Design +- infinito

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a cura di Lino Centi e Giuseppe Lotti

Percorsi del progetto critico François Burkhardt / Fernando e Humberto Campana / Massimo Canevacci / ChÊrif / Mehdi Dellagi / Kadija Kabbaj / Pim Kongsangchai Sudhikam / Ezio Manzini / Enzo Mari / Be Takerng Pattanopas / Ivo Pons / Massimo Ruffilli / Christian Ullmann / Yamo

Edizioni ETS


Sentieri, tracce di esplorazioni, percorsi di ricerca, talvolta tortuosi, spesso incrociati, costruiti passo dopo passo. Saperi, diversitĂ di conoscenze costruite nel tempo, tacite ed esplicite, paesaggi culturali del mondo. Progetti, esperimenti per un futuro che muove dal rapporto con luoghi e con tradizioni interpretate. La collana indaga su architettura e design, su culture materiali e immateriali, su luoghi vicini e lontani, su oggetti e su idee, su saperi e credenze. Territori, conoscenze, innovazioni culturalmente, socialmente ed ambientalmente sostenibili, scenari delle sfide presenti e future.

Sentieri Saperi Progetti è curata da

Giuseppe Lotti e Saverio Mecca




Quando la crisi, il dubbio sistematico che abbiamo indotto si acquieta, perchĂŠ nessuno dubita piĂš della necessitĂ del dubbio, allora bisogna andarsene. Giovanni Klaus Koenig, 1969



a cura di Lino Centi e Giuseppe Lotti

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Edizioni ETS


Dipartimento di Tecnologie dell’Architettura e Design “P. Spadolini”, Università di Firenze Corso di Laurea in Disegno Industriale Corso di Laurea Magistrale in Design, Università di Firenze Centro Studi Giovanni Klaus Koenig

Le traduzioni dal francese sono di: Lino Centi e Titti Follieri (Burkhardt); Emiliana Surace (Chérif, Mehdi Dellagi, Kadija Kabbaj) Le traduzioni dall’inglese sono di: Luca Baldoni Foto di: Lucio Patone, p. 14; Filippo Agnoletti, p. 17 Revisione testi e raccolta materiale iconografico: Bernardo Monti In copertina: Emanuele Milanini / I love you / 2008 Per le attività del Centro Studi Giovanni Klaus Koenig: http://www.blueklein.it/cskoenig/

www.edizioniets.com © Copyright 2009 EDIZIONI ETS Piazza Carrara 16-19, I-56126 Pisa info@edizioniets.com www.edizioniets.com Distribuzione PDE, via Tevere 54, I-50019 Sesto Fiorentino (Firenze) ISBN 978-884672431-1


Percorsi del progetto critico

Design±infinito a cura di Lino Centi e Giuseppe Lotti con contributi di François Burkhardt / Fernando e Humberto Campana / Massimo Canevacci / Chérif / Mehdi Dellagi / Kadija Kabbaj / Pim Kongsangchai Sudhikam / Ezio Manzini / Enzo Mari / Be Takerng Pattanopas / Ivo Pons / Christian Ullmann / Yamo postfazione Massimo Ruffilli



Centi

pagina a fronte Lino Centi con Bernardo Monti / I Will Be home in three days and look you in the eyes, luce da parete / 2008

I. Linguaggio e progetto, natura ed artificio, sono le polarità del design. Che da un lato trova modo di mimare la pioggia attraverso la doccia, ma dall’altro esige il sapone nelle sue infinite varianti, olezzi, colori. Natura ed antinatura si confrontano incessantemente nell’organizzazione dello spazio e del tempo sociali; e le costellazioni di questa aporia seguono la riproducibilità tecnica nelle sue tante varianti. La forma nasce dai contrasti, dalla ricerca dell’oggetto assente, dall’inseguire la teatralità dell’esistenza. Detto altrimenti: la forma segue la finzione, come Giovanni Klaus Koenig1 aveva anticipato fin dagli anni Ottanta; e come Manlio Brusatin2 ha prospettato in un testo recente: una confluenza di due storie da cui si evince una stessa domanda: che ruolo hanno la contaminazione ed il caso nel creare design? Ovviamente anche la ratio ha un suo ruolo: per lo più ordinatore, discorsivo e sintattico, di presidio e ricerca di margini e confini. In una prospettiva dove campeggia la distinzione coniata da Jüngen Habermas3 fra strumenti che rafforzano l’energia umana e macchine che la sostituiscono, c’è da chiedersi se il design informatico non si collochi al confine fra sostituzione e rafforzamento – mentre il suo impiego è già divenuto una nostra seconda natura. Negli ultimi venti anni un nuovo tipo di congetture e modalità si sono inserite nel consueto universo fatto di superfici e/o spessori rendendo attualissima la profezia sottesa dalla grande mostra Les immateriaux organizzata da Jean-François Lyotard nel 1985 a Parigi4. A differenza di quello tradizionale – che di solito si fa iniziare con Gutenberg e la stampa – il web-design non ha supporti. Vive nell’atopia; e gli schermi del computer rappresentano la globale modalità d’accesso sia in veste di web-designer che di fruitori informatici. Gli uni e gli altri utilizzano, sia detto per inciso, monitor di forma e dimensioni diverse: il che rende particolarmente laborioso ogni progetto virtuale. La qualità principe del web-designer consiste nell’ibridazione linGiovanni Klaus Koenig, Il design è un pipistrello, Casa Usher, Firenze, 1991. Manlio Brusatin, Arte come design. Storia di due storie, Einaudi, Torino, 2007. 3 Jügen Habermas, Conseguenze pratiche del progresso tecnico-scientifico, “Quaderni Piacentini”, 32, 1967. 4 Jean-François Lyotard (a cura di), Les immateriaux, Paris, 1985.

guistica, una sorta di nuovo esperanto che bypassi le culture locali ed insieme vi attinga: una forza d’impianto caratterizzata da una qualità ostensiva che alterni rigidità e movimento. Invece, nel complesso, ciò che predomina nei siti web, è un certo Costruttivismo per lo più semplificato: una griglia sostenuta da numerose finestre che si accendono e spengono sotto l’azione del mouse. Fra numerosi altri testi che sottolineano gli aspetti prammatici del web, un dettagliato ed esaustivo saggio di Jesús Carrillo Arte en la red, ripercorre la genealogia del design virtuale dalle origini ai nostri giorni attraverso una serie di riferimenti puntuali5. Lo stesso Carrillo, cosi didascalico ed informato, rileva la mancanza di un Movimento Virtuale – qualcosa che sgorghi dalla rete telematica in forma sorgiva. Tuttavia gli organizzatori di siti web rappresentano una legione agguerrita di costruttori d’immagini che imperversano nel cyberspazio realizzando un meticciato imponente. E fra i tanti autori vorrei segnalare Emanuele Milanini, designer impegnato nel mondo virtuale di Internet. II. Curiosi paradossi si fanno strada nella società industriale avanzata. Prendiamo ad esempio gli orologi. Ovviamente ci sono orologi più precisi degli altri, ma poiché anche il più banale degli Swatch è sufficiente ad organizzare impegni e vita affettiva, la scelta dipende sempre meno dalla loro specifica qualità – la precisione –, e sempre più dall’innovazione formale, dalla griffe di riferimento, dalla notorietà del designer6. E dalla pubblicità. Che è andata crescendo come un infinito delirio dove tutto è legittimo pur di vendere o svendere. Innervata su una mistica del successo commerciale sfrenata ed aggressiva, oggi la pubblicità configura una vera e propria patologia del desiderio che fa dell’acquistare una pratica a rischio pubblicitario. I persuasori occulti si sono come non mai palesati: coltivano ed impongono tattiche e strategie con cui il senso critico,

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Jesús Carrillo, Arte en la red, Cátedra, Madrid, 2004. Giovanni Cutolo, Design: dall’ingegnere all’edonista, “Op.Cit.”, 71, 1988.

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Design e altri confini

di Lino


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Lino Centi con Bernardo Monti / Firenze University Press logo / 2008


Giovanni Cutolo, Design: dai punti di vendita ai punti d’acquisto, “Op.Cit”, 83, 1992. Giuseppe Lotti, Il progetto possibile. Verso una nuova etica del design, Edicom, Gorizia, 1998. 9 Africa Remix, a cura del Centre Georges Pompidou, Paris, 2005. 10 Marili Brandão e Fábio Magalhães (a cura di), Brasil Faz Design, São Paulo, 2004.

zati con materiali di scarto. Come il Puf-Aurico, designer Ivo Pons. Oppure il Vaso Porco-Espinho, designer Daniela Aguilar. O ancora il Tappeto Ladriho, designer Claudia Araujo. Le tipologie del riciclo, la rielaborazione di ciò che la società ha espunto, fanno parte di un’estetica del rifiuto che nasce nelle favelas: un mondo – le favelas – incredibilmente creativo dove dall’informe rispunta la forma. Un messaggio simile attraversa la società thailandese? In parte sì, come si evince dai tanti oggetti, in particolare giocattoli, ricavati da materiale di scarto che ci deliziano gli occhi sfogliando il capitolo Trash Recyclers di Very Thai11 – un volumetto partorito da una sensibilità irriverente, forse persino blasfema. Ad un superiore livello, seguendo una deriva innestata su una tradizione che sprofonda nel tempo, vengono poi rinnovati temi e progetti: ricorrendo a laboratori specializzati di chimica, trasformando incartapecoriti arabeschi in design contemporaneo, elaborando strategie evolutive incentrate sullo Zeitgeist – sullo spirito inquieto del nostro presente. III. Vorrei ricordare come l’etica non possa essere in alcun modo un insegnamento trascelto dalla natura: un insieme d’atteggiamenti aggressivi assolutamente amorali. Né dalla religione o dalla Bibbia. L’etica è un’elaborazione empirica, un postulato del principio d’uguaglianza, una materia instabile che emerge nel fuoco della violenza dei più forti e del loro potere12. Certo che la Modernità mette a dura prova un concetto che nasce con Socrate, si sostanzia in Aristotele, e segue il pensabile con umbratile discontinuità. La storia recente insegna come una tematica che saldi etica ed estetica può avere risvolti incredibilmente spinosi. La scuola di Gropius13 fu chiusa perché pretendeva di coniugare la forma con l’etica, riconduceva il bello al pratico ed il pratico al razionale: un’insopportabile onta per l’estetismo nazista nutrito di classicità marcita nel tempo. Né è l’unico neo del secolo che si è appena chiuso, ovvero di quello appena iniziato. Dobbiamo anzi ammettere che la civiltà industriale, perfettibile come ogni altra, si è assuefatta a vivere gomito a gomito con le situazioni più deprecabili. La produzione bellica ne costituisce un’incontrovertibile prova: una parte non marginale di risorse (e dell’umano talento) è utilizzata al fine di realizzare una sterminata ed ultraraffinata produzione di missili e bombe, sistemi di puntamento, arsenali nucleari. Ognuno di questi rappresenta una

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Philip Cornwel-Smith, Very Thai, River Books, Bangkok, 2005. Alan M. Dershowitz, Rights from Wrongs. Una teoria laica dell’origine dei diritti, Codice, Genova, 2005. 13 Carlo Giulio Argan, Walter Gropius e la Bauhaus, Einaudi, Torino, 1951, pp. 31-84. 11

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ma persino il buon senso, ogni giorno si scontrano; e che hanno travolto le regole e l’impianto, l’anima e le forme, di ciò che tradizionalmente veniva designato mercato. Quest’ultimo, sotto la spinta del marketing e del battage pubblicitario, si è allontanato dalle sue origini che risiedevano nell’agorà, luogo dello scambio e del compromesso, della scelta e della distinzione, trasformando il negozio in punto di vendita, ed il mercante in desolato – per lo più incompetente – venditore7. Nell’asimmetrica dialettica fra prodotto e rivestimento, fra contenuto e contenente, accade anche che il contenuto sia marginale rispetto alla sofisticata organizzazione del packaging: un nichilismo implicito, talvolta ostentato, consuma le generazioni di consumatori, costretti ad adottare una forma generalizzata di spreco. Ciò induce un imbarbarimento culturale diffuso ed in progressione costante: gettiamo alle ortiche miliardi di astucci fomentando una decomposizione dagli esiti imprevedibili o persino fatali. Certo anche il discorso sulla sostenibilità del design8 ha, come non mai, un’audience ed un rilievo; e ci indica una diversa condotta in merito alla materialità dei prodotti: consiglia d’evitare l’uso di materie prime pregiate a favore di materiali sintetici, ricordandoci che anche l’innaturale resta comunque natura. Va ammesso che gli artisti hanno fatto da battistrada persino sull’annoso tema dell’ecologia e del riuso. Ad iniziare dai popists nei lontani anni Sessanta, per proseguire con importanti realizzazioni Landart del successivo decennio, dove era l’ambiente stesso a fornire la materia prima dell’installazione e dell’evento. Di recente, in una mostra al Beaubourg intitolata Africa Remix mi si è stagliato di fronte un superbo lavoro di El Anatsui, artista ghanese, titolato Sasa 2004, composto soltanto d’alluminio ed ottone rigorosamente riciclati: è la prima installazione dal respiro titanico ad identificarsi con i problemi irrisolti del Terzo Millennio9. In merito al sostenibile ed al riuso, il Brasile è fra i paesi che producono il maggior numero di design riciclato; e non mi riferisco tanto ai progetti dei Fratelli Campana, che comunque hanno fatto emergere un trend d’alto profilo comunicativo e mediatico. Scorrendo Brasil faz design10, pubblicazione sintetica ed esemplificativa del design brasiliano, ci s’imbatte in una serie di progetti particolarmente inventivi e singolarmente eleganti: tutti organiz-


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contraddizione ed uno scandalo permanente, rispetto alle conquiste civili ed all’etica pubblica acquisite nel corso degli anni in Occidente. La stessa civiltà industriale alimenta – fra oggetti e dispositivi che rendono la nostra vita se non altro più comoda – produzioni di dubbia utilità che fanno semplicemente parte della società dello spreco. Come quella di gadget e souvenir: un’enorme quantità di prodotti, spesso insensati, che ogni anno s’ingrossa. Il consumo ed il turismo di massa ne rappresentano il referente altrettanto sterminato. Quando si è iniziato a produrre souvenir, nessuno immaginava l’ampiezza che avrebbe assunto il fenomeno. Oggi i punti vendita di souvenir sono organizzati in una trama così capillare da non temere confronto con alcun’altra merce venduta. In una diffusa incapacità a giudicare – ossia a stabilire relazioni fra fatti e significati – la figurina artistica attesta che quel luogo, quel monumento, quella città, quel santuario, quell’opera d’arte, sono stati al centro della nostra disattenzione: ha un valore di supplenza percettiva. La loro qualità estetica è un’aberrazione sintattica che Adorno ha messo a fuoco in uno dei suoi aforismi più fulminanti ed inquietanti14. L’uso distorto di tecnologie ed energia, di materie prime e risorse, è anche all’origine di un nuovo tipo d’inquinamento assente quando il sole risplende: concerne il design dell’installazione. Per lungo tempo si è vagheggiato che aumentando watt ed intensità luminosa frammenti di nuova bellezza avrebbero attraversato piazze e vie cittadine. Il risultato, invece, è assai controverso. Gli enormi consumi di un’illuminazione a giorno delle città, producono uniformità, stanchezza visuale, squallore. Gli spot installati sopra i portali di tanti pubblici esercizi, non fanno che accrescere un collasso visivo che sfregia l’urbano. Lo stesso termine urbanità denuncia il conflitto con una volgarità senza scopo, che mette a repentaglio la strenua conservazione dell’invisibile delineata da Freud in alcuni passi salienti di Das Unbehagen in der Kultur15. Nate e cresciute in assenza di luci, le città sono immerse in un’artificialità luminosa che non ha precedenti; ed i suoi monumenti risultano confusi ed opacizzati, talvolta propriamente accecati, per via delle luci. Un melting-pot d’approssimazione ed imperizia che rinvia ad un passaggio dei Diari di Kafka: “Non manca la luce sul palcoscenico del mondo, perciò gli uomini chiudono gli occhi e vedono così poco”16. Ma conferisce anche nuova sostanza al Less is more di Mies van der Rohe, che Th. W. Adorno, Minima Moralia, Einaudi, Torino, 1954, p. 215. Sigmund Freud, Il disagio della civiltà, Boringhieri, Torino, 1971, pp. 204-205. 16 Aldo Gargani, Kafka: Un teorema sulla limitazione del soggetto umano, “La casa di Dedalo”, 2, 1985. 14 15

ci ricorda come la bellezza sia il risultato di una logica selettiva e stringente. IV. Per quanto sia una disciplina futuribile per eccellenza, progettare disegno industriale presuppone un rapporto privilegiato con il passato. Ovvero con un corpus di eventi in modificazione continua. Nulla muta di più di ciò che pre/esiste e sono le nostre sollecitazioni – interpretazioni, correzioni, invenzioni – a determinarne i continui slittamenti e variazioni. Il passato, insomma, ha uno status mercuriale: non passa mai davvero. Anzi rappresenta una fonte inesauribile di sollecitazioni e confronti. La piramide è un’immagine topica che fa da sempre sognare, lo ziggurat non è da meno; la colonna, ritenuta morta e sepolta, ha conferito significato alla post-modernità. Mi riferisco al passato nel senso che, un designer, non può che essere un discreto conoscitore di ciò che lo precede. Sa che la nozione di “equilibrio” fa parte del classico. Instaura un dialogo con grandezza e forma, e con la materia ed il colore. Di solito il progetto emblematico scaturisce proprio da una rottura, da una ricomposizione alternativa, spesso da un’avversione maturata verso il linguaggio che l’ha nutrito. Nell’epoca pre-design, i grandi novatori, come Leonardo da Vinci, sono personalità indipendenti e geniali: e quell’indipendenza inventiva, circola ancora fra noi determinando un paradigma di complessità ed innovazione. Visionando il catalogo de Il modo italiano17, grande mostra organizzata nel Musée des beaux-arts di Montréal, si rimane stupiti dal continuo contagio fra arte pura e design nonché fra passato e presente: l’Albero rinascimentale di Gino Marotta e la Lampada Sanremo di Dario Bartolini, dai materiali così diversi, fanno parte di una stessa deriva simbolica18. Ettore Sottsass s’innamora d’immagini della cultura precolombiana, che riproduce nella Libreria Carlton19, mentre Franco Albini, con Servizio di tavolini, si è in precedenza ispirato ad un’architettura ancora più antica20. Ed ha del prodigioso l’attrazione che hanno esercitato i Concetti spaziali di Lucio Fontana su una generazione di designer ed architetti (non a caso è lo stesso Fontana ad inaugurare con un’imponente scultura luminosa la Triennale del 1951). Vorrei anche sottolineare come tutto ciò si sia andato dipanando secondo percorsi individuali e filosofie di vita piuttosto distinte, spesso in collisione, o come si direbbe oggi “in competizione” fra loro. 17 Giampiero Bosoni (a cura di), Il Modo Italiano, Design et avant-garde en Italie au XX° siècle, Montréal, 2006. 18 Ibidem, p.275. 19 Ibidem, p.295. 20 Ibidem, p.182.


Lino Centi con Bernardo Monti / Keizersgracht, tavolo in marmo / 2008

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In quella strana e straniante alchimia che è il disegnare per l’industria, dove le ricorrenti crisi produttive fanno temere ogni giorno il disastro, ci sono aspetti del progetto e della professione di cui poco si parla. Il primo è la dimensione tattile di ogni prodotto. La totalità degli oggetti è giudicata dall’occhio ma è fatta per essere toccata: eppure sul tatto i rilievi sono del tutto approssimativi, come se la tattilità fosse una qualità trascurabile. Un secondo concerne la funzione sentimento, quell’allenamento a distinguere il vero dal falso: una strenua sperimentazione che conduce a scelte coerenti ed in sintonia con la propria coscienza critica. Un terzo è la scrittura. I contributi che artisti, architetti e designer hanno imbastito attraverso quest’ultima non hanno solo acceso un confronto sul destino estetico dei loro prodotti, ma anche consentito una riflessione sulle pratiche costantemente aggiornata quanto sottratta alle oscillazioni del gusto ed all’ambiguità della memoria.


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Lotti

pagina a fronte Guido Garotti / Tawila, tavolo per il tè alla menta / progetto nato nell’ambito di un workshop che ha coinvolto 5 scuole di design delle due rive del Mediterraneo

La caduta di ogni verità precostituita, propria della Postmodernità1, ha implicato inevitabilmente anche la dissoluzione della morale, intesa come insieme di leggi cui uniformarsi, in nome di valori assoluti. È soprattutto muovendo dalla considerazione di questa nuova libertà che sembra aprirsi all’agire umano, che la caduta delle ideologie è stata salutata dai più in maniera positiva: si pensi alle teorizzazioni di Gianni Vattimo sul pensiero debole2, alla crisi della ragione proposta da Aldo Gargani3, alla decostruzione derridiana4. Tale condizione ha avuto profonde ripercussioni anche sulla figura dell’intellettuale – come non pensare alle tante, troppe, figure che in questi anni hanno calcato le platee televisive – e sulla società stessa, con gli anni ’80 ricordati come il periodo della deregulation, dello yuppismo trionfante, del reaganismo. Il design non è rimasto immune a tali trasformazioni. Nella cultura del progetto la caduta delle ideologie è coincisa con la sconfitta del Moderno e del suo sogno di emancipazione della società attraverso la produzione industriale. La perdita di tensione morale risulta evidente. Così i Bolidisti, emblematici di un certo design tardi anni Ottanta: “Il Bolide verace teorizza alla rinfusa, ovvero, prima agisce e poi pensa […] Il Bolide verace ritiene l’ideologia un freno inutile e dannoso […] Il Bolide Verace non muore per nessuna causa […] Il Bolide verace è un bolide verace ma se ne frega di esserlo”5. Con gli anni ’90 e, soprattutto, con il nuovo millennio, di fronte alla minaccia del terrorismo, alla crescente instabilità economica, al disastro ambientale, seppur tra mille contraddizioni, si manifesta un’inversione di tendencfr. Jean-François Lyotard, La condition postmoderne, Les éditions de minuit, Paris, 1979; trad.it. a cura di C. Formenti, La condizione postmoderna: rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano, 1981. 2 cfr. Gianni Vattimo, Pier Angelo Rovatti (a cura di), Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano, 1980. 3 cfr. Aldo Gargani (a cura di), La crisi della ragione. Nuovi modelli nel rapporto tra sapere e attività umane, Einaudi, Torino, 1979. 4 cfr., tra l’altro, Jacques Derrida, Pacific Decon-struction.2. Lettera a un amico giapponese, “rivista di estetica”, 17, 1984. 5 Maurizio Castelvetro, Bolide Verace, 1986 (inedito). 1

za. Così se è vero che non è più il momento di verità assolute, di ideologie incontrovertibili, è altrettanto vero che, pur nella coscienza della inevitabile parzialità del contributo, da più parti si avverte la necessità di recuperare una tensione etica nell’operare. Tale situazione richiede inevitabilmente la definizione di un’etica che, non più assoluta o universale, contenga, in sé, il senso del dubbio. Già nel 1976 Wilhalm Weischedel parlava in proposito della necessità di un’”etica scettica”, rilevando come: “Tutte le leggi del pensiero, che apparivano sicure, anzi lo stesso intelletto e la stessa ragione sono diventati oltremodo sospetti. Se dunque la filosofia – e in particolare l’etica filosofica – deve continuare a esistere, non può non tenere conto dello scetticismo come del modo di pensare che segna di sé il nostro tempo; non può non accettare il tramonto di ogni pensiero che si presume sicuro e non può essere di conseguenza se non etica scettica, etica nello spirito dello scetticismo”6. Mentre Vittoria Franco a metà degli anni ‘90 si soffermava sulla inevitabilità di una convivenza tra più “etiche possibili”7 in grado di tenere insieme intersoggetività e autonomia, norme universalizzate e contesti. Una pluralità di posizioni comunque fondate su un principio universalmente valido. Così Umberto Eco, in un interessante colloquio con il cardinale Carlo Maria Martini, si soffermava sul concetto di “Altro in noi”: “dobbiamo innanzitutto rispettare i diritti della corporalità altrui, tra i quali anche il diritto di parlare e di pensare. Se i nostri simili avessero rispettato questi diritti del corpo non avremmo avuto la strage degli innocenti, i cristiani nel circo, la notte di san Bartolomeo, il rogo per gli eretici, i campi di sterminio, la censura, i bambini in miniera, gli stupri in Bosnia”8. Il rispetto dell’altro, inteso non solo come il vicino ma anche come natura, pianeta in cui viWilhelm Weischedel, Skeptische Ethik, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1976; trad. it. a cura di R. Garaventa, Etica scettica, il melangolo, Genova, 1998, p.48. 7 cfr. Vittoria Franco, Etiche possibili. Il paradosso della morale dopo la morte di Dio, Donzelli, Roma, 1996. 8 Umberto Eco, Quando entra in scena l’altro nasce l’etica, in Carlo Maria Martini e Id., In cosa crede chi non crede?, Atlante Editioriale, Roma, 1996, p.72. 6

