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dossier
Università degli Studi di Firenze - Dipartimento di Progettazione dell'Architettura
Firenze ARCHITETTURA
ARCHITETTURA E CITTÀ
FIRENZE
ARCHITETTURA Lire 12.000 rivista semestrale anno II n. 1
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dossier
GLI SPAZI DELLA GIOIA E DELL’AMMIRAZIONE
Dipartimento di Progettazione dell’Architettura
Direttore Carlo Chiappi
Sezione Architettura e Città Professori Ordinari Gian Carlo Leoncilli Massi Loris Macci Piero Paoli Professori Associati Giancarlo Bertolozzi Andrea Del Bono Alessandro Gioli Marco Jodice Maria Gabriella Pinagli Mario Preti Ulisse Tramonti Ricercatori Alberto Baratelli Marco Casamonti Antonella Cortesi Renzo Marzocchi Enrico Novelli Valeria Orgera
Sezione Architettura e Contesto Professori Ordinari Roberto Maestro Adolfo Natalini Professori Associati Giancarlo Cataldi Carlo Chiappi Stefano Chieffi Benedetto Di Cristina Gian Luigi Maffei Guido Spezza Virginia Stefanelli Paolo Vaccaro Giorgio Villa Ricercatori Carlo Canepari Gianni Cavallina Pierfilippo Checchi Piero Degl’Innocenti Maurizio De Marco Serena De Siervo Grazia Gobbi Sica Carlo Mocenni
Sezione Architettura e Disegno Professori Ordinari Emma Mandelli Professori Associati Marco Bini Roberto Corazzi Domenico Taddei Ricercatori Maria Teresa Bartoli Alessandro Bellini Gilberto Campani Marco Cardini Carmela Crescenzi Marco Jaff Enrico Puliti Michela Rossi Marco Vannucchi
Sezione Architettura e Innovazione Professori Ordinari Antonio D’Auria Giuliano Maggiora Professori Associati Roberto Berardi Alberto Breschi Remo Buti Giulio Mezzetti Ricercatori Lorenzino Cremonini Paolo Iannone Pierluigi Marcaccini Marino Moretti Vittorio Pannocchia Marco Tamino
Altri docenti Professori Ordinari Aurelio Cortesi Maria Grazia Eccheli Rosario Vernuccio Paolo Zermani Professori Associati Paolo Galli Bruno Gemignani Mauro Mugnai Assistenti Ordinari Vinicio Somigli Ricercatori Fabrizio Rossi Prodi
Personale Tecnico Coordinatore Tecnico Giovanni Pratesi Funzionari Tecnici Giovanna Balzanetti Massimo Battista Enzo Crestini Mauro Giannini Paolo Puccetti Assistente Tecnico Edmondo Lisi Operatori Tecnici Franco Bovo Laura Maria Velatta
Personale Amministrativo Funzionario Amministrativo Manola Lucchesi Assistente Contabile Carletta Scano Assistente Amministrativo Debora Cambi Gioi Gonnella Operatore Amministrativo Grazia Poli
TETTURA ARCH IITETTURA
FIRENZE
1. 98 d o s s i e r Periodico semestrale del Dipartimento di Progettazione dell’Architettura via Cavour, 82 Firenze tel.055/2757721 fax. 055/2757720 http://www.unifi.it/unifi/progarch/ Anno II n.1 Autorizzazione del Tribunale di Firenze n. 4725 del 25.09.1997 Prezzo di un numero Lire 12.000 Abb. annuo Lire 20.000
DIRETTORE Carlo Chiappi
DIRETTORE RESPONSABILE Marino Moretti
COMITATO SCIENTIFICO Maria Teresa Bartoli, Roberto Berardi, Marco Casamonti, Carlo Chiappi, Marino Moretti, Paolo Vaccaro
COMITATO EDITORIALE Eugenio Martera, Enrico Puliti
REDAZIONE Alberto Breschi, Eugenio Martera, Marino Moretti, Vittorio Pannocchia
INFO-GRAFICA E FOTOGRAFIA Massimo Battista
DTP Laura Maria Velatta
Sommario
Alberto BRESCHI Presentazione
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DIBATTITO VIRTUALE Interventi di L. Cremonini, P. Iannone, F.M. Lorusso, E. Martera, M. Moretti, V. Pannocchia
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Roberto BERARDI Spazio della Storia, della invenzione e del racconto in Orsanmichele, nella Fortezza di S. Giovanni a Firenze e nel Palazzo Ducale in Urbino 26 Alberto BRESCHI, Flaviano M. LORUSSO, Pierpaolo PERRA Metaprogetto urbano e riconversione funzionale per l’ex-inceneritore di S. Donnino 34 Lorenzino CREMONINI Lo spazio museale: il museo-movimento dell’arte
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Antonio D’AURIA “L’architettura sono io!” Le Stanze vuote di Remo Buti
46
Paolo IANNONE Architettura: complessità del progetto contemporaneo
52
Eugenio MARTERA Il vuoto
56
Marino MORETTI Luoghi di culto, spazi di turno, nuovi siti
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COORDINATORE TECNICO Gianni Pratesi
COLLABORATORI Massimo Bianchini, Roberto Corona
COPERTINA Eugenio Martera, Laura Maria Velatta
PROGETTO GRAFICO Tommaso Brilli, Matteo Zetti
SEGRETERIA DI REDAZIONE E AMMINISTRAZIONE tel. 055/2757792 E_mail: progarch@prog.arch.unifi.it. Questo numero è stato curato da Eugenio Martera
PROPRIETÀ UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI FIRENZE REALIZZAZIONE Centro Editoriale del Dipartimento di Progettazione dell’Architettura Fotolito Saffe, Firenze Finito di stampare nel Giugno 1998 da Arti Grafiche Giorgi & Gambi, viale Corsica, 41r Firenze
Vittorio PANNOCCHIA Lo spazio delle rappresentazioni tra conservazione e innovazione 68 Paolo SETTI Un progetto per i musei fiorentini
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nel prossimo numero di FIRENZE
ARCHI T E T T U R A FIRENZE
ARCHITETTURA :
QUADERNI LE FIGURE DEL COMPORRE
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Scritti e interventi di: Gian Carlo LEONCILLI MASSI, Laura ANDREINI, Matteo CRESTI, Fabio FABBRIZZI, Marco NAVARRA, Giacomo PIRAZZOLI, Andrea RICCI, Daniele SPOLETINI
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Firenze Architettura 1/98 (Dossier) inaugura una serie di monografie dedicate alle Sezioni del Dipartimento di Progettazione dell'Architettura. Il titolo "Gli spazi della gioia e dell'ammirazione" è perentorio ed insieme vago e misterioso: allude ad una metafora ambigua e di forte suggestione, ad una presenza da cui si sviluppano progettualità trasposte dalla ricerca, dalla didattica e dall'esperienza professionale, senza restrizioni o vincoli. Una presenza quindi largamente adattabile e condivisibile, capace di estendersi e diffondersi in tutti i tratti finché, gradualmente, l'architettura non va a prendere possesso del tema. Eugenio Martera ha situato gli interventi nella luce fantasmagorica delle immagini, correndo volutamente il rischio di intrecciare queste con quelli. Ne risulta un "testo" vivo, continuo e mutevole, un reticolo di rispondenze, di piani e di toni che mostra analogie più con la pittura che con la grafica. Ed è un aspetto che ci intriga particolarmente, soprattutto là dove figure e parole confluiscono in un senso analogico, dentro un paesaggio che penetra quasi casualmente e scorre sotto il dibattito, misurando i confini del discorso, illuminando, anzi colorando luoghi, oggetti, significati. Tutto qui. Ma quanto basta, riteniamo, a far fantasticare il lettore su questi materiali prima che siano dimenticati, travisati o perduti. Sull'Innovazione incombe da sempre il disaccordo della Modernità. Vi è come una slogatura continua, un panorama scompaginato, frammentario ed ellittico. Eppure tra gli autori - Roberto Berardi, Alberto Breschi, Lorenzino Cremonini, Antonio D'Auria, Paolo Iannone, Flaviano M. Lorusso, Eugenio Martera, Vittorio Pannocchia, Pierpaolo Perra, Paolo Setti e il sottoscritto sembra esservi, in più casi, un'intesa indelebile che sovrasta le loro, pur sensibili, diversità. Di fatto molte risposte risultano così mirate da fornire in un mosaico le coordinate di una possibile episteme, talvolta oscillante tra ipotesi incolmabili e profezie solcate dal timore. Il dialogo assume così spesso le forme dell'autoriflessione con insistenti richiami al presente e al passato e le immagini, dopo aver superato numerose prove eliminatorie, sono costantemente mobilitate ad impersonare le peculiarità di una cultura di fine millennio, in progress oppure in moto apparente, a seconda dei punti di vista da cui la si osserva. Immagini come incisi dunque, icone in armonia ed in contrasto che aprono un diluvio di associazioni "altre" e ci inseguono da finestra a finestra, disvelando interessi, affinità, parentele tra cose viste, sentite o pensate. Tutto l'impianto è tale da eccitare la nostra curiosità, né ha la pretesa di soddisfarla. Ma il tentativo di descrivere e rappresentare a distanza fortemente ravvicinata le trasformazioni e le occasioni che l'architettura sta vivendo, oggi, ci sembra riuscito. Come se di tutti gli "ismi" conosciuti in origine fosse rimasto, accettato come finale positivo, ormai solo il sillogismo. E tutto spostato verso il culmine della felicità espressiva. (Marino Moretti)
P R E S E N T A Z I O N E
ALBERTO BRESCHI Il gruppo di docenti della sezione “Architettura e Innovazione” presentano in questo numero una serie di progetti ed esercitazioni didattiche che hanno come pretesto progettuale lo spazio museale, ma la cui finalità é proseguire un cammino tracciato da alcuni esponenti della scuola fiorentina durante gli anni 60-70 e che ebbe il suo punto di riferimento più significativo nella didattica dei corsi di Visual Design e Urbanistica di Leonardo Ricci e di Architettura degli Interni di Leonardo Savioli.(1) Come allora, permane una radicata esigenza di interpretare il mondo contemporaneo con aspirazioni di comportamento nuovi e alternativi alla codificazione corrente. Ne consegue un atteggiamento sul “progetto”, non solo come strumento previlegiato di sperimentazione, ma, soprattutto, come “percorso” di una nuova intenzionalità propositiva dell’ambiente contemporaneo che, percorrendo non linearmente, ma trasversalmente, discipline diverse, tende a “slittare” continuamente dall’architettura ad altri campi, in primo luogo alle arti figurative, e, non di rado, al cinema, al design, alla moda. Altri contributi, proveniendo da ambiti culturali diversi, hanno arricchito questa “eredità” con un rapporto più serrato con la storia e il contesto. Da Leonardo Ricci viene ripreso la concezione di un progetto come “volano” esistenziale di una organizzazione vitale diversa, di cui l’architettura ne diviene il mezzo attuativo e la “rappresentazione” formalizzata. Da Leonardo Savioli deriva invece una concezione dello spazio che non é immagine definita, simbolica, tipologica, ma “immagine allusiva, evocativa, pretestuale, che può collocarsi perciò, nei riguardi dell’utente, a diversi livelli di consumo; talvolta a livello di presa immediata, tangibile e diretta, talvolta invece a livello di una più lontana evocata adesione.” (2) Tutto ciò era strettamente connesso alle esperienze figurative che in quegli anni dominavano la scena internazionale, dall’Informale all’Action Painting, dalla Pop Art, all’Arte Programmata. Se l’arte non aveva più come termine di confronto “l’eternità ma l’instabilità, l’insi-
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curezza, l’angoscia esistenziale che all’arte derivano dal rovesciamento completo della configurazione del mondo, della vita, dei rapporti umani ...” (3), l’elemento pittorico non era più l’esclusivo mezzo espressivo, ma semplicemente uno degli elementi utilizzati dall’operazione artistica. Si accoglievano finalmente oggetti la cui fonte era chiaramente l’ambiente metropolitano: frammenti, rifiuti urbani, immagini e segnali della comunicazione di massa, ogni cosa connessa al “quotidiano” veniva utilizzata per la costruzione di “nuovi scenari” domestici. Oggi la contaminazione figurativa cui i colleghi della sezione fanno riferimento parte ancora dalla riproposizione del “vecchio” metodo di Duchamp; in particolare sui processi di spaesamento e denominazione dell’oggetto, attraverso l’amplificazione delle qualità di seduzione espressiva che l’oggetto possiede. Ad esso si riconosce l’acquisizione di una sensibilità e capacità di “manipolazione” dei materiali conoscitivi del quotidiano per riproporli, mutati in materiali progettuali, in soluzioni d’uso e di forma diverse dalla prassi corrente, dalla codificazione e conservazione. A ciò si aggiunge un rinnovato interesse per la natura al fine di maturare un atteggiamento più consapevole diretto ad affrontare il degrado ambientale in una nuova ipotesi qualitativa della percezione spaziale, e un diffuso ricorso alla storia nell’utilizzare i contributi formali dell’Avanguardia storica per de-semantizzare e de-costruire l’oggetto architettonico in un esercizio che sfiora costantemente i limiti dell’eclettismo. Si ripropongono strumenti, tecniche di sperimentazione e atteggiamenti per lo più riferiti a quei movimenti che generalmente sono ricondotti sotto il termine comune di Seconda Avanguardia (Happening, Fluxus, Minimal Art, Arte Concettuale, Land Art). La traslazione in architettura di nuovi “environments” non disegnano spazi architettonici definiti ed unitari, piuttosto li simulano. Si torna, come negli anni 70 alla “non-architettura”. L’operazione che si compie sulla “scatola” architettonica tradizionale é una “de-costruzione”. Ritroviamo linee curve e spezzate, diagonali e superfici inclinate che hanno lo scopo di spaesare e attirare lo spettatore e fanno prevalere, più che la comprensione univoca, il mistero e la metafora. Scenari inquietanti, sospesi tra il ricordo e la premonizione, che aprono la strada a nuove espressioni, spazi, forse della gioia e dell’ammirazione. Si individuano due linee di tendenza. La prima, decostruttivista, nasce dalla constatazione che un pensiero “complesso”, in architettura e nel design, si é sostituito , non solo mentalmente, all’ordine, espressione di un pensiero riduttivo e semplificatore; non si tratta di un’anarchia formale, ma di un diverso principio di organizzazione dello spazio e della forma di una grande complessità; é come se ogni imperfezione e impurità venisse “portata in superficie per una strana combinazione di gentile coazione e violenta tortura: la forma é interrogata. ...” (4) Si sente l’esigenza di una sensibilità estetica che sostituisca al mito della “armonia e dell’unità”, la “dissonanza e la disgregazione”.
