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redazione
fondatore / founder Giulio G. Rizzo
direttore / director Gabriele Corsani
comitato scientifico / scientific committee Paolo Bürgi, Vittoria Calzolari, Christine Dalnoky, Guido Ferrara, Roberto Gambino, Jean-Paul Métailié, Giulio G. Rizzo, Mariella Zoppi
comitato di redazione / editorial board Ilaria Burzi, Elisabetta Maino, Michela Moretti, Emanuela Morelli, Gabriele Paolinelli, Emma Salizzoni, Antonella Valentini Ha collaborato alla redazione di questo numero: Silvia Mantovani
progetto grafico / graphic design / editing Laura Ferrari
scrivere alla redazione rivista.drpp@unifi.it
editore / publisher Firenze University Press Borgo degli Albizi 28 50122 Firenze e-press@unifi.it
Ri-Vista ricerche per la progettazione del paesaggio rivista elettronica semestrale del Dottorato di Ricerca in Progettazione Paesistica Facoltà di Architettura – Università degli Studi di Firenze registrazione presso il Tribunale di Firenze n. 5307 del 10 novembre 2003 ISSN 1724-6768
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Paesaggio: strumento di educazione
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sommario
I
Paesaggio: strumento di educazione
1
Editoriale Elisabetta Maino
tra parole e saggi 7
Landscape & Imagination: riflettere insieme Mariella Zoppi
13
La sindrome del paesaggista: intervista a Cristina Castel Branco Enrico Falqui
17
Le impronte del paesaggio sonoro. Un’opportunità per la didattica della storia e della geografia Lorena Rocca
lo (s)guardo estraneo 27
Su Delfino Insolera Gabriele Corsani
29
Passeggiata geomorfologica Delfino Insolera
35
La cooperazione europea delle Università nell’educazione all’Architettura del Paesaggio Simon Bell e Ellen Fetzer
39
Paesaggi fatti a mano. Didattica di architettura del paesaggio in situ Fausta Occhipinti
49
Cosa intendiamo per educazione, ed in particolare per educazione al paesaggio Cristina Koprening Guzzi
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II
63
indice
L’educazione al paesaggio nell’ambito di un Osservatorio: conoscenza, consapevolezza, condivisione Benedetta Castiglioni
73
L’altro paesaggio: il punto di vista dimenticato Dieter Schürch
paesaggi in gioco 85
Narrando@Fiesole. Abitare il paesaggio, ascoltare le voci Valentina Zingari, Paolo De Simonis, Silvia Mantovani
libri 101
Ugo Morelli, Mente e paesaggio. Una teoria della vivibilità, Bollati Boringhieri, Torino 2011 Emma Salizzoni
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editoriale
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Editoriale Maino Elisabetta*
Educare per rinnovare lo sguardo critico e consapevole delle relazioni tra società e paesaggio. Educare per stimolare il senso di responsabilità e cura condivisa e collettiva del luogo abitato. Educare per conoscere il paesaggio in modo diacronico e sincronico ed immaginare scenari futuri dinamici e flessibili. Il paesaggio come strumento maieutico per far maturare insieme territori e società. E. Maino
A più di dieci anni dalla Convenzione Europea del Paesaggio (2000) il tema della sensibilizzazione verso uno sviluppo sostenibile ed un paesaggio di qualità in cui abitare vede l’educazione quale strumento operativo assolutamente centrale per una sua attualizzazione. Molteplici iniziative alla scala internazionale sono state intraprese, come per esempio il programma ‘UN Decade of Education for Sustainable Development 20052014’1 attivato dall’UNESCO e che la Commissione Italiana ha nel 2013 dedicato ai temi del paesaggio, della bellezza e della creatività2. Già nel 1972 nel rapporto dell’Unesco ‘Learning to be. The word of education today and tomorrow’3 si ribadiva tale ruolo chiave dell’educazione. Nel documento, ed in particolare nel preambolo curato da Edgar Faure, si ritrovano i principi su cui poggia la Convenzione stessa4. Essi si fondano sul riconoscimento della diversità dei paesaggi quale fonte di ricchezza da preservare e derivante da ‘una comunità internazionale caratterizzata dalla varietà di nazioni e culture, i cui indirizzi politici e gradi di sviluppo si riflettono nelle aspirazioni collettive’. Tale diversità è piena espressione e responsabilità dell’uomo ‘sia come individuo e sia come membro di una famiglia e di una comunità, sia esso semplice cittadino o produttore [di paesaggio], inventore di tecnologie o sognatore creativo’5. Da quarant’anni dalla pubblicazione del rapporto da parte dell’Unesco, il paesaggio e la società si sono tremendamente evoluti ed il patrimonio rappresentato dalle diversità ed unicità territoriali è sempre più sottoposto a rischio di estinzione. In particolare il paesaggio di vita quotidiana, o meglio quello che, amministratori, politici e cittadini, non ritengono degno di essere sottoposto ad una attenta progettazione e pianificazione, sia essa rivolta ad una sua salvaguardia e conservazione oppure ad una sua rivitalizzazione e riqualificazione. Gli spazi, aperti o costruiti, in cui la collettività un tempo si riconosceva e ne era attivo promotore, sono stati sottoposti a repentine trasformazioni in nome di una sempre maggiore produttività ed al contempo di una crescente globalizzazione ed omologazione del territorio.
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Paesaggio: strumento di educazione
Il paesaggio sta rapidamente cambiando volto6 sotto l’influsso di individualistici interessi e, spesso, senza che la collettività ne prenda atto criticamente, come avesse perso la capacità di vedere. Si ravvisa, inoltre, una sorta di ambiguità tra i desideri che la popolazione sembra mostrare, ossia l’aspirazione per una maggiore qualità del suo ambiente di vita e condizioni sociali più eque e migliori, e le azioni, gli indirizzi politici ed i comportamenti acritici, che al contrario mette in atto nel paesaggio. Sembra che quel rapporto di ‘scambio interattivo’ tra paesaggio e società, definito dalla metafora di E. Turri del ‘paesaggio come teatro7’, si sia definitivamente spezzato: il cittadino ha perso il suo ruolo sia di attore e sia di spettatore delle sue azioni nel paesaggio che è diventato un luogo altro, sconosciuto, di difficile interpretazione, privo di valore agli occhi e teatro possibile di qualsiasi accadimento. Ad aggravare questo quadro contribuisce il lungo periodo di crisi mondiale, che sta investendo la sfera non solo economica, ma anche sociale, culturale e politica. E’ perciò urgente giungere ad un cambiamento sociale e culturale che ripensi e ridefinisca l’idea dello sviluppo, non più considerato come mera crescita produttiva e materiale, quanto piuttosto come crescita sociale e culturale della collettività. Per far questo è necessario rompere le abituali concezioni, radicate attraverso ‘processi di apprendimento taciti e consolidati, che iniziano in ognuno di noi sin dalla nascita’ e che ci portano all’abitudine ed alla consuetudine (Salizzoni su Morelli, Shürch). Al continuo cambiamento della società e conseguentemente del paesaggio, che ne è specchio fedele, anche l’educazione dovrà evolversi negli obiettivi e nei metodi, essere accessibile a tutti, caratterizzarsi come forma di conoscenza permanente, proseguendo lungo il corso di vita di un individuo 8, allontanandosi dalla concezione di mero strumento di trasmissione nozionistico. Questo numero di Ri-Vista si inserisce nel sopra delineato dibattito scientifico, intendendo l’educazione in senso ampio, ossia come istruzione e formazione (dall’apprendimento scolastico dell’infanzia sino all’università coinvolgendo studenti ed educatori), informazione e sensibilizzazione (rivolto alla comprensione dei luoghi di vita quotidiana da parte di tutti gli attori del paesaggio), finalizzata alla comprensione e cura dei luoghi nel loro costante ed inevitabile processo di trasformazione (Zoppi). Nuove metodologie ed obiettivi devono essere predisposti e condivisi attraverso scambi di conoscenze e pratiche alla scala internazionale. A tale proposito, S. Bell ed E. Fetzer presentano il progetto di network tematico Le:Notre (Landscape Education: New Opportunities for Teaching and Research in Europe) finalizzato alla diffusione dell’architettura del paesaggio in Europa sviluppando relazione e scambi all’interno della realtà accademica, mentre M. Zoppi ci riporta in sintesi l’esperienza del Convegno Internazionale svoltosi a Parigi dal 2 al 4 maggio 2013 dal titolo ‘Landascape & Imagination. Towards a new baseline for education in a changing word’. Quest’ultimo è stato organizzato da Uniscape e dall’Università di Paris-La Villette al fine di esplorare nuove vie da sperimentare nell’insegnamento della disciplina del paesaggio, basate sul confronto tra approcci diversi per localizzazione geografica, climatica e culturale.
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editoriale
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La finalità è quella di rintracciare una nuova concezione del progetto, rivolta alla ‘rappresentazione dello spazio’ inteso questo come forma di controllo responsabile del paesaggio, dove saperi tradizionali e capacità di immaginare scenari futuri convivono. A tal proposito la citazione di F. Zagari da parte di E. Falqui ci induce a riflettere sul ruolo del paesaggista nella città e nella società, come figura in grado di ‘ricreare, nel territorio in cui lavora, una continuità con una forte eredità del nostro passato’ e dall’altro lato come colui che per agire deve acquisire ‘consapevolezza del luogo in cui vive, in relazione al futuro’. E’ spontaneo interrogarsi, allora, sul ruolo del paesaggista nel fare territorio (Guzzi) e sul livello formativo, che poco si discosta dalle altre professionalità tecniche, ed al suo scarso riconoscimento della sua figura professionale, se non, quasi esclusivamente, come progettista di giardini privati. Solo una formazione multidisciplinare, che sia sintesi di linguaggi scientifici e linguaggi umanistici/artistici, porterà alla formazione di quella figura specialistica, delineata dalla Convenzione Europea del Paesaggio (Castel Branco, Occhipinti, Guzzi, Rocca, Zoppi, Salizzoni su Morelli). Inoltre dovrà essere previsto un contatto diretto con la natura, rivolto all’osservazione ed al fare in situ, l’innescarsi di un percorso sociale, che preveda il coinvolgimento e l’ascolto dei cittadini (Occhipinti, Guzzi), l’esplorazione di innovativi approcci sensoriali e percettivi del paesaggio in cui prevalga l’aspetto umanistico, per esempio quello musicale (Rocca), quello naturalistico (Corsani su Insolera), fino a quello afferente alla psicologia ed alla pedagogia al fine di interpretare ed includere quali nuove conoscenze gli sguardi dei bambini (Shürch). Le riflessioni proposte in questo numero di Ri-Vista rispecchiano il carattere multidisciplinare dell’educazione sopra delineato sia per autori, che appartengono a differenti settori disciplinari scientifici ed umanistici (architettura del paesaggio ed urbanistica, geografia ed agronomia ed, ancora, storia, psicologia, pedagogia e musica) e sia per approcci presentati, che differiscono in particolare per gli attori a cui si rivolgono, differenti per fasce d’età (dai bambini/ragazzi agli adulti) e per ruoli ad essi riconosciuti (amministratori, insegnanti, studenti, professionisti, cittadini). L’educazione viene presentata dagli autori quale strumento essenziale ai fini del processo di ri-acquisizione della consapevolezza dei valori e delle identità di un luogo (Castiglioni, Zingari - De Simonis - Mantovani) e strumento di apprendimento collettivo che permette agli attori di valutare gli scenari di sviluppo possibile dopo aver individuato quelli più sostenibili (Guzzi). Il paesaggio ritrova il suo ruolo di educatore all’interno di una processualità circolare dove, come dice L. Rocca, ‘noi agiamo nell’ambiente in base a come lo percepiamo ma anche apprendiamo dall’ambiente mentre lo sentiamo. […]’, quello che abbiamo appreso influenzerà poi ciò che vedremo e sentiremo. Questo sviluppa la capacità di ‘adattarsi alle circostanze e di sfruttare le esperienze passate’. Al territorio è perciò riconosciuta una capacità narrativa, che può essere valorizzata attraverso progetti ed iniziative che permettano di dare voce ad una comunità in attesa di ascolto. Questo avviene nel caso del progetto Narrando@Fiesole presentato da V. Zingari, P. Simonis, S. Mantovani che diventa uno strumento di esplorazione delle conoscenze, delle memorie, usi e pratiche, ed al contempo di educazione per nuove modalità di conoscenza condivisa, salvaguardia e valorizzazione del paesaggio e del patrimonio.
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Paesaggio: strumento di educazione
Il paesaggio da oggetto diventa strumento di educazione9 attraverso la sua capacità di essere intermediario tra territorio e popolazione che quel territorio percepisce e di cui costituisce rappresentazioni. Rientra allora nei programmi didattici e gli insegnamenti si rinnovano nella forma e negli obiettivi: si può insegnare la geografia e la storia con la musica (Rocca), oppure attraverso programmi di osservazione critica del territorio locale, inserendo progetti quali l’Osservatorio del Paesaggio del Canale del Brenta nel programma didattico (Castiglioni), ed ancora ponendo attenzione alla conoscenza specifica di un luogo secondo la triade ambiente-territorio-paesaggio nei laboratori di formazione universitaria (Guzzi). Questo approccio è stato sperimentato dalla figura eclettica di D. Insolera, primo presidente di Villa Ghigi con il suo parco sulle pendici collinari di Bologna, che immaginò un modo nuovo e coinvolgente di fare educazione e divulgazione ambientale in città che prosegue tutt’ora (Corsani). Il paesaggio ritrova, così nuovamente, ‘la sua capacità di produrre conoscenza, di dare sostanza nuova al nostro rapporto con la natura10’, e contemporaneamente l’uomo ritorna ad essere attore attivo e consapevole, esprimendo ‘il diritto di realizzare le proprie potenzialità e partecipare nella costruzione del suo futuro11’.
* Dottore di ricerca in Progettazione Paesistica presso l’Università degli Studi di Firenze
Testo acquisito dalla redazione nel mese di novembre 2013. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
1
In questo progetto l’Unesco si prefigge l’obbiettivo di guidare il dibattito globale sulla formazione e di istituire un dialogo tra politiche, indirizzi e ricerca lungimirante, in un contesto come quello del ventunesimo secolo in cui i cambiamenti rapidi presentano nuove sfide per i sistemi di istruzione e di formazione in tutto il mondo. http://www.unesco.org/new/en/education/themes/leading-the-international-agenda/rethinking-education/ [novembre 2013] 2 http://www.unesco.it/cni/index.php/news/275-settimana-ess-2013 [novembre 2013] 3
E. Faure, F. Herrera, A. R. Kaddoura, H. Lopes, A. V. Petrovsky, M. Rahnema, F.Ward, 1972, Learning to be. The word of education today and tomorrow, Report of International Commission on the Development of Education, UNESCO, Parigi.
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Gli stessi principi sono alla base della Convenzione che si sviluppa a partire del desiderio di ‘soddisfare gli auspici della popolazione di godere di un paesaggio di qualità e di svolgere un ruolo attivo nella sua trasformazione’, nella persuasione che ‘il paesaggio rappresenta un elemento chiave del benessere individuale e sociale, e che la sua salvaguardia, la sua gestione e la sua pianificazione comportano diritti e responsabilità per ciascun individuo.’ Viene perciò sottolineato il ruolo centrale della popolazione nell’esprimere ‘le proprie aspirazioni per quanto riguarda le caratteristiche paesaggistiche del loro ambiente di vita’ (CEP 2000 – Preambolo). 5 E. Faure, et alt., 1972, op. cit., Preambolo - p. VIII, traduzione di Elisabetta Maino. 6
Il paesaggio come ‘volto del territorio, espressivo di identità, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni’. D.Lgs. 42 del 2004 ed integrazione del D.Lgs 63 del 2008 – art. 131 7 La concezione del paesaggio come teatro sottintende che l’uomo e le società si comportano nei confronti del territorio in cui vivono in duplice modo: come attori che trasformano, in senso ecologico, l’ambiente di vita, imprimendovi il segno della propria azione, e come spettatori che sanno guardare e capire il senso del loro operare sul territorio (E. TURRI, 1998, Il paesaggio come teatro. Dal territorio vissuto al territorio rappresentato, Marsilio, Venezia). 8 Ciò è ben sintetizzato dall’espressione di E. Faure ‘learn-to be’ nel rapporto del 1972 (E. Faure et alt., 1972, op. cit., Preambolo - p. VIII) 9 Paesaggio come ‘strumento’ nasce dall’arguzia del paesaggio di essere al contempo lo cosa e l’immagine della cosa, la realtà e la rappresentazione della realtà. Ossia il paesaggio diviene luogo di incontro tra materialità ed immaterialità, F. Farinelli, 1991, L’arguzia del paesaggio, Casabella, 575-576, pp. 10-12 10 Turri, 1998, op. cit, p. 11. 11
E. Faure, E. Faure et alt., 1972, op. cit., Preambolo – p.IX, traduzione di Elisabetta Maino.
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tra parole e saggi
Landscape & Imagination: riflettere insieme
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Landscape & Imagination: a debate
Mariella Zoppi*
abstract
abstract
Dal 2 al 4 maggio 2013 si è tenuto a Parigi, all’Università di La Villette, un convegno in cui docenti di tutto il mondo hanno discusso sui metodi e sulle esperienze di insegnamento delle discipline del paesaggio. Il convegno si è svolto in sezioni tematiche multiple: storia, teorie, arti, processi, scienze e governance. In tutte l’obiettivo principale era l’identità dei territori nel progetto di paesaggio – dalla teoria alla pratica – con la presentazione di applicazioni ad un’ampia gamma di situazioni differenti: dal paesaggio rurale tra conservazione e trasformazione, alle aree costiere sottoposte alla pressione del turismo, dall’ecologia per un rinnovamento della qualità della vita nella città, a progetti di monitoraggio collettivi ed alla gestione delle emergenze nelle catastrofi naturali.
In Paris, at La Villette University, was four-days of debate on 2-4 Mai 2013, in which faculty members of all the world discussed on methods and experiences in teaching landscape. The conference was organized in multiple sessions: history, theories, representation, process, science and governance. All the fields discussed were related to the main problem of the identity of territories in the landscape project -from the theories to the practices- and applied in a very large range of different situations: from the rural world between conservation and transformations to the coastal areas under the pressure of tourism, from the ecology in the city life renovation to the land use control and project by community and the emergency management in natural catastrophes.
parole chiave Paesaggio, Educazione, Identità, Governance
key-words Trans-disciplinareità,
Landscape, Education, Trans-disciplinary, Identity, Governance
*Dipartimento di Urbanistica e Pianificazione del Territorio (DUPT) dell’Università di Firenze
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Dal 2 al 5 maggio scorso si è svolto a Parigi il convegno internazionale LANDSCAPE and IMAGINATION, che ha avuto come sottotitolo “Towards a new baseline for education in a changing world”, ideato e organizzato da Uniscape e l’Università di Paris-La Villette. Il principale obiettivo di questo incontro scientifico, che ha avuto adesioni e partecipazioni da tutto il mondo, era l’esplorazione di nuove vie da sperimentare nell’insegnamento delle discipline del paesaggio. Va subito esplicitato che “insegnamento” era da intendersi nel senso ampio di educazione, in modo da comprendere sia l’apprendimento scolastico dall’infanzia all’università sia quello attinente alla quotidianità della vita, interfaccia, quest’ultimo, della “percezione” che intercetta e connota il concetto di paesaggio, secondo quanto esplicitato dalla Convenzione Europea (2000). Educazione che implica, perciò, la comprensione e la cura dei luoghi nel loro costante, inevitabile, processo di trasformazione. Dunque, paesaggio come quadro di vita sociale e fisico che deve rapportarsi al grande tema della sostenibilità e della responsabilità individuale e collettiva che attraversa luoghi e ambiti di intervento senza soluzione di continuità spaziale o temporale. A fronte dei grandi problemi che attraversano il mondo1 e rispetto ai quali con difficoltà e ritardi si tenta di dare risposte positive e sovente ci si limita a sperimentazioni parziali ed episodiche (si pensi, per esempio, al tema delle nuove espansioni come quello delle riqualificazioni urbane ed alla costruzione degli eco-quartieri oppure al verde verticale troppo spesso usato come costoso elemento decorativo), appariva fondamentale che ci fosse la possibilità di un confronto fra esperienze diverse condotte in parti lontane del globo, in
Landscape & Imagination: riflettere insieme
condizioni differenti dal punto di vista geografico e climatico, concepite e prodotte da culture diverse, ma finalizzate al conseguimento dello stesso, unico, obiettivo e caratterizzate dalla cultura del progetto, dalla ricerca, cioè, del “disegno dello spazio”, inteso come garanzia del controllo responsabile delle trasformazioni. Da qui l’esplicitazione del concetto di “immaginazione”, come proiezione transdisciplinare che necessita del confronto di esperienze molteplici, di tecnologie sempre più sofisticate e di saperi tradizionali in grado di proporre un dialogo fra quanti vivono il paesaggio e lo comprendono nel loro continuo divenire, ma vogliono conservarlo nelle sue qualità reali e simboliche, come ambito di identità, capace di trasmettere e tramandare valori collettivi che attraversano le generazioni e favoriscono la comprensione fra abitanti nativi e migranti. Un tema sempre più cogente in una società globalizzata, in movimento e in cambiamento, all’interno della quale abitudini, rapporti di relazioni reali e virtuali, definiscono nuove sfide, nuove esigenze, nuovi modelli da “immaginare” per proporre scenari futuri che tuttavia non devono evadere dalle responsabilità individuali e collettive. Immaginazione creativa, ma finalizzata ai temi di solidarietà mondiale come a quelli dei piccoli gruppi (minoranze, ad esempio) e anche degli individui, che devono trovare uno specifico equilibrio nei rapporti con la formazione mutevole di aggregazioni sociali non più basate sulla produzione di beni o l’appartenenza, ma spesso finalizzate temporaneamente ad azioni comuni (si pensi ai comitati “per” o “contro”). Per dar conto della vastità e delle relazioni fra le varie tematiche e le discipline, il convegno si è articolato in sei sezioni principali: la storia, le teorie, le arti, i processi, le scienze, la governace.
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In questa scansione, va rilevato come nelle intensioni degli organizzatori la storia fosse da intendersi come vettore di formazione interiore delle identità specifiche all’interno dell’insegnamento e della formazione; mentre, le teorie dovevano costituire l’elemento chiave per la trasmissione del concetto di sviluppo sostenibile; le arti erano il campo di applicazione spaziale (rappresentazione), estetica e interdisciplinare della sfida planetaria del paesaggio; i processi intendevano rapportare l’insegnamento al controllo partecipato al progetto di cambiamento, mentre alle scienze era affidato il compito di individuare, armonizzare e utilizzare i numerosi saperi che convergono sul paesaggio e, infine, alla governance spettavano i temi dell’educazione permanente e della partecipazione. In realtà nulla, nel paesaggio come sul territorio o nella società, è mai segmentabile o isolabile per schemi o per ambiti definiti, tutto si mescola in una complessità continua e mutevole, dove fra la storia e la governace non ci sono confini e attraverso di loro conoscenze scientifiche e tecniche si mescolano alle arti e definiscono, nel bene o nel male, i progetti, disegnando gli scenari del cambiamento. Questa complessa e frammentata interazione è emersa in modo assoluto nelle diverse sessioni di discussione in cui si è articolata -forse in modo talvolta troppo rigido- la conferenza e ha permesso confronti inconsueti fra oriente e occidente, fra vecchie e nuove civiltà, fra situazioni protette e situazioni di frontiera, facendo emergere che non esistono casi studio comparabili per scala di intervento, ma solo per incisività e capacità di azione e che la loro valutazione non sta tanto nella vastità del problema quanto nel conseguimento dell’obiettivo prefissato e nella capacità di coinvolgere consapevolmente persone e territori. Non poteva
tra parole e saggi
essere altrimenti. Perché il paesaggio è questo: una complessità mutevole di situazioni umane, storiche, ambientali e relazionali che intercetta culture, modi di vivere, sensazioni e si traduce in progetti, in capacità di trasformazioni che devono avere come obiettivo prioritario il mantenimento del senso dei luoghi (genius loci) che altro non è che la percezione consapevole di quel quadro di vita di cui parla, all’articolo 1, la Convenzione europea del paesaggio. Histoire: les milieux comme vecteur subconscient de notre identité dans l’enseignement et la formation. Coord.: Chiu Che Bin, Philippe Nys, Veerle Van Eetvelde Qu’ils soient naturels, linguistiques, idéologiques, sociaux et, en dernier ressort, culturels, les milieux influent, de manière subtile mais profonde, nos manières d’être, de voir et d’agir dans le monde. Quels sont les degrés d’imprégnation de ces différentes modalités des milieux sur les enseignements, la formation et l’expérience personnelle ? Comment s’en distancier - et jusqu’à quel point - pour élaborer et proposer des pédagogies universalisables susceptibles d’apporter des réponses appropriées et diversifiées à des problèmes communs (augmentation de la température, raréfaction des ressources en eau, usage de savoir-faire techniques et technologiques éprouvés…)? Dans cette perspective, quels peuvent être la fonction et les modalités d’exercice et d’application des multiples approches des paysages, de son histoire, de ses théories, de ses rémanences patrimoniales et identitaires… que ce soit en termes d’analyses (notamment
herméneutiques), d’expertises ou de projets ? Comment les utiliser, de manière spécifique, dans les enseignements d’histoire ? Comment assembler le temps long avec, depuis une vingtaine d’années, la circulation et l’accélération des transferts d’informations ainsi que des personnes (enseignants et enseignés) entre les différentes sphères géographiques par les différents médias (revues « papier », blogs, sites, colloques, workshops et concours internationaux) ? Comment et jusqu’à quel point cette circulation modifie-t-elle méthodes d’analyse, diagnostics et réponses à la commande et aux concours? En quoi la multiplication des mobilités (court, moyen et longue durée) des étudiants et des formateurs renouvelle les connaissances et oblige à prendre en compte ces apports dans les pédagogies ? Telles sont quelques pistes que les propositions se devront de traiter. Théories: le « paysage » comme notion clé dans l’enseignement du développement durable. Coord. : Yann Nussaume, Catherine Zaharia, Florencio Zoido Comment les questions liées à l’accélération des mutations environnementales modifient-elles les processus du projet, que ce soit au niveau de l’analyse, de la projetation, du suivi de chantier et la gestion? Quels sont les nouveaux domaines à enseigner, quels partenariats pédagogiques faut-il mettre en place? Comment traiter - et jusqu’à quel degré technique - des questions spécifiques comme le renforcement des trames vertes et bleues, le choix et le déploiement selon les territoires de production d’énergies renouvelables, la protection
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et la gestion de la biodiversité et des ressources naturelles, l’organisation, la gouvernance et la multiplication des transports en commun…? Comment aborder, anticiper et induire la recherche d’une densification et le déploiement d’éco-bâtiments ? Les propositions souhaitées s’efforceront de relier ce type d’interrogations aux limites, évolutions et surtout imbrications théoriques et de projet entre différentes notions - génériques – contiguës à celle de paysage comme environnement, écologie, milieu, climat ... Arts: représentation du paysage et conception spatiale dans un cadre interdisciplinaire : un défi global. Coord. : Olivier Jeudy, Arnaud Laffage, Juan Manuel Palerm On visera ici à questionner la pertinence et l’impact des outils et modes de représentation artistiques comme « procédés » favorisant l’émergence d’une observation créatrice qui prend en compte les multiples qualités des lieux et des territoires. Comment se développent et se transmettent des schèmes de perception et de sensation de l’espace ? En quoi des expérimentations artistiques – et des « œuvres » - peuvent-elles contribuer à enrichir les lectures territoriales et les différents outils d’analyse et d’action comme celui des atlas de paysage ? Quelle importance faut-il accorder aussi aujourd’hui aux interventions artistiques in situ, aux actions participatives, processuelles et contextuelles, dans l’enseignement du paysage ? Les pratiques artistiques contemporaines en milieu urbain et périurbain sont de plus en plus reconnues pour leur capacité à générer des expériences esthétiques partagées suscitant chez les habitants
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des débats sur les transformations possibles des lieux et des territoires. Comment ces expérimentations artistiques « en situation » peuvent-elles également stimuler l'imagination des étudiants au cours de leur cursus de formation? En quoi l’art et plus généralement l’enseignement des arts plastiques, peuvent-ils inciter les apprentis créateurs à concevoir d’autres dynamiques d’espace, à explorer davantage la polysémie intrinsèque des milieux et paysages en prenant conscience de la diversité de leurs approches sensibles ? Comment faire en sorte, finalement, que les territoires de l’art rencontrent d’une manière non anecdotique les territoires des habitants et les multiples « professionnels » du design d’espaces ? Voilà quelques-unes des interrogations destinées à évaluer le rôle de l’art et de ses enseignements comme contribution et enrichissement des espaces de vie. Processus: paysage comme projet : comment enseigner la prise en compte de la perception et de la temporalité dans le processus de planification des territoires. Coord. : Rosa de Marco, Yves Millet, Maria Concetta Zoppi En quoi la prise en compte des différentes formes d’appréhension des territoires peut-elle être source de créativité ? Comment inscrire, dans la pédagogie, la formation à un regard herméneutique des étudiants ? Où situer l’acte créatif dans le processus de projet de paysage ? Plus précisément, comment faire prendre conscience aux étudiants du rôle du temps dans la stratification des terrains, de l’intérêt de sa « lecture » comme source créative et de son
Landscape & Imagination: riflettere insieme
importance pour le devenir - et l’avenir - des projets ? Comment mettre en place cet enseignement et quel doit être l’équilibre entre travail de terrain et enseignements théoriques ? Plus généralement, dans cet axe, les intervenants sont invités à questionner « l’essence » du projet de paysage dans l’enseignement et à s’interroger sur les distinctions, compléments et chevauchements avec le projet urbain et le projet d’architecture. Faut-il conserver cette distinction et si oui, comment l’articuler, notamment entre les départements qui organisent les pédagogies et cursus de formation ? En lien avec la gouvernance, on pourra aussi s’interroger sur la prise en compte de la temporalité et de la perception des paysages par des populations non (encore) inscrites dans le processus de projet et, en conséquence, de la participation de ces dernières dans le processus de planification. Lors de quelles phases projectuelles et de quelles manières cela doit-il s’opérer ? Sciences: identification, connaissance et usage des savoirs dans l’enseignement du paysage Coord. : Saša Dobričic, Bas Pedroli, Catherine Szanto - Xiaoling Fang Quels sont les savoirs pertinents dans l’élaboration de l’enseignement du projet de paysage? Comment prendre en compte les sciences de l’environnement (botanique, hydrologie, géologie, pédologie, écologie, …) et les sciences de l’homme (psychologie, anthropologie, sociologie, histoire, économie…) dans l’élaboration d’une réflexion pratique (de projet) et théorique sur le paysage ? Quelles sont les strates de connaissances
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convoquées par une réflexion et la fabrication des paysages? Quelle place doivent-elles occuper dans un enseignement mettant l’accent sur la durabilité des territoires? Comment les intégrer dans un cursus d’enseignement de projet de façon à ce qu’elles ne soient pas perçues comme frein à l’imagination mais au contraire comme source de créativité? Comment former les étudiants à articuler ce que ces savoirs apportent d’objectivité et de tremplin à l’imagination créatrice, tant individuelle que sociale? Dans une telle optique, quels rôles peuvent jouer les méthodes d’analyse et de représentation informatiques comme outil de projet, de médiation et de communication? Gouvernance: éducation permanente et gestion de la participation. Coord. : Pascal Aubry, Alban Mannisi, Jørgen Primdahl Il s’agira de s’interroger ici sur les manières d’enseigner les différentes formes de participation dans le projet. Au sein du processus de projet participatif, comment la pédagogie doit-elle opérer avec les associations, communautés, groupes sociaux? Quelle peut être, entre autres questions, la part de subjectivité, de création et d’imagination de l’étudiant ou du formateur professionnel? Comment peuvent-ils les mobiliser et les déployer dans les différentes temporalités et étapes du projet? Comment mettre en place des enseignements adaptés à ces perspectives ? Les universités, écoles et départements de « design d’espace » restent-ils les seules institutions propices à cette pédagogie? Dans quelles directions et à quels niveaux d’étude faut-il orienter cette pédagogie et quels exercices et pratiques mettre
tra parole e saggi
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en place? Faut-il, par exemple, faire débuter l’enseignement des processus et de l’exercice de la participation dans les projets de spatialisation et de planification dès la licence ou doit-il plutôt s’adresser à des post-diplômes? Il faudra donc aussi questionner et, si possible, dresser un bilan de la diversité des structures des formations continue et permanente mises en place et, d’avantage, se poser la question de savoir s’il faut créer de nouvelles structures pour préparer étudiants et professionnels qui souhaitent s’orienter ou se réorienter vers des pratiques appelées à jouer un rôle de plus en plus important dans la fabrication de la réalité.
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Si pensi per esempio al Protocollo di Rio sottoscritto da 184 paesi nel 1997 ed entrato in vigore solo nel 2005 e al ritardo denunciato a Durban come a Copenaghen sul conseguimento dei cosiddetti “obiettivi del Millennio” cui il documento programmatico della conferenza faceva esplicito riferimento.
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Paesaggio: strumento di educazione
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Tra parole e saggi
La sindrome del Paesaggista: intervista a Cristina Castel Branco
The landscaper’s syndrome: with Cristina Castel Branco
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interview
Enrico Falqui*
abstract
abstract
La ratifica della Convenzione europea sul Paesaggio (2006) da parte del Consiglio d’Europa, ha reso urgente la definizione e il riconoscimento del ruolo del Paesaggista nei processi di pianificazione del Territorio e di progettazione della Città, attraverso una regolamentazione omogenea in tutti i Paesi europei. Nella presente intervista, una celebre paesaggista portoghese, Cristina Castel Branco, spiega quali siano le cause di questo ritardo nella definizione di uno specifico ruolo del Paesaggista, come figura autonoma da altre che attualmente svolgono tale ruolo senza averne la preparazione culturale scientifica appropriata. Molte delle cause derivano, secondo l’intervistata, dai diversi livelli di formazione universitaria e specialistica che non garantiscono un’efficace integrazione tra cultura umanistica e artistica con una preparazione scientifica e tecnologica.
After the confirmation of European Convention on Landscape (2006), it became strictly urgent to define the role of Landscape Architect and to give an homogeneous acknowledgement of the professional activity in the matters of Territory’s Planning and Town Designing, in every European Country. A famous Portuguese Landscape Architect, Cristina Castel Branco, through this interview, explains which are the causes of such a delay to define a specific role af Landscape Architect as an indipendent and specialist activity from others that actually play the same role not having the proper cultural and scientific education to do so. In the opinion of Cristina Castel Branco, though, the main reasons are concerned about the different levels of education inside the Universities and Master Schools of any countries of Europe, because they can not assure an effective integration between the humanistic and Fine Arts Culture with the scientific and technological Culture.
parole chiave
key-words
Architettura del Paesaggio, Paesaggista, formazione universitaria e professionale, pianificazione del Territorio, Progettazione urbana
Landscape Architecture, landscape designer, university and professional education, Landscape Planning, Urban Design
* Direttore del laboratorio di ricerca in Architettura ed Ecologia del Paesaggio, UO “Paesaggio, Patrimonio Culturale, Progetto, DIDA, Università di Firenze.
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Chi è Cristina Castel Branco Cristina Castel Branco, Direttrice del Dipartimento di Architettura del paesaggio presso l’Istituto Superiore di Agronomia dell’Università di Lisbona, è un architetto paesaggista molto conosciuta in Portogallo per il progetto di restauro del Giardino Botanico Reale di Ajuda presso Belèm, dove, nel 1775 a causa di un terribile terremoto, venne trasferita da Lisbona la Corte Reale e i più importanti Ministeri del governo portoghese. Il progetto di restauro, coordinato da Cristina Castel Branco ha tenuto conto della particolare peculiarietà che questo giardino botanico ha assunto nella strategia planetaria di conservazione, valorizzazione e monitoraggio della biodiversità. Il giardino botanico di Ajuda è, oggi, sede della Banca Mondiale del germoplasma per la conservazione delle risorse genetiche a lungo periodo e di semi di piante endemiche, coltivate attualmente nel giardino. Cristina Castel Branco ha acquisito, negli anni successivi, un ruolo importante a livello europeo, coordinando il Progetto Cultura 2000 in Portogallo, realizzando una straordinaria integrazione di ricerca per la valorizzazione del patrimonio artistico e storico-monumentale diffuso in Portogallo con l’inserimento di tale patrimonio della lista dei patrimoni dell’umanità promossa dall’UNESCO. Intervista a Cristina Castel Branco In Italia, oggi, l’opinione pubblica percepisce in modo diffuso e concreto il degrado ambientale, come anche la recente vicenda dell’ITALSIDER a Taranto ha dimostrato; tuttavia non altrettanto si può dire ancora per il paesaggio che riguarda le
La sindrome del paesaggista: intervista a Cristina Castel Branco
nostre campagne e le nostre città. Gran parte delle Regioni italiane hanno iniziato a redigere Piani Paesaggistici che trovano difficile e concreta applicazione sul territorio e nelle città ma la professione del Paesaggista non è ancora riconosciuta né dalle pubbliche amministrazioni, né dagli Ordini professionali. Franco Zagari recentemente ha affermato che il problema dell’Architetto paesaggista è duplice: “da un lato deve ricreare, nel territorio in cui lavora, una continuità con la forte eredità del nostro Passato, dall’altro, deve avere anche la consapevolezza del luogo in cui vive, in relazione al futuro”. D. Nell’ultima edizione della Biennale del Paesaggio di Barcellona (settembre 2012), hai posto a tutti i partecipanti il quesito se la professione del Paesaggista fosse utile per la società oppure no: puoi spiegarci quale è la risposta che dai a questo quesito? R. Se dovessi dare una risposta immediata a questa domanda, risponderei subito di si; ovvero io ritengo la professione dell’Architetto paesaggista indispensabile per le nostre città e per l’intera società. Del resto, io sono cresciuta in un ambiente familiare favorevole a intraprendere questa professione, poiché mio padre è un Urbanista, mia madre è una pittrice ed ho vissuto tutta la mia adolescenza in una fattoria di campagna. Tuttavia, per rispondere in modo appropriato alla domanda, io penso che bisogna riflettere sulle seguenti quattro fondamentali questioni. Primo, quali prodotti vengono immessi nel mercato Europeo da parte degli Architetti paesaggisti? Secondo, in che modo tali prodotti servono alle necessità della gente? Terzo, fino a che punto
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l’opinione pubblica e gli altri professionisti riconoscono, oggi, le nostre competenze e specificità ed il nostro campo di lavoro? Quarto, in che modo prepariamo i nostri allievi al mercato della professione? Partendo dal primo quesito, possiamo affermare che i “prodotti” che determinano la professione dell’architetto paesaggista oggi, sono rappresentati, in primo luogo, da progetti di giardini privati, golf club houses, parchi e giardini pubblici, e dalla loro gestione e manutenzione. Inoltre, l’architetto paesaggista si occupa di pianificazione urbanistica e paesaggistica, di studi di impatto ambientale e di valutazione paesaggistica, di conservazione del patrimonio storico a livello locale e regionale. La domanda che pongo è la seguente: in che cosa la preparazione professionale dell’architetto paesaggista differisce da altre professioni, ognuna delle quali è in grado di realizzare gli stessi progetti? D. Vuoi dire che, oggi, la preparazione degli studenti nelle diverse Scuole specialistiche di secondo livello delle università europee non fornisce loro quella preparazione e quella competenza professionale “tipica e riconoscibile” di un architetto paesaggista all’altezza dei compiti che gli sono propri, in una società complessa come quella contemporanea? R. Io credo che l’educazione di un architetto paesaggista dovrebbe essere fondata su una conoscenza molto solida dei meccanismi che regolano e fanno evolvere i processi naturali; discipline quali la Geologia, la Botanica, l’Idrologia, la Climatologia e le Scienze agronomiche
Tra parole e saggi
dovrebbero costituire le basi fondamentali della sua preparazione e, al tempo stesso, dovrebbe rafforzare la sua preparazione nel campo del disegno , delle tecniche di rappresentazione e della capacità di sviluppo dei processi progettuali. Infatti, la professione dell’architetto paesaggista è di tipo multidisciplinare e deve saper combinare e sintetizzare il linguaggio di un numero variegato di discipline. E’ in questa “insufficiente” preparazione specifica e specialistica che l’architetto paesaggista viene omologato ad altri professionisti (ingegneri, agronomi, ecologi..) che svolgono e realizzano gli stessi progetti, senza essere riusciti a combinare la propria preparazione nel campo delle discipline storico-artistiche e in quello delle discipline scientifiche e tecniche. La conseguenza di ciò è che quando un committente vuole realizzare un progetto paesaggistico negli spazi aperti, chiama un architetto il quale chiede, nella migliore delle ipotesi, il sostegno di un botanico o di un agronomo per la selezione delle piante e degli alberi, dimenticando, ad esempio qualsiasi accortezza progettuale verso il drenaggio dei suoli e verso i sistemi di irrigazione, o verso le variazioni di esposizione delle piante al sole o ai venti o le variazioni di ombreggiatura durante le giornate e le stagioni. D. Seguendo il tuo ragionamento, dunque, è l’architetto paesaggista stesso ad essere il responsabile della costante riduzione del proprio campo di attività a favore di altri professionisti, la cui preparazione è ancora più inadeguata di quella dell’architetto paesaggista?