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Pensieri critici

di Giuseppe


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viamo, generazioni future, appare dunque fondamento comune di questa etica multiforme; ancora Franco parla, in proposito, di “sfida creativa verso l’altro”9 nell’ottica di comportamenti che devono necessariamente fare i conti con una sovranità relativa. In un tale contesto anche il ruolo dell’intellettuale deve mutare, recuperando quella funzione di “voce della coscienza” che, per lungo tempo, lo aveva contraddistinto. Un intellettuale che – scrive Eco – per sua stessa natura ha il compito di “scavare le ambiguità e di portarle alla luce” ed il dovere di “criticare i propri compagni di strada”10. Pur nella consapevolezza della inevitabile parzialità di qualsiasi azione – una condizione che Ezio Manzini qualche anno fa definiva del “demiurgo debole”11 – anche il design negli ultimi anni ha cominciato a far propria questa tensione morale espressa dalla società. L’attenzione per le problematiche ambientali, per le tematiche del design della comunità, per i bisogni dei paesi a più basso tasso di sviluppo, sono alcune delle forme in cui si concretizza l’impegno del mondo nel progetto. Ma il panorama degli oggetti che ci circondano, la quasi totalità delle imprese che li producono, la maggior parte dei designer che li disegnano rimangono poco sensibili a queste tematiche. Tanti progetti possibili rimangono ancora inespressi. Da qui la voglia di dar fiato a queste istanze, di costruire un momento di incontro tra chi, su fronti diversi, si confronta sulle implicazioni sociali del progetto. È in questo ambito che nasce il libro Design ± Infinito. Percorsi del Progetto critico, voluto dal Centro Studi Giovanni Klaus Koenig. Non un caso: le implicazioni sociali della professione sono sempre stati cari a Koenig: “Un modo per diminuire questa intollerabile pressione che la civiltà odierna aumenta artificialmente ai fini di accelerare i consumi, facendo rapidamente passar di moda ciò che in realtà non lo sarebbe affatto, può essere cercato nel design per la comunità, spingendo i designer verso la progettazione di tutti quegli oggetti che non sono di proprietà dell’utente, ossia che chi usa non compra”12. Negli interventi le implicazioni sociali della professione emergono in tutta cfr. Vittoria Franco, op. cit. cfr. Umberto Eco, Cinque scritti morali, Bompiani, Milano, 1997. cfr. Ezio Manzini, Artefatti. Verso una nuova ecologia dell’ambiente artificiale, Domus Academy, Milano, 1990. 12 Giovanni Klaus Koenig, Design per la comunità, “La Biennale di Venezia”, 66, 1970. 9

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la loro evidenza, così come il ruolo che il designer può svolgere in un tale contesto. François Burkhardt: “tra le differenti sfaccettature, si possono identificare alcuni aspetti determinanti per le vie del progetto in generale, e per l’industrial design in particolare. Punti di vista come il liberismo economico, i limiti della crescita e dello sviluppo tecnologico – così come le loro implicazioni sulle differenti classi sociali: la ricchezza sempre più grande dell’élite messa in parallelo con il progressivo impoverimento popolare, i flussi migratori tra paesi in via di sviluppo e paesi industrializzati, lo sfruttamento selvaggio e irrispettoso delle risorse comuni e delle materie prime -, tutto questo pone ai produttori e a coloro che creano, disegnano e realizzano i prodotti, difficoltà di una gravità non ancora incontrata”. Mentre per Ezio Manzini: “Il design è un’attività umana che implica il fare delle scelte che, in qualche modo, investono l’ambiente e la vita di altre persone. Pertanto, per definizione, ogni scelta del designer ha, consapevolmente o meno, delle implicazioni etiche […] Ma se è vero che il design è stato, ed è più che mai, ‘parte del problema’, dobbiamo scommettere sul fatto che possa essere anche ‘parte della soluzione’”. Ancora Burkhardt: “è nel campo dell’invenzione, dell’innovazione e – naturalmente – degli Scenari del Nuovo, che il designer ha maggior possibilità di trovare un proprio spazio. Oggi più che mai, il disegno industriale ha bisogno di idee nuove: prima di tutto per rispondere alla richiesta incessante di punti di vista nuovi, necessità persino di innovazioni puramente formali. Che, però, devono appartenere alla sfera del necessario, della diffusione di senso, dell’utilità collettiva e della responsabilità civica – oltre che al successo commerciale”. Il design, contribuendo alla definizione del panorama materiale che ci circonda inevitabilmente fa politica. Così Kadija Kabbaj commentando la sua istallazione Pioggia di luci: “sono fibre ottiche sospese a 7 metri di altezza da una plafoniera perforata di 3 metri di diametro collocata in un’alcova. Si ha l’impressione di una cascata di pioggia in un luogo buio. All’estremità di una fibra, possiamo indovinare la presenza di una piccola busta trasparente, era un messaggio di pace nel periodo dell’invasione degli Stati Uniti in Iraq. Il design parla anche di questo”. In concreto, la responsabilità del progettista si esprime innanzitutto in una attenta considerazione della questione ambientale. “Le scelte che i designer devono fare sono quelle che favoriscono un processo sociale di apprendimento: quello che dovrà portare i soggetti e la società nel suo complesso a vivere bene consumando meno risorse ambientali e rigenerando le qualità


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Elles peuvent, per la valorizzazione dell’artigianato 17 della palma nella valle del Drâa / Marocco


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Design±infinito Cecilia Catalano, Alessandra Ghiozzi, Alice Balatresi / Bab Aylen, specchio in pneumatico di recupero ed acciaio stagnato / realizzazione artigiani di Marrakesh

dei contesti sociali in cui si vive, che poi significa: rigenerando la qualità dei ‘beni comuni’” (Ezio Manzini). La complessità del sociale – differenze economiche, conflittualità politica, multietnicità – implica poi un progetto in grado di interpretarne e riproporne la varietà. “Se la specializzazione nell’ambito del design esige un indispensabile approfondimento, è attraverso la trasversabilità che si aprono oggi nuove prospettive. L’applicazione delle conoscenze specifiche relative al progettare design è da ricercare in numerosi altri ambiti, diversi dal prodotto industriale” (François Burkhardt). La contaminazione, dunque, come progetto culturale; rileva Massimo Canevacci: “ora il design come opus dovrebbe apparire chiaro nei suoi molteplici significati e pratiche possibili: posizionarsi come soggetti al di là dello schieramento disciplinare; farsi attraversare dai fili itineranti del disorientamento; fare etnografia, cioè ricerca micrologica sul campo per decifrare i mutamenti disgiuntivi dopo l’era industriale; percepire l’irrompere di nuove culture, l’emergere della tecno-comunicazione digitale e del consumo performativo, il declino del sociale; produrre come activo il nesso fetish oggetto-soggetto basato sull’esperienza di un individuo molteplice (multividuo); immaginare un design sfacciato che somatizza la mimesi. E, infine, disporsi all’ascolto poliritmico e polifonico, contrappuntistico e seriale, alle ambivalenti combinazioni di ordine e disordine, in cui ogni ripetizione è nello stesso tempo un’innovazione. E tradurre l’ascolto in design che oltrepassa ordine e disordine, simmetria e asimmetria, spontaneità e regola”. Sfide di così importante portata richiedono nuove figure di designer coinvolgendo necessariamente il campo della formazione. Così Enzo Mari, ribadendo concetti cari al suo pensiero: “abitualmente mi viene obiettato che questo livello di qualità eccezionale non può rientrare negli obiettivi di una scuola di design. Che occorre riferirsi a qualità più semplici […] più accessibili ai giovani d’oggi […] È vero, cercare di acquistare la qualità massima implica conquistare forza fisica, psichica e morale. Qualità che richiedono sufficiente determinazione. Ma è impossibile insegnare qualità mediocri. La qualità è comprensibile solo mediante comparazione. Occorre sempre indicare con chiarezza la qualità massima”. Mentre Burkhardt, più in concreto: “… un design che faccia emergere nuove espressioni ed attività: che fondi e solleciti nuove relazioni adeguate alla nostra epoca di collaborazione e trasversalità. Questo approccio di crossover – d’attraversamento interdisciplinare – è attualmente il genere di competenza più ricercato e


di sperimentazioni eseguite (sedute per contesti urbani, n.d.r.) – e quelle in fase di realizzazione, come la chaise longue in terra cruda e terracotta per Francesco del Re nell’ambito del progetto Euromedsys – accennano alcune tracce all’interno dell’Human Establishment basato su un’analisi creativa (e non mimetica) delle nostre architetture, sia a livello concettuale che materiale attraverso la téchne”. Sul piano formale i riferimenti possono essere trovati proprio nella storia, guardando molto indietro, prima dell’appiattimento implicato dalla globalizzazione. Così Chérif: “vi farò vedere alcuni oggetti che all’epoca mi hanno lasciato il segno, erano la mia sorgente d’ispirazione […] Ecco alcuni disegni rupestri delle Grotte del Tassili, regione sub-sahariana […] qui avete un cucchiaio sudafricano […] per me quello che è interessante è che vi è la stessa volontà di comunicare negli uomini della preistoria e troviamo anche una certa similitudine nel modo in cui essi si sono espressi. Un altro aspetto interessante è che l’uomo preistorico concepiva l’oggetto utile con una grande dimensione estetica. Qui vedete un oggetto che all’epoca mi affascinò molto; si tratta di un appoggiatesta, anche in questo caso la provenienza è diversa: Etiopia, Egitto. Come avete potuto notare tutti questi modelli sono o di pietra o in legno. Ciò che mi ha sedotto è il lato spirituale di questo oggetto che occupa un posto di rilievo rispetto alla funzione. A priori non sembra un oggetto molto confortevole dato che è fatto o di pietra o di legno ma la cosa interessante è che all’epoca veniva considerato un supporto per i sogni”. Le difficoltà del lavoro con comunità marginali di piccoli artigiani sono raccontate efficacemente da Kadija Kabbaj che ricorda il suo lavoro in Marocco: “le donne che realizzano questi oggetti sono analfabete e non hanno la nozione delle dimensioni, il loro metro di misura è il palmo della mano chiamato chber in arabo che vale circa 20 cm. Siamo quindi in una situazione nella quale non si tiene conto della nozione di precisione … Lo stesso per il colore, queste donne non riescono ad immaginare che ci siano colori diversi ed un’infinità di sfumature. Per loro i colori si limitano a quelli primari. Viola e blu sono considerati lo stesso colore. Così per l’arancio e il rosso, ecc. Siamo un po’ nell’approssimativo, nel caso”. Il Brasile – nella sua realtà di paese laboratorio della contemporaneità poiché fortemente contaminato, con grandi disparità sociali al suo interno, ma anche capace di esprimere proprio a partire dalla perifericità elevati tassi di creatività – ed il significato che un design attento al sociale può

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richiesto. Una tale apertura mentale richiede evidentemente altre forme d’insegnamento, diverse da quelle praticate oggi […] Un secondo settore che l’insegnamento deve assolutamente riconquistare è quello della critica […] Al momento non esiste al mondo nessuno istituto o scuola che proponga un tale percorso formativo […] L’insieme di questioni che ruotano intorno all’etica, all’impegno ed alla difesa dei diritti collettivi – così come le questioni della libertà d’espressione, della promozione di idee nuove e della critica – sono assolutamente fondamentali per un’attività […] efficace e portatrice di senso”. La scelta di riservare una sezione al contributo del design di paesi di recente tradizione progettuale ha spostato i contenuti del dibattito sulle implicazioni etiche – estremamente complesse – di un’azione in tale contesto. Innanzitutto sul piano del rapporto con la storia e la tradizione che, nell’azione progettuale devono essere reintrepretate senza essere negate in nome di una uniformità globalizzante, realizzando un difficile equilibrio. Così Pim Kongsangchai Sudhikam e Be Takerng Pattanopas a proposito del loro lavoro in Tailandia: “… si è trattato di tutt’altro che di un progetto di conservazione: dal punto di vista del disegno abbiamo visto nel Benjarong una tecnica di decorazione della ceramica che può portare un notevole valore aggiunto a oggetti di ceramica industrialmente prodotti: trovare un equilibrio tra l’antico e il nuovo è stata la sfida più complessa. Il rapporto tra vecchio e nuovo non riguardava d’altronde solo il disegno, ma anche le tecniche di produzione. Oltre a ciò i nuovi disegni dovevano essere in grado di rispondere ai gusti dei consumatori: mantenendo allo stesso tempo una riconoscibilità per quanto riguarda lo stile e le caratteristiche di decorazione a mano”. Mentre Mehdi Dellagi, sulla sua esperienza in Tunisia: “… un vento di “MacDonaldizzazione” soffia sull’architettura dei nostri paesi. La globalizzazione e la mondializzazione sono vittorie della conoscenza sotto forma puramente economica. I nostri territori vivono un vero problema d’identità e di definizione architettonica regionale. È necessario difendere l’idea che il progetto architettonico non deve posizionarsi in una prospettiva mimetica ma in una prospettiva evolutiva. C’è quindi la necessità di avere una produzione di conoscenza, allo stesso tempo singolare e contestualizzata sulla téchne, e una produzione del valore di questa conoscenza come elemento necessario alla creatività nei nostri paesi ed in modo particolare nel mio, la Tunisia”. Un esempio di tale concetto è rappresentato dal lavoro di Dellagi sulla terra cruda nel campo del design: “questa serie


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produrre in una tale realtà sono raccontati da Fernando e Humberto Campana, da Christian Ullmann ed Ivo Pons . Così i fratelli Campana: “noi guardiamo sempre con interesse a questi processi costruttivi (spontanei, n.d.r.) perché manifestano la forza della mancanza di risorse economiche che abbiamo in Brasile. Noi dobbiamo trovare delle soluzioni di sopravvivenza e non tanto delle soluzioni creative, ed è questo che cerchiamo di portare anche nel nostro lavoro… Il nostro design è basato tutto sull’accumulo, sull’eccesso e sulla mancanza di tecnologia: utilizziamo questa mancanza di tecnologia per produrre articoli di lusso, per cui ogni volta diamo spazio all’imperfezione, perché l’imperfezione si interessa al mondo, perché il Brasile è un luogo molto imperfetto, molto decostruito. Ma c’è una libertà, in questa decostruzione, che porta allegria, gioia di vivere”. La varietà del contesto – zone quasi inesplorate ed immense periferie urbane – emerge nel lavoro di Ullmann e Pons. Anche per Ullmann “l’imperfezione è una delle caratteristiche dei prodotti delle comunità artigianali brasiliane. Ciò le differenzia dal mercato convenzionale. Siamo di fronte a prodotti per il commercio equo e solidale che attualmente rappresenta circa lo 0,01% del mercato mondiale. È comunque l’alternativa per migliaia di artigiani, agricoltori, comunità indigene, di origine africana (quilombolas), costiere (caiçaras), delle zone fluviali (ribeirinhas) o meticcie (caboclas) ed ha come obiettivo di creare un’alternativa per gli esclusi dal sistema di mercato convenzionale, rispondendo ad un pubblico specifico e ad un consumatore cosciente. Per noi designers è una nuova sfida, infatti; oltre a lavorare con materiali, tecnologie e mercato, ci facciamo partecipi dei valori culturali, etnici, ambientali e sociali. Dietro ogni prodotto proveniente dalle comunità troviamo il recupero di abitudini, la valorizzazione culturale, la preservazione del modo di vivere e la generazione di rendita attraverso attività tradizionali; lo stimolo cosciente all’interno dei limiti e domini propri delle comunità; forme adeguate di commercializzazione, adatte ai valori associati a questi prodotti e sviluppo di un consumo cosciente.” E per Pons: “… lo sviluppo di una linea di prodotti di arredo e complementi progettata dagli studenti dei due paesi in forma di cooperazione e realizzati da Organizzazioni non governative – Aldeia do Futuro, Florescer, Monte Azul, Projeto Arrastão – che operano nelle favelas di San Paolo del Brasile riutilizzando scarti di produzione industriale (jeans, legno, tessuti in genere, pvc proveniente da pannelli pubblicitari). Una fusione di culture,

progettualità, tecnologie e tipologie produttive alla ricerca di risultati sociali, ecologici, estetici e commerciali innovativi […] Con l’occasione alcuni studenti brasiliani sono entrati per la prima volta in una favela; nonostante molti di loro convivano quotidianamente con questo scenario, pochi fino a quel momento si erano preoccupati di oltrepassare la barriera della paura, del preconcetto e dell’insicurezza”. I diversi contributi, nella varietà di approccio rispetto ad uno scenario condiviso, rispecchiano solo alcune delle posizioni del dibattito intorno alle implicazioni etiche della professione del design. Posizioni inevitabilmente parziali ma non per questo meno significative; vengono in mente le parole di Edgar Morin che nel 1985 scriveva: il metodo della complessità ci richiede di pensare senza mai chiudere i concetti, di spezzare le sfere chiuse, di ristabilire le articolazioni fra ciò che è disgiunto, di sforzarci di comprendere la multidimensionalità, di pensare con la singolarità, con la località, con la temporalità, di non dimenticare mai le totalità integratrici; ed ancora: “nel cammino che abbiamo seguito, vediamo che le alternative classiche perdono il loro carattere assoluto, o piuttosto cambiano natura: alla formula o/o si sostituiscono contemporaneamente un né/né e un e/e”13.

13 Edgar Morin, Introduction à la penseé complexe, Seuil Paris, 1990; trad. it. a cura di M. Corbani, Introduzione al pensiero complesso, Sperling & Kupfer, Milano, 1993, p. 52.


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Ilaria Serpemte / Design per l’altro mondo / fasi di lavorazione del legno / Xapurì, Brasile


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Questa pubblicazione è sottotitolata Percorsi del progetto critico, tema che ne costituirà il filo conduttore. È necessario precisare che, tra queste vie d’accesso, solo quelle che corrispondono all’attuale sviluppo della nostra civiltà, saranno prese in considerazione. Quindi il primo obiettivo di questo intervento consisterà nel mettere in evidenza le influenze più importanti che agiscono su questa evoluzione. Tra le differenti sfaccettature, si possono identificare alcuni aspetti determinanti per le vie del progetto in generale, e per l’industrial design in particolare. Punti di vista come il liberismo economico, i limiti della crescita e dello sviluppo tecnologico – così come le loro implicazioni sulle differenti classi sociali: la ricchezza sempre più grande dell’élite messa in parallelo con il progressivo impoverimento popolare, i flussi migratori tra paesi in via di sviluppo e paesi industrializzati, lo sfruttamento selvaggio e irrispettoso delle risorse comuni e delle materie prime – tutto questo pone ai produttori e a coloro che creano, disegnano e realizzano i prodotti, difficoltà di una gravità non ancora incontrate in una corporazione che si vuole al servizio della società ed in accordo con le strutture di produzione. Per la maggior parte degli abitanti del nostro pianeta, la diminuzione del potere d’acquisto – coniugata per alcuni da coercizioni psicologiche e da un degrado sempre più segnato delle condizioni di vita – suscita dubbi profondi rispetto ai sistemi che oggi gestiscono il divenire dell’umanità in un’epoca che tuttavia si gloria di globalizzazione, di progresso e democrazia. Prendendo coscienza dei problemi cui dobbiamo quotidianamente far fronte, si deve riconoscere che l’evolversi della nostra civiltà detta “del benessere” subisce una profonda crisi etica e contraddizioni che lasciano perplessi i più ottimisti intorno alle finalità riconosciute dell’economia liberale ed agli ideali politici che la sottintendono. Già nel 1960 tuttavia, nel corso di una conferenza proposta dal Club di

Burkhardt

pagina a fronte Norbert Kurtz / Elaborato per il Corso del I anno del Dipartimento di Comunicazioni Visive della HfG di Ulm (docente Tomas Gonda) / 1964

Roma, un gruppo di esperti di cui facevano parte personalità intellettuali di grande rilievo, enunciò la necessità impellente di un cambiamento di rotta: al fine d’evitare una rilevante crisi della società industriale, allora, tra l’altro, in pieno sviluppo. Quarantacinque anni dopo, questo cambiamento non è ancor avvenuto: da qui le numerose inadempienze nel sistema politicoeconomico mondiale in riassetto generale, che avranno conseguenze profonde – in particolare sul riassetto del design. Ricordiamo a questo proposito che l’ultima operazione pedagogica di grande levatura nel contesto del design industriale o della comunicazione visiva fu quella della Hochschule für Gestaltung di Ulm. Vi si procedeva considerando l’oggetto industriale a partire da uno sguardo globale tenendo conto dei molteplici aspetti del progetto: sociale, scientifico e culturale. Ma questa scuola chiuse i battenti nel 1968. I. Uno dei compiti più urgenti consiste nel definire concetti e soluzioni che tengano conto di una visione inclusiva che inglobi un gran numero di discipline assolutamente non trascurabili. La tappa successiva sta nell’identificare alcuni metodi che permettano l’integrazione di queste differenti discipline – così come l’apprezzamento delle conseguenze di ogni modificazione sull’integrità dei progetti in corso – basandosi per esempio sul principio di correlazione usato nella biologia. Un Principio che stabilisce che tutte le parti di un organismo vivente sono tra loro in rapporto di reciprocità in un sistema di sostanziale equilibrio. Ogni modifica d’una parte del sistema ha quindi come conseguenza una modifica di ogni altra parte: in modo che il riequilibrio dell’insieme sia assicurato. Se lo squilibrio si rivela eccessivamente marcato, si rischia un crollo generale del sistema; la qual cosa può compromettere la sopravvivenza dell’intero organismo. Questo principio di reciprocità ha i suoi ritmi e i suoi cicli di cui bisogna tener conto. La potenza di un tale sistema sta nella sua tendenza all’espressione com-

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Un bilancio sulla crisi del disegno industriale. Undici proposte

di François


pagina a fronte: Andries Van Onck / Grundkurs (docente Tomás Maldonado) 24

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binata di forze che tendono al mantenimento della sua armonia interna. Come sottolineava Friedrich Kiesler, il correalismo implica una forza di coesione. Kiesler fu il primo a stabilire su questa base un laboratorio di design correlazionale nel 1937 alla Columbia University di New York. Egli mostrò che questo approccio trascende le barriere artificialmente mantenute tra le diverse applicazioni scientifiche rivolte al design. II. Le delicate relazioni tra i professionisti del design, le corporazioni e i produttori devono inoltre essere migliorate. I designer devono poter contare sulla propria indipendenza così come sulle proprie competenze. La mia percezione di questa indipendenza è che essa non costituisca soltanto la garanzia di una certa libertà di creazione, ma ne determini la pubblica immagine. Una collaborazione troppo unilaterale – motivata, come spesso accade, dalla prospettiva restrittiva del marketing – si rivela generatrice di ostacoli ed allo stesso tempo riduce la percezione interdisciplinare dei problemi legati al design. Designer, manager e ingegneri devono poter dialogare sulla base dei loro punti di vista specifici, ma anche rapportarsi in permanenza a uno scopo superiore. Questo fine non può essere unicamente l’estetismo, né tanto meno il successo di un prodotto sul mercato. Un design che si possa definire adeguato rappresenta assai più di un good design – nel senso che gli è generalmente attribuito nell’ambito professionale. Tiene conto di una serie di criteri complementari che il disegno industriale abitualmente trascura: sia per disconoscimento, sia per sottomissione alle condizioni dettate dai committenti. Dipendendo da quest’ultimi per la propria sopravvivenza, il designer perde nella maggior parte dei casi – quando il briefing è eccessivamente sottomesso alle condizioni del mercato – la possibilità di proporre soluzioni alternative alle imprese; anche se, vista la loro originalità, quest’ultime avrebbero tutto l’interesse ad accoglierle con favore. Perciò il designer deve beneficiare di condizioni di lavoro – psicologiche e materiali – che gli assicurino carisma e credibilità. Inoltre se è esatto dire che il design ha bisogno delle imprese, non bisogna dimenticare che è vero anche il reciproco. Un certo design orientato verso un certo tipo di estetica – e designato nel gergo professionale con il termine di good design – ha oggi conquistato considerazione presso le imprese e dovrebbe quindi sentirsi al sicuro nella sfera dei riconoscimenti acquisiti. Tuttavia si tratta di una nozione molto vasta e un po’ passe-partout che, una volta applicata al contesto professio-

nale, può essere definita come un derivato del design razionalista nell’ambito del design italiano; cosi come design funzionalista nell’universo del design anglosassone. Questo genere di design è diventato la regola nella professione dall’inizio del XX° secolo, una specie di codice che permette di riconoscere il “buon” (good) dal “meno buono” design, come se il “buon design” dipendesse unicamente dalla sua qualità estetica. E tutto ciò non rappresenta una novità. III. Già nel 1958 il critico e teorico argentino Tomás Maldonado – allora rettore della Hochschule für Geastaltung di Ulm – aveva messo in evidenza i pericoli di una troppo stretta associazione tra design e produzione. In un tale contesto, quando sopravvengono le normali crisi della produzione industriale, ciò che avviene ad intervalli sempre più ravvicinati e ricorrenti, è l’insieme della professione che è minacciata. Di conseguenza si ritiene necessario non solo assicurare una certa autonomia tra questi due settori, ma ugualmente esplorare spazi nuovi nei quali il design può avere una azione che superi l’ambito della promozione dei beni di consumo sui mercati. In un’epoca post-industriale dove il servizio ha acquisito tanta importanza quanto il prodotto stesso – e dove la ricerca nel campo del design è carente poiché una reale domanda per nuovi prodotti si esprime soltanto quando i prodotti stessi sono divenuti obsoleti – è urgente offrire al design alcune e nuove possibilità di crescita! IV. Il mondo del design istituzionale si rivela ancor più in crisi di quello del design corporativo. Disperatamente attaccate al concetto di promozione, poiché questo sembra loro l’unico mezzo, o almeno il più semplice, per sopravvivere grazie alle sovvenzioni ed alle sponsorizzazioni, alcune istituzioni come i Design Centers hanno ridotto la loro attività fino a diventare vetrine di prodotti a sostegno del good design. Invece di costituire dei centri d’incontro e scambio d’idee con un ruolo orientativo – vale a dire di ricerca, dove prodotti e strategie avrebbero l’obiettivo di delineare e dimostrare la validità di vie alternative mettendo a fuoco una produzione portatrice di senso –, i Design Centers si sono trasformati in un vero e proprio prolungamento dell’arsenale pubblicitario. Vi si dovrebbe creare l’innovazione, piuttosto che riprodurre un gusto e una scelta di oggetti già troppo spesso superati e più o meno selezionati secondo criteri riduttivi. Per ciò che mi riguarda, parto dall’idea che le associazioni industriali e le compagnie che vi sono coinvol-


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te sono meglio preparate e più motivate per lanciare nuovi prodotti che i Design Centers, i quali privilegiano innanzi tutto uno sguardo estetico. Nel momento in cui la missione dei Centri Design – quella di fare del design, con i relativi vantaggi economici, una parte integrante della strategia produttiva (e si può pensare che gli industriali che rifiutano tale principio ne siano perfettamente consapevoli) è quasi compiuta – sarebbe auspicabile e giustificato che queste istituzioni estendessero l’orizzonte della qualità formale ad altri ambiti. È quindi necessario che la promozione del design si liberi dai legami troppo stretti con l’industria: in maniera d’essere in grado di proporle idee meno ristrette, più interessanti, a partire da una nuova posizione autonoma. Sono i Design Centers e le altre istituzioni di questo genere, che devono svolgere il ruolo di agenti di collegamento tra bisogni e produzione: sulla base di principi che integrino gli aspetti meno considerati dai produttori, ivi compresi gli aspetti che quest’ultimi rifiutano di prendere in considerazione; ma che hanno, fra l’altro, segnate ripercussioni sui differenti gruppi sociali o sull’ambiente. Di conseguenza questi centri di promozione del design non devono opporsi al principio di promozione industriale, ma completarlo: facendo emergere e difendendo aspetti meno finalizzati all’economia, ossia su quei valori che la promozione non intende oppure non è in grado d’assumere.

