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Paesaggio agrario: mezzo secolo di mutamenti dal ritratto di Emilio Sereni a oggi.
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redazione
fondatore / founder Giulio G. Rizzo
direttore / director Gabriele Corsani
comitato scientifico / scientific committee Paolo Bürgi, Vittoria Calzolari, Christine Dalnoky, Guido Ferrara, Roberto Gambino, Jean-Paul Métailié, Giulio G. Rizzo, Mariella Zoppi
comitato di redazione / editorial board Debora Agostini, Laura Ferrari, Elisa Maino, Emanuela Morelli, Gabriele Paolinelli, Emma Salizzoni, Antonella Valentini
progetto grafico / graphic design / editing Laura Ferrari
scrivere alla redazione rivista.drpp@unifi.it
editore / publisher Firenze University Press Borgo degli Albizi 28 50122 Firenze e-press@unifi.it
Ri-Vista ricerche per la progettazione del paesaggio rivista elettronica semestrale del Dottorato di Ricerca in Progettazione Paesistica Facoltà di Architettura – Università degli Studi di Firenze registrazione presso il Tribunale di Firenze n. 5307 del 10 novembre 2003 ISSN 1724-6768
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sommario
I
Paesaggio agrario: mezzo secolo di mutamenti dal ritratto di Emilio Sereni a oggi
1
Editoriale Emanuela Morelli
tra parole e saggi 7
L’irrinunciabile eredità scientifica di Emilio Sereni Massimo Quaini
13
Emilio Sereni e la cartografia. Un incontro mancato? Luisa Rossi, Carlo A. Gemignani
26
Paesaggio e Storia Paolo Nanni
34
Il paesaggio agrario come componente del giardino storico e il giardino storico come parte del paesaggio agrario: aspetti produttivi e caratteri costruttivi e percettivi da analizzare e valorizzare Alberta Cazzani
45
La fortuna dei classici Francesco Pardi
50
Les campagnes urbaines: quels scénarios pour demain? Pierre Donadieu
58
L’ultimo capitolo della storia del paesaggio agrario italiano Fabio Lucchesi
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II
indice
lo (s)guardo estraneo 65
L’evoluzione del bel paesaggio agrario toscano fra lavoro individuale e governo del territorio. Il caso Val d’Orcia Ugo Sani
72
Il progetto Cives, un ‘luogo’ d’incontro tra agricoltura, città e partecipazione Mario Sartori
paesaggi in gioco 84
L’inventario nazionale del paesaggio rurale storico. Nuovi indirizzi per la pianificazione delle aree rurali Mauro Agnoletti
93
Quel che resta della piantata. Trasformazioni del paesaggio agrario lungo il tracciato della via Postumia. Marco Cillis
103
Il territorio come accezione Cultuale, Culturale e Colturale Cecilia Maria Roberta Luschi
110
Il ruolo dei pattern agricoli nella creazione di paesaggi rurali identitari Daniele Torreggiani, Enrica Dall’Ara, Patrizia Tassinari
118
Le trasformazioni urbane nei luoghi della riforma agraria Anna Abate, Rosanna Argento
126
Paesaggi della memoria e dell’innovazione. Ri-abitare i paesaggi della riforma agraria foggiana Marialuisa Cipriani, Elena Farnè
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sommario
III
Libri 136
Lo spazio rurale come risorsa strategica in Paesaggi coltivati, paesaggio da coltivare di Alessandra Cazzola Elisabetta Maino
140
Paesaggi agrari. L'irrinunciabile eredità scientifica di Emilio Sereni a cura di Massimo Quaini (2011), cinquanta anni dopo Storia del paesaggio agrario Gabriella Bonini
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editoriale
1
Paesaggio agrario: mezzo secolo di mutamenti dal ritratto di Emilio Sereni a oggi. Editoriale Emanuela Morelli*
Paesaggio agrario è “… quella forma che l’uomo, nel corso ed ai fini delle sue attività produttive e agricole, coscientemente e sistematicamente imprime al paesaggio naturale …” Emilio Sereni, Storia del paesaggio agrario, 1961 Gli anni Sessanta del Novecento si presentano particolarmente interessanti per quanto riguarda la produzione di testi, sia a livello nazionale che internazionale, incentrati sullo studio del paesaggio1 . Si tratta di una produzione che sembra percepire l'urgenza di conoscere, rappresentare e testimoniare quegli assetti consolidati da secoli che a breve saranno investiti, grazie all’utilizzo di nuove tecnologie, da trasformazioni quantomeno repentine e radicali. In Italia siamo agli inizi della crisi della mezzadria e dell’abbandono delle campagne, del grande inurbamento della popolazione a favore di un’economia non solo più incentrata sull’agricoltura e la manifattura ma anche sull’industria e sul turismo di massa che sempre più si ripercuote sulle coste italiane. Sono processi nuovi, mai visti prima, che comportano un forte sviluppo del sistema insediativo urbano nazionale con la realizzazione di più o meno grandi periferie urbane e di nuovi poli industriali, dislocati prevalentemente nelle aree di pianura, e che necessitano di una nuova rete infrastrutturale la quale ha inoltre il compito di unire i diversi territori italiani. Ma è anche il periodo in cui la politica si sposta da una scala locale/nazionale ad una gestione comunitaria europea: di particolare rilievo la PAC, che proprio nel 2013 compie i suoi primi cinquant’anni, e che almeno nei primi decenni si pone come obiettivo l’incremento della produzione agricola. In sintesi un’Italia da poco uscita dalla guerra investita dalla voglia di nuovi modi di vivere, abitare, produrre, trascorrere il tempo libero, lanciata verso un ipotetico benessere dato dalla modernità, che vede nel proprio passato un senso di arretratezza, di sofferenza e ingiustizia. Questi nuovi modi di vivere inevitabilmente si riflettono nel paesaggio, comportando la trasformazione, l’abbandono, l’alterazione, la negazione e la distruzione di quegli assetti che dall’antichità si erano sviluppati e consolidati nel corso dei secoli. Alcuni studiosi (storici, geografi, agronomi, pianificatori e urbanisti, …) avvertono questo cambiamento come una grave perdita per la cultura italiana e quindi attivano e promuovono nuovi studi verso non solo ciò che ha valore monumentale ma anche verso quelle realtà quotidiane, quali ad esempio quella contadina e rurale o quella urbana dei centri storici minori, al fine di farle nuovamente riconoscere dalla collettività e
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2
Paesaggio agrario: mezzo secolo di mutamenti dal ritratto di Emilio Sereni a oggi.
conseguentemente sottoporle da una parte a tutela e dall’altra proporle come le matrici, o se vogliamo 2 come la struttura portante, dei nuovi paesaggi . È in questo contesto che, dopo anni di studio, Emilio Sereni pubblica nel 1961 Storia del paesaggio agrario, un testo molto innovativo nel panorama italiano, che si inserisce entro il filone storiografico inaugurato 3 negli anni Trenta da Marc Bloch in Francia . Per la prima volta, le informazioni derivanti dalla comparazione di studi e testi specifici, dalla letteratura giuridica, da analisi condotte dallo stesso autore, dalla lettura di cartografie e immagini, sono sistematizzate al fine di dare una articolazione dei diversi tipi di paesaggio agrario italiano: un momento di sintesi della storia rurale italiana necessario, citando Bloch, “foss’anche in apparenza prematura” ma urgente, grazie ad un’impostazione metodologica che per ogni cambiamento cerca di capire “le ragioni e gli agenti”. Qui ogni fonte storiografica non si limita ad essere solo “un dato o un fatto storico ma bensì un fare, e un farsi di quelle genti vive”. Cinquant’anni sono ormai passati dall’uscita di questo importante testo, che molti studiosi del paesaggio hanno incontrato nei propri percorsi di studio: questo numero della Ri-Vista, anche sullo spunto delle diverse attività dell’Istituto Alcide Cervi (Bonini), coglie l’occasione per rendere omaggio al lavoro di Emilio Sereni, e dare un ulteriore, seppur piccolo, contributo alla riflessione che ancora oggi molto attiva, si sta svolgendo sul paesaggio agrario. I diversi contributi presenti quindi si concentrano sulla figura di Emilio Sereni, sull’approccio e il metodo utilizzato, sull’importanza e le conseguenze che a livello disciplinare e scientifico ha dato il testo, ma anche su quanto effettivamente rimane di quei paesaggi agrari indagati da Emilio Sereni, quali sono i nuovi paesaggi agrari, quale il ruolo del paesaggio agrario oggi. Emilio Sereni, studioso appassionato e curioso, uomo politicamente attivo, idealista e attento alle condizioni di vita dei lavoratori (Quaini), vede nel paesaggio, secondo un approccio interdisciplinare, il convogliarsi delle diverse informazioni raccolte (la realtà tecnica, produttiva e sociale di quell’età), o più precisamente un complesso concorso di condizioni, non solo date dall’ambiente climatico e pedologico, ma da agenti naturali, tecnici, demografici nonché archeologici e toponomastici: “storici insomma”. Confrontandosi con il lavoro di Marc Bloch, per la redazione del suo studio, Sereni deve fare i conti non solo con una ricerca delle fonti ancora non pienamente accessibili, censite e catalogate come in Francia, ma anche con altre problematiche quali quelle terminologiche. Molteplici sembrano essere le ragioni che portano Emilio Sereni a redigere questo studio e a pubblicare il testo. Tra queste si potrebbero citare: studiare le condizioni economiche e politiche di chi lavora la terra; diffondere un metodo che abbia nella sua centralità il paesaggio quale riferimento di sintesi dei diversi processi che interagiscono nel corso della storia tra uomo e natura; aprire un nuovo filone italiano di studi e approfondimenti sul paesaggio agrario;
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editoriale
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diffondere una conoscenza (da cui il riconoscimento) dei diversi tipi di paesaggio che caratterizzano l’Italia, e rendere tale conoscenza, derivante da uno studio posto su basi scientifiche, il più divulgativa e accessibile possibile: “In questo saggio di una storia del paesaggio agrario italiano, che qui presentiamo al lettore, abbiamo inteso raccogliere ed esporre in forma sommaria, non specialistica, e spoglia di ogni apparato erudito, i risultati delle ricerche che da lunghi anni, ormai, e sino al 1955, siamo venuti sviluppando”. Egli pertanto assegna alla cartografia e ancor più al dipinto, all’interno del testo, un ruolo di esemplificazione e illustrazione: il dipinto e le viste a volo di uccello in particolare permettono di percepire immediatamente le forme del paesaggio (Rossi e Gemignani), e ne documentano la loro storia (Nanni); registrare i cambiamenti, cosa questi comportano, e avvertire che è possibile orientare quelli futuri in modo coerente rispetto al passato: “gli sviluppi devono essere studiati in modo approfondito, previsti e orientati, per creare condizioni ambientali nuove, adeguate al più rapido sviluppo delle forze produttive agricole…. Quei ceti produttivi di tecnici e di lavoratori agricoli … dispongono senza dubbio di tutte le capacità e di tutte le forze necessarie per intraprendere, con una sempre più chiara prospettiva storica dei loro compiti, questa opera di adeguamento delle forme tradizionali del paesaggio, dell’organizzazione e delle dimensioni aziendali alle nuove esigenze tecniche, produttive e sociali”; promuovere un approccio disciplinare entro cui ogni specifica tematica ha una propria dimensione storica utile a individuare quei perché posti dallo studioso sulla realtà presente (Nanni e Pardi): dunque la storia, definita da Bloch la scienza del mutamento, o meglio la dimensione storica, diviene un fondamentale aiuto e un sostegno per orientare qualitativamente le trasformazioni future (Nanni).
Contemporaneamente all’inizio dei grandi processi di trasformazione territoriale e al rifiuto come abbiamo detto del passato da parte della popolazione, l’approccio disciplinare prevalente in Italia è stato invece quello di considerare quasi esclusivamente come paesaggio il paesaggio agrario, spesso però solo in termini estetici e quasi decorativi. Questo forse perché l’Italia agricola, che trova la sua massima idealizzazione nella composizione dei molti giardini/parco-villa, caratterizzata da una forte varietà culturale e fisica, poeticamente descritta dai viaggiatori del Gran tour, ha assunto una forte valenza estetica quale lavoro perfetto prodotto dall’uomo con la natura. Il legame difatti tra giardino (storico) e paesaggio agrario è stato difatti sempre inscindibile: ma anche il giardino oltre che essere luogo ameno era però anche luogo funzionale, di ricerca, sperimentazione e produzione (Cazzani), tessera ben riconoscibile dal punto di vista formale, avente relazioni forti e intrinseche con il contesto agricolo e naturale così come scrive anche Emilio Sereni nel suo testo.
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Paesaggio agrario: mezzo secolo di mutamenti dal ritratto di Emilio Sereni a oggi.
Di valore estetico o funzionale è certo però che quei grandi quadri, costituiti da strutture gerarchiche di insediamenti, trame viarie e scansione di campi, filari e siepi alberate (che sapientemente erano proporzionalmente dimensionati al ruolo della strada stessa), colture promiscue e piantate, immortalati nel volo GAI, oggi non esistono più (Pardi e Lucchesi). I motivi di questo cambiamento sono molteplici: processi di espansione urbana, l’utilizzo di tecniche agricole diverse, il mutamento e la semplificazione delle coltivazioni e delle differenti strutture sociali ad essi pertinenti, l’emanazione di politiche sovranazionali generate dal mercato e dalla globalizzazione, l’abbandono e la conseguente rinaturalizzazione delle aree coltivate più impervie, il rincorrere nostalgico del passato e una visione statica del concetto di tutela mentre nel frattempo si introducono interventi che si rifanno a immagini banali, stereotipate, “alla moda” e/o decontestualizzate (Nanni, Sani, Pardi, Donadieu, Lucchesi). Ma forse molto più semplicemente la causa di questa disgregazione è stata proprio il rinnegare la complessità e la vita di quei paesaggi, che appunto Emilio Sereni cercava invece di raccontare. L’agricoltura è stata la prima forma organizzata dell’uomo a partire dal 7000 – 5000 a.C. e il paesaggio, come è nella sua natura, si è sempre trasformato: spesso in continuità utilizzando e riutilizzando le 4 strutture presenti conferendo loro nuovi significati , talvolta ribaltando completamente gli assetti, più o meno naturali o antropizzati presenti, come nel caso delle bonifiche. È quindi naturale che i paesaggi si trasformino e che quei paesaggi oggi non esistano più. Il problema fondamentale risiede nel fatto che, come scrive Lucchesi, non sempre tutte le trasformazioni sono state per il meglio. È però pur vero che non tutti i paesaggi agrari sono stati così profondamente alterati e che l’Italia presenta ancora un grande patrimonio di assetti rurali indissolubilmente legati alle pratiche tradizionali (Agnoletti). Inoltre oggi il paesaggio agrario da luogo legato alla esclusiva produttività di prodotti alimentari e di delizia per le nobili famiglie si è caricato di numerosi altri ruoli (la multifunzionalità del paesaggio agrario), anche se sarebbe corretto osservare che non è necessario che ogni singolo paesaggio agrario debba svolgerli tutti: luogo di eccellenza per la salvaguardia della biodiversità (nel suo senso più ampio), laddove almeno il lavoro dell’uomo si innesta entro il flusso delle energie in modo da non portare squilibrio al funzionamento dei vari ecosistemi presenti, e perciò intimamente legato anche al concetto di sviluppo sostenibile; testimonianza storica e culturale di un passato ancora attivo e funzionante attraverso appunto la perpetuazione della struttura presente e reinterpretazione dei segni; luogo di bellezza collettivamente riconosciuto, archetipo, simbolo (nonché valore aggiunto nella promozione-vendita dei prodotti locali); strumento per il contenimento del consumo del suolo, tema oggi molto dibattuto (che qui non approfondiamo per ragioni di spazio), oggetto anche di testi normativi con i quali, cercando di rendere forte l’agricoltura disposta intorno al sistema insediativo urbano, si tenta di arginare i processi di urbanizzazione e in particolare lo sprawl;
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parchi, aree protette, aree ricreative, con scopi sociali, economici, ludici e didattici, nonché luogo di scoperta e conoscenza. Ciò accade in particolare a quei paesaggi agrari disposti a cintura in prossimità degli insediamenti urbani, utili a ritrovare le relazioni tra città e campagna, in un rapporto forte, duale e di riconoscimento delle diversità che caratterizzano entrambi.
Nonostante gli effetti del mercato della globalizzazione e di tutti quegli accadimenti brevemente qui accennati, sono infinite le articolazioni dei paesaggi agrari italiani contemporanei, talvolta costituiti da frammenti residuali entro il tessuto urbano, talvolta marginali e lontani della grande scena, ancora a volte costituiti da vecchie strutture tradizionali, altre ancora altamente specializzati della produzione agricola, oppure convertiti in luoghi del turismo o di residenza più o meno elitaria. Se pur modificati e diversi rispetto a quelli fotografati degli anni Cinquanta, si presentano nonostante tutto ancora più o meno ricchi di tracce del loro passato con una struttura storica che se pur intaccata esprime ancora una grande forza di resilienza. Nei contributi presenti, queste tracce, impronte, segni (più o meno funzionanti) assumono un ruolo fondamentale per poter attivare progetti di recupero delle identità, di valorizzazione dei luoghi, di riordino e di educazione ambientale e paesaggistica (Sartori, Luschi, Cillis, Daniele Torreggiani-Enrica Dall’Ara-Patrizia Tassinari, Abate-Argento, Marialuisa Cipriani, Elena Farnè, Maino-Cazzola). Si tratta di guardare non solo al particolare ma anche a quella complessità prima citata, ovvero all’insieme, ad esempio non solo alla campagna ma anche ai parchi e ai giardini e alla città, e di dare una grande forza al disegno del paesaggio, visto come il sedimentarsi delle diverse regole di costruzione appunto di quel paesaggio: attraverso la conoscenza e quindi conseguentemente con forme di progettazione, di riattivazione, reinterpretazione, recupero, può essere raggiunta quella continuità tra passato, presente e futuro che Sereni ambiva come importante fattore di qualità.
* Università degli Studi di Firenze
Testo acquisito dalla redazione nel mese di aprile 2013 © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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Paesaggio agrario: mezzo secolo di mutamenti dal ritratto di Emilio Sereni a oggi.
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In Italia si menziona ad esempio i primi scritti di Lucio Gambi e il testo Il paesaggio di Aldo Sestini (vedi L. Rombai in Ri_Vista n. 17), mentre a livello internazionale non possono non essere rammentati le opere di Kevin Lynch e di Ian McHarg. 2 I disastri della distruzione della seconda guerra mondiale e i piani di ricostruzione postbellica accentuano le problematiche relative alla tutela dei centri storici al punto tale da attivare numerosi convegni in materia. Tra questi è del 1960 il Convegno “Salvaguardia e risanamento dei centri storico-artistici” che porta alla promulgazione della Carta di Gubbio sulla tutela dei centri storici. 3 Marc Bloch nel 1929 pubblica i caratteri originali della storia rurale francese, in cui si applica il metodo comparativo e regressivo. Volentieri rimandiamo anche agli articoli dei Quaderni della Ri-Vista di Maristella Storti, Marc Bloch, 1866-1944. Il viaggio verso la conoscenza dei caratteri originali del paesaggio e del mestiere di storico, n. 1, V 3., 2004, e di Sabrina Tozzini, Emilio Sereni. Dal lavoro dell’uomo il paesaggio, n. 3, V. 2, 2005, http://www.unifi.it/ri-vista/quaderni/. 4 Il paesaggio, come scrive Sereni, è sottoposto alla legge di inerzia, ovvero una volta assunta una determinata forma tende a perpetuarla nel tempo “anche quando siano scomparsi i rapporti tecnici, produttivi e sociali che ne han condizionato l’origine – finché nuovi e più decisivi sviluppi di tali rapporti non vengano a sconvolgerle”.
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tra parole e saggi
«L’irrinunciabile Emilio Sereni»1
eredità
scientifica
di
The essential scientific heritage of Emilio Sereni
abstract Il testo, che ha costituto l’apertura del convegno dedicato a Emilio Sereni cinquanta anni dopo la pubblicazione della Storia del paesaggio agrario italiano, si propone una prima riflessione sull’eredità scientifica di Sereni alla luce, in primo luogo, del materialismo storico e del rapporto con la cultura ebraica e la coeva elaborazione filosofica di Walter Benjamin e, in seconda battuta, alla luce del contributo dato alla tutela del paesaggio italiano in una visione precocemente “territorialista”. In proposito si è riportato alla luce un interessante intervento fatto al primo convegno organizzato nel 1966 dall’associazione “Italia nostra” che non diversamente dal saggio principale può insegnarci ancora molto.
abstract The book, whose discussion opened the congress dedicated to Emilio Sereni, 50 years after the publication of “Storia del paesaggio agrario italiano”, propose one very first reflection on Sereni’s scientific heritage, in consideration first of all of historical materialism and his relationship with the Hebraic culture and coexisting philosophical elaboration by Walter Benjamin; secondarily, in consideration of the contribution given to the Italian landscape protection within a “territorialist” view. Regarding this latter theme, an interesting intervention made by Sereni at the first congress organized by “Italia Nostra” association in 1966, has been brought to the light, and can taught us so much in parallel with the main essay.
parole chiave Biografia, religione, marxismo, geografia, tutela del paesaggio.
key-words Biography, religion, Marxism, geography, landscape protection.
7
Massimo Quaini*
storicismo,
historicism,
* Università di Genova.
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Immaginiamo che Emilio Sereni sia ancora fra noi, a dialogare con noi qui, alla Fondazione Fratelli Cervi, tra le sue carte, i suoi libri, le migliaia di estratti e «fascicoli ricavati dalle riviste, le bibliografie monumentali…». Come se «la volontaria separazione che lo fece cieco», raccontata con queste parole dalla figlia Clara, non fosse avvenuta. Immaginiamolo, non come ce l’ha consegnato l’ultima immagine del Gioco dei regni ma riconciliato con la sua biblioteca e gli studi di una vita e dunque anche con la storia e la politica. Immaginiamolo battagliero come prima e deciso a dire la sua sulle maggiori sfide del nuovo millennio. Da questo nostro terzo millennio lo separava un quarto di secolo, lo spazio di una generazione, la generazione dei più giovani fra noi che oggi sono presenti a questo convegno a lui dedicato e che forse pretendono da noi che si espliciti e si metta in discussione quella che è stata definita «l’irrinunciabile eredità scientifica di Emilio Sereni2. È passato più di un quarto di secolo da quando Mimmo3 si chiuse nel silenzio perché «gli strappi alla sua rete gli resero irriconoscibile il mondo» e fece la scelta di non ammettere «di aver smesso di credere» nella sua fede politica e di non dare voce al vecchio Adamo che «si riaffacciava con prepotenza alla ribalta della Storia». Non ho abbastanza conoscenze per valutare se il rapporto Elishà-Mimmo, evocato da Clara in un libro di memorie familiari che non cessa di colpirmi, ci serva per capire la vicenda storica dell’uomo Sereni, che è sempre difficile separare dal Sereni scienziato, ma anch’io sono convinto – forse più istintivamente che razionalmente – che non si possa fare a meno di ricorrere alle «radici negate, troncate per volontà ma misteriosamente riaffioranti» (Sereni C. 1993, pp. 429-430)4.
L’irrinunciabile eredità scientifica di Emilio Sereni
Non so se la «sapienza antica» necessaria per «discernere e salvare, fra i detriti della Storia, ciò che ancora può servire» si debba identificare con la sapienza ebraica, ma mi pare di intuire – e gli ultimi studi sembrano confermarlo – che da questo nesso emerga un rapporto se non proprio con la storiografia, con un orizzonte culturale da cui non possiamo prescindere (soprattutto perché questa sapienza e questi paesaggi fisici e intellettuali sono legati all’infanzia e sono per questo incancellabili, come diceva Eugenio Montale). In ogni caso questo orizzonte insieme geografico e culturale ci aiuta a situare e capire la vicenda di Emilio Sereni studioso. Anche David Bidussa5, che avremmo voluto avere oggi qui a parlarcene, ha sottolineato il peso di queste radici, anche sul versante scientifico, anche nella definizione delle questioni storiografiche che lo appassionarono, arrivando a dirci che solo apparentemente lo scenario di riferimento della Storia del paesaggio agrario è l’Italia dei primi Sessanta – per intenderci l’Italia descritta nel Paesaggio italiano di Aldo Sestini (TCI, Milano 1963) – ma sono le questioni che fin dalla giovinezza hanno alimentato il dialogo con Enzo (sionismo, comunismo, socialismo) e che almeno in parte vanno viste come «un modo diverso di pensare il rapporto tra l’azione dell’uomo e la storia», tra storicità e dialettica del paesaggio. Soprattutto se quest’ultimo rapporto viene visto, come lo vede Emilio, alla luce del principio marxiano per cui “le mort saisit le vif” (di cui le aporie non sono risolte dallo storicismo crociano ma solo dalla dialettica6) e soprattutto se fosse verificata l’ipotesi che questi stessi rapporti, già letti dal punto di vista del paesaggio, furono alla base di un progetto comune fra Mimmo e Enzo7.
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Senza la pretesa di approfondire un tema che nelle sue più profonde risonanze filosofiche non mi appartiene e sul quale rischierei di dire qualche sciocchezza, mi limito anch’io ad avanzare un’ipotesi che gli storici e i filosofi della storia scarteranno subito ma che nella mia lettura di Sereni ha avuto un ruolo non piccolo e continua a fare da cornice alla mia interpretazione: l’ipotesi, o meglio, l’analogia che a mio avviso sussiste tra il rapporto reciprocamente fondativo che ha unito Emilio ed Enzo Sereni e il rapporto, anch’esso in larga misura epistolare e fondante, fra Walter Benjamin e Gerhard Scholem più o meno negli stessi anni e dai medesimi luoghi: l’Europa tra le due guerre divisa fra fascismi e democrazie malate e dalla Palestina delle speranze sioniste. Rapporti che spesso si alimentano degli stessi argomenti e temi, a cui fa sempre da sfondo la presenza della Russia o dell’Unione sovietica (che a noi oggi pare ingombrante ma che allora non era vissuta in questi termini): per esempio il tema dell’accettazione o del rifiuto della dogmatica marxista e della possibilità stessa di mettere insieme materialismo storico e idea di redenzione, teologia e storia. Devo dire che finora non mi sono preoccupato di verificare se e dove ed eventualmente come Sereni abbia preso in considerazione le Tesi sulla storia di Benjamin o altre sue opere. Anche se non le avesse mai citate, anche se le avesse esplicitamente criticate non per questo il raffronto mancherebbe, a mio avviso, di interesse e l’evocazione qui ed ora dell’Angelo della storia sarebbe privo di senso. Per farvi capire che il nesso esiste potrei rapidamente evocare più di un episodio della tormentata vicenda di Benjamin a cominciare dal tentativo di fondare la rivista Angelus novus come strumento «che doveva servire alla propaganda del
tra parole e saggi
materialismo dialettico con la sua applicazione a problemi che l’intellighenzia borghese è costretta a riconoscere come suoi propri» (Benjamin 1978, p. 191). Mi limito a una breve citazione emersa nel corso di una polemica letteraria coeva al progetto della rivista (1931) che lascio alla vostra meditazione e che Sereni avrebbe potuto condividere almeno nella sua conclusione. Benjamin confessava al suo interlocutore di voler essere considerato non un rappresentante del materialismo dialettico come dogma, bensì come un ricercatore al quale l’atteggiamento [sott. dall’autore] del materialista appare scientificamente e umanamente più fruttuoso di quello idealistico in tutte le cose che ci muovono. Per esprimermi in una formula molto sintetica: non sono mai riuscito a studiare e a pensare altrimenti che in un senso che potrei definire teologico – ossia in conformità con la dottrina talmudista dei quaranta livelli di significato di ogni passo della Toràh. Orbene: l’esperienza mi insegna che la più logora delle banalità comuniste ha più gerarchie di significato [id.] che l’odierna profondità borghese, che ha sempre soltanto quello dell’apologetica (Ivi, p. 193).
Credo che questo passo dica molto sullo spirito del tempo e che sia stato utile introdurlo non solo per capire come la mediazione marxista o del materialismo dialettico, per quanto «tesa e problematica», fosse allora vissuta come centrale e non soltanto per gli intellettuali ebrei ai quali dopo la crisi del 1929 «sembrava essere rimasta solo l’alternativa fra sionismo e marxismo» (Mayer 1993, p. 46). Ma, per essere fedele al mio proposito iniziale, voglio andare oltre questa pur necessaria contestualizzazione storica e valutare più da vicino e con una certa libertà il funzionamento di questo
«modo di vedere materialistico» che Benjamin opponeva alle miserevoli «prestazioni dell’indirizzo accademico» arrivando a parlare di «orrenda desolazione di questo andazzo ufficiale e non ufficiale» (Benjamin 1978, p. 192).
Figura 1: Emilio Sereni commemora il 30 giugno 1957 il sacrifico di Carlo Pisacane nella piazza di Sanza in provincia di Salerno.
Quello di Benjamin è un modo di vedere che non poteva essere dogmatico se è vero che si esprime nel punto di vista che qualche critico ha definito «micrologico» e si riassume nella fedeltà al «principio secondo cui nella conoscenza il più universale è il più individuale» (Adorno) ovvero, come dice anche Goethe in una delle sue Massime e riflessioni, che per universale bisogna intendere il caso particolare. È noto che per Benjamin «il punto di partenza fu sempre quanto era apparentemente banale,
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secondario, trascurabile. Come è stato detto: non il medico nel suo ambulatorio, bensì il campanello del medico» (Mayer 1993, p. 66). Questa attenzione micrologica – che a me pare essere propria anche di Sereni e per convincersene basterebbe guardare al suo interesse per tanti temi della storia della cultura materiale fino ad allora trascurati (attinenti a dettagli storico-geografi e linguistici raramente considerati significativi e degni di studio) – diventa nell’uno e nell’altro uno sguardo più propriamente microstorico. Ed è questo sguardo che trova la sua allegoria nell’Angelus Novus. Qual è questo sguardo? E soprattutto: ha senso attardarci su questa celebre immagine tratta da un disegno di Paul Klee? Sono convinto di sì: le Tesi sulla storia possono ancora aiutarci a rifondare il rapporto fra passato-presente-futuro – il rapporto implicito nel principio “le mort saisit le vif” – e a orientarci nella lunga crisi che ancora ci avvolge. La crisi senza fine della fine del capitalismo. Come noto, l’angelo della storia ha il volto rivolto al passato e la catena di eventi che ha davanti gli si presenta come una catena di rovine. Su queste tracce «vorrebbe trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto», ma la tempesta che spira dal paradiso non lo consente e «lo spinge irresistibilmente nel futuro a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo». Conclude Benjamin: «ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta»8. Penso che questa immagine, al di là del suo pessimismo radicale, possa ancora costituire una chiave per accedere alla storia e a un rapporto equilibrato fra passato e futuro perché nel suo nucleo non c’è l’esclusione del futuro ma la possibilità – l’unica che ci rimane – di costruire il futuro con la speranza contenuta nel passato,
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proprio perché aveva torto Gramsci a riconoscere, dando ragione a Croce, che tutto il passato è contenuto nel presente e ciò che rimane fuori è solo scoria irrilevante e trascurabile9. Questo «principio speranza» (Ernst Bloch) ci interpella sia come “geografi” sia come storici per la semplice ragione che richiede una ridefinizione dello spazio e del tempo. Benjamin ce lo indica usando l’allegoria della città e annotando la differenza fra lo sguardo del forestiero e lo sguardo di chi vi abita: «Lo spunto superficiale, l’elemento esotico, pittoresco agisce solo sui forestieri. Per giungere all’immagine di una città da autoctono, sono necessari altri più profondi soggetti. I soggetti di colui che viaggia nel passato e non nella lontananza». Una conoscenza verticale e non semplicemente orizzontale, sincronica o sinottica. E soprattutto ce lo dice rifacendosi alla sua lettura di Proust per cui le coordinate spazio-temporali – come ha detto Hans Mayer – «gli si rivelano non nel procedere bensì nel tornare indietro e nello sguardo retrospettivo». In virtù di un atteggiamento insieme “materialistico” e messianico «il ‘tempo perduto’ di Benjamin non è il passato, come per Proust, ma il futuro. Il suo sguardo rivolto all’indietro è quello dell’utopia spezzata», come ha riconosciuto Szondi (Mayer 1993, p. 72). Non so se questa immagine dell’utopia spezzata può aiutarci a capire la «solitudine feroce» dell’ultimo Sereni, se può essere il modo per risalire alla rete che gli rendeva riconoscibile il mondo e che era andata in frantumi insieme all’antica fede nel progresso della storia. Quel che mi sento e mi preme dirvi è che nella complessa eredità scientifica di Sereni è ancora racchiuso un grande potenziale di spiegazione non solo del passato più o meno remoto e delle
L’irrinunciabile eredità scientifica di Emilio Sereni
configurazioni che gli strati della storia mescolano e intrecciano «non nel tempo omogeneo e vuoto ma in quello pieno del tempo-ora», del presente al quale il materialista storico non può rinunciare, come dice Benjamin nelle tesi sulla storia, ma che mai potrebbe ridurre alle asfittiche dimensioni dell’attuale “presentismo” che annullando il passato annulla anche il futuro. Non voglio, con queste mie brevi annotazioni, proporvi nuove letture filosofiche di Sereni. Lo spazio c’è e sarà compito dei filosofi riempirlo, se già non l’hanno fatto. Io intendo guardare al Sereni storico e geografo. Da questo punto di vista il ringraziamento che gli devo è soprattutto quello di aver consentito, a noi e ancor più ai giovani che verranno e che spero saranno numerosi, di poter mettere sotto i nostri occhi e nelle nostre mani il suo grandioso cantiere di lavoro e quindi di poter ricostruire tutte le fasi e le procedure del suo lavoro dentro e fuori lo studio ordinato, nel quale raccoglieva tutte le tracce anche quelle meno rilevanti delle sue inchieste e che nei pannelli della mostra è stato solo in parte ricostruito. Dalla ricostruzione storica e filologica di questo cantiere che ogni studioso ha la possibilità di intraprendere anche grazie alla grande disponibilità del personale che custodisce questo patrimonio – e che gli storici dell’agricoltura hanno spesso sperimentato in passato e che oggi anche i geografi hanno cominciato ad apprezzare – riusciamo a riconoscere le procedure della sua storiografia materialistica. Che, per usare ancora una volta le parole di Benjamin, non è quello della addizione o della continuità ma della costruzione di costellazioni cariche di tensioni e di chances rivoluzionarie nella lotta per il passato oppresso, che lo storico «coglie per far saltare un’epoca determinata dal corso
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omogeneo della storia, una determinata vita dall’epoca, una determinata opera dall’opera complessiva» (Mayer 1993, p. 82). Che è anche la costruzione necessaria allo storico che voglia «cogliere la costellazione in cui la sua propria epoca è entrata con un’epoca anteriore affatto determinata e fondare così un concetto del presente come del tempo-ora in cui sono sparse schegge di quello messianico» (Ivi, p. 83). Il confronto si fa interessante, per lo storico come per il geografo, non solo sul piano metodologico ma anche e soprattutto sul piano dei contenuti. Se per esempio leggiamo nei termini che vi ho proposto il grande lavoro incompiuto di Benjamin su Parigi capitale del XIX secolo e sul patrimonio urbano che ne riflette la storia, la cultura, l’arte e l’architettura, possiamo capire come questo lavoro sia sostanzialmente omologo al lavoro che Sereni fa sugli spazi rurali italiani e in rapporto a un patrimonio culturale non meno prezioso. Se le fonti e in parte anche i metodi sono differenti, l’oggetto o meglio gli oggetti storici e il loro trattamento non sono poi così diversi proprio per il comune rifarsi al materialismo storico-dialettico e al compenetrarsi di vecchio e nuovo, di morto e vivo che è tipico di ogni epoca. Diceva Benjamin che il passato deve compiersi dialetticamente: il nuovo nasce dal vecchio e il metodo della conoscenza storica deve attuarsi anche nella capacità di “leggere ciò che non è mai stato scritto”. Questa affermazione aveva per Sereni un duplice significato: andare oltre le fonti scritte ma anche andare oltre la storia che finora gli uomini hanno scritto, andare cioè oltre il presente. Tutto questo è oggi per Sereni ancora più vero che per Benjamin, perché se i soggetti di quest’ultimo – i passages e gli intérieurs, i padiglioni da
tra parole e saggi
esposizione e i panorami – ci appaiono lontani e chiusi nel loro passato, non così è per i paesaggi agrari che, per quanto accomunati dagli stessi processi di estinzione dovuti al mercato e allo sviluppo delle forze produttive, ci appaiono invece drammaticamente presenti in quanto oggi siamo alle prese con le conseguenze sul territorio del lungo addio dell’agricoltura e dei paesaggi rurali che assicuravano la manutenzione e la cura del suolo oltre che del paesaggio stesso. Non sarebbe troppo difficile a questo punto dimostrare come l’attualità e l’eredità scientifica di Sereni non si giochi solo sul piano generale e teorico ma anche su quello più concreto che si apre nel momento in cui dalla storia universale e dalla scala globale si passa alla storia e alla prassi locale. Credo che soprattutto su questo terreno dovrà esercitarsi un convegno al quale abbiamo voluto dare una struttura che, sia nei più tradizionali modi delle relazioni delle sessioni plenarie, sia attraverso i poster e le sessioni parallele con discussione, dovrebbe consentire il massimo del confronto fra approcci e situazioni differenti, non meno della valorizzazione del rapporto passato-futuro – la «nostalgia del futuro» che Bidussa ha ritrovato nei primi passi dei fratelli Sereni – e che Emilio ci ha insegnato nella sua lunga carriera di storico e di politico. Per chiudere vorrei portare un indizio per dimostrare quanto oggi ci tornino preziose, soprattutto nelle tematiche appena evidenziate, anche le minori esperienze di ricerca e di partecipazione al dibattito nazionale di Emilio Sereni. Molti di voi sanno che “Italia Nostra” ha di recente sviluppato a scala nazionale una serie di iniziative sulla tutela dei paesaggi rurali. Ho partecipato ad una di esse nella mia regione e mi è
sembrato pertinente riportare le parole di un breve intervento svolto da Sereni al primo convegno nazionale del 1966 che “Italia Nostra” volle dedicare a Nuove leggi per l’Italia da salvare (Roma 18-19 novembre). Sereni partecipa alla discussione affrontando il tema generale da un’angolazione nuova: pone il problema in termini di patrimonio e di trasmissione del patrimonio osservando che c’è perdita di informazione non solo quando un’alluvione distrugge un insieme di beni artistici e culturali, come era da poco successo a Firenze, ma anche quando in un scavo archeologico si trascurano, spesso distruggendole, molte delle informazioni e analisi stratigrafiche che possono indicare la storia di un sito e di un paesaggio vegetale e agrario. Per questo chiede a studiosi e amministratori «una maggiore attenzione al legame intrinseco, organico che dovrebbe esistere tra l’aspetto storicoarcheologico e l’aspetto paesaggistico-naturalistico della tutela». È entro questa visione che Sereni arriva a valorizzare il concetto di paesaggio anche a parziale svantaggio di quello di territorio. Per questo direi che le sue parole andrebbero meditate innanzitutto dai nostri amici territorialisti che sotto la sagace guida di Alberto Magnaghi si accingono a fondare la Società dei territorialisti e delle territorialiste: Mi sembra intravedere – diceva Sereni – un grosso limite alla considerazione veramente moderna e scientifica dei problemi della tutela allorquando si insiste nel voler considerare in maniera “oggettiva”, indipendentemente dall’osservatore, un determinato patrimonio, ad esempio, territoriale; e dato che lo stesso termine “territorio” si ricollega a questa impostazione limitativa,
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insisterei quindi “paesaggio”.
–
concludeva
–
sul
termine
Ma che cosa è questo paesaggio che, con connotazioni nuove rispetto alle tradizionali definizioni, si offre alla tutela? Non potremo raggiungere i nostri obiettivi – diceva ancora agli amici di Italia Nostra – se agiremo su un territorio delimitato (ovvero con l’impostazione limitativa di cui sopra); se non agiremo, cioè, su tutto il complesso del paesaggio umano del nostro paese; e solo questo – aggiungeva – potrà significare la tutela del nostro paesaggio e, al tempo stesso, la tutela di quelle opere d’arte e beni culturali che in questa opera di conservazione non si possono considerare disgiunti dal paesaggio stesso10.
Figura 2: Lo scacchiere irregolare del paesaggio agrario nell’Alta Val Polcevera.
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Ma perché «paesaggio umano»? La spiegazione è semplice per Sereni. Con questa interpretazione, che per chi viene dalla Liguria martoriata dalle recenti alluvioni acquista oggi un suono particolare, concludo sintetizzando così un pensiero complesso: perché è l’uomo che rappresenta il miglior garante della tutela del patrimonio ambientale e culturale, l’uomo coltivatore inserito in una politica agraria non fondata soltanto sulla suscettività capitalistica e sull’esodo rurale disordinato che ha incentivato i rischi di alluvioni, non essendo sufficiente la riforestazione spontanea o pianificata che sia. Perché l’elemento che può difendere il paesaggio artistico e naturale d’Italia è e sarà sempre l’uomo, con la sua presenza organizzata, democratica, attiva: presenza in un paesaggio modellato nei secoli dalle generazioni passate e che non deve essere distrutto e neppure staticamente conservato, ma piuttosto essere razionalmente curato e modernamente sviluppato per renderlo adatto ad una trasmissione, positiva e feconda, alle generazioni nuove. Riferimenti bibliografici Benjamin
W.,
1962,
Angelus
L’irrinunciabile eredità scientifica di Emilio Sereni
Sereni Emilio, 1968, Il capitalismo nelle campagne, Einaudi, Torino. Sereni Enzo, Sereni Emilio, 2000, Politica e utopia. Lettere 1926-1943, a cura di D. Bidussa e M.G. Meriggi, La Nuova Italia, Firenze.
Riferimenti iconografici Figure 1: Archivio famigliare Sereni. Figura 2: Foto di Emilio Sereni (busta 17, Comunità rurali, foto 36, Archivio-Biblioteca Emilio Sereni, Istituto Alcide Cervi, Gattatico, Reggio Emilia).
Testo acquisito dalla redazione nel mese di gennaio 2013. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
Ho ripreso il titolo della mostra e del convegno che la Fondazione Fratelli Cervi ha voluto organizzare a Gattatico nel novembre del 2011 a cinquant’anni dalla pubblicazione per i tipi di Laterza della Storia del paesaggio agrario italiano, in quanto il testo che pubblico senza sostanziali modifiche costituì l’introduzione generale al convegno. 2 Il titolo è stato ripreso dall’articolo di Diego Moreno e Osvaldo Raggio (1999, pp. 89-104). 3 A questo diminutivo rimase sempre legato in nome di Sereni. 4 Fra le pagine del romanzo familiare che più mi colpiscono c’è anche quella che racconta l’episodio della murrina ovvero della «sfera appena appiattita con dentro un mappamondo quasi invisibile» che Mimmo bambino volle avere in regalo nella visita alle vetrerie di Murano e 1
Novus.
Saggi
e
frammenti, cura e traduzione di R. Solmi, Einaudi, Torino. Benjamin W., 1978, Lettere 1913-1940, Einaudi, Torino. Mayer H., 1993, Walter Benjamin. Congetture su un contemporaneo, Garzanti, Milano. Moreno D., Raggio, O., 1999, «Dalla storia del paesaggio agrario alla storia. Rurale. L’irrinunciabile eredità scientifica di Emilio Sereni», in Quaderni Storici, n.100, pp. 89-104. Sereni C., 1993, Il gioco dei regni, Giunti, Firenze.
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il commento che ne fa Clara: «Della geografia Mimmo aveva, all’epoca, un’idea vaga, ma pensò che avercelo in tasca, il mondo, è un buon modo per non lasciarselo sfuggire…» (Sereni C. 1993, pp. 92-93). L’episodio continua a colpirmi anche se Clara mi ha confessato che l’episodio è fra quelli inventati e la murrina – che mi sarebbe piaciuto mettere nella mostra degli oggetti sereniani – non esiste… Mi colpisce anche perché paragonandolo poi con i famosi buchi della rete con la quale Sereni aveva catturato il mondo mi conferma nell’idea che per la relatività e caducità delle nostre mappe è impossibile pensare una geografia che prescinda dalla storia e dalla necessità di ricostruire continuamente il nostro sapere. 5 Il riferimento è alla bella introduzione La nostalgia del futuro in Enzo Sereni, Emilio Sereni, Politica e utopia. Lettere 1926-1943, a cura di D. Bidussa e M.G. Meriggi (2000). 6 Si veda la conclusione dell’introduzione a Emilio Sereni (1968, p. XXVI). 7 Non vado oltre anche perché mi pare che per trovare nel paesaggio un terreno comune tra i due fratelli, Bidussa sia costretto a trasformare il paesaggio agrario in un concetto assai generico di rapporto fra uomo e natura basato sulla «convinzione che solo gli uomini associati in un luogo con la loro azione sul territorio su cui si insediano danno volto al paesaggio” anche in presenza di forze costituite (stato) che possono agire un contraddizione» (Sereni Emilio 1968, pp. XIII-XIV). 8 Per le Tesi sulla filosofia della storia ho seguito la traduzione di Renato Solmi (1962, pp. 72-83). 9 Questo Sereni non lo dice neppure nella cit. Introduzione del 1968 di Capitalismo nelle campagne dove cita queste parole di Granisci senza farne una critica esplicita. 10 Ringrazio l’associazione “Italia Nostra” e la sua presidente dell’epoca, Alessandra Mottola Molfino, per avermi procurato il testo dell’intervento di Sereni comparso in una pubblicazione molto difficile da reperire.
tra parole e saggi
Emilio Sereni e la incontro mancato?1
cartografia.
Un
Emilio Sereni and cartography. A missed contact?
abstract La novità rappresentata dall'uso che Emilio Sereni aveva fatto delle immagini pittoriche nel suo più noto lavoro ha attirato l'attenzione di molti studiosi. Che siano stati positivi o negativi i giudizi a questo proposito, ne è conseguita la sottovalutazione delle innumerevoli tipologie di fonti utilizzate dall'autore per il suo discorso sui paesaggi rurali italiani. In particolare l'intervento analizza l'approccio di Sereni alla cartografia storica e tematica.
abstract The originality of Emilio Sereni's new use of pictorial images in his most known work, have drawn the attention of many scholars. Regardless of positive or negative opinions, an underestimated evaluation of the countless types of sources used by the author for his argumentation about italian rural landscapes, has occurred. In particular, this work analyses the approach of Sereni towards historic and thematic cartography.
parole chiave Paesaggio, Fonti, Cartografia
key-words Landscape, Historical Sources, Cartogrhaphy
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Luisa Rossi*, Carlo A. Gemignani**
* Università di Parma, **Università di Genova e Parma
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Decine di casse caricate sui camion, su ciascuna la targhetta esplicativa incollata con scrupolo puntiglioso. Via anche i fascicoli ricavati dalle riviste. Via le bibliografie monumentali, via la corrispondenza ufficiale e quella personale, le agende, i manoscritti dei suoi libri. Clara Sereni, Il gioco dei regni, 1993.
Emilio Sereni e la cartografia
Premessa L'ampio successo editoriale riscosso dalla Storia del paesaggio agrario italiano deve molto all'originalità con cui Sereni aveva impostato il suo libro: un’incalzante successione di «quadretti», come Lucio Gambi li ha definiti (Gambi 1962, p. 662). In particolare, ciò che ha colpito tanto i lettori quanto gli studiosi è stato soprattutto l'impiego che Sereni ha fatto dei «quadri» veri e propri: la presa in considerazione della documentazione di carattere pittorico rappresentava, al di fuori del campo storico-artistico, una novità. Soffermandoci brevemente sull'interesse suscitato dal volume presso gli studiosi, sia per i suoi contenuti – il tema delle campagne era all'ordine del giorno tanto sul piano della ricerca e della riflessione storica quanto su quello della realtà economico-sociale italiana dell'epoca – sia, appunto, per lo specialissimo metodo adottato per esporli, ricordiamo che la discussione si è nel tempo concentrata sulla questione dell'iconografia e che, insieme a quelle positive, le osservazioni 2 molto critiche sono state autorevoli e non poche . Come è noto, è stato sostanzialmente rimproverato a Sereni di un uso non rigorosamente filologico dell'immagine artistica come fonte storica, a 3 scapito, ovviamente, della bontà del suo lavoro . Al di là specifiche valutazioni negative o positive, ci siamo più in generale domandati se la polarizzazione dell'attenzione sulle immagini intorno alle quali ruota la trattazione di ciascun capitolo non abbia avuto due conseguenze specularmente opposte. Da una parte ci pare essersi verificata la sopravvalutazione di figure che nella prefazione l'autore dichiara di avere utilizzato non come materiale documentario, «bensì solo là dove la sua rappresentatività fosse garantita da
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altre fonti come di un materiale illustrativo» (Sereni ed. 1976, p. 24: corsivo nostro)4; dall'altra non sembra che sia stato dato sufficiente risalto alla molteplicità delle fonti “maneggiate” da Sereni per i suoi lavori sui paesaggi agrari storici e in 5 particolare per la Storia . Esse vanno individuate nell'ampiezza del suo orizzonte di ricerca che, se non ha contemplato, come vedremo, l'intensa frequentazione degli archivi (ma non ne ha escluso «limitati sondaggi»), ha implicato il ricorso a indagini sul terreno6, a dati archeologici, statistici e in particolare a fonti letterarie (nel senso più lato): toponomastiche, epigrafiche, poemetti («georgici o altro»), relazioni di viaggio, documentazione giuridica e trattati agronomici dei quali egli stesso, per interesse disciplinare e di bibliofilo, possedeva una preziosa collezione. I trattati di agricoltura, vere “guide” per il coltivatore, costituiscono per Sereni «tecnico agronomo e storico delle 7 campagne» chiavi per entrare nei meccanismi di formazione del paesaggio come lo sono le fonti giuridiche dalle quali Sereni deriva i regimi di proprietà, i rapporti di produzione ecc. Ma sulla pluralità delle fonti con attenzione a quelle scritte ci siamo, almeno in prima battuta, espressi (Rossi e Rombai, 2011). Qui ci interessa ritornare sull'opera storico-geografica di Sereni per indagare il ruolo assegnato dallo studioso a quell'altro corpus di fonti iconografiche che sono le mappe (storiche e tematiche, catastali e topografiche a varia scala). Ciò che ci sembra in particolare interessante non è solo un “censimento” della cartografia utilizzata, ma di capire se il documento cartografico sia, in Sereni, associabile dal punto di vista (se non, evidentemente, quantitativo) metodologico alla documentazione scritta quale fonte sostanziale nella costruzione del suo discorso, o piuttosto a quella pittorica cui, come abbiamo visto, assegna il
tra parole e saggi
ruolo di materiale illustrativo. Più in generale, ci interessa capire quale posto abbia avuto la cartografia nell'immenso “catalogo” mentale di Sereni. 1. La cartografia in Comunità rurali nell'Italia antica Tentare di inquadrare l'approccio, fino ad ora poco considerato, o ritenuto frammentario, di Emilio Sereni storico con la cartografia, costringe a un'analisi di carattere filologico che si sviluppa sia a partire dalle non numerosissime immagini cartografiche pubblicate nelle opere maggiori, Comunità rurali nell’Italia antica (1955, ma la cui stesura risulta terminata nel 1951) e Storia del paesaggio agrario italiano (1961, sostanzialmente concluso almeno sei anni prima), sia dalle ancor più rare citazioni di saggi (come quelli di carattere geografico) che hanno considerato la cartografia un elemento centrale per l'interpretazione scientifica della realtà territoriale. Già da una sommaria lettura dei due scritti si possono individuare differenti tipologie di cartografia utilizzate. La prima (solo in ordine di elencazione) categoria riguarda la cartografia storica nelle sue varie espressioni e scale – consideriamo comprese in essa anche vedute di città o comunque di porzioni di territorio in prospettiva e/o a volo d'uccello – che viene abbastanza utilizzata nella Storia del paesaggio agrario. La seconda è la cartografia tematica, utile all'autore per una rapida visualizzazione di determinati problemi storici, o contemporanei (usi del suolo, diffusione delle forme insediative, dei fenomeni linguistici, localizzazioni etniche ecc.). La terza categoria, infine, riguarda la cartografia
catastale e topografica sulla quale torneremo tra poco. Iniziando la nostra analisi dal primo volume citato, notiamo che delle ventitré tavole fuori testo che lo compongono le carte sono cinque di cui quattro di tipo tematico: tav. IV: carta della Liguria preromana con la localizzazione dei diversi gruppi etnici tratta dal testo di Nino Lamboglia La Liguria antica in M.M. Martini (a cura di), Storia di Genova dalle origini al tempo nostro, vol. I, Garzanti, Milano, 1941, pp. 5-339; tav. VI: lo spopolamento montano nell’area ligure alpina tratto da E. De Martonne, Les Alpes, Parigi, 1946; tav. XVI: «Il tipo degli insediamenti umani nell’Italia contemporanea» in scala 1:2.000.000 tratta da R. Biasutti, Ricerche sui tipi degli insediamenti rurali in Italia: la carta dei tipi d’insediamento, in «Memorie della Reale Società Geografica Italiana», vol. XVII, Roma, 1923; tav. XIX: «Distribuzione e densità dei toponimi gallici in –ialos = “radura nel bosco” in area gallica e celto-ligure», tratta da A. Dauzat, La toponymie française, Parigi, 1946. Come si evince, Sereni non costruisce (né commissiona) carte tematiche originali, nonostante la dimestichezza che rivela nel trattamento delle fonti statistiche (come è noto alla base della costruzione delle stesse carte tematiche). Basti qui citare ad esempio l’appendice statistica che lo stesso Sereni inserisce a corredo del volume Vecchio e nuovo nelle campagne italiane (Sereni 1956). La sua grande competenza linguistica poteva inoltre agevolarlo nella creazione di carte
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basate sulle isoglosse, ma Sereni preferisce, anche in questo caso, utilizzare elaborazioni già esistenti. Va anche osservato che, nonostante dimostri una grande fiducia nella «prova topografica» (ad esempio per individuare i confini delle pievi storiche o per determinare la disposizione degli insediamenti delle antiche comunità rurali liguri temi che, nei primi anni Cinquanta, costituiscono uno dei principali interessi della propria analisi storica (Sereni 1954, pp. 13-42), Sereni non crea personalmente schizzi cartografici utili a localizzare determinati fenomeni, anche solo a livello esemplificativo. Continuando questa breve analisi sulle tracce del “Sereni cartografo” possiamo ora soffermarci sulla tav. II di Comunità rurali. Si tratta del particolare di una carta topografica. La didascalia recita: «Il paesaggio agrario della Valle Padana e le tracce della centuriatio romana: nella pianura di Cesena, le maglie del suo caratteristico reticolo conservano nei loro lati, la misura originaria di m 700 = 2400 passi». La stessa didascalia riporta anche, tra parentesi, l’indicazione d’origine dell’immagine «dai tipi dell’Ist. geogr. milit.» e, come rivela un confronto diretto8, rimanda all’Atlante dei tipi geografici nella sua seconda edizione, edita nel 1948 a cura di Roberto Almagià, Aldo Sestini e Livio Trevisan, che utilizza appunto come base per le analisi geografico-tematiche le tavolette in scala 1:25.000 dello stesso Istituto Geografico Militare (IGM). Su questa importante fonte torneremo in seguito. La didascalia rinvia poi al testo riportato a pagina 17 del volume dove Sereni, evidenziando l’«energica impronta» del reticolo romano nella Valle Padana, denuncia il vincolo che essa impone allo studioso che tenti di ricostruire gli assetti agricolo-produttivi precedenti alla conquista, in particolare l’ostacolo che la centuriazione
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rappresenta nei confronti della «scoperta di qualche tratto, che ci permetta di ricostruire la fisionomia del paesaggio agrario e del regime fondiario, caratteristico per le comunità galliche e pregalliche della Cisalpina». In relazione a questi problemi – la ricerca di tracce di precedenti “cicli di territorializzazione” – Sereni sembra poi, almeno a livello teorico, fare affidamento sulle capacità di “visualizzazione” offerte da una particolare categoria cartografica: la mappa catastale, di cui più volte nel testo viene sottolineato il valore documentario grazie all’alto livello di dettaglio che la caratterizza. Nel caso specifico lo studioso ritiene che, proprio a causa dei massicci interventi sul paesaggio effettuati in età romana, anch’essa potrebbe dire ben poco, cosa che non gli impedisce di riconoscerne le potenzialità. Sappiamo infatti che Sereni aveva tutte le intenzioni di inserire in Comunità rurali alcune mappe catastali relative a precise porzioni del territorio appenninico ligure, ritenute più efficaci – per ragioni di continuità e di pertinenza storica – a rilevare le tracce dei regimi fondiari pre-romani. Fra le lettere conservate presso l'Istituto Gramsci di Roma se ne trova una (datata 3 ottobre 1951) destinata al direttore del Catasto di Genova (Gemignani 2011, pp. 143-144 ). Nella missiva Sereni è molto preciso: al fine di ottenere la documentazione più appropriata, coinvolge il funzionario nel merito del suo lavoro, lasciandoci in tal modo uno spaccato del metodo di indagine adottato e – questione che ci interessa qui maggiormente – della funzione in esso attribuita alla cartografia catastale e topografica. “Da vari anni – scrive il nostro autore – sto lavorando ad un volume, che ormai sto per consegnare all’Editore Einaudi, nel quale – partendo dallo studio dell’antica e
Emilio Sereni e la cartografia
famosa Tavola di Polcevera – affronto i problemi della costituzione fondiaria ed agraria della Liguria romana e preromana. Una parte importante del volume è dedicata allo studio del “paesaggio agrario” della regione, delle sue origini e del suo processo evolutivo. Ad illustrare la mia ricerca, ho raccolto anche materiale di documentazione fotografica, che spero potrà contribuire ad una maggiore concretezza e chiarezza dell’esposizione. Tale documentazione riguarda anche e soprattutto, la caratterizzazione del paesaggio agricolo ligure contemporaneo, della cui formazione [cerco di] seguire il processo storico e preistorico. Ma ad integrare questo materiale, desidererei poter dare al Lettore un’idea visiva di certi aspetti del paesaggio agrario ligure, quale essa può risultare dal materiale catastale. Quel che m’interesserebbe, in particolare, [sarebbe] di poter dare al Lettore, attraverso la riproduzione di una mappa catastale, l’impressione visiva della irregolare quadrettatura che, nel paesaggio ligure, risulta dalla contiguità di appezzamenti a culture erbacee, ortive, a vigneto ecc., particolarmente nei casi in cui questi appezzamenti e parcelle, irregolari nella loro forma, sono ricavati dal bosco che ancora in parte circonda. M’importa di far risaltare, attraverso la riproduzione di una mappa catastale di queste terre divise in piccole parcelle irregolari, divise da confini e da [siepi] il contrasto col paesaggio agricolo di terre come quelle della pianura padana, della Francia settentrionale o della Germania, dove predominano le grandi parcelle allungate di forma regolare, o addirittura i “campi aperti”, non separati da segni di terminazione. Lo schema qui accluso9, o anche le foto10 , potranno forse meglio farLe intendere quale sia il tipo di paesaggio che vorrei illustrare al lettore con la riproduzione di una o più mappe catastali. Dato il genere e la materia del mio studio, sarei particolarmente grato di poter riprodurre mappe catastali che – mentre [dovranno] dare un’idea esatta dell’addensarsi di piccole parcelle irregolari ricavate dal bosco, e ancora da esso circondate, dovrebbero preferibilmente riferirsi all’alta Val Polcevera nei pressi di Langasco. L’ideale sarebbe la mappa che riproducesse un paesaggio del tipo di quello che ho rappresentato nella foto di una delle colline della Val Polcevera” (Istituto Gramsci, Fondo Sereni,
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Corrispondenza, lettera datata 3 ottobre 1951, corsivi nostri).
Le «piccole parcelle irregolari ricavate dal bosco» si riferiscono al paesaggio agrario definito in area ligure-provenzale «marrelo» o «marrello». Nella prefazione alla Storia del paesaggio agrario Sereni accosta tale tipologia a quella dei «campi a pìgola» di area toscana e per definirli nel corso della trattazione userà proprio tale espressione (Sereni ed. 1976. pp. 13-14). Tornando alla lettera citata, essa si conclude quindi con la richiesta di invio «di uno o più estratti di mappe catastali che potessero rendere efficacemente l’immagine del paesaggio» studiato. Sui motivi per cui la richiesta non andò a buon fine la ricerca è da compiere: le mappe richieste non compaiono infatti nell'opera pubblicata, né risultano all’interno dell’archivio sereniano. Per noi è comunque interessante rilevare almeno due fatti che emergono con chiarezza: Sereni richiede queste mappe a lavoro avanzato, evidentemente assegnando loro una funzione accessoria; la fonte fondamentale da cui l'autore muove per il suo studio – la Tavola di Polcevera – è epigrafica, dunque una fonte scritta (in questo caso giuridica) e non una fonte iconografica. Si conferma anche in questo caso l'importanza assegnata da Sereni alle fonti scritte mentre le tavole inserite rispondono metodologicamente a una funzione esemplificativa ed esplicativa. 2. Un “limitato sondaggio” nell’Archivio di Sereni Per approfondire il discorso circa il ruolo della cartografia nell'opera di Sereni ci siamo soffermati
tra parole e saggi
sui materiali del suo archivio personale conservati a Gattatico (Istituto Alcide Cervi, Archivio-Biblioteca Emilio Sereni). Secondo l'attuale ordinamento, i principali nuclei documentari utili all'analisi che qui ci interessa sono la serie delle buste intitolate Illustrazioni storia agraria e la busta n. 48 intitolata appunto Cartografia collocata all'interno della serie Storia-Economia. Nel primo gruppo di documenti citato le carte storiche, le piante di città e le vedute a volo d’uccello sono numerose e rappresentano almeno il 10% dell’iconografia raccolta da Sereni. Di questo ampio corpus ci è parso opportuno, in questa sede, esaminare il contenuto in duplice prospettiva: trovare eventuali elementi di collegamento con la redazione di Comunità rurali; capire gli interessi di Sereni dal punto di vista cartografico. La vasta serie documentaria comprende una busta (Illustrazioni storia agraria, b. 17) all’interno della quale sono conservate le fotografie (negativi e positivi) delle sopraelencate illustrazioni pubblicate in Comunità rurali (tav. IV; tav. VI; tav. XIX; tav. XVI). La loro realizzazione è legata al definitivo passaggio verso la stampa tipografica. Nella stessa busta troviamo poi una foto aerea e altre riproduzioni fotografiche di carte tratte da volumi a stampa che formano un corpo più vasto rispetto a quello scelto per essere poi definitivamente pubblicato. Sul retro dei positivi sono riportate lunghe didascalie manoscritte che forniscono gli elementi utili all'identificazione delle diverse immagini, alla determinazione della loro provenienza, all’interpretazione data da Sereni. Oltre alla riproduzione del tratto costiero ligure tratto dalla Tabula Peutingeriana, ricavata da testo a stampa non ancora identificato (mancano in questo caso le indicazioni autografe), riconosciamo:
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il paesaggio agricolo del sistema dei tre campi allungati di area germanica. Dalla mappa catastale del villaggio di Quevilloncourt in Lorena. Immagine tratta da R. Blais, La campagne, Parigi, 1947; «il paesaggio agricolo a “marrelo”» nella Francia Mediterranea (Montamel, dipartimento del Lot). Immagine tratta dall’«Atlas de France»; il «paesaggio agricolo del “sistema dei tre campi”, a campi aperti e allungati, nell’area celtica». Dalla mappa catastale di Spoy, Côte d’Or, 1782, pubblicata da M. Bloch, Les Caractères originaux de l'histoire rurale française, Parigi, 1952; «il paesaggio agricolo a “marrelo” nell’area mediterranea francese: veduta aerea delle parcelle a coltura ricavate dal disboscamento della “garrigue” nei dintorni di Nîmes». Foto aerea realizzata dall’Institut Géographique National francese.
