l’attenzione del turista comune e come tali possono rappresentare un mezzo efficace per la divulgazione paesaggistica. Com’è noto si tratta di condizioni particolarmente frequenti in Italia che anche per questo costituisce il Paese che offre forse le maggiori opportunità per diffondere la cultura del paesaggio in ambito turistico. Proprio il territorio italiano è stato l’oggetto di un’esperienza editoriale di divulgazione paesaggistica in ambito turistico iniziata dallo scrivente otto anni fa e tutt’ora in corso (Bradley 2009). Fin dall’inizio l’idea progettuale si è basata sulle due condizioni chiave dell’azione divulgativa prima citate, cercando di applicarle a un mezzo di diffusione che considerasse anche l’aspetto commerciale dell’iniziativa. Il prodotto editoriale che ne è emerso consiste in una guida cartacea strutturata per mettere in pratica i metodi divulgativi prima descritti e che, di conseguenza, si articola sui seguenti contenuti: a) identificazione nella zona/regione oggetto della guida di un itinerario fatto di punti panoramici da cui sia possibile osservare non solo una scena esteticamente accattivante ma anche un paesaggio che abbia un significato ai fini della comprensione dei caratteri del territorio che rappresenta. Nel complesso l’itinerario deve coprire tutti gli aspetti di interesse turistico della zona/regione; b) indicazioni cartografiche sufficienti a raggiungere i punti di osservazione panoramica,
La divulgazione del paesaggio in ambito turistico: criteri, metodi, esperienze
individuati sempre in aree del tutto accessibili, di norma lungo la normale rete stradale; c) riproduzione di ogni paesaggio dell’itinerario tramite foto panoramica di grande formato e alta qualità che funga da stimolo alla visita al territorio e da elemento di interazione tra il turista e il territorio durante l’osservazione del territorio reale; d) testo descrittivo, non didattico, né didascalico, dei paesaggi rappresentati che alla vista d’insieme associ la presenza di elementi paesaggistici non visibili a distanza, illustrati con foto di dettaglio di minor formato. Questi contenuti sono stati confezionati in un prodotto pensato per la sua fruizione sul campo, così da consentirne l’uso interattivo con i paesaggi rappresentati. Finora sono state realizzate sei guide in varie regioni italiane, sempre in collaborazione con enti pubblici preposti alla valorizzazione turistica del territorio. Non avendo la possibilità di monitorare direttamente gli specifici feedback della proposta culturale, una valutazione degli effetti della divulgazione può derivare solo dai risultati commerciali delle guide. A questo proposito si sottolinea che l’andamento delle vendite appare proporzionale alla capacità del territorio di esprimere panorami di elevato pregio estetico che, come tali, sono specifico oggetto di promozione turistica. I risultati più interessanti si sono infatti registrati con le guide realizzate proprio nel territorio che ha fatto del paesaggio una vera e propria icona turistica conosciuta in tutto il mondo: le Cinque Terre. In questo caso le vendite sono risultate pari al 2% dei visitatori complessivi, un valore percentuale che di norma è il risultato statisticamente prevedibile dopo una campagna pubblicitaria mirata e a grande diffusione. Ora, poiché le suddette guide non sono state oggetto di
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alcuna forma di promozione è verosimile ritenere che, fatto salvo il contributo di specifici parametri commerciali (prezzo di copertina, formato, punti vendita, ecc.), esse abbiano beneficiato indirettamente dell’azione di marketing territoriale operata a grande scala dall’ente preposto a questa attività (Parco Nazionale delle Cinque Terre). Purtroppo non si hanno dati precisi sull’effettivo risultato dell’azione divulgativa, ma è un fatto che gli stessi venditori abbiano rilevato che a convincere l’acquirente fosse l’azione combinata della foto panoramica, dell’organizzazione dei contenuti in itinerari e dell’approccio in buona misura inedito alla conoscenza del territorio. In sostanza sembra che nel processo decisionale che porta all’acquisto della guida, la fama del paesaggio “estetico” sia lo stimolo ad avvicinarsi al prodotto, mentre il contenuto divulgativo contribuisca alla scelta definitiva. Evidentemente queste considerazioni sono importanti, da una parte per la pianificazione di iniziative analoghe in territori pur paesaggisticamente rilevanti ma che non godono a priori di una particolare fama dal punto di vista turistico, dall’altra perché confermano la bontà del processo divulgativo pensato ad uso turistico. Sulla scorta di questi risultati sono attualmente in via di realizzazione guide elettroniche analoghe per contenuti, ma fruibili su strumenti tecnologici di nuova generazione quali smartphones e tablets. Tali prodotti, che derivano da un prototipo messo a punto quando ancora la tecnologia non offriva le possibilità di fruizione e diffusione attualmente disponibili (Bradley 2009), presentano il grande vantaggio di una distribuzione su internet che, se effettuata in modo mirato, può sopperire in larga misura alla necessità di quella promozione su vasta
Tra parole e saggi
scala che abbiamo visto essere necessaria per le guide cartacee. Un’importante caratteristica delle guide paesaggistiche elettroniche è costituita dal fatto che possono essere utilizzate sia come prodotto a sé stante, sia come componenti di sistemi di informazione turistica di più ampio respiro che vedano nel paesaggio un forte elemento di attrattiva. Il secondo tipo di utilizzo si può concretizzare in vere e proprie azioni di marketing territoriale online, rese possibili dalle moderne tecnologie informatiche. A questo proposito, in collaborazione con un gruppo di figure professionali e accademiche che si occupano specificatamente di paesaggio, è in via di messa a punto un sistema integrato (formato da un servizio e un prodotto tra loro interconnessi) che ha l’obiettivo di creare i presupposti affinché il paesaggio divenga un elemento centrale della fruizione turistica del territorio, costituendo uno strumento di conoscenza complessiva dello stesso in una logica di sviluppo sostenibile e commercialmente competitivo. Più nel concreto ci si è posti l’obiettivo di sviluppare una nuova pratica turistica che possa portare alla creazione di un modello di sviluppo turistico in chiave paesaggistica. Tale pratica si basa sul presupposto che qualunque attività che interagisca, o abbia interagito in passato, con il territorio contribuisca, o abbia contribuito, direttamente o indirettamente, e in forma più o meno visibile e/o importante, a modellare il paesaggio di quel territorio. In questo senso anche ogni elemento di possibile interesse turistico, che abbia (avuto) una (inter)relazione con il contesto territoriale in cui si colloca, può essere proposto al visitatore come un elemento del paesaggio. Se ciò può apparire scontato anche ai non addetti ai lavori parlando, ad esempio di borghi antichi, skylines urbani, castelli,
ecc., a molti il rapporto con il paesaggio può risultare meno evidente se ci si riferisce a elementi come prodotti enogastronomici, manufatti di artigianato locale, tradizioni e costumi della popolazione del luogo, e anche alle stesse infrastrutture deputate alla fruizione turistica come agriturismi e case vacanze. Il sistema integrato a cui si sta lavorando mira a enfatizzare questo rapporto e renderlo accessibile anche al turista non necessariamente mosso da interessi culturali (su questo argomento vedi Bradley 2011a). Si tratta in sostanza di applicare in ambito turistico e nella sua accezione più ampia il concetto che “tutto è paesaggio”, espresso dalla Convenzione Europea del Paesaggio, presentandolo non solo come un approccio possibile alla visita del territorio ma come il più adatto alla sua conoscenza e, in definitiva, alla sua fruizione.
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Bradley F., Paolinelli G., 2012, Paesaggio o panorama. Sulla lettura dei paesaggi, scritture della vita, in “Paysage Topscape”, 9, pp. 53-56. Bradley F., 2012, Paesaggi di viaggio, in stampa.
Riferimenti iconografici Figura 1: Matteo Garofano, 2006. Figura 2: Frederick Bradley, 2006. Figura 3: Frederick Bradley, 2012.
Testo acquisito dalla redazione nel mese di maggio 2012. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
Riferimenti bibliografici Bradley F., 2009, La lettura del paesaggio come strumento di turismo culturale, in “RI-Vista”, 11, pp. 5358. Bradley F., 2010, Il senso del paesaggio. Sulla pratica ancestrale dell'osservazione del paesaggio, Collana GUIPA Saggi & manuali sul paesaggio, Promorama srl, Milano. Bradley F., 2011a, Andar per paesaggi - Capire il paesaggio senza esserne specialisti, Collana GUIPA Saggi & manuali sul paesaggio, Mediaits, Carrara. Bradley F., 2011b, Paesaggio o panorama? Dialogo sulla necessità di una visione consapevole del territorio, Collana GUIPA Saggi & manuali sul paesaggio, Mediaits, Carrara.
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lo (s)guardo estraneo
I paradossi del turismo?
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Les paradoxes du tourisme?
Claude Raffestin*
abstract L’idea centrale esposta in questo contributo è che, malgrado le apparenze, non esiste, propriamente parlando, una vocazione turistica in termini assoluti dei luoghi e che, conseguentemente, è sempre possibile immaginare uno sviluppo turistico per un luogo. La “mise en tourisme” (“messa in turismo”) di un luogo necessita anzitutto della definizione di un inventario dei caratteri che lo contraddistinguono, sulla base del quale possa essere proposto uno scenario di “utopie raisonnable” (“utopia ragionevole”) che consentirà di sviluppare, a partire da mediatori adeguati, un sistema turistico. In effetti, la “proiezione” di mediatori ben selezionati rispetto ai caratteri di un luogo può rivelare significativi “giacimenti di risorse turistiche” da sfruttare (dopo verifica del contesto economico, naturalmente). Alcuni luoghi infatti, un tempo non compatibili con il turismo, possono divenirlo, sulla base di alcuni “aggiustamenti”.
abstract L’idée centrale est que, malgré les apparences, il n’existe pas, à proprement parler, de vocation touristique absolue et que par conséquent il est toujours possible d’imaginer un développement pour un lieu quelconque, sans préjuger de la faisabilité économique. La “mise en tourisme” nécessite un inventaire avant de proposer un scénario ou utopie raisonnable sur la base de laquelle il sera possible de développer, à partir de médiateurs convenablement choisis, un système touristique. En effet, la projection de médiateurs bien définis sur un lieu peut faire apparaître ou révéler un “gisement de ressources touristiques” susceptible d’être exploité après vérification du contexte économique naturellement. On notera que certaines zones autrefois incompatibles avec le tourisme peuvent devenir compatibles sous réserve d’ajustements.
parole chiave Vocazione turistica, "utopie raisonnable", "mise en tourisme", mediatore.
mots-clés Vocation touristique, "utopie raisonnable", "mise en tourisme", médiateur.
* Università di Ginevra, Professore Onorario.
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Vous avez dit tourisme? L’impression erronée qui peut prévaloir, selon l’échelle de temps considérée, est que les lieux touristiques sont donnés une fois pour toutes et qu’ils dépendent essentiellement de caractéristiques naturelles et/ou humaines. Dès lors, on a vite fait de parler de vocation. Il n’en est rien! Aucun lieu, aucun village, aucune ville, aucune région, aucun pays n’a a priori une vocation touristique qui dure, perdure et ne se transforme pas. Je veux dire par là qu’un lieu touristique n’est pas donné mais qu’il est créé ou si l’on préfère produit: ainsi donc un lieu peut cesser d’être touristique et un autre qui ne l’était pas auparavant peut commencer à le devenir. Cela signifie, et ce n’est pas inutile de le dire, que le tourisme est un phénomène dont l’origine est historique et socialement déterminée même si des conditions naturelles interviennent, elles peuvent être des conditions nécessaires, mais, paradoxalement, en tout cas pas suffisantes. Par conséquent le phénomène touristique est donc susceptible de "marquer" tous les écosystèmes naturels et/ou humains à des moments différents à travers le temps. Il est même possible, c’est un truisme de le dire, de créer, en un lieu "quelconque et vide", un système touristique. N’est-ce pas ce qui a été fait avec Disneyland, dans la région parisienne? Ce parc de divertissement, depuis 20 ans, a accueilli des millions de touristes et accumulé des profits considérables. J’entendais dire récemment à la télévision, à son propos, que le château le plus visité de France, était celui de la Belle au bois dormant! Vraie ou fausse l’information surprend et dénote, implicitement, des changements de comportement. Il en va de même probablement pour beaucoup d’autres lieux de divertissement, de
Les paradoxes du tourisme?
par le monde. C’est assez dire, je pense, que le caractère artificiel de ces lieux de divertissement ne s’oppose pas, bien au contraire, au qualificatif de touristique et de lieu produit. Même si les conditions naturelles et humaines existent pour faire émerger un lieu touristique, il n’en demeure pas moins qu’il doit être mis en scène, autrement dit produit, pour être attractif et être l’objet d’une demande dite touristique. La nature et la culture du lieu touristique n’existent pas en soi mais à travers un procès qui est souvent instruit, en partie, hors du lieu. N’est-ce pas ce qui s’est passé avec les Seychelles et les Maldives dans l’Océan Indien? Des opérateurs touristiques du type Club Méditerranée ont prospecté les archipels et à grand renfort de marketing ont inventé des lieux dits touristiques pour une certaine clientèle occidentale, produisant des lieux de vacances sans aucun autre intérêt que l’exploitation de conditions naturelles: mer, soleil, végétation tropicale. Ce type de processus emprunte des éléments au lieu réel qui sont recombinés en fonction de médiateurs adaptés à la clientèle occidentale. Cela donne un modèle "efficace" économiquement parlant mais culturellement d’une pauvreté affligeante. Les îles impliquées dans le processus n’ont finalement qu’un rôle de support, d’ailleurs fragile, compte tenu de l’altitude au-dessus de la mer, 2,4 m en moyenne pour les Maldives qui, mises à part les conditions climatiques, n’ont absolument aucun intérêt. Le tourisme en paraphrasant Georges Bataille pourrait être défini comme "la part maudite 1 de la mobilité" . On pourrait même dire doublement maudite, en raison de la pauvreté culturelle dénoncée ici. Les problématiques qui ont longtemps prévalu dans l’étude du tourisme étaient de nature dénotatives pour communiquer les différentes dimensions
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temporelles, spatiales, comportementales et économiques du phénomène touristique, en tentant de dégager la singularité des lieux pour en montrer l’attractivité, toujours en fonction de médiateurs choisis. De plus en plus, on voit apparaître des problématiques connotatives plus orientées vers la signification du phénomène. Qu’est-ce à dire? Que les problématiques dénotatives considèrent encore, tout au moins en partie, qu’il existe ou non une vocation touristique des lieux sur l’ensemble de la planète. Les problématiques connotatives, à l’inverse, admettent qu’il est loisible de déclencher des processus de production touristique, sans préjuger, par ailleurs, du succès futur d’une telle création. Souvent, sans le savoir clairement, les collectivités, qui cherchent à développer ce qu’on appelle le tourisme, se réfèrent spontanément à des problématiques dénotatives. Il me vient à l’esprit, à cet égard, le cas de ces villages qui, en Europe ou ailleurs, décident un beau jour de se lancer dans le livre d’occasion. "En Europe, les villages du livre sont des villages ruraux dans lesquels se sont installés des commerces de vente de livres d'occasion et d'artisanat relatif au livre (reliure, calligraphie…). Le premier du genre, dont la réussite a servi de modèle aux autres, est Hay-on-Wye au RoyaumeUni, créé en 1963 par un libraire d'Oxford, Richard Booth. Redu en Belgique est le premier lancé sur le continent en 1984. Le premier village du livre créé en France fut Bécherel (Ille-et-Vilaine) en 1987. Ce sont souvent des villages, ou de petites villes, à potentiel touristique important par leur situation, leur histoire ou leurs monuments, mais dont l'activité et la population étaient généralement en déclin avant leur conversion en villages du livre.
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L'initiative de la création de ces villages est le plus souvent privée, généralement des bouquinistes passionnés, mais est souvent, notamment en France, appuyée par des collectivités locales qui y 2 voient un moyen de revitaliser certaines régions" . A partir de ce que j’appelle problématique connotative, il est envisageable d’imaginer comment réfléchir à une "mise en tourisme des lieux" (Équipe MIT 2000). Pour l’instant , je ne me préoccuperai pas de savoir si la mise en tourisme est significative ou non sur le plan économique, mais comment on peut déclencher un processus de production à partir de l’historicité ou système d’action: tout lieu étant créé par un modèle de société définie par une culture et des formes sociales. Cela veut dire qu’on ne peut pas imaginer n’importe quel lieu touristique à n’importe quel moment. Il a fallu plusieurs siècles pour faire apprécier les Alpes et leur donner une consistance touristique. Il en a été de même pour la mer et les régions maritimes dont la "découverte" au sens moderne du terme, s’est réalisée dans la seconde moitié du XIXe ce qui ne veut pas dire que les usages qu’on en a fait par la suite n’ont pas considérablement évolué. Menton, entre autres, accueillera, avant que le relais, ne soit pris par les Alpes, les malades de la tuberculose comme en témoignent le vieux cimetière de cette ville. Cela dit, ni les Alpes ni la mer ne parviendront jamais à guérir de la tuberculose! Le mérite en reviendra aux antibiotiques, après la seconde guerre mondiale. Mais il y avait là, la combinaison du tourisme classique et de la médecine comme Thomas Mann l’a fait découvrir dans son Zauberberg (Montagne Magique).
La "mise en tourisme" La question que je voudrais aborder est celle du mécanisme de la création de lieux touristiques indépendamment de leur éventuel succès économique futur qui relève de ce qu’on appelle le marketing qui tout intéressant qu’il peut être ne me semble pas significatif pour démontrer que tout lieu peut devenir touristique. C’est une question qui vient naturellement en amont de la préoccupation économique même si celle-ci est fondamentale dans une période de crise économique comme celle que nous traversons actuellement. Je considère que toutes les collectivités humaines à travers leurs institutions politiques élues devraient se préoccuper de faire des scénarios pour le futur pour déterminer le potentiel touristique qui pourrait être mis en valeur en cas de besoin, dans les régions dont elles ont la responsabilité. Pourquoi cette idée, qui semblera, à beaucoup, inutile avant même que le problème ne se pose de créer un véritable lieu touristique? Il y a plusieurs années de cela lorsqu’on a commencé à connaître dans les Alpes, en raison de l’évolution climatique, des saisons d’hiver difficiles à cause de la rareté de la neige ou des retards dans l’enneigement, j’avais proposé dans le canton du Valais de réfléchir à des situations touristiques dans lesquelles les traditionnels sports d’hiver, sans être pour autant abandonnés, auraient pu être complétés par d’autres activités compensatrices. J’avais proposé d’imaginer des "utopies raisonnables", à développer en cas de nécessité. Faut-il dire que je n’ai eu aucun succès et cela a été accueilli par un scepticisme dont la conséquence a été un refus courtois. Pourquoi? Parce que ceux-là mêmes qui étaient sceptiques considéraient que la "vocation" des stations touristiques valaisannes était le ski et
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rien d’autre! Combien de stations, dans le futur, seront victimes de cette fameuse vocation gravement compromise? La réponse ne m’appartient pas. J’en conviens volontiers, il est difficile quand on a cru en une vocation et qu’on en a vécu, d’imaginer d’autres orientations, mais à cet égard, les changements climatiques sont une épreuve qu’il faut surmonter et intégrer au risque, dans le cas contraire, de sombrer dans un conservatisme dramatique. N’oublions pas non plus de dire que les changements climatiques n’apportent pas que des désavantages et qu’il est utile d’en exploiter les éventuels avantages, même si cela perturbe des habitudes acquises de longue date. Comment s’y prendre pour réfléchir à une utopie raisonnable orientée vers une création touristique? Avant même de songer à ce qu’on pourrait appeler un inventaire des éléments favorables, il convient d’identifier les acteurs potentiellement intéressés à un développement touristique de quelque nature qu’il soit. Il est rare qu’une collectivité soit homogène et qu’elle soit totalement favorable ou défavorable à un développement de ce genre. Il y a donc un travail d’identification à faire et il en va de même pour les élus, parmi lesquels il faudra faire la part de ceux qui sont favorables et la part de ceux qui son hostiles ou indifférents. Evidemment l’initiative peut provenir de l’extérieur, soit d’un leader politique ou d’un promoteur économique qui a déjà repéré des éléments intéressants pouvant donner lieu à une création dite touristique. En bref, il faut identifier un système d’intentionnalités favorables ou non au possible développement touristique de la part d’acteurs internes ou externes. Vient ensuite ce qu’on pourrait appeler la phase d’inventaire, c’est-à-dire la mise en évidence des
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caractéristiques du lieu. Evidemment le lieu peut n’être qu’un support sans aucune autre caractéristique que sa morphologie et son histoire. C’est ce qui s’est passé avec les villages du livre qui ont travaillé sur une intersection entre un lieu et un objet. Naturellement cette situation est particulièrement intéressante et on peut imaginer beaucoup de cas d’une semblable intersection avec des objets fort divers, mais sans garantir d’avance le succès de telle ou telle entreprise. L’intersection du lieu et de l’objet dépend toujours des médiateurs que l’acteur ou les acteurs prennent en compte. Quand je dis objet au singulier, il est clair que c’est une simplification car il peut s’agir d’un ensemble d’objets appartenant à telle ou telle catégorie. Les exemples abondent comme le marché aux puces de Saint Ouen à Paris, le marché aux antiquités du Sablon à Bruxelles, celui de Lucca, celui de Turin avec le Balôn (fig. 1), ou encore celui de Berlin à Ostbahnhof. Bien qu’il s’agisse de lieux de vente et d’achat, en somme de lieux commerciaux, leur dimension touristique est indéniable et ils constituent des lieux très attractifs. Je suis toujours très amusé l’hiver à Paris quand je vais à Saint-Ouen et que je repère les riches bourgeoises étrangères qui viennent s’encanailler là en manteaux de vison pour éventuellement choisir quelque objet mobilier! Les lieux ne sont évidemment que des supports à fonctionnement périodique, généralement de fin de semaine et non permanent. Ces marchés de nature économique au premier chef n’en génèrent pas moins des activités touristiques dont les retombées indirectes sont loin d’être négligeables. Paris, Bruxelles et Berlin ont
Les paradoxes du tourisme?
Figure 1. Le Balôn à Turin.
naturellement d’autres attraits et ces "marchés" ne sont que des compléments dans leur éventail touristique très ouvert et très diversifié. Dans l’inventaire à faire, on tiendra compte évidemment des écosystèmes naturels et humains dont les substances respectives sont susceptibles de générer des paysages naturels ou humains. La
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naissance d’un paysage, naturel ou d’un paysage humain, autrement dit la création d’une représentation, est la preuve évidente que l’écosystème a été pensé à partir de médiateurs spécifiques: "les limites de mon monde touristique sont celles de mes médiateurs touristiques. L’Italie de Montaigne n’est pas celle de Goethe, ni non plus celle de Nerval, encore moins la mienne ! Non pas seulement parce que les époques sont différentes mais parce que les modèles n’ont que peu de choses en commun (…). Le médiateur construit le lieu, ou permet de le construire mais en même temps les images qui s’y substituent le déréalisent" (Raffestin 1986). Ainsi donc d’un point de vue purement théorique et sans préjuger de la probabilité de l’hypothèse, on peut prétendre que la projection de nouveaux médiateurs sur tel ou tel lieu peut faire apparaître des possibilités jusqu’alors insoupçonnées ou tout simplement ignorées. Un médiateur rend visible un aspect de la réalité, de la même manière qu’un autre médiateur en rendra visible un autre aspect. La nature et la culture d’un lieu touristique sont toujours médiatisées par une opération culturelle dont le dénouement prend naissance à l’intérieur d’un système de référence. Il est loisible de démontrer cela en prenant appui sur le couple “payspaysage”. Il est bien connu qu’originellement un pays bocager est d’abord défini par ses habitants comme une zone d’activités liée, entre autres à l’élevage, alors que pour un voyageur c’est une forme paysagère. Le pays est ce qu’on travaille tandis que le paysage est ce qu’on regarde. Encore une fois le passage de l’un à l’autre signifie la projection et l’intervention de médiateurs non comparables. Ce sont les urbains qui ont appris aux ruraux à "regarder le paysage" (fig. 2).
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Figure 2. Schéma de production de l’image.
Tout pays a non seulement une fonction première, mais aussi des fonctions secondes qu’il convient de faire apparaître: "Les paysages sont des nécropoles de signes qui mêlent pêle-mêle les fonctions vernaculaires, véhiculaires, référentielle et mythique. La nature et la culture des lieux touristiques ne sont finalement rien d’autre que des
éléments d’un vaste puzzle qui sont assemblés au gré de modèles socio-culturels. La nature et la culture des lieux réels sont soumises à un processus de fission et la reconstitution ne donne jamais lieu à une réalité observable mais fait émerger des images multiples qui n’existent que le temps d’un regard.
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Ce sont des traces dont la recomposition renvoie au passé, dont la lecture éclaire le présent et dont le futur incertain ravive le goût du voyage, entretient la nostalgie de l’ailleurs et entretient cette quête du lieu intact qui ferait coïncier la représentation et la présentation" (Raffestin 1986). Pour chaque lieu où l’on réfléchit à une mise en tourisme éventuelle, il faut se poser des questions à propos des médiateurs à mobiliser comme par exemple ceux liés à la mémoire collective et à l’identité. L’appartenance au patrimoine culturel dépend d’un processus qui naît à l’intérieur d’une communauté dans laquelle se réalise un travail de mémoire au service généralement, mais pas seulement, de l’identité. Le don de mémoire se réalise pour être une communauté car sans celui-là il n’y a pas de patrimoine culturel. On s’en est rendu compte en Suisse quand on a fêté, en 1991, le 700e anniversaire de la Confédération. Beaucoup de cantons se sont abstenus et cela pour des raisons fort diverses. L’Italie vient de connaître la même chose à l’occasion du 150e anniversaire de l’Unité italienne. Tous les partis ne se sont pas sentis concernés de la même manière. S’il n’y a pas intersection entre communauté et don de mémoire, le patrimoine présente des faiblesses et n’est pas valorisé. Dans les lieux où l’intersection est forte, il est possible de s’appuyer sur elle pour développer des éléments touristiques. La Commission Internationale de Coopération Intellectuelle (CICI, créée en 1922 par la Société des Nations, SDN) a beaucoup fait, déjà avant la seconde guerre mondiale, pour protéger le patrimoine: "Les Etats membres invitent les éducateurs à instruire l'enfance et la jeunesse dans le respect des monuments, quelle que soit la civilisation où l'époque à laquelle ces monuments
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appartiennent, et que cette action éducative des Etats s'adresse également au public en général, en vue d'associer ce dernier à la protection des témoignages de toute civilisation" (Charte d'Athènes, 1933). En 1964, la Charte de Venise a été créée pour la conservation et la restauration des monuments. Beaucoup d’autres initiatives ont vu le jour les années suivantes comme en 1972, la constitution du patrimoine mondial de l’UNESCO. Il est assez évident que ce patrimoine pouvant servir à la glorification de la nation a longtemps été confisqué par une certaine élite d’Etat, mais les choses ont changé et l’intervention est devenue moins pesante de telle sorte que le patrimoine peut servir de point d’ancrage à d’autres intérêts. En cette phase d’inventaire il est peut-être utile d’évoquer à grands traits ce qu’il est. D’un côté, nous avons le patrimoine classique comme les monuments historiques de tous types, publics, privés, laïques et religieux, mais aussi les paysages ruraux et les paysages urbains, les témoins territoriaux des vieilles activités industrielles les services portuaires et navals, les gares, etc. Cela dit, il faut encore prendre en compte tout le patrimoine artistique, artisanal, mobilier et les archives. On peut ajouter aujourd’hui tout le patrimoine immatériel comme le savoir-faire qui permet de récupérer "les cuisines" dont le rôle n’est pas négligeable, bien au contraire, pour le tourisme. Quoi qu’on en pense et qu’on en dise, il serait erroné de croire que l’on se sert d’un patrimoine marqué par des valeurs historiques communautaires et des valeurs symboliques nationales pour promouvoir des activités touristiques dont les objectifs sont purement économiques. Je crois au contraire que si les activités touristiques savent mettre en valeur dans
Les paradoxes du tourisme?
le patrimoine ce qui les fonde, ce sera tout bénéfice pour la préservation du patrimoine matériel et immatériel. Le patrimoine et le territoire doivent être considérés ensemble parce qu’ils sont inséparables dans quasiment toutes les cultures. On se rend compte que sur la base de ce simple inventaire il est possible de construire une "utopie raisonnable" qu’il faudra ensuite tester pour savoir si par rapport au lieu considéré elle a quelques chances d’aboutir des points de vue socioéconomique et socio-politique. On se reportera à l’article du MIT, cité plus haut, pour mobiliser les méthodes utiles à ce test. Je pense en particulier au taux de fonction touristique, à la fréquentation touristique, à la dynamique économique et à l’évolution de la population active tertiaire (Équipe MIT 2000). Il s’agit de savoir en fin de compte si l’utopie raisonnable peut devenir une réalité viable et selon quels scénarios.
premier séjour au Brésil, j’ai failli avoir de gros ennuis pour m’être perdu à la périphérie de favelas, à Rio de Janeiro: la carte n’est pas le territoire! Or, j’ai appris dernièrement qu’après la pacification et l’assainissement des favelas, cellesci sont devenues des lieux où des "guides compétents" font découvrir ces lieux marginaux et cela sans risques pour les visiteurs. Tout peut donc être matière à aménagement touristique!
Riferimenti bibliografici Bataille G., 1967, La part maudite, précédé de la notion de dépense, Paris. Équipe MIT, 2000, La mise en tourisme des lieux: un outil de diagnostic, "Mappemonde", 57-1, pp. 2-6. Raffestin C., 1986, Nature et culture du lieu touristique, Méditerranée, 3.
Un "mot de conclusion" Dans les périodes de crise économique, il n’est nullement inutile de se livrer à des exercices de ce genre car parfois, le tourisme peut, même en tant que complément, aider à traverser, pour une ville ou une région, des difficultés conjoncturelles passagères. Ce dont les collectivités doivent prendre conscience dans ce genre d’analyse c’est qu’il y a toujours des gisements de ressources à exploiter en intersection avec les loisirs. Aucun lieu n’est jamais totalement dépourvu de ressources qu’il faut savoir mettre en valeur avec les bons médiateurs. En matière de gisement touristique j’aimerais terminer sur une note encore et toujours paradoxale. Il y a exactement 30 ans, lors de mon
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Riferimenti iconografici Figura 1: Claude Raffestin, 2012. Figura 2: Claude Raffestin, con la collaborazione di Gabriella Negrini, 2012.
Testo acquisito dalla redazione nel mese di maggio 2012. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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Ce que Bataille (1967) appelle la part maudite, c’est le loisir. 2 Source: http://fr.wikipedia.org/wiki/Village_du_livre.
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Paesaggi mentali e vivibilità nei luoghi alpini. Trasformazione dei luoghi in paesaggi. Percezione, sense-making e turismo
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Mental landscapes and living in mountain areas. Transformation of the places in landscapes. Perception, sense-making and tourism
Ugo Morelli*
abstract Nel processo di trasformazione mediante il quale i luoghi divengono paesaggi e, inoltre, si configurano come paesaggi turistici, sono implicati aspetti storico-evolutivi, affettivi, cognitivi e socioeconomici, la cui complessità esige una selezione di prospettiva per poter essere analizzata. Si tratta di un processo di introiezione e proiezione che allo stesso tempo genera conoscenza, mediante la competenza simbolica. È dando loro senso, quindi, che conosciamo i luoghi e la natura di cui facciamo parte. L'analisi del contributo mira ad affrontare le implicazioni della questione con un approccio che privilegia gli orientamenti delle scienze cognitive applicate.
abstract In the transformation process by which the sites become landscapes and also take the form of tourist landscapes, historical-evolutionary, affective, cognitive and socio-economic aspects are involved; their complexity requires a selection of perspective to be analyzed. This is a process both of introjection and projection, that, at the same time, produces knowledge, by means of symbolic competence. It is giving them a sense, then, that we know the places and the nature to which we belong. This essay examines the implications of the question through an approach that favours the orientations of applied cognitive sciences.
parole chiave Vivibilità, paesaggio, making.
key-words Liveableness, landscape, culture, tourism, sensemaking.
cultura,
turismo,
sense-
* Docente di Psicologia del lavoro e delle organizzazioni e Psicologia della creatività e dell’innovazione, Università di Bergamo, ugo.morelli@unibg.it
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Nel processo di trasformazione mediante il quale i luoghi divengono paesaggi e, inoltre, si configurano come paesaggi turistici, sono implicati aspetti storico-evolutivi, affettivi, cognitivi e socioeconomici, la cui complessità esige una selezione di prospettiva per poter essere analizzata. Noi esseri umani trasformiamo la realtà che ci circonda mentre esprimiamo la nostra tensione rinviante, una distinzione specie specifica che fa sì che per noi il mondo sia un progetto e un'invenzione. Si tratta di un processo di introiezione e proiezione che allo stesso tempo genera conoscenza, mediante la competenza simbolica. È dando loro senso, quindi, che conosciamo i luoghi e la natura di cui facciamo parte. La trasformazione simbolica non solo non è una nostra scelta ma il nostro modo di essere e di vivere, e perciò si esprime come il fondamento della nostra incessante azione di trasformazione tecnologica della natura. Il rapporto tra emozioni e cognizione umana da un lato e patrimonio naturale dall'altro, esige una considerazione originale e transdisciplinare, nel momento in cui il paesaggio smette di essere lo sfondo e si propone come la figura del nostro spazio di vita e della nostra vivibilità possibile. I paesaggi turistici possono fornire una rilevante occasione di analisi nel momento in cui divengono luogo di una contraddizione fondamentale: essere fonte di concentrazione simbolica e isole di senso e proprio per questo trovarsi sulla soglia della saturazione dell'immaginario e della crisi simbolica. L'analisi del contributo mira ad affrontare le implicazioni della questione con un approccio che privilegia gli orientamenti delle scienze cognitive applicate.
Paesaggi mentali e vivibilità nei luoghi alpini. Trasformazione dei luoghi in paesaggi
Figura 1. David Hockney, “The Road across the Wolds”, 1997.
Rivelare il paesaggio: bellezza ecologica
un
sentimento
di
È noto che giocare con la finzione può essere un modo per comprendere aspetti della realtà oltre le apparenze; per svelare, o meglio rivelare, sensi e significati del mondo. Dove rivelare indica sia la possibilità di scostare qualche velo, sia il riconoscimento che per farlo abbiamo solo una possibilità: porre un nuovo velo. Ebbene i veli, ovvero il modelli di lettura e di interpretazione del paesaggio stanno cambiando. Avevamo un’idea del paesaggio come sfondo o contorno e a lungo l’abbiamo pensato come decoro: oggi ci accorgiamo che è la sostanza della nostra vivibilità. Non tanto e non solo perché il paesaggio in molti casi dia da vivere a chi, turisticamente, lo vende bene. La
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ragione è che veniamo riconoscendo che il paesaggio sintetizza territorio, ambiente e luoghi; in una parola comprende la natura di cui siamo parte; è divenuto la misura della vivibilità dei luoghi. Non perché prima non lo fosse. Potevamo però non tenerne conto, o ancor prima, non accorgercene. C’è voluta l’immaginazione letteraria per riuscire a nominarlo. Molto tempo è intercorso, però, perché quella nominazione assumesse sostanza, come inizia ad accadere, seppur a livello incipiente e solo nel riconoscimento di minoranze più o meno attive. L’impatto ambientale della nostra specie non era così pervasivo e, in non pochi casi, catastrofico. Il retaggio della natura come minaccia e pericolo era concreto e vivo. I meccanismi di difesa, tutt’ora attivi per l’azione della lunga durata, quali le mentalità che sostengono i comportamenti, erano decisamente determinanti, in particolare per una specie che si sentiva e ancora si sente sopra le parti e non certo parte del tutto, nel sistema vivente. Nel lavoro di generalizzazione, che va dalle proprietà specifiche delle cose e degli oggetti, e dalle capacità percettive e emotive di un soggetto o dei soggetti in situazione, al repertorio comune dei valori associati da parte di certe categorie di soggetti a 1 certe categorie di oggetti il paesaggio era considerato e tutt’ora lo è, una categoria statica separata dal resto. “Estetica” in questo caso significava e significa l’aspetto esteriore delle cose, la componente di contorno. L’estetica come “struttura che collega”, come proprietà emergente dell’accoppiamento strutturale soggetto- mondo, si propone come una via per comprendere i caratteri di alleanza necessaria, ancorché poco avvertita, tra 2 uomo, donna e natura . È in un’alleanza simile che il paesaggio acquista il proprio valore attuale tra la sua immaginazione mentale e le prassi che lo
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modellano nell’evolversi della percezione, della rappresentazione, del senso e del significato che gli esseri umani gli attribuiscono. Gli individui cercano beni dall’ambiente, così come cercano il senso e il significato degli eventi quotidiani della vita. Quella ricerca risponde a una tensione emozionale naturale di base verso il bene simbolico dell’agio, verso un senso e un significato vissuti come sufficientemente buoni, in grado di generare risonanze che espandono il sentimento di bellezza ecologica, riguardo a ciò che possiamo chiamare paesaggio. Possiamo intendere per sentimento di bellezza ecologica una esperienza relazionale individuo – ambiente capace di sostenere risonanze relativamente efficaci tra mondo interno e spazi di vita, e in grado di estendere il modello neurofenomenologico di sé. Il paesaggio, quindi, emerge da una continua tensione tra ordine e disordine nella relazione tra soggetto e luogo. Se ci fosse un ordine preciso e già dato nella percezione e nell’accoppiamento strutturale tra individuo e luogo, non ci sarebbe l’emergere del costrutto del paesaggio. Quel costrutto è possibile in ragione del fatto che l’accesso al mondo per gli esseri umani è un accesso simbolico-linguistico figlio del movimento del corpo in uno spazio. L’ordine “paesaggio”, il costrutto semantico con cui si nomina il processo: accoppiamento strutturale – percezione – significazione – narrazione di un luogo, può essere inteso come un ordine provvisorio che emerge dal disordine e dal caos con cui ad ognuno si pone innanzi il mondo. Dove per mondo possiamo intendere qualsiasi artefatto e qualsiasi luogo. Noi raggiungiamo la realtà esistente, infatti, sempre e comunque mediante l’attribuzione di senso e significato e attraverso il linguaggio. La forma di vita “paesaggio” è, in tal senso, un gioco
linguistico, che si genera in un contesto vincolante e a sua volta genera e determina ricorsivamente concrete forme di vita. Lo fa comunque a prescindere dalla qualità e dalla vivibilità, dalla efficacia e dalla bellezza di una specifica forma di vita. Il paesaggio, ordine simbolico provvisorio emergente dal disordine costitutivo, non diviene mai un ordine – certezza, se non nella reificazione agiografica e celebrativa. Si propone piuttosto come un ordine – problema, contingente ed evolutivo. Se cercassimo il paesaggio nella sua coincidenza con un canone o una forma data, non lo troveremmo se non nelle rappresentazioni canoniche, negli effetti “cartolina”, o nei depliant commerciali del marketing turistico. Tendiamo a riconoscerlo, attivando una emozione 3 fondamentale, quella della tensione a cercare o 4 bisogno di conoscere , che sostiene la nostra continua ricerca di significato. Non riconosciamo il paesaggio in un ordine fisso e definitivo, in una sua forma a un momento dato. Emerge nel movimento tra un ordine e un altro, per differenza, spesso per elaborazione di una mancanza derivante da un ordine che si vive come perduto. Allo stesso tempo il paesaggio corrisponde a una proprietà emergente 5 dalla persistenza dei luoghi. Né cristallo, né fumo è il paesaggio: non ha la fissità incorruttibile dei cosiddetti luoghi incontaminati, che sarebbero sempre uguali a se stessi, né l’aleatorietà evanescente del fumo. Emerge al margine tra mondo interno e mondi esterni con la mediazione del movimento e dell’immaginazione. Il movimento e l’immaginazione sono caratteri distintivi interconnessi di una specie che è divenuta simbolica, qual è homo sapiens. Il paesaggio è un’esperienza simbolica che noi condividiamo in ogni angolo del pianeta, con ognuna delle culture
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presenti. L’abbiamo probabilmente condivisa per tutta la durata della nostra storia evolutiva come homo sapiens e quindi nel corso degli ultimi duecentomila anni. Le differenze stanno, forse, nei diversi livelli di consapevolezza e riconoscimento. Mentre riconosciamo peraltro, la presenza di esperienze simboliche e l’uso di simboli anche nella cultura dei Neanderthal, viene messa in discussione l’ipotesi che l’uso dei simboli sia stata una qualità di modernità comportamentale tipica ed esclusiva di homo sapiens. Più che la distinzione tra comportamenti arcaici e moderni, sembra essere la variabilità dei comportamenti per tutta la durata della presenza di homo sapiens il fattore distintivo. “L’ipotesi che vi siano stati esseri umani di aspetto moderno ma dalle capacità comportamentali significativamente diverse dalle nostre non è sostenuta né da principi di uniformità (che proiettano la spiegazione del passato sullo studio del presente), né dalla teoria dell’evoluzione, né dalla documentazione archeologica. Non ci sono popolazioni note di homo sapiens le cui capacità di variazione comportamentale siano soggette a 6 vincoli biologici” . La variabilità biologica che ha consentito di screditare e falsificare il concetto di razza, si mostra proficua per pensare alla continuità nell’esperienza di homo sapiens, in modo da poterne cogliere più efficacemente anche alcune espressioni comportamentali e simboliche. Per quanto riguarda il paesaggio e l’emergenza della sua concezione e rappresentazione, sembra importante correlarli alla circolarità ricorsiva tra caratteristiche naturalculturali di homo sapiens ed evoluzione delle manifestazioni emotive e cognitive dell’esperienza. Da un lato quella circolarità rende importante considerare la natura incarnata (embodied), situata (embedded) ed estesa (extended) della mente relazionale, dall’altro
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evidenzia le caratteristiche delle dinamiche continue che sottendono ai passaggi dalla dimensione tacita a quella esplicita della conoscenza. In ragione di queste condizioni, il paesaggio sembra essere un punto di arrivo, una proprietà emergente, di un processo che va dal tacito al riflessivo. Quel processo implica l’attraversamento di una criticità che sola può aprire spazi di riflessione nella dimensione tacita. La criticità nasce da una mancanza, da un distacco o da un sentimento di perdita che porti alla riflessione e al riconoscimento e, finalmente, quando accade, alla consapevolezza sufficientemente piena. Quella perdita riguarda la crisi di una connessione e di un’appartenenza naturale uomo-natura di cui il paesaggio è la manifestazione estetica, la struttura collegante. Come ha mirabilmente scritto il grande poeta Iosif Brodskij: “Il senso estetico è gemello dell’istinto di 7 conservazione ed è più attendibile dell’etica” . All’etica, che per questo è contenuta dall’estetica, come lo stesso Brodskij sostenne nel discorso all’Accademia svedese in occasione del conferimento del premio Nobel per la letteratura, possiamo giungere per la via del sentimento delle nostre emozioni estetiche. I paesaggi della nostra vita hanno, quindi a che fare, con la perdita e la malinconia che sono sodali della conoscenza consapevole, frutto a sua volta del relativo svelamento della conoscenza tacita. A queste condizioni l’osservatore, che da sempre era nel sistema, si accorge di esserne parte e può divenirne consapevole, riconoscendone l’essenza che ad esso lo accomuna. A comporre i paesaggi della nostra vita possono perciò essere Andromeda, che si trova a più di due milioni di anni luce da noi, nel momento in cui siamo consapevoli della sua presenza pur se per noi irraggiungibile; il sistema
Paesaggi mentali e vivibilità nei luoghi alpini. Trasformazione dei luoghi in paesaggi
solare, una presenza recente nel nostro paesaggio che finiva, prima, alle colonne d’Ercole; il giardino; l’orto; la città; il bosco; il lago; il mare….. La nostra capacità sinestetica tra riconoscimento della bellezza e sua narrazione con il linguaggio può, quindi, portarci a riconoscere gli spazi e le forme di vita emergenti dalla connessione tra mondo interno e mondo esterno con la mediazione del movimento e del principio di immaginazione e a trasformarli in paesaggi per noi. Il paesaggio, infatti, non è solo spazio di vita ma anche forma di vita. È frutto delle scelte responsabili che noi esprimiamo nell’arena della partecipazione, della negazione e del conflitto, dell’incontro, cioè, tra punti di vista, identità, 8 interessi e culture differenti . Il paesaggio può essere inteso come un inventario perpetuo generato dalla nostra azione e dal riconoscimento dei suoi effetti. “Ogni azione è conoscenza; ogni conoscenza è azione”, hanno scritto H. Maturana e F. J. Varela. È la nostra competenza simbolica che ne consente il riconoscimento in quanto è essa a simulare gli ambienti in cui ci troviamo a vivere e a trasformarli in paesaggi, generando la dimensione simbolica della nostra nicchia ecologica. Per queste ragioni le dimensioni del paesaggio sono molteplici e ognuna di esse non può essere ritenuta alternativa alle altre. Quelle dimensioni coinvolgono l’estetica, cioè il legame, la struttura che collega il sistema vivente di cui noi esseri umani siamo parte; coinvolgono l’etica e le norme; i linguaggi e le narrazioni; lo spazio e la sua progettualità; la responsabilità attiva di ognuno. Il transito necessario dal paesaggio come esternalità o esteriorità; al paesaggio come sfondo rilevante; fino al paesaggio-natura-ambiente-territorio-spazio e forme di vita in cui emergono i vincoli e le possibilità della vivibilità, è un transito che esige investimenti in eccedenza e in educazione. Per quel
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transito si propone necessaria, oggi, una teoria 9 della vivibilità .
Figura 2. Albert Bierstadt, “Tra le montagne”, 1867.
Una cultura del paesaggio Le difficoltà a porre la cultura al centro di un progetto per la riformulazione del modello di sviluppo del paese riguardano direttamente gli orientamenti e le prassi relative al paesaggio. Relegato a contorno o a risorsa da vendere il paesaggio non è mai diventato un bene-in-sé, fonte dell’individuazione soggettiva e collettiva, capace di essere considerato per quello che è: la componente simbolica dell’ecosistema che ci costituisce e di cui siamo parte, in cui si figura e rifigura la costruzione del senso e del significato delle nostre vite. Nelle connessioni circolari e reciproche con l’ambiente, il territorio, i monumenti, i musei, le biblioteche, le forme diffuse
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delle espressioni artistiche si genera la nostra vivibilità, al punto di incontro tra passato, presente e futuro. Il paesaggio è, quindi, esso stesso cultura e storia. La geologia e la geografia sono dentro la storia che le donne e gli uomini scrivono per se stessi, essendo responsabili del racconto della loro vicenda esistenziale. Il paesaggio si propone perciò, a saperlo riconoscere, come materia vivente di cui gli esseri umani sono parte e componente essenziale della loro individuazione. Il banale economicismo che omologa la valorizzazione schiacciandola sull’uso commerciale e sul marketing e considera sinonimi “valorizzazione” e “sfruttamento”, genera distruzione materiale e simbolica, misconoscendo la funzione etica e civile del paesaggio e del patrimonio artistico e culturale. È importante chiarire in maniera precisa la differenza tra una visione della cultura come un bene commerciabile e la cultura come il cuore dell’identità di una nazione o di un luogo. Certamente il patrimonio culturale ha anche un valore monetario ma, anche per la sua durata nel tempo, quel valore è subordinato al valore 10 simbolico e immateriale, al suo valore educativo . La valorizzazione educativa del paesaggio e del patrimonio è foriera di partecipazione civile e di emancipazione culturale individuale e collettiva, non solo, ma il potenziamento della coscienza civica è capace di tradursi in fondamenti essenziali per l’economia. Quella connessione si situa tra capacità e opportunità e combina cultura e economia con civiltà e emancipazione democratica. In questa direzione sembrano andare alcune azioni e prese di posizione che attraversano la storia della Repubblica Italiana e che, per ora, non riescono a divenire cultura e prassi diffuse, come ad esempio il recente “Manifesto Tq/5: Sul patrimonio storicoartistico e archeologico”, pubblicato il 4 aprile
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2012 . Di particolare interesse è che gli estensori del manifesto introducano i punti di cui è composto richiamando Piero Calamandrei e la dimensione polemica dell’articolo 9 della Costituzione italiana e della propria proposta. Non è immaginabile un cambiamento effettivo nel campo del paesaggio e del patrimonio artistico culturale senza l’attraversamento di conflitti di natura diversa; senza cioè che vi sia un serrato confronto tra punti di vista, identità, interessi e culture che sono diversi. Quei conflitti, intesi come confronto tra differenze appunto, saranno allo stesso tempo intrapsichici, relazionali e collettivi. Solo la loro efficace elaborazione può produrre gli effetti educativi auspicabili e necessari e l’innovazione attesa. L’introduzione al Manifesto muove dall’evidenza che oggi la Repubblica italiana, “di fatto, non promuove lo sviluppo della cultura e della ricerca, e non tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico. L’articolo 9 oggi appare polemico addirittura alla stragrande maggioranza dei cosiddetti operatori dei ‘beni culturali’ - i due commi che lo compongono sembrano non avere più nulla in comune. Cosa c’entrano, infatti, la cultura, o addirittura la ricerca, con il patrimonio, meglio noto come il “petrolio d’Italia”? E si badi – lo si dice con parole dell’allora (2003) capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi – che “la stessa connessione tra i due commi dell’articolo 9 è un tratto peculiare: sviluppo, ricerca, cultura, patrimonio formano un tutto inscindibile”. Scindere la prima e la seconda parte dell’articolo 9 della Costituzione ha significato separare l’educazione al patrimonio culturale e paesaggistico dalla sua tutela, piegando il patrimonio culturale a risorsa turistica e economica. Il Manifesto propone dieci punti che mirano alla ricomposizione mediante la
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centralità della storia dell’arte e dell’educazione al patrimonio storico artistico della nazione italiana. Primo. Occorre affermare con forza la funzione civile e costituzionale del patrimonio. Occorre dire che il patrimonio non è un lusso per i ricchi né è un mezzo per intrattenersi nel “tempo libero”, ma al contrario serve all’aumento della cultura ed è un importante strumento per la rimozione degli “ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana” e per l’attuazione piena dell’eguaglianza costituzionale. E occorre anche dire che, dunque, il suo fine non è quello di produrre reddito. Che, cioè, il patrimonio storico e artistico della nazione NON è il petrolio d’Italia. Secondo. Il patrimonio di proprietà pubblica deve essere mantenuto con denaro pubblico: esattamente come le scuole o gli ospedali pubblici. Fatti salvi i principi generali di competenza (per cui vedi il punto 7) potranno ammettersi al più concorsi privati di finanziamenti, di controllata finalizzazione costituzionale. Il patrimonio di proprietà pubblica deve rimanere tale: e sono dunque inammissibili le alienazioni di sue parti a privati. Esso non deve essere privatizzato nemmeno moralmente o culturalmente attraverso prestiti, noleggi, appalti gestionali esclusivi o cessioni temporanee che di fatto ne sottraggono alla collettività il governo, immancabilmente socializzandone le perdite (in termine di conservazione e di degrado culturale) e privatizzandone gli eventuali utili. Terzo. Il patrimonio appartiene alla nazione italiana (e in un senso più lato esso è un bene comune all’intera umanità), e anzi la rappresenta e la struttura non meno della lingua. È per questo che il sistema di tutela deve rimanere nazionale e
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statale, e non può essere regionalizzato o localizzato. Quarto. Il patrimonio è proprietà di ogni cittadino (non pro quota, ma per intero) senza differenze di credo religioso. Il patrimonio, cioè, è laico: ed è tale anche quello religioso e sacro. In altre parole, al significato sacro delle grandi chiese monumentali italiane si è sovrapposto un significato costituzionale e civile che, non negando il primo, impedisce alla gerarchia ecclesiastica di disporre a suo arbitrio di tali porzioni del patrimonio stesso. Quinto. Il patrimonio che abbiamo ereditato dalle generazioni passate e che dobbiamo trasmettere a quelle future (e del quale dobbiamo render conto a tutta l’umanità) deve rimanere affidato ad una rete di tutela che obbedisca alla Costituzione, alla legge, alla scienza e alla coscienza, e non può cadere nella disponibilità delle autorità politiche che decidono a maggioranza. Ogni forma del plebiscitarismo ormai largamente invalso nel Paese appare, infatti, particolarmente pericolosa se applicata al patrimonio. Sesto. Il patrimonio storico e artistico italiano è coesteso e fuso all’ambiente e va tutelato, conosciuto e comunicato nella sua dimensione organica e continua. È inaccettabile ogni politica culturale che si concentri sui cosiddetti capolavori “assoluti” (cioè, letteralmente, “sciolti”: da ogni rete di rapporti significanti) per espiantarli e forzarli in percorsi espositivi dal valore conoscitivo nullo. In altre parole, in Italia gli eventi stanno uccidendo i monumenti: e occorre, dunque, una drastica inversione di rotta. Nella stragrande maggioranza, le mostre di arte antica sono pure operazioni di marketing che strumentalizzano le opere, ignorano la ricerca e promuovono una ricezione passiva calcata sul modello televisivo: la discussione e l’adozione di un codice etico – e innanzitutto di una
Paesaggi mentali e vivibilità nei luoghi alpini. Trasformazione dei luoghi in paesaggi
severa moratoria – per le mostre appare dunque urgentissima. Settimo. È vitale affidare la tutela materiale e morale del patrimonio a figure professionali di sperimentata competenza tecnica e culturale. A seconda dei vari ruoli, esse sono quelle degli storici dell’arte, degli archeologi, degli architetti, dei restauratori diplomati dall’ICR e dall’OPD. Non ha invece alcuna identità specifica (né sul piano intellettuale, né su quello professionale) la figura del cosiddetto “operatore dei Beni culturali”. Ottavo. Occorre dunque mettere radicalmente in discussione l’invenzione dei corsi e delle facoltà di Beni culturali. Non solo la loro esistenza è intenibile sul piano intellettuale (qual è infatti lo statuto epistemologico dei cosiddetti Beni culturali?), ma sostituendo agli storici dell’arte-umanisti figure di “esperti” o “tecnici” tali corsi e facoltà pongono le premesse per l’azzeramento della tutela e dell’attribuzione di senso culturale al patrimonio stesso. Occorre invece ribadire con forza che la funzione primaria degli storici dell’arte come umanisti è quella di favorire “la riappropriazione critica degli spazi pubblici e dei beni comuni”. Combattere, cioè, perché il tessuto storico delle nostre città torni ad essere lo strumento di crescita culturale garantito dalla Costituzione, e sfugga all’alternativa tra la distruzione e la trasformazione in un parco di intrattenimento a pagamento. Nono. È necessario restituire dignità e utilità intellettuali alla presenza della storia dell’arte sui media italiani: che attualmente è dilagante, quanto mortificante. Chi può dire di aver appreso, tramite un giornale italiano, qualcosa circa l’attualità della ricerca storico-artistica? Quale saggio, idea, prospettiva scientifica, scuola di pensiero ha potuto trovare uno spazio per presentarsi al grande pubblico? Il novanta per cento degli articoli che
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trattano di storia dell’arte si occupa di mostre essendone, di fatto, una pubblicità più o meno occulta: gli sponsor comprano sempre più spesso intere pagine dei grandi quotidiani italiani in cui pubblicare stralci del catalogo accanto ad interventi promozionali di noti storici dell’arte. La storia dell’arte rappresenta, di fatto, il fronte più avanzato della mutazione mediatica del dibattito culturale in marketing occulto. Decimo. Il fronte più importante nella battaglia per la salvezza del patrimonio storico e artistico italiano è quello che passa nella scuola. È vitale difendere e anzi ampliare l’asfittico spazio concesso negli orari scolastici a quella “storia dell’arte che ogni italiano dovrebbe imparar da bambino come una lingua viva, se vuole aver coscienza intera della propria nazione” (la citazione è da Roberto Longhi). La critica alla privatizzazione e alla riduzione del patrimonio storico culturale a pura merce può essere tanto più fondata quanto più è connessa all’affermazione della centralità dell’educazione e all’impegno a riconoscere il patrimonio come “bene comune”: l’istanza del “comune”, pienamente condivisibile se non opposta frontalmente a quella di “pubblico”, non deve nascondere che il rimando a comunità locali non può legittimare appropriazioni localistiche e minoritarie del patrimonio che si tratta appunto di salvaguardare. Si possono considerare, in Italia, altri momenti della storia istituzionale e civile che hanno mantenuto alta l’attenzione al patrimonio artistico, culturale e paesaggistico, successivi alla rilevanza originaria dell’articolo nove della Costituzione, che stabilisce, come è noto ma è bene ricordare: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Il
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decreto legge del 1984, poi divenuto Legge 8 agosto 1985, n. 431 (Galasso) “Conversione in legge con modificazioni del decreto legge 27 giugno 1985, n. 312 concernente disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale”, grazie all’impegno di Giuseppe Galasso, ebbe senz’altro una funzione catalizzatrice e orientò l’attenzione e le mentalità verso il paesaggio e i patrimoni culturali. Quella legge propose una via per la tutela del paesaggio che fosse non frammentata; perfezionò la legge Bottai del 1939; ma soprattutto indicò il governo del territorio e del paesaggio come bene culturale e come bene comune, non solo risorsa ornamentale ma patrimonio umanistico connesso alla vivibilità e alla politica come esercizio della responsabilità etica e civile. Il paesaggio come luogo del riconoscimento civile, insomma, nella migliore tradizione umanistica. Pare di particolare rilievo che in occasione del conferimento della Laurea Honoris Causa da parte dell’Istituto Suor Orsola Benincasa di Napoli, il 4 aprile 2012, Giuseppe Galasso abbia svolto la propria lectio magistralis sul tema: La responsabilità del paesaggio. Ancor più notevole è che la lectio inizi connettendo il paesaggio alla vivibilità, con riguardo particolare al mutamento termico globale. Galasso sostiene, infatti, che dal mutamento climatico dipende quello che lui chiama “il grado di abitabilità della terra per il genere umano”. Secondo lo studioso, nella maggior parte dei casi si ha una concezione del paesaggio come “pura e semplice fisionomia dei luoghi, un insieme di linee, articolazioni, colori, elementi vegetali e di altro ordine che appaiono riprodotti in una fotografia, un quadro, un disegno. Una fisionomia che possiamo anche imbellettare o, all’opposto, deturpare, ma che non tocca il profondo della realtà naturale nella quale viviamo”. Il paesaggio
come spazio e forma di vita non solo tocca quel profondo ma concorre a costituirlo. Questo è forse l’avanzamento teorico e pratico necessario oggi; capace di andare oltre l’accezione attenta ai caratteri esteriori dei luoghi di pregio della pur lodevole legge Bottai del 1939. Lo stesso Galasso riprende la legge di cui fu artefice nel 1985, richiamandone il fondamento per una nuova considerazione della politica del paesaggio, individuato nell’evoluzione dal criterio che egli chiama “estetico” a quello strutturale e, quindi, da una tutela puntiforme a una tutela generale del territorio, nonché all’azione di programmazione e di piano paesistico che la legge imponeva a riguardo. La tutela del paesaggio, in quella legge, è concepita come dinamica e connessa all’operosità delle popolazioni ma pone al centro l’esigenza di non schiacciare le esigenze di tutela, conservazione e valorizzazione alle logiche economicistiche. “La responsabilità del paesaggio”, sostiene Galasso, “è perciò una responsabilità generale che, a ben vedere, non riguarda soltanto il territorio, ma l’intera vita della popolazione nel presente e nel futuro”. La tutela del paesaggio “non può risolversi in una passiva e inerte vigilanza su qualsiasi vallo o muraglia su cui si fermi l’orgoglio della storia” ma esige un patto inedito tra esseri umani, abitabilità e vivibilità dei luoghi e del pianeta del quale siamo parte. In continuità con questi orientamenti è anche la posizione dell’ex Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Il valore ed il significato profondo dell’articolo 9 della costituzione è evidenziato nel suo intervento del 5 maggio 2003, in occasione della consegna delle medaglie d’oro ai benemeriti della cultura e dell’arte, di cui qui riportiamo uno stralcio:
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“È nel nostro patrimonio artistico, nella nostra lingua, nella capacità creativa degli italiani che risiede il cuore della nostra identità, di quella Nazione che è nata ben prima dello Stato e ne rappresenta la più alta legittimazione. L’Italia che è dentro ciascuno di noi è espressa nella cultura umanistica, dall’arte figurativa, dalla musica, dall’architettura, dalla poesia e dalla letteratura di un unico popolo. L’identità nazionale degli italiani si basa sulla consapevolezza di essere custodi di un patrimonio culturale unitario che non ha eguali nel mondo. Forse l’articolo più originale della nostra Costituzione repubblicana è proprio quell’articolo 9 che, infatti, trova poche analogie nelle costituzioni di tutto il mondo: ‘La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione’. La Costituzione ha espresso come principio giuridico quello che è scolpito nella coscienza di ogni italiano. La stessa connessione tra i due commi dell’articolo 9 è un tratto peculiare: sviluppo, ricerca, cultura, patrimonio formano un tutto inscindibile. Anche la tutela, dunque, deve essere concepita non in senso di passiva protezione, ma in senso attivo, e cioè in funzione della cultura dei cittadini, deve rendere questo patrimonio fruibile da tutti. Se ci riflettiamo più a fondo, la presenza dell’articolo 9 tra i ‘principi fondamentali’ della nostra comunità offre un’indicazione importante sulla ‘missione’ della nostra Patria, su un modo di pensare e di vivere al quale vogliamo, dobbiamo essere fedeli. La cultura e il patrimonio artistico devono essere gestiti bene perché siano effettivamente a disposizione di tutti, oggi e domani per tutte le generazioni. La doverosa economicità della gestione dei beni culturali, la sua efficienza, non sono l’obiettivo della promozione della cultura, ma un mezzo utile per la loro
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conservazione e diffusione. Lo ha detto chiaramente la Corte Costituzionale in una sentenza del 1986, quando ha indicato la ‘primarietà del valore estetico-culturale che non può essere subordinato ad altri valori, ivi compresi quelli economici’ e anzi indica che la stessa economia si deve ispirare alla cultura, come sigillo della sua italianità. La promozione della sua conoscenza, la tutela del patrimonio artistico non sono dunque un’attività ‘fra altre’ per la Repubblica, ma una delle sue missioni più proprie, pubblica e inalienabile per dettato costituzionale e per volontà di una identità millenaria”. Sul patrimonio storico artistico e paesaggistico del nostro Paese, il 25 marzo 2012, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano è intervenuto con chiarezza e determinazione in occasione del ventesimo anniversario del FAI: “Il Fondo Ambiente Italiano oggi festeggia i suoi vent'anni e dobbiamo dire che ha rappresentato una grande "invenzione" per il nostro Paese: ha saputo mobilitare energie ed esprimere idealità e valori che altrimenti non avrebbero avuto lo spazio che via via hanno conquistato. Credo sia stato fondamentale il FAI per promuovere conoscenza e consapevolezza di ciò che costituisce il patrimonio storico-artistico e paesaggistico del nostro Paese, l'ambiente italiano per eccellenza. Se ci chiediamo quali possono essere stati i risultati di tante iniziative concrete assunte dal FAI in questi venti anni, e di tutta la sua complessiva azione anche pedagogica, ebbene i risultati sono stati indubbi, nel senso di suscitare nell'opinione pubblica, tra i cittadini e in modo particolarissimo tra i giovani, più sensibilità e anche più capacità di pressione per i valori dell'ambiente e del patrimonio storico-artistico di cui l'Italia è così
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ricca. Mentre i risultati sono ancora inadeguati - e non poteva bastare soltanto l'azione del FAI - per quello che riguarda l'impegno delle istituzioni e della politica affinché venissero adottate le decisioni legislative, le decisioni amministrative, le decisioni di bilancio indispensabili per realizzare effettivamente una maggior valorizzazione di queste nostre straordinarie risorse. E, allora, ci si può chiedere che cosa è mancato e manca ancora. Ho visto che, tra le tante domande o tra i tanti commenti che mi sono stati indirizzati e ringrazio coloro che lo hanno fatto: purtroppo non sono in grado di rispondere ad una ad una a tante interpellanze, chiamiamole così - c'è chi ha detto: "Perché la politica è stata così poco lungimirante finora verso un impegno come la valorizzazione del nostro patrimonio storicoartistico e paesaggistico?". Ma che cosa significa essere lungimiranti? Significa saper guardare lontano, ed effettivamente troppo spesso la politica non ha saputo guardare lontano: ha guardato soltanto all'utile immediato che si poteva ricavare da una decisione di governo nazionale o anche da una decisione di governo locale. Ha guardato troppo spesso al consenso facile: dare un permesso che non si dovrebbe dare, ma dandolo, si ottiene un beneficio politico-elettorale, e questo ha finito per essere piuttosto la regola. Bisogna saper resistere anche alle pressioni improprie, bisogna saper valutare qual è l'interesse generale del Paese, e non soltanto per il giorno dopo, ma per gli anni a venire, nel periodo lungo, con politiche, appunto, lungimiranti. Questa lungimiranza innanzitutto nasce, o dovrebbe nascere, da una seria considerazione di che cosa significa l'immagine dell'Italia nel mondo, di che cosa significa anche la qualità della vita in Italia, al di là di ogni ragionamento in termini
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strettamente economici. Ma poi, la cosa importante è sapere che, anche in termini strettamente economici, il patrimonio storico-artistico e Paesaggistico dell'Italia costituisce una ricchezza e una risorsa enorme, assai poco sfruttata, assai poco valorizzata. Quindi, facciamo attenzione anche a tutte le sottovalutazioni: talvolta ci sono state anche frasi sprezzanti su quello che costa e non rende la cultura. Da qualche mese c'è in Italia una campagna di opinione promossa da un grande quotidiano precisamente sul tema del rapporto tra cultura e sviluppo economico: credo sia una campagna molto utile e molto significativa. Dobbiamo essere tutti convinti - se ne deve convincere la politica, se ne debbono convincere le istituzioni e i governi nazionale e locali - che se vogliamo più sviluppo economico, ma anche più occupazione, bisogna saper valorizzare, sfruttare fino in fondo la risorsa della cultura e del patrimonio storico-artistico. Noi abbiamo bisogno di una politica di medio-lungo periodo, cioè qualcosa a cui bisogna lavorare per anni e in modo continuativo, che sia anche, in particolare o innanzitutto, politica di tutela, messa in sicurezza e valorizzazione del nostro territorio, con tutto quello che di meraviglioso si è poi, nel corso dei secoli, costruito, da parte dell'uomo, sul nostro territorio. Ovviamente, non parlo delle costruzioni speculative o dei mostri di bruttura: parlo dei monumenti che da secoli, per non dire da qualche millennio, hanno reso bello e attraente il nostro territorio. C'è davvero anche una questione di difesa della vita dei cittadini, delle popolazioni nelle zone a rischio di dissesto idrogeologico o anche a rischio sismico. Ho partecipato a un convegno, due giorni fa a Vernazza, nelle Cinque Terre, Paese alluvionato in
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modo pesantissimo, e meravigliosamente rinato in breve tempo grazie allo sforzo dei cittadini, delle istituzioni e dei volontari, proprio per affrontare questi temi. Noi dobbiamo riuscire a prevenire, e prevenendo spendiamo non solo meglio ma spendiamo meno di quanto poi ci tocca necessariamente, inevitabilmente spendere per riparare i danni prodotti da disastri che potevamo prevenire e non abbiamo saputo prevenire, e che, purtroppo, costituiscono un pericolo crescente per via di un cambiamento climatico che provoca fenomeni sempre più violenti e sempre più frequenti come le alluvioni e le frane. Per fare questa politica bisogna tener molto presente l'agricoltura. L'agricoltura non può nemmeno essere solo concepita come nel passato. Rimane importantissima la produzione agricola, quello che riusciamo a produrre nel settore agricolo e agricolo-alimentare per rispondere ai bisogni delle nostre popolazioni e per esportare rispondendo anche a bisogni mondiali. Però, l'agricoltura è oramai un presidio del territorio, un presidio del paesaggio, è qualche cosa di assolutamente vitale. Quindi, una politica di valorizzazione del paesaggio e del patrimonio storico-artistico passa attraverso anche più attenzione e più impegno per valorizzare la nostra agricoltura. Ci sono le risorse finanziarie per portare avanti politiche come quelle che io sto rapidamente immaginando. Sappiamo che abbiamo un pesantissimo bilancio dello Stato indebitato nella misura del 120 per cento del nostro prodotto nazionale. Dobbiamo abbattere questo debito, dobbiamo selezionare la spesa pubblica. Io francamente - lo dico tenendo conto di alcune domande che mi sono state rivolte - non
contrapporrei l'esigenza di più risorse per la cultura, per il patrimonio storico-artistico e paesaggistico alla spesa militare o alla spesa in importanti opere pubbliche: perché la spesa per la difesa è una spesa a cui non ci possiamo sottrarre, perché un grande Paese come l'Italia non può venir meno ai suoi impegni e obblighi verso la comunità internazionale, intervenendo, ad esempio, per la stabilità, per la pacificazione di aree di crisi fuori dell'Europa.
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architettura istituzionale e da dilatazioni della spesa delle nostre amministrazioni prese tutte nel loro insieme, su cui bisogna intervenire, e di lì bisogna attingere risorse da mettere a disposizione di una politica come quella che il FAI persegue e auspica. Quindi, auguri al FAI e auguri a noi tutti perché si riesca nel futuro a preservare sempre meglio la qualità della vita in Italia, a promuovere sviluppo, valorizzando e garantendo il nostro patrimonio storico-artistico e Paesaggistico”.
Alla ricerca del paesaggio
Figura 3. Claude Monet, “Ninfee”, 1905.
Ed egualmente noi non possiamo certamente rinunciare a infrastrutture che sono importanti per lo sviluppo complessivo del Paese. Ma ci sono ben altre voci della nostra spesa pubblica corrente, che derivano anche da ridondanze della nostra
La riflessione sui modi in cui i luoghi sono trasformati in paesaggi richiede particolari approfondimenti e si basa tuttora su una letteratura particolarmente limitata. Ai fini del nostro contributo la questione assume rilevanza in quanto il turismo si propone come un fenomeno economico e sociale che, per il suo impatto, incide decisamente sulla trasformazione in paesaggio dei luoghi. Le caratteristiche di quell’incidenza spingono la trasformazione verso l’immaginario e generano un punto di soglia critica oltre il quale la trasformazione incontra un limite che sembra costitutivo e irreversibile. Da qui la rilevanza della definizione di paesaggio che si assume per lo sviluppo della presente analisi. Di un certo interesse può essere il recupero di riferimenti negli studi che cercano di giungere ad una definizione attendibile e articolata del paesaggio. Alla ricerca di una definizione di paesaggio si sono dedicate molte discipline e, pur volendo restringere l’attenzione alle scienze cognitive e alla psicologia, la quantità di riferimenti in questo caso resta amplissima. Un tentativo di sintesi interessante è quello compiuto 12 da Almo Farina . Secondo l’autore ci sono
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molteplici definizioni di paesaggio da parte di differenti approcci scientifici e culturali. Di volta in volta esse pongono l’accento sul “carattere totale di una regione”, seguendo von Humboldt; o ancora sulla “totalità delle entità fisiche, ecologiche e geografiche che integrano processi e modelli umani e naturali”, secondo Naveh; o semplicemente come “il pezzo di terra che noi percepiamo comprensivamente intorno a noi”, secondo Haber; o “la particolare configurazione o topografia che delimita processi e attività naturali e culturali” secondo Green. Si potrebbe proseguire a lungo, per riconoscere che le diverse definizioni sono accomunate da un orientamento che situa il paesaggio come ciò che sta “là fuori”, intorno a noi ed esterno a noi. Alla base degli approcci al paesaggio si possono riconoscere molteplici forme di dualismo ma a ben guardare esse sono rette tutte da un dualismo di base: quello tra esseri umani e natura. Intendiamo sostenere l’ipotesi che sia proprio questo dualismo di base a dover essere messo in discussione, sia per le conoscenze disponibili sull’evoluzione umana e sulla natura degli esseri umani, sia per cercare di andare oltre i limiti delle attuali modalità di vivere e agire nel paesaggio con esiti spesso distruttivi. Il dualismo di base si trova anche nelle letture più attente del paesaggio come quella di Eugenio Turri. Seguendo, infatti, il confronto con gli orientamenti di questo importante studioso, si può verificare come egli sostenga, a proposito del paesaggio, che “per giungere alla verità occorra passare attraverso un momento emotivo, punto di partenza di ogni 13 processo di conoscenza” . Che non vi sia conoscenza e pensiero senza emozioni è un fatto evidenziato ed evidente sulla base di un’ampia tradizione di studi neuroscientifici e psicologici. Così come appare sempre più evidente che non si
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possano separare emozione e conoscenza. Il paesaggio è un terreno di prova di questi orientamenti emergenti e si propone come una verifica della sintesi unitaria tra emozione e conoscenza. La rilevanza del paesaggio cognitivo e affettivo rappresenta una frontiera all'interno dell'ecologia del paesaggio. Sia dal punto di vista della conoscenza del fenomeno che ai fini dell’impostazione di strategie di azione educativa e 14 per la tutela e la di formazione intervento valorizzazione del paesaggio. Se si intende promuovere una visione appropriata del paesaggio, visto non solo come entità "ecosistemica" ma, nel contempo, come entità eco-semiotica operante da interfaccia tra risorse e organismi attraverso le loro funzioni, è necessario coinvolgere un approccio transdisciplinare sia nell’analisi che nell’intervento. La teoria dell’affordance del resto sostiene con evidenza sperimentale che il mondo è percepito da noi non solo in termini di oggetti, forme e relazioni spaziali ma anche in termini di oggetti possibili per l’azione (affordances) – la percezione guida 15 l’azione . Ogni configurazione spaziale diviene paesaggio in quanto portatrice di significato e contesto di individuazione e interrelazioni tra gli esseri viventi e il loro ambiente. Pare che sia utile tentare un avanzamento nella concezione del paesaggio, anche per i riflessi che può avere e di fatto ha sulla prassi il modo in cui il paesaggio è inteso. Il Consiglio d’Europa lo definisce “una parte di territorio così come è percepita dalla popolazione”. Pur ponendo al centro la sua percezione e consegnando alla dimensione locale situata la definizione del paesaggio, si avverte una certa limitazione in questo approccio, in quanto la rilevanza di una posizione “terza” o esterna sembra decisiva sia per riconoscere il paesaggio che per le scelte di azione nel viverlo. D’altra parte quella
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posizione “terza”, capace di essere “dentro” e “fuori” allo stesso tempo e, quindi, di interrompere l’appartenenza tacita ma non la riflessione, pare essere la via mediante la quale il paesaggio giunge alla consapevolezza di chi vive i luoghi e finalmente si propone come condizione di individuazione e vivibilità. Il Codice dei Beni Culturali italiano, intende per paesaggio “parti del territorio i cui caratteri distintivi derivano dalla natura, dalla storia umana e dalle reciproche interrelazioni”; la sua tutela “salvaguardia i valori che esso esprime quali manifestazioni identitarie percepibili”. Una differenza rilevante sembra individuabile tra le posizioni che assumono che il paesaggio vi sia “prima” che gli esseri umani lo percepiscono, lo creano e lo vivono, e le posizioni epigenetiche, quelle che ritengono che il paesaggio emerga al punto di incontro tra percezione individuale e collettiva, mondo interno di coloro che percepiscono un luogo, luogo stesso, ambiente, e territorio, e solo per quella via divenga uno spazio di vita almeno in parte consapevole. Per queste ragioni pare si possa sostenere che non siano solo le scissioni tra territorio, ambiente e paesaggio, quelle da superare, ma anche le scissioni tra dimensione etica del paesaggio e sua dimensione estetica. A meno che per estetica non si intenda, come pare intendere Salvatore Settis, solo il lato esteriore delle cose. L’estetica intesa come 16 struttura di legame tra mente e natura , tra soggetto e mondo, contiene l’etica, che della prima si alimenta e informa. Sostenere perciò, come fa Settis, che “dobbiamo ormai partire da una definizione operativa di paesaggio, passando dal paesaggio “estetico” (da guardare) al paesaggio 17 etico (da vivere)” , implica almeno tre problemi. Il primo riguarda il modo scisso di intendere l’estetica e l’etica. Il secondo la concezione stessa di estetica
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come esteriorità formale. Il terzo problema è relativo all’etica e alla sua concezione che la riporta alla morale. Di fatto “etico” richiama l’abituale, lo stare in un luogo e i relativi modi di starci. Se la tutela del paesaggio riguarda il benessere fisico e mentale essa si connette alla ricerca delle condizioni di vivibilità, alla loro crisi e all’esigenza di cambiare idea e comportamenti in proposito. Non abbiamo motivo di ritenere che negli orientamenti strategici degli attori che usano e anche abusano del paesaggio, non vi sia la convinzione di fare la cosa che secondo loro è giusta. Così non abbiamo motivo per ritenere che chiunque agisca nel paesaggio in un certo modo non lo faccia sulla base di un costume, di credenze, di modi di intendere le risorse naturali e di orientamenti che sostengono le scelte. Sono proprio quegli orientamenti strategici, la loro natura affettiva e cognitiva e le prassi che essi sostengono, il punto da cui partire. Se la natura è concepita come un bene di cui appropriarsi in forme di fruizione basate sull’individualismo liberista, promuovere una cultura del bene comune non può essere solo un problema normativo e di controllo; deve necessariamente essere una questione educativa che esige l’elaborazione dei conflitti e delle contraddizioni che interverranno a fronte di una trasformazione storica e epocale. Da una concezione e da prassi in cui la natura era vissuta come separata dagli esseri umani, nemica da cui difendersi, risorsa da usare senza limiti, abbiamo bisogno di sviluppare una cultura della natura come realtà di cui siamo parte, o meglio, come la realtà che noi stessi siamo. I paesaggi della nostra vita potranno emergere se saranno generati da processi educativi in grado di promuovere il cambiamento di orientamenti e di
prassi per una vivibilità all’insegna del limite in cui la specie umana si senta parte del tutto.