V. Una tale concezione dell’universo del design si fonda su un’ espressione particolare della politica economica di mercato in cui lo Stato ha la funzione di correggere le conseguenze nefaste dei suoi soprassalti: in ultima istanza l’assunzione d’interessi collettivi ai quali il mercato non può rispondere, nella prospettiva di rettificare la tendenza a una distribuzione dei beni che segua esclusivamente il profitto. Stato, regioni, e comuni ritroverebbero in questo modo la loro legittimità a sovvenzionare le istituzioni del design; ciò che attualmente non avviene, poiché la loro motivazione rimane la promozione indiretta degli interessi industriali e commerciali. Si tratta di una strategia che non interdice i finanziamenti misti, e che favorisce allo stesso tempo la difesa degli interessi collettivi e degli interessi commerciali, attraverso la ricerca di idee e di progetti destinati all’industria e finanziati da quest’ultima. Senonché tale prospettiva conduce ad un altro tipo di istituzioni per un altro tipo di promozione dell’industrial design. In tredici anni passati alla direzione del Centro Internazionale del design di Berlino (I.D.Z.), ho avuto occasione di proporre tali soluzioni miste, poi diventate negli anni ottanta un modello di riferimento. Arricchito da queHans Gugelot / Carousel-s, proiettore per diapositive / Kodak / 1963 Gerd Alfred Müller / modello M121, mixer portatile / Braun / 1964 pagina a fronte Hans Gugelot, Dieter Rams / modello n.TC40, radio fonografo Audio 1 / Braun / 1962


VI. Mi sembra chiaro che la professione debba cercare spazi nei quali esprimere la propria attività; ed alcuni di questi spazi già esistono, ma devono essere valorizzati. Se la specializzazione nell’ambito del design esige un indispensabile approfondimento, è attraverso la trasversalità che si aprono oggi nuove prospettive. L’applicazione delle conoscenze specifiche relative al progettare design è da ricercare in numerosi altri ambiti, diversi dal prodotto industriale. Però questa nozione non è abbastanza diffusa; né tanto meno fa parte dei programmi d’insegnamento, oppure ne fa parte assai

raramente. Va aggiunto che in certi settori viene utilizzato e riprodotto un design di cattiva qualità concepito da non-designers; e si tratta di settori in cui gli ingegneri sono i primi a trarne vantaggio. VII. È nel campo dell’invenzione, dell’innovazione e – naturalmente – negli Scenari del Nuovo, che il design ha maggiori possibilità di trovare un proprio spazio. Oggi più che mai, il disegno industriale ha bisogno d’idee nuove: prima di tutto per rispondere alla richiesta incessante di punti di vista nuovi, necessità persino d’innovazioni puramente formali. Che, però, devono appartenere alla sfera del necessario, della diffusione di senso, dell’utilità collettiva e della responsabilità civica – oltre che al successo commerciale; progetti che coinvolgano il settore dell’economie d’energia o dell’utilizzazione delle materie prime, ad esempio. Nella nostra epoca dove dominano le tecnologie di punta della comunicazione, ciò significa una crescita della complessità piuttosto che della miniaturizzazione, una ricchezza d’espressione che non va confusa con il lusso. Ci si dovrà anche chiedere se una tendenza all’unificazione e alla semplificazione – come quella emersa davanti ai nostri occhi – non costituisca un malinteso, anzi una caricatura: una visione erronea dell’ideale estetico dell’era numerica in cui viviamo. D’altra parte è indispensabile tener conto delle trasformazioni che queste tecniche

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sta esperienza, posso affermare che – persino in una congiuntura difficile – questo principio si rivela praticabile e benefico tanto per il design che per l’industria; per quanto questo genere di modello sia contemporaneamente alternativo e innovatore per la collettività così come per la produzione. Parimenti, il modello del Designlabor Bremerhaven che ho inventato e presieduto, ha egregiamente funzionato grazie all’applicazione della formula seguente. Un comitato scientifico composto da personalità preparate – in questo caso Alberto Meda, Richard Sapper, Gerd Dumbar e io stesso – è incaricato di riunire, in collaborazione con la direzione dell’istituto, l’insieme dei finanziamenti ottenuti dagli industriali. Seguendo l’evoluzione e modificazione dei progetti, questo comitato scientifico ha come controparte i referenti (chefs) dei diversi progetti: designer affermati e specializzati a livello internazionale. Questi ultimi dirigono gruppi di giovani designer, borsisti selezionati su presentazione di dossier e su colloqui organizzati dallo stesso comitato scientifico. Questo lavoro d’investigazione mirata è completato da incontri con diversi centri di ricerca, con sezioni di ricerca, da brevi seminari tematici che riuniscono degli specialisti. Si tratta di un modo di procedere che può sfociare in prototipi, come pure nella realizzazione di progetti. In tal caso, i borsisti incaricati di questa realizzazione sono collocati a contratto per la durata necessaria; e lavorano nelle sezioni integrate sui progetti degli altri borsisti, questi ultimi avendo la possibilità di seguire e di partecipare alla realizzazione. È un modello che ha permesso di portare a buon fine progetti innovatori che hanno suscitato un grande interesse presso le compagnie internazionali finanziatrici: quali Air-space, Siemens, Alessi, Zumtobel-Staff, Airbus o Abet-Print. Ma anche presso i comuni della regione che, di fatto, si sono trovati a beneficiare del soggiorno di designer internazionali, che vi hanno condotto a buon fine progetti negli ambiti del design d’ambiente, del paesaggio e dell’architettura d’interni.


Hans Gugelot, Gerd Alfred Müller / Sixtant SM 31, rasoio elettrico, Braun / 1962

hanno generato sul piano sociale, innanzitutto nell’ambito della comunicazione, poi sul piano percettivo e dell’identità; e che hanno una segnata rilevanza per il design. VIII. L’espansione del mondo del design, dovuta ai sistemi di comunicazione che ne hanno permesso la conoscenza, ha suscitato un interesse nuovo in numerosi campi: nella biologia, nell’ingegneria, anche nel marketing, nei media; e tuttavia non è emersa l’esigenza di modalità concettualmente coerenti, ovvero di scenari di una certa ampiezza che includessero la nozione di trasversalità di cui ho dato testimonianza. I servizi collegati alle professioni dell’industrial design, s’infittiscono di consulenti designer: una funzione occupata spesso da persone estranee alla professione; e ciò deriva dalla carenza di personale con una peculiare formazione. Già sono presenti una serie di nuovi ambiti in cui le competenze dei designer potrebbero trovare uno spazio d’espressione per attività specifiche a partire dalle quali si dovrebbero scoprire – persino inventare – nuove specializzazioni; e ciò emergerà ancor più, se il design sarà considerato e presentato in maniera decisamente diversa. Mi riferisco ad un design che faccia emergere nuove espressioni ed attività: che fondi e solleciti nuove relazioni adeguate alla nostra epoca di collaborazione e trasversalità. Questo approccio di crossover – d’attraversamento interdisciplinare – è attualmente il genere di competenza più ricercato e richiesto. Una tale apertura mentale richiede evidentemente altre forme d’insegnamento, diverse da quelle praticate oggi; e nel contempo una percezione meglio articolata, segnatamente in merito agli ambiti che si troverà a ricoprire come professionista. Una tale visione mette inoltre in evidenza i deficit delle istituzioni operanti e presenti: che pensano e agiscono linearmente invece che trasversalmente. IX. Il crossover come metodo d’insegnamento – una finalità non determinata e quindi aperta per quanto concerne la specificità delle discipline scelte dagli studenti, così come per l’orientamento che desiderano dare alla loro carriera -, insomma questa prospettiva richiede dagli studenti una certa maturità e conoscenze pratiche e professionali che un giovane diplomato non può possedere. È questo uno dei motivi per cui caldeggio vivamente alcune modalità per acquisire certe conoscenze e pratiche. Intanto occorre una certa coscienza, nel periodo degli studi, dell’ampiezza delle possibili-


X. Un secondo settore che l’insegnamento deve assolutamente riconquistare è quello della critica – quindi di una formazione coniugata alla Storia del Design. Al momento non esiste al mondo nessun istituto o scuola che proponga un tale percorso formativo. Che sarebbe fondamentale! Nella nostra epoca di diffusione sine limite dei media e di moltiplicazione delle modalità comunicative, non si possono abbandonare settori di una tale importanza a giornalisti senza un’appropriata e coerente formazione, persino ad inesperti redattori improvvisati. La storia e la critica del prodotto industriale, cosi come quella di settori quali i mass media o la pubblicità, devono assolutamente trovare alcune basi critiche solide. L’insieme di questioni che ruotano intorno all’etica, all’impegno ed alla difesa dei diritti collettivi – così come le questioni della libertà d’espressione, della promozione d’idee nuove e della critica – sono assolutamente fondamentali per un’attività giornalistica efficace e portatrice di senso. La pubblicistica deve trovare proprie motivazioni per informare i professionisti del design, ed il pubblico in genere, sullo sviluppo dei processi di trasformazione che guidano l’evoluzione della società: proponendo analisi serrate sul ruolo che al design compete nell’evoluzione della società. A forza di barcamenarsi nella pratica quotidiana dell’utilitarismo e del rendimento massimo, il design ha dimenticato d’interessarsi ad altri orizzonti, trascurato il proprio diritto al sogno e alla felicità, persino dimenticato che può contribuire allo sviluppo della società e non soltanto alla sua prosperità immediata, dimenticato che l’utopia costituisce uno strumento per visualizzare degli scopi, degli ideali ai qua-

li aspirare pur restando coscienti che la pianificazione è innanzitutto uno strumento di azione sul presente in vista di un futuro migliore. XI. Il senso morale ed i fini attribuiti al design devono ispirarsi ai valori etici collettivi ed individuali. Come dimostra la Storia delle Civiltà, la loro ampiezza e il loro contenuto evolve. L’etica risponde alla domanda dell’azione giusta ed appropriata: introducendo il senso del discernimento che ogni azione provoca, facendo così lievitare lo sviluppo della coscienza. Sicché costituisce la modalità dell’accesso all’aspetto pratico della filosofia, mettendo in evidenza le possibilità del libero arbitrio. L’insieme dei costumi di un popolo costituisce la base di una norma che fonda le azioni umane, e che viene utilizzata per la loro interpretazione. In questa prospettiva, tessere una critica coerente del disegno industriale, costituisce un atto morale: definendo “moralista” l’osservatore che analizza senza dogmi, né tanto meno pregiudizi la maniera di vivere degli individui e dei gruppi sociali per tentare di comprenderne le finalità e le intenzioni. Una pratica critica di questo tipo può applicarsi a tutti gli ambiti che implichino problemi sociali. Da questo punto di vista, la sfera dell’etica, per l’insieme delle influenze che agiscono sui processi di civiltà a cui il design è sottomesso, è essenziale per analizzare l’evolversi degli orientamenti e per formulare una critica del suo sviluppo. Se mi permetto di criticare in tal modo lo stretto rapporto tra design, produzione e economia, è per la priorità che si conferisce a questo rapporto, certo importante, ma per niente esclusivo, né predominante nel contesto descritto – e dico ciò per quanto si sia tentato di convincermi del contrario. Il processo che ci impegna corrisponde a una valorizzazione del design stesso, quale disciplina e materia autonoma: un principio per il quale mi batto da più di venti anni. Dopo 150 anni di esistenza è venuto il momento che il design raggiunga la sua maturità! Ecco una motivazione d’importanza capitale per reclamare la propria autonomia. La pratica del design deve ispirarsi ad una gerarchia di valori, all’interdisciplinarietà e alla responsabilizzazione di fronte alle scelte in merito allo sviluppo della società futura. In vista della lievitazione ed espansione di questi elementi, il design deve prendere coscienza e riconoscere l’importanza del ruolo che gioca all’interno della società postindustriale: rielaborandone i compiti attraverso nuovi scenari e concetti, ridefinendo le sue priorità a partire da una posizione grosso modo subalterna.

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tà professionali: per esempio proponendo come prioritario un tirocinio agli studenti, come accade in numerosi altri settori, al quale seguirà un percorso di studi che avrà il ruolo di approfondimento e di specializzazione. Ai giovani più motivati e più dotati, dalla necessaria maturità per rispondere alle esigenze tecniche e intellettuali di questa formazione, potrebbe essere riservata la seconda fase. Poi eventualmente completata da una terza fase di specializzazione oppure – col fine d’indirizzare ad una tipologia di carriera diversa – da una fase di maturazione complementare che aiuti il giovane designer a trovare il proprio campo d’espressione personale. Questo itinerario preparerebbe ad una cultura del disegno industriale ampiamente fondata sulla libera scelta nel seguire le proprie competenze e i propri interessi individuali: nella prospettiva di formare delle personalità, figure di rilievo del design, piuttosto che dei puri specialisti.


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Vi parlerò di come sia possibile definire la scuola esistente. Di come la qualità delle piccole imprese costituisca il modello culturale di ogni produzione industriale. Così è stato da noi, ma anche per i paesi che hanno contribuito, in vari momenti della storia, alla prima ed alle successive rivoluzioni industriali. Ma prima di fare ciò sono necessarie alcune premesse, premesse che dovrebbero essere ovvie per un moderno umanista, consapevole che la tecnica è indispensabile. Però sa anche che in alcun modo può costituire un valore in sé. La tecnica, anche nelle sue implicazioni metodologiche, è solo uno strumento. Analogo ad un cacciavite. Inoltre i temi che qui mi ritroverò a trattare in modo necessariamente schematico, derivano da una ricerca sul campo verificata numerose volte più estesamente e sistematicamente nelle mie pubblicazioni. Il fine di ogni progetto è definire la forma. Una forma è buona se è (nel senso che è rappresentativa in se stessa). Una forma è cattiva se sembra (è solo apparenza). Questo ovviamente vale anche per quella modalità pedagogica designata “insegnamento”. Indipendentemente dall’energia e passione messe in atto da capaci insegnanti, non possiamo che constatare come, in ogni parte del mondo, gli esiti delle scuole di design siano molto deludenti. Assai deludenti relativamente alla qualità dei diplomati; e quei pochi che acquistano una dignitosa qualità, l’acquisterebbero anche in assenza degli insegnamenti ricevuti. Ritengo che ciò dipenda da profonde contraddizioni presenti nell’insegnamento stesso, proprio ad iniziare dalle origini, a tutt’oggi irrisolte. Non mi riferisco tanto all’idealismo utopizzante che ne sostanzia la base (almeno nelle scuole più ambiziose), ma il non rendersi conto che per poterlo realizzare (sia pure in forma allegorica) è indispensabile una parallela tensione utopizzante concernente l’insieme di quelle capacità psichiche, sensoriali e fisiche, alle quali si sono intensamente addestrati i grandi artifici della forma.

Mari

pagina a fronte Enzo Mari / Allegoria della morte, modellino in scala / 1988

Ogni individuo possiede a livello potenziale queste capacita. Si tratta soltanto di risvegliarle ed addestrarle. Quando manca quest’addestramento, una metodologia basata su frammenti semplificati di cultura prevalentemente astratta produce impotenza oppure banalità. Non so cosa sia il design. E ciò dopo cinquanta anni di ricerca, quasi duemila progetti: realizzati al solo scopo di capire in cosa consiste il design. E se questo lavoro contiene, in sé, la potenzialità realizzabile di contribuire alla trasformazione positiva dell’uomo e del suo ambiente. Dico questo allo scopo di far riflettere tutti coloro che sono convinti di sapere cos’è il design, ma anche per chi, pur essendo consapevole di non saperlo, opera come se lo sapesse. Nei casi più responsabili tale contraddizione è assunta consapevolmente quale compromesso realistico – necessario. Ma dopo oltre cinquanta anni, non riesco ad intravederne alcun esito valido o fondato. Dunque l’insegnamento del design implica il coinvolgimento di tre orizzonti culturali: quello dell’espressione; quello delle scienze della natura; quello, più incerto, delle scienze umane. Ovvero tutto il sapere che circola nel mondo – nel suo divenire e nelle sue contraddizioni: contrasti fra le modalità espressive, scienze naturali ed umane. (È arcinota l’incomunicabilità fra chi produce ricerca scientifica e chi produce ricerca espressiva; così come la compresenza di ideologie, prescrizioni, patologie, fedi religiose, politiche, ed ignobili interessi renda problematica ogni discussione sui bisogni umani). Tuttavia ognuno di questi saperi, più o meno reali, converge nelle scelte progettuali. Ed ogni interlocutore è convinto che il proprio sapere, l’unico che almeno approssimatamene conosce, sia determinante al fine di realizzare la forma di ogni progetto. Ne deriva che ognuno sa cos’è il design, poiché conferisce alla propria competenza un valore totalizzante, ma che invece corrisponde ad un solo frammentario aspetto: quello relativo al

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Design etico: tra sogni, realtà e tensione utopizzante

di Enzo


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proprio sapere. Per contro una buona forma, un buon design, si può realizzare soltanto tenendo sommamente conto della totalità di quei frammenti di conoscenza. Forse ora è più chiaro perché ho detto di non sapere cosa sia il design. Occorre inoltre ricordare che non si tratta mai di frammenti di sapere concreto. Verificabile. Si tratta, troppo spesso, di un sapere che soggettivamente viene ritenuto un sapere certo – anche quando non lo è affatto. Per di più viene proposto come totalizzante. Non vorrei essere frainteso. Non mi sto riferendo qui a coloro che detengono il potere politico ed economico. Come tutti sanno, spesso i potenti agiscono in modo perverso… Mi riferisco, poiché stiamo parlando di scuola, a coloro che nelle officine, negli studi professionali, nelle scuole, nelle redazione delle case editrici, costituiscono – o dovrebbero costituire – la cultura del design. Ritorniamo ai frammenti di sapere. Nella realizzazione di ogni progetto scadente, ovvero banale, tra le miriadi di frammenti di sapere, accade che soltanto uno di questi (o poco più) venga imposto come sapere totalizzante; e su questo sapere si realizza una forma… contraddittoria! Si contraddice poiché una forma è sempre percepita a livello inconscio, oppure, a livello popolare come totalizzante. Non può che essere così. Naturalmente il referente di una metodologia totalizzante, oppure quello di una tecnologia totalizzante, oppure di un mercato totalizzante, esigerebbe una bella forma, sennonché non possiede le capacità tecniche, né la predisposizione mentale per realizzarla. Però, ogni tanto, viene realizzata una forma di qualità. Ne esistono di due tipi. Il primo corrisponde alla forma perfetta realizzata da ingegneri puri, seguendo le regole certe dei paradigmi scientifici: quindi escludendo a priori qualunque riferimento sia alla cultura dell’espressione che alle scienze umane (ad esempio, gli aerei, o in generale i motori). Il secondo tipo, invece, prodotto da quegli artisti o designer che tentano di avvicinarsi alla forma globale – come Mies van de Rohe, Le Corbusier, Picasso… capaci di saldarsi a modelli del sapere espressivo traslati da Fidia, Piero della Francesca, Brunelleschi etc. In tal caso il percorso del progetto si dipana nel limite del possibile, tiene conto di tutti i frammenti e si realizza in una forma/valore dove l’estetica riflette l’etica. Di solito mi viene obiettato che questo livello eccezionale di qualità non può rientrare negli scopi pedagogici di una scuola di disegno industria-

le; che insomma occorra riferirsi a qualità semplificate, più accessibili ai giovani… Tuttavia, riferirsi ad un massimo di qualità, significa conquistare forza fisica, psichica e morale: prerogative che richiedono una discreta determinazione. Per contro è del tutto impossibile insegnare qualità mediocri, poiché la qualità è comprensibile solo attraverso una comparazione riferita all’eccellenza. Dunque occorre sempre indicare con chiarezza la qualità massima. Il riferimento all’eccellenza della forma implica l’attenzione alla globalità. Se vengono insegnate qualità minori, è necessario escludere tutti quei frammenti di sapere che sembrano inutili alla nostra società, una società basata sull’efficienza e sull’alienazione. Allora cos’è giusto insegnare? Naturalmente, si può tirare in ballo le piccole industrie, il mercato… D’accordo, sono problemi prioritari; ma è divenuta anche prioritaria la comprensione di ciò che s’insegna, ovvero non degradare o confondere gli insegnamenti fondamentali. Faccio un esempio: oggi la fisica e la biologia sono i settori più avanzati della conoscenza scientifica. In questi campi si sono appena realizzati o si stanno realizzando conoscenze tali da modificare sostanzialmente il futuro umano (speriamo in bene!). In quelle università professori ed allievi sono coscienti che non tutti i neolaureati potranno lavorare nei laboratori di ricerca… e sanno anche che molti di loro, più sfortunati o meno determinati, potranno ottenere soltanto un lavoro di commessi viaggiatori di prodotti industriali – medicinali ad esempio. Tuttavia in quelle università non sono previsti corsi di marketing, né altre tecniche pubblicitarie consimili. A partire da queste premesse, si può dare una prima definizione della contrapposizione fra due tipi di scuole: quella di qualità A, che non esiste; e quella di qualità B, che invece c’è. Con la qualità A s’intende un insegnamento permeato dalle coordinate fondamentali del sapere: la filosofia, le domande fondamentali sull’essere, la storia della poesia, quella delle arti plastiche e della musica attraverso la critica e comprensione dei loro testi archetipici. Questi ultimi rappresentano l’unica manifestazione materiale che allude all’essere. A questi insegnamenti va aggiunto il paradigma delle scienze naturali, la storia umana attraverso i suoi bisogni consci ed inconsci. La tradizione culturale presente nelle scuole di tipo B si muove a partire dai bisogni espressi dall’industria nascente alla fine del XIX° secolo:


I°. Al posto di fornire una formazione specializzata che consenta al diplomato di svolgere dignitosamente un lavoro specifico, come ad esempio quello di falegname, si pretende d’insegnare una metodologia generale che consenta d’acquisire ogni tecnica e pratica di lavoro. L’intenzione è encomiabile. Ma viene ingenuamente realizzata nel contesto di un acculturamento tecnico cosi ampio, diversificato ed in divenire, da non consentire un approfondimento in alcuna pratica di lavoro. II°. A ciò va aggiunta un altra buona intenzione: il desiderio di condensare tutta la cultura del mondo nel suo divenire (espressione, scienze naturali ed umane), quale supporto scientifico per realizzare progetti. Ma ciò implica, contemporaneamente, un insegnamento delle tecniche… Inoltre, tenendo conto del deficit di cultura generale che gli studenti hanno, per tutto ciò, per forza di cose, il sapere generale si riduce ad alcuni luoghi comuni. E questo al posto di uno strenuo allenamento nell’arte (si vedano gli esempi di ballerini, pianisti, oppure di chi fa arti marziali). La pretesa implicita in questo tipo di struttura è che il progetto sia una scienza e non un’arte. Forse questa pretesa scientificità corrisponde all’inconscio desiderio di condensare la propedeuticità all’arte in un facile manuale scientifico: un’ingenuità inspiegabile e foriera di futuri disastri.

Enzo Mari / Tonietta, sedia / Zanotta / 1985

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un’industria che necessita di persone che sappiano leggere e scrivere. Va sottolineato che, fino ad allora, gli operai erano analfabeti. Viene così sollecitata la creazione d’istituti d’arte. Anche i sindacati ed i partiti socialisti s’impegnano ad “elevare” la cultura della base operaia. Quindi si realizza un tipo di scuola dove da un lato si viene addestrati ad alcune pratiche, a dall’altro si cerca di sintetizzare massimamente il possibile dal sapere generale. Ed è così che anche gli attuali corsi di laurea in design realizzano una forma d’insegnamento che si contraddice perché:


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Manzini

pagina a fronte Andrea Branzi / Lamé Relitech / Abet Laminati / 1978

Etico (agg.) Che riguarda l’attività umana in quanto valutabile con il criterio di distinzione tra bene e male (Devoto Oli, Dizionario della lingua italiana). Il design è un’attività umana che implica il fare delle scelte che, in qualche modo, investono l’ambiente e la vita di altre persone. Pertanto, per definizione, ogni scelta del designer ha, consapevolmente o meno, delle implicazioni etiche. Ciò nonostante, parlare di etica e design è difficile: lo è sempre stato (perché c’è sempre stato il rischio di fare del moralismo) e lo è ancora di più oggi, in un momento in cui il mondo cambia così in fretta e così profondamente che l’esperienza del passato e i concetti che in altre epoche storiche si sono definiti tendono a non valere più. O, almeno, richiedono una profonda ridefinizione, Quello che nelle note che seguono si cercherà di fare è di introdurre il tema proponendo alcune considerazioni su come il design, inteso come cultura e pratica quotidiana, sia cambiato e stia ancora tumultuosamente cambiando. E questo, con particolare considerazione per quegli aspetti che più chiaramente mettono in evidenza la necessità di “distinguere tra bene e male”. Il design oltre il prodotto Le trasformazioni che stanno avvenendo a scala mondiale mettono in discussione il retroterra culturale e il campo di attività del disegno industriale, come per altro quello di tutte le altre professioni. In questa realtà in movimento, il disegno industriale, inteso come la comunità di operatori interessati alle tematiche della progettazione dei “prodotti industriali”, affronta il travaglio di dover ridefinire se stesso. Prima di tutto, perché l’oggetto dell’attività industriale, e quindi l’oggetto stesso

del suo progetto, cambia (è il tema del “prodotto” come sistema-prodotto e come rete di artefatti continuamente variabile secondo le specificità degli utenti e del contesto). Ma anche perché, con l’aumento del grado di connettività dei sistemi socio-tecnici, i modi, i tempi, gli attori e i ruoli dei processi progettuali che a essi si applicano stanno velocemente trasformandosi (è il tema dell’interazione continua tra progettisti e utilizzatori, delle partnership orientate al progetto e, in definitiva, della progettazione diffusa). Il design in un mondo quasi-fluido Il design è nato e ha sviluppato i suoi strumenti concettuali e operativi in un mondo che appariva semplice, solido e limitato. Questa triade di concetti è stata spazzata via dalla forza di nuovi fenomeni: dalla scoperta della complessità dei sistemi, dalla necessità di imparare a navigare nella fluidità degli eventi ed oggi, riferendoci alla transizione verso la sostenibilità, dall’emergere dei limiti. Ed è con questo nuovo mondo complesso, fluido e limitato che il design oggi si deve confrontare. Il design nel mondo solido (e apparentemente limitato) aveva tradotto l’etica in un principio semplice e generale: operare per il bene; per i designer significava promuovere la qualità del mondo attraverso la progettazione di prodotti industriali efficaci, sicuri, belli ed accessibili ad un numero crescente di persone. Un principio etico che diventava un’indicazione programmatica e politica. Come questi principi e queste indicazioni programmatiche si trasformano in un mondo quasi-fluido e che mostra sempre più chiaramente i suoi limiti? Questa domanda non ha una risposta certa e condivisa dalla comunità dei progettisti. Però, a mio parere, qualcosa si può dire.

