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Tenere vivi i sogni Giuseppe Lotti

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Huma

Huma

Tenere vivi i sogni

Giuseppe Lotti

Presidente Corso di Laurea Magistrale in Design Università degli Studi di Firenze

Troppo spesso negli ultimi anni abbiamo legato il valore delle scuole di design alla capacità di strutturare rapporti con le aziende: un elemento sicuramente importante, ma altrettanto importante appare l’idea di una scuola come capacità di sviluppare un approccio critico e proporre visioni di futuro, magari altro. “Il campo linguistico dei prodotti non può essere rivoluzionato di colpo, pena il rifiuto, ma deve essere continuamente forzato, con una operazione paziente e tenace che rende solo alla distanza. La scuola, finché sarà ancora libera da condizionamenti politici e industriali, può e deve contribuire, libera com’è da scadenze immediate e da necessità produttive a indirizzare correttamente la progettazione di oggetti d’uso verso le nuove, inquietanti prospettive” (Giovanni Klaus Koenig, Design per la comunità, “La Biennale di Venezia” n.66, 1970). Più recentemente Giuseppe Furlanis, direttore dell’Isia: “Oggi abbiamo invece (rispetto alla cultura dell’internazionalizzazione che conteneva in sé i germi della dominanza dell’Occidente sulle altre culture, n.d.r.) compreso che l’unificazione dei linguaggi e delle culture crea una sorta di asfissia, una perdita di identità specifiche. Tutto ciò sta alla base del mio modo di intendere una scuola di progettazione il cui principale scopo è quello di insegnare agli studenti ad elaborare una propria cultura del progetto che è sì tecnica, ma anche fondata su una capacità critica, su uno slancio ideale” (Giuseppe Furlanis, Educare all’equilibrio. Intervista a Giuseppe Furlanis a cura di Giuseppe Lotti, “Ecologicamente” n.1, 1999, p.42). E, a ra!orzare il pensiero di Furlanis, François Burkhardt: ”l’intenzione di formare la personalità del futuro professionista munendolo di un bagaglio critico che lo renda indipendente e alternativo invece che integrato e subordinato, salvaguardandone cioè l’autonomia culturale… Si cerca cioè di vedere nella scuola un ‘laboratorio’, uno strumento catalizzatore del dibattito sul design capace di elaborare un programma agendo sulla realtà, ma anche proponendo scenari prospettici” (François Burkhardt, “Design, qualità e valore. L’insegnamento del design al servizio della società”, in François Burkahardt, Giuseppe Furlanis, Angelo Minisci, 2005, pp.34-35). I progetti qui presentati - frutto delle tesi di Laurea Magistrale in Design dell’Università di Firenze - questo ci raccontano, come contributo alle di"cili sfide della sostenibilità. Una sostenibilità che avverte le di"coltà del presente, ma non le a!ronta con i proclami ma con la politica dei piccoli passi e delle piccole cose. Così Andrea Branzi, curatore della mostra The new Italian Design alla Triennale di Milano del 2013, individua Seven Degrees of separation, per il giovane design italiano, “a sort of anthropological disaster produced by the vertical collapse of project ethics and the aesthetic of form”, mentre in realtà un “change has taken

place” e produce “most glaring and positive e!ects” (Branzi, 2013, p.16) tra i fenomeni.I “Seven Degrees of separation that might lie at its origin […] molecular politics. This political practice occurs without theorization. It coincides with a silent praxis that matches the behavior of an increasing number of people, they react in a imaginative manner to an aesthetic, creative and even political necessity that can be defined as being weak but wide-spread, in the sense that its action follows a molecular strategy, a sort of enzymatic energy that does not produce traumatic change but slow transformation [… ]. The twenty-first century teaches us that now just large structural plans are capable of making changes but also domestic economy. Not just urban mega-projects but also flower vases” (Branzi, 2013, in Annichiarico S., Branzi A. 2013, p.16). E recupera il senso della cura per la natura e tutti gli esseri viventi. “Fino ad oggi gran parte del design è stato uno strumento potente dell’antropocene, con la specie umana saldamente al centro e gli interessi umani al cuore dei suoi obiettivi [...] Il design dovrebbe essere centrato non solo sull’essere umano, ma sul futuro della biosfera” (Antonelli, 2019, p. 19, 38). Con conseguenti critiche all’user centred design che “può benissimo essere considerato sinonimo di design centrato sulle grandi aziende [...] il design incentrato sulla persona riflette in realtà una visione antiquata e antropocentrica della realtà. E’ tempo di rimediare con una buona dose di design altruistico e allocentrico” (Antonelli, 2019, p. 21). E’ “il concetto di design ricostituente” che “studia i molteplici legami che collegano gli esseri umani ai loro ambienti (economico, sociale, culturale e politico) e ad altre specie (animali, piante, microrganismi o l’intero albero della vita), in ogni ordine di grandezza e in tutti i sistemi” (Antonelli, 2019, p. 19). Nella consapevolezza dell’importanza di un approccio interdisciplinare, senza per questo perdere il ruolo centrale del design. Così sul catalogo della mostra Nature collaborations in design del Cooper-Hewitt Museum: “The approach is transdisciplinary and involve scientists, engineers, advocates for social environmental justice, artists, and philosophers, who apply their conjoined knowledge toward a more harmonious and remunerative future [...] The challenges to our planet today are so complex that they cannot be solved by one discipline. Design is the bridge. It translates scientific ideas and discoveries into real-world applications” (McQuaid, 2019, pp. 6-9). I progetti ci presentano una sostenibilità che si presenta, inevitabilmente, complessa. Spesso conciliazione tra gli opposti: tra naturale ed artificiale, innovazione e recupero di tradizioni antiche, soluzioni globali e radicamento territoriale. “La cultura industriale classica pensava ad un mondo semplificato e trasparente come una catena di montaggio. Quello che invece appare è un mondo complesso, in cui l’alta tecnologia può combinarsi nelle più diverse forme con tecnologie mature ed anche con l’artigianato, in cui antiche conoscenze possono essere riciclate per nuovissimi campi di impiego; in cui insomma, invece dell’attesa omogenizzazione dei modelli culturali e produttivi ad un’unica razionalità dominante, si riscoprono le diversità.” (Manzini, 1990, p. 65). Nel caso di Alessio Tanzini e Valentina Zamorano è recupero di traditional knowledge come contributo alla sostenibilità in un particolare mix tra low tech – energia zero, compostaggio, conservazione tradizionale e high tech – supporto di app e piattaforma.