Paesaggio, diritto umano e bene comune Nella Dichiarazione ministeriale approvata al sesto Forum mondiale dell’acqua che si è concluso sabato 17 marzo 2012 a Marsiglia, in Francia, l’accesso all’acqua e all’igiene sono stati riconosciuti quali diritti umani fondamentali. Si tratta di un passo in avanti che richiede, però, di essere reso effettivo. Nel giugno del 2011, con una risoluzione votata da 122 paesi (41 astenuti), l'Assemblea delle Nazioni Unite aveva già riconosciuto l'accessibilità all'acqua pulita come diritto fondamentale. Il riconoscimento approvato dai vari ministeri comporta un valore in più: diversamente dai meccanismi decisionali dell'Onu (votazioni), a Marsiglia i nuovi diritti fondamentali sono stati riconosciuti grazie ad un processo di negoziazione che ha portato all'approvazione consensuale della Dichiarazione. Una verifica ulteriore del valore della partecipazione attiva e della negoziazione per lo sviluppo di una cultura della vivibilità e del paesaggio. Non solo, ma un’evidenza dei limiti di una visione “statalista” del cambiamento e dell’innovazione possibili. I limiti dello “statalismo” andrebbero considerati ad almeno due livelli. Il primo riguarda la scarsa attenzione ai comportamenti effettivi attuali e alla circolazione dei significati esistenti riguardo al paesaggio e alla vivibilità. Si tratta di comportamenti e significati strutturati nel corso del tempo e che mostrano di avere una lunga durata. Come ha mostrato con chiarezza e profondità Jerome Bruner, noi esseri umani viviamo conoscendo il mondo e lo 18 conosciamo attribuendogli significato . Siccome i
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significati sostengono le scelte, le decisioni e i comportamenti individuali, ogni azione che abbia attese di efficacia non può non tenere conto di come i significati si creano, come circolano e si consolidano. Esistono certamente i tempi delle norme e quelli delle tecniche, ma entrambi fanno i conti con i tempi e le dinamiche dei significati e dei comportamenti che ne derivano. Da qui l’importanza di porre al centro l’educazione e la ristrutturazione e rifigurazione dei significati del paesaggio e della vivibilità. O meglio della connessione tra paesaggio e vivibilità, che è allo stesso tempo estetica, etica e normativa. Il secondo livello riguarda le trasformazioni della partecipazione politica alle decisioni, quella partecipazione attiva che riguarda direttamente il governo del paesaggio basato sui comportamenti effettivi della popolazione. Il paesaggio, l’aria, l’acqua come diritti vogliono dire creare le premesse per rendere effettivo l'accesso quale diritto umano fondamentale, superando le privazioni cognitive, affettive e pratiche. Come accade nei propositi per uno dei prossimi passi del Forum mondiale dell'acqua: richiedere l'attivazione di diversi strumenti politici, giuridici o finanziari, così sarà necessario procedere a livello di ricerca giuridica e di produzione di norme, per tutti i beni comuni. Alcuni paesi ci stanno già lavorando e hanno inserito nella loro Costituzione l'accesso all'acqua come un diritto. Non solo l’acqua è parte integrante del paesaggio come spazio di vita e di partecipazione attiva, ma il suo riconoscimento come diritto costituzionale autorizza a pensare anche al paesaggio in termini di diritto costituzionale e bene comune. Se il paesaggio è “specchio e riflesso” di un territorio, 19 come ha sostenuto Eugenio Turri , è necessario superare i vincoli posti dalla modernità che ha
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creato le condizioni affinché solo la sovranità nazionale o l'attività delle imprese private potessero gestire al meglio aria, acqua, terra, energia e conoscenza. Una visione meccanicista che nega il fatto che si tratta di diritti e bisogni individuali il cui riconoscimento e affermazione deve vedere la diretta gestione da parte della collettività, con le necessarie condizioni poste dalle norme istituzionali. I beni comuni, che rispondono a bisogni in modi che divengono evidenti solo a fronte della loro crisi o della loro scomparsa, entrano in crisi nel momento in cui se ne abusa. L’abuso deriva dal loro “apprezzamento” e dal diritto concesso a dare loro un prezzo e una commerciabilità. Un esempio sono le mangrovie o la barriera corallina: offrono servizi decisivi che non hanno “prezzo” agli abitanti delle coste, i quali spesso non ne sono neppure consapevoli. Solo nel momento in cui un bene comune è distrutto o trasformato in bene da vendere, cioè nel momento in cui è necessaria la sua sostituzione, si può avere un'idea seppur non precisa del suo valore. Solo l’educazione al riconoscimento del valore implicito dei beni comuni in un contesto può consentire di “accorgersi” della loro decisiva funzione e della loro inestimabile presenza e incidenza nelle nostre vite. L’educazione civile e pubblica, quella di cui parla Zagrebelsky quando si occupa di “Educare 20 democrazia” , risulta tanto più necessaria e rilevante in quanto i beni commerciabili pervadono oggi l’immaginario e la loro onnipresenza mediata dal marketing tende ad ottundere il riconoscimento di qualsiasi presenza che non sia commerciabile mediante un prezzo e a rendere passivo l’individuo ridotto al ruolo di consumatore. “In realtà”, come sostiene Ugo Mattei, “l'opposizione strutturale autentica è quella fra la logica riduzionistica e meccanicistica della modernità condivisa da
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proprietà privata e Stato e quella fenomenologica, relazionale, partecipativa e critica propria del «comune». Soltanto quest'ultima logica supera il riduzionismo cartesiano soggetto-oggetto ed il conseguente delirio storico della modernità che ha portato l'umano (soggetto astratto) a collocarsi al di fuori della natura, autoproclamandosi suo dominus. In questo diverso quadro, la consapevolezza del bene comune (e la conseguente trasformazione motivazionale del soggetto) non può essere prodotta dal marketing ma al contrario deve passare attraverso la logica dialettica del sapere critico. In altre parole, per raggiungere la consapevolezza del bene comune occorre una trasformazione del soggetto, una rivoluzione nei suoi apparati motivazionali, una visione del mondo autenticamente rivoluzionaria. Mentre la logica del marketing (o della propaganda) produce motivazioni allineate alla produzione di ideologia dominante riduttivista e incentrata sullo status quo, quella del sapere critico di base produce la trasformazione qualitativa essenziale per la stessa 21 percezione dei beni comuni” . Per riconoscere il nostro essere parte di un ecosistema e di un paesaggio come condizione della nostra stessa vivibilità, abbiamo bisogno di cultura critica e, quindi, di educazione. Anche la cultura critica e l’educazione sono beni comuni. Solo per una via simile possiamo immaginare di giungere al riconoscimento della nostra naturale essenza appartenente e non separata dalla natura, del nostro essere parte, e non separati o sopra le parti, dell’ecosistema che siamo. Un paesaggio e un ambiente considerati come bene comune non sono un'entità statica ma sono allo stesso tempo natura e cultura, fenomeno globale e locale, tradizione e 22 futuro. In una parola il comune è civiltà .
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Figura 4. Vincent Van Gogh, “Covone sotto un cielo nuvoloso”, 1890.
Paesaggi originari “Il libro del nascosto è il libro che descrive ciò che è pesato sulla bilancia, poiché prima che esistesse la bilancia, il volto non guardava il volto” (Zohar, Il libro dello splendore). La trasformazione simbolica è la via per accedere alla conoscenza e al riconoscimento del mondo. Non c’è accesso alla
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consapevolezza senza investimento in distanza e eccedenza; il mondo senza conflitto estetico rimane nascosto. Così è per il paesaggio che se ne starebbe appiattato sui luoghi se non lo trasformassimo simbolicamente. Quella trasformazione è anche soggetta a reificazione e, una volta che del paesaggio costruiamo una certa rappresentazione, per noi è difficile operare una ristrutturazione e una ri-figurazione. Se il paesaggio è inteso come stilema e come sfondo formale, ri-figurarlo come spazio e forma di vita è difficile e richiede investimenti in educazione e in eccedenza rispetto agli equilibri stabilizzati. Spazio di vita, trasformazione in paesaggio e vivibilità, sono, perciò, questioni che si misurano con le difficoltà di noi essere umani a cambiare idea e a produrre processi di ri-figurazione. L’acquisizione di una nuova sensibilità per i temi dell'ecologia applicati alla costruzione del paesaggio abitato incontra vincoli e resistenze che devono essere analizzati e considerati per poter essere elaborati. Questa presa di coscienza si diffonde con difficoltà, nonostante la “nebulosa sentimentale”, come la definì l’architetto belga Lucien Kroll, che mette in discussione l’ideologia utilitaristica e antiecologica con la quale si sono pianificati città e territori. Primo atto di questa azione è preservare le biodiversità nel paesaggio taylorizzato: conservare e arricchire cioè le culture smarrite nelle periferie, promuovendo la spontaneità, e “lasciare che il disordine naturale agisca in armonia con il disordine razionale”. Anche Gilles Clément, tra i più interessanti paesaggisti contemporanei, pensa e agisce su questo fronte. Anch'egli è convinto che nel “giardino planetario” che abitiamo occorre “lasciare le cose come stanno”. In opposizione alla forma fissata a priori, agli esercizi accademici del disegno e in contrasto con il calcolo delle pratiche
agrarie, egli ci indica quali sono le operazioni che l'uomo può compiere per preservare le diversità (essenze vegetali e animali) che anche il più modesto terreno contiene e preserva. Dal “giardino in movimento” - modello iniziale, il suo, nella Creuse (1977), fino al parco parigino della ZAC André Citroën (1985) - Clément è approdato con la recente pubblicazione del Manifesto del Terzo 23 paesaggio a una più ampia riflessione sull’uso dei nostri territori antropizzati. Il suo sguardo si è rivolto a quella moltitudine di aree residuali che dopo essere state sfruttate rimangono abbandonate, e a quelle che ancora sopravvivono all'antropizzazione. Sono questi terreni che non appartengono “né al territorio dell’ombra né a quello della luce”, modesti di dimensione e senza forma, marginali ai luoghi abitati e dispersi, a costituire il Terzo paesaggio. È l'insieme di questi spazi indecisi, trascurati dal dominio dello sfruttamento dei suoli - risultato delle politiche agricole comunitarie nelle campagne, e delle trasformazioni urbane nelle città - a costituire il solo rifugio per la biodiversità: spazi che, una volta riconsiderati, assumono in Clément un chiaro significato politico ed etico. Come nel pamphlet di Seyes del 1789, che definiva il Terzo Stato, il Terzo paesaggio non esprime né il potere né la sottomissione al potere, ma aspira a diventare qualcos'altro. In particolare, tende a preservare e arricchire la “mescolanza planetaria” di ogni specie vivente pur nel precario equilibrio dipendente dalle attività umane e dalle logiche dell'economia di mercato, tese al pieno sfruttamento del pianeta. Accogliere le diversità del mondo è il compito del prossimo futuro. Se nel Plan Obus di Le Corbusier per Algeri l'architettura accoglieva qualsiasi stile abitativo, è il Jardin Planétaire di Clément il rifugio esteso, ma finito, nel quale inventarsi come abitare
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con le più numerose specie viventi. Il paesaggio come spazio vitale, insomma, ci convoca e invoca la nostra presenza; dà forma alla nostra individuazione. Il primo paesaggio, originario e originale a un tempo, è per ognuno di noi quello in cui siamo accaduti a noi stessi nello spazio vitale della relazione primaria col volto materno. Si sono fondate in quella risonanza incarnata le condizioni di unicità mediante le quali ognuno di noi crea i paesaggi della propria vita. In quell’origine vi sono i codici affettivi e cognitivi per cui i paesaggi della nostra vita emergono, al punto di connessione tra mondo interno e mondo esterno con la mediazione del principio di immaginazione, che ci è proprio 24 evolutivamente . La nostra appartenenza ai luoghi è possibile per la cangiante codificazione simbolica di essi, tra un’isola di senso e un’altra, dove la differenza diviene fonte di forma grazie alla nostra competenza immaginativa e creativa. L’ipotesi che il paesaggio possa essere inteso come un “fenomeno transizionale” pare sostenibile. Secondo Donald Winnicott, infatti, il bambino ha la possibilità di sentire che l’oggetto transizionale è una sua creazione, ed è importante che questo paradosso – per cui lo stesso oggetto è dato al piccolo dalla madre e allo stesso tempo è creato dal bambino – non venga risolto. Da quella sovrapposizione esperienziale, che favorisce l’espressione generativa delle potenzialità che già aveva caratterizzato la vita intrauterina del bambino, si sviluppa la sua intera esperienza sociale e culturale. L’incessante processo di introiezione e proiezione con le figure primarie e gli spazi originari concorre a generare l’individuazione di sé. Dall’ipotesi dello spazio potenziale, presentata da Winnicott per la prima volta con il saggio “Oggetti e fenomeni transizionali” il 30 25 maggio 1951 , derivano decisive conseguenze per
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l’analisi del paesaggio come connessione tra mondo interno e mondo esterno, come spazio potenziale frutto dell’immaginazione e della competenza simbolica e, infine, come fonte del proprio percorso di individuazione da parte di ognuno, e del proprio modo di accadere a se stesso e di essere quello che è. La sovrapposizione per cui lo spazio di vita ci è dato e allo stesso tempo è possibile in quanto da noi stessi trasformato in paesaggio, oltre a insegnarci che l’osservatore non può essere separato dall’oggetto osservato, ci aiuta a verificare l’ipotesi che ogni paesaggio è artificiale, fatto ad arte e generato dalla competenza simbolica umana, da quella tensione rinviante in grado di trasformare le emozioni in sentimenti e 26 questi ultimi in narrazione . Una trasformazione che si genera, emerge, tra un’immaginazione e un’altra e dà vita a immagini e narrazioni, comunque provvisorie. In quella ripetizione il meraviglioso diviene parte del quotidiano. Come scrive Amitav Ghosh: “La ripetizione è il metodo con cui il miracoloso diventa parte della vita quotidiana” (Ghosh A., 2011, River of Smoke). Fin dalla sua stessa concezione nella cultura e nella tradizione occidentale, il paesaggio è stato intimamente connesso alla narrazione e alle sue espressioni. Il paesaggio emerge quando lo immaginiamo e lo narriamo, noi esseri simbolici e di parola; “La lingua è più del sangue”, ha scritto Franz Rosenzweig: “Dev’essere semplice la lingua nativa. Perché chiunque ne ascolti le parole veda i meli, il fiume, la svolta della strada quando un lampo d’estate li rivela.” (Milosz C., 1957, Traktat poetycki) “Io sto sempre andando a casa,
Paesaggi mentali e vivibilità nei luoghi alpini. Trasformazione dei luoghi in paesaggi
sempre a casa di mio padre” (Novalis, 1976, Frammenti) L’accessibilità simbolica, semantica e esperienziale al paesaggio sembra emergere dal passaggio da un’appartenenza tacita e frutto della nostra mente situata (embedded), ad una disposizione riflessiva, derivante da una mancanza, da una distanza che renda riconoscibili le connessioni tra le strutture emozionali di base (mente incarnata - embodied) e le estensioni della mente relazionale umana (extended). I contributi recenti delle affective and social neurosciences (Jaak Panksepp) sembrano combinarsi efficacemente, in proposito, con gli studi fondativi della teoria dell’affordance (Gibson) e con gli avanzamenti delle neuroscienze cognitive che mostrano la rilevanza dell’embodied simulation e degli shared manifold processes (Vittorio Gallese). La tesi di Jean Piaget, “la mente costruisce se stessa mentre costruisce il mondo”, approfondita da G. Bocchi e M. Ceruti riguardo all’incessante dinamica tra disordine e costruzione, riceve in tal modo sviluppi e verifiche decisive, fornendo un quadro di riferimento decisivo per lo studio del rapporto tra paesaggio e vivibilità. La vivibilità, infatti, appare una categoria analitica decisiva se si riconosce la necessità di accedere a una concezione e a una prassi in grado di approfondire il senso e il significato del paesaggio oltre il suo aspetto formale e esteriore. Se il paesaggio è uno spazio di vita che comprende i modi e le forme con cui noi enagiamo (da enactment) l’ambiente, le risorse e il territorio, da esso dipende la nostra stessa vivibilità. Quest’ultima è cambiata di segno nel nostro tempo: da una vivibilità contro la natura, nella lunga durata della nostra storia di difficoltà di
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sopravvivenza, siamo giunti a un punto di soglia in cui la vivibilità sul pianeta Terra sarà con la natura o non sarà, per la nostra specie. Tutto ciò comporta un profondo cambio di mentalità e di comportamenti, molto difficile per noi esseri umani, che coinvolga le dimensioni estetiche, etiche e pratiche del paesaggio. A rendere impegnativo il processo evolutivo di riconoscimento di una rifigurazione del paesaggio è la pervasività dell’immaginario del paesaggio presente nel nostro tempo di intensa ridondanza informativa e di crisi del legame sociale, in cui come sostiene Sherry Turkle siamo insieme ma 27 soli . L’idea di paesaggio e i modi in cui ne costruiamo i significati appare, infatti, profondamente intrisa di componenti dell’immaginario colonizzato. Le difficoltà consistono nella creazione di processi simbolici in grado di connettere mondo interno e mondo esterno, realtà e sua rappresentazione, da parte di ognuno e a livello collettivo. Uno degli esiti riguarda il progressivo affermarsi del godimento, anche della natura e del paesaggio, come sostituto del piacere della creazione, impegnativa e responsabile, dei paesaggi della nostra vita. La natura neuroplastica della mente relazionale incarnata di noi esseri umani ne è decisamente influenzata.
Geografie affettive e rappresentazione del paesaggio e degli spazi di vita La ricerca in corso sui modi di percepire e intendere il paesaggio nell’arco alpino si situa al crocevia di queste questioni e mira a comprendere alcuni degli aspetti implicati nella elaborazione del “disordine” verso la “costruzione” del paesaggio, cercando di
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cogliere come intervengono variabili relative ai processi emozionali e cognitivi nella generazione delle narrazioni che le persone esprimono del paesaggio. Il punto di partenza e l’ipotesi di base sostengono che vi sia in atto uno s-paesamento nei territori alpini. Lo scopo è cercare di riconoscere gli effetti dello spaesamento o della costruzione di appartenenze efficaci tra: paesaggi affettivi - cognitivi; paesaggi stereotipati e saturi; paesaggi sognati e utopici; paesaggi inventati. Lo sviluppo di azioni esplorative e educative nel campo della vivibilità, degli ambienti di vita e del paesaggio, richiede oggi un salto di qualità di natura metodologica, in grado di combinare: l’evoluzione delle conoscenze nei diversi campi disciplinari; gli approdi attuali degli studi sulla percezione, lo spazio geografico, l’evoluzione del vivente e della vivibilità e sul paesaggio. Da queste premesse scaturisce un’inedita possibilità educativa in grado di favorire l’esplorazione e l’apprendimento riguardo al rapporto e alle interdipendenze tra il sistema cervello-mente e lo spazio geografico e paesaggistico. L’attenzione educativa che pone al centro la storia individuale, gli orientamenti e la percezione, può essere sostenuta dalle teorie e dai metodi delle scienze della mente per favorire apprendimenti specifici e innovativi nel campo della vivibilità e del paesaggio. Dal lavoro in corso emerge che le persone spaesate non esistono come non esistono i non luoghi. Questa potrebbe essere, in sintesi una prima considerazione derivante dall’esplorazione analitica e applicativa. Vitruvio ha scritto: “La prima architettura è il corpo umano” [Marco Vitruvio Pollione, De Architectura]. Dalla
dimensione incarnata della nostra esistenza non si prescinde, così come dal movimento come fonte e condizione dell’origine del pensiero. Ogni persona, accadendo a se stessa nelle risposte che dà al mondo in cui nasce, crea il paesaggio della propria vita. Presto lo condivide con altri, i protagonisti del suo paesaggio relazionale originario e lo estende al mondo naturale di cui fa parte, del quale si appropria almeno in parte, selezionandolo e trasformandolo in artificiale. Sembra farlo letteralmente ad arte, mediante l’espressione della competenza simbolica e di sense-making che lo costituisce. Non sceglie di fare tutto questo. Lo fa. Come non sceglie di apprendere. Apprende. Egli stesso o ella stessa in quanto persona non esistono prima a prescindere dalle relazioni e dal contesto, ma la trasformazione del vuoto in spazio di vita, quel processo di enactment, è la condizione della propria individuazione. Il processo di trasformazione utilizza, naturalmente, i materiali disponibili nel contesto e la natura e la qualità di quei materiali, estenderanno o limiteranno, minorizzandole, le possibilità di pienezza (mindfullness) dell’individuazione. Uno degli effetti del turismo è la sovrapposizione di paesaggi immaginari che tendono a divenire prevalenti. La prevalenza di paesaggi immaginari, inventati e compensativi, e la loro pervasività, mostrano di generare notevoli effetti di saturazione in quello che è comunque un processo di “appaesamento”, con i conseguenti vincoli sull’espressione simbolica e le relative conseguenze in termini di conformismo e di indifferenza. Nella circolarità ricorsiva che caratterizza il processo di individuazione, le persone sembrano accadere a se stesse, elaborando materiali stereotipati e saturi, in cui lo spazio di scoperta e il tempo della giusta distanza risultano relativamente carenti. Tendono così a
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prevalere i paesaggi subiti, in cui estetica ed etica non si integrano e i canoni tendono a invadere gli spazi dell’immaginazione, riducendo gli spazi dell’originalità e riducendo quelli dell’originarietà, verso un effetto di omologazione. Nelle narrazioni prevale, quindi, uno stile di “maniera” e la bellezza, intesa come possibilità emancipativa nelle risonanza con il mondo e, quindi, come fonte possibile della progettualità di una inedita vivibilità, ne risulta sensibilmente vincolata. Per bellezza intendiamo qui: “Un sentimento particolarmente compiuto di risonanza incarnata che confermi o estenda il modello neurofenomenologico di sé. Così pare emerga, si presenti e sentiamo la bellezza. La stessa dinamica corporea e psichica può generare esperienze del terrore e dell’orrore, se quelle esperienze minacciano o pregiudicano quel 28 modello” . La bellezza, come il desiderio, non ha nè cause, nè misure: semplicemente emerge e ci viene incontro, nell'intreccio tra mondo interno e mondo esterno e grazie alla nostra capacità di immaginazione. L'unica cosa di cui possiamo divenire colpevoli è di non accoglierla quando imprevista si presenta, nelle piccole e nelle grandi cose, e infrange le barriere dei canoni e il dominio del consueto, donandoci finalmente e ancora una volta la possibilità di aumentare noi stessi e di sentire il mondo. “È inconcepibile che la bellezza sia quotata 29 meno della psicologia” .
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Figura 5. Paul Gauguin, “Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?”, 1897-’98.
Per una cultura del limite È probabile che alla base di una cultura della negazione del limite vi sia l’affermazione del dualismo tra uomo e natura. Parlare di negazione del limite è già di per sé impegnativo, in quanto una negazione sembrerebbe implicare un atto intenzionale e deliberato. Di fatto le negazioni più
Paesaggi mentali e vivibilità nei luoghi alpini. Trasformazione dei luoghi in paesaggi
profonde, quelle che esprimiamo inconsapevolmente con i nostri stessi comportamenti, sono tacite e, proprio per questo, molto tenaci. Limite non è parola che goda di buona cittadinanza o che susciti particolari consensi e gradimenti. Mentre, infatti, si dirada il suo uso relativo alla delimitazione e ai confini di spazi, paesi o proprietà, si diffonde l’utilizzo della parola che richiama privazioni, carenze, impossibilità, problemi. È un segno del nostro tempo e un indicatore dell’identificazione dello sviluppo con la crescita illimitata, con un progresso basato sull’utilizzo incondizionato e senza limiti delle risorse disponibili. Il predominio di un preciso paradigma economicistico ha imposto una visione dell’aria, dell’acqua, del suolo, dell’ambiente e delle risorse naturali in genere come “esternalità” disponibili senza limiti, appunto. Oltre ad aver causato una separazione problematica tra “pubblico” e “privato” da cui derivano conseguenze indesiderabili per la tutela delle risorse, la “cultura del non-limite” ha prodotto una crisi dei beni comuni e un loro indiscriminato utilizzo. Un grande poeta come Andrea Zanzotto ha detto: «… Oggi siamo alla mancanza del limite / e alla caduta della logica, sotto il mito del prodotto interno lordo: / che deve crescere sempre, non si sa perché. / Procedendo così, / la moltiplicazione geometrica non basterà più ed entreremo in un’iperbole…/ il progresso scorsoio». Nel dialogo con il giornalista Marzio Breda, il poeta sosterrà: “In questo progresso scorsoio, non so se 30 vengo ingoiato o se ingoio» . La disuguaglianza e l’ingiustizia sociale, nonché le forme di dominio tra paesi cosiddetti sviluppati e sottosviluppati, sono parte integrante della posizione di dominio sulla
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natura. La pervasività di una cultura che è basata sulla rimozione della finitezza umana e delle cose che ne accompagnano il cammino ha fatto sì che il mito del progresso diventasse nel tempo proprio un nodo scorsoio che l’umanità si è messa al collo da sola in nome del proprio dominio sulla natura. L’uomo si è pensato in antagonismo con la natura o nella posizione di poterla dominare, probabilmente come reazione alla paura atavica della natura, piuttosto che in alleanza, “come parte del tutto e 31 non sopra le parti” . Non sempre, per la verità. La parola humanitas nemmeno esisteva nella lingua e nel pensiero dei greci, i quali non hanno mai creduto – a differenza dei romani – che l’uomo fosse l’indiscusso signore dell’Universo. È opportuno ricordare la nota simulazione compiuta da un astronomo che provò a comprimere la storia della Terra lungo i suoi circa quattro miliardi e mezzo di anni sulla scala di un solo anno. “… secondo questa simulazione, se a gennaio, su un braccio esterno della Via Lattea, si forma il Sole, a febbraio si forma la Terra, ad aprile i continenti emergono dalle acque, a novembre appare la vegetazione, a Natale si estingue il regno dei grandi rettili, alle 23 del 31 dicembre compare l’uomo di Pechino, a mezzanotte meno dieci l’uomo di Neanderthal, nell’ultimo mezzo minuto si svolge l’intera storia umana conosciuta, nell’ultimo secondo di questo mezzo minuto gli uomini si moltiplicano per tre o quattro volte e consumano quasi tutto quello che si era 32 accumulato nei millenni precedenti…” . Assumere la rilevanza del riconoscimento del limite significa, tra l’altro, andare oltre l’inconsistenza delle tesi sulla sostenibilità. Ogni presenza è tale in quanto perturba un equilibrio e un ordine. Non vi
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può essere azione senza violazione. Pertanto sembra opportuno concentrarsi sulla ricerca delle condizioni di responsabilità per l’affermazione di una cultura e di pratiche che assumano il limite come criterio di scelta. Il “Rapporto sui limiti dello 33 sviluppo” , del Club di Roma, poneva l’accento proprio sul carattere limitato delle risorse e metteva in guardia l’umanità dal proseguire nell’idea di uno sviluppo illimitato, cosa che avrebbe potuto determinare nell’arco di un secolo una situazione di rottura irreversibile; l’accusa fu di catastrofismo: la scienza avrebbe comunque trovato una soluzione ai problemi che lo sviluppo portava con sé. Erano gli anni del boom economico, della sfida fra chi per primo avrebbe inviato un uomo nello spazio o sulla Luna, dell’accesso a inediti livelli di consumo per le classi sociali subalterne e dell’idea che lo sviluppo delle forze produttive avrebbe portato in sé l’emancipazione dalla schiavitù e dall’asservimento al capitalismo selvaggio. In nome dello sviluppo fu messo in campo il compromesso keynesiano fra i diversi soggetti sociali di una parte del pianeta prima considerati antagonisti, senza nemmeno considerare che questo avrebbe potuto reggersi solo mantenendo nell’indigenza una rilevante parte del pianeta. Fino a legittimare nel tempo il ricorso alla guerra allo scopo di non mettere in discussione il proprio stile di vita, considerato “non negoziabile”. Tant’è che nonostante aumentasse la consapevolezza dell’insostenibilità della crescita illimitata, ognuno ha continuato come prima, gli uni per mantenere il proprio status, gli altri rivendicando un posto a tavola. Il tutto senza mai interrogarsi se il limite non fosse già alle nostre spalle. Nel 1992, in occasione del primo aggiornamento del Rapporto, col titolo “Beyond the Limits”, gli stessi scienziati sostennero che i limiti
della "capacità di carico" del pianeta erano già stati superati. Diagnosi confermata nel 2008, quando una nuova ricerca intitolata “Un paragone tra I limiti dello sviluppo e 30 anni di dati reali” , portò alla conclusione che i mutamenti nella produzione industriale ed agricola, nella popolazione e nell'inquinamento effettivamente avvenuti, erano coerenti con le previsioni del 1972 e confermavano i rischi effettivi di un collasso economico nel XXI secolo. Il carattere limitato delle risorse e la fragilità degli ecosistemi richiedono un netto cambio di rotta, un salto di paradigma che faccia della sostenibilità planetaria il perno di una nuova alleanza fra l’uomo e la natura per una vivibilità sufficientemente buona dei paesaggi della nostra vita. “Nessuno può volontariamente non capire una 34 frase”, scrive magistralmente Andrea Moro , Possiamo decidere di non andare in un luogo; di non mangiare o di non bere qualcosa, ma non di non capire una frase quando la leggiamo o ce la dicono. Ma allora perché diviene così difficile capire o rendersi conto di alcune questioni così evidenti e sempre più urgenti nel tempo in cui viviamo? Vince la resistenza a perseverare nell’abitudine. Sentiamo ribadire il mito della crescita e, anche a livello locale, la vogliamo a tutti i costi e senza condizioni. C’è chi vuole riprendere a costruire case, senza se e senza ma; quelle scelte consumerebbero suolo e paesaggio senza chiedersi se servono case e se si venderebbero. È raro sentire qualcuno che si chieda: sì, ma quale crescita?; quale sviluppo?; quale economia per quale società?. C’è chi attende di ricominciare a fare operazioni finanziarie spericolate che garantiscano arricchimenti veloci, come prima della crisi in atto, senza rendersi conto che è stato quel modo di fare e pensare a causare la crisi. C’è chi
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vuole continuare a non pagare le tasse o a sprecare perché lo ritiene possibile o, ancor di più, pensa che sia proprio la cosa da fare per i propri vantaggi. Eppure i segni di un cambiamento epocale e non provvisorio sono evidenti e i limiti ancora di più. Quel Club di Roma che pubblicò quarant’anni fa “I limiti alla crescita”, snobbato dall’ortodossia economica, oggi torna a impegnarsi in una pubblicazione che disegna lo scenario dei prossimi quarant’anni: 2052: A Global Forecast for the Next Fourty Years. È difficile essere negazionisti, sostenere cioè che siano esagerate le previsioni di questo rapporto, soprattutto dopo le conferme del rapporto precedente e dopo che abbiamo scoperto che la più grande multinazionale del petrolio ha finanziato le tesi negazioniste e chi, con un’etica scientifica a dir poco discutibile, le ha sostenute. Scopriamo che il riscaldamento del pianeta sta avvenendo a una velocità superiore a quella prevista; ciò inciderà pesantemente sul cambiamento del clima. La causa principale di tutto questo è il dominio di modelli economici di sviluppo a corto termine. L’umanità ha ormai superato la disponibilità di risorse sulla Terra ed emettiamo in un anno il doppio di gas serra che può essere assorbito dalle foreste e dagli oceani del pianeta. L’aumento progressivo della popolazione è una delle questioni cruciali insieme ai sistemi energetici basati sui combustibili fossili e ad alta produzione di carbonio. Se le informazioni sono così chiare e la riduzione dell’”impronta ecologica” è l’unica via possibile, c’è da chiedersi perché non capiamo una questione che è, evidentemente, la più importante. Resistiamo a capirla in ogni modo e chi è responsabile della ricerca in molti campi, unitamente a chi governa sistemi allargati e locali, ha un compito etico ed epocale inderogabile volto a favorire il superamento di quelle resistenze.
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Evidenziare la bellezza e la sobrietà del limite è un primo passo in quella direzione.
Figura 6. Santiago Calatrava, Ponte sul Canal Grande a Venezia, 2008 (foto di Marco Massarotto).
Contro il dualismo…le sue fallacie e le sue conseguenze La questione non è se, a livello intuitivo e ingenuo, tendiamo a separare dualisticamente natura e cultura, mente e corpo, naturale e spirituale, essere sani e sentirsi bene, realtà e interpretazione. Lo facciamo. Esprimendo l’ennesima fallacia derivante dai limiti della nostra mente incarnata e dei nostri modi di conoscere il mondo. A sostenere il dualismo di base c’è anche la nostra mente che mostra i propri limiti pur essendo capace di concepire l’illimitato e l’oltre. Anzi proprio per questo motivo e per quelle capacità, probabilmente noi che sappiamo concepire il possibile, tendiamo a poi a ritenerlo probabile, fino
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a considerarlo certo. Accade così che istituiamo un dualismo tra noi e la natura, che decliniamo inoltre in superiorità. Per autorizzare quel dualismo che estendiamo poi a corpo e mente, realtà e interpretazione, natura e cultura, corporeo e spirituale e oltre, dovremmo avere almeno una verifica sperimentale della inesistenza di connessioni, o meglio che non esiste alcuna connessione tra corpo e mente, ad esempio a proposito dell’emergenza di una malattia o dell’efficacia o meno di una terapia. Una simile dimostrazione permetterebbe di provare il dualismo, di stabilire quando e come funziona e, soprattutto, ci direbbe dov’è il confine. Finora però una tale dimostrazione non esiste. Vi sono solo affermazioni che reiterano il dualismo e sono piene di assunzioni ideologiche o di cattive interpretazioni dell’unità mente-corpo e del fatto che siamo esseri naturalculturali. A proposito dello “star bene” o “sentirsi bene” in medicina, ad esempio, si continua o ad enfatizzare la narrative-based-medicine, o a sostenere che la malattia e l’infermità sono fatti “oggettivi” che non avrebbero a che fare con la narrazione: “La malattia, l’infermità, la deprivazione e la morte non sono storie, sono fatti”, scrive un teorico della medicina narrativa. È certamente innegabile che quelli richiamati siano fatti. La questione che conta è che li consociamo attraverso storie e solo attraverso storie possiamo conoscerli e che la loro narrazione in una relazione preventiva, diagnostica, terapeutica o riabilitativa, modifica profondamente l’andamento stesso di quei fatti. Se i fatti diventano tali nel momento in cui li narriamo come storie e le storie influenzano l’andamento dei fatti, forse ad essere fallaci sono le “due culture” e il dualismo che le sostiene. Non avere ancora a disposizione la verifica sperimentale di come la carne produca pensieri e parole non vuol
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dire che l’unica via è consegnarsi o al mistero o alla metafisica del dualismo. È importante partire dal fatto che finora il dualismo non ha prove sperimentali che lo dimostrino e chiedersi come mai è così tenacemente negata l’unità del vivente e la sua dimensione relazionale incarnata. Che le vie di accesso alla conoscenza del mondo per noi siano molteplici, non vuol dire negare l’unità della vita e delle sue manifestazioni. Sembra di dover fare ogni volta una battaglia di retroguardia per sostenere la natura della mente relazionale incarnata o il nostro essere naturalculturali, o ancora che per comprendere un’emozione è necessario considerare la sua manifestazione biochimica, il sentimento neuroaffettivocognitivo e la parola per nominarla. Scrive R. Charon: “Il sapere non narrativo tenta di fare luce sull’universale trascendendo il particolare, mentre il sapere narrativo, osservando attentamente i singoli esseri umani alle prese con gli eventi della vita, cerca di spiegare l’universale 35 della condizione umana rivelando il particolare” . Non abbiamo dimostrazioni sufficienti dell’unitarietà corpo-mente e di come la materia diventa pensiero, linguaggio e parola, ma sappiamo che non si tratta di due cose e che è indimostrato il dualismo. La via più promettente per giungere a una più avanzata coscienza di chi siamo e come diveniamo noi stessi è quella che affronta un altro dualismo: il dualismo io/altro concependo la relazione solo come un processo mentali stico. La ricerca di Vittorio Gallese sulla neurobiologia dell’intersoggettività è interdisciplinare e attinge sia alla psicologia che alla filosofia, oltre che alla scienza sperimentale. Secondo Gallese la relazione e l’intersoggettività sono principalmente realtà 36 prerazionali e intercorporee . Tendere a mostrare l’unitarietà mente-corpo e io-altro può significare evidenziare i limiti e la fallacia del dualismo e le
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ragioni della sua persistenza. Già S. J. Gould aveva immaginato e formulato alcune delle condizioni per una scienza della contingenza storica per la comprensione della vita e della sua evoluzione; e G. M. Edelman ha indicato la rilevanza di una scienza del riconoscimento per lo studio e la comprensione della vita. L’attenzione alla contingenza e al riconoscimento è condizione per focalizzare il ruolo dell’immaginazione creativa nella creazione della nostra esperienza nel mondo. Il paesaggio è frutto della nostra immaginazione creativa che connette mondo interno e mondo esterno. L’immaginazione presentifica assenze e il paesaggio a suo modo è figlio della mancanza che è anche assenza. Il paesaggio, infatti, non è solo percettivo ma anche introcettivo; non è solo formale ma sostanziale; non è solo grammaticale ma anche semantico; non è solo simbolico ma anche pragmatico. Il paesaggio coinvolge lo schema posturale che ognuno elabora di se stesso in un contesto, fondendo mente incorporata e contesto. “Il mondo è mente”, come sostiene Siri 37 Hustvedt . Maurice Merleau-Ponty ha scritto: “La coscienza che ho del mio corpo, non è la coscienza di un blocco isolato, è uno schema posturale 38 [schéma copeorel]” . Seguendo la distinzione proposta da Shaun Gallagher tra schema corporeo e immagine corporea, si può riconoscere nel primo 39 “un sistema di capacità sensoriali motorie” , prevalentemente incorporato e inconsapevole. Quando ci muoviamo in uno spazio che è il paesaggio della nostra vita, siamo parte di quello spazio e ci muoviamo senza pensare. L’azione riflessiva può rendere consapevoli dell’esperienza vissuta, ma perché ciò avvenga sembra necessaria la ri-codificazione delle esperienze in parole. Il linguaggio assumerebbe un’importanza decisiva per 40 l’emergenza della consapevolezza autoriflessiva .
Una critica radicale al dualismo tra mente incarnata, intersoggettività e paesaggio è condizione indispensabile per accedere alla connessione tra paesaggio e vivibilità e alla consapevolezza di specie tra le parti e non separata o sopra le parti, per la specie umana. Per questo è importante approfondire la dimensione introcettiva, oltre che percettiva, del paesaggio. Noi incorporiamo il contesto che ci vincola e lo trasformiamo in paesaggio della nostra vita. Facciamo questo comunque. Incorporiamo naturalmente qualsiasi paesaggio e, quindi la sua bellezza o bruttezza, la sua vivibilità o invivibilità. In questo senso è possibile sostenere che il paesaggio siamo noi. Considerare il paesaggio, perciò, vuol dire prestare attenzione non solo alla sua forma ma alla sostanza di cui è composto, in quanto quella sostanza diviene la nostra sostanza in termini di aria, acqua, cibo, legame estetico con i luoghi della vita. In proposito è bene sottolineare che il paesaggio non riguarda solo gli stilemi o le parole con cui lo descriviamo, in quanto assume, per noi esseri sense-makers, significati che compongono il significato complessivo della nostra vita. Nel paesaggio che è “fatto ad arte” dalla nostra competenza simbolica noi esprimiamo anche la nostra azione vitale, con passività o con partecipazione attiva e, quindi, il paesaggio diviene l’agorà delle nostre prassi comunque responsabili. Riflettere sulla natura del paesaggio vuol dire, perciò, attraversare una certa distanza dall’appartenenza tacita e sperimentarne la mancanza e la malinconia, che derivano dal riconoscimento del valore del limite, e sono condizioni di una presenza sufficientemente piena e responsabilmente partecipe.
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Figura 7. Peter Eisenman, Jewish Memorial, Berlin 2005.
Paesaggi alpini costitutivo
e
turismo.
Un
limite
Il tentativo di giungere ad una considerazione e ad una prassi del paesaggio appropriate al tempo storico in cui viviamo trova un importante banco di prova nei paesaggi alpini, nelle rappresentazioni e nelle prassi con cui sono considerati e agiti. La considerazione di quei paesaggi e le azioni umane in essi sono strettamente connesse all’economia turistica e alle mentalità che con quell’economia sono coevolute, generando i vincoli (molti) e le possibilità (limitate) delle forme attuali. I paesaggi turistici possono fornire una rilevante occasione di analisi dell’evoluzione del paesaggio e della vivibilità, nel momento in cui divengono luogo di una contraddizione fondamentale: essere fonte di concentrazione simbolica e isole di senso e proprio per questo trovarsi sulla soglia della saturazione dell'immaginario e della crisi simbolica. Questa
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ipotesi può essere ulteriormente esplicitata considerando l’azione di marketing mirante allo sfruttamento industriale del paesaggio alpino come fonte di attrazione in rapporto con la saturazione materiale e simbolica, nonché con gli effetti usuranti e deterioranti di quello sfruttamento, effetti che tendono a riguardare proprio quegli aspetti e quei fattori che sono all’origine delle capacità attrattive e della costruzione delle isole di senso che sostengono l’appeal turistico. Il problema fondamentale, come appare evidente, è la propensione alla massimizzazione senza limiti dello sfruttamento commerciale dell’ambiente e del paesaggio alpino. La domanda cruciale è: cosa succede quando le forme d’uso di un patrimonio unico e rilevante sul piano materiale e simbolico ne mettono in discussione gli stessi fattori che lo hanno reso pregiato? Siamo al centro della questione posta con il presente contributo. Se si può sostenere che ogni essere umano si costruisce il proprio paesaggio, è necessario allo stesso tempo considerare come si giunge alla creazione di paesaggi condivisi di cui si è responsabili da parte delle comunità umane. I paesaggi turistici alpini mostrano di vivere un processo di ibridazione delle forme e degli spazi che corrisponde all’ibridazione delle mentalità. L’ibridazione si afferma mentre persiste una narrazione spesso canonica e di maniera che copre idee e pratiche divergenti su che cosa si debba tutelare e sulle scelte di valorizzazione. Il conflitto fra le narrazione di stereotipi e le prassi effettive di tutela e salvaguardia è molto spesso profondo. Quel conflitto è enfatizzato dall’uso che il marketing turistico fa proprio degli stereotipi accompagnati dall’invenzione di tradizioni che assumono il paesaggio come sfondo necessario e usurato. Tra le posizioni del conservatorismo estremo e quelle
Paesaggi mentali e vivibilità nei luoghi alpini. Trasformazione dei luoghi in paesaggi
che propongono una totale eliminazione di vincoli, si registra un’ampia serie di posizioni intermedie, accomunate comunque dall’utilizzo degli stereotipi su un paesaggio che, in quanto isola di senso, assume per l’Arco Alpino la funzione di attrattore turistico. Se si assume la definizione della Convenzione europea del paesaggio che sostiene: “Paesaggio designa una determinata parte di territorio così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”, non è difficile constatare la scomposizione e l’articolazione dei molteplici punti di vista che caratterizzano i paesaggi mentali alpini. Le differenze fondamentali sembrano emergere tra le posizioni di chi i luoghi alpini li abita traendone risorse per la propria sopravvivenza, e chi invece li considera come entità da tutelare. Questo confronto riguarda direttamente il tema della vivibilità in montagna e delle preferenza per quelle forme di vita, in particolare per la loro capacità di offrire opportunità di vita alle giovani generazioni. Si pone a questo punto la questione che è forse quella cruciale: la tensione fra la standardizzazione e stereotipia dei luoghi alpini, con effetti di saturazione e conformismo da un lato, e dall’altro il riconoscimento del valore delle differenze e della 41 biodiversità in una prospettiva di riconoscimento dei limiti dello sviluppo. Le principali tendenze in atto mostrano una particolare resistenza a comprendere la rilevanza dei limiti dello sviluppo per la possibilità dei luoghi alpini di continuare a essere luoghi di attrazione. La capacità attrattiva, in particolare per il turismo, è strettamente connessa al fatto che sono proprio le possibilità di trasformare quei luoghi in paesaggi ricercati e attraenti a farne opportunità economiche e commerciali. L’uso delle risorse simboliche che
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stanno alla base di un tale processo esige una cura del limite oltre il quale la risorsa simbolica si satura e degrada. Quel limite è stato in molti casi ampiamente superato e ciò che si verifica è il “ritaglio” di immagini e isole di senso che consentono per ora la persistenza dell’attrazione. Le trasformazioni climatiche e la crisi dell’innevamento naturale mostrano con evidenza, ad esempio, il declino della capacità attrattiva nel periodo invernale, proprio per il venir meno dello stereotipo proposto come immagine caratterizzante delle montagne in inverno. Ciò accade in particolare laddove la specializzazione e la monocultura hanno soppiantato ogni forma di biodiversità e di varietà, riconducendo immagine e artefatti a modelli di fruizione stereotipata. In quegli stessi luoghi di specializzazione spinta il paesaggio è stato spesso ridotto a sfondo di interventi e artefatti di elevato impatto, adatti a una fruizione provvisoria secondo un modello “pieno/vuoto”. Se si considera come le popolazioni locali descrivono il proprio paesaggio si scopre un forte impoverimento del linguaggio e una sua standardizzazione ripiegata sulla stereotipia propria 42 della promozione e della fruizione turistica . Il rapporto tra linguaggio e paesaggio è un significativo indicatore della caratteristica che i paesaggi mentali vanno assumendo nei luoghi alpini. Se ci si chiedi in quale morfologie del paesaggio si riconoscono le popolazioni alpine ad elevato impatto turistico e come costruiscono mentalmente il proprio spazio di vita, non è difficile constatare come si sia verificato un notevole “effetto attraction” da parte del fenomeno turistico con un esito di ibridazione che da un lato è caratteristico di ogni incontro tra culture, ma dall’altro mostra un effetto di saturazione oltre il quale potrebbe verificarsi una crisi della distinzione
lo (s)guardo estraneo
dei fattori di attrazione di quei luoghi e delle ragioni che li rendono simbolicamente rilevanti. Il paesaggio è un fenomeno eminentemente relazionale e sociale, con componenti percettive e prospettiche, comunque ancorate a un punto di vista. L’interazione tra il punto di vista dei nativi e quello dei fruitori turistici, a tratti conflittuale, a tratti cooperativa, è stata alla base del modello di sviluppo turistico prevalente nei luoghi alpini. Quell’interazione appare oggi minacciata dalla saturazione e dall’omologazione, con conseguenti problemi per i paesaggi mentali e vissuti e di crisi della loro distinzione e del loro significato. Come accade di solito per i simboli, essi sono vivi in quanto alimentati continuamente dall’immaginazione. C’è nel simbolo un’eccedenza di significato che rinvia all’oltre e non si lasci rinchiudere in un discorso strumentale, descrittivo e razionale, pena la sua saturazione. Se non fosse così il simbolo sarebbe ridotto a stereotipia e, quindi, esausto. Sarebbe solo una testimonianza e un reperto del passato. L’insistenza commerciale sulla tradizione nei luoghi turistici alpini richiama spesso questa prospettiva. La traccia che precede la generatività simbolica rischia di coincidere con una rappresentazione satura, in ragione dell’utilizzo abusante che se ne fa. Nel caso del paesaggio sembra che valga con particolare rilevanza il rapporto tra la traccia che precede e l’elaborazione della coscienza che ne deriva. L’ ”anteriorità” della traccia e la “posteriorità” della coscienza, sono una delle cifre peculiari e connotative della trasformazione dei luoghi in paesaggio. Si tratta del tema naturalistico che descrive la via per la quale noi trasformiamo ogni mondo in cui siamo immersi nei significati che per noi quel mondo assume o riassume, come accade con le ri-significazioni. I paesaggi alpini e la loro vivibilità si stanno ri-
significando rapidamente, in un arco temporale ristretto, dopo la prima definizione della loro caratterizzazione turistica, dovuta essenzialmente all’incontro con sguardi esterni, quelli dei primi avventori, fruitori non nativi. Da quei primi “stranieri e strani” sguardi si è dipartita rapidamente una lettura dei luoghi attraverso gli occhi degli altri e, ancor più rapidamente, un’industrializzazione di quella lettura e delle sue conseguenti azioni di trasformazione dei luoghi in paesaggi. Da un certo punto di vista e paradossalmente, una lettura autoctona del paesaggio è stata marginale o del tutto inesistente: da un’appartenenza tacita ai luoghi di nascita e vita, da parte dei nativi, si è passati a una attribuzione di significati paesaggistici fortemente mediata dagli sguardi e dalle aspettative dei fruitori turistici, fino ad effetti stereotipati che sono andati a comporre l’immaginario proprio del marketing turistico. Una mediazione simbolica consapevole e responsabile sembra essersi saturata velocemente, prima ancora di essere frutto di una evoluzione graduale e critica. L’autorità della trasformazione in paesaggio e della iscrizione dei paesaggi alpini nell’immaginario contemporaneo è stato così, principalmente, il sistema della fruizione turistica. Ciò fino al punto di divenire codice e linguaggio per leggere il paesaggio anche da parte dei nativi. Qualcosa di simile a quello che è accaduto tra le popolazioni Dogon del Mali, che raccontano come propria la storia che su di loro ha scritto l’antropologo Marcel Griaule, come ha documentato 43 efficacemente Marco Aime . In questi processi si afferma, come ha sostenuto Jaques Derrida in più sedi, una “anteriorità”, di principio della registrazione, della iscrizione e, quindi, della significazione. La crisi della significazione dei paesaggi mentali nei luoghi alpini è probabilmente
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derivante dalla sovrapposizione e saturazione degli sguardi con effetti di pervasività dell’immaginario e difficoltà di affermazione di una rappresentazione simbolica appropriata della vivibilità in montagna. Da un lato sembrano diffondersi modelli metropolitani e dall’altro persistere i simulacri di forme svuotate e riciclate come caratteri autoctoni e nostalgici della tradizione. Noi rileviamo e riveliamo il paesaggio iscritto nei luoghi, del quale non c’è coscienza se non come “effetto a ritardo” di 44 un processo di significazione, di sense-making . Una volta che la significazione e il riconoscimento si compiono tendono a reificarsi e a naturalizzarsi e una definita immagine del paesaggio si afferma come l’immagine del paesaggio o come il paesaggio tout-court. Un’immagine che ha conseguenze pratiche effettive e concrete come esito delle azioni che gli individui esprimono in quei luoghi interpretati come paesaggio. A quel punto cambiare è difficile e richiede l’elaborazione e 45 l’attraversamento della paura di cambiare , uno dei principali vincoli al cambiamento per noi esseri umani.
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In
questo
progresso
scorsoio,
Riferimenti iconografici Tutte le immagini sono state fornite dall’autore.
Testo acquisito dalla redazione nel mese di maggio 2012. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte. 1
Heinich H., 2012, Les Emotions Patrimoniales: De l’Affect a l’Axiologie, “Social Anthropology – Antropologie Sociale”, 1, Febbraio. 2 Decisivo per una tale evoluzione epistemologica e operativa è stato il lavoro di Gregory Bateson; valga per tutte la sua opera Mente e natura, Adelphi, Milano 1984. 3 Panksepp J. et al., 2009, Differential Parametric Modulation of Self-Relatdness and Emotions in Different Brain Regions, “Human Brain Mapping”, 30, pp. 369–382. 4 Pellicciari G., 1979, “Chi potrà contenere il bisogno di conoscere dell’uomo che è solo, se non il ventre che l’ha generato”, comunicazione personale. 5 Atlan H., 1986, Entre le cristal e la fumé. Essai sur l’organization du vivant, Seuil, Paris. 6 Shea J. J., 2012, Un’idea sbagliata sull’origine dell’uomo, Le Scienze. 7 Brodskij I., 1989, Fondamenta degli incurabili, prima edizione Adelphi, Milano. 8 Morelli U., 2006, Conflitto. Identità, interessi, culture, Meltemi, Roma.
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Morelli U., 2011, Mente e paesaggio. Una teoria della vivibilità, Bollati Boringhieri, Torino. 10 Baer J.M., Klamer A., Throsby D., Laleye I.P., BartelsEllis F., 2004, Cultural Diversity, The British Council, London. 11 http://www.generazionetq.org/2012/04/04/manifestotq5-sul-patrimonio-storico-artistico-e-archeologico/ 12 Farina A., 2006, Principles and Methods in Landscape Ecology. Towards a Science of Landscape, Springer, Berlin. 13 Turri E., 2003, Il paesaggio degli uomini. La natura, la cultura, la storia, Zanichelli, Bologna, p. 6. 14 Morelli U., Weber C., 1996, Passione e apprendimento, Raffaello Cortina Editore, Milano. 15 Gibson J.J., 1979, The ecological approach to visual perception, Houghton Mifflin, Boston. 16 Bateson G., 1984, Mente e natura, 14.a edizione, Adelphi, Milano. 17 Settis S., 2012, Perché difendere il paesaggio è un gesto etico, “la Repubblica”, 21 marzo. 18 Bruner J., 1992, La ricerca del significato, Bollati Boringhieri, Torino. 19 Turri E., 2003, Il paesaggio degli uomini. La natura, la cultura, la storia, Zanichelli, Bologna, p. VII. 20 Zagrebelsky G., 2010, Essenza e valore della democrazia, Il Mulino, Bologna. 21 www.personalweb.unito.it/ugo.mattei 22
Per l’analisi del bene comune si veda La Società dei beni comuni (a cura di Paolo Cacciari), Ediesse e Carta editori, Roma 2011. Una prima riflessione sul “bene comune” come genere alternativo rispetto alla proprietà privata e a quella pubblica si ritrova nei lavori della cosiddetta “Commisione Rodotà”. Si vedano: Invertire la rotta. Idee per una riforma della proprietà pubblica (a cura di Mattei U., Reviglio E. e Rodotà S., Il Mulino 2010); I Beni pubblici. Dal governo democratico dell'economia alla riforma del codice civile (materiali editi dalla Accademia Nazionale dei Lincei). Per un inquadramento
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ampio della tematica: Privato Pubblico Comune. Lezioni dalla Crisi Globale (a cura di Laura Pennacchi), Ediesse, Roma 2010. Infine, va segnalato il contributo storicocomparativo di Filippo Valguarnera, Accesso alla Natura fra ideologia e diritto, Giappichelli, Torino 2009. 23 Clément G., (a cura di Filippo De Pieri), 2009, Manifesto del terzo paesaggio, Quodlibet, Macerata. 24 Morelli U., 2011, Mente e paesaggio. Una teoria della vivibilità, Bollati Boringhieri, Torino. 25 Winnicott D., 1953, Transitional Objects and Transitional Phenomena, “International Journal of Psychoanalysis”, 34. 26 Morelli U., 2010, Mente e bellezza. Arte, creatività e innovazione, Umberto Allemandi & C., Torino. 27 Turkle S., 2012, Insieme ma soli, Codice edizioni,
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Torino. 28
Morelli U., 2010, La lanterna di prua….. ovvero, la soglia della bellezza, in “Educazione sentimentale”, 16, settembre 2011, Franco Angeli, Milano, pp. 144 – 163; (Morelli U., 2010, Mente e bellezza. Arte, creatività e innovazione, Umberto Allemandi & C., Torino). 29 Brodskij I., 1989, Fondamenta degli incurabili, Adelphi, Milano, p. 30. 30 Zanzotto A., 2009, In questo progresso scorsoio, Garzanti, Milano. 31 Morelli U., 2011, Mente e paesaggio. Una teoria della vivibilità, Bollati Boringhieri, Torino. 32 Bettin G., 2004, Il clima è fuori dai gangheri, Edizioni nottetempo, Milano. 33 Club di Roma, associazione non governativa costituitasi nel 1969 e composta da scienziati, economisti, uomini d'affari, attivisti dei diritti civili, alti dirigenti pubblici internazionali e capi di stato di tutti e cinque i continenti. 34 Moro A., 2012, Parlo dunque sono, Adelphi, Milano, p. 9. 35 Charon R., 2006, Narrative Medicine: Honoring The Stories of Illness, Oxford University Press, Oxford, p. 9.
Gallese V., 2009, The Twoo Sides of Mimesis: Girard’s Mimetic Theory, Embodied Simulation and Social Identification, in “Journal of Consciousness Studies”, 16, 4, pp. 21-44. 37 Hustvedt S., 2009, The Shaking Woman or A History of My Nerves, (ed. it., 2011, La donna che trema. Breve storia del mio sistema nervoso, Einaudi, Torino). 38 Merleau-Ponty M., 1993, Il bambino e gli altri, Armando, Roma, p. 88. 39 Gallagher S., 2005, How The Body Shapes The Mind, Clarendon Press, Oxford, p. 26. 40 Solms M., Turnbull O., 2004, Il cervello e il mondo interno: introduzione alle neuroscienze dell’esperienza soggettiva, Raffaello Cortina Editore, Milano, pp. 94 e segg. 41 Blandin P., 2012, La Biodiversité, Albin Michel, Paris. 42
Mark D. M., Turk A. G., Burenhult N., Shea D., 2012, Landscape and Language, John Benjamins Publishing Company, New York. 43 Aime M., 1999, Diario Dogon, Bollati Boringhieri, Torino. 44 Sul rapporto tra “anteriorità” e “posteriorità” si veda Sini C., 2004-2005, Figure dell’enciclopedia filosofica, Jaka Book, Milano. 45 Weber C., The Fear of Knowledge, Paper presentato al 15th European Symposium in Groupanalysis, 29 agosto – 2 settembre 2011, Goldsmiths College, University of London, London.
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lo s(g)uardo estraneo
Imparare a guardare. Luisa Bonesio* racconta come il Villaggio Morelli a Sondalo sia opportunità di turismo colto
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Learning to look. Luisa Bonesio tells as the Morelli Village in Sondalo is learned tourism opportunities
a cura di Elisabetta Maino**
abstract Patrimoni di eccezionale valore spesso non sono compresi nonostante appartengano al vissuto quotidiano, come è avvenuto per il Villaggio Sanatoriale Eugenio Morelli. L’esperienza di un gruppo di ricercatori, tra cui Luisa Bonesio che ci racconta, dimostra come sia possibile una loro “visione consapevole” attraverso un percorso culturale, in cui “esperti” ed “abitanti” entrano in una dinamica di scambio, ampliando le conoscenze dal vissuto locale alle esperienze internazionali. Le immagini fotografiche guidano questa rinnovata percezione accorta e colta realizzando una sorta di itinerario turistico all’interno del ex-complesso sanatoriale, come un invito a compiere un viaggio, rendendo contemporanee cose del passato che si destano a nuova vita perché c’è uno sguardo che finalmente le può vedere.
abstract Heritages of exceptional value are often not properly understood, even if they are part of our everyday life. This is the case of the Eugenio Morelli sanatorium village. The experience of a research group, of which Luisa Bonesio is part, shows how those places can be “viewed consciously” through a cultural path, where “experts” and “inhabitants” mutually interact and exchange their own experiences, thus broadening knowledge from the local to the international level. Photographs drive this renewed wise and educated perception, and create a sort of touristic itinerary within the ex sanatorium, inviting to take a tour, and giving new life to things of the past, since new eyes now can see them.
parole chiave Vedere, bellezza, consapevolezza, itinerario di conoscenza
key-words To look, beauty, awareness, photography, itinerary of knowledge
fotografia,
* Professore Associato di Estetica nella facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Pavia e docente di Geofilosofia in vari corsi di formazione e di specializzazione. ** Architetto. Dottore di ricerca in Progettazione Paesistica presso l’Università degli Studi di Firenze.
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Introduzione Questo contributo nasce da un progetto interdisciplinare promosso da un gruppo eterogeneo di professionisti/studiosi, tra cui Luisa Bonesio, che ci racconta, come fosse un’avventura degna di un grande esploratore come Indiana Jones, la riscoperta del complesso dell’Ex-Sanatorio Morelli a Sondalo. Si tratta proprio di una riscoperta dove, al contrario del fantasioso archeologo occupato a scavare per dissotterrare tesori, l’oggetto sta proprio sotto gli occhi di tutti, passanti, abitanti, amministratori e così via, senza però essere visto. Ed è proprio da questa cecità, come fosse una malattia, che il progetto di riscoperta e valorizzazione del complesso sanatoriale ha inizio. Si tratta di accompagnare nella conoscenza del luogo, giungendo, anche attraverso l’uso di immagini fotografiche, alla consapevolezza del suo valore identitario e di patrimonio architettonico alla scala sia locale, sia internazionale. Il Villaggio Sanatoriale Eugenio Morelli è oggi parzialmente utilizzato come azienda ospedaliera e centro di ricerca per la medicina quantistica. Esso fa parte di una serie di manufatti architettonici finalizzati alla cura della tubercolosi presenti nella provincia di Sondrio, realizzati a partire dai primi decenni del Novecento. Il Villaggio Morelli, iniziato nel 1932 e terminato alla fine della seconda guerra mondiale, rappresenta un’esperienza unica nel suo genere. Testimonianza di architettura, diventa essa stessa paesaggio di montagna, con le sue numerose opere infrastrutturali, l’articolato
Imparare a guardare. Luisa Bonesio racconta come il Villaggio Morelli a Sondalo sia opportunità di turismo colto
sistema di strade secondo un progetto urbano, le arcate ed i viadotti che aggrappano il costruito alla montagna, divenendo essi stessi roccia, la geometria ed il calcolo preciso nella disposizione degli edifici, dei giardini, della vegetazione dei percorsi dei luoghi di sosta, degli spazi per lo sport, ecc. Nulla è lasciato al caso, ma un progetto ordinatore predispone la realizzazione di un’opera la cui finalità è il benessere dei degenti. Luisa Bonesio ha accolto con entusiasmo la possibilità di condividere questo processo avviato da alcuni anni che inizia a dare alcuni frutti, rispondendo ad alcune curiosità che ripercorrono un dialogo intercorso tra noi.
Figura 1. Padiglione Chirurgico.
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lo s(g)uardo estraneo
D. Quando e con chi ha inizio il progetto sui sanatori di Sondalo ed in particolare quello sul Villaggio Morelli? R. Il mio interesse teorico è cominciato da una decina d’anni, ma ha conosciuto una drastica accelerazione grazie a una serie di circostanze fortunate nel 2009, quando è iniziata una collaborazione con il Comune di Sondalo su azioni di conoscenza e di sensibilizzazione circa l’importanza architettonica del complesso, che rischiava di subire trasformazioni incompatibili con la sua qualità monumentale. Da subito ho cercato di coinvolgere Davide Del Curto, ora ricercatore al Politecnico di Milano, del quale avevo letto la tesi di dottorato sui sanatori alpini. Sul “Morelli” non esistevano studi architettonici o paesaggistici, solo il volume di Stefano Rossattini, Un Villaggio straordinario, che ne ripercorreva la vicenda storica e medica; o meglio: qualche studioso, soprattutto all’estero (Francia, Svizzera, Stati Uniti), dove questo tipo di problematiche è già stato affrontato, aveva scritto del “Morelli”, del suo valore e anche della sua mancata valorizzazione. Perciò è nata quasi subito l’idea di un convegno internazionale che mettesse a fuoco le caratteristiche di questo grande complesso sanatoriale e lo collocasse nel contesto – italiano ed europeo – delle esperienze architettoniche e sanatoriali coeve. Attorno a questo progetto c’è stata la convergenza di altri enti locali e del DIAP del Politecnico di Milano. Va aggiunto che, in parallelo, è stata allestita una mostra fotografica (con foto di Caterina Resta e mie, ma anche di immagini dell’epoca della costruzione) che si proponeva di “far vedere” l’ex Sanatorio da prospettive e con sguardi consapevoli di ciò che volevano comunicare. Ma già in tutta la fase di preparazione
del convegno, il progetto culturale complessivo è stato presentato pubblicamente in varie occasioni nella Provincia di Sondrio, con varie conferenze e proponendo sperimentalmente visite guidate per gruppi che ne facessero richiesta, oltre che per singoli studiosi. Immediatamente l’idea della visita guidata da esperti di architettura o di botanica (per il Parco), che all’inizio era apparsa una scommessa a fronte di 70 anni di cecità collettiva, si è rivelata strategica e ha ottenuto molto successo, tanto presso i turisti, quanto presso gli abitanti e i dipendenti o ex dipendenti dell’Ospedale, che si rendono conto di non avere mai visto davvero tutto il complesso nel tempo trascorso lì dentro. Ma soprattutto non avevano mai pienamente compreso il “rango”, il significato epocale o l’unicità del Villaggio, né saputo vedere la sua suggestiva bellezza. Questo è il motivo che ci ha indotti a proporre istituzionalmente una serie di visite guidate da diverse figure di esperti (architetti, botanici, storici dell’arte, ingegneri, fotografi, studiosi di paesaggi sonori ecc.), cercando di ampliare l’offerta. D’altro canto il Villaggio è talmente ampio e diversificato che nessuna visita singolarmente ne potrebbe esaurire gli aspetti e le suggestioni. Inoltre cerchiamo, almeno una volta l’anno, di far eseguire un concerto all’aperto, negli spazi del Parco, come forma di valorizzazione, ma anche di progressiva riappropriazione collettiva di questi spazi così belli. D. Per poter capire la complessità architettonica dell’opera, definita in un suo articolo (Bonesio 2004) come “un inusitato monumento montano”, Lei parla della necessità di conoscere, avere del materiale per poter confrontare. Perché ed in cosa si discosta dagli altri esempi sanatoriali questo complesso?
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Figura 2. Padiglione Chirurgico in costruzione (1936).
R. Intanto è stato il più grande sanatorio europeo, in una competizione “vinta” con quello “rivale” di Plateau d’Assy in Savoia. Ma la sua particolarità consiste nel non essere un semplice accostamento
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di edifici, anche numerosi, bensì una vera e propria struttura urbana, con i temi relativi: portineria, villa del direttore, due gallerie artificiali, piazza, viali, negozi, chiesa, presidio dei carabinieri, parco e giardini, piscina, tennis, campo di bocce, oltre a nove padiglioni standard di cura, un padiglione chirurgico, un imponente edificio dedicato ai servizi e all’amministrazione, una centrale termica, magazzini e officine, ufficio tecnico, stazione meteorologica, inceneritore, teleferica per il trasporto di viveri e biancheria su ogni padiglione di cura; doveva essere anche realizzato un cineteatro per 1500 persone, la cui costruzione fu impedita dallo scoppio della guerra. A questa realtà complessa vanno aggiunte le infrastrutture (acquedotto, impianto di depurazione, linea elettrica) realizzate appositamente, che ne facevano una realtà autosufficiente. Ma, al di là di questi aspetti della costruzione, che ne fanno una “cittadella alpina di fondazione”, come l’ho definita, c’è l’invenzione alquanto straordinaria di un nuovo paesaggio del Moderno che, pur esprimendosi in un linguaggio prevalentemente razionalista, realizza un’armonizzazione con i caratteri del sito preesistente davvero sorprendente. Questo è potuto avvenire grazie alla intelligenza della fisionomia del luogo montano che viene assecondata in un disegno compositivo che non trascura nulla, dal dettaglio al vero alla disposizione scenografica complessiva. Un ruolo importante lo svolge la contestuale e coestensiva realizzazione di un parco che istituisce una tramatura coloristica e visiva con i boschi circostanti e allo stesso tempo, realizzando una molteplice diversità di spazi, che articolano in modo estremamente vario la grande estensione della superficie e attenuano, con la sfalsatura dei
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piani terrazzati, l’effetto di imponenza delle masse dei padiglioni (400.000 mc complessivi).
Figura 3. Panoramica del Padiglione dei servizi. A destra i Padiglioni III e V.
D. Possiamo, allora, parlare di una sorta di bellezza attrattiva del luogo, che avvolge il visitatore con la sua “aura antica”, a partire dall’architettura, dai colori, dalle atmosfere che riportano al periodo di pieno utilizzo del complesso sanatoriale? Mi piacerebbe che la descrizione del Villaggio Morelli passasse attraverso le sue parole. R. Non sono certa che il Villaggio Sanatoriale abbia un’aura antica… credo abbia un’aura tra il futuristico e il metafisico. Del resto è un’opera modernista che, per molti versi, è ancora oggi perfettamente allineata tecnologicamente e funzionalmente alle esigenze contemporanee, proprio perché le aveva sapute prefigurare con grandissima efficacia e lungimiranza.
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Figura 4. Arcate e muri di sostegno – Viadotti.