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L’altro polo della ricerca deriva da un atteggiamento più contestuale; se il nostro contesto é infatti quello reale, composto non solo da pregevoli riferimenti storici ma anche e soprattutto da periferie e relitti industriali, da viadotti e raccordi autostradali, da esso dobbiamo trarre il massimo delle iterazioni possibili E pare particolarmente efficace l’analogia con l’arte concettuale e minimalista da cui potremo cogliere un nuovo rapporto con il contesto e in architettura, rinnovare soluzioni formali di un nuovo ‘fondamentalismo materico’ di assolutezza espressiva: un’architettura che si insinua tra i mille caotici frammenti urbani di disastrate periferie metropolitane e ne fa emergere, attraverso reiterate operazioni di progressive astrazioni gli elementi generatori del processo compositivo per costituirsi di nuovo in “luogo”. ‘Labirinto della città’ per dirla con Rella, come luogo di smarrimento e di scoperta: uno spazio fatto di limiti, di soglie, di realtà che non possono essere chiuse in uno sguardo. Come afferrare questo inafferrabile? Come muoversi in questo labirinto in cui, diceva Benjamin, ‘smarrirsi’? Metropoli: labirinto della città dunque, come specchio della realtà più complessa, lo specchio del mondo e dei suoi enigmi. A questa realtà l’uomo, invece che ‘imporsi’, deve imparare a ‘esporsi’.
NOTE: 1 - su questo argomento v. bibliografia riportata su “La città europea” FIRENZE, Alinea - 1991 2 - LARA VINCA MASINI “Lo spazio dell’immagine” , FOLIGNO - 1967 3 - LEONARDO SAVIOLI Per un nuovo rapporto tra l’utente e lo spazio, in: “Ipotesi di Spazio”, FIRENZE, G&G - 1972 4 - PHILIP JOHNSON / MARK WIGLEY “Deconstructivist Architecture” NEW YORK, the Moder Art Museum - 198
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Obiettivo delle pagine seguenti è costruire una discussione/dibattito sul tema INNOVAZIONE negli ambiti più significativi. E’ stata scelta la strada di montare in sequenza una serie di contributi testuali e visivi prodotti separatamente dagli autori come su una schermata di un monitor durante una navigazione su internet. Speriamo che questa “intefaccia” costituisca un modo per lasciare il più possibile libere le associazioni del lettore e quindi la sua partecipazione. Sono intervenuti: Lorenzino Cremonini (L.C.), Paolo Iannone (P.I.), Flaviano Maria Lorusso (F.L.M.), Eugenio Martera (E.M.), Marino Moretti (M.M.), Vittorio Pannocchia (V.P.).
INNOVAZIONE E
ARCHITETTURA
L.C.: Decenni di recenti realizzazioni (in architettura) dimostrano quanto siano facili le “ricadute”, le ricelebrazioni che l’architettura contemporanea non si può permettere se l’architetto è colui che deve tradurre negli edifici, valori di una civiltà e di una cultura cui appartiene o che pensa si stia rivelando attraverso nuove “icone”, che pongono la cultura architettonica davanti a nuove indicazioni; tutto ciò sulla necessità di una revisione e di un aggiornamento dei suoi obiettivi e dei suoi strumenti sia teorici che operativi.
“Diamo movimento alla vita che è dentro di noi”. Ciò perchè se vogliamo uscire da questa alienazione urbana, dobbiamo utilizzare l’architettura per comunicare, attraverso un grande lavoro collettivo capace di ridurre le personalizzazioni stilistiche più importanti, e qualificare la ricollocazione della disciplina in un vasto panorama comune sondando nelle molteplici direzioni di un universo più generale e complesso delle altre discipline; ed avendo la capacità di messa in discussione dell’architettura stessa nel mondo contemporaneo. E’ quindi con un nuovo atteggiamento di responsabilità progettuale, che si deve intraprendere circa la ricerca di una probabile soluzione delle problematiche ambientali cui noi architetti per primi dobbiamo cercare di risolvere, cogliendo l’allarme e la denuncia costante e continua che il vivere le nostre città come reazione, produce. Va quindi indagata una nuova possibile cultura del progetto che predisponga nuovi quadri mentali e più efficaci strumenti operativi per risolvere esistenzialmente (non secondo il solo puroegoismo consumistico), finalmente i problemi che lo spazio urbano pone, con la nuova nozione d’ambiente necessaria, e cioè l’Interno Urbano. Diciamolo una volta per tutte, le informazioni e i contenuti disciplinari che erano ancora sufficenti per programmare e realizzare lo sviluppo della civiltà e della produzione industriale, ora sono ormai inadeguati a tracciare le qualità naturali e artificiali del nostro vivere quotidiano, e insufficienti per predisporre le vie di una trasformazione sempre più impellente della nostra esistenza, del nostro spazio urbano; che deve essere più vicino alla nostra intima realtà interattiva, e deve relazionarsi con nuove capacità immaginative ad un mutamento dinamico che si accompagni al nostro crescere esistenziale con una maggior correlazione con la natura. Vanno quindi prefigurati nell’Interno Urbano, qualificati scenari (ecologici ed esistenziali) immaginativi tra reale, artificiale e virtuale, quali probabili tracce dell’intero progetto d’ambiente e lo sviluppo del futuro che tenderà forse sempre più verso
altri gradi di artificialità. Certamente volenti o no, noi architetti saremo sempre più pressati in ogni soluzione di oggetto, di ambiente o di edificio a volgere l’esplorazione immaginaria, compositiva, tecnica e funzionale, verso risposte qualitative risolventi sia questioni di riciclo, depurazione e sfruttamento delle risorse naturali e artificiali, per un significato esistenziale non teso al solo consumismo; e sia, nella perdita di quelle matrici di valori e di riferimento cui si va confinando la crisi del progetto (dopo quella del M. M.) alla ricerca di occasioni per avviare una metamorfosi urbana,
sviluppando nuove soluzioni estetico-immaginative per consentire nuove alleanze progettuali mirate a tratteggiare lo sviluppo futuro dell’uomo. 6 D O S S I E R
E.M.: La valenza più innovativa nel panorama delle architetture progettate negli ultimi anni è sicuramente quella derivante dal filone di ricerca che propone progetti strutturati intorno a
“vuoti architettonici” che si propongono come vere e proprie “stanze urbane” all’interno delle quali si inseriscono le funzioni necessarie all’organismo architettonico. Tali funzioni si configurano come progetti autonomi che vanno a costituire all’interno del vuoto un aumento della “densità” fisica e concettuale.
P.I.: Che l’architettura sia sempre stata oggetto di innovazione è un dato di fatto, altrimenti non si potrebbe neppure parlare di una “Storia dell’architettura”. C’è piuttosto da chiedersi da che cosa sia determinata questa innovazione dell’architettura, fino a che punto cioè sia una risposta all’evoluzione storica dei fattori “esterni” (situazioni sociali, economiche e politiche, ideologie, sistemi di “valori”) e fino a che punto proceda invece secondo
autonome dinamiche “interne” di carattere prevalentemente linguistico. In proposito sembra di poter rilevare, in tutti i periodi storici, una convergenza dialettica (cioè non priva di complessità e contraddizioni) tra i due ambiti di fattori, “esterni” e “interni” (ovvero “eteronomi” e “autonomi”) che possono spingere all’evoluzione in architettura in quanto, come scrivevo altrove,
“l’Architettura comunica con un suo linguaggio se stessa in termini spaziali e altro da sé in termini simbolici”. Altra antinomia, tra le cui polarità sembrano “oscillare”, sia il dibattito teorico sull’architettura, sia la concreta prassi progettuale, è quella del confronto (talvolta scontro, talvolta compromesso, in qualche caso sintesi equilibrata e sapiente) tra “innovazione” e “tradizione”. Nel manufatto architettonico non si può prescindere dal problema del “luogo” e del “tempo”, ovvero del contesto, inteso sia nella sua sedimentazione storica, sia nelle sue potenzialità e tendenze di evoluzione futura (evoluzione che il nuovo intervento stesso contribuisce ad orientare). Proprio sul problema del rapporto con il passato si notano, nella cultura architettonica odierna, posizioni molto differenziate: dalle posizioni polemicamente anti-tradizionaliste e dall’indifferenza al contesto (spesso più programmatica che reale) del Movimento Moderno si è passati, da parte di alcuni settori della cultura architettonica, a una fase di “ripensamento” e a una spiccata attenzione verso “la presenza del passato”. Questo ha portato, nei casi migliori, a un riesame critico delle modalità operative e dei criteri di inserimento soprattutto in contesti storicizzati, in altri casi a fenomeni di imitazione oscillanti tra banalità e “ironia” in nome di una più o meno ambigua continuità con la memoria storica. Le tendenze più recenti, pur nella molteplicità delle linee di ricerca attuali, sembrano riallacciarsi ad alcune tematiche del Moderno, cercando di superarne le rigidità e di ampliarne i gradi di libertà in favore di più ricche modalità di articolazione spaziale.