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Etica e design. Il giusto ed il possibile

di Ezio


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La qualità delle interazioni La prima constatazione è che l’oggetto-del-progetto è cambiato: non è più un prodotto materiale, ma è sempre più (o sempre meglio descrivibile come) un sistema di interazioni che si articola in prodotti, servizi e comunicazione. E pertanto, questo è il nuovo campo di azione delle scelte su cui valutare la discriminante “bene e male”. Se, a mio parere, è ancora oggi possibile e necessario dire che il bene da ricercare ha a che fare con la “vivibilità del mondo”, il modo in cui si opera per andare in questa direzione deve passare attraverso la capacità di progettare per l’efficacia, la sicurezza, la bellezza e l’accessibilità di sistemi di artefatti complessi e dinamici nel tempo (anzi: in cui il tempo diventa un fattore portante della qualità finale del progetto). La qualità dei sistemi sostenibili La seconda constatazione è relativa all’emergere dei limiti del pianeta e, conseguentemente, alla necessità di avviare una transizione verso dei modi di fare e di essere che risultino sostenibili. E di farlo nel modo più indolore possibile. Non è questa la sede per entrare nel merito di tutte le implicazioni di questo fatto. Ai nostri fini attuali basti dire questo: ogni idea di benessere basato sulla disponibilità crescente di beni rappresenta oggi una promessa potenzialmente catastrofica: non è infatti fisicamente possibile ICF-B200, radio a ricarica manuale / Sony

immaginare un mondo in cui sei miliardi di persone oggi, nove miliardi in qualche decennio, pratichino, cerchino di praticare o sognino di praticare un benessere che segua i modelli di benessere fin qui sviluppati nei paesi occidentali e che il design (anche in buona fede) ha grandemente contribuito a diffondere ed a rendere desiderabili. Verso una nuova idea di benessere Il cambiamento di paradigma che la prospettiva della sostenibilità rende necessario, ovviamente, non investe solo la cultura e la prassi del design, ma certamente le tocca come e più di quanto non investa altre culture ed altre pratiche professionali. Infatti, poiché i designer sono i “professionisti che operano tecnicamente e culturalmente sul mondo degli artefatti”, coniugando cioè il (tecnicamente ed economicamente) possibile con il (socialmente) desiderabile, essi hanno più responsabilità di altri su questo terreno. Uso qui il termine responsabilità in modo positivo (non in quello colpevolizzante): i designer devono essere “responsabili” nel senso di essere quelli che si devono prendere cura della qualità degli artefatti (artefatti dinamici e complessi di cui si è detto nel punto precedente) che largamente, sempre più largamente, definiscono la qualità e la vivibilità del mondo. La transizione verso un design rigenerativo Vorrei ora sintetizzare ciò che, a mio parere, il tema della sostenibilità ci propone come indicazione operativa di fondo (non so se è un principio etico, nel senso filosofico del termine, però a mio parere è un’indicazione operativa sulla direzione da prendere per operare per il “bene”). Le scelte che i designer devono fare sono quelle che favoriscono un processo sociale di apprendimento: quello che dovrà portare i soggetti e la società nel suo complesso a vivere bene consumando meno risorse ambientali e rigenerando le qualità dei contesti sociali in cui si vive, che poi significa: rigenerando la qualità dei “Beni comuni”. È chiaro che questa affermazione pone i designer in una posizione contraddittoria: il loro ruolo è, per definizione, quello di progettare nuovi artefatti, mentre la nuova condizione al contorno implica che la vivibilità del mondo tendenzialmente richieda meno artefatti materiali e più beni comuni. Operare in questa contraddizione, imparare a sviluppare una nuova cul-


Una riflessione finale Un pianeta piccolo e densamente popolato sta andando in malora. E l’unica cosa che ci viene detta tutti i giorni è che dobbiamo competere con qualche miliardo di nuovi produttori-consumatori che si sono messi in moto anche loro per andare nella nostra stessa disastrosa direzione. Occorre cercare una via di uscita da questo meccanismo perverso in cui ci siamo infilati. Ed in cui il design ha svolto un ruolo significativo. Ma se è vero che il design è stato, ed è più che mai, “parte del problema”, dobbiamo scommettere sul fatto che possa essere anche “parte della soluzione”. E questo non per delle presupposte capacità dei designer in quanto tali. O per le doti della loro attuale cultura. Ma perché, malgrado tutto, il design, inteso come insieme di coloro che consapevolmente operano

come progettisti, è un attore sociale che, per sua natura, ha a che fare con la relazione quotidiana tra gli esseri umani ed i loro artefatti ed i contesti che li contengono. Ed è proprio per questa relazione e per l’idea di benessere che su di essa viene costruita, che nei prossimi anni miliardi di esseri umani dovranno cambiare idea. Dovranno imparare ad apprezzare altri modi di essere e di fare. Il design, a mio parere, dovrebbe partecipare a questo processo sociale di apprendimento, tenendo conto del fatto che dispone, al tempo stesso, di un potere molto debole e molto forte. Molto debole, perché non ha strumenti per imporre ad alcuno il suo punto di vista. Molto forte, perché può incidere sulla qualità delle cose e sugli immaginari di benessere da cui esse sono generate e che esse stesse collaborano a generare. La sua specialità in questo complesso processo sociale è dunque quella di generare immagini e proposte. E, più in generale, di collaborare alla costruzione di una nuova estetica che stimoli e aiuti la difficile transizione di cui si è detto. Community housing in Collaborative services Social innovation and design for sustainability

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tura e pratica del design, che potremmo chiamare design rigenerativo, è la sfida che oggi dobbiamo affrontare: una visione aggiornata dell’etica ci può certamente aiutare.



Canevacci

pagina a fronte Carlos Motta / Poltrona de Balanço in legno di recupero / Fabrica de Caderiras São Paulo

Lavoro e design Come è noto Marx distingueva werk da arbeit: il primo è il lavoro esecutivo ed estraniato sotto le condizioni del capitale; il secondo è il lavoro del soggetto autonomo che produce consapevolmente il suo ricambio organico con la natura nella società liberata dei produttori. Nel corso del processo politico della trasformazione radicale della società, il soggetto (individuale e di classe) transita dal werk all’arbeit. Anche se Marx non ha mai raffigurato la società futura, rifiutando ogni visione utopica, nella sua impostazione emerge la centralità del lavoro (sempre come arbeit) in quanto atto costitutivo dell’umanizzazione universale dell’essere umano, che i suoi seguaci (i “marxisti”) hanno ancora più accentuato nel comunismo come grande fabbrica (soviet + elettrificazione). Per ogni comunista o socialista e persino socialdemocratico l’essere umano è ciò che lavora e la dialettica lega indissolubilmente la visione hegeliana del servo-padrone alla critica marxiana operai-capitale. Entrambe hanno sempre nel lavoro l’atto supremo del rovesciamento dialettico di chi è subalterno in soggetto autonomo che supera l’estraneazione. Eppure a mio avviso dovrebbe essere sempre più evidente come questa dialettica – non solo concettuale – sia obsoleta e trascini con sé la sua teoria del valore-lavoro, sia come visione del mondo che come teoria economica: è impossibile sostenere che anche in futuro il lavoro sia sempre e comunque centro del processo umanizzatore e che qui ed ora la quantità di lavoro socialmente necessario determini il valore della merce. Una terza via si va affermando in alcuni rivoli per ora minoritari del pensiero critico che potrebbe essere di innovato significato critico per impostare in modalità nuove la relazione design-lavoro dal punto di vista etnografico: la prospettiva opus. In tale concetto, non è la relazione lavorista in transizione da werk all’arbeit significativa per la liberazione del soggetto. Opus libera una molteplicità di processi creativi che possono

non avere nel lavoro la loro base e neanche il loro fine. Decentrare, ibridizzare, erotizzare le prospettive dell’opus per ciascun soggetto (e non per una classe o un collettivo) implica applicare la dimensione del multividuo come pragmatica liberazionista ed eversiva per ogni identità logica o politica data, intrecciata con le potenzialità della tecno-comunicazione digitale. Se l’identità dell’individuo si fluidifica e moltiplica, e se questa identità non si produce centralmente nel lavoro (come nella modernità industrialista) e nemmeno in una famiglia, una etnicità o un genere sessuato, allora quello che era il risultato finale della produzione (merce) o della inventiva non finalizzata allo scambio (res come oggetto) diventa qualcosa di radicalmente altro. Diventa opus. Opus non è merce più res. Opus è inserire nel suo corpo i tradizionali quanto oppressivi dualismi trasformati – anziché in monismo (”materiale”) – in molteplice polifonia dalle scansioni poliritmiche, dissonanti, sincretiche. Opus è questa distensione – materialimmateriale – di coabitative poliritmìe ibride. Alcune di queste distensioni soniche, visuali, web, tattili si incorporano come design: opus, appunto, che assorbe le tradizionali dicotomie soggetto-oggetto, tecnologia-corpo, protesi-mimesi e le diffonde come saperi-sapienze di un multividuo che anticipa nuove sensorialità. Opus è sensorialità percettiva innestata. Una sensorialità non più definita sui principi classificatori dati positivisticamente (i “cinque” sensi al lavoro), bensì che si autoproduce e autosincretizza nei suoi oscillanti incroci interstiziali. Una poli-sensorialità mimetica tradotta in design afferma una continua oscillazione mimetica di un tratto corporeo che investe, oltre alla sua abilità data, ogni sentire altro. E lo somatizza. Opus è questa somatizzazione oltre i riferimenti di utilità, valore, scambio, lavoro (arbeit), arte, scienza. Oltre le mono-identità fissate da sesso-classe-etnicità-generazione-luogo.

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Opus-design

di Massimo


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Un design dell’opus trascende secondo scosse immanenti (aporetiche) ogni tradizionale toponomastica. Opus è aporia che sfida la logica dell’identità applicata alla merce. Per questo opus è plurilogica estorta ed estesa cum figuris. Opus è mimesis perché non riproduce l’identità della cosa, bensì la reinventa attaccandosi e staccandosi contemporaneamente da essa. La tradisce nel senso creativo di non replicarla e di reinventarla. Opus è trasloco del lavoro. Per questo opus non è una protesi nel senso materialisticamente volgare di strumento che si aggiunge e/o sostituisce un determinato senso o arto. Opus è protesi mimetica che assimila tratti tra tecnologie e corpi per ibridizzarli con assoluta reciprocità. Nello stesso tempo, opus contiene elementi di lavoro come werk e di lavoro come arbeit. Non li supera nel senso dialettico del termine portandoli a sintesi. Opus è costantemente assillato da istanze regressive. Non esiste liberazione data una volta per tutte, tanto meno dentro questa etnografia dell’opus, etnografia per un design come opus. E per questo opus oscilla. O scintilla come fantasmagoria postmoderna. Il posizionamento di ciascun soggetto, quindi, rispetto all’opus non è stabilizzato, raggiunto ed assorbito für ewig: da qui la prospettica multividuale che costantemente sceglie l’ansia perturbata del proprio riposizionamento e che in tale processo si determina nella sua moltitudine dell’io. La relazione opus-multividuo è irriducibile alla stasi, pena il ritorno affilato di werk o arbeit nell’idea del soggetto mono-identitario. Le pragmatiche dell’opus sono zone di ricerca e di conflitto per la trasformazione di una politica altra e alterante. Meno lavoro e più opus significa praticare l’oltre rispetto la richiesta banale di reddito garantito e passivizzante per tutti, al meglio mance per sostenere il consumo. Opus è dilatare l’irriducibile autonomia ibrida multividuale fuori le possiblità post-produttive e post-oggettuali. Opus può stracciare gli stigmi sulle “perversioni” che le sante alleanze conservatrici (non solo religiose) stanno instillando come progetto politico classico centrato sull’identità da loro definita, indossata e inchiavardata su misura per tutti. Etnografia e design Una relazione costitutiva tra design ed etnografia si (de)localizza nel lavoro come opus. La fine tendenziale dell’era industriale implica anche la

fine di una concezione dell’oggetto diversa da quella tradizionale, in cui la prospettiva del design italiano aveva fatto scuola; così come ha sospinto la ricerca etnografica classica a mutare “oggetto”, metodi, paradigmi. Se non è più quella tipologia del lavoro ad essere centrale, l’ipotesi presentata qui sollecita il design ad incrociarsi con l’etnografia in quanto per entrambi si tratta di reimpostare la ricerca sul campo. Non nella fissità dello studio e tantomeno nell’immobilità del soggetto, bensì nella scelta consapevole e desiderante di rimettere tutto in gioco e calarsi nelle zone del non-ancora-determinato, si consuma lo smarrimento dislocante e l’elaborazione discontinua. Questo smarrimento in cerca di nuove elaborazioni produce legami affettivi tra etnografia e design. L’oggetto dell’etnografia (il nativo) diventa una piena soggettività altra che interpreta quanto è interpretato; l’oggetto del design fluisce e si fruisce in una relazionalità individualizzata polisensoriale esperita oltre il dualismo materiale-immateriale. Così il lavoro dell’etnografo e il lavoro del designer si incrociano lungo possibili modulazioni narrative di cui – anziché focalizzare i rispettivi prodotti come testi – qui si accentra la riflessione proprio sulla parola più complessa e con il più alto tasso di mutazione immanente che è, appunto, il lavoro-opus. È sul processo e non sul risultato che si posiziona l’etnografia del design (e di se stessa). Ed è significativo che entrambe le prospettive sconfinano: il contesto metropolitano, in primis, emerge come fieldwork per trame su cui la partecipazione attenta e obbliqua di entrambe diventa costitutiva: l’area dello sprawl – così incrostata di segni e simboli, quanto smaterializzata da translucenze tecno-iconiche – produce spazi discontinui, irregolari, autopoietici, in continua metamorfosi parassitica. Spazi, zone, interstizi vanno vissuti dentro ogni coagulo caotico (nonorder) con una sensibilità verso quei dettagli minuziosi di grafismi urbani e di comunicazione visuale che si inscenano e si ibridizzano al suo interno. L’area metropolitana è il contesto smosso su cui si dirige l’etnografia del design che seleziona la comunicazione come elemento caratterizzante i processi anche produttivi e del consumo che una volta si fissavano nel concetto (moderno) di società. Tutto questo si innesta sulle mutazioni profonde che hanno intaccato il concetto di lavoro così come si era costituito nella società industriale. Il transito da questa era alla nuova metropoli comunicazionale, alla cultura digitale, ai corpi-identità mutanti im-


pone soluzioni osservative, concettuali ed espressive radicalmente altre.

Viviane Bogari / Linea di borse in noce di cocco Dina Broide / Borse in tessuto prodotte con residui dell’industria tessile da donne artigiane di comunità bisognose di São Paulo, Aldeia do Futuro

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Soundscape e design Esprimere un design diasporico significa avere una attitudine etnografica che si accende nel fare ricerca sull’altro, anche il più diverso dal proprio sé, non per imitarlo, assimilarlo o tanto meno assimilarsi, bensì per sviluppare nuove sensibilità performative nei diversi campi dei saperi espressivi. Anche e soprattutto in quello musicale. Posizionarsi nelle radicali insofferenze musicali è costitutivo per avvertire fasce creative tra design e etnografia, come è stato fatto in un recente seminario in Francia che ora svolgerò come espirazione per un design-opus. Il design diasporico incontra una musica che evoca relazioni possibili tra etnicità, serialità, avanguardie, il cui ascolto è progettuale per nuove visioni nelle zone in between l’etnografia del design. Propongo un diverso uso etnografico del concetto di sound-design: esso configura geometrie visuali basate su diversi processi polifonici, poliritmici, iterativi, disordinanti. Le astratte composizioni soniche disegnano precisi itinerari mental-corporei che possono ricadere sul design come sulla scrittura oppure su altri generi compositivi. Un design diasporico incontra gli Aka, Giörgy Ligeti, Steve Reich. Purtroppo, per l’unico pregiudizio eurocentrico presente in questa straordinaria esperienza sonica, i musicisti

Aka qui non hanno nome individuale: solo quello “etnico”. Essi sono noti anche come “pigmei”, altro termine denso di pregiudizi e abitano l’Africa centrale vicino al fiume Ubangi. Erano nomadi e, come molte culture di questo tipo, sono diventati sempre più sedentari. Ma la loro musica continua a sbalordire e a mescolare e a sperimentare nuovi polisounds. Il cd edito da Pierre-Laurent Aimard – African Rhytms – è esemplare per una etnografia sonica applicata al sound-design. Giörgy Ligeti – musicista ungherese influenzato da Bela Bartók oltre che dalla scuola seriale di Darmstadt, scelto da Kubrick per la sua “Odissea” – racconta che, mentre stava nell’università di Stanford a Palo Alto come compositore residente, scoprì la musica di Steve Reich, in particolare quell’intreccio tra semplicità e complessità che rileverà successivamente nelle sue ricerche in Africa. E in effetti Reich da tempo ricercava la strumentazione non solo vocale del corpo umano per produrre variazioni seriali su moduli differenziati, giocati con diverse ritmiche ripetitive su graduali variazioni minime. Da queste premesse, Aimard inventa questo seminario, in cui le reciproche influenze tra poliritmie Aka, serialità Ligeti, minimalismi Reich si inscenano e incrociano in una straordinaria sperimentazione non solo musicale che esplora opus-sound-design potenziali infiniti. Questa è antropologia della musica, che innesta la c.d. musica etnica con quella jazz d’avanguardia e quella seriale di matrice “classica”. E in questo procedere le nozioni non solo mu-


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sicali di etnicità, avanguardia, classica si svuotano dei loro significati fissi, stabiliti, disciplinati. E si entra nel design exteso. Gli Aka, infatti, svolgono un tipo di musica fortemente ritualizzata all’interno della loro cultura, sedimentata in villaggi con una trentina di persone, senza autorità centrale, monogami e privi della parola che indichi “famiglia”. La musica permea ogni attività sia quotidiana che ritualmente data. Ogni voce solista ha una sua autonomia di scala, così come il battito delle mani (clap), i tamburi e altri strumenti. La musica connette in ogni performance i diversi mondi coesistenti, le fasi della caccia o della raccolta del miele, le presenze “ancestrali o di “spiriti” animali o della foresta. Questa musica è essenzialmente vocale e ha questa caratteristica: è basata su svolgimenti di polifonie ritmiche eseguite autonomamente da ciascun musicista, che – separato/unito con gli altri – segue le sue scansioni ritmiche scalari. Tali figure poliritmiche scompongono ogni sistema ordinato (lineare) di ascolto o di esecuzione, procedendo per contrappunti

Fernando e Humberto Campana / Vitoria Régia, pouf in feltro, tessuti, eva, tela gommata e pvc su struttura metallica

in reciproca ambigua tensione, per cui “ambivalence becomes a structural principle” (Arom-Schoman). La differenziazione poliritmica afferma l’autonomia vocale individuale, ovvero un contrappunto per variazioni casuali e ambivalenti tra i vari contemporanei moduli. Le composizioni si basano su questi moduli (patterns) che variano in modo illimitato, da qui la dislocante densità di questi brani: “every piece is based on the uninterrupted repetition of period of unvarying lenght, appearing under the mantle of ever-new variations. Although their art is based on clear mathematical principle, Aka do not have an explicit theory” (Arom-Schoman). Il contrappunto vocale e strumentale favorisce un panorama sonico in cui ognuno esprime la propria individualità nelle variazioni possibili del set, emettendo una polifonia ambivalente, dissonante, complessa, pardossale. La polifonia paradigmatica si costituisce nell’assoluta autonomia di ciascun sintagma vocale che trova congiunzioni assonanti/dissonanti determinate dalla casualità e dalla molteplicità di tutti gli altri strumenti e voci. Ligeti così spiega la sua scoperta di tale paradosso: “the patterns performed by the individual musicians are quite different from those which result from their combination”. E così l’ascolto inizia a percepire una forte tensione interna tra accelerazioni e rallentamenti, tra costanti e alcuni battiti (pulse) varianti: per cui l’assoluta simmetria dell’architettura formale si intreccia con una altrettanto fondamentale asimmetria interna alla divisione in moduli. “What we can wittness in this music is a wonderful combination of order and disorder” (Ligeti). Le fughe soniche esplicitano grafismi asimmetrici, dissonanti e contrappuntistici. Opus. Ora il design come opus dovrebbe apparire chiaro nei suoi molteplici significati e pratiche possibili: posizionarsi come soggetti al di là dello schieramento disciplinare; farsi attraversare dai fili itineranti del disorientamento; fare etnografia, cioè ricerca micrologica sul campo per decifrare i mutamenti disgiuntivi dopo l’era industriale; percepire l’irrompere di nuove culture, l’emergere della tecno-comunicazione digitale e del consumo performativo, il declino del sociale; produrre come activo il nesso fetish oggetto-soggetto basato sull’esperienza di un individuo molteplice (multividuo); immaginare un design sfacciato che somatizza la mimesi. E, infine, disporsi all’ascolto poliritmico e polifonico, contrappuntistico e seriale, alle ambivalenti combinazioni di ordine e disordine, in cui ogni


Reich, quanto le visionarietà per imagos che si possono tradurre in segmenti grafici. Forse i grafismi sono legati più strettamente di quanto si possa immaginare alle dissonanze soniche. In un certo senso il design è sempre anche sound-design. O dovrebbe esserlo. Anzi: vorrebbe esserlo. Nel lavoro come opus, l’etnografo designer si ascolta in quanto traslocante verso paesaggi sonici inauditi. È l’inaudito che sollecita – commuove – l’etno-designer a “sentire” qualcosa di ancora irrappresentato. Non tanto oggetto, forse non più merce immateriale e neanche res: una extrasistole pulsante dell’opus. Fernando e Humberto Campana / Sushi IV, poltrona in feltro, eva, tela gommata, pvc e tessuti su struttura metallica

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ripetizione è nello stesso tempo un’innovazione. E tradurre l’ascolto in design che oltrepassa ordine e disordine, simmetria e asimmetria, spontaneità e regola. Questo incrocio è esemplare per uscir fuori dall’esotismo presente anche in tanta della cosiddetta World Music. Le polifonie Aka – che grossolanamente definisco “etnica” – sono strappate al loro patrimonio localistico, da cui riparte la ricerca etnografica anziché concludersi come in passato. Esse si incrociano con le serialità elettroniche atonali e con le variazioni minimaliste jazz. Influenzano non solo le capacità compositive di Ligeti o


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e Humberto Campana

Fernando e Humberto Campana / Vermelha, sedia / Edra / 1998 pagina a fronte Fernando e Humberto Campana / Vermelha, sedia, fasi di montaggio / Edra / 1998

Fernando Campana Siamo nati in un piccolo paese dove ci sono 48 cascate. Un posto paradisiaco con diecimila abitanti. Ogni fine settimana, quando possiamo, torniamo là. Il nostro lavoro è basato su questa coincidenza, su questo incrocio fra urbano e rurale. Ci sono alcuni paesaggi che possono sembrare un po’ la Toscana, oppure anche altri paesi; dappertutto c’è contatto con la natura. Humberto Campana Fin da quando eravamo piccoli ci interessavano le cose lasciate, abbandonate da qualche parte nel paesaggio. Come alcune piccole chiese e santuari dedicati all’omaggio dei santi. Fernando Campana Nostro padre, che era ingegnere agronomo, ci portava nelle fattorie dove lavorava e vedevamo tante immagini di santi e animali. Tra le tante ricordiamo un Cristo a Rio de Janeiro con tutti gli animali intorno. Ci piaceva vedere le forme, gli specchi, le porte, le sedie. Quando eravamo piccoli ci piacevano gli animali, i castelli, poi diventati più grandi, ci piacciono gli oggetti, e a mio fratello Humberto anche i mobili, le lampade. Io avrei voluto fare un mobile gassoso, fatto in modo che aprendo una caraffa o una bottiglia, il mobile ne uscisse fuori come un genio e che poi si potesse montare. Questo è sempre stato il mio sogno, e ancora adesso è un sogno. Poi abbiamo abitato a São Paulo che è una città molto interessante. Se tagliassimo a strisce questa città, la mescolanza di culture la farebbe sembrare la Cina o un altro luogo. È una città brutta, ma la bellezza della sua bruttezza è molto vibrante. Potrebbe essere il Giappone, o Londra, o la Germania. I nostri occhi si sono fermati a quell’altra parte della città, la parte non globalizzata, quella dove non si trovano Armani, Louis Vuitton, Prada... Questa immagine molto sfocata mostra uno dei fiumi più inquinati del mondo si chiama fiume Tiete e vicino le favelas. La favela è una realtà triste

del Brasile: io e Humberto utilizziamo queste immagini per sensibilizzare su questo problema. Infatti gli amministratori lasciano che le persone realizzino questi progetti, che sono palazzi, senza essere guidati. Invece, se la gente fosse aiutata dagli architetti a fare una pianificazione del territorio ed avesse anche un sistema sanitario di base, potremmo avere dei Guggenheim come quello di Bilbao, perché Frank Gehry, forse, si è ispirato a queste forme. Humberto Campana Il fatto che queste persone lungo le strade facciano queste specie di architetture spontanee, a me piace.