Piuttosto parlerei di un volto del moderno diverso da quello cui siamo perlopiù abituati, in cui il linguaggio tecnico e costruttivo novecentesco talora adotta soluzioni estetiche e formali che
appaiono come citazioni del passato: penso ai viadotti e ai muraglioni con le grande arcate ricoperte di pietra, o all’edificio dell’Amministrazione che sembra rievocare in modo eclettico motivi medievali, ma anche all’uso della pietra locale e al suo trattamento tradizionale, o alla successione dei terrazzamenti, che rimodulano in piani successivi il pendio montano e che indubbiamente evocano il diffuso sistema dei terrazzamenti vitati del paesaggio valtellinese. In realtà si tratta di una rivisitazione tutt’altro che nostalgica, una ferrea alleanza tra calcolo ingegneristico e risultato formale. Per questi motivi risulta particolarmente arduo descrivere un complesso così vasto, pluriforme e articolato, e anche il suo effetto paesaggistico, singolare, sorprendente e spesso straniante a causa della presenza di vere e proprie eterotopie che costringono a risintonizzare lo sguardo per comprendere quelle che appaiono come dei “fuori luogo” o delle provocazioni suggestive (le forme esplicitamente navali di alcuni edifici, apparentemente paradossali in montagna, la villa del direttore con altana che parrebbe più adatta a un litorale laziale; la galleria d’ingresso, massiccia e buia, che non corrisponde ad alcuna reale funzione, ma solo a sottolineare un transito simbolico e ad amplificare l’effetto dell’uscita in piena luce, come sulla banchina di un molo, dove appunto è ormeggiato il grande “incrociatore” bianco del Padiglione della chirurgia…). Io stessa ho descritto diversamente, lungo gli anni, il Villaggio, probabilmente perché ciò che appare è leggibile e descrivibile a vari livelli di consapevolezza complessiva. Tuttavia qualcosa è rimasto fermo, e anzi è andato acquistando sempre maggiore evidenza ai miei occhi: la bellezza. Da estetologa so bene quanto questa parola sia
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abusata, imprecisa, fraintendibile, soprattutto in un tempo che la scambia con le forme di un’estetizzazione diffusa quanto spesso banale, oppure ne rifiuta ideologicamente il concetto in quanto epocalmente inadeguato. La bellezza del Villaggio deriva da una sapiente e amorevole collaborazione con il luogo naturale, nonostante la “dismisura” del gesto fondativo di una realtà palesemente fuori scala, titanica. È un’interpretazione al contempo visionaria e minuziosa, è una sfida per realizzare un’armonia finale a partire da esigenze quantitative e qualitative ingenti, nella coerenza del linguaggio razionalistico e dei suoi imperativi di funzionalità, per ricomporre a un livello inedito un equilibrio estetico che parrebbe impossibile. Il risultato è stato raggiunto, nonostante tutto, ed è palese per chiunque abbia occhi e cuore per vedere. Il sentimento di “sconfinata ammirazione” di cui uno studioso ha parlato probabilmente deriva da questa sfida vinta, che è anche una testimonianza diretta, inequivocabile e “commovente” (il termine è quello che insieme a “bellezza” ricorre più frequentemente nei commenti dei visitatori) di un’etica del costruire e di un amore e rispetto non museale per il paesaggio che in seguito sarebbero stati pressoché totalmente smarriti. L’ossimoro che il Villaggio riesce a comporre, pur rappresentandolo, è dato dall’armonia e dalla bellezza come risposta progettuale ad esigenze di modernizzazione, funzionalità e risanamento per grandi numeri. Ed è, evidentemente, come avrebbe detto Giuseppe Pagano, “un’idea efficacemente espressa”, se tutti i visitatori avvertono immediatamente anche il nesso tra il risanamento e la bellezza come forza intrinsecamente terapeutica.
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D. Sembra esserci nella percezione di questo luogo una sorta di mutevolezza: la stagionalità, i punti di osservazione, la sensazione che si ha all’interno del complesso, diversa da quando lo si percepisce dall’esterno, come all’interno dei padiglioni stessi, il nuovo sguardo sulla montagna. Potrebbe raccontarci questa mutevolezza della percezione? R. Il Villaggio è un’entità complessa, vasta e plurima, costruita sulla pendice soliva del Monte di Sortenna, in una conca montana piuttosto severa, ma con un’apertura bellissima e profonda sul fondovalle, apprezzabile in tutto il suo respiro prospettico solo dall’altezza del “Morelli”. Come già ho avuto modo di dire, una visione complessiva tridimensionale si ha solo da punti di vista elevati (come si vede nelle foto d’epoca che lo ritraggono dalle cime dei monti) e in un punto molto preciso del Villaggio stesso. Diversamente, anche per rendersi conto della configurazione degli spazi e di alcuni edifici, occorre ovviamente percorrerlo e vederlo attraverso prospettive differenziate, che ne mutano di volta in volta la percezione. Dall’interno, il Villaggio non solo si dà a vedere in questa spettacolare e teatrale complessità, ma soprattutto fa cogliere l’aspetto propriamente paesaggistico sia di se stesso che dell’intorno: è una sorta di dispositivo visuale per vedere e trasfigurare le montagne e la valle a una scala inusuale. Poi ci sono gli aspetti coloristici, che vengono esaltati dal mutamento stagionale, tanto nei cromatismi intensi degli edifici o nei riflessi mosaicali delle pareti vetrate, che nello svariare delle chiome degli alberi del parco, i cui toni furono accuratamente scelti e disposti per ottenere questi effetti. Se visto dal fondovalle, il grande complesso rischia di sembrare appiattito bidimensionalmente sulla verticale del monte; dal suo interno, invece,
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appare movimentato, sinuoso. I terrazzamenti su cui è disposto e i viadotti sono percepibili plasticamente e si possono osservare i molti manufatti che concorrono alla disposizione scenica dell’insieme. Il cambiamento continuo del punto di vista, degli scenari di sfondo, delle tonalità emotive suggerite è legato alla tramatura viaria (strade, sentieri, scale che permettono di seguire percorsi sempre diversi), alle varie essenze arboree e alla diversità di forme edilizie, che è molto maggiore di quanto non appaia a prima vista. Per esempio la presenza, che sembra in tono minore, dei molti edifici di servizio (chioschi delle rotonde, edifici tecnici di vario tipo, stazione dei carabinieri, autorimesse, pesa, spogliatoio del tennis, ecc.) bassi, allungati, spesso con sottili ed eleganti pensiline arrotondate, realizza una trama unificatrice di sottofondo spesso inavvertita, apparentemente contrastiva rispetto all’imponenza squadrata dei padiglioni-tipo, che, insieme al grande padiglione dei servizi e alla centrale termica, alla fine coordina visualmente e nella memoria, in un’onda lunga della percezione, la molteplicità e anche una certa eterogeneità dell’insieme architettonico. Inoltre, solo percorrendolo, si nota quante curvature, arrotondamenti, stondature vi siano, mentre l’immaginario consolidato (e anche fino a poco tempo fa le foto giornalistiche e le riprese televisive) lo “vedeva” rettilineo, squadrato, ortogonale, anonimo – proprio come ci si immagina (e di fatto è anche stata) una certa e purtroppo diffusissima “architettura moderna”. D. Nel libro “Il villaggio Morelli. Identità paesaggistica e patrimonio monumentale” ripercorre e descrive l’architettura del complesso come una sorta di città futuribile di Sant’Elia, che
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desta ‘sorpresa mista ad inquietudine […] purché si abbiano gli occhi per vedere e non si confondano – come talora accade- gli edifici dell’imponente complesso sanatoriale con una proterva speculazione edilizia” (Bonesio, Del Curto 2011). Nonostante l’architettura sia imponente e sia sotto gli occhi di tutti, sembra non si riesca a vedere. Cosa porta, al contrario, ad una percezione accorta e consapevole? R. Prima ho accennato al tema del risvegliare, sensibilizzare e condividere uno sguardo consapevole attraverso l’uso di immagini fotografiche e il ricorso alla pratica delle visite guidate. Sono due tipologie di iniziative che nascono dalla constatazione che non è sufficiente avere sotto gli occhi, per molto tempo, qualcosa anche di molto imponente per “vederla”. Per “vedere” – e non solo guardare – qualcosa, occorre saperla riconoscere, riportarla a un linguaggio e a competenze complesse e differenziate. Solo dopo la si potrà anche condividere, trasmettere, comunicare ad altri e farla vivere anche in semantizzazioni diverse da quelle originarie. Nel caso di questo ex sanatorio, come di altri patrimoni ereditati dalla modernità novecentesca (si pensi all’archeologia industriale), da un lato la distanza temporale non è così ampia da indurci a considerarlo “antico” – molti di noi lo ricordano o lo hanno vissuto fin dagli inizi degli anni Cinquanta del secolo scorso – e quindi in un distacco prospettico “freddo”; dall’altro, il linguaggio formale dell’architettura razionalistica e in genere novecentesca non rientra nel gusto medio, tanto più se lo si trova in montagna, dove confligge sia con l’edilizia vernacolare tradizionale, sia con il cliché turistico (ma introiettato dagli abitanti) dello chalet alpino con i gerani ai balconi. Va anche
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rimarcato come non abbia giocato a sfavore di un’adeguata percezione del valore del “Morelli” tanto la sua funzione originaria (la cura della tbc), quanto, piuttosto, un’assuefazione consuetudinaria, quella per cui cose che ci stanno quotidianamente sotto gli occhi finiscono col diventare uno sfondo indistinto. Da questo punto di vista un’interessante conferma di ciò è stata la pronta risposta dei “forestieri”, dei turisti, soprattutto di quelli che avevano già incontrato esperienze analoghe di valorizzazione di patrimoni della modernità. Dunque, a una percezione accorta e consapevole si può giungere attraverso la sensibilizzazione, la conoscenza, in cui gli “esperti” e gli abitanti entrano in una dinamica di scambio di esperienze e di conoscenze e soprattutto di sguardi. Il risultato è stato piuttosto rapido e incoraggiante: anche solo vedere gruppi di visitatori percorrere il complesso, ascoltare le spiegazioni, porre domande su quello che è un teatro di lavoro quotidiano, ha costituito per i lavoratori dell’Ospedale e per gli abitanti della Valle un motivo di orgoglio e di coinvolgimento, oltre che l’innesco di una serie di iniziative ulteriori. In fondo, il senso ultimo di tutte queste azioni è quello di suscitare la consapevolezza del luogo e della sua unicità, mettendo in moto una catena virtuosa di progetti e di responsabilità, attraverso un confronto e uno scambio di sguardi tra insiders e outsiders. D. Il progetto di conoscenza si sviluppa attraverso l’uso delle immagini fotografiche. Queste diventano strumento per mostrare, o meglio per evidenziare luoghi e particolari architettonici che spesso non sono percepiti. Allo scopo è stata allestita una mostra fotografica di ausilio alle visite guidate. La fotografia però, per quanto sia immagine della realtà, a volte rischia di offrire una visione
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soggettiva del luogo, divenendo manifestazione dell’estro del fotografo stesso. Cosa caratterizza invece l’itinerario visuale da Lei curato in collaborazione con Caterina Resta? R. Si tratta di una sequenza di immagini che realizzano una sorta di itinerario all’interno del Villaggio, diviso in due parti: una dal basso verso l’alto, d’inverno; e una dall’alto verso il basso, d’estate, lungo direttrici che non si sovrappongono e suggeriscono un vero e proprio percorso (non esaustivo, perché l’estensione è notevole e copre un dislivello di 200 metri). Dunque non un reportage esaustivo, ma un “invito al viaggio” visuale, mediante scatti che cercano di mostrare sia il fascino immaginifico del contesto paesaggistico, che le valenze propriamente architettoniche e compositive, non in maniera didascalica, ma come suggerimento a vedere meglio di persona, dopo che è stata proposta una chiave di visione. Per questo non vengono proposte soltanto immagini architettoniche, ma anche dettagli, aspetti secondari o casuali, oggetti e anche il panorama che si schiude in modi sempre diversi, proprio come si danno a vedere lungo un percorso divagante, che si lascia attrarre man mano da quel che si vede. In realtà è un obiettivo molto arduo, sia perché si tratta di restituire la profonda unità e organicità di questa cittadella e del relativo nuovo paesaggio che ne risulta attraverso un’incredibile molteplicità di prospettive e di oggetti, sia perché spesso la mole dei padiglioni ne rende difficoltosa una ripresa non banalizzante o appiattente.
Figure 5, 6. La sistemazione delle rotonde.
Ma la vera questione, secondo me, è che senza consapevolezza di quel che si sta guardando, anche le foto risultano cieche, generiche. Affermare questo non significa ipso facto propugnare una
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interpretativa usata dai giornalisti e scrittori che lo descrissero, Egisto Corradi e Giovanni Guareschi, ma anche dagli odierni visitatori al primo impatto), “monumentale” (la suggestione “romana” dei viadotti, che sembrano richiamare gli acquedotti antichi o certe incisioni piranesiane), o carico di valenze “metafisiche” sironiane e dechirichiane (centrale termica, arcate, ciminiera, ecc.) oppure “razionalista”. La fotografia potrebbe costruire “identità” visuali diverse, trascegliendo un carattere piuttosto che un altro, oppure annullarli tutti… quindi si tratta di compiere un tentativo di restituirne i valori estetici ad ampio spettro e insieme di proporre una chiave di lettura unitaria attraverso la diversità.
visione soggettivistica (nel senso comune dell’aggettivo), perché, anzi, sono proprio la conoscenza e il conseguente desiderio di comprendere sempre di più che rendono la fotografia più “all’altezza” e più rispettosa del proprio soggetto, quindi meno esposta a banalizzazioni o a soggettivazioni (comprese le cosiddette valenze “artistiche”). Detto questo - e precisando che sto semplificando una questione teorica e conoscitiva di grande complessità (quella dell’immagine fotografica) sulla quale ho cercato spesso di riflettere anche nei miei corsi universitari - dal mio punto vista, ossia per l’obiettivo che ho di mira, questa proposta visuale è anche una sorta di suggerimento e di orientamento preliminare dello sguardo. I punti di ripresa della maggior parte delle foto della mostra sono anche i punti di osservazione prospettica dai quali il Villaggio si mostra, nella sua complessità di disegno, nel gioco dei volumi e dei colori, della disposizione sul ripido pendio della montagna, quell’aspetto di genialità compositiva e di fortissima suggestione visionaria che ne trasforma indelebilmente la percezione. Qui si comprende che si tratta della messa in prospettiva (proprio quella dell’obiettivo della macchina e prima quella del linguaggio artistico dal Rinascimento in poi), ossia dell’esercizio consapevole dello sguardo, per rendere al meglio un’architettura e un paesaggio che sono stati creati da un calibratissimo e intelligente progetto compositivo.
D. Nel nostro incontro mi ha molto colpita il concetto di “oggettività dell’immagine” finalizzata ad un processo di conoscenza del luogo.
Figura 7. Dalla piazza del teatro la centrale termica e la ciminiera.
Naturalmente il calcolo prospettico non esaurisce il significato espressivo dell’insieme, che appare, a seconda dei luoghi, “futurista” (la prima chiave
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R. Questa considerazione ci aiuta a comprendere che non si può mai propriamente parlare di “oggettività” dell’immagine, tantomeno di quella fotografica. Ogni immagine, anche tecnica, è realizzata a partire da codici e regimi percettivi che sono storici e culturali. Credo però che nell’essenziale ambiguità di ogni immagine fotografica si possa cercare tanto di essere il più possibile “fedeli” al proprio soggetto, di “rendergli giustizia”, quanto di proporre consapevolmente un punto di vista: per esempio quello del “valore” che, a partire dalla nostra collocazione nel tempo, in una fase della storia, del gusto e della sensibilità collettiva, il Villaggio può rivelare. Walter Benjamin, il grande filosofo del XX secolo che, tra le altre cose, ha studiato la forma di Parigi come “capitale” del XIX secolo, parlava di Jeztzeit, ossia di un momento particolare in cui le cose del
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passato ottengono non solo nuova intelligibilità, ma anche si rendono “contemporanee”, possono destarsi a una nuova vita perché c’è uno sguardo che finalmente le può “vedere”, riconoscendone un significato attuale e illuminante. In questa “scintillazione” del senso, in questo cortocircuito di tempo e di sguardo, evidentemente non basta la cosa, che è sempre stata là, occorre uno sguardo a cui si manifesti nella sua potenzialità inespressa. La corrispondenza tra sguardo e cosa è necessaria, ma possibile solo quando si crea una “contemporaneità” tra diverse dimensioni temporali: per esempio, quando una certa sensibilità ai temi della memoria, della conservazione, dell’identità e la ricerca delle buone soluzioni attuate in passato rispetto a questioni di urgenza attuale sono diffuse nell’opinione pubblica, anche allo stato latente; oppure quando c’è una distanza sufficiente per guardare con occhi nuovi una realtà quotidiana e dunque per porsi in una prospettiva di responsabilità e di progetto. Il “Morelli” mi è spesso apparso, per molti anni, come una realtà in attesa di uno sguardo collettivo che ne riconoscesse l’attualità, che sapesse corrispondere alle sue difficili sfide: che tornasse a vederlo, ma a partire da esigenze nuove; che lo comprendesse non come cosa del passato (sanatorio), ma come straordinaria anticipazione di una serie di risposte che il nostro tempo difficile cerca e perlopiù non sa come realizzare: per esempio, un paesaggio armonioso che non rinunci a parlare né il linguaggio del proprio tempo né quello della bellezza naturale – un ossimoro che la modernità ha realizzato molto di rado, votandosi così al fallimento. In questo senso, valutandone le potenzialità, alcuni tra gli studiosi di architettura che lo hanno visto hanno parlato di un enorme cantiere di
apprendimento a cielo aperto, che potrebbe ospitare appositi stage internazionali di progettazione. Dalla parte degli abitanti, l’innesco di questo sguardo consapevole ha significato cominciare a riappropriarsi di una parte significativa del patrimonio culturale territoriale, ricollocandola in un quadro di significati, cominciare a interrogarsi in modo nuovo e informato sulle prospettive di conservazione, valorizzazione e rifunzionalizzazione, anche nell’ottica di poter valutare più adeguatamente i dibattiti e le proposte nel merito, senza lasciarle appannaggio della politica. E la politica, dal canto suo, ha strumenti che prima non aveva per arrivare ad avanzare non alla cieca le sue proposte.
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quotidiano: come un monumento, un’opera d’arte, una testimonianza complessa e unica, ma anche come una grande sfida progettuale. Credo che proprio il loro carattere di foto non professionali né “autoriali”, che non celano il “sentito” interessamento che le ispira, sia quello che meglio spiega il loro forte impatto su chi le fruisce.
D. Quale ruolo hanno le immagini nel riconoscimento collettivo del Villaggio Morelli come luogo identitario locale? R. Un ruolo molto importante, come avevo potuto constatare fin dall’inizio, quando le mostravo (e le mostro) nelle mie conferenze. Sono molto più eloquenti di qualsiasi discorso, sono un’argomentazione diretta, che richiede di essere verificata di persona, oppure rivelano aspetti di un visibile che si dava per scontato e che invece, nell’autorevolezza intrinseca dell’immagine, assume importanza, ci interpella, ci dà a vedere tutto un mondo di possibilità di osservazione in cui l’oggetto riacquista progressivamente il suo significato. Le immagini mostrano anche un paesaggio consueto visto dall’esterno, da chi non è fino in fondo uno del luogo eppure si interessa al luogo, e lo mostrano dalla sua distanza prospettica, aiutando anche gli abitanti a riconsiderarlo con lo sguardo dell’interesse conoscitivo e della valorizzazione, dunque fuori dall’immediatezza del
Figura 8. Cavedio Padiglione dei servizi
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È la testimonianza di chi ha dovuto, in modi diversi, comunque imparare a guardare quell’oggetto e cerca di condividere la sua esperienza appassionante, in cui la conoscenza è stata la risposta all’appello della bellezza. Lo studio che ho affrontato in questi anni dell’architettura razionalista mi ha portata a conoscere un rilevante (e forse insospettabile) numero di fotografi appassionati di questa architettura in tutto il mondo. La condivisione di questa documentazione fotografica sui siti dedicati è potenzialmente molto significativa e costituisce uno strumento di documentazione su una realtà architettonica assai ampia, molto presente sul territorio, ma poco valorizzata. Così ho deciso di fare la stessa cosa con il “Morelli”, allo scopo di farne circolare le immagini e di suscitare un interesse più ampio, anche esterno (http://www.flickr.com/photos/geofilosofia/sets). D. Oggi, grazie alla sconfitta della tubercolosi non tutti i padiglioni sono utilizzati. Vi è quindi la necessità di riconvertire molti padiglioni ad altri usi. Quali sono le proposte che si sono succedute e come sono state accolte? R. È difficile affermare che ci siano state proposte derivanti da un’adeguata valutazione della realtà in tutti i suoi aspetti. Dagli anni Settanta del secolo scorso, con la riconversione a istituto ospedaliero, il “Morelli” ha visto ridursi i suoi spazi progressivamente, e concentrarsi attualmente in quattro padiglioni, con prospettive di ulteriori dismissioni e “razionalizzazioni” dei costi (la provincia di Sondrio ha altri due ospedali e alcuni presidi ospedalieri, in un territorio comunque molto esteso e interamente di montagna). Il resto, la metà ovest del complesso, è dismessa da vari anni
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ed è anche quella in cui la presenza del parco è maggiore. Oggi la manutenzione non è più rinviabile, benché finora tutto abbia resistito piuttosto bene: si tratta soprattutto di ripristinare le coperture dei tetti e i pluviali, da cui filtra acqua che provoca notevoli danni e, più in generale, di impedire che questi edifici si avviino a un degrado irreversibile, le cui prospettive sarebbero drammatiche. Sembra chiaro che si dovrebbero affrontare prospettive di rifunzionalizzazione diversificata, pur mantenendo la destinazione ospedaliera esistente e possibilmente rafforzandola e diversificandola. In un passato abbastanza recente si sono succedute ipotesi più o meno inquietanti (dalla trasformazione dei padiglioni dismessi in strutture residenziali a basso prezzo per i turisti dell’Alta Valle, al puro abbattimento, alla creazione di mall commerciali, all’utilizzazione come carceri), insieme a qualche prospettiva più consona senza seguito reale (creazione di strutture di ricerca medica, di riabilitazione; istituzione di corsi di laurea in scienza infermieristiche da parte di atenei milanesi; utilizzo come residenza per anziani – già in passato il VII Padiglione era stato destinato a questo uso; spazi per allocazione di archivi storici e parrocchiali ecc.). Va detto che queste proposte sono state ventilate, ma mai pubblicamente fatte oggetto di discussione o di approfondimento. In molti casi ha prevalso una chiusura preconcetta da parte dei sindacati, che temevano concorrenza da privati o ulteriori riduzioni dei posti di lavoro. Va anche ricordato che, a complicare non poco ogni tentativo di progetto, è la sovrapposizione degli enti territoriali che a vario titolo hanno competenza sulla struttura: la Regione, la Provincia, il Comune e l’Azienda Ospedaliera.
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Appare chiara l’impossibilità di estendere le attuali funzioni ospedaliere pubbliche all’intera struttura: probabilmente solo ipotizzando soluzioni diversificate e compatibili, in campi che non sono mai stati presi in considerazione, e aprendosi all’Europa, si potranno avviare ragionamenti progettuali adeguati. Certamente una destinazione formativa o culturale sarebbe a mio avviso la più auspicabile, ma di questi tempi appare particolarmente difficile. In realtà uno degli ostacoli più rilevanti di qualsiasi rifunzionalizzazione è la distanza di Sondalo dall’area metropolitana – non in senso assoluto, ma dei tempi e della qualità del percorso sull’unica stretta strada di fondovalle. Un elemento strategico per tutta l’alta valle e anche per il “Morelli” sarebbe la realizzazione della tratta ferroviaria da Tirano a Bormio (e poi da Bormio verso la Svizzera) prevista nel PTRA, con fermata sotterranea in corrispondenza dell’Ospedale, che sarebbe in grado di ricollocare in un ambito spaziale ben diverso tutti i problemi. Sono questioni delicate e complesse, che però non sono mai state realmente e contestualmente affrontate. Perciò è nostro obiettivo per l’anno prossimo realizzare un convegno ad alto livello sulle prospettive della rifunzionalizzazione compatibile, con tutti gli specialisti del caso (progettisti, planner, mediatori, ecc.), quasi certamente al Politecnico di Milano. Sarà un passo difficile e rischioso, ma ormai urgente e richiesto dall’opinione pubblica. D. Il progetto si muove in un’ottica di turismo colto a scala internazionale. Quali sviluppi auspica per questo villaggio razionalista?
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R. Il Villaggio dovrebbe diventare lo snodo di un itinerario di conoscenza dei segni architettonici novecenteschi nel territorio della provincia di Sondrio, in cui sono presenti parecchi esempi, assai rilevanti e molto meglio conosciuti come le centrali idroelettriche, visitabili già da anni in precisi momenti dell’anno. Si tratterebbe di far meglio conoscere, raccordandolo con il Morelli, proprio il segmento razionalista di questa tipologia di edifici e impianti (Portaluppi, Ponti, Muzio), ma anche alcuni edifici residenziali o pubblici, costruendo un itinerario unitario in tutta la provincia e possibilmente collegandolo ad analoghi itinerari esistenti nelle regioni alpine confinanti (Alto Adige, Svizzera, Val Camonica) o poco distanti (Valle d’Aosta, che propone itinerari architettonici transfrontalieri con l’Alta Savoia). Del resto anche la Regione Lombardia propone in altre parti del territorio possibili itinerari e visite di questo tipo, segno che esiste un significativo interesse in proposito, che potrebbe venire incrementato con apposite iniziative. D’altra parte, se il turismo ne potrebbe trarre giovamento, ampliando la sua offerta e rinnovandola qualitativamente, lo stesso verosimilmente potrebbe accadere per la consapevolezza degli abitanti, con la riappropriazione di un ampio segmento del paesaggio costruito del proprio territorio.
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serie di visite guidate, interviste ecc.) che in se stesse sono dei risultati, poiché prima non c’era stato nulla di simile.
D. Quali sono i risultati che il vostro gruppo di ricerca ha raggiunto ad oggi? R. Il nostro gruppo di ricerca è raccolto attorno alle iniziative dell’Associazione culturale Terraceleste in collaborazione con il Comune di Sondalo. In parte ho già ricordato le nostre iniziative (conferenze, convegno, varie edizioni della mostra fotografica,
Figura 9. Lo spazio circostante alla prima rotonda nell’inverno 1991.
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Dall’anno scorso abbiamo, con i nostri scarsissimi mezzi economici, iniziato a lasciare delle tracce concrete nel sanatorio, realizzando una cartellonistica che segnala e illustra, riferendoli a una mappa su cui sono tracciati i principali itinerari delle visite che anche singoli possono compiere, i punti topici e le opere più significative (edifici, viadotti, giardini, rotonde ecc.); inoltre, in occasione delle visite, sono stati distribuiti pieghevoli di nostra ideazione e realizzazione che contengono notizie essenziali e la mappa del complesso. I visitatori, all’atto dell’iscrizione, possono anche visionare o acquistare il volume che contiene le relazioni presentate al convegno internazionale del 2010, dunque una “guida” assai approfondita e finora unica, pubblicato dall’editore Diabasis nel 2011 e che è stato presentato in varie occasioni pubbliche. Questo volume, che è frutto di un grosso impegno redazionale ed editoriale, è certo il risultato scientifico più importante ottenuto finora, ma spero che sia solo il primo di ulteriori indispensabili indagini. Un altro risultato, che mi premeva ottenere, era l’individuazione e il coinvolgimento di giovani esperti, possibilmente valtellinesi, come guide delle visite e di alcuni studiosi in grado di portare avanti l’approfondimento e l’ampliamento del quadro d’indagine e di progetto. Oggi abbiamo due giovani ricercatori del Politecnico che si occupano di questi aspetti e che seguono anche un certo numero di laureandi in architettura che hanno scelto di lavorare sul “Morelli” e di collaborare nel riordino dell’interessantissimo archivio progettuale custodito nell’Ufficio Tecnico. Un passo molto importante degli ultimi tempi è stata la fattiva e propositiva collaborazione da
Imparare a guardare. Luisa Bonesio racconta come il Villaggio Morelli a Sondalo sia opportunità di turismo colto
parte dell’Azienda Ospedaliera, che sostiene con entusiasmo le iniziative di conoscenza e sensibilizzazione, coinvolgendo anche i dipendenti in una riappropriazione orgogliosa della loro struttura. Grazie a questo sostegno è stato possibile pensare di cominciare a restaurare il bellissimo edificio della portineria, per adibirlo a punto di accoglienza e documentazione per i visitatori, oltre che per esposizioni temporanee. Si tratterebbe di un segno tangibile e simbolicamente molto rilevante di come il “Morelli”, diventato consapevole di ciò che è, si dispone per accogliere i visitatori e per favorire la sua conoscenza e valorizzazione.
Figura 10. Planimetria generale del Villaggio Morelli.
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D. Come procede il vostro lavoro di ricerca sul luogo? R. È un lavoro enorme, che ad ogni istante ci fa comprendere quanto poco si sappia di una realtà che non risale alla notte dei tempi, ma solo a qualche decennio fa. Lo stesso lavoro sugli archivi e sulla documentazione fotografica della costruzione non può essere limitata a Sondalo, ma deve necessariamente essere condotta sugli archivi INPS di Roma, Milano e Sondrio, alla ricerca degli originali, delle commesse, degli incarichi e di molto altro. Il Villaggio Sanatoriale fu progettato a Roma, dall’Ufficio centrale delle costruzioni sanatoriali dell’allora INFPS, fu realizzato dall’impresa milanese Castiglioni, ma davvero appare difficile credere – come si è fatto finora – che una simile invenzione compositiva e paesaggistica, come anche alcuni edifici particolari, siano potuti nascere solo per l’altissima e collaudata (il “Morelli” fu l’ultimo sanatorio italiano ad essere costruito) professionalità di tecnici. In base ad alcune tracce, che andrebbero meglio contestualizzate in un’adeguata ricostruzione documentale, sono emersi i nomi degli architetti romani Cesare Valle e Mario Loreti, ma il percorso di questi accertamenti sarà ancora lungo e complesso. Un altro aspetto importante di questa multiforme attività è l’inventario delle grandi foto d’epoca e di altri materiali storici (attrezzature e documentazione medica, ecc.), a proposito dei quali si sta progettando una mostra a Milano, che sarà occasione per portare nella metropoli la conoscenza di questo straordinario patrimonio.
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Riferimenti bibliografici Bonesio L., 2003, I sanatori della Valtellina: tra dimenticanza e nuove prospettive della valorizzazione, www.geofilosofia.it Bonesio L., 2004, Il ‘Villaggio’ di Sondalo, Notiziario della Banca Popolare di Sondrio, n. 95 agosto, pp 88-95, www.popso.it Bonesio L., Del Curto D. (a cura di), 2011, Il Villaggio Morelli. Identità paesaggistica e patrimonio monumentale, Diabasis, Reggio Emilia. Del Curto D., 2010, Il sanatorio alpino: architetture per la cura della tubercolosi dall’Europa alla Valtellina, Aracne, Roma. Rossattini S., 2002, Un villaggio straordinario. Villaggio Morelli, il più grande sanatorio d’Europa. Idea e ideali fra medicina, storia e natura, Litostampa Istituto Grafico, Bergamo.
Riferimenti iconografici Figure Figura Figura Figure Figura
1, 4, 5, 7: Caterina Resta, 1992-2010. 2: immagine fornita da Guido Bonesio. 3: Luisa Bonesio, 2010. 6, 8, 10: Luisa Bonesio, 1992-2010. 9: Caterina Resta, 1991.
Testo acquisito dalla redazione nel mese di maggio 2012. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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Un viaggio culturale attraverso le mostre fotografiche: dalla wilderness di A. Adams al parco dei divertimenti di M. Pesaresi
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A cultural journey through photographic exhibitions: from the A. Adams’s wilderness to the M. Pesaresi’s fun park.
Elisabetta Maino*
abstract La fotografia viene qui assunta quale strumento per un’osservazione attenta del paesaggio, in grado di guidare la percezione dello spettatore sia attraverso i luoghi di vita quotidiana, sia attraverso quelli lontani, a volte non direttamente vissuti. Le immagini sono in entrambi i casi strumenti di conoscenza e documentazione del paesaggio colto nell’istantaneità dello scatto della ripresa fotografica, secondo un punto di osservazione scelto dall’autore, che ne offre così una propria “visualizzazione”. Le mostre fotografiche vengono qui intese quale occasione di conoscenza attenta del paesaggio, che accompagnano il fruitore in una sorta di viaggio culturale, in cui l’autore guida lo sguardo dello spettatore con completezza e metodo, trasmettendo ‘sensazioni indefinibili’, la cui poetica resta sospesa nella memoria dello spettatore, imprimendovi nuove frontiere geografiche, nuovi spazi di incontro e delle differenze.
abstract In this essay photography is regarded as a tool for the careful observation of the landscape, which keeps the observer’s perception through places of everyday life as well as remote places, sometimes non directly experienced. In both instances images represent landscape knowledge and documentation caught in the instant of photography shot. According to his observational point, the author offers his own “sight”. Photographic exhibitions are here described as an opportunity for carefully understanding the landscape. They take the observer to a cultural journey in which his look is led by the author with thoroughness and method, transmitting “indefinable feelings”. Their poetry remains fluctuating in the memory of the spectator, creating new geographical frontiers, new meeting spaces and differences.
parole chiave Percezione, sguardo, visualizzazione, fotografia, viaggio culturale
key-words Perception, look, journey
sight,
photography,
cultural
* Architetto. Dottore di ricerca in Progettazione Paesistica presso l’Università degli Studi di Firenze.
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Bisogna aver riflettuto bene su un paesaggio prima di poterne pienamente godere. […] bisognerebbe studiare la natura con completezza e metodo. Bisognerebbe assaporare a lungo ogni piacere che se ne trae e si dovrebbe essere sempre desiderosi di fare analisi e paragoni, per poter riuscire a fornire qualche ragione plausibile alla nostra ammirazione. Certo è difficile rendere a parole, anche in maniera approssimativa, il genere di sentimenti che così entrano in gioco. C’è un pericoloso vizio insito in tutti i tentativi di questo tipo di ingentilire in modo intellettualistico una sensazione indefinibile. R. L. Stevenson 1873, p.107
R.L. Stevenson in “Appunti di viaggio in Francia e Svizzera”, si sofferma nel sottolineare come non tutti riescono a vedere il paesaggio con completezza e metodo. A volte anche persone anziane affacciandosi alla finestra non riescono a cogliere il piacere e la bellezza del paesaggio. Nel contempo lo scrittore si pone il quesito di come, chi ne ha visione, possa descrivere e guidare lo sguardo con completezza e metodo senza scadere nell’intellettualismo, ma riuscendo a trasmettere “sensazioni indefinibili”, in grado di guidare lo sguardo oltre ciò che è invisibile agli occhi. La fotografia d’autore viene qui presentata come una delle possibili risposte al quesito. Essa si presta ad essere strumento per un’osservazione attenta del paesaggio, guidando la percezione dello spettatore sia attraverso i luoghi di vita quotidiana sia attraverso quelli lontani, di cui si ha una minore conoscenza, a volte non direttamente vissuti. Le immagini sono in entrambi i casi strumenti di conoscenza e documentazione di
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luoghi colti nell’istantaneità dello scatto della ripresa fotografica, secondo un punto di osservazione scelto dall’autore, che ne offre così una propria “visualizzazione”. Come esempi di riflessione si considerano le esperienze in particolare di due fotografi, tra loro molto diversi sia per i soggetti impressionati sulle pellicole, ossia per paesaggi rappresentati, sia per età anagrafica e conseguentemente per il periodo temporale delle fotografie e per le tecniche disponibili. Si tratta dell’americano Ansel Adams (1902 San Francisco – 1984) e dell’italiano Marco Pesaresi (1964 - 2001 Rimini), prendendo spunto da due recenti mostre fotografiche monografiche a loro dedicate tenutesi in Italia, una a Modena e l’altra a Milano.
La fotografia d’autore e le mostre fotografiche Attualmente siamo di fronte ad una sorta di bulimia delle immagini, che invade la nostra cultura, affamata di qualsiasi fotogramma, con o senza significato, “immagini che in gran parte sono prive della necessità interna che dovrebbe caratterizzare ogni immagine, come forma e significato, come forza di imporsi all’attenzione, come ricchezza di significati possibili” (Calvino 2011, p.61). Capita così che attendendo la metropolitana, sotto la fredda luce dei neon, i cartelloni pubblicitari mostrino viaggi con mete da sogno, con spiagge bianche, mare turchese e palme, facilmente raggiungibili con voli economici, pronti ad essere colonizzati da ombrelloni e teli da spiaggia. Ed allora ci si ritrova a ricordare le vacanze passate, un forte desiderio di evasione ci raggiunge e
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l’immaginazione incomincia a vagare trasportandoci il luoghi lontani dai binari della metropolitana. L’oggetto ritratto da reale si trasforma in un’esperienza evocativa di un immaginario vacanziero appartenente ad ogni singolo individuo, senza una collocazione geografica ben definita. Lo spazio perde il senso del paesaggio per diventare un oggetto commerciale, che esula dalla realtà, conformandosi quale montaggio di immagini sopra immagini che si prevede il pubblico abbia già in mente (Pandakovic, Sasso 2009, p. 212). Tali immagini rispondono ai requisiti di una vacanza omologata, in cui gli oggetti del divertimento si ripetono senza alcuna distinzione da luogo a luogo. L’innovazione della tecnologia in campo fotografico, inoltre, non ha semplicemente migliorato la tecnica di rappresentazione, ma il passaggio delle immagini da analogiche a digitali ha rivoluzionato la loro diffusione e conseguentemente la loro fruizione. Per la maggior parte delle persone oggi è importante trasmettere una vision della realtà in cui è calata in quell’istante, non tanto utilizzando le parole, che richiedono tempo per essere scritte/raccontate e lette/ascoltate, ma attraverso l’uso delle immagini, rapide da realizzare e istantanee da guardare: prima un clik, poi un invio e, grazie all’elettronica, queste giungono sullo schermo di parenti, amici e conoscenti. Delle vere e proprie “autostrade elettroniche” ne permettono la diffusione senza alcuna distinzione tra immagini che descrivono e raccontano un paesaggio, quelle che appartengono alla rappresentazione cólta citata in precedenza, ed immagini prive di comunicazione. I social network diventano, allora, contenitori di massa di fotografie, in cui tutto è reso pubblico, consultabile, senza alcuna selezione di una pur
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“decente” qualità della rappresentazione e, di conseguenza, di comunicabilità. Questo tipo di immagini ha sostituito le cartoline postali, così diffuse a partire dai primi del Novecento fino alla fine degli anni Novanta, che i turisti inviavano a parenti ed amici facendo mostra del bel posto in cui si trovavano. Le fotografie da cartolina, composte soprattutto da vedute delle grandi mete turistiche, o di piccoli centri toccati da sporadici viaggiatori, furono importante mezzo di conoscenza geografica. Attraverso la sapiente scelta di angoli di ripresa, posti in punti panoramici, esse consentivano di idealizzare un luogo da parte di chi le riceveva, e contemporaneamente diffondevano degli stereotipi visivi delle città più famose (Mormorio 1999, pp. 12-15), generando iconemi del paesaggio. Si pensi alla sinuosa strada bianca fiancheggiata da cipressi ritratta da Gianni Berengo Gardin, oppure al pino marittimo nella veduta del Golfo di Napoli immagine ampiamente diffusa negli anni Cinquanta e che ancora oggi capita di ritrovare nelle rare cartolerie della città vesuviana. Nel quadro così delineato gli archivi fotografici (da Brogi agli Alinari, da Sommer a Naya), le agenzie a scala internazionale e nazionale (Magnum, Laif, Reinters, Contrasto, per citarne alcune) e le fondazioni hanno un ruolo importante nell’azione di riconoscibilità, consapevolezza e diffusione della cultura della fotografia, che si potrebbe chiamare “d’autore” per differenziarla da quella di massa citata precedentemente. Le mostre fotografiche diventano occasione di diffusione e conoscenza della fotografia, coinvolgendo a tal punto la sensibilità del fruitore da condurlo in una sorta di viaggio culturale
guidato, scelto e programmato dall’autore. Attraverso l’inquadratura, scelta dal fotografo, infatti, l’immagine ci richiama ad un “paesaggio reale”, offrendone uno sguardo soggettivo. In questo modo l’autore decide la posizione da cui mostrare e guardare il luogo. Non solo, i toni ed i colori appartenenti alla realtà spesso sono volutamente modificati dall’artista allo scopo di offrire una propria visione del paesaggio, che diventa a tutti gli effetti soggettiva, con l’obiettivo di impressionare e catturare così l’attenzione dello spettatore. Contemporaneamente l’immagine resta un documento del paesaggio, in continua mutazione, che viene, grazie allo scatto, cristallizzato su un fotogramma, quasi a fermare questo evento (Turri 1998). La fotografia, perciò, fissa “una realtà” all’interno di un frame (l’inquadratura scelta), ma in una forma tale da suscitare nello spettatore emozioni e sentimenti che spingono il suo sguardo “verso ambiti di soglia, di limite, […] di relazione tra natura, cultura, società, individuo; delle sue frontiere geografiche sensibili come spazio di incontro e delle differenze” (Colafranceschi 2010). Percorrere le sale espositive delle due mostre fotografiche, riportate quali esempio di osservazione attenta del paesaggio, significa quindi compiere “un viaggio nel viaggio”. Si compra un biglietto da pochi euro e di fronte ai bianchi e neri di Adams si è immersi nel paesaggio selvaggio e disabitato dei parchi naturali americani in cui la natura è la protagonista assoluta, con la sua prorompente bellezza. Al contrario si può decidere di andare a Rimini con Pesaresi, e si è catapultati in una vacanza “a poco prezzo” (Tondelli 1985, p. 28), caratterizzata dalla confusione e dall’intasamento, in cui i protagonisti del paesaggio
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sono le persone che abitano il luogo, vacanzieri, contadini, bambini, residenti, anziani, tutti intenti in attività, dalle più trasgressive alla semplice attesa della prossima estate.
La wilderness di Ansel Adams Fotografare in modo diretto e autentico significa guardare oltre la superfice e registrare le qualità della natura e dell’umanità che vivono e sono latenti in tutte le cose. Ansel Adams
Nelle sale della mostra fotografica dedicata ad Ansel Adams è il teatro della natura ad attrarre la percezione del fruitore, la wilderness è la protagonista dello sguardo dell’autore. “Per Adams il mondo è la natura. Ne è ossessionato e la sua instancabile ricerca di punti di osservazione rappresenta un chiaro richiamo alla necessità di conservare il patrimonio naturale” si legge nella presentazione della mostra tenutasi a Modena a cura di Filippo Maggia1. Le immagini sono bianchi e neri cólti, che ritraggono la bellezza di vasti spazi naturali selvaggi dei grandi parchi nazionali americani in particolare lo Yosemite in California, a cui Adams è particolarmente affezionato2, luogo di sue prime esplorazioni ed osservazioni dell’ambiente naturale fatte attraverso l’obiettivo fotografico, e luogo a cui risale la sua prima fotografia: il “Monolith. The Face of Half Dome” (1926). Questo grande monolite è un soggetto più volte fotografato nel corso degli anni, nella costante e continua ricerca delle condizioni climatiche ideali, affinché della natura se ne
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potesse offrire allo spettatore un’immagine sceanica di grande spettacolarità. Questo perché per A. Adams le fotografie non sono dei semplici ritratti da mostrare. Esse rappresentano “le armi di battaglia” per la causa ambientale: dal riconoscimento del King’s River Sierra quale Parco Nazionale, alla denuncia contro il comportamento dei turisti che, all’interno dello stesso parco, non si limitavano ad atteggiamenti contemplativi, ma ne contaminavano con il loro passaggio ed i loro rifiuti la naturalità del paesaggio. Fino ad utilizzare la fotografia quale strumento di contestazione agguerrita contro la politica di infrastrutturazione dei parchi varata nel Sessantasei dal National Park Service. In particolare è significativa la sfida intrapresa contro l’ampliamento della Tioga Road, una strada che passa sopra il Tessaya Lake nel cuore della massa rocciosa della Yosemite, promossa come un’infrastruttura che avrebbe permesso al visitatore, a bordo della sua automobile, di avere una vista stupenda del lago. Opponendosi al progetto Ansel Adams scrisse: “La wilderness sta rapidamente diventando uno di quegli aspetti del sogno americano che appartengono più al passato che al presente. La wilderness non è solo una condizione della natura, ma uno stato della mente, dell’animo e del cuore. Non può essere confinato in un museo, vista solo come diorama da comode superstrade”. Nonostante le proteste la superstrada fu ampliata e le immagini scattate da Ansel Adams divennero una testimonianza di ciò che c’era e che è stato perduto. La fotografia diviene, così, uno strumento per ritrarre, documentare e conservare affinché ne possa rimanere una traccia, una sorta di testimonianza che non solo ricorda ciò che è stato trasformato, ma rappresenta anche un monito ed
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uno strumento di paragone per altri progetti ed ipotesi di innovazione e cambiamento del paesaggio. Come ha affermato Oliviero Toscani in un intervento presso lo Spazio Forma a Milano3, diventa “storia”: della società, della politica, della gente, del territorio, e così via, in altri termini del paesaggio.
Figura 1. Ansel Adams, 1968 ca., “El Capitan Sunrise”, Yosemite National Park, California, Ansel Adams © The trustees of the Publishing Rights Trust.
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Figura 2. Ansel Adams, 1960, “Moon and Half Dome”, Yosemite Valley, © 2011 The Ansel Adams Publishing Rights Trust courtesy of the National Museum of Modern Art.
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La visualizzazione per A. Adams I numerosissimi paesaggi di Adams si caratterizzano per la loro naturalità, sono disabitati dall’uomo, non vi sono persone nei suoi scatti tanto che lo stesso H. Cartier Bresson aveva fatto questo commento: “ […] il mondo sta andando a pezzi e tutti da Adams, a Weston fotografano rocce ed alberi …”4, considerando tali immagini futili. Al contrario proprio gli scatti di Adams e dei suoi colleghi, di terre selvagge e di immensi paesaggi naturali, hanno facilitato la diffusione della consapevolezza tra i cittadini americani della magnifica bellezza del West, patrimonio in cui riconoscersi ed identificarsi e contemporaneamente hanno permesso la formazione, al di fuori dei confini nazionali, dell’immaginario collettivo che identifica il parco nazionale americano. Le immagini fotografiche rappresentano una vision, non sono semplici fotogrammi della realtà5, ma sguardi studiati, aspettati, colti in un attimo dopo attese e ricerche, inquadrature sceniche che guidano l’occhio di un osservatore. L’immagine fotografica diventa “visualizzazione”, offrendo una rappresentazione del paesaggio che varia a seconda della tecnica utilizzata (macchina fotografica, lenti, filtri, pellicole), per punti di scatto scelti, per condizioni atmosferiche (stagionalità, condizioni metereologiche) e per la luce6 (per esempio a seconda degli orari durante l’arco della giornata in cui la fotografia viene scattata). In questo modo soggetti che sono ripresi più volte da A. Adams, danno vita a paesaggi differenti, con uno sguardo sui luoghi sempre diversi, in grado di offrire sempre nuove emozioni allo spettatore. Numerosi, per esempio, sono gli scatti della natura avvolta nel biancore della neve e delle nuvole, condizione privilegiata dal fotografo per la sensazione di tranquillità e solitudine che se ne offre. Sensazione questa che si trasmette a chi, a distanza di anni, viaggia attraverso i parchi americani ammirando le sue fotografie. Questo avviene per El Capitan nello Yosemite National Park (fig. 1), come la sua ripetuta immagine scattata ai piedi del Mirror Lake, che ritrae l’enorme monolite (fig. 2), dove un artificio tecnico, come la scelta del filtro, da giallo a rosso scuro, permette ad Adams consapevolmente di dare vita ad un effetto del paesaggio drammatico: “[…] Sapevo di aver raggiunto qualcosa senza però rendermi conto del suo vero significato fino a quando la sera ho sviluppato la lastra. Avevo ottenuto la mia prima ‘visualizzazione’. Avevo realizzato
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l’immagine che volevo; non come il soggetto appariva nella realtà, ma come lo percepivo io e come doveva apparire nella stampa. Il cielo nella realtà era di un azzurro tenue, lievemente offuscato, […]. Il filtro rosso aveva scurito drammaticamente il cielo e le ombre sulla grande falesia” (A. Ansel).
Figura 3. A. Adams, 1941, “Moonrise”, Hernaudez, New Mexico, Ansel Adams © The trustees of the Publishing Rights Trust.
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mezzogiorno, iniziò a schiarire. Guidai fino ad un posto chiamato Inspiration Point e attesi fino a che le nuvole non si diradarono in questa forma. La situazione di cambiamenti così repentini come questa possono creare problemi al fotografo che deve decidere molto rapidamente. Appena si rivela un momento di bellezza deve essere fotografato; le nuvole, la neve, la pioggia possono arrivare a oscurare la scena e quando poi schiariscono le condizioni di luce e di prospettiva sono già mutate. Non c’è modo di prevedere queste situazioni” (A. Adams, si veda la figura 3). Un viaggio in Italia
Figura 4. Ansel Adams, “Clearing winter storm, Yosemite” - Ansel Adams © The trustees of the Publishing Rights Trust.
Le fotografie di A. Adams sono il risultato di un attento studio della natura, quello richiamato da L. R. Stevenson citato in apertura di questo saggio, che il fotografo esplora faticosamente, portando in spalla la pesante attrezzatura, aspettando e scrutando il momento giusto in cui i diversi fenomeni della natura si combinano e si relazionano tra loro per produrre un effetto di bellezza: “… Sono stato in questo luogo innumerevoli volte nel corso degli anni, ma una volta sola ho incontrato una simile combinazione di elementi visivi […]. Nella tempesta, la fitta pioggia si trasformò in neve e, verso
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Anche per gli scatti di Marco Pesaresi si può parlare di una seconda vista, ossia di uno sguardo del fotografo che inquadra nel frame ciò che gli è familiare, che appartiene alla sua cultura, alla sua percezione di uomo che abita in quel determinato luogo, vi è cresciuto, lo ha fatto proprio. Luigi Ghirri in un suo dattiloscritto, riprende una definizione dell’immagine di Giordano Bruno: “le immagini sono enigmi che si risolvono con il cuore”. Questa, che potrebbe sembrare una frase ad effetto, cerca invece di spiegare quel mistero che sta tra il reale e lo sguardo nella scelta dell’inquadratura, nello scatto e conseguentemente nella fotografia. “È difficile dire perché una stanza, le pietre di una strada, un angolo di un giardino mai visto, un muro, un colore, uno spazio, una cosa diventino improvvisamente familiari, nostri. Sentiamo che abbiamo abitato questi luoghi, una sintonia totale ci fa dimenticare che tutto questo esisteva e continuerà ad esistere al di là dei nostri sguardi” (Ghirri 1989, p.26). Le fotografie di Marco Pesaresi sono un esempio di questo “mistero”. Egli fotografa ciò che gli suscita emozione, ciò che ha un significato generato da una relazione di segni, siano essi appartenenti alla storia del luogo, ossia ad una Rimini fatta da tradizioni contadine, oppure siano portati da un flusso di visitatori stranieri, alla ricerca del divertimento sfrenato, slegato dalle tradizioni locali, ed appartenenti a logiche di consumismo degli anni del boom economico italiano. Per questo i luoghi ripresi non sono vasti panorami incontaminati di marine, come si potrebbe pensare dopo essersi immersi nella wilderness di A. Adams, ma presentano una città, quella di Rimini, vissuta, dove il paesaggio è fatto dalle persone che animano e mutano, con intermittenza stagionale, la riviera romagnola.
lo s(g)uardo estraneo
Il ritratto che se ne ha nelle immagini della raccolta Rimini è composto da istantanee di azioni umane, fermate con l’ausilio di una piccola macchina fotografica, la Minox, che stando in una mano, permette a M. Pesaresi di catturare e riprodurre attimi, frazioni di secondo, in modo “discreto, leggero, agile, furtivo, libero,…7” come afferma egli stesso in una sua intervista. Le sue immagini affascinano, gli scatti sono racconto poetico dove, anche in questo caso come per A. Adams, l’alfabeto è composto dai colori del bianco e del nero, combinati tra loro in infinite sfumature di grigi sgranati. Il suo sguardo non è quello di un photo-reporter a supporto di un articolo giornalistico, egli non vuole fare sensazione, attrarre la curiosità dei fruitori, ma generare emozioni di vitalità, di gioia, di cambiamento, di diversità e così via. Il fruitore della mostra Rimini di Pesaresi, perciò, compirà un viaggio del tutto diverso dalle vaste e desolate lande in cui ci si è immersi di fronte alle fotografie di Ansel Adams. Si troverà immerso in una folla spumeggiante di giovani, pronti a brindare lungo le strade, di persone di ogni età, alla ricerca di svago e divertimenti di tutti i generi, fino alla trasgressione ritratta nelle discoteche notturne. La città raccontata da Pesaresi può essere associata a quella descritta nelle pagine dello scrittore Pier Vittorio Tondelli, che nel 1985 nel romanzo Rimini, offre la descrizione di un paesaggio inedito nella letteratura italiana: duro, in cui tutto è possibile, dove Rimini assomiglia ad Hollywood o a Nashville “luogo del mio immaginario dove i sogni si buttano a mare, la gente si uccide con pasticche, ama, trionfa e crepa” (Panzeri 2005, p.138). Un paesaggio quello scritto da Tondelli crudo, duro, mai visto in Italia. “Ovunque suoni, musiche, luci, insegne, sofisticatissime che si accendevano e si spegnevano seguendo un ritmo preciso […] nella immensa varietà di combinazioni, da un computer: scritte, slogan, figurazioni grafiche, labbra che sorridevano e spargevano bollicine frizzanti, che succhiavano cannucce, gelati, bibite … e in mezzo, per la strada, camerieri in giacca bianca e alamari coloratissimi… disegnatori e ritrattisti … ragazzi in canottiera e jeans strettissimi appoggiati alle loro motociclette … frotte di ragazzini che si rincorrevano urtando …” (Tondelli 1985). Una Rimini fatta di alberghi, pensioni, hotel, stabilimenti balneari dove una “sequenza ordinata delle cabine – dipinte a blocchi di tonalità pastello- ha in sé qualcosa di metafisico ed infantile nello stesso tempo: come si trattasse di un paesaggio costruito per i giochi dei bambini – le casette, i tettucci, i lettini, gli oblò, le finestrelle, le tinte tenui, il rosa confetto, il verdolino, il
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celestino, l’arancio, il grigio-azzurro, il giallo limone, il viola pallido ed altri colori di balocchi e zuccheri filati e frutta candita …” (Tondelli 1985, p 48).
Figura 5. Pesaresi M., ottobre 1996, “Durante una festa: ragazzo stappa una bottiglia di spumante”, Verrucchio, Rimini © Diritti di pubblicazione concessi dall’Ag. Contrasto 2012.
Ma se la letteratura di Tondelli ci fornisce un ritratto duro e crudo per molti aspetti della Rimini degli anni Ottanta, le immagini di Pesaresi ci mostrano un paesaggio poetico, che vive non soltanto nei mesi estivi, ma anche in quelli invernali e autunnali. Attraverso il mirino della sua Minox, assaporiamo la poesia del mare di inverno, quando la spiaggia si vela di neve, in cui si percepisce una certa nostalgia per l’estate passata, ma anche un’attesa per un’altra stagione estiva.
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Un viaggio culturale attraverso le mostre fotografiche: dalla wilderness di A. Adams al parco dei divertimenti di M. Pesaresi
I protagonisti delle immagini sono sempre le persone, in questo caso i riminesi, che abitano le inquadrature, giocando con l’ombrello oppure saltando su cumoli di neve che sembrano onde (figg. 8 ed 9).
La Rimini di Pesaresi è il paesaggio dell’uomo. Il suo sguardo è attratto dalla “sinuosità, dalla dolcezza e dal vissuto”, colto dall’istantanea: un attimo di percezione in cui tutto converge, fermato in un istante e fissato su una pellicola.
Figura 6. Pesaresi M., agosto 1996, “Alba d’estate dopo una tempesta notturna: lettini solari e windsurfer”, Rimini © Diritti di pubblicazione concessi dall’Ag. Contrasto 2012.
Figura 7. Pesaresi M., marzo 1996-97, “Il mare in primavera”, Torre Pedrera (Rimini) © Diritti di pubblicazione concessi dall’Ag. Contrasto 2012.
Rimini è sempre da vivere, anche dopo un acquazzone quando la spiaggia sembra essere abbandonata, ma qualcuno c’è sempre ad animare la scena. Come in Alba d’estate dopo una tempesta notturna: lettini solari e windsurfer (fig. 6), in cui spingendo lo sguardo oltre i lettini sospesi tra la spiaggia ed il mare, si scorgono le vele dei surfisti, intenti a giocare con le onde. L’immagine che ne deriva è quella di un luogo in cui non c’è mai noia, in cui tutti gli eventi diventano elementi giocosi, da vivere, anche nel periodo di attesa della futura stagione vacanziera.
Perché come afferma lo stesso Pesaresi: “tutto muta e cambia nel tempo, tutto si evolve continuamente, nulla è uguale all’anno precedente”.
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La fotografia come strumento di consapevolezza Le due diverse raccolte fotografiche, quella di A. Adams e quella di M. Pesaresi, dimostrano come i due luoghi ritratti siano raccontati con sguardo attento e consapevole della bellezza del paesaggio.
lo s(g)uardo estraneo
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Figura 8. Pesaresi M., 1996, “Il mare d’inverno con la neve, Rimini” © Diritti di pubblicazione concessi dall’Ag. Contrasto 2012.
Figura 9. Pesaresi M., gennaio 1997, “Il mare di inverno in una giornata di pioggia”, Torre Pedrera (Rimini) © Diritti di pubblicazione concessi dall’Ag. Contrasto 2012.
Anche se i due sguardi di osservazione degli autori sono molto diversi, essi offrono comunque spunti di riflessioni comuni sui metodi di rappresentazione del paesaggio: da una parte un paesaggio identificato da uno spazio in cui la natura è la protagonista assoluta, dall’altra un paesaggio che trova la propria vitalità ed identità nelle persone che vivono i luoghi; da una parte le immagini sono silenziose e avvolte in una aurea incontaminata, dall’altra le fotografie sono chiassose, giocose, divertenti. Le immagini di A. Adams e M. Pesaresi non sono semplici vision della realtà fine a se stesse. Esse diventano documenti di un paesaggio passato, strumento utile per poter compiere un paragone temporale tra passato e presente, che permette di monitorare le trasformazioni avvenute ed in corso, a carattere ambientale, sociale, economico e culturale, valutandone, inoltre, la velocità/lentezza/direzione dei cambiamenti. Si pensi alla città di Maurilia descritta da Italo Calvino:
“[…] il viaggiatore è invitato a visitare la città e nello stesso tempo a osservare certe vecchie cartoline illustrate che rappresentano com’era prima […]. Per non deludere gli abitanti occorre che il viaggiatore loda le città nelle cartoline e la preferisca a quella presente, avendo però cura di contenere il suo rammarico per i cambiamenti entro regole precise: riconoscendo che la magnificenza e prosperità di Maurilia diventata metropoli, se confrontate con la vecchia Maurilia provinciale sotto gli occhi, di grazioso non ci vedeva proprio nulla, e men che meno ce lo si vedrebbe oggi […]” (Calvino 2002, p.29). Le immagini fotografiche si fissano nella memoria dello spettatore, diventando ulteriori strumenti culturali di percezione del paesaggio sia di quello quotidiano, sia di quello a scala globale: “[…] perché il mondo percepito sia sensato e vitale è necessario che i nostri sensi permettano di comprendere che cosa sia e dove stia una cosa, ma anche quale altra cosa possa essere e in quale altro luogo possa stare”(Garrone 2005).
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Il paragone, quindi, tra una realtà lontana (per tempo e distanza geografica), offerto dallo sguardo estraneo del fotografo, ed una realtà quotidiana, vista attraverso la percezione individuale diretta, permette di ’vedere’ il paesaggio, apprezzandone i suoi caratteri identitari. Le immagini fotografiche, inoltre, offrono differenti mosaici paesaggistici osservati e raccontati, che accompagnano il fruitore in una percezione del paesaggio a scala globale, in cui lo sguardo sulla realtà vissuta si arricchisce dell’esperienza acquisita attraverso un viaggio fotografato di un luogo lontano, non omologato, ma con suoi propri caratteri identitari.
Riferimenti bibliografici Castelnovi P. (a cura di), 2000, Il senso del paesaggio, IRES, Torino.
Un viaggio culturale attraverso le mostre fotografiche: dalla wilderness di A. Adams al parco dei divertimenti di M. Pesaresi
Pandakovic D., Dal Sassi A., 2009, Saper vedere il paesaggio, Città Studi, Grugliasco. Panzeri F. (a cura di), 2005, Il romanzo vent’anni dopo, Guaraldi, Rimini. Stevenson R.L., 1998, Strade (1873) in Appunti di viaggio in Francia e Svizzera, F. Muzzio, Padova, pp. 103-113 (titolo originario: “Further memories” in works of Robert Luis Stevenson, Londra, Heinemann, 1923-27). Tondelli P.V., 1985, Rimini, allegato al Corriere della Sera. Turri E.,1998, Il paesaggio come teatro: dal territorio vissuto al territorio rappresentato, Marsilio, Venezia. Turri E., 1994, Paesaggio e fotografia: il tempo e la storia, Intervento al seminario: L’immagine fotografica nella ricerca antropo-geografica, 18 gennaio 1994, presso l’Università Statale di Milano, Istituto di Geografia Umana. http://www.ocs.polito.it/biblioteca/articoli/turri_2.pdf.
Calvino I., 2002, Le città invisibili, Arnaldo Mondadori, Milano, (prime ed. 1972). Calvino I., 2011, Lezioni americane, Oscar Mondadori, Milano (prima ed. 1993). Colafranceschi D., 2010 ed., Joan Noguè, Altri Paesaggi, Franco Angeli, Milano pp. 7-13. Garrone G., 2005, Elogio dell’imprecisione. Percezione e rappresentazione, Bollati Boringhieri, Torino.
Riferimenti digitali http://www.anseladams.com WILLIAM A. TURNAGE, Ansel Adams, Photographer, Oxford University Press, http://www.anseladams.com/searchresults.asp?cat=51 http://www.marcopesaresi.it/ http://www.formafoto.it/_com/
Ghirri L., 1989, Dattiloscritto, in Centro di Arti Visive Pescheria, Pesaro 2010, Luigi Ghirri, Mario Giacomelli: paesaggi, Silvana, Cinisello Balsamo, p. 26. Mormorio D. 1999, Paesaggi italiani del ‘900, Federico Motta Editore, Milano. Noguè J., 2010, Altri Paesaggi, Franco Angeli, Milano (titolo originale: Entre Paisajes, 2009 – Ambit Servicios Editoriales, Barcelona).
Testo acquisito dalla redazione nel mese di giugno 2012. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
Riferimenti iconografici Figure 1, 2, 3, 4: Ansel Adams. Figura 5, 6, 7, 8, 9: Marco Pesaresi.
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Ansel Adams. La natura è il Mio Regno, mostra fotografica che si è tenuta il 16 settembre 2011-29 gennaio 2012 Fondazione Fotografica, Modena a cura di Filippo Maggia. 2 Sin da giovanissimo, la prima immagine dell’Half Dome risale all’età di quattordici anni, Ansel Adams osservava lo Yosemite Park esplorando e fotografando, divenendone nel 1926 custode stagionale al Le Conte Memorial Lodge ed in seguito guida e fotografo ufficiale del Sierra Club, una delle più grandi organizzazioni ambientaliste americane. 3 La fotografia nei giornali quotidiani, La Fotografia in Italia - Percorsi intorno alla fotografia italiana, 22/24 marzo, Spazio Forma, Milano, inedito – http://www.formafoto.it/_com/asp/list.asp?g=e&s=c&l=it a. 4 Citato da Ansel Adams, Storia Orale, Università di California, Berkeley, p.498 riportato da William A. Turnage, Ansel Adams, Photographer, Oxford University Press, http://www.anseladams.com/searchresults.asp?cat=51. 5 A. Adams fu membro fondatore dello storico gruppo fotografico f/64 di cui facevano parte Edward Weston e Imogen Cunningam il cui obiettivo era quello di ritrarre la realtà senza alcun ausilio di implementazione tecnica. Lo scatto doveva essere puro, giungendo a rappresentare lo spazio quotidiano. 6 Lo stesso Luigi Ghirri riprende il cielo per un anno, ogni giorno ed alla stessa ora, come a fotografare qualcosa che cambia in continuazione, riprendendo una sorta di non evento, quale le nuvole. 7 MARCO PESARESI, intervista pubblicata sul sito http://www.marcopesaresi.it/.
lo (s)guardo estraneo
Cultura dell’accoglienza e diffusa. Conversazione con Dall'Ara*
ospitalità Giancarlo
Reception culture and widespread hospitality. A conversation with Giancarlo Dall'Ara
abstract La conversazione mette in luce le caratteristiche di un nuovo e originale modello italiano di ospitalità: l’Albergo diffuso. Giancarlo Dall’Ara, docente di marketing nel turismo e fondatore dell'Associazione nazionale degli Alberghi Diffusi, illustra questa nuova “cultura dell’accoglienza”, basata su alcuni principi fondamentali: nessuna nuova costruzione, inserimento nel territorio e nella sua storia, autenticità dell’esperienza, presenza di una comunità ospitante, ambiente integro.
abstract The conversation highlights the features of a new and original Italian model of hospitality: the Albergo Diffuso (Widespread Hotel). Giancarlo Dall'Ara, professor of Tourism Marketing and founder of the National Association of Widespread Hotels, illustrates this new “reception culture”, grounded on some basic assumptions: no new buildings, integration with place identity, genuine experience, presence of a hosting community living in the place, preserved environment.
parole chiave Albergo diffuso, turismo sostenibile, conservazione attiva, paesaggio culturale.
key-words Albergo diffuso (widespread hotel), sustainable tourism, active preservation, cultural landscape.
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a cura di Silvia Mantovani **
* Docente di marketing nel turismo presso il CST di Assisi, è fondatore dell'Associazione nazionale degli Alberghi Diffusi e consulente di Regioni turistiche italiane, destinazioni e Consorzi di operatori. ** Architetto e paesaggista. Dottore di ricerca in Progettazione Paesistica presso l’Università degli Studi di Firenze.
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Il turismo e l’eredità culturale stonano tra loro, quando questa eredità è trasformata in un prodotto a sé stante, ridotto infine a merce di scambio. L’eredità culturale non è più quindi un elemento portante della società che il turista viene a visitare, ma uno strumento o mera rappresentazione teatrale. Kurt Cuger (Messner Mountain Museum, Ripa)
Il paesaggio, quale “componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni” e “ fondamento della loro identità” costituisce una risorsa primaria e un contesto favorevole per lo sviluppo del turismo. La Convenzione Europea del Paesaggio (CEP) del 2000 ha infatti messo in evidenza, che “il paesaggio svolge importanti funzioni di interesse generale, sul piano culturale, ecologico, ambientale e sociale e costituisce una risorsa favorevole all'attività economica”, e “se salvaguardato, gestito e pianificato in modo adeguato, può contribuire alla creazione di posti di lavoro” . Già nel 1995, però, la Carta di Lanzarote (CL) sul Turismo sostenibile aveva evidenziato che “il turismo è un fenomeno ambivalente poiché può potenzialmente contribuire al raggiungimento di obiettivi socio-economici e culturali ma può anche, allo stesso tempo, essere causa del degrado ambientale e della perdita di identità locali” e divenire quindi esso stesso uno dei principali fattori di distruzione dell’ambiente e del paesaggio. Lo sviluppo turistico, pertanto, così come sottolineato sempre dalla CL “deve essere basato sul criterio della sostenibilità, ciò significa che deve essere: ecologicamente sostenibile nel lungo periodo, economicamente conveniente, eticamente e socialmente equo nei riguardi delle comunità locali” .
Cultura dell’accoglienza e ospitalità diffusa. Conversazione con Giancarlo Dall'Ara
Nel 2003, infine, la Convenzione UNESCO per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale (CU) (costituito dalle “pratiche, rappresentazioni, espressioni, conoscenze e i saperi – così come gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati ad essi – che le comunità, i gruppi e, in alcuni casi, gli individui riconoscono come facenti parte del loro patrimonio culturale” ), ha messo in rilievo che “il patrimonio culturale immateriale, trasmesso di generazione in generazione, è costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi in funzione del loro ambiente, della loro interazione con la natura e la loro storia, e dà loro un senso d’identità e di continuità, promovendo in tal modo il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana” . È interessante vedere come tre importanti documenti internazionali, apparentemente così diversi, trovino un punto di incontro proprio nel promuovere, ognuno a suo modo e nel proprio ambito specifico, la conservazione attiva e la valorizzazione dei “paesaggi culturali”, nel senso ampio del termine, sottolineando l’imprescindibile necessità di una reale sinergia tra sviluppo, ambiente, patrimonio, identità. Ma quali sono state le risposte che il sistema turistico ha saputo dare a questa istanza di una qualità territoriale diffusa, capace di integrare risorse economiche e ambiente naturale, culturale e sociale, nel rispetto delle attività tradizionali, dell’identità e della cultura delle comunità residenti? Una delle proposte ad oggi più convincente sembra essere l’”Albergo Diffuso”, una realtà nata in Italia che si basa su alcuni principi fondamentali: nessuna nuova costruzione, inserimento nel territorio e nella sua cultura, autenticità
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dell’esperienza, presenza di una comunità ospitante, ambiente integro. Giancarlo Dall’Ara, docente di marketing turistico, dopo aver messo a punto questo nuovo e originale modello di ospitalità , ha fondato l'Associazione nazionale degli Alberghi Diffusi, con lo scopo di promuovere e sostenere lo sviluppo in Italia e all’estero di questa esperienza. L’obiettivo prefissato è quello di incoraggiare il recupero di antichi borghi e agglomerati rurali per ridare loro nuova vita attraverso la creazione di un “paese albergo” gestito dalla comunità locale, capace di offrire una esperienza autentica, una ospitalità destagionalizzata, fuori dalle destinazioni più abusate . La speranza è quella di riuscire a creare una nuova cultura dell’accoglienza e a ribaltare il concetto di “offerta turistica”: non più quantità di beni e servizi da immettere sul mercato ad un determinato prezzo, ma opportunità di miglioramento della qualità diffusa del patrimonio culturale, paesaggistico, ambientale, ai fini anche della valorizzazione turistica. D. Dopo l’era del turismo di massa, delle catene alberghiere e dei villaggi vacanze, che ha caratterizzato la domanda e l’offerta ricettiva degli ultimi decenni, è nata una nuova “generazione” di turisti, che rifugge dalle esperienze standardizzate, richiede proposte diverse da quelle tradizionali, cerca l’autenticità dei luoghi. Che cosa può offrire l’Albergo diffuso a questa nuova categoria di fruitori? R. Nel sistema turistico del nostro paese alla ricchezza e alla diversità delle offerte ospitali del passato (locande e taverne medievali, ostelli, pensioni...), si è lentamente sostituita una gamma
lo (s)guardo estraneo
di strutture sempre più simili tra loro quanto a stile e modello gestionale, e quanto a standard di servizio e strutturali. Questa tendenza all’omologazione, che ha portato a trovare ovunque gli stessi servizi e strutture simili tra loro, è il frutto di un atteggiamento di “imitazione acritica” che ha sempre considerato come modello al quale ispirarsi quello degli alberghi standard, di tipo urbano, decontestualizzati ed estranei rispetto all’ambiente circostante. Ma oggi il sistema della ricettività italiano vive un momento di grande cambiamento, e alle strutture tradizionali continuano ad aggiungersi nuove formule di ospitalità, anche se non tutte normate, classificate e riconosciute ufficialmente. L’Albergo Diffuso è nato proprio per rispondere alle esigenze di una generazione di turisti che non ama le cose fatte apposta per turisti (come lo sono gli alberghi tradizionali) ma che desidera vivere i luoghi, alloggiare in strutture concepite per i residenti, condividere il loro stile di vita, con la garanzia di tutti i confort e i servizi alberghieri (pulizia quotidiana delle camere, assistenza,ecc…). D. La “rivoluzione” dell’ospitalità diffusa parte dal presupposto che il turismo sia una componente della cultura delle località in cui viene attuata, prima ancora che della loro economia. Ma come funziona veramente il modello dell’ Albergo Diffuso, e quali sono le sue specificità rispetto ad una struttura ricettiva tradizionale? R. L’albergo diffuso, come è chiaro fin dal nome, è in primo luogo un albergo, più precisamente un albergo orizzontale, che non si costruisce, ma che nasce mettendo in rete case vicine tra loro, che diventano le camere di una struttura in grado di offrire tutti i servizi alberghieri, dall’assistenza alla
ristorazione, agli spazi comuni per gli ospiti. L’albergo diffuso dunque non è una semplice sommatoria di case, ma una vera e propria struttura ricettiva alberghiera originale. Gli edifici che compongono l’albergo diffuso sono di norma case di pregio, o almeno abitazioni tipiche, di sapore locale appunto, in un contesto di interesse storico e culturale, ristrutturate e ammobiliate in modo tale da coniugare i comfort dei servizi con l’autenticità della proposta. Immaginate un proprietario di una casa antica in un piccolo centro del nostro paese, che vuole staccare con la vita della grande città e torna nella casa dei nonni. Scopre che ristrutturarla e viverci richiede un grosso investimento e pensa al turismo come forma di reddito. Ha di fronte a sé due possibilità: o apre un B&B, ottenendo così una piccola integrazione di reddito. Come B&B può affittare tre camere, e offrire una colazione senza manipolare i prodotti, cioè una piccola colazione standard, oppure può aprire un AD, cioè un’impresa ospitale. Per fare un AD non deve costruire niente di nuovo, deve solo trovare altre case vicine alla sua, da prendere in gestione, raggiungere un minimo di camere che garantiscano la fattibilità economica al progetto, e gestire il tutto come un albergo (non come una rete di case), cioè prevedere spazi comuni, punto ristoro, accoglienza e soprattutto i servizi alberghieri professionali per gli ospiti. D. Esiste una normativa che definisce in maniera chiara il modello dell’Albergo Diffuso e ne disciplina il funzionamento e gli standard qualitativi e quantitativi su tutto il territorio nazionale? R. In Italia 16 Regioni hanno una normativa specifica e molte hanno un disciplinare piuttosto
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dettagliato. Ma il modello è quello che ho appena descritto e che riassumo: gestione imprenditoriale e unitaria di case che diventano camere di un albergo che non si costruisce. Le case devono essere disabitate, vicine tra loro, autentiche e il borgo deve essere abitato. Agli ospiti vanno garantiti tutti i servizi alberghieri.