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M.M.: A ripercorrere la discussione che s’intreccia su quest’argomento, emergono altre concause. L’energia prodotta dalla postmodernità o, forse, come sostiene Giddens radicalizzando l’effetto, dall’ipermodernità, pone l’architettura che vedremo sotto il segno dell’ambiguo e del molteplice. Gli itinerari del futuro saranno labirintici e di rifondazione, ed ancora dominati dal convincimento di una catastrofe in atto da almeno un decennio: quella delle certezze acquisite. Si sposteranno da un punto ad un altro seguendo curve frattali, infinitamente irregolari. Se l’architettura degli anni 70 e 80 ottimizzava citazioni e affermazioni (slogans), quella prossima ventura mostra già ora, in quest’indian summer che si frappone tra passato e futuro, i sintomi di un rapporto casuale e personale con la Storia, senza basi d’autorità. Sotto più di un aspetto tale modo di collocarsi nell’innovazione rivela forti analogie con altri campi della progettualità, dove si studiano tensioni ed interazioni a catena.
Quando l’architettura lavora sulle mutazioni, non ha verità da svelare, né da mettere a nudo: procede dall’uno al molteplice e utilizza frammenti. In questo modo l’auto-esplorazione formale sta diventando sempre più auto-biografica ed auto-referenziale. Sicuramente lascerà meno scorie e forme in Decomposizione, piuttosto oggetti in Decostruzione. Io la preferisco così. Niente più ansiolitici, né monumenti, bensì spazi che vivono nella realtà e derivano dalla città, dall’arte, dalla società. Insomma dai comportamenti, dalle incertezze del quotidiano. Del resto ci muoviamo dentro un tessuto d’imitazioni, di campionari anonimi o firmati, sempre più orientati rispetto al vissuto e all’artistico, e cosi farà l’architettura. Già adesso - forse perché non vogliamo entrare nella storia soltanto con le nostre tristi periferie - ci orientiamo su direzioni che fino a ieri sembravano una pratica accessoria; vale a dire verso la catarsi stilistica o il puro esercizio (transtilizzazione?). Ma non esiste contratto. Solo un tacito patto. Non v’é il singolo riferimento; semplicemente una condizione individuale di parentela e d’appartenenza al sentimento collettivo. Penso che l’architettura sperimenti qui, in una dimensione apparentemente marginale, il proprio destino. E’ naturale che in questo passaggio si guadagni qualcosa e qualcosa venga perduto. E se di Bellezza si deve parlare e del suo enigma, quella che mi sembra ancor’oggi la definizione più icastica è di Lautréamont:
“Il Bello ... è l’incontro fortuito su un tavolo anatomico tra una macchina per cucire e un ombrello”.
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F.M.L.: Progettare architettura vuole dire pensare, agire, esprimere sul confine: è
problema di confine. Effetto della più autentica capacità desiderante e insieme riflessiva, esso implica e persegue la messa in forma costitutiva dell’attitudine evolutiva: progettare comporta pertanto una epifania. Il progetto non può che accadere sul limite: temporale, concettuale, espressivo, non può che abitare , per natura letterale, la linea di frontiera, il margine: tra idee, forme, tecniche, discipline, tra detto e dicibile, tra memoria e futuro. Tensione di trapassamento, dover essere oltre per mezzo dell’irruzione di un reale possibile e inedito, un’architettura autentica tende a nuove nominazioni. Essa è spostamento, espansione del limite su cui insiste, agente dell’apparizione di un nuovo orizzonte: è pensiero-atto creativo come processo di mutazione, annuncio e sviluppo di una germinazione evolutiva conforme ai nuovi bisogni-sogni ed alla nuova scienza-coscienza dell’attualità del mondo vitale e, dunque, della loro rappresentazione nella nuova figurazione simbolicoformale congruente.
V.P.: Per valutare gli effetti prodotti dai fatti innovativi sulle differenti concezioni dello spazio, dalle quali nascono le costruzioni, è necessario soprattutto in Architettura, rilevare simiglianze e differenze attraverso il confronto tra i progetti attuali ed i precedenti. Quando procediamo in questo modo riusciamo a comprendere le finalità e l’importanza delle “vere” innovazioni. Non solo raggiungiamo conclusioni inaspettate ma siamo in grado di intuire che, almeno nella nostra epoca, i mutamenti non sono stati proposti per sostituire alcune “verità” ereditate dal passato con altre del tutto nuove. Se indaghiamo i tempi trascorsi ed in particolare il nostro secolo, rileviamo condizioni e motivi specifici che hanno condotto gli architetti a dubitare delle certezze raggiunte fino a quel momento ed a porre, in un medesimo momento, “progettisti” e “costruttori” di fronte a nuovi e sconosciuti sentieri da percorrere dei quali al momento non era interamente delineato l’andamento del tracciato né la precisata meta da raggiungere. Semmai, ogni volta sono esistite più di una indicazione sulle diverse direzioni da seguire. Certo questi vincoli sono comuni ad altri campi della conoscenza, perché il “fare” dell’uomo si manifesta in molti modi possibili e con valori ad essi propri. Ma, oggi, considerata la riduzione della durata dei tempi necessari per realizzare le costruzioni non dobbiamo confondere né tantomeno far diventare le innovazioni, simili ad imposizioni dettate dal vorticoso succedersi delle mode. Piuttosto ricordiamo la volontà, espressa da artisti, architetti, tecnici e costruttori, di superare i convincimenti raggiunti nel passato che ha portato (compresa la denominazione dei movimenti ai quali essi appartengono) ad indicare che i principi da cui muovono, sono invenzioni e più spesso, aggiungiamo, citazioni o reinterpretazioni, ma comunque altri nei confronti di quelli fondanti il “Moderno”. E’ indubbio, tutto questo acquista i sensi di un riconoscimento esplicito dei valori innovativi espressi dallo
Spirito della Modernità e dai più importanti protagonisti di quel periodo storico. In Architettura, o meglio nella “elaborazione artistica degli elementi strutturali, funzionali ed estetici di una costruzione”, quando una innovazione turba la continuità evolutiva del pensiero che la guida, non sempre l’azione della prima è, nell’immediato, così incisiva e diffusa da far decadere tutte le norme e soprattutto i principi sui quali la stabilità è fondata ma la sua opera lascia tracce profonde solo su alcuni elementi. Questa è la situazione che distingue la contemporaneità.
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INNOVAZIONE
E
CITTA’
L.C.: Si è detto da più parti che uno dei doveri dell’architetto è di essere al passo con i tempi, e quindi di rappresentare col proprio lavoro un linguaggio significativo di quella modernità che crediamo di poter esprimere. Poi invece, anche se attenti a rispecchiare questo credo in ogni nostra azione progettuale, ci si accorge di aver perso il passo, di aver smarrita l’essenza collettiva, anche perchè a differenza di quanto il consumismo ci ha inculcato, il desiderio di ognuno di noi difficilmente collima o si sovrappone con quello degli altri. Se pensiamo alla eredità urbana ricevuta, alle varie stagioni sedimentate delle civiltà succedutesi, ai mille “autonomi episodi” nati con motivazioni diverse, che in una cultura unitaria hanno saputo costruire questo misterioso spazio chiamato città; ebbene risulta sempre più difficile capire come nell’epoca moderna della pianificazione urbanistica, si sia persa la capacità di proseguire quell’idea-forma e quel significato. Ed è proprio con la speranza (forse presuntuosa) di contribuire anche se in minima parte a capire e riqualificare tale forma, augurandoci che l’incomprensione urbana che noi abbiamo dimostrato, possa mutarsi per le future generazioni, in un nuovo rapporto d’uso di questo ignorato Interno Urbano;
in un rapporto creativo e ineliminabile tra la città e i suoi abitanti. “Vivere la città significa avere interiorizzato un tal senso delle relazioni sociali e culturali, da poter fare in alcuni casi, anche a meno delle strutture murarie. Costruire la città senza gli abitanti costituisce di per sè un fallimento”. G. Michelucci Si vorrebbe insomma invitare ad una considerazione della città e della sua architettura, non tanto quale “insieme di tramandi tipologici, ma come densità di memorie del passato non tanto riducibili nella evidenza tipologica degli edifici”, ma anche del probabile futuro. Torniamo a considerare la città come “sito” per eccellenza del patrimonio della cultura, come progetto di vita e destino; qualifichiamo i valori architettonico-spaziali dell’interno urbano in un viaggio del progetto, in un vissuto stratificato nella sua dinamica fisica e psichica. Pensiamo a una matrice spaziale più “segnica” che formale, come afferma F. Rella, tendendo a riqualificare
“la significatività dell’architettura nella sua capienza plastico-simbolica, cioè nel suo essere fatta di idee e di segni nuovi anzichè soltanto di forme; e quindi fatta nel racconto di un “viaggio-racconto” nell’immaginario urbano desiderato anche di frasi poetiche, di memorie rivisitate, di sguardi lasciati”. “Il racconto narra sempre un mutamento”, dice F. Rella, “ed è lo ‘spazio’ in cui si mostra la metamorfosi delle cose. Il racconto è il sapere possibile di questa metamorfosi, quando nell’impermanenza delle cose che ci circondano, nel loro continuo oscillare, scorrere, fluttuare, decidiamo una traiettoria, e su questa traiettoria cominciamo a descrivere atteggiamenti, positure, tratti, movimenti”. Un modo di progettare un viaggio questo, continua lo studioso, dove assieme a “nuove cose” che fanno crescere la consapevolezza e il recupero (quasi una rifondazione della città), sia possibile attraverso immagini di valenza simbolica svariatissime per origine (affluenti magari da aree storiche diversissime), qualificare o tratteggiare appena un percorso spaziale complessivo, di impatto fantasioso e di grande efficacia sensoriale, insinuante, capace di provocare interrogativi e magari certezze ritrovate, curiosità di senso e di luogo. Si deve tentare nella ricerca e nella didattica, di organizzare una specie di brogliaccio di lettura e di visualizzazione “totale” dell’immaginario urbano (dalle stratificazioni memoriali più remote a quelle più recenti), in un composto omogeneo ora di parola e immagine (parificata appunto sulla efficacia della comunicazione concretamente visiva e segnica), oppure di echi delle esperienze post-concettuali del tipo “narrative art”, ove parola scritta e immagine anche simbolica convenivano in un unico intento di racconto di situazioni, tipologiche o psicologiche che fossero.
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P.I.: Il concetto di innovazione ha sempre trovato ampio riscontro nella riflessione sulla città, oltre che nel concreto farsi e modificarsi della città stessa nel tempo. La visione di una città completamente nuova, e forse “perfetta”, interamente controllabile e definibile attraverso gli strumenti progettuali, è un sogno ricorrente che, dalle “città ideali” del Rinascimento alle utopie urbane “megastrutturali” degli anni ’60, sembra attraversare tutta la storia. Oggi, la rapida crescita delle città che ha caratterizzato i decenni precedenti, tende a rallentare o a stabilizzarsi, facendo spostare l’attenzione dai problemi quantitativi del “grande numero” alle necessità di riorganizzazione e riqualificazione del tessuto urbano esistente. Emerge quindi in primo piano il problema delle periferie, cresciute in modo disordinato e “informe”, secondo spinte essenzialmente speculative e oggi
alla ricerca di “senso” e di “immagine”.