R. Proprio così! Ovviamente, vi sono anche altre cause; ad esempio il fatto che il sistema di regolazione della professione a livello europeo non ha mai funzionato, permettendo ad altre professioni di continuare nella “mietitura” dei campi professionali tipici dell’architetto paesaggista. Quando questa “nuova professione” è entrata a far parte del processo di riconoscimento ufficiale, vi è stata una fortissima opposizione da parte degli stessi architetti e delle lobbies degli ingegneri, degli agronomi e dei geografi, che hanno impedito una “definizione chiara” di questo nuovo profilo professionale e quali fossero le responsabilità e i compiti professionali che spettavano, per legge, all’architetto paesaggista. In aggiunta a ciò, dobbiamo considerare che i paradigmi culturali su cui si è fondato lo Sviluppo nel 900, hanno avuto tre orientamenti fondamentali: primo, separare l’insegnamento delle discipline dalla preparazione alle relative specializzazioni, in tutti gli ambiti della conoscenza; secondo, una netta separazione tra il campo di ricerca delle Scienze e della Tecnologie, dal campo delle scienze umanistiche ed artistiche; terzo, la lotta contro la Natura, per asservirla alla domanda del mercato dei consumi e per soddisfare l’individualismo materialista. D. Che cosa impedisce all’Architettura del Paesaggio, all’inizio del XXI secolo, di diventare un punto di riferimento attivo della necessità di un “cambio di paradigma” nella progettazione dello sviluppo per le nostre comunità e nella lunga azione di ri-definizione dell’immagine delle nostre città e di potenziamento degli spazi pubblici e dei luoghi culturali del nostro territorio?
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R. E’ una sfida affascinante che considero possibile ma che richiede una grande determinazione da parte della comunità scientifica e soprattutto da parte dei nostri giovani allievi, cui dobbiamo insegnare che il lavoro dell’architetto paesaggista richiede grande umiltà ed una grande capacità di ascolto e di orientamento, all’interno dei nuovi linguaggi e dei nuovi mezzi di comunicazione di massa. Citando il premio Nobel Roger Sperry, sostenitore della natura duale della Mente Umana, formata da una componente più artistica e una più scientifica, il paesaggista deve essere in grado di utilizzarle entrambe per progettare “nuovi paesaggi” nella società contemporanea. Questo è il “quid” in più che nessun altro professionista, oggi, è capace di fare; questo è il nostro “brand d’autore” che distingue la professione del paesaggista da quella di qualsiasi altro operatore. Se riusciamo a dare questo tipo di preparazione ai nostri allievi, noi siamo consapevoli delle regole e dei limiti della Natura, quindi, possiamo “Progettare con la Natura”, come insegnava uno dei miei maestri nel 1969, Jan Mc Harg e, soprattutto, possiamo vendere, a coloro che formano l’opinione pubblica attraverso i media, i nostri “prodotti” come mirabile sintesi tra Scienza ed Arte. Dobbiamo usare i mezzi di comunicazione di massa per modificare il nostro messaggio professionale all’opinione pubblica, dicendo che “noi paesaggisti sappiamo come trasformare il paesaggio senza distruggerlo.” D. E il mondo accademico e della ricerca che contributo può dare in questa stessa direzione, per
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modificare il messaggio di comunicazione del “ruolo” del paesaggista verso l’opinione pubblica? R. Penso che possa fare molto, a partire da cercare di utilizzare il nuovo sistema di insegnamento “Bologna”, invitando a parteciparvi anche altre professioni e rimodulando il sistema di insegnamento in funzione della creazione di una vera e propria “specializzazione” in Paesaggistica che sia inclusa per completare altri sistemi formativi di tipo universitario, quali ad esempio quelli in Geografia e in Scienze Forestali, in Architettura e Ingegneria ambientale, mantenendo ferma la nostra impostazione specifica che ci distingue da tutte le altre professioni, ovvero quelli che possiedono una formazione ibrida nel campo delle Scienze e delle Arti. Infine, penso che proprio a partire dalla ratifica della nuova Convenzione Europea per il Paesaggio (2006), dovremmo rendere chiaro alle Autorità di Bruxelles che è venuto il tempo di difendere, valorizzare e migliorare tutti i paesaggi europei, in concreto. Questo obiettivo richiede, al contempo, la capacità di varare politiche di medio-lungo periodo, da parte degli Stati membri dell’UE, nelle quali lo sviluppo del territorio e delle nostre comunità sia declinato con un’attenzione “centrale” al paesaggio. Per farlo, però, abbiamo bisogno di rinnovare le pratiche di insegnamento superiore e della ricerca universitaria, in modo tale che la formazione specialistica nel campo della pianificazione e progettazione del paesaggio dei nostri studenti sia in grado di dare vita ad una “specifica e riconosciuta” professione dell’architetto paesaggista, la cui specificità risiede in una competenza professionale multidisciplinare capace di svolgere ruoli di responsabilità non solo nel campo professionistico ma anche nel campo delle
La sindrome del paesaggista: intervista a Cristina Castel Branco
politiche della Pubblica Amministrazione, a cominciare dai settori pubblici che si occupano di pianificazione urbanistica e di programmazione regionale dello sviluppo.
Testo acquisito dalla redazione nel mese di ottobre 2013. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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Le impronte del paesaggio sonoro: un’opportunità per la didattica della storia e della geografia
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The footprint of the sounds of landscape: an opportunity for the history and geography teaching
Lorena Rocca * abstract
abstract
Il contributo intende delineare le prime riflessioni nate all’interno di un gruppo interdisciplinare di ricerca che vede musicologi, musicisti, geografi, storici e pedagogisti ricercare percorsi teorici e prassi comuni di avvicinamento ai paesaggi sonori: «Dobbiamo rendere l’orecchio sensibile al meraviglioso mondo di suoni che ci circonda» è la prima sfida che il gruppo ha colto a partire dalla definizione di “paesaggio sonoro” di R.M Schäfer (1977). Ogni paesaggio ha infatti suoni peculiari e inconfondibili. Questi lo sono nella misura e secondo la modalità percettiva dei singoli e dei gruppi. Una sorta di “impronte sonore” che connotano una cultura e che contribuiscono, al pari delle altre manifestazioni umane, alla creazione dell’identità locale. Dare voce a tali percezioni significa innescare percorsi di riflessione e di educazione all’ascolto in grado di amplificare un canale sensoriale che la cultura occidentale oggi tende sempre più ad emarginare.
The essay aims to the outline the first thoughts flourished within an interdisciplinary research group of musicologists, musicians, historians and education experts, who are inquiring in both theoretical and practical ways to approach resonant landscapes: «The ear has to be sensitive to the marvellous world of sounds surrounding us» has been the first challenge faced by the group, starting from the first definition of “resonant landscape” by R.M. Schäfer (1977). Every landscape has its peculiar and unique sounds. They are determined by the perceptive ways, used by the individuals and the groups of people, as “resonant imprinting” able to connote a type of culture, able to contribute, together with other human expressions, to create the local identity. giving voice to these perceptions means to trigger paths of reflection and of listening education allowing to amplify a sensory channel that tends to be more and more neglected by the western culture.
parole chiave Paesaggio sonoro – geografia – musica – didattica *
Sezione di Geografia del Dipartimento di Scienze Storiche geografiche e dell’Antichità, Università di Padova e Dipartimento di Formazione e Apprendimento, Università Professionale della Svizzera Italiana, Locarno.
key-words Resonant landscape – geography – music – didactics .
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Introduzione: i luoghi sonori «Se lo ascoltiamo il paesaggio non è una topografia statica che può essere disegnata e trasposta su una mappa, ma piuttosto una superficie fluida e cangiante che si trasforma via via che viene avvolta da suoni diversi» (Les Back e Michael Bull, 2008). Analizzando questa affermazione lo spostamento dalla vista, caratterizzante oggi la cultura occidentale, ai suoni e rumori è chiaro; una vera sfida colta da Schäfer nella seconda metà del secolo scorso. Con la sua opera “The tuning of the word” pubblicato in Italia nel 1985 con il titolo di “Il Paesaggio sonoro” l’Autore lo definisce “quale insieme di tutti gli eventi sonori che convivono in un determinato ambiente e sono percepiti da un soggetto o da un gruppo umano. […] Paesaggio sonoro può essere una composizione musicale, un programma radio o un ambiente acustico» (Schäfer, 1985, p. 19). «Tutti i suoni possono oggi entrare a far parte del territorio, del dominio della musica. Ecco la nuova orchestra: l’universo sonoro! Ed ecco i suoi nuovi musicisti: chiunque e qualsiasi cosa sappiano emettere un suono» (Schäfer, 1985, p. 16). Schäfer propone quindi la declinazione in senso acustico di quello che la cultura occidentale riconosce come elemento fondamentale: la vista. Malatesta a questo proposito afferma che «solo la consapevolezza della necessità di una percezione pluri-sensoriale ci rende in grado di perfezionare la descrizione della realtà arricchendola di eventi sonori» (Malatesta, 2006, p.25). Rispetto al senso dell’udito, se ci pensiamo, questo ha un raggio di azione molto più ampio della vista (360°) ma la messa a fuoco è molto difficile, azione che invece è immediata per la vista (Lucchetti, 2012). Inoltre questo non può essere chiuso a piacere ma viene
Le impronte del paesaggio sonoro: un’opportunità per la didattica della storia e della geografia
costantemente stimolato a vari livelli1. In particolare, nel suo studio Schäfer (1985) ne individua tre: 1- Tonico: ovvero i suoni preponderanti dell’ambiente e/o del clima che diventano abitudini uditive (si pensi alle aree lambite dal mare). 2- Segnale: quali avvertimenti acustici anche codificati (campane, fischi, clacson…). 3- impronte sonore: i suoni comunitari, con caratteristiche di unicità tali da dover essere preservati come valori sociali. a. In merito alle toniche, Schäfer evidenzia che «la definizione dello spazio mediante mezzi acustici è molto più antica della sua definizione mediante confini e steccati» (Schäfer, 1985, p. 67). Nelle società di un tempo infatti i suoni del mare, del vento, degli animali hanno caratterizzato le prime forme di linguaggio e di comunicazione. b. Con il passaggio alle società rurali Schäfer differenzia i suoni in “Hi-Fi” (alta definizione) e in “Lo-FI” (bassa definizione). Nei primi è possibile udire con chiarezza i singoli suoni, e distinguerli «esiste una prospettiva, un primo piano, uno sfondo», nei secondi, i singoli segnali acustici si perdono in un generico rumore a banda larga ‘e i suoni più ordinari devono essere amplificati per essere uditi’ (Schäfer, 1985, p. 67). I segnali quindi sono così numerosi che vi è una mancanza di chiarezza, un effetto di mascheramento. Il mondo è quindi un’immensa composizione musicale (Schäfer, 1885) fatta di toniche di sfondo, di segnali strutturati in codici riconoscibili, di impronte sonore identificate (e protette) da una singola comunità. La presenza del suono quindi «sia essa di background, accompagnamento o
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focus dell’azione, colonizza fisicamente l’ambiente e ne definisce i tratti, le soglie, i confini» (Midolo, 2007, p.11). Questa definizione si avvicina a quella di P. Amphoux che considera il paesaggio sonoro come l’esito della fusione tra l’ambiente naturale e l’attore sociale. Parafrasando A. Turco (1988) è la forma territoriale dell’azione sociale fortemente connotato dagli elementi culturali. L’azione sonora dell’uomo sulle tracce della natura trasforma infatti lo spazio (la materialità prima) in territorio sonoro quale «insieme delle relazioni che una società (e perciò gli individui che ne fanno parte) intrattiene con l’esteriorità e l’alterità, per soddisfare i suoi bisogni nella prospettiva di ottenere la maggior autonomia possibile, tenendo conto delle risorse del sistema» (Raffestin, 1981). Per chiarire il concetto immaginiamo un gruppo umano “deposto” in uno spazio nel quale, per vivere, crescere ed evolversi, deve esercitare un continuo lavoro di trasformazione. Attraverso questo processo lo spazio acquista valore antropologico, viene trasformato da campo dei possibili ad ambito concreto di azione (territorio), espressione della società vista come insieme di individui coinvolti in un progetto comune. Secondo la lezione di Turco (1988) le azioni di trasformazione toccano tre direttrici: la prima cognitiva e simbolica con la denominazione; la seconda pratica e materiale con la reificazione; la terza ed ultima pone al centro le strutture territoriali e l’organizzazione presente nel territorio. Attraverso tali azioni, lo spazio acquista valore antropologico e il territorio diviene momento di espressione e identificazione della società. Con la denominazione, la reificazione e la strutturazione, la geografia quindi si dota di nuovi elementi che prima non esistevano, di costrutti che generano relazioni inedite e realizzano finalità specifiche.
tra parole e saggi
Ognuna di queste azioni ha un forte impatto sonoro. In primis la denominazione, attraverso etichette vocali, risponde alla necessità di dominare cognitivamente lo spazio, consente di non perdersi di ritrovarsi. L’ascolto di questi designatori e la loro successiva interpretazione attraverso un’adeguata contestualizzazione, permette di entrare nelle pieghe del tessuto territoriale. Sono le prime “impronte sonore” che denotano (attraverso i designatori referenziali, Turco, 1988) e connotano (con i designatori simbolici e performativi, Turco, 1988) il territorio. La denominazione quindi compatta l’informazione secondo strategie cognitive, è un “contenitore” di informazioni prodotto dalla società in base alla sua storia, alla sua organizzazione, al progetto che coltiva. Inoltre consente l'elaborazione di notizie e permette la trasmissione di informazioni di ieri e di oggi. La necessità di controllare la realtà attraverso un controllo pratico, porta l’uomo alla costruzione intenzionale di opere (la reificazione di A. Turco, 1988). Questi oggetti trasformano continuamente la realtà ed hanno la caratteristica di essere visibili (Calandra, 2007). A tale visibilità si aggiunge un'altra caratteristica: la sonorità che l’uomo percepisce in modo fluttuante, di solito mentre si trova immerso nel paesaggio, a partire da un atto che manca di un'intenzionalità, ma a cui nessuno può sfuggire (Roulier, 2013). Il suono è infatti pervasivo e occupa ogni spazio (anche il silenzio, assenza di suono ha del resto qualità sonore) (Barra e Carlo, 2009). Il carattere globale e integrato della percezione che noi abbiamo dell’esito del “fare” dell’uomo sul territorio non è solo frutto di un “qui” e un “ora”
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(quello che percepisco in modo sincronico) ma fa i conti con una continua stratificazione territoriale esito delle azioni che si perpetuano nel tempo da parte di gruppi sociali con logiche spesso non sempre convergenti. Nel paesaggio sonoro “Lo-Fi” si intrecciano suoni e rumori che ci parlano di artefatti di un tempo, che nascondono logiche territoriali diverse, che racchiudo una progettualità ed un’organizzazione non visibile ora ma certamente udibile in questo momento. Queste per P. Amphoux(1997) sono le caratteristiche del tipico paesaggio sonoro urbano che portano Böhme (2000) ad affermare che la sensazione di Heimat (il territorio di appartenenza) è trasmessa essenzialmente dal sound di un’area. In particolare Barry Truax (2001), compositore canadese, partendo dagli studi sul paesaggio sonoro, introduce la soundscape composition (letteralmente "composizione di paesaggi sonori") quale tecnica compositiva che pone come intento la ri-costruzione di un paesaggio acustico in cui il compositore diventa parte attiva. Il presupposto è che il paesaggio sonoro prende vita quando consapevolmente qualcuno presta attenzione all’esito delle azioni dell’uomo sulla natura, ponendo quindi in allerta le personali sensazioni uditive. Soundscape composition Dalla mappatura sonora alla ri-mappatura compositiva Di Paolo Zavagna, Docente di Musica Elettronica, Conservatorio Statale B. Marcello di Venezia. Mappare una città o un territorio da una prospettiva sonora è ormai entrato nella pratica di molti studiosi di acustica, musicisti, studiosi del paesaggio, scultori sonori. L’attenzione al senso dell’udito che, dopo millenni di predominio dell’immagine, sta riconquistando il suo spazio, ne è la dimostrazione. Le diverse esperienze presenti sul web di siti dedicati ai suoni delle città o comunque del territorio ne sono una testimonianza evidente. Molti di essi hanno anche il preciso intento di fornire materiali utili ad una pratica che si è diffusa in maniera consapevole a partire dalla fine degli anni sessanta: la soundscape composition. L’utilizzo dei suoni legati al paesaggio sonoro a fini musicali è azione comune fin dalla nascita della musica elettronica alla fine degli anni Quaranta e ne costituisce un filone tuttora molto vivo. Oggi la ricerca che si vuole sviluppare in questo ambito - sia geografico sia musicale- ricolloca i suoni, provenienti da un ‘gesto’ preciso e indissolubilmente legati a tempo e spazio della registrazione sonora, in un nuovo spazio a sua volta in relazione con il ‘gesto’ esecutivo e compositivo di un gruppo di musicisti che manipolano dal vivo, spazializzandoli ed elaborandoli elettroacusticamente, i suoni “concreti” del territorio.
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Queste semplici osservazioni che riportano al centro il sound di un luogo delineano delle implicazioni anche per gli urbanisti: chi progetta oggi non deve preoccuparsi solo della riduzione del rumore e della protezione contro di esso, ma deve anche preoccuparsi del carattere dell’atmosfera acustica di piazze, zone pedonali e intere città. F. Augoyard (1993) a tale proposito individua due approcci in merito all’ambiente acustico: quello delle scienze "dure" che hanno concentrato i loro sforzi in materia di rumore nella ricerca di limitarlo, e quello delle scienze umanistiche che propongono di ampliare la conoscenza del mondo dei suoni e dei rumori2. Questa attenzione fa i conti con la performatività della musica quale potente motore di creazione dei luoghi. Smith in “Performing the (sound)world” (2000) evidenzia come si accede al mondo sonoro anche attraverso la fisicità che ha in sé il fare e l’ascoltare musica. Prendono quindi vita spazi politici, economici ed emotivi realizzati tramite pratiche di performance (e ascolto) musicale. Ma se la musica è frutto di un dove e quando, è anche vero il contrario, ossia che il dove e quando subisce l'influenza della musica. Giacinto Scelsi (2001) pensava che la musica si potesse suonare una sola volta poiché quel luogo l'avrebbe portata con sé all'infinito e in qualche modo trasmessa ad altri. In questo rovesciamento di prospettiva (dai fatti geografici al loro senso) viene in aiuto l'impostazione fenomenologica di Dardel (1986) che, nel definire i luoghi li vede come spazi che vengono continuamente modificati dalle nostre azioni e il nostro vivere in essi dà vita ad una danza corporea che crea luoghi (e paesaggi) a nostra insaputa. Anche la musica nel suo agire attraverso l'autore e l'interprete prima e l’ascoltatore poi - crea nuovi paesaggi.
Le impronte del paesaggio sonoro: un’opportunità per la didattica della storia e della geografia
I linguaggi della geografia umanistica per unire la storia alla geografia attraverso la musica Dardel (1986) evidenzia il forte legame esistente tra l’oggettività dei territori e la soggettività umana. Il luogo ad esempio non è un costrutto sociale ma fa parte della natura umana. Per cogliere questa direttrice è necessario munirsi di strumenti in grado di amplificare le voci intrappolate nei luoghi. I più abili amplificatori sono da sempre gli Artisti. Musicisti, scrittori, pittori sanno entrare nelle pieghe del territorio, ne intercettano i sapori, i rumori, le usanze non scritte di ieri e di oggi… sono coloro che, con sguardo attento, colgono aspetti della storia e della geografia dei luoghi ad altri sconosciuti. Come osserva Lando (2005), il territorio non rappresenta solo la terra su cui si poggiano i piedi, il contesto in cui si svolge la nostra esperienza, lo sfondo delle nostre azioni, la base per la realizzazione di una qualsiasi pratica territoriale, ma è l’elemento di riferimento per le radici culturali e per il valore, il senso ed il significato attribuiti ad esso dalle pratiche culturali del singolo o del gruppo. Questo porta ad un’identificazione societàterritorio, uomo-luogo, che definisce un’appartenenza, un preciso legame biunivoco, che deriva esclusivamente da un processo di fissazione culturale. Mutuando l’approccio che Lando (2007) ha utilizzato per sondare il rapporto tra letteratura e geografia si può affermare che, attraverso un brano musicale, è possibile cogliere il «senso del luogo» (Lando, 2005 b). Questo indicatore, che avvicina la geografia alle espressioni artistiche e alla storia, si rifà all’idea che chi è attaccato ai luoghi non solo rende più vive le qualità oggettive
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dei paesaggi ma contribuisce a definire il significato, lo spirito, il senso del luogo. In genere cioè noi siamo legati ad un luogo attraverso il nostro profondo bisogno psicologico di sicurezza, stabilità, appartenenza: essere spiazzati, fuori luogo, privi di luogo, senza radici è una condizione negativa, del tutto innaturale, spesso insostenibile. Un luogo può incutere timore (una stanza buia in cui l’assenza di dettagli visivi dà, alla mente, la possibilità di costruire immagini paurose in situazioni altrettanto scabrose), soggezione (la maestosità di certi fenomeni naturali, di alcuni luoghi sacri o di particolari opere d’arte che ci appaiono come manifestazioni di qualcosa di sublime, di durevole che esiste di per sé e che trascende la vita), oppure può generare affezione e piacere nello stesso modo in cui si può affermare che siamo affezionati e tranquillizzati dalle cose quotidiane. Così ad ogni luogo, attraverso una complessità di legami emotivi, associamo uno spirito e una personalità. [...]. Nella musica questo traspare: l’Autore prima -e l’interprete poi - che sente con forza l’attaccamento ai luoghi ha la capacità di eccitare, convincere, stimolare o semplicemente trasmettere informazioni. In questo modo, attraverso la musica, accresce l’attrattiva dei luoghi facendoli apparire desiderabili sia semplicemente per come sono, sia per i messaggi e le emozioni che ci trasmettono oppure, e questo è molto più importante, per i significati e simboli racchiusi in esso (Lando 2005). Per quanto attiene il radicamento e le radici culturali (secondo indicatore) si evidenzia che la musica, attraverso il suo Autore e il suo interprete, testimonia il profondo intreccio ad un determinato luogo una precisa appartenenza, un definito legame biunivoco tra abitanti e territorio, che
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deriva esclusivamente da un processo di fissazione culturale. La musica non presenta la freddezza e l’asetticità della descrizione scientifica e, per questo, permette l’esplorazione di Terrae Incognitae dello spirito e dell’immaginazione. I brani, attraverso gli autori e i loro interpreti, sono cioè capaci di esprimere, attraverso la loro soggettività, situazioni interiorizzate, personali e vissute, mostrando così una notevole attitudine al ricordo e all’evocazione di esperienze territoriali di oggi e di un tempo (Lando 2003). I luoghi e tempi della musica… Il cronotopo un connettore3? Riprendendo le dimensioni del tempo e dello spazio racchiuse nei paesaggio sonori, si evidenzia che la musica può essere concepita quale cronotopo che ha in sé la dimensione del tempo e dello spazio. Il termine cronotopo nasce nell’ambito delle scienze fisiche –relatività einsteiniana – e sta ad indicare l’interpretazione dei sistemi di riferimento in maniera quadridimensionale, ovvero tre dimensioni relative allo spazio (lunghezza, larghezza e profondità) ed una rispetto al tempo. È con VernadskiJ (1999) che spazio e tempo non sono più letti su un piano astratto, ma in base all’osservazione diretta e fisica - sperimentale dei fenomeni. Per l’Autore infatti spazio e tempo non sono categorie esterne e assolute (in senso kantiano) ma rientrano tra le proprietà degli organismi viventi che non vivono semplicemente nello spazio, ma, appunto, in uno spazio-tempo, in un cronotopo.
Il concetto di cronotopo della fisica viene poi preso in prestito ed adattato in altri campi come ad esempio quello della letteratura e dell'arte. In particolare Michail Bachtin (1975), lo ha definito come il rapporto tra le coordinate temporali e spaziali che danno forma ad un testo letterario. In questo contesto il cronotopo è un’organizzazione testuale in cui convergono le sequenze principali di tempo e spazio di un’opera artistica e che funge da matrice per la creazione di dialoghi, incontri, avvenimenti dove vengono rivelati idee e passioni dei protagonisti. L’idea alla base del cronotopo bachtiniano è che le dimensioni spazio-temporali di un’opera letteraria sono inseparabili ed in esse è possibile racchiudere le polarità “mondo proprio/ mondo altrui” […]. La dimensione dialogica è centrale (il riferimento alla teoria del linguaggio di Vygotskij (2007) è esplicito) avviene in uno spaziotempo ed assume i tratti di un evento, il quale si salda alla nozione di responsabilità dell’atto (conoscitivo, etico, estetico). Bachtin (1975) ancora afferma che: l’uomo che costruisce il sapere e l’uomo partecipe della storia sono una cosa sola. La nostra conoscenza del cronotopo è un prodotto diretto della realtà concreta. La nozione di cronotopo quindi, così com’è intesa da Bachtin4, è strettamente collegata alla filosofia dell’atto responsabile e si basa su un principio dialogico binario (io-tu) quindi diretto in cui si esplica tutta l’espressione di sé rinunciando all’interpretazione di un’istanza superiore e condivisa. In urbanistica il cronotopo viene inteso come un'area individuata da funzioni calendarizzate (Hutchinson e Batty, 1986). Ad esempio la funzione “istruzione primaria” che ha luogo dalle 8.00 alle 16.00 si concretizza nell'edificio scolastico o la
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funzione “trasporto pubblico” che si concretizza lungo una tal via dalle 7.00 alle 23.00. […] In campo geografico il termine cronotopo viene utilizzato da Marina Bertoncin (2004) ed è inteso quale “oggetto territoriale” che “condensa un certo tempo e un certo luogo e cristallizza energia e informazione”. In quanto oggetti territoriali, i cronotopi sono «legati a pratiche reificatorie, esiti di processi di strutturazione e [...] proiezioni di pratiche denominative». Ognuno di questi può essere utilizzato come “organizzatore problemico” per la storia e la geografia, come oggetto a cui porre degli interrogativi al fine di indagarne la stratificazione, per coglierne la lettura denotativa (dove si trova, cos’è, come appare) e quella connotativa (le territorialità di cui è segno e il ruolo che riveste nell’analisi). Nella ricostruzione delle dinamiche che hanno portato alla creazione di un certo oggetto, rilevanti e spesso trascurate sono le attorialità sociali e territoriali, in quanto forze che agiscono in un certo modo in un determinato momento. Solo portando alla luce queste dinamiche l’oggetto territoriale torna ad essere non un dato ma una possibilità, esattamente com’era prima di essere realizzato: detto altrimenti, risulta essere una scelta antropica rispetto all’uso delle risorse presenti. In questo contesto i meccanismi narrativi diventano strumenti attraverso cui prende forma il processo di organizzazione e attribuzione di senso dell’esperienza individuale passata. Mutuando il pensiero di Bachtin (1975) il dialogo nella sua forma binaria richiama la responsabilità del soggetto che, inserito in uno spazio e in un tempo, diventa attore protagonista di cambiamento. Rispetto alla modalità di individuazione dei cronotopi si intravvedono due possibilità:
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1. una lettura orizzontale in cui si ricercano su un territorio, anche di vaste proporzioni, artefatti appartenenti allo stesso contesto; 2. una lettura verticale volta a realizzare una sorta di “transetto storico-geografico” in cui l’attenzione è centrata sulla stratificazione degli artefatti in una porzione di territorio. Nella lettura orizzontale è il tempo ad essere circoscritto (attraverso la definizione del quadro storico), in quella verticale è lo spazio (nella precisazione della struttura territoriale). In entrambi gli approcci il metodo proposto deve però partire dall’indagine di campo, dall’emozione della scoperta, dai suoni e dai rumori presenti sul territorio che dà valore a quel cronotopo e a quelli ad esso connessi. In questo approccio l’attore è strategico e il suo racconto fondamentale per capire i rapporti di potere che sono sottesi all’organizzazione del territorio di oggi e di ieri. Dalla teoria alla pratica didattica: l’incontro con i cronotopi Per riuscire a cogliere il senso geografico storico dei cronotopi è necessario avvicinarsi ad essi cogliendone gli elementi denotativi ma anche connotativi. Dal punto di vista della pratica didattica, si tratta quindi di scegliere un cronotopo e di “decostruirlo/ricostruirlo” mettendo in luce le dinamiche e le attorialità che stanno alla sua origine: evidentemente, più l’oggetto è legato alla realtà degli studenti più si potranno mobilizzare le conoscenze pregresse possedute riguardo all’argomento – dai racconti paesani ai contenuti studiati in varie discipline – al fine di arrivare ad
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una lettura nuova e consapevole di alcuni elementi del proprio territorio. Questo tipo di ricostruzione evidenzia come i cronotopi (che possono essere oggetti territoriali ma anche i documenti, le fonti, la letteratura, l’arte, la musica ecc.) possono produrre senso solo a partire dalle domande che vengono poste loro. È questa una maniera di sottolineare che le discipline – e la geografia in maniera del tutto particolare – sono saperi in costruzione e concorrono a sviluppare negli alunni un “atteggiamento razionale, creativo, progettuale e critico, di fronte alle situazioni, ai fenomeni e ai problemi”. Alcune linee tra ricerca a didattica5 Uno studio esplorativo ha evidenziato alcune criticità relative all’apprendimento-insegnamento della geografia e della storia (Rocca, 2011). In particolare si è rilevato che: a) i fenomeni storici e gli elementi geografici vengono spesso visti come fatti oggettivi da recepire passivamente e da memorizzare, e non come parte di un processo attivo di interpretazione della realtà; b) la circolarità dei programmi (veicolata dai libri di testo) punta l’attenzione verso “una sola” geografia, spesso ricondotta unicamente alle descrizioni fisiche, politiche ed economico-sociali del territorio; c) la visione limitata delle potenzialità della geografia è spesso conseguenza del fraintendimento del lessico di base (ad es. uso di “spazio”, “territorio”, “ambiente”, “luogo”, “paesaggio”, come sinonimi); d) vi è una notevole difficoltà ad analizzare un “fatto” in modo multiscalare, sia nella dimensione diacronica che sincronica; e) altro elemento deficitario è l’impiego delle carte mentali quale quadro di riferimento
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opportuno per comprendere i processi che si sono succeduti nel tempo e contestualizzare l’apprendimento; f) il contatto con il territorio è assolutamente insufficiente e finisce per trasformare la storia e la geografia in discipline puramente astratte in cui non è prevista una didattica sul campo, quando invece il territorio circostante è “luogo” privilegiato di una didattica laboratoriale; g) appare frammentario e non coerentemente progettato l’utilizzo della varietà dei linguaggi geo-grafici, funzionali allo sviluppo delle “intelligenze multiple” teorizzate da Gardner; h) di conseguenza anche l’uso dei mediatori didattici (film, narrativa, multimedialità, musica ecc. …) è modesto e mal progettato. A partire da quest’ultima criticità si è focalizzata l’attenzione su un linguaggio: quello musicale. Nell’ottica della sperimentazione in vista della definizione di un curricolo verticale, sono stati coinvolti: musicisti esperti di didattica strumentale afferenti al Liceo Musicale C. Marchesi di Padova (ed in particolare i professori Stefano Alessandretti, Andrea Dainese, Alessandro Fagiuoli, Piergiorgio Simoni); studiosi del paesaggio sonoro (Roberto Gonella, Paolo Zavagna, Docente di Musica elettronica presso il Conservatorio Statale di Musica B. Marcello di Venezia); le insegnanti della scuola dell’Infanzia “Vittorino da Feltre” di Padova (Marina Bedin, Patrizia Cricco e l’insegnante di musica Federica Bressan); le docenti di geografia delle cinque prime classi della Scuola Secondaria di Primo Grado “Vivaldi” di Padova (Stefania Ponchia e Federica Zin); geografi quali: Stefano Malatesta, Enrico Squarcina (Università Milano Bicocca) e Benedetta Castiglioni (Università di Padova); pedagogisti (Alessio Surian, Università di Padova e Anna Galssetti, Dipartimento Formazione e
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Apprendimento della Scuola Universitaria Professionale della Svizzera italiana). Ricordo anche l’apporto fondamentale di Clio ’92 (l’associazione di insegnanti e ricercatori sulla didattica della storia) e dell’Associazione Italiana Insegnanti di Geografia. L’approccio di ricerca adottato è quello "collaborativo mutuato". Rispetto alla ricerca "classica" questa metodologia si basa sulla condivisione delle esperienze, sull’individuazione delle migliori pratiche di dialogo e sull’aiuto reciproco nell’affrontare i problemi "sentiti" come emergenti. In tal senso il gruppo di ricerca diviene comunità di pratiche in cui vi è una netta contaminazione tra aspetti espliciti e taciti, di sapere e fare, di pensieri ed azioni. I prodotti sono il risultato di abilità individuali, ma soprattutto di gruppo, che passano anche attraverso le emozioni, la competizione, le delusioni e i successi. Il gruppo, quindi, nel rispetto di tale approccio ed ispirato al modello dell’apprendimento esperienziale di Kolb (proposto in Pantano, 2013) ha progettato quattro percorsi - di cui due attuati in quest’anno scolastico e due di prossima attuazione- a partire dai medesimi traguardi di competenza6. Conclusioni Riprendendo il filo rosso della riflessione teorica, la musica si pone quindi come linguaggio della geograficità in grado, da un lato, di dare voce al rapporto tra uomo e territorio dall’altro di amplificare le percezioni e le sensazioni ad esso correlato. Riportare l’orecchio al centro delle attenzioni educative in una didattica rivolta alla storia e alla geografia dei luoghi consente di
avvinarsi “allertati percettivamente” ai luoghi stessi ed al significato che questi rivestono per ciascuno di noi. Allertando con la musica il soggetto, l’attenzione si sposta ai processi mentali che mettono in moto tutte quelle abilità cognitive che permettono all’uomo di acquisire le informazioni provenienti dall’ambiente per trasformarle in un’immagine mentale. Offrire strumenti multipli per favorire la costruzione di tali immagini mentali di rappresentazioni organizzate e personali ad esse collegate consente all’insegnante, da un lato, di offrire linguaggi molteplici in grado di avvicinarsi alle caratteristiche individuali dei bambini, dall’altro di dare modo di amplificare le personali percezioni. Queste non sono giuste o sbagliate, ma riflettono il mondo come la persona crede esso sia. Il collegamento è fondamentale e ne emerge l’utilità didattica: noi agiamo nell’ambiente in base a come lo percepiamo ma anche apprendiamo dall’ambiente mentre lo sentiamo e quello che abbiamo appreso influenzerà poi ciò che vediamo e sentiamo. Questa processualità circolare, messa al centro della didattica, offre agli insegnanti e ai bambini dei validi strumenti in grado di favorire la capacità di adattarsi alle circostanze e di sfruttare le esperienze passate. Inoltre non esiste un ambiente “oggettivo esterno” ma tanti “ambienti di comportamento” quanti sono i gruppi o le categorie di persone che agiscono; non è importante dunque l’ambiente sociale o quello fisico ma ciò che conta è l’immagine anche sonora che di essi si fa l’individuo o il gruppo. In quest’ottica l’insegnamento della geografia diviene la sintesi tra la cultura della società e la cultura presente sul territorio nel costante rapporto di valorizzazione/riconoscimento/preservazione e sviluppo.
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Sul piano metodologico oltre a saper rappresentare un territorio, diventa essenziale la sua interpretazione a partire dalla rilevazione empirica delle personali percezioni che consentono di dar voce alle “espressioni umane”, a quella combinazione di processi mentali e materiali che danno un valore fondativo all’identità culturale. In tal senso la musica può molto perché, attraverso l’esecuzione, rende il soggetto protagonista nella costruzione di luoghi sonori. Dal punto di vista educativo e metodologico, il paradigma attualmente condiviso dalla comunità scientifica considera la conoscenza come un prodotto storicamente, temporalmente, culturalmente costruito. Allo stesso modo, la conoscenza non è da interpretare come un contenuto insindacabile, oggetto di mera trasmissione, ma dominio in continua evoluzione negoziato e condiviso all’interno di una “comunità di pratiche”. Il salto paradigmatico è racchiuso proprio nella dimensione sociale. In tale contesto l’insegnante si trova a svolgere il ruolo di “mediatore culturale” tra gli artefatti concettuali prodotti all’interno della comunità (Varisco, 2002) e facilita le relazioni attraverso la comunicazione. La zona di convergenza tra le discipline (geografia, musica e storia) e il quadro educativo del costruttivismo socio-culturale vede lo sviluppo di una prassi didattica centrata sulla valorizzazione delle percezioni del singolo, sulla negoziazione delle percezioni individuali per arrivare ad interventi di cambiamento sul territorio. L’azione è basata sull’interazione e sul dialogo i cui tratti possono essere così riassunti: 1. la relazione è centrale e promuove dialogo cognitivo (dialogo inter-personale) e riflessione metacognitiva (intra-personale) che sviluppa co-
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scienza e consapevolezza delle personali percezioni sull’ambiente; 2. il linguaggio, da sempre alla base delle relazioni, diviene performance collettiva, realtà sociale costruita attraverso argomentazioni intersoggettive degli attori coinvolti. Come ben evidenzia Lévy (1996) il senso è costruito come risultato finale del confronto e della negoziazione di molteplici punti di vista; 3. l’importanza delle opinioni è centrale (story telling), considerate quali veicoli della memoria di una comunità con una metodologia di analisi quasi esclusivamente qualitativa (osservativa, narrativa ecc...). Così l’attività è vista quale “sistema strutturato”, con forma essenzialmente pratica, composta da azioni intenzionali, realizzate da operazioni che si associano sempre ad un determinato contesto. Inter-psichico e intrapsichico (co-scienza) si incontrano proprio sul piano dell’azione che realizza e produce artefatti culturali (Leont’ev, 1977). 4. la centralità della comunità, sia essa locale o di apprendimento, è fondamentale ed è da intendersi quale sistema multi-attoriale di per sé eterogeneo in cui vi è una condivisione di obiettivi. Tale approccio si costituisce quale nuovo metodo caratterizzante l’insegnamento della geografia in cui il ruolo dell’insegnante esperto dovrà essere quello di scaffolding cognitivo, metacognitivo ed affettivo, e di modellatore delle idee che mette in crisi quelle ingenue. Rispetto al “perché insegnare geografia e storia con la musica” l’idea è che la centralità dell’apprendente e la costruzione attiva delle competenze attraverso il fare, consente di affinare lo sguardo sui luoghi/paesaggi/territori per comprenderli nel profondo, far maturare l’attitudine al bello, sviluppare sentimenti di adozione e di
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presa in carico dei beni presenti, promuovere altri atti in grado di favorire la crescita ed uno sviluppo locale sostenibile. Declinando il pensiero dal visivo all’uditivo, come osserva Bertoncin (2001), si vedono (si sentono) solo i problemi che si è in grado di vedere (o di sentire) e si trattano quelle questioni per cui si sono elaborate strategie (di ascolto) per poterle affrontare. Nessun problema, quindi, esiste in sé ma solo quando ci si dota di strumenti di ascolto. Arricchire questi punti di osservazione, esercitare l’orecchio significa dare espressione alle percezioni, affinare le competenze di rappresentazione dei fenomeni, permette di formare cittadini di domani più consapevoli e geograficamente preparati a leggere le caratteristiche del suolo su cui camminano, formati ad elaborare strategie di comprensione dell’attuale organizzazione territoriale, in grado di cogliere sfumature e peculiarità di ogni paesaggio, capaci di interrogarsi sui fenomeni dei luoghi di oggi in rapporto a come erano ieri.
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Questo tentativo era già stato percorso il secolo scorso: si pensi al provocatorio Ameublement sonoro di Satie, all’esperienza dirompente del Silence di Cage, all’intona rumori di Russolo, agli Objects sonores di Schaeffer (analoghi sonori dei visivi objects di Duchamp) il Soundscape di Michael Southworth. 3 Paragrafo scritto con il contributo di Daniele Agostini. 4
http://www.academia.edu/680772/Sulla_genesi_e_il_sig nificato_del_cronotopo_in_Bachtin http://rinabrundu.com/2012/04/20/generale-difrancesco-de-gregori-cronotopo-dei-tempi/ 5 Le presenti riflessioni si collocano all’interno delle attività del Progetto di Ateneo “Percorsi educativi di storia e geografia” coordinato da Lorena Rocca. La finalità del progetto di ricerca è centrata sull’affinare, condividere e mettere a disposizione della comunità scientifica e formativa, strumenti operativi e indicazioni concrete per la didattica della storia e della geografia basata sul sistema di competenze. 6 A titolo esemplificativo si rimanda all’articolo in questo volume “Sento, vedo, tocco, assaggio il territorio d’acqua intorno a me” (Rocca e Ponchia 2013).
Smith, S. J. "Performing the (sound)world". In: Environment and Planning D. Society and Space 18.5
Testo acquisito dalla redazione nel mese di Ottobre 2013 © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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È curioso osservare che gli scienziati per descrivere la nascita dell'universo si utilizzano un suono ("Big Bang") così pure per la sua distruzione ("Big Crunch ").