Figura 1. Albergo Diffuso “Aquae Sinis”, recentemente aperto a Cabras, in provincia di Oristano.
D. Dal dopoguerra ad oggi le campagne, e ancor più la nostra montagna, sono state oggetto di progressivo abbandono e degrado. La stessa sorte è toccata ai vecchi borghi, che hanno perduto, oltre alla popolazione, le proprie memorie, l’identità, i saperi. Quale funzione può avere l’Albergo Diffuso nel recupero delle specificità locali, oltre che nella ricostituzione di “presidi sociali” sul territorio? R. L’AD ha già dimostrato di poter assolvere ad almeno tre funzioni: animare la vita dei borghi, portando turismo e creando iniziative, generare reti e filiere di produttori, cioè alleati nel processo di
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valorizzazione del territorio, e infine contribuire ad evitare lo spopolamento dei borghi creando occasioni di lavoro. Il 90% degli AD è aperto tutto l’anno, un dato che da solo testimonia il contributo che questo modello di ospitalità sostenibile è in grado di dare allo sviluppo turistico dei borghi e più in generale dei territori.
Figura 2. "Scicli Albergo inaugurato a Scicli, in Sicilia.
Diffuso",
recentemente
Non solo: il centro storico, o il borgo nel quale sorge l’Albergo Diffuso, si caratterizza per un numero di abitanti tale da garantire agli ospiti la possibilità di avviare relazioni, di avere rapporti interpersonali con i residenti e gli altri ospiti. L’idea di base è che, più che clienti di un albergo, si è per qualche giorno parte di un vero e proprio vicinato, qualcosa che ha a che vedere con la vita di una comunità “temporanea”.
Cultura dell’accoglienza e ospitalità diffusa. Conversazione con Giancarlo Dall'Ara
D. Anche gli Agriturismi sono stati utilizzati in Italia, ormai da oltre quarant’anni, per promuovere il turismo in ambito agricolo, e valorizzare lo stretto legame fra i valori ambientali, storici e culturali del territorio. Non sempre, però, questa strategia dagli intenti virtuosi ha portato risultati altrettanto validi. In alcuni casi, anzi, il paesaggio agrario è stato stravolto, o radicalmente reinventato, per creare un prodotto da vendere sul mercato turistico. Che tipo di rapporto instaura l’Albergo Diffuso con il territorio agricolo, e più in generale con il paesaggio circostante? R. Né il B&B né l’agriturismo sono nati in Italia; sono stati importati, o meglio copiati da esperienze estere. Per i B&B tra l’altro non è stato fatto nessuno sforzo per tradurne l’offerta nella cultura italiana, lo dimostra molto bene il nome che è rimasto in inglese. L’AD invece è nato in Italia, e all’estero il nome resta in italiano, non si traduce. L’AD pertanto vuole proporre qualcosa di molto legato alla nostra cultura ospitale. Per inciso propone il modello abitativo rurale e dei piccoli paesi del passato. In Italia infatti quando una famiglia si allargava perché uno dei figli si sposava, la nuova abitazione non veniva costruita sopra quella precedente, ma di fianco o di fronte alla casa originaria. La diffusione era orizzontale. Proprio come per l’AD, che è un modello sostenibile, anche perché come ho già detto, uno degli standard minimi che lo identifica è che niente deve essere costruito ex novo. Ma un albergo diffuso è anche un modello di sviluppo turistico territoriale, e proprio per questo può essere utile considerarlo come un esempio, una modalità, di sviluppo locale sostenibile; un modello di sviluppo del territorio anche perché i suoi confini non coincidono con quelli della
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struttura, degli edifici, ma si allargano al territorio circostante che è parte integrante dell’offerta. Attualmente in Italia gli alberghi diffusi sono oltre 60, ed hanno dato vita all’Associazione Nazionale degli Alberghi Diffusi che è attualmente impegnata ad esportare il modello nei paesi del mediterraneo, con il vincolo di continuare ad utilizzare la definizione in italiano. Nel frattempo la famiglia dell’Albergo Diffuso si è allargata.
Figura 3. Camera dell'AD "Borgo Vistalago" di Trevignano Romano, sul lago di Bracciano.
L’Associazione ha dato vita infatti sia alla formula dell’Albergo Diffuso di campagna (struttura ospitale che si riconosce nel modello dell’AD, ma sorge in
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un contesto rurale), che alle reti di Ospitalità Diffusa (proposte ricettive che aderiscono alla filosofia dell’Albergo Diffuso, ma non offrono tutti i servizi alberghieri).
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Testo acquisito dalla redazione nel mese di maggio 2012. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
D. L’Albergo Diffuso, grazie alle sue specificità e alle sue regole, si pone come modello di turismo sostenibile, minimizzando il degrado ambientale che spesso accompagna le forme tradizionali di turismo. E’ possibile secondo Lei, che possa nel tempo diventare anche una forma di presidio paesaggistico, non solo frenando il consumo di suolo, ma anche promuovendo la riscoperta di saperi e pratiche locali nell’ uso del territorio? R. Componente chiave dell’AD è il gestore. Sta alla sua cultura e alla sua sensibilità e alla sua professionalità dare un contributo alla salvaguardia del paesaggio. Oggi l’Associazione Nazionale degli Alberghi Diffusi che presiedo riconosce 63 AD, io conosco personalmente tutti i gestori, mi pare proprio che questa attenzione ci sia.
Riferimenti bibliografici Per approfondimenti sul tema dell’Albergo Diffuso, si veda Dall’Ara G. (a cura di), 2010, Manuale dell'albergo diffuso L'idea, la gestione, il marketing dell’ospitalità diffusa, Franco Angeli, Milano.
Riferimenti iconografici Tutte le immagini sono state fornite dall’autore.
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paesaggi in gioco
Ecomuseo Urbano Metropolitano Milano Nord: per una biografia culturale del paesaggio collettivo
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Ecomuseo Urbano Metropolitano Milano Nord: towards a cultural biography of collective landscape
Silvia Mascheroni*, Alessandra Micoli **
abstract Ecomuseo Urbano Metropolitano Milano Nord (EUMM) è una realtà recente, un museo diffuso e partecipativo che si fa interprete del territorio valorizzandone il patrimonio materiale e immateriale. I progetti presentati evidenziano le potenzialità della realtà ecomuseale, contesto di sperimentazione di prassi innovative, che promuove interventi partecipati al fine di far conoscere e ricomporre la fisionomia del paesaggio metropolitano e le sue trasformazioni, evidenti e nascoste, i saperi, la storia e la memoria plurale, coinvolgendo la cittadinanza in azioni di tutela attiva.
abstract The Ecomuseo Urbano Metropolitano Milano Nord (EUMM) is a new entity, a widespread and participatory museum interpreting the territory and enhancing its tangible and intangible heritage. The described projects highlight the ecomuseum’s ability to test innovative practices and to promote participated actions in order to understand and to reassemble the urban landscape and the ongoing transformations, evident ones and hidden ones, the knowledge, the history and collective memory, by involving citizens in tasks of active protection.
parole chiave Ecomuseo urbano, paesaggio metropolitano, biografia culturale dei luoghi, narrazione collettiva, mappatura partecipata.
key-words Urban ecomuseum, metropolitan landscape, cultural biography of places, community narration, participatory mapping.
* Storica dell'arte, referente progetti educativi EUMM. ** Antropologa, presidente e coordinatrice EUMM.
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Qualche nota di contesto e alcuni concetti chiave Ecomuseo Urbano Metropolitano Milano Nord (EUMM), promosso dall’Associazione 1 Tramemetropolitane , nasce nel 2007; si realizza in accordo e con il sostegno del consiglio di Zona 9 del comune di Milano. Riconosciuto da Regione Lombardia nel 2009 ai sensi della L.R. 13/2007 “Riconoscimento degli ecomusei per la valorizzazione della cultura e delle tradizioni locali ai fini ambientali, paesaggistici, culturali, turistici ed economici”, fa parte della Rete Ecomusei della 2 3 Lombardia . EUMM ha sede in Niguarda nella Zona 9 di Milano: l’area di interesse si articola in sette quartieri (Affori, Bicocca, Bovisa, Bruzzano) e cinque Comuni (Bresso, Cormano, Cinisello Balsamo, Cusano Milanino, Sesto San Giovanni); la rete di partnership e di relazioni comprende università, istituti di ricerca e culturali, associazioni 4 del territorio . Il Nord Milano per molti decenni ha rappresentato il cuore dell’industrializzazione lombarda e dell’intero Paese, il motore dello sviluppo siderurgico e chimico milanese; a partire dagli anni Settanta assistiamo al progressivo disimpegno dell’industria: Breda, Falck, Pirelli dismettono gli stabilimenti creando zone di degrado urbano. Dagli anni Ottanta si progettano e realizzano interventi di sviluppo urbanistico delle ex aree industriali e la riconversione funzionale descrive il processo di profonda trasformazione che interessa molte metropoli occidentali: la città contemporanea si connota con una struttura a rete, “policentrica”, le periferie industriali si trasformano in nuove centralità urbane, chiave della modernizzazione della città. La presenza del Parco Nord, polmone verde nel contesto metropolitano, interamente
Ecomuseo Urbano Metropolitano Milano Nord: per una biografia culturale del paesaggio collettivo
costruito, connota il paesaggio e rappresenta un caso emblematico del recupero di aree industriali, promuovendo il rimboschimento, l'arricchimento del suolo, del patrimonio naturale e della biodiversità degli ambienti. Per quanto riguarda i concetti chiave – che non compongono una struttura rigida, ma sono assunti per declinare la missione e le conseguenti azioni di Ecomuseo Urbano – “patrimonio culturale materiale e immateriale”, “co-costruzione di sapere e saper fare” (che comprende la mobilità cognitiva, l’acquisizione, lo scambio di abilità e comportamenti sensibili, nonché la progettazione partecipata di un agire che si modella a seconda delle specificità degli attori e dei destinatari) sono alla base dell’impianto esperienziale di EUMM. L’approccio corretto al patrimonio culturale accoglie come essenziale la dimensione valoriale espressa in relazione alla collettività, che in esso si riconosce; nel contempo ne considera le testimonianze inserite in un sistema aperto, che si modifica processualmente secondo le istanze, non solo culturali, degli individui che lo vivono: carattere e fisionomia del patrimonio sono mobili e continuamente arricchiti grazie a nuovi contributi espressi dalla collettività. L’ecomuseo è dunque un processo partecipato, interculturale e riflessivo, nonché un luogo di valorizzazione del proprio contesto di vita; sollecita il coinvolgimento della collettività nella gestione e nell’interpretazione del patrimonio territoriale diffuso – i cittadini sono custodi di memorie ma anche costruttori stessi del patrimonio – per identificarne i caratteri distintivi, con attenzione al passato come al presente attraverso un approccio 5 multidisciplinare . L’esperienza dell’Ecomuseo Urbano Metropolitano Milano Nord, diversamente da quella dell’Ecomuseo
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Urbano di Torino , non nasce per volere dell’Amministrazione comunale, il cui interesse viene intercettato in un secondo momento, bensì da un gruppo di ricercatrici delle discipline antropologiche, museali e del patrimonio culturale che individuano nel progetto ecomuseale diverse potenzialità.
Il disegno partecipato del paesaggio urbano: dalla Mappa di Comunità, al geoblog “MappaMI” 7
Il percorso di costruzione della Mappa di Comunità di Niguarda, condotto da un gruppo di lavoro composto da rappresentanti di associazioni culturali e sociali del quartiere (teatri, associazioni genitori, ANPI, Comitato Soci Coop, Società Edificatrice...) privati cittadini, esperti o appassionati di storia locale, ha cercato di restituire gli elementi sociali e culturali salienti del territorio. La Mappa è stata dunque uno strumento per agire un percorso singolare e plurale, ricomponendo le trame della collettività, per individuare e riconoscere tratti tuttora presenti o elementi del passato, descriverne eventuali continuità, così da ridare significato a un paesaggio che rischia, talvolta, di apparire ignoto sebbene familiare. Nel percorso del progetto di EUMM la presa di contatto con il territorio è partita da un lavoro di indagine che ha permesso di mettere a fuoco 8 caratteristiche, attori e risorse del territorio ; la successiva fase del progetto è consistita in una prassi più attiva, che ha visto il ricercatore antropologo impegnato in pratiche partecipative, comprese diverse iniziative di presentazione e 9 dibattito .
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Il percorso di disegno della Mappa di Comunità di Niguarda si è confrontato con l’esigenza di “dare forma” a una polifonia di voci, ragionando sulla modalità più corretta, completa ed efficace di rappresentazione e di selezione delle storie raccolte, sentendo l’urgenza di affiancare questa Mappa ad altre, in modo da creare un sovrapporsi di rappresentazioni del territorio, affiancando le voci di attori diversi: il gruppo di lavoro della Mappa, la mappa delle scuole, i cittadini stranieri, ecc. Mantenendo aperta e in continua evoluzione la rappresentazione, integrando nuovi punti di vista, così da “contaminare” il contesto del quartiere, evitando un localismo che si rinchiuda in esso, 10 dimenticandone le interconnessioni con l’esterno .
Figura 1. La costruzione della Mappa di Comunità.
E proprio alla luce di queste esigenze, proprio perché la Mappa è un prodotto definito, con le caratteristiche fisiche che lo contraddistinguono – i vincoli della rappresentazione spaziale sono ineludibili – per documentare, accogliere e
restituire le dinamiche trasformazioni del paesaggio urbano, delle relazioni all’interno di nuove cittadinanze in divenire, EUMM ha realizzato il 11 geoblog “Mappa-MI” , la prima piattaforma di georeferenziazione partecipata del Nord Milano, che rappresenta la naturale prosecuzione del lavoro di mappatura partecipata intrapreso con la Mappa di Comunità. Il geoblog permette di comunicare e condividere racconti, immagini, informazioni e documenti multimediali disponendoli in tre “campi” di referenza, che caratterizzano la struttura portante della biografia collettiva dei luoghi, grazie alle testimonianze di chiunque intenda partecipare alla sua costruzione. La narrazione e la documentazione che viene postata su “Mappa-MI” riguardano il passato (la memoria, i ricordi); il presente (i percorsi e i luoghi del quotidiano), lasciando traccia del proprio passaggio e della propria mobilità; il futuro, componendo una polifonia di idee, desideri, progetti. Ognuna di queste coordinate tematico-temporali è segnalata e individuabile sulla mappa urbana da puntatori di differenti colori. Il geoblog “Mappa-MI” è in sintonia anche con le sensibilità e i comportamenti dei più giovani: essendo uno strumento web oriented (oltre ad costituire un sussidio formidabile per l’acquisizione e l’implementazione di un archivio di dati visivi e documentali) ne facilita la partecipazione, per la familiarità d’uso, facendo conoscere la realtà e le proposte di EUMM con un linguaggio adeguato agli alfabeti contemporanei.
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Figura 2. Il bunker Breda: visita guidata.
Il paesaggio nascosto: il bunker Breda al Parco Nord e i rifugi antiaerei delle scuole di Zona 9 Con il progetto “Metro_Polis”12 Ecomuseo Urbano promuove azioni di valorizzazione dei landmarks legati alla grande espansione industriale e alle attuali trasformazioni del Nord Milano, in particolare del Carroponte e dei rifugi antiaerei della Breda Aereonautica. I rifugi, costruiti nel 1942 quali ricoveri per gli operai durante i bombardamenti, sono stati portati alla luce nel 2008: Parco Nord ha realizzato gli interventi di messa in sicurezza per inaugurarne l’apertura al pubblico nel 2009, che è proseguita con l’organizzazione di visite guidate periodiche. La collocazione dei bunker all’interno del Parco permette di lavorare su nuove possibili interpretazioni identitarie della città e del territorio, utilizzando la tradizione come supporto per
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costruire il futuro e non come semplice ricostruzione nostalgica del passato. Ecomuseo Urbano, in collaborazione con Parco Nord, ha organizzato visite, installazioni artistiche, performances teatrali e incontri con operai, partigiani e comuni cittadini che ricordano gli eventi salienti del secolo scorso, promuovendo la partecipazione attiva al patrimonio e lo scambio generazionale. Gli spazi sotterranei sono allestiti grazie all’esposizione di un repertorio fotografico di documenti storici; il video Milano in guerra, realizzato montando immagini di repertorio e testimonianze orali, costituisce un primo strumento di restituzione alla cittadinanza del patrimonio di narrazioni, memorie e testimonianze raccolte grazie alla ricerca sul campo. I tratti salienti della storia di Parco Nord sono ricomposti da alcuni brani dello spettacolo Il terzo passo: passeggiata visionaria nell’alba e nella notte del Parco, ideato e interpretato da Lorenza Zambon. Le memorie si fanno vive: i suoni delle sirene che allarmavano i cittadini, le testimonianze in presa diretta di alcuni protagonisti di quelle giornate restituiscono senso e significato agli ambienti, portando alla luce non solo impronte costruttive, ma soprattutto il tessuto connettivo di vita ed 13 esperienza . I rifugi antiaerei delle scuole di Zona 9 La progettualità che EUMM rivolge alle istituzioni scolastiche è d’importanza cruciale, componendo proposte e percorsi educativo-didattici destinati ai giovani in formazione, per orientarli ad acquisire una buona consapevolezza del paesaggio culturale in cui vivono e che li circonda, a coglierne le trasformazioni, sviluppando comportamenti di 14 tutela attiva .
Ecomuseo Urbano Metropolitano Milano Nord: per una biografia culturale del paesaggio collettivo
Destinatari privilegiati del lavoro di recupero e ricomposizione della memoria del Rifugio antiaereo n. 87 presente nella scuola “Giacomo Leopardi” di viale Bodio sono stati gli alunni stessi, poiché la scuola è il loro ambiente di vita, di studio e di relazione. Le ricercatrici di Ecomuseo Urbano hanno accompagnato e seguito, insieme agli insegnanti, il lavoro svolto dalle classi quinte, trasmettendo quelle conoscenze essenziali di carattere storico e relative al patrimonio culturale, preparando gli allievi a condurre le interviste rivolte a due testimoni, all’epoca piccoli allievi proprio in questa scuola, e dunque interlocutori preziosi.
generativa di attenzione e senso di responsabilità. Gli elaborati realizzati dalle classi – disegni, impressioni, pensieri – hanno restituito il percorso di riflessione e interpretazione di quanto appreso dagli alunni che vivono con consapevolezza e sensibilità gli spazi sotterranei della loro scuola, non più sconosciuti, ma di cui sanno apprezzare l’importanza, riconoscendo il ruolo sociale svolto durante la seconda guerra mondiale dall’istituzione che oggi li accoglie, diventando testimoni e interpreti della Storia, grazie alle storie vissute e 15 narrate .
Il paesaggio frainteso: un “altro” Nord Milano
Figura 3. Rifugio antiaereo della scuola di viale Bodio: inaugurazione.
Ecomuseo Urbano ha curato le riprese e il montaggio delle interviste, presentate in occasione della mostra, quale contributo efficace per restituire una memoria che deve essere viva e
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La fisionomia di ogni contesto urbano, soggetta a continue trasformazioni, “corpo vivo” che si modifica nei diversi aspetti, sovente rimane ancorata a fissazioni stereotipate. Come abbiamo visto il Nord Milano è da sempre considerato il cuore della produzione industriale; di contro, la componente “natura” della città è invece identificata e confinata nella sola zona del Sud Milano. Un ambito di azione di EUMM riguarda anche il ricomporre, far conoscere e valorizzare la fisionomia agreste e agricola del Nord Milano, individuando tracce, utilizzando fonti documentarie, mettendo in valore il patrimonio culturale materiale (i luoghi, gli edifici, i brani di paesaggio…) e immateriale (le storie, i saperi, le pratiche, le tradizioni, …) nonché le realtà attive sul territorio che testimoniano questa vocazione, le trasformazioni urbane/rurali e periurbane, ridisegnando la complessità dei molteplici caratteri della città, compresa questa specificità, riuscendo in tal modo a sovvertire lo stereotipo in uso.
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Tale azione di ricerca e valorizzazione ha in sé una valenza significativa anche per quanto riguarda una diversa fruizione del paesaggio urbano (ad esempio con la realizzazione di percorsi turistici tematici dedicati a questa vocazione territoriale), recuperando caratteri identitari, riattivando relazioni sociali, ripristinando quelle testimonianze presenti, dinamiche e vitali.
componente caratterizzante la Zona 9, che ha segnato e segna tutt’ora la storia e la vita dell’ambiente urbano. Le modalità di ricerca e di operatività comprendono un’indagine attenta per la ricognizione delle tracce (visibili, documentarie, testimoniali) per mezzo delle quali le attività di esplorazione e di successiva rielaborazione sono 16 connesse durante il percorso proposto . È dunque una pratica “riflessiva” in quanto non si limita all’acquisizione di dati informativi, ma si chiede di problematizzare, di esprimere prospettive autentiche anche in relazione alla personale esperienza di vita. Se il “tema” del paesaggio è di volta in volta diverso, le finalità e le strategie per conoscere, far conoscere, mettere in valore, esercitare azioni di tutela attiva sono trasferibili in altri contesti di cittadinanza, sia che abbiano quali attori cittadini in formazione come adulti.
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Il progetto intende posizionarsi anche rispetto ai circuiti turistici, permettendo di realizzare una serie di prodotti atti a proporre un paesaggio urbano considerato e percepito come periferico attraverso chiavi interpretative non consuete. Il progetto rompe la dicotomia centro/periferia, portando al centro di flussi turistici territori che normalmente ne rimangono esclusi, nonché componendo una struttura organica e funzionale a un’offerta culturale ricca, ma confusamente diffusa sul territorio. Molteplici sono gli obiettivi di Storybus, che rispondono alle esigenze e alle specificità della cittadinanza, come delle Amministrazioni, nonché nei confronti dei “nuovi” abitanti, che possono conoscere la storia del territorio in cui vivono, partecipando alla costruzione di cittadinanze attive e interculturali.
Il paesaggio “mobile”: il progetto Storybus
Figura 4. Laboratorio didattico dedicato al fiume Seveso.
L’intento non è solo quello di documentare i dati di ricerca, ma anche di saper individuare modalità di restituzione degli esiti della ricerca mettendo a punto impianti progettuali di prodotti e di servizi fruibili, con l’obiettivo di sensibilizzare al tema. Per esercitare attenzione e fruizione consapevole recuperando anche alcuni caratteri del paesaggio “di natura”, un progetto educativo-didattico realizzato da EUMM, rivolto alle scuole di ogni ordine e grado, è dedicato al fiume Seveso,
“Storybus. Il pulmino dei racconti urbani”, l’ultimo progetto di EUMM, costituisce uno strumento versatile, comunicativamente efficace e accessibile a tutti poiché promuove un processo partecipato in cui la cultura si fa attivatore sociale, grazie a un percorso di valorizzazione del territorio che vede tra i protagonisti i cittadini stessi e le istituzioni. Il territorio molto esteso e la popolazione di riferimento così numerosa costituiscono alcune delle sollecitazioni che hanno spinto EUMM a intraprendere un percorso nella città, facendo conoscere “su due ruote” strategie d’intervento e competenze, al servizio dei cittadini, per creare reti territoriali, gruppi di lavoro e nuove progettualità ma soprattutto, per attivare percorsi di tutela partecipata del patrimonio culturale.
Figura 5. Storybus: il nuovo progetto di EUMM.
Per EUMM la conoscenza è conversazione e non catalogo, esito di relazioni dirette, richiede una partecipazione non solo virtuale, per dare voce a
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Ecomuseo Urbano Metropolitano Milano Nord: per una biografia culturale del paesaggio collettivo
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noi narranti: storie diverse, lontane. Le testimonianze del patrimonio, che si fa paesaggio di memoria e di vita, non devono essere relitti affioranti dalla casualità, cancellati e irriconoscibili, ma indizi, orme e tracce per comprendere le dimensioni della contemporaneità, multicolore e complessa, instabile e sfaccettata. Riferimenti bibliografici La bibliografia e la sitografia più aggiornate in materia di ecomuseo/ecomusei si trova in Grasseni C. (a cura di), 2010, Ecomuseologie. Pratiche e interpretazioni del patrimonio locale, Guaraldi, Rimini e in Vesco S. (a cura di), 2011, La cultura locale come strumento di sviluppo, Felici Editore, Ghezzano (Pisa).
Riferimenti iconografici Tutte le immagini sono state fornite da Alessandra Micoli, EUMM.
Testo acquisito dalla redazione nel mese di maggio 2012. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
1
Il gruppo di lavoro di EUMM è composto da Michela Bresciani, Silvia Mascheroni, Alessandra Micoli (coordinatrice), Elisa Piria; Silvia Dell’Orso (1956-2009), storica dell’arte e saggista è stata tra le ideatrici e le fondatrici di EUMM. Per informazioni e aggiornamenti: www.eumm-nord.it
2
Alla Rete Ecomusei di Lombardia (REL), costituitasi con Protocollo di Intesa il 4 marzo 2008, attualmente aderiscono 28 soggetti; di questi, 23 hanno ottenuto il riconoscimento da parte di Regione Lombardia. Gli obiettivi principali della rete sono: migliorare la conoscenza degli ecomusei aderenti; favorire la collaborazione, l’interazione e il costante contatto tra gli stessi; sviluppare e condurre iniziative comuni, così come elaborare, presentare e gestire progetti concordati; condividere le risorse per la loro realizzazione; fungere da collegamento con altre reti italiane e internazionali degli ecomusei (www.cultura.regione.lombardia.it). Relativamente alla normativa italiana in materia di ecomusei e in particolare a quella di Regione Lombardia, si veda il saggio di Alberto Garlandini Ecomusei e musei per la valorizzazione del patrimonio culturale immateriale. Nuovi istituti culturali per nuove missioni (in Grasseni 2010, p. 19-33) e quello di Sandra Becucci La legislazione italiana in materia ecomuseale (in Vesco 2011 pp. 125151). 3 La sede, il Centro di Interpretazione di EUMM si trova in via Cesari 17 nel quartiere di Niguarda; la memoria del luogo risale alla Vetreria Angelo Motta fondata agli inizi del Novecento, specializzata nella produzione di specchi, una delle prime filiali italiane della rinomata ditta Saint Gobain. I vetri venivano lavorati con grande maestria e i capannoni si estendevano lungo tutta la via Cesari che terminava in aperta campagna. La sede è dunque anche un “deposito” storico di vita economica, di saperi artigianali e di relazioni, che può documentare la fisionomia originaria dei luoghi circostanti, attualmente trasformati in seguito agli interventi di edilizia privata. 4 Per la ricerca e la progettazione EUMM si avvale di partenariati e collaborazioni con: Dipartimento di Architettura e Pianificazione (DIAP) Politecnico di Milano; Laboratorio Periferie Metropolitane (PeriMetro_Lab), Dipartimento di sociologia e ricerca sociale, Università degli Studi Milano Bicocca; Unità di Ricerca Design for Cultural Heritage (DeCH), Dipartimento INDACO, Politecnico di Milano; Fondazione ISEC, Sesto San Giovanni; Associazione Archivio del Lavoro, Sesto San
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Giovanni; Museo di Fotografia Contemporanea, Cinisello Balsamo; Archivio di Etnografia e Storia Sociale, Regione Lombardia; Archivio Storico delle industrie Pirelli; ANPIsezione di Niguarda; Teatro della Cooperativa; Associazione Home Movies. 5 Riguardo al significato di “ecomuseo” (anche “museo di comunità”), nonché le diverse declinazioni e la fortuna critica dello stesso, si veda il saggio di Hugues de Varine, Ecomusei e Comunità (Grasseni 2010, pp. 33-53) e di Daniel Jallà, Oltre l’ecomuseo?, (Vesco 2011, pp. 23-47). 6 I contributi di Vincenzo Simone dedicati all’Ecomuseo Urbano di Torino sono in Grasseni 2010, (pp. 105-113) e in Vesco 2011 (pp. 171-181); www.comune.torino.it/ecomuseo 7 Alla Mappa di Comunità (con la presentazione e l’approfondimento di mappe ecomuseali) è dedicato “Signum. La rivista dell’ecomuseo del biellese” (2004), anno 2, numero 1, Arti Grafiche Biellesi, Biella. 8 Tale lavoro è sfociato nel video Alla ricerca di rappresentazioni di Niguarda, proiettato in una sala del quartiere, occasione per illustrare alla cittadinanza niguardese il percorso che si era avviato. 9
Tra questi, si ricorda “Niguarda in 10 giorni” (ottobre 2008): convegni, dibattiti pubblici sui temi dell’Ecomuseo, visite di quartiere e azioni teatrali; nel novembre 2009 si sono organizzate la presentazione della Mappa di Comunità e altre iniziative sul territorio di Niguarda e non solo, in ragione della maggiore espansione territoriale dell’Ecomuseo riconosciuto da Regione Lombardia. 10 Il tema della rappresentazione del paesaggio urbano che richiede sguardi diversi e punti di vista molteplici è affrontato dai contributi pubblicati in Salerno R, Villa D. (a cura di), 2006, Rappresentazioni di città. Immaginari emergenti e linguaggi residuali?, Franco Angeli, Milano e in Salerno R., Casonato C., (a cura di), 2008, Paesaggi culturali. Cultural Landscapes. Rappresentazioni esperienze prospettive, Gangemi, Roma. 11 www.mappa-mi.eumm-nord.it 12
Il progetto, finanziato da Regione Lombardia, Fondazione Cariplo e Fondazione Nord Milano opera per
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integrare fonti archivistiche, fonti orali e archivi privati per costruire una grande narrazione corale dell’identità sestese da restituire alla cittadinanza grazie al coinvolgimento diretto della comunità. 13 È in fase di realizzazione un allestimento permanente dei rifugi che articolerà un percorso immersivo, costituito da suoni, voci ed immagini; l’esposizione, che si propone come strumento didattico e informativo per stimolare la riflessione sulle trasformazioni del territorio, sull’identità storica e culturale dei luoghi e più in generale di un’epoca, guiderà i visitatori in un percorso di conoscenza e di condivisione emozionale. 14 Per l’educazione al paesaggio quale educazione alla cittadinanza responsabile cfr. Castiglioni B., Celi M., Gamberoni E. (2007), Il paesaggio vicino a noi. Educazione consapevolezza responsabilità (2007), Museo di Storia Naturale di Montebelluna, Treviso; Castiglioni B. (2010), Educare al paesaggio, Museo di Storia Naturale di Montebelluna, Treviso. 15 Il progetto, il percorso, i materiali prodotti sono documentati dalla brochure La memoria nascosta di Milano. I rifugi antiaerei delle scuole di Zona 9 (2011). 16 Nell’anno scolastico 2009-2010 EUMM ha realizzato la brochure Il Seveso a Niguarda. Itinerario storicogeografico e narrativo all’interno del quartiere, frutto di un lavoro di ricognizione, interviste, esplorazioni in quartiere, realizzato in collaborazione con le classi quarte della scuola primaria “Duca degli Abruzzi”, utile strumento anche per le attività didattiche d’aula.
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Da Area C alle vie d’acqua: riscopre una vocazione turistica
Milano
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From Area C to water ways: Milan rediscovers a touristic vocation
Antonello Boatti*, Federica Zambellini**
abstract Il saggio si propone di mettere in relazione un originale progetto dell’autore sulla riapertura degli storici Navigli di Milano e la costruzione di un nuovo paesaggio urbano, con il rilancio della vocazione turistica della città. La riapertura dei Navigli Milanesi è facilitata dai provvedimenti di limitazione del traffico nel centro della città attraverso la formazione di Area C sottoposta a Congestion – Charge. Inoltre il nuovo Piano di Governo del Territorio inserisce un tracciato di riapertura dei Navigli sottoponendolo ad uno studio di fattibilità. Il saggio si conclude sottolineando il valore paesaggistico dell’inserimento dei canali nelle prospettive milanesi dalle periferie al centro, mettendo in luce prestigiosi nuovi punti di vista su monumenti di eccellenza di Milano, quali il Palazzo del Senato, la Chiesa di San Marco e la Darsena, storico porto della città.
abstract The paper aims to relate the author’s original project on the reopening of the historic canals of Milan and the construction of a new urban landscape, under the revival of tourism in the city. The reopening of these canals is facilitated by measures restricting traffic in the city centre through the formation of Area C, subject to Congestion – Charge. Moreover, the new Urban Plan places a track for the reopening of the city’s canals, subjected to a feasibility study. The essay concludes by emphasizing the scenic value of the insertion of canals in the perspective lines that develop from the peripheries to the centre of Milan, highlighting in new ways some of the city’s most important monuments, such as the Senate house, the Church of San Marco and the Docks, Milan’s historic city port.
parole chiave Rilancio turistico, riapertura dei Navigli, paesaggio urbano, nuove prospettive.
key-words Tourism revival, canal’s urban landscape, new perspectives.
reopening,
* Architetto. Professore Associato presso la Facoltà di Architettura e Società del Politecnico di Milano. ** Architetto.
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L’Osservatorio del Turismo dell’Università degli Studi di Milano Bicocca diretto dal Prof. Ezio 1 Marra nel febbraio del 2010 ha reso noto il risultato di una ricerca condotta sulla città di Milano ed altre principali città italiane in tema di turismo. In particolare è stato richiesto a turisti potenziali (francesi, inglesi e tedeschi), che erano stati all’estero negli ultimi cinque anni ma mai a Milano, di identificare quali fossero per loro le immagini più significative della città. Inoltre è stata indagata l’idea che i milanesi hanno della centralità del turismo e delle politiche turistiche nella loro città. Infine è stata sondata la qualità dell’immagine di Milano, percepita da turisti presenti in città. Un primo inquadramento mette in luce che dopo Venezia, Roma e Firenze, Milano è la città più nota in Italia. Tra coloro che hanno la consuetudine di viaggiare in Italia, Milano registra il maggior desiderio di visita da parte di coloro che non hanno mai avuto modo di essere presenti nella città. Se invece analizziamo la percezione di Milano da parte di visitatori che hanno soggiornato nella città vincolandoli a un massimo di tre risposte e quindi spingendoli a selezionare molto la loro scelta, si nota che il 25% degli intervistati ha impresso nella propria memoria il Duomo, il 17,6% lo shopping, il 17% il Teatro alla Scala e poi ancora nell’ordine del 10%, la moda e il calcio, mentre i musei, l’architettura, le chiese, la cultura e l’arte, il centro storico non superano mai ciascuna il 2,6% con un minimo dell’1% per il centro storico. Interessante è la definizione della città da parte degli abitanti. I milanesi continuano in
Da Area C alle vie d’acqua: Milano riscopre una vocazione turistica
maggioranza, contro ogni evidenza, a definire Milano una “città industriale” ed anche “città della scienza e della tecnologia” (oltre il 70% degli intervistati), mentre solo il 52% identifica Milano come “città turistica”, percentuale di molto inferiore rispetto alle città di Genova e Torino che vengono considerate “turistiche” dai propri abitanti nella misura rispettivamente dell’80% e del 70%. Di seguito si riporta una tabella, del medesimo Osservatorio del Turismo, in cui si evidenziano le azioni da intraprendere secondo i cittadini milanesi per riqualificare la città.
Figura 1. Studio tratto dall’Osservatorio del Turismo.
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Interessante e significativo il dato relativo alle opere recenti delle “Archistar” e cioè l’opinione sulla linea “verticalista” di tipo skyscraper, che mostra come più della metà dei milanesi (50,6%) sia perplessa o contraria verso questi sviluppi che ormai si consolidano nell’attività edilizia in città. Un ulteriore dato statistico interessante riguarda la tipologia dei turisti presenti a Milano: degli intervistati, il 37,2% è nella città per affari, il 22,8% per fiere, il 5,4% per congressi e cioè il settore business convoglia nel capoluogo lombardo il 65,4% dei turisti intervistati. Il loisir induce invece a venire a Milano il 34,6% dei turisti, di questi però solo un 17% viene nella città per vacanza. Appare quindi evidente che è la componente lenta, piacevole ed amichevole a mancare nella città, per arricchire e qualificare il flusso turistico. Infatti i viaggi per lavoro e per affari, certamente indispensabili per alzare il livello di internazionalizzazione della città, non portano automaticamente benefici strutturali aggiuntivi in termini di miglioramento della qualità della città e della vita in essa. Al contrario la valorizzazione degli itinerari e dell’offerta turistica contengono elementi positivi per tutta la città. Migliorare e riqualificare il paesaggio urbano di Milano favorisce il flusso turistico di qualità e offre in dono a tutta la città nuove opportunità per tutti. Un primo passo consistente verso quella città più amichevole e meno frenetica che si desidera, nella quale si possa vivere e respirare meglio, è stato compiuto dalla nuova Amministrazione Comunale di Milano eletta nel maggio 2011 che ha già attuato uno dei punti programmatici con i quali si era presentata ai cittadini per il voto e cioè la formazione di un’area sottoposta a Congestion – Charge denominata Area C.
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L’Area C, entrata in vigore a Milano dal 16 gennaio 2012 e attiva in via sperimentale per 18 mesi durante i giorni feriali dalle ore 7.30 alle ore 19.30, prevede che i veicoli privati e commerciali siano soggetti a nuove regole per accedere alla Zona a Traffico Limitato (ZTL) della Cerchia dei Bastioni attraverso l’attivazione di un ticket d’ingresso. L’accesso ad Area C avviene attraverso 43 varchi, di cui 7 a uso esclusivo del trasporto pubblico, sottoposti ad un continuo controllo tramite delle telecamere.
Figura 2. Individuazione dell’Area C nella città di Milano e indicazione dei varchi lungo la Cerchia dei Bastioni.
Durante tutto il periodo di sperimentazione il Comune di Milano misura con cadenza mensile l'efficacia del provvedimento attraverso l’analisi di diversi indicatori tra cui i flussi veicolari in ingresso, la velocità media di percorrenza, il rapporto flussi/capacità nell’ora di punta, la velocità dei mezzi di trasporto pubblico e la percentuale di incidenti. Nelle prime 15 settimane di applicazione del provvedimento “il calo complessivo del traffico in ingresso ad Area C, rispetto allo stesso periodo del 2011, è risultato pari al 34,3%, corrispondente in media a circa 2 46.200 ingressi/giorno in meno” .
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In termini assoluti, mediamente, gli ingressi giornalieri si sono assestati intorno a un valore di 88.500 unità contro il valore del medesimo periodo dell’anno precedente che era pari a circa 135.000 unità. Dati anomali si sono registrati in alcune settimane, in concomitanza di eventi particolari che hanno determinato in alcuni casi un aumento del traffico, (settimana degli eventi del Salone del Mobile) e in altri casi un calo del traffico (settimane caratterizzate da alcune festività come il 25 aprile e il 1 maggio). Nell’ambito del monitoraggio questi risultati risultano essere delle eccezioni e in quanto tali non risultano significativi. Confrontando gli indici di traffico a Milano tra il 2011 e il 2012 (per i mesi tra gennaio e aprile) è evidente un trend complessivo di forte riduzione del traffico veicolare urbano e in particolare nel primo quadrimestre 2012 il traffico complessivo a Milano è risultato inferiore rispetto a quello del medesimo periodo dell’anno precedente di quasi il 7%. Nei giorni feriali il calo di traffico è lievemente maggiore nella fascia oraria di applicazione dell’Area C, (-7%) rispetto a quanto si registra nell’arco dell’intera giornata il cui valore medio si attesta al -6,6%. In realtà chi attraversa a piedi o in bicicletta il centro di Milano scopre una nuova dimensione, determinata non solo da un maggior rilassamento negli spostamenti, complice un traffico inferiore e meno aggressivo, ma anche da una obiettiva diminuzione degli ingombri determinati dalle autovetture in movimento e in sosta rispetto al paesaggio urbano (viali, cortine edificate, monumenti e ambienti storici).
Da Area C alle vie d’acqua: Milano riscopre una vocazione turistica
I provvedimenti e i primi risultati emersi in città a seguito dell’introduzione di Area C sono un primo segnale che induce a pensare a un nuovo modo di vivere la città. Una zona ricca di storia e valori artistici, spesso negati dalla congestione, dal traffico e dalle innumerevoli automobili parcheggiate ovunque: in altri termini oggi la città inizia a riconquistare un’identità propria. È proprio Area C che sfata un primo tabù: in centro, a Milano, si può anche pensare di giungervi e di spostarsi principalmente con il mezzo pubblico, a piedi o in bicicletta. Un progetto che sicuramente potrebbe contribuire da un lato a ridurre ulteriormente il traffico (senza comunque compromettere le attività in essere nel centro) e dall’altro a riqualificare e rivitalizzare l’area della Cerchia dei Bastioni, valorizzando il paesaggio urbano in modo assai rilevante è quello di una possibile riscoperta e riapertura del tracciato dei navigli milanesi. Riportare l’acqua a Milano consentirebbe un rilancio della città dal punto di vista naturalistico/ambientale, culturale, turistico e sociale e del paesaggio urbano. Innanzitutto la conquista di nuovi spazi pubblici a tutto campo non per le automobili, ma per gli uomini: ciò che manca nella città così come è adesso. La mancanza di spazi pubblici e persino di edifici pubblici adeguati è una vecchia questione come ricorda lucidamente Giuseppe De Finetti: “che il solo Palazzo da gran signore del rinascimento, il solo edificio quadrato dotato di quattro fronti fu costruito a Milano da un genovese, il Marino. … e una specialissima avarizia architettonica da parte dei ‘magnati’, del ‘popolo grasso’ milanese, prevalse sempre sull’intenzione
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di contribuire con la propria casa all’ornamento della città. Tra i motti libertini del gran mondo nostrano vige tuttora il detto che la casa ha da essere ‘bela de denter, pei padroni, brutta de foera, pei mincioni’” (De Finetti 2002, pp. 51-52). Sui motivi di questa atavica mancanza di interesse “per il pubblico” De Finetti si attarda in una descrizione delle ipotesi possibili: “Quali le cause di questa insufficienza, di questa avarizia di spazio durata per tanti secoli? … E poi c'erano i briganti: tutti validissimi motivi per preferire di starsene ammucchiati, per evitare le piazze pubbliche, luoghi da buscarsi il contagio o prendersi, di notte, una coltellata. Misera, sordida doveva essere dunque la città recintata da Ansperto, quella che circa due secoli più tardi già osava far prepotenza ai Comaschi, ai Pavesi, ai Lodigiani, ai Vigevanesi, condurre guerre feroci e negare il tributo all'Imperatore del Sacro Impero Romano d'occidente di stirpe germanica” (ivi, pp. 33-34). Altresì interessante e attuale è la soluzione proposta da De Finetti per il quale, come per Leonardo da Vinci, l’idea vincente è nell’alternanza e compresenza di spazio pubblico e acqua naturalmente anch’essa pubblica. “Egli (Leonardo da Vinci ndr) pensa per prima cosa all'acqua; non a quell'acqua che già i medievali seppero addurre ai fossati di difesa, ma ad un'acqua che serva alla economia vitale della città, per l'irrigazione, i trasporti e l'igiene. “I fondi delle acque che sono dirieto alli orti sieno alti corne il piano delli orti e colle spine possino dare l'acqua ogni sera alli orti, ogni volta che s'ingorga alzando l'incastri un mezzo braccio”(ivi, pp. 44-45). De Finetti ragiona su una città che ha cancellato completamente, gradualmente e inesorabilmente le sue vie d’acqua.
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Apparteniamo a un’epoca positiva e programmatrice che si muove molto maldestramente quando entrano in campo dimensioni non quantificabili. Eppure anche queste dimensioni esistono e chiedono un loro spazio. Costeggiando dunque con qualche scopo i Navigli si poteva (…) scomporre il proprio agire in vista di un fine in una serie indefinita di atti minimi, autonomi e in se stessi sempre significativi (realizzando così di volta in volta l’archetipo dell’attraversare un ponte, dell’appoggiarsi a un parapetto, del guardare un portale o un albero.)” (Comolli 1994) La riconquista è un atto complesso che sarebbe banale catalogare come riapertura o addirittura come dicono alcuni detrattori, “riscoperchiamento”: in realtà si tratta di procedere con un progetto complessivo con molteplici scopi che spaziano da una nuova visione urbanistica della città a forme nuove di paesaggio urbano sino a giungere al rilancio turistico di Milano la cui necessità è testimoniata dagli studi di cui si è trattato nella prima parte di questo scritto.
Figura 3. Studio di Leonardo da Vinci per una nuova città con un sistema di strade su due livelli e canali, dal Codice B. Parigi, Bibliothèque de l’Institut de France.
La cancellazione dei navigli milanesi è l’atto definitivo concluso negli anni Sessanta del Novecento per trasformare Milano in città esclusivamente degli affari, della produzione e del commercio eliminando quei significati che altre città conservano gelosamente che si chiamano memoria storica, identità ed anche, come dice Marco Comolli, affabilità urbana. La perdita è mirabilmente da lui descritta nelle sue conseguenze fisiche, sociali, psicologiche e antropologiche nel suo La cancellazione dei navigli: “(…) una via cittadina ha una sua doppia dimensione e funzione: non può essere solo un luogo di razionali spostamenti, ma va considerata anche come luogo irrazionale di sentimenti e umano vagabondare. I Navigli, in questo senso non erano certo da meno: via di comunicazione e trasporto erano al tempo stesso una via adatta a passeggiate pensose e fantasticherie. In epoche precedenti questa doppia dimensione era sempre raggiunta con naturalezza, oggi non sembra esserlo più.
Figura 4. Lavori di copertura dei navigli in via Senato e in via San Marco e schema sintetico del sistema delle acque a Milano (1. dalle origini al 1157; 2. dal 1157 al 1400; 3. dal 1400 al 1500; 4. dal 1500 al 1600; 5. dal 1600 al 1750; 6. dal 1750 al 1929; 7. dal 1929 ad oggi).
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Da Area C alle vie d’acqua: Milano riscopre una vocazione turistica
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passare attraverso un processo democratico di verifica di cui il referendum di giugno 2011 è stato solo un primo passo. Deve verificarsi infatti un consenso molto alto, anche a livello dei quartieri, giacché si tratta di modificare abitudini, modi di vita e il paesaggio stesso della città, in modo rilevante. Per la verità modifiche ben più forti ed evidenti delle abitudini, dei modi di vita e del paesaggio urbano sono state eseguite a Milano negli ultimi dieci anni senza nessun consenso preventivo anzi in spregio a molte espressioni chiare di dissenso. Basta fare attenzione alla prospettiva che si percepisce da Corso Garibaldi verso Corso Como dirigendo lo sguardo verso Porta Nuova annichilita dallo skyline aggressivo e prepotente della Torre Unicredit di Cesar Pelli o la vista che si genera dagli storici Bastioni del passeggio di Porta Venezia verso l’incredibile sagoma della Torre Diamante dell’architetto Kohn Pederson Fox.
Figura 5. Il naviglio interno in via Senato.
Un progetto complessivo che avrà come obiettivo la risistemazione della Darsena e la riapertura della fossa interna e della Martesana fino a Cassina de’Pom e che necessariamente dovrà
Figura 6. La Torre Unicredit di Cesar Pelli vista da Corso Garibaldi e la Torre Diamante di Kohn Pederson Fox vista da Piazza della Repubblica.
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Gli obiettivi del progetto di riapertura del sistema dei navigli milanesi possono essere riassunti in alcuni principi fondamentali: 1. Riqualificare le sponde della Martesana nel tratto in cui corre già oggi a cielo aperto 2. Rivitalizzare i corsi d’acqua esistenti diminuendo gli inquinanti 3. Valorizzare i Navigli come risorsa per tutta la città e per il suo sviluppo turistico con il recupero dei tracciati storici che escono nuovamente allo scoperto consentendone la navigabilità 4. Catalizzare lungo il nuovo tracciato gli elementi fondamentali della qualità ambientale quali le aree verdi, le piste ciclabili, i beni storico ambientali, le isole pedonali 5. Far scorrere nel nuovo manufatto l’acqua della Martesana. Il progetto dunque prevede la riapertura degli storici tracciati dei navigli attraverso un nuovo manufatto, salvo il recupero delle sponde storiche ove sia possibile, ad esempio nel tratto di Conca dell’Incoronata. In particolare attraverso il percorso del naviglio “ritrovato” si dovrebbero collegare tra loro i due tratti ancora esistenti in città e in particolare la zona nord est con quella sud ovest e cioè la Martesana di Cassina de Pomm con la Darsena e con il Naviglio Grande e Pavese. Gli interventi sostanziali di questo progetto da un lato cercano di valorizzare, migliorare e riqualificare i tratti di Navigli ancora esistenti (Naviglio Martesana verso nord e Darsena, Naviglio Grande, Naviglio Pavese verso sud) e dall’altro di recuperare e riscoprire i percorsi ormai coperti o addirittura cancellati da Cassina de Pomm, a via
Figura 7. Il tracciato del progetto di riapertura dei navigli milanesi da Cassina de Pomm alla Darsena passando lungo la Cerchia interna dei Bastioni.
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Melchiorre Gioia, via San Marco, via Fatebenefratelli, via Senato, Via San Damiano, via Visconti di Modrone, via Francesco Sforza, via Santa Sofia, via Molino delle Armi, via de Amicis e via Conca del Naviglio. Nell’ambito di tale progetto urbano, che si snoda lungo circa 11 Km, dovrà essere data precedenza al recupero di alcuni tratti esistenti e da tempo abbandonati che necessitano interventi di qualità come per esempio la Darsena che certamente, recuperando il valore storico di porto di Milano, può riconquistare la sua funzione di servizio alla città diventando un luogo di forte attrattività turistica. La riqualificazione della Darsena diventando un importante polo di interesse per la città determina nel contempo nuovi sviluppi di tipo economico, sociale, ricreativo e culturale quale nuova porta per l’ ingresso a Milano di flussi turistici. Questi interventi da eseguire su realtà tutto sommato ancora esistenti in città, non vogliono tuttavia rimanere degli episodi isolati, ma sospingono l’intero progetto di riqualificazione e riapertura dei navigli, per ricostituire un nuovo sistema delle acque a Milano e oltre. Infatti il tracciato che ripercorre sostanzialmente i Bastioni della città è organicamente collegato a un sistema più esteso e continuo che coinvolge non solo l’hinterland milanese, ma si spinge oltre ad est sino all’Adda e a ovest sino al Ticino e più oltre sino al lago Maggiore e alla Svizzera. Il progetto quindi acquista così un valore turistico a scala più ampia che non si limita al territorio comunale di Milano, ma attraverso un percorso continuo si estende verso i territori del milanese alla scoperta di valori ambientali quali il Parco Regionale dell’Adda e il Parco Regionale del Ticino.
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Da Area C alle vie d’acqua: Milano riscopre una vocazione turistica
Figura 8. Darsena - Lo stato dei luoghi e il progetto di riqualificazione dell'architetto francese Jean François Bodin.
Attraverso il progetto di riapertura dei navigli e quindi attraverso il completamento del sistema precedentemente citato Adda – Navigli – Ticino da un lato si riconquistano i valori storici, monumentali di Milano e dall’altro si riscoprono elementi di pregio dal punto di vista ambientale e del paesaggio.
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Figura 9. Il sistema delle acque da Locarno a Milano e il sistema dei navigli dall’Adda a Parco del Ticino.
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Il nuovo tracciato dei navigli è di conseguenza una sorta di volano complessivo del turismo e in particolare di un turismo rivolto al patrimonio monumentale, recuperando parte della storia e dell’identità propria di Milano e nel contempo di un turismo che guarda all’ambiente, con la scoperta di luoghi e ambiti meno urbanizzati rispetto a quelli della città e caratterizzati da elementi di pregio paesaggistico e naturalistico. Partendo dall’Adda passando per Milano e giungendo al Ticino, è possibile tracciare itinerari verdi e storici sempre segnati dalla presenza dell’elemento acqua quale catalizzatore e filo conduttore di un nuovo turismo di qualità. L’intervento nel territorio milanese risulta fondamentale per completare la rete a scala provinciale e regionale che consentirebbe una reale fruibilità del sistema, incentivando tra l’altro il turismo non solo locale ma anche d’oltralpe e comportando anche la valorizzazione storica e ambientale del paesaggio urbano. Lo stesso Stendhal, amante e appassionato dell’Italia, scrisse che “Il paese che si attraversa è il più ricco d’Europa. Ovunque si scorgono i canali d’acqua corrente che gli danno fertilità: si costeggia il canale navigabile per mezzo del quale si può andare in battello da Milano a Venezia o in America!...” (Stendhal 1826) Infatti, attraverso una realizzazione del progetto per fasi come descritto nel Documento redatto a cura del Gruppo di Lavoro “Navigli” del comitato referendario in cui spiccano i contributi di Guido 4 5 Rosti e Empio Malara , è possibile pensare a una concreta formazione del sistema e del ripristino delle vie d’acqua dal Lago Maggiore via Malpensa con il recupero della Darsena e delle conche nonché a una riattivazione idraulica e paesaggistica dell’intero Sistema dei Navigli.
Un primo obiettivo può essere quello di individuare quale intervento sul Sistema dei Navigli può essere realisticamente e concretamente concepito, progettato e realizzato in connessione con l’evento EXPO del 2015. Questo intervento può costituire la prima fase di un percorso più ampio che conduca verso la completa riattivazione dell’intero Sistema. Tale riattivazione non può prescindere dal recupero della funzione originale e primaria dei canali milanesi, ovvero della loro navigabilità, utilizzata nel passato per il trasporto delle merci e oggi reinterpretabile in una navigazione di tipo turistico (e, in minore parte, di trasporto pubblico “lento”) lungo gli itinerari culturali, artistici ed enogastronomici che collegano Milano al territorio della Martesana, al Pavese e al Ticino. Il carattere turistico che si determina con il recupero della navigabilità dei Navigli è implementato dalla valorizzazione degli itinerari ciclabili previsti lungo il percorso delle vie d’acqua. Quindi, dopo il ripristino di un itinerario navigabile e ciclabile dal Lago Maggiore a Milano con il recupero della Darsena, la riattivazione delle conche di Viarenna e dell’Incoronata e la realizzazione di un itinerario ciclo-pedonale lungo la Cerchia del Naviglio interno preparatorio ed evocativo della futura riapertura dell’intero sistema, il progetto nel suo complesso potrebbe essere suddiviso in ulteriori fasi. In particolare la riattivazione della navigazione tra la Darsena di Milano, Pavia e il fiume Ticino con il ripristino delle Conche di navigazione, l’eliminazione degli ostacoli alla navigazione (ponti a raso) e la riattivazione della scala d’acque da Pavia al fiume Ticino. Un’ulteriore fase potrebbe prevedere il ripristino del collegamento navigabile tra il Lago di Como e il Laghetto di San Marco a Milano, con la riattivazione
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Figura 10. Conca dell’Incoronata, stato dei luoghi e progetto di riapertura del naviglio.
del naviglio di Paderno, la riattivazione delle conche di navigazione e l’eliminazione degli ostacoli alla navigazione (ponti a raso) lungo il Naviglio della
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Martesana e il ripristino a cielo aperto del tratto urbano del Naviglio della Martesana lungo via Melchiorre Gioia e via San Marco a Milano. Completa il quadro degli interventi l’individuazione di modalità idonee sotto il profilo urbanistico ed idraulico, per la riattivazione della Fossa interna quale collegamento idraulico del baricentro del sistema nel suo complesso, per consentire progressivamente con la riapertura della Martesana e della Cerchia dei Navigli, la creazione di un sistema di trasporto pubblico sull’acqua che abbia l’ambizione di collegare i lunghi tragitti attraverso i navigli già aperti con un’inedita esplorazione delle aree nella città di Milano, bagnate dagli storici tracciati. Lungo i navigli ritrovati di Milano (in corrispondenza proprio del limite che definisce l’Area C) la qualità della vita e della città conoscerebbero un picco positivo senza provocare disagi o perdita di diritti ai cittadini residenti poiché i navigli possono convivere con corsie veicolari per i residenti e per le situazioni di servizio, emergenza e commercio. Personalità di rilievo internazionale quali Umberto Veronesi, Gillo Dorfles ed Ermanno Olmi, in modi diversi, oltre a ricordare con nostalgia non oleografica il fascino di Milano città d’acqua, a più riprese hanno auspicato il ritorno dei canali come portatori di linfa nuova alla città. Quasi una vertigine e comunque un’emozione profonda si prova ad immaginare il ritorno dei canali a lambire il Palazzo del Senato o a ridisegnare attorno alla chiesa di San Marco la storica prospettiva della “volta” tra via San marco e via Fatebenefratelli. È evidente quindi come Area C risulti strategica per il perseguimento di questo progetto che può arricchire Milano e gran parte della pianura lombarda, definendo e recuperando il valore storico
Da Area C alle vie d’acqua: Milano riscopre una vocazione turistica
del territorio e del paesaggio segnato da numerosi canali e vie d’acqua, alla riscoperta di una vocazione turistica sottovalutata.
Milano può assumere tra gli altri i caratteri di una “città turistica” in cui i visitatori si rechino non solo per motivi di lavoro, ma anche per soggiorni di vacanza durante i quali possano conoscere la cultura locale e il patrimonio della città e del territorio grazie anche al potenziamento di musei, strutture e luoghi storici resi evidenti dai navigli ritrovati. Alla base di questo obiettivo per la città è fondamentale migliorare l’accoglienza ai turisti, offrendo maggiori opportunità e coinvolgendoli in esperienze indimenticabili che possano rendere più gradevoli e suggestivi i lori soggiorni durante i quali sia possibile lasciare in loro una traccia di “Milano città d’acqua”, tra i ricordi più vivi della città.
Riferimenti bibliografici
Figura 11. Incrocio tra via San Marco e via Fatebenefratelli, stato dei luoghi e progetto di riapertura del naviglio.
Un progetto di queste caratteristiche e dimensioni è l’occasione per un vero sviluppo sostenibile della città e della Regione Lombardia ed offre potenzialità multiple nel settore del turismo. Infatti, oltre ad attraversare territori di elevatissimo pregio culturale - storico e di straordinaria bellezza ambientale, il tracciato interseca in più punti la grande viabilità nonché la zona di Malpensa penetrando poi nel centro e nel tessuto storico della città di Milano e svolge quindi una funzione di presentazione paesaggistica della città del tutto nuova.
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Milano costruzione di una città,
Figura 4: elaborazione degli autori da fonti diverse. Figura 5: D’Amia G., 2002, Il naviglio tra via Senato e via Fatebenefratelli, in CORDANI R.( a cura di), I Navigli – da Milano lungo i canali, la bellezza nell’arte e nel paesaggio Edizioni CELIP Milano, p. 252. Figura 6: Federica Zambellini. Figura 7: Progetto di riapertura dei Navigli, di Antonello Boatti. Figura 8: http://www.comune.milano.it. Figura 9: Elaborazione degli autori da fonti diverse. Figura 10: Progetto di riapertura dei Navigli, di Antonello Boatti. Figura 11: Progetto di riapertura dei Navigli, di Antonello Boatti.
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Riferimenti digitali www.comune.milano.it
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Testo acquisito dalla redazione nel mese di luglio 2012. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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Professore ordinario di Sociologia dell’ambiente e del territorio (Dipartimento di Sociologia e Ricerca sociale) presso la facoltà di Sociologia dell’Università degli Studi di Milano Bicocca. Principali interessi di ricerca sono rivolti alla Sociologia Urbana e alla Sociologia del Turismo e del Tempo Libero. È coordinatore del Corso di laurea in "Scienze del Turismo e Comunità Locale". 2 Tratto dalla relazione di monitoraggio Area C – Sintesi risultati al 30 aprile 2012, Agenzia Mobilità Ambiente e Territorio, direzione e coordinamento: Comune di Milano 3 Il referendum milanese del 12 e 13 giugno 2011 articolato su 5 quesiti in materia di Navigli così recitava: “Volete voi che il Comune di Milano provveda alla risistemazione della Darsena quale porto della città ed area ecologica e proceda gradualmente alla riattivazione idraulica e paesaggistica del sistema dei Navigli milanesi sulla base di uno specifico percorso progettuale di
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fattibilità?”. I votanti sono stati 489.727 pari al 49,09% degli aventi diritto al voto di cui il 94,32% ha votato SI e il 5,68% ha votato NO. 4 Guido Rosti milanese, laureato in Scienze Geologiche nel 1976 si è sempre occupato di ambiente e particolarmente di acque milanesi sia sotterranee che superficiali. È stato più volte membro di commissioni Regionali, Ministeriali e soprattutto Europee quale rappresentante Italiano ed ha realizzato o partecipato alla stesura di più di un centinaio di pubblicazioni tecniche relative alla tutela dell’ambiente e delle acque tra cui i navigli milanesi. 5 Empio Malara, laureato in architettura nel 1961, dal 1963 svolge libera professione di architetto, dedicandosi all’urbanistica e all’edilizia pubblica e sociale. Esperto in pianificazione urbanistica, territoriale e ambientale partecipa all’elaborazione di piani urbani e regionali in Calabria, Lombardia, Liguria, Emilia Romagna e Piemonte. Parallelamente all’attività professionale pubblica studi, promuove mostre e attività culturali, è presidente dell'Istituto per i Navigli - Associazione Amici dei Navigli che si occupa del recupero e della valorizzazione delle vie d'acqua interne, con particolare riferimento al sistema dei Navigli, considerato patrimonio collettivo di inestimabile valore. Gli obiettivi principali che vengono perseguiti attraverso studi e progetti si riferiscono ai possibili usi delle vie d’acqua interne, quali la navigazione, il recupero energetico, l'itticoltura, l'irrigazione, la valorizzazione ambientale e monumentale, lo sviluppo turistico, didattico e culturale. Tra gli obiettivi dell'Associazione Amici dei Navigli di particolare rilievo è quello che prevede la riapertura della via d’acqua che collega la Svizzera al mare Adriatico, per ripristinare la navigazione a scopo turistico lungo l'idrovia Locarno-Milano-Venezia.
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paesaggi in gioco
Paesaggi d’eccezione, paesaggi del quotidiano. I casi di Cinque Terre, SaintÉmilion, Tokaj
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Exceptional landscapes, daily life landscapes: Cinque Terre, Saint-Émilion, Tokaj
Maristella Storti*
abstract Il progetto “Paesaggi d’eccezione, paesaggi del quotidiano. Un’analisi comparativa di siti viticoli europei del Patrimonio mondiale”, svoltosi tra il 2006 e il 2008, si è inserito nel Programma di Ricerca “Paesaggio e Sviluppo Durevole” elargito nel 2005 dal Ministero dell’Ecologia francese. Lo studio ha previsto la lettura comparata delle modalità di costruzione del “valore universale eccezionale” che legittima l’iscrizione dei “paesaggi culturali” delle Cinque Terre, di Saint Émilion e di Tokaj al Patrimonio Mondiale dell’Umanità tra il 1997 e il 2002. Tre siti vitivinicoli dove l’eccezionalità e la quotidianità convivono in modi diversi e dove l’idea di conservazione e di “mummificazione” di un certo quadro paesistico di pregio deve misurarsi con le prerogative dello sviluppo durevole.
abstract The project “Exceptional landscapes, daily life landscapes. A comparative analysis of european wine countries of World Heritage”, carried out between 2006 and 2008, has been included in a Research Programme “Landscape and Durable Development” issued by the French Environment Ministry in 2005. The study foresaw the comparative analysis of the local appropriation of the “exceptional universal value” that legitimates the inscription of the “cultural landscapes” of the Cinque Terre, of Saint Émilion and of Tokaj to the World Heritage for Humanity between 1997 and 2002. Three wine countries where the exceptional and daily life are together in different ways and where the idea of conservation and of “mummification” of a certain valuable landscape, must take into account the prerogative of durable development.
parole chiave Paesaggi culturali, valore universale eccezionale, siti vitivinicoli, analisi comparativa, sviluppo durevole.
key-words Cultural landscapes, exceptional universal value, wine countries, comparative analysis, durable development.
* Dottore di ricerca in Progettazione Paesistica presso l’Università degli Studi di Firenze.
Ri-Vista ricerche per la progettazione del paesaggio Dottorato di Ricerca in Progettazione Paesistica I Facoltà di Architettura I Università degli Studi di Firenze
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Siti d’eccezione e turismo Il progetto internazionale e interdisciplinare “Paesaggi d’eccezione, paesaggi del quotidiano. Un’analisi comparativa di siti viticoli europei del Patrimonio mondiale”, svoltosi tra il 2006 e il 2008, risponde al Programma di Ricerca “Paesaggio e Sviluppo Durevole” elargito dal Ministero dell’Ecologia francese1 nel 2005. Il metodo adottato ha previsto la lettura comparata del processo d’iscrizione al Patrimonio Mondiale dell’Umanità dei tre “paesaggi culturali”2 di: “Cinque Terre, Portovenere e isole” in Italia, “Saint-Émilion” in Francia e “Tokaj-Hegyalja” in Ungheria. Si sono approfondite le singole realtà paesistiche dal punto di vista storico, politico, culturale e socio-economico valutando il modo in cui gli attori locali e gli abitanti “ordinari” hanno “vissuto” l’iscrizione UNESCO, ottenuta dai tre siti tra il 1997 e il 20023. Lo studio, nei tre casi, è stato articolato in diverse fasi di lavoro: la messa a punto di questionari-tipo per le interviste ai soggetti pubblici e agli abitanti; l’analisi dell’iconografia territoriale nella lunga durata storica; la costruzione di “scenari” paesistici e di griglie sintetiche di comparazione in relazione ai singoli processi d’iscrizione4. Nel progetto, l’idea di fondo è che spesso si è di fronte a una “costruzione” discrezionale dell’eccezionalità, cioè ad una “rappresentazione paesistica” (simbolica e identitaria) frutto di scelte locali e strategiche che possono essere, secondo i casi, più o meno comprese e condivise dagli abitanti. Questo perché, in primo luogo, al momento dell’avvio del processo d’iscrizione, è un numero limitato di soggetti pubblici che si assume la responsabilità di produrre il dossier di candidatura
Paesaggi d’eccezione, paesaggi del quotidiano. I casi di Cinque Terre, Saint-Émilion, Tokaj
che, pur rispondendo ai criteri stabiliti dall’UNESCO, sovente contiene prolisse descrizioni dovute all’esaltazione di valori particolari, superlativi e trascendenti, che conducono inevitabilmente a influenzare l’immagine “ufficiale” dei luoghi. Secondariamente, l’iscrizione “amplifica” l’effetto di “mondializzazione” degli spazi locali, ovvero conferisce loro un valore aggiunto, potenzialmente esportabile in tutto il mondo. Lo sviluppo turistico, di contro, può incidere negativamente sull’integrità del paesaggio, in modo particolare laddove quest’ultimo risulta più vulnerabile al cambiamento. Per questo motivo, il progetto ha voluto indagare come tre regioni vitivinicole, espressione di differenti contesti socioculturali appartenenti ad aree protette, riescano a coniugare la salvaguardia dell’identità locale con le logiche della crescita economica.
Cinque terre: il parco dell’uomo Le Cinque Terre caratterizzano l’estrema Liguria orientale, tra Levanto e La Spezia, per un totale di 3.800 ha di superficie divisa tra i comuni di Riomaggiore, Vernazza e Monterosso al Mare. Questo tratto di costa è connotato da circa 6.000 Km. di muretti a secco che si susseguono parallelamente tra il mare e il crinale montano, dando vita a un paesaggio “vivente”5 di straordinaria bellezza. La coltivazione della vite ha avuto un ruolo-chiave nella rappresentazione dell’identità locale in quanto causa della trasformazione dei versanti, tanto che ancora oggi lo spettacolo di geometria e plasticità delle terrazze viticole rappresenta il carattere fondamentale del paesaggio6. Questa peculiarità ha fatto sì che nel dossier di candidatura al Patrimonio
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Mondiale dell’Umanità del 1995, si giustificasse una delimitazione territoriale più piccola rispetto al contesto dell’estremo levante ligure fino ad allora contemplato dalla pianificazione regionale7, ovvero relativo al sito di Cinque Terre, Portovenere e isole, poi iscritto nel 1997. Nel 1999, rievocando la prima citazione delle “cinque terre” del 14488, ovvero altrettanti borghi costieri liguri identificati dall’eccellente vino ivi prodotto, nasce il “Parco Nazionale delle Cinque Terre” corrispondente ad un territorio ancor più circoscritto, già riconosciuto nel 1973 dalla “Cooperativa Viticola delle Cinque Terre” per l’identificazione dell’area a Denominazione di Origine Controllata (D.O.C.), che esclude il comune di Portovenere con le sue isole. Un Parco Nazionale che, identificato come “Parco dell’Uomo”, ha messo al centro della sua attività la perpetuazione dell’identità dei luoghi e il ricordo del lavoro immane delle generazioni passate. In questi anni, le immagini d’epoca sono state proposte al visitatore come prova del forte legame tra passato e presente che non s’incarna in un patrimonio passivamente riconosciuto, ma in una vera continuità d’azione, che lega i protagonisti attuali della scena paesistica ai loro gloriosi antenati. Nel dossier di candidatura UNESCO, la storia delle Cinque Terre è presentata come l’impresa eroica compiuta dall’uomo per “lottare” contro una natura ostile9. Vi sono citati dei momenti ritenuti emblematici per la storia di questo paesaggio: l’XI secolo, con la nascita dei borghi costieri e lo sviluppo della viticoltura a terrazze; la costruzione della ferrovia Genova-La Spezia nella seconda metà del XIX secolo; l’arrivo della fillossera (1920) e l’apertura della “Strada Statale Litoranea delle Cinque Terre” (1964-70). In particolare, la realizzazione di nuove vie di comunicazione è presentata come l’inizio di una nuova epoca post-
paesaggi in gioco
tradizionale. A partire dagli anni 1970-80, infatti, dopo forti cambiamenti economici e sociali, le terrazze viticole e i presidi rurali furono gradualmente abbandonati. Se agli inizi del XX secolo in tutte le Cinque Terre gli ettari di terreno coltivati dovevano essere circa 1.700, nel 1970 si ridussero a 1.200, nel 1999 scesero drasticamente a 110, fino a quelli attuali ancora inferiori che sfiorano l’1% del territorio in questione. Di contro, si stima che oggi il flusso turistico abbia superato i 3 milioni di visitatori all’anno. Le politiche condotte dal Parco per preservare il sito e produrre lo sviluppo economico fanno parte dello spettacolo offerto ai turisti: pannelli, guide, mappe virtuali, televisione locale, spiegano e commentano le azioni messe in atto, la filosofia che le ispira, la situazione alla quale rispondono. I progetti pilota per il recupero delle terrazze viticole e gli esperimenti agronomici hanno espresso la volontà di ritrovare una nuova ragione d’essere alle “buone pratiche” del passato, come se le vicissitudini storiche del sito legittimassero le scelte attuali, mentre le cooperative create dal Parco si sono occupate della gestione dei terreni, della rete escursionistica e dei servizi di accoglienza e ricettività turistica. Inoltre, hanno preso avvio nuove iniziative private da parte di giovani imprenditori che si sono consorziati per incentivare la produzione dei vini D.O.C. “Cinque Terre” e “Sciacchetrà”. In definitiva, il paesaggio delle Cinque Terre, almeno quello che traspare dai colloqui con gli attori locali, sembra un archetipo di paesaggio “eroico”, teatro di azioni umane “edificanti” in vista di un paradiso post-moderno, dove la realtà non emerge dalle parole e dagli sguardi, ma dalle immagini.
Tuttavia, l’ascolto degli abitanti restituisce anche molti punti di criticità del sito, come lo stato di abbandono delle terrazze e dei presidi rurali, l’età elevata degli ultimi viticoltori e l’estremo frazionamento della proprietà terriera che rende difficilissimo creare aziende economicamente sostenibili. L’orgoglio di essere parte di un Patrimonio riconosciuto universalmente non esime dal rilevare le ricadute negative del turismo “di massa”, ossia l’affollamento dei borghi in tutto l’arco dell’anno, l’aumento dei prezzi, specie del patrimonio immobiliare, e della manodopera impiegata nel turismo a discapito di quella che sarebbe necessario si dedicasse alla manutenzione del territorio viticolo. Paradossalmente, si continua ad alimentare un sistema socio-economico che vede l’uomo girare le spalle alla montagna, ovvero proprio all’ambito che ha reso le Cinque Terre famose in tutto il mondo.
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Figura 2. La costa delle Cinque Terre.
Figura 3. Il logo del Parco Nazionale delle Cinque Terre.
La Giurisdizione di Saint-Émilion: “paesaggio-scrigno” al terroir viticolo
Figura 1. Cinque Terre, Portovenere e isole; il confine del sito iscritto al Patrimonio Mondiale dell’Umanità.
dal
Tra Libourne e Castillon, 40 Km circa a nord-est di Bordeaux, il borgo di Saint-Émilion si trova nel cuore del Dipartimento della Gironde e domina la valle della Dordogne.