E.M.: L’evento più innovativo in questi ultimi anni è sicuramente l’avvento in Europa del progetto di
grande dimensione. Fino ad oggi la tematica degli edifici di grande dimensione sembrava esclusivamente appartenere alle città americane e ai nuovi insediamenti per il terzo mondo; oggi si possono raccogliere una serie di progetti che stanno determinando un ondata di “modernizzazione” che sta coinvolgendo anche il Vecchio Mondo. “Nella Grande Dimensione, la distanza tra nucleo e involucro cresce al punto che la facciata non può più rilevare ciò che avviene all’interno. L’esigenza umanistica di ‘onestà’ è abbandonata al suo destino: architettura degli interni e architettura degli esterni divengono progetti separati: una confrontandosi con l’instabilità delle esigenze funzionali e iconografiche, l’altra - portatrice di disinformazione - offrendo alla città l’apparente stabilità di un progetto. Là dove l’architettura pone certezze, la grande dimensione pone dubbi: trasforma la città da una sommatoria di evidenze in un accumulo di misteri.” R. Koolhaas
Il senso di banalità e di squallore di molti tessuti periferici, spesso anche in presenza di una qualità mediamente accettabile dei singoli edifici, deriva in gran parte da una mancanza di “vitalità urbana” determinata dal carattere sostanzialmente monofunzionale di quelle zone, a destinazione quasi esclusivamente residenziale e povere di servizi. Questa situazione, molto marcata in passato, al momento della realizzazione dei nuovi quartieri, tende oggi ad attenuarsi in parte, grazie anche a un maggiore “radicamento” degli abitanti, al consolidamento cioè di abitudini, di rapporti sociali e quindi di attività di servizio e di aggregazione comunitaria. Tuttavia permane in queste zone una sostanziale carenza di servizi, per cui la realizzazione di centri integrati funzionalmente potrebbe efficacemente contribuire a un riqualificazione e “risignificazione” delle periferie. E’ interessante notare, a questo proposito, che alcune aree periferiche fortemente congestionate, con sovrapposizioni di funzioni e attività disomogenee, cresciute in barba agli strumenti urbanistici, risultano comunque più “vitali” e urbane rispetto alle zone fortemente specializzate. Opportunità interessanti possono essere fornite dai cosiddetti
“vuoti urbani”, costituiti soprattutto da aree industriali dismesse. Qui, superando quegli strumenti di pianificazione ormai obsoleti come lo zoning e il piano particolareggiato, è possibile intervenire in modo unitario (anche se con flessibilità decisionale e con eventuale gradualità nel tempo) attraverso gli strumenti del progetto architettonico, cioè con un’architettura a grande scala concepita, anche da operatori diversi, con omogeneità di impostazione e articolazione coerente dei linguaggi. Il concetto di innovazione, se sembra riguardare soprattutto le periferie, non è tuttavia estraneo alle problematiche dei centri storici, in cui le ineludibili esigenze della conservazione non dovrebbero escludere a priori la possibili di interventi “coraggiosi”, che, se impostati con sensibilità e attenzione, potrebbero anzi “dialogare” con le preesistenze storiche valorizzandole.
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M.M.: Ho riletto il saggio di Koolhaas sulla Città Generica. Non viene mai meno. Troppe certezze per una persona sola. E poi, tagliuzzando i concetti in tanti segmenti di senso, finisce col darsi infinitamente ragione. Ma è vero,
la modernità non ha portato alla città moderna e forse neppure a quella “generica”. Semmai ad una civitas il cui universo è apparentemente senza luoghi. Né centro, né periferia. Una no-stop city (Archizoom ‘69) ma più in carne e senz’ossa. La questione non è paradossale come sembra. In un’epoca che si è rifugiata al riparo dai fatti compiuti, il retroscena dell’innovazione, urbana e non, è produrre capitale e reinvestirlo.
Si è imparato troppo da Las Vegas; o troppo poco da Disneyland. Anche se da noi la fine dell’urbanistica (e dell’avvenire delle città) è soprattutto la risultante dei fallimenti delle politiche di Piano e dei tentativi postumi di agire a livello di sistemi, dunque al massimo grado d’astrazione, pensando a tante città ideali come Fedora (Calvino), dentro una sfera di vetro. Così, se da una parte è l’esistenza stessa dei grandi centri, oramai imprigionati e disabi(li)tati, ad essere in discussione, dall’altra la loro ultima speranza, l’architettura, viene elevata al quadrato. Ma non recriminiamo. In effetti, l’abdicazione al controllo dinamico della FORMA urbana e al sogno della città integrata – eravamo troppo inebriati dal desiderio di ascoltare il suo cuore, la sua storia, i suoi incantamenti - ha enfatizzato la crescita di una FORMA architettonica quasi esclusivamente in ascolto di sé. La riprova è fornita dalla costosa ricerca di qualità altissime, purissime, levissime del linguaggio architettonico (ipertecnologico, ipercelebrativo, iperdecostruttivo, ecc.) che si sta diffondendo in Europa. Qui la tanto discussa struttura della città viene strenuamente difesa ogni volta, ma dall’estremità opposta, come se, alla realizzazione del nuovo edificio, attraverso una decantazione della forma e delle valenze URBANE dell’Oggetto, tutto venisse d’un colpo risolto e poi istantaneamente rimesso in gioco. Soltanto ragioni estreme, “affinità elettive” come a Berlino, oppure occasioni particolari come a Barcellona hanno potuto riconferire all’architettura un’altra identità: quella del frammento a scala urbana. E in fondo, da noi si tarda ad estendere quest’orizzonte di riflessione. Anzi non si vede, poiché non può cogliersi indugiando su eventi, figure, scene d’architettura. Occorre invece profittarne, perché da tale riconversione si ricavano non solo le ragioni dell’architettura contemporanea (le uniche ormai consentite), ma anche le probabili dimensioni delle città del futuro (asiatiche?).
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F.M.L.: Se, da un lato, la teletecnologia proietta la modificazione dell’originaria natura topologica della città, la sua referenzialità localistica, nella atopica estensionalità, extraterritorialità virtuale rendendola teletopica in quanto nodo di concentrazione dei supporti tecnico-operativi delle nuove tecnologie; è parimenti vero che la stessa città, decadendo la necessità della sua crescente fisica estensionalità in ragione delle dinamiche innescate dalla deindustrializzazione e dal telelavoro, intravede la possibilità di un ritorno a se stessa come evento spazializzato, perfino come prodotto culturale dotato di misura e di forma. Possibilità ritrovata di una urbanità ricomposta, ove “città globale” virtuale e “friendly society” reale, tempo veloce della prima e tempo lento della seconda realizzano la simultaneità evolutiva di un habitat inedito ad identità conforme,
verso forme di ricondensazione che ritrovino la possibilità del suo ridisegno, di una sua compiuta ri-figurazione singolarizzata, fino a sintetizzarsi direttamente nell’altissimo fuso, lucente ed acuto, della città-antenna di una Millennium Tower.
V.P.: Una città è, fin dalle sue origini, luogo di aggregazione, conservazione, scambio, dunque, territorio privilegiato per sperimentazioni che, molto di frequente, conducono ad innovazioni. I mutamenti della forma urbana avvenuti, da sempre, con lenta gradualità sono caratterizzati, per il periodo contemporaneo, dalla rapidità. Le possibilità, date all’uomo, di accelerare i propri spostamenti reali al suo interno, per merito delle macchine, e virtuali dentro e fuori di essa, con l’aiuto di nuove tecnologie, hanno contribuito a rendere la città sempre meno “raffigurabile” se confrontata a ciò che immaginiamo dovesse essere in passato. La percezione avuta delle singole parti componenti e dell’intera forma urbana “diffusa” è fondata su principi non più idonei a mantenere unità e coerenza ma tuttalpiù a comunicare una visione omogenea, spesso monotona, che permette la sua facile riconoscibilità. Ciascuna organizzazione sociale, di fronte a questo fatto, di cui è accertata l’influenza sulla vita dell’uomo in tutti i territori urbanizzati della terra, ha il desiderio di apportare modifiche. Diviene difficile comprendere quali possano essere le tendenze in atto, finalizzate non solo a cagionare mutamenti ma anche necessarie a tale scopo; semmai possiamo registrare alcuni lenti slittamenti dei sensi fino ad oggi attribuiti alle architetture costruite ed alle altre parti necessarie per poter riuscire a definire “città” un aggregato di parti. Appaiono dettati dalla ragione i dubbi intorno alle necessità effettive di continuare a ritenere la città un’opera della comunità umana definita per funzioni ed interamente circoscrivibile quando, si segue il perimetro della superficie da questa occupato. Dobbiamo ammetterlo, nonostante le diverse organizzazioni sociali non siano ancora riuscite a trasformare il mondo nel “villaggio planetario”, auspicato dal sociologo canadese H.M. McLuhan, che dovrebbe caratterizzare la contemporaneità, se questo deve esistere tale profezia mantiene gran parte delle sue attrattive. Le grandi capacità di mobilità richieste ad ogni abitante, le prestazioni, sempre diverse, che dobbiamo imparare ad offrire agli altri (per sondare e vivere la realtà) integrate dall’apporto dei mezzi di comunicazione trasformati in messaggio, non sono sufficienti per convincere l’uomo ad abbandonare il desiderio di intrattenere rapporti con la fisicità delle cose.
E’ questo desiderio che rende reale l’effetto città ed induce a sperimentare fatti urbani che hanno dato ed in parte continuano a dare senso alla città stessa.