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Paesaggio: strumento di educazione
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lo (s)guardo estraneo
Su Delfino Insolera
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About Delfino Insolera
Gabriele Corsani*
abstract
abstract
Passeggiata geomorfologica di Delfino Insolera è un testo breve e affascinante. Per il suo carattere inteso a coniugare aspetti naturalistici e antropologici appartiene al nobile genere del viaggio scientifico, di cui propone il complesso e appassionato scrutare, qui volto al paesaggio come deposito di fenomeni scientifici, economici e sociali che hanno contribuito alla sua modellazione e alle sue trasformazioni. Il tema della passeggiata è il rapporto di Bologna con le colline che dal lato sud della città si sviluppano in un sistema collegato all’Appennino, da cui però sono separate da «un gran salto roccioso». Attraverso questa cesura naturalistica il nostro sistema delle colline acquisisce una unità specifica, strutturata come autentica risorsa paesaggistica.
Passeggiata geomorfologica (Geomorphologic Walk) is a short and very attractive text by Delfino Insolera belonging to the noble category of the scientific trip literature. It is intended to combine naturalistic and anthropological aspects. A complex and passionate vision springs from that union, aimed to consider the landscape as a palimpsest of scientific, economic and social aspects contributing to its modelling and transforming. The topic of the Passeggiata geomorfologica concerns the relationship between Bologna and its south side hills, developed as a system linked to the Apennine Mountains and at the same time separated from it by the definite «great rocks precipice». Through that naturalistic accident our hilly system acquires a specific unity, structured as an authentic landscape resource.
parole chiave Passeggiata, paesaggio, colline, Bologna
key-words Walk, landscape, hills, Bologna
*Dipartimento di Urbanistica e Pianificazione del Territorio (DUPT) dell’Università di Firenze
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Su Delfino Insolera
Delfino Insolera (1920-1987), ingegnere, pittore e umanista, fratello dell’architetto e storico Italo, ha dedicato gran parte della sua vita alla diffusione del sapere scientifico. Laureato in ingegneria a Roma nel 1943 e attivo nella Resistenza (nel periodo milanese è accanto a Giuseppe Pagano, Giancarlo De Carlo, Carlo Doglio, Franco Fortini), si impegna nella ricostruzione intellettuale e civile del paese. È animatore del quindicinale “La Verità” (1946-1947) e poi del mensile “Foglio di discussioni” (19491953), fondato insieme a Roberto Guiducci. Nel 1951 si laurea in filosofia a Milano. Dopo l’impiego alla Siemens (1949-1952) e alla Olivetti (19521953), dove partecipa alle indagini sul Canavese, collabora con la casa editrice Zanichelli di Bologna, di cui diventa direttore editoriale per il settore scientifico. Sempre a Bologna, dal 1981 è il primo presidente della Fondazione Villa Ghigi, dedicata alla diffusione della consapevolezza ambientale e paesaggistica.
Mino Petazzini presenta Delfino presidente di Villa Ghigi, con il suo parco sulle prime pendici collinari: «ho osservato Delfino tracciare con sicurezza le coordinate di un’esperienza che prosegue tuttora e che è, credo, generalmente apprezzata. Un parco sul quale concentrare il massimo dell’attenzione per utilizzarlo come laboratorio all’aperto destinato alle scuole della città. Un gruppo di giovani appassionati e capaci come intermediari fra il mondo naturale e i bambini. L’idea di partire da qui per crescere secondo un progetto culturale ricco, originale, completo in tutte le sue parti. La sua disponibilità assoluta a insegnare, discutere, chiarire, sperimentare, perdonare le inevitabili ingenuità. E la capacità di disegnare orizzonti a cui ispirarsi e nei quali collocare ogni momento dell’esperienza.» (L’esperienza di Villa Ghigi Ibidem, p. 29).
La raccolta dei suoi scritti promossa dagli amici nel decennale della scomparsa, intitolata Come spiegare il mondo (Zanichelli, 1997), mostra una molteplicità di interessi, dalla geografia alla storia, dalla filologia alla musica. I brevi profili di alcuni promotori del libro delineano una personalità sempre tesa al rigore teorico ed operativo.
Passeggiata geomorfologica (1982) è una magistrale interpretazione delle colline bolognesi. Ha inizio con la visione di Bologna e dei suoi colli dalla torre degli Asinelli, che riprende il motivo antico della ricchezza percettiva propria della visione dall’alto. Una prima sintesi presenta il rapporto della città con le sue colline: «la distesa rossa dei tetti del centro storico, in lieve impercettibile pendio, sembra arginata da quel fondale necessario»; le parti apicali delle colline spiccano con «una ripartizione degli spazi ancora abbastanza felice, prodotto evidente di vecchia cultura, oltre che di recenti piani regolatori». Ove risalta l’espressione «fondale necessario» e l’apprezzamento per la riuscita salvaguardia del paesaggio collinare ad opera della pianificazione urbanistica.
Michele Ranchetti restituisce uno dei suoi tratti distintivi: «Il suo era un universo ricchissimo, fatto di particolari necessari talvolta non visibili ad occhio nudo, retto da una necessità che poteva ricordare la natura di Lucrezio, e proprio per questo, per Delfino, le forze della natura dovevano essere riconosciute presenti e operanti dappertutto, e anche nel cuore dell’uomo.» (Ibidem, p. 16).
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La visione si amplia poi alla scala grande con il supporto della carta geografica o della foto da satellite, basilari per la comprensione dei fenomeni geomorfologici della città e dei suoi dintorni, resa in maniera esatta e leggera, anche con apprezzabili umanizzazioni: «.Si direbbe che in corrispondenza di Bologna e della valle del Reno, l’Appennino abbia voluto fare un passo avanti verso la pianura; e che in questo passo abbia incespicato, e la sua fronte avanzante si sia increspata, drizzando quel fondale che adesso chiude così bene l’orizzonte meridionale della città». La sintesi geologica rivela «una morfologia che corrisponde fedelmente alle strutture profonde e alla loro storia, un paesaggio di forme giovanili, dove un’erosione attiva ha intagliato molto, in un terreno prevalentemente argilloso e quindi poco resistente, ma non ha ancora avuto il tempo di arrotondare e livellare. Il territorio così individuato dalla natura stessa, tracciato con netti confini e omogeneo nella sua varietà, merita di essere definito «collina bolognese», anche se amministrativamente il territorio del Comune di Bologna comprende la zona settentrionale e una piccola parte soltanto di quella meridionale». Dalla visione mediata siamo portati alla ricognizione diretta attraverso la nota sulle strade e sui corsi d’acqua, di cui non pochi scompaiono nel sottosuolo in corrispondenza della città e riemergono a valle, a nord, come canali. L’intreccio di acque e strade è il filo conduttore di una percorrenza ricca di note scientifiche, toponomastiche e paesaggistiche, fino alla visione dalla parte opposta a quella affacciata sulla città del sistema collinare, che «finisce di colpo con un gran salto roccioso nel Contrafforte Pliocenico». Per apprezzare degnamente il Contrafforte bisogna allontanarsi ancora e salire. Ma la città è sempre
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vicina e il piacere di camminare, di studiare e di scoprire appresta, in uno spazio pur sempre ridotto, una «situazione ideale» di varietà e di bellezze.
D. Insolera, Passeggiata geomorfologica
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Chi sale sulla Torre degli Asinelli in un limpido mattino di primavera noterà subito il rapporto di particolare vicinanza che esiste fra l’area urbana di Bologna e la collina; dalla Torre alla Villa Aldini, che è già sul culmine del primo rilievo collinare, sono soltanto due chilometri. La distesa rossa dei tetti del centro storico, in lieve impercettibile pendio, sembra arginata da quel fondale necessario, contrastante per colore, di aspetto silvestre, movimentato da speroni che avanzano e valli che si allontanano; e nelle valli si allungano propaggini dell’insediamento urbano, lasciando sgombre le parti più alte, dove sorgono pochi edifici monumentali, chiese e ville: una ripartizione degli spazi ancora abbastanza felice, prodotto evidente di vecchia cultura, oltre che di recenti piani regolatori. Un'occhiata a una carta geografica, o a una fotografia da satellite, mostra che nessuna città emiliana è così vicina al piede dell’Appennino: in nessun altro punto l’isoipsa 200 si avvicina tanto alla via Emilia, che pure corre parallela all’asse della catena, congiungendo tutti i conoidi alluvionali depositati dai fiumi allo sbocco delle loro valli. Si direbbe che in corrispondenza di Bologna e della valle del Reno, l’Appennino abbia voluto fare un passo avanti verso la pianura; e che in questo passo abbia incespicato, e la sua fronte avanzante
si sia increspata, drizzando quel fondale che adesso chiude così bene l'orizzonte meridionale della città. Il centro storico si è impiantato sugli antichi conoidi del Reno e del Savena: negli strati di ghiaia sepolti scorrono le acque sotterranee che da secoli danno da bere ai Bolognesi. Questi depositi fluviali finiscono subito fuori dalla circonvallazione, tra Villa delle Rose e i Giardini Margherita; e qui si potrebbe collocare l’ultimo lembo della Pianura Padana, rialzato e appoggiato al pendio più vivace delle prime falde appenniniche. San Michele in Bosco sorge su una fascia di antichi sedimenti marini, di mare basso, depositati su quello che era il litorale, prima del sollevamento definitivo dell’Appennino, nel Pleistocene. Villa Aldini, poco più indietro, è già a contatto con il Pliocene, sui depositi di mare profondo tradizionalmente noti come «Argille Azzurre». Subito dopo si passa ai Miocene superiore: questo periodo è caratterizzato spesso dalla presenza di formazioni gessose, e anche qui i gessi compaiono, a Monte Donato (e proseguono, con manifestazioni più imponenti, fuori del territorio comunale, alla Croara, al Farneto, a Castel dei Dritti, fino al Torrente Quaderna). Questa rapida successione di formazioni, sempre più vecchie, a quote via via più alte, segna la presenza di una di quelle pieghe con la gobba in alto che i geologi chiamano anticlinali: questa è poco visibile sul terreno, perché costituita da materiali tutti di aspetto simile, quasi sempre argille, e coperti dalla vegetazione: ma la sua esistenza nel sottosuolo contribuisce al prodursi di quella varietà di forme, che vediamo in superficie, con il fitto succedersi di poggi e vallette. Il dorso più alto della piega è di marne del Miocene medio, un po’ più resistenti all’erosione: ospita antichissimi insediamenti monastici, come San Vittore e
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Ronzano, e il suo punto culminante è il Monte della Guardia, dove spicca il profilo ben noto del Santuario di San Luca. Procedendo oltre l’asse della piega, si dovrebbero incontrare gli stessi terreni in fasce simmetriche: e infatti i gessi ricompaiono a Gaibola. Risalendo altre valli vicine, come quelle del Santerno o del Senio o del Lamone, la stessa successione di formazioni, fino ai gessi, si distende per una decina di chilometri: qui la si attraversa tutta a piedi in una passeggiata, perché occupa uno spazio dieci volte minore, compressa e raccorciata da quelle forze che spingevano in avanti verso la pianura. Movimenti come questo, di traslazione verso Nord-est, anche se diversi per entità e per effetti, si riscontrano in tutto l’Appennino emilianoromagnolo: sono anzi manifestazioni delle forze stesse che hanno edificato la montagna. Esclusivo, invece, della collina bolognese è un altro evento della storia geologica, che ne ha plasmato i paesaggi nella parte meridionale, più lontana dalia città: la presenza di un grande golfo, nel Pliocene, dove si versavano, a breve distanza l’uno dall’altro, diversi fiumi, precursori di quelli che vediamo oggi quasi allo stesso posto: Reno, Setta, Savena; cui si affiancavano, allora come oggi, il Lavino a Ovest, lo Zena e l’Idice a Est. Hanno scaricato in mare acque torbide di sedimenti, per migliaia di anni, costruendo una larga spiaggia e una serie di delta affiancati: sulle argille del fondo si sono accumulati grandi spessori di sabbie, induritesi poi in arenaria; costituiscono oggi le formazioni del «bacino pliocenico intrappenninico». Sono visibili perché più tardi una fetta di territorio, isolata tutt’intorno da profonde fratture, si è sollevata di più di 600 metri: il materiale dei delta, già press’a poco al livello del mare, si trova oggi a 655 metri d’altezza, sul Monte Adone; e il colle dì
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San Luca, già fondo marino, è a 290 metri. Alle linee di frattura corrispondono oggi: a Nord il brusco passaggio dalla collina alla pianura; a Ovest e Est le valli dove scorrono il Reno e il Savena, nella direzione che è tipica per i corsi d’acqua della regione, e che era probabilmente già la loro direzione originaria. A Sud, invece, la frattura è quasi parallela all’asse della catena appenninica e il Setta, sbarrata la strada dal sollevamento delle arenarie, vi si è incanalato: ha assunto così una direzione anormale, verso Nord-ovest, e questo l’ha portato a confluire nel Reno a Sasso Marconi. E un caso non comune nel nostro Appennino, che due fiumi importanti, nati entrambi sullo spartiacque principale, confluiscano prima di sboccare in pianura. Resta così ben circoscritto un blocco di terreni in forma di trapezio, allungato nella direzione da Sud-ovest a Nord-est, largo circa 5 km e lungo in media 15 km, alquanto accidentato, con altitudini per lo più fra 300 e 400 metri, depresso al centro e rialzato verso l’orlo meridionale, limitato tutt’intorno da fianchi ripidi che scendono verso tre valli ampie e profonde, e verso la pianura a Nord. Questo territorio ha una fisionomia sua propria, che è l’impronta dei tre episodi fondamentali della sua storia geologica: l’avanzata verso Nord-est con l’increspatura frontale ha determinato l’aspetto della zona settentrionale, suburbana; il depositarsi degli apparati deltizi nel golfo intrappenninico ha deciso la sostanza di cui è fatta la zona meridionale; il sollevamento, avvenuto in epoca geologicamente recente, ha sovrapposto a tutto il suo effetto: una morfologia che corrisponde fedelmente alle strutture profonde e alla loro storia, un paesaggio di forme giovanili, dove un’erosione attiva ha intagliato molto, in un terreno prevalentemente argilloso e quindi poco
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resistente, ma non ha ancora avuto il tempo di arrotondare e livellare. Il territorio così individuato dalla natura stessa, tracciato con netti confini e omogeneo nella sua varietà, merita di essere definito «collina bolognese», anche se amministrativamente il territorio del Comune di Bologna comprende la zona settentrionale e una piccola parte soltanto di quella meridionale. Le vie d’accesso da Bologna penetrano lungo i fondovalle, ma si portano presto sui crinali, e di qui si aprono vastissimi panorami: su Bologna e la pianura circostante, dalle prime alture; segnalando come punti di vista San Luca, San Vittore, Monte Donato, e la discesa dall’Osservanza, puntata come un cannocchiale sulla selva di torri e campanili del centro storico. Dalla strada che corre sul crinale centrale si hanno vedute sulle valli del Reno e del Savena, anche contemporaneamente: da Sabbiuno, per esempio. Un panorama immenso, sull’Appennino fino allo spartiacque principale, sulle colline e sulla pianura, quando il tempo è limpido fino alle Alpi e all’Adriatico, si ha dalla cima del Monte Paderno, nel cuore del nostro territorio, nel parco pubblico di Paderno. Vedute diverse si hanno da ogni crinale: e molti crinali minori si diramano da quello centrale, perché, malgrado la poca estensione, la rete idrografica è fitta e complessa. Le acque defluiscono in tutte le direzioni, come era da aspettarsi in un territorio sollevato e isolato da ogni lato. I corsi d’acqua più lunghi sono nella zona settentrionale; partono da un crinale trasversale un po’ irregolare e sono orientati verso Nord-est come il Reno, il Savena e la maggior parte dei torrenti appenninici: i più noti sono il Meloncello, il Ravone,
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l’Aposa, ricordati nelle storie e in numerosi toponimi. Incidono nell’orlo della collina valli strette e profonde, che rimangono ben definite anche quando arrivano ormai nella zona urbana, dove i corsi d’acqua scompaiono nel sottosuolo della città (ricompaiono più a Nord, come canali, e finiscono nel Reno, dopo un percorso che può essere anche molto lungo). Si tratta di ruscelletti di minime proporzioni, ma hanno i loro affluenti, e anche questi corrono in valloncelli profondi, tutti vicinissimi tra loro: ne risulta una grande varietà di ambienti, con diverse condizioni di luce, temperatura, umidità; quindi varietà di microclimi e di vegetazione. I freschi versanti esposti a Nord sono stati preferiti per le residenze estive, circondate da parco e bosco ombroso, ma anche da terreno agricolo: è il caso di Villa Ghigi, oggi parco pubblico; dove il versante di fronte è invece senz’alberi e coltivato. Trovandoci su terreni soprattutto argillosi, e quindi impermeabili, il deflusso delle acque è irregolare, e dipende strettamente dalle piogge. Ma i ruscelletti, anche se di minima portata, non sono quasi mai secchi; e non mancano sorgenti, ricordate nella toponomastica (e soltanto lì, a volte): salso-iodiche (fonti di Casaglia o del Ravone), ferruginose (Barbianello), salate (Le Salse, in località Tre Portoni: luogo che si vuole citato da Dante). Sorgenti, e idrografia speciale, si osservano sui terreni gessosi, che presentano, sempre in scala minuscola, anche un bel campionario di fenomeni carsici. A Monte Donato, Gaibola e Casaglia, anche passando distrattamente per la strada, è facile riconoscere il gesso affiorante, per il luccicare dei cristalli, ammassati con facce disposte in varie direzioni: sono frequenti i cristalli geminati
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a ferro di lancia o a coda di rondine, e i raggruppamenti a rosetta. II gesso può essere disciolto dall’acqua, che penetra in ogni frattura: perciò su questi terreni non ci sarà acqua in superficie e vi compariranno le forme tipiche dei paesaggi carsici: le cavità a imbuto chiamate doline ben visibili a Monte Donato e Gaibola, dove l’acqua scompare al centro attraverso un inghiottitoio, per andare ad alimentare la circolazione sotterranea; le grotte, scavate dalle correnti d’acqua sotterranea: a Gaibola ce ne sono cinque (di non facile accesso: non è consigliabile cercare di visitarle senza una guida esperta) e c’è anche un torrente sotterraneo con una piccola risorgente, il Fontanino, che esce all'aperto a Sud-ovest della chiesa, e si versa nel Ravone. Nelle grotte di Gaibola si sono riconosciute tracce di insediamenti umani di cultura neolitica. Il gesso è stato utilizzato nell’edilizia bolognese fin da epoca molto antica: di gesso erano le prime mura ricordate di Bologna, del V o VI secolo, e di gesso sono le basi delle torri, motivi decorativi, o semplici muretti. A Monte Donato come a Gaibola sono resti di vecchie cave non più attive. Il gesso è una roccia evaporitica: si deposita da acqua di mare che evapora, per esempio sul fondo di stagni salati. Grandi quantità di gesso si incontrano lungo il margine orientale dell’Appennino, non solo in Emilia ma un po’ dappertutto, affiorante o sepolto, dal Piemonte alla Sicilia, come in altre località del Mediterraneo; si è depositato tutto in un breve intervallo di tempo, sul finire del Miocene: sembra che si debba ammettere che in quel momento il Mediterraneo sia stato isolato dall’Atlantico e sia evaporato, tutto o in gran parte. Un episodio probabilmente connesso con i
movimenti che stavano facendo innalzare l’Appennino. Addentrandosi nelle colline, e arrivando alle case e alla chiesa di Paderno, ci si affaccia a un paesaggio nuovo, completamente diverso. Sulla sinistra della strada di crinale appare un'ampia distesa di terreno nudo e con scarsa vegetazione, in discesa, minutamente intagliato da valloncelli separati da crestine affilate: tipo ben noto di paesaggio, chiamato «calanco» (parola probabilmente di origine antichissima, venuta alla lingua italiana dal dialetto bolognese). I calanchi sono un prodotto dell’erosione: compaiono sui terreni argillosi, in certe circostanze non del tutto chiarite. La pioggia imbeve lo strato più superficiale, senza penetrarvi, e l’acqua scorre in basso trascinando fluide colate di fango. Poi, essiccando, la superficie si contrae e si rompe in un reticolato geometrico di fenditure. Non sarà difficile osservare smottamenti incipienti o in atto (se ne vedranno, per esempio, sul fianco destro dell’avvallamento occupato da questi calanchi). Nei calanchi di Paderno affiora la formazione geologica più antica visibile sulle colline bolognesi, chiamata tradizionalmente «argille scagliose»: affiora qui, ma dobbiamo immaginare che prosegua sotto le altre rocce che vediamo, sotto la struttura di San Luca come sotto le argille e arenarie del bacino pliocenico intrappenninico. È una gran massa plastica che sorregge tutto e trascina tutto nei suoi movimenti: è questo il veicolo di quel moto di avanzamento che ha sollevato il colle di San Luca. La sua origine, apparsa per molto tempo oscura, è quasi certamente remota nel tempo e nello spazio: risale al Cretaceo e si è depositata su un fondo marino esistente allora all’incirca dove è oggi il Tirreno; è arrivata qui in una serie di franamenti sottomarini, scivolando sui pendii
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dell’Appennino in formazione, ricoprendo altri terreni preesistenti. Nel suo viaggio, ha raccolto su di sé e trascinato formazioni geologiche diverse e più recenti: il colle di San Luca, e anche il Monte Paderno e il Monte Sabbiuno, che si innalzano ai lati del calanco, poggiano come zattere sulle argille scagliose (situazione che ha l’esempio più celebre nella Pietra di Bismantova). L’origine lontana e il lungo trasporto hanno reso molto disordinata la struttura delle argille scagliose, come appare anche a un'osservazione superficiale: l’aspetto è eterogeneo, con numerosi inclusi di colori diversi, tra cui grossi banchi di argilla rossa, che interrompono la monotonia dello sfondo scuro grigio-piombo. In queste condizioni non è facile trovare fossili (se non microfossili). Più facile (ma è meglio non farsi illusioni) è trovare minerali: fra questi la leggendaria «pietra fosforica di Bologna», noduli di cristalli raggiati di baritina (solfato di bario), da cui si ricavava una sostanza fosforescente. Segnalata nel Seicento, è ricordata come una delle grandi attrattive di Bologna da tutti i viaggiatori del Settecento, compreso Goethe: se vogliamo credere che parlino tutti per esperienza fatta, bisogna pensare che fosse molto più comune di oggi. Una strada che costeggia i calanchi scende verso la valle del Savena seguendo il corso del Rio delle Torriane, che, con il Rio Strione, raccoglie le acque dei calanchi, provenienti da un grande ventaglio di rivoletti. In questa zona del territorio collinare, più bassa, le acque scolano lateralmente, verso Est o verso Ovest, dal crinale centrale, che qui diventa molto stretto. Proseguendo verso Sud, sul crinale, si sale girando intorno alla base della zattera miocenica di Monte Sabbiuno. Poi la vista si apre su una nuova distesa di calanchi, questa volta sul lato opposto
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della strada, in discesa verso la valle del Reno: sono i calanchi di Sabbiuno, scavati in argille molto più giovani, del Pliocene inferiore, più fini, omogenee, di colore chiaro, grigio-azzurro. Una rada vegetazione vi attecchisce e in certe stagioni li abbellisce di colorazioni variegate. Queste argille costituivano il fondo dei golfo pliocenico, sul quale cominciarono a depositarsi poi le sabbie portate dai fiumi, oggi consolidate in arenarie. Le arenarie, anche se non sempre ben cementate, sono le rocce più dure di queste colline; ma quando l’erosione porta via le argille sottostanti, i banchi di arenaria, rimasti senza appoggio, si fratturano, e se ne staccano lastre, che crollano lasciando pareti verticali. Se ci mettiamo alla testata dei calanchi (dove il Monumento ai Partigiani ricorda un feroce fatto di guerra), cominceremo a vedere davanti a noi, a sinistra e a destra, lo schieramento delle pareti di arenaria: sono i materiali degli antichi delta del golfo pliocenico. A sinistra, verso la valle del Savena, un’erosione attivissima sta intagliando un versante di un poggio, mentre il versante opposto è ancora coperto dal mantello vegetale. Un grande torrione è rimasto isolato: è stato protetto fino a qualche anno fa da un cappello di suolo più resistente perché consolidato da un ciuffo di vegetazione; ora verrà lentamente smantellato. Il fantastico paesaggio di balze e torrioni può essere visitato da vicino salendovi da Pian di Macina, nella valle del Savena. In queste argille è facile trovare conchiglie fossili (Pettini), soprattutto sul fondo dei valloncelli dopo una pioggia. Superata la chiesetta di Pieve del Pino, l’intera formazione del bacino pliocenico intrappenninico, sulla quale ci troviamo adesso,
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sale verso Sud-ovest, con lieve e irregolare pendio, quasi sempre coperta da fitte boscaglie o da coltivazioni, solcata da profonde e fresche valli fluviali. A sinistra, verso Est, ossia verso il Savena, scende il vallone del Rio Favale, uno dei più lunghi corsi d’acqua di questo territorio. A destra, verso il Reno, le acque sono convogliate dal ventaglio dei Rii Ganzole, Sant’Ansano, Terzanello, Molinello: una grande frana in atto sta facendo crollare un po’ per volta la parete sul fianco sinistro del vallone del Rio Terzanello, travolgendo la strada per le Ganzole, che ha già dovuto più volte retrocedere. E finalmente, chi arriva per la prima volta ad affacciarsi alla valle del Setta, scoprirà d’improvviso che il nostro territorio collinare finisce di colpo con un gran salto roccioso, allungato quasi senza interruzione da Monte Mario a Monte Adone, e ancora con prolungamenti oltre il Reno (la Rupe di Sasso Marconi, o Sasso Glòsina) e oltre il Savena, con le rupi di Livergnano e fino al lontano Monte delle Formiche. È questo il Contrafforte Pliocenico. Una veduta d'insieme, standovi sopra, se ne avrà, come è ovvio, dal punto più alto, cioè dalla vetta di Monte Adone. Qui l’erosione, soprattutto del vento, scavando le parti meno resistenti delle pareti, ne ha messo in rilievo la stratificazione orizzontale: e allargando le fratture esistenti, perpendicolari agli strati, ha aperto intagli verticali, isolando pinnacoli, come le «Torri di Monte Adone», presso la vetta. In una di queste fratture, al piede della parete, si apre la «Grotta delle Fate»: ricordata dal Settecento, e certo frequentata dal Quattrocento, si vuole che fosse un tempio sotterraneo di presunti sacerdoti di Adone (da cui il nome del monte, in verità enigmatico). La ripida parete del Contrafforte non lascia spazio a corsi d’acqua di qualche importanza: ma il
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Rio Raibano nasce dietro il crinale, scorre per un po’ sul versante Nord, poi attraversa il Contrafforte per un intaglio, là dove passava la primitiva valle del Setta, e scende sulle pendici di Monte Mario, a confluire nel Setta attuale. Da Monte Adone si può scendere a Brento e Pianoro, nella valle del Savena: e lungo la strada si vedrà una parete di arenaria tempestata di prominenze sferoidali, concrezioni chiamate, con parola popolare accolta dal linguaggio scientifico, cògoli. All’estremità opposta del Contrafforte, si può scendere nella valle del Reno, passando per il parco dei Prati di Mugnano, alle spalle del Monte Mario. La discesa nelle valli adiacenti è consigliabile non soltanto come via di ritorno: alla varietà di motivi di interesse che la collina offre a chi la percorre, un’altra varietà si aggiunge per chi la vede dal basso. Seguendo il corso del Reno, per esempio, si noterà prima l’aspetto boscoso della zona settentrionale, poi l’aprirsi dei calanchi nelle argille plioceniche, poi le alte pareti d’arenaria che emergono sopra gli alberi; e in basso, non lontano dal casello di Sasso Marconi, si potrà vedere anche un meandro fossile del Reno, adesso esedra argillosa, che l’erosione sta scolpendo. Ma naturalmente, per avere una degna veduta d’insieme del Contrafforte Pliocenico, bisognerà conquistarsi un punto di vista adeguato, di fronte e un po’ lontano: conviene salire a San Silvestro, sulla destra del Reno, o a Torre Iano, sulla sinistra, sopra Sasso Marconi. Verso il tramonto di un limpido giorno di maggio, la lunga muraglia di arenaria risplenderà dorata, sopra il verde intenso dei prati e dei campi che coprono le argille sottostanti. Quanta varietà in poco spazio (e si capirà bene che non si è detto tutto, per non togliere il
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gusto di scoprire altre cose da sé): situazione ideale per soddisfare curiosità diverse, o soltanto per il piacere di camminare: e anche ricchezza di occasione, a pochi passi da casa, per chi cerca il piacere di studiare.
Riferimenti bibliografici Insolera C., Capello C. (a cura di), 1997, Come spiegare il mondo. Raccolta di scritti di Delfino Insolera, Bologna, Zanichelli. Delfino Isolera, 1982, Passeggiata geomorfologica, in Comune di Bologna, Assessorato alla Programmazione Territoriale, Piano Collinare Un patrimonio naturale per tinta la città e i suoi abitanti, 1982, La collina di Bologna, pp. 126-139 - Contributo al volume di presentazione della ‘Variante Collinare al Piano Regolatore Generale della città’.
Testo acquisito dalla redazione nel mese di Settembre 2013 © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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In La collina di Bologna. Un patrimonio naturale per tinta la città e i suoi abitanti. Comune di Bologna, Assessorato alla Programmazione Territoriale, Piano Collinare, 1982, pp. 126-139 - Contributo al volume di presentazione della «Variante Collinare al Piano Regolatore Generale della città». Ristampata in Come spiegare il mondo, raccolta degli scritti di Delfino Insolera, Bologna, Zanichelli, 1997, pp. 448-455.
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Paesaggio: strumento di educazione
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La cooperazione europea delle Università nell’educazione all’Architettura del Paesaggio. Il Consiglio Europeo delle Scuole di Architettura del Paesaggio (ECLAS) e il progetto della rete tematica LE:NOTRE
European Academic Cooperation Landscape Architecture Education.
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for
The European Council of Landscape Architecture Schools and the LE:NOTRE thematic network project
Simon Bell *, Ellen Fetzer **
abstract
abstract
ECLAS ha il compito di diffondere l’architettura del paesaggio in Europa attraverso lo sviluppo di relazioni e di scambi nella comunità accademica, della quale rappresenta gli interessi all’interno di un più ampio contesto sociale e istituzionale. Fin dal 2002 il Consiglio ha organizzato un progetto tematico chiamato LE:NOTRE che attualmente è in fase di trasformazione in un istituto autonomo. Negli ultimi anni ECLAS ha portato avanti varie attività tra cui la messa a punto di un progetto per l’educazione al paesaggio, il consolidamento della rivista Jola (journal for landscape architecture), la creazione di una fattiva collaborazione fra studenti di dottorato.
ECLAS, the European Council of Landscape Architecture Schools, exists to foster and develop scholarship in landscape architecture throughout Europe by strengthening contacts and enriching the dialogue between members of the Europe's landscape academic community and by representing the interests of this community within the wider European social and institutional context. The council has organised an EU-funded thematic network project, LE:NOTRE, since 2002 which is currently being transformed into a self-standing institute. During the last years ECLAS has put many important projects on the way, amongst others the tuning project for landscape education, the estsablishment of a European academic journal for landscape architecture (JoLA) and the fostering of better collaboration of European doctoral students.
parole chiave Educazione all’architettura del paesaggio, ECLAS, forum sul paesaggio, LE:NOTRE * Estonian University of Life Sciences, President of ECLAS Executive Committee ** Nürtingen-Geislingen University, Vice President of ECLAS Executive Committee
key-words landscape architecture education, ECLAS, tuning project, landscape forum, LE:NOTRE
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The European Council of Landscape Architecture Schools, ECLAS, is an association of university teachers and researchers in landscape architecture, whose main membership consists of university departments and faculties where landscape architecture teaching and research is the main focus of activity. The council exists to foster and develop scholarship in landscape architecture throughout Europe by strengthening contacts and enriching the dialogue between members of the Europe's landscape academic community and by representing the interests of this community within the wider European social and institutional context. In pursuit of this goal the European Council of Landscape Architecture Schools seeks to build upon the Continent's rich landscape heritage and intellectual traditions. Over the years since it was founded and in particular since the formal legal establishment of the association in 2006, there have been solid achievements that will be explained in the following in more detail: The Annual Conference ECLAS has been patron for a series of annual conferences that have been hosted by universities all over Europe. The themes of the conferences are related to teaching, learning and research in the field of landscape architecture and the development of the discipline of landscape architecture. The conferences have provided a major base for academic collaboration and have also played host in recent years to Doctoral Colloquia where doctoral students can come together and share their ideas and experiences with feedback from senior academics. The 2013
La cooperazione europea delle Università nell’educazione all’Architettura del Paesaggio
annual conference takes place in Hamburg, Germany, hosted by the Hafen City University from September 22-25 under the theme ‘specifics’. The 2014 conference will be hosted by the University of Porto in Portugal. Le:Notre Thematic Network Project The EU Thematic Network Le:Notre (Landscape Education: New Opportunities for Teaching and Research in Europe) has been running for nine years. Now in its third full version it will cease in 2013. During that time resources of all kinds have been built up on the project website. The recent development of the Le:Notre Landscape Forum as an alternative to Spring Workshops has proved successful and the outreach of the Le:Notre project to many areas of landscape outside landscape architecture – the “Neighbouring disciplines” - has been enhanced by the first one held in Antalya in 2012 and the second one held in Rome in 2013. The Landscape Forum Rome was organised by the Faculty of Architecture of La Sapienza University in the period from 17th to 18th of April 2013. The forum is conceived as a complementary event to the ECLAS conference. While the conference concentrates on academic exchange among landscape architecture teachers and researchers the forum intends to address also practitioners, public authorities, representatives from neighbouring disciplines and various other stakeholders in order to discuss jointly about the landscape of a specific site. In addition to key notes and roundtable discussion several workshops and excursions are organised during which thematic groups explore a specific landscape context. During the workshops the sites visited are
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intensively discussed and finally a joint publication is produced. This discourse has four thematic sections: Urban growth and peri-urban sprawl, sustainable tourism, heritage and identities and rural fringe. The first theme was explored on the example of the EURquarter in the east of Rome. The sustainable tourism group visited the Via Appia regional park and the heritage team went to Ostia Antica and its environments. The rural fringe theme was explored in the area north of Ostia Antica along the river Tiber. The publication is supposed to be published in the beginning of 2014. The next landscape forum in April 2014 will take place in Malta.
Figure 1. Home page of Le:Notre web site.
Lo (s)guardo estraneo
The LE:NOTRE website A powerful tool in the collaboration and the exchange of information is to be found in the Le:Notre website. It offers information on schools, programmes, staff members, literature and subjects of theses. It is also facilitates the exchange of publications that are developed by Le:Notre and ECLAS members. Further important resources are databases in design projects, landscape plans, an encyclopedia with the European ‘pioneers of landscape architecture education’ and a multilingual thesaurus of landscape architecture terminology. All databases build on the principle of user generated content. All registered members are able to add new and edit existing content elements and thus contribute to an ever growing body of knowledge.
the former will continue to be open for neighbouring disciplines in order to allow for multidisciplinary and innovative approaches to landscape research. ECLAS in contrast remains the membership organisation of landscape architecture academics and keeps its disciplinary limit.
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programmes. The document is available on the ECLAS website.
Contributions to European Policy ECLAS has become closely involved with the implementation of the European Landscape Convention of the Council of Europe, which came into force in March 2004, being given official observer status. ECLAS has been invited to participate in all of the Workshops on the Implementation of the Convention which have been held by the Council of Europe, and papers have been presented at these meetings by members and representatives of ECLAS.
The LE:NOTRE Institute The LE:NOTRE project has now come to a crucial point because funding through the EU’s Lifelong Learning programme will definitively end by the end of October 2013. Therefore, ECLAS has decided to transform the project into an institute that would be owned by the Council but managed by an own board. The institute will take the legal form of a foundation under Dutch law. The advantage of this format is that the LE:NOTRE institute will be able to implement activities that ECLAS as a membership organisation is legally not able to do (such as research projects etc.). The main objectives of the LE:NOTRE institute will be to organise different types of academic activities within the so-called knowledge triangle of research, education and innovative practice. The major difference between the institute and ECLAS is that
The Tuning Project: Implementing the Bologna Process, within the discipline of landscape architecture Through its participation in the Le:Notre Thematic Network Project, ECLAS had an indirect role in helping to implement the Bologna Process within the field of landscape architecture. Activities involved the definition and weighting of generic competences, and the formulation of subject specific competences for landscape architecture graduates. The main focus of this work was within the twelve subject area working groups defined through the Le:Notre Project which became a ‘core area’ of the Tuning Project and was invited to participate in both the launch and the closing conferences of ‘Tuning III’. The resulting document was approved by the ECLAS General Assembly and is a valuable guide for schools preparing or revising
Figure 2. Three screenshot of the web site, showing the list of Resources, the Neighbouring Disciplines (agriculture, economics, fine arts…), the Project Groups.
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Journal of Landscape Architecture (JoLA) The academic journal JoLA was founded in 2006 and is owned by ECLAS. JoLA currently appears in two editions per year in the Routledge publishing house and there are plans to increase the number of issues soon. A much improved submission system was set up and al back issues are now available online. JoLA won the awared of excellence from the American Societey of Landscape Architects in 2009. Exploring the Architecture
Boundaries
of
Landscape
One of the outputs of the Le:Notre projects has been to explore the relationship of various socalled “neighbouring disciplines” of landscape architecture. From the initial reports prepared by experts from a range of fields an edited book entitled “Exploring the Boundaries of Landscape Architecture” was produced and published by Routledge, the first “ECLAS badged” book and, it is hoped, the first of many more. ECLAS Young Academics young researchers
and
support
for
As a practice-led discipline landscape architecture is facing big challenge when trying to impose some sort of methodology on a kindly theory-resistant subject. While the positivist sciences provide a well-equipped box of quantitative tools for investigating the physical layers of our environment, the qualitative instruments from the domain of social sciences are required for interpreting the human factor. The application of methods that are also prevalent in neighbouring
La cooperazione europea delle Università nell’educazione all’Architettura del Paesaggio
disciplines has become common practice in landscape architecture research. On the other hand, the planning and design process itself has developed into a research method in its own right: Landscape architecture can create new knowledge through design. And yet, this approach is only at the beginning of evolving its full potential. But also the product (or the process) itself can be regarded as an issue for research: We use case-study methodologies, critical analysis and hermeneutics for positioning landscape architecture in our cultural and social context. All of these can be justified approaches. Luckily, none of them tells the whole story. This is of course a reduced and obviously incomplete spotlight on the situation. But it shows the dilemma (not only) young landscape architecture researchers are facing: How can we create new knowledge?
by academics who believe in the European idea and in the power of combining forces.
Since 2002 ECLAS has organised regular exchange of doctoral students as part of its annual events. These colloquia are addressed to all current and prospective doctoral students in landscape architecture and related disciplines who wish to share and discuss methodical aspects of their research in a European research community. The meeting is open to all research themes and methodical approaches from across the field of landscape architecture and neighbouring disciplines. ECLAS has gone through tremendous developments throughout the last decade but looks optimistic to its future. Thanks go to its members who make all of this happen what has been explained in this article. It needs to be reminded that most of this work is done on a voluntary basis
All the figures are taken from the web site of the Le:Notre Project.
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Riferimenti bibliografici http://www.eclas.org European Council of Landscape Architecture Schools http://eclas.org/accreditation-advice.php ECLAS Guidance on Landscape Architecture Education http://www.le-notre.org LE:NOTRE Thematic Network http://www.eclas2013.de ECLAS Conference Hamburg http://www.eclas2013.de/fileadmin/data/headerimg/1306 13_PhD_Call_ForPapers.pdf ECLAS Doctoral Colloquium 2013 http://www.jola-lab.eu/Journal of Landscape Architecture
Riferimenti iconografici
Testo acquisito dalla redazione nel mese di luglio 2013. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
Lo (s)guardo estraneo
Paesaggi fatti a mano. Didattica architettura del paesaggio in situ1
di
Handmade landscapes. architecture didactics on site
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Landscape
Fausta Occhipinti*
abstract
abstract
L’articolo indaga il potenziale della didattica in situ nelle scuole di paesaggio, iscrivendosi nel dibattito europeo sulla definizione delle strategie di insegnamento e dei contenuti della formazione del paesaggista e nel più ampio campo della pedagogia universitaria attualmente in pieno sviluppo. Molte delle virtù della didattica di immersione e fabbricazione in situ per l’apprendimento del progetto di paesaggio sembrano ancora in larga misura da esplorare e teorizzare. Questo approccio, integrativo all’insegnamento del progetto di paesaggio in atelier, colloca lo studente nel suo futuro campo d’azione, impegnandolo concretamente in attività di trasformazione dei luoghi e introducendolo alla dimensione del “fare”, per sollecitarne la facoltà di individuare occasioni concrete di intervento.