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Nel dossier di candidatura UNESCO, il paesaggio culturale di Saint-Émilion è descritto mettendo in evidenza i due patrimoni - architettonico e urbano da un lato, viticolo dall’altro - nei quali sembra risiedere simultaneamente l’eccezionalità del luogo. C’è, evidentemente, una visione “monumentalista” del valore del sito che ispira sia il primo progetto d’iscrizione del 1993, sia il secondo del 199810; l’autenticità, l’armonia, la continuità appaiono innanzitutto negli “edifici eccezionali, tanto nella loro architettura che nei capisaldi storici e spirituali del borgo, in cui tutte le epoche di costruzione coesistono armoniosamente in un’unità di pietra”11. I vigneti assumono una consistenza paesistica ben precisa che si riflette in descrizioni molto elaborate e non a caso il sito UNESCO ricopre quasi esattamente l’area dell’Appellation d’Origine Contrôlée (A.O.C.) che per 5.400 ha si estende su 8 comuni identificati12, dopo l’iscrizione, come formanti la “Giurisdizione di Saint-Émilion”13. Qui non emerge così chiaramente come per gli altri siti una “Età dell’Oro” fondatrice della tradizione, sebbene il Medioevo sia riconosciuto come momento storico d’eccellenza per il valore religioso e architettonico di Saint-Émilion, grazie alla presenza di un monastero benedettino che diede vita al borgo, nonché come epoca in cui questa cittadina diventò capitale della Juridiction. Il dossier evidenzia anche il “ruolo morale” della Jurade, un ordine garante delle buone pratiche agricole e composto dai Consoli del borgo che, soppresso nell’epoca rivoluzionaria, fu ripristinato nel 1948 a testimonianza della volontà di garantire l’origine, l’autenticità e l’alta qualità dei vini locali. Nella seconda metà del XVIII secolo, alcuni grandi proprietari tentarono nuove sperimentazioni (nella preparazione dei terreni, nella scelta dei vitigni, nel processo di vinificazione, ecc.) che portarono alla
Paesaggi d’eccezione, paesaggi del quotidiano. I casi di Cinque Terre, Saint-Émilion, Tokaj
nascita di proprietà viticole specializzate chiamate crus e alla creazione di grandi poderi viticoli con meravigliosi e innumerevoli châteaux14. Sebbene il XVIII secolo sia presentato nel dossier come un’epoca gloriosa, durante la quale il vino di SaintÉmilion cominciò ad acquistare fama mondiale, la seconda metà del XIX secolo è ritenuta, malgrado la fillossera, il momento-chiave dell’avvio del sistema della monocoltura e della costruzione del paesaggio viticolo attuale15. L’anno 1853 è citato a più riprese come l’inizio di un nuovo sviluppo economico dovuto alla realizzazione della linea ferroviaria tra la Regione e Parigi. Mentre i promotori dell’iscrizione delle Cinque Terre associano questo tipo d’opportunità infrastrutturale al declino, i Francesi la riconoscono come l’origine stessa di una prosperità locale che si è tradotta nell’espansione del vignato. In epoche recenti, la monocoltura della vite e la produzione del vino di alta qualità riguarda solo l’area circostante Saint-Émilion, dove sono situati i castelli e le proprietà più prestigiose. Fatti come la creazione nel 1884 del primo Sindacato viticolo e la nascita, nel 1931, della prima Cooperativa della Gironde16, che raggruppa oggi circa un terzo dei viticoltori locali, sono ascrivibili al processo di specializzazione vitivinicola di questo territorio rispetto alla realtà regionale. Qui le aziende sono ancora a “scala umana”, “familiare” e l’iscrizione al Patrimonio mondiale sembra essere sentita come l’occasione per difendere un certo modello agricolo tradizionale in un contesto di financiarisation e di managérisation del territorio bordolese, con l’inserimento nel sistema viticolo di grandi imprese multinazionali. Saint-Émilion non sembra sfuggire a questo movimento, avviato già dagli anni Settanta del Novecento; tuttavia qui sembra ancora molto forte
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l’impronta dell’identità viticola locale composta da piccole proprietà a conduzione familiare e soprattutto da grandi poderi relativi ai castelli. Questi ultimi corrispondono alle potenze familiari che, detenendo la terra e il savoir-faire trasmesso di generazione in generazione, hanno da sempre avuto la meglio sul mercato viticolo, potendo promuovere i loro “marchi” di qualità. Per ovviare a questa tendenza élitaria, il processo d’iscrizione ha contribuito ad estendere il concetto di terroir17 privato (bene proprio di una classe sociale radicata che utilizza e valorizza a proprio vantaggio la specificità di uno spazio) ad una visione comunitaria della produzione e della promozione vitivinicola. La qualità della produzione viticola privata (connotata da diversi fattori, come il tipo di vitigno, il gusto, il castello d’appartenenza, il design dell’etichetta, ecc.) ha iniziato ad essere prerogativa comune grazie all’istituzione, nel 2001, della Communauté de Communes de la Juridiction de Saint-Émilion18 che ricalca significativamente il territorio tutelato dall’UNESCO. Le politiche pubbliche adottate dopo l’iscrizione tendono altresì a difendere i valori architettonici del sito e molti produttori di Grands Crus giocano un ruolo importante anche nella preservazione dei monumenti locali, in un contesto strategico tra recupero dell’esistente e promozione turistica. Di contro, come nelle Cinque Terre, gli abitanti di Saint-Émilion si sentono parte di un contesto eccezionale, ma segnalano diverse ricadute negative dell’iscrizione, come la salvaguardia esclusiva dell’aspetto monumentale del sito, il rapido elevarsi del valore immobiliare e lo spopolamento del centro storico a favore di forti speculazioni edilizie che hanno puntato sulla ricettività turistica.
paesaggi in gioco
In un contesto di mutazione delle strutture socioeconomiche e della “cultura” vitivinicola locale, quello che gli abitanti sperano (questione apertasi con la nascita della Communauté de Communes) è il consolidarsi di una visione nella quale la comunità locale s’identifichi: quella di un terroir viticolo come “bene comune”.
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Tokaj-Hegyalja: la “rinascita” di una grande “unità” viticola
Figura 5. Veduta panoramica di Saint-Émilion.
Figura 4. Il confine della Giurisdizione di Saint-Émilion.
Figura 6. Il logo della Giurisdizione di Saint-Émilion.
Il paesaggio viticolo di Tokaj-Hegyalja si sviluppa attorno al Monte Tokaj che si eleva a nord-est della vasta pianura ungherese. Ai suoi piedi si trova il borgo omonimo situato alla confluenza dei fiumi Tisza e Bodrog e principale polarità di un vigneto che un tempo ricopriva ininterrottamente circa 6.000 ha di territorio, ma che oggi occupa meno del 10% dei suoli dell’area iscritta al Patrimonio mondiale, dall’entroterra fino alla costa. Nel caso ungherese, il valore universale eccezionale è stato attribuito ad una grande area viticola composta da una “zona centrale” e una periferica, o “tampone”, caratterizzata da importanti cantine sparse sul vasto territorio19. Contrariamente a ciò che si è osservato nelle Cinque Terre, dove l’azione antropica è stata in grado d’invertire l’ordine naturale delle cose costruendo una vera e propria “repubblica agraria”, a Tokaj, da sempre e al meglio, sono state sfruttate le potenzialità naturali e climatiche in favore dello sviluppo della viticoltura20. Il dossier di candidatura insiste sull’antichità della zona vitivinicola delineata già nel Decreto Reale del 1737; sebbene questa delimitazione ufficiale sia presentata come la prima di questo tipo in Europa, essa non fa che riprendere un insieme di codici già in vigore dalla seconda metà del XVI secolo in Ungheria, sintetizzati nel 1610 in un unico “codice di Tokaj”, relativo all’organizzazione dei mercati di uve. Se nella seconda metà del XVI secolo comincia realmente ad affermarsi la vocazione vitivinicola di questa regione, nello stesso periodo e nei due secoli successivi sorgono le principali città-mercato di Sarospataki, Tokaj, Màd, Tarcal e Tallyà, che,
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con l’espandersi del commercio dei vini a scala europea, ne organizzano la produzione promulgando, malgrado l’opposizione dei feudatari, i primi regolamenti viticoli21, cioè norme per stabilire, in qualità e quantità, l’offerta dei vini di Tokaj. Nel dossier vengono omesse molte delle tappe principali della storia ungherese, come i complessi conflitti sociali relativi alle proprietà viticole e il ruolo delle città-mercato, menzionate piuttosto per il pregevole patrimonio architettonico ed urbano. Da questa descrizione emerge soprattutto il desiderio d’associare intimamente il sito all’identità ungherese (da qui l’insistenza messa sui legami privilegiati tra il vino di Tokaj e la dinastia transilvanese dei Rakoczi22) e di porre l’accento sulla “unità viticola” che trascende classi sociali e culture diverse che hanno caratterizzato, nel tempo, i flussi migratori di questa Regione. Il paesaggio è visto come il riflesso della competenza di un’élite locale, che inventò un tempo, e reinventa oggi, “il re dei vini e il vino dei re”23; un vino simbolo della libertà della nazione, invenzione di principi e aristocratici che ne hanno fatto un mito. Il carattere élitario di questa rappresentazione del vignato riguarda in particolare le ultime tappe della storia del sito, nelle quali è evocato il destino di Tokaj-Hegyalja dopo la Seconda Guerra Mondiale. Con la fine del comunismo, prende avvio una nuova economia vitivinicola basata su investimenti realizzati, dapprima, da imprese straniere, poi da ricchi Ungheresi, specie dopo il 1994, anno dell’entrata nella Comunità Europea dell’Ungheria. In particolare, sono state ri-create grandi proprietà (dai 50 ai 120 ha) utilizzando i terreni più prestigiosi corrispondenti agli antichi domini resi celebri dal Tokaj Album24, una raccolta d’incisioni
Paesaggi d’eccezione, paesaggi del quotidiano. I casi di Cinque Terre, Saint-Émilion, Tokaj
pubblicate nel 1867 (e riedite nel 2001) che, come le fotografie antiche nei paesaggi delle Cinque Terre, racconta per immagini il quadro quotidiano dell’esistenza. Infatti, le rappresentazioni della campagna serena, con colline ricoperte di vigneti a fare da sfondo ai graziosi villaggi, sono divenute l’incarnazione stessa della nuova “Età dell’Oro” di Tokaj-Hegyalja e la fonte di modelli paesistici associati all’irresistibile sogno di un ritorno al passato. Il dossier di candidatura non a caso parla di “rinascita”, alludendo al nome della Tokaj Renaissance25, l’Associazione che raggruppa i nuovi investitori che hanno puntato sia su produzione ed esportazione dei grandi vini di Tokaj, sia sul recupero del patrimonio architettonico favorendo anche l’iscrizione, nel 2002, al Patrimonio mondiale, in collaborazione con le istituzioni pubbliche. Tuttavia anche a Tokaj il termine “rinascita” tradisce la discrezionalità dei suoi promotori in quanto, confrontando la struttura fondiaria auspicata con quella più antica, si nota che il modello prescelto è quello del château bordolese impostosi alla fine del Comunismo e non quello del passato più lontano: la “rinascita” è dunque uno slogan elargito dai nuovi investitori che puntano sulla riconquista dei mercati vinicoli e sull’attrattiva turistica26. I nuovi poderi formano delle vaste unità omogenee che spiccano rispetto all’intorno, in generale composto da un misto di terreni incolti e di piccole particelle coltivate, con alberi fruttiferi e casette rurali disseminate qua e là. Contrariamente a quello che si è osservato a SaintÉmilion, il valore del “paesaggio culturale” di Tokaj appare indissociabile da questo nuovo
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paysagement privato che mette in scena il ritorno “strategico” delle proprietà viticole alla “tradizione”. I promotori di Tokaj hanno voluto tacere, o non hanno voluto vedere, la complessità paesistica tipica di questo territorio, così oggi molti turisti apprezzano l’esteriorità, il “pittoresco”, piuttosto che la stratificazione storica di una realtà che, comunque, porta le “stigmate” del suo passato. Infine, dalle interviste agli abitanti “ordinari”, emerge che l’iscrizione UNESCO è sicuramente motivo di orgoglio, ma è vissuta soprattutto come un’opportunità per uscire da un particolare periodo di crisi, in una realtà economica ancora difficile e dove l’offerta turistica è solo ai suoi esordi. Se il paesaggio viticolo risponde ad una particolare “messa in scena” a vantaggio di pochi, si auspica il ritorno, con ricadute collettive, a quella “unità” di intenti che ha caratterizzato l’espansione dei grandi vini di Tokaj nel mondo.
paesaggi in gioco
Figura 9. Il logo del sito UNESCO di Tokaj.
I tre siti a confronto
Figura 7. La zona “tampone” e il sito UNESCO di TokajHegyalja.
Figura 8. Veduta del paesaggio di Tokaj-Hegyalja.
L’iscrizione al Patrimonio mondiale di un paesaggio implica necessariamente, da un lato, la creazione di un nuovo limite territoriale di protezione e d’azione e, dall’altro, l’adozione di nuove modalità di gestione del sito conformi alle prerogative UNESCO. Nei tre casi studiati, il processo d’iscrizione è stato gestito da un gruppo limitato di attori che si sono fatti carico della composizione delle linee strategiche seguite per arrivare allo scopo. Nei tre siti, il dossier di candidatura è caratterizzato da prolisse descrizioni che vogliono dimostrare la legittimità del valore che si vuole attribuire ad un certo paesaggio, per esaltarne l’autenticità o l’integrità. La narrazione è sinonimo di racconto “eroico” dove emerge la nostalgia per un mondo perduto e l’idea di “paesaggio” si fonde in quella di “sito”, al punto da mettere in ombra l’oggetto stesso dell’iscrizione.
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Tutti e tre i documenti danno ampio spazio alla storia, ma la espongono in modo che risaltino le origini del sito piuttosto che i suoi cambiamenti, mettendo in evidenza i tempi gloriosi anziché le crisi. In una parola, è il passato che s’attualizza nel presente secondo scelte ben precise. Osservando i tre casi, si rileva che solamente alle Cinque Terre si è passati in breve dalla preparazione della candidatura alla sua accettazione da parte dell’UNESCO e il dossier è stato curato da parte di soggetti pubblici e studiosi locali, a differenza degli altri due casi in cui è stato messo a punto da esperti “esterni” che hanno mediato con gli attori locali. Nel caso italiano, inoltre, all’iscrizione al Patrimonio mondiale è seguita rapidamente la nascita del Parco Nazionale e di cooperative per incentivare lo sviluppo e il lavoro giovanile. Nei tre siti ugualmente l’attività vitivinicola rimanda a un momento storico ben preciso; un “mito fondatore” sul quale si sono costruite nella lunga durata le comunità locali. Tale mito risulta perpetuato nel presente e laddove è scomparso, viene volutamente ri-creato, come a Saint-Émilion con la “Giurisdizione”. Nuova dignità è stata data anche ai giochi d’immagine e di comunicazione contenuti nell’aspetto stesso del paesaggio; ciò è evidente in maniera emblematica nelle Cinque Terre (nelle vedute delle terrazze viticole dei primi decenni del XX secolo) e a Tokaj (nel recupero delle incisioni del Tokaj Album per ridar vita agli antichi poderi). I tre siti sono stati iscritti al Patrimonio mondiale dell’UNESCO perché si è esaltato il loro carattere vitivinicolo; in una parola, perché si sono considerati “paesaggi viticoli”27. Ora, la componente viticola, più volte ribadita, è presente in modo diverso nei tre casi: se oggi il
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vigneto occupa la maggior parte del suolo della Giurisdizione di Saint-Émilion (circa il 70%), esso non rappresenta che un decimo del territorio iscritto di Tokaj-Hegyalja e una parte infinitesimale (meno dell’1%) del sito di Portovenere, Cinque Terre e isole. È evidente, allora, che la presenza viticola è rilevante solo se associata al paesaggio e se posta sul piano visuale e soprattutto simbolico. L’analisi della lunga durata storica (scandita dai ritmi delle crisi e delle riprese, dall’uso e dall’abbandono dei terreni coltivati) ha rilevato che nei tre casi l’iscrizione al Patrimonio mondiale risulta un “momento” a cavallo tra la “crisi” o la “rinascita”. Infatti, si rileva la presenza di paesaggi “nuovi”, sorti nel corso della seconda metà del XX secolo con la specializzazione della vite rispetto all’antica policoltura (Saint-Émilion), o con l’abbandono delle terrazze viticole (Cinque Terre) o con l’inserimento del modello di château bordolese nel paesaggio tradizionale (Tokaj). Intervenendo in contesti differenti, l’iscrizione ha assunto tre ruoli diversi: 1) essere all’origine di una ricomposizione territoriale, nel caso delle Cinque Terre con la creazione di un Parco Nazionale onnipresente nella vita economica e culturale e a Saint-Émilion con la nascita della Communauté de Communes, nel 2001; 2) essere il risultato di un processo di ricomposizione fondiaria che ha la sue ragioni nella lunga durata, come nel caso di Saint-Émilion dove il territorio iscritto corrisponde a una circoscrizione medievale riesumata nel corso del XX secolo; 3) accompagnare un processo di sviluppo economico, come nel caso di Tokaj dove l’iscrizione favorisce una nuova economia viticola tesa alla produzione e commercializzare nel mondo dei grandi vini Tokaj.
Paesaggi d’eccezione, paesaggi del quotidiano. I casi di Cinque Terre, Saint-Émilion, Tokaj
Attualmente, sotto la spinta della pressione turistica, più o meno accentuata nei tre casi, queste realtà devono mediare l’eccezionalità con la quotidianità. Nei discorsi degli abitanti, infatti, si dà valore al legame con lo spazio vissuto e si individuano le singole componenti, le innumerevoli peculiarità di un “paesaggio intimo”, conosciuto palmo a palmo, che si oppone al “paesaggio vetrina”, omologato sotto certi aspetti, aperto al mondo e alla domanda turistica.
Riferimenti bibliografici AA.VV., 2010, Paysages d’exception, paysages au quotidien. Une analyse comparative de sites viticoles européens du Patrimoine mondial, Paris.
Riferimenti digitali UNESCO: http://www.unesco.org e http://whc.unesco.org ICOMOS: http://www.icomos.org UICN: http://iucn.org
Riferimenti iconografici Figura 1: AA.VV., Paysages d’exception…, op. cit., p. 351. Figure 2, 3: Archivio Parco Nazionale delle Cinque Terre. Figure 4, 6: AA.VV., Paysages d’exception…, op. cit., pp. 330 e 343. Figure 5, 8: Prof. O. Gabor (University d’agriculture SaintEtienne de Gödöllö – Hongrie), per gentile concessione. Figure 7, 9 : AA.VV., Paysages d’exception…, op. cit. , pp. 365 e 377.
Hinnewinkel J., 2004, Les terroirs viticoles. Origines et Devenirs, Ed. Féret, Bordeaux. Quaini M. (a cura di), 1981, La conoscenza del territorio ligure fra Medio Evo ed Età Moderna, Sagep Editrice, Genova.
Testo acquisito dalla redazione nel mese di aprile 2012. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
Repubblica d’Italia, 1995, “Dossier di presentazione di candidatura delle Cinque Terre all’iscrizione al Patrimonio Mondiale dell’Umanità”, Cinque Terre. Republic of Hungary, 2000, “The World Heritage Documentation for the nomination of the Cultural landscape of Tokaj Wine Region”, Budapest. Republique Française, 1998, “Vignoble et l’Ancienne Juridiction de Saint- Émilion. présentation en vue de l’inscription sur patrimoine mondial de l’UNESCO au titre culturel”, Rapport du cabinet Grahal.
villages de Dossier de la liste du de paysage
Szabo Y., Van Torok S., 2001, Tokaji-Hegyaljai album: Kiadja a Tokaji-Hegyaljai Bormìvelö Egyesület és elnöke báró Vay Miklós, Pest (ed. orig. 1867).
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Programme de Recherche “Paysage et Développement durable”, Appel à propositions de recherche MEDD 2005, Ministre de l’Écologie, de l’Énergie, du Développement durable et de l’Aménagement du territoire. Projet de Recherche “Paysages d’exception, paysages au quotidien. Une analyse comparative de sites viticoles européens du Patrimoine mondial”. 2 La presa di coscienza, dal 1992, dell’importanza dei “paesaggi culturali” da parte dell’UNESCO rappresenta un allargamento e un arricchimento della nozione di
paesaggi in gioco
“patrimonio culturale” (un tempo limitata solo ai monumenti, ai centri storici o ai complessi monumentali) da preservare e proteggere, in quanto rappresentativa di un patrimonio vivo, con un importante ruolo sociale. 3 Si tratta, in particolare, dei siti di: Cinque Terre, Portovenere e le isole Palmaria, Tino e Tinetto (1997); Juridiction de Saint-Émilion (1999); Tokaj-Hegyalja (2002). 4 Si veda AA.VV., 2010, “Paysages d’exception, paysages au quotidien. Une analyse comparative de sites viticoles européens du Patrimoine mondial”, Paris. Lo studio è stato compiuto da cinque équipes di ricerca diverse: CEPAGE (Centre de recherche sur l’histoire et la culture du paysage – École nazionale supérieure d’architecture et de paysage de Bordeaux); LADYSS (Laboratoire Dynamiques sociale set Recomposition des espaces – UMR 7533 du CNR – Paris); LEONARDO-IRTA (Istituto di Ricerca sul Territorio e l’Ambiente – Università di Pisa – Italia); KTI (Institut de Gestion de l’Environnement et du Paysage – University d’agriculture Saint-Etienne de Gödöllö – Hongrie); ADER (Unité Aménités et Dynamiques des Espaces Ruraux – CEMAGREF – Bordeaux). 5 Nel 1992 l’UNESCO, in collaborazione con l’IUCN (Unione Internazionale per la Conservazione della Natura e delle sue Risorse) e l’ICOMOS (Consiglio Internazionale dei Monumenti e Siti), classificò i paesaggi culturali del mondo in tre diverse categorie: il paesaggio “progettato”, cioè concepito e creato di proposito dall’uomo (esempi: parchi e giardini); il paesaggio “evolutivo”, cioè un paesaggio che deve la sua unicità all’interazione tra l’uomo e la natura, nonché il paesaggio “associativo”, ovvero un paesaggio i cui valori risiedono nell’interazione tra elementi religiosi, artistici, spirituali e storici. Il paesaggio “evolutivo” è stato ulteriormente suddiviso in due sotto-categorie: il paesaggio cosiddetto “fossile” (esempio: i siti archeologici) e il paesaggio “vivente”, che “riveste un ruolo sociale attivo nella società contemporanea, strettamente legato ad un modo di vita tradizionale nel quale il processo evolutivo prosegue (…)”. Si veda www.unesco.org e http://www.icomos.org.
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“Il paesaggio che noi ammiriamo è il risultato della creatività di tutta una collettività che ha saputo, a partire da un ambiente naturale difficile, creare delle opportunità per un’agricoltura di tipo molto particolare; questo lavoro ha il valore di un’opera d’arte, eseguito con competenza ed abilità; frutto di una volontà, d’un progetto, che è durato più di mille anni e che ha contribuito allo sviluppo dell’occupazione di questi luoghi, della produzione del vino e dell’avvio della vita in comunità locali”. Estratto dall’intervista con il Sindaco di Vernazza, 2006. 7 Risale al 1995 la delimitazione territoriale relativa al “Parco Naturale Regionale delle Cinque Terre”, ai sensi della L.R. n. 12 del 22/02/1995, comprendente i comuni di Riomaggiore, Vernazza, Monterosso al Mare, Deiva, Framura, Bonassola, Levanto, La Spezia, Portovenere, su un’area di ben 13.152 ha. Questa delimitazione venne modificata a seguito della nascita del Parco Nazionale delle Cinque Terre nel 1999 e del Parco Naturale Regionale di Portovenere nel 2001. 8 Si cfr. QUAINI M. (a cura di), 1981, La conoscenza del territorio ligure fra Medio Evo ed Età Moderna, Sagep Editrice, Genova, pagg. 63-69. 9 Si veda il “Dossier di presentazione di candidatura delle Cinque Terre all’iscrizione al Patrimonio Mondiale dell’Umanità”, Riomaggiore 1995, pag. 3. 10 Republique Française, 1998, “Vignoble et villages de l’Ancienne Juridiction de Saint-Émilion. Dossier de présentation en vue de l’inscription sur la liste du patrimoine mondial de l’UNESCO au titre de paysage culturel”, Rapport du cabinet Grahal. Nel secondo progetto, per soddisfare la categoria del “paesaggio culturale” superando la visione monumentalista e architettonica del sito, sono i vigneti che caratterizzano, in maniera esemplare, questo paesaggio e permettono la delimitazione del sito. 11 “Dossier de présentation…”, op. cit., pag. 19. 12
Una stessa area geografica per due A.O.C. (“SaintÉmilion” e “Saint-Émilion Gran Cru”) che, per un totale di 7.890 ha, comprende i Comuni di: Saint-Chistophe des Bardes, Saint-Émilion, Saint-Étienne-de-Lisse, Saint-
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Hippolyte, Saint-Laurent-des-Combes, Saint-Pey d’Armens, Saint-Sulpice-de-Faeyrens, Vignonent. 13 Confermata da un decreto del 14/11/1936, l’area attuale dell’A.O.C. ricopre quasi esattamente e significativamente i limiti dell’antica Juridiction definita nel 1289 da Edoardo I d’Inghilterra. La Juridiction oggi non ha più alcuna importanza amministrativa ma è ancora lo spazio del potere pubblico di un tempo ed è per questo motivo che è stata identificata, già nel primo progetto d’iscrizione, come entità spaziale di riferimento. 14 Il termine château, nel caso bordolese, si riferisce sia al “castello” vero e proprio, ovvero al corpo di fabbrica con tutti gli annessi, sia al sistema di spazi aperti che vanno dal viale monumentale d’ingresso, alle grandi corti interne e al giardino pensile che si apre sui terreni coltivati circostanti. In termini commerciali, château, seguito dal cognome del produttore, è l’indicazione precisa del vigneto da cui proviene un vino, identificato da un ben preciso “marchio” di qualità. 15 “Quando la rivoluzione mise fine alle epoche gloriose che l’abitante di Saint-Émilion aveva conosciuto e a quell’importante centro religioso dell’XI secolo, egli ha saputo dare uno slancio alla Regione mettendo a poco a poco in piedi la monocoltura della vite. Questa ha creato un paesaggio strutturato, ordinato e armonioso, caratterizzato da un ritmo regolare. Il disegno delle vigne che sottolineano i pendii, la convessità o la concavità di certi spazi hanno arricchito la lettura morfologica del sito (…)”. Dal “Dossier de présentation …”, op. cit., pag. 19. 16 A seguito della legge 21/03/1884, che ha concesso al mondo agricolo di avere dei Sindacati professionali, viene creato a Saint-Émilion il primo Sindacato viticolo di Francia: espressione della volontà comune, agisce a favore della solidarietà sociale, per elargire consigli tecnici, per promuovere l’immagine e la qualità dei vini locali. Nel 1931 nasce la prima Cooperativa viticola del Bordolese: l’Union de Producteurs de Saint-Émilion. Queste istituzioni hanno accompagnato la trasformazione del sistema agrario e hanno permesso a una parte degli agricoltori locali di sostenere gli investimenti necessari per il passaggio alla viticoltura di qualità.
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Si veda, Jean-Claude Hinnewinkel, 2004, Les terroirs viticoles. Origines et Devenirs, Ed. Féret, Bordeaux, pagg. 5-6. Se per una parte del mondo scientifico il termine terroir è un’entità agronomica, caratterizzata dall’omogeneità di elementi geologici, pedologici, topografici e climatici, modificati da fattori umani, per l’Autore è oggi uno spazio di produzione ben preciso, relativo a un ristretto gruppo di produttori e sul quale un determinato corpo giuridico garantisce una produzione di qualità controllata; non a caso, spesso, il terroir corrisponde all’area di una A.O.C. 18 La “Comunità dei Comuni della Giurisdizione di SaintÉmilion” è una nuova forma di governo locale che dovrebbe gestire beni pubblici e privati. 19 In particolare, l’area iscritta interessa parte del territorio di 5 piccole Regioni (Abauj-hegyközi, Sarospataki, Satoraljaujhelyi, Szerencsi e Tokaj), con 9 Comuni nella parte centrale (di Szerencsi e Tokaj) e 27 nella zona periferica che riguardano tutte e 5 le Regioni ma soprattutto Sarospataki, Szerencsi e Tokaj. 20 Ne sono prova, per esempio, la scoperta recente a Erdöbénye, nel cuore dei vigneti storici, di un fossile di Vitis tokajensis datato al Miocene, o la presenza di Vitis sylvestris nei boschi della regione o l’eccellenza di un microclima favorevole sia alla particolare putrefazione necessaria alla produzione del vino aszu, sia allo sviluppo di Cladosporium cellare, che, coprendo le pareti degli incavi naturali utilizzati come cantine, migliora le condizioni di conservazione dei vini. Infine, la presenza delle foreste del vicino massiccio del Zemplen con boschi di quercia di qualità eccezionale per i bottai. Nel dossier si fa riferimento anche all’importanza paesistica ed economica del patrimonio geologico della Regione. Si veda, Republic of Hungary, 2000, “The World Heritage Documentation for the nomination of the Cultural landscape of Tokaj Wine Region”, Budapest, pag. 38. 21 I feudatari possedevano storicamente le più grandi particelle fondiarie e per secoli conservarono il potere, talvolta ottenuto acquisendo le terre abusivamente e costringendo gli abitanti alla servitù della gleba. Solo con la nascita della borghesia e delle città-mercato cominciò il
Paesaggi d’eccezione, paesaggi del quotidiano. I casi di Cinque Terre, Saint-Émilion, Tokaj
processo di attenuazione del potere aristocratico. In “The World Heritage Documentation”, op. cit., pag. 35. 22 Questa famiglia nella quale s’incarnò la resistenza ungherese all’impero asburgico fu anche proprietaria, tra il XVII e il XVIII secolo, d’una parte importante di terre viticole della regione di Tokaj-Hegyalja (i due terzi all’inizio del XVIII secolo). Gli autori del dossier mettono l’accento particolarmente sul ruolo dell’eroe dell’indipendenza ungherese, Ferenc Rakoczi II, nella promozione del vino di Tokaj presso le corti europee e sul ruolo dei proventi della vendita del vino stesso nel finanziamento della grande ribellione ungherese contro l’Impero (1703-1711). Il dossier dedica trenta tappe alla sola evocazione del vignato sotto la dinastia dei Rakoczi, poco è detto del periodo comunista e sull’importanza che ha mantenuto (dopo la seconda metà del XX secolo), nel sistema viticolo di questo periodo, la proprietà privata della vigna. 23 Il motto, in originale Vinum regum, rex vinorum, viene attribuito a Luigi XIV in merito ai vini di Tokaj e ancora oggi è riportato sulle etichette delle bottiglie di vino. 24 Szabo Y., Van Torok S., 2001, Tokaji-Hegyaljai album: Kiadja a Tokaji-Hegyaljai Bormìvelö Egyesület és elnöke báró Vay Miklós, Pest (ed. orig. 1867). 25 Cfr. http://www.tokaji.hu 26
Così si esprime, a questo proposito, il responsabile ungherese di una delle proprietà viticole più prestigiose ed estese di Tokaj e membro dell’Associazione Tokaj Renaissance: “Penso che solo integrando la tradizione con la modernità sia possibile innescare nuovi circuiti economici che sappiano conciliare la produzione dei vini con l’accoglienza turistica, in un contesto locale”. Tokaj, 19/09/2006. 27 Sul tema si veda lo studio “Les paysages culturels viticoles dans le cadre de la Convention du patrimoine mondial de l’Unesco”, realizzato dall’ICOMOS: http://www.icomos.org/studies/viticoles.htm.
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paesaggi in gioco
Paesaggio rurale e turismo sostenibile nella Valtiberina Toscana*
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Rural landscape and sustainable tourism in the Valtiberina Toscana
Daniela Cinti**
abstract Il paesaggio rurale rappresenta sempre più spesso un'attrattiva per nuove forme di turismo, alternative a quelle tradizionali. La fruizione di un territorio, espressione di naturalità e cultura locale, arricchisce infatti il visitatore di nuove esperienze che completano i percorsi nelle città d'arte. Il delicato rapporto tra paesaggio e modi di utilizzazione del territorio aperto è stato quindi il filo conduttore della ricerca, che promuove un’economia multifunzionale (turistica/agricola/zootecnica), insieme alla valorizzazione della struttura identitaria dei luoghi. Il campo di azione che ne deriva è stato articolato in due livelli: il primo comprende i paesaggi di eccellenza e quelli con elevate potenzialità turistiche, mentre il secondo studia i paesaggi ordinari che fungono da supporto e da scenario alle emergenze e ai percorsi storici ed escursionistici. La valorizzazione del territorio aperto è stata così incentrata, da un lato, sui sistemi paesaggistici ad elevato interesse turistico, dall’altro, sui territori ordinari a carattere naturale e agro-silvo-pastorale.
abstract Rural landscape attracts more and more often new forms of tourism, alternatives to the traditional ones. The visit to a region, expressing its naturalness and its local culture, does indeed enrich the tourist with new experiences that complete the itineraries within historical towns. The delicate relationship between landscape and utilisation of open land has been therefore the leading thread of the research that promotes a multifunctional rural economy (touristic/agricultural/zootechnical), together with an appreciation of the value and identity of these places. The resulting action field has been articulated in two level: the first refers to places of historical and naturalistic interest and to those with touristic potentialities; while the second focuses on ordinary places that are the settings to sites of “excellence” and to excursion routes. The increase in value of the countryside has been centred on two different landscapes: those of high touristic interest and the ordinary ones.
parole chiave Pesaggio rurale, turismo Potenzialità, Valtiberina
key-words Rural landscape, Sustainable tourism, Resources, Potentialities, Valtiberina
sostenibile,
risorse,
* L’articolo presenta i risultati della ricerca “La Valtiberina Toscana per un turismo naturale e culturale sostenibile: valorizzazione di un territorio di confine” è stata svolta presso il Dipartimento di Urbanistica e Pianificazione del Territorio di Firenze con il coordinamento del prof. Gabriele Corsani. Lo studio rientra nel Progetto Bando Contributi "Ricerca e innovazione in campo territoriale e ambientale” 2007-08. Tematica: Le aree rurali ed il turismo" promosso e co-finanziato dalla Regione Toscana. ** Università di Firenze, Dipartimento di Urbanistica e Pianificazione del Territorio, Docente a contratto, Assegnista di Ricerca.
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La costruzione del “Sistema dei Parchi della Valtiberina Toscana”: una rete di risorse a scala territoriale
Paesaggio rurale e turismo sostenibile nella Valtiberina in Toscana
rappresentare i capisaldi della valorizzazione del territorio aperto e dello sviluppo del turismo rurale.
La valorizzazione del paesaggio rurale della Valtiberina, quale ambito montano, situato al confine orientale della Toscana, parte dal riconoscimento delle sue valenze storico-culturaliambientali e delle criticità, per arrivare a definire i punti di forza del territorio aperto. Questi luoghi sono attualmente poco conosciuti e non rientrano nei percorsi turistici tradizionali, incentrati sulla visita ai principali centri storici: Sansepolcro (città natale di Piero della Francesca), Anghiari (borgo medievale) e Monterchi (borgo medievale che ospita la Madonna del Parto di Piero della Francesca). Il paesaggio, identità locale e scenario dei nuclei urbani, può così assumere, per i fruitori esterni, una qualificazione che fino ad ora non ha avuto e può diventare un'opportunità per le popolazioni della Valtiberina. La prima fase della ricerca si è incentrata sullo studio delle aree protette già istituite. Queste si estendono principalmente negli ambiti montani, caratterizzati da emergenze o particolarità naturalistiche, espressione del territorio appenninico e delle sue connotazioni fisiografiche e vegetazionali. Alcune zone, insieme ai paesaggi agricoli e naturali che le circondano, sono più rappresentative di altre, sia per la valenza delle risorse presenti che per la capacità di attrazione turistica. È stata pertanto rivolta particolare attenzione agli ambiti che hanno le potenzialità per assumere un ruolo strategico all’interno di una “rete di parchi” della Valtiberina Toscana, capaci di
Figura 1. Piero della Francesca, Natività. Particolare della Valle del Tevere e dei contigui Monti Rognosi, Londra, National Gallery, 1470 circa.
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Al continuum paesaggistico, principalmente gestito attraverso attività agro-silvo-pastorali, si sovrappone così un sistema a rete, costituito dai percorsi di collegamento e dalle aree/punti d’interesse. La costruzione di una gerarchia e complementarità di ruoli consentirà di offrire una “struttura” paesaggistica e turistico-ricettiva di scala territoriale, fruibile dal pubblico, diversificata e integrata. Tale “struttura” è stata articolata in cinque “aree strategiche” che rappresentano delle “centralità” per l’intero territorio aperto della Valtiberina. Queste comprendono le principali aree protette istituite e le zone più significative per la presenza di risorse storico-culturali-ambientali e per le potenzialità espresse in campo ricreativo, sportivo e turistico. In particolare, il bacino del lago artificiale di Montedoglio e l’ambito fluviale del Tevere sono risultati sistemi paesaggistici di grande interesse, che coinvolgono l’area di pianura e le colline contigue. Nelle zone montane emergono gli ambiti dei Monti Rognosi, dell’Alpe della Luna e del Sasso di Simone. Queste aree, molto diverse tra loro e connotate da specifici caratteri identitari, sono in grado di garantire un’offerta turistica diversificata e complementare. Esse infatti contengono al loro interno sia emergenze geologiche, specificità botaniche, beni archeologici, storico-architettonici e culturali che proprietà demaniali con strutture turistico-ricettive, didatticoespositive e ricreativo-sportive già realizzate, in fase di attuazione o di progetto. Alle “aree strategiche” si affiancano gli ambiti e le strutture definite “sussidiarie” in quanto vanno ad integrare l’offerta (ricettiva, culturale, ecc.) delle prime. Alle “macro-aree” d’interesse si aggiunge così il supporto sia di strutture di proprietà pubblica o privata dislocate nel territorio aperto (ostelli, rifugi
paesaggi in gioco
alpini, case-vacanza, agriturismi, maneggi, ecc.), sia di zone di pregio ambientale e aree protette minori (Parco Faunistico di Ranco Spinoso, A.N.P.I.L. Serpentine di Pieve S. Stefano, ecc.), che fanno parte, a pieno titolo, del “sistema a rete” dei “Parchi della Valtiberina Toscana”.
dimenticati, ma è ancora possibile leggerli sia attraverso la cartografia storica sia attraverso i flebili segni lasciati sul terreno rinaturalizzato.
Figura 2. Veduta aerea del lago artificiale di Montedoglio realizzato nell’Alta Valle del Tevere tra gli anni Settanta e Novanta del Novecento per fini irrigui. L’ambiente del lago presenta molteplici potenzialità turistiche.
Figura 3. Veduta aerea dei laghi di cava esistenti lungo il corso del Tevere. L’attività estrattiva di ghiaia e sabbia si è conclusa agli inizi degli anni Ottanta e attualmente le fosse, riempite dall’acqua di falda affiorante, sono in fase di rinaturalizzazione. Questo ambiente è compreso nell’Area Naturale Protetta d’Interesse Locale “Golena del Tevere”.
Il collegamento tra gli ambiti strategici sarà espresso da due importanti assi strutturanti del passato, la via Ariminensis e la via di Pietramala, che, in epoca romana, mettevano in connessione Arezzo con l’Adriatico (Rimini e Pesaro). I tracciati sono stati destinati, a partire dal basso medioevo, a vie Maremmane, utilizzate per la transumanza del bestiame e degli uomini dagli Appennini alla Maremma: spostamenti che si sono verificati fino alla metà del secolo scorso, come ricordano gli anziani della montagna locale. Da quel momento, lunghi tratti di percorso sono stati abbandonati e
Il ripristino di due assi strutturanti a carattere ciclo-pedonale e per il turismo equestre, che attraversano il territorio valtiberino, rappresenta un elemento unificante e di collegamento spaziale tra il “Sistema dei Parchi della Valtiberina Toscana” e le città d’arte creando un importante trait d’union. Sui percorsi territoriali delle vie Maremmane si attestano una serie di tracciati secondari, per quanto possibile di matrice storica, che, insieme agli assi principali, andranno a costituire l’ossatura del sistema raccordandosi alle sue componenti areali e puntuali, sia a carattere storico-culturale e
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ambientale ricreativo.
che
turistico-ricettivo
e
sportivo-
Il progetto integrato del “Sistema dei Parchi” si inserisce in un contesto già ricco di iniziative e si propone di mettere “in rete” gli interventi attuati e quelli previsti da enti pubblici e da privati, costruendo un insieme organico di attività e strutture funzionali al turismo rurale e alla valorizzazione del territorio aperto. Superando la semplicistica funzione di mero “strumento di salvaguardia”, il “Sistema dei Parchi” va quindi interpretato come un’occasione di sviluppo endogeno, un’opportunità per gli operatori locali e un valore aggiunto per le popolazioni e i visitatori della Valtiberina, capace di favorire la crescita di un sistema economico sostenibile basato su attività compatibili con le risorse presenti. Affinché la “rete” individuata nel territorio aperto venga valorizzata e risulti fruibile dalla popolazione e dai turisti è infatti necessario che alla struttura fisica, ambientale e storico-culturale dei luoghi si integri una coerente e mirata operatività umana, sia pubblica che privata. Le azioni previste dovranno riconoscere le valenze e le potenzialità offerte dal territorio, nonché le sue criticità o punti di debolezza, prendendo coscienza delle risorse paesaggistiche esistenti che rappresentano sia l’identità dei luoghi sia un valore economico e un elemento attrattore per i visitatori. Gli operatori nel settore del turismo rurale dovranno così promuovere, oltre alle proprie strutture e attività, il territorio valtiberino nel suo complesso, fungendo da divulgatori anche per le altre realtà del sistema.
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Tra le iniziative di supporto all’ospitalità turistica vi saranno l’organizzazione di eventi (sagre, manifestazioni culturali, ecc.), la riproposizione di tradizioni locali, l’offerta di personale formato e specializzato (guide ambientali, istruttori di equitazione, ecc.), la fornitura di servizi (noleggio bici, organizzazione di escursioni, ecc.), la degustazione e vendita di prodotti tipici e la collaborazione con gli enti pubblici nella gestione della sentieristica e dei beni archeologici, storicoarchitettonici e ambientali che vanno a strutturare il contesto paesaggistico. Un ruolo prioritario nell’economia del territorio rurale sarà pertanto assegnato ai produttori agricoli e dell’artigianato e agli operatori del settore ricettivo-ristorativo e promozionale, che dovranno condividere, insieme agli enti istituzionali coinvolti, gli obiettivi progettuali e gestionali. La complementarità nell’offerta di servizi, prodotti e attrattive presenti nelle diverse aree individuate all’interno del “Sistema dei Parchi” diventa allora elemento fondamentale per garantire ai visitatori itinerari alternativi nella Valtiberina Toscana, intesa come un complesso paesaggistico da promuovere nel suo insieme. La capacità di farsi riconoscere rispetto ad altri territori, rappresenta infatti il “capitale simbolico” di un luogo e, ad oggi, la Valtiberina non viene identificata come realtà territoriale unitaria da coloro che visitano le tradizionali città d’arte (Sansepolcro, Anghiari, Monterchi), senza soffermarsi nel paesaggio rurale che le avvolge. Le stesse comunità locali hanno uno spiccato senso di appartenenza nei confronti dei centri urbani dove vivono e non si riconoscono in una realtà territoriale più vasta, costruita attraverso secoli di storia. La
Paesaggio rurale e turismo sostenibile nella Valtiberina in Toscana
valorizzazione del territorio aperto tramite la costruzione del “Sistema dei Parchi” è quindi principalmente finalizzata al riconoscimento del comprensorio valtiberino come una realtà inscindibile e alla individuazione della “ruralità” come importante fattore di attrazione turistica e di sviluppo endogeno.
Figura 4. Carta del “Sistema dei Parchi della Valtiberina Toscana” con evidenziate le aree strategiche del territorio aperto e le strade storiche di carattere territoriale.
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La “ruralità” è infatti espressione di “esclusività” sia per quanto riguarda i prodotti tipici e artigianali, sia per quanto concerne l’ospitalità in luoghi unici, non esportabili o riproponibili altrove. La localizzazione di filiere produttive e di strutture ricettive in paesaggi di pregio, riconosciuti a livello nazionale o internazionale (Val d’Orcia, Chianti, ecc.), diventa allora un valore aggiunto per le attività economiche, che le rende maggiormente competitive. Queste devono però consentire il superamento di eventuali “conflittualità” derivanti dalla pratica di attività antropiche nel paesaggio rurale (es. inserimento di campi da golf, costruzione di seconde case, ecc.), agendo di concerto con le amministrazioni pubbliche e nel rispetto delle risorse locali. Si viene quindi a stabilire uno stretto legame tra turismo rurale e aziende agricole che possono evolvere in strutture multifunzionali, ovvero capaci sia di svolgere attività produttive di qualità che di offrire ospitalità (soggiorno, ristorazione, ecc.) e servizi (guide ambientali, vendita prodotti tipici, ecc.) ai visitatori. Nel caso della Valtiberina, alle strutture agrituristiche private, si aggiungono una serie di immobili demaniali, ricadenti nelle “aree-parco” montane o negli ambiti limitrofi, date prevalentemente in gestione a cooperative locali che operano nel settore turistico-culturale o agricolo-zootecnico. Il recupero attuato o previsto del patrimonio storico e rurale del demanio ha favorito o favorirà l’inserimento di attività ricettive-ristorative, di centri vista, di laboratori di educazione ambientale, di fattorie didattiche, di centri ippoturistici e di centri per la conoscenza della cultura e delle tradizioni locali. L’Unione dei Comuni della Valtiberina Toscana sta svolgendo
un ruolo di coordinamento a livello territoriale per costruire un progetto integrato capace di offrire complessi ricettivi diversificati (Bed&Breakfast, ostelli, case-vacanza, rifugi alpini, ecc.), ristorazione di qualità con consumo di prodotti locali, attività sportive (equitazione, escursionismo, ecc.) e conoscenza delle risorse, della cultura e delle tradizioni locali attraverso la realizzazione di una serie di strutture complementari finalizzate allo sviluppo del turismo rurale. Alla rivitalizzazione dei centri degli antichi poderi agricoli si affianca la gestione di estesi territori montani, affidata a cooperative agricole-forestali o a coltivatori diretti locali. Questi vi praticano principalmente allevamenti bovini di razza chianina, seminativi e castagneti da frutto, oltre ad allevamenti ovini, equini e suini, introdotti recentemente. La zootecnia e l’agricoltura consentono così di mantenere una diversificazione paesaggistica contrastando i fenomeni di abbandono, molto diffusi a partire dal secondo dopoguerra, e di garantire prodotti alimentari genuini, consumati in loco dai visitatori (“km 0” dalle filiere agro-alimentari). Ovviamente, le attività praticate hanno introdotto un nuovo modello di sviluppo economico rispetto a quello del passato, privilegiando la multifunzionalità delle aziende e l’allevamento del bestiame, che ha apportato modificazioni al paesaggio originario. Ciò nonostante, tali attività rendono nuovamente vissuti poderi demaniali, abbandonati e incolti da decenni, e garantiscono la diversità ambientale dei luoghi. La pratica agricola e zootecnica, se svolta in armonia con l’ambiente, diventa così produttrice di paesaggi di qualità e attrattore turistico. Le stesse popolazioni locali, espressione del folclore, dei
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saperi e delle tradizioni del luogo, rappresentano una risorsa e un valore aggiunto per il territorio. I siti, insieme alle comunità che vi vivono e ai viaggiatori che li percorrono, costituiscono infatti il sistema “turismo rurale”, le cui componenti “si alimentano a vicenda” e non è possibile immaginare l’una senza l’altra, perché è dal loro rapporto armonico che trae vantaggio la società e l’economia endogena.
Figura 5. Le principali risorse del Parco dei Monti Rognosi e della Valle del Sovara (Comuni di Anghiari e Caprese Michelangelo).
Gli interventi già attuati e il progetto del “Sistema dei Parchi” tendono pertanto, da un lato, a rivitalizzare il “tessuto sociale ed economico” di aree marginali soggette a spopolamento, e, dall’altro, a costruire un contesto paesaggistico fruibile dal pubblico che, attraverso una sentieristica organica e un insieme di beni storico-culturali e ambientali visitabili, supporti le
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strutture turistiche consentendo una maggiore fidelizzazione (ritorno periodico dei visitatori nelle strutture) e il prolungamento dei periodi di soggiorno. Questi infatti sono attualmente di 1/2 gg. e spesso non garantiscono alle strutture rurali un reddito adeguato. Inoltre, per coinvolgere vari segmenti turistici (naturale e culturale, ma anche didattico/scolastico, sportivo, degli anziani, ecc.) e incrementare la capacità di spesa dei visitatori è importante diversificare e coordinare le offerte di soggiorno, le attività da praticare (escursionismo, equitazione, sport d’acqua, ecc.), gli itinerari da seguire (culturali, naturalistici, religiosi, eno-gastronomici, ecc.) e i prodotti da acquistare (agro-alimentari, artigianali, ecc.), raccogliendoli in un unico “contenitore”, rappresentato dal “territorio valtiberino” che necessita di una promozione unitaria e concertata. Con questa finalità l’Unione dei Comuni della Valtiberina Toscana sta portando avanti un “Piano di Marketing Turistico” che sia in grado di trasmettere un’immagine univoca della Valtiberina, riconoscibile come entità territoriale unitaria, in cui possano identificarsi gli operatori, le comunità locali e gli enti istituzionali coinvolti. Il piano si incentra sui principali fattori attrattivi dell’area, sulla integrazione tra prodotti turistici e territorio, sulla concertazione con i soggetti interessati e sulle azioni di comunicazione (web marketing, ecc.). Il “Sistema dei Parchi” cerca di raccogliere al suo interno i risultati delle molteplici iniziative in atto, rendendosi complementare alle tradizionali città d’arte e creando con queste un “museo del territorio”, che offra ai viaggiatori un’ampia conoscenza del backstage dei centri urbani. Esso esprime infatti il palinsesto della storia e della
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natura dei paesaggi valtiberini, oltre a rappresentare il “collettore” di proposte per la valorizzazione e lo sviluppo del territorio rurale, riuscendo sia “ad innescare un meccanismo moltiplicatore di iniziative (pubbliche e private)” che ad attivare fonti di finanziamento (comunitarie, regionali, ecc.). Il progetto integrato d’area attribuisce così unitarietà al sistema attraverso una trama che lega, secondo una struttura organica (funzionale, spaziale e informatica), le diverse risorse del territorio aperto valtiberino.
Figura 6. Carta del Parco dei Monti Rognosi e della Valle del Sovara con evidenziate le risorse storiche, culturali e ambientali del territorio. Particolare attenzione è stata rivolta alla fruibilità pubblica dei luoghi d’interesse.
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La tutela e la valorizzazione del paesaggio nella programmazione per lo sviluppo rurale: dai territori ordinari agli interventi promossi dal PSR della Toscana Nella prima parte della ricerca sono state individuate le aree strategiche del territorio rurale valtiberino, quali sistemi territoriali complessi, composti da insiemi coerenti di risorse puntuali, lineari e areali di carattere geologico, idrografico, vegetazionale e storico-insediativo. Queste centralità sono state definite come attrattori turistici del territorio aperto per l’elevata qualità paesaggistica e per le intrinseche potenzialità ricettive, ricreative e sportive.
Figura 7. Esempio 1- L’ambito dei “Rilievi ofiolitici dei Monti Rognosi” e l’individuazione dei valori e delle criticità.
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Alla trama delle risorse emergenti, si affianca il paesaggio naturale e antropico che costituisce il legante del sistema a rete e qualifica lo spazio rurale nel suo complesso. Gli ambienti spontanei e quelli più direttamente trasformati dalla mano dell’uomo risultano così integrati alla trama individuata per la fruibilità pubblica del territorio e ne costituiscono sia il supporto che lo scenario. Il paesaggio rurale, quale insieme di componenti naturali e antropiche, si articola in ambiti riconoscibili nel tempo, i cui caratteri strutturali e identitari ne determinano i valori e le criticità. Tali ambiti possono essere a matrice naturale dominante (come i rilievi ofiolitici dei Monti Rognosi) o frutto di secoli di storia mezzadrile e dell’attività delle aziende contemporanee (come gli appoderamenti alle pendici dell’Alpe di Catenaia o la pianura agricola nella valle del Tevere).
Figura 8. Esempio 1 - Le relazioni tra l’ambito dei “Rilievi ofiolitici dei Monti Rognosi” e la Misura 227 “Sostegno agli investimenti non produttivi” nelle superfici forestali - Linee guida per la Misura 227 finalizzate alla conservazione e valorizzazione dei caratteri identitari del paesaggio rurale.
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Paesaggio rurale e turismo sostenibile nella Valtiberina in Toscana
Il paesaggio rurale, nel suo complesso, è quindi strutturato da un’insieme di emergenze di rilievo territoriale (castelli, pievi, conventi, Via Ariminensis, ecc.) e da un sistema di componenti di dettaglio, spesso frutto dell’attività di singoli individui che operano all’interno della propria azienda (terrazzi, ciglioni, fossette, fonti, abbeveratoi, ecc.). I grandi segni così come le trame minute concorrono quindi alla qualificazione dei diversi ambiti paesistici e ne determinano l’identità e le valenze.
Figura 9. Esempio 2 - L’ambito degli “Appoderamenti pedemontani del Ponte alla Piera” e l’individuazione dei valori e delle criticità.
Così, le azioni svolte dai diversi soggetti preposti alla gestione degli spazi rurali (pubblici e privati) possono influire sulla qualità di un’area ricca di risorse e potenzialità turistiche, modificando, nel tempo, l’assetto paesaggistico del territorio.
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Dalla scala territoriale, che ha caratterizzato la definizione delle aree strategiche della Valtiberina quali attrattori del territorio rurale, nella seconda parte della ricerca, si è passati a scale di maggior dettaglio per approfondire l’assetto dei paesaggi rurali presenti al loro interno e che fungono da supporto alla rete individuata per la fruibilità pubblica.
Figura 10. Esempio 2 - Le relazioni tra l’ambito degli “Appoderamenti pedemontani del Ponte alla Piera” e la Misura 211 “Indennità a favore delle zone montane” - Linee guida per la Misura 211 finalizzate alla conservazione e valorizzazione dei caratteri identitari del paesaggio rurale.
paesaggi in gioco
La metodologia seguita ha portato all’individuazione di ambiti paesistici significativi, sui quali potessero essere applicate le Misure del Programma di Sviluppo Rurale (PSR) 2007-13 della Regione Toscana, relative all’Asse 2 “Miglioramento dell’ambiente e dello spazio rurale”. In particolare, sono stati analizzati nel dettaglio i seguenti ambiti: “Rilievi ofiolitici dei Monti Rognosi”; “Appoderamenti pedemontani del Ponte alla Piera”, “Pianura agricola del riordino fondiario” e “Laghi di cava in fase di rinaturalizzazione in area golenale”. L’individuazione dei valori e delle criticità di questi territori ha consentito di definire gli obiettivi per la fruibilità pubblica e per la conservazione e la valorizzazione del paesaggio rurale. Tali obiettivi, derivanti dall’analisi diretta dei territori, sono stati rapportati a quelli individuati nelle Misure del PSR che risultano correlati alla qualificazione della struttura identitaria dei luoghi. Così, l’ambito paesistico dei “Rilievi ofiolitici dei Monti Rognosi”, caratterizzato sia da componenti naturalistiche originarie che da estesi rimboschimenti di conifere è stato messo in relazione con le Misure 226 “Ricostituzione del potenziale produttivo forestale” e 227 “Sostegno agli investimenti non produttivi” nelle superfici forestali. L’ambito degli “Appoderamenti pedemontani del Ponte alla Piera”, connotato dall’alternanza di seminativo, prato-pascolo e fasce boscate, è stato confrontato con le Misure 211 “Indennità a favore delle zone montane” e 214 “Pagamenti agroambientali”. Agli ambiti montani si aggiungono due ambiti di pianura. In particolare, quello della “Pianura agricola del riordino fondiario” è stato messo in relazione con le Misure 214 “Pagamenti agroambientali”, 216 “Sostegno agli investimenti
non produttivi” sui terreni agricoli, 221 “Imboschimento di terreni agricoli” e 223 “Imboschimento di superfici non agricole”. Infine, l’ambito paesistico dei “Laghi di cava in fase di rinaturalizzazione in area golenale” è stato rapportato alla Misura 216 “Sostegno agli investimenti non produttivi” sui terreni agricoli. L’analisi critica derivante dal confronto tra lo stato dei luoghi e gli obiettivi individuati nel PSR della Toscana ha portato a definire delle linee guida per le diverse Misure, finalizzate ad incentivare azioni concrete per la conservazione e la valorizzazione del paesaggio rurale, con particolare attenzione alle specificità del paesaggio Toscano.
Considerazioni conclusive L’individuazione e lo studio delle aree strategiche del territorio aperto della Valtiberina ha consentito di definire un sistema a rete di risorse storicoculturali e ambientali, capaci di creare degli ambiti di grande interesse, in cui possono essere concentrate le azioni di valorizzazione e recupero da parte degli enti locali (Unione dei Comuni e Comuni) per strutturare uno sviluppo turistico sostenibile, esteso a tutto il comprensorio. Sarà così possibile aumentare l’attrattiva delle eccellenze del territorio (Monti Rognosi, Alpe della Luna e Sasso di Simone) e superare le criticità delle aree in trasformazione (lago artificiale di Montedoglio e golena del Tevere). Lo studio dei caratteri ambientali della Valtiberina e, nello specifico, delle aree individuate come strategiche, a cui si sovrappone un sistema di risorse storico-culturali collegate da percorsi escursionistici, ha inoltre consentito di definire una
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rete per la fruibilità pubblica del paesaggio a scala comprensoriale. Gli attrattori del territorio individuati in questa sede diventano pertanto le componenti di un sistema da tutelare e valorizzare da parte delle amministrazioni locali, sia attraverso gli strumenti di programmazione (PSRL, PASL, PSR, ecc.) e di pianificazione, sia attraverso azioni dirette mirate al recupero e alla visitabilità delle singole risorse architettoniche, archeologiche e ambientali. Punti di interesse saranno anche le strutture espositive (centri visita), didattiche (laboratori ambientali, fattorie didattiche, ecc.) e finalizzate alla conoscenza delle culture locali, ubicate principalmente nei complessi insediativi di proprietà pubblica. Gli attrattori puntuali e areali sono stati collegati con una rete di percorsi storici (Via Ariminensis, Via di Pietramala) ed escursionistici (GEA, CAI, sentieri natura, ecc.), definendo un sistema capace di far conoscere il territorio e la sua cultura. Ai paesaggi emergenti (Sasso di Simone, Alpe della Luna, Monti Rognosi) si affiancano i paesaggi ordinari caratterizzati da coltivazioni, pascoli e aree boscate. Insieme creano un continuum territoriale di grande qualità, da tutelare e valorizzare nel suo complesso. Il Programma di Sviluppo Rurale della Regione Toscana (PSR), attraverso la gestione dei fondi comunitari, rappresenta un importante strumento di programmazione per gli ambiti rurali e riveste un ruolo attuativo attraverso le singole Misure rivolte sia agli enti locali (Province, Unioni dei Comuni, Comuni), sia ai coltivatori diretti. Le trasformazioni, attuate con gli interventi finanziati, molto spesso non rientrano in una pianificazione territoriale specifica, ma rappresentano delle singole opere che
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hanno come prerogativa la rispondenza agli obiettivi e alle azioni del PSR. La definizione di linee guida rivolte alle Misure in relazione alla conservazione e valorizzazione dei caratteri identitari del paesaggio e a politiche di sviluppo rurale sostenibile ha così rappresentato il filo conduttore della seconda parte della ricerca, in cui sono state studiate le singole Misure dell’Asse 2 “Miglioramento dell’Ambiente e dello spazio Rurale”, rapportandole all’effettivo stato dei luoghi, analizzato con indagini dirette. Dallo studio delle Misure del PSR e dal confronto con gli ambiti paesistici individuati è emerso che, molto spesso, le azioni previste non hanno un’incidenza diretta sulla conservazione e valorizzazione dei caratteri identitari del paesaggio rurale. Così, i paesaggi naturali, ad eccezione di quelli boscati, non sono contemplati dal PSR che concentra la sua attenzione sulle superfici forestali con le Misure 226 e 227. Le aree a roccia nuda, a prateria, a gariga, ad arbusteto, o le dune, che caratterizzano molti dei paesaggi toscani, non hanno sostegni nel PSR volti alla loro conservazione e valorizzazione, o mirati alla creazione di sentieri per la fruibilità pubblica, o rivolti alla protezione del suolo dall’erosione e dagli incendi. Questi interventi sono infatti previsti solo all’interno delle aree boscate. Sarebbe quindi importante una maggiore attenzione verso tutti i paesaggi naturali e seminaturali, in modo da qualificarli nei loro diversi aspetti, favorendo la costruzione di una rete di percorsi fruibili dal pubblico. Gli stessi paesaggi a pascolo, che nel territorio di analisi troviamo alle pendici dell’Alpe di Catenaia, rientrano solo in maniera indiretta nelle misure 211
Paesaggio rurale e turismo sostenibile nella Valtiberina in Toscana
e 212. Infatti queste danno una “indennità” a favore degli agricoltori delle zone montane o delle zone svantaggiate affinché mantengano gli allevamenti nelle loro aziende. Questo sostegno dovrebbe garantire indirettamente la conservazione dei prato-pascoli, delle coltivazioni a seminativo e foraggere, delle scoline, ecc. Non sono però previsti, nelle aree a pascolo, sostegni diretti per la realizzazione di sentieri escursionistici finalizzati alla fruibilità pubblica delle risorse, per il recupero di percorsi storici, di canalizzazioni e di sistemi di deflusso delle acque, per la creazione o ricostituzione di siepi e di fasce boscate, per interventi volti alla protezione del suolo dall’erosione. Anche i paesaggi agricoli di montagna hanno un ruolo marginale nel PSR. Questi infatti rientrano in maniera indiretta nelle misure 211 e 212 sopra descritte, con le stesse modalità delle zone a pascolo. Inoltre, la misura 214 “Pagamenti agro ambientali” attribuisce alle aree agricole di montagna un ruolo secondario, dando priorità agli interventi realizzati in “terreni coltivati di pianura”. I paesaggi degradati, situati all’interno di ambiti naturali o agricoli, come possono essere le ex cave, non hanno sostegni per il loro recupero o per il ripristino della situazione originaria, quando sia possibile. Le azioni sono infatti rivolte ai paesaggi forestali e ai paesaggi coltivati e non vengono prese in considerazione situazioni diverse ubicate al loro interno o ai margini. Solo per i laghi di cava che rientrano nelle aree protette o nella Rete Natura 2000, attraverso la misura 216, possono esserci possibilità di sostegno finalizzato al loro recupero. I paesaggi agricoli abbandonati (incolti produttivi) possono ricevere finanziamenti, attraverso la 223, solo per l’imboschimento, a patto che rientrino in
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comuni con basso indice di boscosità. Non è prevista la nuova messa a coltura, anche con l’introduzione dell’agricoltura biologica o integrata. Il PSR favorisce così le azioni sui paesaggi forestali e sui paesaggi agricoli di pianura, che sono quelli più estesi e ricorrenti nel territorio regionale. E’ comunque necessario introdurre azioni mirate alla conservazione e alla valorizzazione delle specificità che caratterizzano molte parti della regione, puntando l’attenzione anche sul recupero e la qualificazione di paesaggi degradati, abbandonati o di margine che possono favorire la diversificazione spaziale dei luoghi. Dall’analisi delle Misure emerge inoltre che gli interventi mirati alla conservazione e alla valorizzazione dei caratteri identitari del paesaggio rurale sono molto limitati e principalmente concentrati sulle misure 214 e 216. Qui infatti è previsto, nelle aree agricole, il sostegno di “interventi non remunerativi” volti alla creazione o incremento “di siepi, di gruppi arborei, di filari, di vegetazione riparia, di stagni, laghetti e altre aree umide”. È inoltre previsto, in aree agricole ricadenti nelle Aree protette e nella Rete Natura 2000 (ovvero in aree di limitata dimensione e non sempre presenti nei territori comunali), il sostegno di interventi volti alla “creazione, conservazione e recupero di zone umide temporanee e permanenti” e alla “creazione, conservazione e recupero di elementi del territorio di interesse ecologico e paesaggistico finalizzati alla tutela e conservazione della biodiversità animale e vegetale quali muretti a secco, siepi, laghetti e pozze artificiali”. A tal proposito è importante rilevare che alcune Misure possono non essere attivate dalle Province attraverso l’approvazione del Piano Locale di Sviluppo Rurale (PLSR); ad esempio, la Misura 216
paesaggi in gioco
non è stata attivata dalla Provincia di Arezzo, annullando, di fatto, la possibilità di sostenere gli interventi volti alla conservazione e alla valorizzazione dei caratteri identitari nel suo territorio rurale. Si precisa infine che la misura 221 “Imboschimento di terreni agricoli” sostiene i rimboschimenti di superfici agricole in aree di pianura e di collina, senza dare limitazioni o condizioni sulla loro localizzazione. L’impianto casuale di imboschimenti all’interno delle aziende agricole può così comportare l’alterazione di paesaggi rurali consolidati o legati alla tradizione locale senza creare un effettivo miglioramento della rete ecologica presente nel territorio. Si verrebbero infatti ad attuare delle zone boscate a macchia di leopardo che non hanno nessun collegamento con la trama vegetazionale esistente e con le componenti strutturali del territorio (corsi d’acqua, percorsi, ecc.). L’attuazione di imboschimenti in aree di pianura e di collina necessita pertanto della preventiva elaborazione di un progetto di paesaggio che preveda un sistema di corridoi ecologici, organico e coerente con la struttura paesaggistica del sito. Gli interventi previsti potranno così valorizzare le principali componenti lineari (antropiche e naturali) del paesaggio rurale, nel rispetto dei suoi caratteri identitari, creando una tessitura vegetale continua. È quindi necessario legare i finanziamenti concessi all’effettiva realizzazione di un progetto di paesaggio a scala territoriale che definisca una struttura ecologica capace di raggiungere gli obiettivi individuati dal PSR.
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Gruppo di Azione Locale Appennino Strategia integrata di Sviluppo Locale.
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Paesaggio rurale e turismo sostenibile nella Valtiberina in Toscana
Figura 4: dall’alto, Daniela Cinti, 2010; Claudio Nocentini, 2009; Luigi Falasconi, 2009; Daniela Cinti, 2007; Bruno Bigoni, 2003. Figura 5: dall’alto, a sinistra, Vincenzo Gonnelli, 2008; Daniela Cinti, 2009; Toscana d’Appennino Società Cooperativa, 2009; Enrico Milanesi, 2008; Marcello Ballerini, 2009, tratta da Valtiberina, un itinerario di colori e di luce, 2009, Aska Edizioni Firenze, p. 31; Daniela Cinti, 2009; Nicola Venturini, 2009; Daniela Cinti, 2009; Toscana d’Appennino Società Cooperativa, 2009; Daniela Cinti, 2009. Figura 7: Daniela Cinti, 2010. Figura 9: Daniela Cinti, 2010. Gli elaborati grafici e le tabelle (figure 6, 8) sono di Daniela Cinti.
Regione Toscana, 2007-2013, Programma Operativo Regionale “Competitività Regionale e Occupazione”, FESR. Regione Toscana, 2009, Progetto Speciale di Interesse Regionale “sviluppo sostenibile del turismo e del commercio della montagna toscana.
Testo acquisito dalla redazione nel mese di luglio 2012. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
Santagata W., Trimarchi M., 2007, Turismo culturale e crescita del territorio. Identità, tradizioni e piaceri nel Monferrato, Angeli, Milano. UNESCO, 1972, Convention Concerning the Protection of the World Cultural and Natural Heritage. Veri S. (a cura di), 2010, Progetto integrato per lo sviluppo sostenibile del turismo rurale. Il Sistema dei Parchi della Valtiberina Toscana, Quadrata, Arezzo.
Riferimenti iconografici Figura 1: Salmi M., La pittura di Piero della Francesca, Istituto Geografico De Agostini, Novara, 1979, tav. XXXII. Figura 2: Luigi Falasconi, 2009. Figura 3: Bruno Bigoni, 2003.
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paesaggi in gioco
Il paesaggio tra conservazione sviluppo: il caso del Chianti
e
Landscape between conservation development: the case of Chianti
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and
Matteo Pacetti*
abstract Il paesaggio del Chianti - risultato di un complesso e articolato processo di stratificazione di valori e significati storico-culturali, ambientali, socioeconomici, scenici che hanno disegnato un contesto unico - assume un ruolo strategico nell’ambito dei processi di crescita e sviluppo locale. L’interesse è orientato in particolare verso le nuove forme di agricoltura multifunzionale (integrata con attività commerciali e turistiche) e di turismo sostenibile, attività che per loro stessa natura non possono che far leva sulle risorse ambientali e culturali, diventando al tempo stesso creatrici e presidi attivi del paesaggio culturale.
abstract The Chianti’s landscape - which is the result of a complex mix of cultural, historical, environmental, socio-economic, scenic values that have designed a unique context - plays a strategic role in processes of growth and local development. In particular, new forms of multifunctional agriculture (integrated with touristic and commercial activities) and sustainable tourism, that rest on the environmental and cultural resources, can act both for the creation and protection of the cultural landscape.
parole chiave Percezione, Convenzione Europea del Paesaggio, insider/outsider, territorio, sviluppo, Chianti.
key-words Perception, European Landscape Convention, insiders/outsiders, region, development, Chianti.
* Economista, esperto di analisi economica territoriale, responsabile dei Servizi Finanziari dell’Unione di Comuni Fiesole Vaglia.
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Il paesaggio tra conservazione e sviluppo: il caso del Chianti
Se una composizione di alberi, montagne, di acque e di case, cui diamo il nome di paesaggio, è bella, non risulta tale per se stessa, ma per me, per la finezza che è mia, per l'idea o il sentimento che vi associo. C.Baudelaire, Salon de 1859
Chianti, tra conservazione e sviluppo Il Chianti Fiorentino rappresenta una importante e vitale articolazione economico-territoriale della Provincia di Firenze. Non sempre è stato così. Negli anni Cinquanta e Seassanta del secolo trascorso, il Chianti nella sua interezza geografica ha conosciuto come tanta parte della Toscana interna la crisi verticale della mezzadria, le cui conseguenze più dirompenti furono l’abbandono dei poderi e delle campagne e l’invecchiamento della popolazione rimasta. A partire dagli anni Settanta s’invertono le dinamiche territoriali: il Chianti comincia ad attrarre la popolazione grazie al suo “vantaggio competitivo” ambientale, ma comincia anche a conoscere fenomeni di rilocalizzazione industriale (da Firenze, soprattutto) e la nascita di piccole imprese da parte di abitanti del luogo. Infine, l’agricoltura ha ripreso una traiettoria evolutiva di segno positivo sulle nuove basi delle coltivazioni specializzate (soprattutto viticole). E accanto all’agricoltura ha preso piede fino a diventare un fenomeno imponente l’agri-turismo, così come si è affermata la pratica dell’acquisizione di case coloniche da parte di stranieri (tedeschi, inglesi, ecc.). Di questa nota e complessa storia locale, però, si è trasmessa l’immagine di un territorio votato all’agricoltura specializzata (i grandi vini), delle case coloniche ristrutturate, dell’agriturismo. In realtà non si deve considerare il Chianti solo come una immagine stereotipata frutto della
Figura 1. Panorama del Chianti Fiorentino – Comune di Tavarnelle Val di Pesa.
percezione di un gruppo di outsider che vedono il territorio come una sorta di arcadia fuori dal tempo e dalla complessità sociale ed economica che caratterizza questo territorio. Il Chianti è terra di piccola impresa e anche di piccola impresa manifatturiera. Nei suoi Comuni, comprendendo in questo esame anche la parte senese, si ritrovano consistenti poli manifatturieri, cui non è estranea l’impostazione distrettuale, e produzioni specializzate (lavorazioni del legno in primo luogo, ma anche metal-meccanica e lavorazioni artistiche dei minerali non metalliferi). Non si può, infine, non fare un cenno alla rete commerciale diffusa e qualitativamente buona nonché al robusto mondo delle costruzioni (edilizia ed impiantistica). Non è facile tenere insieme dal punto di vista degli studi e delle analisi questa complessa e
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variegatissima area, che, se è abbastanza uniforme dal punto di vista morfologico e paesaggistico, non lo è affatto dal punto di vista strutturale. Ad esempio, è sufficiente pensare ai Comuni di Bagno a Ripoli e Impruneta che, parte integrante del Chianti dal punto di vista morfologico, sono inseriti con la forza massiccia ed incontrovertibile dei numeri relativi agli spostamenti casa-lavoro nell’Area Metropolitana Fiorentina, mentre sul versante opposto un piccolo ma economicamente significativo comune come Barberino Valdelsa è strutturalmente legato a Poggibonsi ed al suo Distretto Industriale. In tale sfaccettato contesto, il comune più popoloso del Chianti Fiorentino, San Casciano, che già in anni lontani aveva mostrato una capacità apprezzabile di “resistenza demografica” è andato affermandosi come
paesaggi in gioco
baricentro urbano-terziario di un’area abbastanza vasta. Il Chianti è un’area territoriale “aperta” agli interscambi ed agli influssi provenienti dall’esterno ed al tempo stesso ad una società locale, scaturita dai processi di osmosi fra popolazione rimasta in loco negli anni duri del crollo della mezzadria classica e popolazione proveniente dall’esterno (in primo luogo, da Firenze).
Figura 2. Badia a Passignano, Abbazia Benedettina – Comune di Tavarnelle Val di Pesa.