Bibliografia

Annichiarico S., Branzi A. 2013, The Italian design, Triennale Design Museum, Udine. Antonelli P. 2019, "Broken nature", in Antonelli P., Tannir A., Broken nature XXII Triennale di Milano, La Triennale di Milano Electa, Milano. Burkahardt F., Furlanis G., Minisci A., 2005, a cura di, Design qualità e valore. Dieci anni di design al servizio della società, Gangemi, Roma. Furlanis G. 1999, Educare all’equilibrio. Intervista a Giuseppe Furlanis a cura di Giuseppe Lotti, “Ecologicamente” n. 1. Galimberti U. 2007, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, Milano. Galimberti U. 2018, La parola ai giovani. Dialogo con la generazione del nichilismo attivo, Feltrinelli, Milano. Mancuso S. 2017, Plant revolution. Le piante hanno già inventato il nostro futuro, Giunti, Firenze. Mancuso S., Petrini C. 2015, Biodiversi, Giunti, Slow food, Firenze - Bra. Manzini E. 1990, Artefatti: verso una nuova ecologia dell’ambiente artificiale, Domus Academy, Milano. McQuaid M. 2019, «Introduction», in McQuaid M., Lipps A., Condell C., Nature: collaborations in Design, Thames And Hudson, New York. Elisa Matteucci lavora sulle potenzialità di riuso delle lane rustiche, oggi non più impiegate intervenendo su un problema ambientale, spesso sottovalutato. Nel lavoro di Francesco Cantini sono sperimentati gli scenari dell’economia circolare, con una particolare attenzione alle sinergie tra filiere – naturale e del manifatturiero, nell’a!rontare un di"cile problema legato all’utilizzo della posidonia. Mentre nel caso di Roberto Rubrigi e Daniele Funosi è sviluppato un progetto di economia simbiotica attuando il recupero e inserimenti degli scarti post-produzione e post-consumo nella filiera del tessile. Nel progetto di Marika Costa si sviluppa l’interazione uomo-natura-piante, con evidenti riferimenti al pensiero di Stefano Mancuso (Mancuso S., 2017; Mancuso S., Petrini C. 2015), sperimentando un particolare, forse corretto, mix tra natura e artificio. Ma nella presentazione dei lavori mi piace evidenziare che investono fattori di carattere formativo e, più in generale, culturale. Qualche anno fa a conclusione del libro Territori & connessioni. Design come attore della dialettica tra locale e globale, citavamo Umberto Galimberti che, a proposito del disagio culturale di tanti giovani scriveva: “e se il rimedio fosse altrove? Non nella ricerca esasperata di senso come vuole la tradizione giudaico-cristiana, ma nel riconoscimento di quello che ciascuno di noi propriamente è, quindi della propria virtù, della propria capacità o, per dirla in greco, del proprio daimon che, quando trova la sua realizzazione, approda alla felicità, in greco eu-daimonia? In questo caso il nichilismo, pur nella desertificazione di senso che porta con sé, può segnalare che a giustificare l’esistenza non è tanto il reperimento di un senso vagheggiato più dal desiderio (talvolta limitato) che dalle nostre e!ettive capacità, quanto l’arte del vivere (téchne tou biou) come di-cevano i greci, che consiste nel riconoscere le proprie capacità (gnothi seau-ton, conosci te stesso) e nell’esplicitarle e vederle fiorire secondo misura (katà Métron)” (Umberto Galimberti, 2007, p. 14). Lo stesso Galimberti più recentemente rileva come sia presente una percentuale “non piccola di giovani che sono passati dal nichilismo passivo della rassegnazione al nichilismo attivo di chi non misconosce e non rimuove l’atmosfera pesante del nichilismo senza scopo e senza perché, ma non si rassegna e si promuove in tutte le direzioni nel tentativo molto determinato di non spegnere i propri sogni” (Galimberti, 2018, p. 13). Anche questo mi sembra emergere nei progetti qui raccontati, l’idea che il progetto, con gli inevitabili limiti, possa contribuire ad un modello di sviluppo altro, più sostenibile sul piano ambientale e socio-culturale.

Finito di stampare per conto di didapress Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze Luglio 2020

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