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L.C.: Definire la città come proiezione della società sul territorio (Lefebvre), vuol dire non solo identificarla sul “sito sensibile” evidenziato nell’epoca considerata; ma anche sul piano specifico, percepito e concepito dal pensiero che determina la città e l’urbano nel ritmo esistenziale; e ancora su quello tecnologico, che oggi sta modificando la nostra vita (gravata dal desiderio diventato bisogno, dalla soddisfazione diventata insoddisfazione), attraverso la pluralità, la coesistenza e la simultaneità di diversi “patterns” esistenti nello spazio urbano. Dice ancora lo studioso, “la città inviluppa l’abitare; essa è forma, inviluppo di questo luogo di vita “privata”, partenza e arrivo delle reti che permettono le informazioni e che trasmettono gli ordini (imponendo l’ordine remoto all’ordine prossimo) con due modi di procedere: l’uno dal generale al singolare (dalle istituzioni alla vita quotidiana), e scopre la città come piano specifico e come mediazione privilegiata; e l’altro partendo da questo piano, costruisce il generale assumendo elementi e significazioni nell’osservabile urbano, e raggiunge sull’osservabile, il privato, la vita urbana nascosta nei suoi ritmi, le sue occupazioni, la sua organizzazione spazio-temporale, la sua cultura “clandestina”, la sua vita sotterranea. La città può e deve quindi impadronirsi e immedesimarsi (e qui le tecnologie multimediali possono essere utili) nei presenti significati, politici, religiosi, filosofici, ed esistenziali per poi spazialmente raccontarli, per esporli con la parola dell’urbano (che racconta la vita e la morte, la gioia o i dolori) e anche con
la lingua dell’urbano (particolare di un luogo, nei discorsi e nei comportamenti, nei gesti e nell’abbigliamento degli abitanti), attraverso lo spazio e il non spazio degli edifici, dei monumenti, dei vuotipieni, delle strade e delle piazze, attraverso la spontanea qualificazione (che poi diventa ambientale) degli incontri che vi si svolgono, delle cerimonie (nei luoghi preposti) e delle feste. E fruendolo, amandolo ed (anche) odiandolo, questo spazio-scrittura urbana viva e pulsante, trasmette ordini (religiosi, politici, morali, economici, etc..) derivati anche da quelli del passato, e proiettati attraverso l’attualità verso il prossimo futuro. E questi “imput” la città li traduce in consegne per la significazione e la partecipazione urbana, per diversi impieghi e gerarchie di tempo e di luogo, che l’uomo gestisce poi nella sua vita quotidiana, qualificando sovente la dimensione di uno stile che si caratterizza come “architettonico” ( ma purtroppo dovrebbe in gran parte essere chiamato edilizio), se appoggiato all’arte in genere e allo studio delle sue opere. Occorre studiare come si manifesta la città e come si manifestano i modi di vivere e abitare la quotidianità; ma non si può, continua lo studioso, confondere la città in quanto capta ed espone le significazioni venute dalla natura, dal luogo e dal paesaggio, con la città in quanto luogo di consumo di segni, con i suoi pieni edifici e monumenti ed i suoi vuoti (piazze, viali e strade) che simbolizzano il cosmo sociale. (Lefebvre) Il tutto implica e mostra nell’illusione dell’immediato e del vissuto, delle contraddizioni (interno ed esterno, centro e periferia) per quanto è o meno integrato oppure estraneo alla società urbana pulsante, la necessità di una analisi (forse tramite le nuove tecnologie) capace di andare oltre l’illusione, ed evidenziare e significare quella successione di atti e incontri che costituiscono la vita dell’Interno Urbano; una vita urbana che oggi tenta di rivoltarsi contro gli stessi messaggi, gli ordini e le imposizioni venute dal consumismo, cercando (come opera dei cittadini) anche con l’aiuto delle nuove tecnologie multimediali, di riappropriarci del tempo e dello spazio che ormai, come modo di abitare la città non è più per l’uomo d’oggi, ma per un automa, un robot. Quella che va cercata è (forse con l’aiuto delle tecnologie multimediali) una forma mentale e sociale della simultaneità, della partecipazione e dell’incontro, della convergenza di umani intenti e di conseguenza dei rapporti del tempo con lo spazio. Siamo alla ricerca di un Interno Urbano da qualificarsi come “significante “di cui cercare i significati intesi come “realtà” pratico-sensibili, che permettano di realizzarla nello spazio con una base morfologica e materiale, adeguata anche allo sviluppo tecnologico. Ciò perchè, il processo “industrializzazione-urbanizzazione è stato scisso e i suoi aspetti sono stati separati e quindi votati all’assurdo (Lefebvre), estraniando così una parte consistente dell’evoluzione dell’Interno Urbano. Tale “impasse” esistenziale si può ormai superare, come già detto, solo puntando ad assolvere con validi contenuti esistenziali, il compito di modificare la realtà urbana, dando vita con la memoria del passato e la realtà tecnologica “del futuro”, ad una vita urbana trasformata nel superamento di quell’egoistica visione del mondo, dato dalle sole leggi di mercato e dal solo significato del danaro e del profitto. Certo il fatto economico non sarà più il solo obiettivo, ma non va disatteso come mezzo per arrivare con capacità interdisciplinare, a reinventare lo spazio urbano inteso come valore di un pensiero esistenziale del cittadino a 360°, che ancora non esiste a livello socio-politico. Sono bisogni sociali questi che nel loro fondamento antropologico, si evidenziano nella sicurezza ma anche nell’avventura, nell’organizzazione del lavoro e dello svago, del tempo libero per le attività creative, dello sporto e del gioco, nell’unità e nella differenza, nella partecipazione e nell’isolamento, nella comunicazione istantanea del presente e del futuro (anche virtuale) e in quella del passato sedimentato (alimentato dalla memoria anche artificiale), per un’esistenza polivalente e polisensoriale capace con l’attuale tecnologia, di rapporti anche complessi col mondo intero.
Innovazione e
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TECNOLOGIA
P.I.: La tecnologia, non solo in architettura ma in tutti i settori di produzione, è uno dei campi in cui il concetto di innovazione si manifesta con maggiore evidenza. Anzi, a partire dalla rivoluzione industriale, cioè dalla fine del ‘700, si è sempre più affermata l’idea che sia proprio il continuo “progresso” tecnologico, soprattutto attraverso le sue applicazioni industriali, il principale motore dello sviluppo economico e sociale. Il Movimento Moderno in particolare ha fatto propria questa “cultura dell’industria”, sviluppando linguaggi improntati alla modularità, alla standardizzazione e più in generale alla razionalità tecnologica, in termini di chiarezza costruttiva e correttezza nell’uso dei materiali.
Oggi al primato del “modello meccanico” legato al mondo dell’industria tende a sostituirsi sempre più un modello “mediatico-informatico”, legato all’elaborazione e circolazione delle immagini e delle informazioni.
E.M.: L’innovazione tecnologica nel campo dell’architettura non può riguardare solamente potenzialità strutturali o impiantistiche ma maggiormente dovrà influire sull’ evoluzione figurativa dell’architettura stessa. Sintomatico come J. Nouvel ribalta una famosa frase di Giedion: “L’architettura non è un arte rigorosa assogettata a leggi imperative. La sua qualità è indipendente dai materiali, dalla forma e materiale e forma hanno sempre meno importanza. Se una città esplode, essa gode di una grande libertà di espressione. Essa travalica i limiti tradizionalmente definiti dall’epoca e si adegua all’evoluzione. L’essenza stessa dell’architettura sta nel travalicare i propri limiti”
In architettura questo ha determinato una crescente attenzione ai problemi di linguaggio (in rapporto agli sviluppi di altri ambiti disciplinari, come la semiotica, l’antropologia, la filosofia in genere) con la ricerca di tecnologie adatte a concretizzare le nuove tendenze linguistiche. Nell’architettura degli ultimi anni, soprattutto con l’affermarsi delle tendenze “decostruttiviste”, si nota, in genere, la predilezione per forme “leggere” e trasparenti, oltre che molto articolate, che rifuggono dai caratteri di solidità e “pesantezza” della più tradizionale architettura “murata”. Di conseguenza la tecnologia costruttiva adottata tende ad analoga “leggerezza”, privilegiando strutture metalliche, ampie superfici vetrate, pannelli in alluminio o in materiali plastici. Del resto anche materiali più tradizionali come c.a., laterizi o legno vengono spesso usati con risultati formali inusitati. Un altro fattore di innovazione viene introdotto dalle nuove tecnologie informatiche, proprio nella metodologia di “costruzione del progetto”. Attraverso l’uso del computer e dei relativi programmi applicativi è oggi possibile infatti una continua e accurata verifica “in itinere” del processo progettuale e dei suoi risultati. Le verifiche incrociate, le informazioni in tempo reale,
l’uso dello spazio virtuale, produrranno nel tempo una nuova cultura del progetto favorendo una creatività liberata dalle lentezze e dai condizionamenti del processo progettuale tradizionale e, pertanto, in grado di fornire risposte adeguate ai grandi temi architettonici del nostro tempo.
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F.M.L.: Sono le nuove tecnologie della comunicazione/informazione e della realtà virtuale la più autentica ‘figura liminare’ della nostra contemporaneità, l’unica chiave anzi di azione/interpretazione in grado di costituirne e rappresentarne la soglia di identificazione, di autentica appartenenza. Sono esse che hanno indicato la possibilità radicalmente innovativa, ‘mutante’ di un ritorno del futuro come dimensione,
prospettiva strutturale ed insieme simbolicoesistenziale di superamento perfino della stessa, usurata categoria della modernità: i più autentici, incisivi agenti ‘ermetici’, transizionali di innovazione per comportamenti, linguaggi, tecniche e, comunque, la più efficace fabbrica di nuove metafore e figurazioni, di indotto analogico. Tecnologia paradossale che con le nuove tecniche ed i nuovi materiali rimette in gioco gli statuti architettonici ereditati secondo invece una ‘magia’, concettuale ed operativa, del travalicamento, dell’inversione e dell’inapparenza.
M.M.: Credo che ora dovremmo liberarci dall’ossessione di voler dare spiegazioni integrali, ingolfandoci in uno scambio estenuante sui presupposti della questione. Potremmo invece interrogare l’innovazione stessa, guardare a che punto è e verso cosa tende. Il 2000 è la meta da raggiungere e superare, è scommessa, appuntamento sociale, ma soprattutto tecnologico e scientifico. Ciò comporta una furiosa spinta al cambiamento. Rinascono
“falangi sperimentali” (Fourier) intorno ad esplorazioni più o meno ardue, ma sempre, dichiaratamente, “avanti”; in altre parole, capaci di sforare il millennio. Questo è il diktat. In un certo senso, se un Leitmotiv attraversa il corpus dell’innovazione tecnologica in tutti i settori, esso consiste in quest’accelerazione non rettilinea e non uniforme, che ridicolizza ogni pretesa di ricondurre l’idea di sviluppo entro le maglie di un sistema chiuso e finalizzato (continuum). In un futuro che è costantemente aperto, ogni tentativo di descrivere e configurare questo altrove, cioè tale mondo simulato, dove tutto dovrebbe finire col corrispondere ai nostri desideri, è destinato a fallire. Viviamo in una realtà “spiazzante” fatta di segmenti, spots, intermittenze e le trappole elettroniche potrebbero scattare tutte insieme. Ma non possiamo, comunque, considerare la tecnologia postindustriale un regresso o un prodotto tossico come il curaro tra i Bororo. Né rammaricarci se, alla maniera di tante culture arcaiche, siamo stati convertiti alle dottrine della tribù vicina. Certo, lo Zeitgeist sembra condurci ad una svolta epocale e deve, come sempre, preoccuparci. Nuovi softwares quotidiani, irragionevolmente obsoleti senza essere impiegati. L’ipertrofia tecnologica nel campo della simulazione spaziale e percettiva ha materializzato anche il concetto stesso di virtualità, che fino a ieri era uno spazio riservato della creatività e dell’ immaginazione, collocandola tra progetto ed oggetto, restringendo prepotentemente il divario tra ciò che vediamo e ciò che realmente “è”. In architettura questa condizione imprevista c’impedisce di disegnare, anzi designare un campo delimitato della figuratività perché l’Oggetto si consuma fino “al profondo”, assai prima di nascere. Anche l’enorme dilatarsi e contrarsi delle coordinate spazio-temporali annuncia un ennesimo capovolgimento. E’ la rivincita del discontinuo, del guasto imprevisto, che va riparato in corsa. Questa discontinuità rende sempre più difficile dissertare sulle tappe di una tecnologia che, contrariamente al passato, è inseguita dall’architettura e ciò potrebbe rovesciarla in una serie di paradossi. Credo che finiremo col sentirci, in un certo qual modo, bloccati, intrappolati nell’innovazione, come lo eravamo nella tradizione.