La presenza in archivio di riproduzioni di stralci di mappe catastali storiche come quella del villaggio di Quevilloncourt studiata da R. Blais e quella di Spoy (Côte d’Or) analizzata da M. Bloch (vedi par. precedente) rivelano un interesse e un'attenzione specifici da parte di Sereni. L’analisi della parcella catastale come conclusione di un processo di lettura dei cicli storici di colonizzazione agraria è già apparsa con chiarezza dalla lettera al direttore del catasto genovese citata in precedenza. Passando all'esame della busta della Cartografia che, dal titolo, non faceva presumere la presenza di documentazione relativa al caso sotto osservazione, esso si imponeva per un inquadramento più generale della questione
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cartografica in Sereni. Una parte dei documenti contenuti all'interno del plico è in effetti di carattere generale. Si tratta di materiali tratti da riviste italiane e sovietiche edite in un arco cronologico che va dal 1923 al 1970 ed è classificabile secondo due categorie: storia della cartografia; note tecniche sui contenuti delle produzioni cartografiche nazionali e internazionali (atlanti, carte tematiche, carte tecniche, carte topografiche). La serie comprende anche alcune carte sciolte e alcuni cataloghi cartografici. Entrando un po' più in dettaglio, vi abbiamo trovato opere di svariato genere come i contributi in cirillico sui metodi cartografici per gli studi di etnografia e antropologia di S.I. Bruck, V.I. Kozlov, K.V. Kudriashov, P.I. Kushnier, P.E. Terlesky, o il saggio di Attilio Mori su La cartografia italiana dal secolo XIV al XVIII pubblicato sul «Bollettino della R. Società Geografica Italiana». serie VI, vol. VII, n. 3, marzo 1930. Al 1923 è riconducibile il gruppo di fascicoli più corposo: gli estratti degli Atti dell'VIII Congresso Geografico Italiano (Firenze, 22 marzo - 6 aprile 1921). I loro contenuti, anche quando lontani dai consueti temi di ricerca sereniani, confermano la sua attenzione a ogni pubblicazione di carattere cartografico: La carta dialettologica d'Italia secondo Dante di Giuseppe Andriani; Le carte geografiche della cronaca di Fra Paolino Minorita di Assunto Mori; Sopra le fonti cartografiche di Leonardo da Vinci di Mario Baratta; Su alcuni importanti cimeli cartografici conservati a Venezia di R. Almagià; Nuove proposte di classificazione e nomenclatura delle proiezioni cartografiche di G. Ricchieri; La Divina Commedia presa come base per l'insegnamento della Geografia col metodo storico di S. Crinò; Sull'opera geografica dell'”Istituto Italiano d'Arti Grafiche di Bergamo di Luigi Filippo
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de Magistris e L'Atlante dei tipi geografici desunti dai rilievi (al 25 e al 50000) dell'Istituto Geografico Militare di Olinto Marinelli. Quest'ultimo estratto è il solo che conservi segni autografi a sottolineare alcuni brani dedicati alla visualizzazione degli effetti della colonizzazione romana attraverso la cartografia dell'IGM. Le parti sottolineate riguardano alcuni commenti di Marinelli a una delle sette tavole distribuite al pubblico durante la sua relazione al congresso e pubblicate poi nell'Atlante dei tipi geografici (Firenze, 1922) sotto sua cura11. Il passo segnato riguarda la colonizzazione romana12 e in particolare le relazioni diacroniche tra i cambiamenti degli assetti socioterritoriali e quelli delle evidenze visive: i rapporti tra la colonizzazione e la bonifica; l'ubicazione degli insediamenti rispetto al reticolo geometrico: Anzitutto appare evidente che gran parte della colonizzazione si svolse in aree che dovevano essere senza coltura od abbandonate e che richiedevano una sistemazione delle acque, aree che spesso nell'alto medio evo rimpaludarono e furono oggetto di nuove bonifiche, nelle quali si trovò opportuno fare rivivere le antiche opere, onde tracce topografiche quasi obliterate risultarono rafforzate fino al punto da dare l'illusione di origine recentissima. I dubbi che alcune centuriazioni sieno piuttosto moderne perdono consistenza anche in base alla considerazione dei rapporti fra le vie romane ed i graticolati, la cui orientazione appunto in rapporto con esse e con l'andamento delle acque si discostò quasi sempre da quella celeste che pure era la tradizionale. D'altronde mostra la tavola come vi sia sempre accordo fra l'orientazione dei cardi e decumani
Emilio Sereni e la cartografia
nella campagna e quella dei nuclei coloniali urbani (Marinelli 1923, p. 543). L’attenzione verso il problema “archeologico” della «traccia» di colonizzazioni «quasi obliterate» ci sembra essere qui il punto di maggior contatto tra le riflessioni di Sereni e quelle di Marinelli con qualche sfumatura di differenza circa la possibilità della carta topografica di restituire i segni di colonizzazioni precedenti a quella romana. Questo ci riporta a Comunità rurali nella cui 13 bibliografia non compare l'intervento di Marinelli , autore però presente nel testo con l'Atlante dei tipi geografici citato nella didascalia della tav. II. 3. Mappe per la Storia del paesaggio agrario italiano Del fatto che le carte, in particolare catastali, rappresentino una fonte di primaria importanza per ricostruire la storia dei paesaggi agrari Sereni era ben convinto. Il suo lavoro è anche il risultato di un serrato confronto con la scuola francese e in particolare il Bloch dei Caractères e di altri scritti usciti fra il 1930 e il 1944, anno della tragica fine dello storico francese cui Sereni doveva sentirsi legato per motivi di forte affinità: dalle comuni radici ebraiche agli interessi scientifici, al posizionamento ideale e politico antinazista e antifascista fino alla militanza nella Resistenza che portò entrambi alla prigionia, con una conclusione molto più tragica per Bloch. Non è questo il luogo per entrare nel merito della genesi della Storia del paesaggio agrario italiano né per un'analisi di quanto l'“incontro” con Bloch sia stato significativo nel lavoro di Sereni – temi del resto molto recentemente indagati da Massimo
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Quaini14 – ma è certo che, nella nostra ricerca sulle fonti della sua opera, sono emersi con evidenza, oltre al noto ed esplicito riconoscimento di «fondatore» e di «pioniere» della storiografia del paesaggio agrario che il nostro autore attribuisce a Bloch, numerosi elementi di “identificazione”. Nelle introduzioni metodologiche che aprono i lavori di Bloch e di Sereni vediamo come entrambi gli autori si soffermino a motivare la scelta di non aver voluto «appesantire l'esposizione» con i riferimenti tipici della scrittura scientifica. Data la vastità della bibliografia e documentazione consultata, anche «la pagina più limpida, aveva scritto Bloch, sarebbe stata ingoiata dalle note». I due autori risolvono il problema in modo non troppo diverso: lo storico francese riduce le note alle opere meno rintracciabili da parte di «un accorto erudito» e correda la sua introduzione di un «orientamento bibliografico» limitato (a parte un rapido riferimento ai principali nomi intervenuti altrove sull'argomento) ai principali lavori usciti in Francia (Bloch 1973, p. XXXI). Da parte sua, Sereni non indulge ad alcuna nota ma pensa a sua volta di inserire una più corposa (rispetto all'«orientamento» dei Caractères) Guida bibliografica preparata al momento dell'edizione e poi non inserita (su cui torneremo). Assai simile nei due autori è l'intento della ricerca da ciascuno effettuata e della sua pubblicazione. Entrambi sostengono l'interesse a «poser les problèmes» prima che a risolverli; l'intenzione di aver voluto scrivere un'opera «de synthèse», un'opera, anche, «provisoire» perché aperta a future ricerche proprie e di altri studiosi, un «tour d'horizon» finalizzato a «ouvrir le chemin» a studi ancora poco coltivati (nelle Francia degli anni Trenta come nell'Italia degli anni Cinquanta); la pratica di una ricerca «contre le funeste
tra parole e saggi
compartimentage des sciences humaines» che rendeva necessaria «l'alliance des disciplines», in primo luogo la storia e la geografia (e difatti anche Sereni si rivolge ai geografi italiani molto più di quanto i geografi, con l'eccezione di Gambi, si siano interessati a lui); l'uso delle statistiche; l'attenzione agli indizi presenti nel paesaggio reale («les paysages aussi sont, à leur manière, des documents») non meno che al rigore nello studio dei document veri e propri, dietro i quali, anche i più «secs», si doveva «découvrir la vie» (Bloch 1968, pp. XVII e sgg). Bloch pone l'attenzione su documenti giuridici e notarili, sui documenti ecclesiastici, sui “piccoli” statuti locali che regolavano usi civici ecc. «Trop longtemps – aveva scritto nel 1934 – nos sociétés savantes ont manifesté quelque mépris aux choses des champs». Di questa realtà locale non bisognava lasciarsi andare ad eliminare proprio «les éléments les plus concrets. Et d'abord, le sol». Il suo “curatore” Dauvergne ci ricordava che Marc Bloch souhaite pour chaque histoire de village un ou plusieurs croquis topographiques: site, emplacement du village et ses écarts, limites du terroir, marchés, centres de seigneuries ou de judicatures, centres ecclésiastiques, plan des agglomérations, division du terroir, répartition es cultures, des pâtis et des bois, le communal, une carte des sols, «quelques exemples peut-être de la morphologie des exploitations» (Dauvergne 1968, p. XXXII).
Tale “bisogno di concretezza” rimanda a quelle che Bloch considera «sources exceptionelles» per la ricostruzione del disegno e della vita delle campagne: i plans parcellaires. Bloch si era posto il problema dell'importanza di questi documenti (di cui aveva riscontrato l'arretratezza degli studi) fin dall'epoca dei Caractères dove troviamo pubblicate
diciotto piante. Nel 1936-37 è professore di storia economica alla Facoltà di lettere di Parigi: all'École Normale Supérieure dirige una conférence de recherche rivolta ai normalisti, agli studenti della Sorbona e a quelli dell'École des Chartes e dedicata alle fonti della storia rurale francese, in primo luogo proprio ai catasti. Ne risultarono una notevole apertura verso il tema e una serie di lavori usciti nelle «Annales» (Dauvergne, pp. XVI-XVII e p. XXXV). Tornando a Sereni, la lezione di Bloch non gli era rimasta, anche a riguardo di questo tipo di fonte, estranea: nella sua prefazione alla Storia sta ragionando «del materiale destinato all'illustrazione di questo volume» quando aggiunge: Apparirà forse strano anche ai nostri più benevoli critici, l'impiego solo eccezionale che, a quest'ultimo fine, abbiam fatto delle mappe catastali: le quali rappresentano, senza dubbio, non solo il materiale illustrativo più pertinente, ma addirittura di una delle fondamentali fonti documentarie per una ricerca come la nostra. Va rilevato, tuttavia, che – proprio in questo campo – nonché la pubblicazione e lo studio, persino il reperimento delle fonti disponibili si trova, nel nostro paese, in uno stato di particolare arretratezza. Più che mai, pertanto, in questo settore le nostre ricerche personali han dovuto assumere – tranne che per le età più recenti – il carattere di limitati sondaggi: dei cui risultati di sarebbe apparso scorretto sopravvalutare la rappresentatività, là dove questa non fosse suffragata dalla sicura attestazione di altre fonti (Sereni ed. 1976, p. 23).
L'autore spiega in tal modo lo scarso utilizzo che ne fece. Egli riconosce l'importanza dei documenti catastali e la parallela arretratezza in Italia di questo tipo di studi ma l'orizzonte professionale in cui si muove è assai diverso da quello in cui si era mosso a suo tempo Bloch. Come è stato rilevato,
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Sereni non si era posto l'obiettivo di ricerche d'archivio troppo specifiche rispetto al lavoro di sintesi che aveva in mente15. D'altra parte, oltre che non disponibili in studi editi e difficilmente reperibili negli archivi da un Sereni molto impegnato nel lavoro politico, le mappe catastali, con il loro linguaggio meno immediatamente decifrabile da un pubblico di lettori non specializzato, risultavano poco adatte a illustrare i vari capitoli di un libro volutamente rivolto a un pubblico di lettori diverso da quello cui Bloch aveva rivolto i Caractères. Ci pare in proposito illuminante l'osservazione contenuta nella prefazione: Ci è sembrato, per contro, che una rassegna di fonti iconografiche di tutt'altra origine, qual è quella dell'espressione artistica, potesse […] fornirci un materiale illustrativo, non solo più suggestivo per il lettore, ma anche più pertinente al carattere ed ai limiti della nostra indagine (Sereni ed. 1976, pp. 23-24).
In questo quadro si spiega anche la funzione delle carte e degli schizzi cartografici che furono inseriti nel volume sotto due diverse categorie: le «tavole» e le «figure». Delle ottanta immagini definite «tavole», presenti nel libro, quelle di carattere cartografico sono tredici; delle diciassette definite «figure» ne contiamo altre tredici. “Statistica” a parte, è interessante riflettere sulle caratteristiche di queste immagini, sulla loro collocazione, sull'uso che Sereni ne fa. Nella categoria delle figure cartografiche Sereni raccoglie nove schizzi topografici, due stralci di tavolette IGM, due carte tematico-statistiche dell'Italia; nella categoria delle tavole troviamo otto piante a volo d'uccello, due piante catastali e una veduta dipinta (Montepulciano)16.
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Emilio Sereni e la cartografia
Sull'organizzazione dei documenti descritta si può avanzare qualche ipotesi resa incerta dal fatto che finora nessun documento è intervenuto a spiegare se fu una scelta editoriale o se sia stato, come tenderemmo a pensare, l'autore a decidere in tal senso. Indubbiamente nelle tavole si sono volute raccogliere mappe storiche indipendentemente dalla loro tipologia: esse vanno dalla pianta cinquecentesca di Bologna che mostra «il paesaggio dei campi chiusi entro la cerchia delle mura cittadine» (tav. 12) alla settecentesca mappa che rappresenta la bonifica per colmata tratta dalle Memorie idraulico-storiche del Fossombroni (tav. 60) passando per la veduta pittorica di nuovo cinquecentesca di Montepulciano, sopra citata, nella quale sono splendidamente rappresentati i campi a pìgola (tav. 44). Ma fra le tavole, troviamo anche le uniche due piante catastali pubblicate da Sereni, vale a dire la mappa di primo Ottocento relativa alla piana di Magione sul Trasimeno per rappresentare l'alberata (tav. 69) e la pianta di primo Novecento dell'Istituto di fondi rustici di Gallarate che rappresenta la «larga» (tav. 74). Dato il carattere tecnico della pianta del Fossombroni e delle due “catastali” rispetto alle altre tavole ancora basate su moduli imitativi della realtà paesaggistica, il criterio che sembra unificare il corpus delle tavole pare essere quello di carte originali. Non si comprende tuttavia l'esclusione da questa serie dei due stralci delle tavolette IGM, che originali sono, e che troviamo invece collocate come figure insieme agli schizzi topografici (per esempio derivati da dati epigrafici) e alle carte tematico-statistiche realizzate per illustrare la diffusione dei fenomeni. Incongruenze (almeno apparenti) a parte, è un fatto che Sereni definisce «tavole», alla stregua delle pitture, carte in gran parte esse stesse molto
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Figure 1-2-3. Immagini tratte dall’ Archivio-Biblioteca Emilio Sereni, Istituto Alcide Cervi, Gattatico, Reggio Emilia: dai cabrei, alla cartografia storica alla cartografia tematica l’autore raccoglieva da libri e cataloghi ogni tipo di documento cartografico utile ai propri lavori.
“paesaggistiche”. Tale parallelismo fra la documentazione artistica in senso proprio e questo genere di cartografia riguarda anche la funzione, più illustrativa che di fonte, ad entrambe assegnata da Sereni. E se i dipinti, per l'immediatezza con cui consentono di percepire le forme del paesaggio (e probabilmente perché documenti verso i quali il lettore ha una ben maggiore consuetudine) sono stati quantitativamente privilegiati in un lavoro pensato per vasto pubblico, anche la maggior parte delle piante scelte non tradiva tale intento. Sappiamo come almeno da metà Settecento in fatto di rappresentazioni cartografiche la discussione vertesse sulla necessità di superarne il
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linguaggio eccessivamente imitativo («della natura») in favore di una maggiore geometricità, uniformità dei segni, astrazione. Particolarmente sotto accusa furono poste le carte a volo d'uccello che sintetizzano in un'unica immagine la prospettiva zenitale e orizzontale. Sono soprattutto queste che Sereni pubblica “al posto di un dipinto” perché proprio grazie al loro duplice punto di vista danno del paesaggio una visione insieme “aerea” (e quindi capace di indicare la distribuzione degli oggetti nello spazio) e “frontale” (consentendo di “riconoscerli”)17. D'altra parte, il corpus delle figure comprende carte che forniscono invece a Sereni elementi di analisi che vanno oltre la mera illustrazione come mostrano, per esempio, quelle tematiche che compaiono nelle Comunità e che non mancano neppure in Storia del paesaggio cui fanno riferimento anche le carte indicate nella Guida bibliografica preparata nel 1961 per lo stesso volume, e come, infine, hanno iniziato a mettere in luce i primi sondaggi nell'archivio sereniano 18 effettuati in proposito .
Conclusioni Sui diversi aspetti trattati si dovrà tornare. Tuttavia, volendo iniziare a rispondere all'interrogativo del titolo, si può dire che quello di Sereni con la cartografia non appare proprio un appuntamento mancato: pur non essendo stato il nostro autore, come si è visto, dedito a costruire personalmente carte per la visualizzazione dei fenomeni, né uno studioso di catasti e di cartografia topografica (ma non era neppure uno storico dell'arte), da molti elementi si evince la sua notevole dimestichezza nel trattare le carte che,
proprio per la loro varietà tipologica e la duplice valenza (comunicativa e sintetica) delle tipologie più pittoriche, sono utilizzate di volta in volta come illustrazioni, come strumenti di analisi, esemplificazione, confronto. Per entrare in modo più specifico nella questione, qui esaminata soprattutto attraverso la rilettura ad hoc dei due principali lavori in tema di paesaggio e un primo sondaggio nell'archivio, si deve rimandare a un'indagine più accurata all'interno di quest'ultimo, e fra i volumi della sua biblioteca (non solo i titoli ma la “presenza” di Sereni al loro interno attraverso le eventuali caratteristiche sottolineature), alla raccolta delle indicazioni che si possono derivare dall'immenso schedario. Per questa via si potranno chiarire meglio il peso della cartografia come fonte, i collegamenti fra carte, fotografia, indagine di terreno e, più in generale, l'ampiezza delle conoscenze di Sereni in fatto di letteratura scientifica di carattere cartografico e geografico. Sulla base delle ricerche finora effettuate si possono comunque fare alcune prime osservazioni. Fra i libri posseduti o accuratamente schedati nei personalissimi foglietti sotto varie voci (e ci siamo limitati a quelle che si presentano come più attinenti, ma i collegamenti che Sereni compie tra le discipline sono infiniti), oltre alle opere della geografia anglosassone, russa, e soprattutto tedesca e francese che Sereni grazie alla nota padronanza di numerose lingue poteva leggere nelle edizioni originali, non mancano certamente i lavori dei principali geografi accademici italiani. Ma, a parte l'eccezione di Gambi è un fatto che la geografia umana di Sereni sta ben oltre quella che i geografi italiani esprimevano: essa sta nella storia, nella società, nella politica, nella lingua, nei saperi
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agronomici dotti e popolari, come dimostrano le migliaia di volumi e di schede a fronte delle “poche” presenti di carattere strettamente geografico o cartografico. Sulla suggestione della biografia di Emilio Sereni che traspare dall’epistolario recentemente edito (Sereni, in Bernardi 2011) – un corpus che mette sotto gli occhi del lettore un universo vivo di politici e di intellettuali che hanno fatto grande l'Italia antifascista e repubblicana – concludiamo queste note con un'immagine e una testimonianza.
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L'immagine è la fotografia dello studio di Sereni a Portici con una grande mappa del territorio che, sulla costa tirrenica, va all'incirca da Terracina a Maratea, quindi centrato su Napoli, appesa alla parete. A parte la carta, di cui si capisce il senso nella stanza dello studioso, la spiegazione della foto la deriviamo da Anna Sereni là dove racconta dell'intenso rapporto del padre con il compagno di sempre Manlio Rossi Doria: Questa condivisione è testimoniata anche da una foto conservata a casa che mi colpì fin dalle prime incursioni compiute da giovane in questo archivio. Qui il protagonista è semplicemente uno spazio, ma che evoca una fase di vita densissima, proprio per l’assenza di personaggi. È una foto che il timbro in basso al centro indica di origine istituzionale: «Osservatorio di Economia Agraria – Portici» Mostra una sala di studio, al momento deserta. Sul retro, mio padre ha scritto di suo pugno: «La mia stanza nell'Osserv. di Econ. Agr. di Portici (Napoli). Il mio tavolo è quello a sin. della foto, in fondo. Quello accanto è di Rossi Doria». Ma al momento in cui la foto è stata scattata lui è già lontano. Sempre sul retro, infatti, un’altra grafia ha lasciato traccia di una data e di due nomi: «Antonio [....] Gallo – Giacinto Donno. A Portici maggio 1933 XI». A quell’epoca Mimmo era in tutt’altre questioni affaccendato: era in carcere, forse intento a studiare lingue varie e a discutere con i suoi compagni di prigionia. Chissà quando avrà ricevuto questa foto. È stata una sua richiesta? È un ricordo inviatogli allora o quando? Probabilmente non lo sapremo mai, l’unica certezza è che ha conservato la foto tra i suoi ricordi personali, annotando in maniera significativa il dettaglio delle due scrivanie (Sereni A. 2010)19 Figura 4. Foto dello studio di Sereni a Portici.
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Riferimenti iconografici Figure 1-3. Immagini tratte dall’ Archivio-Biblioteca Emilio Sereni, Istituto Alcide Cervi, Gattatico, Reggio Emilia Figura 4. Archivio famigliare Sereni
Testo acquisito dalla redazione nel mese di gennaio 2013. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte. (titolo 3 verdana 8 corsivo)
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La ricerca è stata effettuata fra i due autori in stretta collaborazione come la stesura della premessa. Carlo A. Gemignani ha redatto il primo e il secondo paragrafo, Luisa Rossi il terzo e le conclusioni 2 Per una puntuale resoconto critico del dibattito seguito alla pubblicazione della Storia si vedano Polignano 2011, pp. 34-47 e Quaini 2011, pp. 10-33. Vi si trovano anche le posizioni dei geografi. 3 Giuseppe Galasso ha parlato di metodo di lavoro fondato su «monumenti delle arti figurative» piuttosto che su fonti più «qualificate: mappe, contratti, catasti, documenti epigrafici, descrizioni di autori, fotografie» (Galasso 1964, pp. 91-92); Giovanni Romano scrive di «manipolazioni
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spericolate delle “prove storiche” prodotte dagli artisti» (Romano 1991, p. XXI) e Franco Cazzola di «scelta azzardata» per il fatto di «usare solo l'immagine pittorica, ossia la rappresentazione iconografica che l'uomo fa del mondo che lo circonda […]» (Cazzola 1997 [2000], p. 13: corsivo nostro). Per i rilievi fatti da Romano a Sereni in generale e a riguardo di specifiche immagini si veda Rossi e Rombai 2011, pp. 98-99 e 112n. 4 Usiamo il temine nella accezione in cui lo stesso Sereni lo utilizza nella prefazione alla Storia (Sereni ed. 1976, pp. 23 e 24). 5 Quella che riteniamo una sopravvalutazione dell'iconografia come fonte privilegiata su cui Sereni ha costruito la Storia la troviamo in lavori anche molto recenti: Tosco la afferma nel suo lavoro del 2007 (pp. 7274) e la ribadisce anche successivamente (relazione presentata in occasione della mostra sereniana allestita presso la Biblioteca Palatina, Parma 15 ottobre 2011). 6 Vanno ricordate in proposito le escursioni effettuate per realizzare documentazione fotografica Comunità rurali nell'Italia antica: cfr. Gemignani 2011, pp. 137-148. 7 Per la ricostruzione dell'origine della scelta di Sereni di iscriversi alla Facoltà di Agraria di Portici si veda Quaini 2011, p. 12 e sgg. 8 Nella prima edizione dell’Atlante dei tipi geografici, curata da Olinto Marinelli nel 1922 il quadro 8, che si riferisce alla stessa porzione territoriale considerata (l’agro di Cesena), presenta alcune difformità rispetto alle corrispondenti tavole pubblicate in Comunità rurali e Storia del paesaggio (l’immagine, seppur comprendente un'area leggermente più vasta verso Nord, è infatti ripubblicata a pagina 51, fig. 6, anche nel più conosciuto lavoro sereniano). Ad esempio l'assenza di alcuni toponimi in queste ultime (C. Spinelli, C. Suzzi, C. Ghini, C. Massi) e la diversa denominazione di alcuni (S. Giorgio di Cesena in quella pubblicata in Storia del paesaggio, S. Giorgio in Piano in quella edita nell'Atlante dei tipi geografici del 1922), rimandano agli aggiornamenti compiuti nell’edizione del 1948 dello stesso Atlante. 9 Il documento non è stato finora reperito.
Emilio Sereni e la cartografia
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Probabilmente si tratta di alcune copie delle fotografie ancora oggi conservate nel suo archivio. Sull’argomento cfr. Gemignani 2011. 11 In quest’ultimo, alla tavola n. 76, intitolata “Tracce topografiche della colonizzazione romana”, quadro n. 8 («un esempio di graticolato romano singolarmente completo e conservato» adiacente al rettifilo CesenaRavenna) si ritrova l’originale porzione territoriale utilizzata da Sereni sia in Comunità rurali (tav. II) sia in Storia del paesaggio agrario, (p. 51) sebbene (come già rilevato in precedenza) l’immagine scelta sia tratta dalla seconda edizione dell’Atlante stesso. 12 La colonizzazione romana è argomento, scrive Marinelli nell’estratto citato, del quale si sa «moltissimo grazie alla conservazione del corpus dei gromatici, ad altre fonti antiche ed anche a materiale archeologico. Tuttavia, come risulta già dalle ricerche di vari studiosi, fra i quali basterà menzionare il Lombardini e lo Schluten, le carte topografiche forniscono sempre ottimi documenti relativi all'interessante soggetto». Sereni sembra allinearsi con questa opinione. Sappiamo come lo Schluten sia più volte citato da Sereni in Comunità rurali nell'Italia antica. 13 Il confronto fra i titoli dei fascicoli conservati e la bibliografia di corredo a Comunità rurali – dove troviamo annoverati Giuseppe Caraci (Le “corti” lombarde e l’origine della “corte”, in «Memorie della Società Geografica Italiana», vol. XVII, Roma, 1932); Renato Biasutti (Ricerche sui tipi degli insediamenti rurali in Italia); Dino Gribaudi (Il Piemonte nell’antichità classica. Saggio di corografia storica, Torino, 1928; Giuseppe Nangeroni (Geografia delle dimore e degli insediamenti rurali, Milano, 1946) – conferma il buon aggiornamento di Sereni in fatto di bibliografia scientifica geografica già rilevato nella Guida bibliografica stesa per la Storia del paesaggio agrario italiano (cfr. nota 17). 14 Scrive in proposito Quaini: «A un orizzonte ancora lontano occorre […] proiettare l’interesse per la storia del paesaggio agrario, che negli anni dell’esilio e in terra francese avrebbe potuto essere praticato più facilmente che in Italia. Da una prima, ancora superficiale, esplorazione dell’abbondante materiale manoscritto dell’archivio Sereni non sembra infatti che questo
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interesse sia anteriore agli anni 1946-1949. Per queste ragioni e soprattutto per il premere del lavoro politico e cospirativo, sembra improbabile, anche se non si può del tutto escludere vista la sua grande curiosità bibliografica, che nel periodo francese Sereni abbia avuto qualche occasione per esercitare tale curiosità anche nella direzione degli studi di geografia umana e di storia del paesaggio agrario […]. È comunque singolare la coincidenza che vede Sereni e Marc Bloch lavorare nella cospirazione antifascista e antinazista nello stesso periodo e quasi negli stessi luoghi della Francia occupata, senza tuttavia incontrarsi. Non meno singolare è pensare che in quegli stessi mesi, mentre Sereni non tralasciava del tutto i suoi interessi per la storia agraria, Bloch scriveva le straordinarie pagine dell’Apologia della storia, pubblicate solo nel 1949, dove il fondatore delle «Annales» si propone di raccontare ai debuttanti il mestiere dello storico avendo il coraggio di professarsi lui stesso un debuttante» (Quaini 2011, p. 18). 15 Quaini parla del suo «propendere per sintesi che escludono lo scavo archivistico, ma possono giovarsi dell’esistenza di buoni materiali preparatori e soprattutto della capacità di coltivare l’osservazione e l’esperienza diretta dei luoghi, giudicata assolutamente necessaria per scoprire la varietà delle condizioni locali e regionali del territorio italiano», (Quaini 2011, p. 26). 16 Nella nostra “statistica” prendiamo in considerazione solo questo dipinto in cui l'autore anonimo si è fatto “cartografo” avendo voluto rappresentare esclusivamente il soggetto topografico, mentre tralasciamo le tavole che Sereni deriva dai numerosi particolari vedutistici presenti in dipinti di soggetto diverso. 17 Il dibattito, intenso fra metà Settecento e metà Ottocento, sulla non leggibilità della carta che da pittorica si faceva astratta per necessità di coerenza e di uniformità della rappresentazione del paesaggio, è all'origine della cartografia moderna (Rossi, in corso di stampa). 18 La Guida bibliografica è il dattiloscritto recentemente emerso a Roma presso l’Istituto Gramsci (Fondo Sereni, Scritti e discorsi), redatto nel 1961 e pensato come rassegna delle pubblicazioni, come scrive l'autore, «da noi
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utilizzate nella preparazione di questo nostro saggio di una storia del paesaggio agrario italiano». Si tratta quindi di uno strumento fondamentale per ricostruire le basi scientifiche e metodologiche di Storia del paesaggio agrario. Se nella Guida il panorama della bibliografia geografica è ampio e internazionale, non mancano riferimenti ad alcune fonti cartografiche delle quali è sottolineata l’affidabilità nella resa del dato reale, storico o “attuale”. A proposito del «paesaggio fisico e del suolo italiano» Sereni cita la «Carta geologica d’Italia al milionesimo, cfr. V. Novarese, Roma, 1931» e, per le carte geologiche in scala più particolareggiata relative a singole zone, le «Memorie descrittive della Carta geologica d’Italia, anni 1886 sgg.» redatte dall’Ufficio geologico d’Italia (p. 5). Per il paesaggio forestale Sereni ricorda «la Carta forestale d’Italia all’1:100.000 dell’Istituto geografico militare, 1929-1936» (p. 8). Per il periodo post 1955 (paesaggio agrario contemporaneo) il quadro è completato dalla «Carta dei tipi d’impresa nell’agricoltura italiana, Roma, 1958» e dalla «Carta dell’utilizzazione del suolo in Italia, Milano, 1961» (p. 4). 19 Anna Sereni, che ringraziamo della fotografia e della testimonianza, ci ha personalmente raccontato che Sereni era in ottima relazione con il generale Giulio Schmiedt, direttore dell'IGM e che, probabilmente, oltre che libri, acquistava anche carte che potrebbero essere rimaste alla sorella Marta. Dalle lettere di Sereni finora esaminate risulta come, scrivendo agli editori, spesso Sereni si dichiarasse “in bolletta” per la passione di acquistare libri, ma non si sono trovati cenni all'acquisto di carte. La ricerca è, anche da questo punto di vista, da approfondire.
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Paesaggio e Storia
Paesaggio e Storia
Landscape and History
Paolo Nanni*
abstract La storia del paesaggio agrario accomuna diverse prospettive di studio. In questo mosaico la disciplina storica ha caratteristiche particolari, legate all’oggetto proprio della storia (oggetto formale) e dunque ai metodi di indagine. Attraverso esempi storiografici viene illustrata la prospettiva di indagine con cui la ricostruzione storica affronta il tema del paesaggio agrario. Sono infine illustrati alcuni riflessi sulla situazione attuale: conoscere e comprendere la realtà del paesaggio agrario e il suo legame con l’agricoltura ieri come oggi, consente di affrontare in modo più adeguato temi dibattuti, come la problematica estensione del concetto di tutela paesaggistica anche ai paesaggi agrari.
abstract The history of agrarian landscape combines different research perspectives. In this mosaic, historical study has its own peculiarities connected with the specific object of history (formal object) and therefore with investigation methodologies. By references to historiographic examples, this article illustrates the research perspective through which historical study investigates the agrarian landscape. Finally, the article describes some effects on the current context: the knowledge and understanding of agrarian landscape, and its past and present connections with agriculture, allows to tackle more properly some tricky issues such as, e.g., the extension of the notion of landscape protection to agrarian landscape.
parole chiave Storia dell’agricoltura, Paesaggio agrario.
key-words History of agriculture, Agricultural Landscape.
* Università degli Studi di Firenze.
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tra parole e saggi
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Figura 1: La "terra di città": le campagne senesi negli Effetti del Buon Governo in campagna di Ambrogio Lorenzetti (Siena, Palazzo Pubblico, 1339).
Una prospettiva di indagine La pubblicazione della Storia del paesaggio agrario di Emilio Sereni del 1961 rappresenta un tassello di grande importanza per il delinearsi stesso degli studi relativi alla storia delle campagne nel nostro paese. Si trattava di interessi di studio che, se in Italia potevano avvalersi già dei contributi di qualche importante studioso (Bertagnolli, Messedaglia, Imberciadori), in Francia avevano ricevuto sintesi complessive come nel caso di Grand-Delatouche (1950) e di Marc Bloch (1952) e di Duby (1962). Nel nostro paese alla metà del Novecento la storia agraria fu oggetto di nuove attenzioni: proprio il 1961 fu anche l’anno di avvio della «Rivista di storia dell’agricoltura», ideata da
Ildebrando Imberciadori sotto gli auspici dell’Accademia dei Georgofili (Nanni 2012). In quello scorcio di tempo, sulla soglia di un radicale mutamento che sarebbe avvenuto nell’arco di circa un decennio con il massiccio esodo rurale, gli studi non erano certo estranei alle vicende sociali e politiche della penisola e al difficile processo di modernizzazione su cui gravavano eredità storiche contrastanti. Da allora la storia delle campagne ha ricevuto una sempre maggiore attenzione, per le singole epoche e per aree regionali specifiche considerando le peculiarità delle Italie agricole (Cherubini 1989, Zaninelli 1989, Cova 1989). Tornando al paesaggio agrario di Sereni è naturale osservare che, a distanza di anni, molte
conoscenze sul piano storico si sono approfondite per le sintesi complessive tra età antica e Medioevo, età moderna e contemporanea; e per gli studi e le acquisizioni relative a specifici aspetti tecnico colturali, politici ed economico sociali. Ancora sul piano storico sono stati rilevati pregi e limiti del suo studio: ad esempio, l’uso delle arti figurative come traccia per documentare la storia del paesaggio, se offre spunti di grande interesse, si presta tuttavia ad una incerta lettura quando non adeguatamente collocata nei diversi stili iconografici, riflesso di diversi modi di percepire e rappresentare la realtà nel corso dei secoli. Tanto quanto l’impresa di concepire una trattazione di così lungo periodo, se ha offerto una sintesi complessiva, non poteva assicurare contributi
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approfonditi per ogni epoca storica, come ad esempio l’alto Medioevo (Castagnetti 2012). Tuttavia, lo stesso titolo del suo lavoro ha sintetizzato un oggetto di studio specifico mostrandone la rilevanza, sollecitando al tempo stesso ricerche in questa direzione che hanno impegnato studiosi di diverse aree disciplinari, storiche, geografiche, ecologiche ecc. Diverse prospettive di indagine e diversi approcci metodologici intorno ad un tema dalle molte sfaccettature che, a distanza di anni, ha mostrato ancora tutto il suo interesse ma anche le sue problematiche, ad esempio nella stessa definizione geografica di paesaggio (Sereno 1988, Villari 1988). Occorre inoltre osservare che il tema si ripropone oggi sotto nuove sollecitazioni che provengono dalla situazione attuale dell’agricoltura. Le spinte verso un progresso economico e sociale del mondo delle campagne, avvertite seppur secondo diverse chiavi di lettura al tempo dello scritto di Sereni, hanno avuto una parabola per certi aspetti allora imprevedibile. Il settore agricolo all’indomani del secondo conflitto mondiale ricevette particolare attenzione da parte delle politiche nazionali (Riforma agraria) e della stessa Comunità Economica Europea (Marinelli 2002), con l’obiettivo di assicurare analoghe possibilità di sviluppo rispetto al settore industriale. Oggi, al contrario, alle drastiche diminuzioni degli addetti all’agricoltura e dei redditi agricoli corrispondono politiche destinate al cosiddetto «secondo pilastro» delle politiche agricole comunitarie, quello relativo allo «sviluppo rurale», nel quale l’agricoltura rappresenta uno degli interventi, e spesso non il principale, della PAC. In questa luce il mio contributo intende suggerire alcuni elementi di riflessione circa lo studio dal
Paesaggio e Storia
punto di vista storico del paesaggio agrario, o più in generale delle aree rurali, riservando infine alcune considerazioni relative ai riflessi attuali di questo tipo di trattazione. La disciplina storica Le diverse prospettive di indagine disciplinare non rappresentano esclusivamente un complesso di metodi specifici o una specifica griglia interpretativa. Implicitamente o esplicitamente ogni disciplina formula un insieme di domande che esprimono un particolare punto di vista con cui accosta la realtà e le sue varie dimensioni. Per esprimere in termini generali queste osservazioni, condivisibili da ogni approccio disciplinare, potremmo dire che lo stesso oggetto reale viene accostato dalle discipline secondo specifici interrogativi che costruiscono l’oggetto formale, poiché lo stesso oggetto reale manifesterà qualcosa del suo esistere sottoposto a quegli interrogativi (Rigotti Cigada 2004). Per esemplificare, anche a costo di qualche semplificazione, possiamo prendere il caso di un fiume. Come realtà fisica, esso è indagato negli aspetti ambientali che lo caratterizzano: la descrizione del bacino e del territorio di pertinenza (ad esempio geologia, pedologia, orografia) sarà essenziale per comprenderne tratti caratteristici, così come gli aspetti legati al clima. Non sono ovviamente di secondaria importanza lo studio della flora e della fauna presente al suo interno e intorno al suo letto, considerando i momenti di piena e di magra. Quel fiume, tuttavia, non si presenta solo come realtà inscritta in un particolare ecosistema, ma si lega alla presenza di uomini e comunità che esercitano una influenza spesso non
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secondaria. Si può citare il caso dello spostamento del delta del Po all’epoca della centuriazione romana (Forni 2002), così come degli effetti sui bacini idrografici esercitati dalla presenza o assenza di coltivazioni o boschi sui versanti degli stessi affluenti. Agli occhi di uno studioso di fatti economici quel fiume rappresenta un centro di interesse non secondario, legato alla presenza di diverse economie, sia per lo sfruttamento di risorse (acqua, flora, fauna), sia per l’utilizzazione come via di trasporto (fluviale, o fluitazione di legname), o ancora quale forza motrice nel caso dei mulini ad acqua. In campo agrario i fenomeni idrografici e le forme di irrigazione o gestione delle acque sono naturalmente di grande importanza dal punto di vista dei sistemi di coltivazione e degli stessi ordinamenti colturali praticati. Ancora in fatto di gestione, è chiaro che lo studio si allarghi ad aspetti politici e giuridici, come le forme di controllo e dominazione, o la realizzazione, mantenimento e controllo di ponti e attraversamenti per uomini, animali o beni commerciabili. Senza contare che quei ponti, così come gli edifici legati alla presenza e alle attività umane, interessano studiosi di ingegneria o di architettura. Proseguendo in questa linea, non si dovrà nemmeno trascurare il fatto che quel fiume è stato percepito e rappresentato nelle diverse forme artistiche, letterarie e figurative, offrendo così elementi di conoscenza che travalicano nel campo della cultura e della civiltà, per giungere fino alla dimensione religiosa dell’esistenza. Se il punto di vista di un geografo – senza addentrarci nelle diverse specificazioni fisiche, umane e politiche di questa disciplina – tenderà a considerare in sintesi tutti questi elementi, la dimensione storica (l’evoluzione nel tempo) non sarà secondaria per collocare nel tempo quel fiume,
tra parole e saggi
le trasformazioni avvenute e i segni permanenti o provvisori lasciati nel corso di epoche diverse. Tuttavia, neanche discipline più specifiche che indagano gli ecosistemi possono trascurare l’evolversi nel tempo di una realtà viva: non solo l’archeologia ricerca reperti e tracce del passato, ma anche, ad esempio, l’archeobotanica o l’archeozoologia applicate a tracce vegetali o animali. Tanto quanto anche le discipline umanistiche si interessano di rappresentazioni e percezioni che, oltre ai diversi connotati stilistici, ricostruiscono aspetti della cultura e della civiltà. La dimensione storica appartiene dunque ad ogni indagine e i risultati provenienti da studi sul passato sono ovviamente utilizzati da ognuna di quelle discipline. Insorge a questo punto una domanda: la disciplina storica rappresenta solo il metodo di reperimento di notizie e fatti del passato, oppure interpreta un modo di vedere la realtà, del passato o del presente?
Figura 2: L'abbandono delle campagne Cinquanta (Montefioralle, Chianti).
negli
anni
Per affrontare questo interrogativo citerò il caso di un importante studio di un noto storico che fece non di un fiume, bensì di un mare, l’oggetto del proprio studio: mi riferisco al Mediterraneo di Fernand Braudel in La Mediterranée et le monde méditerranéen à l’époque de Philippe II (1949). E proprio a partire da questo caso, al fine di evidenziare il quid della conoscenza storica, citerò un’osservazione di Ernesto Sestan relativa alla contrapposizione storiografica tra «storia degli avvenimenti» e «storia delle strutture» (Sestan 1991). Pur apprezzando le geniali ricostruzioni di Braudel, quelle strutture geografiche e naturali che, scriveva, «riflettono esattamente la realtà del tempo e concorrono al completamento di un quadro descrittivo», le giudicava tuttavia troppo «immobili», «neutre rispetto alla vita in atto», reclamando il ruolo ineliminabile dei «detestati avvenimenti». E chiariva queste sue valutazioni proponendo non tanto diversi schemi interpretativi o riflessioni ermeneutiche, ma puntuali domande che insorgono di fronte a quella realtà descritta: «perché, per mezzo secolo, Filippo II è infaticabile nella lotta contro l’Islamismo?», oppure «l’aver perso Cipro né aver saputo riprenderla dopo Lepanto, non influì sulle strutture economiche e politiche dello stato veneziano? Non si ripercosse anche sulla mentalità politica veneziana, non la predispose a una politica del piede di casa, della bilancia prima, della neutralità assoluta poi?» (ivi, p. 87). La storia dunque non si identifica mai con una mera descrizione, sia essa geografico ambientale o economico sociale; la storia, o il senso della conoscenza storica, si colgono in quei perché, quegli interrogativi che riguardano la vita in atto; e che come tali germinano nel ricercatore di fronte alla realtà storica indagata. E se quelle implicazioni
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ricercate – nessi tra fatti particolari e contesti generali, trama di relazioni – fondano le proprie evidenze su certezze reperite per via argomentativa non dimostrativa – lavorando sulla pertinenza di eventi, sulla rilevanza dei casi trattati, sulla attendibilità della ricostruzione – ancora la capacità argomentativa rappresenta una leva essenziale nella comunicazione storica (Rigotti Greco 2008). Anche gli storici, in un certo modo, divengono testimoni di ciò che studiano, traducendolo in modo accessibile ai propri contemporanei. Il paesaggio agrario come oggetto storico Nel quadro delle ricerche storiche il paesaggio agrario non risulta solo come elemento di contorno. Non lo è perché esso rappresenta la risultante di una integrazione tra ambiente e storia che appartiene alla realtà viva, oggetto della storia. E neppure costituisce aspetto marginale per una ricostruzione storica complessiva. Non è certo passata invano la lezione di Vito Fumagalli, il quale, pur trattando di epoche avare di fonti documentarie come l’alto Medioevo, ha dedicato ampie pagine al paesaggio, per un motivo ben preciso: «mi è sempre stato difficile immaginare gli uomini non collocati in un territorio, rurale o urbano» (Fumagalli 1989, p. 7). Così come Giovanni Cherubini nei suoi studi a carattere rurale, non ha mai separato i problemi generali o la ricostruzione di particolari realtà storiche, senza aprire lo sguardo su ciò che gli uomini di epoche lontane potevano vedere o percepire, ad esempio nelle remote aree dell’Appennino o nel suo Casentino (Cherubini 1972, 1992).
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La prospettiva storica si avvale dei contributi provenienti da altri ambiti disciplinari per lo studio dell’ambiente, dall’archeologia alle acquisizioni delle scienze naturali, dallo studio del clima alle conoscenze tecnico agronomiche. Ma nel quadro di una ricostruzione del paesaggio la storia non può esimersi dall’inoltrarsi alla ricerca di realtà materiali e immateriali che tramano la stessa costituzione di territori e paesaggi, tra ambiente e storia di uomini e società. In un certo senso si tratta di quella dimensione razionale che Aldo Sestini reclamava molti anni fa nella definizione di paesaggio geografico, distinguendo il «paesaggio geografico sensibile» dal «paesaggio geografico razionale» (Sestini 1963). Con il termine «razionale» indicava non soltanto gli elementi visibili, ma anche quelli invisibili che tuttavia spiegano ciò che si vede, come la presenza di strutture economico agrarie senza le quali non esiterebbero particolari forme di popolamento, o forme funzionali di case rurali. L’osservazione e la ricostruzione storica del paesaggio agrario, dunque, non può limitarsi a mere descrizioni di forme o tipi del passato, ma richiede di spiegare quelle forme o quei tipi nel loro contesto: strutture agrarie, proprietà e conduzione dei terreni, ordinamenti colturali, integrazione o separazione tra agricoltura e zootecnia, tecniche praticate, utilizzazione del bosco e degli incolti. Un quadro generale in cui confluiscono anche le relazioni tra aree rurali e urbane, sia economiche, come la rete di circolazione dei prodotti, sia politiche, come le forme dirette o indirette di dominazione. E neppure non si devono dimenticare le condizioni di vita materiale come la nutrizione, o quelle immateriali come la percezione del vivere e le relazioni tra gli uomini. Del resto, quando il comitato scientifico della «Rivista di storia dell’agricoltura» dell’Accademia dei Georgofili avviò
Paesaggio e Storia
la realizzazione della Storia dell’agricoltura italiana (AAVV 2002), l’obiettivo di realizzare un’opera di lungo corso (dai primi abitatori allo sviluppo recente) leggibile in senso verticale portò ad individuare sette capitoli che si ripetono nei singoli tomi (oltre ad approfondimenti specifici per le singole epoche): 1. Popolazione, popolamento, sistemi colturali, spazi coltivati, aree boschive e incolte; 2. Colture, lavori, tecniche rendimenti; 3. L’allevamento; 4. L’uso del bosco e degli incolti; 5. La proprietà della terra, i percettori dei prodotti e della rendita; 6. La circolazione dei prodotti; 7. Il sapere agronomico. Attraverso questa griglia la realtà storica delle campagne italiane è emersa nel suo complesso, mostrando continuità e discontinuità, tratti comuni e diversificazioni sino a collocare nel loro contesto storico gli stessi paesaggi agrari. Ancora sul piano delle esemplificazioni, la storia delle «Italie agricole» ha una sua data d’origine. La comune eredità romana, che la nostra penisola condivide con gran parte dell’Europa e del Mediterraneo, ebbe con l’avvento del fenomeno comunale nell’Italia centro settentrionale un punto di discrimine. Si tratta di quelle città che avevano tale titolo in quanto possedevano autonomie di governo (città-stato) e la presenza di sedi episcopali. A questo si aggiungevano altri connotati, che potevano essere condivisi con altri centri urbani definiti col termine «terra» ma che città non erano, come la densità demografica, le attività manifatturiere e commerciali, la stratificazione professionale e sociale. La distinzione tra città e non città viene spesso trascurata, come ad esempio nel caso di Prato in Toscana che, sebbene avesse una concentrazione demografica paragonabile ad altre città toscane, non aveva titolo di città nel Medioevo. Si
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commettono così gravi errori sul piano storico critico – poiché definire una realtà in modo non corrispondente alla percezione degli uomini dell’epoca è una mistificazione –, che poi non permettono di comprendere la rilevanza e l’incidenza di particolari aspetti delle vita civile e delle stessa percezione politica dei loro abitanti. Ora, quel fenomeno cittadino dell’Italia centro settentrionale rappresenta una anomalia nel contesto della penisola e del resto dell’Europa, per precocità di sviluppo e affermazione; e per un complesso di caratteristiche politiche, economiche e culturali che si riflettono anche nel particolare rapporto con la campagna: come ad esempio la Toscana «terra di città» (Cherubini 1991). Tali eventi hanno stabilito un diverso destino rispetto alle monarchie del Mezzogiorno fin dai secoli dopo il Mille; un percorso i cui riflessi si sono protratti fino a età contemporanea. Comprendere il fenomeno è di fondamentale importanza per cogliere le diverse strutture economico agrarie, più marcatamente orientate in senso imprenditoriale produttivo al centro nord (si pensi alla cascina lombarda o alla mezzadria toscana); e dunque anche gli specifici paesaggi agrari. Dal punto di vista storico, dunque, è essenziale l’inscindibile legame tra agricoltura e ambiente, o tra agricoltura e storia, all’origine dei paesaggi agrari; tanto quanto quello studio dei paesaggi è documento per lo studio delle vicende storiche generali. La stessa ricostruzione delle tradizionali pratiche di sistemazioni collinari o di pianura, delle forme di allevamento delle coltivazioni arboree o delle pratiche di rotazione di quelle erbacee, non può trascurare le trasformazioni avvenute nel tempo, le loro cause e i loro effetti, prestando sempre attenzione alle eccezioni che articolano la realtà storica.
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scardinanti» della storia d’Europa alla fine del Medioevo e i loro effetti sul paesaggio: l’invasione mongola, la caduta di Bisanzio, la reconquista, la Guerra dei Cent’anni, l’avanzata tedesca a oriente, le crisi demografiche. Si tratta di esempi di quella prospettiva di indagine storica che ricostruisce oggetti storici specifici, realtà colte nel loro esistere nella storia non solo negli aspetti esteriori.
Figura 3: Dalle tradizionali forme di coltivazione consociata alla specializzazione negli anni Sessanta (Chianti).
In un recente convegno su Agricoltura e ambiente tra tarda antichità e alto Medioevo (Nanni 2012b) è stato ampiamente mostrato come la storia del paesaggio, pur avvalendosi di acquisizioni provenienti dalle scienze naturali (Delogu 2012), non può essere disgiunta dalla storia degli uomini e delle società che vi hanno operato, tra condizionamenti e scelte intraprese. E ancora a confermare questa prospettiva, può valere il riferimento al prossimo convegno internazionale del Centro Italiano di Studi di Storia e d’Arte (Pistoia 2013) sul tema I paesaggi agrari d’Europa (secoli XIII-XV). Anche in questo caso, le trattazioni relative alle economie rurali e alle tecniche, alla campagna dentro e intorno alla città e alle rappresentazioni del paesaggio, saranno precedute da un’ampia sessione dedicata agli «eventi
Figura 4: Tradizionali sistemazioni collinari terrazzate con coltivazione consociata e nuove coltivazioni specializzate della vite (Chianti, 2007).
Paesaggi agrari e agricoltura Vorrei concludere queste considerazioni evidenziando alcune ricadute nel contesto attuale. I paesaggi agrari «tradizionali» rappresentano oggi un tema di diffuso interesse, sovente affrontato al fine di conservare, se non addirittura ripristinare, quelle sembianze del passato. Dal punto di vista
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storico, tale atteggiamento pone un duplice problema. Considerando le trasformazioni che i paesaggi agrari sempre hanno avuto nel corso della storia, sebbene con intensità diversa, su quali basi si identifica il modello tradizionale? Neppure nelle campagne toscane la mezzadria con la sua coltivazione consociata ha avuto una diffusione omogenea in tutta la regione, convivendo con diverse forme di conduzione e diversi ordinamenti colturali tra pianura, collina e montagna (Nanni 2012c). In secondo luogo non va dimenticato che si è trattato di intraprese economiche a fini produttivi, tra autoconsumo e commercializzazione: se private di tale componente economica possono esistere solo in forma museale. Inoltre, a fronte di nuove attenzioni rivolte alla tutela del paesaggio, va rilevata la tendenza ad includervi indistintamente anche i paesaggi agrari. Anche in questo caso la storia dovrebbe indurre a considerare con maggior attenzione il problema, soprattutto quando si fa leva sul dettato costituzionale. È ben noto che la Costituzione italiana è stata frutto di una mediazione politica inserita nella storia. Non appare necessaria conseguenza della tutela del paesaggio la sua applicazione ai paesaggi agrari, a fronte dell’art. 44 che sancisce il «razionale sfruttamento del suolo», un articolo che muoveva da finalità economico produttive per il settore agricolo, avvertite come priorità dall’Assemblea costituente (Simoncini 2008). La storia induce a non separare i fenomeni dal senso che essi veicolano, per una corretta comprensione dei termini che consentono di affrontare problemi in atto o operare scelte nel rispetto delle responsabilità di imprese private, istituzioni e amministrazioni pubbliche. L’agricoltura è attività di impresa finalizzata a
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produrre un reddito; ed è la sua esistenza come tale a esercitare quel ruolo multifunzionale che include dimensioni economiche, sociali e ambientali (Scaramuzzi 2003, 2012). Fatta salva la tutela ambientale (che è cosa diversa dal paesaggio), non si può privare l’agricoltura della possibilità di adottare quelle innovazioni finalizzate a mantenere una competitività, secondo scelte che appartengono al rischio d’impresa come sempre è avvenuto nella storia. Diversa può essere l’azione di istituzioni o enti pubblici che possono realizzare musei a cielo aperto o altre iniziative che hanno carattere culturale. Possono destare diverse valutazioni i nuovi paesaggi viticoli della Toscana; ma non si può dimenticare che quella attività produttiva ha mantenuto l’utilizzazione agricola di superfici che altrimenti sarebbero, anzi già lo erano negli anni Sessanta, destinate all’abbandono. In conclusione la storia è un modo di conoscere la realtà viva del passato e del presente. In questa sua forza argomentativa sta anche il suo contributo civile. Non credo che siano gli storici a dover formulare modelli predittivi per il futuro: possono tuttavia portare il proprio contributo per comprendere le dimensioni dell’esistere nel tempo, ieri come oggi.
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Testo acquisito dalla redazione nel mese di gennaio 2013. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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Il paesaggio agrario come componente del giardino storico e il giardino storico come parte del paesaggio agrario: aspetti produttivi e caratteri costruttivi e percettivi da analizzare e valorizzare Alberta Cazzani*
Il paesaggio agrario come componente del giardino storico e il giardino storico come parte del paesaggio agrario
The agricultural landscape as a component of the historic garden and the historic garden as part of the agricultural landscape: productive aspects and perceptive and constructive features to analyze and valorize.
abstract Nel giardino storico la funzione ornamentale era sempre connessa a quella utilitaria, con orti, frutteti, aree agricole e boschi inseriti nella composizione del sito. Come evidenziò anche Emilio Sereni il paesaggio agrario era inserito nel giardino e allo stesso tempo il giardino era parte del ben progettato e disegnato paesaggio agrario italiano. La perdita delle funzioni produttive del giardino, sempre più considerato prevalentemente per il suo ruolo ricreativo/decorativo e la trasformazione del paesaggio agrario, abbandonato o alterato da modernizzazioni ed edificazioni, hanno modificato profondamente i caratteri costruttivi e percettivi del giardino storico. Il contributo riflette su tali trasformazioni paesistiche e sulle possibili strategie di tutela e gestione per la valorizzazione e riqualificazione delle componenti produttive del giardino e delle relazioni funzionali e visive giardino/paesaggio.
abstract In historic gardens the aesthetic/ornamental function was always connected to the productive one, with vegetable gardens, orchards, woods and agricultural areas inserted in the site composition. As Emilio Sereni observed, agricultural landscape was in the garden and at the same time the garden was part of the well designed Italian agricultural landscape. The loss of productive functions in the garden, now considered more for its decorative and recreative role and the transformation of the agricultural landscape, often abandoned or altered by modernization and building development, have significantly changed constructive and perceptive features of historic gardens. This paper considers these landscape transformations and the possible preservation and management strategies to valorize and rehabilitate the productive components of the gardens and the functional and visual relationship between gardens and landscape.
parole chiave Giardino storico, paesaggio agrario, utilità, visuali, conservazione.
key-words Historic garden, agricultural views, preservation.
* Politecnico di Milano.
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landscape,
utility,
tra parole e saggi
“La dilettatione unita con l'utile, devesi, ancorche con qualche spesa, abbracciare” (Tanara 1587, p.211), così Vincenzo Tanara scriveva nel 1587 a proposito del giardino del Principe. Oggi spesso pensiamo al giardino solo come luogo con finalità estetiche e decorative o sito di interesse naturalistico con una funzione ricreativa, dimenticando che esso era invece fin dall’antichità inteso come un luogo di produzione, che garantiva una rendita, oltre che un godimento estetico. La lettura dei trattatisti rinascimentali ben dimostra come la funzione produttiva fosse strettamente connessa a quella estetico-decorativa: Leon Battista Alberti ritiene che è necessario che “la possessione in prima fusse atta a darci tutto quello bisognasse per pascere la famiglia” (Alberti 1433, p.207), per Vincenzo Scamozzi nel 1615 nella progettazione di un giardino bisogna scegliere piante che oltre che belle siano anche utili e produttive, o meglio usare le specie migliori per unire l'utilità del prodotto con la bellezza della pianta: in questo senso agrumi, ulivi e allori erano citati come specie da prediligere in quanto - oltre ad essere sempreverdi e di belle forme - “fanno pretiosissimi frutti e rendono graditissimo odore” (Scamozzi 1615, p.325). Agostino Gallo paragona il giardino a un orto, scrivendo che "Se tutte l'altre arti, o scientie sono state ritrovate, accioche ò giovino al corpo, ò dilettino all'animo, parmi che questa dell'Agricoltura le comprenda inseparabilmente tutte due” (Gallo 1569, p.2) e Bartolomeo Taegio elenca tra i piaceri della vita in villa l'agricoltura e l'uccellagione (funzioni quindi utili): la villa deve essere autosufficiente e produrre al contempo utile e diletto, utile e bello: “Voi volete uccellare, cacciare, pescare, irrigare, seminare, innestare e coltivare il vostro giardino per servizio del corpo...
Gli honesti piaceri della villa sono molti, pur fra gli altri vi laudo la caccia, la pescaggine, l'uccellare e l'agricoltura” (Taegio 1559, pp.140, 142). Nel giardino di impianto formale quindi l'utile era strettamente unito al bello e si dovevano usare piante utili che possibilmente presentassero anche qualità estetiche (frutteti a comparti, agrumi in vaso o in spalliera, piantagioni di erbe aromatiche, 1 aiole ad ortaggi) . Tra le specie produttive e belle, riprese dal “giardino mediterraneo” che caratterizza il paesaggio agrario italiano, gli agrumi svolgono sicuramente un ruolo molto importante nei parchi storici, sicuramente già nel XV secolo, dato l'elevato interesse decorativo (piante sempreverdi, ricchi di fiori e frutti intensamente profumati), oltre che per l’importanza produttiva e medicinale (significativa fonte di vitamina C), tanto che dal XVIII secolo il loro impiego risulta componente essenziale nella composizione del sito: ogni giardino vede la fondamentale presenza di agrumi, considerati sinonimo di ricchezza, ornamento e 2 bellezza . In proposito Paolo Bartolomeo Clarici sottolinea l'importanza degli agrumi nell'impianto di un giardino, indispensabili elementi decorativi, ritenendo che anche il migliore di essi, senza agrumi avrebbe perso interesse in quanto “decade manifestamente nella sua nobiltà, e lo spettatore ritrovandolo mancante del più durevol suo adorno, ne condanna l'inopia...” (Clarici 1726, p.593). Risultava naturalmente rilevante anche l'impiego di elementi architettonici: l’impianto, intensamente costruito, è spesso caratterizzato da terrazze, scalinate monumentali, prospettive scenografiche, teatri di verzura, balaustre, ninfei, fondali, nicchie, grotte, vasche e fontane ed è solitamente arricchito da altri elementi decorativi e d'arredo quali statue, vasi con alberi o fiori di particolare pregio.
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Figura 1. Utile e diletto nel giardino storico: comparti e spalliere con agrumi e alberi da frutto, aree agricole e boscate nel giardino della villa medicea di Castello a Firenze, dipinto di Giusto Utens, 1599.
Figura 2. Il giardino di Castello a Firenze oggi: si nota la presenza di agrumi in vaso - di numerose e pregiate varietà - e di alberi da frutto nani, di recente recuperati con uno scopo storico-botanico-documentario più che produttivo.
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Strettamente connesso è anche il bosco, il “selvatico” come denominato in Italia Centrale, inserito nell'impianto con la funzione di garantire zone ad ombra fitta e quindi frescura e riparo dal sole. Il bosco viene specificatamente progettato per poter essere fruito e goduto: attraversato da percorsi spesso sottolineati dalla presenza di viali alberati, di statue ed elementi decorativi, presenta radure, aree di sosta, belvedere, grotte. La sua funzione è anche produttiva: legname, frutti, rifugio per la selvaggina e quindi luogo in cui veniva praticata la caccia o in cui si allevavano animali selvatici. Numerosi sono gli esempi che si potrebbero fare di giardini di origine cinque-seicentesca di impianto formale con componenti produttive strettamente legate a quelle decorative: con riferimento alla Lombardia si ricordano ad esempio il parco del palazzo Borromeo a Cesano Maderno, dove prati, seminativi e boschetti si alternavano a parterre con agrumi in vaso e fiori, oppure il giardino della villa Dalla Porta Bozzolo a Casalzuigno dove i terrazzamenti della prospettiva monumentale erano destinati a frutteto e dove un vigneto occupava l'ampio teatro vegetale, avendo come fondale un pendio terrazzato trattato a bosco. In alcuni casi - sempre riferendosi a esempi lombardi - il giardino era inteso prevalentemente come luogo di produzione e comprendeva le diverse tipologie di paesaggio agrario locale: ad esempio nel caso del palazzo Vertemate a Piuro, in Valchiavenna, di origini cinquecentesche, dove il giardino è costituito dalla sommatoria di componenti paesistiche tipiche del luogo: il castagneto, il frutteto, l'orto e il vigneto risultano infatti contemporaneamente componenti produttive e decorative; o il giardino del palazzo BettoniCazzago a Bogliaco di Gargnano, sul lago di Garda,
Il paesaggio agrario come componente del giardino storico e il giardino storico come parte del paesaggio agrario
che ingloba nella sua composizione il paesaggio gardesano: oliveto, laureto e bosco costituiscono qui la quinta di un giardino formale che è delimitato da monumentali limonaie, serre per la coltivazione degli agrumi in piena terra, connesse a orti e 3 frutteti .
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Figura 3. Veduta di Piuro del XVII secolo, particolare del palazzo Vertemate e dell’annesso parco, recintato. Sono ben riconoscibili le componenti decorative e utilitarie: il giardino formale nelle adiacenze del palazzo, il frutteto (sulla sinistra), la zona dei rustici (sulla destra), il castagneto (sul retro) e, davanti, l’orto-giardino (in cui sono rappresentati gli agrumi in vaso e in spalliera) e il vigneto. Figura 4. Palazzo Vertemate di Piuro (SO): vista attuale del giardino formale-orto con prevalente interesse decorativo e del vigneto di recente ripiantato e mantenuto da una fondazione di ricerca e gestione agricola locale per la produzione di vino di alta qualità.
Non si possono non citare in proposito anche i ben noti giardini delle Ville Medicee, simbolo del giardino rinascimentale, dove impianti regolari distribuiti su terrazze suddivisi in comparti definiti da siepi di bosso vedono un significativo impiego di agrumi, coltivati in spalliera o in vaso e di alberi da frutto nani. La funzione produttiva di tali piante utili si associava al valore estetico-decorativo e alla passione della famiglia Medici per ricercare e collezionare quante più possibili varietà rare ed eccezionali. Emilio Sereni nella sua descrizione del paesaggio agrario italiano si sofferma proprio su tali giardini medicei, considerando come il “bel paesaggio” toscano del Rinascimento sia la componente fondamentale del giardino, infatti: “La villa italiana del Rinascimento è dapprima, sia pure in questo privilegiato esclusivismo delle classi dominanti, quello stesso bel paesaggio agrario” descrivendo poi come “in una splendida dimora, quale è la villa medicea di Cafaggiolo” si notino boschi e poderi e “campi a cultura, quella stessa sistemazione a porche, che abbiamo già notata come caratteristica per il paesaggio agrario della Toscana e che sembra imprimere a tutte le forme della villa
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medicea il suo ritmo di simmetrica semplicità” (Sereni 1961, pp.191-192).
allineamenti delle alberature, il digradare delle terrazze a giardino” (Sereni 1961, p.193).
Figura 5. Iconografia dè Beni Stabili dè Signori Fratelli Bettoni di Bogliaco, Pertinenze di Bogliaco e Viavetro, cabreo di Giovanni Battista Nolli del 1725, riferito al palazzo Bettoni-Cazzago di Bogliaco di Gargnano (BS), al giardino retrostante e ai terreni agricoli annessi. Si nota come il monumentale palazzo e il giardino di impianto formale siano strettamente connessi alle caratteristiche limonaie gardesane e a oliveti, vigneti, laureti e boschi cedui.
Figura 6. Vista del complesso del giardino BettoniCazzago oggi: l’impianto storico è ancora conservato, ma le componenti produttive risultano sottoutilizzate e parzialmente abbandonate. In particolare si nota - non più in uso dal Dopoguerra e in stato di degrado - una delle monumentali limonaie adiacente alla prospettiva architettonica.