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L’apertura dell’imperfezione

di Fernando


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Fernando e Humberto Campana / Casulo, armadio in ferro e jabuticabeira / 1989

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pagina a fronte Fernando e Humberto Campana / Bolha, sedia in pluriball e struttura in ferro / 1995

Fernando Campana Noi guardiamo sempre con interesse a questi processi costruttivi perché manifestano la forza della mancanza di risorse economiche che abbiamo in Brasile. Noi dobbiamo trovare delle soluzioni di sopravvivenza e non tanto delle soluzioni creative, ed è questo che cerchiamo di portare anche nel nostro lavoro. Questo è un ragazzo che abita sotto un ponte ed ha fatto la sua casa utilizzando solo riviste pornografiche. C’è anche chi usa il corpo per fare un altro oggetto. Questo è un tavolo usato per il gioco dei dadi. Humberto Campana Ci interessa osservare la vita quotidiana di São Paulo e osservare come le persone si organizzano nelle strade. Penso che questa sia la bellezza di São Paulo, una città generosa che fa vedere gli interni della città, i micro-ambiti. Fernando Campana Queste sono chiamate piccole boutique di strada dove si vende dalle fragole a tutto il resto, sono presenti anche nelle piazze, sia dei quartieri ricchi che dei quartieri poveri. In questa immagine ci sono piccole stazioni di servizio che chiamano caffesiño dove si può prendere il caffè o comprare caramelle, sigarette e c’è anche la musica, le ragazze ballano. Anche la mescolanza di varie religioni, tipica del Brasile, ha fatto sì che ci fossero queste boutique dove si vendono articoli religiosi che creano una sorta di sincretismo fra il cattolicesimo ed il candomblé la religione afro; comunque c’è un rapporto strettissimo tra i santi dell’una e dell’altra religione. In un contesto di questo tipo è cominciato il nostro lavoro negli anni Ottanta. Humberto Campana Il nostro design è basato tutto sull’accumulo, sull’eccesso e sulla mancanza della tecnologia. Utilizziamo questa low technology per produrre articoli di lusso, per cui ogni volta diamo spazio all’imperfezione, perché l’imperfezione si interessa al mondo, perché il Brasile è un luogo molto impefetto, molto decostruito. Ma c’è una libertà, in questa decostruzione, che porta allegria, gioia di vivere.


non lascino indietro dei progetti perché non riescono a fare il disegno o perché non trovano i materiali. Per noi, che veniamo da una zona rurale, trovare i materiali è come fare un viaggio in Alaska. Humberto Campana La zona della città dove abbiamo lo studio è un luogo dove nessuno vuole andare perché è decadente e pericoloso, ma a noi questa decadenza piace molto. Fernando Campana Alla fine del giorno vengono messe fuori dalle porte dei negozi le scatole di cartone ed altre carte e successivamente passano ragazze con i carrelli che le raccolgono. Non è certamente un lavoro regolare ma è un modo per cercare di sopravvivere e tutti i poveri sono impegnati a riciclare gli scarti. Humberto Campana Questo è un ragazzo che ha realizzato questa bellissima scritta: “Non ho tutto quello che amo, però amo tutto quello che ho”. Fernando Campana E qui c’è una specie di galleria di arte povera, vi si trovano porte dipinte da

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Fernando Campana Il Brasile è un paese giovane, abbiamo cinquecento anni di storia. E comunque il pezzo di cultura, il pezzo di responsabilità che abbiamo sulle nostre spalle è minore di quello dell’Europa e di altri paesi più antichi, che hanno una lunga tradizione. Noi possiamo ancora scrivere la nostra storia e anche io ed Humberto partecipiamo un po’ a questo. Humberto Campana Sono un avvocato, ho studiato legge ma ho imparato a progettare un oggetto con le mani vedendo, ricordando; tutta la mia memoria non è culturale, non è in qualche libro, ma è visuale. Con le mani ho imparato, facendo, sperimentando… sempre con le mani. Fernando Campana Io sono un architetto e cerco di trasformare queste idee di Humberto in prodotti, in modelli. Quella è la Vermelha che è prodotta in Toscana da Edra. È il primo prototipo realizzato in Brasile. Questa sedia è stata progettata nel 1993 ma solo nel 1998 è stata acquistata da Edra e messa in produzione a livello industriale. Massimo Morozzi, art director di Edra, ha visto questa sedia pubblicata in un libro di interni. Ci ha telefonato a San Paolo; io conoscevo Edra ma non conoscevo tutti i nomi degli architetti, mi ha chiamato dicendo: “Buonasera, io sono Massimo Morozzi”. Ed io gli ho risposto: “Piacere, sono Fernando”. Poi ha continuato: “Allora io voglio questo progetto”. Eravamo perplessi, fino a quel momento avevamo venduto solo cinque esemplari di quella sedia in cinque anni: nessuno in Brasile voleva comprarla. Poi, oltre a questo, c’era il problema di come comunicare il nostro progetto ad una azienda italiana. Avevamo paura a fare dei disegni perché i nostri progetti sono realizzati direttamente in scala 1:1, e solo ogni tanto facciamo qualche schizzo o un registro dei materiali. Io e Humberto ci siamo detti: “Come facciamo a trasmettere in un disegno i tracciati di 450 metri di intreccio?” Così abbiamo deciso di costruire un bigo step by step, con pause. Humberto ha preso la juta, io ho preso la colla e ho fatto i bighi e poi abbiamo realizzato le giunzioni. Poi gli operai ci hanno lavorato da soli, senza alcun controllo da parte nostra. Quando siamo andati da Edra abbiamo visto la sedia nel salone: era perfettamente identica. Abbiamo così imparato che c’erano altri mezzi per trasmettere un progetto, anche senza tecnologia, computer, disegno. Non è una critica verso quelli che usano queste forme, ma è uno stimolo perché


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artisti, immagini di santi, cantanti, io ho comprato una olografia che era la copertina di una rivista antica brasiliana dove ci sono dei santi. Humberto Campana Vedendo questi personaggi che lavorano il cartone abbiamo cominciato a pensare che si poteva lavorare con questo materiale; l’ispirazione è arrivata pensando alla trasparenza della luce. Abbiamo fatto questa lampada che è realizzata con pezzi di cartone incollato.

Fernando e Humberto Campana / Abaixo, sedia in osb / 2003

Fernando Campana È una lampada da tavolo con la base in alluminio estruso. Questo progetto ha richiesto una ricerca sulla diffusione della luce Generata da una lampada alogena) per essere realizzato. In seguito abbiamo realizzato per Edra una produzione di mobili con la struttura metallica ed il cartone compresso. Humberto Campana Plastica: avremmo sempre voluto lavorare con la plastica, ma è molto caro fare le lavorazioni con questo materiale anche perché in Brasile non esistono aziende come Kartell o Magis. Ed allora ci siamo chiesti: “Come possiamo lavorare con la plastica a partire dalla nostra realtà?” Abbiamo cominciato a fare dei “furti” di materiale trovato nelle strade. Fernando Campana Così abbiamo preso questi tubi per innaffiare i giardini ed abbiamo realizzato questa prima sedia con i tubi arrotolati su una struttura. Poi conseguentemente è nata un’altra lampada, Planemona. Humberto Campana Questa lampada è come una decostruzione di trasparenze. Fernando Campana La lampada ha la forma regolare, leggera divertente come venuta fuori da un sogno. È interessante perché permette un progetto più industriale rispetto alla Vermelha che richiede molto più tempo per essere eseguita. Anche gli imballaggi possono diventare dei mobili e abbiamo realizzato una sedia con la plastica a bolle il pluriball. Poi per una mostra Rio de Jeneiro l’ho imballata, sempre con con il pluriball e l’ho spedita. Quando sono arrivato là la sedia era completamente distrutta ed ho chiesto che cosa fosse successo. Gli allestitori mi hanno risposto che dopo aver strappato l’imballaggio avevano cercato la sedia, ma non l’avevano trovata. Così siamo andati a comprare un rotolo di pluriball l’abbiamo tagliato e siamo riusciti a ricostruirla. Nella campagna dove siamo nati crescono rigogliosi gli eucalipti, ma anche gli aranceti e il caffè. In particolare il caffè nel secolo scorso ha richiamato molti italiani. Humberto Campana E questi per noi sono come un duomo, sono grandissimi come una grande cattedrale e nessuno li guarda così. Quello che c’è di bello è il senso di un materiale che si trasforma in un altro materiale.


Fernando Campana Ed infine torniamo a questo design anonimo che abbiamo visto a Salvator de Bahia, che ha un po’ l’assurdità di avere gli angoli rivolti contro il corpo. Nonostante questo, non dobbiamo tralasciare questi progetti perché non hanno funzionalità, oppure perché sembrano non avere possibilità. Può sempre arrivare qualcuno in grado di capire i nostri progetti, ma anche quelli di tanti altri, e condurli ad una forma migliore.

Fernando e Humberto Campana / Sedia Positivo in ferro / 1988

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Fernando Campana Questo è un po’ quello che vogliamo dire con il nostro lavoro: con l’accumulo di diversi materiali, produrre un nuovo materiale o tentare di produrlo. Humberto Campana Cerchiamo la tecnologia più semplice, più banale perché in Sud America non c’è tecnologia. Fernando Campana Oppure quando c’è non vogliono impiegarla per fare i nostri prodotti. Queste sono lampade che adesso sta producendo Fontana Arte. Sono fatte di bambù, alla base c’è un processo semplice, il materiale è curvato, non ci sono colle, sono giocate sulla tensione dei materiali. Anche questi prototipi sono in metacrilati, acrilico e bambù e sono un accumulo come quel duomo. Questo è l’ultimo briefing che abbiamo avuto da Morozzi: creare un imbottito senza struttura. Non avevamo mai fatto in precedenza imbottiti per divano usando tessuti. Nell’immagine possiamo vedere come abbiamo tentato di procedere. Humberto Campana Abbiamo accostato vari tipi di materiale, la gomma, l’antiscivolo, il feltro, un pezzo di moquette, arrotolando questi materiali abbiamo tentato di creare un nuovo materiale. Così è nata la sedia Sushi realizzata da Edra, lo stesso processo costruttivo del California Room. Fernando Campana L’abbiamo chiamata Sushi perché è arrotolata. E questa è una concentrazione dei vari tipi di Sushi incastrata in una struttura metallica. Un altro progetto di imbottito senza struttura è Boa. Io ho distrutto la struttura di Humberto, una palla di tubi fatta di poliuretano. Ho spedito il modello a Edra e dopo un po’ ci hanno chiamato dicendoci che in azienda c’erano pronti dieci pezzi per fare il divano. Quando siamo arrivati là credevamo che fosse già tutto pronto, e invece essendo la prima volta abbiamo impiegato ben tre ore per montarlo… forse volevano vedere come lavoravamo. Humberto Campana Poi abbiamo voluto ingrandire i dettagli della sedia Vermelha perché il primo progetto della Vermelha in ferro e legno aveva una relazione poco forte fra i materiali e l’impugnatura, con qualche complicazione mentale.


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Sergio Fahrer e Christian Ullmann / sgabello in multi laminato di mdf (certificato Fsc) con impiallacciatura prodotta dalla comunitĂ della regione di Vale do Riberira


Ullmann

I. È davvero necessario realizzare un nuovo prodotto? Qual è la sua destinazione finale? Si tratta di domande di grande attualità, quando si parla di design e dintorni. Il design si è guadagnato spazio e credibilità attraverso il marketing ed il mercato, ora è arrivato il momento di confrontarsi con l’etica, ovvero con la limitatezza delle risorse.

sulla qualità della vita e la convivenza sociale. Aggiungo che il processo per arrivare ad un progresso sostenibile, sarà lento ed irto d’ostacoli. Un processo che vedo più emozionale che razionale, più intuitivo che logico, più frammentario che globale: un processo umano, sociale ed imperfetto, naturalmente imperfetto.

II. Il design è una modalità della produzione industriale che continuamente si modifica, è ciclica. Le soluzioni individuate sono rappresentative di un’epoca, di vita individuale e sociale, di un percorso di adattamento alla complessità dell’esistere. È piuttosto interessante rilevare come un piccolo cambiamento possa influenzare le nostre vite, secondo una responsabilità diffusa che coinvolge ognuno di noi. Promuovere e sviluppare un dibattito significa fare design. Intanto va detto che le grandi potenzialità del Brasile scaturiscono dalla sua biodiversità, unica al mondo; e dunque dalla possibilità di creare una serie di prodotti altamente sostenibili: gomma, fibre, resine, cuoio vegetale.

IV. L’imperfezione è una delle caratteristiche dei prodotti delle comunità artigianali brasiliane. Ciò le differenzia dal mercato tradizionale. Si tratta dei prodotti del Commercio Equo e Solidale: un’alternativa che, al momento, rappresenta lo 0,01 del mercato mondiale. È comunque l’unica soluzione per migliaia di artigiani e comunità indigene di origine africana (quilombolas), comunità costiere (caiçaras), delle zone fluviali (reiberinhas) o meticce (cabocias), ed ha come obiettivo il creare una prospettiva per chi è escluso dal mercato convenzionale e dalle sue regole – rivolgendosi ad un pubblico avvertito ed a un consumatore cosciente. Per un designer, rappresenta una nuova ed allettante sfida: partecipare, attraverso competenze e tecnologie innovative, ad un insieme di valori culturali, etnici ed ambientali. Dietro ciascun prodotto, si può ritrovare il recupero delle abitudini, una valorizzazione delle culture locali, la sedimentazione delle tradizioni, l’adattamento sociale all’interno dei limiti comunitari; e tutto ciò è perfettamente coniugabile ad un consumo cosciente e solidale. In questo caso emerge come le responsabilità del designer vanno molto al di là di un’invenzione creativa correlata al lancio di un nuovo prodotto. È infatti per lui indispensabile soppesare ogni aspetto d’impatto ambientale, sociale, ecologico – dalla materia prima al suo smaltimento – perché si realizzi quella virtuosa comunione fra coerenza e funzionalità che individua un progetto accettabile. Design responsabile, consumo cosciente, produzione adeguata, possono preservare la vita delle generazioni future – e la discussione in merito può dirsi appena iniziata.

III. L’industria non può limitarsi alla collocazione di prodotti sul mercato: al fine di costruire una società più giusta, la nostra ambizione deve essere quella di rendere sostenibile ogni tappa, ogni passaggio, riunendo teoria e pratica. Intanto il mondo è per sua natura limitato: le risorse naturali non sono né infinite né eterne, la biosfera corre rischi di contaminazione irreversibile, la disparità fra paesi poveri e ricchi è un abisso che si allarga, gli sconvolgimenti che ciò potrebbe comportare sono altrettanto evidenti o comunque prevedibili. Di solito i designers vedono i problemi attraverso una lente, per così dire, logico-sequenziale, dalla quale discendono risultati originali ovvero ordinari. Ma io credo non esista una risposta univoca, ma che dovremmo ingegnarci per trovare risposte adeguate, ad hoc, intervenendo

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Officina Nomade. Per la valorizzazione della cultura locale

di Christian


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V. Si tratta dunque di sviluppare soluzioni aperte che possano essere modificate. Perché ciò accada è indispensabile lavorare con le microindustrie che hanno maggior flessibilità, essendo in grado di variare la produzione e creare una concorrenza laddove la tecnologia passa in secondo piano, rispetto all’invenzione ed originalità del manufatto. L’idea consta nella realizzazione di una linea di prodotti utilizzando una complessità tecnologica minima, generando nuove opportunità per una manodopera esperta e creativa, valorizzando al massimo gli apporti della cultura locale, realizzando i processi di trasformazione il più vicino possibile alla stessa materia prima, ottimizzando le risorse naturali disponibili. Nonostante un panorama globale del tutto scoraggiante, va ricordato che proprio le Christian Ullmann / accessori per la casa in residuo forestale ed industriale di legno amazzonico nativo ed alluminio riciclato pagina a fronte Tania de Paula e Christian Ullmann / centrotavola con piano in ceramica nera di tradizione indigena del paese di Iguape e cipò intrecciato realizzato dalla comunità artigianale di Pariqueira-Açu

epoche di crisi possono suggerire soluzioni alternative. Occorre rispettare caratteristiche e differenze ambientali. Officina Nomade opera proprio in questa direzione: è un progetto per realizzare prodotti legati allo sviluppo sostenibile, creare un nuovo equilibrio fra necessità, mercato, e qualità di vita in Brasile. Il nostro lavoro concerne nell’identificare, rispettare e valorizzare la biodiversità ed i suoi ritmi: proponendo ricerche, creando packaging innovativi ed adeguati, coordinandone l’immagine, organizzando eventi, facendo leva sulle straordinarie capacità della nostra gente.


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Pur muovendo dagli stessi principi, a differenza del lavoro presentato da Christian Ullmann, la mia attenzione è rivolta a contesti urbani nel tentativo di verificare il contributo che, dal mondo del design, può venire allo sviluppo di Organizzazioni non Governative che operano nelle favelas di São Paulo. Tra le azioni che ho promosso, mi piace qui ricordare Design Possibile. Per comprendere gli obiettivi del progetto occorre ricordare il momento della sua gestazione: l’incontro, quasi casuale, tra il sottoscritto docente all’Università Presbiteriana Mackenzie di São Paulo e Giuseppe Lotti dell’Università di Firenze nell’aprile 2004 in occasione del Salone del Mobile di Milano: in una notte tipicamente italiana condita da buon cibo e vino in una calorosa discussione sul design e sui suoi destini. È in questo clima che è nata tra noi un’empatia che ha portato ad una reciproca curiosità e che ha generato il lavoro di Design Possibile. Una prima conferenza all’Università di Firenze qualche giorno dopo, lo scambio di idee a distanza ed un nuovo incontro nel novembre 2004 ancora a Firenze hanno portato alla definizione della proposta di collaborazione su cui si basa il progetto, che oggi ha generato prodotti ma anche una rete di confronto, scambio, amicizia tra tutti i partecipanti. Così i due docenti hanno coordinato, ognuno nel rispettivo paese, le tappe successive arrivando allo sviluppo di una linea di prodotti di arredo e complementi progettata dagli studenti dei due paesi in forma di cooperazione e realizzati da Organizzazioni non governative – Aldeia do Futuro, Florescer, Monte Azul, Projeto Arrastão – che operano nelle favelas di São Paulo del Brasile riutilizzando scarti di produzione industriale (jeans, legno, tessuti in genere, pvc proveniente da pannelli pubblicitari). Una fusione di culture, progettualità, tecnologie e tipologie produttive alla ricerca di risultati sociali, ecologici, estetici e commerciali innovativi. Il gruppo di lavoro brasiliano ha operato attraverso una fase di ricerca ed

Pons

pagina a fronte Ivo Pons / Ouriço, pouf in jeans di recupero / Florescer

acquisizione dei dati relativi alle ONG ed al loro lavoro, con l’obiettivo di individuarne le potenzialità ed i limiti. La prima sfida è stata quella di registrare le visite ai luoghi di lavoro, alle officine, ai laboratori, in modo da poter inviare dati ma soprattutto impressioni e sensazioni ai partecipanti italiani. Per questo sono stati organizzati incontri nelle strutture selezionate, è stato fatto un campionario dei semilavorati e prodotti attualmente realizzati; il tutto documentato con foto, video ed interviste. Con l’occasione, alcuni studenti brasiliani sono entrati per la prima volta in una favela; nonostante molti di loro convivano quotidianamente con questo scenario, pochi fino a quel momento si erano preoccupati di oltrepassare la barriera della paura, del preconcetto e dell’insicurezza. Una comprensione della realtà tipica delle favelas ancor più difficile per gli studenti italiani. Il materiale raccolto è stato inviato così all’Università di Firenze e presentato attraverso video e campioni, comunicando, per quanto possibile, informazioni sulle condizioni di lavoro, sui materiali, sulle caratteristiche sociali e culturali delle ONG. Per “entrare” nel progetto è stato necessario vivere il Brasile, la favela, le persone che vi abitano. Il racconto è stato affidato anche alla musica di accompagnamento dei video ed alla grande quantità delle immagini che illustravano questo nuovo, lontano ed un po’ esotico paese agli occhi degli italiani. Carichi di stimoli, gli studenti – 10 brasiliani ed altrettanti italiani – hanno iniziato a sviluppare i progetti, con una forte condivisione delle proposte al fine di superare o, quanto meno, limitare le difficoltà. In questo processo è emerso chiaramente il diverso approccio progettuale dei due paesi: quella che inizialmente poteva sembrare una differenza insormontabile è diventata, strada facendo, una potenzialità. I diversi modi di pensare, nella complementarietà, hanno dato una forza al progetto che solo la cooperazione effettiva è capace di creare.

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Design per le organizzazioni non governative

di Ivo


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Cercando di approfondire la cooperazione, nel gennaio 2005, in una riunione a Firenze, con la presenza dei 10 alunni italiani selezionati e dei due docenti responsabili sono state create coppie di lavoro con uno studente per ogni università, al fine di rendere il legame più forte e favorire la realizzazione dei prototipi da parte delle ONG. Tra febbraio e marzo 2005 – in tempi assai veloci – i prototipi dei prodotti sono stati sviluppati e realizzati dalle ONG; il tutto con un forte coinvolgimento degli artigiani che, a garanzia dell’inclusione della comunità nella produzione, hanno modificato i progetti in funzione delle possibilità realizzative. Le difficoltà e le modifiche necessarie sono state comunicate alle rispettive coppie di studenti ed al coordinatore del progetto in Italia, in modo da ottenere una condivisione totale. Ad ogni visita alle ONG aumentava l’apprendimento degli studenti, in una azione pratica non più all’interno della rete protettiva dell’università ma in un continuo confronto con la realtà “vera” della produzione. Parallelamente si realizzava anche

una crescita degli artigiani e dei responsabili delle ONG; mai avevano sviluppato tanti nuovi prodotti in così poco tempo. Il confronto ha mostrato un universo di possibilità, capacità e strade che hanno portato ad un nuovo stadio della produzione e della relazione artigiano (appartenente ad una ONG)-designer. Gli obiettivi, la sequenza del lavoro e, soprattutto, i 20 prototipi sono stati presentati al Salone del Mobile di Milano, in un Fuori Salone presso Ibrit – Istituto di Cultura Brasile-Italia. Nell’esposizione emergevano chiaramente i contenuti del progetto, l’intensa collaborazione tra gli studenti, le motivazioni sociali e la nuova prospettiva di lavoro del design come terzo settore. Nel luglio-agosto 2005 la curiosità ha portato in Brasile gli studenti Daniele Chiarantini, Claudia D’Aniello, Maddalena Vantaggi, Laura Sandroni, Ilaria Serpente, Marcella Foschi per la realizzazione di una seconda generazione di prodotti di Design Possibile e per la definizione di una serie di azioni legate alla comunicazione – realizzazione del sito internet e video esplicativi. Si è stabilito così un più stretto legame tra gli studenti italiani e brasiliani, le ONG e gli artigiani, attraverso le molteplici esperienze progettuali e culturali vissute. È stato durante la visita degli studenti italiani in Brasile che è emerso uno dei risultati più importanti della cooperazione, il lavoro di Marcella Foschi e Danielle Alcantara che sono riuscite a concludere il loro corso di studi con un prodotto unico – una seduta multiuso in lona, pvc da banner pubblicitari – progettato a quattro mani. Frutto dell’elaborazione creativa cooperata degli studenti, dei loro professori-relatori di tesi, delle ONG, degli artigiani. Un risultato che traccia nuove strade da percorrere e individua altre barriere da superare per raggiungere l’obiettivo ultimo che muove l’intera esistenza.