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V.P.: E’ indubbio che nell’immaginario personale e soprattutto collettivo, il concetto di innovazione e quello di tecnologia, in molte occasioni, vengano abbinati. Basta pensare alla letteratura ai diversi campi di interesse e di esplorazione, insomma ai generi. Nella fantascienza ad esempio le mete od i risultati che il protagonista intende raggiungere vengono conquistati per merito dei prodigi delle tecniche, delle sorprendenti prestazioni offerte da sostanze e materiali fino a quel momento sconosciuti. Ma anche le Arti della Visione non possono essere rese esenti da queste considerazioni. Anzi molte delle innovazioni avvenute al loro interno o la nascita di una nuova forma espressiva sono dipese dalle ricerche (tecnologiche) e dalle macchine che in base ad esse sono state costruite. Importanti mezzi di comunicazione, apportatori di grandi innovazioni che hanno segnato l’inizio di un’epoca per le possibilità offerte
nel riprodurre la realtà o nel “crearne” una nuova, seppur fittizia, quali la fotografia, il cinema e la televisione, fino agli attuali media non esisterebbero senza l’apporto decisivo della tecnologica. In ogni momento della vita quotidiana è possibile riscontrare l’unione
tra innovazione e tecnologia
anzi, oggi, questo fatto è diventato quasi una necessità pressante a cui dare soddisfazione. I “prodotti” di qualsiasi genere, proposti come merce da acquistare, che dovrebbe rendere la nostra esistenza più felice, vengono presentati come l’ultimo risultato, per il momento, di sofisticate tecnologie applicate sia nel procedimento seguito per la realizzazione che per le ricerche, effettuate sui materiali ed indirizzate a sfruttare le loro caratteristiche principali. Ora fin quando si tratta di un gioco (apparente), finalizzato ad informare e sedurre l’acquirente, il fatto non desta più la meraviglia di nessuno, ma quando le argomentazioni portate per rendere accettabile ciò che prima non era pongono al loro centro gli elementi innovativi, il nostro atteggiamento cambia. Con grande rapidità gli oggetti, costruiti secondo i vecchi principi, scompaiono perché sostituiti da altri e la durata temporale del loro “vita” si accorcia. Le innovazioni, nei campi della tecnologia, a causa dei nuovi sistemi produttivi escludono, molto di frequente, la possibilità di riparazione dei guasti apportati dall’uso. Viene a mancare nell’uomo la volontà di mantenerli comunque attivi e, dunque, indispensabili per soddisfare ai suoi bisogni. A partire da queste considerazioni il problema di accettare, le innovazioni si pone in modo diverso, rispetto al passato, soprattutto nei campi della tecnologia.
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L.C.: Sappiamo che l’interesse per l’uomo nei riguardi dello spazio interno è innanzitutto esistenziale; poi ne troviamo significato nelle relazioni che successivamente riesce con l’uso, a qualificare con l’ambiente che lo circonda; e ciò fino a darne significato e quindi ordine nella partecipazione quotidiana, arrivando a trasformarlo poi in vero spazio architettonico e ad instaurare conseguentemente un equilibrio dinamico con l’ambiente. Oggi a mio parere, il nostro agire sembra doversi impegnare in un atteggiamento ed un intento diverso, quasi a ritroso, consistente nella qualificazione ed espressione progettuale di uno spazio, che consenta all’uomo di riappacificarsi e rimettersi in sintonia con l’architettura e la città, e ritornare (con l’aiuto della luce, del colore e delle nuove tecnologie) a comprenderne una nuova capacità comunicativa ed esistenziale. Oggi è fuor di dubbio che la città risulti ormai chiusa, murata, non più trasformabile (prime periferie comprese) e a parer mio non rimane altro allora, per avere un ambiente urbano a misura d’uomo, che agire nel suo Interno. Se fino ad oggi, nella manipolazione di questo edificio-città, ci si è impegnati in generale, solamente con la razionalità funzionale a braccetto col consumismo, ora si deve entrare ed agire in questo spazio alienante, con la mente, con il sentimento della memoria del passato (anche recente), con la pratica evolutiva delle nuove tecnologie presenti. Così nel viaggio del nostro progetto dell’Interno Urbano, avremo una partenza (che genera e soddisfa un bisogno sia di espansione che di individualità ed armonia del proprio io ), quale rottura si è scritto, che evoca un passato e proietta un futuro; e un transito che nel dinamismo (anche percettivo) alimenti probabili riflessioni e trasformazioni del carattere, dell’identità; e infine l’arrivo (l’attuazione del progetto) che è un tentativo di fondare un’unione e una coesione nuove tra il soggetto e il contesto. Sappiamo che l’illusività è ciò che può trasporre la costruzione architettonica e lo spazio urbano, su un piano poetico dove esistono un volume e un moto solo poetici e non reali; senza di che essa non è opera d’arte, non è architettura, ma rimane sostanza tecnica, ingegneria.
“Un edificio diceva Le Corbusier: il doit chanter, e questo canto silenzioso, il canto dell’architettura, è nella sua illusività”. (Giò Ponti) Rari sono gli esempi che inducono a riflettere con maggior consapevolezza sulla reale essenza di un edificio. Gli spazi veri sono liberi, immaginari; la loro percezione è indotta dai tagli di luce che disegnano i luoghi. Il muro, un piano inclinato, un varco, uno stretto corridoio, una porta. Sono gli elementi che definiscono il luogo. Non solo una finestra che ci consente di guardare fuori. Siamo in termini progettuali alla faccia della tradizione contrapposta a quella della modernità tecnologica; siamo alla faccia dell’architettura solo costruita della presenza statica, contrapposta a quella non costruita (che non c’è, ma si ricorda, si avverte, si sente nel condizionamento che pone). Quell’ingresso che inizialmente diventa condizione fisica di un momento “iniziatico”, di uno spazio di “cambiamento”, vede via via una maggiore qualificazione delle capacità espressive in relazione sempre meno alla percezione solo fisica (ora rispetto alla caverna o al primitivo involucro “abitativo”), e sempre più a quella psicologica dell’uomo. Ciò principalmente con l’intuizione umana rivolta all’interiorità, perchè la nostra comprensione dello spazio si attiva in ragione del punto e del come cominciamo a vederlo, capirlo, prenderne coscienza e usarlo. Quello è esattamente il “nostro” ingresso attivato nell’attenzione, nel desiderio di conoscerlo; e con esso oltre a orientarci strutturalmente nel fruirlo, lo intercettiamo emotivamente, come tessuto connettivo, come strumento di dialogo tra uno spazio interno che dall’esterno si è manifestato, preannunciando le proprie caratteristiche. E ciò si evidenzia nella sorpresa del suo scambio, nelle sue concordanze e nelle sue opposizioni, nei suoi pieni e nei suoi vuoti alle varie scale, nella separazione, nell’isolamento e incontro, nella curiosità-conoscenza tra futuro e passato, e forse nel trovare uno spazio “atopico, sospeso e quasi atemporale”, tra tradizione e modernità, tra svago e cultura, tra giorno e notte. E.M.: Per incidere in termini sociali il carattere innovativo del progetto architettonico e la sua successiva teorizzazione dovrà innescare meccanismi di recupero e ridisegno non più finalizzati all’utopica illusione dell’integrazione e della mimesi con il paesaggio urbano consolidato ma dovrà viceversa accettare ed evidenziare le difformità e preoccuparsi soprattutto della definizione di tipologie di spazio urbano/architettonico che siano capaci di
innescare processi evolutivi anche alla scala sociale. “L’architettura attraverso la sua elaborazione programmatica e l’apparenza fisica, potrebbe essere critica ed istruttiva allo stesso tempo, parlare di principi, illustrare premesse ideologiche, espandere miti, discreditare tabù e creare una nuova sua realtà. Al meglio potrebbe ispirare i suoi abitanti.” E. Zenghelis
Innovazione e 18 D O S S I E R
SOCIETà
P.I.: Le principali innovazioni in campo sociale (intese anche come linee di tendenza per il futuro), con cui la cultura e la prassi del progetto e della pianificazione dovranno necessariamente confrontarsi si riferiscono in primo luogo alle dinamiche demografiche, nei loro vari aspetti. Già da molti anni nei paesi occidentali, e in Italia in particolare, è in atto un marcato fenomeno di
“denatalità”, con effetti sia di stabilizzazione quantitativa della popolazione sia di innalzamento dell’età media, anche in conseguenza di una più lunga durata della vita. Agli effetti delle tendenze demografiche naturali si accompagnano quelli delle nuove dinamiche migratorie caratterizzate, in molti paesi europei, dall’attenuarsi dei flussi migratori interni e dell’urbanesimo, compensata dalla crescente incidenza dell’immigrazione da paesi extracomunitari (con i conseguenti problemi di inserimento sociale e di integrazione culturale). Si tende quindi sempre più verso una società composita, “articolata” e ”mobile”, in cui vengono a cadere, o almeno ad attenuarsi, le tradizionali suddivisioni in classi “sociali” con loro specifiche identità, sostituite da più indefinite “fasce di reddito”, non direttamente riconducibili a precisi caratteri culturali o comportamentali. A questo si accompagna, soprattutto nel corso dell’ultimo decennio, una sostanziale perdita di ruolo delle “ideologie” come fattori di coagulazione e di orientamento sociale, in favore di una generica “cultura del consumo” alimentata dai mass-media e dalla pubblicità. In questo senso i comportamenti sociali, con i loro “nuovi riti” e “nuovi miti”, favoriti da una forte spinta partecipativa e da un’informazione globale (Internet) fortemente interattiva, oscillano tra i due poli della massificazione e dell’individualismo. 19 D O S S I E R
M.M.: La popolazione mondiale che agli inizi di questo secolo era di un miliardo e seicento milioni, oggi ha quasi raggiunto i sei miliardi. La coscienza di vivere in un “mondo unico”, i cui cambiamenti sociali, ecologici, economici influenzano in maniera decisiva il nostro quotidiano, non è più patrimonio speculativo di una ristretta élite d’intellettuali, ma di pubblico dominio. E’ in movimento da qualche tempo, rispetto alla relativa staticità del periodo dominato dal modello “borghese”, un partito dell’Io mondiale che tende a sviluppare esperienze di relazione tali da alterare sostanzialmente quelle preesistenti. Comunque si ponga la questione è certo che
la società di questo fine millennio è alla ricerca di un nuovo pensiero positivo che risponda ad una domanda esistenziale, che riguardi il senso della vita. E, nell’estendere l’imperativo della trasformazione personale in chiave antirazionalista ed antideterminista, essa crede, fiduciosamente, nelle rivoluzioni che stiamo vivendo, quelle dell’elettronica, della comunicazione e dell’informatica come produttrici di un sapere mediatico e illimitato che può salvare l’umanità.
Millenarismo, metafisica della totalità sono gli assiomi di un’ideologia emergente, che sta diffondendosi un po’ ovunque, quella della New Age. Teoremi, questi, apparsi grazie ad un contesto epistemologico che li favoriva: nell’era postcartesiana l’uomo non è più padrone della natura, né schiavo della separazione tra spirito e materia, tra anima e corpo. Non vive d’idee e di ragioni, ma soprattutto di sentimenti e di sensazioni. Questa sarà dunque veramente l’età dell’essere e delle sue tecniche, come recita un famoso testo New Age? Difficile preannunciarlo, dato che in contrasto con la sintesi ibrida d’individualismo e collettivismo, con la libertà di cercare e di creare nuove identità sociali, vi è anche l’angoscia di quelli che restano al di fuori di questo “nuovo” o che temono di rimanervi loro malgrado. Poiché, una volta steso un velo elettronico sull’intero pianeta, un gran cervello con tanto di cellule pensanti, non è escluso che la globalizzazione imponga nuove forme di colonizzazione, soprattutto per i paesi in via di sviluppo, massacrando il patrimonio culturale delle società, alterando i valori e le identità dei singoli. Allora, forse, in questo filone di crescita - che pur rappresenta uno spiraglio attivo ed una valida reazione alle pretese fondamentaliste dell’Illuminismo, nella loro riduzione ad absurdum che va da Auschwitz ad Enola Gay - diventerà essenziale definire concretamente la situazione dell’individuo nel proprio tempo, il suo sviluppo organico nella società d’appartenenza, i suoi rapporti con le direttive culturali del potere dominante.