Sereni evidenzia anche come nel tardo Rinascimento l’aspetto produttivo del giardino si riduca, dato che l’aristocrazia tendeva a privilegiare gli aspetti di ozio e di svago, e dalla fine del Cinquecento e nel Seicento “nelle maggiori ville, le grandiose costruzioni” del centro Italia si notano “le rigide ma fastose simmetrie del “giardino all’italiana”: dalle sue origini agrarie e utilitarie, questo “bel paesaggio” non conserva che gli appezzamenti e le aiuole ben squadrate, i regolari
Nel rapporto utile/diletto una situazione differente viene rilevata sempre da Emilio Sereni con riferimento al Veneto che contava un numero davvero elevato di ville: 332 già costruite nel XVII secolo, cui se ne aggiungono altre 403 nel XVIII secolo e ancora 137 nella prima metà dell’Ottocento. Infatti: “la grande villa signorile veneta, dalla seconda metà del Seicento a tutto il Settecento e poi nell’Ottocento, non è più solo un luogo d’ozio e di svaghi, ma diviene il centro di una vera e propria azienda agraria signorile, nella quale gl’investimenti di capitali non si profondono solo nelle fastose costruzioni o nell’elaborato intrico di
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giardini, ma vanno anche, e sempre più largamente a vere e proprie opere di trasformazione di colonizzazione agraria, allo “svegramento” di terre incolte ed a piantagioni arboree e arbustive utilitarie, ad opere di derivazione di acque e all’impianto di nuovi poderi” (Sereni 1961, p.288). La villa-giardino come fulcro di una attiva impresa agricola dal Veneto si diffonde in altre regioni: infatti “in Piemonte, in Lombardia, in Liguria e in Sicilia – come nella Venezia – la seconda metà del Seicento e tutto il Settecento segnano l’epoca della fioritura di grandi ville signorili che, se servono agli ozi e allo svago dell’aristocrazia cittadina, cominciano ad assumere anche qui una notevole importanza come centri di investimenti capitalistici nell’economia terriera e come centri di riorganizzazione del paesaggio agrario in grandi aziende padronali” (Sereni 1961, p.289). Si può quindi ritenere che le componenti produttive - in misura più o meno consistente - abbiano sempre caratterizzato gli impianti dei giardini storici che talvolta risultavano veri e propri centri di aziende agricole e di conseguenza elementi generatori del paesaggio agrario circostante. Anche i grandi parchi barocchi di ispirazione francese, se è vero che allontanano le componenti produttive dai loro impianti scenografici, sono tuttavia consentiti e supportati da una importante ricerca agronomica: valga per tutti il Potager du Roi che Jean de La Quintinie allestisce per Luigi XIV a Versailles e che costituisce in quei tempi uno dei più importanti centri di sperimentazione d’Europa in questo campo. Sulla stretta correlazione tra utilità e diletto anche nel giardino barocco risulta fondamentale la testimonianza di Dezailler d’Argenville, che, nel suo trattato, ricorda che è pur vero che “i boschetti
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costituiscono il valore principale dei giardini e valorizzano tutte le altre parti al punto che non se ne piantano mai abbastanza, [ma questo è vero] purché il luogo che è loro destinato non occupi per nulla quello degli orti e dei frutteti che sono cose necessarie e utili a una grande casa...” (Dezailler d’Argenville 1709, p.790). Con la diffusione nel corso del XVIII e XIX secolo del parco paesistico, risultato di un progetto di imitazione del mondo naturale - dove la disposizione degli alberi apparentemente irregolare e casuale, deve invece sottostare a precise regole per permettere vedute, scorci prospettici ed effetti scenici - aumenta il rapporto tra giardino e paesaggio: il sito non ha più confini, ma ingloba il paesaggio circostante. Il progetto paesistico frequentemente coinvolge spazialmente e funzionalmente il territorio circostante (e in particolare le aree agricole e boscate) e privilegia alcuni rapporti visuali anche di lunga distanza: vedute panoramiche verso monti, o laghi, viste verso architetture particolari o verso scorci urbani che venivano letteralmente inglobati come veri e propri fondali scenografici della composizione. Anche in questo impianto le componenti produttive (costituite nella maggioranza da pascoli e boschi) risultavano connesse a quelle estetiche-decorative. Agli inizi del XIX secolo molti trattatisti insistono ancora sull’importanza delle componenti produttive nell’impianto di un parco paesistico: ad esempio Ercole Silva, che con il suo trattato Dell’arte dei giardini inglesi introduce in Italia il gusto per il parco paesistico, sottolineandone i pregi e le spese di manutenzione ridotte rispetto a quelle dei giardini formali, scrive che “Gli alberi e gli arbuscelli forniscono legna con i rami
Il paesaggio agrario come componente del giardino storico e il giardino storico come parte del paesaggio agrario
Figura 7. Tipo dimostrante il Parco unito alla Cesarea I.R. Villa presso Monza nello stato in cui dovrebbe essere ridotto, planimetria di progetto firmata da Luigi Canonica, 1808. Lo spazio venne razionalmente disegnato, definendo il parco paesistico con percorsi e viali regolari per connettere le aree coltivate (prati, seminativi, vigneti, gelseti, frutteti), quelle boscate, le aree ad impianto naturale annesse al fiume Lambro e le porzioni progettate secondo i canoni del giardino all’inglese nelle vicinanze della Villa Reale. I caratteri percettivi, con lo studio di coni ottici e viste prospettiche, risultano attentamente definiti per fornire al fruitore/visitatore del parco suggestive vedute sui diversi paesaggi che componevano questo complesso e sul paesaggio agrario e naturale circostante.
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superflui, e danno una quantità di rampolli da piantarsi altrove, o da vendersi. I verdi tappeti danno fieno. Havvi un maggior risparmio di viali e spazi coperti di sabbia. Ne’ vasti recinti non si guastano campi, nè praterie. I boschi non vi perdono nulla della loro utilità, benchè un sano discernimento li cambia in luoghi di delizia”. E ancora: “taluni dei parchi inglesi... sono quanto di più fino e di più speculato è forse stato trovato finora nell’arte di unire l’utile al dolce e di saper trarre profitto da ogni circostanza e oggetto” (Silva 1801, pp.299, 303). Ancora John Claudius Loudon, descrivendo in un suo trattato del 1806 il giardino paesistico, insiste sulla compresenza degli aspetti decorativi e utilitari: ornamento e utilità sono i postulati di ogni parco: "The different purposes for which plantations are made may be comprehended in two general division, ornament and utility" e ancora sostiene che "the requisite qualities of a country residence are utility, convenience and beauty", sottolineando l'importanza economica, oltre che estetica dei boschi e delle aree agricole (Loudon 1806, pp.453, 14). Anche nei siti di impianto paesistico si nota dunque la compresenza di funzioni decorative e produttive e un significativo rapporto con il paesaggio agrario circostante: risulta in tal senso un esempio assolutamente emblematico il progetto del 1808 di Luigi Canonica per il vasto Parco Reale di Monza in cui sono presenti un giardino di impianto formale (precedentemente disegnato da Giuseppe Piermarini), un parco paesistico (con laghetto, tempietto, architetture decorative, prospettive) e una vasta porzione di territorio brianteo comprendente aree seminative, vigneti, frutteti, gelseti, oltre a vaste porzioni a bosco, utilizzate come riserva di caccia (caccia che veniva praticata
anche per mezzo di un grande roccolo impiantato nella porzione centrale del parco) e ad aree di interesse naturalistico lungo le sponde del 4 Lambro . Nello specifico risulta importate la presenza del fiume Lambro che attraversa il parco: si tratta di un elemento qualificante del paesaggio, fonte di energia per i numerosi mulini e riserva d'acqua per cascine e giardini. Nella progettazione del parco si tenne certo conto della favorevole circostanza della locale abbondanza d'acqua: non solo il Lambro venne intensamente sfruttato, come documentano le molteplici chiuse e rogge presenti, ma anche le numerose sorgenti ubicate in prossimità dell'alveo. Questo territorio, cui il Canonica riconosce una fondamentale importanza paesistica nella composizione complessiva, viene in parte riprogettato dall'architetto e “legato” alle componenti con funzione principalmente decorativa per mezzo di strade, viali alberati, prospettive vegetali e scorci prospettici. Il valore storico del Parco di Monza consiste dunque nel suo essere un vero e proprio museo del paesaggio lombardo: giardino barocco e giardino romantico, zone irrigue della valle del Lambro, aree boscate pre-collinari e soprattutto numerose porzioni destinate alla caccia, all'allevamento e all'agricoltura con zone agricole sperimentali, vivai, collezioni botaniche, frutteti, vigneti. Tutto era inglobato in un sistema unitario con una sua precisa architettura e con un progetto di gestione ad essa strettamente connesso. Oltre che luogo ricreativo e di svago il parco è infatti stato concepito da Luigi Canonica come un'azienda agricola economicamente produttiva e luogo di sperimentazione botanico-scientifica al punto che fino agli inizi del Novecento il parco si autogestiva, risultando un'azienda agricola
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autosufficiente, in quanto gli introiti derivanti dalla lavorazione dei campi e dalla gestione dei boschi compresi nel parco servivano per gestire le porzioni decorative del sito stesso. Va anche rilevato che i caratteri percettivi, con lo studio di coni ottici e viste prospettiche, risultavano attentamente definiti per fornire al fruitore/visitatore del parco suggestive vedute sui diversi paesaggi che componevano questo complesso e per aprire scorci sul paesaggio agrario e urbano che circondava il sito. Con l'abbandono della Villa Reale da parte dei Savoia agli inizi del Novecento si è interrotta tale forma unitaria di governo e ciò ha portato al frazionamento della proprietà tra diversi fruitori e l'inizio di un rapido processo di trasformazione e degrado. Diversi eventi nel corso dei primi decenni del XX secolo hanno comportato considerevoli modifiche per l’assetto e i criteri di governo del parco: frazionamenti di proprietà, l’inserimento di nuove funzioni - quali l’autodromo, l’ippodromo, il campo da golf e altre strutture sportive e al servizio del pubblico – non compatibili con l’impianto storico, l’abbandono di ampie porzioni di aree agricole, l’aumento del livello di inquinamento del fiume Lambro, la trasformazione del sistema idrografico (rogge che scompaiono o vengono disattivate, sorgenti che inaridiscono), l’urbanizzazione e l’industrializzazione limitrofa hanno alterato irreversibilmente il parco e il suo rapporto con il paesaggio circostante. Gli aspetti produttivi sono nella maggior parte andati perduti, le aree verdi ad uso pubblico si trovano in uno stato di degrado vegetale e anche i numerosi elementi architettonici costituenti il complesso sono nella maggior parte sottoutilizzati e con problemi di conservazione5.
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Figura 8. Cesano Maderno: Carta topografica dei contorni di Milano riconosciuta sul terreno ed in parte rilevata e disegnata nella proporzionale scala di 1 a 25.000 dall’ I.R. Primo Tenente Ingegnere Geografo Pensionato Giovanni Brenna, pubblicata in Milano nel mese di marzo 1836, particolare del parco Borromeo Arese - caratterizzato da un impianto formale in cui convivevano componenti decorative ed utilitarie - e dei viali che lo congiungevano ad est al Serraglio e, ad ovest, alla struttura venatoria del roccolo, con una notevole connessione con il paesaggio agrario circostante.
Oltre al ruolo produttivo e decorativo del giardino, ossia al fatto che porzioni di paesaggio agrario entrino a far parte della composizione del giardino, risulta anche importante considerare il rapporto – storico e attuale – tra il giardino e il paesaggio circostante. Facendo ancora riferimento al giardino rinascimentale veneto, Margherita Azzi Visentini (Azzi Visentini M., 2003) ne mette in risalto l’impianto architettonico fortemente connesso non solo funzionalmente, ma anche percettivamente al paesaggio agrario circostante: diviso in regolari comparti da una rete viaria esso si inseriva armoniosamente nella trama del territorio agricolo, caratterizzato da filari regolari di alberi e vigneti.
Il paesaggio agrario come componente del giardino storico e il giardino storico come parte del paesaggio agrario
Figura 9 Veduta aerea attuale del parco Borromeo Arese, oggi comunale: l’intensa urbanizzazione di questo paese del hinterland milanese ha completamente cancellato il paesaggio agrario, alterando profondamente i caratteri funzionali e percettivi tra giardino e contesto. Del giardino si sono mantenute e valorizzate le sole componenti decorative-ornamentali.
Il giardino, strettamente legato alla villa, risultava il punto di vista privilegiato del paesaggio agrario circostante e talvolta anche del paesaggio naturale. In proposito va ricordata la descrizione di Andrea Palladio della Rotonda: “Il sito è de gli ameni e dilettevoli che si possono ritrovare: perché è sopra un monticello di ascesa facilissima, et è da una parte bagnato dal Bacchiglione fiume navigabile, e dall’altra è circondato da altri amenissimi colli, che rendono l’aspetto di un molto grande Theatro, e sono tutti coltivati, et abondanti di frutti eccellentissimi, et di buonissime viti: Onde perché gode da ogni parte di bellissime viste, delle quali alcune sono terminate, alcune più lontane, et altre, che terminano con l’Orizonte, vi sono state fatte le loggie in tutte quattro le faccie” (Palladio A., 1570, p.18).
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Se è pur vero che il giardino è spesso delimitato da un confine, da un recinto, che lo separano e proteggono dall’esterno, appare evidente - da quanto si è considerato - che è indispensabile valutare i rapporti che esso ha fisicamente e storicamente instaurato con l’intorno: caratteri ambientali, microclima, sistemi irrigui, rapporti visuali. Le relazioni con il territorio circostante erano in passato programmaticamente pensate come componenti fondamentali dell’impianto, ad esempio - come sopra ricordato - nei giardini delle ville venete che generavano tenute agricole e nei parchi paesistici - come il parco di Monza - dove la compenetrazione tra paesaggio del giardino e paesaggio agrario o naturale circostante era perseguita in una complessa e raffinata operazione progettuale comprendente tutto il territorio. Il giardino storico si connetteva funzionalmente al suo intorno: in particolare la rete di alimentazione o smaltimento delle acque, le strade di accesso al sito, spesso alberate, il sistema agricolo circostante il cui disegno compenetrava nel giardino. L’architettura di un parco spesso quindi non si esauriva all’interno dei confini della proprietà o del perimetro della sua recinzione, in quanto il progetto paesistico frequentemente coinvolgeva non solo spazialmente e funzionalmente il contesto (e in particolare le aree agricole), ma anche percettivamente, definendo rapporti visuali anche di lunga distanza: vedute panoramiche verso monti, o laghi, viste verso architetture privilegiate o verso scorci urbani che venivano letteralmente inglobati come veri e propri fondali scenografici della composizione. Questi rapporti sono spesso ignorati dalla pianificazione e dalla prassi progettuale corrente: le prospettive esterne, il sistema idrografico, la
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connessione ecologica con il paesaggio ancora agrario e l’ambiente naturale circostanti sono largamente trascurati: da qui importanti visuali occluse da banali edificazioni che si sarebbero potute realizzare altrove o in modo più discreto, interruzione o inquinamento delle fonti di irrigazione, alterazione del microclima e/o impedimento dei rapporti di scambio un tempo intercorrenti tra il sito e il suo intorno. La perdita di valore economico delle componenti produttive del giardino - dato l’aumento dei costi di conduzione e la forte riduzione del reddito del prodotto, che non costituisce più una risorsa significativa - ha oggi spesso comportato la sottovalutazione del sistema agrario connesso e al suo conseguente abbandono e/o alterazione (inselvatichimento, sostituzione con altri impianti o funzioni non sempre congruenti, quando non scorporo ed edificazione), con il conseguente impoverimento di molti impianti di giardini storici di cui solo le componenti decorative - cui si riconosce un valore monumentale - sono state conservate. Sarebbe invece importante definire criteri di gestione unitaria, prevedendo interventi di recupero e manutenzione non solo delle porzioni “auliche”, ma anche delle aree agricole o boscate comprese nella composizione originaria del sito. Le stesse prescrizioni di tutela dovrebbero considerare il sito nella sua complessità e non limitare il vincolo - come invece spesso accade - al solo edificio principale e alla porzione di giardino ad esso strettamente connessa. Le componenti architettoniche, produttive e ambientali convivono nel giardino storico a vari livelli di importanza, a seconda delle diverse epoche e delle diverse tipologie di giardino: un approccio corretto allo studio delle problematiche di tutela, conservazione e gestione di queste aree
deve riconoscerle e analizzarle, per coinvolgerle adeguatamente nel progetto di governo del giardino che non potrà che avere un approccio pluridisciplinare per affrontare al meglio le diverse 6 tematiche coinvolte .
Figura 10. Veduta dal settentesco parco della villa Giulini a Lazzago di Como sul paesaggio un tempo agricolo, formante una vasta tenuta nobiliare. Recenti frazionamenti di proprietà cui sono seguite la realizzazione di edificazioni e infrastrutture ad alto impatto hanno completamente e irreversibilmente trasformato la storica relazione con il contesto.
Una sottovalutazione di alcune di queste componenti, sia quelle produttive, sia quelle paesistiche-percettive, ha spesso fatto sì che alcune di esse fossero trascurate oppure scorporate e cancellate attraverso frazionamenti, lottizzazioni o abbandono. Come è evidente, queste riflessioni non hanno valore solo in rapporto alla conoscenza della storia
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del giardino, ma coinvolgono in maniera diretta le possibili politiche di tutela e di governo di queste aree e la definizione di strategie progettuali per siti di nuovo impianto. Da quanto Emilio Sereni descriveva cinquanta anni fa la situazione del paesaggio italiano è certo molto cambiata: negli ultimi decenni in particolare le funzioni produttive del giardino sono state sempre più abbandonate e il passaggio dalla proprietà privata a quella pubblica per molti parchi storici ha certo incrementato tale abbandono. Infatti se già per il proprietario privato la rendita economica proveniente da boschi, frutteti, orti e aree agricole inserite nel giardino è negli ultimi decenni considerevolmente diminuita e il coltivare ha quindi perso di convenienza, per il proprietario pubblico gestire le produzioni orticole o agricole è sembrato poco significativo, rispetto al recupero delle porzioni di maggior valore estetico, volendo fornire alla cittadinanza un verde pubblico con funzioni principalmente ornamentali e ricreative. Il privilegiare la destinazione decorativa e svago dei giardini storici, ha spesso implicato non poche trasformazioni e alterazioni dell’impianto storico con l’inserimento di attrezzature per il gioco e lo sport – anche di notevole impatto – piuttosto che teatri o cinema, o ancora parcheggi, bar e ristoranti, con il risultato che il parco storico è stato riconvertito a verde pubblico, spesso senza rispettare e valorizzare i caratteri architettonici e paesistici preesistenti. La storica relazione giardino/paesaggio – come si è evidenziato – non era solo percettiva, con progettate viste/vedute e modalità di impianto che creavano sistemi architettonici compositivi unitari, considerando la villa e il giardino come il luogo privilegiato da cui godere del paesaggio intorno, ma anche funzionale, in quanto le colture agricole
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contribuivano alla gestione del giardino e spesso entravano nel giardino stesso. Negli ultimi decenni il frazionamento delle grandi proprietà nobiliari, la diminuzione di valore delle attività agricole (soprattutto in prossimità delle aree urbane) e l’aumento dei costi della mano d’opera, hanno completamente modificato tale assetto. Non solo – come già è stato osservato – le componenti produttive del giardino sono state via via abbandonate in quanto non garantivano più una significativa rendita economica, con i costi di manutenzione in molti casi ben superiori ai possibili guadagni, ma anche il paesaggio agrario circostante è stato lottizzato e spesso disordinatamente edificato. Si nota quindi in numerosi siti, storicamente correlati ad ampie porzioni di paesaggio agrario, una forzata relazione, assolutamente non progettata – con le trasformazioni paesistiche avvenute. Si osservano così giardini che si affacciano su nuovi insediamenti residenziali, o circondati da moderne infrastrutture, o talvolta circondati da complessi commerciali o industriali, anche di considerevole impatto. Nella quasi totalità dei casi queste espansioni edilizie non sono state progettate considerando le relazioni visive che si sarebbero venute a creare dal giardino e con il giardino e quindi non si sono definite zone di rispetto e non si sono previsti nuovi margini e nuove viste significative. Da quanto evidenziato scaturiscono alcune considerazioni operative che dovrebbero ispirare gli interventi di tutela e conservazione dei giardini storici e di progettazione dei giardini contemporanei. Risulta importante considerare che la stretta relazione tra mondo agricolo e giardino si è praticamente interrotta e le figure dell’agricoltore e del giardiniere hanno oggi formazione e
Il paesaggio agrario come componente del giardino storico e il giardino storico come parte del paesaggio agrario
competenze ben diverse. Mentre infatti un tempo esisteva un forte interscambio tra manodopera agricola e manodopera impiegata nel giardino, oggi questo avviene solo raramente, anche per il fatto che quasi sempre l’area verde storica non è più connessa alle grandi proprietà agrarie che un tempo ne erano il contesto.
Figura 11. I giardini del castello di Trauttmansdorff a Merano: nella collezione degli 80 ambienti botanici con piante da tutto il mondo si sono anche progettati e realizzati alcuni paesaggi agrari tradizionali dell’Alto Adige, tra cui un vigneto, con finalità musealidocumentarie, ma anche produttive. Tale esempio evidenzia come in un parco di recente esecuzione (inaugurato nel 2001) con finalità scientifiche e ricreative, oggi principale attrazione turistica altoatesina, sia proposto - reinterpretato in chiave contemporanea - il connubio utile/diletto e giardino/paesaggio.
È noto del resto che molti dei prodotti che si potevano raccogliere in un giardino oggi hanno perso di interesse e sono stati sostituiti con beni
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che sono procurabili altrove più facilmente e a minor costo: questo è avvenuto ad esempio per il legname da costruzione o per la legna da ardere, per la produzione frutticola e orticola, per il foraggio, per le piante aromatiche coltivate a scopo medicinale. La produttività economica di un giardino dal punto di vista agricolo è certamente assai diminuita, ma gli spazi verdi hanno acquisito un elevato valore ambientale e ricreativo, oltre che documentario per una grande quantità di cittadini, soprattutto nelle aree densamente urbanizzate e spesso totalmente artificiali delle nostre città. Il ruolo produttivo del giardino deve quindi oggi essere considerato come una risorsa educativaformativa (frutteti didattici, collezioni di fiori o di frutti), scientifica-museale (ricerche varietali di specie storiche e/o locali, tutela della biodiversità, tecniche di coltivazione tradizionali), sociale (orti urbani, orti terapeutici) ed ecologica/ambientale (coltivazioni biologiche, prodotti agricoli a km zero, orti e frutteti in vaso per piccoli giardini e terrazzi): il progetto di conservazione e riuso come il progetto di nuovi impianti deve quindi concentrarsi su queste nuove forme di coltivazioni agricole proprie della società contemporanea. Il governo di un parco storico che produca anche una redditività economica va affrontato considerando le possibili attività culturali-museali, quelle turistiche-ricreative e quelle produttive, valutando le possibili economie di scala e di relazione che si vengono a stabilire. Occorre in tal senso puntare sull’eccezionalità del prodotto per un pubblico che richiede di soddisfare non il proprio fabbisogno quotidiano, ma il proprio accrescimento culturale, la propria curiosità o il proprio divertimento: per esempio si possono proporre collezioni di ortaggi e di frutta di specie botanica
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rara e antica, da conoscere in sito ed eventualmente da acquistare, oppure prodotti tipici del luogo, connessi ad una serie di altri strumenti conoscitivi come pubblicazioni, corsi di formazione, conferenze, visite guidate, attività interattive per coinvolgere al meglio i diversi utenti in un’esperienza complessa e diversificata. Inoltre anche nel giardino di oggi il ruolo produttivo non deve prescindere dal ruolo estetico-decorativo e artistico-sensoriale: tali componenti vanno considerate nella progettazione di orti-giardini e di frutteti-giardini anche di dimensioni ridotte, oppure di parchi in cui sono inserite citazioni del paesaggio agrario e naturale. Risulta in proposito interessante rilevare che in numerosi giardini contemporanei si sono inserite componenti produttive con un ruolo utilitario e anche estetico-decorativo-museale e di 7 8 ricerca scientifica e ancora sociale , a testimonianza di come il connubio utile/diletto possa ancora essere un importante riferimento per le strategie progettuali di siti di nuovo impianto.
in cui si tratta l'Istoria, ed arte di coltivar gli Agrumi, p.593.
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Testo acquisito dalla redazione nel mese di aprile 2013 © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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Riferimenti bibliografici
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Taegio B., 1559, La Villa, F.Moscheni, Milano Tanara V., 1587, Venezia
L’economia del cittadino in villa,
Riferimenti iconografici Figure 1 – 11. Tutte le immagini sono fornite dell’autore.
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Relativamente - nello specifico - ai giardini settecenteschi dell’area milanese, numerose sono, in tal senso le citazioni di Marc’Antonio Dal Re nei Ragguagli del 1722-1743 allegati alle sue vedute di Ville di delizia, palazzi o camparecci dello Stato di Milano, riferite alle piante da frutto collocate lungo i terrazzamenti a spalliera e agli alberi da frutto disposti nei parterre con impianto a quinconce. Si veda in proposito: Dal Re M.A., 1726, Ville di Delizia o siano palagi camparecci nello Stato di Milano divise in 6 Tomi con espressevi le Piante, e diverse Vedute delle medesime incise e stampate da Marc'Antonio Dal Re. Bolognese Tomo I, Milano, - In folio 66 Tavole - 1 vol. e Dal Re M.A., 1743, Ville di Delizia o siano palagi camparecci nello Stato di Milano divise in 6 Tomi con espressevi le Piante, e diverse Vedute delle medesime incise e stampate da Marc'Antonio Dal Re. Bolognese Tomo I, Milano - In folio 88 Tavole - 2 voll. Una scelta tra le due edizioni delle Tavole del Dal Re è stata pubblicata in: Dal Re M.A., 1963, Ville di delizia o siano palagi camparecci nello Stato di Milano, a cura di Bagatti Valsecchi P.F., Il Polifilo, Milano. 2 Relativamente al ruolo e all’importanza degli agrumi nel giardino si veda: Tagliolini A. e Azzi Visentini M.(a cura di), 1996, Il Giardino delle Esperidi. Gli agrumi nella storia, nella letteratura e nell'arte, Edifir, Firenze, e, in particolare relativamente al giardino lombardo, il saggio di Alberta Cazzani, “Industria di grandissima rendita”, “Vaghissimi e amenissimi giardini”: cedri e limoni nel paesaggio storico lombardo, pp.295-323. 3 Per quanto riguarda i giardini del palazzo Vertemate Franchi si rimanda a: Scazzosi L., I giardini di villa Vertemate Franchi a Piuro. Storia e criteri di conservazione; Cazzani A., Il giardino di palazzo Vertemate Franchi a Piuro. Il progetto di restauro e valorizzazione, in: Giusti M.A. (a cura di), 1999, I tempi
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della natura. Restauro e restauri dei giardini storici, Edifir, Firenze, pp.119-144, 145-162 e per il giardino del palazzo Bettoni-Cazzago di Gargnano a: Cazzani A., Il Giardino di Palazzo Bettoni-Cazzago di Bogliaco, paradigma del paesaggio degli agrumi del Garda, in: Cazzani A. (a cura di), 1999, Giardini d’agrumi: limoni, cedri e aranci nel paesaggio agrario italiano, Grafo, Brescia, pp. 21-39 e alla bibliografia in esso citata. 4 Sulle vicende storiche e sulle problematiche di conservazione e gestione del parco di Monza si rimanda in particolare a: de Giacomi F. (a cura di), 1989, Il Parco Reale di Monza, Associazione Pro Monza, Monza, in particolare: Maniglio Calcagno A., La nascita del parco e il suo sviluppo, pp.54-87; Casati P., Il fiume Lambro: chiuse, rogge, mulini e ponti, pp.194-214; Nasini N., Progetti e impianti nel XX secolo, pp.238-257; Cazzani A., Giambruno M, 2003, Le architetture vegetali nel territorio della provincia di Milano: problematiche e potenzialità, pp. 55-131, in: AA.VV, 2003, Le architetture vegetali nel milanese. Parchi, giardini e alberi di interesse storico e monumentale, Provincia di Milano, Quaderni del Piano Territoriale n.22, Guerini e Associati, Milano, in particolare Cazzani A., Parco della Villa Reale di Monza, pp.81-91, Rosa M., Pelissetti L.S.(a cura di), 2009, La villa, i giardini e il parco di Monza nel fondo disegni delle Residenze reali lombarde, Skira, Milano. 5 Risulta in proposito auspicabile che venga presto definito un piano di gestione che dovrà considerare il fatto che questo importante parco, ad uso pubblico, situato all'interno dell'area metropolitana milanese, va considerato, oltre che per le sue potenzialità di documento-museo (che si esprimono nelle emergenze architettoniche e vegetali ancora presenti, recuperabili e da rendere visitabili e comprensibili) anche in quanto polmone verde d'interesse ricreativo, oltre che ecologiconaturalistico e come tale dovrebbe essere vissuto e organizzato con percorsi che permettano al fruitore di cogliere la varietà del paesaggio consolidatosi e, in alcuni casi, l'artificialità del paesaggio stesso. 6 Relativamente alla specificità dei problemi di tutela e conservazione del verde storico si vedano, tra gli altri: Boriani M. (a cura di), 1996, Giardino e Paesaggio.
Il paesaggio agrario come componente del giardino storico e il giardino storico come parte del paesaggio agrario
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La fortuna dei classici
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The wealth of classics
Francesco Pardi*
abstract Quando Sereni nel decennio di preparazione della sua opera, attraversava l’Italia, poteva osservare paesaggi con una orditura, un carattere ed una diversità locale e regionale ben lontana dalla odierna maglia rarefatta, dalla forte dilatazione degli appezzamenti dovuta alle esclusive esigenze di funzionalità delle coltivazioni meccanizzate. La potenza della stratificazione storica del paesaggio agrario di appena mezzo secolo fa, che i classici potevano ancora vedere, è ormai perduta, ridotta a reperto iconografico e rintracciabile solo in forma di rarissime e residuali eccezioni nelle scene contemporanee. L'osservazione del paesaggio agrario attuale suggerirebbe quindi al giovane autore lo stimolo a scrivere una storia del paesaggio agrario?
abstract In the ten years of working at his book, Sereni went through Italy, seeing landscapes with a warping, a character and a diversity strongly linked to local and regional places, so far from the current spread grid, with a big dilatation of lots done by the functional needs of the modern mechanized crops. The strength of the historical stratification of an half of a century ago landscape, what that classics could see, is gone now, reduced to an iconographic find and detectable in the contemporary scenes only in the form of a rare and residual exceptions. Overviewing the current rural landscape would suggest the young author to write an history of rural landscape?
parole chiave Paesaggio agrario, sistemazioni agrarie, monocolture specializzate, iconografia storica del paesaggio, percezione visiva
key-words Rural landscape, agricultural settings, specialized monoculture, historical iconography of landscape, visual perception.
*Università degli Studi di Firenze
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“La Francia rurale è un grande e complesso paese, che riunisce entro i propri confini e sotto un’unica tonalità sociale le tenaci vestigia di opposte civiltà rurali. Lunghi campi non cintati attorno ai grossi villaggi lorenesi, campi cintati e casali bretoni, villaggi provenzali simili ad antiche acropoli, parcelle irregolari della Linguadoca e del Berry: queste immagini così diverse, che ognuno di noi, chiudendo gli occhi, vede formarsi davanti allo sguardo della mente, sono semplicemente l’espressione di contrasti umani molto profondi.” (Bloch, 1973).
Figura 1. Assisi: Santa Maria degli Angeli. Pianura- giugno 1958.
Così Marc Bloch, in un breve passaggio delle Osservazioni metodologiche che aprono I caratteri originali della storia rurale francese, mette in evidenza il ruolo della percezione visiva. Ritmi del popolamento, tipi di insediamento, elaborazione di istituti giuridici, evoluzione delle tecniche orientano la formazione dei paesaggi agrari. Ma le loro forme
La fortuna dei classici
occorre saperle vedere, perfino “chiudendo gli occhi”. E in una pagina di poco successiva, l’autore ricorda che, a una richiesta dello storico inglese Seebohm circa la presenza in Francia del “sistema dei campi aperti e allungati” tipici della Gran Bretagna, Fustel de Coulanges aveva risposto che non ne aveva trovato alcuna traccia. Richiamando l’estesa diffusione proprio di quella forma in tutta la Francia settentrionale e orientale, con lieve ironia Bloch commenta “Non offendiamo certo la sua grande memoria ricordando che egli non era uno di quegli uomini che sentono intensamente l’esistenza del mondo esterno” (Bloch, 1973). Ma la polemica sulla necessità dello sguardo diretto sulle forme del paesaggio permette a Bloch di formulare anche una preziosa indicazione metodica. Se, come Fustel, si studia il passato solo sui documenti con la sola applicazione del metodo cronologico, dal più antico al più recente, si perdono i suggerimenti che la conoscenza del mondo recente propone all’indagine: “Ogni storico è schiavo dei propri documenti, ma specialmente chi si dedichi alle ricerche di storia agraria; per riuscire a decifrare il libro oscuro del passato, egli deve, il più delle volte, leggerlo a ritroso.” (Bloch, 1973). E’ ovvio che del principio si debba evitare l’applicazione meccanica: “questa faticosa lettura in senso inverso ha i suoi pericoli, che vanno definiti con chiarezza. Chi vede la trappola, meno rischia di cadervi”. In Apologia della storia o mestiere di storico, nel capitoletto dal titolo Comprendere il passato mediante il presente, Bloch ricorda: “…accompagnavo a Stoccolma Henry Pirenne, il quale all’arrivo mi disse: che cosa andiamo a
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vedere prima di tutto? Pare che ci sia un Municipio nuovissimo. Cominciamo di là. E poi aggiunse, quasi volesse prevenire il mio stupore: se fossi un antiquario non avrei occhi che per le cose vecchie. Ma sono uno storico. Ecco perché amo la vita.” (Bloch, 1998). Il lavoro pioneristico del Bloch è del 1930; risale ai tempi della sua attività di insegnamento e ricerca nell’università di Strasburgo. Una sua pagina racconta che la scena delle distese di campi aperti e allungati attraversata nei ripetuti viaggi in treno tra quella sede e Parigi si era imposta alla sua curiosità di storico non come realtà anonima ma come enigma da risolvere: perché i campi avevano quella forma? E perché invece in altre parti della Francia prevalevano campi chiusi e irregolari? Si apriva così un campo affascinante di studi in cui l’interpretazione dei dati archivistici signorili, ecclesiali e comunitari si univa all’indagine sugli strumenti tecnici e alla ricostruzione delle gerarchie sociali e dei tipi insediativi. La stesura della Storia del paesaggio agrario fu ultimata da Emilio Sereni nel 1955 ma pubblicata solo nel 1961. Fin dalla prima pagina della prefazione l’autore riconosce il debito verso Bloch e i suoi Caratteri originali. Di cui rinnova l’attenzione verso la complessità della dinamica storica: “…un dato paesaggistico…diverrà insomma per noi una fonte storiografica solo se riusciremo a farne non un semplice dato o fatto storico bensì un fare, un farsi di quelle genti vive: con le loro attività produttive, con le loro forme di vita associata, con le loro lotte, con la lingua che di quelle attività produttive, di quella vita associata, di quelle lotte era il tramite, anch’esso vivo, produttivo e perennemente innovatore.” (Sereni, 1982). Metodo d’indagine che nel Sereni è un po’ appesantito dall’impronta deterministica del suo materialismo
tra parole e saggi
storico, fiducioso nell’incessante “sviluppo delle forze produttive”. Ma questa è un’altra storia. Qui conta l’attenzione alla realtà fisica. Al confronto con “l’orientamento quasi esclusivamente “orizzontale”… del piano sul quale la varietà dei paesaggi agrari si snoda in paesi come la Francia o la Germania” spicca “il decisivo rilievo … che in un paese come il nostro –con le sue terre a coltura inerpicate ben oltre i mille metri di altezza, con i suoi terrazzamenti,con tutta la varietà delle sue sistemazioni collinari e montane- viene ad assumere quella che si può designare come la “struttura verticale” dei paesaggi agrari italiani.” (Sereni, 1982, p.13). E basta anche una scorsa alla stretta connessione tra i rapidi capitoli dell’opera e l’apparato iconografico per cogliere quanto la percezione visiva avesse per Sereni un ruolo determinante, costantemente rammentato ai lettori. A lato, si potrebbe osservare che i documenti pittorici, richiamati con frequenza in rapporto ai vari tipi di paesaggio e di sistemazioni agrarie, dovrebbero essere a loro volta sottoposti a interpretazione, per evitare che il lettore inesperto li consideri alla stregua di prove fotografiche e sia invece indotto a valutare anche la loro discendenza da convenzioni formali, legate alla tradizione culturale in cui nascevano. Ma anche questa è un’altra storia. Come Bloch anche Sereni ha avuto una fortuna speciale. Ha potuto vedere coi suoi occhi una vasta varietà di paesaggi agrari tutti caratterizzati, ancora per tutta la prima metà del Novecento, da intenso popolamento delle campagne, anche in montagna, e dalla prevalenza del lavoro manuale contadino, cui alla fine il sopravvenire dell’uso delle macchine aveva solo dato aiuto nei compiti più faticosi. Per questi caratteri strutturali la condizione demografica e sociale ottocentesca si prolungava
fino al decennio successivo alla seconda guerra mondiale e protraeva fino a quel limite le forme tradizionali del paesaggio agrario, in cui prevaleva l’estesa diffusione delle colture promiscue. Poco dopo, la riduzione sempre più accentuata del lavoro in agricoltura e la complementare diffusione delle macchine hanno in breve tempo rivoluzionato il mondo agrario con la propagazione delle monocolture specializzate. Così i poco più di cinquant’anni che ci separano dall’opera del Sereni hanno cambiato i paesaggi visti dall’autore assai più dei cento cinquant’anni precedenti. Perciò i giovani che lo leggono oggi non possono più, in gran parte, vedere, e in qualche caso forse nemmeno immaginare, le forme che avevano suscitato l’indagine. Che cosa vedeva Sereni quando, nel decennio di preparazione della sua opera, attraversava, poniamo, lembi della pianura padana? Una scena molto più simile a quella descritta da Lapo de’ Ricci in un articolo sull’ottocentesco Giornale Agrario Toscano che non a quella dei nostri ultimi decenni. Una sequenza di appezzamenti rettangolari a seminativo poco più larghi di una trentina di metri (dalla superficie baulata: più alta al centro e in leggero pendio sui lati opposti), ritmati da canali di scolo accompagnati su uno o entrambi i lati da filari di alberi (gelsi, salici, pioppi, aceri, alberi da frutto), così fitti e regolari da impedire che la vista potesse spaziare lontano. E infatti de’ Ricci per descrivere il quadro ai suoi lettori sostiene di dover salire sui pendii collinari del piede appenninico. Carattere fondativo di quella forma era il fitto reticolo dei fossi di scolo, il cui orientamento era dettato (non solo nella pianura padana) dall’impronta ortogonale della centuriazione romana. La sua funzionalità -sia detto di passaggio- spicca soprattutto al paragone con la
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rete odierna, molto più rarefatta e distanziata a causa della potente dilatazione dei singoli appezzamenti, che oggi hanno larghezza doppia o tripla. Questo vedeva il Sereni e analoghe scene, arricchite dalla varietà degli stili regionali, gli apparivano certo nella pianura veneta, nelle piane distese entro i bacini intermontani appenninici o nella larga piana circumvesuviana. E quando il lettore trova, nel capitolo 78, La piantata nella Padana asciutta dall’età del Risorgimento all’unità italiana, il disegno illustrativo della “piantata bolognese” del primo ottocento, tratto da Istituzioni di agricoltura del Berti Pichat (campi baulati, fossi di scolo e filari d’alberi associati) deve considerare che, nel traversare la stessa pianura a metà novecento, Sereni aveva sotto gli occhi qualcosa di ancora molto simile a quella tipica sistemazione.
Figura 2. Gubbio – pianura – terreni coltivati - 1966.
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Provate a cercarla oggi: troverete solo eccezioni rarissime e residuali, appartate in qualche fascia che per caso non è stata toccata dal riordino agrario. In realtà i lettori giovani che oggi, per qualche corso universitario, si rivolgono al Sereni, se volessero porsi dal punto di vista dell’autore e capire quindi da quali quadri viventi è partito, potrebbero solo ricorrere a testimonianze documentarie che per fortuna sono largamente disponibili.
Figura 3. Uno stralcio della pianura pratese al 1954 (volo GAI 1954) con la stretta maglia agraria ancora ben visibile.
Le foto aeree del volo GAI del 1954 (Istituto Geografico Militare) offrono immagini alla scala 1:33.000, nitidissime e capaci di permettere l’individuazione dei filari di alberi, da cui si ricava la visione di una fitta maglia agraria ormai del tutto scomparsa. Poi ci sono le foto prospettiche, da terra o a volo d’uccello da bassa quota, raccolte nelle preziose pubblicazioni del Touring Club Italiano: Il paesaggio, della serie Conosci l’Italia,
La fortuna dei classici
volume VII (1963) a cura di Aldo Sestini; “I paesaggi umani, a cura di Umberto Bonapace (1977) e Campagna e industria, i segni del lavoro,” a cura di Lucio Gambi (1981) entrambi della serie Capire l’Italia. Non mancano lavori monografici: ad esempio Le campagne umbre nelle immagini di Henry Desplanques, che la Regione Umbria ha voluto pubblicare in omaggio al geografo francese, appassionato delle sue terre (a cura di Massimo Stefanetti, 1999); vi si trovano quadri luminosi di realtà scomparse: la trama serrata della coltura promiscua alberata nella piana di Santa Maria degli Angeli, sotto Assisi, e nella piana di Gubbio. Ho insistito sul confronto nelle pianure perché è qui che il contrasto è più forte. Ma anche nei paesaggi collinari il mutamento è stato incisivo. In molti distretti vinicoli i terrazzamenti a coltura promiscua con muri a secco o ciglioni erbosi hanno lasciato da tempo il posto a vigneti specializzati dove la sistemazione a rittochino ha cancellato le sistemazioni precedenti. Arduo trovarne anche solo la traccia dove grandi macchine hanno rimodellato lo stesso assetto orografico del rilievo. L’unico indizio è quello recente del rimodellamento: secche le zone dove il substrato è stato raschiato, umide quelle dove il materiale di riempimento ha colmato le cavità. Ma non riesce a suggerire la teatrale sistemazione preesistente. La riduzione drastica della manodopera e l’incremento tumultuoso delle lavorazioni a macchina hanno poi progressivamente contribuito a ridurre e spesso a eliminare gli stili regionali e locali delle colture e prodotto una crescente omologazione di caratteri prima nettamente differenziati, sia nelle sistemazioni agrarie vere e proprie sia negli usi di corredo; per esempio, quanti modi di conduzione dell’olivo e della vite sono decaduti, quanti usi di potatura non più praticati?.
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C’è un ulteriore aspetto che spicca vistoso nei repertori citati: il netto confine tra i nuclei storici e la campagna circostante, oggi sfrangiato e diluito dall’espansione inarrestabile della campagna urbanizzata, sempre più affollata di manufatti edilizi di tipo urbano privi di qualsiasi relazione con le attività agricole e destinati a funzioni residenziali e ormai sempre più commerciali che produttive. Si affaccia una domanda ingenua: ma se un giovane Sereni cominciasse oggi il suo lavoro preparatorio, il paesaggio agrario banalizzato dei nostri giorni gli offrirebbe inviti paragonabili alla variopinta e seducente ricchezza di spunti dispiegata dal paesaggio storico? La distesa dei seminativi nudi, senza alberi e con la rete di scolo affidata a rari fossi distanziati, pur serbando intatta l’impronta della centuriazione, potrebbe indurlo a risalire alla maglia agraria alberata e serrata nel suo fitto reticolo di fossi di qualche decennio prima? E una vasta tessera in pendio di vigneto a rittochino gli farebbe venire in mente lo stretto fraseggio dei minuti ripiani terrazzati che l’hanno preceduta? In assenza di indizi trasparenti nella realtà fisica osservata solo un ardito salto della fantasia potrebbe indurlo a immaginare sistemazioni così diverse e differenziate. Ma, perseverando nell’ipotesi ingenua, un simile paesaggio anodino avrebbe la forza suggestiva per spingerlo alla ricerca storica sulle sue preesistenze? Comincerebbe oggi a scrivere la Storia del paesaggio agrario italiano? Chissà. Certo la documentazione storica è sempre in attesa del suo cultore in archivi e biblioteche, ma la realtà visibile odierna ha con essa agganci sempre più labili ed evanescenti. In senso consapevolmente paradossale si potrebbe sostenere che su questa base proprio uno storico
tra parole e saggi
come Fustel de Coulanges, un uomo che non senta “intensamente l’esistenza del mondo esterno” (Bloch, 1973) potrebbe essere tentato di rivolgersi a documenti che non hanno più una rispondenza esplicita nel paesaggio sensibile. Ma, non si stanca di ricordare Bloch, “la storia è scienza del mutamento”. Nelle ultimissime pagine dei ”Caratteri originali” lo storico mette una di fronte all’altra (nel 1930) la massa ancora maggioritaria, tenace e retrograda, dei piccoli coltivatori francesi e l’iniziale, promettente apparizione delle macchine agricole, e pone quindi il problema del mutamento futuro con le conseguenze prevedibili di quell’incontro. A rovescio, pensando al mutamento passato, si può immaginare che un Sereni dei nostri giorni possa trovare qualche indizio che dalla distesa dei seminativi nudi (una foto zenitale rilevatrice dei fossi sepolti?) lo induca a fare qualche passo indietro nei documenti per indagare il mutamento passato alla ricerca di un paesaggio agrario certo faticoso per chi lo costruiva ma dalla bellezza smagliante.
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De’ Ricci Lapo, 1830, “Giornale Agrario Toscano”, Firenze Sestini A. (a cura di), 1963, Il paesaggio, collana “Conosci l’Italia”, Touring Club Italiano, Milano Bonapace U. (a cura di), 1977, I paesaggi umani, collana “Conosci l’Italia”, Touring Club Italiano, Milano Gambi L. (a cura di), 1981, Campagna e industria. I segni del lavoro, collana “Conosci l’Italia”, Touring Club Italiano, Milano
Riferimenti iconografici Figure 1, 2: Stefanetti M., Melelli A., 1999, Le campagne umbre nelle immagini di Henri Desplanques, Regione dell'Umbria, Perugia. Figura 3: Alberto Magnaghi, David Fanfani, Patto cittàcampagna. Un progetto di bioregione urbana per la Toscana, Alinea, Firenze, 2010, p. 239
Testo acquisito dalla redazione nel mese di febbraio 2013. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
Riferimenti bibliografici Bloch Marc, 1973, I caratteri originali della storia rurale francese, trad. it. di C. Ginzburg, Einaudi, Torino, (ed. orig. 1952) Bloch Marc, 1998, Apologia della storia o mestiere di storico, trad. it. di Gouthier G., Einaudi, Torino, (ed. orig. 1949) Sereni Emilio, 1972, Storia Laterza, Bari, (ed. orig. 1961)
del
paesaggio
agrario,
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Les campagnes urbaines: quels scénarios pour demain?
Les campagnes urbaines: quels scénarios pour demain?
Urban countrysides: which scenarios for tomorrow?
Pierre Donadieu*
résumé Dans cet article, nous analyserons d’abord les processus socio-économiques et politiques qui sont à l’origine de la disparition de l’agriculture des villes depuis 50 ans. Puis il sera expliqué à partir d’exemples comment il est possible au XXIe siècle d’avoir recours au concept de bien commun paysager pour prendre les décisions de politiques publiques concernant la persistance des espaces agricoles dans les régions urbaines. Enfin nous décrirons trois scénarios d’évolution des agricultures et des jardinages qui peuvent être réunis dans le même territoire administratif urbanisé.
abstract In this article, we will first analyze the political and socio-economic processes, which led to the disappearance of urban agriculture over the last 50 years. Then, we will illustrate how in the 21st century the concept of common urban landscape opens to new public policies related to the persistence of agricultural spaces and activities in urban areas. Last, we will describe three scenarios of agriculture and gardening, which can be developed in the same urban territory.
mots clés agriculture urbaine, bien commun politiques publiques de paysage.
key-words urban agriculture, common landscape public policies
paysager,
* Ecole nationale supérieure de paysage de VersaillesMarseille, professeur émérite de sciences du paysage
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urban
lansdcape,
tra parole e saggi
Aujourd’hui comme hier, les responsables politiques des villes de toutes tailles n’ont pas en général mesuré l’intérêt que les villes et leurs habitants ont à conserver ou à recréer les espaces boisés, agricoles et jardinés. Ce qu’on appelle le plus souvent la nature d’un point de vue philosophique, mais aussi littéraire et artistique et qui correspond aux espaces verts, (boisés, agricoles et jardinés), et aquatiques urbains. Dans cet article, nous analyserons d’abord les processus socio-économiques et politiques qui sont à l’origine de la disparition de l’agriculture des villes depuis 50 ans. Puis il sera exposé comment il est possible au XXIe siècle d’avoir recours au concept de bien commun paysager pour prendre les décisions publiques concernant la persistance des espaces agricoles dans les régions urbaines. Enfin nous décrirons trois scénarios tendanciels qui peuvent être réunis dans le même territoire administratif urbanisé: en France par exemple, les communautés d’agglomération et les communautés urbaines, dont les populations varient de 50 000 habitants à plus de deux millions d’habitants (Paris). La nécessité agroécologique de proximité Dans la plupart des villes du monde, les migrations vers les villes, ainsi que la croissance démographique, surtout dans les pays du sud, ont abouti à la concentration des populations dans les agglomérations. En 2010 plus de 50 % de la population de la planète est urbaine. Dans la plupart des pays d’Europe, plus de 80 % de la population se concentre dans les aires urbaines (urban areas) et les agglomérations, centrales ou périphériques, qui s’y localisent.
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Dans ces régions urbaines, au sens élargi de l’écologue R.T.T. Forman (2008), il est possible de penser la question non seulement de la sécurité alimentaire des habitants, mais des multiples services environnementaux et sociaux que ces espaces agricoles et jardinés peuvent fournir aux citadins. N’oublions pas que « 800 millions de personnes pratiquent aujourd’hui l’agriculture urbaine assurant 15 à 20 % de la production mondiale de nourriture »1. Et que la crise environnementale (pollutions) et sociale (chômage, pauvreté, ségrégation) des villes est chronique. Perte de l’agriculture et des espaces publics Les tendances les plus lourdes de l’urbanisation sont celles qui suppriment l’agriculture des villes (désagricolisation). En France par exemple, la consommation d’espaces agricoles (par l’urbanisation, mais également par l’abandon agricole des terres en montagne) ne cesse de s’accroître en dépit des politiques publiques de protection des terres agricoles : environ 70 000 hectares ont disparu en 2010. Cette désagricolisation des régions urbaines s’accompagne de trois phénomènes. Dans beaucoup de pays de l’Europe du nord et de l’ouest, les terres agricoles non construites des régions urbaines sont reboisées pour des finalités environnementales (séquestration du CO2, microclimatisation urbaine), sociales (loisirs de proximité ou régionaux) et culturelles (l’intérêt social pour les arbres). Beaucoup de ces espaces boisés ou jardinés deviennent publics en raison du rachat par la puissance publique (agences foncières en France par exemple). Mais d’autres restent privés en Grande Bretagne notamment. Car
beaucoup de municipalités ont recours à une alternative à l’agricolisation possible de la ville. : celle de la naturalisation de l’espace par les boisements. Au sud est de Montpellier par exemple les projets publics urbains « Ecocité » mettent en avant la notion de ville-nature. Depuis 15 ans à la place des anciens vignobles, ils créent des parcs publics (les parcs Marianne et de la Lironde), avec des finalités de limitation des risques d’inondation des rivières et d’accueil du public habitant. En outre, on observe, ce qui n’est pas un phénomène récent, que les espaces non ou peu construits des régions urbaines passent ou restent sous le contrôle des logiques marchandes. Non seulement dans les parcs d’attractions payants, mais également dans les terrains de sports (associations, clubs) notamment sur les bords de mers et de lacs (restaurants, hôtels). On observe ces phénomènes de réduction de l’espace public accessible à tous tout autour de la mer Méditerranée, à Beyrouth ou à Tunis par exemple. C’est dans les pays de l’Union européenne que l’on note de plus en plus des résistances ponctuelles à la disparition de l’espace public agricole. Des périmètres protégés émergent depuis 20 ans sous la forme notamment des parcs-natures à la fois boisés, agricoles et aquatiques (Lyon, Barcelone, Berlin) et des parcs agricoles (Barcelone, Milan, Turin). A l’ouest de Montpellier et de Paris, comme au Nord de Bordeaux ou à Reims des espaces viticoles et agricoles privés et protégés par les règlements d’urbanisme font désormais partie des agglomérations en principe de manière pérenne. Peut-on penser la ville avec ces deux objectifs : nourrir les citadins proches et créer les conditions
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d’une ville habitable (risques naturels et anthropogènes limités, offres d’espaces publics de loisir, cadre attractif vert) ? La nourriture de proximité ne fait-elle pas partie des conditions souhaitables de l’habitabilité de la région urbaine? Nécessité des agricultures de proximité Les postulats de l’économie libérale ont fait valoir depuis le XVIIIe siècle les principes du libre échange à l’échelle mondiale. Tout consommateur urbain trouve donc, et encore aujourd’hui, normal de disposer de n’importe quel produit alimentaire à n’importe quel moment de l’année, quelle qu’en soit l’origine géographique. Or les perspectives internationales de raréfaction des ressources énergétiques carbonées, et la nécessité de restreindre les rejets de carbone dans l’atmosphère se traduisent par une nouvelle prise de conscience politique autant que citoyenne : limiter la circulation planétaire des biens alimentaires. C’est pourquoi depuis 2005, le mouvement des locavores (s’approvisionner localement dans un rayon de 150 à 200 kilomètres) préconise ces nouvelles pratiques citoyennes (Novel, 2010). Non seulement pour participer à la lutte contre le réchauffement climatique, mais pour se nourrir mieux en identifiant les producteurs et leur commercialisation locale, et en s’attachant aux cuisines et aux produits locaux, biologiques ou non (comme les AMAP –Association pour le maintien de l’agriculture paysanne – en France), le mouvement international Slow food, les cueillettes directes, les circuits courts de vente, etc.). Cette idéologie rencontre de nombreux opposants : les partisans du commerce équitable et du soutien des
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paysanneries lointaines par les consommateurs des pays du nord ; ceux qui constatent que les agricultures des régions urbaines sont en général peu favorables à ces pratiques, et la grande distribution qui fait valoir sa rationalisation de l’approvisionnement, plus efficace du point de vue énergétique (et du rejet de CO2) que les petits producteurs- commerçants, regroupés ou non. Même si les idées locavores sont logiques, elles ne constituent qu’une réponse partielle à la crise climatique et surtout énergétique. C’est pourquoi, la tentation d’une région urbaine autonome sur le plan alimentaire restera longtemps une utopie, chimérique mais nécessaire. Personne n’arrêtera les déplacements des marchandises à travers la planète. En revanche, il est tout à fait possible aux pouvoirs des régions urbaines d’organiser un ensemble de communes pour qu’elles tendent vers l’autosuffisance en produits frais (légumes, fruits, fleurs, lait, fromage, viande, etc.). Pour cela il est indispensable de penser la multifonctionnalité et l’usage multiple de leurs activités agricoles et jardinières. Installer la multifonctionnalité de l’espace non bâti sur un sol vivant Le trait commun essentiel aux espaces non bâtis est leur sol naturel, vivant, plus ou moins fertile selon les situations climatiques et topographiques. La dénaturalisalisation de la ville accompagne la perte de ses sols. Tout sol, selon ses caractéristiques pédologiques, peut permettre l’implantation d’arbres, de buissons ou d’herbes, de boisements, de champs, de jardins, de serres, de plans d’eaux ou de parcs publics. Plus il est
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artificiel (sols urbains, cultures hydroponiques ou aquaponiques), moins il est souple pour s’adapter à l’arbre, au buisson ou à l’herbe. La résilience de la ville (sa capacité à s’adapter) face aux crises chroniques ou non en diminue d’autant, et celle du citadin également. Plus le sol est naturel, plus il est facile de passer de l’herbacé au ligneux (et inversement) et de permettre de s’adapter à des besoins imprévisibles (nourrir en cas de guerre par exemple) ou prévisible (microclimatisation, fixation du carbone, loisirs extérieurs, etc.). C’est pourquoi, la conservation et la reconquête des sols vivants (avec une activité microbienne et de la matière organique en quantité suffisante) sont fondamentales. Car leur perte (par la construction) est irréversible pour un territoire donné, même s’il est possible de les reconstituer pour des cultures intensives (les sols horticoles). Aussi, chaque commune ou groupe de communes sont-ils invités à penser la répartition spatiale des fonctions et usages des sols non construits. Si les sols sont agricoles (et en général privés), les pouvoirs publics ont la possibilité de les préserver non seulement pour des productions de biens agroalimentaires à destination de la ville et de ses habitants, mais en tant qu’espaces ouverts à la promenade, au cyclisme et à l’équitation. En tant également qu’espaces d’accompagnement des transports automobiles, ferroviaires, par tramway et canaux, des transports d’électricité et de gaz en particulier, sans compter ceux qui sont associés aux gares et aux aéroports. En outre, ces agricultures, surtout si elles sont biologiques, peuvent favoriser la biodiversité locale et être pensées simultanément en vue de la transmission d’un patrimoine architectural de fermes et de petits
tra parole e saggi
patrimoines, hydrauliques notamment, dans le parc agricole au sud de Milan.
comme
À l’inverse, un espace boisé, privé ou public, peut être imaginé certainement en fonction de sa production de bois ou d’accueil de la faune sauvage, mais surtout pour l’espace du loisir qu’il offre quand il est aménagé à cet effet. Sans compter les effets de microclimatisation, de dépollution et de fixation du carbone de l’air. C’est donc la hiérarchie entre ces fonctions et usages qui doit être réfléchie et décidée avec les habitants, les propriétaires, les agriculteurs, les forestiers et les pouvoirs publics locaux. Cette gouvernance des projets urbains est essentielle pour une politique de développement urbain qui recherche la transmission aux générations futures des meilleures conditions locales et globales d’habitabilité des territoires. Elle est difficile car l’information des acteurs est hétérogène, et les conditions d’un débat public équitable pas toujours réunies. C’est pourquoi, il est nécessaire d’introduire de nouvelles notions éthiques et politiques dans ce débat. L’espace cultivé comme bien commun public des citadins La démocratie (le gouvernement par et pour le peuple) s’oppose à la tyrannie d’un seul ou de quelques-uns. Elle n’est pas toujours dirigée par des valeurs morales comme l’égalité, la justice ou la liberté. Et elle ne se prononce pas nécessairement sur la place des choses publiques et privées, comme les biens environnementaux.
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Le bien commun paysager agricole D’un point de vue économique on appelle biens communs, les biens indivis que chacun peut consommer (et surconsommer). Ces biens donnés par la nature, comme l’air, la diversité biologique, l’eau, les sols, longtemps considérés comme res nullius (biens de personne) ont été surexploités, et le plus souvent sont en voie d’altération ou de destruction. Pour les protéger, et préserver ainsi les chances de survie des générations futures, il existe deux postures possibles. Soit les privatiser, comme le suggère de plus en plus l’économie libérale, et en faire un bien marchand profitable, soit lui donner le statut de bien public au sens éthique et politique (Donadieu, 2012 ; Grange, 2012, p. 25). Dans ce dernier cas, il s’agit de faire prévaloir, par des règles d’usage, au nom notamment de la solidarité et de la justice (Petrella, 1996) l’intérêt du plus grand nombre. Ce qui serait visé, c’est de constituer une communauté de biens publics, repérables dans l’espace matériel (l’eau par exemple, mais aussi les sols agricoles et les forêts), et sans doute de la sortir des logiques d’échanges marchands (Grange, 2012, p. 27). En remplaçant la logique du prix de marché par celle des valeurs civique (la survie) et de transmission, il serait possible d’accroître ce que l’économiste et philosophe Amartya Sen (2009) appelle la capabilité, c’est à dire la possibilité de choix pour soi et son groupe. Ce qui a été déjà préfiguré par la politique de l’UNESCO de désignation des biens patrimoniaux mondiaux (940 sites inscrits sur la liste du patrimoine mondial en 2012).
Comme dans le cas de l’eau qui peut leur être associé, si les sols agricoles et forestiers deviennent patrimoine commun (sans obérer leur statut foncier le plus souvent privatif), cette construction nouvelle sortira ces biens communs publics de la logique du profit. Devenus non appropriables sous la garantie d’une autorité (des Régions et des États à l’Europe et à l’UNESCO), ils échapperont aux logiques du marché. Cette position de la philosophe Juliette Grange permet de ne plus faire des biens communs des marchandises. Toutefois elle réduit, de manière lucide, la libre disposition des biens privés (les sols agricoles), comme celle des biens publics (avec la pêche ou le gibier par exemple). Les biens communs publicisés peuvent être également immatériels, nous le verrons avec les biens communs paysagers. Ces biens communs, et de fait premiers (comme vivre une vie humaine, avoir une bonne santé, un emploi, etc.) s’inscrivent sans difficulté dans un cadre républicain. Dans ce cas l’autorité de l’État républicain providentiel (welfare state) garantit en principe les biens communs comme l’accès à l’eau, le patrimoine culturel et naturel, la santé, la sécurité sociale ou l’éducation, et toutes valeurs qui répond à la mise en oeuvre de droits (à la liberté, au savoir, à la justice, à la nature, au plaisir, au bien-vivre, au bien-être, etc.). En pratique, dans bien des Etats, la mise en oeuvre de ces droits régresse au profit des entreprises privées qui proposent certains de ces biens et de ces services (Petrella, 2010), par exemple la thalassothérapie en promettant le plaisir du bienêtre. Et pour cette raison, il est souhaitable d’avoir recours au débat démocratique pour organiser les territoires avec l’outil du paysage.
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Les biens communs dits paysagers sont réduits à ceux qui sont perçus par les regards humains qui les jugent. Car la notion de paysage, dans la plupart des cultures dites occidentales ou occidentalisés, exprime les relations humaines à l’espace et à la nature perceptibles. Elle désigne à la fois les espaces et les lieux matériels, les biens environnementaux et les valeurs esthétiques, symboliques et éthiques qui permettent d’en juger. Il s’agit donc de biens matériels (les espaces, les sols et ce qui les occupe) et de services, lesquels sont pour les uns privés (les productions agricoles, les logements par exemple) et pour d’autres publics (les services environnementaux, sociaux et culturels propres à ces biens). Pour la convention européenne du paysage de Florence de 2000, ratifiée par la plupart des pays du Conseil de l’Europe en 2012, le paysage est « une partie de territoire telle que perçue par les populations et dont le caractère résulte de facteurs naturels et/ou culturels et de leurs interrelations » (Art. 1). Les biens communs paysagers sont ceux qui sont désignés et reconnus par les populations comme des biens revendiqués pour des raisons variées : identitaires, patrimoniales, culturelles, écologiques, économiques, de loisirs, etc. Certains peuvent être inscrits sur la liste du patrimoine mondial de l’UNESCO, comme en France la Baie du Mont Saint Michel et les vignobles de Saint Emilion (Fig. 1), ou en Italie ceux des Cinque Terre. En ayant recours à la notion de paysage pour qualifier les biens communs, on met l’accent sur leurs attributs visibles et leurs sens appréciables ou réfutables selon les jugements qu’ils suscitent. S’agissant de biens agricoles ou forestiers, et donc de biens de nature à fonctions environnementales et/ou économiques, il est possible de mobiliser
Les campagnes urbaines: quels scénarios pour demain?
ceux qui perçoivent et jugent (les habitants), et par la même de provoquer le débat public démocratique pour prendre les décisions publiques nécessaires (par exemple protéger les sols agricoles et forestiers des régions urbaines).
Inscrite dans un cadre politique républicain qui formule les responsabilités d’intérêt général, la notion de paysage devient un outil de la concertation entre ceux qui habitent un territoire et ceux qui le gouvernent, entre ceux qui souhaitent garder les agriculteurs et leurs terres, ceux qui veulent les construire (les propriétaires) et les pouvoirs publics qui contrôlent les documents d’urbanisme. Analysons quelques exemples. Construire le bien commun paysager agricole En Europe: les Basses vallées angevines et les parcs nature de Berlin
Figure 1. Les vignobles de Saint Emilion.