The essay investigates the potential of teaching on site inside the school of landscape architecture, writing these reflections in the European debate on definition of teaching strategies, on the contents of the landscape architect’ s training and on the university pedagogy that now is under development. Many virtues of immersion and construction teaching on site for the learning of landscape project seems to be still explored and theorized. This approach, supplementary of teaching landscape project on office, put the student in his future field of action, concretely obliging him in transformation activities of spaces and introducing the “making” action, to stress the capability of real operations.
parole chiave Didattica sul campo, insegnamento, Paesaggio
parole chiave Didactics on site, Teaching, Landscape
* Architetto, paesaggista, Ph.D. Insegna progettazione del paesaggio presso l’Ecole Nationale Superiéure du Paysage de Versailles e presso la Facoltà di Architettura di Palermo
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Contesto Se fino alla metà del XX secolo il paesaggista si occupava del progetto di parchi e giardini, oggi, nel contesto europeo, sembra che la società gli attribuisca compiti e responsabilità sempre più rilevanti2. Molti paesi europei hanno istituito già da diversi decenni formazioni specifiche per il progetto di paesaggio, in Italia, invece, sembra difficile garantire una formazione stabile e specifica per acquisire le competenze del paesaggista delineate dall’European Federation of Landscape Architecture. Da un lato si sente diffusamente e in diversi ambiti (accademico, istituzionale, professionale) la necessità della professionalità specifica del paesaggista, ma dall’altro le condizioni culturali e legislative italiane ne impediscono la formazione. I recenti tentativi del CUN3 di avviare un corso di laurea a ciclo unico di paesaggio sembrano attualmente arenati a conferma della difficoltà italiana a delineare una piattaforma comune e identitaria. Perché il paesaggista in Italia non ha ancora trovato una sua identità nell’ambito dei professionisti della progettazione?
Paesaggi fatti a mano. Didattica di architettura del paesaggio in situ
relativa a giardini e parchi, nella redazione di piani paesistici e nel restauro di parchi e giardini storici […], ad esclusione delle loro componenti edilizie.”4 Per l’ammissione all’esame di stato nel settore “paesaggistica” è richiesto il conseguimento della laurea specialistica in Architettura del paesaggio, Architettura e Ingegneria edile; Scienze e tecnologie per l’ambiente e il territorio5. Dopo l’iscrizione all’ordine professionale è possibile ottenere il titolo di paesaggista. Il titolo è regolamentato ma le competenze del paesaggista, oltre ad essere molto limitate, non sono esclusive rispetto a quelle dell’architetto o del pianificatore. Il paesaggista non ha alcuna competenza esclusiva, essendo tutte le sue competenze professionali un sottoinsieme di quelle dell’architetto, e a sua volta, di quelle dell’ingegnere6.
Il paesaggista: professione e legislazione in Italia e in Francia “In Italia, il titolo e l’esercizio professionale dell’architetto paesaggista, sono regolamentati dalle norme di ammissione al rispettivo esame di stato e dai regolamenti degli ordini professionali. Le sue competenze professionali consistono esclusivamente nella progettazione e la direzione
Figura 1. Le competenze di I (Ingegnere), A (Architetto), S (restauro edifici di pregio storico) e P (Paesaggista) per insiemi.
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Il Decreto Presidenziale non prevede il paesaggista junior, così come per l’architetto e il pianificatore. Il paesaggista deve quindi conseguire una laurea quinquennale, specialistica o magistrale. Da uno sguardo sui corsi di laurea in Italia, la possibilità di intraprendere un percorso completo per il conseguimento del titolo di studio necessario è difficile per un aspirante paesaggista. In Italia si rileva l’assenza di lauree a ciclo unico e l’impossibilità di proseguire un corso di laurea specialistica in architettura del paesaggio nella stessa sede universitaria in cui si è conseguita la laurea triennale7. Si noti che le competenze del paesaggista italiano sono molto ridotte se confrontate con quelle definite dall’European Federation of Landscape Architecture (EFLA)8. Quanto agli obiettivi educativi l’International Federation of Landscape Architecture (IFLA) palesa che “L’architettura del paesaggio contempla sia l’approccio architettonico e artistico, che quello ecologico, ingegneristico e scientifico”9. L’IFLA non fa cenno alle strategie didattiche per lo sviluppo di queste competenze. In Italia il Ministero per Istruzione, l’Università e la Ricerca demanda agli atenei la strategia didattica e la pianificazione degli studi. In Francia la situazione è diversa: nonostante il titolo di paesaggista non sia regolamentato da un esame di stato e da un ordine professionale, egli esercita attività professionali molto più estese di quanto avviene in Italia. Sondando il mondo degli appalti e dei concorsi pubblici10, il paesaggista è un esponente essenziale dei gruppi di progettazione. Le sue competenze sono specifiche e riconosciute dal suo ambiente. Si tratta di un riconoscimento culturale basato su un gradiente di qualità, e non su un regolamentazione esclusivamente legislativa
Lo (s)guardo estraneo
del titolo. Questo atteggiamento si sviluppa paradossalmente in un contesto in cui lo Stato forma e riconosce la figura professionale del paesaggista. La Scuola pratico
di
Versailles
e
l’insegnamento
L’importanza attribuita nella consuetudine francese alla formazione ci porta a cercare di delineare il carattere e l’identità della formazione del paesaggista. A questo proposito prendiamo in considerazione il caso emblematico dell’École Nationale Superieure du Paysage de Versailles per il suo approccio alla pedagogia in situ11. La formazione del paesaggista francese dura quattro anni, vi si accede attraverso concorso dopo aver concluso un ciclo di formazione universitaria di almeno due anni. Motivo cardine della scuola di Versailles è la didattica in situ. Questo approccio è presente sia nei laboratori di progetto, che nei corsi teorici. I laboratori di progetto, che costituiscono il 50% dell’insegnamento complessivo, trattano tematiche molto varie e sono alimentati da costanti interventi dei dipartimenti di tecnica, scienze umane, arti plastiche ed ecologia. Questi ultimi due dipartimenti collaborano costantemente tra di loro e con il dipartimento di progetto, sperimentando delle modalità efficaci di didattica in situ. Con visite e sopralluoghi estremamente mirati, rilievi, istallazioni, interventi d’artisti, interventi diretti nel paesaggio, hanno contribuito a formare l’identità di una generazione di paesaggisti francesi. Al centro di questa dinamica il laboratorio di giardinaggio è un momento centrale di sperimentazione. Questo dispositivo didattico si
avvale delle antiche radici dell’École Nationale Superieure d’Horticulture, in cui aspiranti ingegneri orticoli sostenevano esami sulla condotta agricola di alcune particelle del Potager de Roi. Ancora oggi gli studenti ricevono un voto annuale sulla conduzione del proprio giardino. Gli obiettivi del laboratorio di giardinaggio, la cui frequenza è programmata dal I al III anno, sono: la sperimentazione di un percorso pratico che integri il processo del progetto di paesaggio; essere in grado di organizzare uno spazio in maniera alternativa, senza agire radicalmente sulla struttura del suolo; l’acquisizione la dimensione economica dell’investimento e della gestione; la capacità di valutare la propria arte e inventare i propri strumenti; la preparazione di un terreno coltivabile; la conoscenza delle piante coltivate e il loro uso, soprattutto quelle alimentari e decorative12.
Figura 2. Potager du Roi, ENSP Versailles. Sito di lavoro dell’ atelier di giardinaggio.
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Figura 3. Giardini degli studenti in costruzione al Potager du Roi.
In quest’ambito gli insegnamenti di ecologia non sono dispensati sotto forma di lezioni teoriche, ma piuttosto come consigli su come preparare il terreno, sulla manutenzione degli impianti e la scelta delle piante. Per ogni nuova classe viene nominato un insegnante, il “giardiniere pilota”. La quasi totalità della fornitura di piante e semi è a carico degli studenti. La cooperazione e gli scambi sono favoriti. Il dipartimento di ecologia mette a disposizione, per ciascuno studente, una gamma di utensili base. Gli studenti sono incoraggiati a possedere o fabbricare i propri strumenti e utensili. Gli atelier di ideazione e realizzazione degli utensili sono inseriti nel quadro del programma del dipartimento di arti plastiche. In giugno una giuria di insegnanti e di esperti visita i giardini degli studenti e valuta e assegna i premi. Il giudizio è dato in base al buono stato del suolo, alla bellezza delle piante, alla diversità delle specie e al buon uso dello spazio. Viene valutato il diario della stagione di giardinaggio, il rilievo delle colture
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Paesaggi fatti a mano. Didattica di architettura del paesaggio in situ
e la relazione sui lavori condotti, integrata da fotografie e disegni13.
Come ci ricorda Gilles Clément14 “Ciò che contraddistingue il paesaggista dagli altri progettisti, è il contatto con la natura e la sua profonda conoscenza. L’essenziale è apprendibile solamente con le attività sul terreno, con l’osservazione prolungata del paesaggio e della sua metamorfosi.” 15
Figura 4. Atelier di giardinaggio al Potager du Roi.
La dimensione temporale è centrale nel progetto di paesaggio. Per renderla percepibile e assimilabile l’ENSP usa due metodi, quello sincronico e quello diacronico: 1. il metodo sincronico si applica visitando paesaggi dove sono presenti elementi vegetali a diversi stadi di crescita. Il concetto di tempo è percepibile per comparazione di stadi di sviluppo. L’osservazione comparata delle diverse età delle entità naturali o gruppi di vegetazione permette di coglierne lo sviluppo e la crescita nel tempo. 2. il metodo diacronico si applica dando agli studenti l’incarico di realizzare e gestire per tre anni il proprio giardino al Potager du Roi. Lo studente assiste alla crescita del proprio progetto e può confrontare lo stadio iniziale e finale a distanza di tre anni. Mentre in Francia il 90% delle scuole di paesaggio può usufruire di giardini di sperimentazione, in Italia solo un esiguo 20% ha questa opportunità.
Figura 5. Il grafico restituisce le percentuali di strutture universitarie potenzialmente attrezzate al loro interno per l’attività sul terreno.
Non avendo a disposizione spazi adeguati nel campus universitario, un risultato analogo può ottenersi frequentando attivamente un cantiere di paesaggio per tre anni consecutivi. Possiamo ipotizzare che la cultura del paesaggio, e il profilo del paesaggista francese trovino la loro radice nella persistenza di una tradizione che parte dal Potager du Roi e giunge potenziata, razionalizzata e riprogrammata fino all’École Nationale Supérieure du Paysage de Versailles. Questa tradizione rinnovata, organizzata attorno alla pratica, ha fatto si che, pure in assenza di un riconoscimento legislativo ufficiale, il paesaggista francese costituisce un punto di riferimento centrale ed essenziale per la committenza sia pubblica che privata.
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Figura 6. “Le Jardin des Orpins et des Graminées”, atelier-cantiere condotto da Gilles Clément a Saint Nazaire nel 2011.
Figura 7. Il giardino 5 mesi dopo.
Lo (s)guardo estraneo
Indagine sulla didattica in situ Europa. Status quo e potenziale
in Italia ed
L’esame approfondito e dettagliato della metodologia dell’ENSP ha stimolato una indagine conoscitiva dei programmi e dei piani di studio delle scuole di paesaggio europee. Tuttavia questa indagine non ha reso possibile delineare un quadro chiaro della rilevanza attribuita alla didattica in situ nelle varie realtà di studio. Per sopperire a questa lacuna e delineare dei dati di partenza sullo stato quantitativo e qualitativo della didattica in situ e il suo potenziale, si è attivato un sondaggio basato su un questionario diffuso ai futuri e giovani paesaggisti europei. I dati presentati sono stati raccolti tra il maggio e il dicembre 2012. Il questionario è stato diffuso in tutte le scuole di paesaggio affiliate all’European council of Landscape Architecture School (ECLAS)16. Il questionario è stato trasmesso mediante piattaforma di condivisione web, tramite il compilatore e gestore di documenti di Google Documents17. Sono stati intervistati 1500 futuri e giovani paesaggisti europei. Iniziamo ad interpretare i dati attraverso i risultati relativi l’accesso alla professione. Dopo gli studi il gran numero dei neo-paesaggisti italiani ed europei trovano un lavoro dopo appena 3 mesi:
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Ma un altro dato ci serve per reinterpretare quello precedente: se da un lato il 72% dei giovani paesaggisti italiani ritiene la propria formazione insufficiente per l’accesso diretto alla professione, dall’altro questo dato per i giovani francesi si riduce al 47%.
Figure 8 e 9. Relazione tra formazione e inserimento lavorativo.
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Supponiamo che per questa ragione in Italia l’apprendistato non retribuito diventa un passaggio obbligato per tutti o quasi. Al contrario, in Francia, il primo impiego è ben retribuito. Come si evince dal grafico seguente i due dati sono diametralmente opposti rispetto alla media europea.
Paesaggi fatti a mano. Didattica di architettura del paesaggio in situ
Questa anomalia è riconducibile ad un’altra anomalia italiana: mentre in tutti i paesi europei analizzati la didattica in situ ricopre circa il 20% del piano di studi, in Italia, unica eccezione, il dato scende ad un esiguo 5% di attività sul campo e di un 95% di attività in aula.
Figura 12. Piano di studi auspicato.
Figura 11. Piano di studi percepito.
Figura 10. Remunerazione media neolaureati.
Quanto alla ripartizione ideale del piano di studi, tutti i giovani paesaggisti intervistati, a prescindere dalla loro provenienza geografica, concordano su un programma didattico equamente ripartito tra lezioni ex cattedra, laboratorio di progetto e didattica in situ, a conferma della consapevolezza generalizzata dell’utilità di questo approccio.
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Possiamo affermare che esiste una vera e propria domanda formativa in questo campo18. “Sarebbe necessaria una conoscenza diretta, anche presso i vivai, delle piante da impiegare nei progetti, piante adatte ai diversi ambienti (costieri, alpini, aridi) nonché nozioni pratiche sulla composizione dei terreni e sulle tecniche di coltivazione, di irrigazione e di ridotta manutenzione dell’ambiente progettato”. Così risponde un giovane paesaggista dell’Università di Roma La Sapienza alla domanda su come dovrebbe essere organizzata una scuola di paesaggio ideale. E non poche risposte a questo quesito insistono proprio sui temi dell’esperienza pratica della materia vivente nella didattica del paesaggio. Così, un’altra giovane, appellandosi all’esperienza delle scuole di paesaggio statunitensi propone una “attività di progetto con workshop sui
Lo (s)guardo estraneo
materiali dell’architettura del paesaggio, le tecniche costruttive, l’ecologia e la gestione delle acque, accompagnati da lezioni sulla storia e la teoria dell’architettura del paesaggio”. Né manca chi propone una scuola di paesaggio che per essere ideale “dovrebbe uscire dal giardino, per entrare nelle aziende agricole e formare nuovi imprenditori agricoli, paesaggisti più precisamente”. E in effetti non c’è dubbio che aziende come quelle vitivinicole potrebbero ricavare un grande vantaggio dalla competente cura dedicata agli spazi produttivi. Quanto detto è, d’altra parte, perfettamente speculare alle risposte che hanno dato i giovani e futuri paesaggisti alla domanda che chiedeva loro di indicare quali abilità, competenze e sensazioni avessero sviluppato facendo attività all’aria aperta sul campo. Con una percentuale più elevata per i giovani francesi rispetto agli italiani, le indicazioni più rappresentative sono riferite alla consapevolezza critica dell’importanza della conoscenza approfondita del sito di progetto e la capacità di adattare il disegno progettuale al terreno. A queste indicazioni bisogna aggiungere quella che fa riferimento, con una connotazione psicologica e umana di apprezzabile rilievo, alla soddisfazione e gratificazione derivante dalla realizzazione concreta di un loro progetto. Alla domanda sulle ragioni che hanno orientato la scelta di frequentare una scuola di paesaggio, si nota una diversità di motivazioni tra i futuri giovani paesaggisti italiani e quelli francesi. Un buon 40% di italiani motiva la propria scelta avendo come finalità la valorizzazione della bellezza di uno spazio naturale e/o urbano. Un 55% dei giovani francesi, invece, è attratto dalla realizzazione pratica dei progetti e dalla possibilità di “stare nel paesaggio”.
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Figura 13. Competenze sviluppate con l’attività in situ. Figura 14. Motivazioni della scelta formativa.
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Salta subito all’occhio la diversità di atteggiamento culturale dei primi rispetto ai secondi. La valorizzazione della bellezza messa in primo piano dai giovani italiani induce a più di una riflessione. Uno spirito ideale sembra animare le loro scelte: centrale infatti è la cultura della bellezza e del “bello ideale” che ci sembra sostanzialmente legata a una visione rinascimentale della cultura del bello19. Ma se è vero che gli studenti hanno questa sensibilità per le bellezze naturali è anche vero che avvertiamo la mancanza in loro di una chiara consapevolezza su come acquisire gli strumenti tecnici per la loro valorizzazione. Al contrario, i giovani francesi in percentuale, come si è detto assai elevata (55%) motivano la loro scelta di una formazione in materia di paesaggio con il desiderio di imparare a “realizzare un progetto in pratica” e di “stare nel paesaggio”, dimostrando un’attitudine empirica e un approccio pratico ancor prima di iniziare gli studi superiori di paesaggio. Bisognerebbe innestare sul fertile terreno della cultura italiana della bellezza quelle competenze tecniche che l’ENSP di Versailles, con il prestigio della sua tradizione è riuscita ad articolare e ad affinare attraverso la didattica in sito. Paesaggio è percezione “In Europa il significato del termine paesaggio da molti condiviso è quello definito dalla Convenzione Europea del Paesaggio (CEP)20. La CEP definisce il paesaggio come “parte di territorio così come percepita dalle popolazioni, il cui carattere risulta dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni.”21
Paesaggi fatti a mano. Didattica di architettura del paesaggio in situ
Partendo da questa definizione, più o meno completa ma certamente condivisa, si introduce la nozione di “percezione” nel quadro giuridico. In questo senso tale definizione istituzionale di paesaggio ha un carattere innovativo ed emblematico rispetto alle normative precedenti in territorio italiano. Il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, pur essendo stato approvato dal Parlamento Italiano nel 2004, è sprovvisto del concetto di “percezione”. Per guidare i processi politici e decisionali relativi al paesaggio, la Convenzione rileva l’importanza della formazione di specialisti di paesaggio, che potremmo chiamare paesaggisti. Essendo il paesaggio definito come “parte di territorio così come percepita dalle popolazioni […]” ne consegue, a nostro avviso, che gli specialisti del paesaggio, i paesaggisti, abbiano in primo luogo bisogno di una formazione, determinata dalla centralità della percezione. Ciò implica la “pratica” diretta del paesaggio. Per dimostrare l’efficacia di una didattica del “fare” cerchiamo a questo punto di chiarire il legame tra percezione, pratica e azione nel paesaggio”. I “movimenti esplorativi” o l’“esplorazione”, dal latino exploratio, ovvero “indagine su cose sconosciute attuata mediante la ricognizione sul campo”22, sono fondamentali, nell’accezione materiale, per l’affinamento della percezione e quindi per la formazione di una mappa mentale, da cui deriva lo sviluppo cognitivo. Nel contesto della didattica del paesaggio, i movimenti esplorativi” possono essere assimilate ad escursioni, visite di realtà produttive, indagini dirette sugli aspetti fisici del paesaggio, sulle realtà sociali e politiche ecc. Facendo proprie le teorie formulate da Almo Farina in ambito ecologico “con il termine percezione intendiamo ciò che del mondo esterno viene
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percepito dal mondo interno di un organismo. La percezione comprende quindi tutta una serie di processi di interpretazione […] mentre le azioni rappresentano le risposte alle percezioni.”23 Il questa chiave possiamo interpretare le azioni intraprese per secoli dall’uomo per modellare il paesaggio, reazioni ai processi di interpretazione innescati dalla percezione. Analogamente possiamo interpretare le azioni di progetto rispetto alle modifiche fisiche del paesaggio. L’insegnamento non può limitarsi alla trasmissione di nozioni. Spesso nel progetto del paesaggio, bisogna avvalersi di contributi soggettivi ed emozionali. In questo è necessario armonizzare l’approccio sensibile e quello cognitivo24. Conclusioni “L’agricoltura, l’industria, l’esercito e la Chiesa, grandi fabbricatori e gestori del paesaggio, occupano sempre meno spazio. Bisogna dunque fabbricare, inventare una parte al posto loro. […] Il paesaggio che i paesaggisti costruiscono non è più solo un’immagine, è uno spazio da lavorare, da gestire, in campagna così come in città e altrove. […]. Molti degli elementi sono già là, bisogna scoprirli nel senso proprio del termine, inventarli. Possiamo rappresentarci il paesaggista come un essere multiplo, in cui coesiste il giardiniere, l’artista, l’ingegnere. “25 Con quale percezione gli specialisti del paesaggio potranno intervenire? Quale sarà la percezione del progettista rispetto a quella degli abitanti locali? In questo la Convenzione non ci aiuta, ma sembra opportuno ritenere che lo specialista avrà funzione di mediatore tra percezione della popolazione e
Lo (s)guardo estraneo
istanze progettuali. È evidente che il paesaggista incaricato di presentare il progetto non può avere la stessa percezione degli abitanti locali. Questo comporterebbe l’immobilità dei paesaggisti dal loro contesto natio. Ciò che permette al paesaggista di comprendere “paesaggi altrui” è la sensibilità e l’immedesimazione. Non essendo oggettivamente misurabili, queste caratteristiche, che pure sono le più importanti per lo specialista del paesaggio, non possono tuttavia rientrare in un quadro legislativo. Ciò che è possibile condividere è la necessità di un esercizio continuo di queste attitudini in ambito formativo. Questo non garantisce risultati misurabili in termini numerici, ma è possibile inserire nella formazione degli specialisti del paesaggio delle pratiche che li mettano a confronto con le difficoltà della mediazione culturale/progettuale.
del 20 aprile 2011, prima bozza da integrare, Roma, 18 aprile 2011.
Riferimenti bibliografici
Figura Figura Figura Figura Figura Figure
AAVV, 2006, Convenzione europea del paesaggio: il testo tradotto e commentato, Riccardo Priore, Reggio Calabria, Centro Stampa d’Ateneo Jean-Luc Brisson, 2000, Le jardinier, l’artiste l’ingénieur, Besançon, Editions de l’Imprimeur
D.P.R. 5 giugno 2001, n. 328. della disciplina dei requisiti per Stato e delle relative prove professioni, nonché della ordinamenti.
Modifiche ed integrazioni l’ammissione all’esame di per l’esercizio di talune disciplina dei relativi
École Nationale Supérieure du Paysage, Département d’Écologie du projet de paysage, 1999, Activités (199899) et bilan 1976-98, rédaction M. Rumelhart, janvierfévrier
Riferimenti digitali www.marcheonline.fr
Almo Farina, 2006, Il paesaggio cognitivo, una nuova entità ecologica, Milano, F. Angeli Franco Zagari, Fabio De Carlo, Enzo Siviero, Centro Universitario Nazionale (CUN) tavolo tecnico sugli studi di paesaggio nell’università italiana, appunti per la riunione
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Barbero Camilla, “Qui sont les paysagistes formés dans les écoles du paysage françaises? Concepteurs, gestionnaires, médiateurs, réflexions sur un modèle interprétatif”, Mémoire de master Théories et démarches du projet de paysage, ENSP Versailles, 2009 3 Franco Zagari, Fabio De Carlo, Enzo Siviero, Centro Universitario Nazionale (CUN) tavolo tecnico sugli studi di paesaggio nell’università italiana, appunti per la riunione del 20 aprile 2011, prima bozza da integrare, Roma, 18 aprile 2011. 4 D.P.R. 5 giugno 2001, n. 328. Modifiche ed integrazioni della disciplina dei requisiti per l’ammissione all’esame di Stato e delle relative prove per l’esercizio di talune professioni, nonché della disciplina dei relativi ordinamenti. 5 Art. 17 D.P.R. 5 giugno 2001, n. 328 6
Riferimenti iconografici 1. Elaborazione dell’autore. 2. foto Romain Quesada. 3. foto Marc Rumelhart. 4. foto Marc Rumelhart. 5 e 8-14. Elaborazioni dell’autore. 6 e 7. Foto Coloco.
et
Barbero Camilla, 2009, Qui sont les paysagistes formés dans les écoles du paysage françaises ? Concepteurs, gestionnaires, médiateurs, réflexions sur un modèle interprétatif, Mémoire de master Théories et démarches du projet de paysage, ENSP Versailles
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Testo acquisito dalla redazione nel mese di luglio 2013. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
Si espongono alcuni dei risultati ottenuti da una ricerca condotta nell’ambito del dottorato di Architettura, parchi giardini e assetto del territorio, nella tesi dal titolo Paesaggi fati a mano. Didattica di architettura del paesaggio in situ. 1
L’architetto conserva tuttavia l’”esclusiva” rispetto all’ingegnere in alcune attività strettamente legate al restauro di edifici di pregio artistico o storico. 7 Si fa presente che l’IFLA e l’EFLA, riconoscono il titolo di paesaggista solo dopo un corso di studi specifici di almeno 4 anni. 8 Nella definizione del profilo di paesaggista l’EFLA si avvale principalmente di una matrice definita dalla Federazione dei paesaggisti tedeschi8, per la quale il paesaggista ha competenze specifiche in: risoluzione di problematiche di carattere ambientale; progettazione integrata delle infrastrutture, pianificazione urbana, territoriale e strategica, definizione delle strategie di protezione della natura e gestione dei siti naturali protetti; strategie agricole e forestali; progettazione di spazi pubblici urbani; mediazione di processi partecipativi e di pianificazione in procedure pubbliche. 9 All’interno dell’EFLA è attivo un dibattito per la definizione di uno standard formativo finalizzato al riconoscimento europeo del titolo di paesaggista. Si rimanda al documento List of relevant European teaching
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contents in the studies of landscape architecture prodotto nel quadro del progetto Implementation of relevant European teaching contents in the studies of landscape architecture (EU-Teach), promosso da ERASMUS-Life Long Learning programme of the European Union and supervised by the Education, Audiovisual and Culture ExecutiveAgency. 10 Per l’analisi degli appalti pubblici di progettazione si è fatto riferimento al sito di evidenza pubblica www.marcheonline.fr, ampiamente diffuso negli ambienti di progettazione francese 11 L’École Nationale Supérieure du Paysage de Versailles (ENSP) offre corsi di formazione in paesaggio ovvero per il titolo comunemente noto come “architetto del paesaggio” (DPLG). La scuola forma paesaggisti che operano nel campo degli spazi urbani e naturali in grado di fornire la gestione dei progetti e le consulenze per le amministrazioni pubbliche e le imprese private. La scuola dipende dal Ministero dell’Agricoltura, e ha sede nei locali precedentemente occupati dall’École Nationale Superieure d’ Horticulture ed è responsabile della manutenzione del Potager du Roi, orto reale di Versailles. Sembra che nella scuola di Versailles sia nata la formazione d’architettura del paesaggio più antica d’Europa. 12 École Nationale Supérieure du Paysage, Département d’Écologie du projet de paysage, Activités (1998-99) et bilan 1976-98, rédaction M. Rumelhart, janvier-février 1999, pag. 45. 13 Ibidem, pag. 46. 14
Gilles Clément (Argenton-sur-Creuse, 6 ottobre 1943) è uno scrittore, entomologo, giardiniere, architetto paesaggista ed ingegnere agronomo francese. È insegnante all'École nationale du paysage di Versailles. 15 Gilles Clément, intervista dell’autrice, Parigi gennaio 2011. 16 La diffusione del questionario è avvenuta tramite email, grazie alla collaborazione dei docenti delle scuole di paesaggio europee, e grazie alla diffusione sul sito web dell’IFLA http://europe.iflaonline.org/ .
Paesaggi fatti a mano. Didattica di architettura del paesaggio in situ
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Google Docs è un servizio messo a disposizione da Google per apportare modifiche e trasmettere documenti. 18 Per un approfondimento di alcune esperienze emblematiche di didattica in situ si rimanda a Occhipinti Fausta, Paesaggi fatti a mano, didattica di architettura del paesaggio in situ, Tesi di dottorato, Università degli studi Mediterranea di Reggio Calabria, 2013. 19 E’ tutto questo piacevolmente sorprendente in un momento in cui in Italia l’incuria delle istituzioni caratterizza l’atteggiamento nei confronti del patrimonio artistico e paesaggistico. La cultura del bello viene alimentata da una continua familiarità con le arti ed è paradossale che nella formazione del paesaggista e dell’architetto in Italia sia assente qualsiasi insegnamento legato all’espressione e allo sviluppo della creatività attraverso le arti applicate. 20 AAVV, Convenzione europea del paesaggio: il testo tradotto e commentato, Riccardo Priore, Reggio Calabria, Centro Stampa d’Ateneo, 2006. La CEP è stata approvata dal Consiglio d’Europa nel 2000, e ratificata dal Presidente della Repubblica Italiana nel 2006. 21 Ibidem, art. 1 lett. a. 22
Definizione data dal Dizionario della Lingua Italiana Treccani. 23 Farina Almo, Il paesaggio cognitivo, una nuova entità ecologica, Milano, F. Angeli, 2006, pag. 47. 24 Marc Rumelhart, intervista dell’autrice, Parigi, gennaio 2011. 25 Brisson Jean-Luc, Le jardinier, l’artiste et l’ingénieur, Besançon, Editions de l’Imprimeur, 2000.
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Lo (s)guardo estraneo
Cosa intendiamo per educazione, ed in particolare per educazione al paesaggio?
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What do we intend for education and, in particular, for education to landscape?
Cristina Kopreinig Guzzi*
abstract
abstract
I percorsi di educazione e autoeducazione al territorio sono qui intesi quali strumenti di cittadinanza condivisa, ossia di partecipazione attiva nella sua gestione, sia nella pratica professionale e sia nella vita civile. Le scelte dovranno avvenire dopo aver vagliato a fondo gli scenari di sviluppo possibili e dopo aver individuato quelli più sostenibili, ossia quelli in cui si può rintracciare un equilibrio della triade ambienteterritorio-paesaggio. Il progetto di educazione parte da un rinnovato sguardo e sviluppa gli apporti di autori quali Carta, Demetrio, Sparti, Zeldin, che assegnano particolare attenzione alle relazioni tra gli esseri umani, la memoria storica e i luoghi. Gli obiettivi del progetto prevedono: promuovere la conoscenza della triade, creare cultura e consapevolezza sui suoi valori, costruire un percorso educativo da realtà territoriali specifiche, fornire strumenti didattici strutturati, flessibili, di agile e graduale operatività.
The paths of education and self-education to territory are here intended as instruments for shared citizenship that is active participation in its management, both in the professional practice and civil life. The choices will be done after having examined the possible development sceneries and after having chosen those ones more sustainable, that is those in which we can find an balance in the triad environment-territory-landscape. The project of education starts from a renewed look and develops the contributions of authors as Carta, Demetrio, Sparti, Zeldin, whom give particular attention to relations between humans, the historic memory and places. The objectives of the project foresee: to promote the knowledge of the triad, to create culture and consciousness of its values, to build an educational paths from specific territorial realities, to give flexible and didactic instruments for a smart and gradual operation.
parole chiave
key-words
Conoscere, riconoscersi, amare, partecipare gestire, ambiente-territorio-paesaggio.
a
To know, to recognize, to love, to participate at management, environment-territory-landscape
* Architetto POLI MI SIA OTIA REG A, Urbanista pianificatrice Federazione Svizzera Urbanisti Docente Master Polismaker, Politecnico di Milano
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Premessa Se ci si interroga sull’educazione si fa in qualche modo riferimento alla crescita culturale nell'ambito delle scienze umane cui spesso la pedagogia è associata. Studi sul paesaggio e sul territorio attengono alle scienze umane? Più che di natura epistemologica il quesito è di natura pragmatica. Infatti si constata sempre più spesso nella pratica della gestione territoriale come il carente aggancio alle scienze umane e in particolare alle scienze politiche lasci gli studi sul paesaggio e sul territorio troppo lontani dalla sfera della politica e della governance. Nella prima parte di questo contributo si cerca di dare risposta al quesito posto riflettendo anche sui destinatari del percorso educativo al paesaggio, nella seconda parte si delineano alcuni aspetti relativi alla triade ambiente-territoriopaesaggio, mentre nella terza si portano alcuni elementi concreti per la costruzione di uno specifico percorso formativo. Educazione al paesaggio, territorio, scienze umane
scienze
del
Volendo impostare un percorso educativo al paesaggio1, pur non procedendo ad una disamina dello stato dell’arte delle scienze del paesaggio e del territorio, che esula l’economia del presente contributo, occorre richiamare uno dei temi ricorrenti ed in particolare il tema della sostenibilità; e ciò per segnalare che l’attenzione alla sostenibilità non è di per se stessa sufficiente. Se infatti in termini di sostenibilità ambientale oppure di sostenibilità economica i risvolti formativi si stanno in qualche misura delineando, si è ancora molto distanti dal fare territorio e città sostenibile
Cosa intendiamo per educazione, ed in particolare per educazione al paesaggio?
dal punto di vista sociale e antropico, ma anche dal punto di vista paesistico. Se infatti ad esempio si guarda e alla città e in essa al paesaggio urbano come risultato, fulcro e catalizzatore di dinamiche complesse ci si rende conto del fatto che le scienze pure, l’economia, il diritto, l’economia politica e la tecnologia non sono in grado di afferrare i nodi centrali del problema dello sviluppo urbano. Risultano quindi indispensabili gli strumenti di analisi delle scienze umane, per esempio afferenti ai concetti di etica, di responsabilità verso gli altri e verso la natura, di valore morale e di senso; non è possibile in questa sede esporre appieno i passi che si stanno compiendo dal profilo della ricerca per ancorare le scelte territoriali a questi concetti ma è possibile affermare che la crescita in termini di cultura territoriale e di maggiore identificazione con il proprio spazio di vita, città, regione e in senso lato territorio di appartenenza, sembra rappresentare il punto cruciale per una maturazione collettiva su questi temi impegnativi. Purtroppo in realtà invece ancor oggi decisioni importanti circa il futuro della città, e quindi del paesaggio urbano, ma anche del paesaggio in senso lato, vengono prese da attori istituzionali poco attenti agli studi specialistici su questi temi. Non è quindi questione oziosa, ne si può essere tacciati di presunzione, se ci si domanda se l’educazione al paesaggio non debba rivolgersi anche agli attori istituzionali, ai decisori pubblici, agli enti che operano le scelte in materia territoriale, chiamati a ponderare gli interessi in gioco attraverso gli strumenti della pianificazione del territorio. E ciò in particolare quando tali enti perseguano l’obbiettivo di coinvolgere i cittadini nel processo pianificatorio. La riflessione sull’educare può dunque intendersi come strettamente
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connessa a quella sulla cittadinanza condivisa 2: è infatti urgente sensibilizzare sia il politico che il cittadino, con particolare attenzione alle diverse fasce d’età. Alla luce di recenti esperienze, tale sensibilizzazione può diventare strumento proficuo da contrapporre alla purtroppo diffusa incapacità di accogliere le ragioni del territorio. I passaggi del percorso di educazione e autoeducazione che rappresentano il punto focale della proposta formativa riportata nella parte finale del testo conducono all’obiettivo ultimo che è quello di partecipare attivamente a gestire il territorio nella pratica professionale e nella vita civile; è evidente che l’elenco dei soggetti cui riferirsi va arricchito proprio a partire dalle esperienze concrete nella città e nel territorio: per esempio non è da trascurare una categoria che sempre più sembra abbisognare di educazione su questi temi, quella dei professionisti che svolgono attività di forte incidenza territoriale quali architetti e ingegneri e costruttori. A questo proposito può essere utile richiamare il pensiero dell’antropologo Franco La Cecla3, che qualche anno fa in un articolo apparso su una rivista italiana (Urbanistica, giugno 1996), poneva la questione del rapporto tra urbanistica e scienze umane: l’urbanistica è una scienza umana? è solo una consorella un po’ più “sociale” dell’architettura? Sviscerare, o almeno affrontare la questione può essere utile per due motivi: prima di tutto perché la responsabilità di molti sfregi e ferite inferte al paesaggio è spesso attribuita all’urbanistica e alla pianificazione da architetti profani, digiuni in scienze del territorio; in secondo luogo perché la sostenibilità ambientale, sociale, economica ma anche paesistica perseguita dagli urbanisti è uno degli aspetti invece maggiormente negletti da architetti, imprenditori,
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immobiliaristi e general contractor come pure dalla maggior parte dei decisori pubblici che assegnano mandati e appalti pubblici. Si tenta quindi nelle righe che seguono di offrire qualche spunto di riflessione sulla relazione tra urbanistica e architettura mettendo subito in campo una delle discriminati che è l’approccio all’interesse generale: questione impegnativa e difficile per affrontare la quale, sia pure tentativamente, si è fatto riferimento alla lucida trattazione di Salvatore Settis (Settis 2012): “Nell’interesse dei più lontani (lontani per condizioni di vita, lontani nello spazio, lontani nel tempo-le generazioni future), ma anche per nostro immediato beneficio, è sul bene comune che dobbiamo orientare l’ago della bussola. Due sono i fondamenti principali del bene comune. Il primo viene dal passato e si articola nella storia: è l’ ‘interesse generale’ per come è stato espresso in una costante tradizione etica e giuridica, nella quale il mutamento del nome (bonum commune, publica utilitas, volontà generale…) non oscura la persistenza di uno stesso sistema di valori. Il secondo fondamento viene dal futuro ed è innescato dalla necessità: sappiamo che il dissennato consumo delle risorse, del suolo, delle acque comporta crescenti, gravissime conseguenze sulla Terra e sulla nostra salute; sappiamo che il collasso di millenari equilibri ambientali è già in atto e ci colpisce già oggi, in una brutale escalation destinata a inasprirsi nel tempo. Sappiamo poi, noi italiani, che alcuni di questi problemi, a cominciare dal consumo dei suoli a scapito delle coltivazioni, raggiungono nel nostro Paese punte intollerabili.” Rispetto al consumo di suoli, al bene comune e più in generale alla ricerca della felicità architettura e
pianificazione territoriale sembrano porsi diversamente: l’elenco di individualismi, smanie e cupidigie che annullano la città, come il privatizzare il paesaggio, l’abbattere le piante perché le radici rovinano l’asfalto e le carrozzerie e il fogliame limita il profitto su viste mozzafiato, l’abbattere edifici che impediscono la massimizzazione dello sfruttamento del patrimonio fondiario, il chiudere attività, officine e negozi men che produttivi inquieta e indigna molto l’urbanista, un po’ meno l’architetto-costruttore. Urbanistica e architettura partono da due punti di vista diversi e spesso antitetici: l’urbanista predispone il piano tutelando4 l’interesse pubblico e ponderando gli interessi in gioco, l’architetto concepisce il progetto dando risposta a istanze di uno o più soggetti (privati o pubblici) in base a un determinato, circoscritto mandato. La nozione di interesse pubblico è quindi centrale nell’attività dell’urbanista, e ciò anche dal profilo giuridico dato che piani e strumenti pianificatori si riferiscono all’accezione di tale nozione ancorata nella legislazione in materia: le implicazioni in termini di governance sono evidenti se si pensa che il grado di civiltà di un paese si misura dalla capacità dei decisori pubblici di strutturare il territorio per il bene comune. Il bene comune potrebbe diventare dunque il fulcro di una rinnovata dialettica tra architettura e urbanistica e il punto di partenza del percorso formativo che ci occupa. Ne consegue che le citate categorie di professionisti con attività di forte incidenza territoriale, assieme a quelle dei responsabili della cosa pubblica e amministratori, possono trarre partito da percorsi educativi e auto educativi al territorio. Il nesso tra tali percorsi formativi e gli insegnamenti nell’ambito delle
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scienze umane, in particolare politiche è ampiamente dimostrato, come pure i nessi con l’offerta formativa delle facoltà di architettura e ingegneria. Potrebbe anche essere l’occasione per fare chiarezza su termini abusati o usati a sproposito quali “progettazione partecipata” e “pianificazione partecipata” che attengono di fatto a strumenti di partecipazione puntuali, caratterizzati da eventi o momenti informativi pubblici di breve periodo con grossi limiti operativi e metodologici: le competenze in materia di coinvolgimento dei cittadini nelle scelte pianificatorie e degli attori locali in progetti di sviluppo, volte ad allargare il consenso sui temi territoriali, vanno invece impostate su modalità innovative di cittadinanza condivisa caratterizzate da continuità dell’ascolto del cittadino, processo di apprendimento collettivo (ente decisore che apprende insieme alla comunità), assegnazione di valore al risultato collettivo e interazione con gli attori locali. Tali competenze crescono se il percorso formativo parte da un rinnovato sguardo ai temi territoriali per sviluppare il concetto di partecipazione e di cooperazione degli attori presenti sul territorio; e ciò allo scopo di superare le sempre più diffuse difficoltà di comunicazione tra le istituzioni e il cittadino circa le scelte territoriali. Il problema dell’indifferenza e della scarsa partecipazione sono affrontati assegnando priorità alle relazioni tra gli esseri umani, il loro territorio e la memoria storica. Tali relazioni sono presupposto di sostenibilità sia dal punto di vista sociale e ambientale che economico riaffermando dal profilo educativo e pedagogico la centralità delle scienze umane.