Maddalena Vantaggi / oMo, pouf da compagnia / Projeto Recicla Jeans

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pagina a fronte Laura Passalacqua / Uma Otra Gamba, pouf angolare / Projeto Recicla Jeans


Be Takerng Pattanopas e Pim Kongsangchai Sudhikam / 58collezione Lampu, disegnata appositamente

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per la ComunitĂ Ampawa


Nazionalismo vs progresso Dovendo offrire un regalo ad ospiti stranieri, un thailandese, nella maggioranza dei casi regala un oggetto della tradizionale ceramica policroma dipinta a mano in stile Benjarong. La maggioranza dei thailandesi è convinta che questo tipo di ceramica rappresenti qualcosa di essenzialmente thai. La società thailandese è stata oggetto di un’impressionante campagna mirata a promuovere la ‘thailandesità’ – un’identità nazionale immaginaria che si ritiene esista a diversi livelli culturali, incluso quello dell’artigianato tradizionale. Questo tipo di battage è assai problematico e confondente: poiché dà per scontato che vi sia omogeneità all’interno della cultura thai, e che questa non possa (e non debba) essere modificata. Questa convinzione si fa pesantemente sentire nel disegno di Benjarong, come si evince dal fatto che nei testi sul Benjarong si insiste senza eccezione sulle regole rigorose ereditate dagli antichi maestri. Tali regole, che si occupano dell’uso dei colori, di motivi, disegni, e forme, sono la struttura del Benjarong. Gli esperti di Benjarong – per la maggior parte storici e maestri artigiani che lavorano per il governo come educatori e/o conservatori – enfatizzano quest’ideologia nazionalista che ormai da tempo domina il dibattito pubblico sull’artigianato tradizionale thailandese. E gli artigiani delle zone remote, che continuano a produrre Benjarong, considerano queste regole alla stregua di dogmi. Purtroppo, se dal punto di vista della conservazione è necessario aderire ad un tradizionalismo vetusto, quando ci si deve invece occupare di come esportare prodotti di artigianato tradizionale in altre parti del mondo ciò diventa di colpo irrilevante. I gusti e le preferenze delle persone cambiano enormemente da un paese all’altro; e i prodotti da esportare devono corrispondere ai bisogni dei consumatori in diverse parti del mondo. Chi si occupa di commercio internazionale ha già da tempo riconosciuto

Kongsangchai Sudhikam Be Takerng Pattanopas

come i gusti delle persone siano in uno stato perenne di flusso, che dà origine a mode e tendenze che si alternano. Ma gli ideologi nazionalisti thailandesi ritengono che, in virtù della ricchezza culturale del patrimonio thailandese, oggetti prodotti seguendo in tutto e per tutto i disegni tradizionali possano imporsi presso i consumatori di qualunque parte Be Takerng Pattanopas e Pim Kongsangchai Sudhikam / collezione Lampu, disegnata appositamente per la Comunità Ampawa

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Tradizione sotenibile. Una ricerca sul Benjarong contempraneo di Pim


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del mondo. È probabile che questa forma di nazionalismo sia il maggiore ostacolo allo sviluppo di nuovi disegni di Benjarong. Ed è questo il punto di partenza del progetto di ricerca sul Benjaron contemporaneo, da noi condotto. Il contesto storico Le analisi condotte in sede specialistica hanno dimostrato che la ceramica Benjarong non è mai stata un prodotto puramente thailandese, poiché per varie centinaia d’anni venne importata dalla Cina. È importante ricordare questo fatto: che palesemente contraddice la diffusa credenza che il Benjarong sia intrinsecamente thai. Per secoli gli oggetti di Benjarong vennero prodotti in Cina secondo disegni thai; furono particolarmente ricercati dalla corte thailandese e dalle élites del paese a partire dal periodo Ayudhaya (circa 1400 a.C.) sino all’inizio del ventesimo secolo. Non è secondario notare che tali disegni erano notevolmente influenzati da tessuti indiani dipinti a mano (Dharmapreechakorn & Pinsri, 1990). La produzione di Benjarong raggiunse il suo culmine sotto Rama II – Chulalongkorn (1909-1910), durante il cui regno fu ideata e prodotta una quantità innumerevole di disegni d’elevatissima fattura ancor oggi ammirati. Una delle collezioni di Benjarong d’inestimabile valore risalente a quest’epoca fu prodotta nella fabbrica di ceramiche di Sèvre. Col finire del regno di Chulalongkorn la ceramica di Benjarong iniziò a perdere il favore dell’aristocrazia, che si indirizzò su prodotti di lusso, ma di fabbricazione industriale, di provenienza occidentale. Contemporaneamente la Thailandia smise di produrre Benjarong in Cina e Francia; e solo recentemente – a partire circa dal 1950 – gli artigiani thailandesi sono stati in grado di produrre Benjarong in proprio a fini commerciali (Nagbua, 2002). In ogni caso questa produzione di Benjarong si è limitata alla riproposizione di disegni tradizionali: in alcuni casi anche a quella di falsiantichi. Come risultato, per quasi cento anni la produzione di Benjarong è rimasta, per quel che riguarda il disegno, “congelata”. Ed oggi, nei mercati, s’incrociano souvenir in stile Benjarong: imitazioni di disegni tradizionali del tutto irrilevanti per il gusto di un pubblico di contemporanei. Dal punto di vista del disegno era quindi evidente che – nonostante un livello di produzione piuttosto alto – l’industria di Benjarong si trovava in una fase di pronunciato declino. Nel corso degli ultimi decenni l’industria del Benjarong si è scontrata con

una serie di problemi; tant’è che ci sono state numerose iniziative da parte di singoli, organizzazioni private o governative, per cercare di innovarne il disegno tradizionale. Tali sforzi – per quanto riguarda il disegno – sono però per lo più falliti. Hanno prodotto anche qualche successo, ma senza alcuna garanzia di sostenibile continuità. Le cause sono da ricercarsi nei complessi problemi legati alla ceramica Benjarong. Nuovi disegni di Benjarong possono avere successo a patto che i designer approfondiscano sia la storia del Benjarong che i suoi usi e la sua posizione: in una prospettiva mercantile prevalentemente occidentale. Inoltre i designer devono tener presente il continuo avvicendarsi delle mode – nonché gli straordinari problemi tecnici legati all’uso dei colori e la loro compatibilità con gli smalti. Ricerca come contributo al sociale Il problema di come posizionare la ricerca universitaria all’interno della pratica, così da contribuire allo sviluppo delle comunità rurali, è recentemente diventato in Thailandia argomento di interesse nazionale. Abbiamo deciso di svolgere il nostro progetto nel distretto di Ampawa che si trova nella regione di Samutsongkram, circa 75 km a sud-ovest di Bangkok. Ampawa era il luogo di nascita della famiglia materna del re Rama II, che è stato uno dei più splendidi mecenati che la Thailandia abbia mai conosciuto. Il livello raggiunto dalla promozione e commissione delle arti tradizionali durante il suo regno rimane ineguagliato. A causa di questo legame con la casa reale, Ampawa è stata al centro di una tradizione di artigianato d’eccellenza, soprattutto Benjarong, per quasi un secolo. E ciò spiega l’eccezionale numero d’artigiani che si dedicavano al Benjarong presenti in questa zona. Nel passato Ampawa era un ricco porto fluviale su cui convergevano imbarcazioni e navi container e in cui il commercio era fiorente. Negli ultimi sessant’anni però il trasporto su strada e su rotaia è diventato dominante in Thailandia, sostituendo per la maggior parte quello fluviale, e di conseguenza il futuro di Ampawa appariva incerto, con gli artigiani di Benjarong particolarmente preoccupati per la mancanza di lavoro (Peerapun et al., 2002). Lo scopo principale di questa complessa ricerca è stata la creazione di nuovi posti di lavoro: al fine di generare guadagni adeguati per gli artigiani della zona. La collaborazione tra l’Università e la Comunità si è svolta per ambiti paralleli. La ricerca tecnica relativa ai disegni è stata


Metodologia e Ricerca La nostra ricerca si è prefissata di creare nuovi disegni per il Benjarong; e quindi si è trattato di tutt’altro che di un progetto di conservazione. Dal punto di vista del disegno abbiamo visto nel Benjarong una tecnica di decorazione della ceramica che può portare un notevole valore aggiunto a oggetti di ceramica industrialmente prodotti. Trovare un equilibrio tra l’antico ed il nuovo è stata la sfida più complessa. Il rapporto tra vecchio e nuovo non riguardava d’altronde solo il disegno, ma anche le tecniche di produzione. Oltre a ciò i nuovi disegni dovevano essere in grado di rispondere ai gusti dei consumatori: mantenendo allo stesso tempo una riconoscibilità per quanto riguarda lo stile e le caratteristiche di decorazione a mano. Fin dall’inizio ci è parso evidente che i disegni per il Benjarong novello non si dovevano limitare ai mercati esistenti (locale, turistico ed arabo), ma dovevano portare all’espansione del Benjarong sui mercati europei e americani. Avevamo inoltre l’obiettivo di migliorare le modalità tradizionali di produzione mediante l’introduzione di tecnologie innovative. A ciò va aggiunto il fatto che era necessario provvedere a un piano di business start-up, per garantire la sostenibilità commerciale del progetto. Ed era evidente come il suo successo dipendeva dall’integrazione di diverse competenze, di conoscenze specifiche che vanno dal disegno vero e proprio, alla tecnologia della ceramica, all’imprenditoria commerciale. Per strutturare tutto ciò, abbiamo rispolverato un metodo illustrato per la prima volta nel 1769-1776 da Joshua Reynolds: il presidente e fondatore della Royal Academy of Arts di Londra, poi ripreso e ampliato da Stonyer (1978), Frayling (1993/94), Elinor (1997), Gray (1998) e Pattanopas (1999, 2000, 2003). In termini di ricerca teorica, ciò significa svolgere investigazioni in primis per ciò che concerne i disegni: quacosa di simile a ciò che accade nei laboratori scientifici. Si è trattato di applicare nuovi processi disegnativi al fine di creare delle originali decorazioni di Benjarong, a cui sono seguiti altrettanti prototipi. I prototipi sono a loro volta diventati oggetto di ricerca e sono stati analizzati, contestualizzati ed infine riprodotti in serie.

Nuovi argomenti per un nuovo design Nel corso di un’inchiesta preliminare abbiamo riscontrato che potenziali acquirenti occidentali trovano difficile inserire oggetti Benjarong all’interno del loro contesto domestico. La difficoltà è legata ai disegni in generale, alle forme, i motivi e i colori. Questo dato conferma il nostro scetticismo riguardo la possibilità di imporre il concetto di “Thailandesità” all’export di prodotti artigianali. Da ciò l’urgenza di proporre un discorso alternativo a quello dominante: quello che continua ad insistere sulla purezza e sulla Thailandesità del Benjarong. L’analisi dei testi specialistici ci ha portato a concludere che la ceramica Benjarong rappresenta una prova empirica della posizione culturale della Thailandia, che è quella di un melting pot tra le due principali culture asiatiche: quella cinese e quella indiana (Pattanopas & Kongsangchai, 2003). Questo punto di partenza ci ha permesso di formulare un discorso alternativo sul Benjarong, che giustifichi l’uso di influenze culturali disparate per creare nuovi disegni. I designer thailandesi contemporanei possono trarre ispirazione dalle culture visuali della regione, in particolare quella cinese e quella indiana, come accadeva d’altronde ai loro predecessori. Tuttavia è indispensabile che essi conoscano le tradizioni, e che allo stesso tempo s’immedesimino nelle tendenze contemporanee – segnatamente per ciò che concerne il gusto degli acquirenti occidentali. Epperò neppure quest’ottica rinnovata è in se stessa sufficiente alla ripresa del Benjarong: come è stato d’altronde dimostrato dai numerosi fallimenti nel passato. C’è infatti un decisivo e fondamentale fattore che limita la crescita fattiva del Benjarong: si tratta del processo di produzione. Un processo dettato dal disegno Ad onta delle attuali oscillazioni del gusto degli acquirenti di ceramica, nei decenni successivi all’introduzione del Benjarong in Thailandia i motivi ed i disegni della ceramica si sono evoluti con estrema lentezza. Ci sono due ragioni che spiegano questo fenomeno. Intanto il metodo tradizionale di trasferimento di un motivo o disegno su un oggetto di porcellana richiede la mano ferma di un artigiano molto esperto. Il processo tradizionale per l’applicazione di motivi Benjarong inizia con il disegno a matita dei contorni sulla superficie libera del vaso. In un secondo momento questi contorni sottilissimi vengono meticolosamente ripassati con uno smalto dorato. Infine viene dipinta la superficie

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condotta nel laboratorio di ceramica del Dipartimento di Tecnologie e Design presso la Chulalongkorn University – mentre le innovazioni proposte sono state testate da un gruppo di artigiani volenterosi di Ampawa.


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racchiusa all’interno del contorno dorato. Tracciare con precisione delle linee su delle superfici curve richiede un livello di abilità che non tutti gli artigiani posseggono. Dai dati della ricerca emerge che all’interno di una linea di produzione tradizionale di Benjarong meno del 20% degli artigiani è in grado di svolgere questa mansione. A ciò si aggiunga che l’apprendimento di nuovi motivi richiede un tempo assai lungo. Più i nuovi motivi sono complessi, più tempo ci vorrà per apprenderli, e dunque minori saranno i guadagni per l’artigiano. Per risolvere questo problema abbiamo introdotto la decalcomania nella produzione di Benjarong. La decalcomania è un metodo attraverso cui si trasferiscono motivi stampati su superfici di ceramica smaltata. L’uso della decalcomania in questa ricerca ai fini dell’innovazione risulta da una combinazione di disegno a mano e stampa. La decalcomania permette di tracciare il profilo di un motivo Benjarong in qualunque colore (oro, argento, rame e platino), stamparlo su carta speciale e in seguito trasferirlo sulla superficie dell’oggetto. Colori a smalto vengono in seguito usati per riempire la superficie dentro i contorni: dopo di che il vaso è pronto per essere introdotto nel forno di cottura. Il risultato principale di questo nuovo metodo di produzione è che non è più richiesto un livello d’eccellenza per disegnare contorni direttamente sugli oggetti in ceramica. Prima dell’introduzione di questo nuovo metodo di produzione, abbiamo condotto vari esperimenti sia nei laboratori universitari che presso gli artigiani di Ampawa. Sono stati apportati continui miglioramenti a questa procedura, sempre in stretta collaborazione agli artigiani. Grazie ai suggerimenti d’esperti chimici, siamo stati in grado di trovare sostanze appropriate che non disturbano gli artigiani durante il disegno a mano (ad esempio: gli artigiani hanno rifiutato una sostanza a base d’olio a causa della viscosità e del cattivo odore). L’uso della decalcomania ci ha infine permesso di creare nuovi disegni al computer ed originali campioni di colore che possono essere prodotti in un tempo relativo e reso veloci le procedure attraverso files inviati in tipografia. Per molti decenni il Benjarong è stato creato da artigiani delle zone rurali, la maggior parte dei quali tendeva alla ripetizione di motivi tradizionali con infimo tasso d’innovazione; di conseguenza sia i motivi che la tavolozza di colori del Benjarong sono rimasti limitati. L’uso della decalcomania, ovvero la combinazione di stampa e disegno a mano, ha cambiato questa situazione collocando il designer all’inizio del processo di creazione e pro-

duzione. Allo scopo di valutare i gusti in fatto di oggettistica di potenziali clienti europei e americani, ci siamo avvalsi di informazioni fornite da analisti di tendenze di mercato fra Parigi e New York. Ciò ha permesso di selezionare alcuni schemi cromatici nonché motivi che sarebbero stati di moda nell’anno successivo. La dicotomia globale/locale L’evolversi delle preferenze dei consumatori da una stagione ad un’altra, ha richiesto un aggiornamento dei colori tradizionali del Benjarong. Per artigiani residenti in zone rurali, che dispongono di conoscenze tecniche limitate, questo non è affatto semplice. Poiché i colori a smalto reagiscono chimicamente l’uno con l’altro creando mélange, il mescolarli può essere un’operazione complicata: a differenza di quanto avviene con i colori a pigmento, quali l’olio, l’acquarello o la tempera. Ciò ha notevolmente frustrato i successivi tentativi degli artigiani di modificare la tavolozza del Benjarong. La soluzione al problema è emersa dalla collaborazione con ricercatori specializzati in ceramica, i quali hanno ideato una nuova formula per i colori a smalto che permette una tavolozza rinnovata quanto sviluppata in sintonia con le mode attuali. E ciò con la collaborazione di un équipe d’esperti in marketing situata a Parigi. La selezione dei colori ha comunque richiesto un’estrema attenzione: tant’era importante mantenere un’impronta asiatica nei disegni. Per quel che riguarda le tipologie, di norma, gli oggetti Benjarong riproducono piatti e scodelle: scodelle col coperchio e barattoli – servizi da tavola tradizionali thailandesi. A queste tipologie di oggetti corrispondeva nell’antica tradizione thailandese una funzione specifica che è assente in un contesto occidentale. I Thailandesi stessi usano oggi tali oggetti solo raramente. Quindi le riproduzioni di oggetti Benjarong – allineati secondo una deriva tradizionale – diventano solamente una paccottiglia esotica per turisti stranieri ovvero un feticcio nostalgico per un numero ristretto di Thailandesi. A ciò si aggiunga che la forma tradizionale dei barattoli con coperchio ricorda a un occidentale la forma di un’urna funeraria! Cio nonostante, abbiamo riscontrato attraverso un’inchiesta che – sia i consumatori occidentali che gli addetti all’export internazionale – ritengono che gli oggetti Benjarong, ed in particolare vassoi e insalatiere di medie dimensioni, possano adattarsi a un contesto occidentale come og-


Be Takerng Pattanopas e Pim Kongsangchai Sudhikam / esempi di pattern come rielaborazione di motivi e decorazioni Navarong

È stato deciso di usare per il Navarong alcuni motivi tratti dalla botanica, dalla ricerca genetica e dalla cosmologia contemporanea. La traduzione di questi temi in nuovi motivi – che allo stesso tempo riflettessero caratteristiche Thai o asiatiche – è stata un’operazione estremamente complessa. La nuova decorazione è stata chiamata Chakra: parola sanscrita che significa galassia ovvero movimento rotatorio. Si è inoltre sperimentato una serie di combinazioni di motivi che non erano mai apparsi nella tradizione Benjarong. Abbiamo ad esempio usato l’idea del sintao (ovvero il modo per dividere le scene che proviene dalla tradizione dei dipinti murali thailandesi) e persino il collage. Questo ci ha condotto a produrre dei motivi a vari strati assai più complessi dei tradizionali motivi a merletto. E quest’ultimo esperimento ha riscontrato un notevole successo: tanto che la collezione Malila-Lace – basata su due gruppi di motivi strettamente intrecciati – ha vinto in Thailandia, nel 2004, il premio per il miglior design per servizi da tavola organizzato da “Elle Décor”. Possiamo senza dubbio affermare che sia dal punto di vista della ricerca che da quello del design il progetto ‘Benjarong contemporaneo’, ed i prodotti del nuovo Navarong, hanno avuto un grande successo. I prodotti sono stati regolarmente menzionati e apprezzati da studiosi, designer e commercianti in tutto il mondo. Questo purtroppo non ha garantito il successo commerciale dell’iniziativa. Dopo un anno, e a causa di molti problemi imprevisti, legati in particolare al marketing e al management, More Pun ha dovuto cessare la sua attività. Però il seme dell’innovazione continua a voler crescere.

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getti decorativi nei salotti o sulle tavole da pranzo. Abbiamo quindi cercato di applicare i nuovi motivi e disegni su semplici forme circolari che funzionano come una tela nuda – da riempire con decorazioni a smalto. Questi nuovi oggetti continuano a essere prodotti, secondo la tradizione del Benjarong, in porcellana bianca smaltata. In stadi successivi del progetto, si è anche sperimentati smalti colorati, nuove tipologie e nuove funzioni al fine di preparare il terreno a nuovi scenari. Se da un lato viene richiesta un’evoluzione sempre più rapida del Benjarong per venire incontro alla clientela internazionale, è insieme altrettanto necessario mantenerne l’identità. Sicché ci siamo trovati schiacciati in una dicotomia lacerante composta da tradizione ed innovazione. Tuttavia – una volta compiuto una seria ed esaustiva ricerca sui motivi tradizionali del Benjarong – eravamo determinati a trasferire gli stili tradizionali in un contesto contemporaneo; e ciò è stato possibile tramite l’adozione di alcuni temi che rappresentano, almeno in parte, lo Zeitgeist di quel peculiare momento. Nel corso del 2003-2004, al termine del completamento del progetto, ci siamo autofinanziati per sviluppare ulteriormente i disegni; e stipulare una business venture designata More Pun che presenta un’ampia collezione di Navarong – ovvero il Benjarong rinnovato. Tramite questa attività, alla quale hanno partecipato in qualità di fornitori gli artigiani di Ampawa, abbiamo voluto continuare la nostra missione, che è quella di aiutare le popolazioni locali e sostenere le tradizioni artigianali con interventi mirati.


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Pitture rupestri delle grotte di Tassili pagina a fronte Chérif / culla per bambini

Cercherò di presentarvi il mio lavoro e di condividerlo con voi. Non è facile farlo in così poco tempo, ma vi illustrerò il mio percorso con l’aiuto di immagini. Nelle mie origini ho una nonna corsa, un padre algerino e una mamma di origine marocchina e spagnola – il Mediterraneo è dunque in me. Anche se non di proposito, forse inconsciamente esprimo le mie origini senza tuttavia rivendicarle. Inizialmente ho studiato arti plastiche, vale a dire, scultura, pittura, espressione libera; poi ho studiato architettura. Quando mi sono avvicinato all’architettura ho notato che le mie idee rimanevano sulla carta, non venivano realizzate. Per questo motivo ho scelto il design, perché per me rappresenta una buona sintesi tra arti plastiche e rigore architettonico. Ho iniziato ad esprimermi realizzando io stesso pezzi unici, prevalentemente con il legno, poi progressivamente introducendo anche altri materiali come la corda e il vetro. All’inizio le forme venivano dal regno animale, e ciò che a me interessava era di ricercare una dimensione nascosta delle cose per poi avvicinarmi alla funzione, che in effetti non era visibile di primo impatto. Bisognava dunque imparare a scoprire l’oggetto a mano a mano che se ne capiva la funzione. Durante questo periodo mi sono interessato molto di arte etnica e tutte le mie ispirazioni venivano da disegni rupestri che richiamano la libertà del gesto; per me questi disegni, così antichi, rimangono immortali e attraversano il tempo. Vi farò vedere alcuni oggetti che all’epoca mi hanno lasciato il segno, erano la mia sorgente d’ispirazione. In seguito vi mostrerò alcuni oggetti dove l’utilità e la forma sono perfettamente legate tanto che, da un certo punto in poi, diventano inscindibili l’una dall’altra. Ecco alcuni disegni rupestri delle Grotte del Tassili, regione sub-sahariana, che assomigliano un po’ ai disegni delle Grotte di Lascaux, anche se vi è una differenza nella linea. In questo caso i disegni sono molto più lineari,

le linee più tese rispetto ai disegni di Lascaux. Sono prevalentemente scene di caccia o rappresentazioni della vita quotidiana. Ed ancora prodotti che hanno ciascuno una provenienza diversa: un cucchiaio sudafricano, un altro della Costa d’Avorio e oggetti provenienti dall’Alaska; sono rappresentate due regioni del mondo completamente diverse: il Sud e il Nord, me quello che è interessante è che vi è la stessa volontà di comunicare negli uomini della preistoria e troviamo anche una certa similitudine nel modo in cui essi si sono espressi. Un altro aspetto interessante è che l’uomo preistorico concepiva l’oggetto utile con una grande dimensione estetica. Ecco alcuni oggetti che all’epoca mi hanno affascinato molto; si tratta di appoggiatesta, anche in questo caso la provenienza è diversa: Etiopia, Egitto. Come avete potuto notare tutti questi modelli sono o di pietra o in legno. Ciò che mi ha sedotto è il lato spirituale di questa tipologia di oggetti che occupa un posto di rilievo rispetto alla funzione. A priori non sembra un oggetto molto confortevole dato che è fatto o di pietra o di legno ma la cosa interessante è che all’epoca veniva considerato un supporto per i sogni. Negli anni ‘40, una tribù africana è stata seguita da un sociologo inglese. Ogni membro delle tribù portava il suo appoggiatesta alla cintura e ognuno di questi era realizzato da colui che lo usava. Si tratta quindi di un oggetto molto personale e la scelta dei disegni ha una relazione diretta col sogno. In uno dei suoi libri, il sociologo inglese racconta che durante le notte c’era chi si svegliava per raccontare il proprio sogno che veniva poi interpretato da ogni altro membro della tribù. Quello che a me interessava era questo legame tra il lato spirituale, la funzione e la forma di questi oggetti. Penso che le “cose” che ci sono stati tramandate nel tempo abbiano una presenza spirituale e fisica e per me sono oggetti intramontabili.

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Segni

di Chérif


Poggiatesta africano pagina a fronte: Chérif / Aouanrher, tavolo 66

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Anche se hanno perso il proprio uso, questi prodotti sono l’ispirazione per tutti i miei progetti. Considero che l’uomo moderno non abbia cambiato niente nella sua gestualità rispetto ai primitivi. L’unica differenza è che oggi abbiamo mezzi tecnologici diversi ma la base è la stessa. Non pretendo di inventare altri modi per sedersi, quello che cerco di fare nel mio lavoro è di rispondere a una necessità gestuale. Quando disegnate un tavolo o una sedia, automaticamente sapete che la sedia avrà quattro gambe e uno schienale, ma in qualità di designer cercherete delle forme nello spazio e andrete a modificarle all’infinito prima di trovare un equilibrio tra forma e funzione. Avete quindi sia la libertà che il vincolo, opererete sempre tra la libertà e il vincolo. Il nostro lavoro è trovare l’equilibrio. Altri oggetti, più recenti, usati dai Compagnons Charpentiers hanno per me grande fascino. Ciò che mi sembra interessante è la bellezza della cosa e l’equilibrio dell’oggetto stesso in funzione dell’uso che se ne fa e delle sue proporzioni. Tutti questi prodotti mi hanno affascinato per il rapporto tra forma, equilibrio e funzione. Così il trapano. L’aspetto interessante è che questi oggetti attualmente hanno perso la loro utilità ma li troviamo come elementi di decorazione. In questo contesto nascono le prime mie produzioni: uno sgabello sul quale ci si può sedere solo a cavalcioni. Qui invece è una consolle, con un interessante rapporto tra vetro e legno. In quegli anni cercavo nello spirito degli oggetti una dimensione nascosta che potesse unire la forma e la funzione. Nell’immagine una consolle con una lastra di vetro. Volevo far conoscere l’oggetto poco per volta, per capire poi l’uso che se ne dovesse fare.

Ancora un divano con una seduta rilassata ed una a panchetto. In questo caso ho aggiunto un altro materiale che è il cuoio. Qui avete un tavolino realizzato con il rotang, è una palma asiatica alla quale si può conferire una forma sottoponendola a getti di vapore. Ancora presento dei candelieri e delle prove fatte con il vetro e seguendo le tecniche di assemblaggio degli ebanisti, con l’incollatura a raggi UV. In questo caso il vetro è soffiato. Alla metà degli anni ‘90 lavoro ad oggetti più elaborati seguendo le tecniche della tappezzeria. Inizio ad inserire un po’ di colore, altri materiali. In questo caso la funzione primeggia rispetto alla forma. Qui inserisco un altro materiale ancora, si tratta del già citato rotang in corteccia e ciò permette di poter usare l’oggetto anche in esterno. Come avete potuto notare i pezzi sono realizzati in maggiore quantità di copie, sono prodotti in serie. Potete agire su tutte le parti in tessuto, potete togliere, rivoltare, cambiare il colore, lavare ogni parte, il che è molto più pratico e funzionale. Ancora delle tecniche di centinatura sul bambù, che viene prima disteso e verniciato con resina per unire gli elementi. Questo prodotto è realizzato in cemento. Era un progetto per una villa a Saint-Tropez. Ho disegnato e prodotto tutti i mobili, i divani hanno una lunghezza pari a 4 metri. Anche i tavolini rotondi sono realizzati in cemento e vetro frantumato. In questo caso ho cercato di unire la ceramica e il legno, in quest’altro avete un paravento realizzato con tecniche di sabbiatura. Questo è un oggetto lungo 9 metri; si tratta di una panchina la cui struttura è costruita con aste metalliche incrociate; l’idea era di poter mettere quest’oggetto sopra una piscina. Ci sono anche dei pouf, con una ricerca sui materiali, tessuto satinato e velluto. Sono sempre alla ricerca degli effetti materici in rilievo che ho scoperto con le tecniche della tappezzeria. Ho anche arredato un ristorante a Parigi. Questo è un concept che ho presentato al Salon du Meuble nel 1998: si tratta di un materasso che misura 2,50 m per 1,60 e al quale ho integrato una lampada, e una teiera con i bicchieri. Avete notato come siamo passati ad oggetti più avvolgenti mantenendo sempre la curva, ma la funzione diventa più importante rispetto alla forma; le strutture non si vedono ma si sentono.