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Dans l’ouest de la France, dans la région urbaine d’Angers Loire Métropole (une ville moyenne de 263 000 habitants), il a été possible de trouver une solution à un conflit entre les acteurs d’une vallée inondable chaque année : les Basses vallées angevines (600 hectares). En raison de l’inconstructibilité de la vallée submergée par les eaux 4 à 6 mois par an, les plantations de peupliers risquaient de l’envahir. Evolution paysagère qui excluait à la fois les éleveurs, les naturalistes et les promeneurs au bénéfice des seuls populiculteurs. L’intérêt général était de trouver une règle commune qui limitait la plantation des peupliers. Ce qui fut fait entre 1995 et 2005 par concertation entre l’Etat, la ville, les éleveurs, les naturalistes et les populiculteurs. Les éleveurs de bovins propriétaires et locataires de prairies bénéficiaient en 2009 d’une aide de l’Etat de 200 à 300 euros par hectare à condition de faucher après des dates variant entre le 20 juin et le 20 juillet. Ce dont tiraient profit les associations de protection des oiseaux nidificateurs dans les
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prairies et les landes. Mais également les promeneurs qui empruntaient les sentiers de randonnées de cette vallée (attractivité des paysages). Les paysages de prairies (et non les terrains) sont ainsi devenus des biens communs aux habitants d’Angers, aux populiculteurs, aux éleveurs et aux naturalistes. Avec des motivations éthiques différentes : la valorisation monétaire du bois de peuplier pour les uns et des produits de l’élevage pour les autres, les produits de la location des terres pour les propriétaires fonciers, et la conservation active, hors marché, des milieux de nidification (dans les landes et les prairies) et des circuits pédestres. Des échanges multiples entre acteurs et usagers ont eu ainsi lieu. Ils partagent aujourd’hui des valeurs esthétiques qu’ils n’auraient pas imaginé partager. C’est l’autorité publique (l’Etat) qui garantit la stabilité de l’échange et qui accorde le prix des services produits (la fauche tardive de l’herbe) à ceux qui en subissent les effets négatifs (les éleveurs). Il faut préciser que, dans cette interprétation, les paysages de peupliers ne sont pas devenus publics (le sol n’est pas accessible à tous et reste privé). Mais ils ne sont pas seulement privés car leur jouissance est conditionnée par le droit de chacun à jouir de leur visibilité à partir de circulations publiques. La construction du bien commun paysager équivaut donc à celle d’un droit à jouir collectivement et non individuellement d’un paysage. Elle ne limite pas le droit de propriété ou de fermage d’un sol mais le fait évoluer vers des usages communs jugés équitables. Ce qui se fait cependant aux dépens d’une politique locale
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d’extension des cultures de peupliers et limite la liberté des populiculteurs. Les processus d’émergence de ces nouveaux paysages composites, à usages multiples, à la fois urbains et agricoles, peuvent être observés dans de nombreux pays dans et hors de l’Europe. À Berlin (3 450 000 habitants en 2010), les parcs publics périurbains (landschaftpark) du Barnim (296 ha) desservis par le métro (S-Bahn) réunissent des vergers, des champs de céréales et de pommes de terre et des prairies, sans pesticides, qui ont été rachetés par le Sénat de l’Environnement (Jacquand, 2012). Aménagés par des paysagistes, les parcs sont ouverts au public qui emprunte des cheminements piétonniers et cyclistes mettant en scène les caractères paysagers locaux (des lignes électriques, des châteaux d’eaux, des silos agricoles, un bunker, des observatoires d’oiseaux, etc.). Au sud-ouest de Berlin, le parc agricole de Gatow s’ouvrira bientôt. Peut-être s’agit-il de phénomènes propres à des villes à faible croissance ? Qu’en est-il en revanche en Chine, haut lieu de croissance urbaine et de planification urbaine centralisée? En Chine les vignes et vergers de Xi’an Dans la métropole de Xi’an (9 200 000 habitants en 2010), capitale de la province du Shaanxi au centre de la Chine, et presque autonome pour l’approvisionnement agricole, l’urbanisation a consommé au cours des dix dernières années l’espace agricole disponible sans créer suffisamment d’espaces verts publics (Yueting, 2012). Ce qui, avec le développement de la voiture, déclenche des afflux périodiques de touristes dans les campagnes périphériques et
l’apparition de l’agrotourisme (Nong Jia Le) chez les agriculteurs. Depuis 2005, les pouvoirs publics de X’ian ont mis en place des programmes d’agriculture urbaine pour protéger les espaces agricoles (1/4 des espaces agricoles et naturels de la métropole). « Une première couronne accueille des parcs de jardins fruitiers (des pêchers), viticoles et potagers, la deuxième concentre la transformation des produits, et la troisième près de la montagne Quin Ling est vouée à l’agriculture biologique et à l’agritourisme » (Yueting, 2012, p. 207). Certains parcs viticoles, propriétés de la collectivité, comme celui de Han Xuan Ling ont été aménagés avec soin : avec des allées pavées, des ombrages et une statuaire locale. Les parcelles sont louées par l’Etat à des viticulteurs souvent pluriactifs et la vente des produits a lieu sur place. Dans le village rural de Shanwang, des hôtels pour touristes ont été construits et les espaces publics réaménagés en font « une campagne idéalisée ». Laquelle en fait devient de moins en moins agricole car les activités liées au tourisme (jeux, restaurants, hôtels, lieux de loisirs) sont beaucoup plus lucratives. Et les produits agricoles viennent de plus en plus de la ville voisine ! La désagricolisation qui apparaît a pour origine la transformation des acteurs agricoles en acteurs touristiques. Sachant que en Chine un contraste saisssant subsiste entre agricultures traditionnelles pauvres et agricultures modernisées. Dans ces trois exemples de villes d’importance démographique différente, le bien commun paysager agricole est construit à partir de l’autorité publique métropolitaine qui recherche le contrôle de la propriété et de l’usage des sols. La reconnaissance et le développement de paysages de campagnes attractifs pour les habitants peuvent
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selon les cas créer et maintenir les activités agritouristiques ou favoriser l’apparition de nouveaux métiers, non agricoles, liés aux activités de loisirs. Dans d’autres situations, notamment de crise économique (chômage), les jardins qui apparaissent spontanément à proximité des immeubles permettent aux habitants de survivre grâce à des ressources alimentaires de proximité comme à Lisbonne.
Figure 2. jardins spontanés de Lisbonne.
Conclusion Quand une politique publique agri-sylvo-urbaine métropolitaine existe, trois scénarios agriurbains peuvent donc coexister dans les territoires des régions urbaines avec des logiques économiques et politiques différentes. Les exploitations agricoles traditionnelles et les entreprises modernes dominent les activités
Les campagnes urbaines: quels scénarios pour demain?
agricoles et alimentent directement et principalement les marchés locaux, régionaux, nationaux et internationaux. C’est le scénario de la ville agricole avec des périphéries agricoles céréalières, viticoles ou d’élevage qui n’ont pas de relations directes avec les consommateurs proches. Cette ville, fragile, peut se désagricoliser (si les entrepreneurs se délocalisent) ou tendre vers les scénarios agroécologique ou paysager (naturalisation). Les biens communs paysagers sont rares et ponctuels quand ils sont reconnus ou créés. C’est le cas de la plupart des périphéries agricoles des agglomérations dans le monde, y compris de parcs agricoles comme celui de Baix Llobregat près de Barcelone ou du sud de Milan. Les exploitations agricoles (agriurbaines) se tournent essentiellement vers les marchés urbains proches en produisant et commercialisant des produits frais et transformés et des services (environnementaux, paysagers, sociaux) pour les citadins de la métropole. C’est le scénario de la ville agroécologique où le producteur local établit des relations directes avec les consommateurs locaux intéressés (circuits courts, AMAP, équitation, pêche, chasse, pédagogie, agritourisme, etc.). Cette ville peut se désagricoliser totalement en passant au scénario de la ville-jardin (paysagement sur le mode jardiné) ou de la villenature (naturalisation écologique). Les biens communs paysagers reconnus émergent avec une propriété foncière publique ou privée. C’est le cas des Basses vallées angevines, des parcs agricoles de Berlin, des espaces agricoles protégés de Xi’an, ainsi que des jardins familiaux qui sont installés dans les parcs publics comme à Angers dans le parc Balzac.
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Figure 3. Angers. Parc Balzac.
Figure 4. Agriurbanisme aux Pays-Bas.
Dans le scénario classique de la ville jardin, les agriculteurs disparaissent et sont remplacés par les acteurs techniques des services publics environnementaux et paysagers à la ville. Et la propriété publique des terres non construites se substitue progressivement à la propriété privée. Des étapes intermédiaires subsistent avec les deux autres scénarios. Les biens communs paysagers et environnementaux deviennent publics. Mais ils
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peuvent également être privatisés dans le cadre d’une économie ultra libérale.
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Courrier International, n° 1112, 2012.
Correspondant à ces trois scénarios, les paysages des campagnes urbaines sont donc évolutifs. Les directions prises dépendent essentiellement des politiques publiques d’urbanisation des régions urbaines. Ils peuvent se désagricoliser, soit au profit de l’urbanisation, soit à celui des espaces de natures non agricoles (parcs et boisements publics et privés). Ou bien rester agricole grâce aux principes de l’agriurbanisme (sécurisation foncière notamment) déjà mis en œuvre aux Pays-Bas.
Riferimenti bibliografici Courrier International, n° 1112, 2012. Donadieu Pierre, 2012, Il paesaggio agriurbano. Un'utopia realista?, Consorzio Festivalfilosofia, Modena. Donadieu Pierre, 2006, Campagne urbane. Una nuova proposta di paesaggio della città, Donzelli, Roma.
Riferimenti iconografici Tutte le immagini sono state fornite dall’autore.
Testo acquisito dalla redazione nel mese di ottobre 2012. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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L’ultimo capitolo della paesaggio agrario italiano
storia
L’ultimo capitolo della storia del paesaggio agrario italiano
del
The last chapter of history of italian agricultural landscape
abstract Negli anni in cui Emilio Sereni pubblicava la sua “Storia del paesaggio agrario italiano” il nostro Paese affrontava la stagione della massima intensità di espansione della propria struttura insediativa. Di lì a poco la specifica forma di organizzazione dello spazio delle pianure italiane sparirà per sempre. L’ultima immagine di quel mondo è stata fissata nei fotogrammi della ricognizione aerofotografica GAI, da poco tempo disponibile come potente strumento di valutazione dei cambiamenti. L’osservazione dei risultati di quel rilievo lascia disorientati per la misura eccezionale delle alterazioni; e tuttavia dovrebbe incoraggiare a sviluppare attitudini tecniche che costruiscano la capacità di giudicare volta per volta appropriatezza, senso e convenienza delle trasformazioni.
abstract In the years when Emilio Sereni published his “History of italian agricultural landscape”, our country faced maximum intensity of its settlements growth. The specific organization of Italian plains would have soon disappeared forever. The last image of that world has been fixed in GAI aerial survey frames, recently available as a powerful tool for evaluation of landscape changes. Observation of that document disorients for the exceptional degree of alteration; at the same time, however, it should encourage the development of specific technical skills to judge, from time to time, appropriateness, meaning and convenience of transformations.
parole chiave Paesaggio, documentazione; Paesaggio, cambiamenti; pianificazione territoriale.
key-words Landscape, documentation; Landscape, history; Landscape, changes; Urbanism, regional planning land-use.
Fabio Lucchesi*
Paesaggio, storia; Urbanistica e
* Università degli Studi di Firenze
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tra parole e saggi
Sereni e il paesaggio agrario italiano della seconda metà degli anni Cinquanta Nel capitolo conclusivo della sua Storia Emilio Sereni tratteggia “le grandi linee di un panorama agrario dell’Italia contemporanea”. Il testo, come dichiarato nella prefazione, è stato scritto nell’intervallo tra il 1955, data segnalata come conclusiva della redazione del lavoro, e il 1961, anno della sua pubblicazione con Laterza. Sereni è stato Senatore della Repubblica fino al 1958; tornerà in Parlamento come deputato eletto nella circoscrizione di Napoli nel 1963: quell’impegno e quei ruoli sono importanti nella definizione dell’impostazione e dei contenuti di quell’ultimo capitolo; soprattutto ne determinano lo stile argomentativo, articolato tra presentazioni di repertori statistici e valutazione degli esiti delle politiche economiche e sociali. L’immagine del paesaggio italiano della fine degli anni Cinquanta che si ricava da quel testo corrisponde a quella di una trasformazione evolutiva, sia pur lenta per le incertezze o gli errori delle politiche economiche, che si realizza in conformità a trasformazioni principalmente interne all’organizzazione produttiva. I segni del cambiamento sono letti come conseguenze di positive trasformazioni delle tecniche colturali e, particolarmente, della “evoluzione dei rapporti di produzione dominanti nelle nostre campagne”. Segnala Sereni: “Sotto la pressione di una lotta progressiva delle masse” stanno definendosi assetti e strutture nuove. Questo ha effetto soprattutto nelle aree coinvolte dalla Riforma: “nel paesaggio agrario si sono introdotti (…) degli elementi, se non altro, di una sua moderna organizzazione, visibili persino all’osservatore profano, che – transitando per una via di grande comunicazione, o dalla
cabina di un aereo – consideri i lineamenti, ora definiti e precisati, di un paesaggio dominato, per il passato, dalla informe desolazione del latifondo”. Nell’Italia settentrionale la progressiva riduzione delle colture promiscue è associata alle necessità di riorganizzazione produttiva che si orienta verso una progressiva specializzazione e che si avvantaggia delle possibilità della meccanizzazione. Nell’Italia centrale il paesaggio agrario mostra una maggiore staticità e resistenza; il giudizio rispetto a questa condizione è severo: va imputato alla resistenza del rapporto mezzadrile e alla “particolare gravità che la sua conservazione oppone all’adeguamento delle forme del paesaggio stesso alle moderne esigenze della tecnica e dell’economia”. Di lì a poco, tuttavia, si sarebbero manifestate le tracce visibili di una trasformazione che cambierà per sempre le forme e il ruolo degli assetti rurali del nostro paese. Un mondo intero (si intenda, insieme: una cultura, e una forma specifica di organizzazione dello spazio) è destinato a sparire in un tempo brevissimo. E tuttavia, nel testo di Sereni, solo a tratti compaiono i riferimenti a una dialettica dello spazio agrario con un mondo altro che cresce al suo esterno. L’autore segnala, per esempio, la progressiva riduzione dell’agricoltura di montagna e le tracce dell’abbandono delle campagne nell’Italia centrale: e tutto questo accade “nel quadro di una congiuntura economica generale considerata, invece, come particolarmente favorevole per il nostro Paese.” Malauguratamente, è “il monopolio politico clericale” che ha messo gli strumenti delle politiche economiche e fiscali al servizio di interessi ostili a quelli dei ceti produttivi agricoli e dell’agricoltura. Sono le politiche economiche dei governi democristiani e della neonata comunità europea che stanno comportando un enorme incremento dei costi a
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svantaggio della proprietà coltivatrice diretta. Soprattutto, Sereni osserva “un crescente ritardo nello sviluppo della produzione e dei redditi agricoli rispetto agli industriali” e “un aggravamento ulteriore, anche all’interno del settore agricolo stesso, dello squilibrio tra Sud e Nord; una situazione d’insieme della nostra agricoltura (…) che assume sovente toni addirittura drammatici”. Di fatto, in quegli anni la possibilità di abbandonare le condizioni svantaggiose delle condizioni salariali e, più generalmente, di vita nelle campagne per accedere ai redditi possibili nel lavoro industriale o ai servizi disponibili nelle aree urbane costituì la premessa di un esodo imponente. Questa scelta coinvolgerà in media 260 mila persone all’anno per gli anni Cinquanta e 211 mila all’anno per gli anni Sessanta. Nel 1951 8.2 milioni di persone (il 42,2% della popolazione attiva) erano occupate in agricoltura; nel 1970 saranno 3.7 milioni (19,3%) (Galeotti 1971). Non sarebbe corretto imputare questo movimento esclusivamente a dinamiche interne al mondo rurale; la modernità che si sta manifestando mette in gioco le aspirazioni individuali e la definizione di nuovi stili di vita. "Nella storia d'Italia il ‘miracolo economico’ (...) rappresentò anche l'occasione per un rimescolamento senza precedenti della popolazione italiana. Centinaia di migliaia di italiani (…) partirono dai luoghi d'origine, lasciarono i paesi dove le loro famiglie avevano vissuto per generazioni, abbandonarono il mondo immutabile dell'Italia contadina e iniziarono nuove vite nelle dinamiche città dell'Italia industrializzata" (Ginzborg 1989, p. 294). Sono soprattutto “le trasformazioni culturali (non colturali) che hanno investito il nostro paese. A un certo punto la città, il cemento, il mondo dell’industria sono diventati i valori dominanti, quelli che rinviavano a uno stile di
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L’ultimo capitolo della storia del paesaggio agrario italiano
vita superiore e la campagna è apparsa come il luogo dell’arretratezza e della miseria. Tutto ciò ha portato all’abbandono di ogni cura del paesaggio anche in luoghi in cui non si è verificata alcuna modernizzazione o trasformazione in senso industriale dell’agricoltura” (Bevilacqua 2011, p. 138). Dalla cabina di un aereo: il rilievo aerofotografico GAI 1954/1956 e l’immagine della Toscana Precisamente negli stessi anni in cui Emilio Sereni concludeva la redazione della sua Storia, L’Istituto Geografico Militare Italiano commissionava la realizzazione, per fini cartografici, di un rilievo fotogrammetrico a copertura della quasi totalità del territorio nazionale. Le immagini prodotte da quella ricognizione costituiscono precisamente la materializzazione di ciò che Sereni vedeva, o immaginava di vedere, dalla cabina di un aereo, a testimoniare lo stato del paesaggio rurale italiano a lui contemporaneo. Il rilievo fu realizzato dal Gruppo Aeronautico Italiano: per questo motivo i materiali che esso produsse sono oggi archiviati, per lo più, come elementi del “Volo GAI”; la tecnologia dell’epoca prevedeva la realizzazione di riprese nadirali con macchine da presa capaci di produrre fotogrammi di formato 23x23 cm su pellicola pancromatica in bianco e nero. L’altezza del volo, e dunque la scala di riproduzione, fu variabile; di norma i fotogrammi hanno una scala approssimativa di 1/33000; il volo fu eseguito a quote più alte, e dunque produsse fotogrammi a scala più piccola, nelle zone alpine e appenniniche. In qualche caso, per esempio su Firenze, il volo fu più basso e il dettaglio maggiore.
Fig. 1 La conca di Camaiore (LU) nel 1954 (volo GAI) e in una ripresa del 2010 (ARTEA/Regione Toscana).
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Fig. 2. La piana ad est di Lucca nel 1954 (volo GAI) e in una ripresa del 2010 (ARTEA/Regione Toscana).
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Fig. 3 La costa versiliese all’altezza di Marina di Pietrasanta nel 1954 (volo GAI) e in una ripresa del 2010 (ARTEA/Regione Toscana).
Per la prima volta nel nostro Paese fu realizzato, con standard comuni e in un intervallo temporale relativamente limitato, un progetto di rilievo aerofotografico per tutto il territorio nazionale. Non è necessario insistere a segnalare l’importanza di un documento come questo per chi intenda ricostruire la vicenda delle trasformazioni delle morfologie del territorio italiano, e in particolare dei paesaggi agrari, nella modernità. Nei fatti, tuttavia, le effettive condizioni di accessibilità e di utilizzabilità di questo archivio sono state conquistate solo recentemente, grazie alla progressiva diffusione delle tecnologie che hanno consentito anche a utilizzatori non professionali le possibilità di trattamento che le rendono disponibili per applicazioni che le valorizzino non solo come documento di uno stato di fatto, ma come strumento di analisi e di valutazione dei cambiamenti intervenuti nel corso del tempo e fino 1 ai nostri giorni . L’immagine del territorio del 1954 fissata nell’ortofotocarta disorienta i suoi osservatori, soprattutto coloro che la confrontino con i rilievi analoghi dello stato attuale dei paesaggi agrari. La prima sensazione di incertezza riguarda la misura della scala di restituzione: la densità dei segni e la varietà degli allineamenti presenti negli spazi rurali delle immagini della Toscana degli anni Cinquanta fanno credere che le fotografie aeree contemporanee, caratterizzate da grandi patches e da geometrie semplificate, siano rappresentate in una scala molto più grande. Per confermare l’equivalenza di scala tra quei materiali e quelli recenti è necessario concentrarsi sulle dimensioni dei singoli edifici e verificarne la corrispondenza. Da qui nasce la seconda sensazione di incertezza, che riguarda, almeno per le aree di pianura, la straordinaria proliferazione degli edifici, civili e
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produttivi, e l’eccezionale crescita delle aree urbanizzate. L’immagine dei paesaggi rurali delle pianure toscane nel volo del ’54 procura quella “vertigine” di cui parla Roland Barthes a proposito del Ritratto di Lewis Payne, una fotografia di Alexander Gardner del 1865 che raffigura un condannato a morte. Ecco: noi sappiamo che è quel paesaggio è morto. Eppure il vederlo ora nell’immagine, vivo, confonde il nostro piano temporale. Di fronte al paesaggio raffigurato nelle immagini del ‘54 diciamo quello che Barthes diceva di Lewis Payne: “è morto e sta per morire” (Barthes 1980, p 96). Nel tempo a venire dopo il 1954 si manifesterà una contrapposizione tra mondo rurale e mondo urbano che si concluderà, un ventennio più tardi, con un vincitore, e un vinto. Ci limiteremo qui a esplorare la questione dal punto di vista della misura delle dinamiche espansive dei suoli urbanizzati rispetto ai suoli agricoli, che oggi tendiamo a collocare sotto l’etichetta ‘consumo di suolo agricolo’. In Toscana e in quel ventennio quelle dinamiche avranno la loro manifestazione più intensa: non sorprenderà l’affermazione che quell’intensità non aveva precedenti; ma è forse più significativo segnalare che, dopo quel ventennio, quella tensione si affievolirà sensibilmente. La crescita insediativa, in effetti, non si è manifestata in Toscana lungo una funzione lineare. Di seguito presentiamo alcuni esiti di una ricerca che ha provato, per quel territorio, di misurare la progressione della crescita nel corso del Novecento (e nel primo decennio del nuovo secolo), cercando di descrivere attraverso una sequenza di soglie temporali le diverse intensità 2 della produzione edilizia . In questo racconto la seconda metà degli anni Cinquanta, e gli anni Sessanta, si segnalano appunto come una violentissima rottura di continuità.
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L’ultimo capitolo della storia del paesaggio agrario italiano
sono bastati i primi venti, a partire da quella data, 4 perché raddoppiassero . La velocità di trasformazione di quel ventennio non era mai stata sperimentata prima e non sarà mai più raggiunta in seguito. Il paesaggio cambia continuamente (ma non tutti i cambiamenti sono per il meglio)
Fig. 4. Velocità della crescita edilizia nella Regione Toscana suddivisa in classi morfologico-funzionali. La linea nera misura la crescita totale, la linea rossa quella della crescita della edilizia civile, la linea viola quella della crescita produttiva e commerciale (si consideri che residuano i valori dell’”altra edilizia”). Le quantità sono espresse in ettari all’anno.
Sebbene infatti l’intensità della produzione edilizia recente sia tutt’altro che trascurabile (corrisponde infatti, in Toscana e negli ultimi quindici anni, a un incremento di superfici edificate misurabile in 137 3 ettari all’anno ) va segnalato come questo valore sia, di fatto, una frazione di quello relativo al periodo 1954/1978 (che corrisponde, in Toscana, a 321 ettari all’anno). Detto in altri termini, e con il beneficio di qualche arrotondamento, le superfici edificate della Toscana erano presenti nel 1954 nella misura di un terzo di quelle attuali; e se ci sono voluti quasi sessant’anni perché triplicassero,
Il paesaggio agrario è una prassi di genti vive, avverte Sereni nella Prefazione alla sua Storia; è il prodotto dall’interazione tra modi di produzione, sistemi sociali e giuridici, rapporti tra poteri; è, come una lingua, un tramite vivente di attività economiche, relazioni sociali e conflitti politici: il paesaggio agrario è da osservare “come un fare o come un farsi, piuttosto che come un fatto”. Con quale sentimento razionale, allora, dovremmo superare il disorientamento che ci provoca l’immagine della Toscana della metà degli anni Cinquanta e l’enorme distanza che la separa da quella contemporanea? La cultura della pianificazione (della città, del territorio e del paesaggio) nell’ultimo quarto del Novecento ha attraversato un mutamento profondo dei paradigmi cognitivi. Il territorio ha assunto oggi un ruolo, per così dire, attivo nei processi di determinazione delle scelte della trasformazione. Si tratta di una sorta di spostamento di prospettiva: secondo un vecchio paradigma, talvolta definito funzionalista, sono i bisogni antropici (la domanda), a determinare gli orizzonti delle scelte; al soddisfacimento di tali bisogni il territorio dovrà offrirsi, almeno nei limiti della propria ‘capacità di carico’. Secondo il nuovo paradigma, talvolta definito identitario (Baldeschi, 2002), è invece il territorio esistente (Cusmano, 1997), attraverso la
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propria offerta di luoghi e di vocazioni consolidate (l’offerta), a dover condizionare le direzioni del cambiamento. Il paradigma dell’identità sposta l’attenzione sulla valutazione della durevolezza degli assetti, rispetto al primato dell’efficienza funzionale. Sposta l’attenzione, dunque, su una sorta di ruolo ‘operante’ della descrizione dell’identità del territorio, identità che ogni azione di trasformazione dovrebbe impegnarsi a riprodurre. E tuttavia le descrizioni identitarie non dovrebbero appoggiarsi su un sentimento generico di rimpianto per uno stato perduto. In altri termini, la descrizione dell’identità paesaggistica non dovrebbe coincidere con la misura del cambiamento rispetto a un ideale ‘stato originario’, che fissi tale identità in un archetipo immutabile. Poiché le identità si formano per sedimentazione nel tempo della lunga durata storica, quello che dovrebbe richiedersi, almeno a uno specialista delle trasformazioni dello spazio, è lo sviluppo di una specifica capacità tecnica di attribuire una ‘dimensione del tempo’ alla descrizione dei luoghi, che è tuttavia naturalmente qualcosa di diverso e di più di un’attitudine a descrivere il fatto dello stato dei luoghi in un tempo fisso. Dovrebbe essere sviluppata, in sintesi estrema, una attitudine tecnica che renda capaci di giudicare volta per volta l’appropriatezza delle specifiche soluzioni di razionalità ecologica ed economica che caratterizzano uno specifico assetto; e valutare, a partire da lì, senso e convenienza delle trasformazioni. Un’ipotesi di lavoro interessante è che le relazioni storicamente persistenti tra organizzazione insediativa e condizioni ambientali costituiscano un repertorio di principi e relazioni sperimentate di qualità territoriale; e che l’identità di lungo periodo dei territori si possa definire come un “grande
tra parole e saggi
deposito di regole sintattiche, nate dalla moralità di un lavoro ‘ben fatto’ che diventa forma” (Di Pietro, 1987); e, infine, che tale repertorio possa essere utilizzato per commisurare le possibilità di un’azione di trasformazione di generare qualità territoriale: sicurezza, efficienza, durevolezza. In altre parole, che la qualità del cambiamento possa essere in qualche modo misurata attraverso la valutazione della coerenza delle azioni di trasformazione rispetto a qualche regola che ha contribuito a definire l’identità dei luoghi. Da questo punto di vista i principi invarianti da osservare dovrebbero riuscire a cogliere le relazioni essenziali che definiscono le strutture territoriali e paesaggistiche. In primo luogo, probabilmente, il rapporto tra l’organizzazione reticolare degli insediamenti e i fattori geologici e ambientali: ossia, tra gli altri, i rapporti tra il tracciamento dei percorsi di collegamento territoriale, le scelte di localizzazione, le modalità di crescita degli insediamenti umani da un lato; e la natura geomorfologica del terreno, i fattori climatici e microclimatici dall’altro. In secondo luogo, probabilmente, le relazioni tra l’organizzazione agraria e i caratteri idrografici e geologici: ossia, tra gli altri, il rapporto tra la natura e la morfologia del reticolo idrografico, la consistenza geolitologica del suolo da un lato; e i tipi di colture, la loro organizzazione in maglia agraria e in ecomosaici dall’altro. Nel nuovo paradigma il tema centrale delle pratiche cognitive dunque dovrebbe spostarsi, senza rovesciarsi. Non si tratta più, soltanto, di disporre di strumenti descrittivi capaci di valutare l’efficienza funzionale della dotazione territoriale rispetto al soddisfacimento delle necessità antropiche; occorre verificare la capacità degli strumenti analitici e di dare evidenza del
patrimonio di sedimenti materiali e cognitivi che costituiscono l’identità dei luoghi. Ma, insieme, è necessario individuare i criteri di giudizio (e le strategie di progetto) che individuino attraverso argomentazioni razionali le condizioni di possibilità della riproduzione del repertorio di regole e di principi di relazione virtuosa tra azione antropica e ambiente; e bisogna ammettere che il rispetto delle regole di lungo periodo insite nella struttura profonda del territorio ammetta variazioni, anche profonde, nei materiali dei quadri paesaggistici. Il territorio e il paesaggio cambiano continuamente, e talvolta con accelerazioni improvvise, lo abbiamo appena visto; ma non tutti i cambiamenti sono per il meglio. Valutare le trasformazioni dovrebbe servire per interagire con il mutamento e a orientarlo, per quanto possibile, in direzioni desiderabili. Bisognerebbe cioè osservare il passato dentro un’attitudine a immaginare il futuro, a esplorare le direzioni di cambiamento possibili, e a separare quelle migliori dalle peggiori; e, naturalmente, a capire che non tutte hanno bisogno delle stesse condizioni per essere realizzate. Lo studio dell’identità non dovrebbe avere a che fare con la nostalgia, ma con la speranza. Quello che è in gioco non è la mera conservazione delle tracce sedimentate nel passato, bensì la necessità del raggiungimento di una comprensione del palinsesto territoriale capace “di individuare nella storia di un sito le linee guida lungo le quali è opportuno che avvenga il suo sviluppo futuro” (Sereno, 1983). Queste considerazioni, nello stesso tempo in cui ne aumentano le responsabilità, possono contribuire a migliorare le condizioni di lavoro degli specialisti delle trasformazioni dello spazio. Possono aiutarli ad affrontare problemi inediti e a trovare soluzioni innovative nel repertorio dei saperi del passato,
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cercando, in qualche modo, di individuare prospettive inconsuete nel modo di descriverlo. Ci sono, per esempio e per concludere, un paio di questioni sollevate dalla lettura del volo GAI in parallelo all’immagine della Toscana contemporanea che possono essere utili per immaginarne il futuro. La prima riguarda la misura della differenza profonda nella percezione dell’intensità della crescita insediativa in due stagioni diverse della storia italiana: il suolo agricolo è una risorsa e un bene comune che diventa privato nel momento in cui lo si artificializza; questa transizione è sostenibile solo quando il sentore dell’utilità sociale di questa transizione sia effettivamente condiviso. Una tale percezione ha senz’altro caratterizzato l’avvento della modernità sociale nei vent’anni che abbiamo descritto poco sopra; le condizioni del presente, in cui una tale sottrazione non si lega a nessuna istanza sociale, ma semmai, per lo più, a dinamiche di speculazione finanziaria segnano la chiara insostenibilità, anche sociale, della progressione del fenomeno. La seconda, infine, riguarda la possibilità, e forse la necessità e l’urgenza, di ricercare nelle misure e negli allineamenti delle geometrie dei paesaggi agricoli tradizionali i materiali morfologici per definire qualità spaziale nuova entro gli ambienti discontinui e a bassa densità edilizia cresciuti in una contemporaneità senza progetto.
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L’ultimo capitolo della storia del paesaggio agrario italiano
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è coordinata da chi scrive e curata da Michele Ercolini ed Emanuela Loi.
Riferimenti bibliografici Baldeschi, P., 2002, Dalla razionalità all’identità. La pianificazione territoriale in Italia, Alinea, Firenze Barthes R, 1980, La camera chiara. Nota nulla fotografia, Einaudi, Torino Bevilacqua P., 2011, Una scelta di campo. Dialogo intorno alla storia del paesaggio agrario italiano, intervista raccolta da Stefania Barca, “Zapruder” 26, pp. 134-139 Cusmano M., 1997, Misura misurabile. Argomenti intorno alla dimensione urbana, Franco Angeli, Milano Di Pietro G., 1987, Contributo storico all'interpretazione dello sviluppo territoriale, “Atti dell'Istituto di Ricerca Territoriale e Urbana” 1986/1987 Galeotti G., 1971, I movimenti migratori interni in Italia, Cacucci Editore, Bari Ginsborg P., 1989, Storia d'Italia dal dopoguerra ad oggi, Einaudi, Torino Giusti B., Angeletti M., Lucchesi F., Nostrato C., 2012, Le misure dell'impegno di suolo per finalità insediative. Un modello di valutazione per la Regione Toscana, in “Atti XVI Conferenza Nazionale Asita” Vicenza, pp. 745-752 Sereno P., 1983, Il paesaggio, contemporaneo”, La Nuova Italia, Firenze
“Il
mondo
Riferimenti iconografici Figure 1,2 e 3: immagini estratte dall’Atlante delle dinamiche evolutive (1954/1978/1996/2010), in corso di redazione come contributo del Centro Interateneo Scienze del territorio alla redazione del Piano Paesaggistico della Regione Toscana. In particolare, questa sezione di ricerca
Testo acquisito dalla redazione nel mese di Febbraio 2013. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.)
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Le parti di archivio GAI che coprono il territorio Toscano sono state ortorettificate attraverso un progetto di ricerca coordinato da chi scrive e realizzato congiuntamente dal laboratorio LaRIST del Dipartimento di Urbanistica e Pianificazione del Territorio e da Regione Toscana. I materiali fotografici sono stati messi a disposizione dall’Istituto Geografico Militare nella forma di scansioni ad alta risoluzione della copia positiva a contatto dei negativi originali. L’archivio è costituito da 2.463 fotogrammi in bianco e nero realizzati volando a tre quote diverse: 5.000, 6.000 e 10.000 metri; a queste quote corrispondono coppie stereoscopiche a una scala compresa tra 1:30.000 e 1: 65.000, a seconda della distanza focale adottata. I fotogrammi dotati di minor dettaglio coprono principalmente i territori appenninici del Mugello, della Montagna Pistoiese, della Garfagnana e della Lunigiana. I fotogrammi ortorettificati sono stati organizzati secondo un reticolo cartografico coerente con quello della Carta Tecnica Regionale Toscana 1:10000 e l’intero archivio è oggi accessibile attraverso il servizio Geoscopio WMS del Sistema Informativo Territoriale e Ambientale regionale. 2 La metodologia e alcuni risultati dell’indagine sono documentati in (Giusti et al. 2012). Gli intervalli temporali utilizzati dalla valutazione dipendono dalla disponibilità delle fonti cartografiche e aerofotografiche di adeguata qualità; l’indagine ha utilizzato i seguenti materiali: mosaico dei catasti preunitari toscani (circa metà del XIX secolo), Volo GAI (1954), OFC Volo Alto RT (1978), Volo
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AIMA (1988), Volo AIMA (1996), Banca Dati degli edifici toscani (2012). 3 Per una corretta interpretazione di questi dati occorre tener conto che questo valore corrisponde a superfici effettivamente coperte da un tetto; non deve dunque essere considerato con una misura di consumo di suolo, quando con questa espressione si intenda l’aumento complessivo delle superfici artificializzate connesse alla produzione edilizia. Il valore di suolo sottratto alle possibilità di valorizzazione agricola è, comprensibilmente, sempre sensibilmente più alto. Per esempio, i 137 ha/anno di aumento di superfici edificate corrispondono, secondo il modello di valutazione utilizzato dalla ricerca, in Toscana e negli ultimi 12 anni, a 655 ha/anno di suolo artificializzato. 4 Vale la pena segnalare, semmai, che la cifra della contemporaneità non sta tanto nelle quantità del cambiamento, ma nei caratteri morfologici dell’edilizia recente. Per fare un esempio, se si suddividessero le quantità di superfici coperte realizzate negli ultimi 12 anni in due gruppi che corrispondano rispettivamente all’edilizia civile e all’edilizia produttiva e commerciale, otterremmo misure di quantità pressoché equivalenti. Non era mai accaduto prima.
lo (s)guardo estraneo
L’evoluzione del bel paesaggio agrario toscano fra lavoro individuale e governo del territorio. Il caso Val d’Orcia
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The evolution of Tuscany agrarian landscape between individual work and territorial planning. The case of Val d’Orcia.
Ugo Sani*
abstract La Val d’Orcia, come oggi ci appare, è fondamentalmente il risultato dell’opera condotta, a partire dalla fine degli anni Venti del secolo scorso, da un consorzio di bonifica che riunì i maggiori proprietari terrieri del tempo e che l’ha resa nel tempo un’icona del “bel paesaggio agrario”. Oggi questo paesaggio, così come siamo abituati a conoscerlo, è affidato alla sopravvivenza delle colture cerealicole, sempre più difficili da sostenere a causa delle nuove Politiche Agricole Comunitarie e più in generale di un mercato che penalizza il grano duro. Su questo scenario si affaccia anche la spinta verso il business delle energie rinnovabili. Non è più sufficiente dunque affidarsi al buon senso individuale. Occorre un governo dell’area attento non solo e non tanto alle regolamentazioni, quanto piuttosto alla consapevolezza e alla formazione di chi abita il territorio.
abstract Val d’Orcia, as it appears nowadays, is basically the result of the works led by a consortium of drainage that gathered, from the end of the Twenties, the major proprieties of land of that period, and that made this territory an icon of “beautiful agrarian landscape”. Today this landscape, as we are used to know, is kept by the surviving of cereal crops, always more difficult to support because of the EU agricultural policies and, more generally, of a market that penalizes the wheat. On this scenery, the business of renewable energies faces. To trust the individual common sense is no more sufficient. A planning of landscape occurs, that takes care not only of the regulations, but rather the consciousness and education of which lives in the landscape.
parole chiave Val d’Orcia, bonifica, paesaggio agrario, UNESCO.
key-words Val d’Orcia, reclamation, agricultural landscape, UNESCO
* Presidente della Fondazione Alessandro Tagliolini. Centro per lo studio del paesaggio e del giardino
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Poi, tutto ad un tratto, il paesaggio si cangia in colline desolate e scure che si spingono sin dove giunge l’occhio. Non sembrano essere mai state idonee a una qualche cultura e anzi sono orrende e inutili. Tale per un certo tempo appare la campagna prima di giungere al monte di Radicofani, una terribile, nera collina al sommo della quale avremmo dovuto pernottare. Thomas Gray, Lettera alla madre, 2 aprile 1740
I caratteri identitari del paesaggio della Val d’Orcia sono stati fortemente influenzati dall’opera dell’uomo e dalle politiche agricole che si sono succedute nel tempo. Il riconoscimento UNESCO del 2004, che definisce la Val d’Orcia ‘Patrimonio dell’umanità’ come paesaggio culturale, motiva la decisione con i seguenti ‘criteri’: “La Val d’Orcia è un eccezionale esempio del ridisegno del paesaggio del pre-Rinascimento, che illustra gli ideali del buon governo e la ricerca estetica che ne ha guidato la concezione. Celebrata dai pittori della Scuola senese, la Val d’Orcia è divenuta un’icona del paesaggio che ha profondamente influenzato lo sviluppo del pensiero paesistico”. Questo paesaggio, così come oggi ci appare, è in realtà in larga misura il risultato di una imponente opera di pianificazione che, a partire dagli anni Trenta, ha rimodellato buona parte della vallata dissodando calanchi e biancane, imbrigliando le sponde e regimando le acque dei torrenti, costruendo strade, ponti, insomma realizzando un’opera di bonifica attraverso uno strumento consortile che riuniva i principali proprietari terrieri di un’area compresa fra i comuni di San Quirico d’Orcia, Montepulciano, Chianciano, Pienza, Castiglione d’Orcia, Abbadia S. Salvatore, Radicofani e Sarteano. Un caso di pianificazione territoriale affidato a progetti di privati che
L’evoluzione del bel paesaggio agrario toscano fra lavoro individuale e governo del territorio
costituirono e guidarono il Consorzio ma sotto il costante controllo delle autorità di governo che resero possibili e accompagnarono gli interventi di bonifica con forti finanziamenti, forme di incentivazione, verifiche e ispezioni sui luoghi, come dimostra la cospicua documentazione sopravvissuta allo scioglimento del Consorzio avvenuto formalmente nel 1979. Quell’intervento di pianificazione e progettazione del territorio cambiò radicalmente il volto della Val d’Orcia, ne stravolse completamente il paesaggio trasformando ettari di terreno argilloso e arido in campi da coltivare, dissodando terreni con l’utilizzo di macchine e cariche esplosive, e consegnandolo alle generazioni attuali più o meno così come oggi lo vediamo. La Val d’Orcia, se fosse rimasta quella che era prima degli anni della grande bonifica, sarebbe attualmente definita, con ogni probabilità, uno straordinario biotopo buono da studiare per i naturalisti e luogo di grande suggestione poetica, un paesaggio lunare inquietante e solitario. Sarà utile, a questo proposito, riportare qui di seguito quanto contenuto nella Relazione del 3 maggio 1927 dell’Ufficio del Genio Civile di Siena con cui viene presentato il “verbale di delimitazione del bacino del fiume Orcia e per la determinazione delle zone di competenza nella regione presa in esame dal Comitato Senese per la sistemazione agraria-idraulica-forestale del bacino del fiume Orcia”, pubblicata nel Bollettino del Consorzio Trasformazione Fondiaria Val d’Orcia Anno I, n.2 di marzo-aprile 1930. In quella Relazione si descrive così l’area individuata per le opere di bonifica: “Geologicamente la maggior parte del bacino dell’Orcia è costituita dalle argille del pliocene le quali costituiscono le caratteristiche formazioni delle crete senesi che danno al paesaggio un aspetto di desolazione e di uniformità. Lungo i corsi
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d’acqua si hanno i soliti depositi alluvionali, recenti e limitate formazioni di calcari e arenarie si incontrano sulla montagna di Cetona e sui versanti dell’Amiata”. E ancora: “La zona che si considera comprende […] quella parte del bacino dell’Orcia che dal lato agrario, idraulico e forestale trovasi nel maggior disordine. In essa […] lo sfacelo delle pendici è in continuo aumento; ovunque si vedono terre denudate, solcate da rigagnoli, valloncelli, borri, crepacci e profondi scoscendimenti che si allargano ed aumentano di numero nel periodo delle piogge intense”.
Figura 1. Un’immagine della Val d’Orcia prima della bonifica degli anni ’30.
La Relazione prosegue indicando quelle che dovranno essere le opere più urgenti, di carattere idraulico e di forestazione, per rendere quei terreni, incolti e assolutamente impraticabili, pronti per essere “messi a cultura” con risultati tali da assicurare una buona redditività. Chiunque voglia affrontare il tema della evoluzione del paesaggio in questa parte della Toscana non
lo (s)guardo estraneo
può in nessun modo prescindere dalla conoscenza di quanto avvenuto a partire dal 1929 in quest’area. Come pure è difficile prescindere dall’importanza che in questi processi di trasformazione fondiaria, in Val d’Orcia e non solo, ebbe Arrigo Serpieri, studioso di economia agraria e uomo politico che, a partire dal 1929, per alcuni anni ricoprì l’incarico di sottosegretario per la bonifica integrale, fu presidente dell’Istituto nazionale di economia agraria fino al 1954 e infine presidente della fiorentina Accademia dei Georgofili. A lui il merito di aver trasformato l’economia rurale da disciplina prevalentemente tecnica in ramo dell’economia politica. Dispiace che il testo fondamentale del Sereni ometta, probabilmente per un vizio tutto ideologico peraltro comprensibile in un uomo duramente perseguitato dal regime fascista, di rammentare gli interventi di bonifica compiuti fino alla seconda guerra mondiale (Sereni, 1961a). Talché, chi tentasse di ricostruire, attraverso le belle pagine del Sereni, la storia e l’immagine del paesaggio agrario della Val d’Orcia e più in generale delle aree sottoposte a bonifica durante quel periodo per altri versi infausto, si troverà di fronte a un vuoto, a prima vista inspiegabile, fra il primo ventennio del secolo e il secondo dopoguerra. Come se in quegli anni e fino alla seconda guerra mondiale non fosse accaduto nulla di rilevante per quanto riguarda il paesaggio agrario della nostra penisola. Sappiamo che non è così. Ed è oltre tutto singolare scoprire quanto le pagine che il Sereni dedica in modo appassionato alle tecniche agrarie siano vicine a quanto richiamato dalle norme tecniche del Consorzio di Bonifica della Val d’Orcia in materia di messa a cultura dei terreni argillosi e più in generale dei terreni incolti nelle aree collinari.
Scrive per esempio il Sereni, a proposito dell’affresco di Ambrogio Lorenzetti che raffigura gli effetti del Buon Governo, che il dipinto “assume un valore paradigmatico, anzi addirittura didascalico. Difficilmente, così, nel paesaggio reale della sua Siena, tutti i filari delle vigne, in collina, saranno stati, ai suoi tempi, così sapientemente allineati trasversalmente alle linee di massimo pendio, come invece sono nel dipinto: nel quale – anticipando le moderne sistemazioni collinari a ‘gira poggio’ e a ‘taglia poggio’, […] questa sistemazione trasversale alle linee di massimo pendio è rispettata anche quando la collina presenti un doppio declivio. Al contrario: i documenti archivistici del tempo, e gli stessi documenti iconografici, ci mostrano come – nonostante le deprecazioni del de’ Crescenzi, e di tutti i migliori scrittori di cose agrarie – fino ad età assai più tarda seguitasse invece a prevalere la piantagione e la lavorazione a “rittochino”, cioè proprio quella che segue il massimo pendio, e che favorisce pertanto la degradazione e l’erosione del suolo agrario ad opera delle acque di scorrimento” (Sereni 1961b, pp.138-139). Quasi vent’anni prima delle parole di Sereni, in un articolo dal titolo Criteri tecnici per la messa a cultura dei terreni argillosi, apparso sul n. 5-6 Anno XI del Bollettino del Consorzio per la trasformazione fondiaria della Val d’Orcia, dopo aver affrontato il problema delle tecniche di aratura, si davano le seguenti disposizioni in materia di sistemazione idraulica dei terreni ai proprietari consorziati: “I lavori dei quali si è fatto cenno nel precedente paragrafo (quelli relativi all’aratura, NdR) concorrono in modo notevole ad ottenere una buona sistemazione delle acque. Si dovrà però completare la sistemazione con l’apertura di fosse di raccolta e di scolo, dette
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Figura 2. Un altro scorcio prima della bonifica.
Figura 3. Anni dopo, dallo stesso punto di vista.
anche comunemente ed un po’ impropriamente ‘fosse livellari’. Tali fosse potranno essere scavate a ‘gira poggio’ od a ‘spina’: mai a ‘rittochino’.
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Nell’uno e nell’altro caso il fondo della fossa dovrà avere una pendenza dell’uno e mezzo o del due e mezzo per cento” (Traversi 1942a, p.39). E più avanti: “Lo scarico dell’acqua da una fossa a monte in quella a valle si otterrà aprendo solchi o fossetti scaricatori, scavati non a ‘rittochino’ ma in traverso”(Traversi 1942b, p.39). E così via. Detto questo, resta intatta l’importanza della lezione di Emilio Sereni circa il rapporto indissolubile fra logiche di natura socio-economica, e alla fine politica, e trasformazioni del paesaggio. Una lezione che spesso dimentica chi propone un’idea statica del paesaggio, di pura conservazione, come se fosse possibile trattarne il problema della tutela come si fa per l’integrità di un dipinto o di un monumento. Al tempo stesso, troppe volte, a mio parere, l’attenzione pure giustificata e perfino provvidenziale di autorevoli osservatori esterni si è concentrata su operazioni di indubbio impatto ambientale ma assai circoscritte in termini di occupazione del territorio. E troppe volte invece si manifesta grande distrazione per le trasformazioni paesaggistiche che sono di assai più rilevante visibilità e che sono determinate, oggi come ieri, dai processi di trasformazione dell’attività agricola. Come se un residuo di natura ideologica determinasse atteggiamenti diversificati nei confronti di due attività distanti ma entrambi capaci di interventi pesantemente condizionanti; l’una, quella dei costruttori, che induce a giudizi severi di natura etica, l’altra, quella degli agricoltori, alla quale si guarda con occhio assai più benevolo, se non con un malcelato senso di colpa nei confronti di una categoria storicamente svantaggiata. Eppure l’immagine del paesaggio della Val d’Orcia è essenzialmente a loro, agli agricoltori, che è affidata. Sono loro gli architetti, i giardinieri del
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paesaggio e, come diremo più avanti, anche fornitori di servizi di questo territorio. Oggi il paesaggio della Val d’Orcia, oltre ad essere un bene in sé, è un bene economico, per la capacità che ha di attrarre flussi turistici importanti, e conferisce anche un valore aggiunto ai prodotti, peraltro di ottima qualità, dell’agricoltura e dell’allevamento. Il mio non è un giudizio di valore, ma solo una constatazione di carattere storico buona al più per qualche riflessione circa la rinnovata necessità di una pianificazione e di un governo attento del territorio. Si tratta, nel momento presente, di governare i processi di trasformazione secondo criteri che devono fare i conti con ragioni mercantili imposte sempre più spesso da governi sovranazionali e dalle dinamiche economiche internazionali. Mentre il Sereni poteva prendersela a torto o a ragione con i governi nazionali degli anni Cinquanta e con l’assenza di corrette politiche agricole, oggi la materia è divenuta assai più sfuggente di quanto non fosse mezzo secolo fa. Le amministrazioni che sono chiamate a svolgere questo ruolo devono fare i conti con elementi esterni che influenzano anche l’economia dell’area e che sono legati al mercato europeo e alla globalizzazione. Sono dinamiche queste che rischiano di far saltare un equilibrio faticosamente raggiunto fra interesse privato e interesse pubblico o, se si preferisce, collettivo. Si vanno in questi anni affermando nuove regole, si insinuano nuovi possibili business legati alle politiche agricole comunitarie e alle politiche energetiche. Cosicché le nuove colture agricole che cominciano ad apparire, con ogni probabilità, non sono soltanto come qualcuno ha scritto di recente ‘la cartolina dell’intervallo televisivo’ nel paesaggio della Val d’Orcia, e cioè una breve pausa per far riposare i terreni dopo la quale si riprenderà la
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prevalente produzione di grano duro che costituisce ormai da decenni una icona irrinunciabile nell’immaginario collettivo, ma soltanto le prime avvisaglie di quanto sta cambiando, di quanto cambierà in termini di produzione agricola e dunque di paesaggio. Legittimo allora il grido di allarme che si legge in un appassionato editoriale di una rivista locale: “La morte arriva con il precipitare del prezzo dei cereali, in particolare del grano duro. La coltura che segnò la svolta più repentina e sorprendente nell’economia rurale di questa parte di Toscana è divenuta l’epitaffio sotto al quadro di quel luminoso catino verde di grano che fu la Val d’Orcia. Più volte ho soltanto accennato al guasto paesaggistico che l’abbandono della cerealicoltura determinerebbe. Nessuna coltura seriamente alternativa è alle viste e ciò che succederà, statene certi, è che al primo accenno di opportunità economica per colture tipo colza, ne saremo invasi…” (Scheggi 2010, p.3). A queste insidie si aggiunge la tendenza ormai diffusissima a replicare l’inserimento nel paesaggio agrario di elementi che hanno assunto il valore di vere e proprie icone che, nell’immaginario collettivo, costituiscono i caratteri identitari di questo paesaggio. La ‘elezione’ di tali elementi da parte del sistema mediatico e pubblicitario a simboli del territorio della Val d’Orcia – ma più in generale a simboli di bellezza e di armonia - fa sì che si proceda, da parte degli agricoltori che oggi tendono ad avere una crescente attenzione all’appeal agrituristico della propria azienda, ad una vera e propria moltiplicazione di questi elementi intorno ai poderi che hanno ormai perduto la loro originaria funzione e che oltretutto sono spesso ampliati e ristrutturati secondo criteri architettonici che oggi si tende a definire come ‘vernacolari’. La banalizzazione di elementi come il cipresso, il cui
lo (s)guardo estraneo
Figura 4. I cipressini di San Quirico d’Orcia.
Figura 5. Pubblicità cipresso.
valore nel paesaggio della Val d’Orcia era legato ad una presenza del tutto solitaria e sporadica in un contesto sostanzialmente povero di alberature, opera uno svuotamento di significato di questo
segno attraverso una vera e propria fastidiosa e petulante inflazione. Occorre dunque mettere mano a buone pratiche di governo, avendo oltre tutto ben presente che non sempre le buone pratiche in materia ambientale coincidono con le buone pratiche di governo del paesaggio. Occorre avere ben chiaro, per esempio, quali sono i limiti delle energie rinnovabili in termini paesaggistici. Per convincersene basterà immaginare cosa significherebbe la realizzazione di parchi fotovoltaici o l’installazione di pale eoliche di grandi dimensioni in un paesaggio come quello della Val d’Orcia. Eppure, sebbene al momento in maniera non così eclatante, la combinazione fra nuovi indirizzi delle Politiche Agricole Comunitarie che penalizzeranno di qui a poco le colture tradizionali, e in particolare il grano duro, e le politiche energetiche che incentivano la realizzazione di impianti a biomasse, tendono a spostare l’interesse degli agricoltori dalle colture tradizionali a colture più remunerative, se non verso la possibilità di installare gli impianti stessi nei propri terreni. Così, oltre a intervenire sulle criticità presenti, le amministrazioni locali saranno impegnate nei prossimi anni a misurarsi con le aspettative degli agricoltori e a governare i processi di inevitabile trasformazione che investiranno la Val d’Orcia così come altri territori. Un lavoro recentemente condotto dalla Fondazione Tagliolini in collaborazione con l’Università degli Studi di Pisa ha messo in luce appunto la tendenza degli agricoltori dell’area a considerare la coltivazione di grano duro come non più sostenibile in termini di reddito. Nel corso dei diversi focus group che sono stati organizzati, è emersa da parte degli intervistati una generale sfiducia – con poche eccezioni - in un futuro aziendale legato al reddito
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agricolo. In alcuni casi, si è manifestata una tendenza a pensare alla propria attività non in termini tradizionali ma piuttosto con una prospettiva legata alle politiche energetiche, come già si è accennato; in altri casi si è perfino arrivati ad affermare che occorrerà a breve rinunciare a coltivare i campi per dedicarsi totalmente all’attività agrituristica, dimenticando quanto il paesaggio agrario costituisca il valore aggiunto, se non addirittura il fondamento, di una qualunque attività legata al turismo. Non molto frequenti i casi di chi ritiene di poter convertire il proprio lavoro dalle culture tradizionali all’agricoltura biologica (Rovai, Gorelli 2011). Queste sono le sfide che attendono, in un futuro ormai alle porte, le istituzioni chiamate a svolgere una sintesi problematica fra interessi privati e ragioni comuni, fra redditi individuali e patrimonio mondiale dell’umanità, col tradurre in atti concreti di governo la tutela dinamica del paesaggio “così come è percepito dalle popolazioni”, secondo il dettato della Convenzione europea del 2000. La Val d’Orcia, il suo paesaggio agrario, è un cantiere, in cui, come altrove, l’uomo esercita le proprie attività, e come un cantiere deve essere sottoposto a precise normative. Esiste, certo, un Piano di gestione del Sito Unesco. Esistono gli strumenti urbanistici territoriali. Ma il quadro dei regolamenti che spesso si sovrappongono, non sempre armonizzandosi fra di loro, oltre a scontrarsi talvolta con il legittimo desiderio degli operatori agricoli di fare impresa senza troppi vincoli, può non essere sufficiente a garantire un corretto esercizio dell’attività umana. Occorre di più. E’ necessario cioè che si realizzi una diffusa consapevolezza dell’insieme di valori che il paesaggio è capace di esprimere. La sua origine è di natura etica, in quanto frutto dell’agire umano
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che ha prodotto un’estetica conseguente. Non si può immaginare l’una se non in relazione con l’altra. E l’estetica, oggi, costituisce anche, e neanche troppo paradossalmente, un valore economico piuttosto che un limite al libero dispiegarsi dell’attività umana. È d’altra parte anche quello che è emerso, nel corso del convegno Val d’Orcia viva e verde tenuto a San Quirico d’Orcia nel 2007, dall’intervento di Fedozzi secondo il quale due fattori possono garantire la corretta gestione di un Sito Unesco: “Innanzitutto la ‘consapevolezza’. È di fondamentale importanza che ogni soggetto coinvolto sia pienamente consapevole di agire all’interno di un contesto particolare. Solo il raggiungimento di un elevato livello di consapevolezza da parte degli amministratori locali, ma anche dei tecnici, degli imprenditori, dei soggetti economici e sociali, dei formatori e di chiunque abbia interessi in quel luogo, a partire dagli abitanti, può dare garanzie, non solo di corretta impostazione dei Piani, ma anche di più facile attuazione degli stessi. In secondo luogo, la ‘formazione’. Questo fattore, strettamente correlato al primo, in quanto è uno degli strumenti attraverso cui costruire la consapevolezza, assume però un significato particolarmente rilevante se considerato per la sua capacità di trasmettere il cosiddetto ‘saper fare’…” (Fedozzi 2008, p.66). Per questo come Fondazione Tagliolini ci sentiamo impegnati, con la nostra azione culturale, a dare un contributo in una direzione di natura, per così dire, pedagogica. A questo proposito, il nostro più recente progetto è dedicato alla realizzazione di un ‘Atlante antologico del paesaggio della Val d’Orcia’ che consisterà nella produzione di materiale audiovisivo informatizzato (CD Rom interattivi) rivolto alla scuola primaria,
L’evoluzione del bel paesaggio agrario toscano fra lavoro individuale e governo del territorio
alla secondaria di primo e di secondo grado, utile a promuovere la conoscenza e la cultura del paesaggio nelle scuole. Il paesaggio, e il giardino che attraverso i secoli ne ha rappresentato una delle sintesi artistiche più significative, sono per lo più ignorati dai testi e dai programmi scolastici nelle scuole di ogni ordine e grado. Il materiale che si intende produrre dovrà colmare questo vuoto didattico-culturale e puntare alla formazione di una sensibilità consapevole e sostenuta culturalmente nei confronti di un bene che è patrimonio comune e la cui tutela ha riflessi considerevoli sulla identità degli abitanti stessi di un territorio, oltre che sulla economia del territorio stesso. Tutelare in modo dinamico un paesaggio significa salvaguardarne gli elementi costitutivi nei loro tratti più emblematici e insieme operare nel territorio in modo tale da rimodellare il suo paesaggio tenendo conto di tali segni identitari. A fianco, e insieme al di là, degli strumenti amministrativi, dei piani strutturali, dei piani paesaggistici, riteniamo che la formazione dei futuri abitanti di questo, come di altri territori, sia un passaggio assolutamente determinante per la sorte dei nostri paesaggi e della loro dinamica configurazione. L’ Atlante antologico del paesaggio, la cui realizzazione impegnerà un gruppo di lavoro in cui saranno rappresentate diverse professionalità (lo storico, lo storico d’arte, l’architetto paesaggista, l’informatico, l’esperto di tecniche comunicative) che dovranno concorrere, ciascuna per le proprie competenze, a individuare gli elementi emblematici del paesaggio su cui sviluppare i percorsi, e tutte insieme a ricomporre una sintesi che dia unitarietà al prodotto, si offrirà a diversi percorsi di lettura esemplificativi di un approccio corretto ad una cultura del paesaggio: il primo, di carattere
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diacronico, che ricostruisca attraverso una ricerca iconografica e storica le vicende e le trasformazioni del paesaggio in generale e in particolare quello del territorio della Val d’Orcia; oltre a questo, saranno possibili altri percorsi di lettura, anche di tipo sincronico, per analogia e opposizione, ma anche di tipo tematico (i centri storici, gli edifici rurali, le acque, le coltivazioni…). Inoltre, una speciale sezione dovrà essere dedicata alla progettualità, da quella più istintiva, legata alle attività economiche delle popolazioni residenti, a quella più pensata anche in funzione estetica, a quella che per il prossimo futuro potrà realizzarsi sulle aree che presentano importanti elementi di criticità e sulle quali si possono ipotizzare interventi anche pubblici (cave dismesse, attività artigianali e industriali abbandonate, opere parzialmente realizzate e poi interrotte, zone che presentano elementi di grave incongruenza con i caratteri tipici dei paesaggi storici). Naturalmente il materiale audiovisivo sarà realizzato in percorsi ipertestuali che tengano conto, anche da un punto di vista linguistico, dei diversi livelli culturali e didattici delle scuole a cui è rivolto. Gli studenti, seguiti dal loro insegnante che potrà avvalersi di un opuscolo-guida, potranno scegliere su quali percorsi muoversi per le loro ricerche e per il loro studio. Se si farà strada la consapevolezza di vivere in un luogo straordinario che merita uno sforzo concorde da parte di tutti coloro che lo abitano, si potrà infine realizzare una sorta di patto, qualcosa di simile a quanto si va già sperimentando con la Carta del Chianti (Baldeschi 2010), un’alleanza fra cittadini, operatori economici, ‘produttori di paesaggio culturale’, e dunque fornitori di servizi, e amministrazioni pubbliche le quali saranno chiamate a sostenere le buone pratiche di utilizzo
lo (s)guardo estraneo
del territorio e dunque di modificazione critica (Papa 2008) e condivisa del suo paesaggio negli anni a venire.
Riferimenti bibliografici Assunto R., 1973, Il paesaggio e l’estetica, Giannini Editore, Napoli.
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Riferimenti iconografici Figure Figura Figura Figura
1, 2. Consorzio di Bonifica della Val d’Orcia 3: Foto di Daniele Spennacchi 4: Foto di Paolo Naldi 5: Rielaborazione grafica di una foto di Paolo Naldi
Testo acquisito dalla redazione nel mese di ottobre 2012. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
Baldeschi P., 2010, Introduzione, “La carta del Chianti” a cura di Fabio Lucchesi, Passigli editori, Bagno a Ripoli. Fedozzi C., 2008, A proposito di paesaggio in AA.VV., La Val d’Orcia viva e verde. Riflessioni sui siti UNESCO in Toscana. Atti del convegno 2007, Effigi, Arcidosso. Papa C., 2008, Le popolazioni nella Convenzione europea del paesaggio, in AA.VV., La Val d’Orcia viva e verde. Riflessioni sui siti UNESCO in Toscana. Atti del convegno 2007, Effigi, Arcidosso. Rovai M., Gorelli S. (a cura di), 2011, L’evoluzione del paesaggio della Val d’Orcia. Analisi e proposte operative, Fondazione Alessandro Tagliolini. Centro per lo studio del paesaggio e del giardino, San Quirico d’Orcia. Scheggi G., 2010, Lasciando soli i coltivatori lasciamo soli noi stessi, “Val d’Orcia terra di eccellenza”, anno I (n°0), p.3. Sereni E., 1976, Storia del paesaggio agrario italiano, Editori Laterza, Bari (ed. orig. 1961). Traversi B., 1942, Criteri tecnici per la messa a cultura dei terreni argillosi, “Bollettino dei consorzi di bonifica della Val d’Orcia e della Val di Paglia Superiore”, anno XI (n° 5-6).
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Il progetto Cives, un ‘luogo’ d’incontro tra agricoltura, città e partecipazione
Il progetto Cives, un ‘luogo’ d’incontro tra agricoltura, città e partecipazione
Cives Project, a “meeting point” between agriculture, town and participation
Mario Sartori*
abstract Cives nasce come progetto di partecipazione civica con la finalità di aumentare e, nel caso, ricreare il legame tra città e paesaggio rurale, prevedendo il ruolo attivo dei cittadini stessi nel proporre soluzioni per il riuso e la valorizzazione di aree urbane e rurali, e nell’aumentare, e meglio organizzare, la domanda di beni e servizi della campagna periurbana. Perciò da un lato vi sono azioni per una migliore e maggiore fruizione dell’agricoltura più strettamente produttiva, dall’altro proposte di riqualificazione e rivitalizzazione di spazi strategici della città di Milano, come la Darsena che diventa punto di incontro con l’offerta di prodotti e di servizi culturali della campagna e snodo di connessione attraverso il sistema dei Navigli con il paesaggio rurale.
abstract Cives born as a civic participation project to increase and re-create the link between town and rural landscape, thinking an active role of citizens to give solutions for the reuse and the enhance of urban and rural areas, to increase and better organize the demand of goods and services of periurban countryside. On one side, there are actions for a better and bigger fruition of productive agriculture, on the other side there are proposals for requalification and revitalization of strategic Milan’s spaces, as the Darsena that begins a meeting point between products and cultural services of countryside and connection point through the system of Navigli with the rural landscape.
parole chiave peri-urbana, paesaggio, partecipazione civica, Darsena, sistemi agro-ambientali, sovranità alimentare.
key-words peri-urban, landscape, civic participation, Darsena, agro-environmental system, food sovereignty
* Architetto, direttore della Fondazione RCM Rete Civica 1 di Milano
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lo (s)guardo estraneo
Nel gennaio 2011 ha preso il via il progetto CivesCittadini verso la sostenibilità, un percorso di partecipazione concepito per aumentare il legame tra cittadini e territorio rurale e stimolare l’interazione tra i diversi attori che determinano il rapporto e lo scambio tra agricoltura e città. Il punto di partenza del progetto è stato l’analisi dell’agricoltura peri-urbana nella porzione meridionale della città di Milano, che da produttrice di paesaggio in senso ampio (produttivo, ambientale e culturale), si è trasformata nel tempo, diventando la prima vittima delle espansioni invasive della città e dei centri urbani minori, avvenute soprattutto negli ultimi decenni del secolo scorso. In particolare tale analisi ha preso in esame la frattura che nel tempo si è determinata tra la città e il suo territorio rurale, con la perdita di valore dei sistemi paesaggistici lineari ed areali che nel passato assicuravano tale legame, quando i Navigli avevano un ruolo di connessione. Al contrario, attualmente, si assiste ad un distacco cognitivo e culturale tra ruralità e cittadini, i cui stili di vita sono sempre più indifferenti ai processi di sfruttamento e consumo di suolo, che progressivamente erodono lo spazio dell’agricoltura più prossimo alla città. Tali trasformazioni hanno generato, e continuano a produrre, aree di degrado prive di qualità, di identità e riconoscibilità, in cui ‘l’agricoltura ha perso parte delle sue funzioni e dove l’area urbana ancora non ha acquisito una fisionomia organizzata’ [Sorlini, 2010, p. 6]. Inoltre tra gli abitanti si è diffusa una disabitudine a considerare il valore del paesaggio agrario, sia dal punto di vista produttivo sia da quello culturale ed ambientale: l’agricoltura non è più riconosciuta quale fonte vitale di benessere e risorsa fondamentale per il futuro. Il fragile destino dello spazio rurale intorno alle città non interessa alla
cittadinanza, che non riesce più a percepire il legame tra i propri bisogni fondamentali (alimentazione) e la terra, dal momento che i supermercati traboccano di prodotti.