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F.M.L.: L’arte dell’anticipazione costituisce urgenza vitale per la sopravvivenza stessa della società contemporanea. Come mai prima nella storia, proiettarsi costantemente nella pre-figurazione della modifica del mondo su pressione dell’accelerazione sorprendente di conoscenze, strumenti e trasformazioni, diviene necessaria responsabilità di elaborazione di sintesi e di prospettive, in grado di introiettare e figurare l’annuncio avventuroso del futuro imminente. Gestione dunque consapevole della ‘ridescrizione’ finalizzata del mondo stesso e predisposizione al suo autentico ‘incremento di essere’ possibile, per costituirne il nuovo, etico-politico ‘orizzonte che regge’ comune.
V.P.: Da tutti coloro che decidono, liberamente, di vivere in una medesima parte di un territorio rispettando leggi o convenzioni, tesi a rappresentare e tutelare i rapporti di convivenza e collaborazione tra singoli, l’innovazione può essere, anche, interpretata come un fatto inquietante. L’idea di turbamento, od in casi estremi di mutamento degli equilibri raggiunti tra le differenti componenti sociali che portano a far deviare gli accadimenti dal corso comunemente seguito viene, di solito, guardata con sospetto. Diventa, allora,
necessario che si formi un “movimento” (di opinione) per spiegare e diffondere i principi sui quali l’innovazione auspicata si fonda. Certo, da sempre, esistono alcuni singoli o gruppi di persone che con i loro pensieri ed opere hanno saputo preannunziare i modi ed i tempi dei cambiamenti, ma tutto questo non incide, con immediatezza, né sulle convenzioni stabilite né sui modi di vita specifici per ciascuna organizzazione sociale. Le difficoltà che le innovazioni, a qualsiasi campo specifico appartengono, incontrano durante il loro cammino prima che i loro effetti “benefici” vengano riconosciuti dalla maggior parte o addirittura dalla totalità dei componenti una determinata società, sono molteplici e di varia natura. Lo sguardo rivolto verso il passato lo mostra con chiarezza sia per i mutamenti apportati nei territori delle ideologie secolari (politiche, culturali) o del credo religioso che in quelli delle applicazioni pratiche (manuali, meccaniche). Dovremmo qui ricordare anche le funzioni assunte dalle innovazioni all’interno dei campi delle scienze, ma appare evidente un dato: le mutazioni avvenute in virtù di “scoperte” scientifiche riguardano cose, fatti e leggi della natura che esistono ma delle quali, fino a quel momento, tuttalpiù eravamo in grado di verificare qualcuno dei loro effetti senza poterne capire appieno le ragioni. Semmai, distaccandoci dalla visione tradizionale delle scienze, è opportuno rilevare come uno
specifico modo di pensare abbia portato a separare il mondo dall’uomo, i giudizi dalla soggettività di chi li esprime. Ciò è ormai dimostrato e, dunque, una delle più importanti innovazioni di questo secolo riguarda la posizione assunta dagli scienziati di fronte a tutti i fatti della vita, i ricordi del passato o le incertezze del futuro. L’abbandono “dell’approssimazione” ha permesso di considerare il mondo esterno in modo autonomo e contrapposto a quello interno a ciascuno di noi nel quale eravamo liberi di concepire novità, di scegliere coscientemente in base al nostro modo di essere. Nella società contemporanea, fondata sull’informazione, sulla rapidità delle comunicazioni, dobbiamo sempre più saper promuovere innovazioni per confrontarci con quelle che ci provengono da altre organizzazioni sociali.
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L.C.: E’ fuor di dubbio come le considerazioni sulla problematica urbana, partano dal processo di industrializzazione che ha determinato quella serie interconnessa di azioni e reazioni (sociali, economiche, spaziali etc.), che tutti conosciamo e che hanno portato alla attuale ideologia del consumo, con la devastazione e conseguente distruzione di quella realtà urbana preesistente all’industria. Si è attuata cioè quella degradazione continua, fino alla perdita del significato tradizionale di città come luogo d’incontro, priorità del valore d’uso, iscrizione nello spazio di un tempo promosso al rango di bene supremo tra i beni; allontanando così o eliminando nella coscienza sedimentata del cittadino, quel significato di cittadinanza, quell’appropriazione dello spazio e del tempo propri della condizione urbana sedimentata che ci ha preceduto. E come si è cercato di mettere ordine a questa confusione che la civiltà industriale stava creando? Con alcune tendenze operative rintracciabili in rapporto ad un razionalismo che si credeva illuminato; infatti dice H. Lefebvre: il razionalismo che pretende di trarre dalle proprie analisi il fine perseguito dalle stesse analisi, è esso stesso una ideologia, è anch’esso oggetto di decisioni; è una strategia più o meno giustificata da un’ideologia come lo erano in precedenza ad esso le strategie di classe. La città si è trovata cioè di fronte a un processo evolutivo, con aspetti inseparabili e ben chiari (industrializzazione e urbanizzazione, crescita e sviluppo, produzione economica e vita sociale) a cui ha cercato di resistere nell’intentata distruzione, tesa dalla trama invadente e oppressiva dell’occupazione industriale; riuscendo fortunatamente (per edifici
Innovazione e
Cultura e piazze monumentali, conservati quali sedi istituzionali e spazi aperti adatti a feste, passeggiate e commemorazioni) a conservare per un certo periodo il ruolo di uno spazio consumabile ad alta qualità fruitiva, giustamente qualificata da Lefebvre, da
luogo di consumo a consumo di luogo.
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Oggi infatti il cittadino oltre a trovarsi emarginato a questo processo, e col depauperamento ed eliminazione dei luoghi d’incontro spontaneo (natura compresa), risulta stretto nella morsa del processo produttivo dell’economia industriale solo efficientista, realizzando così un significato del “sociale urbano” ormai tendenzialmente sempre più estraneo all’uomo d’oggi. L’esistenzialità urbana quindi, per tentativi deve essere reinventata, cercando di costruirne in chiave attuale (con l’aiuto della tecnologia e della memoria del passato) una nuova spazialità per l’uomo d’oggi, diversa sicuramente da quella attuale persistente nel rendere la massima efficienza produttiva e di consumo, per mantenere il sistema produttivo alla massima redditività. Va quindi reinventata una “riforma” dello spazio urbano, della vita cittadina, richiamandoci se necessario anche all’antica origine della città ereditata (medievale, rinascimentale e barocca), quale luogo di incontro di popolazioni “nomadi” (per la velocità con cui si va da un capo all’altro del mondo e per il “terzo mondo” che chiede aiuto, e per la necessità di essere nel C.S. forse tutti diversamente uguali); tutto ciò come libera estrinsecazione delle forze vitali dell’uomo, della sua “teatralità esistenziale” nelle più varie espressioni quotidiane. Si deve (partendo “dal basso” del popolo, fino “all’alto” di chi ci guida), cercare ogni modo per coinvolgere le istituzioni civili, sociali e culturali, ad una trasformazione dello spazio urbano, di partecipazione, e di coinvolgimento verso l’antica acquisizione, come dice Lefebvre, della dignità e consapevolezza del cittadino. Non dimentichiamo che in antico, “abitare” la città significava partecipare alla vita sociale, a una comunità, città o villaggio che fosse.
P.I.: Il panorama attuale della cultura si presenta estremamente variegato ed eterogeneo nelle sue componenti e manifestazioni, per cui non si può propriamente parlare di cultura intesa come sistema più o meno organico di valori, linguaggi, messaggi, come poteva essere in epoche passate, in cui la religione, l’ideologia o più semplicemente gli “usi e costumi” tradizionali fungevano da “collante” o da matrice dei diversi fenomeni culturali. Oggi si deve piuttosto parlare di “culture” differenziate, che coesistono a vari livelli, ignorandosi, scontrandosi o talvolta incrociandosi interattivamente a seconda dei casi. La varietà degli ambiti culturali si può legare a una fascia d’età (“cultura giovanile” come rivendicazione di una identità generazionale), al livello di formazione critica e di istruzione (cultura popolare o cultura “alta”) o anche alle origini etniche, in quanto i nuovi fenomeni migratori, soprattutto dai paesi del terzo mondo, aprono sempre più la strada verso una società multiculturale. Se ogni sistema culturale tende ad avere i propri ambiti e circuiti di diffusione più o meno autonomi, un’opposta spinta verso l’omogeneizzazione o almeno l’ “ibridazione” culturale viene fornita dai mass-media e in particolare dalla televisione. Un altro aspetto degno di nota è quello relativo alla estensione “geografica” dei fenomeni culturali, cioè ai rapporti tra le diverse “dimensioni” (locale, nazionale, internazionale) della cultura. Anche da questo punto di vista i mass-media tendono certamente sia a una “globalizzazione“ e omogeneizzazione culturale, sia alla diffusione ad ampio raggio di fenomeni culturali specifici o locali; da tenere presente anche la
tendenza a una frammentazione e individualizzazione degli scambi di informazione e di cultura, in ambito planetario, attraverso Internet o i nuovi sviluppi della “realtà virtuale”. In questo complesso quadro culturale, ancora una volta, l’architettura contemporanea non sembra focalizzare gli interessi del pubblico sulle sue problematiche spaziali e linguistiche. L’architettura del resto, come “sfondo” o “contenitore” delle varie attività umane tende quasi sempre ad essere
“fruita nella disattenzione” come scriveva Umberto Eco molti anni fa. A volte tuttavia, soprattutto negli ultimi anni, tende a “far sentire la propria voce” imponendosi come messaggio eclatante attraverso la forte caratterizzazione formale della sua immagine.
F.M.L.: La modernità, anzi l’attualità costituiscono la frontiera identificativa di ogni autenticità culturale: nell’accadere degli ‘stati nascenti’ dei movimenti collettivi di tendenza, delle avanguardie espressive, cognitive e tecniche lungo i margini concettuali e vitali dello sconfinamento, dell’intersezione e dell’ibridazione si forma il destino mobile, evolutivo, progressivo della lingua collettiva. Possibilità della verità di un racconto conforme, che nella scandalosa arbitrarietà delle forzature di modelli e di consuetudini diviene, in realtà, la più efficace strategia di opportunismo adattativo, di rivelazione poetica e, insieme, del migliore sfruttamento possibile della propria memoria.
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M.M.: La cultura di questi tempi ha uno sviluppo insidioso per effetto di cause interne, che non danno luogo ad una condizione visibile, né ad un terreno comune; quello che lascia, per intenderci, intatta la chiarezza. Molti processi collegati alla nuova natura globale del sapere vengono minati dalla sua enorme capacità riproduttiva e sono precipitosi, incontrollabili, talvolta irragionevoli. Un primo insegnamento che vogliamo derivare da questa rischiosa tendenza a sovrapporre vari tipi di realtà in una sola immagine ancora confusa e generalizzata che li contenga tutti, quella della postmodernità, è la vitale esigenza di una sempre più ferrea ricerca di alétheia, di verità come disvelamento del nascosto. Ora, i grandi media ci hanno allontanato, in maniera del tutto irreversibile, dalla cultura della tradizione, che giudicava, “sorvegliava e puniva”, tendendo a sopprimere ciò che le era ostile. L’altra cultura, quella dell’Innovazione è agli inizi: per metà nemica, per metà alleata essa rimane immobile; invece di determinare il cambiamento, ne è iperdeterminata (asservita?); illustra, indica, raramente distingue, separa, interpreta. Troppo spesso recita da posizioni individualiste ad oltranza, fatalmente marginali, costruendo una riga dopo l’altra. In Critica della ragione informatica, Maldonado dimostra con chiara evidenza come da Eraclito a oggi si seguiti a discutere sulla Modernità sempre allo stesso modo, con le stesse armi forrniteci dal passato. Non è proprio questo, il punto? Dove sono custoditi i brividi nuovi? Certo è un compito fra i più ardui decifrare enigmi, smascherare complotti e, sul versante opposto, schierarsi e anticipare gli effetti benefici dell’Innovazione. Ma una cultura intesa come sapere della conoscenza, contemplazione critica ed attiva nell’afferrare l’evoluzione della realtà ad una certa distanza, dovrebbe re-interpretare l’immagine del mondo con mezzi propri, agendo finalmente come detonatore delle idee, insomma alla McLuhan, non suo malgrado. Per contro, di frequente essa vive uno stato di terrore panico nei confronti della “Società dello spettacolo” e dell’estetica del pubblico. Rimane in posa, in bilico, linfatica e sterile, oppure assai devota. L’annuncio, la profezia, utilizzano sempre di più un sexappeal costruito a scopi puramente decorativi, di rado in sincronia con la frenetica dislocazione dei siti e la velocità dei media. Allora, una domanda che forse potremmo porci, in un mondo in cui le verità sono faticosamente assimilate da una cultura debole e gestite, diffuse da un’informazione forte: spetta ancora alla “Haute-Culture” (Couture?) sciogliere i crampi visivi e mentali o misurare il cambiamento? Non si pone invece il problema di un’elaborazione
critica permanente e collettiva di quanto sta alimentando l’intero sapere occidentale?