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ChĂŠrif / divano, Bardi

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pagina a fronte: ChĂŠrif / seggiolino per bambini


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Ecco un lavoro che ho realizzato per un ristorante nel Bahrain dove si fuma il narghilè e spesso la gente si mette seduta a gambe incrociate su panche molto strette appoggiate al muro. Ho quindi disegnato questo prodotto che permette appunto di potersi sedere a gambe incrociate. I cuscini sono spostabili a seconda delle esigenze di ciascuno: ho cercato così di rispondere a una richiesta molto particolare. Ora vi farò vedere tre progetti completamente diversi. Per primo, un negozio di gioielli a Taiwan dove “gioco” col colore dell’arredo mantenendo la sobrietà architettonica. Qui invece è un progetto, sempre per il Bahrain, che copre una superficie di 1600 mq, nel quale dovevo progettare sia l’architettura che l’arredo. Bisognava cercare di rispettare le abitudini e le idee degli abitanti del Bahrain. In quel paese alle famiglie piace stare in luoghi un po’ nascosti da dove si riesce a vedere senza essere visti. Ho quindi pensato a questi divani a forma di chiocciola e a questa specie di parete divisoria realizzata con perline in acrilico. Il mio compito era quello di progettare tutto lo spazio; ho quindi realizzato questi salottini a forma di chiocciola illuminati dal soffitto. C’è anche un angolo bar con effetti luminosi affidati a fibre ottiche colorate. Essendo proibito bere bevande alcoliche, era necessario dare un carattere diverso tramite cambiamenti di colore. Ho studiato anche un angolo biliardo, una pista da ballo e c’è sempre questo rapporto tra pavimento e soffitto. Vedete come il colore è molto presente nel mio lavoro. Finirò con un ultimo progetto realizzato a Parigi per il ristorante TOI che si trova sugli Champs-Elysées. Qui il compito era completamente diverso perché la superficie e lo spazio erano molto limitati. Ci sono tre piani: ho messo il bar al primo piano. Per me il soffitto è importante tanto quanto il resto; vedete che ci sono aperture che permettono di vedere cosa succede al piano superiore e ogni volta ci sono indicazioni, rimandi per spiegare cosa succede in un dato punto. La luce è altrettanto importante e ho cercato di renderla presente tramite queste aperture accentuandola con fibre ottiche che cambiano colore. Anche in questo caso viene data una sfumatura cromatica al soffitto per indicare un percorso ed un’apertura ci permette di vedere cosa succede al piano inferiore. Il bar però è vero, vengono servite le bevande alcoliche al contrario del progetto realizzato nel Bahrain. Per me anche i bagni sono importanti; ho trattato il bagno delle donne col colore rosa e mentre il resto è blu. Questo, fino ad oggi, il mio lavoro.



Kabbaj

Kadija Kabbaj / Soliflore, tavolo in bronzo e legno pagina a fronte Kadija Kabbaj / Pan di Zucchero, vaso in ceramica

Sono appena arrivata da Casablanca, dove vivo. È una città moderna piena di ricchezze e contrasti nella sua configurazione, nella sua architettura, nella sua cultura e nel suo funzionamento: un universo dove coabitano tradizione e modernità, innovazione e storia; ed è proprio da questo scontro che traggo le mie ispirazioni. Sono fra voi per sciogliere un preciso e decisivo nodo gordiano – relativo al creare ed al come creare. Il design è un termine che mi è familiare ed estraneo nello stesso tempo. Devo infatti ammettere d’aver avuto un percorso formativo piuttosto inconsueto. Sono sbarcata nel design quasi per caso – seguendo una sorta di serendipity. All’inizio studiavo belle arti, poi mi sono iscritta ad una scuola di moda a Londra. Pensavo che un giorno sarei divenuta pittrice o stilista. Ebbene oggi non sono niente di tutto questo. Il percorso di designer è iniziato, come ho anticipato, casualmente; mentre stavo disegnando l’arredamento per il mio nuovo appartamento, ho realizzato i primi mobili presso l’artigiano che ha il laboratorio vicino a dove abito. Via via mi sono fatta prendere dal gioco, poi questo gioco è diventato una passione e infine una ragione di vita. Oggi ne ho fatto un mestiere. Nel mio percorso professionale ed esistenziale ho incrociato sguardi e gesti che mi hanno segnata. Progressivamente ed indelebilmente. Ho incrociato persone di cui ho condiviso le capacità progettuali, ho imparato, mi sono raffinata, ho provato a percorrere una mia strada. Ho molto apprezzato l’afflato pedagogico di alcune di queste persone, la generosità di altre. Con ciò voglio dire che – al di là della forma, dell’ergonomia, dell’esteticità, delle modalità produttive – il design è fatto d’avvicinamenti fra uomini e donne, d’incontri, di scambi, di amore, di complicità: dietro ogni manufatto vi è una parte d’umanità, con la sua storia e la sua poesia.

Realizzare progetti è un modo per raccontare storie: una narrazione intessuta intorno alle nostre vite ed alla loro quotidianità. Peraltro, in quanto creatrice, traggo le mie fonti dalla memoria collettiva del mio paese, dagli stili di vita, passeggiando nei mercati, in spiaggia, incontrando gli abitanti della campagna marocchina, osservando ciò che avviene all’interno delle famiglie. Luce mediterranea Inizierò con l’ultimo lavoro disegnato per un’azienda toscana nell’ambito del progetto Habitat Mediterranéen organizzato dal consorzio Casa Toscana. L’azienda con la quale sono stata messa in contatto, che produce mobili piuttosto tradizionali, mi ha chiesto di disegnare un oggetto luminoso, in qualche misura decorativo, distanziato dal repertorio etnico. I materiali di base suggeriti erano legno ed alluminio. Di ritorno in Marocco, mi sono domandata quale oggetto avrei dovuto progettare al fine non

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Progettare prodotti, raccontare storie

di Kadija


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solo d’innovare, ma anche di riunire ed intrecciare modalità tanto distanti fra loro. Cosa potrebbe avvicinarci? Non abbiamo in comune né la lingua, né la cucina, né la musica, ma condividiamo uno stesso mare, il Mediterraneo, la sabbia, i ciottoli. Ragion per cui ho preso il ciottolo come elemento di base per realizzare un’applique. I ciottoli, la cui forma è mutevole, li ho immaginati sia in ceramica che in alluminio. Forati centralmente, disposti in sequenza su una fascia metallica curva e rivestita in pelle, vi traspare luce provenente da una lampadina a fiammella. Piatto couscous Si tratta di un progetto realizzato per l’esposizione Good Food. Forma dei piatti nel mondo, realizzata nell’ambito dell’ultima Biennale di SaintEtienne. In quanto marocchina la scelta era quanto mai obbligatoria. Ho

infatti scelto di progettare un piatto per il couscous in quanto è il nostro piatto nazionale ed una forte connotazione sociale. È al centro delle grandi occasioni – matrimoni, nascite e quant’altro sia celebrabile – ed è servito al pranzo del venerdì, giorno santo per i musulmani. Non è un piatto qualunque, il couscous. Sopravanza la dimensione del puro e semplice cibo, rafforza i legami, li protegge e riannoda. In origine il couscous si preparava e serviva in un unico recipiente – la guessaa: un gran contenitore fondo, pesante, spesso in terracotta dal diametro intorno ai 50 cm. Oggi viene ancora cucinato nella guessaa, ma poi portato a tavola su un grande piatto di ceramica. Tradizionalmente considerato il cibo della condivisione rituale, il couscous viene dunque posto in un grande vassoio sul quale viene organizzata una sfrangiata piramide di carni cotte circondata di verdure, e poi consumato e partecipato attraverso un cucchiaio. Tenendo conto di questi aspetti, ho dunque creato un fondo piatto circolare rimarcato da un largo e pronunciato bordo che impedisce la fuoriuscita della parte più liquida che il couscous contiene. Sgabello Tbeq locomotiva Si tratta di una serie di pouf realizzati col giunco, pianta che cresce in prossimità dell’acqua. Ho creato una serie di sedute e tavoli variamente combinati. Gli sgabelli sono legati gli uni agli altri, conferendo all’insieme un effetto di locomotiva. Possono assemblarsi in cerchio, semicerchio, ovvero allineati. Durante i pasti ci si riunisce intorno ad un tavolo, di solito basso e rotondo. Panchine a forma di “L” sono addossate al tavolo, poi pouf e sgabelli completano il cerchio. Ho immaginato questi pouf a guisa di perle infilate in una cordicella, poi collocate tutt’intorno ad un tavolo. Sono possibili anche scenari diversi: riunioni a spirale, oppure a zigzag – tanto per esemplificare. Tavolo Tbeq Ancora realizzato in giunco, s’ispira al Tbeq, contenitore assai popolare, di solito usato per conservare la farina, il pane, la frutta, nonché numerosi altri alimenti. Vorrei aggiunge che, in Marocco, il giunco è spesso impiegato per foggiare sottopiatti a spirale dal diametro di 30 cm. Si tratta di un lavoro tradizionalmente eseguito dalle donne di campagna. Il tavolo Tbeq è una variante di questo mobile, che di norma rimane nascosto in cucina. Muovendo da un materiale povero, ho voluto realizzare un mobile che ha una sua dignità e funzionalità al centro di un soggiorno. Ne ho così organizzato una piccola serie, diversificata per colori e grafia; ne


Tavolo incensiere Realizzato nell’ambito della penultima Biennale di Sain-Etienne, è un tavolo ovale assemblato in due parti. La principale, il cui centro è composto di una lastra in alluminio forato dove si possono infilare incensi, ed una seconda che può essere utilizzata come sgabello ovvero come tavolino complementare. Lampade Cubi Si tratta di una serie di lampade dai colori accesi realizzate in carta. La loro forma squadrata e rigida è temperata dai colori squillanti e dai diversi disegni. La loro installazione seriale ricorda un imponente cordone luminoso. Vaso Pan di zucchero Mi sono ispirata al pan di zucchero, tutt’oggi usato per la preparazione del tè alla menta in ogni famiglia marocchina. Si tratta dunque di vasi in cera colorata che si sviluppano in lunghezza; semplici e bucati, possono accogliere fiori inseriti asimmetricamente. Applique Lumières surfaces Fra l’arte plastica ed il design, è stata realizzata nell’ambito dell’omonima esposizione organizzata dall’Institut Français di Casablanca, per essere in seguito trasportata al Museo del Mondo di Rotterdam. È un lavoro di matrice concettuale: alla ricerca di un equilibrio fra leggerezza e densità ovvero trasparenza e opacità. Kadija Kabbaj / Cubi, lampade pagina a fronte Kadija Kabbaj / Tbeq, tavolo in giunco

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ho anche enfatizzato la dimensione: nel mio progetto, la base, raggiunge il metro e 30 di diametro. Pouf Chamblir Chamblir è un termine di derivazione francese che, in dialetto arabo, significa chambre à l’air (camera d’aria). Lo Chamblir è dunque un pouf di vimini, che ho progettato ricordandomi delle camera d’aria delle gomme dei camion, usati dai giovani per sguazzare fra le onde del mare: un ricordo d’infanzia. Pouf Puzzle Come il nome denuncia, si tratta di una grande seduta a forma di puzzle: un pouf ludico. Ancora qualcosa di legato al gioco, una maniera di ricordare l’infanzia, quando il puzzle era un passatempo diffuso ed impegnativo. Su questo pouf-puzzle ci si può sedere in vari modi, stare di fianco, ovvero l’uno di fronte all’altro, o ancora schiena contro schiena. Si hanno alcune possibilità per giocare ad allestire gli elementi, al fine d’ottenere configurazioni per diverse sedute. Paravento Soliflore Si tratta di un lavoro realizzato sul fiore. Il paravento Soliflore rappresenta l’esatto opposto di quello classico che serve per separare due ambienti. Nel mondo arabo le sottili divisioni fra spazi sono di solito organizzate in Moucharabieh: un insieme di infiniti e minuscoli elementi in legno tornito che permette di poter osservare la zona separata senza essere visti. Contrariamente a questo principio visibile/invisibile, il mio paravento consente di osservare e di essere osservati. La sua struttura è realizzata in legno, mentre le sospensioni sono pensate in alluminio colato e tenute insieme mediante cinghie in pelle – il che gli conferisce un aspetto da gong. Un Soliflore è infilato all’interno di queste sospensioni. In una secondo versione, il Multi-Soliflore, viene ampliata e proposta la medesima idea d’apertura e leggerezza. Tavolo Soliflore Tavolo che funge anche da vaso, mediante il Soliflore collocato al centro della base, dove è possibile inserire fiori. Progettati a coppia ed in misure diverse, il loro materiale è il bronzo e legno incrociati. Tavolo Dinosauro Realizzato in legno e vetro, funge anche da porta riviste che possono venir collocate nella parte inferiore del tavolo.


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Pagine Bianche È una struttura lunga 7 metri realizzata nell’ambito dell’esposizione Lumières e Structures. Si compone di carta d’eucalipto realizzata artigianalmente e tenuta insieme da sottili aste in ottone. Era un’installazione interattiva: gli astanti erano invitati a lasciare testimonianza scrivendo un commento sopra lo stesso assemblaggio. I temi più frequenti sono risultati l’amore e la guerra: poiché il vernissage ha coinciso con l’invasione americana dell’Iraq.

Tappezzeria Si tratta di una serie di tessuti attraverso cui ho voluto giocare sulla trasparenza con un motivo serigrafico semplice: una foglia nera su fondo bianco. Vi sono stata condotta attraverso un gioco d’opposizioni e di trasparenze. A seconda della luce e della collocazione, la dualità bianco/nero si trasforma in grigio chiaro ovvero scuro, e permette d’indovinare ciò che avviene dietro i tendaggi. Artigianato femminile Un discorso a parte meritano i tavolini di cui sto per parlarvi. Le donne che li realizzano sono analfabete, non hanno nozioni di geometria. Il loro metro di misura è il palmo della mano – chber in arabo – intorno ai 20 cm. Ovviamente le dimensioni variano da palmo a palmo, sicché le misure divengono piuttosto approssimative. Quando ho incontrato la donna che avrebbe realizzato il rivestimento dei miei tavoli, le ho comunicato la dimensione del diametro – 130 cm. Però, nel corso della realizzazione, credo si sia resa conto che la dimensione richiesta non corrispondeva a quella da lei immaginata: infatti i piani dei tavoli erano di appena 60 cm. Lo stesso vale per il colore. Le stesse donne non riescono ad immaginare che esista un’infinità di sfumature dello stesso colore. Per loro i colori sono, grosso modo, quelli primari. Viola e blu sono considerati un tutt’uno; lo stesso per il rosso e l’arancio… Siamo dunque, in varia misura, nell’approssimazione e nell’aleatorio. Tuttavia ciò mi ha messo di fronte al fatto che ci sono tanti modi di pensare forme, dimensioni e colori; e mi sono posta l’obiettivo di lavorare in stretta collaborazione con loro.

Kadija Kabbaj / Tappezzeria, tessuti pagina a fronte Kadija Kabbaj / Pagine bianche, istallazione


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Dellagi

pagina a fronte Mehdi Dellagi / Jusur, tavolo in terra cruda e terra cotta, particolare / Francesco del Re / 2007

Presentazione Come architetto mi sono laureato nel febbraio del 1999 all’ENAU (Ecole Nationale d’Architecture et d’Urbanisme de Tunis). Ho proseguito la mia formazione universitaria conseguendo, nel 2000, un DEA (Diplôme d’Etudes Approfondies), specializzazione in Urbanistica e Pianificazione del Territorio, a Aix-en-Provence, in Francia. Attualmente sto seguendo un corso di formazione per architetto del patrimonio presso le Centre des Hautes Etudes de Chaillot a Parigi. Ho lavorato come architetto stagista presso l’Agenzia del Patrimonio di Tunisi (1998/1999). Questa formazione ha confermato il mio interesse per i principi architettonici del luogo e per i sistemi costruttivi intesi sia a livello teorico che pratico. Ho partecipato a diversi progetti di restauro, di recupero, di riqualificazione, di ricostruzione e di costruzioni nuove con tecniche tradizionali in centri antichi della Tunisia. Tra il 2002 e il 2007 ho inoltre esercitato come architetto progettista a Parigi presso lo studio di Olivier Cacoub (Gran Premio di Roma nel 1953). Ho un’esperienza particolare nella costruzione in terra cruda, in Francia dal 2003 e in Italia nel 2007. In questo senso, opero nella manipolazione di materiali e di spazi: dal 1993 in Tunisia su scenografia e design. La mia attività professionale si dirige verso interrogativi che nascono sia nel campo teorico che in quello pratico e tende a svilupparsi su piani diversi d’intervento: - l’ipotesi dell’interrogazione: muove dal principio che per aspirare a produrre un’architettura contemporanea caratteristica, locale e inserita in un contesto, è necessario passare attraverso le conoscenze storiche e tecniche delle nostre architetture; - i livelli operativi: pianificazione del territorio, urbanistica, architettura, museografia, valorizzazione, scenografia, design e ricerca.

Problematica Per aspirare a produrre un’architettura contemporanea caratteristica e locale, è necessario passare attraverso le conoscenze storiche e tecniche delle nostre architetture. In effetti, attualmente, un vento di “MacDonaldizzazione” soffia sull’architettura dei nostri paesi. La globalizzazione e la mondializzazione sono vittorie della conoscenza sotto forma puramente economica. I nostri territori vivono un vero problema d’identità e di definizione architettonica regionale. È necessario difendere l’idea che il progetto architettonico non deve posizionarsi in una prospettiva mimetica ma in una prospettiva evolutiva. C’è quindi la necessità di avere una produzione di conoscenza, allo stesso tempo singolare e contestualizzata sulla téchne1, e una produzione del valore di questa conoscenza come elemento necessario alla creatività nei nostri paesi ed in maniera particolare nel mio, la Tunisia. L’architettura è legata in modo intrinseco alla nozione di téchne. Come afferma Arnoldo Rivkin2. Il punto di partenza della problematica è affrontare il “sistema architettonico” attraverso il sistema costruttivo e attraverso la téchne. Così il lavoro in fase di elaborazione, portato avanti dal ‘Collettivo QARTBUN’3 sullo studio dell’evoluzione dei sistemi costruttivi in Tunisia ha come obiettivo quello di ripristinare il legame, sia a livello teorico che pratico, tra il saper-fare tecnico trasmesso (soggetto di conoscenza) e l’espressione architettonica in produzione (oggetto di conoscenza). E qui occorre domandarsi cos’è un sistema costruttivo. Téchne: parola greca che significa, costruzione, sapere tecnico, carpenteria. Arnoldo Rivkin: architetto, dottore in filosofia dell’arte (EHESS), professore alla scuola di architettura di Versailles. Le sue ricerche trattano sul progetto come sapere sperimentale. 3 QARTBUN: parola tecnica del dialetto arabo tunisino, che deriva dall’italiano o dal maltese; “quarto buono”, che significa ad angolo retto, perpendicolare o ortogonale. Il Collettivo QARTBUN è composto da: Achraf Bahri-Meddeb: architetto DPLG, Parigi – Dorra Ismail: architetto ENAU, Tunisi – Hichém Ksouri: architetto ITAAUT, Tunisi – Mehdi Mahmoud Dellagi: architetto ENAU, Tunisi. 1 2

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Diverse scale, una logica

di Mehdi


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Un sistema costruttivo è la parte di un edificio che partecipa e/o risponde alle necessità di stabilità meccanica della struttura. Un muro, un arco, una lastra, un palo, un architrave, una sottotrave, una calotta, un’intelaiatura… sono elementi che costituiscono sia il comportamento meccanico dell’edificio sia la sua espressione spaziale e architettonica. Per esempio: la differenza tra un passaggio con una volta a tutto sesto ed un altro con una volta a sesto ribassato è presente sia al livello fisico che spaziale, per quanto riguarda la portanza e la qualifica dello spazio. Cosi questa ricerca si propone di studiare i sistemi costruttivi della Tunisia attraverso lo spazio (secondo le regioni, le località, i territori, i luoghi…) e attraverso il tempo (secondo i periodi storici, gli eventi naturali importanti, lo spostamento delle popolazioni, le civiltà locali e quelle degli invasori…). Il procedimento si sviluppa su tre livelli. Per prima cosa, il lavoro si basa sulla registrazione della conoscenza già realizzata sullo spazio costruito in Tunisia: dottorati, opere, scritti, studi, pubblicazioni, disegni, in discipline diverse: architettura, urbanistica, archeologia, ingegneria civile, sociologia, antropologia, storia, ecc. Un ulteriore lavoro di raccolta dei dati sulla conoscenza si farà sul campo: rilievi, artigiani, professionisti di mestieri diversi, colloqui con esperti, ecc. In seguito i sistemi costruttivi saranno analizzati e identificati secondo la località e il periodo storico. Esempio 1: - Analizzare le fondamenta di una dimora del nord ovest della Tunisia, in ogni epoca: Numida, Punica, Romana e Bizantina. - Confrontare i dati e fornire le conclusioni: le fondamenta di una dimora del nord ovest della Tunisia sono cambiate in epoca Punica per poi rimanere inalterate. Esempio 2: - Analizzare la volta nei passaggi coperti di Jerid, di Jerba, di Jlass e di Jbeniana in epoca ottomana. - Confrontare i dati ed elaborare le conclusioni: la volta a tutto sesto ha subito particolari trasformazioni in tutte le regioni citate. In questa maniera si può stabilire una “cartografia genetica costruttiva, tettonica4 e storica” completa. Infine, questo lavoro rivelerà le continuità, le rotture, le innovazioni, le Tettonico: o poiesis costruttiva; il modo di pensare l’architettura attraverso la tecnica di costruzione nel suo potenziale di espressione architettonica. Kenneth Frampton espone questo concetto nell’opera Studies in Tectonic Culture.

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scomparse, i mutamenti dei sistemi costruttivi nello spazio e nel tempo, con l’obiettivo di stabilire un pensiero “su” e “di” un’architettura tunisina contemporanea. La forza di un lavoro sui sistemi costruttivi L’architettura comprende un parametro essenziale, complementare a quello costruttivo: il Contesto. Quest’ultimo si distingue attraverso l’eterogeneità, la successione, l’accumulo, la continuità, la discontinuità, la rottura, l’innesto, la stratificazione, il trasferimento. Attualmente molti architetti intervengono nel proprio ambiente senza tenerne conto. Che si tratti di un frammento in un centro antico (tipo storico) o in una città coloniale (città creata nel periodo delle colonie occidentali del XIX secolo) oppure negli ampliamenti anarchici delle città con una viabilità fatta d’urgenza dallo stato o ancora nelle nuove megalopoli in espansione esponenziale, l’intervento architettonico ignora sempre di più il contesto nel quale si inserisce e disprezza il luogo in cui si materializza questo intervento. L’architettura è diventata un affare di oggetti fuori contesto. D’ora in poi, si progetta e si costruisce allo stesso modo a Dubai, nel centro urbano nord di Tunisi o nella periferia sud di Kartoum. Lo studio dei sistemi costruttivi servirà a: - fornire dei mezzi per leggere ai nostri architetti, urbanisti, paesaggisti, ingegneri e quindi per generare l’architettura in sintonia con questo aspetto; - impegnare i nostri architetti, urbanisti, archeologi, ingegneri, antropologi, coloro che decidono, politici a lavorare e sviluppare in termini evolutivi, come base al momento dell’intervento in spazi costruiti. Esempio: recupero di un centro antico, espansione di un quartiere popolare, protezione di un sito archeologico al momento della costruzione di un’opera d’arte; - fornire una formazione ai nostri architetti, urbanisti, ingegneri per progettare strutture nuove e innovative muovendo dalla memoria collettiva e da ciò che già esiste in loco; - iniziare a sensibilizzare le popolazioni locali che non aspettano altro che la conoscenza di loro stessi per poter avere un punto di riferimento per una proiezione nell’avvenire.


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Mehdi Dellagi / Jusur, tavolo in terra cruda e terra cotta, fasi di lavorazione e prodotto / Francesco del Re / 2007


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Intervento Il mio lavoro è una sorta di work in progress che si basa sull’analisi e poi sullo sviluppo/manipolazione della conoscenza storica e tecnica delle nostre architetture locali, sia al livello concettuale che materiale. Questa “riflessione sull’azione” si basa sulla ricerca attraverso la sperimentazione di un filo conduttore tra scale diverse. Il filo conduttore permette di esprimere in che modo ogni scala di intervento, con i suoi parametri e i suoi singoli livelli di progettazione (ordine, progetto, problematica, sito/luogo, budget, normative, tempo di realizzazione, mezzi a disposizione, sperimentazione, contesto, congiuntura, tempo dell’intervento, ecc.), rappresenta una fase supplementare per mettere alla prova l’ipotesi di lavoro. Esempio A: 1 – scala: pianificazione del territorio. 2 – ricostruzione di un paese antico, nel sud della Tunisia, distrutto in seguito a piogge diluviane. 3 – intervento: – ricostruire il paese come espansione dell’Hotel a 5 stelle già esistente e promotore del progetto. 4 – constatazione: – fissare la riflessione sul sito e il territorio: il rapporto del progetto con le località circostanti e la posizione in vista di una strategia nazionale di turismo culturale; – fare beneficiare la popolazione locale, costretta dal progetto a spostarsi: creare posti di lavoro; – coinvolgere conoscenze nello sviluppo locale: artigianato, costruzione tradizionale locale bioclimatica, prodotti alimentari locali; – rispettare le preoccupazioni ecologiche locali: gestire un nuovo insediamento umano conservando l’equilibrio del luogo; – rispettare e ricostruire una nuova storia del luogo e valorizzarla: le pratiche sociali, le conoscenze artigianali, le leggende. Esempio B: 1 – scala: urbanistica. 2 – progetto: pianificazione della salvaguardia e della valorizzazione della città di Houmt Souk a Jerba in Tunisia. 3 – intervento:

– produrre un regolamento di protezione del patrimonio architettonico e urbano del centro antico di Houmt Souk, in fase di snaturamento. 4 – constatazione: – analizzare l’ambiente globale del sito su scala territoriale, urbana, architettonica, storica, umana, economica; – proporre un regolamento per mantenere le caratteristiche urbane e architettoniche locali, permettendo un’evoluzione armonica col centro antico. Esempio C: 1 – scala: architettura. 2 – progetto: costruzione di un’abitazione balneare in Tunisia. 3 – intervento: – dare una risposta contemporanea al programma rispettando l’architettura dell’isola. 4 – constatazione: – analizzare i modi di insediamenti umani locali attraverso le architetture rurali e urbane; – identificare le caratteristiche architettoniche locali (bioclimatica, materiali, struttura, uso…); – manipolare questi parametri per produrre un’architettura contemporanea che risponde al programma del cliente; – usare tecniche e materiali di costruzioni antichi e locali. Esempio D: 1 – scala: architettura 2 – progetto: processo produttivo in terra cruda. 3 – intervento: – sperimentazione personale. 4 – constatazione: – analizzare le tecniche di costruzione in terra cruda al livello architettonico, strutturale, bioclimatico, tecnico, costruttivo, locale; – manipolare la tecnica, la struttura e l’architettura attraverso l’abilità; – sperimentare un processo di fabbricazione di elementi architettonici (portanti o no) in argilla battuta. Esempio E: 1 – scala: pianificazione di un sito archeologico. 2 – progetto: posa di una sottile parete in un forte Genovese in Tunisia. 3 – intervento:


– allestimento mobile che rispetta il sito e che separa il settore della Marina Nazionale (Direzione dei Fari e Segnali). 4 – constatazione: – studiare il sito alla scala storica, archeologica, architettonica, strutturale, tecnica; – analizzare la richiesta rispetto al territorio di insediamento del sito archeologico: abilità locale, materia prima locale, caratteristiche bioclimatiche del sito; – manipolare i dati scientifici del sito archeologico e quelli delle potenzialità locali per produrre il progetto. Esempio F: 1 – scala: design. 2 – progetto: elementi di arredo in terra cruda in Francia, Tunisia e Italia. 3 – intervento: – una seduta 4 – constatazione: – analizzare le tecniche di costruzione in terra cruda su scala architettonica, strutturale, tecnica, costruttiva, tecnica…; – manipolare la tecnica, la struttura e la forma attraverso l’abilità; – sperimentare elementi di arredo su scala e utilizzi diversi. Ciascun progetto citato tiene conto dell’abilità nella sua dimensione tecnica, costruttiva, storica e locale e mette in evidenza sia la complessità sia la peculiarità dei parametri presi in considerazione ad ogni livello. Ogni livello aggiunge una dimensione all’equazione. Questa serie di sperimentazioni eseguite – e quelle in fase di realizzazione, come la chaise longue in terra cruda e terracotta per Francesco del Re nell’ambito del progetto Euromedsys – accennano alcune tracce nell’ambito dell’Human Establishment basato su un’analisi creativa (e non mimetica) delle nostre architetture, sia al livello concettuale che materiale attraverso la téchne.