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Nel contempo non ci si preoccupa della loro provenienza e dei requisiti della loro produzione, conservazione, trasporto, proprietà organolettiche oltre che del legame tra agricoltura e benessere/salubrità ambientale del contesto in cui si vive. Una parte dei cittadini ormai diventati consumatori tout court credono che i polli e la verdura nascano negli ipermercati, che l’acqua buona sia solo quella nella plastica, non acquistano più cibo ma marche, non riescono più a cogliere il legame tra il disagio climatico dello stare in città con la scomparsa della funzione equilibratrice del microclima urbano dovuta alla vegetazione dei parchi e, soprattutto, agli agro-ecosistemi. Il progetto Cives tra ruralità ed urbanità milanese
Figura 1. La Darsena prima dei primi interventi (2010).
Il contesto del progetto Cives è quello del territorio urbano ed extraurbano nella zona sud di Milano, con un focus sull’area intorno alle aste dei Navigli Grande e Pavese, alla Darsena ed alle zone agricole, ancora attive, che si trovano in prossimità dell’urbanizzato e che, come nel caso del Parco delle Risaie, si spingono fin dentro la città. Tra gli obiettivi proposti vi è la valorizzazione degli spazi urbani e rurali, in cui il sistema delle acque assume un ruolo determinante. Alle componenti del paesaggio dei Navigli, infatti, viene riconosciuta la funzione di creare una sorta di rete connettiva, non soltanto fisica ed ecologica ma anche sociale e culturale in grado di porre in relazione le aree rurali più esterne del Parco Agricolo Sud di Milano con il cuore della città, la Darsena, a cui in passato era attribuito (e forse si tornerà ad assegnare) il ruolo di ‘Porto di Milano’.
Figura 2. Il Parco delle Risaie.
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Tutto questo comparto del sistema DarsenaNavigli si presentava, già prima dell’avvio del progetto, ricco di iniziative volte sia alla partecipazione, per la presenza attiva di comitati ed associazioni impegnate in progetti di coesione sociale, di riqualificazione urbanistica ed ambientale, sia a progetti d’iniziativa pubblica (tra cui quello in atto per la riqualificazione della Darsena milanese) avviati anche in vista anche dell’Esposizione Universale prevista nel 2015 a Milano dal titolo: ‘Nutrire il Pianeta. Energie per la vita’. Cives nasce da un partenariato di più soggetti, che vede la Fondazione RCM – Rete Civica di Milano promotrice e capofila dello stesso progetto, il Consiglio di Zona 6, le associazioni sul territorio e gli stakeholders locali (l’associazione Parco delle Risaie, Arci Milano e il circolo Arci Cicco Simonetta, Bei Navigli, gli operatori agricoli e della Navigli Lombardi), l’Università (il Politecnico di Milano, con la partecipazione del Dipartimento di Architettura e Pianificazione) ed gli enti privati (tra questi da menzionare la Fondazione Cariplo che ha finanziato il progetto stesso). Al centro di Cives c’è lo sforzo di affermare un ruolo attivo dei singoli cittadini e/o uniti in associazione nel concorrere a progetti rivolti in due direzioni: da una parte nel proporre soluzioni per il riuso e la valorizzazione di aree urbane e rurali, con particolare attenzione alla riqualificazione dell’area della Darsena, e dall’altra per aumentare e meglio organizzare la domanda di beni e servizi della campagna periurbana, al fine di riallacciare quel labile, ed in alcuni casi ormai rotto, legame tra città e campagna. Le implicazioni paesaggistiche (ambientali – sociali – economiche – culturali) degli obiettivi
Il progetto Cives, un ‘luogo’ d’incontro tra agricoltura, città e partecipazione
proposti sono notevolissime e riguardano una pluralità di aspetti tra loro correlati. Il ruolo dell’agricoltura, ed in particolare di quella urbana e periurbana in oggetto, è molto ampio. Essa sostiene, attraverso la biodiversità, la resilienza della città alle pressioni ambientali e alle emergenze climatiche e naturali assumendo il ruolo di presidio ambientale, climatico ed ecologico. Si pensi, per esempio, alla regimazione delle acque ed alla gestione appropriata del loro uso, al bilanciamento della produzione di anidride carbonica, alla difesa del suolo dalle erosioni. Inoltre propone un sistema alimentare più giusto e razionale, in cui la cittadinanza riscopre l’offerta di prodotti che provengono dalla cintura urbana e dall’hinterland (il cosiddetto “km zero”). I cittadini ritornano, ad essere consumatori capaci di sostenere, anche attraverso l’organizzazione di acquisti diretti (Gruppi di Acquisto Solidali), la domanda di prodotti di qualità ed orientare, così, l’agricoltura stessa verso prodotti biologici e modalità di coltivazione a ridotto impatto ambientale ed energetico. Anche grazie a questo nuovo processo di consumo si genera una nuova possibilità economica, sociale e culturale, con l’offerta di servizi, percorsi ed educazione volte ad innestare un circuito virtuoso del tempo libero a minore impatto ambientale. In questa categoria sta la riscoperta del paesaggio rurale, che permette la fruibilità di luoghi di grande interesse storico e culturale con modalità di spostamento sostenibili (in particolare la bicicletta) attraverso connessioni verdi tra città e campagna.
Figura 3. Meeting Cives alla Cascina Battivacco.
Figura 4. Escursione nel Parco delle risaie.
Va sottolineato, inoltre, che il progetto di riqualificazione Cives non riguarda solo le aree a stretta funzione rurale produttiva e multifunzionale, ma investe anche il paesaggio urbano. In particolare con la riqualificazione di un’area strategica della città di Milano (la Darsena), per cui si ripropone il suo ruolo di porto della città, divenendo punto di informazione privilegiato per i prodotti agricoli e snodo di connessione, attraverso il sistema dei Navigli, con la campagna.
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lo (s)guardo estraneo
Tra gli obiettivi sta l’avviare un processo di crescita di attenzione, da parte di tutti (dagli operatori agricoli, agli amministratori locali, gli operatori del commercio e della ristorazione e la cittadinanza stessa), volto alla salvaguardia del paesaggio rurale urbano e periurbano, attraverso non tanto lo sviluppo di ulteriori progetti urbani e rurali, ma soprattutto mediante progetti di gestione nel tempo del patrimonio culturale e sociale da essi scaturito.
attese tra i consumatori già in essere (gruppi d’acquisto), residenti della città di Milano ed operatori commerciali della zona dei Navigli.
Il percorso, il metodo
L’obiettivo degli incontri è stato quello di dar voce ai portatori di progetti ed iniziative, facilitando la consultazione ed il confronto con quelli elaborati dalla pubblica amministrazione, o proposti dalle associazioni del territorio. Questo processo ha portato, al termine del percorso partecipativo, a formulare ulteriori proposte, rispetto alle quali è stata richiesta la sottoscrizione di impegni da parte dei soggetti pubblici e privati che hanno partecipato al processo partecipativo. L’analisi delle trasformazione urbane e del modificarsi del rapporto città-campagna
Il progetto ha sviluppato numerose attività nel territorio e in rete imperniate attorno a due laboratori partecipativi: uno nell’area della Darsena e uno nel territorio denominato ‘Parco delle Risaie’, un’enclave agricola nel cuore dell’area urbana dei Navigli a meno di un chilometro, in linea d’aria, dalla Darsena, a sua volta punto di arrivo e di partenza del Naviglio Grande e del Naviglio Pavese. Il progetto, con un percorso partecipativo durato 18 mesi, ha sviluppato analisi sulla trasformazione della città e delle campagne milanesi, individuato le maggiori criticità ma anche le più interessanti opportunità di rilancio del ruolo dell’agricoltura e del suo rapporto con la città, mettendo a disposizione un ambiente di e-participation (il sito www.cives.partecipami.it) con informazioni, documenti e spazi di dibattito sui temi di Cives. L’incontro con i cittadini, le associazioni e con gli operatori pubblici e privati è stato promosso soprattutto attraverso meetings ed escursioni nei territori interessati dal progetto, svolgendo indagini ed inchieste volte a raccogliere punti di vista ed
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A supporto del progetto Cives il DiaP (Dipartimento di Architettura e Pianificazione del Politecnico di Milano, con la partecipazione della Prof.ssa Maria Cristina Treu e dell’arch. Angela Colucci) ha contribuito svolgendo operazioni sia di sintesi dei risultati di indagine sia di approfondimento attraverso la costruzione di schedature sul contesto fisico e sociale, la redazione di cartografie, la lettura delle dinamiche di trasformazione, l’individuazione delle forze e criticità, la comprensione dei fenomeni di conflittualità, la rappresentazione delle proposte e delle istanze degli attori e della cittadinanza e l’individuazione delle linee di convergenza nel territorio dei Navigli. Quest’analisi si è tradotta in una serie di elaborati di sintesi che considerano le evoluzioni nel tempo (il passato, il presente ed il futuro) del territorio. Si rintracciano, perciò, i segni della memoria dei luoghi, attraverso l’analisi delle trasformazioni storiche con l’evoluzione nel tempo dei nuclei urbani (la zona della Darsena e i nuclei lungo il Naviglio) e le fasi di sviluppo della città. Figura 5. Una locandina del meeting Cives 28 gen 2012.
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Si interpretano gli indirizzi delle trasformazioni avvenute negli anni recenti attraverso l’uso di strumenti attuativi di pianificazione della Regione Lombardia, quali i Programmi Integrati di Intervento, in corso o già realizzati; si analizzano criticamente le previste future trasformazioni per le quali il dibattito sui contenuti, sulla qualità e le caratteristiche degli spazi pubblici e del costruito è ancora aperto. Le schede raccolgono e permettono di condividere tutte le numerose istanze e proposte emerse, o segnalate, durante tutto il percorso partecipato (comprendendo in particolare gli incontri pubblici e l’ambiente di e-participation di www.cives.partecipami.it), permettendone una condivisione favorita dalla rappresentazione spaziale delle stesse proposte in un’unica mappa denominata ‘Carta delle proposte e delle linee di convergenza’. Tale mappa si caratterizza per “scomporre” le proposte e per “riorganizzarle” nei quattro temi principali di CIVES: 1. spazio pubblico: quali luoghi svolgono o potrebbero tornare a svolgere importanti funzioni di socialità, di scambio e d’incontro ed in particolare diventare nodi di presidio della mescolanza tra città e ruralità; 2. ambiente: quali spazi e quali elementi lineari (a partire dai Navigli) richiedono interventi per risanare le risorse ambientali: acqua, suolo e territorio, affinché il degrado non costituisca premessa irreversibile alla definitiva artificializzazione dei contesti; 3. connettività città-spazio agricolo: individuazione dei principali assi su cui innestare interventi di riqualificazione urbana capaci di creare nuovi spazi di paesaggio rur-
Il progetto Cives, un ‘luogo’ d’incontro tra agricoltura, città e partecipazione
urbano (come il Parco lineare dei Navigli, il sedime ferroviario o lo spicchio trasversale di connessione rurale tra i Navigli rappresentato dal parco delle Risaie); 4. agricoltura e relazioni/mobilità valorizzazione e potenziamento dei percorsi lineari non solo in termini di tracciati ciclo-pedonali, ma di ricucitura di luoghi e risorse preziose per l’economia agricola (cascine), per il tempo libero, la cultura e il paesaggio.
Figura 6. Milano terre d’acqua. Il parco lineare del Naviglio Grande: un grande raggio del tempo libero e della mobilità ciclo fluviale.
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lo (s)guardo estraneo
La Carta delle Proposte e delle Linee di Convergenza Al termine del processo partecipativo la ‘Carta delle Proposte e delle Linee di Convergenza’ diventa un documento molto importante, in quanto sintetizza e mette in relazione le proposte istituzionali derivanti dai piani e programmi con quelle emerse dal progetto CIVES. Il metodo seguito da Cives, infatti, nelle analisi, nelle indagini e nelle interviste, sul sito partecipativo e, soprattutto, nei cinque meetings collegiali, che hanno scandito il percorso, è stato caratterizzato dal valorizzare i progetti e le iniziative in atto nel territorio e nel mettere a confronto e a contatto i protagonisti di tali progettualità, favorendo l’incontro, del tutto nuovo e inusuale, tra ‘mondi’ finora non comunicanti: operatori agricoli, associazioni, amministratori locali, gruppi d’acquisto, tecnici ed esperti. Le attività che hanno accompagnato il percorso partecipato come le passeggiate di quartiere, la mappatura di tutte le istanze e la tematizzazione della progettualità rispetto ai temi caratterizzanti ed il forum on-line, hanno permesso l’individuazione delle linee di forza e delle linee di convergenza delle progettualità che, a diverso titolo e con diversi strumenti, puntavano e puntano a potenziare l’agricoltura e soprattutto il suo rapporto con la città in evoluzione. Una caratteristica peculiare del progetto è stata quella di affiancare sempre le analisi di carattere disciplinare tecnico e la raccolta del sapere esperto con l’espressione e la mappatura, sugli stessi temi, delle esperienze vissute dai cittadini, al fine di ricostruire con la comunità le tappe e i meccanismi che sono intervenuti nel modificare,
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in positivo e in negativo, il rapporto città-campagna e la funzione del sistema Darsena-Navigli. Emblematica, al riguardo, è stata l’attività di ricostruzione della “linea del tempo”, attività che ha considerato sia l’ambito dei Navigli, sia il comparto del Parco delle Risaie e che ha permesso di collocare su tale linea le trasformazioni più significative ricostruite dagli esperti (per il periodo antecedente alla seconda guerra mondiale) o raccontate dai cittadini (per gli ultimi sessant’anni).
Figura 7. Mappatura delle trasformazioni, dei progetti e delle proposte, DiAP – Politecnico di Milano.
Il focus sulle progettualità Nella fase finale del processo partecipativo l’attenzione si è concentrata sui progetti che, più degli altri, presentano contenuti funzionali agli obiettivi perseguiti da Cives, ed in particolare all’obiettivo di favorire la connessione città-campagna attraverso la valorizzazione degli spazi pubblici, dei percorsi d’acqua e di terra che legano o potrebbero legare gli spazi urbani con quelli dell’agricoltura, con particolare riferimento al Parco delle Risaie. Nella scelta dei progetti da approfondire si sono privilegiati quelli che permettevano di
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mantenere un approccio partecipativo e di mobilitazione civica nella risoluzione dei problemi. Sono stati perciò considerati i progetti di riqualificazione localizzati sia nell’area urbana della Darsena e del quartiere Barona, sia sugli assi connettivi dei Navigli e sia nel territorio agricolo, in particolare nel Parco delle Risaie. Di seguito si accennano i principali progetti considerati, utili per la descrizione del percorso metodologico di Cives e per meglio spiegare le relazioni delle proposte progettuali condivise conclusive con i progetti pubblici in corso. Il progetto di riqualificazione della Darsena milanese Nel luglio del 2012 il Comune di Milano è giunto all’approvazione definitiva del progetto di ristrutturazione e riqualificazione dell’ambito della 2 Darsena , progetto questo inserito tra le opere da realizzare completamente con i finanziamenti pubblici derivanti dall’Expo 2015. Si prevede una riqualificazione complessiva del bacino, a cui verrà restituita la sua funzione quale “porto di Milano”, e degli spazi pubblici che lo circondano, attraverso opere che prevedono da una lato il recupero di elementi identitari storici, per esempio la riapertura dell’antico tratto delle Ticinelle, il restauro del Ponte delle Gabelle, la conservazione delle antiche mura spagnole, che per un breve tratto vengono rese visibili, come di un antico assito in legno rinvenuto durante gli scavi archeologici; dall’altro la previsione di nuovi inserimenti, come un giardino lungo le sponde e passerelle che si propendono verso l’acqua per migliorare la fruibilità pedonale, la realizzazione di nuove aree di alaggio e rimessaggio ed attività di lavoro portuali per citarne alcune.
Figura 8. Il progetto di riqualificazione della Darsena.
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lo (s)guardo estraneo
Tali opere previste offriranno nuove opportunità per insediare nell’area attività pubbliche e private di particolare interesse per il raggiungimento di uno degli obiettivi qualificanti del progetto Cives, ossia quello di promuovere la presenza stabile dell’agricoltura in città nell’area della Darsena e nel territorio intorno ai Navigli. L’intento è quello di destinare tale luogo come punto di offerta alimentare e culturale delle campagne milanesi e del loro paesaggio, utilizzando una parte degli spazi coperti e scoperti, sia di recupero che di nuova realizzazione, per la vendita e degustazione dei prodotti del territorio agricolo del milanese. Il progetto comunale prevede infatti la realizzazione di un nuovo mercato Comunale, in sostituzione di quello attuale coperto (che separa P.za XXIV Maggio dalla Darsena), posto sulla sponda nord (verso viale D’annunzio), che rappresenta una sorta di presidio della vita urbana proteso verso il bacino portuale, e la creazione di una nuova piazza del mercato posta tra il nuovo edifico a mercato comunale coperto e la piazza XXIV Maggio. Tale spazio, oltre ad essere utilizzato come mercato all’aperto, si presta ad essere adibito allo svolgimento di manifestazioni, esposizioni e spettacoli musicali a piccola scala. Il progetto di riqualificazione e valorizzazione del Parco delle Risaie Anche in questo caso il progetto è inserito nelle previsione dell’Expo 2015 ed è stato selezionato per il Bando “Expo dei Territori: Verso il 2015” ricevendo anche un importante riconoscimento europeo, ossia il Premio Mediterraneo del Paesaggio. E’ stato sviluppato dall’Associazione Parco delle Risaie Onlus a partire dal 2008 ed
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attualmente è inserito nel Piano Distrettuale del Consorzio DAM (Distretto Agricolo Milanese). Esso è nato dall’incontro tra alcuni cittadini della Cascina Barona e gli agricoltori della zona, con lo scopo di conservare la terra ed il paesaggio rurale delle risaie, percepito come elemento importante per la qualità della vita e dell’ambiente urbano. Il mantenimento e la continuità delle attività agricole, infatti, consente la conservazione del paesaggio per tutti, con la possibilità di offrire ai cittadini milanesi un luogo di svago e di tranquillità, dove elementi semi-naturali e della tradizione entrano dentro la città e dove è possibile assaporare (anche gustando i prodotti della terra) quello che è il mondo agricolo milanese. Gli interventi diversificati previsti hanno come obiettivo la riqualificazione agro-ambientale attraverso la realizzazione di una rete di percorsi ciclopedonali all’interno del Parco, per esempio con la realizzazione della strada del riso, la ri-apertura di varchi di connessione ciclo-pedonale con il Naviglio Grande e la valorizzazione delle cascine, che assumono un carattere multifunzionale divenendo luoghi per attività agrituristiche, basi logistiche per i gruppi d’acquisto e vendite dirette dei prodotti coltivati e, nel caso, trasformati.
Figura 9. Il Progetto di riqualificazione Parco delle Risaie curato dall’arch. Gioia Gibelli.
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Il progetto Cives ha permesso di aumentare notevolmente la visibilità del Parco delle Risaie, consentendo una sua conoscenza da parte di un gran numero di cittadini, facilitando una serie di relazioni a vari livelli, che oggi la rendono una realtà condivisa ed apprezzata al livello cittadino. Il progetto di creazione di un ‘Parco lineare dei Navigli’ lungo il Naviglio Grande E’ un progetto curato dall’Associazione Bei Navigli ponendo l’attenzione allo sviluppo di una economia del tempo libero, del turismo e della cura di sé, in connessione con le eccellenze agricole, paesaggistiche e architettoniche del sud milanese. Rappresenta una grande opportunità di riqualificazione di un vasto comparto urbano e la formazione di un sistema articolato e continuo di spazi prevalentemente aperti e attrezzati di fruizione pubblica in connessione col Parco Agricolo Sud e il territorio circostante. Lo si è concepito come un parco aperto e diffuso, che non crea un’isola nel tessuto urbano, ma vi si integra attraverso una serie di interventi progettuali improntati a valorizzare, connettere e mettere in relazione tra loro quartieri, infrastrutture di trasporto e aree pubbliche, anche attraverso la ricerca di nuovi spazi nuovi spazi pubblici con funzione di cerniera tra zone urbane attualmente divise (si sviluppa lungo il Naviglio Grande e il Naviglio Pavese individuando ambiti areali di intervento: la Darsena, la Zona Tortona e lo Scalo Ferroviario di Porta Genova, le aree di prossimità degli scali ferroviari come San Cristoforo, l’ambito di Ronchetto sul Naviglio e i parchi attigui). Per gli obiettivi del progetto Cives è opportuno e vincolante che gli interventi previsti individuino un percorso condiviso che coinvolga tutti gli attori
Il progetto Cives, un ‘luogo’ d’incontro tra agricoltura, città e partecipazione
interessati, sia in fase di progetto che di realizzazione in modo che gli interventi siano: - compatibili con le linee guida individuate dal Parco Lineare, per valorizzare e realizzare i servizi, le aree a verde, gli spazi d’acqua e le infrastrutture ciclopedonali, al fine di promuovere una connessione estesa e continua dal centro alla periferia; - siano ben individuate le caratteristiche funzionali dell’intervento e le sue ricadute sul territorio, considerando le esigenze specifiche come la valorizzazione delle risorse economiche esistenti nell’area (piccole e medie imprese) e promuovendo interventi privati, coerenti con il sistema Parco, in aree e manufatti dismessi o sottoutilizzati; - siano promossi interventi anche parziali ma che di volta in volta posano definire uno scenario complessivo del Parco, all’interno di una strategia unitaria. Oltre a questi progetti se ne considerano, all’interno degli obiettivi di Cives, altri le cui linee guida prevedono una connessione e valorizzazione degli spazi aperti esistenti attraverso non solo progetti architettonici ma anche di fruibilità e gestione degli spazi aperti. Per esempio per il progetto di riqualificazione del quartiere Barona l’ampio ventaglio di misure dovrà essere scaglionato nel tempo e fra di loro coordinate e gestito al fine di aiutare gli attori del territorio (in primo luogo l’Amministrazione) a farsene carico. Il progetto PNG-Portale Naviglio Grande, localizzato nei pressi del Ponte Richard Ginori, rilancia il tema del recupero e della rivitalizzazione economica delle strutture industriali e degli spazi dismessi quali aree da connettere ai cinque quartieri ad esse perimetrali e che insistono sui Navigli. Il progetto di
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rivitalizzazione promuove una nuova modalità di accessibilità e fruizione pubblica attraverso la navigazione sul Naviglio Grande la realizzazione di un approdo ed uno snodo intermodale tra acqua, strada e ferrovia ed un polo multifunzionale. In tale area si prevede, infatti, l’allestimento temporaneo di tensostrutture che in modalità altamente flessibile vengono modulate a seconda delle diverse manifestazioni ed iniziative, siano esse mostre, convegni, mercati, spettacoli, meetings sportivi e quant’altro, sia in connessione con l’Expo 2015 che per altre occasioni, quali per esempio, il Salone del Mobile e/o le Settimane della Moda. Cives e il ruolo della piattaforma partecipativa La piattaforma partecipativa (www.cives.partecipami.it), oltre a permettere l’interazione tra amministratori, associazioni, operatori economici e cittadini sui temi del progetto, ha garantito che le stesse informazioni fossero disponibili a tutti, assicurando una possibilità di intervenire nel dibattito paritetica, dando altresì una possibilità di partecipare allo sviluppo del progetto Cives segnalando luoghi, iniziative o problematiche che, grazie alla rete, hanno potuto essere “messi sul tavolo” e restare sul tavolo al di là dell’occasionalità e dalla limitatezza temporale degli incontri organizzati nel territorio. Per chi non aveva potuto partecipare ai meeting, è risultata una possibilità per poter ‘dire la sua’: rispondendo ai questionari o alle interviste videofilmate, visualizzando le escursioni, raccogliendo informazioni sull’avanzamento del progetto e partecipando alla costruzione delle mappatura on line delle risorse agro-paesistiche e delle iniziative che maturavano nel territorio.
lo (s)guardo estraneo
Al termine del progetto la piattaforma Cives ha messo a disposizione due mappe geo-referenziate interattive dove, tuttora, tutti possono attingere e inserire nuove informazioni e dove si possono ritrovare: -‐ la mappa dell’agricoltura e città: con la distribuzione dei produttori agricoli del territorio del parco sud, dei gruppi d’acquisto e i punti di distribuzione e di vendita diretta dei prodotti alimentari locali;
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la cives map: in cui sono raccolti i progetti analizzati da Cives, che possono essere commentati e se ne può seguire l'attuazione, discutendone con i propositori e gli altri cittadini.
Figura 10. Mappa dell’agricoltura in città e CIVESmap.
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Le proposte finali di Cives Dai progetti che sono stati discussi e ‘messi in rete’, dai confronti, dalle analisi e dalle indagini condotte sul territorio, Cives ha tratto sette proposte conclusive sulle quali ha raccolto l’adesione dei protagonisti del percorso partecipativo. L’impegno è rivolto: 1. a far si che nella Darsena riqualificata e nel territorio dei Navigli, siano garantiti adeguati spazi e servizi da destinare all’incontro tra l’offerta alimentare e culturale delle campagne milanesi e la cittadinanza. Con la partecipazione alle iniziative di Cives degli amministratori comunali (assessori, tecnici e amministratori del Consiglio di Zona 6) e dei progettisti si è avviato un percorso per mettere a fuoco le modalità d’uso delle strutture e degli spazi che si creeranno nella rinnovata Darsena (i lavori si concluderanno nel 2014), al fine di rendere permanente la presenza dell’agricoltura di cintura urbana: offerta di prodotti, visibilità dei servizi offerti dal territorio rurale, promozione delle opportunità per il turismo e il tempo libero, proposte culturali sulla storia e la funzione dei Navigli; 2. a promuovere, anche valorizzando ed utilizzando gli spazi in rete, la partecipazione civica nella formazione delle decisioni in merito al territorio dei Navigli, degli spazi aperti e delle acque, finalizzate a rinsaldare il rapporto cittàcampagna. Al termine del progetto, il comune di Milano e il Consiglio di Zona 6 hanno promosso la costituzione di un ‘Forum delle vie d’acqua’, un organismo partecipativo, che può essere considerato una sorta di osservatorio attivo, aperto alle associazioni e ai soggetti portatori di progettualità locale. Oltre a monitorare, avrà il
Il progetto Cives, un ‘luogo’ d’incontro tra agricoltura, città e partecipazione
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compito di coordinare e sviluppare iniziative di riqualificazione e valorizzazione del paesaggio rurale, al fine di mettere a fattore comune le iniziative pubbliche (i progetti delle vie d’acqua di Expo), civiche e private; a favorire le iniziative di riconquista dei beni comuni rappresentati dagli spazi aperti pubblici e dalle acque che li attraversano, con particolare attenzione alle aree e ai varchi di connessione tra il sistema dei Navigli e il Parco delle Risaie, promuovendo il ruolo attivo dei cittadini e delle loro associazioni nel recupero degli spazi degradati; a promuovere una campagna cittadina di informazione/educazione alimentare ed ambientale (in particolare per la cultura dell’acqua, elemento fondante del territorio milanese e del suo sviluppo che si propone come lascito immateriale di Expo alla cittadinanza); a favorire negli spazi pubblici di Milano, dedicati alla vendita dei prodotti agricoli (mercati comunali, mercati di vicinato, e così via) la presenza di cibi locali; anche dopo la conclusione del progetto Cives è proseguita l’interazione con gli uffici comunali e i tecnici che stanno mettendo a punto le nuove regolamentazioni d’uso dei mercati comunali; a favorire il rafforzamento dei Consorzi e delle reti esistenti dei produttori e dei consumatori, anche attraverso la definizione di accordi per sviluppare ed organizzare l’incontro tra domanda – con particolare riferimento alla rete dei GAS e dei circoli Arci - e offerta dei prodotti del territorio; a proporre ai servizi di ristorazione e commerciali di offrire prodotti alimentari del
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territorio e di partecipare alla campagna di valorizzazione delle risorse agro-ambientali del Parco sud. Il 15 settembre alla Canottieri Milano si è svolto l’incontro finale di Cives con un evento denominato “Milano: l’agricoltura sull’acqua”. Un’imbarcazione storica, ‘el barchett’, che fino a cent’anni fa portava merci e passeggeri a Milano sul Naviglio Grande è arrivata fino alla Darsena carica di prodotti dell’agricoltura del territorio. Con questo evento si è voluto rappresentare simbolicamente il legame che va ricostruito tra la campagna, la città e le sue acque.
Figura 11. ‘El barchett’ evento di chiusura progetto Cives 15 settembre 2012.
lo (s)guardo estraneo
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Riferimenti bibliografici Sorlini C., 2010, Agricoltura periurbana di qualità: una sfida per i prossimi 5 anni, in Agostini S. et. Altr., Per un’altra campagna. Riflessioni e proposte per un’agricoltura periurbana, Maggioli Editore, Milano.
Riferimenti digitali http://www.cives.partecipami.it
‘progettare, gestire e sostenere ambienti di partecipazione attiva dei cittadini, avvalendosi di strumenti digitali, informatici e telematici, nei processi di formazione, adozione e valutazione delle decisioni e dei servizi di pubblico rilievo’. (art 2 Statuto FRCM) 2 Tale progetto rappresenta un’evoluzione di quello risultato vincitore Concorso internazionale di progettazione del 2004 presentato dagli associati: arch. Jean Francois Bodin, arch. Edoardo Guazzoni, arch. Paolo Rizzato, arch. Sandro Rossi (capogruppo), D’Appolonia spa, Manens-Tifs srl e Erre.vi.a.srl, e si inserisce tra le opere infrastrutturali previste per l’evento Expo 2015 denominate ‘Nuove vie d’acqua’.
Riferimenti iconografici Figura Figura Figura Figura Figura Figura
1,2, 3, 4, 11: Immagini di arch. Mario Sartori 5, 10: http://www.cives.partecipami.it 6: http://www.naviglinrete.partecipami.it 7: DIAP, Politecnico di Milano 8: tavole dell’arch. Sandro Rossi 9: Arch. Gioia Gibelli
Testo acquisito dalla redazione nel mese di Febbraio 2013 © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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Fondazione RCM - Rete Civica di Milano (FRCM) è una fondazione di partecipazione che nasce nel 1998 dal Laboratorio di Informatica Civica dell’Università degli Studi di Milano (LIC). I suoi Enti fondatori sono la Regione Lombardia, la Provincia di Milano, l’Università degli Studi, la Camera di Commercio di Milano e l’Associazione libera Informatica Civica. FRCM nasce con lo scopo di
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L’inventario nazionale del paesaggio rurale storico. Nuovi indirizzi per la pianificazione delle aree rurali
L’inventario nazionale del paesaggio rurale storico.
National Historical Rural Landscape List. New addresses for planning in rural areas
Mauro Agnoletti*
abstract In Italia esiste ancora una grande ricchezza di paesaggi rurali frutto della millenaria attività dell’uomo, il cui riconoscimento, conservazione e gestione dinamica costituiscono azioni indispensabili al fine di garantire il permanere di tale patrimonio. L’articolo riporta sinteticamente gli esiti di una ricerca sui paesaggi rurali di interesse storico promossa dal Ministero per le Politiche Agricole Alimentari e Forestali, pubblicata nel 2010 che, riprendendo il percorso iniziato da Sereni e da Gambi, affronta il tema dell’identificazione e classificazione dei paesaggi di valore storicoculturale ed individua circa 120 paesaggi “tradizionali”.
abstract In Italy there is a great richness of rural landscapes, created by man during the centuries. Their recognition, conservation and dynamic management represent important actions to keep this heritage. The essay tells about the result of a research on historical rural landscapes led by the Ministry of Agricoltural, Food and Forestry Policies, published in 2010, that starting from the work of Sereni and Gambi, faces the theme of identification and classification of cultural-historical landscapes and defines 120 “traditional” landscapes.
parole chiave Paesaggi rurali, paesaggi storici, catalogo.
key-words Rural landscapes, historical landscapes, catalogue.
* Università degli Studi di Firenze
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paesaggi in gioco
Introduzione La ricerca sui paesaggi rurali di interesse storico, indagine avviata dalla commissione sul paesaggio del Ministero per le Politiche Agricole Alimentari e Forestali, di cui presentiamo una breve sintesi, ha presentato aspetti poco indagati a livello nazionale ma che si sono rilevati molto utili per lo sviluppo degli indirizzi della pianificazione del territorio rurale e per orientare ulteriori ricerche e collaborazioni a livello nazionale ed internazionale (Agnoletti 2010). L’Italia presenta ancora un grande patrimonio di paesaggi rurali costruiti nel corso dei millenni, indissolubilmente legati alle pratiche tradizionali che hanno dato vita a complessi sistemi adattatisi a condizioni ambientali difficili, fornendo, allo stesso tempo, molteplici prodotti, servizi e luoghi di grande bellezza. L’indagine voleva gettare le basi per il riconoscimento, la conservazione, la gestione dinamica dei sistemi di paesaggio storico e delle pratiche tradizionali, un’attività che si collega ad un quadro internazionale ricco di iniziative riguardo alla loro valorizzazione. Per quanto riguarda l’attività delle Nazioni Unite, la FAO sta portando avanti il progetto Global Important Agricultural Heritage Systems (GIAHS) che intende costruire un sistema mondiale di paesaggi rurali che si affianca alla World Heritage List dell’UNESCO, anche se con scopi più rivolti alle pratiche agricole. A livello europeo sia la Convenzione Europea del Paesaggio (2000), sia la nuova PAC hanno un forte interesse per il paesaggio rurale, mentre a livello nazionale, sia dell’Osservatorio Nazionale del Paesaggio Rurale da parte del Ministero dell’Agricoltura, sia i piani territoriali delle regioni segnalano un forte interesse al ruolo del paesaggio rurale storico dal punto di vista economico, ambientale ed
economico. Purtroppo, come confermato dai dati raccolti nei capitoli che seguono, gli strumenti ordinari di conservazione legati al sistema delle aree protette o al vincolo paesaggistico sono inefficaci per conservare il paesaggio agrario, soprattutto perché non rivolti ad integrare il paesaggio con l’economia o influenzati da concetti di “naturalità”, che pur estranei alla storia ambientale del territorio italiano, hanno fatto presa anche sulle impostazioni di strumenti che avrebbero dovuto tutelare soprattutto la natura storica del paesaggio rurale. Nella dimensione territoriale delle politiche rurali il paesaggio gioca invece un ruolo privilegiato come paradigma di riferimento perché corrisponde al passaggio da progetti a scala di impresa, quindi a carattere puntuale, a progetti scala di territorio, per i quali è quindi necessario un livello di lettura che individua la dimensione paesaggistica senz’altro come più favorevole per le caratteristiche del nostro paese in un ottica di sviluppo.
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Figura 1. La localizzazione altimetrica delle aree vede una presenza maggioritaria in collina dominate nel paesaggio italiano (41,6%), seguita dalla pianura che appare più rappresentata rispetto alla superficie di pianura italiana (23%), mentre la montagna è meno rappresentata rispetto alla superficie montuosa nazionale (35%). Questo ultimo dato si spiega con la prevalenza nel catalogo delle aree agricole ed una loro ridotta presenza in montagna, oggi largamente dominata dal bosco.
1. Le caratteristiche dell’indagine La ricerca svolta non intendeva essere esaustiva rispetto alla consistenza del patrimonio paesaggistico nazionale, ma soprattutto impostare il problema metodologico relativo all’identificazione e classificazione dei paesaggi di interesse storico, riprendendo il percorso iniziato da Sereni (1961) e da Gambi (1995). Questo in vista della possibilità di realizzare un vero e proprio inventario del paesaggio rurale italiano. La composizione del comitato scientifico ha riunito competenze distribuite nei settori della storia, della geografia, delle scienze agrarie e forestali, dell’architettura.
Figura 2. L’evoluzione delle superfici agricole e forestali dimostra come l’abbandono sia il fenomeno principale che riguarda il paesaggio rurale italiano e i processi di forestazione sui cambi e pascoli abbandonati l’effetto più rilevante di tale fenomeno.
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Figura3. notevole colturali millenni,
L’origine dei paesaggi rilevati mostra la loro persistenza storica, con ordinamenti e pratiche presenti in modo continuativo per più di due quali le colture promiscue legate alla viticoltura.
Complessivamente il catalogo ha coinvolto circa 80 ricercatori appartenenti a 14 università, più alcuni studi professionali e ricercatori indipendenti. Per la validazione del lavoro è stato istituito un comitato internazionale di esperti, coinvolgendo nella ricerca anche alcune istituzioni internazionali come il Comitato per i Beni Culturali ed il Paesaggio del Consiglio D’Europa, la Società Europea di Storia Ambientale (ESEH) e la Unione Mondiale degli Istituti di Ricerca Forestale (IUFRO). Uno dei problemi metodologici da affrontare nella fase iniziale era la definizione della scala spaziale e temporale dell’indagine. Per ciò che concerne la scala temporale non sono state poste limitazioni. Per la scala spaziale invece si era inizialmente proposto di rilevare aree comprese fra i 500 ed i 2000 ha, questo per avere una dimensione sufficientemente ampia che consentisse sia di poter includere unità gestionali, quali ad esempio la tipica azienda mezzadrile o il latifondo, ma anche di tenere conto delle relazioni spaziali fra gli usi del
L’inventario nazionale del paesaggio rurale storico.
suolo. Sono state indicate nelle schede soltanto le coordinate geografiche relative, rimandando la costruzione di una database GIS ad un secondo momento, attività quasi terminata al momento attuale. Alla fine dei primi dodici mesi di durata del progetto sono state individuate circa 123 aree. Per ciò che concerne la World Heritage List dell’UNESCO, i paesaggi rilevati si possono senz’altro riferire alla categoria dei paesaggi culturali, ancora vitali, che rappresentano il risultato degli effetti combinati del lavoro dell’uomo e della natura, così come definito all’articolo 1 della convenzione, relativamente alla categoria “continuing landscapes” (Fowler P.J., 2003). Allo stesso modo possono essere a pieno titolo inseriti nelle tipologie previste dai GIAHS della FAO, nonché casi esemplari della diversità bioculturale promossa dal Joint Program sulla Biocultural Diversity sviluppato in cooperazione fra CBD e UNESCO. Secondo le impostazioni definite dal progetto i paesaggi tradizionali possono essere definiti come quei paesaggi che sono presenti in un determinato territorio da lungo tempo, anche molti secoli, e che risultano stabilizzati o che evolvono molto lentamente nel tempo. In generale tutte le aree proposte presentano un valore notevole in relazione alla loro origine storica (fig. 3). La maggior parte dei paesaggi rilevati appartiene al periodo medievale, ciò testimonia la fecondità della rinascita dell’agricoltura italiana e il ruolo di questo periodo storico per la creazione del “Bel paesaggio italiano”. Come si vede (fig.4) vi è una larga prevalenza di paesaggi caratterizzati da colture agricole, seguiti dai paesaggi a policolture, poi quelli forestali e pastorali. In parte tale risultato è da addebitarsi alla maggiore complessità delle forme del paesaggio agrario storico, nonché alla
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maggiore difficoltà di individuare forme del paesaggio forestale che ancora conservassero le loro caratteristiche storiche, visto l’abbandono a cui sono andati soggetti. I pascoli risentono invece sia della loro notevole contrazione, sia della loro semplificazione colturale. La presenza di paesaggi misti, caratterizzati da policolture conferma la persistenza di mosaici agricoli complessi che ancora connotano molte regioni italiane con colture su piccola scala, legate non solo a proprietà di piccole dimensioni, ma anche al mantenimento di unità poderali appartenute a grandi fattorie. Per quanto riguarda le categorie relative alle colture agricole (fig. 5), la maggioranza delle aree rilevate pone il vigneto come coltura principale, seguito dall’oliveto e dal seminativo. Questo dato è estremamente rappresentativo non solo del paesaggio italiano ma del paesaggio mediterraneo (Braudel 1986).
Figura 4. Categorie generali di ordinamenti colturali rappresentate nel catalogo espresse in numero di aree. I paesaggi misti, caratterizzati dalla compresenza di aree agricole, forestali e pastorali sono ancora molto numerosi, tale diversità si traduce in una alta diversità bioculturale del paesaggio rurale italiano.
paesaggi in gioco
Figura 5. Colture agricole catalogo.
presenti
nelle aree del
2.1 Le colture promiscue Fra le tipologie colturali più interessanti e più vulnerabili un posto particolare lo rivestono le colture promiscue. Queste associano sullo stesso terreno più produzioni, esprimendo la necessità di sfruttare al meglio la limitata risorsa “terra”, per ottenere una molteplicità di prodotti secondo una tecnica che ancora negli anni ’50, nei testi di agronomia veniva presentata come valida alternativa alle colture specializzate, rappresentando la migliore opportunità, specie nel sistema mezzadrile, di sfruttare al massimo la superficie coltivabile per la sussistenza della famiglia contadina. Il fatto che nel paesaggio agrario italiano sussistano ancora le colture promiscue, nonostante l’industrializzazione che ha interessato il settore, testimonia non già l’arretratezza, o l’incapacità di rinnovarsi della agricoltura italiana, ma piuttosto la rilevanza del
complesso di valori espressi da tali pratiche, che hanno resistito al tentativo di sostituirle con modelli tecnico-produttivi che si sono dimostrati più deboli al vaglio della storia. La presenza delle colture promiscue ben prima del periodo romano, e la loro lunga persistenza conferiscono a tali ordinamenti colturali un ruolo fondamentale anche nei progetti di conservazione e valorizzazione del paesaggio. All’inizio del secolo XX si osserva la presenza di circa 13,7 milioni di ettari a seminativo di cui ben il 45% arborato, ma purtroppo i dati non consentono di seguire la loro evoluzione fino ai nostri giorni per l’accorpamento fatto dall’ISTAT con le colture legnose specializzate dopo il 1980 (Toderi G., Baldoni G., Nastri A., 2002). Da circa 3.144.000 ha nel 1940 si passa a 2.208.000 ha nel 1980, una riduzione di più dell’80% che parla da sola della importanza di tale trasformazione nel paesaggio. In questa evoluzione colpiscono la coltura promiscua della vite passata da 2.963.000 ha ad appena 445 ha, l’olivo da 1.360.000 ha 1.088.000, seguite da melo, pero, pesco, via via fino ai mandorli, noci e noccioli. Le forme della “piantata padana” nel nord e dell’“alberata umbro-marchigiana” nel centro, abbinate a sistemazioni del terreno quali le “porche” in Toscana o la “baulatura” in Emilia per il drenaggio delle acque, con molti sottotipi, sono quelle più note (Desplanques 1977). Ciò senza trascurare paesaggi straordinari quali i mandorleti terrazzati del Gargano o i carrubeti del ragusano, documentati nel catalogo. Oltre a questo dobbiamo considerare il significato ambientale di tali ordinamenti. Basti pensare alla maggiore presenza di aree umide al nord fino dall’antichità, nelle quali la vite maritata era funzionale ad allontanare la pianta dall’umidità del terreno consentendogli di sfruttare meglio la luce solare. il sistema poderale, presuppone la coltura promiscua e l’autosufficienza
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alimentare del contadino con una grande varietà di prodotti. La coltivazione della vite avviene maritandola ad un sostegno vivo, disposto in filari ai bordi del campo. La densità delle alberature e la larghezza assegnata al campo dalle tradizioni locali sono variabili, ma su ogni ettaro di superficie agraria utilizzata si poteva incontrare da 90 a 160 piante arboree (Cazzola 2008).
Figura 6. Principali colture agricole terrazzate presenti nelle aree del catalogo.
2.2 Paesaggi terrazzati Un'altra menzione particolare lo neritano i terrazzamenti. Questi sono uno dei più importanti sistemi di organizzazione del paesaggio nell’area del Mediterraneo, frutto di conoscenze tradizionali legate alle tecniche di costruzione e di coltivazione, alla perfetta comprensione delle caratteristiche idrogeologiche e climatiche, in grado di sfruttare in modo ottimale le risorse ambientali. Si tratta quindi di sistemi che si autoregolano, caratterizzati da grande qualità estetica e dalla capacità di
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modellare il paesaggio, integrandosi con le caratteristiche naturali dei luoghi (Laureano P., 2004). Notizie relative ai primi terrazzamenti risalgono al neolitico in Italia, ma così come per l’origine storica dei paesaggi del catalogo anche in questo caso prevalgono i paesaggi terrazzati la cui genesi può collocarsi nel periodo medievale, non sorprende però, diversamente dai dati generali, riscontrare come un più alto numero di paesaggi terrazzati veda la propria origine collocata nel XIX secolo, quando la pressione demografica portò ad un notevole incremento della messa a coltura dei terreni montani ed alto collinari. Il terrazzamento, sotto forma sia di ciglioni inerbiti che di terrazze sostenute da muri a secco, rappresenta quindi una delle tante forme di adattamento ad un ambiente difficile all’agricoltura, considerando che le superfici montuose e collinari coprono circa il 76% della superficie territoriale italiana. Le aree terrazzate rilevate dal catalogo si collocano per il 16% in montagna e per il 50% in collina, ma anche in alcune aree pianeggianti. I terrazzamenti ospitano principalmente vigneti ed oliveti, ma sono presenti anche seminativi, pascoli e boschi terrazzati. In particolare i castagneti da frutto, con una gamma di tipologie che vanno dal muro a secco, alle “lunette”, tipici muretti semicircolari posti intorno ad ogni pianta. Allo stesso tempo anche i rimboschimenti attuati nell’ambito dell’opera di miglioramento ambientale della montagna italiana svolta dallo stato hanno visto l’esteso impiego di tale tecnica, come testimoniato dall’area del catalogo posta nelle sorgenti del fiume Sele in Campania. L’importanza e l’attualità del terrazzamento è confermata da una indagine svolta nelle Cinque Terre in seguito al disastro del 25 ottobre 2011, che dimostra come circa il 90% delle frane siano avvenute in terrazzamenti abbandonati
L’inventario nazionale del paesaggio rurale storico.
e coperti dal bosco, dimostrano come in certe condizioni non siano le condizioni naturali o i boschi a rappresentare il migliore presidio per la riduzione del rischio idrogeologico (Agnoletti et al. 2012).
Figura 7. Forme di tutela presenti nelle aree terrazzate del catalogo, espresse per numero totale di forme di tutele presenti. Nonostante la presenza di numerosi vincoli le aree terrazzate sono in continua diminuzione, soprattutto a causa dell’abbandono e della ricrescita della vegetazione arborea ed arbustiva.
Figura 8. Lista dei prodotti tipici associati ai paesaggi rilevati nel catalogo.
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2.3. I prodotti tipici Un aspetto importante legato sia alle aree a carattere agricolo, sia a quelle più decisamente forestali, è la presenza di prodotti tipici, abbinati al paesaggio. Si tratta di fondamentale valenza strategica per la conservazione attiva e la valorizzazione del paesaggio rurale, nonché per la promozione dell’immagine e della qualità dei prodotti italiani all’estero. Come recita il capitolo dedicato agli orientamenti strategici del documento del Piano Strategico Nazionale di Sviluppo Rurale 2007-2013 la competitività del settore agroforestale può e deve trarre vantaggio dal valore aggiunto costituito dalla risorsa “paesaggio”, la quale rappresenta un elemento competitivo non riproducibile da parte della concorrenza del nostro sistema paese. Come si osserva figura 8 è senz’altro il vino il primo prodotto tipico segnalato nelle schede, seguito dall’olio. Se abbiniamo il vino ad alcuni aspetti paesaggistici quali la presenza di terrazzamenti, o di colture promiscue, si capisce come operazioni che hanno realizzato grandi superfici a vigneto con la tecnica del rittochino, eliminando i terrazzamenti, o grandi accorpamenti caratterizzati da centinaia di ettari di soli vigneti in aree storicamente contraddistinte dalle policolture non vadano nella direzione di salvaguardare l’unicità di un paesaggio ed il suo ruolo di valore aggiunto per il prodotto tipico. Alcune delle aree del catalogo già documentano il successo di operazioni di conservazione e restauro dei terrazzamenti con la produzione di prodotti di qualità che vanno dalle nocciole al vino, dalla frutta agli ortaggi. Alcune delle produzioni hanno anche la caratteristica di associare valori scenici di notevole impatto, come gli universalmente noti
paesaggi in gioco
terrazzamenti coltivati ad agrumi della costiera amalfitana, i paesaggi di “pietra” dell’isola Pantelleria, o i molto meno noti oliveti scolpiti nella roccia di Vallecorsa in Lazio. Come si vede molti prodotti presenti nelle aree del catalogo non sono ancora inserite in nessuna delle certificazioni esistenti, ma non sembra che quelle oggi disponibili siano comunque in grado di assicurare anche la conservazione del paesaggio.
Figura 9. Tipi presenti nelle disponibili non prodotto tipico
di certificazione abbinati ai prodotti tipici aree del catalogo. Le certificazioni oggi sono utili ad assicurare l’abbinamento fra e paesaggio tipico.
spaziale dà la possibilità di incorporare più unità di gestione, di studiare le relazioni esistenti fra le varie “tessere” che compongono il mosaico paesistico, usando gli approcci dell’ecologia del paesaggio, e di poter impostare un monitoraggio tramite sistemi di telerilevamento e controlli a terra per valutare le dinamiche in corso e gli effetti di eventuali iniziative di valorizzazione.
Figura 10. Livello di integrità dei paesaggi rilevati.
2.4. L’integrità Per questa prima ricerca sulla consistenza del patrimonio paesaggistico del territorio rurale, in cui ci siamo concentrati sugli ordinamenti colturali senza approfondire gli aspetti insediativi, le condizioni di integrità si sono quindi concretizzate nella definizione dell’estensione delle aree e nella valutazione dello stato degli ordinamenti colturali. Per il primo punto l’indicazione iniziale data ai rilevatori era di individuare aree con estensione compresa fra i 500 ed i 2000 ettari. Tale scala
Figura 11. Integrità del paesaggio nelle tre principali regioni geografiche italiane.
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Un altro elemento, che poi si è rilevato decisivo, ed ha suggerito una certa elasticità nella definizione della superficie minima, era la consapevolezza che, con tutta probabilità, una maggiore rigidità nella individuazione di ordinamenti colturali storici perfettamente conservati, si sarebbe scontrata con una scarsità di aree estese con tali caratteristiche. I dati raccolti hanno in effetti confermato come questa sia stata la problematica principale, trovandoci a che fare con numerosissime aree che hanno mantenuto le caratteristiche storiche, ma in forma di superfici ridotte e frammentate. Altro punto da tenere in considerazione è anche la soggettività del rilievo riguardo all’effettivo stato di conservazione delle caratteristiche storiche degli ordinamenti colturali. La fig. 11 mette in evidenza la diversa qualità dei paesaggi rilevati nelle principali regioni geografiche. Il centro Italia sembra presentare un grado maggiore di integrità, seguito dal sud e le isole, e poi dal nord. Sono presenti importanti eccezioni a questa lettura geografica, individuabili a livello regionale, il Trentino Alto Adige e il Friuli sono de casi in cui si osservano paesaggi piuttosto integri, anche rispetto alle regioni centrali e meridionali, ma su questo elemento ha sicuramente giocato non solo la soggettività del rilievo, ma anche il numero delle aree: nel caso del Trentino Alto Adige abbiamo infatti solo 4 aree selezionate, ma piuttosto integre, contro le otto del Piemonte ma con un grado minore di integrità. Nel centro e nel sud si ritrovano generalmente paesaggi storici in migliori condizioni e questo, soprattutto per il meridione, conferma la potenzialità di una risorsa che se agganciata ai prodotti tipici e allo sviluppo, già notevole negli ultimi anni, del turismo rurale potrebbe sicuramente offrire occasioni interessanti di sviluppo. Un'altra valutazione dei dati raccolti
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riguarda l’interpretazione altimetrica dell’integrità, organizzando le aree secondo le zone montante, collinari e di pianura, si osserva infatti la netta prevalenza della collina come fascia altimetrica con i paesaggi più integri. Questo è legato a due processi opposti, ma speculari come effetto. Nelle pianure infatti si è assistito ad una intensivizzazione più spinta dei processi produttivi con effetti deleteri della meccanizzazione e degli orientamenti industriali dell’agricoltura moderna sul paesaggio storico. In montagna, al contrario, l’abbandono dell’agricoltura e della pastorizia, seguito all’esodo delle popolazioni e alla progressiva marginalità economica, ha portato ad un progressivo degrado dell’integrità del paesaggio rurale, oggi largamente interessato da processi di rinaturalizzazione. La collina invece, per motivi la maggiore difficoltà di realizzare monocolture industriali su vasta scala, al mantenimento di piccole proprietà, oltre che per
Figura 12. I dati che valutano l’integrità secondo la collocazione altimetrica, mostrano la prevalenza di un maggior numero di paesaggi integri nelle zone collinari.
L’inventario nazionale del paesaggio rurale storico.
la sua maggiore estensione nella penisola italiana, presenta un maggiore numero di paesaggi storici in buone condizioni. Altro elemento che nelle schede è stato spesso messo in relazione con l’integrità sono le forme di tutela esistenti. La conservazione del paesaggio rurale storico sembra molto più legata alla continuità delle pratiche tradizionali che alla presenza sia del vincolo paesaggistico, sia delle aree protette. 2.5. La vulnerabilità Identificare le criticità e quindi le minacce alla conservazione delle risorse individuate nelle aree del catalogo era assolutamente necessario per indirizzare le linee di azione ed avere una classificazione dei siti in relazione all’urgenza degli interventi. Esiste infatti una vulnerabilità “intrinseca” di ciascun paesaggio rispetto a vari tipi di processi che possono interessarlo. A titolo di esempio, un terrazzamento con pietra a secco è molto vulnerabile all’abbandono, deteriorandosi in pochi anni, mentre un bosco di alto fusto lo è molto meno, mentre è più sensibili ad eventi catastrofici come il fuoco. Osservando i dati si comprende come il principale motivo di criticità per il paesaggio rurale italiano sia l’abbandono. Tale fenomeno è in diretta relazione con il terzo fattore principale di vulnerabilità, cioè l’aumento della vegetazione arbustiva ed arborea che riconquista i pascoli, le aree agricole abbandonate e che influenza anche i boschi storici modificandone la struttura interna. Gli altri fenomeni più importanti che influenzano la vulnerabilità sono la pressione antropica e le intensivizzazioni agricole. Il primo fenomeno è spesso legato alla avanzata delle aree urbane.
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Figura 13. Frequenza delle fenomeni di vulnerabilità nelle aree rilevate .
Le aree del catalogo situate nel polo napoletano sono infatti in una situazione di grande vulnerabilità che finisce anche per compromettere la loro integrità. Le intensivizzazioni sono invece legate alla trasformazione industriale dell’agricoltura, secondo un modello di sviluppo che invariabilmente vede nella meccanizzazione ed in una riorganizzazione degli ordinamenti colturali volta ad aumentare la produttività ed abbassare i costi di manodopera, gli unici indirizzi possibili da perseguire. Un ulteriore commento meritano i dati relativi alla vulnerabilità legata alle centrali eoliche perché sollevano un caso di grande attualità. Le tendenze attuali volte allo sviluppo delle energie rinnovabili nel nostro paese sembrano spesso scordare che il patrimonio paesaggistico nazionale contribuisce al progresso dell’umanità, all’economia e alla qualità della vita in misura maggiore rispetto al contributo che le centrali eoliche possono dare alla soluzione del problema energetico e della mitigazione del riscaldamento climatico. E’ sintomatico che gran
paesaggi in gioco
parte degli studi che hanno promosso tali impianti, così come il fotovoltaico, non abbiano considerato il problema dell’impatto sul paesaggio (Martin J. Pasqualetti, Paul Gipe, Robert W. Righter, 2002), così come il problema del paesaggio rurale ha avuto un ruolo molto limitato nella VIA- Non è un caso che le linee guida per l’impatto ambientale prodotte dall’ufficio VIA del Regione Toscana, che dovevano diventare le legge, non lo sono mai diventate (Agnoletti e Maggiari 2004). Tutto questo assume un rilievo particolare se si considera che questi impianti danno un contributo minimo al problema energetico, lavorando per percentuali molto basse (meno del 20%) rispetto alla loro potenza installata, presentata quasi sempre come l’energia effettivamente prodotta da molte statistiche.
Figura 14. Più del 60% delle aree del catalogo si trova all’interno di aree protette di varia natura, mentre il 64% sono protette dal vincolo paesaggistico. Purtroppo tali vincoli sembrano inefficaci contro i fenomeni di degrado legati all’abbandono, in quanto concepiti per altri obiettivi.
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2.6 Il vincolo paesaggistico, le aree protette I dati riguardanti la rilevanza dei fenomeni di abbandono e di espansione della vegetazione nelle aree abbandonate assumono un significato particolare se messi in relazione con le forme di tutela che interessano le aree del catalogo. Appare infatti notevole il numero di aree interessate da parchi e siti di interesse comunitario (60%), con circa il 51% di queste interessate da SIC e il 37% dal sistema dei parchi e delle riserve. Per quanto riguarda il vincolo paesaggistico in totale circa il 64% delle aree rilevate sono interessate dai vincoli relativi alle leggi 1497 del 1939 e 431 del 1985. Considerando anche i dati relativi al vincolo paesaggistico, possiamo affermare che gli strumenti ordinari esistenti non garantiscono la conservazione dei paesaggi rurali storici, nel caso delle aree protette vengono spesso favoriti orientamenti che facilitano, esplicitamente o implicitamente, le rinaturalizzazioni. In effetti la collocazione all’interno delle aree protette dovrebbe garantire la conservazione del paesaggio, in realtà, i dati esposti sono perfettamente in sintonia con i principali orientamenti in atto nel settore della conservazione della natura a livello europeo e nazionale. Secondo questi indirizzi gli habitat da proteggere sono soprattutto quelli naturali e le aree protette il luogo per specie animali e vegetali non legate alle attività agricole. Per ciò che riguarda i boschi storici, cioè formazioni già di per se caratterizzate da coperture forestali, i piani di gestione favoriscono più spesso indirizzi volti a trasformare ad esempio i castagneti da frutto, o le pinete di pino domestico, come quella di Ravenna, per loro natura formazioni pure, in boschi misti, perché più vicini alla naturalità.
Figura 15. Vulnerabilità per fenomeni di abbandono e espansione della vegetazione nelle aree del catalogo interessate da aree protette e in aree poste al di fuori di aree protette.
Dai dati del catalogo si osserva infatti che nella aree interessate dal vincolo paesaggistico le minacce legate all’abbandono appaiono addirittura superiori rispetto a quanto avviene nelle aree protette, essendo pari all’81%, così come quelle legate all’espansione della vegetazione invadente (83%). In relazione a queste problematiche il catalogo vuole fornire non solo esempi concreti di paesaggi per i quali studiare forme di protezione adeguate, ma anche avviare una riflessione sul concetto di conservazione e sull’oggetto della conservazione, sperando che si possa sviluppare una reale collaborazione fra i diversi soggetti coinvolti. Il risultato dell’indagine ha portato alla creazione dell’inventario nazionale del paesaggio rurale storico e delle pratiche tradizionali, oltre all’avvio di un sistema di monitoraggio nazionale delle trasformazioni dell’uso del suolo, ma intende anche
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come indicazione per gli attuali piani paesistici in corso dei realizzazione da parte delle regioni in ossequio al Codice dei Beni Culturali.
L’inventario nazionale del paesaggio rurale storico.
Cazzola F. (2008) Foreste di pianura: espansione e declino della piantata padana (sec. XV–XX), in V. Marinai (ed.), Paesaggio e sostenibilità. Studi e progetti. ETS, Pisa; Desplanques H. (1977): I paesaggi collinari tosco-umbromarchigiani. In: I paesaggi umani, Touring Club Italiano, Milano. Gambi L., (1995), Declino o evoluzione della tradizionale piantata in coltura promiscua? Qualche considerazione ricavata dal caso emiliano-romagnolo, in R. Ceschi e G. Vigo, a cura di, tra Lombardia e Ticino, Studi in memoria di Bruno Caizzi, Edizioni Casagrande SA, Bellinzona.
Figura 16. Andamento dei fenomeni di abbandono e avanzata della vegetazione nelle interessate dal vincolo paesaggistico rispetto a quelle non interessate dal vincolo.
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Riferimenti iconografici Elaborazioni dell’autore Testo acquisito dalla redazione nel mese di gennaio 2013. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
paesaggi in gioco
Quel che resta della piantata. Trasformazioni del paesaggio agrario lungo il tracciato della via Postumia.
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The remains of piantata. Transformations in the rural landscape along the ancient Via Postumia.
Marco Cillis*
abstract Il contributo tenta di operare una lettura dei fenomeni che hanno determinato la trasformazione di un territorio lineare, partendo dal contributo di Emilio Sereni. Per fare ciò si è scelto di percorrere il tracciato della antica consolare Postumia che in epoca repubblicana collegava Genova con l’alto Adriatico. La messa a sistema di fonti archeologiche e letterarie, testimonianze cartografiche e iconografiche e sperimentazioni di pianificazione territoriale, unitamente all’osservazione diretta del tratto tra Casteggio e Verona, è un tentativo di riconoscere al nastro stradale di matrice storica un carattere fondativo spesso trascurato.
abstract The paper is about some influences have led to the transformation of a liner landscape along the ancient via Postumia from Genua to the Adriatic sea, taking into account the great contribution Emilio Sereni gave the history of rural Italian landscape. Comparing archeological and literary sources, maps and plans, the aim is understanding how and how much the features of the road are still alive along the landscape it crosses.
parole chiave Centuriazione, paesaggio agrario, strada storica
key-words Centuriation, rural landscape, historic road
* Università degli Studi di Parma
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Memoria storica e struttura dei luoghi lungo un tracciato discontinuo L'istituzione della Via Postumia risale al 148 a.C. per iniziativa del console Spurio Postumio Albino che strutturò un tracciato che mettesse in relazione il mar Ligure con l'alto Adriatico. Partita da Genova, la strada risaliva infatti la val Polcevera, valicava l'Appennino e raggiunta Tortona (Dertona), piegava verso est e seguendo in parallelo il corso del Po, giungeva a Piacenza e Cremona. Da qui raggiungeva Calvatone (Betriacum) e tagliando la pianura mantovana, proseguiva per Goito e Verona, fino a giungere ad Aquileia, lambendo Vicenza, Cittadella e Oderzo (Opitegium). Insieme alla via Emilia, la Postumia diede vita ad un chiasma stradale che trovava il suo centro attorno a Piacenza le cui due direttrici risposero alla necessità di raccordare, attraverso l'Italia, importanti regioni europee: la Gallia Narbonese con i Balcani (Postumia) e la Franca Contea con l'Italia peninsulare (Emilia). A differenza della via Emilia, la Postumia rivela connessioni più velate tra città, viabilità e scansioni della trama agraria, anche se alcuni centri sorti lungo il tracciato come Serravalle (Libarna), Tortona, Verona o Vicenza hanno subito una decisiva influenza della via nell'assetto e nell'orientamento dell'impianto urbano. L'influenza della strada nell'organizzazione del territorio rurale si rivela debolmente lungo il tratto tra Stradella e Piacenza, con ampia visibilità nel territorio compreso tra Cremona e l'Oglio e “in modo quasi totale nell'ordinamento delle campagne dell'alta fascia veneta, tra i fiumi Brenta e Piave”1. La via Postumia non ricade nel novero delle direttrici romane sopravvissute nella loro consistenza di tracciato unitario; fonti letterarie,
Quel che resta della piantata
testimonianze archeologiche ed epigrafiche inducono alla facile conclusione che come direttrice continua di traffico tra la costa ligure e quella altoadriatica attraverso la pianura padana, sia caduta in disuso sin dall'età augustea2, perdurando la frequentazione solo lungo i segmenti più vitali. La distruzione di Aquileia per mano di Attila (452) privò la consolare del terminale di raccordo con le aree transalpine e ne decretò la fine della funzione militare. Ciò determinò spesso una deformazione del tracciato originario da parte dei centri intermedi, che come magneti, cominciarono ad attrarre verso di loro il nastro viario. Laddove la Postumia transitava in situazioni geomorfologicamente costrette dal rilievo o dai corsi d'acqua, questa mantenne una corrispondenza molto aderente alla viabilità odierna, tra Genova e Tortona, tra Piacenza e Cremona e, ancora, tra Verona e Vicenza, ma tra Cremona e Verona e Vicenza e Aquileia, l'antico tracciato benché ancora perfettamente riconoscibile - cadde in disuso piegando in favore di Mantova e Treviso, che nel corso degli anni avevano assunto un peso politico ed economico assente ai tempi della fondazione della Postumia, così da determinarne l'esclusione dal tracciato originario. Se la continuità ideale e materiale di un tracciato storico è da ricercare nel sedime del tracciato stesso ma ancor più nel legame che la strada determina - sarebbe forse più appropriato dire impone - al territorio, alludendo al carattere fondativo di cui parla Vidal de la Blache, dal quadro fin qui sommariamente tratteggiato, si deduce che nella via Postumia non sia facile trovare un elemento ordinatore del territorio giunto fino a noi, per ragioni principalmente ascrivibili ad una giacitura morfologica originaria assai variegata. La
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strada, subito dopo la partenza da Genova ripercorre il corso sinistro dello Scrivia, risalendo l'Appennino ligure fino al passo della Bocchetta, in un contesto vallivo chiuso, per poi attraversare l'ampia zona pianeggiante tra Scrivia, Tanaro e Po, dove sono visibili alcune tracce centuriate, fino al territorio veneto, connotato all'epoca da diffusi acquitrini e risorgive, di cui la Postumia rappresentava il limite superiore ai piedi dei rilievi collinari, seguendo da vicino la linea dell'attuale SS11. Come si è già accennato, è quest'ultima la porzione di territorio innervato dalla Postumia dove la relazione tra strada e paesaggio agrario ha mantenuto un disegno maggiormente unitario e riconoscibile. La pianura veneta solcata dalla via, in ragione della sua fertilità, del suo carattere irriguo e della sua omogeneità altimetrica fu investita quasi integralmente dalle centuriazioni tra il I secolo a.C. e la prima metà del II secolo d.C. La ristrutturazione agraria insita nella centuriazione non contemplò esclusivamente la divisione del terreno in appezzamenti regolari funzionali alla divisione della proprietà fondiaria, ma soprattutto la bonifica delle aree a regime idraulico complesso. Ciò portò a privilegiare le linee di massima pendenza del terreno, con conseguenze sulla rotazione degli assi centuriali. Secondo questa logica si spiegano le differenti matrici presenti nel territorio veneto e, soprattutto, perché non si tenne in considerazione il preesistente tracciato della Postumia come possibile base topografica di appoggio per le operazioni di scansione geometrica del territorio. Orientando il disegno centuriale secondo le linee di massima pendenza dei suoli si sono pertanto privilegiate le logiche strutturali dei luoghi, contravvenendo all'abitudine degli orientamenti astronomici o all'ordine già inscritto nel territorio dalla strada, presente già dal 148 a.C.
paesaggi in gioco
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Figura 1. Il tracciato della Via Postumia (azzurra) in relazione alla Via Aemilia (rossa) e alla sua confluenza in prossimità di Placentia.