Paesaggio e sviluppo Il paesaggio identifica l’entità della comunità locale, qualifica il sistema di tradizione di un territorio, è espressione di tutti quei fattori più o meno materiali che delineano le caratteristiche di un dato territorio e che possono giocare un ruolo importante in chiave attrattiva e di creazione di valore aggiunto. Si devono verificare le modalità e
le condizioni (oggettive e percettive) per le quali il paesaggio risulti in grado di rappresentare una risorsa nella produzione della ricchezza di un territorio. Se si parte dall’idea del paesaggio come risorsa nella produzione della ricchezza è importante distinguere tra le diverse filiere produttive, che possono entrare in rapporto con il patrimonio paesaggistico, e i diversi tipi di paesaggio, con una particolare riguardo all’articolazione tra contesti rurali e contesti urbani. L'analisi delle filiere produttive che in modo diverso sfruttano gli elementi di immagine e le specifiche qualità ambientali, avendo specifiche e diverse esigenze di consumo del territorio e, più in genere, un diverso impatto ambientale, è fondamentale per la comprensione del rapporto dinamico tra paesaggio-percezione-sviluppo. Le filiere agroalimentari e agri-turistiche sono quelle che certamente mostrano un rapporto più stretto col territorio e col paesaggio in particolare, anche se non senza ambiguità. Il nesso di corrispettività tra qualità del paesaggio e attrattività (competitività) del territorio passano indubbiamente attraverso la sequenza: qualità del paesaggio - qualità della vita - attrattività. È la qualità della vita che può tradursi in vantaggi di produttività del lavoro, specie quando trattasi di lavoro con particolari connotati di creatività, alta intensità di conoscenza ecc., che possono risultare fortemente dipendenti dalla qualità del contesto ambientale. Un caso significativo delle connessioni accennate è la presenza nel Chianti di imprese medio grandi frutto di investimenti diretti dall'estero, che può essere assunto come paradigmatico in quanto suggerisce che una localizzazione decentrata di una grande multinazionale può intercettare
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Figura 3. Boschi e vigneti a Montefiridolfi – Comune di Tavarnelle Val di Pesa.
positivamente, oltre ad altre esigenze (presenza di indotto caratterizzato da un elevato know-how), anche il favore dei suoi dipendenti per localizzazioni che permettano una speciale qualità della vita legata al contesto naturale. Uno dei principali problemi dal punto di vista metodologico, è ovviamente quello di separare l’effetto del paesaggio da altri fattori di competitività / attrattività del territorio. La qualità del paesaggio può incidere sulla competitività / attrattività del territorio solo in presenza di altri, tradizionali fattori di localizzazione, quali ad esempio l’accessibilità, una certa densità abitativa, le infrastrutture tecnologiche ecc. La qualità del paesaggio introduce allora, coeteris paribus, un delta di competitività / attrattività. Nella logica del rapporto tra attrattività territoriale e paesaggio un elemento chiave sta proprio nel dare valenza di catalizzatore di processi di sviluppo all’estensione oltre la sola sfera estetica del concetto di paesaggio, che vada ad abbracciare,
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non in via residuale bensì a pieno titolo, la dimensione dello sviluppo economico territoriale. Ne consegue dunque la negazione del legame tra paesaggio e attrattività / competitività fondata esclusivamente sulla valenza estetica del primo: tale visione non coglie l’importanza del paesaggio come elemento dell’heritage di un territorio, inteso come somma di elementi materiali ed immateriali che dalla storia vengono estratti per farne patrimonio per il suo presente e futuro. Gli elementi del paesaggio devono essere raccontati, attraverso processi di narrazione selettiva, che possono scegliere di evidenziare valori di bellezza su un piano puramente estetico oppure collegare il bello a valori diversi, dal dinamismo economico all’innovazione ed alla tecnica. Il caso del Chianti è anche quello di un territorio che, attraverso uno dei più efficaci esempi di place 1 branding , narra una storia necessariamente parziale di se stessa, che mira a renderlo credibile in una prospettiva di crescita e di innovazione. Tale visione parziale di una Toscana felix frutto dell'interazione tra natura e uomo non tiene conto del processo economico e dei costi sociali di un sistema che si è basato sulla mezzadria e sullo sfruttamento di generazioni di lavoratori agricoli che hanno visto migliorare la loro condizione sociale solo con l'industrializzazione degli anni Settanta. Il territorio non rappresenta solo il contesto in cui si svolge la nostra esperienza, lo sfondo delle nostre azioni, la base per la realizzazione di una qualsiasi pratica territoriale, ma è il riferimento per le radici culturali e sociali: il legame con la società che ha modellato e caricato di significato il territorio è tale da rendere quel mondo spesso in
Il paesaggio tra conservazione e sviluppo: il caso del Chianti
Il paesaggio come oggetto culturale
Figura 4. Vigneti e oliveti nelle colline del Chianti Fiorentino – Comune di Tavarnelle Val di Pesa.
contrasto con l’immagine e la percezione di un outsider che inevitabilmente finirà per sentirsi, almeno inizialmente estraneo rispetto alla visione degli insider. In questo modo una immagine di paesaggio reale, fattuale, si incontra/scontra con l’inscape o paesaggio interiore come viene percepito dagli insider, generando una delle tante combinazioni possibili tra le due coppie di concetti interiorità-estraneità . Le dinamiche di sviluppo turistico degli anni Novanta, che hanno spinto nel Chianti flussi internazionali, da un lato hanno costituito un elemento di sviluppo per il sistema turisticoresidenziale, ma dall’altro hanno finito per snaturare quei luoghi. L’incontrollato afflusso di turisti ha provocato infatti un aumento artificioso del costo della vita e soprattutto dei prezzi degli immobili, divenuti proibitivi per gli insider, nonché problemi legati all’inquinamento e alla viabilità.
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Se la “svolta” della Convenzione Europea consiste nell’idea che il paesaggio in quanto tale appartenga alla sfera della cultura, questo è un punto di partenza fondamentale, ma rischia di rimanere un’espressione vuota dato che “cultura” oggi è un termine tanto utilizzato e usurato anche nel discorso comune, da risultare spesso teoricamente confuso e poco utile sul piano operativo. Se il paesaggio può essere definito a livello sociologico come oggetto culturale, ossia “significato condiviso incorporato in una forma” (Griswold 1997, p. 26), vengono allora risolte le dicotomie tra natura e cultura, tra oggettivo e soggettivo, tra materiale e immateriale-spirituale, tra sviluppo e conservazione. L’economia, il turismo sostenibile e la tutela del paesaggio culturale sono elementi di una linea guida primaria della Convenzione Europea e della stessa pianificazione. Si catalizza l’attenzione sulla qualità delle trasformazioni in un territorio – quello europeo, e a maggior ragione quello toscano – che è in continuo divenire e si suggerisce la necessità anche per il paesaggio agrario e per i valori ambientali diffusi, di trovare una molla economica capace di rivitalizzarli. Tale dinamicità non può che derivare dall’immissione di nuove attività e funzioni capaci di assicurare la trasformazione e la manutenzione attiva di un territorio che, se lasciato a se stesso senza quelle attività tradizionali e/o innovative, si degraderebbe inevitabilmente nonostante i vincoli e le misure di tutela. Nel Chianti l’interesse è orientato in particolare verso le nuove forme di agricoltura multifunzionale (integrata con attività commerciali e turistiche) e di turismo sostenibile, attività che per loro stessa natura non possono che far leva sulle risorse
paesaggi in gioco
territoriali, ambientali e culturali, diventando al tempo stesso creatrici di nuovo paesaggio e presidi attivi del paesaggio culturale. Inoltre la composizione di attività economiche tradizionali è abbinata a una forte realtà manifatturiera che costituisce ancora oggi l’elemento trainante dello sviluppo locale e che sta cercando una forma di sintesi e di convivenza con l’immagine turistica del territorio. Il paesaggio diventa, in questa dimensione, substrato territoriale e tessuto connettivo della società locale, nonché elemento propulsivo del suo modello di sviluppo. Il cultural landscape si fonda sulla considerazione che il territorio con le sue caratteristiche spaziali, ambientali, insediative, sociali, economiche, ecc., non costituisce solo un elemento passivo, una derivazione automatica della struttura economica e sociale, ma al contrario costituisce un elemento chiave nella traiettoria dello sviluppo locale. Nel preambolo della Convenzione Europea viene infatti formalmente sancito che “il paesaggio svolge importanti funzioni di interesse generale, sul piano culturale, ecologico, ambientale e sociale e costituisce una risorsa favorevole all’attività economica, e che, se salvaguardato, gestito e pianificato in modo adeguato, può contribuire alla creazione di posti di lavoro”. Si supera quindi il dualismo tra sviluppo e conservazione dal momento in cui il paesaggio è una componente importante della qualità della vita sia sotto il profilo culturale, sia da un punto di vista economico, tanto nelle aree di grande pregio ambientale e naturalistico quanto nelle aree urbanizzate dove si svolge la vita quotidiana della maggioranza dei cittadini . Per la tutela-valorizzazione del paesaggio culturale vi sono attività economiche che possono
supportare e promuovere tale processo a condizione che l’attività sia da un lato sostenibile a livello ambientale (ossia che si sviluppi gravando il meno possibile sulle risorse ambientali come acqua, aria, suolo, risorse biologiche) e dall'altro faccia leva sulle caratteristiche e valori ambientali e paesistici del territorio, rendendo possibile il benessere e la crescita culturale dei turisti, favorendo l’incontro dei visitatori con la comunità locale e la sua cultura in un rapporto di reciproca integrazione tra economia del territorio e offerta turistico-ricettiva. La domanda di vacanza e ancor più il turismo culturale, nonché congressuale e fieristico, mostrano un crescente interesse verso aspetti finora trascurati come la qualità di vita complessiva, la protezione dell’ambiente e del paesaggio, la biodiversità e le tradizioni enogastronomiche. Questi interessi convergenti possono di volta in volta riguardare la tutela e la valorizzazione di particolari ambienti naturali, di paesaggi agrari e delle relative produzioni tipiche, dei percorsi escursionistici, ciclabili o fluviali, di itinerari culturali o storici e possono far scaturire progetti capaci di puntare nello stesso tempo all’aumento del richiamo turistico di un’area e ad un maggior rigore ambientale. Relativamente a questi temi, nel caso del Chianti e della sua tradizione vitivinicola, è già valutabile un risvolto concreto dalle esperienze in corso. Da queste riflessioni emerge come ci siano diversi aspetti nelle strategie per la sostenibilità che trovano riscontro nelle nuove iniziative e nei nuovi indirizzi riguardo alla tutela del paesaggio e alla promozione dello sviluppo economico locale. Parallelamente le indicazioni, le prescrizioni di legge e gli strumenti della pianificazione paesistica
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offrono, rispetto al passato, nuovi spunti e motivi di interesse per i processi di governo attivo del territorio. Un elemento strategico è senza dubbio costituito dall’enfasi sugli aspetti partecipativi che la Convenzione Europea attribuisce alle politiche per il paesaggio, considerato “ambiente di vita” e risultante di fattori naturali e/o umani e delle loro interrelazioni. Per questo la sua percezione da parte della comunità assume un ruolo chiave nella definizione delle politiche di sviluppo economico locale. I processi di partecipazione alle scelte di governo del territorio contribuiscono a far emergere le problematiche della sostenibilità a scala locale e ad ottenere una responsabilizzazione diffusa verso l’ambiente e il proprio contesto di vita, una progettualità condivisa,che vuole consolidare nel tempo il più ampio diritto all’informazione, all’educazione e alla formazione ambientale e civica. Tali percorsi partecipativi sono potenzialmente un’occasione importante per consentire alla comunità locale di conoscere, valutare e proporre in merito al governo del territorio e del paesaggio locale, per consentire il confronto su temi specifici tra entità e soggetti che normalmente non interagiscono, per costruire obiettivi comuni e, rispetto a questi, definire progetti ed iniziative del cui sviluppo e della cui attuazione ognuno, per la sua parte, si renda responsabile.
Riferimenti bibliografici Armstrong M., 2006, A handbook of human resource management practice, Kogan Page, London.
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Il paesaggio tra conservazione e sviluppo: il caso del Chianti
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Riferimenti iconografici Figure 1, 2, 3, 4: Matteo Pacetti, 2011.
Testo acquisito dalla redazione nel mese di giugno 2012. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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Il place branding è la pratica dell’applicazione delle strategie e delle tecniche di marketing, in particolare di quelle relative alla gestione dell’immagine e dei brand, allo sviluppo di un territorio, in funzione delle sue esigenze di attrazione di attori economici esogeni: turisti, investitori, migranti.
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Allo Spedale del Bigallo. Dall’orto alla cucina, dall’accoglienza al paesaggio, dalle “camere con vista” ai percorsi esperienziali, verso un nuovo modello ospitale per il Contado Fiorentino1
At Spedale del Bigallo. From kitchen garden to cooking, from reception to landscape, from “panoramic rooms” to experiential paths, towards a new hospital model for the Florentine country
Rita Micarelli*
Rita Micarelli*
abstract Questo articolo racconta la storia di un monumento e di un paesaggio, delle strane avventure vissute da entrambi e delle sue ripetute ‘riscoperte’ da parte di un gruppo di lavoro, originariamente incaricato del suo restauro che, alla fine di un lungo ciclo di perlustrazioni e immersioni partecipate, di ripetuti cicli di recupero e di lunghe permanenze in quel luogo decise che non bastava restaurare il ‘monumento’ ma che occorreva farlo rivivere e respirare nella nostra storia contemporanea, così come si fa con una creatura vivente. Questo articolo propone poi una suggestione: l’hotel podere, strumento innovativo e concreto per promuovere il turismo sostenibile a partire dalla campagna storica verso le città.
abstract This article tells the story of a monument and a landscape, the adventures lived by both and their repeated re-discoveries by a group of people delegated for their restoration. After deep surveys and participated meetings, after many periods of works and long staying in that place, that group decided that it wasn’t satisfactory to restore the monument, but it was needed to make it live again, in our contemporaneous time, as it was a living being. Moreover, this article proposes a suggestion: the “farm-hotel”, an innovative instrument to promote sustainable tourism, starting from the historical country to the cities.
parole chiave Bigallo, museo ospitale, turismo sostenibile.
key-words Bigallo, hospital museum, sustainable tourism.
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* IIAS International Institute for Advanced Studies in System Research and Cybernetics, Atelier dei Paesaggi Mediterranei, Toscana.
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…Chi era, e che cosa voleva dirci, questo Spedale, dopo averci affascinato con le storie custodite nel suo corpo , cresciuto, vissuto e più volte rinnovato durante otto secoli … un cantiere che era stato aperto dal medio evo nel territorio di Bagno a Ripoli, lungo la via dell’Apparita per Roma, da una compagnia laica, nota e potente fondatrice della prima struttura, posta per accogliere e ricoverare innocenti abbandonati e pellegrini, ospiti della città, proprio accanto alla cattedrale fiorentina. Il Bigallo è rimasto, grande e potente testimone di storie che in molti altri casi si sono spente senza poter essere conosciute e che ci invece qui si sono svelate mentre esploravamo le sue stanze , guidati 2 dai documenti scritti che dagli anni Ottanta erano stati ritrovati negli archivi fiorentini. E così le molte storie del Bigallo emergevano faticosamente dai secoli e si ritrovavano intessute tra i muri e il grande orto frutteto, tra la città e la campagna fiorentina, nel paesaggio e nelle architetture di questo straordinario ambiente di vita intorno a Firenze. Un antico Spedale dunque, un luogo ospitale, una fortezza gentile e ancora sobriamente accogliente, quasi un ‘personaggio’ più che un complesso costruito, forse un po’ scontroso e qualche volta geloso dei suoi segreti, una struttura viva che ci parlava con le voci delle persone che lo abitavano raccontando le storie minute del loro vissuto quotidiano, sempre in relazione con la grandiosità di Firenze e del suo popolo civile. E nello stesso modo, diretto e coinvolgente, il Bigallo ci rivelava le storie del Contado fiorentino e della sua progressiva trasformazione nei muri, nelle fonti, nelle strade, negli impianti idrici - condutture, fonti e cisterne- nella regimazione dei campi, nella vegetazione … E ancora di più ci si rivelava con le voci, con i colori della pietra e della terra, con gli
Allo Spedale del Bigallo. Dall’orto alla cucina, dall’accoglienza al paesaggio, dalle “camere con vista” ai percorsi esperienziali, verso un nuovo modello ospitale per il Contado Fiorentino
odori antichi che non riusciamo più a cogliere nei nostri paesaggi e nell’atmosfera della città devastata dal cupido turismo industriale e dall’abbandono rurale. … ‘la gente nova, i subiti guadagni’ del dantesco presentimento hanno pervaso ogni ambiente, alterato gli ambienti di vita della città e impedito la loro percezione, diramandosi inesorabilmente lungo gli antichi percorsi rurali e urbani che si intrecciavano tra Firenze e i paesaggi della Toscana e dell’Italia centrale. Ma con la nostra esplorazione al Bigallo potevamo percepire ancora la freschezza del passato, la contemporaneità della stori , l’emozione dei tempi e dei luoghi, proprio nelle condizioni più estreme impensate. E ci rendemmo conto di come tutto ciò può essere ancora praticabile nell’esperienza contemporanea proprio attraverso le antiche strutture di organizzazione e di civiltà che forniscono occasioni di conoscenza, di studio e di riflessione diretta, e che possono ristabilire una relazione diretta tra gli archivi documentari, vicini all’umanità che li ha costruiti e vissuti prima di noi, e l’anima dei luoghi , ritrovando un’atmosfera altrimenti irraggiungibile per la nostra esperienza percettiva, quella del nostro ‘quotidiano’ e delle nostre abitudini mentali. Un’emozione da ritrovare e da propagare, sulle vie della percezione e dell’emozione che il Bigallo ci prometteva e che cercammo di cogliere durante la nostra esperienza di scoperta, di progettazione e di elaborazione di nuove ipotesi per la sua gestione, vissuta non da tecnici, ma da ‘ospiti progettanti’. In questo senso abbiamo interpretato e sviluppato le attitudini originarie dell’antico Spedale verso modalità contemporanee di conoscenza esperienziale e di partecipazione costruttiva. Questo orizzonte fu dunque aperto e la vista che ci
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offriva fu compresa e apprezzata dai molti appassionati, studiosi e cittadini che avevano partecipato alle nostre attività, ma non fu altrettanto apprezzato dalle diverse amministrazioni di Bagno a Ripoli. Così la promozione del Bigallo nel senso della ‘ospitalità progettante’ che esso ci offriva fu per più volte fraintesa, e la sua gestione attuale è una semplificazione banale che potrebbe far dimenticare la complessità e il fascino di questa struttura. Ma il Bigallo ‘resiste’ e, così come è accaduto in passato, potrebbe ancora sfidare anche i nuovi attacchi della cultura dominante contemporanea.
Dal cantiere riaperto al museo ospitale, un percorso esperienziale per conoscere, frequentare e vivere il Bigallo Così tutte le esperienze vissute al Bigallo si sono progressivamente trasformate in proposte per il suo futuro sviluppando tutte le potenzialità del complesso, del paesaggio e tutte le disponibilità dei soggetti che le negli ultimi anni le hanno trasformate in veri e propri progetti di “ospitalità contemporanea”. Si è così attivato un nuovo cantiere di elaborazione di memorie in itinere e di costruzione accogliente in cui le architetture, gli impianti e l'ambiente costruito di pertinenza dello Spedale vengono a costituire un’esperienza di città e di paesaggio, di arte e di storia vissuta nei viaggi e nella partecipazione coinvolgente alla vita e alle trasformazioni di Firenze nel suo Contado.
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Figura 1. Il Bigallo e il suo orto murato.
E da qui … verso una rinnovata esperienza dall’osservazione alla partecipazione attiva, verso un Museo Ospitale In questo senso abbiamo sviluppato una modalità di riattivazione del Bigallo che sta tra l'attività museale e l'attività ospitale, tra la ricerca, che è continuativa e permanente all'interno della struttura, e la sua verifica esperienziale diretta che
può avvenire solo abitando la struttura e lavorando al suo interno. Le esperienze europee già acquisite, come quelle dei Musei open air e delle strutture didattiche già presenti in Europa ai livelli più alti, ci hanno incoraggiato a sviluppare ulteriormente alcune modalità di fruizione che in essi sono ormai in uso, accentuando la caratterizzazione del Museo Ospitale, che può svilupparsi al Bigallo assumendo anche compiti più complessi di quelli delle strutture 3 didattiche e museali più conosciute . Questa strada ci è sembrata interessante sia per il suo aspetto di rigore scientifico che per il suo aspetto concretamente esperienziale, che convivono nella struttura architettonica e paesistica del 'museo ospitale' senza esasperazioni e prevaricazioni di una componente sull'altra, nella giocosa convivialità di un processo di ricerca aperto e certamente irreversibile. In tale processo il Museo tradizionale e il Fruitore tradizionale si trasformano in “ospitante” e “ospitato”, entrambi attivi e partecipi come era nell'antico Spedale in cui si dispensavano servizi a chi ne avesse bisogno ma si ricevevano esperienze esterne in continuo arricchimento. Sulla base di questo scambio interattivo abbiamo scelto che questo Museo ospitale ospitasse le tematiche del Pellegrinaggio e del Viaggio che costituiscono la caratterizzazione basilare delle sue attività originarie ospitali e museali al tempo stesso. Entrambe le tematiche, sviluppate progressivamente dagli esperti e dai gruppi di ricerca, possono trovare un corrispondente “riferimento esperienziale” da elaborare in concomitanza con le ricerche e da offrire al pubblico tramite l'organizzazione di eventi (seminari specialistici, workshop partecipativi, esperienze dirette, e altre attività didattiche coinvolgenti). Gli allestimenti che documentano le
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ricerche tematiche prodotte di volta in volta, vengono a costituire “l’archivio in divenire” e in continuo rinnovamento che è parte intrinseca di un tale Museo.
La gestione e la fruizione del Museo, come un’attività specialistica e sociale al tempo stesso La gestione del Museo è concepita come un'attività scientifica e di ricerca integrata, aperta, e in continua evoluzione, e così è per tutte le attività di ricerca e di sperimentazione delle quali il museo è promotore, organizzatore e fruitore le tempo stesso. Sui temi del viaggio e pellegrinaggio, e della vita quotidiana, si concretizzano le ricerche scientifiche (su soggetti e argomenti promossi direttamente dal Museo) la raccolta e archiviazione di dati documentari, e la divulgazione, nel continuo coinvolgimento sociale culturale della popolazione (locale e dell'area fiorentina) . La gestione del Museo è sostenuta da un gruppo tecnico e scientifico interdisciplinare, articolato per competenze di ricerca, professionali e didattiche, tutte orientate alla promozione di una nuova modalità di ricerca aperta e al raggiungimento di una graduale autosostenibilità economica del Museo stesso (il Museo si autopromuove e si mantiene, autofinanziandosi progressivamente).
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Allo Spedale del Bigallo. Dall’orto alla cucina, dall’accoglienza al paesaggio, dalle “camere con vista” ai percorsi esperienziali, verso un nuovo modello ospitale per il Contado Fiorentino
ma anche di scuole medie superiori e inferiori) ospiti del Museo per la durata degli Stages e delle attività di ricerca sperimentale. Il Museo potrebbe così offrire permanentemente soggiorni, corsi, seminari, esperienze ed eventi dimostrativi specifici, e promuoverà attività a gruppi e Scuole italiane straniere interessate a partecipare ad attività di ricerca e a scambiare “prodotti culturali” con il Museo. In questa prospettiva verrebbe a organizzarsi l'archiviazione dei dati delle ricerche svolte, delle quali sarà assicurata la consultabilità diretta e in rete, incrementando così l'offerta culturale e migliorando la qualità della divulgazione. In questo museo potrebbero così prender vita le attività dirette e di partecipazione del pubblico e degli esperti, nella forma di eventi e di occasioni sperimentali dirette (la cucina, il bucato, l'orto, la medicina, la musica, la danza, etc.). Gruppi di esperti con specifiche competenze e fruitori attivi del Museo organizzano gli eventi che costituiscono l'occasione per rivivere o per riflettere su modalità della cultura popolare e del quotidiano con la collaborazione e il coinvolgimento del pubblico.
Il Museo si autofinanzia supporto economico
Figure 2, 3. Il Bigallo nel paesaggio del contado fiorentino. Il complesso visto dal giardino murato.
Sulla base di attività programmate concordate si procederà alla programmazione delle ricerche da svolgere sul luogo tramite il lavoro di gruppi di studenti e professori (non solo delle università e dei corsi post laurea, dottorato, o Master e Ph.D,
con
attività
di
Nel quadro delle attività del Museo ospitale sono di grande interesse tutte le modalità di ospitare qualificate e proprie della cultura che costituisce il principale motivo di vita del Museo. Nei locali più caratterizzati del complesso (il Refettorio, le Cantine monumentali, la Cucina, la Cappella, le Camere, l'Orto) possono essere ospitate sia le attività di ricerca e di turismo
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qualificato che fanno capo al Museo che altre attività (culturali e sociali , cerimonie, meetings, ecc.) che possono trovare nel Museo un riferimento di grande qualità e suggestione. Occorre cioè immaginare diversamente anche le attività che si vorrebbe sviluppare e assumerle dall’inizio come attività integrate, in cui gli esperti si mescolano al pubblico e ne stimolano la collaborazione attiva, senza assumere ruoli di rappresentanza né “deleghe” che riconfigurano le vecchie modalità di “partecipazione al gioco democratico”, richiudendolo nelle vecchie regole.
Il Cantiere continua nel Giardino dei Frutti perduti: le esperienze recenti aprono nuove 4 prospettive Lo Spedale del Bigallo si è rivelato emblematico, non solo come luogo strategico dell’architettura, della storia e come ritrovamento unico nel suo genere ma come straordinario nodo paesistico e agricolo dell’area collinare a sud della città. Alle spalle dell’edificio esiste tuttora un grande spazio murato, l’orto-giardino-frutteto di circa 6.000 metri quadrati. L’orto, oggi costituito da olivi e alberi da frutta, si inserisce in un paesaggio collinare ancora fortemente caratterizzato, sebbene oggetto di profonde trasformazioni - un paesaggio definito “della tensione”- dove urbanità e ruralità si incontrano, generando luoghi dove il progetto paesistico si fa particolarmente complesso, ma allo stesso tempo ricco di suggestioni. Il restauro dell’orto frutteto restituisce al Bigallo le caratteristiche ambientali e tecnologiche originarie che connettevano l’edificio al sistema ambientale che vi gravitava attorno e dal quale traeva la sua ragione di esistere: l’orto-frutteto, la Fonte Viva e il
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divise da due percorsi in croce, con l’introduzione alcuni alberi da frutto (melo, pero, susino e pesco, alberi indicati anche dall’abate di Reicheneau nel piano dell’Abbazia di San Gallo), e con la riattivazione del sistema di cattura delle acque piovane e di convogliamento delle acque della Fonte Viva alle spalle dello Spedale. Tutte le opere descritte sono state realizzate in connessione con indagini archeologiche effettuate per verificare la presenza di tracce significative della antica configurazione dell’orto ed in particolare per ripristinare i livelli di campagna originari.
sistema di cattura delle acque per l’irrigazione, per i servizi dello Spedale, come il frantoio e il bucato. Lo studio e il progetto dell’Orto è stato così sviluppato per ricostruire l’orto produttivo gestito in forma partecipativa dai coltivatori locali, per la mensa del pellegrino e per le strutture sociali locali, ma anche per attivare contestualmente una serie di attività culturali collaterali e di supporto alla struttura ricettiva dello Spedale (già attrezzato come Ostello) attraverso corsi di formazione o professionale, corsi amatoriali, week end a tema, vacanze studio e spettacoli serali.
Figure 6,7. Suggestioni per la ricostruzione del giardino: il giardino dell’Eden; immagine di vita quotidiana.
Figure 4, 5. L’orto-frutteto e la riproposizione di aiole rialzate con piante officinali e alimentari.
L’orto potrebbe così svolgere anche la funzione esperienziale e di apprendimento, attraverso la riproposizione di alcune suggestioni del giardino medioevale finalizzate alla divulgazione e alla conoscenza. In particolare, con il ri-disegno del nuovo ortogiardino delle aromatiche e officinali, sono state costruite filologicamente le aiuole rettangolari rialzate e bordate da con una graticciata in castagno - secondo la tipologia ricorrente nel Medioevo, separate da stretti percorsi per il passaggio del giardiniere e delle carriole. Questa ricostruzione filologica si rapporta anche a quella già realizzata all’interno dello Spedale con gli arredi ‘ispirati’ alle raffigurazioni di interni della pittura medievale rinascimentale che è stata riproposta all’esterno con l’introduzione di specie vegetali aromatiche ed officinali, suggerite dall’erbario di Ildegarda di Bingen. Ciò è stato realizzato con la coltivazione di quattro grandi aiuole a ortaggi – come da elenchi del XII secolo -
Figura 8. Alcune visite al cantiere-museo.
La grande suggestione di tutte le ricostruzioni filologiche del Bigallo ha ispirato anche nuove proposte per la sua gestione ospitale e per la sua promozione nei confronti della frequentazione del luogo, del paesaggio, e della città di Firenze.
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In questo senso il Bigallo, una volta riattivata la funzione ospitale, sociale, produttiva estesa al suo orto, può costituire un “presidio paesistico” unico nel contado fiorentino e prezioso per il territorio di Bagno a Ripoli. Il Presidio Bigallo è oggi ancor più significativo anche come modello di gestione positiva di un Bene Pubblico, in contrasto con gli interessi speculativi che assediano il territorio. A questo proposito sono state formulate nuove ipotesi di gestione partecipata del paesaggio che avviano nuove forme di collaborazione tra operatori economici, popolazione e amministrazione comunale, investendo l’ambito della pianificazione e portando a compimento specifici progetti di accoglienza e turismo sostenibile per i quali il Bigallo diviene riferimento e punto di coordinamento e promozione. In tal senso l’attività di ricerca e di valorizzazione sostenibile del complesso condotta nel corso degli ultimi anni ha promosso più compiutamente la gestione integrata di questa risorsa, sviluppando coerentemente tutte le ipotesi formulate per questo luogo fin dalle fasi del suo primo restauro in relazione al Museo Ospitale e alla ricostruzione di un parte dell’Orto-Frutteto. È stata così formulata questa ultima proposta.
Un progetto per il Bigallo contemporaneo, tra campagna e città, tra cultura e agricoltura: l’Hotel Podere Questo progetto ha sviluppato tutte le azioni e le ipotesi precedenti che in esso hanno trovato compiutezza concreta e aperture a nuovi sviluppi, confluendo nell’ipotesi progettuale denominata l’Hotel Podere.
Allo Spedale del Bigallo. Dall’orto alla cucina, dall’accoglienza al paesaggio, dalle “camere con vista” ai percorsi esperienziali, verso un nuovo modello ospitale per il Contado Fiorentino
Con questa modalità si è inteso proporre una formula innovativa e praticabile per promuovere il turismo sostenibile a partire dalla campagna storica verso la città, per raggiungere Firenze “dal Contado” e per ritrovare le relazioni perdute non solo nel paesaggio agricolo del Bigallo e dei dintorni ma tra la città e la sua collina, da sempre parti di uno stesso tessuto culturale, civile, ed economico. Questa ricerca ha dimostrato la praticabilità della ricostituzione della risorsa paesistica ritessuta su basi rinnovate, oltre la frammentazione e la dispersione contemporanee. Il paesaggio, e con esso le opere che lo configurano (assetto del suolo, regimazione idrogeologica, immobili di pregio e monumenti paesistici) può divenire invece l’elemento su cui fondare molteplici attività che possono essere riconnesse alla promozione turistico/paesistica sostenibile da proporre in alternativa alla modalità vigente del turismo industriale fiorentino.
Che cos’è l’Hotel Podere? È una struttura di partecipazione e di coordinamento in cui l’amministrazione pubblica – con il Bigallo - promuove, coordina e gestisce le attività di accoglienza già esistenti sul territorio portando a maturazione tutte le proposte fattibilità prodotte in questi anni con il processo di rivitalizzazione del Bigallo e promuovendo l’accoglienza sul territorio di Bagno a Ripoli come attività ad ampio raggio condotta da differenti soggetti – operatori turistici, ricercatori, coltivatori, associazioni, scuole, università, che trovano in questa modalità occasione e impegno concreto per sviluppare promuovere competenze professionalità
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dirette alla promozione e alla gestione del paesaggio , qualificata e controllata pubblicamente. In tal senso l’Hotel Podere (che è un Hotel in piena regola, anche se molto particolare, con il suo personale qualificato e con il staff selezionato) valorizza e promuove le risorse locali offrendo alternative significative anche alla città di Firenze, quali: la valorizzazione delle coltivazioni tradizionali e dei prodotti di qualità da proporre al consumo sociale e al consumo ospitale (in concomitanza, su base stagionale); la manutenzione continua del paesaggio storico; la fruizione e la gestione sociale dei beni ambientali, sia di proprietà pubblica che privata (coordinata); la programmazione e riorganizzazione culturale del patrimonio della storia e della cultura locale tradizionale come chiave di conoscenza e di fruizione del patrimonio ambientale e paesaggistico dei ‘dintorni di Firenze’ in relazione alla conoscenza e alla visita della città di cui il paesaggio collinare di Bagno a Ripoli costituisce notoriamente lo ‘specchio’ rurale; lo sviluppo e il potenziamento delle attività agro-turistiche locali; lo sviluppo di iniziative partecipative di gestione e manutenzione delle risorse da parte di cittadini di nuovo insediamento e abitanti insediati da tempi lontani; la promozione di attività di formazione professionale specifica relativa al turismo sostenibile e al suo rapporto con il paesaggio e i monumenti storici. Alle proposte specifiche da sviluppare localmente si integra la proposta di gestione partecipata delle risorse territoriali, attuabile tramite modalità oggi
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praticabili nella forma di Contratti di Paesaggio che possono riconnettere le problematiche già emergenti localmente della partecipazioni propositiva da parte dei cittadini che potrebbero intervenire nei processi di promozione del territorio e del paesaggio. La formazione del Presidio Paesistico, avviata con la gestione integrata del Bigallo può ancora svilupparsi partendo da questa esperienza, convogliando le disponibilità degli abitanti e degli esperti del paesaggio e dell’agricoltura locale, per sperimentare nuovi progetti.
Lo stato del progetto e del paesaggio oggi al Bigallo: un bilancio Le ricerche, le dedizioni appassionate di tutto il gruppo che si è impegnato al Bigallo dal 1995 fino a questi ultimi anni sono state verificate positivamente dal punto di vista della partecipazione e delle potenzialità che sono emerse tra gli esperti, i tecnici, e tra le persone che hanno partecipato al processo di riscoperta e di rivitalizzazione del Bigallo. Questa verifica non è stata accolta pienamente dall’amministrazione locale che ha preferito gli iter tradizionali di programmazione e di progettazione delle nuove attività di restauro purtroppo non sempre felici, negando i contenuti dei molti progetti integrati e partecipativi precedentemente messi a punto. Ciò ci porta ancora una volta a constatare che il cambiamento di approccio alla gestione dei beni pubblici e del “bene comune paesaggio” non può essere praticato compiutamente senza una piena consapevolezza delle Amministrazioni Pubbliche a sviluppare le pratiche culturali ed economiche
aperte e partecipate di coinvolgimento della società civile. Tutto ciò ci fa pensare, e ancora una volta sperare, che nuove modalità di coinvolgimento più articolate e continue nei confronti delle popolazioni e delle strutture della cultura, dell’economia e della solidarietà siano ancora possibili e possano contribuire attivamente ai processi di rivalutazione e di gestione delle risorse più significative dei nostri contesti contemporanei per sviluppare economie e innovazioni culturali intrinseche al contesto locale, ma aperte su orizzonti sempre più ampi . In sintesi, e nonostante tutto... Possiamo ancora dire che l’esperienza condotta al Bigallo ci ha insegnato e incoraggiato molto. Per questo, al di là delle alterne vicende che fino ad ora ne hanno impedito il pieno e coerente sviluppo, costituisce una testimonianza significativa della reale praticabilità di approcci innovativi alla gestione dei beni comuni nei contesti contemporanei. Perciò non disperiamo, molto ancora potrebbe succedere!
Riferimenti bibliografici Il paesaggio collinare e fluviale di Bagno a Ripoli, le questioni della sua partecipazione vitale alla storia e alla vita contemporanea del contesto fiorentino sono state trattate dall’autrice in numerose occasioni. In particolare si segnalano: Giorgio Pizziolo e Rita Micarelli, due monografie pubblicate sulla rivista PARAMETRO, Faenza editrice, 1986 e nel 1990. Pizziolo G., Micarelli R., 2008, I paesaggi della ruralità contemporanea, ed. Atelier dei Paesaggi Mediterranei Firenze.
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Riferimenti iconografici Figura 1: elaborazione di Rita Micarelli e Giorgio Pizziolo. Figure 2-5 e 8: Rita Micarelli. Figura 6: Giovanni Boccaccio, 1415 (circa), De casibus virorum illustrium, Parigi. Tratto da Cardini F., Miglio M., 2002, Nostalgia del paradiso. Il giardino medievale, Editori Laterza, Bari. Figura 7: Cardini F., Miglio M., 2002, op. cit.
Testo acquisito dalla redazione nel mese di giugno 2012. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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Rita Micarelli è stata la coordinatrice di questo lavoro dal 1995 al 2006. Il Gruppo di esperti che ha condotto l'operazione è formato da : Rita Micarelli, Giorgio Caselli, Natale Leuzzi, Antonella Valentini, con l'intervento strutturale di Sergio Nencioni, dell’Ufficio Cultura e Ufficio lavori pubblici del Comune di Bagno a Ripoli , del Sindaco Mauro Zampoli e degli Assessori alla cultura Giovanna Dolcetti e Cristina Pedretti. L’apporto appassionato e la competenza di Giuliana Righi ci ha sostenuto e accompagnato in tutte le fasi del nostro lavoro. 2 Il lavoro di recupero delle informazioni di archivio fu svolto dal prof. Paolo Pirillo. 3 Alcuni esempi si tali strutture sono ormai attivi nel nord Europa e nei paesi anglosassoni in particolare, ma stanno prendendo campo anche nell'Europa latina, soprattutto nei luoghi in cui si dispone di testimonianze architettoniche o archeologiche rimaste a lungo in abbandono o spogliate dei reperti più prestigiosi. In questi casi diventa necessaria una valorizzazione diversa di questi patrimoni di informazione, per i quali è
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Allo Spedale del Bigallo. Dall’orto alla cucina, dall’accoglienza al paesaggio, dalle “camere con vista” ai percorsi esperienziali, verso un nuovo modello ospitale per il Contado Fiorentino
necessario individuare una chiave originale non di lettura interpretativa ma di fruizione. 4 Negli anni 2004-2006 il Bigallo è stato inserito nella sperimentazione di una Linea Tematica “I paesaggi delle ruralità contemporanea” coordinata dall’Atelier dei Paesaggi Mediterranei sotto la direzione scientifica di Giorgio Pizziolo (Università di Firenze) e di Rita Micarelli (Politecnico di Milano). Il Bigallo trovò in questo progetto un ruolo significativo con il suo tema progettuale denominato “Il Giardino dei Frutti perduti”, condotto da Antonella Valentini e Silvia Martelli che svilupparono il progetto dell’Orto, completando il recupero tematico dell’orto murato in relazione con la cantine, l’orciaia e i lavatoi sotterranei già restaurati. L’occasione era interessantissima, anche per le modalità vantaggiose di Finanziamento e di compartecipazione che facilitavano e incoraggiavano progetti (il Bigallo era stato inserito in un gruppo di quattordici progetti in Emilia, Umbria e Toscana) che costituivano altrettanti casi esemplari di paesaggi della Linea Tematica condotta dall’Atelier dei Paesaggi Mediterranei nel Progetto Europeo Ruralmed. 5 Recentemente sono state sviluppate molte esperienze partecipative in termini di Contratto di Paesaggio, a cura e per iniziativa di Giorgio Pizziolo e Rita Micarelli in Provincia di Modena (Contratto di Fiume Paesaggio Medio Panaro) e in Provincia di Terni (Comuni di Acquasparta, Avigliano, Montecastrilli, Narni e San Gemini). Il Contratto è inteso come Processo Progettante Partecipato che viene promosso, costruito e garantito congiuntamente da gruppi significativi di cittadini , dagli Amministratori locali a diversi livelli (comuni, Province, Regioni, etc.), dagli operatori e da tutte le istituzioni Culturali e Scientifiche che hanno competenze sui territori e sugli ambiti paesistici di Contratto. Le attività di Contratto sono in corso nei territori delle due Province.
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paesaggi in gioco
Carrara e le sue cave. Alla scoperta dei paesaggi del marmo
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Carrara and its quarries. Discovering the marble landscapes
Francesco Alberti*
abstract L'articolo illustra il piano-programma elaborato nel 2007 da P. Giorgieri e F. Alberti, con il supporto della società di marketing territoriale SL&A di Roma, per la valorizzazione turistica dei luoghi del marmo (cave, laboratori di scultura, strutture espositive, borghi e percorsi degli antichi cavatori, ecc.), inserito nel 2010 nel PIUSS (piano integrato di sviluppo urbano sostenibile) che il comune di Carrara ha presentato, con successo, alla Regione Toscana per l'accesso ai fondi strutturali europei. La proposta prevede l'attivazione progressiva di sei itinerari di visita, in gran parte ricalcanti i sedimi della vecchia ferrovia Marmifera, tra la città, i bacini estrattivi (con le loro cave attive e abbandonate, appartenenti a diverse fasi storiche) e i sentieri del Parco delle Alpi Apuane.
abstract The article describes the strategic master plan drawn in 2007 by P. Giorgieri and F. Alberti, along with a marketing study by SL&A (Rome), for promoting tourism through the places of white marble in Carrara - quarries, sculpture ateliers, exhibition spaces, villages and trails of old quarries, etc.. The proposal is part of the Integrated Plan for Urban Sustainable Development (PIUSS) presented with success by the Municipality to the Region Tuscany in 2010, for the allocation of the European structural funds. The plan is structured on six touristic itineraries, some of which follow the routes of the old “Marble Railway”, linking the town center with the extraction areas (with their active or dismissed quarries belonging to different times) and the footpaths of the Park of the Apuan Alps.
parole chiave Paesaggio, Carrara, Apuane, PIUSS, ferrovia marmifera
key-words Landscape, Carrara, Apuane, PIUSS, Marble Railway
cave
di
marmo,
marble
quarries,
* Università degli Studi di Firenze, Dipartimento di Urbanistica e Pianificazione del Territorio.
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Carrara e le sue cave. Alla scoperta dei paesaggi del marmo
Qui ci sono delle forme, delle forme che sbalordiscono. Giovanni Michelucci
L’emozione suscitata in Giovanni Michelucci dalla Cava di Michelangelo e dai paesaggi ibridi – risultanti dalla concatenazione tra gli ambienti naturali e le conformazioni astratte prodotte nei secoli, insieme all’evoluzione degli impianti e delle infrastrutture, dalle attività di estrazione del marmo – che si susseguono senza soluzione di continuità dalle viscere alle cime delle Alpi Apuane, con ampie vedute e prospettive metafisiche verso il mar Tirreno, traspare vivida nella serie di schizzi e disegni realizzati negli anni Settanta dall’architetto pistoiese intorno all’idea di costruire in loco un “centro sperimentale del marmo” dedicato al Buonarroti. Il progetto non ebbe alcun seguito operativo, ma la forza di quelle visioni ha contribuito a far conoscere ad un pubblico colto e in una dimensione sovra-locale l’immenso valore, non solo industriale, di un angolo di Toscana molto lontano dai canoni classici dell’iconografia regionale. A distanza di alcuni decenni, questa consapevolezza appare ormai consolidata nel territorio, intrecciando agli interessi del comparto lapideo – ancora forte e presente, ma il cui ruolo sul mercato globale appare comunque molto ridimensionato rispetto al passato – istanze concorrenti nel segno della tutela dell’ambiente, della promozione culturale, di uno sviluppo locale sostenibile da perseguire attraverso la diversificazione delle attività economiche. Il tema della valorizzazione turistica degli agri marmiferi, visti appunto come risorsa paesaggistica e culturale oltre che produttiva, si è così imposto, da qualche tempo, nell’agenda delle istituzioni operanti in area apuana.
Figura 1a e b. Schizzi di Giovanni Michelucci per un "centro sperimentale del marmo" sulle Alpi Apuane, in località Foce di Pianza (1972)
Nel 2004 il Comune e la Camera di Commercio di Carrara hanno promosso uno “Studio preliminare di
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sviluppo e marketing territoriale” (il cosiddetto “Studio Civita”) che ha individuato tre ambiti strategici per interventi di recupero urbano e ambientale: il “Polo Musei”, relativo alla riorganizzazione dell’offerta museale all’interno del capoluogo; il “Polo Cave”, relativo al riuso di alcuni siti all’interno dei bacini estrattivi; il “Polo Paesi a monte”, relativo alla creazione di un ecomuseo imperniato sulla valorizzazione delle frazioni montane, a cui è legata la tradizione dei cavatori. L’anno successivo si costituisce un gruppo di lavoro tecnico interistituzionale a cui partecipano esponenti del Comune, della Provincia di Massa Carrara, della Regione Toscana, della Soprintendenza per i beni archeologici della Toscana, con il compito di coordinare gli interventi riguardanti le aree estrattive nei diversi settori: pianificazione territoriale e urbanistica; sicurezza del territorio, difesa del suolo e tutela ambientale; aspetti produttivi; infrastrutture e servizi; valorizzazione turistica e culturale. Su questi assi prioritari viene pubblicato, nel gennaio 2006, un primo documento operativo contenente le linee guida per un “Progetto di riassetto complessivo dei bacini marmiferi carraresi”. Nella prospettiva della tutela e rilancio delle risorse locali si inquadrano anche le numerose azioni di rilievo edilizio e/o urbanistico intraprese o avviate dalla città di Carrara su diversi fronti già dai primi anni 2000: l’adeguamento del sistema infrastrutturale - tra le opere più significative realizzate, la messa in sicurezza e riapertura dei Ponti di Vara (2006), già appartenenti alla storica Ferrovia Marmifera (1876) e riconvertiti negli anni Sessanta come viabilità di collegamento fra i tre bacini estrattivi di Torano-Lorano, Fantiscritti e Colonnata, e, soprattutto, la nuova Strada dei
paesaggi in gioco
Marmi, che dal 21 aprile scorso, dopo quasi 10 anni di lavori, assorbe su un tracciato prevalentemente in galleria il traffico di mezzi pesanti generato dalle attività di escavazione in direzione del porto e dell’autostrada, evitando l’attraversamento del centro urbano e dei paesi a monte;
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Figura 3. I ponti di Vara oggi.
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Figura 2. I ponti di Vara, lungo la ferrovia privata Marmifera, in una foto d'epoca.
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la riqualificazione degli spazi pubblici, sia nel capoluogo che nelle frazioni (Colonnata, Torano) – settore per il quale Carrara ha potuto beneficiare, per il periodo 2001-2006, dei finanziamenti del programma europeo URBAN II1;
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la riorganizzazione del sistema museale – ristrutturazione del Museo del Marmo (riaperto nel 2008); destinazione del Convento di San Francesco a Centro per le Arti Plastiche (inaugurato in occasione della XII Biennale di Scultura nel 2007 e dall’aprile 2012 sede permanente della collezione di arte contemporanea della città), recupero del parco dell'ottocentesca Villa Fabbricotti “alla Padula” come parco di sculture (finanziato con fondi URBAN e arricchito di opere di artisti internazionali nell’ambito della Biennale del 2002); la creazione di punti di accoglienza e informazione turistica – recupero di una vecchia stazione di servizio alle porte del centro di Carrara, presso la sede del Museo del Marmo, come Check Point bus turistici (2006) e previsione di realizzare un parcheggio e un centro servizi presso la stazione in località Tarnone sulla ex Marmifera, come base per le escursione sulle Apuane; il recupero di beni storici, archeologici e di archeologia industriale – dalle fermate della Marmifera, al citato Convento di San Francesco; molti interventi, sebbene programmati da anni, non sono invece ancora
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partiti per mancanza di fondi (è il caso ad esempio dei restauri delle cave di epoca romana); la trasformazione, bonifica e messa in sicurezza delle cave, anche in vista di un loro uso pubblico – da segnalare, in particolare, la Cava dei Poeti, in località Morlungo, sito dismesso che nel 2002 fu sede di un evento della Biennale, durante il quale l’artista Marco Nereo Rotelli incise sulla pietra i versi di alcuni autori contemporanei2; utilizzata negli anni 20052006 come arena per spettacoli all’aperto, da alcuni anni versa nuovamente in stato di abbandono; l’attivazione di sentieri vecchi e nuovi a fini escursionistici – gli interventi, in parte realizzati, in parte in attesa di finanziamento, si inseriscono nella cornice del piano del Parco delle Alpi Apuane.
La programmazione interventi: dalle linee sistema
strategica degli guida al progetto-
Il “parco progetti” sopra illustrato, in gran parte definito già alla metà degli anni 2000, rappresenta indubbiamente un potenziale di grande interesse per aumentare sia la funzionalità complessiva, sia la conoscenza e l’attrattività turistica dell’area. Al fine di ottimizzare sforzi e risultati, occorreva però che i diversi interventi si inserissero entro una cornice strategica ben definita, ancorché flessibile nelle sue possibili declinazioni operative, passando dagli studi preliminari e dalle linee guida già formulate alla costruzione di un “progetto-sistema” dotato di evidenza cartografica e strutturato in
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modo da consentire una sua implementazioni per fasi. Nel 2006 veniva quindi affidato alla società SL&A Turismo e territorio di Roma l’incarico di predisporre uno “Studio di fattibilità finalizzato alla salvaguardia ambientale ed al rilancio del turismo sostenibile nel territorio apuano a partire dalla risorsa delle cave”, che per primo ha delineato uno processo di sviluppo per l’area, articolato nello spazio e nel tempo secondo un modello incrementale “strategicamente orientato” sulla base di un master plan generale. Questo è stato messo a punto dallo Studio Giorgieri di architettura e urbanistica di Firenze3, con l’intento di dar forma, attraverso il riconoscimento degli elementi specifici del patrimonio territoriale e il riferimento a standard di progetto – per le architetture come per le sistemazioni paesaggistiche – comparabili con le migliori pratiche internazionali, a una rete riconoscibile di luoghi, itinerari e servizi, mettendo in sinergia: le opportunità e le risorse già fruibili presenti nel territorio; i progetti avviati; ulteriori interventi individuati allo scopo di migliorare la qualità delle strutture esistenti o previste, oppure di rafforzare il ruolo di alcuni siti, sia a vantaggio della riconoscibilità del sistema, sia in funzione di una distribuzione territorialmente più omogenea nell’offerta di servizi e luoghi d’interesse. L’ambito di riferimento assunto nel master plan è quello dei bacini marmiferi, visto però necessariamente in relazione ad un contesto più ampio, comprendente il sistema urbano a valle e le aree a monte ricadenti nel Parco delle Alpi Apuane. Sebbene lo studio, consegnato nel 2007, prevedesse l’immediata realizzazione di alcuni
Carrara e le sue cave. Alla scoperta dei paesaggi del marmo
interventi a basso costo come start-up dimostrativo dell’operazione, un po’ per le note ristrettezze economiche che affliggono i Comuni italiani per effetto del patto di stabilità, un po’ per le difficoltà, anch’esse tipiche delle amministrazioni locali, a coordinare il lavoro dei propri uffici verso obiettivi comuni, l’intero “pacchetto” è rimasto sostanzialmente congelato fino al 2010, quando è stato inserito, in una versione ridotta e con qualche variante, nella proposta di PIUSS (Piano Integrato Urbano di Sviluppo Sostenibile) del Comune di Carrara, presentata alla Regione Toscana per l’accesso ai fondi strutturali europei 2007-20134. Gli interventi finanziati – di cui diremo più avanti – sono attualmente in fase di progettazione esecutiva.
Il marmo come Leitmotiv Il tema conduttore degli interventi e delle proposte confluite nel progetto-sistema è, ovviamente, il marmo, che sotto il profilo del marketing territoriale rappresenta l’elemento di maggior notorietà di Carrara a livello internazionale. Come conferma l'indagine di SL&A, infatti, al di là degli andamenti del mercato, vi è nel mondo una forte conoscenza di Carrara in relazione al prodotto marmo e alle cave, mentre altri elementi del territorio, che pure localmente hanno grande rilevanza (il mare, la città storica, il parco delle Apuane), a livello globale appaiono del tutto marginali. D'altra parte – e questo è evidentemente un notevole punto di forza – la rinomanza del marmo di Carrara e delle sue cave supera il confronto con ogni situazione analoga nel mondo.
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Inoltre, dalle analisi condotte utilizzando i principali motori di ricerca del web, risulta come i termini “‘cave’ e ‘marmo’ esprim[a]no [...] anche un significativo collegamento a temi turistici, per i quali Carrara diventa giocoforza il luogo di riferimento principale. Oltre ad essere una ulteriore indicazione della notorietà di Carrara (‘forza di marca’), è anche la chiara indicazione di una
paesaggi in gioco
domanda turistica potenziale, in cui il marmo e le sue cave fungono da richiamo”. L'idea che il marmo rappresenti la chiave di lettura “naturale” per stimolare una conoscenza più approfondita del territorio carrarese (in coerenza con lo slogan, coniato dal comune, “Il marmo oltre il marmo”) ha spinto i progettisti del master plan a esplorarne in via preliminare tutte le possibili derivazioni tematiche, come parti di un discorso articolato su più livelli che potessero poi trovare riscontro in luoghi, azioni, iniziative all’interno del progetto. I “filoni” individuati sono quelli elencati nella tabella, che mostra anche, per ciascuno di essi, le modalità di comunicazione più adatte per farli conoscere, utili a definire le tipologie di spazi da reperire o recuperare nel progetto-sistema.
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Elementi costitutivi del progetto-sistema Gli elementi del progetto-sistema che il master plan evidenzia e mette in relazione sono riconducibili a quattro “classi”:
Figura 4. Una vista di Carrara dalle cave di Ravaccione.
i “luoghi notevoli” del territorio, vale a dire: il centro storico di Carrara; le cave (la cui visitabilità è però necessariamente condizionata da questioni legate agli aspetti produttivi, alla sicurezza e all’accessibilità dei siti); le aree paesaggistico-ambientali all’interno delle Alpi Apuane; i “capisaldi”, corrispondenti a spazi o attrezzature specialistiche - esistenti e di progetto - pubbliche o ad uso pubblico: spazieventi, luoghi di esposizione all’aperto, musei, laboratori di scultura etc.; le “connessioni”, ovvero i percorsi che collegano i capisaldi e dai quali è possibile accedere ai siti naturali, ai punti panoramici, alla rete dei sentieri e a tutti i “luoghi notevoli”, liberamente o attraverso modalità di visita assistita (è il caso delle cave attive); i “servizi” di vario genere, collocati in corrispondenza dei capisaldi o lungo gli itinerari del sistema: parcheggi, aree di sosta e smistamento, info-point, servizi di ristoro, punti vendita di prodotti locali, ecc.
In questa articolazione, i luoghi notevoli rappresentano gli elementi su cui si fonda l’identità del territorio e i suoi principali motivi di attrazione: sono quindi i punti di forza del progetto di valorizzazione, o – se vogliamo – le sue “invarianti strutturali”. La loro preservazione – attraverso la tutela, il recupero e la manutenzione dei beni storici, ambientali e paesaggistici, insieme a una rigorosa regolamentazione delle attività estrattive – è il presupposto stesso di ogni altro intervento e la conditio sine qua non dell’intero progetto-sistema. I capisaldi svolgono un ruolo integrativo rispetto ai poli di attrazione costituiti dai luoghi notevoli, offrendo nuove angolazioni per approfondire la
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conoscenza del territorio e opportunità per viverlo in modo più diretto e consapevole. Essi sono anche l’occasione per realizzare architetture, sistemazioni paesaggistiche e ambientazioni di alto livello. Il funzionamento del sistema è d’altra parte legato anche alla disponibilità di servizi di base per l’accoglienza, l’informazione, l’orientamento, il ristoro, la commercializzazione di prodotti, di cui il territorio è a tutt’oggi largamente deficitario o che presentano livelli di qualità non accettabile (i pochi parcheggi concepiti come spianate d’asfalto; le rivendite di souvenir organizzate come baraccopoli in prossimità dei luoghi d’interesse; gli scarsi servizi di ristorazione, per lo più offerti da ambulanti o in moduli prefabbricati, ecc.). Vi è quindi la necessità di un riordino, di una riqualificazione e di un ampliamento dell’offerta, cui dovrà corrispondere – ancora una volta un’immagine adeguata dal punto di vista architettonico e paesaggistico. Quanto ai percorsi, essi sono la rappresentazione fisica del sistema di relazioni territoriali che lega tra loro i luoghi notevoli, i capisaldi, i servizi e costituiscono pertanto l’ossatura del progettosistema. Essi non vanno intesi, banalmente, come collegamenti funzionali tra poli di interesse, ma come parte integrante e fondamentale dell’esperienza di visita e conoscenza del territorio. Gli “itinerari” individuati nel progetto-sistema si compongono di tratti appartenenti alla viabilità ordinaria percorribili da tutti, di tratti ad uso industriale percorribili solo con mezzi speciali (e quindi riservati – a determinate condizioni - alle visite guidate) e di collegamenti meccanizzati, e si integrano alla rete escursionistica anche attraverso la creazione di nuovi sentieri. Nella messa a punto del master plan si è avuto cura che ogni luogo notevole o caposaldo fosse raggiungibile al
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Carrara e le sue cave. Alla scoperta dei paesaggi del marmo
massimo con un solo passaggio dal mezzo privato (o dal pullman turistico) a un mezzo speciale (fuoristrada o pulmino).
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L’articolazione del sistema: itinerari e fasi Il master plan definisce una sorta di “progettotraguardo” la cui implementazione richiederà tempo e risorse, momenti di verifica ed eventuali adattamenti in relazione alle risposte dei vari soggetti implicati: residenti, visitatori, operatori economici nel settore turistico e in quello lapideo, amministratori, enti finanziatori, etc.. L’esperienza dimostra che un progetto troppo rigido contiene in sé i germi del proprio fallimento; ma anche l’eccessiva flessibilità, allentando i nessi di consequenzialità fra gli interventi, gli obiettivi generali e le modalità operative, può portare allo svuotamento dei contenuti strategici di una proposta d’ampio respiro, favorendo il ritorno alla frammentazione dei progetti. Il progetto-sistema ha tentato di neutralizzare questi rischi in due modi: strutturandosi per “itinerari” di visita dei luoghi notevoli del territorio (centro urbano, cave, aree del Parco delle Alpi Apuane), fra loro interrelati ma dotati di una relativa compiutezza e autonomia; proponendo un’articolazione in fasi temporali corrispondenti a sub-sistemi, aventi a loro volta una propria riconoscibilità e coerenza interna.
Figura 5. Il "progetto-sistema" per la valorizzazione di Carrara e dei luoghi del marmo, strutturato su sei itinerari (P. Giorgieri, F. Alberti, 2007).
Ad ogni fase temporale avrebbe dovuto corrispondere uno “stadio” di sviluppo del sistema costituito da itinerari attrezzati che, nelle fasi successive, si sarebbero arricchiti di ulteriori occasioni di visita e di servizi e/o sarebbero stati integrati da nuovi itinerari. Col senno del poi, occorre però registrare che questo aspetto saliente della strategia è stato ad oggi sostanzialmente disatteso e che quindi il rischio di tornare a una suddivisione dei lavori in “lotti funzionali” separati, in luogo del coordinamento degli interventi per fasi compiute, continua a essere dietro l’angolo. Gli itinerari Il progetto-sistema fa riferimento a due principali “porte” di accesso al territorio dedicate ai turisti:
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il Check Point bus turistici in Viale XX Settembre, entrato in funzione nel 2006; il parcheggio e Centro servizi da tempo programmato presso la stazione della ex ferrovia Marmifera di Tarnone. Da queste due nodi si sviluppano gli itinerari che vanno dalla città ai bacini marmiferi per poi estendersi al Parco delle Alpi Apuane. Quella che segue è una loro descrizione sintetica, con brevi approfondimenti su alcuni “capisaldi” (sviluppati, ciascuno, nelle schede progettuali allegate al master plan). Dei sei itinerari individuati, uno riguarda la città di Carrara, mentre gli altri si sviluppano nel retroterra montano, formando un sistema ad anelli fra loro interconnessi. Attualmente solo uno degli anelli - I-2: Tarnone Fantiscritti-Ponti di Vara-Tarnone - è interamente percorribile con auto privata (ma non dai bus turistici). Poiché l’apertura generalizzata dei percorsi al traffico privato e ai bus turistici non è ipotizzabile, né auspicabile, la completa percorribilità di questi itinerari è condizionata all’attivazione di servizi pubblici o convenzionati mediante auto o pulmini fuoristrada sui tratti di viabilità industriale facenti parte del circuito, per lo più coincidenti con tratti in galleria della ex ferrovia Marmifera (fuori norma ai sensi del Codice della Strada ma estremamente suggestivi come percorsi di visita). L’area destinata all’interscambio tra automezzo o pullman e servizio fuoristrada è quella in prossimità della ex stazione del Tarnone, che, oltre a svolgere un ruolo di punto-base per l’escursionismo (attività a cui è dedicato in modo esclusivo il 6° anello), viene così ad assumere un ruolo logistico fondamentale per l’accessibilità ai bacini marmiferi.
paesaggi in gioco
Ai tre itinerari panoramici tutti interni alle aree di cava (itinerari I-2, I-3, I-4) si aggiungono quelli “fra marmo e bosco”, che in parte attraversano il Parco delle Alpi Apuane. Questi si configurano potenzialmente come due ulteriori anelli, uno percorribile secondo la formula sopra descritta (auto/pullman + fuoristrada), l’altro dedicato al trekking e attrezzato con punti tappa e rifugi. Carrara, città del marmo I-1) Questo itinerario offre al visitatore una chiave di interpretazione del rapporto tra Carrara e le sue cave. In aggiunta ai luoghi, monumenti e istituzioni culturali storiche della città (il Duomo, l'Accademia, etc.) sono individuati tre capisaldi da sviluppare, legati alla valorizzazione del sistema museale quale momento di approfondimento e integrazione dell’esperienza “dal vivo” offerta dagli itinerari montani: “Porta Carrara”, ossia la riorganizzazione dell'attuale Museo del Marmo come una sorta di percorso introduttivo al “viaggio nel mondo del marmo” che attende il visitatore, collegato, anche fisicamente, a un centro servizi turistici (potenziamento del Check Point esistente con punto informativo multimediale, centro prenotazioni per i tour guidati, shop, attrezzature di ristoro, etc.); “Polo di Piazza XXVII Aprile” – creazione di una nuova polarità urbana intorno al Centro delle Arti Plastiche (CAP) già realizzato presso il Convento di San Francesco, valorizzando la sua vicinanza allo storico laboratorio di scultura Nicoli attraverso la riqualificazione degli spazi pubblici e l’istituzione di una zona pedonale;
Figura 6. Schema per l'area di Tarnone-FossacavaBacchiotto.
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“Marble Sculpture Park” a La Padula potenziamento del parco e della villa Fabbricotti (che già ospita aule e laboratori di scultura dell’Accademia di Belle Arti), come spazio espositivo all’aperto e sede di mostre temporanee del CAP (che, per carenza di spazi, non possono essere organizzate nel Convento di San Francesco), con la realizzazione di una sala seminterrata nel parterre antistante la villa, il restauro delle parti ancora fatiscenti del complesso e la riqualificazione dei percorsi di accesso dal centro storico.
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e il bacino di Fantiscritti – lungo un percorso di grande suggestione che attraversa due tratti in galleria della ex ferrovia Marmifera. Il circuito inizia al Centro servizi del Tarnone, punto di partenza di navette in servizio sugli itinerari I-2, I-3, I-4 e di taxi fuoristrada per programmi personalizzati individuali o per piccoli gruppi (compresa la visita a cave in attività altrimenti inaccessibili al pubblico). Un ulteriore luogo di sosta è individuato presso la ex cava scuola La Para, posta a metà strada tra Fantiscritti e Vara, per cui si propone di mantenere sia i laboratori esistenti rivolti a giovani e scuole, sia i punti vendita di oggetti in marmo, all’interno di una risistemazione generale del sito come “parcoavventura”: uno spazio rivolto a ragazzi e famiglie, attrezzato con aree per il relax e giochi che valorizzino in chiave ludica l’ambientazione in cava (free-climbing, torrette in legno, toboga, etc.) Tre i capisaldi intorno a cui ruota la visita: l’area della stessa stazione del Tarnone, che in aggiunta ai servizi logistici, commerciali e di ristoro, può diventare la sede del Museo della Ferrovia Marmifera (da molti considerata una delle più ardite opere ingegneristiche del XIX secolo nel mondo); nel progetto di caposaldo rientrano anche il restauro delle vicine cave romane Bacchiotto e La Piana e relativi sentieri di collegamento con la stazione;
Lungo i percorsi della ferrovia Marmifera I-2) Anello di Fantiscritti (Tarnone- FantiscrittiPonti di Vara-Tarnone) L’itinerario tocca due dei luoghi più rappresentativi del paesaggio degli agri marmiferi – i ponti di Vara
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Carrara e le sue cave. Alla scoperta dei paesaggi del marmo
I-4)
Figura 7. La villa e il parco Fabbricotti "alla Padula", presso Carrara.
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Il “nodo di Fantiscritti” - area estrattiva di grande suggestione, già visitabile, da riorganizzare sulla base di un piano guida generale imperniato sulla la creazione di un polo espositivo e di servizi unitario, fortemente connotato sia dal punto di vista paesaggistico sia da quello dell’allestimento interno, in luogo dell’attuale frammentazione di iniziative improvvisate (piccolo museo, ristorante, rivendita souvenir, meeting point per la visita delle cave); secondo le indicazioni dello studio, la redazione del piano guida, propedeutica a un concorso di progettazione, avrebbe potuto essere oggetto di un workshop internazionale di scuole di architettura e paesaggio; l’area dei Ponti di Vara – gli interventi previsti comprendono la riqualificazione del parcheggio esistente, un nuovo sistema di illuminazione e il riuso dei ravaneti sottostanti come spazio per eventi estivi, sfruttando i ponti come fondale e/o boccascena.
Figura 8. Il bacino marmifero di Fantiscritti.
I-3)
Ecomuseo di Colonnata (asta TarnoneColonnata) È un appendice dell’itinerario precedente, innestata sul nodo del Tarnone, diretta a uno dei paesi a monte più interessanti, meglio conservati e noti grazie alla produzione tipica del lardo. La connotazione come “ecomuseo” è legata alla presenza, da valorizzare, di cave storiche lungo il tragitto, a cominciare da quella romana di Fossacava. L’itinerario può così caratterizzarsi in modo specifico intorno al tema “il lavoro del marmo attraverso i secoli”, da sviluppare anche attraverso la localizzazione a Colonnata di un nuovo caposaldo: il Museo del Cavatore. Per l’accesso al paese, il master plan propone di realizzare un percorso meccanizzato dall’area sottostante, presso la ex stazione di Colonnata della Marmifera, a partire dagli studi, poi rimasti sulla carta, avviati nell’ambito del programma URBAN.
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Anello del Ravaccione (FantiscrittiRavaccione-Torano-Ponti di Vara-Fantiscritti). Si tratta di un secondo anello in ampliamento dell’itinerario 1 che comprende la visita a due siti di notevole spettacolarità, quali la galleria di Fantiscritti (già parte della ferrovia Marmifera e oggi cava in attività) e la Cava di Michelangelo, da rendere accessibili a gruppi organizzati con modalità simili a quelle praticate nelle grotte turistiche. L’anello passa per Torano, borgo storico già in parte riqualificato con fondi URBAN e sede di una manifestazione estiva di scultura di una certa rinomanza. La presenza, a picco sul paese, di un grande stabilimento abbandonato (“Giovan Battista Tassara”) legato a una cava “in fossa” (il cosiddetto “Buco della Luna”), tanto inconsueta nel paesaggio apuano quanto straordinariamente suggestiva, può offrire l’occasione per rafforzare ulteriormente il ruolo di Torano nel sistema, mediante la creazione di in un nuovo “parco” di attività culturali e servizi (laboratori di scultura, spazio eventi, esposizioni temporanee integrate da attività ricettive e commerciali). Tra le proposte inserite nel progettosistema, vi è anche quella di bandire un concorso internazionale per la progettazione di un’opera di land art, da collocare in in corrispondenza dell’impianto per la produzione di carbonato di calcio in località La Piastra (dove si trova un’altra stazione della Marmifera), come elemento di caratterizzazione e qualificazione del sito, posto a metà strada fra Ravaccione (Cava di Michelangelo) e Torano (nuovo caposaldo “Tassara”).
paesaggi in gioco
Figura 9. Lo stabilimento abbandonato "G. B. Tassara" a Torano, da riconvertire per attività culturali e di servizio.
Tra cave e boschi I-5) Anello di Campocecina (Torano-La PadulaCastelpoggio-Campocecina-Cave di Morlungo-Boscaccio-Ravaccione-Torano) L’anello è un ampliamento dell’itinerario 4 che si connette all’itinerario urbano 1 ricomprendendo nel circuito di visita Villa Fabbricotti e il suo parco di sculture. Il percorso ricalca per buona parte la strada per Castelpoggio (dov’è localizzata la “Porta nord” del Parco delle Alpi Apuane) e Campocecina, di cui si prevede di valorizzare le eccezionali qualità panoramiche attraverso limitati interventi di sistemazione delle aree di sosta, con la creazione di affacci-belvedere sui bacini marmiferi e la riqualificazione paesaggistica di alcuni siti posti nella parte più alta dell’anello: il piazzale dell’Uccelliera; il “Memoriale della Shoa” a Campocecina (un parco di sculture commemorative posto a una quota di ca. 1200 m slm, affacciato sul versante interno delle Apuane); la citata “Cava dei
Poeti” a Morlungo, da cui si gode una straordinaria vista verso il mare; l’adiacente “Galleria degli Angeli”. In una fase successiva, si colloca inoltre la riattivazione ad uso turistico (con servizi fuoristrada in partenza dal piazzale dell’Uccelliera) della strada industriale per Foce di PianzaBoscaccio, dove è possibile riconvertire un edificio abbandonato come rifugio. La chiusura dell’anello con gli itinerari 4 e 3 è affidata alla più impegnativa tra le opere infrastrutturali inserite nel progettosistema, la cui fattibilità economica (anche in relazione agli aspetti gestionali e di manutenzione) dovrà essere approfondita con studi ad hoc nelle fasi intermedie di implementazione del sistema: la ricostruzione – come cabinovia – di un’antica teleferica tra Ravaccione e l’area di Boscaccio: un percorso panoramico sospeso sulle cave che può rappresentare di per sé una grande attrattiva turistica.
Figura 10. Il Memoriale della Shoa a Campocecina.
I-6) “Anello del Trekking” (Tarnone-FantiscrittiRavaccione-Foce di Pianza-Boscaccio-Passo dei Vallini-Case di Vergheto-ColonnataTarnone) Quest’ultimo itinerario si compone di sentieri escursionistici esistenti (facenti parte della rete di
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percorsi che attraversa le Alpi Apuane) raccordati ad altri di nuova formazione (tra Fantiscritti, Ravaccione e Boscaccio). Presenta numerose interconnessioni con gli altri itinerari e ingloba per intero l’asta I-3. Ovviamente può essere percorso anche per tratti limitati; la sua funzionalità come circuito di uno-due giorni di cammino è comunque garantita dalle attrezzature – punti tappa e rifugi – esistenti e di progetto.
Dal progetto sistema al PIUSS Con un bando emanato nel maggio del 2008, la Regione Toscana si è impegnata a cofinanziare per una quota del 60% progetti d’iniziativa comunale inseriti entro Piani integrati urbani di sviluppo sostenibile, conformi alle previsioni degli strumenti di pianificazione territoriale e riconducibili alle 5 linee di intervento dell'Asse V (“Valorizzazione delle risorse endogene per lo sviluppo territoriale sostenibile”) del Programma Operativo Regionale “Competitività regionale e occupazione” del Fesr 2007-2013: centri servizi e infrastrutture per lo sviluppo economico (linea 5.1A); interventi di recupero e riqualificazione dell’ambiente urbano, infrastrutture per il turismo e centri commerciali naturali (5.1B); strutture “per la tutela dei diritti di cittadinanza sociale” (5.1C) costruzione, recupero e riqualificazione di asili nido e servizi integrativi (5.1D); valorizzazione turistica dei beni culturali (5.2). Nel Documento di orientamento strategico predisposto congiuntamente dai comuni di Carrara e Massa in ottemperanza al bando, gli “obiettivi da perseguire” indicati per la parte carrarese
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coincidono in buona sostanza con la descrizione del progetto-sistema sopra descritto. Al termine della procedura (marzo 2010), i progetti preliminari per i capisaldi e i servizi del sistema effettivamente elaborati e presentati al vaglio regionale sono stati 5, tutti concentrati lungo gli itinerari I-1 e I-2: potenziamento del centro servizi turistici in via XX Settembre (Check point); riqualificazione urbana dell’area di Piazza XXVII aprile; potenziamento del parco di sculture presso Villa Fabbricotti; realizzazione di nuovi spazi espositivi a Villa Fabbricotti; realizzazione del centro servizi turistici presso la ex stazione del Tarnone e annesso museo dedicato alla ferrovia Marmifera; sempre al Tarnone, realizzazione di una struttura centralizzata per ospitare le rivendite di souvernir ora sparse sul territorio; realizzazione di un punto di accoglienza turistica presso l’area di Fantiscritti (versione ridotta del centro visite previsto nel progettosistema). Nella proposta rientra anche un ulteriore punto informativo presso la ex stazione marmifera di San Martino, a ovest di Carrara, dov’è stato recentemente attivato un parcheggio scambiatore, oltre a una serie di interventi edilizi per attività di tipo sociale per lo più ricadenti nei paesi a monte. È ancora presto per capire se il ritorno a una logica di finanziamenti settoriali (ancorché incorniciati entro un programma “integrato di sviluppo sostenibile”) e a modalità di selezione dei progetti interamente gestite all'interno degli uffici comunali (vale a dire senza il ricorso a competizioni internazionali, come sarebbe stato opportuno almeno per i capisaldi del Tarnone e di via XX
Carrara e le sue cave. Alla scoperta dei paesaggi del marmo
Settembre e per il centro servizi a Fantiscritti) consentiranno comunque alle opere realizzate di centrare gli obiettivi che nello studio del 2007 ne costituivano il presupposto, ovvero: “fare sistema”; caratterizzarsi per un’elevata qualità progettuale, in coerenza col valore strategico dell'operazione complessiva; fornire servizi e “attrazioni” commisurati all'effettiva capacità di assorbimento della domanda - da stimolare contestualmente con adeguate misure di marketing - e della disponibilità delle risorse necessarie per la manutenzione delle strutture e la gestione, evitando l'errore di impiegare finanziamenti pubblici per interventi che non si è poi in grado di far funzionare nel tempo, come avvenuto in passato con alcune opere del programma URBAN5. Per converso, appare chiaro come il riferimento a una piattaforma programmatica ben strutturata abbia favorito l'accesso ai fondi regionali: tutte le opere sopra citate (che comportano un investimento complessivo di ca. 10 milioni di euro) sono infatti state ammesse al co-finanziamento PIUSS, pari a circa il 60% degli importi. Nel frattempo, l’entrata in esercizio della Strada dei marmi, dirottando su un percorso separato i mezzi per la movimentazione dei prodotti lapidei, ha di fatto eliminato uno dei principali fattori di rischio che finora hanno limitato la fruibilità da parte dei non addetti ai lavori degli agri marmiferi carraresi e marginalizzato i paesi a monte. Se l’amministrazione comunale saprà coglierla, la valorizzazione turistica “intelligente” del territorio carrarese - tra mare e itinerari del marmo, sistema degli insediamenti storici e Parco delle Apuane,
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offerta culturale e tradizioni locali - appare oggi come non mai un’opportunità a portata di mano.