Abitare Mediterraneo, I esposizione / Firenze / 2004


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pagina a fronte Yamo / Lettere Yamo / Mostra al VIA / Parigi / 2003

Il mio nome è Mohamed Yahiaoui (diventato in seguito YAMO), sono nato nel 1958 durante la rivoluzione algerina. Chi avrebbe mai detto che un giorno, affascinato dal Mediterraneo e dai suoi pesci, dalla Pointe Pescade (periferia di Algeri) sarei approdato al Nord… Risveglio un po’ tardivo il mio ma significativo. A 20 anni entro alla scuola di Belle Arti di Algeri con le mie lenze e la mia ultima pesca; ne esco alcuni anni dopo, primo classificato tra gli studenti della mia classe di Architettura d’Interni. Ricevo una borsa per proseguire gli studi a Parigi; la giuria della Scuola Nazionale di Arti decorative mi ritiene idoneo e mi iscrivo al corso di Design Industriale; poi proseguo con un post-laurea in Arredamento, durante il quale imparo a progettare e a realizzare le cose con le quali si ama vivere: i prodotti devono parlare alla gente. YAMO a quel punto esiste; sono due sillabe strappate l’una ad un cognome, l’altra ad un nome e cucite insieme con una sottile cordicella di lino. La mia prima opera di design potrebbe essere l’invenzione della mia firma. All’inizio mi hanno scambiato per giapponese, confondendomi con Yamakado o Kuramata. Questo nome mi ha permesso di dire e di affermare cose molto più forti, e con gli anni di confermare la mia origine africana, originale e sincera. YAMO Le lettere del mio pseudonimo sono simmetriche, con un gioco di semilettere, di specchi e di illuminazioni spunta la magia, YAMO è presente. Vetrina dell’entrata, mostra VIA, Parigi, marzo 2003. Da quando sono uscito dalla scuola, lavoro con mia moglie, Corinne, architetto d’interni anche lei. Ambedue costruiamo il nostro mondo. Non voglio creare una differenza, ma dire che sono diverso.

Nel 1998, sono stato chiamato per ideare e curare la sistemazione alberghiera dell’Hotel Sofitel a Djerba, Tunisia. Questo lavoro mi ha reso consapevole del fatto che dovevo tornare a casa mia; casa mia è l’Algeria, la Tunisia, il Marocco, il Sud. Quindi sono andato ad abitare in Tunisia con la mia famiglia. Riscopro il piacere che procura questo Mediterraneo; i paesaggi di questo mare sono sempre gli stessi, quando si mette una maschera e ci si inabissa nelle sue profondità, si ritrovano gli stessi coralli, gli stessi pesci e questo stesso silenzio. In tutti i paesi che ho attraversato, la Spagna, il Marocco, l’Italia, la Turchia, la Palestina, l’Egitto o la Libia, questo mare è rimasto lo stesso, non si è ossidato. Le rappresentazioni dei mosaici di Pompei, o di altri siti simili, sono sempre valide. Sono un vero Mediterraneo, e quando sono nell’acqua mi sento a casa. Vedrete attraverso le mie creazioni che questo mondo del mare, della pesca riveste una grande importanza per me. Il mio ritorno nel Sud mira a dimostrare che le aziende, nei paesi in via di sviluppo sull’altra sponda del Mediterraneo, possono competere in molti settori con le aziende del Nord. In certi miei prodotti, alcuni pezzi sono fabbricati in Francia, in Italia, in Tunisia, poi assemblati in Tunisia sotto la mia supervisione. Penso che la mia definizione di habitat Mediterraneo stia proprio in questo modo di essere e di agire. Il mio lavoro cerca di favorire gli scambi internazionali, quindi perché non avviare una cooperazione mediterranea che a breve termine riunirebbe aziende e designer del Mediterraneo? A marzo scorso ho allestito, nell’ambito di ”un anno dell’Algeria in Francia” una mostra monografica su 300 m2 con una scenografia a base di luci, nella galleria VIA, Parigi (VIA: Valorisation de l’Innovation dans l’Ameublement). La maggior parte di questa mostra è stata realizzata in Tunisia. Adesso voglio farvi viaggiare con l’aiuto di una serie di immagini.

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Habitat: quale contributo?

di YAMO


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I primi prodotti La Freccia. Ero studente e volontariamente africano, 1988. Questa lampada rimane uno degli oggetti più enigmatici della mia produzione. Non riesco più a tornare nel process che mi ha permesso di ottenere questa composizione. Ad ogni modo, mi ha permesso di creare un punto di flessione nella mia riflessione per la produzione. È edito da Drimmer, 1990. Consolle Imrat. La Galleria VIA mi aveva dato carta bianca. Il VIA è un’istituzione francese che sovvenziona i giovani creativi. Ho ottenuto un finanziamento di 80.000 franchi (un po’ più di 12.000 euro), una somma enorme per uno studente. Con questi soldi sono andato a creare la mia collezione in Algeria. Salone del Mobile di Parigi, 1991. La console Imrat, prototipo, prodotto fabbricato in Algeria, esposto a Parigi ed edito a Pisa da Ceccotti. Materiali cuciti Presentazione al SM d’Or al Salone del Mobile di Parigi nel 1989. Libreria Hoggar. Questa libreria è in vetro cucito con corda di lino. Una copia fa parte della collezione permanente del Museo di Arti Decorative di Parigi, 1993 e prima libreria Cynthia. Edita da Roche et Bobois nel 1991, si tratta di un concept di pannelli cuciti con corda di lino. Incontro con il vetro Orphée. Stand Hommage à Orphée. Le sculture sono alte 3 metri; è un universo interamente cerebrale, prodotto dall’incontro col vetro. Quando un artigiano ti dà la sua fiducia e il suo affetto si può andare molto lontano nella creazione. Prima grande mostra personale Galleria Turbulence. New York con 200 m2, mostra a connotazione molto orientale. La scenografia diventa oggetto: porta/velo luminoso trattenuto da bracciale a tripode. Durante il vernissage, tutta la scenografia è stata comperata da un arredatore per allestire un ristorante di New York, 1993. Fare un loft su misura Ambiente principale. Carta bianca per rinnovare completamente questo loft. La Direttrice del Museo d’Arte Moderna del comune di Parigi è una cliente che vuole l’impronta YAMO. Un tavolo per una persona, che si può trasformare in un tavolo per dodici persone, interamente realizzato in Algeria. Un cesto di frutta separa i due corpi del tavolo e si può riporre nelle grandi occasioni. Parigi, 1992.

Yamo / La freccia, lampada / Drimmer / 1990


Yamo / Bilele, lampada / 1993

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Vestire una villa Vele. È il veliero che ha ispirato l’idea delle vele. L’immagine del movimento del velo di mia madre, lo Haik, mi ha sempre toccato durante l’infanzia. A Ibiza, ho messo un veliero in una pineta. Questa casa di fronte al mare vedeva sempre passare barche a vela senza poter rispondere. Zanzariera. Nelle camere, la zanzariera svolge una funzione molto importante. Si prende questo vuoto sopra il letto e si occupa questo vuoto. Fare un appartamento su misura Allestimento di un appartamento parigino, 160 m2 sui Champs Elysées. Tavolo di sala da pranzo con doppio telaio in rame e sedie di Christophe Pillet, i cui schienali sono stati rivestiti di corda di canapa (con l’autorizzazione dell’autore). Storia di pesca Bilele. Lampada a olio con canne da pesca. Il mare è sempre presente, 1993. Ed ancora in: piccole lampade Fee. Lampada a base di fiamme, 1992; lampade Fee. Occupare il vuoto con le mie canne da pesca mi è valso la medaglia d’argento al Salone della Luce di Parigi, 1992; Papillon. Sedile maschio o sedia femmina. Canne da pesca che attraversano il vuoto, danno l’impressione di essere su un trono, 1993. Storia di danza Mimine. È una lampada per un luogo meraviglioso, all’immagine di Ibiza, dove si balla il Flamenco. Lampade senza filo che si mettono sul tavolo. Quando i clienti la sollevano si spegne, quando l’appoggiano di nuovo si riaccende. La luce illumina le persone con una fragilità incredibile. Sembra di essere in un quadro di Renoir, con piccole macchie di luce sui personaggi. Quanta magia in un luogo magico! Ristorante Les Terrasses, Ibiza, 1994. Storia di fiamme. Ad ogni luogo la sua fiamma, ad ogni luogo un’impronta. 3 fuochi. Entrata di una villa, Ibiza, 1993. Poisson. Lampada a olio, mostra Una piuma una fiamma, galleria Différences, Parigi 1992. Ed ancora in: Yuzo, lampada a olio o a elettricità, le due versioni di quest’elmo medievale sono disponibili dall’editore Ceccotti, 1992. Ouaga, piccole lucertole di Ouagadougou. Sono stato invitato in qualità di esperto al SIAO (Salone Internazionale dell’artigianato di Ouagadougou) Burkina Faso, nel 1990, e ho preso in prestito questa immagine di piccole lucertole arrampicate sui muri. È un prodotto


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Yamo / Le grand Duc, poltrona

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pagina a fronte Yamo / À la folie, sedia


A Sud Poltrona Palm Beach. Lo schienale è un claustra, abbastanza tipico delle regioni meridionali e gli operai si riconoscono in questo prodotto. Ed ancora: Tavoli Palm Beach. Nel 1998, per elaborare i prototipi della camera standard scopro le aziende tunisine di mobili. Ho di colpo 8 persone che lavorano solo per la mia collezione. Ho finalmente la soddisfazione di non essere più solo e di essere utile. Produzione in serie per prodotti abbastanza tecnici; scrivania e sedie Palm Beach. Collezione Palm Beach per l’Hotel Sofitel, Djerba Tunisia 1998. Hotel Karthago. Quando sono arrivato in qualità di arredatore in quest’albergo, tutta l’architettura era terminata. Bisognava trasformare tutto ciò che era visibile dal cliente. Il banco del ricevimento è trattato in trompe l’oeil, un enorme blocco marmoreo in Chemtou (molto usato

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che ha ottenuto l’Oscar dello SNAI (Syndicat National des Architectes d’Intérieurs), a Parigi nel 1992. Athar, lampada a olio, fabbricazione di flaconi molto tecnica. Ordinazione speciale per la promozione del vetro extra bianco e del vetro azzurro. Museo del Vetro, PPG, Pittsburgh, USA, 1994. Menora, questo testimone luminoso, che si ispira al culto ebreo è alto 160 centimetri. Serie molto limitata; una copia si trova in una sinagoga a New York, 1993. Khanoukia. Testimone luminoso della festa della luce, nel culto ebreo. Di questa lampada sono state disegnate 2 copie, Parigi, 1996. Galets. Ciottoli luminosi. Vero o falso? L’illusione è perfetta, ma l’oggetto è in vetro soffiato e illumina le vostre cene, 1994. Sedute varie C17. Sedia della carta bianca del VIA, Salone del Mobile di Parigi 1991. Ed in più: Le Grand Duc, primo esercizio di tappezzeria alla scuola di Arts Déco. Questa poltrona si chiama Le Grand Duc, a causa delle sue”orecchie”molto flessibili. È stato il primo pezzo di arredo che ha avuto gli onori della copertina della rivista ”Architecture Créé”, n°228, 1990. Mi gira ancora la testa. Duo: ”Disegnate un divano con delle orecchie, dove io possa passare facilmente l’aspirapolvere e mettere la mia scultura di Dalì”. Quanti parametri per questa cliente un po’ eccentrica! Tutte le estremità sono in polipropilene per l’elasticità. Paris, 1994. À La Folie. Storia particolare di questa ordinazione. Una casa editrice francese mi ha ordinato una collezione in legno. Parto per Istanbul, per realizzare i prototipi e quando torno con le mie creazioni, non gli piace niente. Questa sedia viene notata da Ceccotti che la vuole produrre. Finalmente si ritrova a casa mia e la guardo con molto amore e molta libertà. 1993. Oltre tutti i mari Kawakuy. Mi sono recato due volte in Giappone per realizzare l’illuminazione dell’atrio del Palace. L’architetto non capiva niente e non intendeva ragione. Ci sono volute molte spiegazioni e disegni, perché c’era un vero problema culturale. Se prendete un ragno, gli togliete le zampe, non rimane più che un grosso chicco di riso. Un chicco di riso non occupa lo spazio, il vuoto, ma se gli aggiungete le zampe, il vuoto si colma. Ho realizzato le applique in cristallo di Murano e gli aquiloni in vetro bombato al contrario lungo 14 metri. Con questo vetro avevo voglia di un colore caldo, allora il costruttore ha suggerito di ricoprire tutto il soffitto dell’atrio di oro fino.


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dai romani) è sostenuto da ciottoli. Il lampadario di 5,5 metri è inserito direttamente nella trave del soffitto per guadagnare in altezza. La parte centrale del lobby è alta 20 metri. Tutto l’atrio è sorretto da 2 grossi piloni (1,40 m per 1,40 m), che ho dovuto trattare alla pari di due oggetti. Circondati alla base da 2 metri di altezza di corda di canapa, il resto è ricoperto con pannelli di vetro. Tutto l’allestimento e tutta la mobilia sono progettati in esclusiva per l’albergo. I tappeti ornati di ciottoli sono realizzati su misura. Il pavimento del bar è di rovere, trattato come il ponte di una nave. Le poltroncine e gli sgabelli del bar sono di vimini. La parete di fondo era così grande che l’ho rivestita con migliaia di borchie in bronzo. La camera, tutta di rovere, è intenzionalmente sobria e funzionale. Gli scendiletto e i tappeti sono di pura lana e sono una versione moderna del tappeto mergoum tradizionale. Hotel Khartago, Hammamet, Tunisia, 2001/2002. Dettaglio applique Khartago. Cerchi decrescenti, su 15 metri di altezza, che imprigionano la luce. Chiuderò il mio intervento presentandovi la mostra monografica alla

Galleria VIA a Parigi nel marzo scorso. La maggior parte delle mie creazioni, lo ricordo, è stata realizzata in Tunisia. YAMO, sotto il segno dei pesci. Pesce, per via del mio segno astrologico, pesce per questo paese d’accoglienza in cui il pesce è mitico, pesce per il mio amore per l’acqua. Ho voluto una scenografia leggera che si ispirasse al manierismo, con una tensione nello sguardo. Terra d’accoglienza: la mostra vi apre le braccia con divani, tavoli bassi, lampadari, tappeti… Il mio lavoro, profondamente ancorato nella cultura mediterranea, è una sintesi di tecnica e di poesia.

Yamo / Karthago Hotel, bancone réception pagina a fronte Yamo / panca, tappeto e lampada / Poltronova / 2004


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Giovanni Kaus Koenig e Roberto Segoni / studio testata tram Roma / 1987


La concezione pragmatica della cultura progettuale sembra trovare nella contemporaneità propria del nuovo millennio alcune contraddittorietà che fanno derivare verso una generale incertezza le teorizzazioni relative alla storia ed alla critica del progetto stesso. La Scuola Fiorentina di Design ha affrontato fin dagli anni sessanta la problematica dell’etica del progetto delle cose. La concezione filosofica dell’etica come determinazione della condotta dell’uomo e della ricerca dei mezzi e degli oggetti atti a concretizzarla, comportava, in quegli anni, distinzioni che oggi ci appaiono, sicuramente, superate. Giovanni Klaus Koenig, appassionato esperto di treni e ferrovie, propugnava la “sacralità” di un design riservato alla collettività con oggetti, che, come i treni, appunto, si usano ma non si comprano. Ne discendeva una concezione un po’ settorializzante del design che lo riservava alla “comunità”, rifiutando, specie negli anni della contestazione sessantottina, il consumismo di matrice occidentale e filoamericana. La Coca Cola e poi MacDonalds erano i simboli negativi del consumismo. La parte estetica della concezione progettuale, che, nella componente filosofica, si è sempre legata a quella etica, in quegli anni veniva quasi completamente trascurata a favore di comportamenti di pensiero ideologico e culturale che venivano interpretati ed anche amplificati e stereotipati dalle avanguardie fiorentine del design e dell’architettura che allora ebbero molto successo anche a livello internazionale. Tuttavia, l’etica del progetto non si è fermata al ’68 e le implicazioni di natura antropologica legate al mondo degli oggetti si sono moltiplicate al punto di superare, col passare del tempo, ogni discriminazione di tipo morale che derivava, peraltro, anche dalle esperienze del Movimento Moderno e dalla Scuola di Ulm negli anni cinquanta e sessanta. La nostra vita si è orientata verso un modo di rapportarsi con le cose caratterizzato dalla presenza di una infinità di oggetti che si relazionano

Ruffilli

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Postfazione

di Massimo

in maniera molto diretta con le azioni umane e che, con l’avvento dell’elettronica e della telematica, hanno addirittura creato realtà di nuova concezione immateriale, virtuale, extrasensoriale con interazioni di carattere psicologico e percettivo tutte ancora da comprendere e valutare. Ogni giorno ci relazioniamo con un incredibile numero di prodotti, almeno quanti i nostri gesti quotidiani; è stato valutato che un soggetto adulto riesce a distinguere fino a 30.000 oggetti, mentre di altri perde la concezione e la memoria. Oggi non si tratta, dunque, tanto di distinguere tra oggetti buoni ed oggetti cattivi, ma semmai di aiutare l’utilizzatore a semplificare la propria esistenza e a non complicarla con l’uso diversificato di oggetti inutili che aumentano a dismisura il suo stress fino a minare la salute e la qualità della vita. L’uso di oggetti che si caratterizzano e si identificano con una cultura ed un territorio sembra essere una strada interessante verso la ridefinizione di valori rivolti alla qualità etica ed estetica del progetto. Sono già molti anni che la Scuola Fiorentina, con le ricerche e gli approcci scientifici di Enzo Legnante e Giuseppe Lotti, ha affrontato il tema di un’etica legata al territorio, ai soggetti produttivi, istituzionali, alla formazione, agli enti di ricerca. La Toscana appare un esempio di questa scuola di pensiero. Il testo Un tavolo tre gambe. Design / Impresa / Territorio (2005), degli autori sopra citati, sottolinea proprio questa partecipazione ad una regione “virtuosa” dove il prodotto è frutto di una sinergia tra istituzioni, aziende, alta formazione, in cui tutti gli attori finalizzano l’esito del progetto ad una concezione condivisa. Ecco che concetti chiave come la sostenibilità ambientale, la durabilità, l’ergonomia, la funzionalità, l’estetica ed in generale la qualità del prodotto, prendono parte al progetto e ne determinano i caratteri peculiari. È evidente che questa visione “territorializzata” si scontra con il concetto


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Alexander Samuelson / bottiglia Coca-Cola / 1915


Henry Dreyfuss / locomotiva New York Central Hudson J-3a / 1938

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di globalizzazione dei prodotti che sta sempre di più caratterizzando l’epoca nella quale viviamo. Tuttavia è anche vero che si avverte un forte ritorno a valori qualitativi che l’industrialismo moderno aveva teso a far dimenticare. Il valore di un buon prodotto artigianale, frutto del lavoro di una piccola azienda, può decretare il successo sul mercato. Ciò vale per i prodotti a tecnologia avanzata ma anche per quelli legati alla moda o all’agroalimentare. Quanto ai valori etici di carattere generale, è evidente che, se non sono neutrali la scienza e la tecnica, non può risultare neutrale nemmeno un prodotto. Le guerre, peraltro, sono combattute con gli oggetti, ma sono promosse ed alimentate dalle azioni umane. Il treno, a cui Koenig attribuiva importanti valori etici, in realtà ha provocato la distruzione dei bisonti e soprattutto degli indiani d’America e ha contribuito a deportare intere popolazioni nei campi di sterminio. È dunque molto difficile attribuire qualità etiche tout court al mondo degli oggetti. È innegabile che ne debba essere controllato l’uso e questo vale per ogni tipo di prodotto che può rivelarsi letale. La relazione tra etica ed estetica resta, comunque, come in antico, alla base dei valori del progetto. L’aforisma dell’arte greca antica Kalos kai agatos, il bello è buono, resta una concezione fondante degli assunti della cultura del design che, attraverso la bellezza, come sosteneva Dostoevskij, potrà anche salvare il mondo. Il progetto migliore deve essere bello e ben fatto, deve mirare all’eccellenza del prodotto alla quale si giunge attraverso la creatività, la capacità ed il virtuosismo artistico del designer che, necessariamente, deve operare in relazione all’ambiente, stabilendo i più armonici rapporti tra natura, cultura materiale e forma. Un’etica intrinseca al prodotto è, dunque, senz’altro contenuta in questi valori del progetto. Quanto ai valori etici in assoluto, questi vanno ricercati nell’uso che del prodotto stesso viene fatto in una società spesso schizofrenica nella quale molti valori tradizionali, condivisi dalla storia, sembrano dai più contraddetti, contestati, dimenticati e dichiarati obsoleti.



Indice

Lino Centi / DESIGN E ALTRI CONFINI

9

Giuseppe Lotti / PENSIERI CRITICI

15

François Burkhardt / UN BILANCIO SULLA CRISI DEL DISEGNO INDUSTRIALE. UNDICI PROPOSTE

23

Enzo Mari / DESIGN ETICO: TRA SOGNI, REALTÀ E TENSIONE UTOPIZZANTE

31

Ezio Manzini / ETICA E DESIGN. IL GIUSTO ED IL POSSIBILE

35

Massimo Canevacci / OPUS-DESIGN

39

Fernando e Humberto Campana / L’APERTURA DELL’IMPERFEZIONE

45

Christian Ullmann / OFFICINA NOMADE. PER LA VALORIZZAZIONE DELLA CULTURA LOCALE Ivo Pons / DESIGN PER LE ORGANIZZAZIONI NON GOVERNATIVE

51 55

Pim Kongsangchai Sudhikam, Be Takerng Pattanopas / TRADIZIONE SOSTENIBILE. UNA RICERCA SUL ‘BENJARONG CONTEMPORANEO’

59

Chérif / SEGNI

65

Kadija Kabbaj / PROGETTARE PRODOTTI, RACCONTARE STORIE

71

Mehdi Dellagi / DIVERSE SCALE, UNA LOGICA

77

Yamo / HABITAT: QUALE CONTRIBUTO?

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Massimo Ruffilli / POSTFAZIONE

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Finito di stampare nel mese di maggio 2009 in Pisa dalle Edizioni ETS Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa info@edizioniets.com www.edizioniets.com


Giuseppe Lotti-Ilaria Bedeschi (a cura di – sous la direction de), Elles Peuvent. Progetti per gli artigiani della Valle del Drâa in Marocco Projets pour les artisans de la Vallée du Drâa au Maroc, pp. 96, 2007 Lino Centi e Giuseppe Lotti (a cura di), Design ± Infinito. Percorsi del progetto critico, pp. 96, 2009

Di prossima uscita Saverio Mecca-Luisa Rovero-Ugo Tonietti (a cura di), Chefchaouen Saverio Mecca (a cura di), Terra, un materiale per il futuro Giuseppe Lotti, Design per l’altro mondo Ilaria Bedeschi, Design e territori. Strategie, metodi, strumenti


I problemi impliciti ed espliciti di un’economia fondata sul solo profitto, le crescenti disparità sociali, il rafforzarsi dell’urgenza ambientale richiedono al design un ripensamento dei propri obiettivi, metodologie e strumenti di intervento. In Design ± Infinito teorici e progettisti si interrogano criticamente sui compiti di un design attento al sociale. Il tutto con una segnata attenzione ai Sud del mondo, nella consapevolezza che, forse, proprio in tali contesti, si giochi la sfida più importante per la creazione di un diverso modello di sviluppo. Lino Centi, architetto, è docente di Disegno Industriale all’Università di Firenze. Autore di testi sull’architettura ed il design, ha recentemente pubblicato il suo primo romanzo titolato Quindici anni per sempre. Opera come artista puro ed applicato. Giuseppe Lotti, architetto, è ricercatore e docente di Disegno Industriale all’Università di Firenze. È autore di testi sul design e curatore di mostre in Italia e all’estero.

€ 14.00


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