C'è da considerare inoltre che, laddove la via consolare è coincisa con il decumano e ha subito una perfetta integrazione con la trama centuriale, in questi tratti ha mantenuto inalterata nei secoli la propria funzionalità; ne è un esempio il lungo rettilineo tra Brenta e Piave che segna il limite tra le pertiche centuriali di Padova e Asolo e che coincide con la direttrice antica, qui usata come decumano massimo. Nel contesto geografico tra Piacenza e Cremona, l'organizzazione attuale del paesaggio non contribuisce a rintracciare elementi che prolunghino verso est il rettifilo della Postumia che originariamente usciva da Piacenza, per via degli intercorsi aggiustamenti e delle variazioni del corso
del Po. Tuttavia, anche in questo caso, sono le invarianti strutturali a suggerire ipotesi sull'antico tracciato. L'analisi geomorfologica permette di riconoscere nella fascia di meandreggiamento del fiume alcune fasce meandriche “fossili” che descrivono alcune strette morfologiche dove il fiume ha conservato nel tempo maggiore stabilità e dove con buona probabilità l'antica asta viaria correva in sicurezza in direzione di Cremona3. Non vi è alcun dubbio che la colonizzazione romana del territorio attraversato dalla Postumia abbia comportato una radicale mutazione del paesaggio, tanto che la realizzazione della consolare possa essere considerata, pur con qualche semplificazione, come lo spartiacque tra una
copertura del suolo con prevalenza di bosco in epoca preromana e un uso del suolo misto, frutto della progressiva antropizzazione, che diede vita ad un mosaico variegato. Le analisi polliniche e dei carboni forniscono una preziosa indicazione sulla copertura vegetale del territorio, risalendo fino al II millennio a.C., e rivelando come il distretto insubrico che dal Lago di Garda e dalle sue morene basali si estende fino alla fascia collinare euganea, rappresenti una sorta di enclave in ambito padano, per via di alcune caratteristiche mediterranee. L'originaria copertura boschiva con prevalenza di querce, già in fase preromana venne progressivamente intaccata e lacerata attraverso puntuali pratiche di
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dissodamento, di pascolo in bosco, di prelievo di legname e biomassa forestale utilizzata come foraggio. Il pascolo e l'uso del fuoco come regolatore ecologico o come mezzo di dissodamento determinarono l'affermarsi della brughiera, con presenza di erica (Erica arborea), nocciolo (Corylus avellana), ginepro (Juniperus spp.); contemporaneamente il bosco di latifoglie incrementò la presenza del carpino bianco (Carpinus betulus) e del faggio (Fagus sylvatica). Si registra pertanto una copertura boscata che, pur contratta per via di un progressivo affermarsi del seminativo, si articola sulla presenza di querce (Quercus spp.), Olmo (Ulmus minor, che Plinio definisce “gallicus”4), Acero (Acer campestre), Frassino (Fraxinus spp.) e Faggio. Vi sono numerose ragioni di credere che il territorio padano attraversato dall'asta centrale della via Postumia fosse già ampiamente esboscato all'epoca precedente l'annessione della Gallia Transpadana, avvenuta a cavallo tra il III e il II secolo a.C. così da apparire come un mosaico di foreste planiziali originarie (querco-carpineti con prevalenza di Farnia), boschi di successioni più recenti, radure e prime tracce di alberata che rappresenterà uno dei caratteri dell'orizzonte padano fino ai tempi moderni. Il nuovo ordinamento imposto dai Romani al territorio, portò ad un massivo disboscamento5 per fare spazio alla coltura dei cereali e delle leguminose che impresse al paesaggio agrario il carattere principale in età romana. E’ legittimo pensare quindi che “…i campi di biade nel loro variare durante il periodo vegetativo e nelle trasformazioni di abbandono o rotazione agraria siano stati l'aspetto di gran lunga più familiare nella pianura”6. Accanto alla coltura del farro (Triticum dicoccum), dell'orzo (Hordeum spp.), del frumento (Triticum
Quel che resta della piantata
aestivum), già presenti in epoche precedenti, si assistette ad un incremento di produzione della segale (Secale cereale) e delle leguminose, principalmente nella pianura veneta. Di particolare importanza e a completamento del mosaico colturale dell'epoca, sono poi alcune specie erbacee come il lino (Linum usitatissimum) che, pure a scopi alimentari, trovò ampio spazio anche negli ambiti agricoli lambiti dalla Postumia7, e il progressivo affermarsi del castagno (Castanea sativa), il cui valore alimentare era ancora sottostimato all'inizio dell'età imperiale, ma che trasformò poi pesantemente l'intero paesaggio forestale italiano. Da Casteggio a Verona: uno sguardo attuale Rileggere la storia del paesaggio agrario di Emilio Sereni ricercando ciò che ha caratterizzato il territorio rurale lungo le aste viarie della Postumia, significa principalmente ripercorrere le pagine dedicate alla piantata padana e alla sua diffusione attraverso i secoli, e di come fino agli inizi dell'Ottocento questo modo di intendere il territorio abbia condizionato anche i racconti di viaggiatori forestieri che attraversavano l'ambito padano. Emilio Sereni riporta gli appunti di viaggio di Charles de Brosses sul paesaggio mantovano, “ricco, fecondo e completamente punteggiato di alberi belli e connesso da una grande quantità di canali”, e le parole di Jérôme Lalande, che nel 1766, a proposito del territorio piacentino, scrive che “le viti sono assai abbondanti, e le vediamo crescere ai piedi degli olmi lungo le capezzagne, come ghirlande simmetriche poste tra un albero e l'altro”8. Lo sguardo d'oltralpe non fa che cogliere il carattere della piantata che Sereni, già parlando
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del paesaggio padano cinquecentesco, aveva descritto come l'esito di una suddivisione in forma regolare dei campi, limitati da stradoni, viottoli e scoline, punteggiati da filari di alberi vitati, secondo le prescrizioni teoriche di Agostino Gallo (1564). Percorrere la Postumia nel tratto compreso tra Casteggio e Goito alla ricerca di quel che resta della piantata padana oggi può rivelarsi una esperienza deludente sotto certi aspetti, per un ovvio impoverimento delle strutture paesistiche che hanno connotato il territorio per molti secoli. La vite maritata all'olmo (o all'acero) è una presenza oggi rarissima, riscontrabile solo in qualche scampolo agrario che ancora non ha completamente perso i caratteri identitari. Eppure a Piadena e a Calvatone, due centri posti nell'estremo lembo cremonese della Postumia, sono state rinvenute significative fonti archeobiologiche (carboni) che documentano la presenza costante dell'olmo come tutore vivo della vite, avvalorando l'origine antichissima di una tradizione colturale a rischio di estinzione; la sua perdita è comprovata da un recente sopralluogo nelle vicinanze che ha rivelato la quasi completa assenza di viticoltura e, per le poche vigne individuate, l'esclusivo impiego di tutori prefabbricati in cemento9. Come già si è accennato, il fulcro urbano e viabilistico nel tratto centrale della Postumia fu rappresentato dalla colonia di Placentia, dedotta nel 218 a.C. ad avamposto verso la Transpadania celtica. Nel distretto geografico che vede Piacenza in posizione baricentrica, attraversare i luoghi dell’antica Postumia tra Casteggio e Cremona significa oggi percorrere la Strada Padana Inferiore, sapendo tuttavia che l’attuale punto di attraversamento del Trebbia alle porte di Piacenza non coincide con il guado storico che sorgeva più a
paesaggi in gioco
ovest, a cavallo di un alveo fluviale poi abbandonato. L’ingresso orientale alla città in prossimità del Trebbia è connotato da un imponente corridoio infrastrutturale rappresentato dal ponte ferroviario, dalla SP 10 e da un sistema intelaiato di condotte per il gas. Il paesaggio percepibile dalla strada oggi appare segnato da una forte attività estrattiva e dal permanere di elementi testimoniali spesso compromessi, come la minuscola chiesa romanica di San Carlo a Sarmanto, attualmente in stato di abbandono, che testimonia il quadrivio costituito dall’antica Postumia e da una delle aste della via Francigena che conduceva ai vicini guadi sul Po. La strada attraversa un territorio di cui ancora si distingue l'organizzazione geometrica, ma il mosaico che si apre davanti agli occhi alterna ampie porzioni di seminativo, a significativi lotti incolti, spesso punteggiati da edifici rurali in stato di abbandono, talora affiancati da impianti fotovoltaici al suolo, che nella zona di Caorso cedono il passo ad un polo produttivo specializzato nella logistica, che nega qualsiasi relazione con il paesaggio stradale dell'antico tracciato. Molto più ricco di permanenze appare il tratto ad est di Cremona, dove la Postumia esce dalla città attraverso la storica porta orientale e percorre un rettifilo di circa dieci chilometri fino all'odierna Pieve San Giacomo, ove confluiva nel limes centuriale della pertica cremonese, per poi flettere verso l'Oglio. Il carattere maggiormente evidente di quest'asta viaria è il perfetto parallelismo con il Dugale Delmona che fiancheggia il margine settentrionale della strada. Benché non ci siano testimonianze antecedenti all'852 che permettano di ascrivere la strada e il canale che la affianca alla medesima volontà di infrastrutturazione del territorio, è importante focalizzare il ruolo del
Dugale come collettore idrico delle terre alte, posto a impedire l'impaludamento del territorio attraversato dalla Postumia, ma anche di idrovia affiancata ad un percorso di terra.
Figura 2. Viale prospettico perpendicolare alla Postumia nei pressi di Castel San Giovanni (PC).
Percorrere questo tratto stradale significa comprendere il carattere identitario di questo territorio agrario, in una dimensione della memoria alla scala territoriale. La campagna cremonese è la perfetta espressione di un processo, avviato già nel XIV secolo, di spossessamento delle risorse agrarie, appartenute fino a quel momento alle comunità locali, per mano di una borghesia agricola che trovò la sua massima espressione nella grande proprietà terriera e nella conduzione dell'attività agraria esercitata attraverso la mezzadria10. Il sistema di controllo e governo del territorio agrario della bassa pianura irrigua individua nella cascina il suo elemento ordinatore; la cascina “cremonese”
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presenta una tipologia a corte chiusa isolata, costituita da più corpi di fabbrica monofunzionali (casa padronale e dei salariati, barchesse, stalle, portici, rustici, porcilaie...) disposti lungo il perimetro, a creare un organismo anche difensivo che a partire dal 1500 assume caratteri tipologici.
Figura 3. Il Dugale Delmona con un manufatto per la movimentazione delle chiuse, lungo la Postumia a ovest di Cremona.
Nell'ambito delle terre attraversate dalla Postumia, nel territorio compreso tra l'Oglio e il Po si afferma una ulteriore tipologia abitativa ed economica, codificata come cascina “casalasca”, esclusiva residenza della famiglia conduttrice del fondo agricolo, ma comunque organizzata attorno ad una corte chiusa e gravitante attorno alla produzione di frumento, granoturco, vite e prato, a cui si aggiunge l’allevamento degli animali da cortile, destinati alla sussistenza della famiglia o a un commercio locale. Questo doppio registro tipologico concentrato nei circa trenta chilometri che separano Cremona e Piadena, rimanda inevitabilmente alle diverse declinazioni che la piantata padana, e l'albero in senso lato, ha
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conosciuto in relazione alle forme di gestione del territorio. Laddove a partire dal XVI secolo si affermò la grande azienda capitalistica, la vite – già presente in epoca preromana - sparì precocemente a vantaggio di colture arboree più remunerative, con l'affermazione del pioppo e del gelso. Si ritrova inoltre il pioppo, unitamente all'olmo e al salice capitozzato, lungo le prode dei fossi a delimitazione dei “quartieri” delle singole colture seminative, di natura estensiva. In ambito casalasco, dove permane la policoltura promiscua, l'albero, oltre che fornire legno da opera e da ardere e strame per le stalle, continua a garantire sostegno alla viticoltura. Prevale l'acero (il cui limitato apparato radicale non impoverisce di nutrienti il suolo) a cui si aggiungono l'olmo e il salice nelle zone più umide. Indipendentemente dagli esiti tipologici, il sistema delle cascine che aveva permesso lo sviluppo dell'economia rurale, a imponenti opere di bonifica e al governo del territorio, conosce a partire dagli anni Sessanta una trasformazione radicale con un pesante spopolamento delle strutture rurali; solo in tempi recenti, con una politica agricola comunitaria attenta al ruolo multifunzionale dell'azienda agricola si è assistito ad una inversione di tendenza con una ritrovata funzione produttiva, una rinnovata coscienza di conservazione e recupero, non solo ai fini estetici, del patrimonio strutturale. Benché, il paesaggio dell'agro cremonese conosca livelli di compromissione più blandi che altrove, è innegabile che l'adozione delle politiche agricole comunitarie e il potenziamento delle monocolture intensive, abbia portato ad un generalizzato impoverimento del reticolo ecologico ai margini degli appezzamenti agricoli; tuttavia l'esperienza di strutturazione di un itinerario di fruizione paesistica lungo la maglia poderale attraversata dalla
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Postumia ha rappresentato una buona pratica presa a modello in ambito provinciale dove si denunciano situazioni di più grave leggibilità. Nel Documento Direttore del PTCP (2003) si legge infatti che “ al fine di migliorare la qualità del paesaggio agricolo dovrebbero essere favoriti la realizzazione di aree boscate e di filari arboreoarbustivi e la valorizzazione paesistica della rete di canali con la realizzazione di argini boscati. Al riguardo, la realizzazione del percorso ciclabile Antica Postumia costituisce un riferimento strutturante per questo genere di interventi”. Il tratto compreso tra Cremona e Verona è teatro, nella primavera del 69 d.C. di alcuni significativi episodi della guerra civile che incoronerà Vespasiano imperatore. La cronaca di quegli eventi è narrata da Tacito e rappresenta una fonte importante nella comprensione del paesaggio agrario dell'epoca. Si riferisce di un territorio centuriato ricco di acque, caratterizzato da canali (agresti fossa), dove le colture dominanti nei pressi di Calvatone (Bedriacum) sono quelle della vite, degli alberi da frutto e dei cereali (arboribus ac vineis; arboribus ac frugibus)11. Questo stesso luogo - strategico fin da allora perchè situato presso l'attraversamento dell'Oglio, dove la Postumia piega verso nordest per Verona - è oggi caratterizzato da un diffuso uso del suolo a vivaio, ricadente nel distretto florivivaistico cannetese, che sfruttando la composizione del terreno e l'abbondanza d'acqua, a partire dal XVIII secolo ha sviluppato prima la produzione di gelsi da trapianto e successivamente la produzione di latifoglie, su una superficie che oggi supera i duemila ettari. Il successivo segmento, che conduce a Verona si compone di due aste rettilinee con baricentro Goito, per una distanza complessiva di circa cinquanta chilometri, che conducono dall'Oglio al
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Mincio e dal Mincio all'Adige. I due rettifili sono tra le permanenze più significative della Postumia, perpetratesi nel tempo anche quando la strada consolare ha perso prestigio e unitarietà. L'esercizio della percorrenza locale su questi tracciati ha fatto sì che dal punto di vista semiologico si pongano tutt'oggi come elementi di primaria importanza nel paesaggio di matrice storica. Il tronco fino al Mincio corre in rilevato al di sotto della linea delle risorgive, su un argine di circa quattro metri di larghezza che trova riscontro nella dicitura di “via levata” di cui si parla in numerosi documenti medievali12. Anche il tratto successivo, tra Goito e Villafranca di Verona corre in rilevato per fare fronte, fin dall'origine, a una situazione idrografica complessa, fatta di paludi e depressioni; i toponimi La Bassa, Dossi di Prabiano, Dossobuono rappresentano pertanto i marcatori più visibili di una situazione di acque corrive o stagnanti, così da rendere necessario un tracciato in quota. Il tratto che dall'Oglio risale al Mincio, è oggi caratterizzato dalla cospicua presenza di impianti orticoli in serra, che rappresentano spesso un elemento incongruo nel paesaggio agrario percepito dalla strada, mentre il segmento che risale dal Mincio a Verona e che per il primo tratto rappresenta un tracciato a fondo permeabile, escluso dal transito carrabile, cede progressivamente spazio alle produzioni frutticole, che diventano dominanti nell'approssimarsi alla città scaligera. Entrambi i rettifili presentano lunghi tratti alberati con un doppio filare di platani. E' lecito ritenere che si tratti di impianti di matrice ottocentesca, in assenza di fonti latine che ne riferiscano al proposito. Tuttavia appare pertinente ricordare come la tradizione della strada extraurbana alberata affondi le proprie radici nella
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cultura mediterranea (pare che agli albori della civiltà occidentale, la messa a dimora di alberi ai fianchi delle strade fosse precipua dei percorsi diretti a luoghi sacri o templi) e venga menzionata da Vitruvio, ripresa da Leon Battista Alberti, Scamozzi e da Palladio. Quest’ultimo che ebbe a cimentarsi con la Postumia, laddove sull’antica consolare si affacciò l’ingresso di villa Thiene a Cicogna (1556-1563), riprendendo l’antica tradizione delle strade alberate, scrisse che “…si come nelle Città si aggiogne bellezza alle uie con le belle fabriche; così fuori si accresce ornamento à quelle con gli arbori, i quali essendo piantati dell’una e dell’altra parte loro, con la uerdura allegrano gli animi nostri, e con l’ombra ne fanno commodo grandissimo”13. Prospettive, cogenze, sviluppi Nell’ottica di valutare l’attualità di un percorso storico quale elemento di comprensione del paesaggio, quest’ultima parte del excursus dedicato alla Postumia vuole tentare una sintesi su come l’antica consolare riservi un posto nella pianificazione a livello locale e sovra locale. Va subito ribadito che il carattere unitario perso dalla strada già ai tempi delle invasioni barbariche, si riflette in un’assenza anche contemporanea di riconoscere la strada come un documento lineare a livello nazionale, a differenza di quanto avviene per l’Appia o per la via Emilia, benché si tratti spesso di arterie in avanzato grado di compromissione e riconoscibilità. Un timido atteggiamento di sensibilità è riscontrabile nel Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale della provincia di
Figura 4. Il rettilineo della Postumia a nord ovest di Goito con tracce di ciottolato e giacitura in rilevato.
Figura 5. Scampoli di alberatura stradale e colture fruttifere nelle vicinanze di Verona.
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Mantova (Variante del 2010) che classifica la valorizzazione della via Postumia nel tratto compreso nel comune di Redondesco come un progetto di rilevanza sovralocale, riconoscendo alla strada storica “valore storico-culturale per la funzione strutturante del territorio”. E’ infatti lungo questo tratto che, tuttora perfettamente integrato nella maglia centuriale romana, si individua l’antico diverticulum per Mantova, esclusa dall’originario tracciato della Postumia, come ricordato in precedenza. All’interno del PTCP di Mantova, si individua l’asta stradale tra l’Oglio e il Mincio come elemento di terzo livello della rete ecologica provinciale, alla cui presenza (e gestione programmata) affidare un ruolo di conservazione e ripristino dei valori di naturalità dei territori agricoli attraversati. Si rende pertanto urgente recepire, e tradurre in progetto, alcuni indirizzi presenti nel recente Piano Agricolo Triennale (2010) che sollecita: • la valorizzazione e la salvaguardia del territorio nei suoi aspetti paesistici, preservando l’attività agricola finalizzata alla manutenzione del paesaggio ed alla conservazione dei frammenti del paesaggio agrario storico (orditura dei suoli coltivati, di rogge e canali, di strade poderali e filari, tradizionali modalità di aggregazione e costruzione del patrimonio edilizio, ecc.); • il contrasto alle dismissioni delle aree e delle strutture e degli insediamenti agricoli, il controllo, da attuarsi in accordo con la pianificazione comunale, dei fenomeni di dismissione e riuso non compatibile del patrimonio edilizio rurale di matrice storica; e la forte limitazione, in caso di demolizione di strutture agricole non di matrice storica in contesti di particolare pregio paesaggistico, degli eventuali recuperi volumetrici assentibili e
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la loro trasposizione in ambiti adiacenti all’urbanizzato. Ai tentativi di salvaguardia coordinata alla scala territoriale, fa da contraltare l’articolo 8 delle NTA del Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale della vicina Provincia di Verona che demanda agli strumenti urbanistici dei singoli Comuni il compito di “preservare il tracciato originario dell'antica centuriazione conservando nella massima misura possibile, compatibilmente con altre prioritarie esigenze di interesse generale, l'attuale sistema di strade, fossati e filari di alberi, della struttura organizzativa fondiaria storica e della toponomastica”. Restando in ambito veneto - dove a partire dagli anni Settanta, il policentrismo che aveva caratterizzato il “bel paesaggio” citato da Emilio Sereni è divenuto una dispersione indifferenziata di funzioni e manufatti sovrappostisi ad una semiologia ricca di corsi d’acqua, ville, e una moltitudine di centri storici - va ricordata l’esperienza conoscitiva e progettuale condotta sulla Via Postumia {XE "Via Postumia"} negli anni 2003-2004 dalla Fondazione Benetton Studi e Ricerche14, nell’ambito della nebulosa insediativa. In un contesto caratterizzato da una ricchezza storico-paesistica con caratteri di unicità (fascia collinare, sistema delle risorgive, maglia centuriale) e da una pressione insediativa e infrastrutturale significativa (urbanizzazioni e aggregati di natura residenziale e produttiva, intersezioni con la Pontebbana e relazioni con la costruenda Pedemontana Veneta), la riflessione progettuale, ponendo una forte attenzione sulla ri-acquisizione di percepibilità del paesaggio dalla strada e sul recupero dei segni della memoria storica, ha promosso: • La tutela delle relazioni spaziali tra insediamenti
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storici preservatisi lungo il tracciato e lo stesso manufatto viario; • La valorizzazione della viabilità minore come strumento di alleggerimento dei flussi in transito sulla Postumia, con particolare attenzione progettuale/paesaggistico ai punti di attraversamento; • Il recupero del tracciato storico, laddove, come a Postioma {XE "Postioma"}, un by-pass realizzato in tempi recenti allontana la mobilità veloce dal rettilineo della consolare; • La creazione di controviali e riorganizzazione dei percorsi a servizio di recenti insediamenti produttivi e residenziali, al fine di ridare leggibilità al tracciato storico, confinando l’urbanizzazione dei margini, sviluppatasi con frequente indifferenza. Benché l’esperienza precedentemente descritta lasci aperti gli interrogativi che ulteriori approfondimenti progettuali possono chiarire circa gli strumenti attuativi della strategia individuata, il pregio della proposta risiede nell’approccio sistemico del tema della strada e nel tentativo di dare una risposta alla condivisa denuncia che la “strada dei nostri paesaggi è spogliata, degradata a vettore del più celere spostamento, privata della preponderanza del suo destino utilitario […] coinvolta nella difficoltà contemporanea di disegnare lo spazio esterno, aperto, pubblico, urbano, in periferia, nella città diffusa, nel territorio”15 Il progetto di paesaggio per la città in estensione deve pertanto superare il nostalgico presupposto che la dispersione insediativa sia una forma di città a cui manca qualcosa che in qualche misura va ritrovato, prendendo coscienza che il paesaggio della dispersione “conterrà una quantità di spazi non urbani che verranno chiamati natura”16 che, in
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un radicale cambio di prospettiva non sarà più l’esterno, lo sfondo della città, di cui è altro; la “messa in opera della natura”17 è ciò che la nuova dimensione territoriale della città attende, in una prospettiva sistemica, ecologica, funzionale. L’antica Postumia attende, pazientemente, di ritrovare unità e funzione in questa direzione.
Figura 6. Sintesi interpretativa sui caratteri del paesaggio lungo la Postumia tra Treviso e Castelfranco
Figura 7. Elaborazione metaprogettuale.
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Riferimenti bibliografici
Riferimenti iconografici
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Figura 1: Figure 2,3,5: Figura 4: Figure 6,7: Treviso
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http://it.wikipedia.org Marco Cillis Andrea Alberini Fondazione Benetton
Studi
Ricerche,
Testo acquisito dalla redazione nel mese di gennaio 2013. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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Tozzi P., I nuovi percorsi viari e il frazionamento della Postumia, in Sena Chiesa G., Lavizzari Pedrazzini M.P., 1998, p.256. 2 Fattore importante che contribuì a spezzarne l'unità sia materiale che culturale fu, tra i primi, la costruzione della via Iulia Augusta, voluta da Augusto intorno al 13 a.C. per collegare Piacenza con la Gallia meridionale, che nel primo tratto fino a Tortona si sovrappose alla Postumia; alla stessa stregua, l'imporsi di nuove grandi direttrici di collegamento orizzontali come l'asse Milano-BresciaVerona o la Cremona-Mantova-Ostiglia determinarono una declassificazione funzionale di alcuni tratti, che nella migliore delle ipotesi restarono a servizio della sola viabilità locale. 3 La distribuzione lineare di alcuni insediamenti romani rinvenuti nel corso degli ultimi decenni, avvalla l'ipotesi di questo tracciato tra Caorso e Castelvetro Piacentino. 4 Cfr. Plinio, Naturalis Historia, 72, ripreso successivamente da Columella, De Re Rustica, V, 6. L'epiteto testimonia come fosse una specie arborea geograficamente localizzata. La sua presenza sotto forma di ramaglie trova riscontro nell'impiego anche in epoca
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imperiale come foraggio, così come testimonia anche Varrone. Scrive infatti che “in pianura nessun albero è preferibile piantare piuttosto dell'olmo, perchè è quanto mai redditizio, a sostegno delle siepi, tiene un certo numero di corbelli d'uva, fornisce gradevolissime fronde alle pecore e ai buoi e rami al focolare e al forno.” Varrone, De Agricoltura, I, 14,4. 5 Cremaschi quantifica la perdita di circa il 60% della copertura forestale in ambito padano; cfr. Cremaschi M. et alii, 2011. Alla forte diminuzione querce, abete bianco, carpini e faggi corrispose un incremento rapido di specie coltivate, in particolar modo di noce, olivo e , successivamente, castagno. 6 Castelletti L., Rottoli M., Il paesaggio antropizzato romano, in Sena Chiesa G., Lavizzari Pedrazzini M.P., 1998, p.179. 7 Lungo il tratto Cremonese della Postumia, a Pescarolo, il Museo del Lino testimonia la presenza diacronica di questa coltura, che Plinio ricorda essere praticata non solo per la produzione tessile ma anche “come ingrediente di un cibo rustico assai dolce [cucinato ormai solo] in occasione di cerimonie religiose”. Cfr Plinio, Naturalis Historia, XVIII, 126. 8 Cfr. Sereni E., 1961, pp. 276-277. 9
E’ di un certo interesse una citazione di Columella (De Re Rustica, V.VI) che a proposito del sostegno della vite nella valle del Po, fa riferimento al rumpotinum di origine gallica e scrive “anche il corniolo e il carpino e qualche volta il frassino e il salice sono usati talora in queste alberate”. 10 Per un approfondimento su questo tema si rimanda ai capitoli 73 e 74 di Sereni E., 1961 relativi al paesaggio padano dei prati irrigui e all’affermarsi del podere mezzadrile tra Settecento e Ottocento. 11 Cfr. Tacito, Historiae, II, passim. 12
La notizia è riportata in Rosada G., La via Postumia da Verona ad Aquileia: un percorso di terre umide, in Sena Chiesa G., Lavizzari Pedrazzini M.P., 1998, p. 242. 13 Cfr. Palladio A., De Architectura, III, 1.
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Nell’ambito dei corsi sul governo del paesaggio che l’istituzione trevigiana ha annualmente proposto tra il 1990 e il 2005, il tema della città in estensione veneta è stato oggetto di tre corsi: “Nei luoghi della città diffusa veneta. Che fare?” (2001), “Nella città diffusa. Idee, indagini, proposte per la nebulosa insediativa veneta” (2003) e “Postumia. Sperimentazioni paesaggistiche nei luoghi della nebulosa veneta” (2005). Quanto qui riferito circa le idee strategiche e progettuali è tratto dai materiali prodotti durante i laboratori e raccolti in un dossier inedito presso il centro di documentazione della Fondazione. 15 Maffioletti S., La strada ci usa, in Maffioletti S., Rocchetto S. (a cura di), 2003, Infrastrutture e paesaggi contemporanei, Il Poligrafo, Padova, pag. 16. 16 dal saggio Verso la città territorio (1990) pubblicato in CORBOZ A., 1998, Ordine Sparso, Franco Angeli, Milano, pag. 218. 17 Barbieri G., Configurazioni della città diffusa, in Clementi A., Dematteis G., Palermo P.C. (a cura di), 1996, Le forme del territorio italiano, Laterza, Roma-Bari, pag.119.
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Il territorio come accezione Culturale e Colturale
Cultuale,
The territory as a cultic, cultural, and cultivation meaning
abstract L'efficacia della legislazione in campo paesistico e territoriale ha sempre interessato l'attività di Emilio Sereni, da cui si prende spunto per approfondire tale aspetto nel periodo medievale. La legislazione rintracciata nel periodo intorno al sec XI-XII, costituita dal “Libellus definitionum", trova ampio riscontro analizzando il territorio intorno ai nuclei abbaziali coevi. Ciò permette, dopo aver elaborato schemi comprovanti l'efficacia della norma, di rintracciare i principi di progettazione territoriale che vi sono coinvolti. Si evidenzia l'aspetto della gestione del territorio condizionato dalle distanze che intercorrono fra i vari centri facenti capo ad un medesimo comparto territoriale. Si individuano quindi delle isocrone, atte a coordinare la relazione fra nucleo edificato e territorio afferente, in una sorta di network agricolo, ancora oggi rilevabile.
abstract The effectiveness of legislation in the field of landscape and territory has always been present in the work of Emilio Sereni: inspired by this, I decided to reconsider this aspect in the medieval period. The set of laws and rules, traced back in the period around 11th and 12th centuries, consisting of the "Libellus definitionum" is broadly confirmed by the analysis of the area around the nuclei of contemporary abbeys. After developing their plans - proving the effectiveness of the rule - I could extract the territorial design principles. Land management, proven by the distances between the various centres belonging to the same sector planning, are analysed to obtain an isochronic map, evidencing the relationship between the core structure and the related buildings and grounds, still detectable.
parole chiave Territorio cultuale - monasteri - abbazie - grange medioevo
key-words Cult - monasteries - abbeys - granges - Middle Age
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Cecilia Maria Roberta Luschi*
* Università degli Studi di Firenze
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Il termine territorio deriva dal termine latino territor, che significa possessore di terra; in parallelo, paesaggio deriva da paese ovvero aggregato edilizio residenziale, che a propria volta deriva da pagensis ager, con la medesima radice di pagus. Risulta pertanto naturale la conclusione che il paesaggio è la summa dell'azione dell'uomo sul territorio ed in particolar modo conseguente alla messa a reddito del territorio. Paesaggio e territorio, nel senso moderno, assumono invece una accezione di tipo morfologico e geografico il primo, qualitativo il secondo. In nessuno dei due termini, ad ogni modo, è rimasto evidente il concetto di proprietà. Il territorio è dote dell'uomo, ma una proprietà, come molti contadini ben sanno, prestata, e che l'uomo deve gestire. Il territorio è un bene disponibile, ma non riproducibile. Da qui dovremo, quindi, partire per poter capire cosa voglia dire gestire un territorio e come si arrivi a costituire un paesaggio. In questa riflessione è necessario premettere che la città, l'urbe, il paese sono elementi del paesaggio e come tali rientrano nella gestione del territorio: da ciò si desume che definire una dualità fra territorio e città è premessa impropria e non vera, dato che porre il tutto in equipollenza con una sua parte è premessa errata, che - se posta alla base di ulteriori ragionamenti - non può che portare ad errate conclusioni. Per capire quanto sopra esposto corrisponda al vero, basta riflettere su come, nella storia, l'uomo si sia relazionato al territorio e perché oggi il risultato di quel rapporto ci faccia giudicare positivamente i paesaggi che ne sono scaturiti. Il territorio si può definire secondo tre distinti valori che collaborano in contemporanea a definirlo nella
Il territorio come accezione Cultuale, Culturale e Colturale
sua completezza: il territorio è culturale, il territorio è colturale, il territorio è cultuale. Per i primi due aspetti, credo che vi sia convergenza di interpretazione: per il terzo, invece, sono consapevole che vi possano essere resistenze. Tuttavia, invito a riflette come il territorio per l'uomo da sempre abbia avuto un'accezione sacra. Tutti noi abbiamo il ricordo del dio Pan, delle ninfe ed ancora dei Ciclopi, o dell'irascibile Nettuno: bastano i loro nomi per richiamare alla mente la dimensione sacra che l'uomo ha sempre vissuto, relazionandosi con il territorio quale parte più evidente e tangibile del più vasto concetto di natura. L'età classica, dunque, ha sempre espresso una relazione sacra verso il territorio ricercando una gerarchia nel creato, per poterlo comprendere ed usare senza alterarne gli equilibri, proprio perché essi sono espressioni sacre, ovvero fuori dal controllo umano. Non si capirebbe, altrimenti, la classificazione di Aristotele, che per alcuni aspetti rimane ancora oggi valida. L'aspetto cultuale del territorio nel passaggio fra il mondo classico ed il tardo antico, sino ad approdare al Medio Evo, permea profondamente la società. E' indubbio che il cristianesimo abbia traslitterato questo sentimento religioso verso la natura trasferendolo sul concetto di creato. Così facendo, rientrando nella tradizione del comune sentire della società classica, preservò il concetto di sacralità del territorio, aggiungendo un fattore da non sottovalutare, che è quello di un giardino da coltivare per la salvezza. Per definire questo nuovo ambito cultuale, dobbiamo prendere atto che l'Eden, il Paradiso, deriva dall'ebraico Pardes, che significa orto, e che sin dalla creazione Adam fu chiamato a coltivarlo
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ed a renderlo più bello. Il relativo passo del Genesi1 è essenziale per inquadrare alcuni fenomeni tardo antichi e medievali. A chiusura di questa piccola premessa, vorrei far notare come nel periodo storico in cui si recide il rapporto fra uomo e Dio, e l'uomo si convince di essere veramente Faber fortunae suae2, decada il rapporto di tensione fra uomo e territorio e gli effetti siano vividi e difficilmente smentibili. Il grande e profondo movimento del monachesimo benedettino si pone come cardine imprescindibile, dal mio punto di vista, al fine di indagare come si possa giungere ad un'etica del lavoro e ad una funzionalità naturale di organizzazione del territorio giungendo alla definizione di unità di paesaggio che ancora oggi rendono le nostre regioni mirabili. I temi dell'otium e del negotium latino, che trovano il loro più profondo corrispondente sociale nel vivere in villa, si traducono in un ora et labora profondamente cristiano, che ha come conseguenza l'organizzazione di una vita cenobitica all'interno di un monastero. La villa, di esclusivo gusto latino, oltre a conformarsi architettonicamente in modo ben preciso - che qui diamo per ampiamente discusso3 -, si relaziona con il territorio secondo una gerarchia ben precisa. La villa rustica ha alle proprie dipendenze la villa fructuaria e si basa sulla tipologia a coltura multipla, puntando ad una autarchia in relazione al mantenimento senza precipui fini commerciali. Ritirarsi in villa voleva dire avere tempo per l'otium che era caratterizzato dallo studio. Era considerato otium anche attendere alle cose riguardanti i campi, alle decisioni delle colture, agli esperimenti botanici che spesso venivano fatti dai nobili per migliorare la resa del raccolto4.
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La villa fructuaria era la vera e propria fattoria: in essa, si allevavano animali da cortile, nella curtis, e veniva pianificata l'agricoltura estensiva. L'hortus era invece organizzato nella rustica padronale. Le due entità edilizie si ponevano in relazione stretta, non solo per il fatto di avere un'unica proprietà, ma per l'essere collocate in modo ragionato sul territorio. Il patrizio doveva poter visitare la propria fattoria o le fattorie della sua villa andando e tornando in giornata. La villa, poi, non doveva essere molto lontana dal centro nevralgico della vita sociale: si poneva, pertanto, ad un giorno di cammino al massimo dalla città. Roma ebbe le sue ville principali dislocate a Tivoli, località in cui i senatori si ritiravano per l'otium, ma potevano sempre raggiungere facilmente l'Urbe. Un tale principio funzionale non era registrato dal punto di vista politico, ma sembra essere stato insito nel ritmo della società latina, che, in questo senso, si distacca molto dal ritmo di vita greco. Anzi, forse proprio questo aspetto di relazione con il territorio è peculiare della società latina, mai del tutto dimentica delle proprie profonde origini rurali. Condividendo profondamente la convinzione di quanti, numerosi, affermano che la fondazione dei monasteri abbia avuto come referente formale la villa romana, osserviamo come per la fondazione del monastero fosse necessario che questo avesse possedimenti terrieri idonei alla propria sussistenza, e che avesse alle proprie dipendenze un minimo di fattorie ed opifici fra mulini ed officine, in modo da impegnare nel labor i monaci. San Paolo viene posto alla base dell'azione del lavoro del monaco: egli, infatti, afferma che chi non lavora nemmeno avrebbe dovuto mangiare. Era fissata anche una regola ulteriore, derivata da quell'etica naturale che perveniva dal mondo romano, ma che qui si radicalizza: solo la terra
fruttava e dunque il denaro, che non può dare frutti di per sé, era lo sterco del diavolo5. A parte questa connotazione, il monastero si configurava come il vertice di una maglia gerarchizzata di fattorie condotte da famigli. A ciascuna fattoria si legava un comparto territoriale, che si caratterizzava per la specializzazione delle colture. Il monastero percepiva non un affitto delle terre, ma una decima sul prodotto. L'eccedenza della produzione, che si sostanziava solo dopo aver soddisfatto i bisogni di ciascun nucleo, veniva portata al mercato. Le sedi di mercato nel periodo alto medievale erano assai poche, ed in quel nucleo urbano si concentravano le attività artigianali e di servizio all'agricoltura, proprio per la convergenza nel mercato dei prodotti agricoli. La dinamica economica si configurava, dunque, in due settori ben precisi: un mercato interno, dove si compensavano le produzioni e si distribuivano i frutti, ed un mercato esterno, dove venivano barattati i prodotti agricoli con quelli artigianali o in cambio di denaro, ben poco in verità, che poteva servire per l'acquisto di suppellettili o per le spese relative alle strutture dell'abbazia. In questo senso, venivano socializzati i guadagni, in una logica mista fra organizzazione strettamente autarchica e quella mercantile. La logica economica ora chiarita era figlia, però, di un'organizzazione territoriale ben studiata e sperimentata. Tale logica può essere desunta dal Libellus definitionum, redatto nel 1202 dai Cistercensi, famoso ordine benedettino riformato nato dalla polemica con Cluny. Il testo chiarisce il rapporto che doveva intercorrere fra abbazia e grangia. La grangia è una struttura collegata alla domus inferior6 e da essa dipende: un magazzino che appartiene a questo complesso di edifici o una
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costruzione al centro di proprietà non direttamente collegate alla domus inferior, dove però il soggiorno dei conversi e del procuratore era limitato al minimo. Il lavoro del monaco era condizionato dalla Regola, che imponeva di non allontanarsi dal monastero, se non per brevi periodi; i conversi avevano, invece, solo l’obbligo di ritornare all’abbazia nei giorni festivi. La mobilità tra i gruppi era molto limitata: il converso che aveva pronunciato i voti non poteva diventare monaco. Perché ci interessi la regola della vita di un monaco, sarà chiaro nel prosieguo: apparirà straordinario constatare in quale modo il principio legislativo sia intimamente legato all'organizzazione del territorio. Si registri anche solo il fatto che il monaco non può assentarsi da "casa", per tutto il giorno, e se ha una dispensa per farlo, deve risiedere in un luogo ove ci sia un edificio ecclesiastico. La prima parte del Libellus definitorium raccoglie le norme per la costruzione delle grange e consente di vedere l’evoluzione di queste strutture nel XII secolo. Il problema principale era il rispetto della distanza minima di due leghe borgognone tra grange di diverse abbazie. Ogni abbazia doveva, oltretutto, distanziarsi dalla successiva per almeno 60 leghe di Borgogna7, e la norma 26 prevedeva che i monaci non dormissero nelle case urbane dipendenti dall’Ordine. In Germania, il fenomeno fu considerevole e, spesso, nelle città più grandi la funzione delle case urbane non fu solo di vendita dei prodotti monastici, ma di acquisto di prodotti alimentari, configurandosi come centri di commercio fra due livelli di strutture economiche che l'organizzazione monasticoabbaziale pone in relazione di sussidiarietà.
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Il primo sistema autarchico è organizzato territorialmente a stretto raggio e gestisce le attività che servono alla sussistenza dell'abbazia nel suo complesso, ovvero come nucleo principale di diverse attività dislocate nel territorio di influenza. Il secondo sistema è di mercato, cioè la produzione in eccedenza viene veicolata nelle domus in urbe, dove urbe indica il centro fornito di libero mercato. In questo ambito si attivava un circuito di commerci che restituiva liquidità al sistema abbaziale. La liquidità in denaro era comunque affiancata all'attività di baratto. Vorremmo far notare come l'aspetto normativo sia decisivo per la gestione del territorio. L'opera del Sereni8 tende nel suo complesso ad individuare i dispositivi normativi che, efficacemente od ostativamente, hanno influito sul territorio. Partendo dalla storia del paesaggio agrario, Emilio Sereni attua una disamina sul senso del paesaggio e pone l'accento sui momenti di disgregazione e di riorganizzazione. Invero, pur accennando all'azione cistercense, non approfondisce la dinamica abbaziale come nucleo promovente la coscienza territoriale. Tuttavia, indaga una capacità legislativa, nel corso della storia, per poter approdare ad una legislazione contemporanea atta a rimodulare e riformulare il paesaggio agrario del XIX secolo. In questo senso proponiamo qui all'attenzione del lettore una legislazione che è stata attuata e i cui effetti sono ancora ben visibili. Il libellus, infatti, è un esempio di come la regola, cioè la norma, sia decisiva. Va da sé che la caratteristica della norma è quella di essere illuminata, flessibile e posta nel solco della tradizione, per poter organizzare il futuro. Non è dunque facile formulare una norma agraria, se vogliamo renderla esaustiva in senso assoluto.
Il territorio come accezione Cultuale, Culturale e Colturale
La regola deve comprendere in sé dei margini indicativi, entro cui modulare le diversità oggettive dei territori e affidarsi al buon senso della gestione locale. Qualora venga meno quest'ultimo aspetto, allora entra in essere la norma che richiama ai principi generali e riordina ciò che esula da essa. L'effetto che si legge sul territorio relativamente all'azione cistercense ed al libellus si concretizza realizzando una gerarchizzazione dei nuclei residenziali e produttivi, principio mutuato dall'organizzazione dell'ager romanus e dal rapporto fra la villa e la villa fructuaria, che ha una diretta omologia con l'organizzazione amministrativa fra monastero e fattoria, fra abbazia e grangia. Vengono, quindi, disposti diversi nuclei edilizi per gestire il territorio e porlo a rendita. Gli aggregati erano, oltre all'abbazia stessa, opifici dell'abbazia che in genere rientravano nel limes sostanziato fisicamente da un muro di recinzione. I terreni, invece, si gerarchizzavano intorno alle grange, vere e proprie aziende agricole che ospitavano pochi lavoratori poiché la domus inferior era il nucleo residenziale dei lavoratori. Vi erano poi i magazzini dipendenti dalla domus inferior ed alcuni nuclei residenziali specialistici, che attendevano alla gestione di altre attività legate al territorio, come quella di tipo estrattivo sia di cava che di miniera, o dediti alla trasformazione, come i mulini e gli opifici. Tutti questi ambiti edilizi dovevano dislocarsi nel territorio in modo che si potessero raggiungere nell'arco della giornata. A questo punto ci possiamo interrogare sulla natura delle leghe di Borgogna che non hanno mai trovato un dato metrico preciso di interpretazione. Di fatto, non erano estrinsecazione di una distanza metrica, ma un'espressione di una distanza oraria. Tanto
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che le tolleranze nelle distanze differiscono enormemente fra un'abbazia insediata in fondo valle ed una in montagna. La codifica eseguita dagli studiosi, varia fra i 4 ed i 5 chilometri che sarebbero pari a due leghe di Borgogna, ovvero una distanza media che si copre in due ore di cammino o un'ora a cavallo9. Il territorio determina il ritmo della vita monastica e la natura del monastero stesso. Se l'abbazia si trovava in fondovalle, questa poteva raggiungere al massimo un'estensione di 500 acri; di contro, se fosse stata un'abbazia di montagna, i suoi possedimenti si potevano estendere sino a 1500 acri. E' intuitivo che, se da una parte si sviluppava un'agricoltura estensiva, dall'altra si sviluppava l'allevamento degli ovini e bovini, oltre a organizzare una attività di coltivazione del bosco. Questa regola si traduce in comparti precostituiti da un punto di vista estensivo, che si relazionano rispetto al centro secondo isocrone, ovvero secondo unità di tempo che legalmente era permesso impiegare per raggiungere i vari possedimenti, garantendo il ritorno in abbazia nella giornata. Esempi di una tale pianificazione sono ben evidenti in tutto il territorio italiano e assolutamente permanenti, ancora oggi, nei comparti afferenti ad abbazie. Non solo la dislocazione era a vista, per motivi di difesa, riguardo a strutture residenziali come le domus inferior, ma una volta perso il contatto visivo per motivi territoriali rimaneva quello temporale. Ciò non dovrebbe assolutamente sorprenderci, visto che la più famosa carta romana, la tavola Peutingeriana, riporta per tutto l'impero le strade principali ed il tempo che intercorre fra un centro o posta ed un altro. Non importava tanto la distanza fra i centri urbani, quanto il tempo
paesaggi in gioco
necessario a percorrerla, e ciò è palesemente comprensibile per una società militarizzata come quella romana. La regola contenuta nel libellus viene raffinata al punto che si precisa la modalità con cui un tragitto poteva essere compiuto, e di conseguenza vi è una equivalenza temporale fra chi andava a piedi con carico e chi procedeva invece a cavallo con carico. Il cavallo, come abbiamo visto, dimezza la lega di Borgogna. E' ancora da sottolineare che i viaggi sono previsti solo ed esclusivamente con carico, ovvero per necessità economica. Non che i monaci non andassero mai fuori dall'abbazia, ma ciò non riguarda la regolamentazione contenuta nel libellus. Il territorio, letto in questa ottica, ci rivela un network funzionale che si riverbera sulle nostre campagne, punteggiate da campanili e castelli, da castellari e abbazie, da mulini e fornaci e che costituisce un paesaggio suggestivo ed invidiato. Un esempio di quanto appena esposto è rappresentato dall'organizzazione delle piacentine terre traverse e dall'abbazia di Lucedio, presso Trino nel Vercellese, risalente al XII secolo. Si può rilevare come le logiche cronologiche degli insediamenti intorno all'abbazia non si discostino da una lega di Borgogna. La disposizione dei centri edificati secondo la funzione assume una gerarchia centripeta rispetto all'abbazia. Gli opifici, i mulini, le strutture di produzione e trasformazione si pongono al margine della logica definita dal libellus. Una siffatta efficacia della legislazione, come è evidente, ha un effetto diretto sul territorio, connotandolo secondo le qualità del paesaggio. L'estrema manipolazione degli spazi conferisce qualità al comparto e determina un paesaggio suggestivo, direi bello, che riconduce al concetto di Paradiso del Genesi.
La differenza sostanziale degli insediamenti monastici di questo genere, rispetto al referente funzionale classico, sta nel tipo di progettazione colturale. La villa classica si basa su una autarchia ad ampio raggio e punta sulla pluricoltura. Il sistema abbaziale si inserisce in una strutturazione territoriale vasta, di reciproca sussidiarietà con altri nuclei abbaziali e punta su una monocoltura altamente specializzata, che procede per comparti territoriali. Ogni area viene sfruttata per il suo "genius loci" ed il completamento della sussistenza del nucleo è affidato allo scambio con gli altri centri che portano avanti diversi tipi di colture, risiedendo in zone con diverse attitudini. Resta inteso che l'abbazia ed il suo comparto per la maggior parte della propria economia rimane chiusa ed autarchica, e che solo con l'eccedenza di produzione si apre ad un libero mercato, basato per la maggior parte sul baratto di beni e servizi. Il paesaggio, quindi, si articola in eventi architettonici distanti fra loro secondo un ritmo temporale che diviene disegno territoriale, e fra un sito edificato e l'altro campi, pascoli e gore caratterizzano il territorio come un ricamo, che punto per punto contribuisce ad un disegno unitario. Nulla è lasciato al caso, nulla è selvaggio, tutto è pianificato ma nel solco di quel sentimento sacrale che ha fatto del paesaggio italiano un unicum da tutti ammirato. Per concludere il tema impostato, vorremmo ora far notare come nel XIX secolo la legislazione italiana a cui il Sereni ha contribuito, ha attuato principi di comparti chiusi. Di fatto, ma ciò verrà sostanziato con la legislazione successiva sino al giorno d'oggi, ha sclerotizzato il territorio e vincolato il paesaggio. Il dinamismo del doppio livello colturale fra intensivo ed estensivo, fra mono e pluricoltura è
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stato abbandonato, in favore di una specializzazione economicamente isolata. Il risultato è stato che solo i comparti maggiori con posizione felice hanno potuto sopravvivere: gli altri, pagando il gap geografico, sono stati abbandonati. Ciò forse rientrava in una logica urbanistica che favoriva il punto di vista della città e dell'industria, ma questo sarebbe un tema diverso, se pur interessante. In questa sede, preme evidenziare come una pianificazione territoriale vincente produca un bel paesaggio. Traendo insegnamento da quanto ereditato dal passato, senza aver nostalgia dei paesaggi virgiliani, dobbiamo tener presente che è solo un problema moderno quello di preservare il territorio, ovvero ricostituire un atteggiamento etico verso il luogo. Si deve, dunque, recuperare certamente la struttura fisica e morfologia del territorio, ma anche quella visione cultuale che deve accompagnare la sua gestione e la sua regolamentazione. Non realizzare normative rigide e chiuse, ma normative libere ed aperte alle eccezioni, poiché la qualità più alta è sempre data dalle eccezioni alla regola e non dalla regola in sé. Troppi vincoli legano e soffocano il territorio, mentre l'intraprendenza per renderlo più accessibile e più gestibile produce una visione nuova e forse meritevole di essere avallata. Se quanto ora detto viene fatto tenendo conto che il paesaggio non è un bene dell'uomo, ma prestato all'uomo, allora ogni azione dovrà prevedere la riconsegna del bene e non il suo annientamento. Quanto attuato nel periodo medievale ci è giunto sotto forma di tradizione e di sentire comune, quella lontana saggezza contadina che molto ha custodito di questo aspetto quasi liturgico che l'uomo ha sempre avuto con la propria terra.
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Tutto ciò può sembrare avulso dalla realtà moderna, ma si invita a riflettere sul fenomeno del XIX secolo dei Kibbutz, che, recuperando una dimensione cultuale fra il popolo ebraico e la Terra Promessa, ha realizzato lo stato di Israele. Il Kibbutz, infatti, non ha un perché economico o culturale, ma sociopolitico, puntando
Il territorio come accezione Cultuale, Culturale e Colturale
assolutamente sul senso religioso di una comunità. I luoghi inospitali, i campi aridi e avari di messi non avrebbero giustificato un'azione di insediamento di questo tipo, ma il progetto di pianificazione territoriale partiva da un'altra istanza, ed ogni metro quadrato del territorio era prezioso tanto da assumere un'aura sacrale nella società israeliana.
Rifletterei profondamente su questo aspetto, per enucleare i valori da immettere all'interno di ogni azione sia programmatica che legislativa riguardo al territorio; se pure la lezione viene da lontano, non è detto che essa non sia valida e reiterabile.
Figura 1. Schema desunto dal Libellus definitonum del 1202, ove si chiarisce la logica organizzativa in ternino di compartimento abbaziale. Le strutture, inoltre, vengono distribuite secondo le funzioni insediate. Una tale organizzazione è frutto dell'eredità classica, ma vi differisce per la monocoltura a specializzazione spinta che viene attuata per ciascun comparto.
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paesaggi in gioco
Figura 2. Abbazia di Lucedio (Asti), sistema a rete. Le distanze sono comprese fra i due e tre chilometri, che tradotte - rientrano tutte in mezza lega di Borgogna. Il sistema è gestibile secondo un ritmo di mezza giornata. Figura 3. . La grangia di Darola è un insediamento agricolo tuttora attivo, la cui conformazione edilizia obbedisce alle regole della villa fructuaria romana.
Riferimenti bibliografici Bini M. (2011); Il paesaggio costruito della campagna toscana, Alinea Editrice Firenze F. Farina, I. Vona; (1988). L'organizzazione dei cistercensi nell'epoca feudale, Edizioni Casamari Frosinone Sereni E., (1961); Storia del paesaggio agrario italiano. Universale Laterza Bari Sereni E. (1968); Il capitalismo nelle Campagne 1860 1900. Piccola Biblioteca Einaudi Torino Kinder T.N. (2002); I Cistercensi. Jaca Book. Marmocchi F.C. (1853); Coeso di geografia universale sviluppato in cento lezioni e diviso in tre grandi opere. Società Editrice Italiana Torino
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Genesi, cap 5; Niccolò Macchiavelli, che però ne faceva un atto di accusa proprio contro l'uomo che si poneva come deus ex machina senza riconoscere i limiti di una azione arrogante e prepotente. 3 Luschi C.M.R. (2011) pp. 52/61 4 Columella, Catone ed altri forniscono ampie descrizioni dell'organizzazione e della vita in villa. 5 Le Goff (2010), pp .82/89 6 Residenza dei conversi in ambito cistercense, celle in ambito benedettino non riformato. 7 F. Farina, I. Vona; (1988) 8 Sereni E.,(1961); Sereni E. (1968) 9 Kinder T.N. (2002) p. 123; Marmocchi F.C. (1853) p. 309 2
Riferimenti iconografici riferimenti Tutte le immagini sono state fornite dall’autrice.
Testo acquisito dalla redazione nel mese di gennaio 2013. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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Il ruolo dei pattern agricoli nella creazione di paesaggi rurali identitari
Il ruolo dei pattern agricoli nella creazione di paesaggi rurali identitari
The role of agricultural patterns in the creation of rural landscape identity
Daniele Torreggiani*, Enrica Dall’Ara*, Patrizia Tassinari*
abstract In ambiti storici, geografici, culturali diversi, le popolazioni hanno “inciso” al suolo il proprio sistema sociale ed economico-produttivo. Si tratta di segni che testimoniano un’identità di geografia e cultura unica, o specifica di una data comunità,. Il contributo intende discutere ed indagare la relazione fra identità paesaggistica ed uniformità di pattern, e gli aspetti correlati inerenti ai segni impressi dell’uomo sul paesaggio rurale, alla grande e alla piccolo scala, ponendo attenzione a concetti essenziali riguardo la qualità paesaggistica utili in una prospettiva meta-progettuale. Il noto concetto di figurabilità viene esteso al territorio rurale al fine di delineare criteri di progettazione innovativi degli insediamenti rurali.
abstract In various historical, geographic and cultural contexts, inhabitants have drawn forms and structures on the landscape fruit of their social, economic and production systems. These signs represent material evidence of a unique geographic and cultural identity. The paper aims at discussing the relationship between uniqueness and universality and related aspects which deal with the mark left by man on the landscape at a large and small scale, thus focusing on base concepts of quality landscape patterns to be adopted in metadesign perspective. The design approach refers to the well-known concept of imageability, which the authors extend to the countryside where it has the potential of being fertile ground for new planning and design of rural settlements.
parole chiave paesaggio rurale, patrimonio culturale paesaggistico, qualità paesaggistiche dei pattern, identità territoriale, progettazione degli insediamenti rurali
key-words rural landscape; landscape cultural heritage; quality landscape pattern; countryside identity; rural settlement planning
* Università di Bologna
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paesaggi in gioco
Il contributo intende discutere, argomentare ed indagare la relazione fra identità paesaggistica ed uniformità di pattern, e gli aspetti correlati inerenti ai segni impressi dell’uomo sul paesaggio rurale, alla grande e alla piccolo scala, ponendo attenzione su concetti riguardo la qualità paesaggistica, utili in una prospettiva meta-progettuale. L’approccio si riferisce in particolare al noto concetto di figurabilità [Lynch, 1960], che gli autori traslano ed estendono al territorio rurale in quanto potenzialmente fertile per una pianificazione e una progettazione innovative degli insediamenti rurali. Da un lato come noto è necessario effettuare un’analisi sui valori storici del paesaggio agrario e sulla sua evoluzione passata, che in molti casi ne ha determinato una diffusa e progressiva frammentazione con conseguente perdita di uniformità. Dall’altro occorre indagare se e come l’agricoltura contemporanea stia andando definendo nuovi pattern di paesaggio, uniformi (in quanto ricorrenti e parte del fenomeno di globalizzazione) ed identitari (in quanto prodotto specifico della nostra società odierna, in cui la collettività si riconosce). L’obiettivo è la messa a punto di criteri di intervento per il potenziamento della loro qualità ambientale ed estetica, nella creazione dell’immagine contemporanea del paesaggio rurale. Le risorse del mosaico paesistico rurale In ambiti storici, geografici, culturali diversi, le popolazioni hanno “inciso” al suolo il proprio sistema sociale ed economico-produttivo, inserendosi nei processi naturali e disegnando, con gradi differenti di consapevolezza, forme e
strutture nel territorio: dalle dimensioni delle proprietà fondiarie e della trama dei campi e delle sistemazioni idraulico-agrarie,ai nuclei abitati, le architetture e la loro disposizione reciproca ed in relazione alla maglia di appoderamento. Sono tutti questi elementi che definiscono e testimoniano un’identità di geografia e cultura unica, o specifica di una data comunità. Rivelano quindi un hic et nunc, in cui risiedono l’originalità e la memoria, per quanto, come ogni portato antropico, i sistemi insediativi rurali siano soggetti a continue trasformazioni e siano pertanto in evoluzione. L’attività produttiva agricola è infatti uno dei fattori fondamentali di “creazione” e gestione permanente del paesaggio extraurbano. Questa unicità o identità (geografica e storica) dei diversi sistemi rurali che contribuisce alla caratterizzazione del genius loci (Norberg Schulz, 1980), chiede di essere indagata, conosciuta, rispettata, quale condizione essenziale per poterle riconoscere il valore di patrimonio culturale e paesaggistico in coerenza con la contemporanea concezione del paesaggio e gli obbiettivi inerenti, espressi nella Convenzione Europea del Paesaggio [Firenze, 2000]. Allo stesso tempo, occorre evidenziare come gli insediamenti rurali presentino, all’interno di una data realtà geografica e temporale, aspetti di uniformità/omogeneità altrettanto rilevanti nel determinarne l’aspetto connotante, essendo risposta ad esigenze di carattere funzionale, legate alle tecniche e tecnologie di produzione agraria e specchio di una particolare struttura economica e sociale. Molto spesso, di conseguenza, la “creazione unica” o identità è riconoscibile non tanto alla scala del singolo edificio o del singolo insediamento, che spesso costituiscono soluzioni tipologiche, ma
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piuttosto alla scala vasta, territoriale e geografica: la ripetizione, l’estensione uniforme di trame agricole e forme insediative costituiscono dei pattern percepibili [Bell, 1999], originando paesaggi unici e allo stesso tempo costituiti da un variegato mosaico di tessere omogenee, come testimoniano ad esempio le fotografie aeree di paesaggi americani presentate in Corner and MacLean (2000), che evidenzia la relazione fra le strutture fisiche e geometriche del territorio e l’estetica del paesaggio, attraverso la rappresentazione fotografica e la rappresentazione cartografica. Un esempio storico di pattern paesaggistico, diffusamente conosciuto e di immediata riconoscibilità, è costituito dalla centuriazione romana, un’organizzazione agraria costituita da un reticolo geometrico e regolare di strade e fossi di scolo delle acque, con piccoli nuclei rurali sparsi, conservatosi tutt’oggi in alcuni aree (si veda la Errore. L'origine riferimento non è stata trovata.). A tale pattern corrispondeva un determinato e peculiare sistema di relazione con la città e le sue attività civiche e mercantili e ad uno specifico tipo di cittadino - il piccolo proprietario terriero, l’agricoltore, il soldato, il contribuente legato al suo pezzo di terra e dipendente dal centro urbano. Il sistema delle strade contribuiva a conservare tale identità, creando una forza centripeta: dagli insediamenti rurali alla città, con i suoi mercati, forum, cerimonie/rituali religiosi, i suoi monumenti e la sua vita politica [Jackson, 1984]. Il modulo principale del reticolo della centuria era la Quadra (di circa 710 m di lato), suddivisa a sua volta in unità di dimensioni minori che replicavano, a scale di maggior dettaglio e secondo un ordine
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gerarchico, le medesime strutture (rete viaria e maglia di regimazione idraulica), attestando una capacità razionale di comprensione e determinazione di regole coerenti fra natura dei luoghi e sistema economico sociale. L’orientamento della centuriazione, pur nella imposizione di una struttura geometrica di fondazione predeterminata, interpretava l’andamento morfologico dei terreni in modo da favorire il deflusso delle acque, tanto che, anche mutate radicalmente le civiltà, le espansioni urbane e le trasformazioni territoriali successive al periodo romano, fino all’attualità, hanno ribadito le geometrie centuriali originare: riproponendo il medesimo orientamento dei campi, delle reti scolanti e delle nuove infrastrutture di approvvigionamento idrico a scopo irriguo. A questa maglia si è sovrapposto lo sviluppo di nuovi insediamenti, che seguono il reticolo viario centuriato [Lazzari et al. 2002]. Per ulteriori approfondimenti del rapporto fra identità paesaggistica e funzioni che generano pattern agricoli, nel rapporto correlato fra la grande e la piccola scala di impronta antropica, è utile recuperare un concetto proposto dal geografo E. Turri. A proposito del paesaggio agrario nelle società agricole pre-industriali, egli parla di coremi, ovvero unità territoriali con caratteri peculiari, se non unici, e di un loro ricorrere, ripetersi alla dimensione regionale, per l’assecondare in una certa misura le strutture imposte dall’uomo a 1 quelle naturali . La conoscenza e la razionalità, o economicità, o saggezza (Turri usa il termine “sentire”, “annusare”, enfatizzando la componente istintiva), con cui le civiltà contadine hanno interpretato e compreso le condizioni del territorio in cui abitavano ed operavano e da cui hanno fatto
Il ruolo dei pattern agricoli nella creazione di paesaggi rurali identitari
dipendere ubicazione viene sottolineata, in degli insediamenti anche da Lucio Gambi
e forme degli insediamenti, riferimento alla storia locale rurali dell’Emilia-Romagna, (1977).
Figura 1. Esempio di strutture centuriate ancora leggibili nel territorio di a Mordano (BO) e di Cesena (FC). Carta
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Tecnica Regionale ed. 1985 (estensione dell’area di circa 120 kmq).