Riferimenti bibliografici Borsi F., 1974, Memorial michelangiolesco sulle Apuane, “L'Architettura, cronache e storia”, n. 24, pp. 77, 79. Giorgieri P., 1992, Le città nella storia d'Italia. Carrara, Laterza, Bari-Roma. Rotelli M.N., 2003, La cava dei poeti, Maschietto editore, Firenze.
Riferimenti iconografici Figura 1: disegni di G. Michelucci tratti da F. Borsi, 1974, Memorial michelangiolesco sulle Apuane, “L'Architettura, cronache e storia”, n. 24, pp. 77, 79. Figura 2: P. Giorgieri, 1992, Le città nella storia d'Italia. Carrara, Laterza, Bari-Roma, p. 109. Figura 3: archivio APT Massa Carrara (http://www.aptmassacarrara.it). Figure 4, 7, 9, 10: Francesco Alberti, 2007. Figura 8: Klaus with K, archivio Commons Wikimedia, 2007 (http://commons.wikimedia.org/).
Testo acquisito dalla redazione nel mese di maggio 2012 © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte. 1
Dei circa 27,5 mln € previsti nel piano finanziario del Programma di Iniziativa Comunitaria URBAN II di Carrara (cui quasi 9 mln € erogati dalla UE e 7,8 mln € di cofinanziamento statale), circa 13 mln € sono stati spesi
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per interventi di riqualificazione urbana e di “miglioramento del patrimonio culturale”. 2 Cfr. M.N. Rotelli, 2003, La cava dei poeti, Maschietto editore, Firenze. 3 Progettisti: Pietro Giorgieri e Francesco Alberti. 4
Asse V del Programma Operativo Regionale “Competitività regionale e occupazione” (POR CReO) del Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (FESR). Il Comune di Carrara ha partecipato al bando della Regione Toscana presentando una proposta congiunta (ma in realtà composta di due parti ben distinte) con il Comune di Massa, sotto lo slogan “PIUSS di Carrara e di Massa – un territorio da ri-vivere”. 5 È il caso in particolare della passerella pedonale per l'accesso al parco di Villa Fabbricotti, dotata di ascensori che non hanno quasi mai funzionato ed oggi transennata, nonché del “Memoriale della Shoah” a Campocecina prima ricordato, che versa ormai in uno stato di semiabbandono.
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paesaggi in gioco
Versilia: il paesaggio del turismo
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Versilia: landscape of tourism
Mariella Zoppi*
abstract Il turismo in Versilia si identifica con il ventennio fascista quando nuovi orizzonti vengono aperti dall'Autostrada Firenze-Mare ed ha la caratteristica di svilupparsi su un sistema territoriale pianificato che interessa tutto il litorale, che va dal porto di Carrara alla città di Viareggio. Non si tratta di un nuovo progetto, ma di un territorio che si apre a nuovi usi che intercettano un fenomeno che andrà a caratterizzare massicciamente tutto il Novecento, quello del turismo di massa.
abstract The tourism in Versilia is identified in the fascist period when new horizons are be opened by the building of the motorway that links Florence with the seaside. This tourism is characterized by developing along the whole coast, from Carrara harbor to Viareggio town. It isn’t a new project but a landscape that opens to new uses, intercepting the phenomenon of Mass tourism that will characterize the XIX century.
parole chiave Paesaggio, turismo balneare, vincolo paesaggistico.
key-words Landscape, bathing landscape bond.
turista,
Versilia,
tourism,
tourist,
Versilia,
* Università degli Studi di Firenze, Dipartimento di Urbanistica e Pianificazione del Territorio.
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Stendhal, viaggiatore appassionato e inquieto, pubblica nel 1838 le Memorie di un turista e consacra in tal modo il vocabolo “turista” come tratto distintivo del viaggiatore attento e curioso. In breve tempo, il termine diverrà di uso comune e nella seconda metà dell’Ottocento, sorgeranno le organizzazioni dedicate, quali i Touring Club nazionali, per dare un supporto organizzato e un aiuto (“la guida”) ai viaggiatori sempre più numerosi ed esigenti. Siamo agli inizi di un fenomeno che, da una parte, muove quantità sempre più consistenti di persone e, dall’altra, definisce due tipologie di viaggio: la prima connotata dalla quantità degli spostamenti, la seconda dalla stanzialità. Il soggiorno non ha più le caratteristiche prevalentemente culturali del Gran Tour, in quanto ricerca il divertimento, la distensione e la possibilità di impiegare quello che ormai viene definito comunemente il “tempo libero” e cerca luoghi accoglienti e organizzati, proprio per lo svago e la villeggiatura. Le località amene diventano i luoghi dove la borghesia si dà appuntamento e si concentra in determinati periodi dell’anno: la montagna, le terme, il mare segnano i ritmi delle stagioni e definiscono le scene del divertimento e dell’otium. È un fenomeno di dimensioni europee, che connota aree pregiate dal punto di vista morfologico e climatico, che uniscono la capacità di fornire servizi e confort a chi vi soggiorna al vantaggio di essere facilmente raggiungibili. La Versilia sembra rispondere perfettamente a tutte queste caratteristiche. Offre un paesaggio unico di una pianura stretta fra le Alpi Apuane e un lungo litorale sabbioso che si sviluppa fra la foce di due fiumi, il Serchio e la Magra, a confine con la Liguria. Un ambiente di tipo mediterraneo con temperature miti, che consentono lo sviluppo di
Versilia: il paesaggio del turismo
una vegetazione ricca e rigogliosa. È la terra dove crescono ulivi ed aranci, dove la buganvillea invade mescolandosi alle rose le cancellate delle ville come delle case più umili. Il clima, lo scenario paesaggistico, la possibilità di essere raggiunta agevolmente prima in ferrovia, poi in auto la rendono un luogo ideale per lunghe vacanze fra bagni in mare, passeggiate nelle pinete o sulle vicine montagne, e caffè letterari. Il turismo in Versilia si identifica con il ventennio fascista quando nuovi orizzonti vengono aperti dall'Autostrada Firenze-Mare ed ha la caratteristica di svilupparsi su un sistema territoriale pianificato che interessa tutto il litorale e che va dal porto di Carrara alla città di Viareggio. Non si tratta di un nuovo progetto, ma di un territorio che si apre a nuovi usi che intercettano un fenomeno che andrà a caratterizzare massicciamente tutto il Novecento, quello del turismo di massa. La vocazione di località per il tempo libero, almeno per la parte lucchese, era stata indicata già nel secolo precedente, quando dopo il risanamento settecentesco del litorale con la piantagione di pinete, vengono costruite le prime ville, fra le quali quella di Paolina Bonaparte a Viareggio a bordo del porto canale e quella di Maria Luisa di Borbone nella pineta verso Torre del Lago testimoniano la volontà politica del ducato di Lucca di indirizzare la costa verso un settore economico più moderno dell’area. Una politica lungimirante di un piccolo stato che ha una contropartita nel settore termale: Viareggio sul mare e Bagni di Lucca nell’entroterra a mezza montagna. Fra gli anni Venti e Trenta dell’Ottocento il litorale viene investito da una serie di provvedimenti a favore dello sviluppo del territorio che vanno dalla regolamentazione delle spiagge (1822) agli
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incentivi economici alla costruzione, al piano urbanistico generale, alle regole per le costruzioni e a quelle per gli stabilimenti balneari (1828) fino al progetto per la reggia borbonica. Il piano regolatore di Viareggio redatto da Lorenzo Nottolini nel 1824 ha il compito di conciliare la convivenza fra la città portuale e la città balneare, e si basa su un’armatura urbana regolare, definita dalle linee perpendicolari del mare e del canale Burlamacca, segnata da edifici e spazi pubblici che resteranno la dominante paesaggistica di Viareggio fino al secondo dopoguerra. Il piano apre una nuova epoca: nel 1827 viene aperto dal Comune il primo stabilimento balneare a pagamento a somiglianza delle stazioni balneari del nord Europa e della più vicina costa francese. Un modello di riferimento costante nel sistema Versilia, in cui Viareggio detta le tipologie cui tutto il territorio andrà uniformandosi. Ai primi del Novecento si definisce la passeggiata a mare: un misto di baracche in legno e di architetture importanti, fra le quali quella di Gino Coppedè che trasla il padiglione d’ingresso dell’esposizione universale di Milano 1906 e lo fa diventare la galleria del Bagno Nettuno. Fino al grande incendio quando si deciderà di eliminare i piccoli edifici di legno, la passeggiata era come “una farfalla che muove lungo la marina le ali tappezzate di colori, con le baracche di legno … (che) ognuno faceva secondo il suo estro … (per) esprimere una nostalgia, una modestia, oppure una sua speranza o una sua bizzarria … con il mare che all’improvviso appare 1 negli intervalli tra un gruppo di stabili e l’altro” Ed è sulla passeggiata che dal 1909 si anima il carnevale, un modo per prolungare la festa e la stagione estiva sia pure per un periodo limitato approfittando del clima favorevole e ad imitazione delle sfilate dei carri e delle battaglie dei fiori della
paesaggi in gioco
Costa Azzurra. Lo schema delle città di villeggiatura del primo Novecento si incentra per la quasi totalità sulla passeggiata a mare, che diventa ben presto un segno territoriale importante e definisce un campo di interesse che travalica l’area di Viareggio: nel 1913 una linea di tram arriva fino a Forte dei Marmi, fino allora piccolo villaggio di pescatori costruito intorno ad un “ponte caricatore” per il marmo estratto e lavorato nell’entroterra. La previsione del Nottolini è ormai insufficiente, nel 1924 viene redatto un nuovo piano regolatore che ribadisce, ampliandole, le scelte basate sulla relazione spaziale mare-canale e sulla centralità degli spazi verdi pubblici, che si strutturano nella passeggiata a mare, nell’asse perpendicolare che la collega con la stazione ferroviaria e con la sistemazione della grande piazza e della pineta come parco pubblico. Il piano è affidato a Raffaello Brizzi che, con la supervisione di Marcello Piacentini, si occupa anche della pianificazione a grande scala che disegna la costruzione di Lido di Camaiore e si estende fino a Forte dei Marmi: il modello è la città-parco, che si rifà alle analoghe esperienze di Nizza, Vigna del Mar e Trouville, definito da una edilizia bassa immersa nel verde, con nuclei di servizi (impianti sportivi, alberghi) e ordinato su una viabilità gerarchizzata che va dalle vie di grande collegamento come l’Autostrada o la statale Aurelia fino alle strade bianche che portano alle ville in pineta del Cinquale e del Poveromo. Il piano individua le regole di costruzione del nuovo insediamento a tutte le scale. Un grande interesse è incentrato sulle tipologie dei villini che scandiscono il lungomare (esistono cataloghi che propongono tipi e modelli), mentre si inventano gli stabilimenti balneari cosiddetti a “nave” (sempre attribuibili a Brizzi) con cabine perpendicolari alla riva del mare che permettevano la vista sulla
spiaggia, le sue dune e la sua vegetazione e sulle onde del Tirreno e che hanno caratterizzato la Versilia fino agli anni Settanta dello scorso secolo quando l’erosione costiera ha imposto un sistema di disposizione delle cabine parallelo alla battigia, rompendo la continuità visiva fra la passeggiata e la spiaggia.
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un’agricoltura proprietari.
a
produzione
orticola
di
piccoli
Fig. 1. La Versilia di Ardengo Soffici.
In questo periodo sono molti gli architetti che lavorano a Viareggio ed in Versilia insieme a Raffaello Brizzi, troviamo Giovanni Michelucci, 2 Aurelio Cetica, Giuseppe Quaroni e Piero Porcinai . Col tempo la struttura si irrigidisce, mentre si propone una fruizione “mare e monti”: la spiaggia viene organizzata attraverso le concessioni, che definiscono un uso totalmente organizzato e a pagamento della spiaggia e le pinete sono invase dalle lottizzazioni private, mentre resiste fino al secondo dopoguerra la campagna, con le sue case sparse modestamente costruite che supportano
Fig. 2. La Versilia di Uberto Bonetti: Viareggio.
La città del mare si struttura “lungo costa”, specializzando le sue funzioni e caratteristiche: Viareggio come città del porto (pesca, cantieri e turismo), Lido di Camaiore è la nuova residenza estiva, Forte dei Marmi amplia il piccolo centro e si arricchisce, nel 1927, di Roma Imperiale (quartiere esclusivo, dove i piccoli Agnelli “vestivano alla marinara”), le località di Vittoria Apuana, Cinquale, Poveromo e Ronchi si popolano di ville di artisti ed intellettuali in cerca di un ambiente rarefatto e
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naturale, mentre Marina di Massa segna la transizione fra il mondo dei villeggianti con alberghi esclusivi e “discreti”, e ville sul lungomare, le colonie estive nella “zona delle pinete” e il ponte caricatore dove ancora attraccano le navi per il commercio del marmo, che ha il suo centro industriale nel Porto di Marina di Carrara. L’interesse turistico fa tendere il territorio alla saturazione, invadendo spazi di pineta e di campagna verso il mare e specializzandosi per ambiti intorno alla via Aurelia e alla ferrovia: negli anni Quaranta si aggiunge il Piano per la Zona Industriale Apuana come risposta alla crisi economica del periodo, segue il piano per le colonie marine che investe le aree di Massa e Livorno e, nel 1941 il ministero, per definire meglio le previsioni dell’area nord della Versilia, vara il piano di Apuania, che interessa i comuni di Carrara, Massa, Montignoso e Forte dei Marmi. Uno strumento importante che completa l’opera di pianificazione di area vasta che era iniziata fin dal 1924 con il piano di Viareggio. Un mix eccezionale di campagna, mare, vita di paese e ville, che fa capo alla città di Viareggio e che è in grado di offrire ogni tipo di opportunità al villeggiante -o al bagnante come viene chiamatodallo svago alla cultura, dalla cura alle escursioni sulle Apuane. Panorama e clima fanno da cornice ad una eccezionale concentrazione di artisti e intellettuali: hanno casa qui Carrà, Dazzi, Soffici, Carena, Gentile, Longanesi, Malaparte, Gadda, Calamandrei, Longhi, Pea, Repaci (Premio Viareggio), mentre Savinio si costruisce un basso edificio a forma di “S” nella pineta di Poveromo. Com’è noto la guerra, in queste aree, è stata terribile. A cavallo della Linea Gotica, per la durata di nove mesi, la disgregazione del territorio è fatale e altrettanto sarà la fretta di ricostruire. La cogenza
Versilia: il paesaggio del turismo
della pianificazione di epoca fascista è lontana, così come l’equilibrio economico faticosamente raggiunto fra agricoltura, industria e turismo: la disoccupazione è altissima. Si permette un po’ tutto: le industrie vanno dove trovano spazio, il bisogno di case induce a costruire in modo diffuso secondo le più disparate tipologie: dalle villette ai grandi condomini. Nonostante il vincolo paesaggistico venga apposto fin dal 1952, e la Soprintendenza di Pisa debba esercitare un controllo, la sete di costruzioni non viene arginata.
Fig. 3. Veduta aerea della Versilia.
A Viareggio si costruisce la “città giardino”, per la quale si ricorre ancora una volta alle parole di Tobino: “ abbiamo visto sterminare la pineta più bella della nostra infanzia… quella che dal Marco Polo andava alla Fossa. E oggi là… affannano rachitici grattacieli con terrazzi uguali a deformati portasaponi, le pareti colorate di caramelle”, altri palazzoni sono costruiti a Marina di Carrara e a Marina di Massa come a Lido di Camaiore o Marina di Pietrasanta, dove si tenta una lottizzazione nella
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la tenuta della Versiliana. Il vincolo paesaggistico della legge n. 1497/39 a protezione della fascia costiera della Versilia istituito con DM 2 giugno 1952 viene ampliato nel suo spessore rispetto alla costa con DM 21 ottobre 1968, successivamente si aggiungeranno anche i vincoli a protezione dei corsi d’acque pubbliche della legge n. 431/85 e, ora, dell’art.142 Codice BC e Paesaggio, nonché il vincolo di area contigua al Parco delle Apuane, ma la fragilità del vincolo e la discrezionalità del parere sono tale che sembra che non solo che tutto sia “possibile”, ma che i vincoli all’edificazione non esistano. I PRGC hanno arginato con fatica le pressioni edificatorie degli anni Sessanta e Settanta e l’anno di moratoria della Legge Ponte ha fatto il resto, diventando l’occasione per far esplodere le licenze edilizie. Il regime delle concessioni domina l’arenile, è in atto un fenomeno erosivo continuo che da Marina di Carrara si estende verso sud, la spiaggia diventa un lisca sottile, la tipologia “a nave” degli stabilimenti si orizzontalizza, diventando parallela alla battigia: non c’è più spazio per la natura (dune e vegetazione), confinata in margini sempre più residuali. L’edificazione, che assume caratteri di continuità, travolge i segni del territorio: la pianura scandita dai fiumi e dai canali e segnata da case sparse e dal sistema delle infrastrutture parallele alla costa che si ispessisce e si moltiplica (autostrada A1, raddoppio Aurelia, ecc.). Gli elementi più fragili sono cancellati: le dune con la loro vegetazione, le aree palustri retrodunali, le lame. Con gli anni Ottanta si comincia ad intaccare le aree agricole fra la pineta e l’autostrada A1, mentre i centri maggiori si espandono a macchia d’olio; sembrano resistere meglio le aree interne, come i centri di Pietrasanta e Camaiore, che restano fuori dalle grandi pressioni edificatorie. Mentre il sistema delle
paesaggi in gioco
protezioni sembra funzionare meglio per il territorio montano, il grande serbatoio paesaggisticoambientale della Versilia, anche se il versante delle Apuane su Carrara (fuori del vincolo del Parco delle Apuane e fuori anche dall’area cosiddetta contigua) viene sconvolto dall’escavazione a cielo aperto. Le aree industriali declinano, la maggiore la ZIA (Zona Industriale Apuana), dopo un periodo legato alla chimica ed il disastro ambientale della fabbrica Farmoplant, cede i suoi spazi ai centri commerciali che si accalcano in modo disorganico, senza un piano preordinato, in un miscuglio di aree industriali e commerciali senza qualità e senza tener conto di un impianto e di architetture di pregio derivanti dalla sua formazione unitaria. Capannoni trasformati o costruiti appositamente per vendere: una tipologia che trova i suoi spazi lungo le grandi arterie di comunicazione in modo casuale, senza alcun piano. La Versilia della villeggiatura resiste in pochi tratti del litorale, mentre un tessuto edilizio diffuso e disomogeneo definisce una zona urbanizzata continua e spessa che non ha più le caratteristiche della vocazione indirizzata e pianificata per il tempo libero, una zona deve vivere tutto l’anno e ingoiare risorse di ogni tipo per garantire il funzionamento del sistema. Attingere all’edilizia è facile, ma l’edilizia ha bisogno di disporre sempre di nuovi volumi da immettere sul mercato. Ne deriva un contesto privo di qualsiasi quadro territoriale, senza definire i “tipi” (problema generale della qualità) e le gerarchie funzionali, e il paradosso passa per l’esistenza di un esteso vincolo paesaggistico, tanto vasto e generico che si può aggirare facilmente anche con le relazioni paesaggistiche che possono oggettivamente dimostrare che non esistono incompatibilità
ambientali e incongruenze fra ambiente costruito, territorio e paesaggio.
Fig. 4. Studi sul consumo di suolo in Versilia (resp. Prof.ssa Zoppi, Università di Firenze).
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definita dal sistema mare-monti, l’unica evidenza sembra essere la congestione funzionale e confusione formale segnano quest’area che si configura come la parte terminale del sistema urbanizzato della Toscana. Tutto sembra mutare. La villeggiatura si accorcia (abitudini e crisi economica), le famiglie cercano forse località meno famose (e meno care), sulla spiaggia i giochi dei bambini cedono il posto alle signore che si abbronzano sui lettini, ma lo scenario delle Apuane che si staglia nitido e vicino sopra le sagome colorate degli ombrelloni non ha perso la sua magia e ripropone il fascino immutabile della Versilia.
Fig. 5. Studi sul consumo di suolo in Versilia (resp. Prof.ssa Zoppi, Università di Firenze).
Il tratto apuo-versiliese si presenta, oggi, come un’unica conurbazione lineare continua a bassa densità, con destinazioni miste e funzioni sovrapposte, talvolta anche conflittuali fra loro. Dell’antica sequenza insediativa pianificata su cui il mito della Versilia è nato non esiste più che qualche relitto e la configurazione geomorfologica
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Versilia: il paesaggio del turismo
Riferimenti bibliografici Boggiano A., Zoppi M., Toscana, l’Area Apuo –Versiliese, “Quaderni di Urbanistica informazioni”, 8, It.Urb. 80 Rapporto sullo stato di Urbanizzazione in Italia. Porcinai P., Memoria alla Conferenza dell’Accademia dei Georgofili, 26 aprile del 1942 Stendal, 1977, Memorie e giornali di viaggio. Memorie di un turista, Einaudi Editore, Torino (ed. orig. 1838) Tobino M., 1978, Sulla Spiaggia e di là dal molo, Mondadori ed., Milano Zoppi M., 2009, Il fascino della frammentazione, “Costeggiando. Massa. Architettura, Città e Territorio”, Edifir.
Georgofili del 1942 in cui osserva il “ pacchianissimo lungomare piantandovi le palme, tanto per essere alla moda, invece di ricostruire quel lembo di pineta che certamente si estendeva in origine fino al mare…E non solo Viareggio, ma anche i più modesti centri balneare e di cura hanno inteso abbellirsi …” e ancora “ bellissimi boschi vengono distrutti com’è avvenuto a Tirrenia” E si interroga: “ Coltivar piante e giardini al mare è fatica. Il vento carico di Sali marini e di sabbia ed il suolo formato spesso da dune di sabbia sembrano voler riservare al mare il suo impero. Ma la natura si è presa la sua rivincita e spesso trionfa comprendo le dune di pinete foltissime, in cui crescono ginestre, ginepri, corbezzoli, filliree, un insieme arboreo impetuoso e imponente. Distruggeremo questo paesaggio originale?”
Riferimenti iconografici Tutte le immagini sono state fornite dall’autore.
Testo acquisito dalla redazione nel mese di maggio 2012. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
1
M. Tobino, 1978, Sulla Spiaggia e di là dal molo, Milano, p.113 2 Pietro Porcinai è attivo a più riprese in Versilia: 1939-40 per la Passeggiata di Viareggio; fra il 1948-50 progetta vari giardini; sarà infine molto attivo nel 1979 dopo il Tornado dei Ronchi (MS). A proposito della progettazione paesaggistica della Passeggiata è interessante riportare una trascrizione della sua conferenza all’Accademia dei
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paesaggi in gioco
Paesaggio e sostenibilità nei processi turistici. Un caso di sostenibilità sociale in Sardegna
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Landscape and sustainability in the tourism process. A case of social sistainability in Sardegna
Giuseppe Onni *
abstract Le forme turistiche pongono dubbi in merito alla loro capacità di essere sostenibili, soprattutto rispetto al paesaggio e nei confronti della società locale. Attraverso un’indagine sulla storia dei processi turistici in Sardegna e l’analisi di alcuni casi di studio si cerca di comprendere se invece si possano supporre nuove forme turistiche. La Sardegna si pone come luogo ideale per lo studio delle problematiche legate al turismo, in quanto lungo le sue coste, nell’arco di cinquant’anni, si è sviluppata una vera città turistica, difforme nei differenti contesti ma con la caratteristica di essere sempre stata guidata da quella che nell’articolo è definita un’ideologia turistica. L’articolo indaga se sia possibile, seppur all’interno di contesti compromessi dall’ideologia turistica, trovare nuove forme turistiche in grado di rigenerare il rapporto tra le stesse, il paesaggio e le società locali.
abstract The tourism forms raise doubts about their capacity to be sustainable, especially compared against the landscape and the local society. Through a survey on the history of the tourism process in Sardinia and the analysis of some case studies we try to understand if instead is possible to imagine new forms of tourism. Sardinia itself is as an ideal place to study issues related to tourism, as along its coast, within fifty years, has developed a real tourist town, different in different places but with the characteristic of being always been guided by what is called a tourism ideology. The article questions whether it is possible, although within contexts compromised by tourism ideology , to find new forms of tourism capable of regenerating the relationship between them, the landscape and local societies.
parole chiave Turismo, sostenibilità sociale, paesaggio.
key-words Tourism, social sustainability, landscape.
* Università di Sassari, Facoltà di Architettura, Assegnista di ricerca.
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Introduzione L’obiettivo di questo articolo è indagare i rapporti tra forme turistiche e paesaggio, ragionando in particolare sul concetto di sostenibilità sociale delle stesse, ovvero degli impatti a livello locale che possono prodursi dal punto di vista dei rapporti tra società locali e turisti. I rapporti tra i due soggetti del turismo (chi ospita e chi è ospitato) comportano importanti trasformazioni sui luoghi in ragione di come gli stessi si realizzano, di come gli stessi accolgano o proteggano i turisti e di come questa spinta alla trasformazione generi paesaggi virtuali, simulacri di luoghi “altri” e come ai turisti, in questo aspetto, non si consenta di realizzare un’esperienza di reale confronto con le società locali. I luoghi di conseguenza sono trasformati ad uso e, soprattutto, consumo delle forme turistiche, ponendo ragionevoli dubbi in termini di sostenibilità. I paesaggi del turismo sono spesso paesaggi esclusivi, ed in quanto tali separano anche fisicamente i due soggetti del turismo, con conseguenze importanti anche sui luoghi visitati. Il dubbio che il turismo sia sostenibile nasce dall’incontro, confronto e, spesso, scontro, dei flussi turistici con culture, territori e società locali ospitanti. Il turismo è senza dubbio uno dei fenomeni socioculturali più importanti, la sua crescita su scala globale, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ad oggi, ha permesso nuovi, inaspettati, proficui scambi tra società locali di luoghi differenti, ma, nel contempo, è stato anche fonte di diversi conflitti. Del resto il turismo nasce come desiderio di visita di luoghi, di conoscenza del lontano, dell’altrove, di sospensione delle condizioni abituali di esistenza, anche spaziali. Questo desiderio si nutre di
Paesaggio e sostenibilità nei processi turistici. Un caso di sostenibilità sociale in Sardegna
rappresentazioni geografiche, di immagini del mondo e di spazi alieni. A partire dagli anni sessanta del ventesimo secolo ad oggi, l’evoluzione del turismo è stata sempre crescente, modificandosi di continuo, passando da forme più semplici e più inesperte, di massa, collegate al viaggio in luoghi densi di storia, soprattutto in Europa, a destinazioni sempre più distanti e complesse. Il turismo si è sfaccettato, scomposto e ricomposto in egual misura in miriadi di parti. La Sardegna è un luogo ideale per spiegare al meglio questi concetti. Sugli spazi turistici e sul contesto sardo in particolare, campo di indagine privilegiato, è possibile ragionare su quali processi siano avvenuti ed avvengano ancora oggi, tenendo ben presente che il turismo continua ad essere uno dei maggiori strumenti di trasformazione territoriale.
Il concetto di sostenibilità nel turismo Per comprendere cosa si intenda per sostenibilità delle forme turistiche si ritiene utile un excursus sul senso del termine. Il concetto di sostenibilità, definito nel 1987 dalla Commissione Bruntland1, concerne “uno sviluppo capace di soddisfare i bisogni del presente senza compromettere le possibilità di fruizione per le nuove generazioni”, e anche “lo sviluppo sostenibile ha una dimensione sociale, economica e ambientale e persegue un’ottica di equità intra e intergenerazionale”. Ma ci sono diverse difficoltà nel fornire una definizione condivisa di “turismo sostenibile”, sia in termini semantici, sia interpretativi, sia operativi.
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Per esempio per Nijkamp (Nijkamp et al. 1995) il turismo è sostenibile quando “la domanda di un numero crescente di turisti, (è) soddisfatta in modo da continuare ad attrarli venendo incontro alle necessità delle comunità ospitanti attraverso una trasformazione positiva della qualità della vita e contemporaneamente salvaguardando sia l’ambiente che l’eredità culturale”. Garrod e Fyall (1998) riconoscono che l’intera letteratura sulla sostenibilità si concentra in modo particolare sull’utilizzo delle risorse naturali, ma è necessario considerare anche le vicende umane e le risorse socioculturali, tanto importanti quanto le prime. Hall e Lew (1998) sostengono che i discorsi sul turismo sostenibile beneficeranno della loro collocazione nel contesto dei ragionamenti sull’incremento della globalizzazione e della ristrutturazione economica globale. Il Codice Mondiale di Etica del Turismo, redatto dall’Organizzazione Mondiale del Turismo, individua il turismo quale fattore di sviluppo sostenibile e si propone di superare una declinazione esclusivamente economica, per orientarsi verso la durabilità delle risorse dei territori ospitanti, proponendo ai fruitori, agli operatori e alle società locali, un confronto più attento sui temi del rispetto delle culture, dell’ambiente e dell’economia di mercato. Mair, Reid, George e Taylor (2001) definiscono lo sviluppo sostenibile un paradigma adattabile, in quanto può avere forme diverse in luoghi diversi, arrivando al bilanciamento tra necessità dei residenti e necessità dei turisti. Per Pigliaru (2002), turismo sostenibile è una strategia di sviluppo turistico che permetta alla risorsa naturale di generare in futuro almeno tanto reddito quanto è capace di generarne oggi.
paesaggi in gioco
Per Briassoulis (2002) invece significa gestire le risorse naturali, urbane e socioculturali delle comunità ospitanti in modo tale da non confliggere con i criteri fondamentali di promozione dei beni economici locali, preservare il capitale naturale e socioculturale, acquisire l’equità intergenerazionale nella distribuzione dei costi e dei benefici, assicurando l’autosufficienza e soddisfacendo al contempo le necessità dei turisti. Liu (2003) invece pone il problema di quanto sostiene la WTO (World Tourism Organization) quando questa afferma che il turismo è inteso come sostenibile “se incontra le necessità del turista di oggi e dei territori che lo ospitano proteggendo e permettendo le stesse possibilità nel futuro. Deve portare alla gestione di tutte le risorse in modo tale che le necessità economiche, sociali ed estetiche possano essere soddisfatte mantenendo l’integrità culturale, i processi ecologici essenziali, le diversità biologiche e il sistema al miglioramento della qualità della vita” Per Ko (2005) è sostenibile lo sviluppo turistico che consente al sistema nel quale opera di mantenere uno stato di salute necessario alla sopravvivenza di un alto livello di qualità dei luoghi. La sostenibilità delle forme turistiche mette dunque in forte risalto sia la sostenibilità economica sia la ecocompatibilità, da cui discende ad esempio il turismo rurale o l’ecoturismo, e si sofferma troppo su una visione riduzionista non ritenuta assolutamente soddisfacente quale quella del turismo esclusivamente interessato ai processi naturali, oppure è altrettanto spesso confuso con il turismo alternativo rispetto a quello tradizionale. Il turismo sostenibile è stato a lungo ricollegato ai concetti di sviluppo sostenibile (Bramwell & Lane 1994), considerato come un approccio positivo, indirizzato alla riduzione delle tensioni che si
producono nell’interazione tra “l’industria turistica”, i turisti, le comunità ospitanti e l’ambiente naturale. Concepire il turismo come sviluppo sostenibile è però riduttivo, in quanto il turismo, e le attività ad esso correlate, si basano su una serie di risorse talmente condivise a tutti i soggetti presenti su un territorio che il loro destino non può non coinvolgere le sfere più ampie di una popolazione, sia questa una popolazione turistica o la società locale. Nel 2002, al vertice di Johannesbourg2, le Nazioni Unite hanno discusso per la prima volta di turismo responsabile, intendendo con questo termine una sostenibilità turistica che considera tre componenti: ambientale, socioeconomica, culturale. Ne è emerso che il turismo ha causato problemi agli ecosistemi, problemi sulle risorse territoriali e speculazioni edilizie, l’economia non sempre ne ha giovato in quanto non sempre sono stati creati nuovi posti di lavoro qualificati, la cultura dei luoghi visitati è stata intaccata dai flussi in modo negativo creando false rappresentazioni identitarie e riducendola a folclore, sono sorti problemi sociali come per esempio la prostituzione e la pedofilia. L’argomento viene ripreso nel 2005 dal WTO insieme all’UNEP (United Nations Environment Program) con un preciso riferimento all’ambiente, all’economia e agli aspetti socio-culturali dello sviluppo turistico. Pertanto, il turismo sostenibile è quello che genera un utilizzo ottimale delle risorse ambientali che costituiscono gli elementi chiave nello sviluppo del turismo e così facendo: si mantengono i processi ecologici essenziali contribuendo a conservare le risorse naturali e le biodiversità; si rispetta l’identità socio-culturale delle comunità ospitanti, conservando le costruzioni tipiche, l’ambiente culturale e i valori tradizionali; si assicurano operazioni economiche a lungo termine
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fornendo benefici socio-economici discretamente distribuiti a tutti i soggetti portatori di interesse, tra cui un impiego stabile, opportunità di reddito e servizi sociali alle comunità ospitanti. Hunter (1997) in merito sottolinea “il turismo sostenibile non deve essere visto come una struttura rigida, ma piuttosto come un paradigma adattabile che legittimi una varietà di approcci secondo le circostanze specifiche”. Ci si pone Il problema: è sufficiente considerare esclusivamente i processi di tipo ecologico ed ambientale per poter affermare che una forma turistica sia sostenibile? Esiste una forma turistica che consenta un corretto confronto con le popolazioni e con i luoghi che le stesse abitano e se si come avviene? Insomma, si può avere un turismo sostenibile socialmente? La risposta a queste domande è particolarmente complessa infatti, se il turismo è spesso un’esperienza preconfezionata, questa favorisce la resa dell’individuo-turista ad un apparato che riceve, protegge e guida. Nella resa e nella protezione non è possibile l’incontro con l’altro, ovvero il turista non ha occasioni di incontro con la società ospitante o questo incontro è, ancora una volta, eterodiretto, mutuato da immagini precostituite che instillano nel turista un’idea del paesaggio e della società locale preconcetta. Nonostante dichiarate forme di sostenibilità e di autenticità, il turista si relaziona in genere non con la realtà, in cui sono immerse le popolazioni che vivono i luoghi visitati ma con simulacri, non riuscendo a cogliere appieno la complessità urbana dei luoghi ospitanti. Le relazioni, costruttive di senso e utili ad una corretta gestione del territorio e del paesaggio, nascono invece dall’incontro senza mappe mentali aprioristiche con una società locale, un
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monumento, un paesaggio o una espressione culturale, si costruisce quindi un rapporto paritario con l’alterità. La costruzione di un rapporto paritario non è però sufficiente a garantire la sostenibilità sociale delle forme turistiche: occorre qualcosa di più perché il turista non venga a stento sopportato, spesso truffato o sfruttato, o visto come un estraneo, nella migliore delle ipotesi, se non come un nemico. Occorre che il turismo diventi un’occasione per costruire urbanità negli spazi turistici, che fornisca servizi non solo rivolti al turista ma anche alla popolazione ospitante.
Il turismo come strumento di trasformazione del paesaggio: l’ideologia turistica Il turismo “strappa” elementi di territorio e li pone in condivisione nella rete dei flussi turistici, distaccando la città simulacro dalla città reale. La Sardegna, in merito, è un campo di studio privilegiato: le sue coste nel corso degli ultimi cinquanta anni hanno visto la realizzazione di tutta una serie di insediamenti legati alle forme turistiche. In un certo qual modo si potrebbe anche affermare che la costa della Sardegna rappresenta una sorta di città turistica, diffusa e realizzata per parti, molto spesso ridotta ad immagine dei luoghi più interni, copia non conforme di identità culturali ricostruite o del tutto inventate. Il processo di evoluzione del fenomeno turistico nel corso degli anni ha posto sempre in modo esclusivo l’accento sulle caratteristiche delle risorsa ricettiva piuttosto che sui luoghi e sui territori. Quando il discorso si è spostato, col trascorrere del tempo, anche sui territori si è cercato di dare risalto all’etnocentricità degli stessi reiterando forme e modelli.
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Per questo motivo il turista si rapporta con immagini dei luoghi più che con i luoghi stessi. Le immagini dei luoghi sono, generalmente, sempre le medesime, infatti il quadro complessivo degli spazi turistici è fittile, ovvero le strutture legate all’accoglienza e la stessa città turistica, nel senso esteso del termine, si realizza con un’ottica temporalmente molto ridotta, quanto interessa ha un orizzonte temporale molto ravvicinato. Le politiche rispondono appieno ai caratteri di quella che potrebbe essere considerata una ideologia che propone il territorio in forma simbolica, ripescando degli archetipi e proponendoli ai flussi turistici, spesso con pochissime elaborazioni. Questo percorso culturale si può definire come una ideologia turistica. I principi formatori dell’ideologia turistica dimostrano che le politiche turistiche sono sempre state rivolte prettamente alla ricettività e non, piuttosto, come avrebbe dovuto essere, ad una completa pianificazione del sistema. Il fatto che, in contemporanea, lo scopo delle politiche turistiche fosse migliorare la qualità della ricettività e fosse ridurre l’ottica temporale dei soggetti addetti alla guida delle forme turistica, ha condotto a politiche rivolte essenzialmente agli oggetti sede di turismo, quali alberghi, resort, B&B eccetera, senza considerare in alcun modo le ricadute sul territorio. È necessario, quindi, analizzare il processo evolutivo della città turistica in Sardegna. Il processo in Sardegna, è stato differente per modi e luoghi, ma anche per scelte politiche. Modi e luoghi in funzione delle tipologie di insediamento, scelte politiche per la localizzazione delle strutture turistiche.
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In generale l’insediamento turistico ha avuto tempi, forme e modelli diversi (Boggio 1978, Brandis e Scanu 2001, Mazzette 2002, Usai e Cao 2002, Usai e Paci 2002, Serreli 2004, Bandinu 2006, Sistu 2008) a seconda del periodo storico. In effetti un vero e proprio insediamento turistico non si è avuto se non dal 1962 in poi, data di realizzazione della Costa Smeralda, realizzato da un imprenditore privato, l’Aga Khan Karim. In precedenza l’esperienza turistica fu diretta dalla Regione Sardegna, negli anni antecedenti al Piano di Rinascita, come un’industria e attraverso la legge regionale n. 62 del 22 novembre 1950 si costituì l'Ente Sardo Industrie Turistiche, in seguito noto sempre come ESIT. Prima di queste due date non è corretto parlare di turismo in Sardegna nel senso pieno del termine, ma di villeggiatura; difatti, coerentemente con le mode dei primi anni del secolo, inaugurati dall’aristocrazia inglese, ci si spostava per i “bagni al mare”, autocostruendo ombreggi e ripari stagionali oppure ci si recava in alta collina o montagna, anche in case d’amici, alla ricerca di maggiore salubrità, assente in certe parti dell’isola particolarmente malariche. Le forme turistiche proposte dall’ESIT fanno quindi riferimento alle abitudini della popolazione sarda a recarsi in villeggiatura in località con caratteristiche simili a quanto appena espresso, ovvero come definibili in un’espressione invalsa dal dopoguerra ad oggi e particolarmente apprezzata nel linguaggio di chi costruisce, genera e propone le politiche turistiche, “vocate al turismo”. È, in sostanza, un turismo alberghiero, che mira a valorizzare località di particolare pregio ambientale o storico, sia sul mare che in montagna3. L’obiettivo era ed è quello di distribuire le strutture
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alberghiere all’interno del territorio, soprattutto nel settore settentrionale4. Il contesto turistico ha avuto un processo di formazione del proprio paesaggio in modo diverso a seconda, innanzitutto, della tipologia di turista a cui la forma turistica era indirizzata (Price, 1983). La distinzione tra la tipologia di vacanza del turista proveniente dal “continente” e quella della popolazione residente, nella reciproca differenza, ha influito pesantemente sugli insediamenti litoranei, in quanto quelli destinati al turista appaiono generalmente ben pianificati, con tutti i servizi necessari e ben localizzati rispetto i principali porti d’arrivo in Sardegna, mentre gli insediamenti destinati alla società locale sono stati, in genere, soggetti ad agglomerazioni non pianificate di abitazioni, prive addirittura all’inizio dei servizi più elementari quali impianti idrici ed elettrici. Quindi la prima e fondamentale dicotomia è stata proprio la differenziazione delle scelte che, conseguentemente, ha influito in modo sostanziale anche sui paesaggi turistici: i turisti non provenienti della Sardegna hanno scelto, sin dall’inizio complessi alberghieri e villaggi turistici mentre i turisti provenienti dalla Sardegna hanno indirizzato le loro vacanze verso i centri costieri o in luoghi di soggiorno temporaneo come abitazioni spesso anche provvisorie e stabilizzatesi poi nel tempo. La città turistica, essenzialmente costiera, risulta avere così due aspetti peculiari nei quali le proprietà definibili di centralità sono rappresentate dai resort e dalle strutture alberghiere in genere, definite spesso “di qualità” ed “esclusive” e, proprio in ragione di questa terminologia, operano per separazione fisica del turista dal contesto sociale, vere e proprie enclaves a-territoriali; le caratteristiche di perifericità sono invece attribuibili
agli insediamenti costieri, spesso soprattutto di seconde case (Cappai et al. 2012), poco attente alla qualità del paesaggio. Una città turistica, due modi di usare il paesaggio e di confrontarsi con le società locali. Il paesaggio costiero sardo possedeva nel 1951 sessanta insediamenti, di cui solo ventidue offrivano ospitalità ai villeggianti durante i mesi estivi, realizzati nei primi anni del 1900. Dal 1951 al 1961 sorsero venti nuovi insediamenti, distribuiti lungo tutta la costa e destinati soprattutto dalla ricerca del possesso di una seconda casa; nessuno di questi offriva in realtà ospitalità ai turisti. Si può dare origine al turismo attuale in Sardegna, nonostante esistessero già dalla fine della seconda guerra mondiale dei complessi alberghieri quali quelli dell’ESIT, con la realizzazione del Consorzio Costa Smeralda, avvenuta dal 1962. Le forme turistiche precedenti, legate al più alla “villeggiatura” nei paesi dell’interno presso case private o casotti lungo la costa, divengono superate con la creazione della Costa Smeralda e il concetto di vacanza e di turismo assume un nuovo significato. L’importanza della realizzazione della Costa Smeralda travalica il contesto locale in senso stretto: infatti l’impostazione completamente differente ha fatto si che nuovi modelli si ingenerassero sul territorio, soprattutto quello costiero. Sulla sua scorta, dal 1962 al 1971, sorgono ventidue nuovi centri di soggiorno estivo e diciassette località destinate ai “forestieri”, le preesistenti si accrescono, costituite essenzialmente da seconde case lungo alcune aree quali la costa della provincia di Oristano, soprattutto di Cuglieri e San Vero Milis, con la
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realizzazione delle borgate di Santa Caterina di Pittinuri, S’Archittu, Torre del Pozzo, Putzu Idu, Mandriola, Sa Rocca Tunda, Sa Marigosa, Su Pallosu, S’Anea Scoada; lungo la costa sud orientale della Sardegna, con l’espansione di Villasimius, la creazione di villaggi quali Marina di Capitana, Mari Pintau, Kala'e Moru, Geremeas, Baccumandara, Torre delle Stelle, Solanas e, sulla costa orientale, Costa Rei; tutti insediamenti caratterizzati da un diffuso degrado urbanistico ed edilizio dovuto ad uno sviluppo, fino alla metà degli anni ‘70, sostanzialmente spontaneo a causa dell’assenza di strumenti urbanistici approvati. Dal 1972 al 1977 si realizzarono altri trentatré villaggi, costruiti essenzialmente da imprenditori non locali, ricalcando i modelli preesistenti. Il processo di realizzazione di villaggi definiti “turistici” è proseguito durante gli anni ’80 lungo la costa di Arbus e la costa sud occidentale, durante gli anni ’90 l’espansione ha interessato il nord, ad esempio il Bagaglino a Stintino, e la costa orientale, come Porto Corallo a Villaputzu. Il periodo storico tra anni ’80 e ’90 è molto importante, due leggi, una nazionale e una regionale, mutano in parte l’approccio al contesto. La legge nazionale è la n. 435 del 08.08.19855, ovvero la legge Galasso, che introduce per la prima vola la tutela dei beni naturalistici ed ambientali in Italia, la legge regionale è la n. 45 del 22.12.19896, ovvero la prima legge urbanistica della Sardegna. Con la prima, attraverso l’introduzione di nuovi vincoli, si ingenera una novità sostanziale nell’uso degli spazi, soprattutto litoranei, col divieto di edificare entro i 300 m dalla battigia, con la seconda vengono definite in modo più preciso le zone urbanistiche nelle quali si può “fare turismo”, le cosiddette zone F. Iniziano così a mutare gli usi degli spazi ma, ed in modo ancora
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più importante, i gusti dei turisti, che si frammentano in modo sempre maggiore e, conseguentemente, crescono anche le destinazioni. Accade che il turismo si sposta anche verso l’interno dell’isola, in misura diseguale ma importante. Così, negli ultimi dieci-quindici anni del secolo scorso, nasce l’agri-turismo che riveste particolare interesse. Alla metà degli anni ’90, l’aspettativa maggiore era riposta in questa nuova forma, in quanto si riteneva che potesse condurre ad una conoscenza più approfondita della realtà agricola locale e dei contesti territoriali delle aree più interne ma, nel tempo, vi è stato un progressivo abbandono del turismo vero e proprio ed un crescente uso delle strutture quasi esclusivamente come ristoranti nell’agro, fatte salve alcune ottime eccezioni. A partire dal 2000 i bed and breakfast e gli alberghi diffusi hanno rappresentato l’ultima frontiera nell’immaginario turistico locale. I B&B nascono da una modificazione di due differenti tipologie, le pensioni (luogo della villeggiatura negli anni ’50) e le seconde case date in affitto per brevi periodi. Lo sviluppo dei B&B è tuttora in corso, con valori in crescita soprattutto nelle città costiere, Alghero in testa a tutte (Cannaos e Onni 2012), e con valori significativi nei centri dell’interno. Nei comuni interni all’Isola e in particolare nei loro centri storici, in ragione della presenza di molti edifici dismessi, vengono realizzati diversi alberghi diffusi, cioè alberghi caratterizzati dalla centralizzazione in un unico stabile dell'ufficio ricevimento, delle sale di uso comune e dell'eventuale ristorante ed annessa cucina e dalla dislocazione delle unità abitative in uno o più stabili separati, purché ubicati nel centro storico (zona A)
Paesaggio e sostenibilità nei processi turistici. Un caso di sostenibilità sociale in Sardegna
del Comune e distanti non oltre 200 metri dall'edificio nel quale sono ubicati i servizi principali. E’ dunque evidente come le politiche turistiche della Sardegna negli ultimi anni siano rivolte essenzialmente al settore ricettivo, avvallando modelli ripetibili quali bed and breakfast, alberghi tout court, residenze turistiche, alberghi diffusi eccetera. La sostenibilità ambientale degli spazi turistici è posta come base ovvia dalla normativa di settore, ma il problema sorge quando si considerano i rapporti e le relazioni con il contesto territoriale.
Una rappresentazione dell’ideologia turistica Alcune forme turistiche contemporanee, dichiaratamente autentiche e sostenibili socialmente, quali ad esempio, alberghi diffusi, bed and breakfast, resort o villaggi turistici con certificazioni ambientali di ecosostenibilità, si dimostrano spesso carenti nel riuscire ad instaurare un rapporto tra ospite e turista, oppure si avverte la pulsione alla musealizzazione del territorio o a rappresentare il territorio in modo superficiale, o, ancora, pongono poca attenzione alle risorse naturali e culturali. Diretta ed inevitabile conseguenza di questo è un rapporto di disaffezione che si crea tra la società locale e le forme turistiche, dovuto all’assenza di una concreta relazione. Questa disaffezione non nasce solo da come i luoghi vengono presentati e proposti dai tour operator, ma anche da come la normativa definisce il loro operare. Per dare una risposta che chiarisca queste domande è necessario seguire un percorso che mostri che la sostenibilità turistica, oltre che nel
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giusto rispetto delle risorse e delle economie locali, si possa individuare nella relazione che si instaura tra ospite e ospitante. Il turismo è una forma espressamente postmoderna, la sua esplosione globale e la conseguente frammentazione in miriadi di linguaggi denotano la necessità di evitare i ragionamenti univoci e, anzi, si avverte l’esigenza di contestualizzare sempre di più la forma turistica ai luoghi che la ospitano. I modelli turistici esaminati ed i dubbi relativi alla sostenibilità delle forme turistiche conducono ad una riflessione maggiormente approfondita sui processi turistici. Questo richiede un territorio specifico da esplorare: la Sardegna. Le sue forme turistiche rispondono a criteri di sostenibilità secondo quanto affermato nel capitolo precedente oppure sono altre le vie da ricercare? Per argomentare la risposta s’individua un caso esemplare: il villaggio turistico I Grandi Viaggi Santa Giusta, situato sulla costa sud orientale della Sardegna, nel territorio del Comune di Castiadas. Il villaggio Santa Giusta rientra perfettamente nei canoni della proposta turistica indirizzata a far assaporare al turista le peculiarità locali. La campagna pubblicitaria sul sito web7 dell’azienda proprietaria del villaggio descrive l’area con “cottage dai caldi colori mediterranei, perfettamente inseriti nello scenario naturale” e, come dice il sito “L’architettura del club è tipicamente mediterranea, con forme e colori che si accordano magnificamente con l’ambiente che lo circonda”. Il club è situato in “un’ampia zona protetta con ginepri secolari e gigli selvatici” che “fa da cornice alla splendida baia che si affaccia su un mare dall’acqua limpida e cristallina”.
paesaggi in gioco
Il villaggio si è inoltre dotato di una propria politica ambientale che intende: “rispettare scrupolosamente le leggi e la normativa ambientale applicabile … integrare il villaggio e le sue attività nella natura circostante, con particolare attenzione agli aspetti paesaggistici, arrecando il minimo disturbo alla flora e alla fauna locali, e privilegiando la crescita di essenze arboree autoctone; sensibilizzare i propri clienti sulle tematiche ambientali e orientarli a mettere in atto comportamenti corretti dal punto di vista ambientale; mantenere rapporti corretti e collaborativi con la comunità e le istituzioni locali; definire obiettivi e programmi ambientali in attuazione degli impegni assunti con questa politica; … comunicare la presente politica a tutte le persone che lavorano per il club o per conto di esso; mettere a disposizione del pubblico e di chiunque ne faccia richiesta la presente politica”. La strategia di marketing è prettamente indirizzata alle peculiarità del sito ed alla bellezza dell’ambiente nel quale il resort è inserito, in realtà lo stesso villaggio, realizzato tra la fine del secolo scorso e i primi anni di questo secolo, si configura come un corpo chiuso rispetto al territorio e l’unica apertura è rivolta alle spiagge che risultano essere l’unico oggetto dell’interesse del turista. Si realizza la costruzione di un mondo idilliaco, quale stereotipo di piccolo mondo perfetto e pacificato all’interno di una cinta murata. I cottage perfettamente inseriti nello scenario naturale tali non sono, del resto l’architettura degli stessi si richiama non a forme tradizionali ma riproduce un impianto simile a quello dei Club Mediterranée, di stampo urbano, connotato in modo essenziale dal tema del “recinto”. L’attenzione per l’ecologia – sia essa reale o presunta – è considerata dall’azienda un punto di
forza per l’immagine della località turistica, mentre
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invece, e soprattutto in ragione del carico antropico
Figura 1. Evoluzione diacronica del territorio.
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che concentra migliaia di ospiti in poco più di poche centinaia di metri quadrati di spiaggia, si presentano forti interferenze con i processi ambientali, con allontanamento delle sabbie dal litorale e diradamento del ginepreto come conseguenza del calpestio o della voglia del “souvenir” della località di vacanza, che richiameranno alla mente del turista, al ritorno del periodo del riposo, i paesaggi visitati dentro una bottiglia colma di sabbia oppure in un ramo contorto. Le immagini riproducono il processo di espansione del resort sui luoghi e, contemporaneamente, i processi di erosione in atto lungo la linea del litorale. Dal 1977 al 2008 si assiste ad una copiosa riduzione della prateria di posidonia e ad una equivalente riduzione del ginepreto prospiciente la spiaggia. In più si nota il processo di appropriazione dei luoghi, sempre crescente. Di particolare interesse, inoltre, è anche il rapporto che intercorre tra chi fruisce i luoghi prossimi al villaggio e chi invece quei luoghi li conosce o li vive da molto più tempo. Dal momento della sua realizzazione il rapporto tra il villaggio e il territorio mostra molte criticità, un vero e proprio conflitto con chi usualmente fruiva i luoghi. Si è impostato, nel corso degli anni un vero processo di gentrificazione nei confronti della società locale a dispetto di chi risiede nel resort, in quanto le aree di litorale, pur essendo ovviamente liberamente fruibili, sono gestite come se fossero oggetto di concessione per cui non sono ammessi fruitori che non siamo gli ospiti del resort. Si svela un senso di appropriazione dei luoghi da parte di pochi fruitori temporanei – i tempi di permanenza nel villaggio raramente superano la settimana – che genera seri problemi di relazione. Il paesaggio diviene privato e la forma turistica esclusiva in
Paesaggio e sostenibilità nei processi turistici. Un caso di sostenibilità sociale in Sardegna
quanto tende effettivamente a privare spazi ad altri. L’esempio riportato mostra uno degli aspetti negativi espressi in precedenza: la costruzione di luoghi idilliaci, indirizzati alle esigenze del mercato turistico, veri e propri spazi effimeri (Minca 1996), luoghi “straordinari”. Lo spazio turistico è allora soprattutto legato alle immagini che si creano i turisti e immagini prodotte da chi gestisce i flussi turistici (Miossec 1977). Il turismo si nutre della extra-ordinarietà dei luoghi. Si è spinti a visitare un luogo proprio in ragione della diversità che esso offre ma appare in modo evidente la volontà, in chi guida o indirizza il turismo e ne condiziona successi ed insuccessi, ovvero amministrazioni pubbliche, catene alberghiere, tour operators, l’assenza di interesse per il confronto tra turista e luogo ospitante e ancora di più tra turista e residente. Si dimostrano così i principi ordinatori dell’ideologia turistica come insieme di politiche ed azioni che conducono a fruizioni superficiali di territori, proposti in forma iconica e non reale; processi di gentrificazione come il caso appena esaminato; indirizzamento dei turisti solo su alcuni territori, nel caso sardo le coste, incrementando le aree edificate a scapito dei processi ambientali; attenzione alla sola pratica ricettiva, non considerando l’eventualità di realizzare nuove e più interessanti pratiche di rigenerazione del contesto.
Nuove forme sostenibili
turistiche
socialmente
Si avverte conseguentemente la necessità di andare oltre i percorsi tracciati dall’ideologia
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turistica con lo scopo di trovare nuove forme nelle quali rigenerare il contesto della città turistica. Il territorio turistico della Sardegna, in ragione della sua complessità e della contemporanea necessità di individuare nuove forme turistiche che non perseguano i principi dell’ideologia turistica, si offre come luogo ottimale per ragionare sulla possibilità di individuare campi e casi di studio adeguati per nuove forme relazionali. Quello che si ricerca è allora una nuova forma turistica possibile, che si può fondare sul principio della relazione tra società locale e turista, per questo è necessario esplorare, tra le nuove forme turistiche quelle più orientate in senso relazionale, ovvero quelle che favoriscano un dialogo sociale e che tramite questo favoriscano la percezione di un nuovo senso del luogo, che siano quindi localizzate in un territorio turistico ma aperte alla società locale, che consentano una trasformazione del paesaggio in termini di sostenibilità non più solo economica ed ecologica ma anche sociale. Si cerca allora una forma di turismo “inclusivo” da contrapporre all’”esclusivo” tipico delle forme generate dall’ideologia turistica, basata essenzialmente su una parola chiave, che è servizio, inteso sia a favore del turista sia della società locale; servizi utili al turista in quanto possono rendere più partecipata la loro esperienza nei luoghi visitati e più piacevole la permanenza in luoghi in genere poco noti o poco serviti; al residente in quanto consentono di usufruire di prestazioni di qualità senza doverle cercare altrove. Perché si abbia una relazione tra i due soggetti del processo turistico è necessario individuare quale forma di servizio si può attivare, in modo tale che il turista viva esperienze negli stessi luoghi e con gli stessi tempi delle società locali ospitanti, vivendo la
paesaggi in gioco
quotidianità, e non assistendo a delle rappresentazioni. Ragionando in astratto, una forma turistica alternativa relazionale deve rispettare questi requisiti: 1. presentarsi come una discontinuità rispetto le consuete forme turistiche; 2. configurarsi come una forma turistica non preordinata ed eterodiretta, rigenerandosi grazie alla costante possibilità di creare condizioni ottimali alla vulnerabilità reciproca tra ospite ed ospitante; 3. consentire un dell’individualizzazione tipica turistici e dei resort in genere;
superamento dei villaggi
4. fornire funzioni e servizi connessi all’abitare per migliorare la qualità della vita dei territori ospitanti e l’equità territoriale. Un caso che può essere portato come esempio di questo modo di concepire il turismo è rappresentato dal compendio costiero di Is Mortorius, un piccolo promontorio lungo la costa del Golfo di Cagliari, in territorio di Quartu Sant’Elena tra gli insediamenti di Capitana e Terra Mala, di proprietà dell’Agenzia regionale Conservatoria delle Coste della Sardegna. Questo piccolo luogo, denso di storia, presenta tracce di insediamento dall’epoca nuragica, testimoniata dalla presenza del nuraghe Diana che venne trasformato in fortino durante il secondo conflitto mondiale, durante il quale si stabilì nella parte prospiciente il mare la batteria “Carlo Faldi” di difesa costiera e, inoltre, permangono anche i resti di una tonnara. La batteria, una volta dismessa nel dopoguerra, fu adibita a colonia
marina. Oltre il nuraghe, verso l’interno, sorgono numerose abitazioni, molte seconde case per le vacanze e molte residenze stabili. Un vero insediamento costiero. L’abbandono e l’inospitalità dei luoghi ha fatto si che si sviluppasse nella società locale un piccolo processo partecipativo, accompagnato anche da un blog8, in modo tale da raccogliere il maggior numero di proposte possibili circa la riqualificazione dei luoghi. Ancor di più è stato fatto dall’Agenzia regionale Conservatoria delle Coste della Sardegna che nel 2010 ha un concorso di idee per la sua riqualificazione. La proposta al concorso dal titolo “Passavamo sulla terra leggeri”9 rappresenta al meglio quanto si intenda per nuova forma turistica. Attraverso interventi reversibili si insediano funzioni leggere di supporto alla zona turistica circostante (servizi alla balneazione), all'ambito urbano di Quartu e di Cagliari (attività culturali), all'ambito territoriale costiero (Centri documentali sull'insediamento nuragico, sul sistema delle Torri costiere, sul sistema della Linea di difesa a Mare), di educazione ambientale e apprendimento e conoscenza delle dinamiche naturali costiere. Il progetto per un nuovo luogo per il turismo offre alcuni servizi, anche minimi, che mancano nella zona, quali uno spazio d’ombra, un punto di ristoro e servizi alla balneazione sotto forma di spazi riparati permettendo a singoli, famigli o gruppi di trascorrere una giornata al mare. In questo modo si migliora la possibilità d'uso della spiaggia e si innesca il processo di riappropriazione da parte della società locale. Lo scopo è quello di favorire a presa di coscienza del luogo da parte di uno strato più ampio di popolazione e in un ambito geografico più vasto, anche usando funzioni culturali, implementate destinando uno degli spazi reversibili
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ad una piccola sala conferenze. Il principio è quindi la generazione di servizi, qualitativamente elevati ed utili al territorio e non solo al turista. Altra discontinuità è la gestione del compendio, né pubblica, né privata, ma collettiva, e questo è stato fatto con lo scopo di ribaltare la situazione di
Figura 2. Il compendio di Is Mortorius.
degrado e abbandono dei luoghi, ormai considerati terra di nessuno, nonostante siano pubbliche e
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quindi di tutti. Difatti la gestione dell’area è affidata ad un comitato, soggetto collettivo composto dalla
Paesaggio e sostenibilità nei processi turistici. Un caso di sostenibilità sociale in Sardegna
questo caso la tutela dell’insieme dei beni.
e
la
conservazione
ma si rigenera grazie alla costante possibilità di creare condizioni ottimali alla vulnerabilità
Occorre allora partire da questi semplici concetti: le forme turistiche sono leggere, conducono ad un’esperienza relazionale, sono poco invasive (in quanto non ha senso saturare ulteriormente gli spazi del territorio) e quindi sono correttamente inserite nel contesto e, infine, cercano di rappresentare un bene comune tra turista e società locale. La struttura turistica si configura allora come una forma turistica non preordinata, non eterodiretta,
reciproca tra ospite ed ospitante, permettendo la generazione di un tessuto sociale coeso, che consenta il superamento dell’individualizzazione tipica dei villaggi turistici e dei resort in genere attraverso l’opportunità di effettuare un esperienza di socialità in un contesto diverso da quello quotidiano, aprendo scenari molto interessanti. Innanzitutto la generazione di nuove relazioni. La relazione tra persone provenienti da luoghi e culture diverse consente l’instaurarsi di un nuovo
Figura 3. Schemi funzionali.
società locale10, che si occupa di rendere il luogo fruibile, gestisce le attività e le varie funzioni, garantendo la pulizia dei luoghi, regolando e controllando l’uso corretto degli spazi a terra e a mare (diving e ancoraggio in controllato) e si occupa di reinvestire tutti guadagni. La proprietà rimane pubblica, ma l’insieme dei beni ambientali e storico-archeologici del compendio sono affidati al collettivo in comodato oneroso, cui corrisponde non un pagamento in denaro ma uno o più servizi: in
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paesaggi in gioco
tessuto sociale. In un periodo di grande frammentazione, di forti tensioni sociali nazionali ed internazionali, di grave crisi economica, il contatto e il confronto con l’altro, il diverso da noi, è più che auspicabile. Ed è una forte discontinuità con quanto propone parte del mercato turistico, che tende a rinchiudersi in ambiti di privilegio, segregandosi dal contesto. La relazione tra turista e società locale è un momento importante del processo turistico. Si è visto che se mal gestita provoca danni ingenti sia agli uni che agli altri. Le ricadute sugli spazi turistici possono provocare conflitti a scapito delle fasce più sensibili della società. È per questo che una forma turistica alternativa deve cercare di favorire il contatto sociale. Il territorio, gli spazi turistici, sono direttamente interessati da questo confronto, che deve essere diretto, senza interposizioni e non eterodiretto, per re-innescare processi di urbanità. La forma turistica riveste quindi un’importanza reale sui contesti a bassa densità, generalmente marginali e carenti di servizi. I pochi presenti non garantiscono le stesse condizioni di urbanità di territori più densamente popolati. Si innesca così un circolo vizioso che porta a fenomeni di spopolamento, che a loro volta influiscono sulla qualità e quantità dei servizi offerti. Ragionare solo sul turismo come forma di economia in questo tipo di territori, come lo sono spesso quelli sardi, ma anche territori più densamente popolati ma molto poveri e sottosviluppati – richiede sempre e solo nuovi alberghi o resort, mentre pensare al turismo come occasione per fornire servizi rivolti al turista e alla società locale significa non solo intervenire sul turista ma anche generare ricadute positive sul territorio ospitante e migliorarne la qualità delle vita. Avere un servizio in territori a bassa densità significa consentire a chi vive in quei luoghi la
garanzia di un più facile accesso a beni di cui si può disporre solo a distanze ragguardevoli. Significa, quindi, costruire urbanità, aumentare le opportunità e la qualità della vita, raggiungere una equità territoriale. Significa produrre anche un nuovo senso del luogo: da un lato, grazie alla possibilità di avere un servizio di qualità, la società locale non è costretta a cercare altrove il proprio benessere e si riappropria dei propri luoghi, dall’altro il turista trova quell’autenticità esistenziale, fondamento nelle motivazioni di viaggio. Si ottiene in contemporanea un’appropriazione e una riappropriazione dei luoghi da parte dei due soggetti del turismo, su uno spazio condiviso. Si produce anche un nuovo luogo, e lo spazio turistico cessa di essere considerato come a-topico. Si rivela allora non essere indispensabile inseguire il mercato turistico o i richiami delle mode sugli oggetti del consumo volatile, sull’esotismo dietro l’angolo di casa, quanto piuttosto scegliere di lavorare sulle persone quali veri soggetti del processo turistico, sulla possibilità che ci si parli, che ci si confronti in modo paritario, che si condivida il senso di appartenenza a qualcosa che non sia una esperienza limitata nel tempo ma una traccia duratura nel vivere quotidiano. Del resto siamo tutti turisti oppure oggetto di turismo, nostre sono le scelte corrette oppure gli sbagli, è nostra allora anche la possibilità di scegliere una forma turistica piuttosto che un’altra, quindi perché non provare, per una volta, a metterci in gioco e confrontarci con chi è diverso da noi, chiunque esso sia? Parafrasando Pascal11 si può scommettere di effettuare un’esperienza in una forma turistica socialmente sostenibile sapendo di trovare la possibilità di realizzare qualcosa di innovativo, altrimenti, se ci si sbaglia “si è vissuto
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un'esistenza lieta rispetto alla consapevolezza di finire in polvere”.
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Testo acquisito dalla redazione nel mese di maggio 2012. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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World Commission on Environmental and Development 1987. 2 Vertice mondiale sullo Sviluppo Sostenibile (Johannesburg 24 agosto – 4 settembre 2002): Dichiarazione di Johannesburg sullo sviluppo sostenibile 3 Dall’art. 2 L.R. 62/1950: L' Ente Sardo Industrie Turistiche ha il compito promuovere ed attuare iniziative dirette allo sviluppo delle attività turistiche in Sardegna; diffondere la conoscenza delle bellezze naturali ed artistiche dell'Isola; incoraggiare le iniziative private, favorendone il consorzio e la mutualità; istituire premi per stimolare iniziative di carattere igienico - sanitario, artistico e di altra specie; promuovere la istituzione di corsi o scuole e la costituzione e lo sviluppo di organizzazioni professionali nell'interesse del turismo; raccogliere notizie ed informazioni relative al turismo regionale, nazionale ed internazionale; studiare e proporre al Governo Regionale provvedimenti diretti ad incrementare le attività turistiche nell'Isola con particolare riguardo al movimento dei forestieri. 4 Già nei primi anni Sessanta fu costruita la rete dei cosiddetti Alberghi Esit (11 nel complesso) in alcune località riconosciute di rilievo dal punto di vista turistico, tra le quali: San Leonardo (Santu Lussurgiu), Grande Hotel (Alghero), La Spendula (Villacidro), Il Gabbiano (La Maddalena), Miramonti (Tempio), Miramare (Santa Teresa di Gallura), “Albergo Esit” a Nuoro (sul Monte Ortobene). Fonte: L’Italia in automobile, Sardegna , Touring Club Italiano, 1963 5 Legge 8 agosto 1985, n. 431 (Galasso). Conversione in legge con modificazioni del decreto legge 27 giugno 1985, n. 312 concernente disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale. 6 Legge Regionale 22 dicembre 1989, n. 45 Norme per
paesaggi in gioco
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l'uso e la tutela del territorio regionale 7 nhttp://www.igrandiviaggi.it/scheda.php?id=22 8
http://ismortorius.wordpress.com/
9
Capogruppo Vector17 (Francesco Spanedda, Narciso Revenoldi), Collaboratori: Massimiliano Campus, Paola Addis, Roberto Senes, Consulenti: Mariolina Marras (paesaggio), Francesca Bua (Archeologia), Alessandro Muscas (Geologia), Giuseppe Onni (programmazione), Favaro & Milan (Strutture) 10 Un rappresentante della Conservatoria (membri permanenti), più due membri elettivi: un rappresentante del Comune di Quartu Sant’Elena e un rappresentante delle imprese operanti sul sito. In caso di decisioni importanti riguardanti la gestione delle strutture come ad esempio i cambi di fase il comitato potrebbe ampliarsi e esprimersi in forma allargata, inserendo altre due figure: un docente universitario con competenze in materia di paesaggio o di ricerca archeologica e un rappresentante della Provincia di Cagliari, con lo scopo di raggiungere obiettivi di eccellenza in materia di ricerca e di qualità nella capacità di rintracciare fonti di finanziamento europee e non solo. 11 Pascal B. (1977), Pensées, Dante Alighieri.
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paesaggi in gioco
Turismo lungo le aree costiere euromediterranee: dalla scoperta, al consumo, al progetto del paesaggio
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Tourism along the Euro-Mediterranean coastal areas: landscape discovered, consumed, and planned
Emma Salizzoni*
abstract Emergono oggi in modo evidente lungo le aree costiere euro-mediterranee le criticità paesaggistiche indotte da un turismo balneare che, affermatosi pienamente a partire dalla seconda metà del XX secolo, ha in pochi decenni stravolto l’assetto delle coste di Spagna, Francia e Italia. Il pregio e la vulnerabilità del paesaggio in queste aree e le previsioni di un aumento costante dei flussi turistici evidenziano la necessità di politiche in grado di gestire un turismo balneare di cui è ormai evidente la non sostenibilità, anche guardando oltre ad esso e prefigurando modelli di turismo alternativi. È questa la direzione in cui si muovono le politiche sviluppate entro tre Paesaggi Protetti situati lungo la costa euro-mediterranea, esplicitamente mirate ad individuare possibili forme di convivenza tra sviluppo turistico e conservazione del paesaggio.
abstract The critical implications for the landscape which have been caused by seaside tourism are today evident along the Euro-Mediterranean coastal areas. This typology of demand for tourism, consolidating since the second half of the twentieth century, deeply alterated the coasts of Spain, France and Italy. The value and vulnerability of Euro-Mediterranean coastal landscapes as well as the expected growth of the number of tourists along these areas, highlight the need to develop policies able to manage such phenomenon, also by way of an enhancement of alternative tourism typologies. This is the main objective of the policies developed in the context of three Protected Landscapes situated along the Euro-Mediterranean coast, explicitly aimed at identifying specific forms of integration between tourism development and landscape conservation.
parole chiave Turismo balneare, aree costiere euro-mediterranee, politiche di pianificazione e gestione, Paesaggi Protetti
key-words Seaside tourism, Euro-Mediterranean coastal areas, planning and managemenet policies, Protected Landscapes
* Dottore di ricerca in Progettazione Paesistica presso l’Università degli Studi di Firenze.
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Lungo le aree costiere euro-mediterranee - il cui pregio e vulnerabilità, in termini paesaggistici, sono 1 riconosciuti a livello internazionale - il rapporto “turismo-paesaggio” assume caratteri di evidente conflittualità, a causa della presenza di una domanda turistica balneare di massa, consolidatasi a partire dagli anni Cinquanta e Settanta del XX secolo. Sono questi infatti i decenni che hanno segnato il passaggio da un turismo balneare ancora elitario e di limitata consistenza e impatto, ad un turismo di massa che ha letteralmente invaso le coste del Mediterraneo (“Il n’ya plus de paysage Mèditerranéen sans touristes” Hackens 1997, p. 224), diventando il settore economico di gran lunga dominante, in particolare nei paesi componenti il cosiddetto “arco latino” (Francia, Spagna e Italia, ambito geografico di riferimento di questo contributo): basti pensare che nel 2000, le regioni costiere dei tre paesi hanno accolto il 64% dei flussi totali presenti nelle aree costiere del Mediterraneo, già prima destinazione turistica mondiale (Benoit, Comeau 2005), e la gran parte di essi è correlata, appunto, ad una domanda balneare. Se infatti vanno emergendo nuovi turismi, sempre più “complessi e raffinati” (Ferrari 2008, p. 269) - come l’ecoturismo, in costante ascesa - l’attrattività del mare e delle coste resta ancora il primo motore dell’economia turistica di 2 Francia, Spagna e Italia . Gli effetti altamente critici per il paesaggio di tale “invasione”, sicuramente pacifica, ma non innocente (Aymard 1992), sono oggi evidenti lungo i litorali (vedi seguito); considerate le previsioni riguardanti i flussi turistici lungo le aree costiere euromediterranee - in costante incremento entro il 3 2025 - emerge pertanto la necessità di agire per preservare un patrimonio paesaggistico già profondamente compromesso, re-indirizzando le
Turismo lungo le aree costiere euro-mediterranee: dalla scoperta, al consumo, al progetto del paesaggio
pratiche turistiche verso obiettivi di sostenibilità e dunque individuando possibili modalità di integrazione tra sviluppo turistico e conservazione paesaggistica: un obiettivo, questo, indubbiamente ambizioso in un’area come quella costiera euromediterranea dove massimo è il conflitto personenatura, eppure “coastal regions cry out for solutions...we are all affected and long for the crying to cease” (Forman 2010, p. 250). In risposta a tale “urgenza” operativa, questo contributo, dopo aver ripercorso le principali tappe evolutive che hanno contraddistinto il fenomeno turistico balneare lungo le coste euro-mediterranee (evidenziandone le implicazioni critiche per il paesaggio), riporta alcuni esempi di politiche sviluppate entro tre aree protette costiere. Tali politiche, esplicitamente mirate all’integrazione tra obiettivi di sviluppo turistico e di conservazione paesaggistica, costituiscono un utile riferimento per la definizione di strategie di sviluppo turistico sostenibile non solo per i territori costieri protetti, ma anche per quelli non protetti. I tre Parchi, infatti (Parque Natural de la Albufera de Valencia, Comunidad Valenciana, Spagna, 1986; Parc Naturel Régional de la Narbonnaise en Méditerranée, Languedoc Roussillon, Francia, 2003; Parco Naturale Regionale del Conero, Marche, Italia, 1987), pur di diverse dimensioni e di diversa “età”, sono accomunati dal fatto di comprendere al loro interno territori che costituiscono, almeno sin dagli anni Sessanta, mete consolidate e tuttora attrattive del turismo balneare, condividendo dunque con le aree non protette, le principali criticità derivanti dal conflitto 4 “turismo-paesaggio” ; a differenza dei territori non istituzionalmente protetti, tuttavia, tali aree sono contraddistinte da una potenziale maggiore efficacia operativa a fini di conservazione
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proponendosi come preziosi paesaggistica , laboratori di sperimentazione di “buone pratiche” di convivenza tra sviluppo turistico e conservazione del patrimonio paesaggistico.