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Ambiente-territorio-paesaggio Le riflessioni sulla sostenibilità e le proficue contaminazioni tra l’attività di urbanista e quella di docente hanno arricchito di significati la dicitura in un primo tempo utilizzata di “educazione al paesaggio”: infatti la realtà del paesaggio, fuori e dentro la città, e gli strumenti pianificatori che tale realtà mirano a gestire, hanno portato a ritenere efficace lavorare sulla triade ambiente-territoriopaesaggio piuttosto che sui soli aspetti del paesaggio. Si tratta di articolare la dimensione della sostenibilità e mirarla alla qualità del vivere: si fa progetto di ambiente-territorio-paesaggio, risposta disciplinare alle nuove istanze che sostituisce lo strumento ormai superato del puro e semplice “progetto di territorio”. Il nuovo tipo di progetto5 persegue l’equilibrio della triade ogni qual volta individua un intervento concreto: è una visione sistemica che rende automaticamente gli interventi più coerenti dal profilo pianificatorio mentre traccia i contorni di un possibile percorso educativo. Perché una triade? per trattare i temi in modo integrato, tenendo presente che ogni intervento produce effetti che devono essere sostenibili6 almeno da tre punti di vista: ambientale: s’intende l’insieme delle componenti naturali presenti e delle risorse (come fauna flora / acqua aria suolo energia); territoriale: s’intende l’organizzazione funzionale delle diverse componenti , gli impianti, le infrastrutture ( ad esempio la mobilità), le strutture e i costi connessi;
Cosa intendiamo per educazione, ed in particolare per educazione al paesaggio?
paesistico: s’intende l’insieme degli aspetti visibili del luogo che concorrono a formare la sua identità percepibile (come morfologia, topografia, vegetazione, tipi insediativi, ecc., l’elenco non è evidentemente esaustivo (paesistico e non paesaggistico per prendere le distanze dal criterio del “bel paesaggio da cartolina”). È interessante notare che le parole stesse denotano il cambiamento di mentalità: non si parla tanto di “contesti”, di “zone”, di “aree”, entità astratte, ma del luogo di cui si ha esperienza quotidianamente. Questo rinnovato approccio, distintivo dei piani più attuali, tenta di sviluppare la dimensione profonda del tema del paesaggio che è dimensione umana e sociale pensando all’identificazione dei cittadini con il proprio spazio di vita; dimensione territoriale pensando ad esempio ai piccoli centri storici così raccolti e contemporaneamente così urbani nella loro densità edilizia e umana, frutto di civile convivenza. Dimensioni che sostanziano la qualità che s’insegue quando si parla di città sostenibile e di cultura territoriale, di rapporto tra il centro abitato e il suo territorio, di locale-globale: valori paesistici, vivere civile, senso del luogo appunto. Per queste considerazioni il piano, il progetto in senso lato ma anche il percorso educativo non sembrano poter prescindere dalla triade ambienteterritorio-paesaggio. Occorre perseguirne l’equilibrio: la componente paesistica intesa come l’insieme degli aspetti visibili del luogo che concorrono a formare la sua identità percepibile, è centrale nel percorso educativo e auto educativo ma va considerata insieme alle altre due
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componenti della triade. Ciò consente di articolare concretamente scenari di sviluppo sostenibili. (Rif. grafici) In base alle esperienze sul campo e alle considerazioni sopra esposte per quanto attiene al percorso formativo si è in conclusione ritenuta la definizione terminologica di educazione all’ambiente-territorio-paesaggio come la più idonea a comprendere i contenuti esposti al paragrafo seguente, nel caso specifico di una realtà locale.
Figura 1. La relazione tra le componenti è molto stretta: se si interviene su una di esse anche le altre due possono subire delle alterazioni.
Lo (s)guardo estraneo
LETTURA DEGLI ELEMENTI PRESENTI NEL COMPRENSORIO DI STUDIO dal punto di vista Paesistico
elemento
OBIETTIVI DELLA VARIANTE dal punto di vista Paesistico
obiettivo
ambientale
ambientale
territoriale
orti frutteti parzialmente su terreno terrazzato vigneti in terreni segnalati nel catasto viticolo con pendenza dolce facilmente coltivabile torrente con vegetazione arborea e arbustiva bosco al limitare della zona a parco e vigneto Insediamento antico di pregio compatto nelle immediate adiacenze aree aperte insediate con “tipologia villa nel parco insediamento recente non di pregio percorrenza antica (strada regina/ piazza) matrice Percorrenze antiche (sentieri) in parte abbandonati da ripristinare “porte d’entrata in paese” da valorizzare
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Flora: piante da frutto (noci,fichi……vigneti); alberi maestosi isolati di specie autoctone(tigli,castagni,…) e alloctone (cedro del libano….)
Suolo libero, limitatamente cementificato, edificato solo puntualmente , quindi atto a permettere il passaggio di rettili, uccelli e altri animali
Insediamento formato da : o unità edilizie semplici isolate (tipologia: edificio specialistico (pubblico asilo municipio.) e villa isolata o unità edilizie aggregate parallele alle curve di livello(antiche e recenti) strada principale da arredare nei tratti di entrata in paese area di parcheggio da potenziare riordinare e arredare in corrispondenza della “porta d’entrata in paese” dalla strada regina che sale dal fiume Magliasina
territoriale
Valorizzare le aree circostanti il nucleo secondo gli indirizzi scaturiti dalla Risoluzione del Consiglio di Stato tutelare le aree coltivate e le alberature di pregio esistenti valorizzare l’insediamento antico adiacente inserire alberature di pregio “a parco” garantire la “costruzione di un paesaggio di qualità” nel caso di edificazione di nuove unità abitative eventualmente pavimentare in modo particolare tratti di collegamento tra la strada regina e i sentieri e realizzare opere di arredo verde nella aree di sosta al servizio delle abitazioni esistenti
tutelare la flora esistente
recuperare e valorizzare l’Insediamento esistente ammettendone l’ampliamento controllato rendendo più sicuro per i pedoni (bambini in particolare) l’accesso all’asilo riordinare e potenziare i parcheggi al servizio del quartiere
Figura 2. Grafici
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Cosa intendiamo per educazione, ed in particolare per educazione al paesaggio?
Uno specifico percorso formativo La costruzione di un percorso educativo e auto-educativo all’ambienteterritorio-paesaggio ha a che fare con strumenti formativi a diversi livelli. Le attività condotte nell’ambito della ricerca e dell’insegnamento universitario7 hanno permesso di individuare un certo numero di strumenti concreti testati e utilizzati nell’ambito del corso di pianificazione del territorio e del corso di educazione al territorio e cittadinanza condivisa di cui si riportano nelle tavole fuori testo alcuni stralci.
Figura 3. Corso di Pianificazione del territorio – Scuola Universitaria Professionale, Dip. Costruzioni e territorio (a. a. 2001-02). Docente C. Kopreinig Guzzi architetto Figura 4. Corso di Pianificazione 2 – educazione al territorio e cittadinanza condivisa – Scuola Universitaria Professionale, Dip. Ambiente Costruzioni e Design (a. a. 2011-12). Docente C. Kopreinig Guzzi architetto
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Un primo stralcio attiene ad un gruppo tematico di lezioni in cui si è lavorato con gli studenti sulla triade ambiente-territorio-paesaggio nell’ambito del corso di pianificazione del territorio, a partire dal 2001 2002, contestualizzando man mano negli anni la metodologia con esempi, esercitazioni e casi di studio tratti dall’attualità e dalla realtà territoriale con specifico riferimento al livello locale, regionale e interregionale. Per dovere di sintesi si è scelto di riportare qui di seguito alcune pagine della dispensa (nella prima versione del 2001 2002 perché più ricca di schemi) omettendo invece la trascrizione completa del corso.
Figura 5. Contenuti schematici del corso di Pianificazione del territorio – Scuola Universitaria Professionale, Dip. Costruzioni e territorio (anno accademico 2001-02). Docente Cristina Kopreinig Guzzi architetto
Lo (s)guardo estraneo
55 Goleman Daniel, L’intelligenza emotiva,Rizzoli 1996
L’altro stralcio attiene ad un secondo gruppo tematico in cui a partire dai contenuti del corso di pianificazione del territorio e in particolare dalla triade ambiente-territorio, si è lavorato nel 2011- 2013 con gli studenti al percorso educativo conoscere, riconoscersi, amare, partecipare a gestire il territorio, nell’ambito del corso di Educazione al territorio e cittadinanza condivisa. Particolare attenzione è stata rivolta ad offrire agli studenti strumenti per introdurre quanto appreso nella pratica professionale e nella città in senso lato, nella convinzione che un territorio conosciuto, amato e in cui il cittadino si riconosce, corre meno il rischio di essere lasciato a dinamiche spontanee; non dovrebbe più essere possibile incidere in tale territorio senza averne prima vagliato le conseguenze in termini di sostenibilità. Anche in questo caso per dovere di sintesi si è scelto di riportare nelle tavole fuori testo alcune pagine omettendo la descrizione completa del corso.
patrimonio mobilità rete urbana vivibilità equità
lago, prati, boschi incontaminati approvvigionarsi ovunque città vivace, frenetica godersi la vita, prendersi il tempo pensare agli altri
Schema delle conoscenze di base e gli utensili per la lettura territoriale Figura 7. L’intelligenza emotiva, libera interpretazione grafica dell’autore a partire da un’immagine di Michele Pregliasco e dal libro di Daniel Goleman, op.citata.
conoscenza storica economica geografica naturalistica botanica idrogeologica sociologica artistica etnografica agronomica ………
memoria percezione racconto
lettura territoriale Figura 6. Il percorso educativo ed auto-educativo. Corso di Pianificazione 2 – educazione al territorio e cittadinanza condivisa – Scuola Universitaria Professionale, Dip. Ambiente Costruzioni e Design (a. a. 2011-12). Docente C. Kopreininig Guzzi architetto
Figura 8. Schema di base e gli utensili per la lettura territoriale
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Da un punto di vista generale è utile richiamare il fatto che il corso riprende gli scopi della scuola universitaria per la quale il corso stesso è stato concepito: offrire formazione e cultura di base agli studenti, predisponendo percorsi didattici che li rendano idonei a pensare e agire in modo interdisciplinare, assumere compiti direttivi e responsabilità di natura sociale, assumere responsabilità di tutela dell'ambiente e delle basi vitali naturali. Occorre però sottolineare un aspetto problematico emerso negli anni di insegnamento: si è andato via via constatando un divario nel modo di intendere le responsabilità sociali che gli studenti, futuri professionisti devono assumere. Il divario riguarda la posizione verso il mercato edilizio e il settore delle costruzioni che per la docente, ideatrice del corso, dovrebbe essere, in osservanza dei criteri di sostenibilità descritti nella prima e seconda parte del presente contributo, critica e circospetta, mentre per alcuni studenti e per la direzione della scuola dovrebbe essere funzionale alla domanda di mercato. In altri termini i contenuti del corso avrebbero forse dovuto secondo taluni tenere maggiormente conto del fatto che i futuri architetti e ingegneri devono “saper costruire” , non tanto domandarsi dove, se, e in che misura occorra oggi ancora costruire. Domande che inquietano, come detto, in effetti più i territorialisti che le scuole professionali, volte in qualche modo a formare quel “capitale umano” che dovrebbe svolgere le occupazioni strategiche funzionali all’economia.
Cosa intendiamo per educazione, ed in particolare per educazione al paesaggio?
approccio usuale nella pianificazione partecipata CONSENSO circolo virtuoso? circolo virtuoso? attori iter
approccio innovativo alla pianificazione partecipata
base di conoscenza condivisa CONSENSO
pianificazione partecipata ( approccio usuale)
autorità tecnici selezione soggetti da coinvolgere
autorità tecnici riesame
condivisione dei temi con gli amministratori comunali
autorità tecnici soggetti coinvolti elaborazione linee strategiche
autorità tecnici piano cittadini informazione pubblica
Figura 9. Gli schemi si riferiscono a due casi studio: caso di studio 1: a Vrin la partecipazione diventa il fulcro del lavoro del progettista in una sintesi dell’operare dell’ingegnere, dell’architetto, del costruttore,
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lettura territoriale: individuazione dei temi significativi diario di quartiere esigenza di ampliare
azione per aumentare la capacità di espressione le conoscenze territoriali del cittadino e di ascolto dell’amministratore: testimonianze
esigenza di ampliare la base di conoscenza condivisa governance non governement
caso di studio 2: a Lugano si da avvio alla revisione del piano regolatore che dovrà armonizzare strumenti urbanistici, obiettivi di qualità di vita e problematiche specifiche nei diversi quartieri che formano la città , frutto del processo di aggregazione comunale.
Lo (s)guardo estraneo
L’attrito interno alla scuola si fa acceso quando la responsabile della materia pianificazione del territorio ritiene importante riferire ancora di più i contenuti del corso al contesto sociale, inserendo un gruppo tematico dedicato al coinvolgimento dei cittadini nella costruzione della città sostenibile (vedi figura 7). E ciò dal punto di vista disciplinare dell’urbanista, privilegiando i seguenti approcci: sostenibilità intesa come caratteristica che ogni intervento territoriale deve avere affinché sia coerente in termini appunto di ‘sviluppo sostenibile’ , interdisciplinarietà, intesa come capacità dei futuri professionisti di comprendere e integrare i diversi apporti professionali nella ‘costruzione del territorio’ con particolare attenzione al ruolo dell’ingegnere e dell’architetto, creatività intesa come capacità di affiancare alla razionalità la dote dell’intelligenza emotiva, uscendo da una visione puramente tecnica del costruito. Si vorrebbe che il dibattito su questi temi fuori e dentro la scuola continuasse. In ogni modo con il percorso formativo proposto non si crede di dare risposte esaustive al quesito delle ‘cosa intendiamo per educazione ?’ si spera solo di aver ‘messo in fila’ alcune questioni pertinenti. Questioni che stanno a cuore: “Il territorio è generato da un atto di amore (inclusivo degli atteggiamenti estremi della sottomissione e del dominio), seguito dalla cura della crescita dell’altro da sé. Il territorio nasce dalla fecondazione8 della natura da parte della cultura. L’essere vivente che nasce da questa fecondazione (in quanto neoecosistema ha un suo ciclo di vita, è accudito, nutrito, ha una sua maturità, una sua vecchiaia, una sua morte, una sua rinascita) ha carattere,
personalità, identità, percepibili nei segni paesaggio.” (Magnaghi 2000). Questioni provvedere, auto-educarsi, educare.
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del cui
In sostanza il progetto di educazione all’ambienteterritorio-paesaggio parte da un rinnovato sguardo che assegna particolare attenzione alle relazioni tra gli esseri umani, la memoria storica e i luoghi. Gli obiettivi del progetto possono essere così riassunti: promuovere la conoscenza della triade territorio ambiente-paesaggio, creare cultura e consapevolezza sui suoi valori, costruire un percorso educativo da realtà territoriali specifiche, fornire strumenti didattici strutturati, flessibili, di agile e graduale operatività.
Seguono le tavole fuori testo
Figura 10. Amare un territorio. “L’agricoltura sostenibile – e in generale la gestione ecologica del rapporto tra insediamenti e sistemi ambientali di sostegno – richiedono inoltre la ripresa o il rafforzamento delle attività di manutenzione attiva del territorio, nuove strategie di cura e di attenzione, anche collettiva, del paesaggio agrario, del bosco, della natura in generale. La riqualificazione del paesaggio, la sua difesa, l’intervento nel caso di disastri naturali o artificiali (alluvioni, incendi, erosione, frane, siccità, ecc..) richiedono un’osservazione continua del territorio, un monitoraggio sensibile delle trasformazioni ambientali, una partecipazione consapevole, anche collettivamente organizzata, alla gestione del patrimonio naturale e paesaggistico. La manutenzione del territorio richiede uno stile di vita individuale sensibile verso la terra, uno stile di vita della collettività basato sulla cooperazione e l’aiuto reciproco, una partecipazione diretta e sapiente alle vicende del suolo e dell’ambiente, una collaborazione con gli organismi istituzionali, di pianificazione e di gestione.” (Magnaghi 2000).
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Cosa intendiamo per educazione, ed in particolare per educazione al paesaggio?
Corso di PIANIFICAZIONE DEL TERRITORIO
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Lo (s)guardo estraneo
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Cosa intendiamo per educazione, ed in particolare per educazione al paesaggio?
Corso di PIANIFICAZIONE 2_educazione al territorio e cittadinanza condivisa
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Cosa intendiamo per educazione, ed in particolare per educazione al paesaggio?
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2002,
La
conversazione,
Sellerio
editore,
I parchi della Liguria, Montemarcello-Magra, parco naturale regionale, Aree protette regione Liguria (videocassetta)
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Testo acquisito dalla redazione nel mese di settembre 2013. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
La Cecla F., 2011, Mente locale. Per un'antropologia dell'abitare. Eleuthera, Milano Magnaghi A, 2000, Il progetto locale. Bollati Boringhieri, Torino Mumford L., 1961, La città nella storia, Bompiani Museo cantonale di storia naturale, 1997, Introduzione al paesaggio naturale del cantone Ticino, Dadò, Locarno. Sparti D, 2003, L’importanza di essere umani. Etica del riconoscimento, Feltrinelli, Milano
1
La dicitura ‘educazione al paesaggio’ verrà nel testo man mano precisata e arricchita dei significati che si sono rivelati pregnanti nell’attività professionale, di ricerca e insegnamento dell’autrice, giungendo alla definizione terminologica apparsa più idonea di ‘educazione all’ambiente-territorio-paesaggio’. 2 Si utilizza questo termine per distinguere le esperienze innovative di coinvolgimento dei cittadini condotte nel luganese a partire dal 2006 con il progetto ConSenso e
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con il progetto SaluTeBrè (progetto in corso) dalle usuali forme di pianificazione partecipata; si tratta di processi partecipativi che attestano come soluzioni sviluppate solo su basi tecniche e prassi pianificatorie top down non sembrano più sufficienti ad indirizzare adeguatamente le dinamiche urbane. 3 Questa riflessione di La Cecla è apparsa in Gea, Numero 7 gennaio 1999, in un articolo che si richiama integralmente data la pregnanza sul tema. 4 Evidentemente ci si riferisce qui a professionisti che rispettano i fondamenti deontologici della professione, ciò che purtroppo non esclude vi siano pratiche urbanistiche carenti o addirittura scorrette. 5 Ci si riferisce qui in particolare al progetto SaluTeBrè curato dall’autrice per l’Associazione Uniti per Brè, Lugano progetto in corso. 6 Essi concorrono con gli aspetti economici e sociali a formare la triade della sostenibilità come sancita nella legislazione in vigore. 7 Ci si riferisce all’attività di ricerca e ai corsi di formazione continua e formazione di base tenuti dall’autrice a partire dal duemila in seno alla Supsi, Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana a Lugano-Trevano e in particolare ai corsi di Pianificazione territoriale I e II, come pure al corso di Educazione al territorio e cittadinanza condivisa, e alle relative pubblicazioni rintracciabili nel settore ricerca, rispettivamente biblioteca al sito www.supsi.ch . Tali attività formative e di ricerca sono attualmente sospese in considerazione della rivisitazione dei corsi di laurea di architettura e ingegneria. 8 Nota 2 nel testo di Magnaghi, op.citata. Preferisco usare il termine “fecondazione” rispetto a quello di “domesticazione” ripreso recentemente da Raffestin (1995), per accentuare il fatto che l’ambiente prodotto dalla relazione è un neoecosistema, cioé un sistema vivente “altro” dai due attori che l’hanno generato. La società antropica e la natura.
Lo (s)guardo estraneo
L'educazione al paesaggio nell'ambito di un Osservatorio: conoscenza, consapevolezza, condivisione.
Education on landscape and Observatories: knowledge, awareness, sharing.
L’esperienza del Canale di Brenta (Vicenza)
The experience in (Northeastern Italy)
Benedetta Castiglioni
Canale
di
63
Brenta
*
abstract
abstract
Con riferimento all’approccio proposto dalla Convenzione Europea del Paesaggio - che pone l’attenzione sul ruolo delle percezioni delle popolazioni, delle loro aspirazioni e del bisogno di una accresciuta consapevolezza dei valori del paesaggio - le attività di educazione e di sensibilizzazione possono efficacemente svilupparsi nell’ambito degli Osservatori del Paesaggio. L’articolo presenta l’esperienza dell’Osservatorio del Paesaggio del Canale di Brenta (Vicenza), in cui tra il 2011 e il 2012 oltre 1300 bambini e ragazzi con i loro 80 insegnanti sono stati coinvolti in attività imperniate sulla conoscenza, consapevolezza e condivisione del paesaggio e finalizzate alla lettura della sua complessità (lettura denotativa, connotativa, interpretativa e temporale).
Starting from the approach proposed by the European Landscape Convention, which focuses on the role of people’s perceptions, aspirations and needs for increased awareness of landscape values, landscape education activities can be effectively implemented in the frame of the Landscape Observatories. The paper presents the experience of the Landscape Observatory of Canale di Brenta (Northeastern Italy), where in 2011-12 more than 1300 school children and their 80 teachers where involved in activities focused on knowledge, awareness and sharing of landscape and aimed to the reading of its complexity (denotative, connotative, interpretative and temporal reading) .
parole chiave
key-words
educazione al paesaggio, lettura del paesaggio, Osservatorio del paesaggio
education on landscape, Landscape Observatory
landscape
reading,
* Professore associato di Geografia, Dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’Antichità, Università degli Studi di Padova
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L'educazione al paesaggio: un’esigenza alla luce della CEP La questione della sensibilizzazione e della divulgazione sul tema del paesaggio, così come quella più specifica dell’educazione, non è di certo nuova, rappresentando da un lato uno degli elementi chiave del procedere del movimento d’opinione relativo alla difesa del patrimonio ambientale e culturale, e dall’altro un tema “classico” dell’insegnamento scolastico della geografia e un aspetto caratteristico dell’educazione ambientale. La Convenzione Europea del Paesaggio (CEP) e il dibattito seguito alla sua entrata in vigore hanno nell’ultimo decennio contribuito a portare in primo piano queste tematiche, ad attribuire loro dignità pari a quella della altre questioni relative al paesaggio e a favorire la sperimentazione e l’implementazione di progetti e attività. Uno dei contenuti più innovativi della CEP riguarda come è noto il coinvolgimento della popolazione. Il ruolo che le viene attribuito trova riscontro nell’indicazione delle prime misure specifiche quali la “sensibilizzazione” e la “formazione ed educazione” (art. 6, A e B): se il rapporto tra popolazione e paesaggio assume un significato così importante (nella definizione stessa di paesaggio, nell’importanza assegnata ai paesaggi della vita quotidiana e nel coinvolgimento diretto della popolazione nell’individuazione delle progettualità), l’impegno viene rivolto alla popolazione prima ancora che direttamente ai paesaggi, attraverso la crescita di una diffusa consapevolezza dei valori di cui i paesaggi sono portatori. L’ambito di riferimento non è solo quello della formazione tecnica o specialistica, ma anche quello di una
L’educazione al paesaggio nell’ambito di un Osservatorio: conoscenza, consapevolezza, condivisione
preparazione generale sui temi del paesaggio di chi indirettamente ha a che fare con esso nell’ambito della sua professione, e, soprattutto, il vasto campo della sensibilizzazione, al fine di rendere ogni cittadino più consapevole e attento rispetto al proprio e altrui paesaggio. Tale sensibilizzazione riguarda tutti gli ambiti e tutti i livelli, a partire dall’educazione in ambito scolastico. La filosofia complessiva della CEP aiuta a individuare la prospettiva secondo la quale procedere nelle attività formative e di sensibilizzazione. Escludendo un approccio che si riduca a una conoscenza delle tipologie dei paesaggi delle diverse regioni del globo o ad attività rivolte ad un determinato paesaggio eccezionale, in cui l’azione divulgativa venga limitata alla richiesta di una specifica salvaguardia, la CEP propone azioni di sensibilizzazione “al valore dei paesaggi, al loro ruolo e alla loro trasformazione" (art. 6, A). A tal fine, non appare sufficiente “insegnare” il paesaggio, proponendo in maniera acritica e precostituita quanto emerge dalla conoscenza esperta; si deve piuttosto puntare su di un “allenamento dello sguardo”, affinché possano venire colti i valori (necessariamente plurali) di cui ogni paesaggio è portatore nella sua dinamicità. In tal modo, si può acquisire la capacità di esprimere le proprie “aspirazioni per quanto riguarda le caratteristiche del luogo di vita” e si potrà prendere parte attivamente e costruttivamente a quelle “procedure di partecipazione del pubblico” che la CEP stessa richiede (artt. 1 e 6). Si tratta di un approccio non del tutto nuovo: va ricordato ad esempio che già Eugenio Turri proponeva un’“educazione a vedere,
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a vedere per capire (cioè capire il funzionamento dell’organismo territoriale sotteso al paesaggio e riconoscere i valori simbolico-culturali che vi si connettono) che rappresenta un atto fisiologico fondamentale per ogni società al fine di stabilire un rapporto positivo con il territorio in cui vive, valorizzandone le potenzialità in quanto spazio di vita e difendendolo nei suoi valori simbolici in quanto specchio di sé” (Turri, 1998, p. 24). Un tale approccio, inoltre, risulta coerente con la prospettiva che caratterizza oggi l’educazione alla sostenibilità1, orientata all’acquisizione da parte di ogni essere umano delle conoscenze, delle abilità, degli atteggiamenti e dei valori necessari per costruire un futuro sostenibile. Risulta evidente che l’obiettivo finale è la crescita globale delle persone e della loro competenza civica: è possibile cioè educare “al” paesaggio ma anche, e nello stesso tempo, “attraverso” il paesaggio, con percorsi articolati e aperti in grado di promuovere tanto la riflessione scientifica quanto l’attitudine ad esprimere il proprio vissuto, che mirano alla formazione di un cittadino consapevole e sensibile, capace di partecipare alle scelte del suo territorio e della comunità in cui abita (Castiglioni, 2011). Le attività di educazione al paesaggio vanno quindi intese prima di tutto come una forma di landscape literacy, di “alfabetizzazione” al paesaggio (Spirn, 2005), rivolta all’acquisizione degli strumenti di base per la lettura del paesaggio, per “imparare a vedere”, così come Turri ricordava, riconoscendo nel paesaggio dinamiche e valori sottesi. Si possono individuare quattro diversi percorsi per leggere un paesaggio, di cui tenere conto nella progettazione delle proposte formative, tra loro
Lo (s)guardo estraneo
complementari e al tempo stesso intrecciati in maniera ipertestuale: - lettura denotativa che considera i diversi elementi del paesaggio osservato (naturali e antropici) e le relazioni che tra di essi si strutturano; - lettura connotativa che pone l’attenzione sugli aspetti emozionali, le sensazioni e quindi i significati e i valori attribuiti a quel preciso paesaggio; - lettura interpretativa, volta a cercare una spiegazione dei caratteri peculiari di ciascun paesaggio; - lettura temporale, che mette in evidenza le trasformazioni del paesaggio tra passato e presente e si proietta verso scenari futuri possibili, desiderabili, sostenibili (Castiglioni, 2012). Come si vedrà negli esempi più avanti illustrati (par. 3), una lettura del paesaggio costruita attraverso questi diversi percorsi, permette di giungere a un livello elevato di comprensione della complessità delle questioni paesaggistiche in maniera efficace e adeguata all’età e al contesto di riferimento. L’Osservatorio del Paesaggio come strumento di applicazione della CEP: conoscenza, consapevolezza, condivisione Tra le iniziative avviate in Italia e nel resto d’Europa per l’applicazione della CEP, una particolare attenzione viene qui posta sullo strumento dell’Osservatorio del Paesaggio.
Il dibattito sulla natura, lo scopo e l’ambito delle attività di un Osservatorio è oggi aperto2, con riferimento da un lato alle Guidelines per l’implementazione della CEP del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa (Committee of Ministers of the Council of Europe, 2008, App. 1, 10) che indicano esplicitamente la possibilità di istituire Osservatori, insieme a Centri o Istituti, dall’altro alla normativa italiana che istituisce un Osservatorio Nazionale per la Qualità del Paesaggio e obbliga le amministrazioni regionali e dotarsi di tale strumento a livello decentrato, dall’altro ancora alle numerose iniziative attivate da diversi soggetti, che possono fungere da esempio (prima fra queste l’Osservatorio del Paesaggio della Catalogna). Chi scrive è direttamente coinvolta nelle attività promosse in tal senso dalla Regione del Veneto, che si è mossa sia a livello centrale, sia attraverso la promozione di esperienze a carattere locale, tra le quali quella cui si fa qui particolare riferimento: l’Osservatorio del Paesaggio del Canale di Brenta, in provincia di Vicenza3. Si ritiene che lo strumento “Osservatorio” possa caratterizzarsi per una molteplicità di ambiti di azione, contrassegnati tutti dalla centralità del rapporto popolazione-paesaggio, secondo l’ottica di “democratizzazione” (Prieur e Durousseau, 2006; Jones, 2007) promossa dalla CEP: se questo infatti è l’aspetto più innovativo, è anche quello per il quale si è ancora poco dotati di mezzi operativi. Così, rispetto all’ampia disponibilità di strumenti e metodi per l’analisi dei paesaggi, solo negli ultimi anni si vanno affinando le metodologie per l’analisi delle percezioni e rappresentazioni sociali; parimenti, a fronte delle vaste esperienze di pianificazione paesaggistica, l’inserimento nel processo del punto di vista degli abitanti non è ancora divenuto prassi consolidata; allo stesso
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modo, la presenza del tema del paesaggio, “dei suoi valori e delle sue trasformazioni” in precise azioni di sensibilizzazione e in mirate attività educative appare ancora non sufficientemente diffusa. L’Osservatorio può quindi rappresentare – alle diverse scale - il luogo in cui far crescere la conoscenza, promuovere la consapevolezza e rafforzare la condivisione sui temi del paesaggio in generale e/o su uno specifico paesaggio regionale o locale (Castiglioni e Varotto, 2013). Lo si può immaginare non tanto come la stanza chiusa di un ufficio o di uno studio, quanto piuttosto come una piazza, una “arena”, un tavolo di discussione aperto, nel quale possano convergere le modalità conoscitive tanto degli esperti quanto del cittadino comune, in cui possano emergere i punti di vista e le aspettative dei diversi portatori di interessi potenzialmente anche conflittuali - e da cui possano svilupparsi nuove e condivise progettualità. È un luogo “terzo”, in grado di mettere in comunicazione soggetti pubblici e privati, in cui ciascuna voce può venire riconosciuta; non è solo strumento per migliorare la qualità del paesaggio, ma anche mezzo attraverso cui può crescere il “ruolo attivo delle popolazioni” nei confronti del proprio ambiente di vita. È chiaro che simili azioni di coinvolgimento della popolazione sono strettamente legate ad un ampio intervento di sensibilizzazione a tutti i livelli, oltre che ovviamente alla necessaria partecipazione dei principali soggetti istituzionali. È qui che si può e si deve inserire una specifica progettualità che coinvolga le istituzioni scolastiche del territorio e che porti alla messa a punto di specifici interventi educativi rivolti a bambini e ragazzi di tutte le età:
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un progetto di Osservatorio, infatti, da un lato deve coinvolgere la comunità nella sua interezza, dall’altro non può che porsi obiettivi a lunga scadenza, rivolti alle future e non solo alle presenti generazioni, maturati con la logica dei piccoli passi. Nel caso dell’esempio sopra citato dell’Osservatorio del Paesaggio della Catalogna, le attività educative sono state promosse a livello regionale, attraverso l’ambizioso progetto “Ciutat, Territori, Paisatge” (Batlori e Serra, 2010). Si tratta di una vasta iniziativa, avviata fin dai primi anni di attività dell’Osservatorio stesso, rivolta in particolare agli alunni dei primi anni della scuola secondaria: l’intervento educativo, proposto attraverso percorsi formativi e materiali informativi (guide didattiche) per gli insegnanti, specifici dossier e poster distribuiti a tutte le scuole della regione e un sito web dedicato (http://www.catpaisatge.net/educacio/), si struttura inizialmente in maniera apparentemente tradizionale, attraverso l’individuazione di 12 paesaggi “tipo”. Ma le attività proposte per l’analisi di questi paesaggi si caratterizzano per un elevato livello di innovatività, sia per quanto riguarda gli strumenti utilizzati (in particolare, nelle pagine web si fa ampio uso di cartografia digitale, ortofoto, esercizi interattivi), sia per i contenuti e gli itinerari didattici proposti. Si ritrovano qui i percorsi di lettura del paesaggio individuati nel par. 1: l’individuazione delle caratteristiche principali dei paesaggi analizzati e degli elementi che li compongono (lettura denotativa e interpretativa), l’analisi delle trasformazioni, messe in relazione con le recenti dinamiche del territorio in questione (lettura temporale) e la considerazione dei valori attribuiti
L’educazione al paesaggio nell’ambito di un Osservatorio: conoscenza, consapevolezza, condivisione
dai diversi soggetti (lettura connotativa). Quest’ultima parte, strutturata attraverso alcune “interviste virtuali” a diversi portatori di interesse con le quali i giovani studenti sono invitati a confrontare il proprio personale punto di vista, appare in sintonia con la prospettiva di un Osservatorio del paesaggio inteso come “luogo di incontro” e particolarmente utile a far maturare nei ragazzi uno sguardo aperto, critico, consapevole. Se le finalità e gli obiettivi educativi possono in linea generale essere gli stessi, diverse evidentemente sono le attività che è possibile sviluppare nel caso di un Osservatorio che operi a scala locale, in cui viene posta al centro la specificità del paesaggio in questione e, soprattutto, in cui è più direttamente possibile coinvolgere le scuole nelle attività dell’Osservatorio stesso.
Figura 1: Uno scorcio del Canale di Brenta, stretta valle prealpina tra Veneto e Trentino, a nord di Bassano del Grappa
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Lo (s)guardo estraneo
La strutturazione e la metodologia delle proposte educative: il caso dell’Osservatorio del Paesaggio del Canale di Brenta Le attività educative realizzate con gli istituti scolastici nell’ambito del progetto “OP! Il paesaggio è un parte di te”, di avvio dell’Osservatorio del Paesaggio del Canale di Brenta, rispondono agli obiettivi sopra indicati. Le tre parole chiave conoscenza, consapevolezza e condivisione hanno rappresentato un fondamentale punto di riferimento e hanno permesso di individuare le finalità principali: maggiore conoscenza del paesaggio della valle, sia in termini generali, sia secondo specifici approfondimenti, crescita di una consapevolezza diffusa, grazie ad una più sviluppata capacità di lettura del paesaggio, e condivisione di un più profondo senso di appartenenza alla valle, in particolare nelle attività comuni svolte al termine del percorso. A questi prioritari obiettivi formativi ne sono stati associati altri, in relazione con i più ampi obiettivi dell’Osservatorio. In primo luogo, il coinvolgimento delle scuole e di bambini/ragazzi di diverse età ha permesso di rilevare le loro rappresentazioni del paesaggio: i diversi prodotti elaborati nei progetti didattici, infatti, esplicitano il vissuto in queste fasce di età. In secondo luogo, attraverso le scuole è stato promosso un aumento della consapevolezza diffuso, con il coinvolgimento delle famiglie degli alunni e con la proposta alla cittadinanza tutta dei prodotti allestiti dai bambini/ragazzi stessi. Al progetto hanno partecipato 68 classi, appartenenti a 18 istituti di diversi livelli scolastici
(dalla scuola dell’infanzia alla secondaria di secondo grado), per un totale di più di 1300 ragazzi e circa 80 insegnanti (Tab. 4.1)4. La scelta è stata quella di indirizzare le attività direttamente ai docenti delle diverse scuole, attraverso un primo momento di formazione (sui temi del paesaggio in senso lato per comprendere il senso della proposta dell’Osservatorio, e, più nello specifico, sugli obiettivi e i metodi dell’educazione al paesaggio e sulle caratteristiche del paesaggio locale) e delle fasi successive di monitoraggio delle attività secondo modalità laboratoriali, per poi giungere nelle fasi finali del progetto alla preparazione condivisa dell’evento finale. È stato quindi lasciato agli insegnanti il compito di declinare la proposta alle classi, secondo modalità, tempi e contenuti specifici differenziati, nell’interazione con i programmi curricolari di diverse discipline, vista la trasversalità e l’interdisciplinarità che caratterizza il tema. Livello scolastico Scuola dell’infanzia Scuola primaria Scuola secondaria di I grado Scuola secondaria di II grado TOTALE
Plessi scolastici partecipanti
Classi partecipanti
n° totale alunni
3
6
140
11
47
860
2
9
186
2
6
156
18
68
1342
Tab. 4.1 – La partecipazione delle scuole alle attività dell’Osservatorio del paesaggio del Canale di Brenta (VI) nell’anno scolastico 2011-12.
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La scelta di indirizzare l’intervento agli insegnanti, piuttosto che direttamente ai ragazzi, oltre che essere coerente con la disponibilità di risorse, è frutto di specifiche considerazioni: in primo luogo, lavorare con gli insegnanti rappresenta un investimento per il futuro, poiché l’insegnante stesso acquisisce un’esperienza specifica e si appropria di una modalità di intervento che potrà utilizzare anche negli anni e con le classi successive; l’insegnante motivato può inoltre diventare egli stesso protagonista e soggetto attivo nelle future attività dell’Osservatorio. Viene inoltre in questo modo garantita l’adeguatezza della proposta didattica al contesto dello specifico gruppo-classe, sia in termini prettamente didattici (con riferimento ai programmi scolastici e agli obiettivi formativi specifici) sia in termini più ampiamente educativi, con riferimento alla socializzazione interna alla classe, alle relazioni con le famiglie e con il territorio. Al termine degli incontri formativi, gli insegnanti hanno quindi progettato uno specifico intervento didattico-educativo con le loro classi, integrando gli obiettivi del progetto con quelli didattici della classe e delle specifiche discipline coinvolte, ed al contempo individuando tempi e modalità in base all’età dei bambini/ragazzi. Ne derivano progetti tra loro molto diversificati nei tempi, nei livelli e negli argomenti oggetto di approfondimento, ma tutti finalizzati ad una “lettura del paesaggio” secondo i percorsi sopra indicati. Il tutto mantenendo caratteri e riferimenti comuni, quali: l’incontro diretto con il paesaggio, attraverso una o più uscite; il collegamento concreto con le questioni – anche critiche – del paesaggio locale; un coinvolgimento attivo dei ragazzi, sia nella costruzione di ipotesi per incidere sulle questioni
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stesse, sia nella partecipazione alla fase finale del progetto. Al termine dell’anno scolastico, tutte le classi che hanno aderito al progetto hanno partecipato al “Festival del paesaggio”, intervenendo in un momento comune (denominato “Le scuole abbracciano la valle”) e contribuendo con prodotti originali all’allestimento di una mostra. Nei paragrafi che seguono si propongono alcune riflessioni a partire proprio dagli elaborati dei ragazzi e dalla loro partecipazione all’evento finale. La profondità dello sguardo dei ragazzi per la lettura del paesaggio e della sua complessità I materiali prodotti dai ragazzi per la mostra finale del progetto ci aprono una finestra sui percorsi didattici compiuti durante l’anno: il risultato esposto ci interessa quindi in questa sede non tanto per il suo valore estetico/artistico – tenendo conto che numerose delle produzioni sarebbero sicuramente interessanti anche da questo punto di vista – quanto piuttosto per come sono in grado di rappresentare letture originali e per nulla scontate del paesaggio del Canale di Brenta, a dimostrazione del raggiungimento degli obiettivi. La partecipazione alla mostra non prevedeva alcuna competizione; la produzione degli elaborati è stata quindi funzionale solo alla presentazione del proprio “sguardo” sul paesaggio5. Le tecniche e i linguaggi utilizzati sono assai vari, in maniera adeguata al livello scolastico; i bambini più piccoli hanno privilegiato una dimensione ludica e narrativa, anche utilizzando le fiabe ed un approccio plurisensoriale all’incontro con il paesaggio. I ragazzi via via più grandi sono stati
L’educazione al paesaggio nell’ambito di un Osservatorio: conoscenza, consapevolezza, condivisione
invece coinvolti nell’approfondimento di temi di analisi storico-territoriale, lasciando tuttavia sempre lo spazio per la lettura critica, la dimensione della relazione personale con il paesaggio e una dimensione progettuale. L’uso di tecniche espressive varie ha in alcuni casi anche aiutato a mettere in evidenza aspetti peculiari, in positivo e in negativo, senza tuttavia mai cadere nella rappresentazione stereotipata di paesaggi, priva di sguardo critico. L’aspetto della conoscenza del paesaggio emerge in tutti i materiali esposti, e in alcuni – quelli più didascalici – può risultare prevalente. Si tratta di un punto di partenza fondamentale, un obiettivo prioritario del progetto, raggiunto secondo modalità assai diversificate. In figura 2 vediamo ad esempio una lettura del paesaggio che pone l’attenzione sulla distinzione tra elementi naturali ed elementi antropici e soprattutto sulle relazioni che li uniscono: si tratta di una lettura denotativa, basata non tanto su di un elenco di componenti, quanto piuttosto su un’idea di paesaggio come luogo di relazioni. Quando la conoscenza del paesaggio prende in considerazione gli attori presenti, ecco che la lettura si fa anche connotativa e la conoscenza del paesaggio più approfondita. In numerosi casi, i primi attori rappresentati sono i ragazzi stessi, i quali esprimono in diversi modi il loro vissuto nei confronti del paesaggio (ad esempio, raccontando in vario modo i loro sentimenti dopo un’escursione).