In passato il sistema insediativo rurale è stato in grado di rispondere alla pluralità di funzioni correlate all’agricoltura originando architetture e borghi a cui riconosciamo attualmente una qualità estetica, e contribuendo alla conservazione dell’equilibrio ambientale. Il sistema insediativo rurale tradizionale ha determinato, nel complesso, un sistema di iconemi [Turri, 1998], “unità elementari di percezione”, segni riconoscibili, ovvero elementi che assurgono al valore di simbolo antropologico sia per le comunità che li hanno prodotti sia per le comunità che li hanno ereditati. Ovvero il “risultato visivo nel paesaggio” [Turri 1998, p. 64] delle caratteristiche dei coremi, a cui sono strettamente legati, anche se “occorre dire che non sempre al corema, che nell’ordine gerarchico viene ai primi posti per importanza, corrisponde l’iconema emergente nel quadro percettivo” [Ibidem]. Si potrebbe parlare di valore estetico diffuso, che nasceva dall’unicità geografica e allo stesso tempo dalla uniformità dei sistemi insediativi rurali, nel loro “adattare” la natura alle necessità umane e adattarsi alla natura e ai suoi processi, in una dialettica fra dominio progressivo mediante la tecnica e rispetto obbligato delle leggi che le caratteristiche intrinseche del territorio dettavano. In questo operare risiedeva una volontà creativa, un’“artisticità velata” [Ferriolo, 2003] con cui l’uomo tentava il superamento della natura, ma operando in forma simbiotica con essa. Nelle società post-industriali questa corrispondenza, fra agricoltura e natura del luogo, in molti ambiti è andata indebolendosi con l’accelerazione del progresso tecnologico e il conseguente svincolarsi dell’azione umana rispetto
paesaggi in gioco
alle caratteristiche territoriali. Ne è dipeso frequentemente un cambio di segno, dalla coerenza al contrasto, fra paesaggio e territorio: nel senso che l’immagine dei luoghi risultante dall’azione di trasformazione antropica sul territorio è stata determinata dall’inserzione di elementi alloctoni (materiali delle costruzioni, specie colturali, tecniche agrarie apprese e importate da altri contesti sociali ed economici) con una perdita dell’unità di tempo e di luogo che attualmente percepiamo come violenta, nel giudizio a posteriori (probabilmente perché non del tutto immuni dallo struggimento dovuto alla più generale perdita di relazione armoniosa fra uomo, post-industriale, e natura e per il peso di vedere come questa perdita non sia stata guidata da consapevolezza e da strumenti opportuni di tutela). Con la rivoluzione industriale la meccanizzazione ha abbreviato tempi e distanze avviando il processo di globalizzazione, la cui componente positiva viene celebrata mediante le Esposizioni Internazionali ed Universali del XIX secolo ed è intrinseca nei giardini botanici ed eclettici coevi, che inneggiano a una geografia “vinta”, addomesticata, a portata di mano alla stregua di un’enciclopedia, a prescindere dalle realtà pedologiche, climatiche, storiche e culturali, ed oltre la necessità del viaggio. Intanto i territori agrari, parallelamente, sono cambiati quanto a redditività, quanto ad estensione degli appezzamenti, quanto a modalità di conduzione. Dalla descrizione di Emilio Sereni (1961) inerente alla “rivoluzione agronomica” avvenuta in Emilia nei decenni che vanno dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale (dovuta principalmente all’introduzione delle colture industriali, quali la canapa, la barbabietola da zucchero, il pomodoro, il frutteto industriale, e alle ingenti bonifiche dell’area padana risultate possibili grazie all’utilizzo di
macchine idrovore, fattori che hanno generato il paesaggio della “larga” ravennate e della “bassa” ferrarese - si veda Errore. L'origine riferimento non è stata trovata.) si evince il potere della tecnica nell’accelerare e dare nuova dimensione alle trasformazioni agrarie, con conseguente modifica dei pattern paesaggistici.
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In realtà, nonostante il processo di industrializzazione, permane sempre, nei sistemi insediativi agrari, un “contatto” con la terra, da intendersi più precisamente come il condizionamento intrinseco che la χώρα (regione), o meglio la struttura profonda del territorio, imprime alle attività antropiche che modellano il mosaico dei soprassuoli. In base a questi ragionamenti sintetici, sembra di poter affermare quindi, soprattutto osservando molti paesaggi agrari odierni, che quello che è venuto meno con la progressiva industrializzazione, in modo accelerato nei tempi recenti, non è tanto il rapporto fra agricoltura e corema, quanto una relazione fra azione antropica e ambiente naturale consapevole delle ripercussioni nei tempi lunghi, con un senso di parsimonia delle forze e delle risorse, che le tecnologie avanzate hanno, per un certo periodo, offuscato e che ritorna adesso come obbiettivo fondamentale parallelamente all’urgenza della questione ambientale, della tutela del paesaggio, dell’innovazione in termini di tecnologie (e forme) appropriate [Dall’Ara et al., 2012]. L’aspetto tuttora carente è principalmente quello dell’espressione estetica, dell’interpretazione e creazione di nuovi pattern paesaggistici di qualità [Torreggiani et al., 2012], mentre la sfida attuale è coniugare l’istanza di protezione/conservazione delle risorse e creazione di bellezza. Qualità dei pattern del paesaggio rurale
Figura 2. Paesaggio della larga nel territorio rurale fra Ravenna e Ferrara. Carta Tecnica Regionale del 1998.
Numerosi studiosi hanno indagato le questioni attinenti alla qualità architettonica e paesaggistica del sistema costruito rurale [Di Fazio, 1989; Ruda, 1998; Ayuga, 1989; Garcia et al., 2003, 2006;
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Ayuga et al., 2004; Tassinari, 2006; Tassinari and Torreggiani, 2006; Tassinari et al., 2007; Tassinari et al., 2010]. Per quanto sopra considerato appare opportuno avvicinarsi ad una definizione di pattern paesaggistico di qualità, ai fini di individuare criteri meta-progettuali inerenti. Innanzitutto è possibile ricorrere al concetto semplice di corrispondenza strettamente legato a quello di sostenibilità (economica, ambientale, antropologica): corrispondenza fra specificità geografiche, esigenze economiche che determinano l’uso del suolo, e valore sociale e culturale attribuito dalla comunità locale e/o internazionale, ovvero valore condiviso. Questa corrispondenza può ritenersi un dato necessario (da valutare se anche sufficiente) per l’origine di pattern paesaggistici significativi, nel senso di strutture formali cariche di significato, e con conseguente potere d’immagine. In riferimento alla forma della città, alter ego rispetto alla forma del paesaggio rurale, Kevin 2 Lynch (1960) parla di “immagine pubblica” , come di immagine a cui riferirsi, di interesse per gli urbanisti e pianificatori, e di “immagine ambientale”, analizzabile secondo tre componenti, identità, struttura e significato, di cui la prima (identità) ha il significato di individualità ed unicità. Data questa premessa, con cui si è voluto focalizzare l’attenzione sull’importanza del potere d’immagine delle strutture e forme dei pattern paesaggistici, quale primo passo per la definizione della loro qualità estetica e percettiva, è possibile riferire all’idea di qualità di un pattern paesaggistico in ambito rurale ciò che Lynch chiama figurabilità, quale attributo per la città “ben conformata, distinta, notevole”, “cioè la qualità che
Il ruolo dei pattern agricoli nella creazione di paesaggi rurali identitari
conferisce ad un oggetto fisico una elevata probabilità di evocare in ogni osservatore un’immagine vigorosa. Essa consiste in quella forma, colore o disposizione che facilitano la formazione di immagini ambientali vividamente individuate, potentemente strutturate, altamente funzionali. Essa potrebbe venir denominata leggibilità o visibilità in un significato più ampio, per cui gli oggetti non solo possono essere veduti, ma anche acutamente ed intensamente presentati ai sensi.”[Lynch, 1964, p. 32] Da qui derivano le necessità di chiarezza, di riconoscibilità, data da elementi che favoriscano un sistema di orientamento spaziale e simbolico. Di seguito si riporta un esempio che può suggerire utili spunti di riflessione in tal senso. All’interno della valutazione di Impatti per il paesaggio ed il 3 patrimonio storico/culturale del progetto dell’Inceneritore di Ravenna [Dall’Ara e Pistocchi, 2004] e successivamente, approfondendo l’argomento in occasione di una valutazione dell’impatto paesaggistico dell’ampliamento di un comparto industriale, appartenente al medesimo 4 territorio ravennate . Viene evidenziato come, al di là dei giudizi sulla qualità architettonica dei singoli manufatti, ci sia una certa capacità (pianificatoria ed attuativa) di inserimento coerente, anche se 5 mediante “contrasto simbolico” , nel rispetto della trama di appoderamento, che sostanzialmente si esprime nel rispetto della dimensione e della forma della parcella agraria, convertita in parcella industriale: il denominatore comune con l’intorno è quindi la produttività dell’uso del suolo, l’armonia di un ritmo percepibile dato dall’omogeneità di misura, l’equilibrio di scala (si veda la Figura 1). Si può pensare che la modularità e l’uniformità siano valori nella loro potenziale leggibilità e riconoscibilità; allo stesso tempo la variazione
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all’interno di un sistema modulare può costituire un’ulteriore idea per l’arricchimento del pattern, uno schivare indifferenziazione e monotonia in una compagine comunque “ordinata” e chiara, ancor più chiara in quanto prima di tutto rispondente alla funzione (rispetto alle molteplici istanze dette: funzione produttiva, funzione ecologica).
Figura 1. Trama agraria e comparto industriale Unigrà (in rosso) nel territorio ravennate, nei pressi di Conselice, quale esempio di equilibrio di scala e coerenza geometrica, nell’ibridazione fra usi del suolo tradizionali e contemporanei.
Ritorna utile un’elencazione delle “aggettivazioni della forma” di Lynch (1960), nella misura e nelle modalità con cui è ipotizzabile e possibile riferirle opportunamente dal contesto della città a quello del paesaggio rurale, come evocatrici, quasi appunti densi di intenti da sviluppare (Singolarità o
paesaggi in gioco
chiarezza di figura-sfondo […]; Semplicità di forma […]; Continuità; Preminenza; Chiarezza di connessione; Differenziazione direzionale; Ambito di visione; Consapevolezza di movimento; Serie temporali; Nomi e significati: caratteristiche non fisiche che possono intensificare la figurabilità di un elemento. Nel caso dei sistemi insediativi rurali, la presenza o assenza di tali attributi è affidata, sintetizzando quanto detto in momenti diversi, alla tipologia delle architetture in relazione alla propria funzione, alla loro distribuzione spaziale (relazione reciproca e rispetto alla maglia agricola e agli elementi naturali esistenti - corsi d’acqua, crinali, versanti, eccetera), alla geometria e dimensione degli appezzamenti, alla configurazione dei loro margini e confini (marcati dalla rete scolante, dalla rete della viabilità poderale e pubblica, da elementi di vegetazione quali siepi e filari alberati, alberi isolati). Le soluzioni possibili – che rispondano al principio di figurabilità e scaturiscano coerentemente dalle necessità ambientali e funzionali – sono molteplici e allo stesso tempo in numero limitato, e questo rende utile e molto stimolante la ricerca inerente ai pattern paesaggistici contemporanei. Riflessioni in sintesi per la pianificazione e progettazione dei paesaggi rurali contemporanei L’identificazione del rapporto complesso fra uniformità ed identità/qualità (paesaggistica) specifica dei sistemi insediativi rurali, diventa nella contemporaneità di particolare importanza.
Alcuni cardini/riferimenti possono essere ritrovati nelle categorie di salvaguardia, gestione e progettazione, così come sono declinate nella Convenzione Europea del Paesaggio (L. 14/2006). In tale senso, il progetto di politiche e azioni per la qualità paesaggistica può procedere prioritariamente alla salvaguardia delle unicità del mosaico, ponendo in atto un primo tipo di misure essenziali contro i processi che possono indirizzarlo verso una sua uniformità banale o standardizzazione. Di uniformità nell’accezione positiva, di ripetizione omogenee di soluzioni architettoniche ed insediative a creare unicità alla scala geografica, con capacità di creazione di immagini di paesaggio forti, si è detto a proposito dei pattern paesaggistici, al paragrafo introduttivo. Esiste al contrario un’uniformità derivante dalla perdita degli elementi unici e singolari del paesaggio, contro la quale occorrono azioni di tutela e di disvelamento di tracce storiche e attuali significative che costituiscono peculiarità paesaggistiche. Il secondo punto programmatico che è possibile leggere nella Convenzione riguarda la gestione dei processi di evoluzione del mosaico paesaggistico. Essa è volta a condurre le dinamiche delle realtà che conservano significativi caratteri di continuità evolutiva del mosaico verso conformazioni coerenti, anche attraverso forme innovative di uso delle risorse. Il terzo punto, della progettazione del mosaico paesaggistico, non è marginale e subordinato agli altri. Piuttosto, nella nostra epoca caratterizzata dalla proliferazione di trasformazioni del paesaggio ad opera dei progetti più vari, in quanto tali, progetti di paesaggio, e da una rarefatta ed
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episodica pratica ideativa e attuativa del progetto paesaggistico, questa categoria programmatica diviene cruciale nell’esplicitare opportunità diverse dalla salvaguardia e dalla gestione eppure come queste prioritariamente finalizzate alla qualità del paesaggio. Tali opportunità riguardano essenzialmente la definizione di efficaci risposte progettuali alle domande relative al recupero dei paesaggi degradati o compromessi e alla generazione di nuovi paesaggi, nei casi in cui, pur in assenza di emergenti criticità, si è in presenza di connotazioni paesaggistiche deboli, carenti di identificazione o anche solamente nei casi in cui si risponde con un corretto equilibrio di umiltà e di volontà ad esigenze peculiari con le quali le società precedenti non si sono confrontate e rispetto alle quali nel paesaggio di oggi non si trovano pertanto conformazioni rispondenti da salvaguardare o evolvere a tali fini di uso. Pertanto, salvaguardia, gestione e progettazione del paesaggio operano direttamente sulla sua unicità contro il rischio di sviluppo di una banale uniformità che esso sta correndo, ma esprimono anche un valore di universalità relativo alla rilevanza, per la collettività, del patrimonio nazionale e dei patrimoni locali. A questo proposito si è anticipata un’idea potenzialmente fertile, per nuovi processi di pianificazione e di progetto: la figurabilità, che occorre interpretare con il coraggio e la consapevolezza di creare una discontinuità rispetto ai pattern del passato, pur nella tutela del patrimonio di paesaggio ereditato; consapevolezza etica ed estetica, sociale, ecologica ed economica delle conseguenze, di medio e lungo termine, del rapporto uomo-natura presente e futuro.
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Il ruolo dei pattern agricoli nella creazione di paesaggi rurali identitari
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Testo acquisito dalla redazione nel mese di Febbraio 2013. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
paesaggi in gioco
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Le scelte del coltivatore […] erano basate sull’esistenza di coremi, unità territoriali minime, caratterizzate da ben precise condizioni climatiche, pedologiche, vegetali. […] Ciò che avveniva per il singolo contadino a scala poderale si verificava egualmente a scala spaziale maggiore, cioè nell’uso differenziato di un certo territorio, anche regionale, da parte di una società nella sua organizzazione agricola […]. Percorriamo, ad esempio, una valle alpina e vedremo che gli insediamenti si pongono regolarmente su conoidi allo sbocco delle valli laterali (ecco un esempio di corema), e come poi spazi coltivati, prati e boschi si distribuiscono secondo precise e ricorrenti indicazioni micro-ambientali o micro-climatiche, cioè secondo un modello adottato in tutto l’ambito vallivo o regionale.” E. Turri, 1998, Il paesaggio come teatro. Dal territorio vissuto al territorio rappresentato, Marsilio, Venezia, p. 61 2 “[…] ‘immagine pubblica’, il quadro mentale comune che larghi strati della popolazione di una città portano con sé: aree di consenso che ci si può attendere insorgano nell’interazione tra una singola realtà fisica, una cultura comune ed una eguale costituzione fisiologica”, in K. Lynch, 1964, L’immagine della città, Marsilio Editori, Nona ed. 1994, Venezia, p. 29. 3 Parte del relativo Studio di Impatto Ambientale (a cura di Paolo Zoppellari, 2004). 4 Valutazione di Impatto Paesaggistico del Progetto Motori di Unigrà S.p.A. a Conselice –Ravenna (Enrica Dall’Ara con GECOsistema srl, 2006). 5 “Occorre notare che all’interno del territorio ravennate in molteplici occasioni il paesaggio percepito è una commistione originale di habitat naturali estesi e di impianti, servizi e infrastrutture puntuali: le piallasse e le pinete, per fare un esempio conosciuto, sono contigue ad insediamenti industriali (comparto dell’Inceneritore di Hera, porto di Ravenna), insieme ai quali formano un paesaggio ibrido assai particolare e richiedente già oggi lo sviluppo di una percezione simbolica più complessa rispetto a quella possibile per ciascuno dei diversi elementi pensati separatamente.
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Si può identificare una certa costanza nel ripetersi di situazioni commiste nelle quali elementi “d’eccezione” si inseriscono su una matrice omogenea in termini simbolici (es. agricolo/industriale; agricolo/ricreativo; naturale/infrastrutturale…), di modo che localmente si configura un contrasto simbolico che assume possibili interessi narrativi.”, al paragrafo Un paesaggio dello scontro simbolico, della relazione della Valutazione di Impatto Paesaggistico del Progetto Motori di Unigrà S.p.A. a Conselice –Ravenna [Dall’Ara, 2006].
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Le trasformazioni urbane nei luoghi della riforma agraria
Le Trasformazioni urbane nei luoghi della riforma agraria
Urban transformations in agrarian reform places.
Anna Abate*, Rosanna Argento**
abstract La Regione Basilicata, nell’ambito del progetto Pays.Med.URBAN, ha elaborato l’Atlante del paesaggio urbano, un osservatorio che, integrando i tradizionali strumenti di analisi tecnico-scientifica con la fotografia, evidenzia l’impatto provocato sui paesaggi locali dai fenomeni di disgregazione urbana e di frammentazione dell’agroecotessuto. Nell’ambito della ricerca, articolata in sezioni rappresentative delle principali e più diffuse alterazioni paesistiche, è emersa una tematica che le interseca trasversalmente: la salvaguardia dei molti centri regionali sorti in epoca fascista e negli anni ’50, a seguito della Riforma Agraria. Si tratta di insediamenti a carattere rurale che hanno connotando i luoghi con segni fortemente strutturati sia per i caratteri tipologici dell’edificato, sia per l’unitarietà del disegno territoriale.
abstract Basilicata Region, inside the project Pays.Med.URBAN, has elaborated the Atlas of Urban Landscape, an observatory that, integrating the traditional instruments of technical-scientific analysis with photography, stresses the impact caused on local landscapes by phenomena of urban disintegration and fragmentation of agrarianecological-texture. From the research, articulated in section representatives of the principal and more diffuses landscape alterations, emerged a thematic that runs transversely: the safeguard of regional centers born in fascist period and during the Fifties in relation with the Agrarian Reform. They are rural settlements that strongly characterized landscape both for typological character of buildings, than for the unitary design of territories.
parole chiave Regione Basilicata, Pays.Med.Urban, Atlante del paesaggio urbano, Riforma agraria.
key-words Basilicata Region, Pays.Med.Urban, Atlas of Urban Landscape, Agrarian Reform.
* Regione Basilicata, ** Architetto.
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paesaggi in gioco
Le forme del paesaggio agrario della Basilicata, come quelle dell’intero Mezzogiorno, hanno subito nel corso del Novecento grandi trasformazioni avvenute a seguito della riforma agraria, conseguenza delle lotte contadine per l’occupazione delle terre incolte. La dislocazione di insediamenti rurali nelle campagne ed i nuovi assetti organizzativi territoriali della riforma hanno modificato molte aree del paesaggio regionale, precedentemente dominato dalla desolazione dei magri e brulli pascoli montani e dall’informe desolazione del latifondo1. I paesaggi locali, segnati dalla stagione della riforma agraria e della bonifica, sono numerosi. In essi, gli insediamenti a carattere rurale, sorti in forma diffusa, di borgo o di villaggio, hanno modificato sostanzialmente i tradizionali modi d’uso del suolo e l’assetto funzionale degli impianti insediativi e produttivi locali, connotando i luoghi con tratti fortemente strutturati sia per i caratteri compositivi e tipologici dell’edificato, sia per l’unitarietà del disegno territoriale. L’Osservatorio virtuale del paesaggio2, azione chiave del progetto PAYS.DOC, ne offre una lettura come segno particolare, leggibile ed identificabile nell’ambito dei diversi contesti paesaggistici. Evidenzia l’appoderamento lineare e regolare della Valle dell’Ofanto, del Metapontino e della Murgia Materana, i Centri di Servizio ed i borghi rurali, analizzandone le componenti. Tra di essi risultano di particolare interesse il Centro Servizi di Gaudiano, progettato secondo le regole dell’urbanistica razionalista, il singolare caso del borgo rurale di Piano del Conte, esperimento di agricoltura e zootecnia moderna voluto dal principe Filippo Doria Pamphili, il borgo La Martella di Matera, le case coloniche poste in sequenza lineare ai limiti dei poderi della Murgia Materana (fig. 1).
Figura 1. Agro di Irsina.
In tempi più recenti, nella seconda metà del secolo, a tali cambiamenti si sono sommati quelli derivanti dal mutato rapporto tra regime arativo e ordinamento arborato e promiscuo dei suoli agricoli e dall’aumento delle superfici urbanizzate che, nel periodo tra il 1960 ed il 2000, si sono quintuplicate. Tutta la struttura regionale, rurale ed urbana, si è evoluta ed è diventata più complessa sia per l’estendersi dei confini degli abitati e degli ambiti edificati, sia per l’aumento delle aree caratterizzate da un mosaico minuto di usi agricoli, di arboreti e seminativi, di aree a prateria e forestali sia di tipo residuale che originate, invece, da dinamiche successionali spontanee conseguenti alla disattivazione agricola3. Nell’Atlante del Paesaggio Urbano4, redatto recentemente a seguito della ricerca condotta nell’ambito del progetto PAYSMED.URBAN, il paesaggio della riforma è analizzato nella sua evoluzione, all’interno del tema dei conflitti e delle contraddizioni derivanti dalle trasformazioni
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avvenute negli ultimi decenni nelle periferie e nelle aree periurbane ed extraurbane dell’intero territorio regionale. L’Atlante è un osservatorio che evidenzia l’impatto provocato sui paesaggi locali dai fenomeni di disgregazione urbana e di frammentazione dell’agroecotessuto. Comprende un approfondimento analitico e descrittivo di casi rappresentativi e paradigmatici dei processi in atto, ed opera un’analisi critica delle dinamiche sottese ai processi di trasformazione degli scenari selezionati, integrando i tradizionali strumenti di analisi ed interpretazione tecnico-scientifica con la fotografia, intesa quale mezzo capace di rappresentare unitariamente segni e conflitti che nella prassi consideriamo afferenti a discipline settoriali. Ed è proprio alle immagini che si fa riferimento per evidenziare valori e criticità, e sviluppare un percorso logico volto a ripristinare o migliorare gli equilibri paesistici locali, con strumenti e prassi operative efficienti e condivise. Il confronto tra la rilevanza dei valori storicoambientali dei contesti e gli esiti dei processi di trasformazione induce a riflettere sul paesaggio come bene comune, sull’efficacia degli strumenti urbanistici, normativi e regolamentativi e sulla necessità di trasformare i sistemi di controllo in processi di supporto alle progettazioni in itinere. La fotografia diventa un linguaggio utile per comprendere sia le tendenze ed i fenomeni in atto, sia le differenze che ogni luogo esprime, pertanto mette in evidenza la necessità di ponderare azioni locali capaci di affrontare i temi della qualità urbana, ambientale e paesistica interfacciandosi con le dinamiche globali che sottendono alla sostenibilità dei progetti di trasformazione, al contenimento del consumo dei suoli ed al riequilibrio ambientale.
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Nell’ambito della ricerca, articolata in sezioni rappresentative delle principali e più diffuse alterazioni paesistiche – che vanno dalle trasformazioni delle cinture verdi suburbane alla dispersione abitativa ed alla commistione di destinazioni d'uso tra città e campagna, dallo slabbramento della forma urbana alla qualità paesaggistica delle aree interessate da processi di sviluppo economico - è emersa, come tematica che le interseca trasversalmente, la salvaguardia dei molti centri regionali sorti in epoca fascista e negli anni ’50, a seguito della Riforma Agraria. Questi luoghi infatti, risultano spesso manomessi, scarsamente valorizzati e salvaguardati nei processi di pianificazione e trasformazione urbana e territoriale, e di sviluppo locale. I casi studiati si inseriscono in ambiti paesaggistici differenti e testimoniano come, nel territorio regionale, l’evoluzione del paesaggio sia riconducibile alle trasformazioni legate all’uso agricolo del suolo. Scanzano Jonico Sul territorio lucano, l’impronta più evidente delle opere connesse alla Riforma Agraria è quella impressa sul paesaggio della costa ionica, che ancora oggi conserva, chiaramente leggibili, l’appoderamento dei fondi assegnati alle famiglie contadine, la rete viaria che spesso riprende le partizioni della colonizzazione greca, i centri di servizi, il sistema irriguo e le opere di bonifica iniziate nei primi anni del ‘900 e terminate negli anni 70. L’assetto agrario e insediativo disegnato negli anni ’50 permane e si è consolidato nel tempo grazie alla fertilità dei suoli ed alla collocazione geografica strategica dell’area rispetto alle vie di comunicazione.
Le Trasformazioni urbane nei luoghi della riforma agraria
Figura 2. Scanzano Jonico. La trama agricola nella piana metapontina.
Nell'agro rurale di Scanzano Jonico, nato come insediamento diffuso all’epoca della riforma e diventato comune nel 1974, risiede circa il 60% degli oltre 7.000 abitanti attuali. Il suolo agricolo è suddiviso in un reticolo di appezzamenti regolari di circa cinque ettari, sottolineato dalla rete viaria minore e dalla presenza di vegetazione lineare e di filari arborei. La trama territoriale è segnata dalle presenza delle case coloniche ubicate negli angoli contermini dei fondi, che creano piccoli vicinati di quattro edifici attestati alle strade interpoderali, che corrono parallele ed orientate verso il mare. Molte case rurali sono ancora abitate e, malgrado le molteplici modifiche tipologiche e volumetriche avvenute negli anni più recenti, sono diventate componenti caratteristiche del paesaggio insieme al disegno regolare dell’appoderamento, al sistema infrastrutturale minore, alla vegetazione lineare, ai fossi ed ai canali per l’irrigazione dei campi.
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Figura 3. Scanzano Jonico, tipologie edilizie rurali.
La salvaguardia dell’impianto rurale è minacciata concretamente dagli imponenti processi di trasformazione che stanno investendo l’intero territorio costiero compromettendone l’equilibrio ambientale e paesaggistico. Nel settore agricolo i rischi risiedono prevalentemente nell’impatto negativo che le colture intensive generano sull’ambiente e sono legati all’evoluzione delle tecniche di produzione agricola e forestale che stanno lentamente modificando gli elementi vegetali che strutturano i luoghi. A livello insediativo, il territorio agricolo è compresso tra due forze opposte che ne erodono i suoli, la pressione insediativa prodotta dall’espansione dell’abitato da una parte e la diffusione delle strutture ricettive costiere, connesse allo sviluppo turistico del contesto, dall’altra. Per scongiurare tali minacce è indispensabile, innanzi tutto prendere coscienza del valore storico dell’intero impianto e riconoscere l’importanza che ciascuna componente specifica – insediativa, naturale o colturale - assume nell’insieme del
paesaggi in gioco
paesaggio rurale. Solo così sarà possibile affrontare le tematiche afferenti la regolamentazione del territorio agricolo e dei manufatti rurali nell’ambito di un ampio quadro di politiche territoriali, ambientali e produttive e sarà possibile coordinare le azioni di tutela degli episodi storico-culturali con i processi di sviluppo locali, attraverso la definizione di scelte strategiche improntate alla sostenibilità delle trasformazioni. Non è infatti pensabile che una normativa vincolista del territorio rurale, da sola, possa avere efficacia in un contesto a forte vocazione agricola, peraltro diventato importante polo produttivo regionale proprio in ragione delle dinamiche indotte dagli interventi della riforma e dalle opere di infrastrutturazione connesse. Occorre invece, incentivare la salvaguardia del patrimonio storico attraverso la promozione di un sistema agronaturalistico integrato, orientato a riconvertire le attività produttive verso un’agricoltura sostenibile, ed a consolidare la continuità ecologica del territorio. A tali azioni, volte a rafforzare il tessuto produttivo locale, è necessario affiancare interventi capaci di contrastare l’urbanizzazione del litorale e l’espansione dell’abitato a favore della valorizzazione e della fruizione diffusa delle risorse insediative dell’intero contesto. Matera, la Martella L’impianto territoriale della Martella, il borgo agricolo edificato nel 1952 con i fondi del programma per il risanamento dei Sassi di Matera, propone un modello insediativo che pone il nucleo rurale in posizione baricentrica rispetto al territorio agricolo circostante, concentrando in esso le residenze ed i servizi occorrenti per la popolazione insediata nel comprensorio. La sua costruzione pose Matera al centro di un intenso dibattito
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politico e culturale, che vide come protagonisti i maggiori intellettuali dell’epoca e come progettisti l’architetto Quaroni ed il suo gruppo. L’insediamento è collocato sulla sommità di una piccola collina, visibile dalla città di Matera, e si inserisce nel paesaggio dell’altopiano della Murgia Materana con un disegno urbano organico che asseconda l’orografia dei luoghi.
Figura 5. La Martella – tipologie edilizie binate.
Figura 4. Il borgo agricolo della Martella – Matera.
Il suo tessuto insediativo, strutturato intorno al nucleo centrale destinato ai servizi collettivi e segnato dall’emergenza della chiesa, ha i caratteri spontanei della tradizione locale, eppure risulta rigorosamente controllato tanto nella composizione, quanto nella gerarchia dell’organizzazione spaziale. In esso, le case sorgono abbinate lungo la rete stradale e sono dislocate sui tracciati viari leggermente curvilinei, che si diramano dal centro seguendo le curve di livello. Definiscono cortine edilizie che ripropongono “l’unità di vicinato” tipica del modello insediativo dei Sassi.
Malgrado le innumerevoli e piccole trasformazioni delle unità abitative, l’immagine e la forma urbana del borgo sono ancora chiaramente leggibili, ma ad esse si contrappongono interventi che alterano l’impianto territoriale disegnato dalla riforma. Si tratta degli insediamenti residenziali sorti nelle immediate vicinanze del villaggio e delle nuove tipologie costruttive che ampliano l’insediamento. Queste ultime, pur se inserite nel disegno urbano originario ed aggregate seguendo il modello delle “unità di vicinato”, propongono un linguaggio compositivo assai dissimile da quello esistente. I nuovi complessi residenziali, limitrofi alla Martella, malgrado la buona qualità compositiva ed architettonica degli edifici e degli spazi esterni, non stabiliscono alcun rapporto con il delicato contesto in cui si collocano, e con lo stesso insediamento della riforma. Oltre che dall’espansione residenziale, l’immagine complessiva del contesto appare notevolmente compromessa dai nuovi insediamenti industriali e
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artigianali e dagli interventi abusivi che si sono diffusi nel territorio circostante nel corso degli ultimi decenni. La Martella sta cambiato volto, le trasformazioni d’uso del suolo e le nuove edificazioni hanno spezzato il legame tra l’insediamento ed il territorio agricolo e la previsione di nuove infrastrutture rischia di modificarne ulteriormente i caratteri paesaggistici. Per scongiurare la perdita di questa preziosa testimonianza storica, considerata modello urbanistico e compositivo unico dello scorso secolo, è necessario mettere in atto contemporaneamente un’attenta pianificazione del contesto ed un programma integrato di riqualificazione del borgo. Per un verso dunque, occorre salvaguardarne l’immagine paesaggistica attraverso l’individuazione di un’area di rispetto che tuteli il rapporto con il territorio agricolo circostante, dall’altro è urgente attivare piani e programmi volti a riqualificare l’insediamento. Ed ancora, è opportuno mettere in atto azioni volte ad incoraggiare sia il pieno utilizzo del patrimonio abitativo esistente, sia la valorizzazione agricola delle aree circostanti, in un quadro coerente con l’attuale connotazione sociale del contesto. Questo richiede un’attenta regolamentazione delle trasformazioni edilizie necessarie per adeguare le abitazioni alle esigenze dei residenti esistenti e/o potenziali, il controllo dei modelli tipologici da edificare nelle aree di completamento del borgo, ed un programma di interventi di recupero e manutenzione degli spazi aperti, dei servizi e delle attrezzature pubbliche attualmente sottoutilizzate. La frazione San Cataldo di Bella La frazione San Cataldo di Bella, formata da piccoli agglomerati e posta a circa 900 metri s.l.m., si
Le Trasformazioni urbane nei luoghi della riforma agraria
inserisce in un ambito paesaggistico completamente differente dai precedenti, quello della montagna interna che caratterizza l’area occidentale della regione. Sorge a ridosso del versante boscato della dorsale appenninica che congiunge il monte di Santa Croce a quello del Carmine.
Figura 6. Il villaggio di San Cataldo di Bella, la piazza centrale.
Con la riforma agraria subì una trasformazione socio-economica ed urbanistica radicale: i terreni rurali ricadenti nelle proprietà dei principi Ruffo vennero espropriati e attribuiti ai contadini e si avviò la costruzione del “Villaggio” che sostituì una parte del misero tessuto edilizio originario, migliorando in modo significativo le precarie condizioni abitative della popolazione insediata. Il nuovo nucleo residenziale fu dotato di un centro sociale e di una viabilità carrabile che ruppe definitivamente l’isolamento territoriale dell’abitato.
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Il successivo sviluppo edilizio dell’abitato è avvenuto per ampliamenti progressivi dei nuclei originari che, in molti casi, si sono saldati pur conservando una connotazione rurale determinata dalla permanenza di depositi agricoli e di aree aperte di pertinenza delle abitazioni, sistemate ad orto o utilizzate per conservare la legna. Dopo il terremoto dell’Ottanta, molti edifici sono stati demoliti e ricostruiti con i benefici della L. 219/81, ed altri sono sorti ai margini o negli spazi interstiziali dell’abitato, introducendo linguaggi, aggregazioni e tipologie edilizie estranee ai caratteri del contesto. Il “Villaggio” ancora oggi è l’unico agglomerato della frazione connotato da un disegno urbano strutturato, incentrato sulla piazza centrale circondata dagli edifici pubblici (scuole elementari, chiesa e uffici) e lambita dalla viabilità principale su cui si attestano le abitazioni poste su due livelli. Le residenze che si fronteggiano sulla strada principale sono connotate da due modelli tipologici differenti, uno a capanna - caratterizzato dal basamento rivestito in pietra e dal disegno romboidale della canna fumaria aggettante sul prospetto principale l’altro aggregato a schiera, con il fronte leggermente ruotato rispetto all’asse viario, e composto dall’alternanza di volumi di altezza differente. Molti interventi di ristrutturazione edilizia, eseguiti recentemente, hanno trasformato i caratteri architettonici dell’insediamento della riforma, in particolare quelli delle residenze. Alle criticità derivanti sia dalla disattenzione con cui si è operato su tutto il patrimonio residenziale del “Villaggio”, sia dalla scarsa manutenzione di alcuni edifici pubblici si aggiungono le trasformazioni tipomorfologiche dell’intero abitato che circonda il nucleo della riforma, l’occupazione disordinata degli
paesaggi in gioco
spazi aperti annessi alle abitazioni e quella delle aree verdi interstiziali o marginali.
Figura 7. San Cataldo di Bella, tipologie edilizie della riforma.
L’attuale assenza di azioni volte alla tutela, regolamentazione e valorizzazione di queste testimonianze insediative rischia di consentire ulteriori trasformazioni del villaggio e dell’intero abitato tanto da cancellarne definitivamente l’immagine ed i caratteri rurali. L’attenzione va rivolta alla riqualificazione dei percorsi, degli spazi aperti pubblici e privati, ed agli interventi di recupero della qualità architettonica del patrimonio edilizio storico, incentivando l’uso di materiali e tecniche costruttive tradizionali. Al fine di qualificare l’immagine paesaggistica dell’intero abitato, gli interventi di salvaguardia e valorizzazione vanno supportanti da una pianificazione che contenga il perimetro urbano e ne programmi l’espansione con un disegno insediativo e tipomorfologico finalizzato ad esaltare
i caratteri rurali dell’insediamento, ed il valore paesaggistico delle aree verdi interstiziali, marginali ed extraurbane. Marconia, centro amministrativo della colonia confinaria “Centro Agricolo Marconi” Marconia è una frazione del comune di Pisticci. Sorge nella pianura metapontina, in prossimità del litorale ionico, in un contesto bonificato e recuperato alle colture agricole dai confinati politici che, in epoca fascista, furono alloggiati nella colonia di Bosco Salice, oggi denominata “Centro Agricolo Marconi”. E’ un esempio di insediamento di nuova fondazione, inaugurato nel 1940, come centro amministrativo della vicina colonia confinaria. Edificato in tempi brevissimi avvalendosi del lavoro dei confinati, all’epoca comprendeva solo piazza Elettra e pochi edifici disposti lungo uno dei due assi viari principali. La piazza è il primo nucleo dell’insediamento “urbano” intorno a cui, secondo la politica urbanistica dell’epoca, avrebbe dovuto svilupparsi una città simile a quelle pontine. Probabilmente, il completamento fu impedito dallo scoppio della guerra. Di esso rimane la piazza porticata, fortemente connotata dall’architettura monumentale del regime, ed il disegno dei due assi viari di penetrazione territoriale, che attraversano ortogonalmente l’abitato. Le assegnazioni provvisorie delle terre di Bosco Salice ai contadini pisticcesi, avvenute tra il 1939 ed il 1943, ma soprattutto quelle degli anni 1946 e 1947 diedero, comunque, impulso alla sua espansione. Marconia ampliò i suoi confini nel periodo postbellico e negli anni ’60 e ’70 quando, pur in assenza di un progetto insediativo strutturato, accolse gli sfollati dei quartieri Croci e Tredici di Pisticci, costretti ad abbandonare le
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proprie abitazioni distrutte da disastrosi eventi franosi.
Figura 8. Marconia, piazza Elettra.
Oggi Marconia ha una popolazione maggiore di quella del comune capoluogo e si estende a macchia di leopardo in un agglomerato disomogeneo e di mediocre qualità edilizia, che denuncia la mancanza di un progetto territoriale coerente con il sistema ambientale e paesaggistico locale. All’impianto urbanistico ed architettonico del nucleo di fondazione, carico di valori simbolici e scenografici, ma incompleto e non concluso, fa riscontro un tessuto urbano privo di spazi attrezzati qualificanti, caratterizzato da aree inedificate. Il disordine derivante dalla discontinuità del contorno urbano è accentuato dalla presenza di insediamenti lineari a bassa densità, che si insinuano nel territorio circostante, frammentando il suolo agricolo lungo i principali assi infrastrutturali e nelle aree marginali.
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Le Trasformazioni urbane nei luoghi della riforma agraria
Figura 9. Marconia, Piazza Elettra.
In tale quadro, lo spazio urbano e le architetture della piazza, peraltro ben conservati e recentemente recuperati negli spazi aperti e nell’edificato, rappresentano sicuramente un riferimento per i residenti, ma hanno perso valore a livello paesaggistico. Occorre allora, da una parte controllare l’espansione urbana e potenziarne il disegno, dall’altra recuperare il rapporto dell’abitato con il territorio agricolo circostante. Questo può avvenire coniugando gli interventi pubblici - rivolti all’offerta equilibrata di spazi e attrezzature pubbliche ed alla sistemazione delle aree verdi - con politiche e prassi finalizzate ad incentivare la riqualificazione dell’edilizia residenziale e degli spazi aperti. Particolare attenzione va rivolta alle azioni da mettere in atto per disegnare i contorni
dell’insediamento, attraverso la trasformazione della cintura periurbana in un parco agricolo polifunzionale. Si tratta di procedure di perequazione utili a trasferire diritti edificatori residui in aree “non sensibili”, di indennizzi per la delocalizzazione di attività ed edificazioni improprie, ed infine di incentivi per promuovere interventi di agricoltura urbana a fini produttivi, ricreativi e di recupero ambientale. In conclusione, la casistica riportata nell’Atlante offre molteplici spunti di riflessione per una attenta gestione del paesaggio urbano e specificatamente del paesaggio segnato dalla stagione della riforma fondiaria che nella storia recente della Basilicata riveste un ruolo importante. Ma, si ritiene, offre anche la possibilità di riflessioni sul ritardo di politiche di tutela di questi luoghi
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attraverso la loro riqualificazione e valorizzazione e sul rapporto tra paesaggio come contesto di vita delle popolazioni e fondamento delle loro identità.
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Riferimenti bibliografici Sereni E., 1961, Storia del paesaggio agrario italiano, Editori Laterza. Regione Basilicata, 2012, Atlante del paesaggio urbano, Edizioni Scientifiche Italiane.
Riferimenti iconografici Figure 1 -9. Foto di Ernesto Salinardi, tratte da Regione Basilicata, 2012, Atlante del paesaggio urbano, Edizioni Scientifiche Italiane.
Testo acquisito dalla redazione nel mese di dicembre 2012. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte. (titolo 3 verdana 8 corsivo)
1
Emilio Sereni, 1961, Storia del paesaggio agrario italiano, Editori Laterza. 2 Osservatorio Virtuale del paesaggio – Regione Basilicata- anno 2007- progetto PAYS.DOC Interreg III Medocc 3 Analisi dei mosaici rurali di Basilicata a cura di Risorsa srl.- 2012 4 Regione Basilicata, 2012, Atlante del paesaggio urbano, Edizioni Scientifiche Italiane. L’atlante è il frutto della ricerca prodotta dalla regione Basilicata nell’ambito del progetto Pays.Med.URBAN - Alta qualità del paesaggio come elemento chiave nella sostenibilità e competitività delle aree urbane mediterranee - programma MED 20072013.
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Paesaggi della memoria e dell’innovazione. Ri-abitare i paesaggi della riforma agraria foggiana
Paesaggi della memoria e dell’innovazione.
Landscapes of memory and innovation. Re-inhabit the territories of the agrarian reform in the city of Foggia
Marialuisa Cipriani*, Elena Farnè**
abstract Nei primi decenni del secolo scorso la piana di Foggia fu investita da un importante intervento di trasformazione fondiaria che promosse da un lato una significativa bonifica del Tavoliere delle Puglie, dall’altra un’intensa attività urbanistica per la costruzione di nuovi insediamenti rurali: le borgate della città di Foggia. Questa politica di insediamento e sviluppo dei centri rurali connota ancora oggi il paesaggio agrario della piana foggiana, ove si trovano grandi patrimoni pubblici dello Stato e degli Enti locali: latifondi, reti idriche, abitazioni sparse, intere borgate ed evocative architetture di gusto razionalista. Il progetto propone una strategia per valorizzare il paesaggio agrario foggiano e del suo immenso patrimonio pubblico, generando nuove forme di sviluppo con cui rispondere ai bisogni di una “nuova società rurbana”, nel rispetto dei caratteri identitari che sono propri del paesaggio della riforma agraria.
abstract In the firsts decades of the last century, the plain of Foggia was invested by an important intervention of landed property transformation that, on the one hand proposed a significant land reclamation of the Tavoliere delle Puglie and on the other hand, an intense urban activity for the construction of new rural settlements: the suburbs of the Foggia city. This settlement and development policy for the rural centers still characterizes the agrarian landscape in the plain of Foggia today, where it is possible to find vast public properties: large estates, water networks, scattered dwellings, complete suburbs and evocative functionalist architectures. The project proposes a strategy to give value to the local rural landscape and its immense public estate, generating new forms of development that could answer the needs of a “new rurban society”, respecting the identity features of the agrarian reform landscape.
parole chiave paesaggio rurale, Riforma agraria, Foggia, piano integrato di riqualificazione, aree periurbane e borgate
key-words rural landascape, agrarian reform, Foggia, integrate requalification plan, peri-urban areas and villages
*Architetto paesaggista, **Architetto
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paesaggi in gioco
Nei primi decenni del secolo scorso la piana foggiana fu investita da un importante intervento di trasformazione fondiaria che promosse una significativa bonifica del tavoliere delle Puglie1 e un’intensa attività urbanistica per la costruzione di nuovi insediamenti rurali: le borgate rurali2 della città di Foggia. Questa politica di insediamento fu guidata dall’ONC – Opera Nazionale Combattenti – con una triplice funzione: − dare un'opportunità di lavoro agli uomini che vi abitavano; − impedire che i braccianti e i contadini poveri si riversassero nei centri urbani alla ricerca di lavoro; − riappropriarsi della gestione di questa area rurale regolamentando la gestione delle acque e intensificando l'attività agricola, abbandonata in favore della pastorizia e della transumanza. A quasi un secolo dall’operazione dell’ONC, in quest'area rurale della Puglia permangono immensi patrimoni e demani pubblici: latifondi bonificati, reti stradali e reti idriche, cosi d'acqua, abitazioni sparse, diverse borgate, aree dismesse, masserie e castelli Il P.O.I.3 della città di Foggia – Piano integrato di riqualificazione degli spazi rurali periurbani e borgate – si è posto l'obiettivo di valorizzare questo grande patrimonio, generando forme di sviluppo del paesaggio della riforma agraria con cui rispondere ai bisogni di una nuova comunità “rurbana”.
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per la promozione di un “patto città-campagna” come visione strategica della futura organizzazione territoriale. Il patto città-campagna mira alla realizzazione di una integrazione fra politiche urbanistiche e politiche agricole per ottenere la riqualificazione dei paesaggi degradati delle periferie e delle urbanizzazioni diffuse, la ricostruzione dei margini urbani, la progettazione di cinture verdi perturbane e di parchi agricoli multifunzionali.
Figura 1. e 2. Il paesaggio della bonifica.
Il contesto della pianificazione Il Piano Paesaggistico Territoriale della Regione Puglia prevede per l'area della Capitanata – una sezione significativa a nord della provincia di Foggia – la realizzazione di un parco agricolo multifunzionale
Figura 3. e 4. I centri di Segezia e Mezzanone.
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In attuazione del PPTR della Regione Puglia, e dei principi del PTCP della Provincia di Foggia, nel 2010 l'amministrazione provinciale foggiana decide di avviare un Piano Operativo Integrato – il P.O.I. della città di Foggia – relativo alla rete ecologica del fiume Cervaro e alla riqualificazione delle borgate rurali a sud di Foggia. Il piano riguarda la porzione dei territori interessati dai piani e dai programmi di bonifica e riforma agraria e quattro delle città di nuova fondazione dell'epoca della riforma: Segezia, Cervaro, Incoronata, e Mezzanone. Negli obiettivi del P.O.I. le borgate di fondazione novecentesca – in cui la maggior parte dei terreni e degli edifici esistenti è di proprietà pubblica – possono assumere nuovamente un ruolo strategico di polarità risemantizzanti il contesto agricolo in contrappunto alla forte polarizzazione del sistema insediativo orientato verso il capoluogo.
Paesaggi della memoria e dell’innovazione.
Il paesaggio della riforma Il territorio agricolo della piana foggiana deve il suo aspetto attuale a tre piani di bonifica che si sono succeduti dall'inizio del '900 al primo dopo guerra. Il paesaggio della bonifica è caratterizzato da un disegno specifico, generato dalla trama degli appezzamenti agricoli: suddivisi da una regolare rete viaria e punteggiati da singoli edifici posti a gestione delle terre e dei nuclei urbani di nuova fondazione con i servizi. Un paesaggio dominato da grandi campi aperti, privi di vegetazione, in cui il processo di progressiva intensificazione produttiva ha portato a sostituire alle colture a rotazione e ai prati-pascoli di pianura, il seminativo come coltura prevalente. Il modello di economia rurale sotteso alla bonifica non si è rivelato in grado di sostenersi economicamente, generando nelle aree più lontane dalla città di Foggia un processo di accorpamento e semplificazione delle particelle agricole, mentre – in quelle più vicine – ha favorito un processo di frammentazione ed urbanizzazione. Nonostante ciò il territorio della provincia foggiana non ha modificato il carattere quasi integralmente agricolo del proprio entroterra. Tra ambiente urbano ed extraurbano esiste tuttora un netto e chiaro confine: quello che non è città è chiaramente campagna coltivata e le aree di frangia a usi promiscui sono rare e molto circoscritte a settori specifici del territorio. La maglia stradale della bonifica, innestata sulla rete viaria convergente verso il capoluogo, si è conservata e mantiene tuttora la funzione di accesso alle borgate e di distribuzione ai poderi. Alla rete stradale storica si aggiungono nuove e recenti infrastrutture: l’autostrada A14, l’anello della tangenziale di Foggia, la superstrada per Candela.
Figura 5. Castel d’Avalos.
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Qualità di vita ed appetibilità per nuovi residenti dei paesaggi agrari della bonifica: il Piano integrato di riqualificazione degli spazi rurali periurbani e borgate della città di Foggia A partire da una attenta lettura dei caratteri identitari dell’area rurale a sud di Foggia, il P.O.I. – Piano integrato di riqualificazione degli spazi rurali periurbani e borgate – si propone di strutturare processi di rigenerazione sociale, ambientale ed economica: da un lato, per ampliare l’offerta dei servizi e spazi agricoli coltivabili – con cui garantire una maggiore qualità di vita, sia per gli abitanti permanenti e temporanei4 già insediati, sia per quelli futuri – e, dall'altro, creare una rinnovata appetibilità, tutela e valorizzazione dei luoghi – con cui attrarre nuovi visitatori. Il P.O.I. è formato da un Masterplan territoriale (Figura 6) e da una serie di linee guida e interventi pilota. L’insieme di tali interventi e linee guida delinea il configurarsi di nuovi paesaggi che, in sovrapposizione armonica con il paesaggio esistente, portano a un rinnovamento strutturale del sistema agricolo. Il P.O.I. individua quattro differenti paesaggi da tutelare e valorizzare (Figura 7) attraverso obiettivi di qualità paesaggistica: − il paesaggio urbano della città, che dal centro storico di Foggia arriva al perimetro edificato delle periferie urbane; − il paesaggio periurbano, che ricomprende il territorio urbanizzato ed urbanizzabile delle periferie includendo numerosi spazi aperti inedificati e in stato di abbandono, che arriva sino alla circonvallazione extra-urbana; − il paesaggio agrario dell’ente riforma, ove tra i campi coltivati a grano ed ortaggi “galleggiano” le abitazioni rurali sparse e le borgate dell'ONC ed alti eucalipto come punti misuratori dello spazio, in una
paesaggi in gioco
dimensione senza tempo, metafisica e carica di evocazioni; − il paesaggio naturale del torrente Cervaro, che ricomprende il corso d’acqua e la fascia di tutela del fiume priva di vegetazione ripariale. Il P.O.I. mette in atto una strategia con cui valorizzare i grandi demani e patrimoni pubblici e le principali strutture territoriali, attraverso quattro azioni strategiche prioritarie (Figura 7), attuabili singolarmente e per step successivi in un arco temporale di medio-lungo periodo: 1. investire sulla creazione di piani e progetti integrati per il recupero delle borgate rurali5, da candidare a futuri bandi regionali, nazionali e comunitari; 2. promuovere investimenti pubblici e privati per recuperare e trasformare i poli ed i beni storicoculturali6; 3. favorire la riqualificazione paesaggistica delle infrastrutture viarie7, sia in relazione al piano di sviluppo rurale regionale sia a finanziamenti nazionali, regionali e comunitari per lo sviluppo energetico da fonti alternative; 4. recuperare il patrimonio diffuso dell'edilizia rurale sparsa dell'ONC8, con finalità volte al sostegno dell’economia agricola stagionale e alle modalità dell’autocostruzione gestita in forma pubblicoprivata.
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Le proposte del P.O.I.: dal masterplan ai progetti pilota Il Masterplan contestualizza e individua all’interno del sistema paesaggistico dell’area di studio i progetti puntuali e diffusi per il recupero urbano, paesaggistico e sociale delle borgate, per la valorizzazione del sistema viario, per il rilancio di poli
Figura 6. Masterplan.
come l’Ovile Nazionale9 e il Castello d’Avalos e il Santuario e il Bosco dell'Incoronata10. Gli interventi si suddividono in poli da far rivivere, linearità da allestire e memoria da coltivare: − Interventi puntuali sui poli del territorio: si individuano le sinergie territoriali che i luoghi di servizio limitrofi possono creare se messi in relazione coi borghi. Si propone la caratterizzazione delle borgate attraverso di un’offerta per gli abitanti e per i visitatori diversificata a seconda delle vocazioni create dalle relazioni di prossimità, attraverso la realizzazione, negli spazi di proprietà pubblica, di una cintura verde dedicata ai servizi. Il disegno di questi spazi, si realizza con vegetazione locale o tipica della riforma, e, riprendendo la logica fortemente geometrizzata della matrice dell’impianto architettonico, si presta ad una versatilità di impieghi; − interventi diffusi sulle infrastrutture: si propone di connotare la viabilità di collegamento tra i borghi con l’impianto di due filari di eucalipti; mentre le vie di connessione tra il centro urbano di Foggia e la Strada delle Borgate saranno caratterizzate attraverso l’impianto di un doppio filare di querce. L’impianto vegetale e il profilo della strada saranno declinati in forme diverse per segnare il passaggio dal paesaggio urbano a quello periurbano, da quello della campagna e da qui verso il Cervaro; − In punti speciali a ridosso della circonvallazione di Foggia, le provinciali diventano lo scenario per interventi energetici di land-art, con cui riqualificare e connotare gli ingressi alla città.
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Gli interventi si suddividono in poli da far rivivere, linearità da allestire e memoria da coltivare: − Interventi puntuali sui poli del territorio: si individuano le sinergie territoriali che i luoghi di servizio limitrofi possono creare se messi in relazione coi borghi. Si propone la caratterizzazione delle borgate attraverso di un’offerta per gli abitanti e per i visitatori diversificata a seconda delle vocazioni create dalle relazioni di prossimità, attraverso la realizzazione, negli spazi di proprietà pubblica, di una cintura verde dedicata ai servizi. Il disegno di questi spazi, si realizza con vegetazione locale o tipica della riforma, e, riprendendo la logica fortemente geometrizzata della matrice dell’impianto architettonico, si presta ad una versatilità di impieghi; − interventi diffusi sulle infrastrutture: si propone di connotare la viabilità di collegamento tra i borghi con l’impianto di due filari di eucalipti; mentre le vie di connessione tra il centro urbano di Foggia e la Strada delle Borgate saranno caratterizzate attraverso l’impianto di un doppio filare di querce. L’impianto vegetale e il profilo della strada saranno declinati in forme diverse per segnare il passaggio dal paesaggio urbano a quello periurbano, da quello della campagna e da qui verso il Cervaro; − In punti speciali a ridosso della circonvallazione di Foggia, le provinciali diventano lo scenario per interventi energetici di land-art, con cui riqualificare e connotare gli ingressi alla città. Gli interventi si suddividono in poli da far rivivere, linearità da allestire e memoria da coltivare: - Interventi puntuali sui poli del territorio: si individuano le sinergie territoriali che i luoghi di servizio limitrofi possono creare se messi in relazione coi borghi.
Paesaggi della memoria e dell’innovazione.
Figura 7 – Masterplan - schemi.
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Si propone la caratterizzazione delle borgate attraverso di un’offerta per gli abitanti e per i visitatori diversificata a seconda delle vocazioni create dalle relazioni di prossimità, attraverso la realizzazione, negli spazi di proprietà pubblica, di una cintura verde dedicata ai servizi. Il disegno di questi spazi, si realizza con vegetazione locale o tipica della riforma, e, riprendendo la logica fortemente geometrizzata della matrice dell’impianto architettonico, si presta ad una versatilità di impieghi; interventi diffusi sulle infrastrutture: si propone di connotare la viabilità di collegamento tra i borghi con l’impianto di due filari di eucalipti; mentre le vie di connessione tra il centro urbano di Foggia e la Strada delle Borgate saranno caratterizzate attraverso l’impianto di un doppio filare di querce. L’impianto vegetale e il profilo della strada saranno declinati in forme diverse per segnare il passaggio dal paesaggio urbano a quello periurbano, da quello della campagna e da qui verso il Cervaro; In punti speciali a ridosso della circonvallazione di Foggia, le provinciali diventano lo scenario per interventi energetici di land-art, con cui riqualificare e connotare gli ingressi alla città.
Progetti puntuali di rigenerazione. Le oasi del paesaggio della bonifica, le borgate come eco-quartieri del periurbano foggiano Il recupero e la rivitalizzazione dei borghi avviene attraverso una proposta che fa del paesaggio l’elemento cardine per ottenere una progettazione integrata. Più livelli si intersecano nella composizione delle proposte, garantendo:
il mantenimento di una immagine coerente con la storia delle borgate che prevede il recupero e la reinterpretazione del disegno che le ha originate; − la creazione di un contatto con il paesaggio circostante e il controllo del rapporto con l’intorno: le borgate sono per loro stessa genesi in profonda simbiosi con il paesaggio agricolo e il progetto recupera la dimensione del rapporto con l’agricoltura; − la creazione di un ambiente ricco e gradevole per gli abitanti; − la creazione di un’offerta in grado di attrarre nuovi abitanti o categorie di visitatori; − la creazione di una grande qualità data dalla ricchezza degli spazi pubblici; − grande presenza di verde pubblico e privato, per giardini botanici e per l’agricoltura urbana. Le modalità di intervento sono simili nei principi per tutte le borgate, ma tendono a specializzare per funzioni e qualità dell’offerta ogni singola borgata. Si propone di creare per ogni borgata una funzione specialistica e una forte caratterizzazione, basandosi sulle potenzialità offerte dal contesto rurale in cui si collocano. La rigenerazione dei borghi avviene attraverso l’utilizzo delle ampie porzioni di territorio di proprietà pubblica da cui sono circondate. Per tutti i borghi si propone un’occupazione dello spazio perimetrale al centro, che possa procedere per gradi successivi. −
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“cintura verde” contenente le aree di sviluppo atte a soddisfare il fabbisogno di incremento edilizio, gli spazi pubblici, il verde urbano, i servizi di base, le funzioni specialistiche. I progetti saranno sviluppati secondo un disegno organico e preordinato attraverso accordi da attuare per step successivi.
L’oasi di Segezia, centro periurbano agricolo e di ricerca Il modello proposto per Segezia (Figura 8) tende a costruire una modalità di crescita e di occupazione del suolo che avviene in modo organico e graduale in risposta alle necessità e alle vocazioni espresse dalla popolazione. Il borgo verrà a costruire nel tempo, una
Figura 8. Segezia – Planimetrie e sezione delle funzioni.
Il disegno della struttura verde nasce dal recupero delle tracce del vecchio piano di completamento del borgo. La posizione degli alberi, dei viali pedonali, delle aree di sosta, ricalca, reinterpretandolo, il disegno
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originale per lo sviluppo della borgata. Si rispettano le modalità con cui venivano distribuiti gli assi, suddivisi gli isolati, organizzati gli spazi, recuperando i principi formali che permettono di organizzare il progetto in maniera coerente con la parte realizzata ed oggi esistente. Viene ribadito il valore di centralità e cuore del nucleo che la piazza ricopre, con il recupero del progetto della piazza come centro principale dell’anello verde. La vicinanza all’Ovile Nazionale indica Segezia come un luogo votato all’ospitalità e alla ricerca. Si propone quindi di sviluppare ambiti dedicati alla agricoltura sperimentale, a laboratori didattici, a orti urbani, all’ospitalità di persone impiegate nell’Ovile così come di visitatori, o di ricercatori. La creazione della cintura verde crea l’occasione per proporre un modello di insediamento rado che lascia un grande spazio per aree ad uso collettivo. Il nuovo quartiere potrà godere di una altissima dotazione di standard di verde, parcheggi, soste attrezzate, aree gioco per bambini, corti ad uso degli abitanti e parchi pubblici, così come soste attrezzate e piazze: a ognuno il suo spazio e spazi per tutti. Recuperando le specie vegetali della storia del luogo e presenti sul luogo si propone un utilizzo della vegetazione per grandi masse in grado di identificare i luoghi connessi agli impianti. (Figura 8) I grandi viali storici di accesso con l’innesto a baionetta nella piazza saranno circondati, come storicamente erano, da eucalipti. Il recupero dell’impianto dei filari di eucalipti permetterà di creare un segno distintivo per i viali di accesso. Si è scelto per la creazione delle zone di mitigazione l’impiego di un albero della foresta planiziale presente nella zona, il leccio. Il leccio è un albero di grandi dimensioni non spogliante in grado di mantenere l’anno per tutto l’anno il potere filtrante, inoltre il fogliame denso di colore verde argenteo offre in estate una ottima protezione dai potenti raggi del
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sole e dal calore. Come piante decorative per le zone a giardino si sono indicati: aranci amari, oleandri e ulivi alberi molto rappresentativi della zone e di grande qualità estetica. L’oasi di Incoronata, centro periurbano e di attrattività turistica Il Borgo di Incoronata gode al momento della presenza di due forti poli attrattivi: il Bosco dell’Incoronata e il Santuario dell’Incoronata. La presenza del Santuario, in particolare, ha creato un grandissimo indotto di visitatori legati al culto. Un particolare tipo di turismo religioso che può contare su un grande numero di visitatori. Ciò ha favorito la crescita di un folto numero di attività legate all’accoglienza: bar, punti ristoro, punti vendita. La proposta recepisce l’esigenza del borgo di accogliere e di fornire servizi per i visitatori e più in generale per forme di turismo compatibili coi valori naturali del luogo. Si prevedono quindi, oltre ai servizi dedicati agli abitanti, servizi che migliorino e amplino l’offerta per forme diversificate di accoglienza e sosta turistica. Nel caso di Incoronata la dotazione di parcheggi sarà superiore a quella degli altri borghi: ampie aree a parcheggio dislocate in prossimità delle principali strade di accesso. La proposta prevede inoltre di dedicare zone da attrezzare per la sosta all’aperto, per la ristorazione con aree attrezzate per picnic e per l’accoglienza. Si propone inoltre di organizzare luoghi attrezzati per turismo itinerante: aree a campeggio/giardino che permettano una sosta immersa nel verde ai campeggiatori. In accostamento con i servizi specifici pensati per i visitatori sono stati previsti servizi dedicati ad uso degli abitanti. Come già per Segezia anche per Incoronata la proposta di allestimento della cintura verde prevede
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l’utilizzo di specie autoctone e naturalizzate. Il segno della strada delle borgate viene evidenziato attraverso l’impianto di un doppio filare di eucalipti. Il boscocintura verde viene realizzato attraverso l’impianto di una preponderanza di lecci. Sempre i lecci coronano gli assi principali della borgata e quelli indicati come tali nel progetto originale. Gli assi minori e i giardini saranno ravvivati dalla presenza di aranci amari, oleandri e ulivi. La sistemazione prevista per la cintura verde indica l’utilizzo di materiali semplici, economici e di facile manutenzione: ad esclusione delle pavimentazioni della piazza, che sarà realizzata con in pietra, per Incoronata così come per le altre borgate, si prevede l’impiego di terre stabilizzate, ghiaini, stabilizzati e puntualmente legno, da utilizzarsi in punti specifici e per interventi di piccole dimensioni. Per le aree verdi non si prevede l’utilizzo di prato il cui mantenimento sarebbe troppo dispendioso. Le zone calpestabili potranno essere realizzate con ghiaino fine sciolto, mentre le aree non calpestabili saranno allestite con piante coprisuolo resistenti al calore e alla poca presenza di acqua. Progetti diffusi di rigenerazione Le strade e l’edilizia diffusa nel paesaggio delle borgate Il piano propone una serie di interventi che, per loro natura, sono in grado di apportare un segno di nuova identità, diffuso nel paesaggio: si tratta di interventi atti a qualificare le strade del territorio della bonifica e di proposte per il recupero dell’edilizia rurale sparsa. In linea generale, nelle proposte si individuano due principali categorie di percorsi:
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la strada delle borgate che, attraversando longitudinalmente il paesaggio della bonifica, unisce tutti i borghi; − le strade di collegamento tra le borgate e Foggia; − il recupero dell’edilizia rurale sparsa dell'ONC. L’intervento proposto, semplice nella realizzazione, è in grado però di cambiare radicalmente la percezione dei luoghi sia per chi percorre le strade sia per chi le percepisce dall’esterno. Per quanto riguarda le infrastrutture viarie, di fatto la proposta prevede l’impianto di filari di alberi lungo i due lati delle strade indicate e individua modalità per il trattamento di punti particolari: incroci, accessi ai borghi, punti di vista sulle borgate. Per la strada delle borgate le alberature proposte recuperano l’utilizzo dei filari di eucalipti – ormai storicizzati - il cui uso era stato ampiamente utilizzato all’epoca della bonifica e di cui tracce sono ad oggi ancora presenti. Le strade di collegamento tra le borgate e Foggia saranno invece contraddistinte dall’impianto di filari di lecci. In entrambi i casi vengono indicate modalità di impianto dei filari e codici di orientamento lungo la percorrenza delle strade. Per la strada delle borgate si sono individuati quattro codici (Figura 9): − l’incrocio con la strada da e per foggia sarà individuabile dalla strada delle borgate per la presenza dei filari di lecci; − quando la strada delle borgate attraverserà la cintura verde che circonda i borghi sarà accompagnata da percorsi per la mobilità lenta e dalla vista dei parchi; − quando la strada attraverserà il paesaggio agricolo sarà accompagnata dal semplice filare di eucalipti;
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Figura 9. Strada provinciale - Lecci
Figura 10. Strada delle borgate –eucalipti
Figura 11. Landmark.