L’emergere del desiderio di riva: la scoperta del paesaggio costiero Sono occorsi almeno due secoli perché il turismo balneare si dispiegasse nel fenomeno di massa che dagli anni Cinquanta-Sessanta del secolo scorso investe periodicamente nella stagione estiva le coste euro-mediterranee e in particolare quelle dei paesi dell’arco latino. Alla base di tale processo evolutivo, vi è la genesi e lo sviluppo di una pratica, quella del bagno di mare, che nasce secondo geografie e modalità del tutto differenti da quelle attuali, evolvendosi, tra XVIII e XX secolo, sino ad assumere i caratteri a noi noti. Secondo Corbin (1990, 1996), occorre infatti risalire alla metà del XVIII secolo per individuare i primi segnali di un “irresistibile risveglio del collettivo senso di riva” (Corbin, 1990, p. 81), ossia di un nuovo modo di guardare e fruire del mare (almeno rispetto ai secoli immediatamente 6 precedenti ). Tra il XVI e il XVII secolo, infatti, le interpretazioni più diffuse della tradizione giudaicocristiana, legate alle immagini del “Grande Abisso” della Genesi e del Diluvio biblico, e della letteratura e filosofia greca e latina, permeavano ancora una visione del mare come luogo del demonio, della follia e della sciagura (in relazione soprattutto ai fenomeni di tempesta), terribile ed enigmatico, in sintesi, repellente. A partire dalla metà del XVIII secolo, invece, il carattere terrificante del mare viene, non tanto negato, quanto re-interpretato in termini terapeutici. Esso infatti inizia ad essere
paesaggi in gioco
visto - in Inghilterra prima che altrove - come benefico per la salute di una classe nobile indebolita nel fisico e nello spirito: “(…) il mare diventa salvezza, alimenta speranza perché incute paura. La strategia della villeggiatura marittima insisterà nel riuscire a godere del mare, affrontare il terrore che esso ispira e al contempo disarmare i suoi pericoli” (Corbin 1990, p. 91). Il bagno freddo in acque marine viene pertanto interpretato e prescritto dai medici inglesi della seconda metà del XVIII secolo come “rimedio corroborante” per un’alta società afflitta da uno spleen ante litteram, che la fa apparire debole e inerme rispetto a classi lavoratrici che invece possiedono quel “vigore” determinato dalla “durezza del lavoro” (ibidem). L’affermarsi della pratica del bagno di mare, condotta a fini essenzialmente terapeutici, è dunque alla base, a metà del XVIII secolo, del superamento della repellenza ispirata dal mare e dell’emergere del “desiderio di riva”. Nei decenni successivi, oltre alle proprietà benefiche dell’acqua fredda marina (in cui è indicato tuffarsi, ma che è consigliato anche bere), vengono sempre più riconosciute anche quelle del paesaggio marino nel suo complesso, tanto che “ben presto alla scoperta dei pregi dell’acqua di mare si accompagnerà quella della spiaggia” (Corbin 1990, p. 101). Si moltiplicano così, negli ultimi decenni del XVIII secolo, le topografie mediche dedicate alle regioni costiere, “che stabiliscono pregi e difetti delle diverse spiagge presenti nel Regno Unito” (ivi, p. 102) e che pongono le basi per il vertiginoso aumento della popolarità delle stazioni balneari costiere (Porter 1996). Queste iniziano a diffondersi alla fine del XVIIII secolo anzitutto in Inghilterra, oscurando presto la fama della località termali dell’entroterra, e poi, con un certo sfasamento temporale (tra il
1820 e il 1830), anche lungo le coste del continente, e in particolare lungo le rive del Mar Baltico, del Mare del Nord e della Manica (Francia e Germania in particolare). A partire dal 1820, dunque, la crescente diffusione della pratica del bagno freddo – che, da prassi terapeutica, si trasforma presto in una moda, inizialmente di appannaggio dell’aristocrazia, poi, grazie all’avvento della ferrovia, diffusa anche tra le classi borghesi - comporta una vera e propria “pianificazione dei luoghi”: moli, passeggiate, terrazze vengono costruiti a corredo delle stazioni balneari lungo la riva inglese, francese e tedesca. L’obiettivo è quello di offrire un palcoscenico non solo per la contemplazione dello spettacolo naturale marino, ma anche per l’auto-esibizione delle classi dominanti (e poi borghesi): lo scopo è quello di guardare ed essere guardati. È inoltre a questo periodo che risalgono i primi esempi di pianificazione urbana “sensibile” alla presenza dell’orizzonte marino: le abitazioni iniziano infatti ad essere edificate con vista sul mare, cosa affatto 7 scontata sino a quel momento . Negli stessi anni, lungo le sponde del Mediterraneo la situazione appare decisamente diversa. Nonostante le coste mediterranee siano, sin dal XVII secolo, una delle principali tappe del Grand Tour, la pratica del bagno di mare, almeno lungo tutto il XVIII secolo, non è che un’abitudine “popolana (…) che, almeno per il momento, ha ben pochi seguaci nella classe dominante” (Corbin 1990, p. 120). Sicuramente qui, lungo il XVIII secolo, non esiste ancora nulla di simile alle stazioni balneari che sorgono lungo le coste del nord Europa: “la minaccia d’incursioni di pirati o di banditi, l’oppressione che regna sulle coste mediterranee, la loro insalubrità limitano (…) l’espandersi di queste usanze. Mentre le rive
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settentrionali già brulicano di energici bagnanti, le spiagge del Mediterraneo non sono ancora toccate dall’afflusso di turisti alla ricerca di bagni terapeutici” (ibidem). Occorre attendere l’inizio del XIX secolo, e in particolare l’evolversi delle teorie mediche, perché anche le coste euro-mediterranee inizino ad ospitare flussi turistici correlati alla risorsa balneare. Quando infatti, nella letteratura medica, al riconoscimento dei meriti dell’acqua fredda si sostituisce progressivamente una esaltazione dei benefici provenienti dalla qualità dell’aria e dalle radiazioni solari (utili a contrastare una malattia tipicamente “romantica” come la tisi), le coste mediterranee, che vantano climi miti, iniziano ad essere popolate da turisti del nord Europa: all’inizio del XIX secolo Nizza ospita già una consistente comunità di hivernantes di provenienza nordeuropea ed è nota come il “sanatorio d’Europa”. Un ruolo cruciale in tale processo di consolidamento della fama delle coste (euro)mediterranee nel panorama del turismo balneare internazionale, lo assume l’azione travolgente dell’imprenditore inglese Thomas Cook, che, dalla metà del XIX secolo, organizza viaggi collettivi nel Mediterraneo per una borghesia inglese ormai in ascesa. Per mezzo di ferrovie e navi a vapore, e grazie, appunto, all’opera capillare di Cook, “gli inglesi colonizzarono persino i più remoti angoli del sud. Sembrava che fossero ovunque, ad anglizzare il Mediterraneo” (Löfgren 2004, p. 165). La riviera francese (Costa Azzurra) 8 e italiana (Liguria ) costituiscono le mete principali. La prima, in particolare, è nel XIX secolo la meta più popolare in assoluto: Nizza, tra il 1860 e il 1914 è una delle città europee a più elevato tasso di crescita ed è proprio in questi anni che, da luogo di cura per invalidi, la città si trasforma in prestigiosa stazione climatica invernale per lo
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svago delle classi agiate (Rauch 1996). Per venire incontro a tale nuova domanda di turismo, Nizza cambia volto, con la creazione di impianti, alberghi, il progetto per un casinò e l’inserimento di piante esotiche, mimose e palme, ad adornare la Promenade des Anglais (già edificata negli anni Venti del XIX secolo). A questo punto, il passo dal turismo balneare invernale a quello estivo è breve ed ha come scenario principale ancora la riviera francese: se nel 1920, infatti, la stagione in riviera finisce ancora prima dell’estate, dal 1931 gli albergatori della Costa Azzurra decidono, pur con alcune titubanze, di tenere aperte le strutture durante tutto l’anno. È così che ha luogo il definitivo superamento del turismo balneare “oceanico” da parte di quello mediterraneo. “Le spiagge sassose e le fredde acque della Manica o dell’Atlantico subiscono la concorrenza esercitata dalla scoperta della morbidezza carnale della sabbia fine e la liquida sensualità dei mari caldi” (Rauch 1996, p. 90): è l’avvento del culto del corpo da mettere in scena e della moda dell’abbronzatura, o, più in generale, della cultura della spiaggia, che si affermerà in modo diffuso lungo le rive del Mediterraneo dal secondo dopoguerra.
Il turismo “delle tre paesaggio costiero
s”: il
consumo del
La metà del XX secolo costituisce in effetti una chiave di volta nell’evoluzione del fenomeno turistico in Europa. In particolare, è tra gli anni Cinquanta e Settanta - “Les Trente Glorieuses” (Boyer 1999), ossia i decenni di intenso e generalizzato sviluppo economico dei Paesi europei - che si assiste alla definitiva affermazione del
Turismo lungo le aree costiere euro-mediterranee: dalla scoperta, al consumo, al progetto del paesaggio
turismo balneare di massa. Parallelamente alla crescita economica, infatti, si diffonde il modello culturale del “tempo libero”, sostenuto dall’introduzione delle ferie pagate e da una loro progressiva estensione temporale, ed emerge così un “desiderio represso” di viaggiare (Löfgren 2004) - soprattutto nei paesi del nord Europa, attratti dal clima mediterraneo - che può contare su un significativo sviluppo nei trasporti arerei (pullman, voli charter). Sono inoltre gli anni dello sviluppo, entro i diversi Paesi, di un turismo locale, fondato 9 sulle seconde case e direzionato verso mete rurali, montane, ma soprattutto costiere. La domanda che prevale è quella di un turismo balneare che si è definitivamente lasciato alle spalle obiettivi e pretese di ordine terapeutico e ambisce ad esperienze di carattere essenzialmente ludico. Obiettivo principale della vacanza è infatti la ricerca di relax, garantita dalla compresenza delle tre componenti di base: sun, sea, sand. Si tratta del cosiddetto “turismo delle tre s”, scarsamente sensibile ai valori naturali o culturali dei luoghi, che restano ai margini di un’esperienza incentrata anzitutto sul corpo e sul relativo culto dell’abbronzatura (i turisti “non vanno veramente in Spagna o in Grecia (…). Vanno al sole, non importa dove”, Löfgren 2004). Il paesaggio assume dunque soprattutto un carattere di sfondo della vacanza, apprezzato in quanto fattore generico di un complessivo “cambiamento d’atmosfera” (Lozato Giotart 2003, p. 54), quasi mai oggetto di attenzione specifica. A questo sguardo distratto, o comunque superficiale, portato sul paesaggio da parte dei turisti (domanda), corrisponde quello di imprenditori (offerta) altrettanto poco sensibili, che contribuiscono in modo significativo alla creazione, lungo le coste mediterranee, di “paesaggi del turismo” pericolosamente omogenei:
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“Dans le secteur du tourism littoral (…) l’idéal corrisponde à une plage déserte faute d’offrir une abri à une communauté de pecheurs, mais dont la courbe à seduit (…) un promoteur dynamique. Lorsque la proximité d’un aéreoport ajout au charme des lieux, les hotel et les bungalows fleurissent dans des styles plus caracteristiques d’une période que d’une région donnée, de sorte que rien ne ressemble plus à un complexe touristique grec, qu’un complexe touristic turc” (Bethemont, 2000, p. 169).
D’altra parte, il turismo balneare si propone come esperienza “globalizzante” per eccellenza, imponendo di per sé una certa uniformità di offerta alle diverse località: è infatti sufficiente che siano presenti i tre elementi base (appunto sole, mare e spiaggia), per godere di una esperienza che è essenzialmente “universale”. Ma non si tratta solo di omogeneizzazione, quanto anche e soprattutto di un vero e proprio “consumo” del paesaggio. Il turismo infatti (e non solo quello balneare), nelle sue componenti costitutive di spostamento, soggiorno e ricreazione, costituisce un potente fattore di trasformazione spaziale (Battigelli 2007), determinando, oltre a impatti ambientali (come generalmente un ipersfruttamento delle risorse idriche e un inquinamento di acqua e aria), un elevato consumo di suolo. Proprio tale voracità di spazio (Musacchio 1995) ha contribuito in modo significativo all’esplodere di quel “urban tsunami” (Forman 2010, p. 265) che ha travolto le coste euromediterranee dal secondo dopoguerra, determinando, con impressionante rapidità, la nascita del cosiddetto “Med Wall” (EEA 2006, p. 10 55): una urbanizzazione costiera “prepotente” , 11 tipicamente lineare , spesso di scarsa qualità e a prevalente carattere residenziale-turistico (EEA 12 2006) .
paesaggi in gioco
Tale processo di cementificazione dei litorali euromediterranei (oggi si stima che più del 70% delle coste in Spagna e in Italia, e il 60% in Francia, sia artificializzato, Benoit, Comeau 2005) costituisce sicuramente la manifestazione più evidente del processo socioeconomico di “litoralizzazione” (ossia di concentrazione di uomini e attività lungo i territori prossimi al litorale) che ha avuto luogo lungo le coste euro-mediterranee a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso e cui proprio lo sviluppo del turismo balneare, e dunque di una economia fondata essenzialmente sul settore terziario, ha significativamente contribuito; a tale processo di litoralizzazione si è inoltre accompagnato un collaterale e imponente esodo rurale dai territori dell’entroterra a seguito del ridimensionamento dell’attività agricola e pastorale. L’azione congiunta di tali fenomeni (litoralizzazione e esodo) ha sancito la ancora attuale frattura tra 13 aree costiere ed aree interne , comportando una ulteriore serie di processi altamente critici, tra cui, oltre alla già citata esplosione urbana, il correlato eccesso di pressione antropica lungo le aree litoranee e, se pur indirettamente, la rinaturalizzazione spontanea e incontrollata nelle aree rurali dell’entroterra, abbandonate. Si tratta di fenomeni tuttora in atto, che determinano implicazioni critiche per il paesaggio non solo di ordine ecologico o scenico, ma anche socioeconomico e identitario.
tre aree protette costiere che, come già specificato in premessa, si ritiene possano costituire un utile riferimento per la definizione di strategie di sviluppo turistico sostenibile non solo nelle aree costiere protette, ma anche in quelle non protette. Le azioni dei tre Parchi assumono particolare interesse perché esplicitamente mirate alla ricerca di un difficile equilibrio tra sviluppo turistico – obiettivo irrinunciabile, trattandosi, in tutti e tre i casi, di territori che sono mete consolidate del turismo balneare, fattore trainante dell’economia locale - e conservazione del paesaggio - missione anch’essa “obbligata”, visto il ruolo istituzionale di aree protette, e in particolare di Paesaggi Protetti, di tali territori -. Si tratta di politiche che, pur non assumendo connotati eccezionali in termini di contenuti delle scelte strategiche (che in alcuni casi, anzi, appaiono piuttosto “ovvi”), si segnalano proprio per il fatto stesso di essere implementate, frutto di un’effettiva volontà, da parte degli Enti, di affrontare i problemi derivanti dall’interazione conflittuale “turismo-paesaggio”. Si tratta pertanto di azioni che consistono per lo più in “un’ordinaria gestione del territorio, dove la cura si traduce in progettualità, i progetti in realizzazioni, la realizzazione in manutenzione, per un paesaggio in continua evoluzione” (Balletti 2009, p. 146), ma forse proprio per questo - in un contesto europeo dove i paradigmi del paesaggio stentano a passare dallo stato di condivisi enunciati teorici a quello di prassi consolidata (Voghera 2011) “straordinarie”.
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sicuramente il più evidente è quello correlato all’urbanizzazione a carattere turistico-residenziale (seconde case e strutture ricettive) che si estende 14 lungo ampie porzioni di costa . Si tratta di insediamenti frutto di uno sviluppo spesso 15 sregolato risalente ai primi decenni del secondo dopoguerra e costituiti da edifici situati a breve o brevissima distanza dalla linea di costa, la cui principale matrice localizzativa è la vista dell’orizzonte marino (fig. 1); il continuum urbano è accompagnato e sottolineato ulteriormente dalle infrastrutture di trasporto che corrono parallele al litorale, connettendo i diversi insediamenti.
Per un turismo sostenibile: il progetto del paesaggio costiero
Gestire gli effetti del turismo balneare
Figura 1. Il continuum urbano lungo la costa del Parque Parque Natural de la Albufera, frutto di un processo edificatorio che ha avuto luogo soprattutto tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso.
Un esempio significativo di “reazione” alle implicazioni critiche determinate dai fenomeni sopra citati è dato dalle politiche sviluppate entro
Il consumo di suolo - Il territorio dei tre Parchi riporta oggi i “segni” della ormai pluridecennale intensa fruizione turistico-balneare. Tra questi,
Oltre a dover gestire tale pesante eredità, i tre Parchi devono fronteggiare spinte urbanizzative tuttora in atto: in tutti e tre i casi, infatti, l’area
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costiera resta tutt’oggi un ambito privilegiato di sviluppo. Dinanzi a tale stato di fatto, e nell’intento generale di ricercare un equilibrio tra costi e benefici del fenomeno turistico balneare, la prima “mossa” giocata dai tre Enti è stata anzitutto quella di porre un freno ai processi di urbanizzazione costiera, preservando il suolo litoraneo da ulteriore consumo: se infatti il suolo è sempre una risorsa preziosa, lo è tanto più se situato in prossimità del litorale, in quanto sede di eccezionali valori ecologici (area ecotonale, di “scambio” tra ecosistemi marini e terrestri), scenici (“platea” privilegiata per la percezione dell’orizzonte marino) e socio-economici (ambito attrattivo di flussi turistico-balneari). La tutela, lungo il litorale, dei “vuoti” costieri residui costituisce dunque una priorità d’azione nei tre casi, perseguita soprattutto attraverso strumenti normativi. Il Parc de la Narbonnaise, ad esempio, in applicazione della Loi Littoral 86-2/1986, definisce, entro il Plan du Parc (2010), delle “coupures d’urbanisation” (ossia aree libere, naturali o rurali, non edificabili), che separano le zone di urbanizzazione litoranea, garantendo una soluzione di continuità nell’edificato (fig. 2). Il Parque de la Albufera invece, attraverso la zonizzazione del PRUG (il Plan Rector de Uso y Gestión, 2004), identifica lungo la costa, delle “areas de regeración de ambientes rurales”, zone rurali situate tra i nuclei urbani costieri che, definite come inedificabili, interrompono la continuità del “cinturón urbano” litoraneo (fig. 3). Similmente, il Parco del Conero, attraverso il Piano del Parco, individua delle “aree a forte valenza paesistica”, non edificabili, e corrispondenti alle ultime, residuali aree libere che intervallano l’edificato costiero. La limitazione dei processi di edificazione
Turismo lungo le aree costiere euro-mediterranee: dalla scoperta, al consumo, al progetto del paesaggio
Figura 2. Estratto della Dèclinaison Littoral de la Charte du Parc, area costiera del Parc de la Narbonnaise (cartografia originale in scala 1:70.000): in nero, le “coupures d’urbanisation”, in rosso le aree urbanizzate.
Figura 3. Estratto del Plan Rector de Uso y Gestión, area costiera del Parque de la Albufera (cartografia originale in scala 1:25.000): in verde chiaro, le “areas de regeración de ambientes rurales”, in rosso le aree urbanizzate.
in queste aree consente non solo, in generale, di ridurre il consumo di suolo, ma anche - impedendo la formazione di barriere longitudinali, quali tipicamente l’urbanizzazione costiera e le relative infrastrutture stradali - di non compromettere ulteriormente la dimensione continua trasversale mare-costa-entroterra: i “vuoti” costieri, opportunamente tutelati, vengono infatti interpretati e valorizzati come potenziali corridoi ecologi, scenici e fruitivi (in termini di garanzia di accessibilità pubblica al litorale) tra i diversi paesaggi che si sviluppano tra mare e entroterra. Interessante, poi, il caso del Parque de la Albufera, dove, oltre alla prevenzione dell’occupazione di suolo costiero attraverso la normativa di zonizzazione del PRUG, è in atto una vera e propria “riconquista” delle aree litoranee urbanizzate,
al fine di ripristinare l’originario stato dei luoghi. Tale obiettivo viene perseguito sia, diffusamente, attraverso l’applicazione, pur problematica, della 16 Ley de Costas , sia, più puntualmente, attraverso l’attuazione di alcuni progetti di recupero sviluppati 17 nell’area della dalla fine degli anni Novanta Devesa (fascia dunale di particolare pregio paesaggistico che divide il lago dell’Albufera dal mare). In quest’area, in particolare, è stata prevista la demolizione delle opere di urbanizzazione turistico-residenziali realizzate negli anni Settanta sulla base del Plan General de 18 Ordenacion del Monte de la Dehesa (1963) : sono state eliminate strade, parcheggi e passeggiate pedonali che insistevano sulle aree dunali (fig. 4), ma anche impianti idroelettrici interrati, sono state inoltre rimosse le specie alloctone introdotte negli anni (Robinia Pseudoacacia, Ailanthus altissima,
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Carpobrotus e Eucaliptus), ricreate le malladas (formazioni lagunari colmate con la terra degli scavi durante le opere di urbanizzazione precedenti) e ricostruite le formazioni dunali con il materiale esportato dalle rinate malladas (fig. 5). Più in generale, è stata quindi ripristinata la continuità ecologica trasversale prima compromessa dalle infrastrutture stradali, ricostruendo la sezione trasversale originaria della Devesa e dunque riconnettendo mare, aree dunali esterne (dune mobili), malladas, aree dunali interne (dune semi-fisse e fisse) e lago della Albufera: un vero e proprio ripristino dello stato dei luoghi ante urbanizzazione, a fini non sono ecologici, ma anche fruitivi (vedi seguito). Da segnalare, infine, sempre in tema di politiche per il contenimento del consumo di suolo di matrice turistica, gli sforzi in corso presso il Parco del Conero, il cui il Piano del Parco (2010) prevede incentivi da destinare ai proprietari delle costruzioni situate lungo la spiaggia di Portonovo (in gran parte ristoranti ad uso turistico, fig. 6) per l’arretramento delle strutture rispetto alla linea di costa. L’iniziativa risulta interessante soprattutto nel metodo: il Parco abbandona infatti, in questo caso, un’ottica puramente normativa-regolativa, con l’intento di promuovere uno sviluppo locale “auto-gestito”, facendo agire i privati secondo gli obiettivi generali dettati dal piano e sperimentando, dunque, un equilibrio complesso tra conservazione ambientale e sviluppo economico-turistico.
Figure 4, 5. Il progetto di recupero della Devesa nel Parque Natural de la Albufera: sopra (fig. 4) la demolizione delle infrastrutture lungo il litorale (il “paseo marítimo”); sotto (fig. 5) il fronte dunale ripristinato.
La pressione antropica - Alla diffusa urbanizzazione di carattere prevalentemente residenziale-turistico (seconde case, strutture ricettive) corrisponde, in tutti e tre i Parchi, una intensa frequentazione turistica, fortemente stagionale e dunque determinante picchi di pressione antropica
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Figura 6. Le strutture turistiche situate lungo la Baia di Portonovo (Parco Naturale Regionale del Conero).
soprattutto durante i mesi estivi, lungo le aree a 19 spiaggia . Per fronteggiare il fenomeno, i Parchi spagnolo e francese agiscono in modo molto simile: ponendosi come principale obiettivo la preservazione dalla iperfrequentazione delle spiagge a maggiore valore naturalistico, i due Enti non optano per impedirne l’accesso ai turisti, attraverso l’imposizione di un regime di conservazione restrittivo quale potrebbe essere un regime di riserva (soluzione relativamente “semplice”, ma non adeguata a territori storicamente ad alta frequentazione turistica), ma scelgono invece di filtrare i flussi, depotenziando gli accessi, anzitutto carrai, verso le aree di maggior pregio naturalistico. È il caso, ad esempio, del progetto che ha interessato la spiaggia di Les Coussoules (Parc de la Narbonnaise), dove, ai fini di preservare le
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condizioni naturali dell’area, che fino a tempi recenti era invasa da camper e automobili, è stata realizzata una zona di parcheggio arretrata rispetto alla spiaggia e connessa ad essa attraverso percorsi pedonali che conducono sino alla riva: una soluzione tanto semplice quanto efficace, grazie alla quale oggi la spiaggia si presenta completamente sgombra di automezzi. Una strategia simile è stata attuata entro il Parque de la Abufera, nell’area della Devesa: qui, in concomitanza con il già citato processo di abbattimento delle infrastrutture viarie costiere (vedi sopra), sono stati creati parcheggi ecocompatibili e delocalizzati rispetto all’area a spiaggia, collegati ad un percorso pedonale che corre parallelo al litorale. Da esso, a sua volta, si dipartono trasversalmente sentieri di accesso al mare che costeggiano sinuosi le dune, garantendo una selezione dei flussi verso il mare e una fruizione “lenta” e rispettosa degli ecosistemi dunali (fig. 7). In entrambi i Parchi, a fianco delle aree a spiaggia a carattere più naturale e ad accesso “filtrato”, ve ne sono poi altre, già maggiormente antropizzate, in cui accessi e servizi sono stati al contrario potenziati perché possano fungere da catalizzatrici dei flussi turistici balneari. L’ottica operativa generale adottata dai due Enti per gestire la pressione antropica costiera e preservare le aree a maggiore naturalità è infatti quella di una redistribuzione longitudinale - rispetto alla linea di costa - dei flussi turistici tra aree a spiaggia più e meno naturali, favorendo la concentrazione dei turisti nelle seconde (per cui sono previste, oltre che un potenziamento degli accessi, anche azioni di riqualificazione e valorizzazione) a favore di un 20 decongestionamento delle prime .
Turismo lungo le aree costiere euro-mediterranee: dalla scoperta, al consumo, al progetto del paesaggio
Figura 7. I percorsi pedonali che, nell’area della Devesa (Parque Natural de la Albufera), si dipartono dai parcheggi situati in posizione arretrata e, costeggiando le dune, consentono l’accesso alla spiaggia.
Guardare “oltre” il turismo balneare Le strategie sin qui citate - mirate a regolare e gestire gli effetti e le modalità del turismo balneare - non costituiscono però che una faccia delle politiche messe in campo dai Parchi in un’ottica di integrazione tra obiettivi di sviluppo turistico e conservazione del paesaggio. Accanto ad esse ne vengono infatti sviluppate altre che guardano oltre il turismo balneare, promuovendo modelli di fruizione turistica maggiormente sensibili ai valori paesaggistici e meno impattanti sulle risorse naturali e culturali, che possano diffondersi in particolare nelle aree dell’entroterra. Ovviamente tali iniziative sono concepite dagli Enti come strettamente complementari a quelle già indicate
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nel paragrafo precedente: sostenere nuovi modelli di turismo di questo tipo infatti - se promossi come alternativi a quello balneare - può contribuire a limitare le criticità tipiche del turismo “delle tre s”, connesse al consumo di suolo costiero e alla concentrazione temporale (mesi estivi) e spaziale (litorale) dei flussi. La prospettiva operativa che guida l’azione dei Parchi è pertanto, in questo caso, quella di una redistribuzione trasversale dei flussi turistici, dal litorale all’entroterra. Se, tuttavia, la citata strategia di redistribuzione longitudinale dei flussi tra aree a spiaggia più e meno naturali consiste in una “semplice” delocalizzazione dei visitatori operata all’interno della stessa tipologia di domanda (balneare), la redistribuzione trasversale dei flussi dalle aree di costa a quelle dell’entroterra richiede la presenza e promozione di una diversa tipologia di domanda turistica, interessata prevalentemente alle risorse paesaggistiche locali, naturali e culturali (quale, tipicamente, l’ecoturismo). Per promuovere una fruizione maggiormente orientata verso le aree interne, i tre Parchi stanno quindi puntando anzitutto sulla “creazione” di una tipologia di domanda simile, sensibilizzando i visitatori rispetto alle risorse naturali e culturali del territorio ancora paradossalmente poco conosciute, nonostante la 21 presenza di aree istituite proprio per proteggerle . Le azioni sviluppate in tal senso sono diverse. Paradigmatica è quella attualmente in corso entro il Parque de la Albufera e curata dal Servicio Devesa, il cui titolo, “Seduccion Ambiental”, è una chiara dichiarazione di intenti. L’iniziativa si pone infatti come principale obiettivo la diffusione della conoscenza e quindi dell’apprezzamento dei valori naturalistici che caratterizzano la Albufera (“You will fall in love with l’Albufera de Valencia” recita il 22 sito web dedicato al progetto ), ma anche degli
paesaggi in gioco
impatti che la presenza antropica, e dunque anche l’attività turistica, può avere su di essi. Il tutto al fine di promuovere una integrazione tra conservazione del paesaggio e sviluppo turistico che si ritiene non solo doverosa, ma anche possibile. Tali obiettivi sono perseguiti attraverso una serie di azioni puntuali, tra le quali l’allestimento di una Oficina de Promoción Ambiental, la diffusione sul territorio di punti informativi, la pubblicazione trimestrale di una newsletter e di materiale cartaceo informativo, la redazione di una guida alla normativa vigente entro il Parco e la produzione di un’audioguida. Simili, in termini di intento e metodo, gli sforzi intrapresi dal Parc de la Narbonnaise attraverso il progetto “Plages Vivantes” (fig. 8), che il Parco cura in collaborazione con la Ligue de Protection des Oiseaux. L’iniziativa ha avuto come principale obiettivo la sensibilizzazione dei turisti rispetto ai valori di biodiversità che caratterizzano le aree dunali del Parco, con particolare riferimento alla nidificazione di alcune specie di uccelli al di sotto della sabbia dunale, messa a rischio dalla intensa frequentazione turistica estiva. Al grido di “Attention où vous mettez les pieds!”, sono state diffuse pubblicazioni e disposti pannelli informativi, animati incontri e conferenze, e organizzate passeggiate esplorative. L’intento specifico di preservare l’avifauna si è così accompagnato ad un obiettivo più generale di diffusione tra i visitatori della coscienza che il Parco “è anche altro” rispetto alle risorse prettamente balneari: significativi in proposito i titoli delle escursioni organizzate nel2008, quali “Richesses insoupçonnées des lagunes”, o “Tournons le dos à la mer”. Più complesso e articolato dei precedenti è, invece, il progetto “Nature et Patrimoine”, promosso
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Figura 8. Immagina pubblicitaria relativa al progetto “Plages Vivantes”, sviluppato entro il Parc Naturel Régional de la Narbonnaise: sullo sfondo il classico turismo balneare, maggiormente in primo piano, invece, un turismo alternativo, attento alle risorse locali, in questo caso prettamente naturalistiche (avifauna).
sempre dal Parc de la Narbonnaise. L’iniziativa, curata dall’Ente in collaborazione con le agenzie turistiche locali, prevede la promozione di un’offerta turistica fondata sulla scoperta del patrimonio naturale e culturale locale, attraverso l’allestimento di un esteso complesso di sentieri
escursionistici nelle aree dell’entroterra e lagunari, la selezione e promozione di una rete di esercizi ricettivi che si distingue per la qualità del servizio e il rispetto dell’ambiente, e l’organizzazione di escursioni curate della rete di “animateurs” del Parco, in grado di “raccontare” ai turisti i valori
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paesaggistici dell’area. Si tratta di un’iniziativa che mira esplicitamente a promuovere un modello turistico alternativo a quello balneare: non a caso le escursioni sono organizzate anche e soprattutto durante i periodi in cui massimo è l’affollamento delle spiagge (“Que faire du 15 au 31 août sur le territoire du Parc?” titola, ad esempio, l’agenda delle escursioni “Nature e Patrimoine” organizzate nell’agosto 2011). Vi è poi un’ulteriore, specifica modalità di turismo, a basso impatto e alternativo a quello balneare, che nel contesto della costa euro-mediterranea può assumere un ruolo cruciale per la conservazione dei valori paesaggistici e che viene anche per questo giustamente promossa dai tre Parchi. Si tratta del turismo rurale, ossia di una domanda fondata sul riconoscimento del valore del paesaggio agrario e della qualità dei prodotti agricoli (risorse enogastronomiche). Tale tipologia di turismo, oltre che rispettare in modo “passivo” i valori paesaggistici, può contribuire attivamente al loro mantenimento e ripristino. La risorsa attrattiva è infatti in questo caso proprio quel paesaggio rurale, che, nel Parco italiano e francese, così come in diverse aree dell’entroterra costiero euromediterraneo, consiste in territori viticoli in stato di diffuso abbandono e sottoposto a incalzanti processi di rinaturalizzazione. Promuovere in queste aree una domanda turistica di tipo rurale in un’ottica di multifunzionalità dell’attività agricola, così come definita dal secondo pilastro della Politica Agricola Comune (PAC) - costituisce uno degli strumenti possibili per favorire la permanenza delle pratiche agricole che hanno storicamente strutturato il paesaggio costiero euromediterraneo, garantendo così il mantenimento e in alcuni casi il ripristino di valori paesaggistici non solo socio-culturali e scenici, ma - in un contesto
Turismo lungo le aree costiere euro-mediterranee: dalla scoperta, al consumo, al progetto del paesaggio
dove diversità culturale e naturale si intersecano indissolubilmente - anche ecologici (biodiversità). Esempi di promozione di una fruizione turistica fondata sulle risorse rurali dell’entroterra sono costituiti, nel Parco del Conero, dall’iniziativa della “Strada del Rosso Conero”, percorso escursionistico che unisce in un unico circuito fruitivo le principali aziende produttrici del vino Rosso Conero, o, nel Parco francese, dalla costituzione di sentieri tematici specificatamente “vignerons”, che collegano le cantine viticole locali. Tali iniziative sono poi sostenute e integrate da azioni di promozione diretta, da parte degli Enti, dell’attività agricola locale, quali la apposizione di marchi di qualità alle produzioni (Marchio Agricolo nel Parco del Conero, Marque Parc – Produit du Parc, nel Parc de la Narbonnaise), o la elargizione di incentivi finalizzati a promuovere l’attività agrituristica locale (è il caso del Piano Agricolo Aziendale, proposto entro il Piano del Parco del Conero), o, ancora, la pubblicizzazione della produzione agricola: è ciò che avviene nel Parc de la Narbonnaise, dove l’Ente, in concertazione con il Syndicat des vigneron, ha elaborato nel 2008 la Charte signalétique du Massif de la Clape mirata, tra l’altro, a segnalare le aziende viticole locali tramite apposita cartellonistica e garantendo così una migliore promozione dell’attività agricola sul territorio; come ricordano infatti i tecnici del Parco, la crisi vitivinicola che oggi affligge l’area in realtà non è stata dettata tanto dalla perdita del savoir faire “agricolo”, quanto da una carenza di savoir faire “commerciale”, in un contesto di crescente competizione mondiale. Emerge pertanto come oggi, lungo le aree costiere euro-mediterranee, il litorale continui ad essere il regno di un turismo balneare di massa (minaccia
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consolidata per valori naturali e culturali, da regolare e gestire), mentre l’entroterra si proponga sempre più come sede di un nascente turismo a basso impatto (ecoturismo) e di un turismo rurale, entrambi da promuovere: è infatti il potenziamento di queste due ultime tipologie di turismo, o di tipologie simili - in un’ottica generale di promozione di una sempre maggiore diversificazione dell’offerta rispetto al dominante settore balneare - che può contribuire a gestire efficacemente, nel suo complesso, il fenomeno turistico lungo le coste euro-mediterranee. In particolare, è importante cogliere le opportunità derivanti da ecoturismo e turismo rurale per una redistribuzione trasversale dei flussi turistici dal litorale alle aree interne. Tuttavia, perché tale proficuo scambio tra costa ed entroterra possa davvero realizzarsi, occorre una innovazione profonda del sistema turistico euromediterraneo, che, va detto, non si profila certo come prospettiva a breve termine. Si tratta infatti di incidere su modelli culturali e socioeconomici (quello del turismo balneare) consolidati e che continuano tutt’oggi a prevalere lungo la costa dell’arco latino. Confortano, tuttavia, in questa prospettiva, le analisi (World Tourism Organization, UNWTO) che vedono, nei Paesi euro-mediterranei, una complessiva maturità del turismo balneare e 23 un crescente peso dell’ecoturismo , e, in generale, una sempre maggiore predilezione dei visitatori per gli aspetti ecologico-ambientali della vacanza. Lo spazio d’azione per una innovazione della domanda, che possa contribuire a fare fronte al conflitto tra sviluppo turistico e conservazione del paesaggio lungo la costa, dunque c’è. E infatti i tre Parchi stanno agendo proprio in questo senso, assumendo una prospettiva d’azione “geograficamente” ampia, che guarda correlatamente - integrandole in un unico sistema
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di politiche di gestione del turismo - alle aree della costa e dell’entroterra, tornando a considerarle come mondi strettamente e proficuamente complementari, quali sono peraltro sempre state, almeno sino al secondo dopoguerra.
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Turismo lungo le aree costiere euro-mediterranee: dalla scoperta, al consumo, al progetto del paesaggio
Riferimenti iconografici Figura 1: Emma Salizzoni, 2010. Figura 2: Parc Naturel Régional de la Narbonnaise en Méditerranée, 2010, Dèclinaison Littoral de la Charte du Parc, Charte du Parc 2010 - 2022. Le projet de territoire adopté par tous. Figure 3: Parque Natural de la Albufera de Valencia, 2004, Plan Rector de Uso y Gestión del Parque Natural de la Albufera (PRUG). Figura 4: Ayuntamiento de Valencia, Servicio Devesa de la Albufera, 2003, La Gestión de l´Albufera de Valencia y su Devesa (http://www.albuferadevalencia.es). Figura 5: Emma Salizzoni, 2010. Figura 6: Emma Salizzoni, 2010. Figura 7: Emma Salizzoni, 2010. Figura 8: www.parc-naturel-narbonnaise.fr.
Testo acquisito dalla redazione nel mese di giugno 2012. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte. 1
Si vedano, ad esempio il Protocollo sulla Gestione Integrata delle Zone Costiere nel Mediterraneo, 2008 (UNEP, MAP, PAP-RAC), o la precedente Carta del Paesaggio Mediterraneo, 1993 (Regioni Andalusia, Languedoc-Roussillon, Toscana). 2 Pur con significative sfumature: se in Spagna infatti il dominio del turismo balneare è incontrastato, in Francia il turismo “sole, mare, spiaggia” - decisamente più sviluppato nell’area mediterranea orientale, ma in crescita anche nel dipartimento della Languedoc-Roussillon - si accompagna ad un turismo urbano-culturale molto forte (area parigina e Valle della Loira) e ad uno montano (Alpi e Pirenei). In Italia, invece, il turismo balneare, storicamente dominante, mostra segni di cedimento, facendo registrare una stagnazione nei flussi (iniziata negli anni Novanta) rispetto a Francia e Spagna, e, in
particolare, una “fuga dal mare” di turisti stranieri (Ferrari 2008). 3 Si calcola che i flussi turistici nelle aree costiere di Spagna, Francia e Italia aumenteranno complessivamente del 25% dal 2000 al 2025; più in particolare, il numero di turisti presenti per km di costa nei tre Paesi, in periodo di alta stagione, è destinato a crescere del 36% in Italia, del 40% in Francia e addirittura del 62% in Spagna (Benoit, Comeau 2005, p. 423). 4 Non a caso, si tratta di aree protette profondamente antropizzate, classificate pertanto dalla IUCN come categoria V, “Protected Landscapes-Seascapes”, di cui ricordiamo qui la definizione: “A protected area where the interaction of people and nature over time has produced an area of distinct character with significant ecological, biological, cultural and scenic value, and where safeguarding the integrity of this interaction is vital to protecting ad sustaining the area and its associated nature conservation and other values” (Dudley 2008, p. 21). 5 Le politiche delle aree protette – grazie alla presenza di un governo speciale, di piani di gestione e finanziamenti ad hoc, oltre che, in alcuni casi, di un’esperienza consolidata negli anni – hanno, almeno in linea teorica, una maggiore possibilità di trovare una applicazione efficace rispetto alle politiche che contraddistinguono i territori a regime ordinario. 6 Occorre infatti specificare che l’analisi che Corbin conduce è relativa ai secoli immediatamente precedenti al XVIII (e in particolare ai secoli XVI e XVII). Il “risveglio” di cui parla Corbin - ossia la “scoperta” del mare (intesa come superamento dell’atteggiamento di repulsione verso le acque marine e avvicinamento ad esse attraverso la pratica del bagno di mare) - che ha inizio secondo l’autore a partire dal XVIII secolo, si contrappone ad un periodo di “letargo” relativamente limitato e non è da intendersi in termini storici “assoluti”. Corbin è infatti ben cosciente dello stretto rapporto esistito tra uomini e mare, anche di ordine ludico, in epoche ben precedenti alla settecentesca “scoperta” del mare, e in particolare nel mondo antico (“il luogo ideale per l’otium antico è la
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sponda del mare”, Corbin 1990, p. 323). Ne consegue che pertanto, in termini assoluti, è sicuramente più corretto parlare di “ri-scoperta” del paesaggio costiero (almeno per quanto riguarda il contesto mediterraneo), piuttosto che di scoperta: “l’attrattività turistica del paesaggio costiero mediterraneo ha richiamato l’interesse delle popolazioni inurbate molto prima dei turisti del Grand Tour (…)”, e in particolare è durante l’epoca tardo repubblicana e imperiale che si sono manifestati “(…) fenomeni di mobilità estiva della popolazione urbana, in particolare verso i Campi Flegrei, a Pozzuoli e Baia, alla ricerca di svago e divertimento, con il processo di urbanizzazione della costa campana e la nascita di una nuova tipologia edilizia, la villa marittima (…)” (Mazzino 2009, pp. 160-161). 7 “Per molto tempo nelle stazioni del litorale i percorsi delle passeggiate non tennero in alcun conto il pittoresco marino. A Dieppe la quasi totalità delle case affittate dai bagnanti durante la Restaurazione era orientata nel senso opposto al mare” (Corbin 1990, p. 339). 8 Per una trattazione approfondita dello sviluppo storico del turismo in Liguria, soprattutto in relazione ai processi di urbanizzazione che hanno interessato le coste, si vedano Balletti 2009 e Mazzino 2009. 9 “A partire dal secondo dopoguerra, la seconda casa diverrà, in tutt’Europa, un fenomeno pervasivo”, generando “città abitate solo nella stagione estiva o città abitate solo da popolazioni anziane, colonie estive, vasti spazi dedicati alle pratiche sportive” (Secchi 2006, p. 125). 10 “En moins d’un siécle (...) la cote s’est progressivement transformée en ce “mur de béton” que dénoncente certains (...). Il s’agit toujours d’une forme de privatisation de l’espace, d’appropriation des fronts de mer qui soulève aujourd’hui de sérieuses réserves” (Miossec 2004, pp. 103-104). 11 In realtà, le forme dell’urbanizzazione turistica, così come quella litoranea in generale, sono molteplici. Forse l’analisi più efficace e rigorosa resta quella di Lozato Giotart (2003), che esamina le forme dell’espansione turistica recente (secondo dopoguerra), sia a scala locale
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che regionale. A scala regionale sono evidenziate principalmente due tipologie di espansione: un “tipo litoraneo a forte densità multipolare”, caratterizzato da poli turistici che si susseguono, in un continuum, lungo la costa (“concentrazione” è la parola chiave); e un “tipo litoraneo a multipolarità discontinua e pianificata”, dove, nonostante permanga comunque la struttura lineare, l’attività turistica si concentra in poli specializzati, interrotti da soluzioni di continuità dell’urbanizzato costiero (si tratta comunque di aree a minor pressione turistica rispetto alle prime). Similmente Cazes e Lanquar (2000) e Miossec (2004) differenziano a grandi linee gli insediamenti turistici costieri mediterranei in urbanizzazioni lineari “spontanee”, fondate essenzialmente sulla ricerca dell’orizzonte marino e della rendita immobiliare, e in sviluppi urbani frutto di disegni pianificatori complessi. Nonostante la presenza anche di casi vicini al secondo “tipo” delineato (è il caso del litorale della Languedoc-Roussillon, parte del quale è contenuto entro il Parc de la Narbonnaise, frutto di un complesso processo di pianificazione operato nell’ambito della Mission Racine), lungo le aree costiere dell’arco latino prevale nettamente una struttura urbana del primo tipo, particolarmente evidente ad esempio lungo la Costa Azzurra, in Provenza, o lungo la Costa del Sol, in Andalusia 12 Per indicare tale processo di artificializzazione sono stati coniati innumerevoli neologismi: “rapallizzazione”, “marbellizzazione”, “balearizzazione”, tutti creati a partire da esempi di urbanizzazioni “infelici”, condotte a scopi essenzialmente turistici: raramente guidate da un processo pianificatorio e spesso frutto di uno sviluppo incontrollato, si riducono a “processi di edificazione senza urbanizzazione” (Battigelli 2007, p. 29), monofunzionali, privi di quella complessità che è propria dell’ambito urbano. 13 Da un paesaggio costruito, vissuto e percepito, per secoli, anzitutto secondo una dimensione trasversale (soprattutto grazie all’integrazione tra attività agricole e ittiche, ma anche grazie alla pratica della transumanza), si è passati ad un paesaggio in cui prevale in modo
evidente la dimensione longitudinale (marcata dai segni dell’edificato costiero e della infrastrutture) e che è caratterizzato da un nuovo rapporto tra costa ed entroterra, mondi non più complementari, ma “opposti” se non antagonisti: “the general result is an apparent spatial dichotomy between strong, heavily populated coastal areas, characterised by high intensity of land use and consumption, and inevitably weaker, thinly populated inland areas with lower housing density and a less dynamic economy” (UNEP, MAP, PAP/RAC 2001, p. V). 14 Tra le molteplici conseguenze critiche di tale fenomeno, si segnalano, in sintesi, non solo il consumo di risorse naturali (suolo in primis) e il degrado scenico del paesaggio costiero, ma anche l’alterazione profonda delle relazioni “trasversali” (di tipo ecologico e scenico, ma anche soprattutto socio-economico e culturale) storicamente consolidate tra mare, costa ed entroterra (vedi nota precedente). 15 Ciò è vero soprattutto nei casi italiano e spagnolo, dove l’urbanizzazione costiera non è stata il frutto di un processo di pianificazione complessiva, ma di un procedere “per aggiunte” di singoli edifici o di piccoli complessi urbani. 16 La legge (22/1988), che ha tra i principali obiettivi quello della difesa della “integritad” del Demanio Pubblico Marittimo Terrestre (DPMT) fortemente compromesso dai processi urbanizzativi incontrollati degli anni Sessanta – Ottanta, prevede una vera e propria “riconquista” del demanio, privatizzato e consumato, tramite l’esproprio e il conseguente abbattimento di tutti gli edifici qui ricadenti (è quanto previsto anche entro il Parque Natural de la Albufera de Valencia, dove verranno espropriati un complesso residenziale-turistico e un hotel di lusso situati in area di DPMT). Nonostante le diverse polemiche che l’applicazione della legge, promossa con forza dal 2008 dal governo Zapatero, ha suscitato nei proprietari degli immobili siti in DPMT (in particolare in relazione alla retroattività della norma), e nonostante le intenzioni dell’attuale governo spagnolo che pare orientato ad una modifica della norma al fine di attenuare le tensioni sociali, per il momento il Ministero dell’Ambiente sta
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continuando a portare avanti l’applicazione della legge, avendo ormai quasi completato la definizione del confine (deslinde) del DPMT lungo tutta la costa spagnola. 17 E curati dall’Ayuntamiento di Valencia (attraverso il Servicio Devesa Albufera), responsabile della gestione dell’area del Parco ricadente entro i confini amministrativi del Comune di Valencia. 18 Il Piano - attuato nel corso degli anni Sessanta e Settanta - viene bloccato nel 1979 dalla prima amministrazione democratica di Valencia, su pressione della società civile valenciana e in particolare del primo movimento ecologista spagnolo, “El Saler per al Poble”. Nel 1982 viene approvato il “Plan Especial de protección del Monte de la Devesa de El Saler”, finalizzato al ripristino dello stato dei luoghi ante urbanizzazione. 19 Tra le implicazioni critiche del fenomeno, si possono citare, in sintesi, il consumo diretto di prezioso suolo dunale (soprattutto in relazione alla costruzione di stabilimenti balneari o passeggiate), la conseguente accelerazione dell’erosione costiera, l’inquinamento delle aree a spiaggia (rifiuti) e, da un punto di vista socioeconomico, l’alterazione dell’accessibilità pubblica (in caso di presenza di stabilimenti balneari privati). 20 Per un approfondimento sul tema, si veda Forman 2010. 21 Si tratta di un fenomeno comune alle aree protette costiere: uno studio condotto nel 2006 sul fenomeno del turismo nelle aree protette italiane ha ad esempio evidenziato come nei Parchi Nazionali situati in ambito costiero la consapevolezza da parte dei visitatori dell’esistenza del Parco sia sensibilmente inferiore alla media registrata sul totale dei 22 Parchi nazionali italiani. L’attrattiva balneare tende quindi ad oscurare la presenza stessa delle risorse naturalistiche per la cui conservazione l’area protetta è stata istituita (Cannas, Solinas 2006). 22 http://www.albuferadevalencia.es/ (ultimo accesso: giugno 2012). 23 Come confermato anche dal XVII Rapporto sul turismo italiano (si vedano in particolare gli interventi di Becheri 2011 e Cannas 2011). È quello che peraltro sta
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Turismo lungo le aree costiere euro-mediterranee: dalla scoperta, al consumo, al progetto del paesaggio
accadendo anche nei tre Parchi e in particolare nel caso francese: "La mer et le soleil restent des atouts qui attirent actuellement la majorité des touristes estivaux, mais dans le même temps, on observe un engouement du public pour des séjours, souvent beaucoup mieux répartis le long de l’année, proches de la nature, qui bénéficient à la fois d’un calme relatif, d’un environnement préservé et de la grande richesse environnementale et patrimoniale de la Narbonnaise" (http://www.parc-naturel narbonnaise.fr/en_actions/tourisme, ultimo accesso: giugno 2012).
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libri
Il paesaggio di Aldo Cinquant’ anni dopo
Sestini
(1963).
Il paesaggio by Aldo Sestini (1963). Fifty years later
abstract Il volume “Il paesaggio” edito dal geografo Aldo Sestini nel 1963 nella collana dedicata all’Italia del Touring Club Italiano rappresenta il primo e originale tentativo di puntuale descrizioneinterpretazione dei paesaggi italiani con classificazione in 95 tipi (raggruppati in 9 forme), sulla base dei fattori geologico-morfologici e climatici. L’opera merita oggi di essere “riusata” per obiettivi “attivi”: la didattica della geografia e l’educazione al paesaggio, la creazione di itinerari culturali a fini turistici, la redazione di monografie dettagliate di unità di paesaggio locali. Le nuove funzioni richiedono l’integrazione dell’analisi storica con quella geografica per costruire quadri conoscitivi condivisi e adeguati a dare sostanza ai piani paesistici previsti – a fini di pianificazione – dal Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio.
abstract The volume “The Landscape”, edited by the geographer Aldo Sestini in 1963 in the collection dedicated to Italy of the Italian Touring Club, represents the first original attempt of a careful description-interpretation of Italian Landscapes, classified in 95 types (grouped in 9 forms), on the basis of geological, morphological and climatic factors. The work deserves nowadays to be “reused” for “active” aims, such as geography teaching, landscape education, realization of cultural itineraries for tourist aims, editing of detailed monographs of of local landscape units. The new functions demand the integration of historical analysis with the geographical one, to build index maps shared and suitable to give substance to landscape planning tools, as defined by the Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio.
parole chiave Aldo Sestini, paesistici
key-words Aldo Sestini, Italian landscape, landscape typeforms
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Leonardo Rombai*
paesaggio
italiano,
tipi-forme
*Università degli Studi di Firenze, Dipartimento di Studi Storici e Geografici.
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Il paesaggio di Aldo Sestini (1963). Cinquant’anni dopo
Il volume compare in una collana di successo del benemerito sodalizio che dalla fine del XIX secolo compie opera di rigorosa e larga divulgazione fra i suoi soci (all’inizio degli anni Sessanta erano circa 400.000), ai fini della promozione di conoscenza e fruizione/valorizzazione turistica delle bellezze ambientali, paesaggistiche, architettoniche e artistiche del Paese; è destinato alla illustrazione della grande varietà dei paesaggi che caratterizzano l’Italia, nel solco delle classiche opere descrittive della geografia, a partire da Il paesaggio terrestre di Renato Biasutti (1947/edizione migliorata del 1962), con la quale – sfiorando appena la complessa dimensione storica – lo studioso poneva “le basi per una ecologia umana” alla scala della regionalizzazione in termini paesistici e ambientali del mondo (Gambi 1973, p. 32). La rassegna sestiniana in 232 pagine rappresenta uno dei livelli più alti che la letteratura italiana abbia raggiunto nella paesaggistica: l’analisi è prodotta secondo i canoni della geografia concretologica, sempre aliena dalle sottigliezze teoretiche e retoriche, e per la quale “paesaggio” significa capire il territorio e i suoi abitanti (Cassi, Meini 2010, p. 9; Corna Pellegrini 2010). Effettivamente, il lavoro si configura – per la prima volta – come una vera e propria guida per la lettura e l’interpretazione dei paesaggi italiani: è un arduo tentativo di classificazione volto a fissare i tipi individuati (ben 95, di cui alcuni ulteriormente divisi in sottotipi), raggruppati in 9 forme o grandi categorie “legati a territori ben definiti e compatti al loro interno” (Corna Pellegrini 2010): ovvero i paesaggi alpini, i prealpini e subalpini, i padani, i paesaggi dell’Appennino settentrionale, centrale,
tirrenico e meridionale, i paesaggi siciliani e i sardi; e ciò, sulla base di elementi compositivi comuni di ordine morfologico, idrografico, climatico, vegetazionale e umano. Scrive Sestini che – pur dovendosi obbligatoriamente considerare la forza vigorosa della natura – “i paesaggi umanizzati sono una creazione storica, sviluppatasi a poco a poco attraverso molteplici rimaneggiamenti”. L’elenco dei tipi – come si comprende dal rilevamento di elementi differenziali anche assai sfumati dipendenti dall’intervento umano e quindi soggetti a processi di mutabilità – avrebbe potuto essere ben più nutrito. L’autore afferma che il suo lavoro “apparirà spesso difettoso o addirittura artificiale”, perché la distinzione fra i diversi paesaggi italiani non può essere fatta in modo netto e “conduce a separare cose affini sotto certi riguardi”; richiede quindi – come del resto la loro descrizione – senso della misura e di equilibrio (Gribaudi 1963, p. 104). Forme e tipi sono riportati in chiare carte topografiche semplificate e cartine tematiche e sono bene illustrati con fotografie e schizzi o schemi planimetrici e prospettici; tale significativa documentazione grafica e figurata è dotata di un commento didascalico di impeccabile adesione al testo. Del resto, l’opera ha il pregio di un linguaggio accessibile alle persone di media cultura che vogliono farsi turisti in patria; l’autore è dotato di straordinaria competenza e sensibilità emotiva per il paesaggio e riesce perciò a fondere il rigore dell’esattezza scientifica con una esposizione letteraria sempre piana e appropriata, vivace e attraente. L’esame di ciascun tipo viene fatto dimostrando capacità di sintesi, proporzione e sobrietà: ovvero con la presentazione attenta e precisa delle caratteristiche naturali del territorio (a partire dai
Il paesaggio (1963)
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principali artefici del paesaggio: morfologia e clima con l’influenza sulla forma dei terreni e sulla copertura vegetale, elementi e fattori che assumono il ruolo di imprinting di base) (Cassi, Meini 2010, p. 18); con l’analisi delle diversità che lo distinguono dai territori vicini e delle cause naturali e umane di tali diversità; con il richiamo al ruolo che gli aspetti del paesaggio naturale hanno esercitato ed esercitano sulla distribuzione della popolazione (con insediamenti e densità demografica), sulle attività economiche e sulle destinazioni d’uso del suolo con l’alternarsi di coltivazioni, boschi e incolti. In definitiva, il paesaggio disvelato con questa “galleria di quadri” è quello agrario, mentre “rimangono un po’ nell’ombra le manifestazioni geografiche dell’attività industriale e commerciale, comunicazioni comprese” (Gribaudi 1963, pp. 105 e 107); comunque, “dei centri abitati è sempre indicata non soltanto la morfologia urbanistica, ma anche la connessione di questa alla forma dei terreni, alle attività economiche prevalenti ed alla storia dei diversi insediamenti” (Corna Pellegrini 2010). Se volessimo esprimere altri appunti, dovremmo sottolineare il fatto che, anche per il periodo in cui fu concepita e scritta – negli anni di avvio del miracolo economico italiano che in breve tempo doveva trasformare radicalmente un paese tradizionalmente rurale e povero, portando un benessere diffuso seppure insieme con tanti squilibri – l’opera non si occupa del degrado paesistico-ambientale che stava, comunque, cominciando a rivelarsi agli occhi di poche personalità del mondo della cultura attento agli impatti negativi sul nostro patrimonio naturale e storico, come le élites riunite fin dal 1955 nell’associazione di tutela Italia Nostra.
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In conclusione, il volume rappresenta un’accurata e suggestiva descrizione panoramica dell’Italia nelle sue grandi partizioni regionali. Il discorso si articola intorno ad una materia che accomuna argomenti di geologia, morfologia, climatologia e agronomia con quelli demografici ed economici, trattati nell’assetto geografico presente, ma con non superficiali riferimenti alla storia. Per Sestini il paesaggio geografico è struttura materiale che – a partire dal semplice panorama con la inevitabile impressione emotiva che se ne riporta – si esprime anche come manifestazione sensibile, oltre che come risultato razionale di rapporti funzionali (non tutti avvertibili con la nostra vista), che richiede necessariamente una spiegazione di contenuto prettamente scientifico. Va a suo grande merito l’armonica fusione con la quale gli elementi oggettivi del paesaggio sono presentati, insieme con il continuo richiamo ai fenomeni che valgono a decodificarlo e interpretarlo (Colamonico 1963).
Il valore e l’uso de Il paesaggio oggi A rileggere Il paesaggio, oggi, questo appare uno straordinario strumento da “riusare” per obiettivi “attivi” quali: la didattica della geografia e l’educazione al paesaggio, la creazione di itinerari culturali a fini turistici, la redazione di quel catalogo nazionale dei paesaggi agrari di interesse storico prefigurato dall’opera curata da Mauro Agnoletti (2010); tale opera “potrebbe utilmente avvalersi dei quadri delineati dal Sestini, se non altro a livello di scala media, nell’ambito del quale inserire quadri locali più dettagliati” (Cassi, Meini 2010, p. 18), utilizzabili anche per la costruzione dei quadri conoscitivi che devono sostanziare i piani paesistici previsti – a fini di pianificazione – dal codice dei
beni culturali e del paesaggio del 2004. Il fatto che i paesaggi siano stati trasformati dall’uomo in maniera profonda – nel mezzo secolo trascorso – ne accresce il valore documentario di ricostruzione storica dell’assetto geografico raggiunto al culmine dell’Italia agricola tradizionale, negli anni in cui il Paese era avviato verso la grande e disordinata crescita economico-sociale e il conseguente consumo del patrimonio paesistico-ambientale storico (Cassi, Meini 2010, p. 9). È merito di Sestini avere offerto un contributo concreto al problema del riconoscimento delle unità territoriali-paesistiche, pratica oggi divenuta centrale nella riflessione delle discipline del territorio svolta con finalità di pianificazione. Tra l’altro, il metodo sestiniano di regionalizzazione paesistico-ambientale – basato sul fattore strutturale/geologico-morfologico – è stato nel 1994 codificato in Toscana proprio in funzione della pianificazione (Rossi, Merendi, Vinci, 1994), con individuazione di 9 sistemi di paesaggio articolati in 83 sottosistemi, “dettagliando e modificando le unità di paesaggio sestiniane, con l’ottica di analisi a scala “molto più dettagliata”. Trattasi di: monti dell’Appennino (19 sottosistemi), Alpi Apuane (2 sottosistemi), rilievi dell’Antiappennino (16 sottosistemi), Colline Plioceniche (15 sottosistemi), ripiani tufacei e Amiata (1 sottosistema), conche intermontane (8 sottosistemi), pianure alluvionali interne (5 sottosistemi), pianure costiere bonificate (7 sottosistemi) e isole e promontori tirrenici (10 sottosistemi). L’uso del suolo è risultato l’altro fattore di zonizzazione: si distinguono aree urbanizzate, colture erbacee, colture arboree, formazioni forestali, pascoli, aree nude, aree estrattive, corpi d’acqua.
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È a tutti evidente – sul piano teorico-concettuale – che tale zonizzazione in sistemi e sottosistemi paesistico-territoriali, pur avendo una sua validità generale, deve essere corretta con l’integrazione del fattore storico: solo il poter guardare (come insegna Lucio Gambi fin dagli anni Cinquanta e Sessanta) la realtà delle strutture territoriali con la mentalità dello storico – e non dell’ecologo – può consentire di spiegare la presenza di caratteri paesistici d’insieme o di singole specificità paesistiche in quell’archivio complesso che costituisce il mosaico prodotto dall’intreccio di lunghissimo periodo tra fattori naturali e umani. Se l’ambiente “è divenuto realtà umana”, in considerazione dei suoi “valori messi in atto”, tale realtà si presenta con forme e caratteri assai variegati, in “conseguenza di una grande articolazione di decorsi storici”. L’ambiente si è plasmato e si plasmerà “secondo le strutture – ordine economico, giuridico, scientifico – che ogni comunità umana si è data da quando poté uscire dal chiuso impianto sussistenziale, scuotere la cristallizzazione sociale e vincere le lacciaie del mito” (Gambi, 1972, pp. 16-17 e p. 32). Albano Marcarini, pur con la premessa che “il paesaggio sfugge a precise catalogazioni, a ogni tentativo di scomposizione e sintesi”, ha proposto per l’Italia un elenco di 76 tipi “in cui la componente umana e la sedimentazione storica hanno prodotto sul palinsesto naturale un’armonia di forme e strutture generalmente condivisa, meritevole di conservazione e trasmissibilità”. L’elenco è consapevolmente incompleto ma costituisce un contributo apprezzabile al “riconoscimento” del mosaico delle piccole specificità paesistiche, molte delle quali abbisognano di urgenti interventi di riqualificazione, pena il rischio sicuro della
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Il paesaggio di Aldo Sestini (1963). Cinquant’anni dopo
dissoluzione: è il caso delle “fasce delle riviere liguri” (e di altri paesaggi collinari terrazzati retti dai muretti a secco), del “paesaggio veteroindustriale delle valli fluviali di pianura” specialmente dell’alta Padania, dei resti sempre meno evidenti delle “centuriazioni romane” e delle “piantate padane”, “delle selve castanili” appenniniche e delle ‘suggestioni’ archeologiche e storiche della Campagna Romana, come anche delle masserie pugliesi, del latifondo estensivo della Sicilia interna e del pastoralismo della Barbagia o dei ‘campi chiusi’ degli altipiani sardi (tanche), delle colture promiscue dell’Italia centrale, ecc. (Marcarini, 2000, pp. 254-275). Il volume curato da Mauro Agnoletti (2010) censisce 123 paesaggi storici regione per regione, con considerazione delle aree montane, collinari e pianeggianti delle coste e dell'interno. Sono paesaggi noti al grande pubblico come l'area della "viticoltura eroica" della media Dora Baltea e le "terrazze a vite bassa" di Tramonti, o le "colline moreniche del Basso Garda" con le "limonaie gardesane", i "vigneti terrazzati della Valtellina" o della Val Cembra e di Santa Maddalena, oppure delle "colline tra Tarzo e Valdobbiadone"; come i "piani [prevalentemente pascolativi] di Castelluccio di Norcia", i "limoneti terrazzati della Costiera Amalfitana" e la bella collina fiesolana-fiorentina. La maggior parte delle aree prescelte è conosciuta solo dalle popolazioni locali o dagli studiosi: come "i magredi di Vivaro", gli "oliveti della valle del Lamone" o di Brisighella, le "partecipanze Centopievesi", i carrubeti del Ragusano, i mandorleti terrazzati del Gargano o la vite maritata alta al pioppo della pianura vulcanica flegrea (che è eredità etrusca). Per la Toscana sono considerati otto paesaggi storici. Ma la regione, forse più delle altre, è fatta
di diversità per le varietà fisico-naturali e le specificità impresse dall'azione politico-culturale delle sue città tra tempi tardo-medievali e contemporanei. Neppure i Lorena – che pure crearono lo Stato moderno e videro nel podere e nella fattoria a mezzadria gli strumenti della modernizzazione economico-sociale – riuscirono ad omologare tale assetto con il relativo paesaggio dell'agricoltura promiscua e dell'insediamento sparso, per tanti secoli celebrato da europei ed italiani come il modello del bel paesaggio. Tre paesaggi esemplificano il mondo della montagna, con le società paesane dei piccoli proprietari dediti al bosco, all'allevamento e alla coltura del castagno, con la loro tradizionale mobilità invernale verso le Maremme per transumanza e faccende forestali. Trattasi de: le abetine della selvicoltura monastica di Vallombrosa (Reggello), con la "persistenza storica di un modello di gestione forestale che per secoli ha fornito legname di abete", contribuendo altresì "allo sviluppo delle scienze forestali in Italia"; i paesaggi silvo-pastorali di Moscheta (Firenzuola), esempi significativi del ruolo storico dei monasteri nella gestione del territorio appennnico" per il medioevo e l'età moderna, con intorno all'abbazia (organizzata in Museo del Paesaggio dell'Appennino), area di proprietà pubblica ad indirizzo silvo-pastorale, "faggete, pascoli arborati, castagneti da frutto monumentali e importanti manufatti ad uso agricolo e religioso"; i castagneti da frutto monumentali dello Scesta (San Cassiano, Bagni di Lucca), fra cerrete e pascoli, coltivati su terrazzi in area collinare-montana dalle forti pendenze e con vallecole profondamente incise. Tre paesaggi sono diretta espressione del classico paesaggio della mezzadria poderale nella variante più celebrata, quella fiorentina fortemente
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improntata dalle piante di civiltà (vite e olivo), dalle sistemazioni orizzontali, dalle sedi rurali tra le più antiche, ville comprese con parchi e giardini, da edifici e più semplici manufatti religiosi, da strade storiche. Trattasi de: la collina fiesolana (FiesoleFirenze), area che abbraccia il versante sud tra San Domenico e Settignano, con caratteri estetici di assoluto rilievo, quali i terrazzamenti e gli impianti di olivi, con nella parte più alta i boschi misti con fitta presenza di cipressi e altre conifere tra Monte Ceceri e Vincigliata; il mosaico paesistico del Montalbano (Larciano), esempio di colline terrazzate e ciglionate, piantate ad olivo e in parte a vigneto con tratti a bosco, ubicate in area ricca di castelli, borghi rurali e ville signorili; i vigneti di Lamole (Greve in Chianti), area di media e alta collina circostante quel borgo rurale con i suoi vigneti ad alberello sopra i terrazzamenti che rivelano un alto valore paesaggistico e una scelta tecnico-produttiva coraggiosa, volta al recupero delle sistemazioni orizzontali grazie all'alta qualità del prodotto enologico. Due altri paesaggi – della Toscana interna, la senese – presentano una spiccata individualità, seppure storicamente frutto della grande-media proprietà cittadina organizzata in podere e fattoria. Sono: la Montagnola di Spannocchia (Chiusdino), rilievo collinare calcareo con persistenza di paesaggi tradizionali a seminativi e boschi, con il castello di proprietà Cinelli divenuto "un museo vivente della vita rurale della Toscana", con le attività agricole che "vengono portate avanti con grande attenzione alle caratteristiche storiche del paesaggio" grazie anche a produzioni biologiche; e le biancane della Val d'Orcia (Pienza), con le ondulate colline argillose ricoperte da seminativi nudi e pascoli e con le sommità punteggiate da una rada maglia di case isolate, borghi e strade,
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allietate da piante isolate o in filari di cipresso. L'ultima area ha al centro l'antica fattoria di Castelluccio e Foce degli Origo: qui, i cipressi sono proliferati dopo l’impianto fra le due guerre da parte di un paesaggista inglese, e l’albero è diventato il simbolo del paesaggio senese, anche per la promozione pubblicitaria e massmediatica che l'ha coinvolto. Lo scrivente crede che altri paesaggi storici potranno arricchire – se non completare – il Catalogo toscano, una volta che la ricerca dovesse proseguire. È il caso di: i brandelli del paesaggio relitto della viticoltura terrazzata, altrettanto eroica di quella di altre aree italiane, delle isole dell'Arcipelago (Giglio, Elba e Capraia) e dell'Argentario; i paesaggi delle pianure bonificate riferibili alla colonizzazione medicea (Valdinievole), alla colonizzazione medicea e lorenese (Valdichiana), e alla colonizzazione specialmente unitaria (Maremma grossetana, ove l’identità è data dall'integrazione fra appoderamenti unitari pre-fascisti e fascisti ed assegnazioni della Riforma Agraria); il paesaggio dei grandi campi querciati e chiusi da alberature delle colline interne maremmane; il paesaggio dei grandi campi a cereali delle Colline Pisane; il paesaggio agro-silvopastorale delle Colline Metallifere; il paesaggio della policoltura terrazzata (vite, olivo e castagno) del Monte Amiata; e il paesaggio terrazzato ad olivi del Monte Pisano e della bassa Val di Serchio. In conclusione, poiché gli aspetti di vulnerabilità sono legati all'abbandono delle attività agricole o delle sistemazioni idraulico-agrarie tradizionali – e quindi alla rinaturalizzazione (con formazione spontanea di boschi “altri” rispetto a quelli storici) – e alle operazioni dell'intensivizzazione colturale (con conseguente sviluppo di colture specializzate e semplificazione ed omologazione del mosaico
paesistico), del tutto pertinente appare l'appello di Marcarini ed Agnoletti alle pubbliche amministrazioni perché siano elaborati ulteriori strumenti legislativi per meglio incentivare le “buone pratiche” dei produttori agricoli più consapevoli.
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Marcarini A., 2000, Paesaggi italiani. Tipologie da conoscere, salvaguardare, valorizzare, in Il paesaggio italiano. Idee, contributi, immagini, Milano, Touring Club Italiano, 2000, pp. 254-275. Quaini M. (a cura di), 2011, Paesaggi agrari. L’irrinunciaabili eredità scientifica di Emilio Sereni, Silvana Editoriale, Milano. Rossi R., Merendi G. A., Vinci A., 1994, Sistemi di paesaggio della Toscana, Giunta Regionale della Toscana, Firenze.
Riferimenti bibliografici Agnoletti M. (a cura di), 2010, Paesaggi rurali storici. Per un catalogo nazionale, Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali, Laterza, Roma-Bari.
Sestini A., 1963, Il paesaggio, vol. VII della Collana “Conosci l’Italia”, Touring Club Italiano, Milano.
Biasutti R., 1947, Il paesaggio terrestre, Utet, Torino (1962 ed. migliorata a cura di Barbieri G.). Cassi L., Meini M., 2010, Aldo Sestini. Fotografie di paesaggi, Carocci, Roma.
Testo acquisito dalla redazione nel mese di giugno 2012. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
Colamonico C., 1963, “Recensione” a Sestini A., 1963, Il paesaggio, vol. VII della Collana “Conosci l’Italia”, Touring Club Italiano, Milano (“Bollettino della Società Geografica Italiana”, serie IX, IV, pp. 297-299). Corna Pellegrini G., 2010, “Aldo Sestini: i suoi paesaggi italiani”, in Cassi L., Santini V. (a cura di), Insegnare geografia. Omaggio ad Aldo Sestini, maestro del paesaggio italiano (Atti della giornata di studio, Firenze, IGM, 13 novembre 2008), Carocci, Roma, CD-rom. Gambi L., 1972, I valori storici dei quadri ambientali, in Storia d’Italia, vol. I, I caratteri originali, Torino, Einaudi, 1972, pp. 3-60. Gambi L., 1973, Una geografia per la storia, Einaudi, Torino. Gribaudi D., 1963, “Recensione” a Sestini A., 1963, Il paesaggio, vol. VII della Collana “Conosci l’Italia”, Touring Club Italiano, Milano (“Rivista Geografica Italiana”, LXX, 1963, pp. 103-107).
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