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Figura 2 – Una rappresentazione “reticolare” del paesaggio del Canale di Brenta, secondo una lettura prevalentemente denotativa (scuola primaria)
Figura 3 – Il Canale di Brenta con i suoi abitanti e frequentatori, di ieri e di oggi, secondo una lettura connotativa, interpretativa e temporale (scuola primaria)
Lo (s)guardo estraneo
Nel caso dei due plastici di figura 3 (in primo e in secondo piano), realizzati da bambini di sette o otto anni, la lettura connotativa si associa a quella temporale; in essi infatti vengono rappresentati i diversi attori presenti in una determinata porzione di territorio - una valletta laterale chiamata Valgardena - in due momenti: nel passato e oggi. Ieri questa valle era abitata e frequentata da pastori, boscaioli, cacciatori; oggi è meta di escursionisti, arrampicatori nelle palestre di roccia, speleologi (ricordando che il sito è caratterizzato da forme carsiche) e cacciatori. Al di là di una apparente semplificazione data dalle modalità elementari della rappresentazione, emerge qui la conoscenza del diverso uso da parte dell’uomo delle risorse naturali presenti (a scopo di sussistenza un tempo, a scopo prevalentemente ricreativo oggi) e che questo ha modificato e continua a modificare il paesaggio (lettura interpretativa); i plastici sono anche in grado di mettere in evidenza che – oggi come nel passato – i diversi attori presenti nel territorio possono con le loro attività entrare in conflitto. La conoscenza diventa quindi consapevolezza che nel paesaggio possono convergere ed eventualmente scontrarsi desideri e/o interessi diversi: il paesaggio non è un bene di cui si può disporre a proprio piacimento, ma va condiviso, secondo precise regole. Anche la rappresentazione di figura 4, eseguita da un ragazzo di tredici anni, secondo un progetto che ha visto la partecipazione dell’insegnante di educazione artistica nel suggerire la tecnica, è particolarmente interessante sul piano del percorso formativo di cui è espressione. La didascalia associata al disegno recita: “Questo palo di cemento per le linee elettriche è stato costruito nel 1942 circa per l’elettricità e doveva rimanere in uso ma non è così. Rovina il nostro paesaggio
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valligiano della Valbrenta, è un elemento che dà il senso dell’inutile”. Marco, l’autore del disegno, ha dapprima individuato un elemento del paesaggio meritevole di attenzione come “elemento detrattore” (e la tecnica espressiva è particolarmente efficace in questo), affinando la propria capacità di osservazione del paesaggio della sua vita quotidiana; ha quindi approfondito la conoscenza di questo elemento, imparando a descriverlo e cercando di capire l’origine (anche con un preciso riferimento temporale) e le motivazioni della sua presenza; il suo giudizio negativo, infine, viene motivato: il “palo” è brutto non solo perché non svolge alcuna funzione, ma anche perché diviene un simbolo negativo. Marco, insieme ai suoi compagni, ha quindi approfondito la conoscenza e maturato consapevolezza sul paesaggio della valle, imparando a leggere gli elementi nel loro contesto e a esplicitare le ragioni del giudizio che attribuisce loro, sia esso negativo o positivo. Lo sguardo potrà spostarsi dal palo di cemento agli altri elementi, dagli elementi detrattori a quelli che danno valore, dal passato al presente, dal sé al noi, e sarà in grado di leggere il paesaggio nella sua complessità. Per un ruolo attivo di bambini e ragazzi alla vita dell’Osservatorio Il Canale di Brenta è una stretta valle prealpina (fig. 1) caratterizzata da versanti ripidi un tempo terrazzati e coltivati e oggi in abbandono e attraversata longitudinalmente da percorsi ferroviari e stradali di lunga percorrenza (che mettono in comunicazione il Veneto con il Trentino); i paesi del fondovalle appaiono soffocati dal traffico.
Figura 4 – I diversi percorsi di lettura del paesaggio si intrecciano nella rappresentazione di questo elemento “detrattore” del paesaggio, considerato per i significati di cui è portatore e per il suo ruolo simbolico (scuola secondaria di primo grado).
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L’educazione al paesaggio nell’ambito di un Osservatorio: conoscenza, consapevolezza, condivisione
unito la valle da versante a versante, dalle aree agricole abbandonate al fondovalle urbanizzato, al fiume, bloccando anche per qualche istante il traffico pesante sulla strada statale, per rappresentare il loro desiderio di essere abitanti del luogo, non solo soggetti passivi di uno sfruttamento del territorio come “corridoio di attraversamento”. Al suono delle campane, ciascun ragazzo ha quindi lanciato un palloncino colorato, cui era legata una cartolina-messaggio personalizzata: l’appartenenza alla valle si è così collegata anche ad un’apertura al di là dei confini della valle stessa, andando oltre un approccio localistico. Questa manifestazione, riportata dai media locali, ha rappresentato un importante evento di comunicazione dell’attività e dell’idea stessa di base dell’Osservatorio, anche grazie al coinvolgimento delle famiglie; il tema del paesaggio è uscito in questo modo dagli uffici delle pubbliche amministrazioni o delle sovrintendenze, dai chiusi volumi degli studiosi, dalla patina edulcorata delle riviste e dei depliant turistici, per acquistare significato come spazio della vita quotidiana, vissuto, percepito e condiviso dai suoi abitanti. Figura 5 – La catena umana di ragazzi durante il Festival del Paesaggio, momento simbolico di partecipazione e di espressione del desiderio di riappropriarsi del proprio luogo di vita.
L’Osservatorio del Paesaggio è stato qui pensato anche come uno strumento a disposizione delle comunità locali, al fine di individuare modelli di sviluppo aderenti alle caratteristiche del territorio locale, per valorizzare il proprio patrimonio naturale e culturale e per condividere una progettualità al di là delle divisioni campanilistiche. In questo contesto, al termine dei percorsi svolti dalle singole classi, i 1300 bambini e ragazzi che hanno partecipato alle attività sono stati coinvolti in un simbolico “abbraccio alla valle”, rendendoli protagonisti delle proposte dell’Osservatorio, al di fuori dei confini degli istituti scolastici, e facendo loro vivere in prima persona la dimensione della condivisione. Tenendosi per mano, hanno formato una catena umana che ha
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Il mondo della scuola si è quindi reso parte attiva: non solo nello specifico dell’attività didattico-educativa, ma anche come soggetto per una sensibilizzazione ed educazione di più vasta portata; le attività, l’evento finale, i materiali presentati nella mostra, oltre che significativi per i ragazzi stessi, hanno coinvolto le famiglie e la comunità tutta in un più ampio processo di divulgazione.
Lo (s)guardo estraneo
Lo sguardo dei ragazzi sul paesaggio, inoltre, come visto nel paragrafo precedente, nella sua semplicità che non è mai banalità, è in grado di sollevare questioni, individuare proposte, sollecitare interventi.
La partecipazione delle giovani generazioni e il loro entusiasmo, grazie alla disponibilità e alla competenza degli insegnanti, appare quindi come un elemento fondamentale delle attività di un Osservatorio del paesaggio che intenda investire nel futuro promuovendo un rapporto più stretto tra la popolazione e il territorio in cui vive. Nell’ambito dell’Osservatorio del Canale di Brenta, successivamente al progetto “OP! Il paesaggio è una parte di te”, si sta quindi cercando di rendere disponibile agli insegnanti un luogo in cui poter approfondire le progettualità già avviate, ad esempio attorno a temi o metodologie più definiti, tramite momenti di formazione, ma soprattutto di auto-formazione e di confronto. Ciò che appare importante è che gli insegnanti stessi possano sperimentare nell’Osservatorio conoscenza, consapevolezza e condivisione del paesaggio, nell’ottica educativa che caratterizza il loro ruolo e sentendosi essi stessi parte attiva. Solo così i momenti pubblici (annuali o biennali) in cui le scuole condivideranno con la comunità il risultato del loro lavoro andranno a costituire un vero “incontro di sguardi”.
Castiglioni B. (2012), Il paesaggio come strumento educativo. Educación y futuro, n° 27, pp. 51-65 Castiglioni B., Varotto M. (2013), Paesaggio e Osservatori locali. L’esperienza del Canale di Brenta, Milano, Franco Angeli Committee of Ministers of the Council of Europe, Recommendation CM/Rec (2008)3, on the guidelines for the implementation of the European Landscape Convention, in internet: http://www.coe.int/t/dg4/cultureheritage/ heritage/landscape/versionsorientation/anglais.pdf (ultima consultazione: 7 aprile 2013). Jones M. (2007), The European Landscape Convention and the question of public participation, Landscape Research, 32: 613-633. Prieur M., Durousseau S. (2006), Landscape and public participation, in Council of Europe, Landscape and Sustainable Development. Challenges of the European Landscape Convention, Strasbourg, Council of Europe Publishing, pp. 165-207 Spirn A.W. (2005), Restoring Mill Creek: landscape literacy, environmental justice and city planning and design, Landscape Research, 30, 3: 395-413. Turri E. (1998), Il paesaggio come teatro. Dal territorio vissuto al territorio rappresentato. Marsilio, Venezia.
Riferimenti bibliografici Batllori R., Serra J.M. (2011), El projecte educatiu ‘Ciutat, Territori, Paisatge’, In Nogué, J., Puigbert, L., Bretcha, G., Losantos, À. (eds.), Paisatge i educació. Olot: Observatori del Paisatge de Catalunya; Barcelona: Departament d'Ensenyament de la Generalitat de Catalunya. (Plecs de Paisatge; Reflexions; 2, pp. 133-152 Figura 6 – Un bambino mostra la cartolina che attaccherà al palloncino, per lanciare un messaggio di accoglienza oltre i confini del proprio paesaggio
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Castiglioni B. (2011), Il paesaggio, strumento per l’educazione geografica. In Giorda C., Puttilli M. (a cura di), Educare al territorio - educare il territorio. La geografia per la formazione, Carocci editore, pp. 182-191
Riferimenti iconografici Figure 1-6: Osservatorio del paesaggio del Canale del Brenta
Testo acquisito dalla redazione nel mese di agosto 2013. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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L’ONU ha promosso per gli anni 2005-2014 il Decennio per l’Educazione allo Sviluppo Sostenibile, ritenendo l’educazione un elemento fondamentale per il cammino verso la sostenibilità. La Commissione Nazionale Italiana Unesco, responsabile delle iniziative del Decennio nel nostro paese, promuove ogni anno una Settimana per l’Educazione allo Sviluppo Sostenibile; a dimostrazione dello stretto legame esistente tra educazione al paesaggio e educazione alla sostenibilità, il tema scelto per la settimana 2013 è “I paesaggi della bellezza: dalla valorizzazione alla creatività” (http://www.unesco.it/cni/index.php/news/275settimana-ess-2013) 2 Si veda ad esempio il Seminario organizzato nel giugno 2013 a Firenze dall’Associazione Uniscape in collaborazione con l’Università di Torino, il Politecnico di Torino e la Regione Toscana sul tema "Landscape Observatories in Europe from the ELC Recommendations to the local initiatives (2000-2013)" 3 La Regione del Veneto (Direzione Urbanistica e Paesaggio) ha negli ultimi anni promosso la nascita di una rete di Osservatori del Paesaggio a scala locale, coordinandone le attività tramite l’Osservatorio Regionale (http://www.regione.veneto.it/web/ambiente-eterritorio/osservatorio-regionale-paesaggio). In particolare , attraverso il progetto “OP! Il paesaggio è una parte di te” negli anni 2011-2012 è stata avviata l’esperienza dell’Osservatorio del Paesaggio del Canale di Brenta, grazie alla collaborazione tra la locale Comunità Montana, il Dipartimento di Geografia dell’Università di Padova e l’Università IUAV di Venezia (www.osservatoriocanaledibrenta.org). I presupposti teorici di questa esperienza, il resoconto delle attività e le valutazioni che ne sono state tratte sono raccolti in Castiglioni e Varotto, 2013, a cui si rimanda anche per approfondimenti relativi ai successivi paragrafi 3 e 4. 4 Le attività sono state coordinate da chi scrive in collaborazione con lo staff dell’Osservatorio, con un supporto di segreteria tecnica e potendo far riferimento per gli aspetti più squisitamente didattici alle competenze
L’educazione al paesaggio nell’ambito di un Osservatorio: conoscenza, consapevolezza, condivisione
presenti in seno all’Associazione Italiana Insegnanti di Geografia (sez. Veneto). 5 La documentazione relativa a tutte le attività realizzate dalle scuole partecipanti al progetto è disponibile al sito http://www.osservatorio-canaledibrenta.it/-Scuole-.html
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Lo (s)guardo estraneo
L’altro paesaggio: dimenticato
il
punto
di
vista
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Another landscape: forgotten point of view
Dieter Schürch *
abstract
abstract
Il saggio parte dal presupposto che il paesaggio percepito non è solo quello a cui siamo abituati delle persone adulte che prendono parte alla pianificazione dello spazio territoriale, ma è anche quello dei bambini, soprattutto della prima infanzia. Il loro sguardo sull’ambiente merita l’avvio di riflessioni che mettono in discussione ciò che è stato sino ad oggi l’approccio al paesaggio nelle sue numerose e svariate declinazioni. Scopo del contributo è quello di descrivere i tratti di un “altro paesaggio” e di proporre linee guida di lettura a due livelli tra loro comunicanti ed interrelati: quello alla scala interdisciplinare delle scienze che si occupano di territorialità, per cui il bambino è parte attiva del territorio, e quello alla scala del bambino stesso che attraverso il suo sguardo al mondo esterno da forma alla costruzione di quei legami che, più tardi, daranno origine alla coerenza paesaggistica adulta.
This essay starts from the consideration that the perceived landscape is not only that we are used to think, of adult people which are involved in the landscape planning, but it is also the landscape of children, especially of babyhood. Their looking over the environment merit to reflect on question which has been till now the approach to landscape in its numerous and different declinations. The aim of essay is to describe “another landscape” and to propose guide lines to read through two communicating and linked levels: one at the interdisciplinary scale of sciences that manage with the territoriality, thus the child is an active part of territory; another one at the scale of child itself that through his eyes toward the world make possible building links that, later, will produce the adult landscape coherence.
parole chiave Prima infanzia - nuova cittadinanza – percezione – educazione – metafora ambientale.
key-words Babyhood, new citizenship, perception, education, environment metaphor
* Dottore in psicologia della comunicazione, esperto in scienze della formazione e dell’educazione, membro della Commissione svizzera per l’UNESCO.
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‘La mamma camminava a passo lento, ogni tanto si fermava per non perdere il contatto con il bambino che, a suo modo, la seguiva. Il bambino, che aveva a malapena superato i due anni, voleva camminare da solo. Il suo modo di procedere era difficilmente prevedibile, ogni tanto si fermava per guardare da vicino qualche cosa sul marciapiede, a volte toccava ciò che aveva visto e senza l’intervento della madre l’avrebbe messo in bocca. I suoi spostamenti non erano lineari, di tanto inseriva scatti che lo portavano verso nuove fonti di interesse. Di tanto in tanto indicava con il dito qualche cosa alla mamma pronunciando la parola guarda! I richiami della mamma non avevano un grande seguito, anzi, ogni tanto, il bambino tornava sui suoi passi dando l’impressione di voler andare in un’altra direzione. La strada con le auto erano una costante fonte di pericolo costringendo la mamma a vigilare in continuazione sull’agire del bambino.’1 Queste poche righe racchiudono gli interrogativi che questo contributo cerca di affrontare. Il comportamento di quel bambino contrasta in modo palese con il comportamento dell’adulto. L’adulto cammina in una determinata direzione per raggiungere un traguardo, in un dato tempo. Lo spostamento risponde a un piano, a una mappa, che regola l’azione. Solo circostanze impreviste – un incontro, un incidente, un’urgenza – possono modificare il piano. Il comportamento del bambino, di quel bambino, risponde ad altri criteri. Si direbbe che esista un’altra mappa, si direbbe che percepisca altri obiettivi, si direbbe che si sposti con altri criteri temporali. Per dare risposta ai vari si direbbe dovremmo leggere qualche capitolo di psicologia dello sviluppo infantile, incentrando la nostra attenzione sull’egocentrismo e sul modo che
L’altro paesaggio: il punto di vista dimenticato
il bambino di quell’età ha di rapportarsi al mondo. Quella lettura ci consentirebbe di capire molte cose sulle ragioni di quel comportamento, ma non ci permetterebbe di compiere un solo passo verso la descrizione di un mondo che non è quello dell’adulto. A questo punto sappiamo che alcuni lettori saranno tentati di non andare oltre nella lettura in quanto la psicologia del bambino non è oggetto del loro interesse e le stranezze di un bambino di due anni non possono essere in relazione con il discorso che riguarda il paesaggio e il territorio. In questa parte dedicata all’entrata in argomento le ragioni che ci spingono a continuare nel nostro discorso sono almeno due: - il mondo del bambino è parte della percezione sociale del territorio2, ignorarne l’esistenza significherebbe concepire l’ambiente come uno spazio riservato alla sola vita adulta. Nel momento in cui si dichiara la volontà di includere nella definizione di paesaggio tutte le componenti della società, risulta palese la contraddizione. - La percezione del paesaggio, prima di essere quella dell’adulto, è stata quella del bambino. Ogni adulto ha seguito un percorso che lo ha portato a considerare bello, brutto, interessante, utile, insignificante un paesaggio. Di quel percorso, non solo sappiamo poco o nulla, ma potrebbe anche darsi che, per strada, nel corso della crescita, sia andata persa una parte importante del paesaggio percepito. Se così fosse rischieremmo di escludere dal percepito ambientale la forza e la ricchezza dei primi sguardi sul mondo.
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Tra i motivi che possono spiegare la scarsa conoscenza dell’ambiente soggettivo del bambino figurano l’insufficiente consapevolezza delle sue capacità mentali e la mancanza di una metodologia adeguata per cogliere il punto di vista di un’età in cui la parola non è ancora lo strumento privilegiato della comunicazione. Fotografia strumento di conoscenza Lo sviluppo della tecnologia ha liberato la fotografia dalla posizione di testimone di eventi particolari rendendola fruibile e presente in qualsiasi momento e circostanza. Lo strumento ha, in larga parte, perso la sua specificità entrando, in modo disinvolto, nei sistemi della comunicazione sociale: cellulare, iPhone, iPad, ecc.. Questa migrazione mette in condizione un numero crescente di persone, di qualsiasi età e di qualsiasi estrazione sociale, di raccontare qualche cosa in rapporto a ciò che vedono, sentono e vivono. La diffusione dell’immagine, in modo particolare la fotografia in forma digitale, ha aperto nuovi orizzonti e nuove opportunità nella comunicazione umana (Cyrulnik 2007): si condividono momenti, si fissano istanti, si scoprono dettagli, si verificano visioni, si modificano immagini, si legittimano informazioni attraverso lo scatto di fotografie in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento del giorno e della notte. E’ come se la percezione disponesse di uno strumento che è in grado di registrare, quasi in continuazione, ciò che richiama l’attenzione dell’individuo. Il cambiamento ha una indubbia rilevanza in ambito scientifico, in quanto la ricerca è sempre più in grado di raccogliere e di studiare le tracce che riguardano il percepito.
Lo (s)guardo estraneo
Nel caso delle fotografie scattate da bambini piccoli è come se, grazie ad una torcia elettrica, potessimo improvvisamente illuminare un ambiente che, fino a pochi istanti prima, era rimasto nell’ombra delle ipotesi. Come, quando, in che modo, in che forma, con quale modalità un bambino nei primi anni di vita percepisca un paesaggio, non sono interrogativi nuovi. Nuovo è il modo con il quale vengono affrontate queste domande. Se, da un lato, il progresso tecnologico ha aperto l’orizzonte della fotografia anche alla prima infanzia, da un altro lato è opportuno ricordare che avvicinare un bambino piccolo all’uso dello strumento implica l’adozione di metodi che devono essere in grado di entrare nel suo mondo, rispettandone le caratteristiche, senza alterare i confini del suo agire situato (Zucchermaglio et al. 2013). Lo studio, a cui in larga parte si allude, è stato condotto su oltre 5000 fotografie, scattate da bambini in un’età compresa tra i 3 e i 7 anni. La ricerca ha avuto luogo in città, in vallate alpine di varia lingua e cultura e in ambienti di vita domestica (ad esempio fotografare la cucina), applicando un approccio didattico di tipo mimetico e ricostruttivo, vale a dire capace di riformulare la soggettività, l’atteggiamento e il punto di vista dell’interlocutore. I bambini hanno avuto modo di commentare le immagini e di indicare il punto dal quale le foto sono state scattate. Le fotografie di ambienti di vita domestica sono state completate dagli stessi bambini attraverso loro disegni. Le famiglie, le scuole dell’infanzia, le comunità locali hanno svolto un ruolo attivo nella progettazione, nella realizzazione e nella valutazione del progetto (Schürch, 2007). Le
fotografie sono state presentate al pubblico attraverso l’allestimento di esposizioni. I commenti dei visitatori sono stati raccolti e analizzati. Le indicazioni derivate dall’analisi del materiale fotografico hanno permesso di realizzare, in qualche caso di adattare, luoghi, percorsi (ad esempio sentieri, aree di sosta) e materiali (ad esempio giochi). In generale, un bambino, anche piccolo, è in grado di scattare fotografie. Le immagini rivelano sovente l’esistenza di punti di vista e di vissuti del tutto sconosciuti e inesplorati. La presenza del particolare, lo sguardo fotografico che non rispetta gli assi della verticalità e dell’orizzontalità, l’imprevedibilità nella scelta del punto focale, lo squilibrio percettivo indotto dal non rispetto di molti canoni, la scelta stessa dei soggetti, hanno indotto il pubblico a considerare il paesaggio fotografato un oggetto, un’occasione di riflessione sociale e di incontro tra generazioni. I primi risultati hanno indotto enti pubblici e privati a ripensare la struttura di interi quartieri. In qualche caso si cerca di simulare ciò che può essere la percezione infantile del territorio attraverso spostamenti dello strumento fotografico collocandolo a un metro di altezza dal suolo. I progetti così concepiti hanno una forte valenza interdisciplinare. Architetti, pianificatori, amministratori, psicologi prendono parte a sedute di studio, nel corso delle quali elaborano scenari destinati a essere discussi e dibattuti in ambito sociale e politico. Punto di vista dimenticato? L’analisi del materiale fotografico raccolto in diversi ambienti – casa, fuori casa, asilo-nido, scuola
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dell’infanzia – e in alcune regioni di diversa lingua e di diversa cultura, ci consente di compiere un passo verso la comprensione del territorio a cui si confronta il bambino. Il paesaggio per un adulto è oggetto di coerenza, l’adulto cerca di inserire ciò che percepisce in una unità di discorso. Il paesaggio può essere oggetto di narrazione, di contemplazione, di trasformazione, altre volte di confronto pressoché permanente tra cultura e natura, tra potere e variate forme di dipendenza, per non dire di sudditanza. Il paesaggio del bambino è altra cosa. Esso convive, ad un altro livello, con ciò che l’adulto ha preordinato. Il paesaggio del bambino è quello vicino al terreno, esso rispecchia in modo discontinuo il racconto di ciò che avviene a pochi centimetri dal suolo. Nel momento in cui il bambino alza gli occhi percepisce persone, cose, ambienti costruiti e naturali dal basso verso l’alto. Le dimensioni, gli eventi, le tracce, la vita di quel mondo, di mondo si tratta, sono in larga parte inesplorati. Salvo rare circostanze, in parte documentate, l’adulto ha semplicemente ignorato quel punto di vista, dando per scontato che, prima o poi, il bambino avrebbe dovuto conoscere ed apprendere lo sguardo dell’adulto sul paesaggio. In tale modo di concepire il rapporto percettivo del bambino con l’ambiente si dimentica che la natura dello sguardo non è la semplice registrazione di ciò che intenzionalmente viene comunicato al bambino. Nel percorso a “zig zag” della breve storia iniziale, la madre può fare ben poco per incanalare l’attenzione verso ciò che a lei sembra importante.
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Nei primi anni il bambino costruisce una propria immagine della realtà. Più avanti nel tempo, soprattutto la scuola, cerca, e in parte riesce, a conformare la lettura del reale a criteri che trovano origine nel contenuto delle materie d’insegnamento e in una implicita assuefazione a un certo linguaggio mass-mediatico. Nei primi anni di vita la mancanza di una comunicazione che attinge al codice linguistico rende le prime percezioni prive di commento verbale, e quindi prive della base che le legittima dal punto di vista sociale. La mancanza della parola che sottolinea, giustifica, spiega, precisa, completa ciò che l’immagine esprime, oltre a rendere difficile l’interpretazione dell’immaginario infantile, ha certamente contribuito a escluderne la presenza in chiave di percezione del territorio.
L’altro paesaggio: il punto di vista dimenticato
Le tracce si assomigliano, si richiamano tra loro per analogia; è così che l’immagine di un uccello su un libro richiama il canto del cuculo udito qualche giorno prima, in un altro luogo. Nella misura in cui al bambino viene concessa l’opportunità di manifestare la componente del qui ed ora, in modi e in momenti diversi tra loro, prende forma la costruzione di quei legami che, più tardi, danno origine alla coerenza paesaggistica adulta.
Mondi “zig zag” Entriamo nel merito di ciò che è la probabile percezione della realtà del bambino citato nell’esempio. Essa è composta di immagini che si alternano e che non sottostanno a vincoli; non esiste ancora la ricerca di un rapporto di coerenza. Sono immagini che si traducono in stimoli, stimoli che richiamano la sua attenzione e che lo spingono ad agire. Agire sulle cose, per capire cosa sono, in cosa consistono, perché ci sono, e come sia possibile influire su di loro. Gli stimoli di cui parliamo si definiscono facendo. Di tanto in tanto una micro-esperienza lascia traccia nella sua mente.
Figura 1. Sguardo rivolto alle “piccole cose”. (batuffolo, ortaggio, fontanella) La quarta foto è un esempio di come il bambino di 3-4 anni percepisca in primo luogo il corpo dell’adulto
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Lo (s)guardo estraneo
Tuttavia, molta parte di quelle esperienze trova origine nel micro-spazio che è alla sua portata. In chiave paesaggistica ciò significa attribuire valore e importanza all’esistenza e alla vita di ciò che l’adulto chiama le piccole cose. Quelle “cose”, a volte, non hanno un nome3, sono allora i bambini stessi che coniano una parola per delimitarne l’esistenza. Ad esempio un bambino chiama “stocca” quel sottile strato che separa la polvere che si trova sulla superficie del terreno dalla parte consistente. La “stocca” diviene presto un modo per condividere con altri bambini il medesimo ritaglio percettivo. Agire con la “stocca” è un modo per affermare una diversa territorialità rispetto a quella dell’adulto. In tale atteggiamento alcuni autori hanno intravvisto la presenza di una vera cultura infantile (Postman 1984, Bruner 1997, Journet 2010). Il mondo “zig zag” mette in luce l’importanza dell’agire a contatto con il territorio, l’immagine che ne deriva è un risultato in progress, di esperienze. A loro volta le esperienze sono forme di conoscenza, e la conoscenza è parte di un processo che percorre strade scarsamente prevedibili. La territorialità, e il paesaggio nella sua accezione percettiva, è dunque il risultato di una costruzione che nasce e prende forma attraverso un’interazione tra soggetto e ambiente vissuto. La territorialità, che abbiamo chiamato “zig zag”, mette in luce come il paesaggio non sia, agli inizi dello sviluppo umano, per nulla un dato definito, omogeneo, in grado di rispecchiare esperienze sociali comuni e condivise.
In un mondo che vive profonde trasformazioni sociali, ambientali, culturali e tecnologiche (CallariGalli et al. 2007), il “modello zig zag” consente (ha il vantaggio) di intraprendere itinerari nei quali si ammette l’esistenza, contemporanea e in parte sovrapponibile, di vari tipi di realtà. Nel suo modo di procedere, non lineare, con salti di attenzione e di interesse, il bambino può essere considerato un esempio di come avvenga la combinazione di immagini diverse, a volte contrastanti, che per un certo tempo convivono, e che possono ibridarsi tra loro. Quindi micro-paesaggi multipli, ma anche prospettive inabituali, in un contesto di vissuti che chiedono di essere reinterpretati. Mondi senza parola La metodologia4, sopra citata, che ha visto un particolare coinvolgimento del bambino ha permesso di raccogliere punti di vista che possono essere rapportati al suo modo di agire. L’approccio allo strumento da parte del bambino in età pre-scolastica evidenzia una doppia valenza del rapporto tra strumento e cose: da un lato l’apparecchio viene inteso come mezzo che consente di inquadrare aspetti che si vogliono “catturare”, conservare, ma, da un altro lato, lo strumento è anche ciò che da vita, che produce realtà. E’ perciò interessante rilevare come il modo di procedere del bambino metta in rilievo la complessità del rapporto che intercorre tra
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soggetto, strumento, immagine e percezione del reale. L’immagine, in modo particolare l’immagine fotografica, non racconta mai in modo completo ciò che il soggetto vede. Essa è la traccia di un atto avvenuto che contempla la doppia valenza citata più sopra. La fotografia (intesa come risultato) prende senso quando viene rapportata a un insieme di intenzionalità e a riferimenti mentali (immagini, pensieri, emozioni) non disgiunti dal contesto (situazione ambientale, sociale) in cui è avvenuto lo scatto. Per questo non sempre le fotografie sono tracce che consentono di recuperare il senso per almeno due ragioni: non sempre il soggetto è consapevole di ciò che lo ha spinto a scattare una fotografia, l’attribuzione di senso avviene a posteriori e non è in relazione con l’istante dello scatto. Costanti Alla luce delle considerazioni che precedono, dopo aver esaminato con ogni singolo bambino le sue fotografie, si possono estrapolare alcune costanti. Una parte considerevole dei mondi senza parola sono le istantanee che mostrano i dettagli del terreno. Il paesaggio del bambino, a pochi centimetri dal suolo, è ricco, variato e stimolante nelle zone rurali, è monotono (asfalto) e cosparso di limitazioni (marciapiedi, percorsi obbligati, recinsioni di ogni genere) nelle zone urbane. La mancanza di un punto di vista panoramico (guardare dall’alto) spiega l’eterogeneità dei punti di vista.
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L’altro paesaggio: il punto di vista dimenticato
Il “modello zig zag” è la rincorsa, e a volte la ricerca di conciliazione, tra la scoperta della lumachina nell’angolo del marciapiede che confina con un muro di sostegno e la ruota dell’automobile che schiaccia un sassolino luminoso. Ambedue le situazioni sono mondi. Il tempo che il bambino della nostra storia richiede per esplorarli è enorme, ed è in palese contrasto con i tempi e con il punto di vista dell’adulto. La contemplazione, la comprensione di ciò che il terreno propone agli occhi del bambino richiede tempo. E’ difficile sapere fino a che punto le limitazioni ambientali e le regole che gli adulti impartiscono per far valere il loro punto di vista contribuiscano a inibire la costruzione mentale di un territorio che non sia la replica superficiale di ciò che più avanti nel tempo viene definito “bello”. Ciò che ha colpito gli studiosi che hanno analizzato le fotografie, è la precoce sensibilità del bambino verso aspetti di straordinaria bellezza. La luce è ad esempio un elemento di grande fascino e, oltre ad essere oggetto di curiosità, è anche fonte di poesia quando proietta le ombre sul territorio, quando illumina il cielo al tramonto e quando penetra nella valle attraverso i suoi raggi. Figura 2. Foto che rivelano l’attenzione verso la vita delle piante (il soffione), verso la fisicità del terreno. Il quarto scatto è un esempio di ostacolo, a volte di confine, che caratterizza la percezione del territorio del bambino piccolo.
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Lo (s)guardo estraneo
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Figura 4. Esempio di analisi della struttura di una fotografia scattata da un bambino di 3 anni
La fisicità del terreno, dell’acqua, dei sassi, della sabbia, delle piante, del legno, del costruito è una componente irrinunciabile della percezione. Il bambino manifesta, un po’ ovunque, il bisogno di un rapporto a diretto contatto con le cose, per verificarne la consistenza, per coglierne la natura. Il bambino si interessa a certi riflessi della superficie dell’acqua della fontana, altri bambini si soffermano sul dettaglio della terra appena vangata dell’orto. Figura 3. La luce, elemento di grande fascino, e il gioco delle ombre in foto scattate da bambini dai 3 ai 4 anni
La composizione stessa della fotografia è stata oggetto di analisi. Il bambino è sovente artefice di un’opera che racchiude una molteplicità di significati a partire dalla visione della realtà che egli stesso percepisce. Nel caso della fotografia della mela (vedi esempio) la statura del bambino ha giocato un importante ruolo in quello che il fruitore percepisce come chiave di lettura preferenziale. La presenza delle diagonali, i punti di luce e ombra, l’instabilità del piano su cui si trova il frutto, sono tutti elementi veicolati da un’inquadratura che sottolinea l’elemento statura. Ma in questo, come in molti altri casi, si intravvede un processo di interazione aleatoria tra le parti di un sistema che evolve alla ricerca di un nuovo e diverso equilibrio tra le singole componenti che compongono l’immagine (Arheim 1986).
Prima di dare priorità al contatto con gli occhi e con il viso dell’altra persona il bambino vede le persone dal basso e coglie parti del corpo, parti di abbigliamento. I piedi, le scarpe, le gambe, le mani dell’anziana seduta sono indizi che rappresentano le persone. Il desiderio di guardare oltre, dall’alto di un balcone, si scontra sovente con ostacoli, muri, palizzate, recinti che non consentono di contemplare aspetti del paesaggio.
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L’altro paesaggio: il punto di vista dimenticato
Figura 5. Storie non raccontate in fotografie scattate da bambini di 3-4 anni
La vita dell’erba, delle piante, degli animali che vivono a contatto con il terreno – cani, gatti, lumachine, farfalle – sono fonte di grande attenzione. Il bambino impara presto a conoscere i loro tratti comportamentali (dormire, stirarsi, mangiare, ecc.) che assimila alla propria vita. A volte gli animali grandi – cavalli, mucche, capre – colpiscono per l’imponenza di certe loro parti: le zampe, il muso, il corpo. Messaggi senza risposta Il terreno racconta anche ciò che gli adulti lasciano cadere, trascurano, considerando le strade, le automobili, i marciapiedi, le piazze, i punti di sosta, un implicito della società. Il marciapiede del bambino della breve storia iniziale si sposta su una superficie asfaltata coperta di cicche. Vicino al parco giochi persone passeggiano e lasciano cadere involucri e resti di ciò che hanno consumato, nelle adiacenze altre persone camminano con il loro cane e non si preoccupano di raccogliere gli escrementi. Per un bambino piccolo ciò che avviene sulla strada, oltre il confine del marciapiede, contrasta, contraddice, in modo palese il rispetto e l’attenzione che la mamma cerca di inculcargli verso la vita, verso le cose.
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Figura 6. Uccello travolto e schiacciato dal passaggio di un automobile
Le automobili sfrecciano, schiacciano, calpestano. La ruota dell’automobile si presenta grande ed è fonte di molti messaggi senza risposta, o meglio, di messaggi che contengono un implicito senza parola. Ma, più in là, il prato rigidamente verde del giardino di casa esclude la vita a fiori, erbe, insetti di vario genere. Una sottile realtà di contraddizioni, cosparsa di tratti di implicita violenza, sono il messaggio che nei quartieri delle città la società trasmette ai propri figli; e ciò prima ancora che questi ultimi possano porre la domanda del perché. Il discorso di una rivisitazione degli ambienti naturali e costruiti in cui nascono e vivono i bambini è una priorità.
Lo (s)guardo estraneo
In alcune città sono in atto studi che prevedono la partecipazione di pianificatori, architetti, educatori, autorità comunali per ripensare la sistemazione di interi quartieri5. Molto rimane da fare quando si tratta di tracciare una mappa di ciò che è un paesaggio apprendente, aperto alla nuova cittadinanza del bambino.
sua partecipazione al divenire del territorio sociale e culturale (Francescato et al. 2004); è attraverso la conoscenza e l’interpretazione del punto di vista del bambino che possono prendere forma progetti di riscoperta e di rivisitazione del paesaggio naturale e costruito. Educare per quale paesaggio?
Cittadinanza del bambino In questi ultimi anni molti studi condotti in ambito neuropsicologico hanno trasformato, dal punto di vista della conoscenza scientifica, l’immagine del bambino dei primi anni di vita (Martin et al. 2000, Heckman et al. 2004, Hensch 2005, Lanfranchi 2013). E’ stata ad esempio capita l’importanza delle prime esperienze in rapporto allo sviluppo emotivo, sociale e mentale: molta parte della riuscita scolastica e professionale dipende dai primissimi anni di vita (Schürch, 2012). Oltre a ciò, si considera oggi il bambino, e ciò sin dalla nascita, un soggetto con competenze che lo rendono capace di costruire, in pochi anni, un’immagine del mondo. Ne consegue che la sua collocazione in rapporto ai sistemi sociali che lo accolgono – famiglia, istituti – va ripensata: non più un bambino oggetto, ma un bambino soggetto che, a suo modo, è in grado di esprimere una propria concezione-visione dei rapporti con l’ambiente (Simoni et al. 2012). L’osservazione, l’ascolto, la ricerca di una riformulazione, non solo linguistica, ma anche agita (giocare, costruire, simulare insieme), di ciò che il bambino esprime, sono atteggiamenti educativi che mettono in risalto l’importanza e il valore del suo modo di guardare e di concepire. Nuova cittadinanza è il termine che precisa il senso di una
Ci si può chiedere quale potrebbe essere il paesaggio che rispecchia le particolarità di ciò che abbiamo chiamato “punto di vista” dei primi anni di vita. Non disponiamo di una risposta unitaria, e ciò anche in considerazione del fatto che molte sono le variabili in gioco. E’ ad esempio certo che il modo di guardare e di interpretare l’ambiente muta in poco tempo in funzione dell’età, e poco sappiamo su ciò che guarda e vede un bambino dalla nascita fino ai 2 anni di vita. Una parte, tutt’altro che secondaria, la svolge il contesto educativo; fino a che punto l’esempio della storia iniziale è un riferimento generalizzabile? E ancora, qual è l’immagine di bambino, e più in generale dell’infanzia, nella società? Ciò che traspare dall’analisi condotta sull’importante campione di immagini è la presenza di una forte eterogeneità dei ritagli percettivi: vedi “modello zig zag”. Essa consente al bambino di raccogliere informazioni molto diverse tra loro; informazioni che lo spingono a verificarne la conciliabilità attraverso domande che, almeno in parte, rivolge a chi gli è vicino. Dal punto di vista educativo tutto ciò prende senso nella misura in cui l’adulto svolge il ruolo di colui
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che commenta e indica le possibili relazioni che possono intercorrere tra i vari sguardi. Ciò avviene attraverso atteggiamenti, parole di condivisione, come: “guarda!”, oppure “vedi è come…”, oppure ancora “ti ricordi che abbiamo già visto…” (Vygotzkij 1934). In quel modo di fare prende gradualmente forma il tessuto dei rapporti che intercorrono tra cose, fatti, esperienze, emozioni. Il paesaggio, inteso come insieme percepito e narrabile, è perciò la risultante di una costruzione sociale e, al tempo stesso, cognitiva. Esso non è un dato iniziale. Il paesaggio, visto con gli occhi del bambino, è un’entità in movimento, che si trasforma, e diviene oggetto di interesse e di piacere nel momento in cui può essere raccontato, riconosciuto, condiviso. Condividere significa seguire i suoi itinerari, significa prendere parte, di volta in volta, all’atteggiamento di stupore che lo accompagna (Tonucci 2002, Barbusca 2010). In questo viaggio la lettura del paesaggio è fortemente connotata di elementi culturali. La parola dell’adulto, che accompagna e supporta il gesto dell’indicare, diviene strumento di lettura e di interpretazione. Il bambino ripete la parola, la interiorizza, la trasforma e, a sua volta, compone la delicata tela della narrazione. Raccontare significa stabilire relazioni (Moscovici, 2005), significa porre accenti, significa situare la percezione del momento in una dimensione di spazio e di tempo che non è necessariamente quella dell’adulto. A questo punto si pongono alcuni interrogativi che riguardano l’importanza che la società intende dare alla voce dei più piccoli.
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L’altro paesaggio: il punto di vista dimenticato
In quale misura l’intenzione narrativa del bambino viene colta dall’adulto? In quale modo, in quali tempi, il racconto del bambino è oggetto di attenzione e di ascolto? E ancora, quale incidenza ha il suo punto di vista sul modo di concepire e di considerare il paesaggio?
Le onde della notte, a volte, stravolgono, trasformano la sua opera permettendogli, il giorno dopo, di scoprire gli effetti della forza della natura. In quello spiazzo senza confini predeterminati dall’uomo, attraverso il gioco, il bambino ha la possibilità di interrogare le cose, associando, di volta in volta, altri bambini e adulti.
Barbusca M., 2010, La città all’altezza dei bambini. Un altro modo di vivere Chiavenna, Tesi Bachelor. SUPSI, Manno.