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l’interruzione del filare permetterà di inquadrare la vista delle borgate in prossimità dell’ingresso. Mentre per le strade provinciali da/per la città di Foggia il trattamento del filare asseconda il modificarsi del paesaggio attraversato (Figura 10): − nel paesaggio urbano la strada viene affiancata da un percorso per la mobilità lenta, il filare di lecci viene accostato a un filare di aranci amari; − nel paesaggio periurbano il filare di lecci serve da limite tra il marciapiede e la ciclabile che si accostano alla strada; − nel paesaggio agrario della riforma la strada è accompagnata dal doppio filare di lecci; − in presenza della ferrovia il lato accostato alla linea ferroviaria è privo del filare per permettere la visuale; − nel paesaggio agrario della riforma l’incrocio con la strada delle borgate sarà segnalato dalla presenza del filare di eucalipti. −
A ridosso della circonvallazione extraurbana di Foggia, nelle strade provinciali da/per la città e ai margini delle aree produttive esistenti, il passaggio tra l’ambiente urbano e la campagna sarà segnato dalla presenza di campi fotovoltaici, progettati come landmark di accesso alla città (Figura 11), in grado di produrre energia per l'illuminazione pubblica di svincoli e incroci risignificando aree intercluse, marginali, frammentate, non più agricole e non ancora urbane. Si individua in questa particolare zona un’area che può diventare un esempio virtuoso sull’utilizzo progettato e non selvaggio degli impianti per l’energia alternativa. Per quanto riguarda invece l'edilizia rurale sparsa dell'ONC, si prevede un piano di recupero diffuso, sistematico, attraverso formule di co-housing e autocostruzione, per consentire di mettere a disposizione l'ampio patrimonio pubblico sia per gli abitanti
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stagionali impiegati in agricoltura sia per gli abitanti del territorio. Scheda tecnica di progetto Localizzazione: Foggia – territorio della bonifica Anno: 2011 – 2010 Committente: Stefano Biscotti / Provincia di Foggia – Settore programmazione, Area vasta e Assetto del Territorio Team: Efisio Pitzalis – Coordinamento scientifico, Progettazione Architettonica Federico Bucci – Analisi storiche Christine Dalnoky – Paesaggio Marialuisa Cipriani – Paesaggio Elena Farnè – Paesaggio Claudia Morri – Paesaggio Mauro Baioni – Pianificazione, Analisi Urbanistica Gianluca Cioffi – Progettazione architettonica, Ricerche d'archivio Davide Martinucci – G.I.S. Incarico: Redazione P.O.I Piano Operativo Integrato
Caravaggi L., 2002 Paesaggi di Paesaggi, Meltemi, Roma Convenzione europea del Paesaggio Firenze, 2000 Di Bene A., Scazzosi L.(a cura di), 2006, Gli impianti eolici. Suggerimenti per la progettazione e la valutazione paesaggistica, Gangemi, Roma Donadieu P., 2006, Campagne urbane. Una proposta di paesaggio della città, Donzelli, Roma
nuova
Farnè E., Fucci B. (a cura di), 2011, Paesaggi in divenire. Convenzione Europea del Paesaggio e Partecipazione, Maggioli editore, Santarcangelo di Romagna Ingersoll R., Fucci B., Sassatelli M. (a cura di), 2007, Agricoltura urbana, dagli orti urbani all’Agricivismo per la riqualificazione del paesaggio periurbano, Regione Emilia Romagna, Bologna Marchigiani E., Prestamburgo S., 2011, Energie rinnovabili e paesaggi Strategie e progetti per la valorizzazione delle risorse territoriali, Franco Angeli, Milano Mininni M. V., 2009, Il progetto dell’urbanistica per il paesaggio, Urbanistica , 137
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Riferimenti iconografici Tutte le immagini e i disegni originali sono di proprietà delle autrici
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Nell’area detta della Capitanata, a nord di Foggia. Città di nuova fondazione connotate da architetture di avanguardia razionalista. 3 Il Piano Territoriale di Coordinamento della Provincia di Foggia prevede, tra i suoi strumenti attuativi, il programma operativo integrato (P.O.I.): uno strumento atto a definire una serie coordinata di azioni e interventi integrati, finalizzati al raggiungimento degli obiettivi indicati dal Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale (P.T.C.P.) attraverso approfondimenti conoscitivi e progettuali, relativi ad un’area o ad un tema specifico. Secondo il piano provinciale, l’ambiente, il paesaggio e i beni comuni sono considerati capisaldi delle proposte finalizzate allo sviluppo e alla crescita. 4 Il territorio rurale del foggiano è interessato da importanti flussi di lavoratori stagionali, in particolare legati alla raccolto estiva del pomodoro. In molti casi si tratta di persone senza fissa dimora, indigenti, extracomunitari. 5 Progetto integrato di recupero urbano, paesaggistico e sociale di Segezia e rilancio dell’Ovile nazionale; Progetto integrato di recupero urbano, paesaggistico e sociale di Cervaro e della stazione/deposito ferroviario; Progetto integrato di recupero architettonico e paesaggistico del Castello d’Avalos e della Masseria Giardino; Progetto integrato di recupero urbano, paesaggistico e sociale di Incoronata, con rilancio del Santuario e valorizzazione del bosco; Progetto 2
integrato di recupero urbano, paesaggistico e sociale di Mezzanone e valorizzazione delle relazioni col fiume. 6 Rilancio dell’Ovile nazionale, valorizzazione del Santuario di Incoronata, Recupero del castello d’Avalos e Masseria Giardino tra il fiume ed il bosco del Cervaro. 7 Il P.O.I. identifica il sistema delle relazioni attraverso differenti infrastrutture che segnano ed attraversano il territorio della bonifica, dalla città al fiume: le strade provinciali che ricalcano il sistema radiale di sviluppo del territorio e rimandano alla memoria dei tratturi; la strada che unisce le borgate ed i poli; il sentiero del fiume che corre lungo il Cervaro; la circonvallazione alla città di Foggia che segna il passaggio tra paesaggio agrario e periurbano e che interseca le provinciali; il sentiero che, su tracciato di un tratturo, connette la città al fiume. 8 Edilizia rurale di proprietà pubblica costruita dall'ONC, oggi in stato di abbandono. 9 L’Ovile Nazionale situato nei pressi di Borgo Segezia è stato istituito con regio decreto del 1921 per dimostrare e divulgare le tecniche di allevamento del settore ovino. E’ costituito da un grande comprensorio di oltre 300 ha, in parte coltivato e in parte lasciato a pascolo. in posizione baricentrica sono collocate le strutture edilizie, oggi appartenenti all’istituto sperimentale per la zootecnia. L’Ovile Nazionale riveste una grande importanza anche come relitto del paesaggio dei pascoli e delle mezzane antecedente alla grande trasformazione agricola. 10 Il Parco Naturale Regionale del Bosco Incoronata è un’area protetta, di circa 1.800 ettari, formalmente istituita con legge regionale n. 10 del 15 maggio 2006. Costituisce l’unico bosco planiziale presente nella pianura foggiana, rappresentativo degli ambienti che in passato ricoprivano buona parte del Tavoliere. Il bosco vero e proprio, lambito dal torrente Cervaro, occupa una superficie di circa 320 ha, di cui 162 a bosco d'alto fusto e 115 a prateria. Il parco comprende, oltre al bosco, anche parte del sito di importanza comunitaria (SIC) denominato “Valle del Cervaro - Bosco dell'Incoronata” ricadente nel perimetro del Comune di Foggia. al suo interno si trova il Santuario dell’Incoronata, complesso architettonico progettato da Luigi Vagnetti e realizzato, tra il 1964 e il 1965.
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Lo spazio rurale come risorsa strategica in Paesaggi coltivati, paesaggio da coltivare di Alessandra Cazzola
Paesaggi coltivati, paesaggio da coltivare
Rural landscape as a strategic resource in Alessandra Cazzola, Paesaggi coltivati, paesaggio da coltivare
Elisabetta Maino*
abstract A. Cazzola pone l’accento su una nuova cultura del territorio aperto, dove lo spazio rurale è inteso quale risorsa strategica per la riqualificazione paesistica. Nel testo ‘Paesaggi coltivati, paesaggio da coltivare. Lo spazio agricolo dell’area romana tra campagna, territorio urbanizzato e produzione’ si delineano criteri metodologici ed indirizzi per una lettura ed una pianificazione dello spazio agricolo che possa offrire sia prodotti agroalimentari sostenibili e sia prodotti non direttamente commerciali, rivolti alla protezione e compensazione ambientale, alla costruzione sociale, alla salvaguardia delle identità culturali ed alla rivitalizzazione del paesaggio rurale. Il tutto attraverso azioni che siano calibrate sulle specificità paesaggistiche locali, siano esse caratterizzate da segni identitari tradizionali, oppure dalla presenza di nuovi elementi a volte dissonanti e laceranti.
abstract A. Cazzola emphasizes on a new culture of open areas, where the rural space is understood as a strategic resources to landscape redevelopment. In the book ‘Paesaggi coltivati, paesaggio da coltivare. Lo spazio agricolo dell’area romana tra campagna, territorio urbanizzato e produzione’ are outlined methodological criteria and address for a lecture and a planning of rural landscape that can offer either sustainable food or non-commercial products, addressed to protection and environmental compensation, to social building, to safeguard of cultural identities and rural landscape revitalization. Everything through actions calibrated on local landscape specificity, either traditional identity signs or new elements, sometimes dissonant and lacerating.
parole chiave Riqualificazione, campagne romane, pianificazione paesaggistica, spazio rurale, produttività e fruibilità
key-words Re-qualification, Rome Landscapes, landscape planning, rural areas, production and fruibility
*Università degli Studi di Firenze
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libri
Il testo ‘Paesaggi coltivati, paesaggio da coltivare. Lo spazio dell’area romana tra campagna, territorio urbanizzato e produzione’ di Alessandra Cazzola, rappresenta la stesura sintetica di un’ampia ricerca sul tema del rapporto tra paesaggio rurale e produzione sostenibile e consapevole. Esso si inserisce all’interno di un dibattito scientifico attuale, che solo recentemente ha affrontato il tema correlato della terra e del cibo con risultati settoriali e frammentati. Nel campo della pianificazione paesaggistica e territoriale, inoltre, il tema della ruralità è stato a lungo considerato come marginale nelle politiche di sviluppo urbano, economiche e sociali, si pensi per esempio alla zonizzazione urbanistica che lasciava in bianco le aree rurali di cintura, pronte ad essere destinate, in qualunque momento, ad una tra le diversificate funzioni urbane. Nell’era post-industriale si assiste ad un’inversione di tendenza, tanto che Cazzola intravede lo sviluppo di una nuova cultura del territorio aperto [Cazzola 2009, p. 216], dove il paesaggio agrario è riconosciuto quale risorsa strategica per la riqualificazione paesistica, in particolare per le aree di cintura urbana che più hanno subito fenomeni di cambiamento a partire dai primi del Novecento, con un’accelerazione nel periodo del boomeconomico. La ‘grande trasformazione’, per usare una definizione di E. Turri, ha portato alla perdita, da un punto di vista morfologico, estetico, territoriale, percettivo e culturale, della distinzione tra spazio urbano (artificiale), spazio rurale (antropizzato) e spazio naturale (con un’episodica presenza umana), connotando un paesaggio rurale che solo parzialmente ha mantenuto quei tratti del mondo agrario descritti da Serpieri e da Sereni, quale luogo di produzione ma soprattutto di vita
collettiva [Ivi, p.80], utile a favorire un legame con la territorialità. Ad indirizzare questo cambiamento culturale, è la combinazione di fattori tra loro interrelati e, nel contempo, diversificati, tra cui hanno importanza primaria: il mutamento degli stili di vita, la critica al fenomeno di globalizzazione ed omogeneizzazione, l’influenza dei movimenti sociali legati alla terra, la percezione dell’importanza dell’agricoltura periurbana nel contribuire e mitigare l’inquinamento urbano e nella lotta dei cambiamenti climatici (climate change), il tema della sicurezza alimentare e, da ultimo, la crisi post 2008. La ricerca affronta il tema proponendo sia un metodo di lettura sistemico/strutturale, legato al riconoscimento degli elementi componenti la struttura agraria e finalizzata all’individuazione ed all’interpretazione delle interrelazioni che hanno dato vita alle diverse tipologie di paesaggi agrari [Ivi, p.99], sia degli indirizzi progettuali a carattere generale, ed applicati ad un caso studio, scelto nella campagna romana. Da un primo quadro ricognitivo alla scala nazionale, allo studio della campagna di cintura romana, l’autrice tratteggia una caratterizzazione del paesaggio volta a delineare le diversificate sfaccettature di una ruralità post-moderna, generata dalla stratificazione di aspetti morfologici e pedologici, e da azioni antropiche che nel tempo hanno rimodellato il territorio, quali le grandi opere di bonifica, la regimentazione delle acque, la realizzazione di infrastrutture e l’innovazione tecnologica. In questo processo di trasformazione, notevole influenza hanno avuto, ed hanno, i fattori sociali, politici ed economici, che nel tempo hanno modificato l’organizzazione aziendale e le funzioni
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dell’agricoltura. Dalle lotte delle masse dei lavoratori all’inizio del secondo dopoguerra per il riscatto sociale e per il progresso del settore agricolo, fino all’istituzione di una politica agricola comune (PAC), finalizzata ad incrementare la produttività, assicurare un tenore di vita equo alla popolazione agricola, stabilizzare i mercati. Dal quadro si evince come sia ormai superata la visione di un mondo rurale dedito all’esclusivo perseguimento dell’autosufficienza, avulso dalle dinamiche commerciali. La nuova ruralità è descritta come un ‘universo sensibile agli stimoli del mercato e capace di mutamento’ [Ivi, p.16]. In questo quadro la multifunzionalità rappresenta una delle chiavi strategiche di valorizzazione e sviluppo del settore, anche se ancora troppo poco conosciuta e sostenuta, e carente di un modello imprenditoriale forte, per una sua più ampia diffusione [Ivi p. 60]. A partire dagli indirizzi dell’Unione Europea, Cazzola A. ne dimostra il contributo che tale produttività può offrire nella salvaguardia, gestione sostenibile delle risorse e rivitalizzazione del paesaggio coniugando produzione agroalimentare di qualità (a cui si associano requisiti di salubrità, proprietà organolettiche, produzione sostenibile) e prodotti non commerciali (non-market outputs) proprio perché non direttamente quantificabili, ma che hanno un grande effetto di mitigazione ambientale (biodiversità, conservazione di sistemi agroambientali, equilibrio idrogeologico, contrasto al cambiamento climatico, mantenimento della fertilità dei suoli), paesaggistico sociale (eredità culturale, educazione, vitalità delle aree rurali, fruizione e ricreazione), tutela e conservazione di spazi verdi non urbani (non solo per contrastare il consumo di suolo ma associato allo sviluppo di un turismo rurale).
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L’ambito applicativo: le ‘campagne romane’ L’ambito di applicazione della ricerca risulta essere quello della cintura metropolitana, rintracciato nella campagna romana, che per vicinanza ad una città così importante ha recepito nella struttura della propria antropizzazione molte vicissitudini e trasformazioni, facendone un’area di grande rilevanza storico simbolica [Ivi, p.99]. Se ne compie una lettura delle specificità territoriali, tanto che si parla di ‘campagne romane’, che diventano elementi essenziali per definire gli indirizzi di progettazione paesaggistica. Questi devono essere diversificati in base alle permanenze e persistenze della struttura tradizionale, oppure alla presenza di nuovi elementi (trasformazioni) che costituiscono, in alcuni casi, dissonanze e lacerazioni rispetto alla struttura tradizionale e, in altri, riconosciute componenti di una nuova connotazione paesistica [Ibidem]. Accanto alla lettura dei segni del paesaggio agrario, si compie un’analisi delle politiche di pianificazione e programmazione in corso sull’ambito della campagna romana: dagli strumenti di pianificazione e di indirizzo a scala regionale a quelli del comunali, come il nuovo Piano di Governo del Territorio di Roma e gli strumenti di gestione delle Aree Protette. Da questa analisi ne emergono caratteri di attualità negli indirizzi per un rilancio delle aree rurali di tipo tradizionale, utilizzate per la produzione di risorse ambientali e paesistiche, nella regolamentazione di controllo e d’impulso per le moderne attività agricole produttive e nella metodologia che individua specificità territoriali, finalizzata ad interventi di conservazione, riconquista e
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valorizzazione di nuovi quadri paesaggistici [Ivi, p.215]. Al contempo si sottolinea la numerosità di tali strumenti e la mancanza di un loro coordinamento, evidenziando la presenza di casi di incongruenze e sovrapposizioni degli indirizzi di pianificazione e gestione, fatto questo che genera confusione ed una conseguente perdita di efficacia delle previsioni di tutela e di trasformazione del comune patrimonio. In questo quadro A. Cazzola mostra la necessità di superare i vincoli della pianificazione attuale, racchiusa all’interno di ben definiti confini amministrativi, da cui derivano scale, metodi di rappresentazioni, competenze e strutture procedurali, che sembrano indispensabili su un piano politico, ma non su quello progettuale [Ivi, p.218]. Al contrario l’approccio progettuale deve partire da una prima ampia fase interpretativa delle componenti morfologiche fisiche, naturalistiche, antropiche insediative da cui derivano i caratteri interpretativi del paesaggio dell’agro-romano ed a cui segue una fase propositiva legata ad un uso calibrato e consapevole delle risorse. Indirizzi e proposte Cazzola delinea proposte progettuali che hanno valenza generale, oltre che applicabilità al caso studio della campagna romana. Queste appartengono all’attualità nel delineare un quadro di interventi basati sui concetti di: equilibrio, sostenibilità, sobrietà, qualità, varietà, naturalità, abbandonando il modello fondato solo sulla quantità [Ivi, p. 244]. L’agricoltura deve rispondere a nuove esigenze e bisogni da parte
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della popolazione, che sempre più diventa consapevole del suo ruolo multifunzionale, quale motore per la rivitalizzazione del paesaggio, parte del processo di riqualificazione e di riequilibrio ambientale, a cui si associa una sempre crescente domanda di prodotti alimentari di qualità e di fruizione, ed una varietà di servizi che sarebbero inconcepibili al di fuori di un radicamento territoriale. Tali pulsioni sono collegate tra loro. La crescita e la voglia di paesaggio, non è soltanto la deriva estetizzante di una società sazia, ma il segno che l’uomo tende a riallacciare i suoi legami con la terra, che la modernità aveva dissolto. Vengono delineate delle proposte di intervento che si articolano in tematiche diversificate: - la riorganizzazione del ciclo produttivo che mira a ridurre gli input energetici, ad incrementare la diversità biologica e le coltivazioni autoctone, ponendo attenzione all’intero ciclo di produzione trasformazione e commercializzazione (con particolare riferimento alla filiera corta) ed al momento del consumo; - la protezione ed il riequilibrio dell’ambiente, in particolare in quelle aree di interfaccia tra la città e la campagna in cui è più pressante la necessità di reagire a processi di degrado in atto attraverso una capillare integrazione tra paesaggi semi-naturali e paesaggi completamente artificiali; - il processo produttivo inteso come costruzione sociale, in cui attività ricreative, turistiche (agriturismi, turismo enogastronomico), didattiche, culturali, ecologiche, terapeutiche insistono su uno stesso luogo. Le iniziative possono scaturire da un disegno integrato che preveda azioni top-down, di visione progettuale e/o di governo di territorio da parte delle
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istituzioni, e/o che nasca da un processo bottom-up di riappropriazione di spazi e di funzioni da parte delle reti di attori locali (in questa tematica rientra l’agri-civismo, la diffusione degli orti urbani/sociali, le fattorie urbane); la conservazione di un patrimonio culturale e delle identità territoriali.
Cazzola pone in luce alcune questioni ancora aperte. Come l’ apparente diseconomia di alcune azione nell’ambito di una non diretta commercializzazione (non-commodity outputs) di alcuni paesaggi. In particolare di quelli che necessitano di azioni di manutenzione minuziose, costose e faticose, che per posizione spaziale o per fattori economici e sociali, hanno nel tempo subito maggiori trasformazioni, ma proprio per la loro posizione, e per potenzialità non direttamente visibili, rivestono un ruolo importante nella rivitalizzazione del paesaggio di cintura urbana. Al fine di non vanificare gli sforzi, è necessario impostare delle azioni capaci di innestare un valore aggiunto a questi non-commodity outputs, che si devono relazionale con una redditività economica quantificabile (commercializzazione del prodotto agroalimentare per esempio). Appare, inoltre, evidente che in Italia oggi solo pochi territori possono essere completamente sottratti alla dinamica della continua modificazione, a meno di una improbabile imbalsamazione. Al fine di evitare tali fenomeni territori di frangia, più vulnerabili a processi di trasformazione e banalizzazione, devono essere sottoposti ad un processo ‘virtuoso’ di valorizzazione del patrimonio paesistico esistente in grado di proiettare una vision di sviluppo.
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Testo acquisito dalla redazione nel mese di Febbraio 2013. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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Paesaggi agrari. L'irrinunciabile eredità scientifica di Emilio Sereni a cura di Massimo Quaini (2011), cinquanta anni dopo Storia del paesaggio agrario.
Paesaggi agrari. L'irrinunciabile eredità scientifica di Emilio Sereni
Paesaggi agrari. L'irrinunciabile eredità scientifica di Emilio Sereni edited by Massimo Quaini (2011), fifty years later Storia del paesaggio agrario.
Gabriella Bonini*
abstract Il volume – catalogo Paesaggi agrari. L'irrinunciabile eredità scientifica di Emilio Sereni a cura di Massimo Quaini con la collaborazione di Gabriella Bonini, Claudio Cerreti, Luisa Rossi e Chiara Visentin, dà atto e approfondisce in dieci capitoli le dieci sessioni in cui si è strutturata l'omonima Mostra documentaria, esposta in forma stabile negli spazi della Biblioteca Archivio dell'Istituto Cervi a Gattatico di Reggio Emilia. È illustrato il percorso di vita, di pensiero e il metodo di lavoro di Emilio Sereni a cinquanta anni dalla pubblicazione della Storia del paesaggio agrario italiano (Laterza 1961).
abstract The book - catalog Paesaggi agrari. L'irrinunciabile eredità scientifica di Emilio Sereni edith by Massimo Quaini in collaboration with Gabriella Bonini, Claudio Cerreti, Luisa Rossi and Chiara Visentin - acknowledges and deepens into ten chapters the ten sessions in which the documentary exhibition, that brings the same name, is structured and displayed in a permanent space in the Library Archive Institute Cervi in Gattatico (Reggio Emilia). In the process of critical interpretation, embedding documents and images, the book illustrates the path of life, thought and method of Emilio Sereni, fifty years later the publication of Storia del paesaggio agrario italiano (Laterza 1961).
parole chiave Paesaggio; paesaggio agrario; uomo – agricoltura; lavoro; contadino – costruttore di paesaggio
key-words Landscape, agriculture, landscape.
agricultural landscape, man labor, farmer - manufacturer
* Biblioteca Archivio Emilio Sereni, Istituto Alcide Cervi, Gattatico, R.E.
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Figura 1. Copertina del testo.
Nel 2011 le Celebrazioni sereniane 2011 hanno segnato i cinquanta anni dalla pubblicazione della Storia del paesaggio agrario italiano, il libro senz'altro più noto e studiato di Emilio Sereni. 1 L'Istituto Alcide Cervi , che da sempre ha in carico la sua personale Biblioteca e l'Archivio dei Movimenti Contadini Italiani di cui il Fondo Sereni con l'Archivio e lo Schedario bibliografico ne
costituiscono la parte più corposa , in collaborazione con la Fondazione Istituto Gramsci e la Società Geografica Italiana, ha inteso riproporre l'attualità della lezione di questo grande storico e intellettuale. Ciò è servito anche a valorizzarne l'ingente patrimonio di libri e di materiali di studio nel campo della storia dell’agricoltura e dei paesaggi rurali conservati dall'Istituto Cervi e dalla 3 Fondazione istituto Antonio Gramsci di Roma . Il Convegno internazionale La Storia del paesaggio agrario italiano di Emilio Sereni cinquant'anni dopo4 è stato preceduto da una mostra bibliografica5 e accompagnato da una mostra documentaria6 con volume – catalogo dall'omonimo titolo, Paesaggi agrari. L'irrinunciabile eredità scientifica di Emilio Sereni (oggetto della presente trattazione). Il volume è un invito a conoscere meglio l'opera fondamentale di Sereni, la Storia del paesaggio agrario italiano; con linguaggio chiaro e saggi brevi, si rivolge al un pubblico vasto, specialista e non, interessato alla questione pungente e attuale del destino delle campagne, dei rapporti con la città, dei paesaggi rurali storici, dell'incidenza dell'uomo sull'ambiente e nella determinazione del paesaggio che Sereni affrontò con lucidità, chiarezza e lungimiranza oltre mezzo secolo fa. Dieci i capitoli del volume come dieci i totem della Mostra, ognuno illustrato con i materiali documentali conservati, per la quasi totalità, nel suo Archivio presso l'Istituto Cervi di Gattatico (R.E.): estratti, immagini, ritagli di giornale, fotografie, schedine, appunti. «Nato a Roma da una famiglia di universitari».Testi e contesti di un profilo
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scientificamente indisciplinato e di una mancata carriera accademica è il primo saggio a cura di Massimo Quaini. 7 Il titolo è anche l’incipit del Curriculum presentato nel 1959 da Emilio Sereni per l’abilitazione alla libera docenza in Storia dell’agricoltura. Poteva essere, ma non fu dice Quaini, l’avvio di una carriera universitaria alla quale lo predisponevano sia la sua forte intelligenza e precocità negli studi (si laurea a soli venti anni in Scienze agrarie all'Istituto Superiore agrario di Portici, farà seguito un trentennio di studi svolti fra il carcere 1930/1935-, l’esilio in Francia e il successivo impegno come deputato nell’Assemblea Costituente, ministro della Repubblica e senatore e dirigente del P.C.I.). Il saggio propone un excursus critico sui contatti/scontri intellettuali e diretti che Sereni ha avuto con i contemporanei, Marc Bloch, Manlio Rossi-Doria, Villani, Gambi, Bandini, Bianchi Bandinelli, Berengo, Zangheri, sulla produzione scientifica più legata alla formazione meridionalistica e all’impegno politico, sul grande impegno nella problematica dei sostrati più antichi che porta prima a Comunità rurali nell’Italia antica (1955) e poi alla Storia del paesaggio agrario, sulla sua passione per la terra e il Mezzogiorno, sul cambio di rotta quasi repentino della sua formazione, da sionista convinto a marxista leninista. Ne esce il ritratto di un uomo in cui si conciliano due lati apparentemente contraddittori: l’attività scientifica in parte erudita e apparentemente lontana dalla realtà e l’attività politica in parte rigidamente inserita in un quadro ideologico o contingente. Secondo Quaini, Sereni riusce a trovare la comune origine in due motivazioni che noi oggi, utilizzando le sue stesse parole, possiamo ricondurre ad una acuta
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sensibilità geografica: l’incredibile, gioiosa curiosità per la infinita varietà dell’universo che sentiva come una sfida alla sua intelligenza. Una sensibilità meglio definibile come storico-geografica perché alimentata da un imperativo bisogno di andare alle radici delle cose e di mettere personalmente radici nella realtà delle cose.
Figura 2. Ex libris di Emilio Sereni, da un bozzetto di Renato Guttuso.
Sereni aveva tutti i titoli in regola per una prestigiosa carriera universitaria che invece mancò, ma non per questo la sua eredità scientifica è
Paesaggi agrari. L'irrinunciabile eredità scientifica di Emilio Sereni
trascurabile: il patrimonio scientifico da lui lasciato può ben ancora generare la ricerca in molti settori disciplinari in quanto eredità irrinunciabile. E Sereni scriveva di sé: Fin da allora – così come ho considerato che un impegno scientifico non potesse andare disgiunto da un civico impegno nella lotta per la libertà – ho del pari ritenuto che ogni impegnata attività civica e politica non possa andar disgiunta da un approfondimento della ricerca scientifica; ed a tal criterio mi sono sempre sforzato di conformare la mia attività nell’uno e 8 nell’altro campo Parole che, a distanza di oltre mezzo secolo, conservano un suono e un significato condivisibile, anzi oggi necessario. La Storia del paesaggio agrario italiano di Emilio Sereni nella cultura storica e geografica del suo tempo è il saggio di Giacomo Polignano che traccia la storia della ricezione critica del volume. Nel 1962, all’indomani della pubblicazione è recensito da Renato Zangheri su «Studi storici»9, da Lucio Gambi su «Critica storica»10, dal geografo francese Henry Desplanques sulla neonata «Rivista di storia dell’agricoltura»11 e da Ernesto Ragionieri sul quotidiano «L’Unità»12. Due anni dopo compare una nota critica di Giuseppe Galasso sulle pagine di «Nord e Sud»13. Tuttavia, il confronto con la critica, sia storiografica sia soprattutto quella geografica, non è clemente con Sereni e molto più spesso il libro è completamente ignorato; così fanno riviste importanti come «Società», «Critica Marxista», «Cronache Meridionali», o periodici come la «Rivista di Economia Agraria», la «Rivista di Politica Agraria», «Economia e Storia», l’«Archivio Storico Italiano», la «Nuova Rivista Storica». Anche la corporazione dei geografi italiani è unanime
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nell'indifferenza; nessun riferimento alla Storia del paesaggio sulla «Rivista Geografica Italiana», su «L’Universo» o nel «Bollettino della Società Geografica Italiana», dove invece, negli stessi anni, abbondano le lodi per il volume sul paesaggio che Aldo Sestini. Nelle recensioni di Zangheri, Gambi, Desplanques, Duby, Galasso, Ragionieri non mancano le sottolineature delle più evidenti anomalie del libro di Sereni (come l’assenza di apparati critici e bibliografici, il limitato ricorso a mappe catastali, a fonti d’archivio, a trattati agronomici, la tara ideologica), ma, allo stesso tempo, ne riconoscono lo spessore culturale e la capitale importanza nell’ambito degli studi di storia rurale. Per tutti il riferimento e la comparazione d'obbligo è con Les caractères originaux de l'histoire rurale française di Marc Bloch. A Bloch, d'altra parte, fa espressamente riferimento lo stesso Sereni nella Prefazione quando scrive che intende come quello rispondere alla esigenza di un tentativo di sintesi – tanto più urgente in Italia, quanto più attardata vi appare la storiografia agraria, e nell’ambito di questa la nuova disciplina che studia il paesaggio agrario, rispetto alla Francia degli anni Trenta – enunciare bene i problemi, piuttosto che, per ora, cercare di risolverli. Ma nel contempo, assume una forma sommaria, non specialistica, e spoglia di ogni apparato erudito, come quella di opere volte a suscitare in un più largo pubblico un interesse o, se si vuole, anche una semplice curiosità scientifica e, mentre si limita ad un impiego solo eccezionale delle mappe catastali – le quali, ne è cosciente Sereni, rappresentano […] non solo il materiale illustrativo più pertinente, ma addirittura una delle fondamentali fonti documentarie per una ricerca come la nostra – propone un’ampia rassegna di fonti iconografiche di tutt’altra origine, qual è
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quella dell’espressione artistica, rappresentative in virtù della loro capacità di intuizione del “tipico”. È indubbio, comunque, che Sereni affronti un settore di ricerca in pieno movimento, una disciplina che avrà ancora bisogno di un numerosi sforzi di assestamento interno e di una più precisa sistemazione in quella zona di interesse culturale e scientifico in cui si incontrano storiografia e geografia umana.
Figura 3. Emilio Sereni alla scrivania di casa intervistato da Ruggero Zangrandi in occasione del IX Congresso del PCI, 1960.
Emilio Sereni geografo: il paesaggio mediterraneo tra fuoco, terrazze e giardini è il saggio di Federico Ferretti dedicato al paesaggio del giardino mediterraneo, della macchia e delle coltivazioni terrazzate, tema che occupa uno spazio rilevante nell'opera sereniana. Chiedendosi quale sia stato il contributo della disciplina geografica dato a Sereni nella definizione delle sue strategie di
ricerca, egli segue la pista dei geografi francesi che fra gli anni Quaranta e Sessanta del Novecento continuarono, sul tema dei paesaggi agrari, la proficua collaborazione fra scienze storiche e scienze geografiche inaugurata negli anni Trenta da Roger Dion e Marc Bloch e che erano regolarmente letti e citati da Sereni. Ferretti parte dalla ricostruzione del suo rapporto con alcuni di questi per poi concentrarsi sulla rappresentazione sereniana di taluni caratteri dei paesaggi mediterranei, come i terrazzamenti con la coltura della vite, la questione del debbio, dell’incendio, del paesaggio ligure del marrelo e termina affrontando il problema della persistenza o meno, in area mediterranea, di paesaggi definibili naturali. Le questioni che stanno più a cuore all'autore sono due: la prima è dimostrare quanta geografia stia dietro a Sereni e quanto importante sia rintracciarla, anche in riferimento al dibattito internazionale sul quale Sereni ha costruito le sue idee scientifiche (Georges Duby, Eric Hobsbawm, Henri Desplanques). La seconda è dimostrare come la Storia del paesaggio agrario italiano non possa essere letta isolata dal contesto delle altre opere del suo autore, oltre che dal contesto culturale dell’epoca. Ne risulta un ritratto abbastanza inedito di un Sereni per alcuni aspetti «vidaliano», ossia attento agli stessi aspetti quasi immobili della geografia umana che nei decenni in cui lavorava ispiravano il concetto di longue durée, quelli che Fernand Braudel applicava col nome di temps géographiques al mondo mediterraneo e che geografi, storici e sociologi francesi avevano studiato sulle monografie degli allievi di Vidal de la Blache. È questa un'ipotesi di lavoro da cui far partire un lavoro sistematico sui passaggi interdisciplinari che hanno permesso alla geografia di contaminare le scienze umane nel XX secolo.
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I caratteri originali della storia rurale italiana: dalle «Annales» a Sereni, a Gambi e al giorno d'oggi di Bruno Vecchio. L'autore sostiene che la Storia del paesaggio agrario ha fra i suoi pregi quello di essere elemento decisivo di avanzamento nel dibattito sulle “strutture agrarie” italiane. Struttura agraria intesa come concetto “prezioso” per definire la sostanza di qualunque agricoltura, in quanto implica il riferimento alla dimensione sociale di essa e non solo a quella tecnica o finanziaria. Solo in questo modo si può accedere alla più completa comprensione di una realtà agraria, locale o regionale, e, correttamente, Sereni fa uso di questo concetto, esplicito o implicito che sia. I referenti di spicco, rispettivamente antecedenti e contemporanei a Sereni a tale concezione, sono la scuola delle Annales (e in particolare Marc Bloch con I caratteri originali della storia rurale francese, 1931) e Lucio Gambi (con Critica ai concetti geografici di paesaggio umano, 1961). In realtà, afferma Vecchio, Sereni nella premessa al suo lavoro mostra un certo distacco critico nei confronti del volume di Bloch, ma è indubbio che la Storia è una “risposta” a Bloch da parte della cultura italiana, nel senso che propone, anche per il nostro Paese, gli elementi per una modellizzazione regionale – su base storica – dell'agricoltura. Risposta che Vecchio così sintetizza in sei grandi strutture agrarie italiane, basandosi su brani della Storia e sulle immagini selezionate dallo stesso Sereni e conservate nell'Archivio di Gattatico. Sono: • le strutture agrarie appoderate dell’Italia comunale; • le strutture della grande azienda capitalistica padana; • le strutture agrarie stabili a piccola e media conduzione del Centro-Sud;
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le strutture del latifondo «contadino»; le strutture del latifondo signorile; le strutture del giardino mediterraneo. È un numero frutto ovviamente di 14 generalizzazione , puntualizza Vecchio, ma congruo per una classificazione significativa delle forze fondanti dell’agricoltura italiana negli ultimi secoli e fino alla metà del ventesimo, epoca che vede uno sconvolgimento profondo del concetto stesso di agricoltura e pone dunque problemi di altra natura. A trent’anni esatti dall’uscita del volume di Bloch, e avvalendosi di quanto in quegli stessi anni maturava nella storiografia e negli esponenti più consapevoli della geografia umana, il libro di Sereni pose le basi per la replica in Italia dell’opera di Bloch, vale a dire per una classificazione a grandi linee delle strutture agrarie italiane. Classificazione che, per Vecchio, mentre salva e giustifica l’alterità di tali strutture rispetto a quelle dell’Europa centro-occidentale magistralmente delineate dallo storico francese, le trae fuori definitivamente dalla categoria, a forte 15 carica retorica, dell’inclassificabile . • • •
Le relazioni città-campagna nella Storia del paesaggio agrario italiano di Emilio Sereni di Chiara Visentin. Per l'autrice Sereni sviluppa la sua analisi su città e campagne da principi profondamente marxisti: ogni scienza sarebbe superflua se l’essenza delle cose e la loro forma fenomenica direttamente coincidessero (Marx, Il Capitale). Le città sono realizzate da uomini dei campi come Marx li aveva definiti con il termine ackerbautreibende, popolate da genti che praticavano l’agricoltura, come riporta Sereni. Un rapporto dinamico tra città e campagne. L’ascesa delle città, la trasformazione da paese agricolo a
Paesaggi agrari. L'irrinunciabile eredità scientifica di Emilio Sereni
paese agricolo-industriale in cui si sta modificando l’Italia negli anni in cui Sereni scrive, assumono un valore intensamente storico e politico. La considerazione che la città non può essere uguale alla campagna e la campagna non può essere uguale alla città, nelle condizioni storiche della nostra epoca (Lenin), è condivisa da Sereni che però afferma come esse siano strettamente unite: la città trascina inevitabilmente la campagna dietro di sé, e la campagna segue inevitabilmente la città.
Figura 4. Custodia in cartone e lastra Cappelli-Ferrania.
Alla città, luogo di cultura progressista, Sereni affida il compito di tracciare le linee dell’avanguardia, ma crede che tra città e campagne possano stabilirsi rapporti nuovi per fondare una base unitaria di rinascita nazionale. Come Bloch, è convinto che città e campagna siano legate da un substrato storico e culturale in cui l’attività agricola e lo sviluppo urbano si sono radicati. Se è la città che disegna la campagna, vi è però un legame dialettico e biunivoco di
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quest’ultima nei confronti della prima: forme esatte, geometricamente corrette, che danno ordine ai luoghi. L’esempio riportato sulla nascita della città panellenica di Thurii, la cui struttura ortogonale si proietta sulla campagna circostante, è la migliore dimostrazione per manifestare la corrispondenza tra elementi. La città per Sereni non è elemento metafisico astratto, da considerare al di fuori del suo reale e concreto contesto storico, non è area territoriale con una sua realtà organicamente e minutamente strutturata di contro ad una campagna tutta amorfa, priva di una 16 qualsiasi forma e struttura , al contrario: la città deriva inesorabilmente dalle strutture tecnicoproduttive legate all’agricoltura e anche i suoi spazi principali, come ad esempio le piazze o agorà, sono il risultato di questo mutuo scambio. Quando una di esse decade, inevitabilmente decade anche l’altra. Un esempio, tra i tanti, è la spiegazione del paesaggio agrario suburbano e del suo rapporto con la città, attraverso l’affresco del Buon Governo del Lorenzetti: il suo preciso realismo racconta l’effettivo panorama rurale dell’Italia comunale. Le nuove forme regolari della campagna, sebbene ordinate secondo iniziative individuali, vengono garantite dalla sicurezza del Buon Governo del Comune che domina il paesaggio ad esso circostante. Città e campagna: entrambe hanno origine dall’intervento dell’uomo sull’ambiente: di questo Sereni, che si scopre sempre più scienziato sociale, ne dà prove concettuali continue nella sua Storia. Il paesaggio, per questo, non è una sovrastruttura che l’uomo percepisce, ma è piuttosto un insieme organico di strutture, ovvero quello che l’uomo, lavorando, trasforma, o meglio quella forma che l’uomo, nel corso ed ai fini delle sue attività produttive agricole, coscientemente e
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sistematicamente imprime al paesaggio naturale . Lo stesso dicasi per la città, dove è l’uomo che regola l’habitat e la sua rilevanza: quella potenza nuova e concentrata, risultante dal carattere pubblico, collettivo, delle magistrature, degli istituti. È l’uomo, il valore del suo agire, che 18 definisce questi contesti
Figure 5-6. Composizioni di libri di Bruno Vagnini fatte in occasione delle celebrazioni sereniane per un manifesto.
Oltre l’immagine. La molteplicità delle fonti nella Storia del paesaggio agrario italiano di Luisa Rossi e Leonardo Rombai. Gli autori si interrogano sulla questione delle fonti a cui Sereni si riferisce nella costruzione della Storia e delle quali fornisce informazioni sia nella Prefazione sia 19 nella lettera a Giangiacomo Feltrinelli del 1956 . In entrambe sottolinea il carattere volutamente non specialistico del suo lavoro, non appesantito da riferimenti archivistici e bibliografici. Ma fin dalla lettura dei primi capitoli, per l’ampio arco cronologico preso in considerazione e per l’obiettivo proposto, è chiaro che il lavoro si fonda su una mole di fonti gigantesca, anche se sono solo novantasette le illustrazioni inserite, mentre tutte le altre (e quelle scritte in particolare) ben traspaiono fra le righe di ogni capitolo a una lettura attenta. Ovviamente, quindi, ciò che colpì subito i recensori e i lettori fu l’uso evidente dell’iconografia: si passò dall'entusiasmo di Renato 20 21 Zangheri alla stroncatura di Giovanni Romano , che sarebbe diventata negli anni successivi la visone prevalente della critica. D'altra parte, come detto, è innegabile, a un primo approccio, il ruolo volutamente primario assegnato alle immagini, ma esse, con l’immediatezza del linguaggio figurativo, visualizzano, riassumono e confermano il discorso che si sviluppa sulla base delle fonti scritte d’archivio, letterarie e critiche. La rilettura della Storia consente oggi di smontare, o almeno di minimizzare, l’idea che quelle iconografiche, su cui quasi tutti si sono concentrati, siano state decisamente quelle privilegiate. Ciò che visivamente o concretamente non “si vede” nel suo libro, ossia il massiccio uso delle fonti letterarie (Gambi, Juillard, Meynier, Bloch, Dion, Febvre, Marx ed Engels, Biasutti, Caraci, Gribaudi, Dainelli, Merlini, U. Giusti, F. Milone, ecc) lo si trova nelle
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annate dei periodici, nelle cartelle riempite di ritagli ed estratti, nei volumi a lui appartenuti, sottolineati a lapis rossoblu che ci permettono di risalire al suo metodo di lavoro: dai trattati agronomici ai componimenti poetici e letterari, dalle opere di geografi, corografi e statisti ai trattati di agronomia e di idraulica, dalle relazioni di viaggio ai testi giuridici. La Biblioteca e l'imponente Schedario bibliografico di Gattatico costituiscono la vera mappa per orientarsi nel labirinto delle sue fonti e delle sue références implicite a cui va aggiunto un dattiloscritto di undici pagine intitolato Guida bibliografica, datato 1961 (anno della pubblicazione 22 della Storia) e conservato al Gramsci , dove Sereni dà ampiamente conto delle sue letture e di nuovo vi ribadisce la volontà di non inserirle nella Storia, che stava per essere pubblicata, per non appesantirne il testo. Il saggio di Rossi e Rombai termina con l'analisi dettagliata del “caso paesaggio toscano”: neppure qui le fonti iconografiche rappresentano la sola base della sua ricostruzione proprio perché, anche nell’impostazione per “tipi” da lui accolta, la sua idea di paesaggio agrario va decisamente oltre la superficie estetica, ne rielva le strutture fondative che, anche in questo caso toscano, scopre attraverso l’analisi di una documentazione molto diversificata. Emilio Sereni e i quadri ambientali nella pianura emiliana di Stefano Piastra e Fiorella Dallari 23 Oggetto del saggio è l’Emilia-Romagna che nella Storia riveste un ruolo centrale, in particolare nei paragrafi dedicati all’evoluzione dei quadri ambientali negli ultimi secoli. A partire
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dall’Ottocento, la regione conobbe, specie nella parte emiliana, una compresenza tra conduzione mezzadrile di tipo tradizionale e forme tipiche del capitalismo agrario con a base il paesaggio della “piantata”, della risaia e della bonifica. Qui Sereni rimarca con forza il fondamentale contributo delle masse bracciantili alla morfogenesi di questo paesaggio. Traspare inoltre chiaramente la consapevolezza di come alcuni di questi paesaggi (in primo luogo quello della piantata) andassero inesorabilmente regredendo sotto la spinta dei mutati rapporti tra settore primario e secondario. Passaggio indicativo, ancora una volta, della modernità del pensiero sereniano. L'Emilia-Romagna è dunque per Sereni un laboratorio, dove i conflitti di classe tra capitalisti agrari e ceti popolari, le lotte per la terra da parte dei braccianti e forme di organizzazione “orizzontale” quali la cooperazione, erano infine sfociati in un sistema territoriale equilibrato, coeso, governato dal basso. Il caso emiliano-romagnolo è assunto a prova tangibile del fatto che le rivendicazioni di generazioni di contadini e braccianti potevano approdare a risultati concreti, e che anche in Italia strutture economico-sociali diverse da quelle del capitalismo agrario o del latifondo erano non solo possibili, ma auspicabili. In ogni paragrafo della Storia, i lavoratori della terra sono sempre presenti, ma nel “caso-Emilia” lo slancio decisivo allo sviluppo del capitalismo si accompagna alle lacrime e al sangue delle masse bracciantili. L’Emilia, già ai primi del Novecento, era divenuta una pericolosa “regione rossa” dove lo slancio produttivo, e lo sviluppo delle forze produttive sociali nell’agricoltura emiliana resta affidato, essenzialmente, alla pressione e alla lotta della masse dei lavoratori agricoli, ed in primo luogo dei braccianti. Ed è a questa tesi che Sereni
Paesaggi agrari. L'irrinunciabile eredità scientifica di Emilio Sereni
dedica un approfondimento, ricorrendo come al solito al pensiero di Marx, secondo cui la classe rivoluzionaria è la prima e più decisiva forza produttiva di una data società. E quindi il proletariato emiliano, che sin da allora mostrava di avere consapevolezza di una sua matura coscienza di classe nazionale, costituisce l’esempio emblematico di una visione politica in via di realizzazione. Tra «felici novità di metodo e drammatica efficacia della veduta storiografica» la Liguria diventa regione-laboratorio per Emilio Sereni di Carlo Alberto Gemignani. Nella prima parte il saggio fa riferimento a Comunità rurali nell’Italia antica del 1955 dedicato alla ricostruzione delle comunità liguri antiche, una Liguria dai confini dilatati rispetto a quelli odierni e definiti in base a criteri storico-sociali legati alla presenza etnica dei ligures e alle strutture comunitarie da essi elaborate, ancora distinguibili all’interno del processo di territorializzazione romano. Anche se non è da escludere il peso di una passione maturata nei giorni della Resistenza, durante i quali Sereni si trovò per diverso tempo tra le Alpi Marittime, tra i fattori decisivi per la scelta dell’area ligure si collocano sicuramente la straordinarietà delle fonti epigrafiche a disposizione (tra esse anche la Tavola di Veleia) e la presenza di una consolidata catena di studi antichistici. Stretti sono i rapporti, come testimonia il carteggio conservato a Roma all'Istituto Gramsci con diversi specialisti del filone “ligurista”, per chiedere loro materiale bibliografico, fonti fotografiche e cartografiche: Ubaldo Formentini, Nino Lamboglia, ma anche ispettori provinciali dell’agricoltura, l'allora sindaco di Genova Gelasio Adamoli e quello
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della Spezia Osvaldo Prosperi, tecnici come Mario Calvino, direttore della Stazione sperimentale di floricoltura di Sanremo e padre dello scrittore Italo. Di questo grande amore per la Liguria, il Fondo Sereni nell'Archivio di Gattatico nei faldoni Illustrazioni di storia agraria conserva una buona mole di materiali. In particolare Gemignani si sofferma su quello fotografico autografo; fotografie scattate da Sereni per documentare il paesaggio del marrelo, la valle Scrivia e la val Polcevera, l’Albenganese con Capo Mele, la valle Arroscia, l’area attorno al Passo del Bracco, la Versilia con la Pineta di Viareggio. Fedele a un paradigma strutturalistico, Sereni suggerisce l’idea di uno studio nato dall’osservazione di ciò che oggi identifichiamo come “paesaggio rurale” e basato sul riconoscimento della persistenza di elementi riconducibili a “regimi agrari” passati, comprese le rispettive forme insediative. Come si connoterebbe oggi, si chiede Gemignani, per qualsiasi piano paesistico, questa specifica forma legata ad una ben precisa identità territoriale se non come un paesaggio culturale meritevole di conservazione e valorizzazione? Ma il paesaggio a marrelo esiste ancora? In che forma, dove? Il patrimonio di immagini che Sereni ci ha lasciato in eredità può venire in aiuto: ogni punto delle sue riprese è ancora potenzialmente localizzabile sul terreno e si presta – attraverso la metodologia della fotografia ripetuta, cioè l’analisi dei dati derivanti dal confronto tra la situazione presente e quella riprodotta nell’immagine storica – a documentare localmente le dinamiche di trasformazione cui le singole porzioni territoriali fotografate sono state soggette nell’arco di sessant’anni, integrando i dati visivi con quelli storico-cartografici, testuali e archeologici. E anche questa è un'eredità inaspettata che Sereni ci lascia.
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Dopo Sereni: dal paesaggio agrario al patrimonio rurale. Le nuove fonti di Roberta Cevasco A farci cogliere quanta strada si sia fatta, non solo nella definizione del paesaggio rispetto alle più classiche fonti geografiche di Sereni, ma soprattutto nella introduzione di nuove fonti e metodologie per uno studio più concreto ed efficace dei paesaggi rurali, è il contributo di Cevasco. Se per Sereni i paesaggi rurali sono dati essenzialmente dalle strutture della proprietà e della conduzione dei terreni, oggi si utilizzano fonti osservazionali o di superficie, sedimentarie o sepolte, congiunte alla toponomastica (come già suggeriva Sereni nella Prefazione) e all'incrocio con le fonti documentarie. Insieme contribuiscono a identificare, datare, localizzare alla scala del sito e contestualizzare quelle pratiche di utilizzo/manipolazione delle risorse ambientali a cui anche Sereni era interessato, pratiche e sistemi colturali spesso rimasti al margine della trattatistica agronomica e selvicolturale. In aiuto anche la dendroecologia (lo studio degli anelli di accrescimento delle piante arboree, biografia dell'albero) per la ricostruzione di paesaggi culturali e delle relative pratiche di produzione e di gestione, la palinologia per mostrare come i suoli possono conservare stratificata la memoria storica della biodiversità dei paesaggi rurali. Finalmente, per Cevasco la contemporaneità risponde alle sollecitazioni di Sereni a costruire “serie documentarie” per identificare e caratterizzare pratiche e paesaggi culturali specifici. Nell'ottica della valorizzazione del patrimonio rurale, non occorre stabilire di quale paesaggio agrario si tratta e inquadrarlo nella storia sociale, economica o politica, occorre invece mettere in evidenza gli
elementi di storicità di precisi paesaggi rurali attuali, dalla città alle montagne. Quasi una conclusione: il Risorgimento di Emilio Sereni di Massimo Quaini Il Risorgimento di Emilio Sereni è la sezione conclusiva che, nel tracciare la visione di Sereni di questo periodo storico, nel 150° dell'Unità d'Italia, ne sottolinea tutta l'attualità e la modernità: la sua irrinunciabile eredità scientifica. Il messaggio principale che la questo volume catalogo e l'omonima mostra hanno inteso comunicare è, appunto, quello dell’attualità di Sereni, dello sforzo unitario non solo dello studioso, che ha saputo collegare e vivificare ambiti disciplinari cristallizzati o separati, ma anche del politico che, con le sue stesse ricerche, anche quelle più raffinate, ha dato alimento ed espressione alle lotte contadine e alle comuni aspirazioni per una maggiore giustizia sociale e territoriale. Il lascito sereniano: la sua irrinunciabile eredità scientifica Per concludere, alcuni appunti di sintesi per fissare nell'oggi l'irrinunciabile eredità scientifica di Sereni: * Senza dubbio nella definizione stessa di paesaggio agrario che corrisponde alle forme che vengono impresse dall'uomo all'ambiente naturale. I problemi posti dall'attuale condizione del nostro paesaggio agrario e urbano rendono il messaggio di Emilio Sereni un riferimento attuale, se non fondamentale, per chi intende valorizzare territorio e comunità. Dai suoi studi arrivano le indicazioni per affrontare il cambiamento del mondo produttivo e sociale: comunità scientifica, mondo professionale, classe politica, devono rispondere
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insieme alla complessità della realtà urbana e alle sfide che la nuova agricoltura e il paesaggio agrario chiedono: la conoscenza, lo studio, la cultura, sono le armi indispensabili per fare arretrare l'abusivismo, l'arroganza e le violenze. Il politico riformatore e la comunità scientifica possono definire insieme le strategie per il buon governo del territorio, la tutela dell'ambiente, la valutazione della sostenibilità ambientale all'impatto antropico. Il buon governo del territorio postula il connubio dell'architettura e dell'urbanistica nel rispetto dei valori ambientali, storici, artistici, culturali del nostro territorio. * Senza forzature, a Sereni va attribuita l'anticipazione delle moderne tematiche ambientali di salvaguardia, uso e consumo del territorio, dell'uomo costruttore di paesaggio con le sue scelte. L'opera dell’uomo sul territorio si intreccia con la storia politica, economica, sociale e scientifica, e l'uomo è in grado di farne emergere il valore se lavora per attribuirglielo e del territorio capta l'anima, quale documento straordinario ed insostituibile delle vicende umane. Interazione tra le stratificazioni del paesaggio agrario e storico con la contemporaneità, in un divenire storico che compone, nel presente, un paesaggio umano composito e inscindibile con il proprio passato. * È l'uomo che rappresenta il miglior garante della tutela del patrimonio ambientale e culturale, l’uomo coltivatore inserito in una politica agraria non fondata solo su scelte economiche di accumulo e sull'abbandono delle campagne. L'elemento che può difendere il paesaggio artistico e naturale d’Italia è e sarà sempre l’uomo. Il paesaggio modellato nei secoli dalle generazioni passate non va distrutto, ma neppure staticamente conservato, piuttosto razionalmente curato e modernamente
Ri-Vista ricerche per la progettazione del paesaggio Dottorato di Ricerca in Progettazione Paesistica I Facoltà di Architettura I Università degli Studi di Firenze
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sviluppato per renderlo adatto alla trasmissione positiva e feconda alle nuove generazioni. * Con grande lungimiranza, Sereni vede il paesaggio agrario come luogo di produzione agricola e quindi come traccia visibile dei rapporti di produzione e dei conflitti tra le classi. Egli suggerisce una via materialista dove il paesaggio non è quello che l'uomo percepisce, non è quindi una sovrastruttura ma sostanzialmente è piuttosto un insieme organico di strutture, ovvero quello che l'uomo, lavorando, trasforma, o meglio quella forma che l'uomo, nel corso ed ai fini delle sue attività produttive agricole, coscientemente e sistematicamente imprime al paesaggio naturale. * Come Marx, egli ritiene che la classe rivoluzionaria sia la prima e più decisiva forza produttiva di una società e vede nel proletariato emiliano dei primi del Novecento l’esempio emblematico di una visione politica in via di realizzazione. In particolare, i braccianti emiliani mostravano di possedere consapevole coscienza di classe. Oggi, di tutti questi braccianti la Pianura padana non ha più traccia, al loro posto sono arrivati gli immigrati indiani del Punjab, i Sikh come “bergamini”. La sua tesi della “classe rivoluzionaria” come la forza strategica nel futuro dell’uomo, o meglio quella degli uomini associati, vale oggi per questi “nuovi braccianti” dei campi. È un lascito politico di forte attualità, soprattutto perché spesso, e da più parti, sentiamo ribadire la centralità della persona, degli uomini associati, dei valori, della vita, di fronte al paradigma tecnologico di una società in crisi. * Sereni ha sempre mostrato di non volersi 24 occupare solo di processi, ma anche di persone e questa sua attenzione alla dialettica dei rapporti uomo-ambiente, a cavallo tra storia e geografia, è attualissima oggi come negli anni in cui scriveva.
Paesaggi agrari. L'irrinunciabile eredità scientifica di Emilio Sereni
* Sereni ha saputo spezzare ambiti disciplinari cristallizzati proprio perché non ha mai cessato di collegare le sue ricerche, anche quelle più raffinate, alle lotte contadine, alle aspirazioni a una maggiore giustizia sociale e territoriale e alle politiche conseguenti. * Sereni parla di crisi della mezzadria, di regressione della risicoltura, di industrializzazione, ma senza toni nostalgici o elegiaci e soprattutto senza evocare un utopico ritorno al passato, ben consapevole che si tratta di un processo, di uno tra i tanti, di una trasformazione, esattamente come quelle prodottasi nei secoli precedenti, dipendente dalle congiunture storiche ed economico-sociali, e come tale inarrestabile. * Per concludere, riprendendo un passaggio di Piastra nel suo saggio, oggi la Storia del paesaggio agrario italiano, originariamente stesa come saggio scientifico di sintesi, è da considerarsi essa stessa una fonte. Facendo nostra la consapevolezza sereniana circa la tendenza, man mano che ci avviciniamo al presente, a mutamenti paesistici sempre più rapidi in risposta ad una situazione socio-economica sempre più articolata e complessa, la Storia può assurgere a imprescindibile riferimento da cui ripartire per analizzare, senza preconcetti, l’evoluzione odierna dei quadri ambientali e, parallelamente, a riconsiderare e salvaguardare le emergenze paesistiche storico-culturali più rilevanti (per l'Emilia è senz'altro il caso della riproposizione della 25 piantata , della rinaturalizzazione delle risaie, della valorizzazione culturale e turistica del paesaggio della bonifica, e, per tutto il Paese, del grosso nodo politico-urbanistico del consumo di suolo).
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Riferimenti iconografici Figure 1-4. Immagini tratte dal testo Massimo Quaini, a cura di (2011), “l’irrinunciabile eredità scientifica di Emilio Sereni, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo Milano. Figure 5-6.Foto di Bruno Vagnini.
Testo acquisito dalla redazione nel mese di gennaio 2013. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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L'Istituto Alcide Cervi è costituito il 24 aprile del 1972 a Reggio Emilia per iniziativa dell'Alleanza Nazionale dei Contadini (oggi Confederazione Italiana Agricoltori), dell'Associazione Nazionale Partigiani d'Italia, della Provincia di Reggio Emilia e del Comune di Gattatico. Consegue il riconoscimento di personalità giuridica con DPR n.533 del 18 luglio 1975 2 Emilio Sereni (Roma 1907-1977) dedica l'ultima parte della sua vita alla nascita dell'Istituto Alcide Cervi, del quale ricopre da subito il ruolo di Presidente del Comitato Scientifico. Nel 1970 dona all'Alleanza Nazionale dei Contadini (di cui era stato il fondatore e presidente dal 1955 al 1969) l'intera proprietà del suo patrimonio libraio e documentale, concordando con la stessa nella decisione di affidarne al nascente Istituto Cervi la conservazione, la valorizzazione e la pubblica consultazione. La Biblioteca Emilio Sereni consta di circa 22.000 volumi, 200 riviste tra correnti e cessate, più una piccola sezione di rarità bibliografiche di interesse agrario. L' Archivio Storico Nazionale dei movimenti contadini raccoglie e organizza in 1600 faldoni i materiali documentari affidati in donazione o in deposito da organizzazioni politiche, sindacali e da privati, attinenti alla storia dei movimenti contadini italiani dalle origini ai nostri giorni. Il Fondo Emilio Sereni è il più importante e consistente; è formato
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dall'Archivio di documentazione con con oltre duemila buste, 63.000 pezzi, 1.843 voci e dallo Schedario bibliografico, imponente raccolta di alcune migliaia di voci e decine di migliaia di schede e di appunti bibliografici stilati da Sereni, ben oltre le 300.000 schede. Nel corso del 2003, la Biblioteca–Archivio (a Roma in Piazza del Gesù dalla sua costituzione, ossia dalla nascita dell'Istituto Alcide Cervi) è trasferita a Reggio Emilia e custodita a cura della Provincia e del Polo Archivistico fino al 2007. Il 15 marzo del 2008 viene inaugurata la nuova sede atta a contenere tutti i materiali; si tratta di un edificio completamente nuovo edificato a fianco di Casa Cervi nel podere dei Campi Rossi a Gattatico di Reggio Emilia. L'edificio è finanziato dal Ministero per i Beni Culturali e dalla Provincia di Reggio Emilia e realizzato dalla Soprintendenza ai Beni Ambientali e Architettonici dell’Emilia Romagna in accordo con la Provincia di Reggio che ne cura la progettazione e la direzione lavori in qualità di ente proprietario di Casa Cervi. 3 All'Istituto Gramsci Sereni lascia la propria privata corrispondenza (familiare, personale, ufficiale, scientifica), i documenti personali, i discorsi e gli scritti politici. 4 Il Convegno (10-12 novembre 2011) ha messo all'attenzione degli studiosi quattro temi. 1. Il contesto politico, e quello più generalmente culturale, nazionale e internazionale, nei quali era venuta a maturazione l’esperienza di studio che, passando attraverso Il capitalismo nelle campagne e Le comunità rurali dell’Italia antica aveva portato alla Storia del paesaggio agrario italiano. 2. La mappa interdisciplinare della ricerca italiana per rintracciare sia le fonti geografiche, linguistiche, archeologiche, storico-economiche, storicoartistico e storico-giuridico, sia le forme e i modi della ricezione accademica. 3. Le più specifiche matrici disciplinari e accademiche che a livello internazionale spiegano, insieme alla formazione di Sereni, la genesi della Storia e successivamente la sua ricezione e fortuna editoriale e scientifica in Europa. 4. La saldatura dell’opera sereniana con le politiche territoriali e le pratiche odierne in fatto di valorizzazione della storia
agraria e del complessivo patrimonio rurale di cui l’Istituto Cervi è custode. 5 La Mostra bibliografica allestita nella Biblioteca Palatina di Parma (15 ottobre-13 novembre 2011), dal titolo Gli “strumenti” di Emilio Sereni. Contesti scientifico-letterari per la Storia del paesaggio agrario italiano, ha interessato la ricerca delle fonti letterarie che stanno alla base della Storia: poemi e brani letterari, trattati di agronomia, di politica e di scienze varie, testi di diritto, che comprendono sincronicamente i più svariati periodi storici, oltre alle diverse edizioni pubblicate da Laterza dal 1961 ad oggi. Più di 70 volumi, tra antichi e moderni, compresi alcuni manoscritti e dattiloscritti originali di Sereni divisi in sette sessioni: 1961. Storia del paesaggio agrario italiano; La fortuna critica; Punti di partenza; I contemporanei citati nella Prefazione; I riferimenti letterari e poetici; i riferimenti politici e legislativi; I riferimenti scientifici e agronomi. Mostra su progetto e a cura di Chiara Visentin e Gabriella Bonini 6 Paesaggi agrari. L'irrinunciabile eredità scientifica di Emilio Sereni: dieci grandi totem retroilluminati con inserimento di touchscreen, video, fotografie, documenti originali, volumi, che hanno contestualizzato la complessa personalità di Sereni, la fortuna del suo libro più noto, i principali assi tematici, metodologici, tipologici, la molteplicità delle fonti vecchie e nuove. Mostra su progetto e a cura di Chiara Visentin. 7 Sereni Emilio, Curriculum pubblicato con il titolo Pagine autobiografiche di Emilio Sereni in appendice a A. Giardina, Emilio Sereni e le aporie della Storia d’Italia, in «Studi Storici», XXXVII, 1996, 3, pp. 720-726. 8 Sereni Emilio, Curriculum cit. 9 Anno III, n. 1, gennaio-marzo 1962, pp. 169-174. Il testo della recensione sarà ripubblicato con il titolo di La storia del paesaggio agrario in R. Zangheri, Agricoltura e contadini nella storia d’Italia. Discussioni e ricerche, Torino, Einaudi, 1977, pp. 105-112. 10 N. 1, 1962, pp. 662-668. 11 Anno II, n. 2, aprile-giugno 1962, pp. 65-67 (il testo è in lingua francese). 12 Edizione del 16 marzo 1962, p. 3.
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La recensione reca il titolo Storia del paesaggio e storia della civiltà agraria. 14 Il numero è superiore a quello delle tre strutture agrarie fondamentali riconosciute da Bloch in Francia (1931), superiore ai tre «sistemi agrari» individuati in Italia da Bevilacqua (1989), ma inferiore alle dieci strutture individuate sempre in Italia da Gambi (1961) 15 Il riferimento è a Bevilacqua (1989) 16 Sereni Emilio, Città e campagna nell’Italia preromana, in Atti del Convegno di Studi sulla Città etrusca e italica preromana, Imola, Galeati editrice, 1970. Altro materiale in Archivio-Biblioteca Emilio Sereni, Istituto Alcide Cervi, Gattatico, faldoni 64 e 65 Città e 652 Città e campagne. 17 Le ormai famose prime parole del primo capitolo. 18 Sereni Emilio, Città e campagna nell’Italia preromana, cit. pag. 112 19 Istituto Gramsci, Fondo Sereni, Corrispondenza: Sereni a Giangiacomo Feltrinelli, 8 novembre 1956. 20 Zangheri R., Recensione: E. Sereni, La storia del paesaggio agrario italiano, in «Studi Storici», III, 1962, 1, pp. 169-174. 21 Romano Giovanni, Studi sul paesaggio, Torino, Einaudi, 1991 (I ed., 1978). 22 Istituto Gramsci, Fondo Sereni, Scritti e discorsi, Guida bibliografica, p. 1 23 Sereni Emilio, Note per una storia del paesaggio agrario emiliano, in R. Zangheri (a cura di), Le campagne emiliane nell’epoca moderna. Saggi e testimonianze, Milano, Feltrinelli, 1957 (estr.) pp. 27-54. 24 Cfr. la frase di chiusura della Storia: Sereni, 1961, p. 484 25 E non senza coincidenza, in una porzione di un ettaro del podere di Casa Cervi è stata riprodotta (a. 2003), principalmente a scopo didattico ma anche per promuovere pratiche agronomiche più rispettose dell'ambiente e contribuire al mantenimento sul territorio di elementi del paesaggio agrario locale, la piantata reggiana dove la vite è coltivata maritata all'Olmo e i vitigni sono quelli reggiani autoctoni: Ancellota, Malbo Gentile, Spergola, Marani, Salamino, Fogarina, ecc.
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