Senza una partecipazione ai processi e ai percorsi percettivi e mentali, che fanno capo alle analogie, alle associazioni, ai riferimenti che ogni bambino sviluppa nel corso della sua crescita, il potenziale di lettura del paesaggio rischia di assottigliarsi e di tradursi in un rapporto sterile e stereotipato. D’altra parte, senza una vera cittadinanza della narrazione infantile attraverso mezzi come la fotografia, è difficile immaginare un cambiamento paesaggistico che tenga conto di una pluralità di punti di vista. Il “come” del rapporto con il bambino occupa una posizione centrale sul modo di guardare e di interpretare il mondo.
Il rapporto tra la dimensione particolare (quella del dettaglio della sabbia) e la dimensione globale (la spiaggia, il mare) sono conciliabili; può così prendere forma una vena narrativa del paesaggio percepito.
Cyrulnik B. (2007), Comment les enfants voient le monde. “Sciences humaines”. Les grands dossiers. L’enfant du 21ème siècle, nro. 8, septembre-octobrenovembre 2007, Auxerre, France.
Paesaggio metaforico
Ma il paesaggio adulto rischia anch’esso di rimanere un corpo estraneo se non stabilisce un rapporto con la storia dei suoi figli che ogni giorno scoprono e riscoprono ciò che la terra offre e promette. Ecco perché è urgente conoscere il punto di vista dai primi giorni di vita in poi.
Esiste un paesaggio che, meglio di altri, si avvicina al messaggio trasmesso dalle fotografie? In senso metaforico quel paesaggio potrebbe essere una spiaggia del mare con numerose conchiglie, sassi, rami, dune… . In quella spiaggia il bambino ha la possibilità di spostarsi, di fermarsi, di combinare, all’infinito, l’acqua con la terra, costruire e delimitare territori. Alla fine della giornata può contemplare le tracce lasciate dal suo agire su quel territorio.
Ma cosa significa narrativo in rapporto al paesaggio percepito? Significa che l’immagine del territorio diviene fonte di racconto, di relazione con vissuti che lo rendono compatibile con le necessità dell’uomo. Un paesaggio che non racconta è un oggetto estraneo, che suscita indifferenza, è un paesaggio privo di storia.
Bruner J., 1997, La cultura dell’educazione, Feltrinelli, Milano (ed. orig. 1996). Callari Galli M., Scandurra G., Riccio B., 2007, Mappe urbane. Per un’etnografia della città. Guaraldi, Rimini.
Francescato D., Tomai M., Mebane M. E., 2004, Psicologia di comunità per la scuola, l’orientamento e la formazione, Il Mulino, Bologna. Heckman J., Masterov D., 2004, The Economic Impacts of Child Care and Early Education: Financing Solutions for the Future, Conference, Dec. Massachusetts, USA. Hensch T., 2005, Critical period plasticity in local cortical circuits. Nature Reviews, Neuroscience, 6, 877-888. Journet N., 2010, Les enfants ont-ils une culture? “Sciences humaines”. À quoi pensent les enfants? Nro 219, octobre 2010, Auxerre, France. Lanfranchi A., 2013, Frühförderung als Allheimittel für die Krankheiten der Schule? Schweizerische Zeitschrift für Heilpädagogik, 19(4), pp 19-24. Martin S., Grimwood P., et Morris R., 2000, Synaptic plasticity and memory: An evaluation of the hypothesis. Annual Review of Neuroscience, 23, 649-711. Moscovici S., 2005, Le rappresentazioni sociali, Il Mulino, Bologna
Riferimenti bibliografici
Postman N., 1984, La scomparsa dell’infanzia, Armando Editore, Roma (op. orig. 1982).
Arheim R., 1987, Intuizione e intelletto. Nuovi saggi di psicologia dell'arte, Feltrinelli, Milano (ed. orig. 1986).
Schürch D., 2007, Psicodidattica della fotografia nel bambino tra i 3 e i 7 anni. L’altro sguardo sul territorio, Franco Angeli, Milano.
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Lo (s)guardo estraneo
Schürch D., 2009, L’altro sguardo, in: Putignano F. (a cura di), Learning districts, Maggioni, Milano. Schürch D., 2012, Meglio prima…“Psychoscope”, Dossier: Imparare 1-2-/2012. Simoni H, Wustmann C., 2012, Quadro d’orientamento della formazione, dell’educazione e dell’accoglienza della prima infanzia in Svizzera, Rete custodia bambini e Commissione svizzera per l’UNESCO, Berna. Tonucci F., 2005, La città dei bambini. Un modo nuovo di pensare la città, Laterza, Roma-Bari (prima ed. 1996). Vygotzkij L., 2008, Pensiero e linguaggio. Ricerche psicologiche, Laterza, Roma-Bari, (op. orig. 1934).
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Vedi Convenzione europea del paesaggio del 20 ottobre 2000, Art. 1a. 3 Non hanno un nome in quanto la chiave di lettura percettiva del bambino non rispetta ancora criteri linguistici della cultura di appartenenza. 4 Descritta in: Schürch D., 2007, Psicodidattica della fotografia nel bambino tra i 3 e i 7 anni, Franco Angeli, Milano. 5 Ad esempio il Meierhofer Institut für das Kind di Zurigo ha ricevuto mandato dalla città di studiare e di adattare alcuni quartieri della città di Zurigo alle esigenze al punto di vista della prima infanzia.
Zucchermaglio C., Alby F., Fatigante M., Saglietti M., 2013, Fare ricerca situata in psicologia sociale, Il Mulino, Bologna.
Riferimenti iconografici Le fotografie sono parte di un campione di oltre cinquemila immagini scattate da bambini tra 3 e 6 anni nell’ambito di un progetto di ricerca e di sviluppo di regioni periferiche (vedi vallate alpine del sud della Svizzera) chiamato movingAlps
Testo acquisito dalla redazione nel mese di Settembre 2013. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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Descrizione introduttiva dell’autore.
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Paesaggio: strumento di educazione
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Paesaggi in gioco
Narrando@Fiesole. Abitare il paesaggio, ascoltarne le voci
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Narrando@Fiesole. Living the landscape, listening to its voices
Paolo De Simonis, Valentina Lapiccirella Zingari, Silvia Mantovani *
abstract La Convenzione di Faro (2005), ha definito la “comunità di eredità” un insieme di persone che attribuisce valore ad aspetti specifici dell’eredità culturale, e che desidera, nel quadro di un’azione pubblica, sostenerli e trasmetterli alle generazioni future. In ogni territorio esistono centinaia di voci in attesa di ascolto, con un potenziale enorme in termini didattici, di identificazione di valori, di creazione di comunità. Il progetto “Narrando@Fiesole” si propone di attivare un percorso che leghi e colleghi paesaggio e patrimonio culturale, inteso come eredità viva e narrazione. L’obiettivo centrale è quello di dare voce a questa “comunità patrimoniale”, realizzando un inventario partecipativo on-line, uno strumento innovativo di conoscenza, memoria, educazione e valorizzazione del territorio e dei suoi paesaggi.
abstract The Faro Convention (2005) established that “heritage community” consists of people who value specific aspects of cultural heritage which they wish, within the framework of public action, to sustain and transmit to future generations. In all regions there are hundreds of voices waiting to make themselves heard, that have a high potential in terms of teaching, identification of values, community building. The "Narrating@ Fiesole" project intends to start walking on a path that connects landscape and cultural heritage, understood as a living heritage and storytelling. The main objective is to give voice to this "heritage community", creating a participatory archive online, an innovative tool of knowledge, memory, education and development of the territory and of its landscapes.
parole chiave paesaggi narrativi, comunità di eredità, patrimonio culturale immateriale, Fiesole
key-words narrative landscape, haritage intangible cultural heritage Fiesole
community,
* Paolo De Simonis, IDAST (Iniziative demo-etnoantropologiche e di storia orale in Toscana) Valentina Lapiccirella Zingari, antropologa, SIMBDEA (Società Italiana per la Museografia e i Beni Demoetnoantropologici) Silvia Mantovani, architetto, Dottore di Ricerca in Progettazione Paesistica
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Una breve introduzione Giovanni Villani, nel libro primo della sua “Nuova Cronica” attribuiva la fondazione della città di Fiesole ad Attalante, discendente di Can, secondo figlio di Noè. Fiat sola (da cui Fiesola) sarebbe stata dunque la prima città fondata in Europa dopo il diluvio universale, edificata sui colli a nord della futura città di Firenze su indicazione di Apollo, che qui individuò “lo più sano e meglio assituato luogo che eleggere si potesse”, dove “vi regnano i migliori venti e più sani e purificati che in altra parte”, ricco di “acque di fontane finissime e sane”, e posto sotto l’ascendente di una stella “che dà allegrezza e fortezza a tutti gli abitanti più che in altra parte d'Europia” 1. Con tali premesse non stupisce dunque che Fiesole sia divenuta nei secoli crocevia di storia e cultura, ambita località di soggiorno di artisti, letterati e intellettuali, meta privilegiata dei viaggiatori del Grand Tour, residenza di personaggi illustri italiani e stranieri, che in questo luogo hanno lasciato, nei secoli, testimonianza del proprio passaggio. Qui i romani si sono avvicendati agli etruschi, Lorenzo il Magnifico ha soggiornato assieme ai neoplatonici; Leonardo da Vinci ha sperimentato il primo volo umano. Qui John Temple Leader ha realizzato il sogno nostalgico del medioevo ed inventato il paesaggio collinare del cipresso a macchia, mentre Cecil Pinsent, ispirato dal parco di Villa Medici, ha reinterpretato e riproposto il giardino formale italiano. Qui Giovanni Michelucci, Primo Conti e Pietro Porcinai hanno vissuto a lungo e alimentato la propria arte. Fiesole non è però solo luogo di artisti e letterati: su questi colli sono nate e vissute generazioni di scalpellini, mezzadri, trecciaiole. Più giù, nella Valle dell’Arno, dal Girone a Quintole, accanto ai
Narrando@Fiesole. Abitare il paesaggio, ascoltarne le voci
mezzadri abitavano i lanaioli, impiegati nelle gualchiere lungo il fiume. Sull’altro versante, nella Valle del Mugnone, ricordata anche da Boccaccio in una novella del Decamerone, vivevano i mugnai, nei mulini sparsi lungo il torrente, tra Calderaio e il Manzolo. Il paesaggio fiesolano contiene tracce di tutte queste storie, così come le storie narrate dai suoi abitanti (ma non solo), disegnano percorsi nel paesaggio, passato e futuro. Come ha infatti evidenziato Eugenio Turri, “il paesaggio racconta in due modi diversi le storie degli uomini”2, in quanto è contemporaneamente deposito di avvenimenti e custode di memorie. Nel paesaggio, come in un palinsesto in continua evoluzione, possiamo perciò leggere tracce, scorgere segni dell’evoluzione storica ed economica, così come memorie, saperi, conoscenze, abilità delle popolazioni, che costituiscono il fondamento dell’appartenenza a un luogo. Esistono decine di saggi, di studi e ricerche su Fiesole e i suoi paesaggi, sulle sue emergenze culturali e artistiche. Contemporaneamente sul territorio esistono centinaia di voci in attesa di ascolto, con un potenziale enorme in termini didattici, di produzione di senso, di creazione di comunità. Il progetto Narrando@Fiesole nasce dall’esigenza di dare voce a questa “comunità patrimoniale”, convinti, come ha indicato la Convenzione di Faro “della necessità di coinvolgere ogni individuo nel processo continuo di definizione e di gestione del patrimonio culturale”, così come della necessità di valorizzazione del paesaggio inteso quale "componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione delle diversità del loro patrimonio culturale e fondamento della loro identità", come stabilito dalla Convenzione Europea del Paesaggio.
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L’obiettivo centrale di Narrando@Fiesole, progetto nato per iniziativa dell’Associazione FiesoleFutura3, è dunque quello di costruire un inventario partecipativo on-line, un luogo virtuale dove, attribuendo pari dignità e analogo riconoscimento ai saperi esperti così come a conoscenze, memorie, usi, pratiche e tradizioni locali, sia possibile sperimentare modalità nuove di conoscenza condivisa, salvaguardia e valorizzazione del paesaggio e del patrimonio. Uno strumento innovativo di esplorazione e di educazione, capace di dare voce al territorio, di contribuire a costruire la coscienza patrimoniale delle generazioni che lo abitano, di colmare la distanza che esiste tra la Storia e le storie. Partendo da una breve riflessione sulla valenza oggettiva e soggettiva del paesaggio, entriamo dunque nel cuore del progetto e dei suoi paesaggi narrativi. 1. Paesaggio tra percezione e partecipazione Quanto paesaggio. Un uomo vi può girovagare tutta una vita e non trovarsi mai, se è nato smarrito. José Saramago, “Una terra chiamata Alentejo” 1.1 Top down Io, in origine e per qualche secolo: il paesaggio moderno è stato concepito dallo sguardo isolato, elevato ed esperto, di più o meno grandi ego venuti da fuori. Arcinoto il primo piano di Goethe, con sullo sfondo l’Appia antica e il profilo dei Castelli4. Di nicchia, ma pertinente al nostro caso, il diplomatico inglese Thomas Penrose, con alle spalle i monumenti fiorentini e all’orizzonte il colle lunato di Fiesole5.
Paesaggi in gioco
Noi ma anche loro, insomma tutti, ‘solo’ in apertura di terzo millennio: secondo Convenzione Europea che “definisce il Paesaggio quale determinata parte del territorio, così come è percepita dalle popolazioni”6 e intende “valutare i paesaggi individuati, tenendo conto dei valori specifici che sono loro attribuiti dai soggetti e dalle popolazioni interessate”7 che decidono partecipando. Paesaggio e popolo sovrano si sono davvero incontrati molto tardi8. Certo non figuravano assieme nella Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino dell’ ‘89 e sarebbe troppo dietrologico, per quanto interessante e prospettico, intravederli presenti e operativi nel diritto alla Felicità previsto due anni prima dalla Costituzione statunitense.
Figura 1. Logo del progetto Narrando@Fiesole
‘Proclamare’ poi, si sa, non è mai stato sinonimo di ‘realizzare’. Men che meno a proposito della Convenzione sul paesaggio: tardiva e per di più, nella sostanza, quasi octroyée. A differenza infatti del diritto al voto di natura politica, il suffragio universale dedicato al paesaggio non corrisponde al risultato di una lunga e forte pressione ‘dal basso’. È stato semmai il top a sostenere l’indispensabile protagonismo del down: tanto che, estremizzando, si potrebbe affermare che il popolo/comunità è sovrano, quasi senza saperlo, di un bene su cui di conseguenza non esercita confacente governo rendendo così particolarmente problematica l’attuazione dei princìpi annunciati nella Convenzione. Inoltre: è nelle corde delle scienze umane considerare il paesaggio figlio diretto di una percezione che, in ogni caso, non corrisponde a una meccanica ricezione di dati sensoriali ma è semmai funzionale ad una loro riorganizzazione in percorsi di senso. Non sarà tuttavia il caso di dimenticare come e quanto permangano in altre discipline approcci diversi, con ambizioni dichiaratamente oggettivanti come ad esempio si registra nelle procedure di individuazione delle ‘unità di paesaggio’. Grande la confusione sotto il cielo del paesaggio e dunque, con il Presidente Mao, la situazione è favorevole: in particolare per le sue valenze latu sensu educative. ‘Partecipare’ infatti non equivale a convincere tutti di qualcosa che pochi sanno: al contrario, si tratta di prender coscienza di differenze esistenti e pazientemente tenerne conto per negoziare operazioni condivise dove tutti ‘cambiano’ e ‘scambiano’. Narrando@Fiesole si propone esplicitamente, in questo quadro, come sperimentazione di procedure utili alla realizzazione di quanto indicato dalla
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Convenzione: mantenendo i contatti con il relativo dibattito teorico ma ancor più confrontandosi con le non numerose ‘buone pratiche’ individuabili a riguardo. 1.2. Ni partout ni toujours Il paesaggio educa a partire dal suo nome/significato che sollecita il superamento della diffusa pigrizia responsabile del farcelo apparire come un ‘dato’, una realtà evidente di per sé e collocata fuori di noi. “Ni partout ni toujours” ha in realtà preso forma linguistica ‘la’ nozione di paesaggio, ricorda e semplifica Augustin Berque (Berque, 1994 p. 15). Non siamo davanti ad un universale, posto che ne esistano. Non ogni cultura è, o è stata, ‘paysagère’ (Berque 2008): o quanto meno non nelle stesse misure e modalità9. Il paesaggio australiano è interpretato dalla cultura aborigena tramite sogni in cui ogni animale è rappresentato da una sezione di territorio con specifica simbologia (Bourassa 1991). Assolutamente relativa è la stessa idea di ‘bellezza’. Berque ha ricordato l’elogio di un ruscello comunicatogli da un contadino giapponese: “Il est devenu beau, depuis qu’on l’ a bétonné” (Berque 1994, p. 14). Secondo la molto discussa prospect/refuge theory, elaborata da Jay Appelton (Appelton 1975 e 1990), la motivazione del ‘bello’ paesaggistico risiederebbe nel desiderio e nel piacere del vedere senza esser visti. Come i nostri progenitori cacciatori avvertiremmo ancora, magari solo simbolicamente, l’attrazione per i luoghi da dove si possa controllare il territorio prima della caccia ma dove sia anche possibile consumare senza concorrenti la preda e trovar ricovero quando si corra il rischio di essere a nostra volta predati.
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‘Paesaggio’, comunque sia, è storicamente casella vuota nell’inventario concettuale, e quindi lessicale, del mondo classico10 e del Medioevo. Come parola compare in italiano solo nel ‘50011 e unicamente per significare la rappresentazione d’arte, pittorica, di particolari porzioni di territorio. È termine immigrato dal francese pays, a sua volta derivato dal latino pagus che in origine, prima di equivalere a ‘villaggio’, indicava una ‘porzione di spazio delimitata da pietra conficcata nel terreno’12 In senso pittorico il paesaggio, tra ‘500 e ‘700, si guadagna spazio nelle tele e nella stima: soprattutto attraverso la rievocazione arcadica del mondo classico, correlata al sedimentarsi del Grand Tour13. In età romantica, pur continuando a esprimersi attraverso la pittura, passa a significare la proiezione sulla natura dell’interiorità emozionale. Con Carus il paesaggio è ‘‘un determinato stato d’animo’’14 raffigurato tramite la riproduzione di corrispondente aura presente nell’ambiente naturale. Emblematico il Viandante sul mare di nebbia, di Caspar David Friedrich (1818), che tra i suoi tormenti avrà avuto anche quello di sentirsi un ego che vuol porsi come misura di tutto: complice di una modernità produttiva che aggredisce la natura e insieme, per senso di colpa, elabora neosoluzioni per proteggere e valorizzare quel che ne resta. In Inghilterra quanto si va perdendo dell’ambiente tradizionale lo si ricerca visitando luoghi ancora non toccati dal progresso o lo si riproduce artificialmente in patria, con nuove modulazioni del parco in chiave di ‘selvaggio addomesticato’. Non si spiega diversamente la nascita del folklore, datata 184615 e da intendersi appunto quale valorizzazione e protezione della cultura tradizionale appena travolta dall’industrialismo.
Narrando@Fiesole. Abitare il paesaggio, ascoltarne le voci
Coevo, a partire da Alexander von Humboldt e su scala europea, anche il fondamentale transito del paesaggio da concetto estetico a concetto scientifico16. Da lettura poetica del mondo a sua descrizione oggettiva, con associato abbandono del troppo equivoco ‘paesaggio’ a favore del più neutrale ‘ambiente’. Non meraviglia così che solo nella seconda metà dell’ ‘800 si sia affermato il significato di ‘paesaggio’ come “Ciò che un osservatore (fermo o in movimento) può vedere dei luoghi che lo circondano con uno sguardo complessivo dal punto di vista in cui si trova in un determinato momento o via via si colloca” (Battaglia 1961-2002, ad vocem): non poteva in effetti esistere prima un significato di paesaggio costruito molto dopo. Anche ‘ambiente’, d’altronde, finirà per tradire abbastanza presto la sua auspicata neutralità, tingendosi variamente di etica e politica: Morris17 incluse tra le necessarie rivendicazioni sociali anche l’estensione alle classi popolari di una appropriata capacità di lettura dell’ambiente e in chiave di protoambientalismo nacquero movimenti ‘per l’accesso alla campagna’ e per la protezione della natura. Nel corso del ‘900 si sarebbe poi parlato, tra regole energetiche ed evolutive, di ecosistema, ecocomplesso, geosistema, comunità biotica, ecofield, biocenosi, ecotopi e biotopi: mentre in Italia andavano formandosi le prime norme di tutela che consideravano il paesaggio una particolare articolazione del patrimonio storico-artistico. Sono del 1905 alcuni provvedimenti a difesa della pineta costiera di Ravenna (Ercolini 2007, p. 317)18. Il 20 giugno 1909 l’onorevole fiorentino Giovanni Rosadi interviene alla Camera perché vengano dichiarate glorie nazionali non soltanto “le mura e gli archi e le colonne e i simulacri ma anche i paesaggi e le foreste e le acque” (Severini 2004, p. 471). Nel
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1914 Nicola Falcone riteneva che lo Stato dovesse proteggere “i paesaggi anche per non essere accusato di una grave contraddizione: se esso custodisce con religiosa cura, nei musei, i quadri dei grandi maestri del paesaggio, non può lasciare abbandonati i magnifici e irreparabili originali riprodotti sulla tela” (Falcone 1914, p. 25). Al 1922 risale la prima vera legge sul paesaggio19, promossa da Benedetto Croce secondo cui “il paesaggio è il volto amato della patria. Più questa visione sarà bella e più si amerà la patria di cui è l’immagine”20. Esecutivi della legge Croce si presentavano nella sostanza i principi della Legge sulla tutela delle bellezze naturali voluta nel 1939 dal Ministro Bottai: le “cose immobili che hanno cospicui caratteri di bellezza”, ville, giardini e parchi che “si distinguono per la loro non comune bellezza”, “complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale”, le “bellezze panoramiche considerate come quadri naturali’.
Figura 2. Fiesole, Piazza Mino
Paesaggi in gioco
Continuità con l’anteguerra dimostra anche la nostra Costituzione, con la stretta congiunzione, nell’ art. 9, fra ‘patrimonio storico e artistico’ e un ‘paesaggio’ i cui arcaici caratteri di fondo si mantennero in larga prevalenza inalterati anche nei ‘50. Tutto muta, ovviamente e improvvisamente, quando anche su scala italiana si replica il trauma/dramma del passaggio alla modernità: con gli sconvolgimenti denunciati da Piovene, Flaiano, Bocca, Cederna, Cancogni, Sereni. Pasolini testimonia la sparizione delle lucciole e a detta di Brandi “L’Autostrada del Sole può diventare una specie di fossa per il paesaggio che attraversa, dilaniarlo con un rettilineo spaventoso che ignori tutto, passi su tutto, oltrepassi tutto senza lasciare vedere niente” (Brandi 2001, p. 25). È così che, mentre frammenti di paesaggio cui si attribuisce particolare valore documentale sono selezionati per idonea messa a tutela, crescono visioni e ambizioni di carattere olistico. Per Benevolo “gli alberi, le case, le colline e i corsi d’acqua, devono essere pensati unitariamente come elementi dell’ambiente umano, posti in relazione tra loro nello spazio e nel tempo, in modo continuo, per l’effetto dell’azione umana che si svolge nella continuità” (Benevolo 1957, p. 182). Da qui le Disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale contenute nella legge Galasso del 1985: per le Regioni la tutela diviene obbligatoria e non si riferisce più a casi isolati e individuati con criteri estetici. La nuova logica non è gerarchica ma inclusiva e recepisce chiaramente le crescenti istanze ecologiche e di uso corretto del territorio. La Regione Toscana, in linea con le indicazioni della Convenzione Europea e del Codice dei Beni Culturali, definisce il proprio territorio come “quel noi che consuma o costruisce o conserva o
trasforma i tanti luoghi che compongono il nostro presente in vista o in nome di un qualche futuro”21. 1.3. No people no landscape22 Inafferrabile, come si vede, l’oggettività’ del paesaggio: proprio perché formata da incessante flusso di variazioni percettive. Un flusso che, prima ancora che impossibile, non sarebbe utile cercar di arrestare. Il paesaggio è oggetto strutturalmente soggettivo e quindi problematico quanto fascinosamente prospettico. Ottimo per ‘condur fuori’: etimo di educare. Educare al e con il paesaggio. Chi se ne occupa specificamente (Castiglioni, De Marchi 2009) ritiene indispensabile una adeguata alfabetizzazione alla lettura del paesaggio e, assieme, vede in questo la possibilità di ulteriori importanti valenze didattiche. Si pensi alle relazioni che il paesaggio intesse, per sua storia e natura, con il dialogo razionalità/emotività o con la dimensione diacronica e l’ intercultura. Andrebbe aggiunta, in radice, la grande lezione riflessiva connessa alla forma di sovranità popolare sul paesaggio prevista dalla Convenzione: palesemente in linea con più generale e recente tendenza ad opzioni di democrazia diretta e/o partecipata. Lo si registra, via Unesco (Bortolotto 2011), attorno ai patrimoni culturali e, forse con più tentativi di applicazioni, in merito alla progettazione partecipata urbanistica e ambientale. Nella sostanziale positività di tale nuova ‘domanda’ non mancano naturalmente i rischi. Anzitutto di dosaggio: con un’overdose di democrazia diretta23 che trascura la necessità di pesi e contrappesi. ‘Tutto il potere’ alla dimensione locale, ad esempio, può rimandare all’interessante esperienza del ‘bilancio partecipativo’, introdotto a Porto Alegre nel 1989 e oggi applicato anche in varie
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amministrazioni comunali italiane. La specificità areale dei problemi implica però impegni limitati nel tempo e coinvolgenti platee diverse: l’approccio single-issue rischia di non contribuire alla crescita del capitale sociale, al radicamento di uno stile partecipativo ordinario e continuativo (Magnaghi 2006). E non raramente scivola in area nimby. La partecipazione inoltre non prende corpo solo perché la si desidera e in ogni caso implica metodi e ruoli tutt’altro che ben definiti e irenici24. Le ‘popolazioni’ non rimandano affatto a soggetti unitari, coesi e necessariamente positivi. Il paesaggio toscano ritenuto di maggior pregio è frutto di una società rurale che non c’è più. Gli attuali abitanti della campagna ne sono proprietari solo in minima parte e non producono i caratteri fondamentali dell’ambiente dove vivono. Il campanile è poi totem di orientamento sempre suscettibile di involvere in campanilismo. La globalizzazione valorizzante le particolarità locali promossa da Unesco non sta disseminando, al momento, preziose occasioni di comparazione affratellante, di riconoscimento della varietà come ricchezza degli ‘altri’ da condividere con la propria: le liste dei patrimoni dell’umanità hanno semmai favorito concorrenza forte e miope tra interessi locali. Sappiamo inoltre che il nostro paesaggio è sempre più visto anche da loro, da vari altri in parte destinati a far parte di più largo e ricco noi. Etnorama è per Appadurai “quel panorama di persone che costituisce il mondo mutevole un cui viviamo: turisti, immigrati25, rifugiati, esiliati, lavoratori ospiti, ed altri gruppi e individui in movimento” (Appadurai 2001, p. 53). Viaggiano virtualmente anche i paesaggi, conosciuti prima di esser visitati fisicamente. Identità esplicitamente ‘narrativa’ è anche per questo mission e cifra del nostro progetto
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fiesolano. “Rispondere alla domanda ‘chi?’ – con Paul Ricoeur - vuol dire raccontare la storia di una vita” (Ricoeur 1988, p. 375) ossia di una continua mutazione. Degli uomini come del paesaggio ci interessa una identità che non sia ‘identica’ ossia, da idem, sempre uguale a se stessa.. Prospera pour cause intenso dibattito su chi debbano essere gli attori del partecipare: dalla genericità di comunità e cittadinanza alla individuazione dei ‘cittadini attivi’ e del ‘ceto medio riflessivo’ (Ginzborg 2005) anche a costo di escludere (chissà don Lorenzo !) proprio i soggetti meno interessati perché deprivati di lingua e consapevolezza. Altro bel caso è quello che, nella pratica del partecipare, si manifesta con il delicato incontro tra saperi diversamente esperti (tutti i saperi lo sono): una diversità anche conflittuale che, se ben gestita, rende la negoziazione non simile ad un compromesso ma ad una comune crescita creativa (Bobbio, Pomatto 2007). Esperienze di alto livello in questa direzione sono tra l’altro riscontrabili nel progetto SETLAND26 (il paesaggio democratico come chiave del rapporto tra popolazione e territorio), nella ricerca sui Luoghi di valore promossa dalla Fondazione Benetton27 nonché nell’insieme di iniziative legate alle ‘mappe di comunità’ 28. Ambiguo, si è detto e si dice, sarebbe il paesaggio: intrinsecamente per la sua continua oscillazione tra significare una ‘cosa’ e la sua ‘rappresentazione’ e/o percezione. È anche però sostenibile che la dissolvenza dei confini tra significante, significato e referente rappresenti invece una ricchezza: in particolare sul terreno dell’informazione/educazione. La stessa Convenzione è “un desiderio che anticipa il futuro, codificato in legge: un progetto educativo, di formazione spirituale potremmo dire nel senso
Narrando@Fiesole. Abitare il paesaggio, ascoltarne le voci
della sua apertura al mondo della vita. Il teatro greco c’insegna che senza educazione non c’è luogo né qualità”. (Ferriolo 2010, p. 9). Anche la Convenzione connette il paesaggio al benessere. E per Luginbühl (Luginbühl 2008) il paesaggio è libertà e possibilità di riorganizzare l’ambiente per la soddisfazione dei propri desideri. Un bel paesaggio, in definitiva, è un territorio che funziona perché ben progettato a partire dalla negoziazione fra interessi diversi (Gambino, Cassatella 2010). Paesaggio, concludendo, come spazio del non ancora: crinale tra quel che è avvenuto, sta accadendo e potrebbe accadere. Per Farinelli “proprio in forza della sua connaturata e calcolata ambiguità, il paesaggio resta l’unica immagine del mondo in grado di restituirci qualcosa della strutturale opacità del reale – dunque il più umano e fedele, anche se il meno scientifico dei concetti” (Farinelli 1991, p. 11). 2. Paesaggi narrativi Nel nostro linguaggio è depositata un’intera mitologia Ludwig Wittgenstein Il progetto “Narrando@Fiesole” si propone di attivare un percorso che leghi e colleghi paesaggio, patrimonio culturale inteso come eredità viva e narrazione. Forte di una sua storia, legata alla nascita dell’associazione culturale Fiesole Futura e alle sue due iniziative, “Osservatorio del paesaggio” e Officina del racconto”, il progetto vuole attivare un processo di ricerca e valorizzazione del patrimonio culturale del territorio del comune di Fiesole, attraverso le narrazioni dei suoi abitanti e
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con il coinvolgimento della cittadinanza, delle associazioni culturali, delle istituzioni territoriali. Negli ultimi vent’anni, alcune Convenzioni internazionali, spesso in maniera pionieristica rispetto alle politiche nazionali, hanno contribuito a ridefinire e trasformare i paradigmi patrimoniali. La Convenzione Europea del paesaggio29ci parla di paesaggio come “prodotto dalla percezione” delle popolazioni, fondandosi nel principio antropologico dell’auto-attribuzione, mentre la Convenzione Unesco per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale30 ci parla di “senso di identità e continuità” come fondamento dei processi di patrimonializzazione. Questi ultimi da costruire nel riconoscimento di ciò che viene identificato come patrimonio culturale dalle stesse “comunità, gruppi ed individui” attori, protagonisti e produttori di cultura. Queste ed altre Convenzioni Internazionali31 postulano un processo basato sulla costruzione consapevole del proprio patrimonio culturale, sulla necessità di favorire la presa di coscienza, sul diritto delle popolazioni ad esprimere un loro patrimonio e sul dovere delle istituzioni e dei governi di tener conto di questo diritto. Un cambiamento di paradigma patrimoniale che ci orienta verso i significati sociali, in un mondo di soggetti piuttosto che di oggetti, o meglio in un mondo in cui i soggetti costruiscono le loro rappresentazioni narrative, anche attraverso gli oggetti, i segni, i significati. Aprire spazi per nuovi, diversi processi di patrimonializzazione, significa creare contesti di ascolto, costruzione condivisa e salvaguardia32 del patrimonio culturale del territorio e dei suoi paesaggi, colti nel movimento delle dinamiche contemporanee. L'obiettivo generale del progetto è la costruzione di una metodologia innovativa per la conoscenza
Paesaggi in gioco
condivisa, la salvaguardia e la valorizzazione del paesaggio inteso quale "componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione delle diversità del loro patrimonio culturale e fondamento della loro identità", (Convenzione Europea del Paesaggio - 2000) ponendolo in stretta relazione con la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale (Convenzione Unesco per la Salvaguardia del Patrimonio culturale immateriale – 2003)33. Il progetto intende realizzare un “inventario partecipativo aperto”34 delle risorse territoriali, dalle più invisibili e quotidiane alle più celebri e note in dialogo con le “comunità di eredità”35 del territorio fiesolano. L’elaborazione di percorsi interpretativi richiederà il concorso di diverse discipline, in un processo di ricerca centrato su “temi” proposti ed elaborati in stretto rapporto con il “terreno”, in dialogo con gli attori locali. L’obiettivo specifico è quello di far nascere attorno a Fiesole Futura un luogo di raccolta, studio e trasmissione della memoria del territorio fiesolano, dei suoi paesaggi al plurale e del vissuto dei suoi luoghi, nella forma di un archivio web, in movimento e in costante aggiornamento. I “paesaggi patrimoniali”, che ricollegano alla definizione Unesco di paesaggi culturali36, sono espressione delle esperienze di gruppi, comunità e individui che li abitano e li costruiscono con le loro scelte e i loro stili di vita, le loro tradizioni culturali, nel tempo. In questo senso, si tratta di costruire un processo di partecipazione e scambio coinvolgendo associazioni, istituzioni culturali e persone risorsa, in un dialogo dinamico e creativo. I paesaggi raccontano molte storie, visibili e invisibili, e lo fanno con le voci di gruppi, comunità ed individui che costituiscono il tessuto territoriale vivo. Dare la voce al territorio, contribuire a costruire la
coscienza patrimoniale delle generazioni che lo abitano è il cuore di questo progetto. Aprire spazi per nuovi e diversi processi di patrimonializzazione, significa creare contesti di ascolto, costruzione condivisa e salvaguardia37 del patrimonio culturale del territorio e dei suoi paesaggi, colti nel movimento delle dinamiche narrative contemporanee. In questo senso, possiamo dire che l’associazione Fiesole Futura è una “ comunità di eredità” che si sta muovendo, secondo i più attuali orientamenti delle politiche patrimoniali, per l’identificazione, la salvaguardia e la valorizzazione del suo patrimonio locale. Il percorso che proponiamo vuole contribuire a ripensare il rapporto tra paesaggio, patrimonio culturale e narrazione. Strategico, in questo senso, il concetto di “paesaggio narrativo”. E la prospettiva della trasmissione, al cuore anche della definizione di eredità culturale: “l’eredità culturale è un insieme di risorse ereditate dal passato, che le popolazioni identificano, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà, come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione. Essa comprende tutti gli aspetti dell’ambiente che sono il risultato dell’interazione, nel corso del tempo, tra le popolazioni e i luoghi”38. 3. Le voci del paesaggio, il paesaggio delle voci Si l’ethnologie, qui est affaire de patience, d’écoute, de courtoisie et de temps, peut encore servir à quelque chose, c’est à apprendre à vivre ensemble Germaine Tillon
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Credo che l’impresa di dare una spiegazione sia sbagliata già per il semplice motivo che basta comporre correttamente quel che si sa, senza aggiungevi altro, perché subito si produca da sé quel senso di soddisfazione che si ricerca mediante la spiegazione… (…) il concetto di rappresentazione perspicua ha per noi un’importanza fondamentale, esso designa la nostra forma di rappresentazione, il modo in cui vediamo le cose. (…) Tale rappresentazione perspicua media la comprensione, che consiste appunto nel « vedere le connessioni Ludwig Wittgenstein “Io nelle cave ci son nato…ma la pietra l’è bella…più che altro ci avevo passione e poi dicevo… la cava la va persa!”. “Io avevo preso il mio paese, Compiobbi, i paesi della valle dell’Arno, per fare una ricerca storica… è importante per me individuare chi è ognuno, ognuno ha la sua dignità, bello sarebbe fare la biografia di ognuno… Io sono il Robin Hood delle persone dimenticate… lo scriva, questo…”. “Io tante volte quand’è sera, chè vo’ a letto presto, mi metto a pensar a tutti i contadini…tutti, fino a Borgunto, a Fiesole…”. “… il paesaggio per Michelucci si camminava…”. Imparare a vivere insieme, “vedere le connessioni”. Le frasi scelte in apertura di questo paragrafo, esprimono il senso sociale e conoscitivo del progetto “Narrando@Fiesole”: costruire uno spazio di ascolto, rappresentazione e patrimonializzazione
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delle narrazioni degli abitanti, intendendo per abitanti non solo i residenti, ma la grande comunità di coloro che possono, con il loro a contributo narrativo, aprire l’immaginazione della storia e del vissuto locale: archivio delle varietà ma anche luogo di familiarità, inclusione, accoglienza. Con la frattura della modernità, che nell’analisi di David Lowental ha trasformato il passato in “terra straniera”, il processo di estraniazione analizzato da Marc Augé come “espace des autres sans la présence des autres”(Augé, 1994), la “percezione sempre più viva dei prezzi pagati”, discussa da Cirese in “oggetti, segni musei” (Cirese, 1977), la ricerca di familiarità, di memoria locale, di senso del luogo, devono farci riflettere sulle tante declinazioni del bisogno di “intimità culturali” che caratterizza il contesto contemporaneo. Assistiamo ad una importante produzione di immagini condivise del passato39, di luoghi e mondi locali. Una domanda sociale in crescita favorisce la sperimentazione di ricerche che connettano le politiche e le poetiche della memoria con la creatività narrativa che si esprime a livello locale e territoriale, in contesti di scambio e produzione culturale, come sono i contesti associativi40. In questo senso, la conoscenza e valorizzazione delle tradizioni e dei saperi locali, della “local knowledge”, può divenire strumento di progettazione di un futuro radicato nella diversità culturale che ogni territorio rappresenta, incarnata in esperienze locali da ascoltare, conoscere e valorizzare. Non si tratta però di isolare tratti culturali ed elementi estratti dal loro contesto, ma di tentare vie per coglierne il senso sociale in relazione ai contesti locali, con la consapevolezza che mondi locali e mondi globali sono interconnessi. Questa domanda di memoria, di tradizioni, di diversità culturale è radicata nel clima
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culturale che caratterizza l’attuale contesto delle politiche culturali che si incontrano (o talvolta si scontrano) con le domande sociali di patrimonio: se la Convenzione di Faro ci parla di “patrimonio culturale per la società”, le già citate Convenzioni del Paesaggio e la Convenzione Unesco per la salvaguardia del Patrimonio culturale immateriale mettono al centro delle loro preoccupazioni la partecipazione delle “comunità di eredità”41, il loro protagonismo, la valorizzazione della diversità culturale e del legame sociale. Ma come contribuire ai processi di identificazione, riconoscimento, partecipazione al cuore dei processi di negoziazione e costruzione patrimoniale? Cosa intendiamo oggi per “patrimonio culturale” ed “eredità culturale”? Come raccogliere la sfida che la società rivolge al mondo della ricerca, coniugando rispetto per i processi di conoscenza e attenzione alle funzioni sociali del patrimonio culturale, senza dimenticare lo sviluppo economico e turistico, la domanda di territorio, di memoria e di località che investono i tessuti territoriali nel contesto post-industriale della società dell’informazione? A questo proposito, vorrei limitarmi a mostrare alcuni nessi. Una prima considerazione collega la vocazione dell’antropologia ad “ascoltare le voci”42 con l’apertura del campo patrimoniale che ha progressivamente portato al centro della scena le “comunità, gruppi ed individui”, per citare la Convenzione Unesco 2003, attori e produttori di patrimonio culturale. Uno spostamento dall’oggetto al soggetto, dalle cose alle persone, al centro di importanti riflessioni sulla natura processuale del patrimonio culturale43 e al cuore degli attuali orientamenti delle politiche culturali44.
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Figura 3. Montececeri (Fiesole), i paesaggi delle cave.
Figura 4. Montececeri (Fiesole), Valentina Zingari ed Enrico Papini, scalpellino.
Paesaggi in gioco
Un secondo nesso, spesso opaco, collega l’oralità, l’atto narrativo, il dire come pratica sociale diffusa e condivisa, con la produzione culturale. Se le fonti scritte, documentarie, oggettuali o visive costruiscono da tempo possibili e riconosciuti percorsi narrativi e patrimoniali, e benché il web stia radicalmente modificando queste prospettive, la scrittura resta un canale comunicativo dall’uso limitato45 e condizionato da logiche di potere. Pochi scrivono per raccontare e testimoniare, tutti parlano e scambiano idee in parole: le parole circolano come bene comune ed energia vitale tra le persone, onnipresenti arti del quotidiano46. In questo senso, le testimonianze orali, le narrazioni, le conversazioni, così come le biografie orali, i canti, le tradizioni orali formalizzate ed ogni genere di performance orale costituiscono una dimensione dominante della comunicazione e dei processi di creazione culturale. D’altra parte, cogliere le conoscenze locali, i patrimoni di esperienze, competenze, saperi, abitudini e tradizioni è impresa complessa. Questi “beni” non sono raggiungibili in maniera diretta come nel modello oggi dominante dell’intervista televisiva. Non si tratta di “rilevare”, fotografare, filmare, magari documentare in maniera programmata o basarsi su patrimoni documentari costituiti in altri tempi e per diversi scopi. Si tratta di suscitare e creare dei percorsi di ascolto nel contemporaneo, nel vivo dei processi e delle memorie, seguendo percorsi che attraversano la trama del vissuto territoriale e si incontrano con la volontà di testimonianza. Suscitando interesse e aprendo nuovi spazi narrativi, nel dialogo47. Un terzo nesso collega la presa di parola, come testimonianza ed espressione di un punto di vista, con la partecipazione e la cittadinanza attiva. Offrire il proprio racconto, narrare la propria esperienza significa trasmetterla, portarla in dono
come contributo ad un progetto conoscitivo. In questo senso, il progetto “Narrando@Fiesole” si propone di creare una dinamica territoriale alla quale tutti possono portare il loro contributo, in un processo di reciproco riconoscimento. La dimensione della testimonianza si collega anche con la costruzione di contropoteri, con il quotidiano come luogo di resistenza, con la possibilità di espressione e costruzione di visioni alternative del passato. Tutto questo ha molto a che vedere con la valorizzazione della diversità culturale e la considerazione dei punti di vista diversi che abitano il territorio e la sua storia. Un quarto nesso collega la narrazione con la presa di coscienza, la costruzione della memoria e la sua patrimonializzazione. Quante volte, uscendo da una intervista, mi sono sentita dire, “Raccontandole la mia storia mi sono resa conto di cose a cui non avevo mai pensato…” Raccontare la propria storia in relazione ad un territorio e ad una storia comune, significa ripercorrerla e ripensarla come significativa per altri, situandola nel tempo e nello spazio, nel qui ed ora. In questo senso, la narrazione contribuisce al riconoscimento di “paesaggi patrimoniali”, il cui valore è legato ad una coscienza della storia che quel luogo si porta dentro, che spesso si esprime in forma di nostalgia per qualcosa di importante che si teme vada perduto48. La tensione narrativa è direttamente collegata al sentimento del tempo, al contemporaneo49, alla scelta orientata da valori. Un quinto nesso collega oggetti, luoghi, monumenti, risorse, opere, persone e personaggi con la trasformazione permanente, il bisogno di trasmissione, la necessità di rileggere e ripensare il proprio patrimonio culturale come organismo vivo, collegato al corpo sociale della o delle “comunità” di appartenenza. Questo movimento di rilettura,
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simile alla costruzione di invisibili ponti disegna territori simbolici dai confini mutevoli. La narrazione è il principale strumento di collegamento tra i diversi tempi che connettono i percorsi biografici degli individui con quelli delle comunità di appartenenza. Per fare un esempio, portare diverse generazioni a parlare della piazza di Fiesole, o gli abitanti di Borgunto a raccontare un luogo come le cave di Montececeri legate all’identità locale e agli antenati scalpellini, aprirà nuove piste conoscitive attraverso questi paesaggi urbani, offrendo occasione di esistenza a inedite visioni della città e dei suoi passati. I racconti della generazione che può ricordare la mezzadria e la vita contadina costruirà percorsi conoscitivi attraverso i paesaggi contemporanei, che se non possiamo più definire come “agrari” trasmettono sempre l’eredità forte di quel mondo.
Figura 5. Fiesole, Laboratorio con i bambini della Scuola Materna e Irma Valoriani, mezzadra.
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Queste esperienze e conoscenze costruiscono appartenenza, tracciano e configurano paesaggi invisibili, aiutano a interpretare il cambiamento e ad immaginari progettualità sostenibili, ponendo il tempo presente in sintonia con la storia plurale del territorio. Un altro nesso collega il paesaggio ed i paesaggi al plurale, con la narrazione come strumento per una mappatura culturale50 del territorio, orientata al suo governo. Il sentimento di cura del territoriopaesaggio, spesso evocato in relazione agli argomenti dello sviluppo sostenibile, può essere favorito da una conoscenza locale che non sia data, come un patrimonio di oggetti da conservare, ma concepita come un processo narrativo, in movimento attraverso i tempi e gli spazi del lavoro, della festa, del quotidiano, delle pratiche della natura, in un movimento di rilettura permanente della e delle storie locali. Ma cosa si intende per “paesaggi narrativi” e quali le specificità del progetto? L’idea alla base dell’impianto concettuale nasce dalla volontà di mostrare relazioni tra le narrazioni, le memorie, le voci, gli oggetti ed i luoghi intesi come stratificazioni di tracce. Per dare rilievo ai nessi tra paesaggi, luoghi, esperienze, tradizioni, pratiche e valori da considerare nella dinamica delle relazioni, abbiamo pensato ad una articolazione tematica che si ispira alle macro-categorie proposte dalla Convenzione Unesco per la salvaguardia del patrimonio immateriale e ad un piccolo corpus di racconti di vita, registrati a Fiesole tra il 2011 ed il 2103. Queste prime narrazioni hanno ispirato un impianto progettuale di ricerca sul patrimonio locale che si muove in diverse direzioni, e si traduce in un sistema si organizzazione dei “dati” basato sul web.
Narrando@Fiesole. Abitare il paesaggio, ascoltarne le voci
Da un punto di vista del loro contenuto tematico, una lettura “in chiave patrimoniale” di queste narrazioni rivela percorsi che abbiamo voluto identificare con “paesaggi narrativi”: questi sono concepiti come montaggi tematici di frammenti narrativi (per il momento prevale l’oralità trascritta, ma la sperimentazione è aperta) che si combinano con immagini e con suoni. Abbiamo identificato diversi paesaggi tematici: i paesaggi dell’appartenere e dell’abitare; i paesaggi dei saperi e delle pratiche; i paesaggi della fede, del rito e dell’immaginario; i paesaggi della socialità, del commercio e della politica; i paesaggi delle arti e dei patrimoni culturali; i paesaggi degli altri. La combinazione di più voci (paesaggi narrativi) all’interno di uno stesso paesaggio tematico, dovrebbe favorire il senso di polifonie in movimento, costruendo scenografie che seguono i movimenti delle identità che si raccontano, mentre vorremo creare la possibilità di seguire associazioni (inedite) tra diverse fonti conoscitive che il racconto lega e collega attraverso percorsi di interpretazione e di vissuto, come accade durante un’intervista51.
Figura 6. I Paesaggi Tematici
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L’immagine ed il suono entrano con una loro autonomia di linguaggi e significati, sempre però legati dal filo del racconto che anima e guida i percorsi. La scelta di frammenti narrativi da una narrazione, tratti da interviste o registrazioni di altra natura, dovrà sempre ricollegarsi all’archivio, dove sarà possibile ascoltare la narrazione originale da cui è tratto il montaggio. Restano aperte infinite possibilità, come quella di valorizzare paesaggi sonori di ambienti, dalle campagne ai paesi, dai sabati del mercato alle feste, dal quotidiano di una casa al cortile della scuola. Costruire momenti narrativi di gruppo, intorno a temi suggeriti dal ricercatore o da gruppi di abitanti, o intorno a luoghi, oggetti, monumenti, paesaggi della città di Fiesole. Il processo di elaborazione di diverse possibilità narrative è in corso. Una prospettiva partecipativa porterà alla costituzione di gruppi di lavoro liberi di proporre le loro narrazioni ed organizzare momenti di documentazione. Da un punto di vista metodologico, immaginiamo un processo che coniughi tre assi di lavoro. L’asse della ricerca di terreno, da concepire come una dinamica di esplorazione del patrimonio culturale locale, processo vivo e vitale da affrontare in maniera partecipativa, pluridisciplinare e diversificata, cercando di creare scambio tra le comunità degli abitanti, le associazioni ed istituzioni culturali presenti sul territorio, e tra le diverse sensibilità che ogni disciplina incarna ed esprime. La città di Fiesole ed il suo territorio caratterizzata da un importante patrimonio storicoartistico e dalla presenza di interessanti istituzioni ed associazioni culturali, è laboratorio ideale per una sperimentazione di questo tipo.
Paesaggi in gioco
L’asse della memoria e dell’archivio, della conservazione e della valorizzazione delle narrazioni locali come “oggetti patrimoniali” e preziosi strumenti di trasmissione delle esperienze e conoscenze locali. L’asse della valorizzazione, del lavoro e della creatività, del governo del territorio e dell’economia locale, che favorisca la nascita di progetti specifici orientati dalle risorse conoscitive locali, eventi, laboratori, sperimentazioni artistiche, future risorse per lo sviluppo del territorio. Da queste scenografie di voci, suoni ed immagini collegate tra loro in sistemi narrativi, sogniamo che i paesaggi locali emergano moltiplicati nei loro significati. In un futuro laboratorio ideale, il progetto Narrando@Fiesole è luogo in cui le due visioni del paesaggio di cui ci parla Pietro Clemente nel messaggio che riportiamo sotto possano incontrarsi e ritrovarsi: “Nell’89 non avevo una idea decostruttiva, ma piuttosto ricostruttiva e rivelativa del paesaggio : “Oggi venendo in macchina da Siena ad Asciano, osservavo questi luoghi splendidi, chiedendomi quali radici affondano in questo paesaggio lunare e allo stesso tempo dolcissimo. Esse si ritracciano in una storia vicina, forse troppo dimenticata, offuscata dai processi velocissimi di trasformazione delle comunicazioni, delle attività produttive, della possibilità di muoversi in spazi più ampi: si rintracciano come per gran parte della Toscana classica, nella storia della mezzadria…Il paesaggio della campagna toscana a partire dal Quattrocento è segnato dalla diffusione della mezzadria…... Alla fine dei 90 invece anche il paesaggio come la visione antropologica era ‘esploso’ e ci lavoravo per tracce di memoria, di appaesamenti plurali, possibili polifonie”. (Pietro Clemente, mail agosto 2013)
“Non dev’essere stata una ragione da poco, anzi non può essere stata neppure una ragione, quella per cui certe razze umane hanno adoperato la quercia, ma semplicemente il fatto che quelle razze e la quercia erano unite in una comunità di vita, e perciò si trovavano vicine non per scelta, ma per essere cresciute insieme, come il cane e la pulce. (Se le pulci avessero un rito, riguarderebbe il cane)” (Wittgenstein 1975). Facendo un passo indietro, e riflettendo sulla nostalgia come categoria interpretativa, credo sia giusto interrogarsi sul senso di perdita della “comunità di vita” di cui ci parla Wittgenstein, ricollegandolo a tante diverse espressioni della cultura contemporanea. La domanda di memoria52 è un fenomeno fortemente diffuso e il passaggio dal desiderio di condivisione della memoria attraverso la narrazione e la testimonianza alla domanda-progetto di patrimonializzazione ( “ne farete un libro, ne farete un museo?... ”) una questione importante e delicata, che, tra politiche e poetiche, individui e sistemi culturali, mercato turistico e desideri di intimità, merita tutta la nostra attenzione. Che valori veicola, che significati esprime la nostalgia per il passato (artigiano, paesano, contadino, medievale, industriale…), anche nelle sue forme più vive, creative e commerciali, dai revival alla world-music, dalle sagre alla cucina tipica? E come possiamo farci carico di questa domanda sociale, contribuendo con azioni di ricerca e mediazione a dare la voce alle polifonie territoriali di società locali alla ricerca, attraverso il racconto del loro “tempo perduto”, del loro futuro sostenibile? Chiudiamo il percorso, come l’abbiamo aperto, da Wittgenstein a Bachelard e Starobinsky, con
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riflessioni poetiche e filosofiche sul “linguaggio vivente” come movimento che collega, concilia, apre l’immaginazione ed il pensiero scientifico. « Dès que l’on met le langage à sa place, à la pointe même de l’évolution humaine, il se révèle dans sa double efficacité; il met en nous ses vertus de clarté et ses forces de rêve. Connaitre vraiment les images du verbe, les images qui vivent sous nos pensées, dont vivent nos pensées, donnerait une promotion naturelle à nos pensées. Une philosophie qui s’occupe du destin humain doit donc non seulement avouer ses images, mais s’adapter à ses images, continuer le mouvement de ses images. Elle doit être franchement langage vivant. (Gaston Bachelard, 1943, p.347) » « Ce que je souhaite par-dessus tout ? – Le mouvement libre. Un mouvement qui se déroule dans la pensée et dans le sensible. Un mouvement qui […] déjoue, à l’occasion, les barrières disciplinaires, non pour le plaisir de les transgresser, mais pour celui de relier ce qui attend d’être mis en relation. […] ; concilier le plus de science avec le plus de poésie » (Starobinski, 2005)53. Riferimenti bibliografici Appadurai A., 2001, Modernità in polvere, Meltemi, Roma (ed. orig. 1996). Appelton J., 1975, The Experience of Landscape, Wiley, New York. Appelton J., 1990, The symbolism of habitat, Univ. of Washington Press, Seattle.
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Narrando@Fiesole. Abitare il paesaggio, ascoltarne le voci
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Riferimenti iconografici Figure 1, 3, 4, 5 : Silvia Mantovani. Figura 2: Lilli Bacci. Figura 6: Gabriella Lerario, Silvia Mantovani.
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Testo acquisito dalla redazione nel mese di ottobre 2013. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
Giovanni Villani, Nuova Cronica, edizione critica a cura di Giovanni Porta, Guanda Editore, Parma 1991, vol.I, http://www.classicitaliani.it/villani/cronica_01.htm 2 Eugenio Turri, Il Paesaggio racconta, Saggio presentato al Convegno della Fondazione Osvaldo Piacentini, Reggio Emilia 2000, http://www.ocs.polito.it/biblioteca/articoli/turri_1.pdf. 3 Per approfondimenti sull’Associazione Fiesole Futura vedi il sito http://www.fiesolefutura.it/index.php 4 Ritratto di Goethe nella campagna romana (1787), di Johann Heinrich Wilhelm Tischbein, Städtische Gallerie di Francoforte 5 Ritratto del dott. Penrose (1798), di Louis Gauffier, Minneapolis, Institute of Arts. 6 art. 1a. Per il testo completo < http://conventions.coe.int/treaty/ita/Treaties/Html/176.h tm>. 7 art. 6 C, 1, b. 8 Cfr. Castiglioni et al. 2010. 9 Cfr., per una rassegna di casi di conflitto sociale innescati da diverse percezioni paesaggistiche, Voisenat 1995. 10 Cfr., almeno, Malaspina 2011. 11 In una lettera di Tiziano a Filippo II (Lucco 2012, pp.16-18). 12 Cfr. Usai 2011, p. 119, nota 25. 13 Cfr., per ricchezza di riflessioni e informazioni, Brilli 1995 e Bonelli 2004 14 Citato in Farinelli 1991, p. 10. 15 Neologismo coniato da W. J. Thoms in una sua lettera (Folk-Lore) indirizzata alla rivista Athenaeum, journal of English and foreign literature, science and the fine arts, 22 agosto 1846, pp. 862-863. 16 Cfr. Farinelli 1991. 17 Citato in Strassoldo 1998, p. 263. 1
Per le origini della legislazione italiana attorno al paesaggio cfr. anche Ventura 1987 e Durbiano, Robiglio 2003. 19 Legge 11 giugno 1922, n. 778, Per la tutela delle bellezze naturali e degli immobili di particolare interesse storico. 20 Citato in Falcone 1913, p. 243. 21 <http://www.rete.toscana.it>. 22 Cfr. Priore 2009. 23 Sul tema faccio soprattutto riferimento a Bobbio, Pomatto 2007 e a Brunelli, Pugiotto e Veronesi 2009. 24 Cfr. Pellizzoni 2005. 25 Per interessanti considerazioni sui ‘nostri’ paesaggi visti dagli immigrati cfr. De Nardi 2009. 26 Sustainability Evaluation of Territory and Landscape, progetto finanziato dall’Ateneo patavino per il biennio 2006-08 i cui risultati sono raccolti in Castiglioni e De Marchi 2009 27 Cfr. < http://www.fbsr.it/index.php >. 28 Riferimento principale in Toscana, per qualità, è l’esperienza dell’ Ecomuseo del Casentino: <http://www.ecomuseo.casentino.toscana.it/comunita-epartecipazione/i-cantieri-delle-mappe-di-comunita>. 29 la Convenzione europea del paesaggio, Firenze, 20 ottobre 2000, CETS n. 177. Tale Convenzione, entrata in vigore a livello internazionale l’1 marzo 2004, conta oggi su 35 Stati parte. 30 Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale intangibile, Parigi, 17 Ottobre 2003. La Convenzione è entrasta in vigore a livello internazionale il 20 gennaio 2006, ed oggi ne fanno parte 155 Stati. Per gli strumenti UNESCO http://portal..unesco.org. 31 Penso in particolare alla Convenzione sulla protezione e promozione della diversità delle espressioni culturali, Parigi, 20 ottobre 2005, entrata in vigore a livello internazionale il 18 dicembre 2006. Attualmente ne sono parte 132 Stati, e alla Convenzione-quadro sul valore del patrimonio culturale per la società, Faro, 25 ottobre 2005, CETS n. 199, entrata in vigore a livello internazionale il 1 giugno 2011. Attualmente ne sono parte 15 Stati. 32 Sul concetto di salvaguardia, distinto da tutela, conservazione e valorizzazione, si sta formando una vasta 18
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letteratura, in parte reperibile sul sito dell’Unesco-ICH (vedi il particolare “about intangible heritage”, infoKit, 2011) www.unesco.org/culture/ich/, in parte in diversi scritti di studiosi, soprattutto antropologi e giuristi. Per l’Italia, si rimanda in particolare ai lavori in corso di Lauso Zagato e Chiara Bortolotto. Alcuni elementi sono consultabili nel sito di SIMBDEA, www.simbdea.it, sezione Attività, SimbdeaICH. 33 Nel quadro giuridico e delle politiche culturali internazionali, le due Convenzioni Unesco (la Convenzione per la Salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, 2003 e per la protezione e promozione della diversità culturale, 2005), con la Convenzione europea del paesaggio e la Convenzione di Faro, pongono al centro del dispositivo patrimoniale le comunità portatrici di cultura. Un cambiamento di prospettiva che contribuisce a sottrarre il patrimonio culturale all’esclusività della prospettiva storico artistica e conservatrice centrata sull’oggetto e sull’expertise, ponendone in valore il carattere dinamico, vivo e progettuale, condiviso, sociale e creativo. Un cambiamento che contribuisce anche a porre le fondamenta per un dialogo più paritario e democratico tra studiosi, ricercatori e attori locali, depositari di culture e competenze che senza la loro partecipazione non potranno essere trasmesse. La Convenzione Europea del paesaggio si fonda sulla filosofia del paesaggio come definito dalla percezione delle popolazioni, dei soggetti (stakeholder) che ne sono responsabili e che esercitano interessi sui luoghi, ne custodiscono la memoria, ne trasmettono i valori e che devono essere coinvolti attivamente nella sua gestione e salvaguardia. Si tratta di un superamento progressivo del concetto di tutela a favore della salvaguardia come processo vitale e dinamico, che punta sulla continuità della memoria come processo trasformativo, piuttosto che sulla conservazione. La Convenzione Faro del Consiglio dell’Europa avanza dentro questo nuovo paradigma patrimoniale, proponendo il concetto di comunità di eredità, come insieme di attori uniti da un comune progetto, che è quello appunto che li costituisce come comunità.
Narrando@Fiesole. Abitare il paesaggio, ascoltarne le voci
Il termine si riferisce alla Convenzione Unesco 2003. Sono in corso importanti riflessioni comparative basate sulle metodologie degli inventari partecipativi e sui diversi modelli adottati dai paesi, per gli inventari nazionali. Rimandiamo in particolare ai lavori di Chiara Bortolotto, disponibili on line sul sito del progetto ECHI, gestiti dalla regione Lombardia e collegati all’iniziativa, corrispondente ad una legge regionale, del “registro delle eredità intangibili”. Rimando alle analisi di Chiara Bortolotto e al suo studio comparativo sui processi di inventariazione, sviluppato appunto nell’ambito del progetto ECHI, "Identificazione partecipativa del patrimonio culturale immateriale" ( a cura di ASPACI - Associazione per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale Progetto E.CH.I. Etnografie italo-svizzere per la valorizzazione del patrimonio immateriale - P.O. di Cooperazione Transfrontaliera Italia Svizzera 2007-2013. http://www.echi . 35 Tradotte in italiano come “comunità di eredità” , queste sono definite in questi termini dalla Convenzione di Faro, nel suo articolo 2 : “una comunità di eredità è costituita da un insieme di persone che attribuisce valori ad aspetti specifici dell’eredità culturale e che desidera, nel quadro di un’azione pubblica, sostenerli e trasmetterli alle generazioni future.” 36 In una pubblicazione del 2011, il numero 26 dei Quaderni del Patrimonio Mondiale, Francesco Bandarin descrive il processo di definizione del concetto di paesaggio culturale: “Les questions relatives au patrimoine mixte, culturel et naturel, et les liens intrinsèques entre les communautés et leur milieu naturel ont été discutés depuis l’avènement de la Convention du patrimoine mondial avec son adoption en 1972. Dans les premières années l’équilibre entre le patrimoine naturel et culturel a été discuté, ainsi que « les oeuvres conjuguées de l’homme et de la nature ». Le Comité a débattu pendant des années de la manière de prendre cet élément en considération pour inscription. Le « grand pas en avant » n’a été franchi qu’en 1992, à l’échelle du Comité du patrimoine mondial – ce fut une année cruciale où s’est tenu le premier « Sommet de la Terre », la Conférence des Nations Unies sur l’environnement et le 34
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développement, à Rio de Janeiro. Cet événement a ouvert la voie à une nouvelle pensée sur les êtres humains et leur environnement, en reliant culture et nature, avec une vision du développement durable. La prise de conscience qui s’est opérée au niveau du gouvernement, des ONG et de la société civile a aidé à accepter les « paysages culturels » comme une catégorie de sites à proposer pour inscription . 37 Sul concetto di salvaguardia, distinto da tutela, conservazione e valorizzazione, si sta formando una vasta letteratura, in parte reperibile sul sito dell’Unesco-ICH (vedi il particolare “about intangible heritage”, infoKit, 2011) www.unesco.org/culture/ich/, in parte in diversi scritti di studiosi, soprattutto antropologi e giuristi. Per l’Italia, si rimanda in particolare ai lavori in corso di Lauso Zagato e Chiara Bortolotto. Alcuni elementi sono consultabili nel sito di SIMBDEA, www.simbdea.it, sezione Attività, SimbdeaICH. 38 Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore dell’eredità culturale per la società, articolo 2, 2005, ratifica italiana 2013. 39 Sul fenomeno di una emergenza ed un uso sociale della storia locale, rimando all’opera di Daniel Fabre, Alban Bensa (a cura di) 2001 “Une histoire à soi, figuration du passé et localités”, Cahier 18, MSH, Paris. 40 Una importante domanda di etnografia è emersa, negli ultimi 10 anni, in ambito associativo e locale. Su questo tema rimando a due miei recenti scritti, V. Zingari, percorsi francofoni al patrimonio immateriale, AM 28/29, 2011, pp.70-82. E V. Zingari, Ascoltare i territori e le comunità. Le voci delle associazioni non governative (ONG) e la Convenzione Unesco per la Salvaguardia del patrimonio culturale immateriale (in corso di stampa) 41 Convenzione-quadro sul valore del patrimonio culturale per la società, Faro, 25 ottobre 2005, CETS n. 199, entrata in vigore a livello internazionale il 1 giugno 2011. Attualmente ne sono parte 15 Stati. 42 Rimando ai lavori di Pietro Clemente, in particolare alla raccolta di scritti riuniti nel volume, “Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita”, 2013, ed. Pacini. 43 Una vasta letteratura sull’antropologia del patrimonio e nel patrimonio riunisce oggi importanti contributi, in Italia
Paesaggi in gioco
la referenza è la rivista AM, i cui numeri sono consultabili sul sito dell’associazione SIMBDEA. Rimando ai riferimenti bibliografici raccolti nel numero speciale relativo al patrimonio immateriale, AM 28/29, 2011. 44 Particolarmente interessanti le discussioni emerse durante un recente incontro avvenuto a Firenze sul tema del paesaggio, che indica uno spostamento verso gli orientamenti della Convenzione Unesco 2003. 45 Per cogliere tutta la complessità dei rapporti tra le tradizioni di scrittura e le tradizioni orali, rimando alle pagine di Jacques Goody, in particolare alla raccolta di scritti edita in Francia nel 2007, Jack Goody, 2007, Pouvoirs et savoirs de l’écrit., Paris, La Dispute. Segnaliamo anche la lettura critica al lavoro di Goody dello scritto di Emmanuel Isnard , « Jack Goody, Pouvoirs et savoirs de l’écrit », L’Homme,189 | 2009, [En ligne], mis en ligne le 19 mai 2009. URL : http://lhomme.revues.org/21208. 46 Illuminante, a questo proposito, in relazione alle stratificazioni presenti nel tessuto urbano come nelle pratiche narrative e discorsive, sui frammenti di altri tempi che permangono nel linguaggio, la lettura delle pagine di Michel de Certeau con cui si conclude il primo volume dell’”Invention du quotidien”: Indeterminées. Des lieux stratifiées. Le temps accidenté. pp. 291-296. 47 Oltre al già citato scritto di Jean Starobinsky, sul paradigma dialogico, sul museo come “zona di contatto”, sull’etnografia come arte dell’ascolto e del dialogo, rimando alle analisi di James Clifford e agli scritti di Pietro Clemente, 48 Rimando a Scarpelli, op. cit., in particolare i capitoli “Dopo la civiltà contadina” e “La seconda nostalgia”, pp. 70-191. 49 Pietro Clemente, “la postura del ricordante”, op. cit, pp. 217-251.
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distinct peoples' tangible and intangible cultural assets within local landscapes around the world. In its Universal Declaration on Cultural Diversity, UNESCO notes the importance of States adopting inclusive ways of encouraging cultural diversity... Ho sempre pensato all’intervista antropologica come ad un modello conoscitivo, un luogo utile per ispirare progetti di conoscenza, analisi, comunicazione, valorizzazione. Ho cercato di parlarne in un articolo cui rimando, in AM n.22, “Intervistare”, pag. xxxii. 52 Su questo riflettono da anni studiosi come Fabio Dei, Pietro Clemente e Caterina di Pasquale. Penso in particolare alle riflessioni contenute in “Politiche e Poetiche del ricordo”, 2005. 53 Cynthia Biron Cohen, « L’écriture de soi dans l’œuvre de Jean Starobinski. Une dialectique du subjectif et de l’objectif, du singulier et de l’universel », Articulo Journal of Urban Research [Online], Briefings, 2009, Online since 18 May 2009, connection on 18 September 2013. URL : http://articulo.revues.org/1097 ; DOI : 10.4000/articulo.1097 51
Riporto la definizione di wikipedia: "Cultural mapping" (also known as cultural resource mapping or cultural landscape mapping) is the label organisations and peoples (including UNESCO) concerned about safeguarding cultural diversity give to a wide range of research techniques and tools used to "map" 50
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Paesaggio: strumento di educazione
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libri
Ugo Morelli, Mente e paesaggio. Una teoria della vivibilità, Bollati Boringhieri, Torino 2011
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Ugo Morelli, Mente e paesaggio. Una teoria della vivibilità, Bollati Boringhieri, Torino 2011
Emma Salizzoni*
abstract
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L’attuale situazione di profonda crisi ambientale rende necessario, se non urgente, cambiare idea e, conseguentemente, comportamenti in merito al paesaggio e alla vivibilità. Si tratta tuttavia di un processo complesso, ostacolato da una serie di fattori, quali la tendenza degli esseri umani alla naturalizzazione dell’esistente e ad un costituzionale conservatorismo. L’educazione – se fondata sull’apprendimento e se sostenuta da un cambiamento di prospettiva temporale nella visione dei problemi ambientali, che ne evidenzi le conseguenze per le generazioni future – può sostenere tale processo, giocando un ruolo importante nel promuovere un cambiamento di idea rispetto a problemi globali e controversi come quelli riguardanti il paesaggio e la vivibilità.
The current environmental crisis calls, with utter necessity, for a change in the way landscape and liveableness are conceived. This is, however, a complex process, contrasted by several factors, such as human tendency to reify what already exists and to think conservatively. Education can support this process, playing a crucial role in promoting a change in the approach towards global and controversial problems such as landscape and liveableness. An effective educational method on these issues should be focused on the learning process and based on a different way of perceiving the temporal dimension of the current environmental problems, highlighting their consequences on the next generations.
parole chiave
key-words
Mente, paesaggio, educazione, apprendimento.
Mind, landscape, education, learning.
* Dottore di ricerca in Progettazione Paesistica, Università degli Studi di Firenze.
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La principale prospettiva attraverso cui Ugo Morelli guarda al tema paesaggio – al di là dei pur numerosi e opportuni sconfinamenti disciplinari – è quella delle scienze cognitive1. In particolare, attraverso di essa l’autore concentra l’attenzione sul tema dell’educazione e dell’apprendimento per il paesaggio, rendendo dunque pertinente e proficua una lettura del suo libro nel contesto di questo numero di Ri-Vista. Non a caso, come ricorda Gianluca Cepollaro nell’introduzione, il testo di Morelli è maturato nell’ambito dell’attività di ricerca svolta dalla Scuola per il governo del territorio e del paesaggio (STEP), di cui l’autore presiede il comitato scientifico e che la Provincia Autonoma di Trento ha recentemente costituito all’interno della Trentino School of Management (TSM). La Terra è ammalata La tesi centrale del libro, articolata e approfondita nei sei capitoli che lo compongono, è che la situazione attuale di profonda crisi ambientale renda necessario, se non urgente, cambiare idea e conseguentemente comportamenti in merito al paesaggio e alla vivibilità. Le ragioni alla base di tale necessità sono lucidamente individuate da Morelli: “La Terra è ammalata, soprattutto dalla nostra presenza” (p. 26). Le trasformazioni più recenti hanno infatti stravolto il rapporto uomo-natura: se prima l’uomo si difendeva da essa, individuando modalità (dallo sviluppo scientifico-tecnologico, alle forme organizzative-associative) per proteggersi e al contempo farne uso, oggi il principale pericolo per la natura è l’uomo stesso. Si tratta di un rovesciamento di fronte che è stato talmente
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rapido da averci colti impreparati e da generare oggi in noi un vero e proprio “spiazzamento”. Uno spiazzamento duplice: non solo infatti stiamo prendendo coscienza che siamo parte della natura e non siamo altro da essa (“(…) ci siamo abituati a pensarci separati dalla natura in virtù di una condizione speciale. Senza nulla togliere alla distinzione di specie, l’Homo sapiens sapiens è un’espressione della natura che popola il pianeta Terra (…)”, p. 28), ma andiamo anche riconoscendo che la natura, di cui siamo parte, è pregiudicata dalla nostra stessa presenza e che tutte le modalità che abbiamo messo in campo per proteggerci da essa non sono in grado di proteggerci da noi stessi e dallo squilibro che produciamo. Morelli pone tale complesso processo di presa di coscienza e il disorientamento che ne deriva alla pari con altri grandi spiazzamenti storici, “ferite inferte alla nostra vanità” (p. 77), come quelle determinate dalla diffusione degli studi di Copernico (la Terra non più al centro dell’universo), di Darwin (l’uomo come frutto di un’evoluzione contingente e naturale) e di Freud (la scoperta dell’inconscio). La necessità del cambiare idea Come reagire alla crisi e al relativo spiazzamento? Come dicevamo, secondo Morelli è necessario anzitutto cambiare idea in merito al paesaggio e alla vivibilità. È l’idea che va anzitutto mutata a causa della stretta connessione esistente tra mindscapes e landscapes. Il paesaggio, infatti, non è altro da noi, ma è una nostra emanazione, frutto anzitutto dei nostri processi interpretativi: “in base ai modelli mentali di paesaggio che abbiamo, generiamo azioni in esso” (p. 19).
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In generale, cambiare idea significa cambiare teoria, ossia mutare il modo di guardare alle cose. Ciò presuppone il ricorso ad un dominio cognitivo e ad un campo semantico diverso dal precedente: una delle principali leggi dei sistemi viventi è infatti quella per cui “la soluzione di un problema non può essere trovata nello stesso dominio in cui il problema è sorto” (p. 56). Nel caso di un cambiamento di idea rispetto ai temi del paesaggio e della vivibilità, è necessario pertanto mutare i modelli di riferimento dominanti, uscendo dalla prospettiva cognitiva e operativa che vorrebbe una maggiore crescita e un maggiore sviluppo come garanzia della risoluzione della crisi ambientale. Occorre invece guardare non tanto ad uno “sviluppo zero”, ipotesi non sufficiente secondo Morelli, ma ad una decrescita che ha nel riconoscimento del valore del limite la sua principale matrice. Tale riconoscimento si rivela necessario per superare il conflitto fondamentale, consistente nell’impossibilità “di proseguire con un orientamento alla crescita da parte del miliardo di persone che hanno lo stile del cosiddetto Primo Mondo”, ma anche di “estendere agli altri quello stile di vita” (p. 25). Non si tratta, ovviamente, di una sfida semplice. Secondo Morelli, “la capacità di cui daremo prova nell’affrontare questo conflitto di base avrà riflessi su tutti gli altri aspetti delle questioni connesse alla vivibilità e, in particolare, sull’aria, sull’acqua e sui paesaggi in cui viviamo” (p. 25). È dunque necessario mettere in discussione il binomio “sviluppo-crescita”, ma per far questo abbiamo bisogno di nuovi alfabeti, nuove epistemologie, dobbiamo ridiscutere le premesse (cosa vuol dire sviluppo? Sviluppo di chi e per cosa?) e, quindi, cambiare idea. Le difficoltà nel cambiare idea
libri
Cambiare idea in merito al paesaggio e alla vivibilità è tuttavia più semplice a dirsi che a farsi, a causa di una serie fattori. Anzitutto perché il paesaggio e il rapporto con gli spazi di vita sono frutto di processi di apprendimento taciti e consolidati, che iniziano in ognuno di noi sin dalla nascita: “i luoghi si propongono spontaneamente e prima di tutto all’insegna della continuità e della consuetudine” (p. 93). Un cambiamento di idea in proposito è dunque un processo lento e difficile e la sua necessità e urgenza certo non aiuta. A causa della rapidità con cui si è manifestata la crisi, infatti, la necessità è subentrata prima del dubbio, ossia prima che gli uomini potessero maturare dubbi sui modi di utilizzazione delle risorse. E in condizioni di urgenza e relativa ansia, la capacità di scelta degli esseri umani non tende certo a migliorare, anzi. Ulteriore ostacolo ad un cambiamento di idea è poi la propensione degli uomini alla naturalizzazione dell’esistente, ossia al ritenere naturale ciò che invece essi stessi hanno costruito, giudicandolo dunque come immodificabile. Si tratta di un processo che, ad esempio, interessa spesso le istituzioni: create dagli uomini, essi tuttavia dimenticano di esserne gli artefici e dunque di poter influire su di esse, cambiandole. Questo atteggiamento rientra in una tendenza naturale degli esseri umani al conservatorismo (“una novità ci attrae nella misura in cui può gettare luce sul noto (…). Per il resto è fonte di inquietudine e vissuta come pericolo”, p. 129), spesso alimentata dalla pressione sociale. È addirittura più facile farsi un’idea, che cambiare idea, perché “se c’è una cosa che non sopportiamo è l’ignoto” (p. 119). Anche far cambiare idea risulta più semplice, visto il
maggiore valore e prestigio che assume rispetto al cambiare idea2.
quest’azione
Il ruolo dell’educazione È qui che entra in gioco l’educazione. Il suo ruolo è infatti cruciale per promuovere un cambiamento di idea rispetto a problemi globali e controversi come quelli riguardanti il paesaggio e la vivibilità. Essa può aiutare a “lasciar emergere le possibilità disponibili di creazione e innovazione negli individui e nei gruppi, favorendone l’emancipazione dai vincoli di mentalità e di strategie conformi alle abitudini e alle consuetudini” (p. 17). Di quale tipo di educazione parliamo, tuttavia Morelli dedica ampia parte del testo a definirne i principali lineamenti metodologici. Anzitutto, si tratta di un’educazione fondata sull’apprendimento. Secondo l’autore, infatti, la rivoluzione necessaria nel campo della formazione è quella di una ristrutturazione del lavoro di insegnamento a partire dal modo in cui si apprende. L’azione educativa deve, ad esempio, prendere atto che la conoscenza è un’esperienza sia cognitiva, sia affettiva. Non esiste, infatti, come ricorda l’autore, un pensiero “solo razionale e lineare, depurato dai processi emotivi (…)” (p. 98), tanto più in relazione al paesaggio, che abbiamo detto essere diretta emanazione dei nostri pensieri e delle nostre emozioni. L’insegnamento deve dunque riconoscere “gli aspetti affettivi e sentimentali della nostra esistenza e presenza sulla Terra” (p. 22), facendo cadere quel muro, che già si sta sgretolando, tra neuroscienze e fenomenologia, tra corpo e mente, tra oggettività e soggettivismo, per una “comprensione evoluta e non dualistica dell’esperienza umana” (p. 48).
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È inoltre necessario che l’azione educativa colga l’importanza del conflitto, dimensione costitutiva dell’apprendimento, e lo sappia gestire. L’apprendimento, infatti, non è altro che una “elaborazione dei conflitti che noi incontriamo mentre cerchiamo il significato nelle relazioni e nei contesti di vita “ (p. 98). Si tratta di conflitti particolarmente evidenti nel caso di un cambiamento di idea riguardante il paesaggio, visto che “promuovere un cambiamento a quel livello significa mettere in discussione equilibri consolidati, convinzioni e certezze e, perciò, incontrare resistenze e difese (…)” (p. 97). E se il conflitto è costitutivo dell’apprendimento, un’educazione al paesaggio dovrebbe non solo riconoscerne il ruolo, facendolo emergere – e dunque opponendosi a quella tendenza alla “vetrinizzazione sociale” che comporta la passiva accettazione di un mondo in vetrina – ma anche apprendere da esso, trasponendolo nel metodo educativo, ad esempio imparando a valorizzare le idee diverse presenti in un contesto. Perché si possa davvero cambiare idea e comportamenti rispetto al paesaggio, l’azione educativa deve dunque creare un contesto favorevole all’emergere dell’inedito tramite il conflitto, combattendo la tendenza al conformismo e la sensazione di “saturazione” che spesso ci pervade, per cui tutto pare essere già stato detto e sentito e non sembrano esistere potenziali spazi di innovazione. Certo, dirimente per un’efficace educazione in tema di paesaggio è una contestuale mutazione nella concezione temporale dei problemi. L’autentico male che caratterizza i nostri anni è, infatti, la rimozione del futuro, afferma Morelli, citando Schiavone3. L’azione educativa per il paesaggio non può dunque che essere sostenuta da un cambiamento di prospettiva temporale rispetto alla
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visione dei problemi, che ne evidenzi le conseguenze per le generazioni future. In sintesi, un’azione educativa efficace per un cambiamento di mentalità e approccio al paesaggio e alla vivibilità è quella che, rifuggendo da ogni semplificazione ed evitando di proporre soluzioni “magiche” e immediate per problemi invece complessi e controversi, genera nei cittadini un atteggiamento responsabile verso i luoghi (ricordando che esiste la responsabilità derivante dall’esercizio del potere, ma anche quella derivante dalla rinuncia all’esercizio del potere) e promuove un processo di apprendimento che richiede fatica e impegno, ma che è ormai impellente. Occorre, infatti, sostiene Morelli – in quello che è un vero e proprio richiamo all’azione – “mettersi scomodi rispetto al presente (…), per cercare di accorgerci che c’è un solo mondo e che abbiamo una sola vita per esserci ed esserne responsabili” (p. 157).
Ugo Morelli, Mente e paesaggio. Una teoria della vivibilità, Bollati Boringhieri, Torino 2011
studio, ricerca e insegnamento (www.ugomorelli.eu, ultimo accesso: ottobre 2013). 2 Esemplificativo il caso del docente che, tutto proteso al far mutare idea al discente – passaggio da saperi “ingenui” a saperi verificabili – difficilmente ammette di esserne influenzato, di farsi raggiungere da una conoscenza precedentemente ignorata e proveniente dall’allievo. 3 Aldo Schiavone, Storia e destino, Einaudi, Torino 2007.
Testo acquisito dalla redazione nel mese di ottobre 2013. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
Coerentemente con il profilo scientifico dell’autore (docente di Psicologia del lavoro e dell'organizzazione, e di Psicologia della creatività e dell'innovazione), per il quale, come si legge sul suo sito, “le scienze psicologiche e della cognizione applicate al lavoro, all’organizzazione e alle forme di vita organizzativa, all’apprendimento, ai conflitti, alla formazione e all’esperienza estetica” costituiscono i principali riferimenti per le attività di 1
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