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V.P.: Stabilire quanti e quali siano i rapporti che possono legare l’innovazione alla cultura è pressoché impossibile. Il termine cultura comprende, per sua natura, tutte le attività condizionate od apprese dall’uomo come pure tutto quello che viene prodotto da una determinata organizzazione sociale compresa l’infinita quantità di manufatti ad essa necessari non solo per esistere ma, soprattutto, per esprimere la propria specifica identità. Se la cultura, dunque, riassume tutto questo diviene molto difficile riuscire ad isolare i fatti innovativi, anzi all’opposto, nella storia sono proprio le innovazioni a permetterci di identificare il sapere e lo spirito un’epoca, a caratterizzarli rispetto a quelli che li hanno preceduti oppure seguiti. Così, da esempio, per il nostro secolo, possiamo usare l’espressione “Cultura del Moderno” e del “Post Moderno” distinguendo i sensi ed i valori assunti dalla parola cultura da quelli riconosciuti al termine “stile” comune alle diverse arti. Ma, a ben vedere,
le innovazioni dipendono dagli eventi
molto spesso,
ed è proprio il rilievo acquistato da questi ultimi, in maniera sempre più chiara, durante il loro delinearsi fino a raggiungere la completezza che ci permette di considerare tutti gli aspetti con i quali si pongono alla nostra attenzione e le loro capacità di incidere, in modo forte. Esistono, da sempre, molte probabilità che le “vere” innovazioni, nei campi della cultura, siano riconducibili a gruppi di numero limitato. D’altra parte il termine, per sua definizione, può, come accade a tutte le parole che indicano in maniera reale e figurata un’azione, acquisire sensi diversi in rapporto ai contesti nei quali trovano la loro collocazione. In realtà, siamo in grado di conoscere i valori di una innovazione, i cambiamenti che essa riesce a portare nei nostri modi di vivere e pensare, quando, nel tempo, siamo abbastanza distanti dalla sua azione diretta per riuscire ad apprezzare gli sviluppi della tendenza alla quale ha dato inizio. E’ poi, per tutti, facile capire quali siano state le specifiche funzioni e le possibili influenze di ciascun fatto innovativo su tutto quello che oggi stiamo valutando, in modo positivo, in base ai risultati raggiunti. Per meglio comprendere quali possono essere i principi secondo cui esprimere i nostri giudizi e conferire, in un medesimo tempo, gli attributi di innovativo e “rivoluzionario” ad un fatto, è necessario rammemorare con una frase di Guy Debord (“La società dello spettacolo”, testo scritto nell’anno 1967), che ormai
E.M.: Forse uno degli scopi dell’architettura è proprio quello di costituire innovazione in campo culturale. I nostri progetti dovranno essere in grado non solo di assolvere ai bisogni della cultura contemporanea ma anche e soprattutto
“prendere una posizione” su una possibile evoluzione di questa. “Sarà questo risultato ad aprire la porta al futuro, ad una nuova dinamica che permetta agli uomini di vivere in un mondo non determinato solo dai bisogni a aperto a nuovi desideri? (...) A questo punto entra in ballo l’architettura” L. Ricci
“tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione”. E forse, aggiungiamo noi, anche le innovazioni.
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SPAZIO DELLA STORIA, DELLA INVENZIONE E DEL RACCONTO IN ORSANMICHELE E NELLA FORTEZZA DI SAN GIOVANNI, A FIRENZE; E NEL PALAZZO DUCALE IN URBINO Roberto Berardi Gli spazi della gioia e dell’ammirazione sono quelli ai quali attribuiamo il titolo di architetture. Gioia e ammirazione, va ripetuto, e non stupore o sgomento, oppure indifferenza o ripugnanza. Gioia e ammirazione, e cioè uno stato immune da avversione e noia, sono la forma immediata del rapporto che quegli spazi istituiscono con noi, non nella forma di un disvelamento analitico o di una costruzione logica irreprensibile, ma invece nel sentimento di una pienezza capace di trasmettersi, purché non le sia negata l’accoglienza, a tutti e secondo i modi di attenzione di ognuno. Questa azione che avviene contemporaneamente su ognuno e su tutti opera sempre, senza essere modificata a seconda di colui che ne è interessato, ed è colta come la percezione dell’armonia dell’unità. La bellezza si traduce in gioia, l’ammirazione accompagna lo stupore per la sua epifania. Questa definizione non ha nulla di universale: essa si è andata formalizzando nelle opere costruite da diverse civiltà, tra il Terzo Millennio a.C. e i nostri giorni, soprattutto intorno al Mediterraneo. Le civiltà che ne sono coinvolte non sono state caratterizzate né dalla pace, né dalla omogeneità culturale, né da un’armonia intrinseca, e nemmeno sempre da una reciproca conoscenza. Nel cuore dei continenti del Vecchio Mondo l’avventura è stata spesso diversa, così come nel Nuovo. Tuttavia l’attrazione che esercitano quegli spazi si materializza ormai da decenni -soprattutto attraverso il pellegrinaggio turistico internazionale -ma anche, nelle università, come storia e scienza dei manufatti, dalla città all’architettura- nei fenomeni di fatica e sacrificio affrontati proprio per entrare in contatto con tali realtà. Se preferisco parlare di spazi, anziché di edifici, è perché la qualità che esprimono, talvolta, tanto gli agglomerati -città o villaggi o altre forme urbane- quanto i manufatti -architetture, sculture, pitture, oggetti, gioielli, ecc.- si risolve nell’istituzione di un luogo della conoscenza -prodotto attraverso la loro costruzione stessa, oppure soltanto evocato come riferimento indispensabile, implicito nell’oggetto osservato, e non ancora venuto all’essere- che è, appunto, in quei casi, caratterizzato da quei connotati di gioia e di meraviglia di cui già si è parlato. Un po’ come se la percezione sensoriale, in quei casi, aprisse alla mente regioni inattese, sprigionasse un sentire non analizzabile, sovrapponesse alla diversità lo splendore dell’unità cui essa appartiene. Con altre, l’architettura è una delle pratiche che permettono, senza però saperlo garantire, lo sprigionarsi di quel tipo di conoscenza non-analitica. La materia dell’architettura è lo spazio, e cioè una invenzione, qualcosa che chi la pratica trova giocando con le materie, che sono sia materiali che cose percepite: fanno parte cioè tanto della realtà che della rappresentazione. Lo spazio istituito dall’architettura è tutto il dentro e tutto il fuori, quello che materialmente c’è e ciò che viene evocato da una singolarità che agli occhi di qualcuno si mette improvvisamente ad attirare significati. Il Battistero di Firenze, intercluso tra un fronte neogotico e facciate ottocentesche o settecentesche, emette la singolarità dei suoi tatuaggi verdi e bianchi, dei suoi mosaici variopinti e dorati, della sua piramide scintillante. Non insiste sullo spazio in cui è nato, ma coagula in sé la necessità di presenze che, per essere perdute per sempre, rivivono in lui come uno sguardo in uno specchio abbrunato. Certo, la costruzione riguarda anche altre organizzazioni dello spazio, diverse, difformi da quelle che abbiamo evocato; eppure, nella coscienza della nostra epoca, cariche di significato, di presenza, di sgomento e persino, per molti, di una violenta suggestione. Gli spazi dell’abbandono, della penurie o del tumulto, quello del piacere fisico senza freni o quello dell’esplosione liberatoria di un gruppo; lo spazio della massa agitata, mascherata, insultante, sfigurata e sciolta da tabù, come avveniva nell’antichità a Tebe nella parusia dionisiaca, sono i protagonisti di una formazione culturale che rifiuta progetto e speranza, si attiene al dato o gli si ribella, occupa l’occupabile, usa l’esistente per quel che le può cedere, non inventa ciò che è già stato inventato, ma cerca di inscriverci sopra la presenza della propria agitazione plurale: e attraverso questo non essere se non plurale cerca a tentoni il cammino, incerto e non garantito, verso una eventuale identità di persona. E’ quasi banale dire che la nostra civiltà, all’apice sempre in espansione dell’evoluzione delle sue tecniche e delle sue scienze, si sta trasmutando. E’ verosimile che le nostre società umane stiano subendo un appiattimento verso il basso: cibo assicurato o comunque reperibile; piacere non più vituperato, anzi consigliato come terapia o diritto; immaginario collettivo garantito: mentre
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1-2-3 - Orsanmichele, Firenze, 1980, Mostra: “La Corte, il Mare, i Mercanti”. Vedute di insieme e particolari dell’allestimento.
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i saperi efficaci, e dunque capaci di rinnovare lo stock necessario di desideri e di appagamenti, si separano da questo strato, sparendo in una sfera diversa, di cui poco si sa, ma che amministra i nutrimenti per lo strato più basso. Apparentemente, nella cultura dell’Occidente in questo scorcio di secolo, niente ha valore se non quando suscita il desiderio e si lascia comperare ; e il desiderio non è che desiderio del desiderio; e il territorio -lo spazio- da esplorare è dunque quello del desiderio e del piacere che si trae dai beni della ricchezza, dell’evasione e della trasgressione di qualunque enunciato si presenti come norma. E’ uno spazio che si incide sul corpo, sui muri, sulle lamiere, per renderle eloquenti nei confronti di tutti e di chiunque: e lo spazio è coperto da quelle grida graffite, migra da luogo a luogo, scomparendo e ricomparendo altrove, a seconda delle occasioni propizie a una esplosione della sua tensione. Non parla secondo il logos: ringhia come ringhia il caos. A differenza di tutti quelli che lo hanno preceduto, questo spazio non ha ancora figura né forma né sede: occupa i luoghi per un tempo molto breve o anche lungo, li copre dei propri segni, li svia dal loro significare. Poi si dissolve e trasmigra. Del resto, nell’improvvisa trasformazione politica dell’Italia, in epoca umbertina, con quale indifferenza ottusa i conventi e i palazzi sono stati sfigurati, trasformandoli in caserme, ospedali, ministeri, nell’onda di un pragmatismo avaro che sostituiva piccoli poteri simbolici alla potenza della ricchezza di cui testimoniavano i palazzi antichi? E nei paesi coloniali, quale filologia architettonica disastrosa costruiva i monumenti della sua ignoranza, sotto forma di pastiches di un’architettura sconosciuta? L’aggressione o l’appropriazione senza esitazione delle forme di uno spazio civile, questa violenza inflitta a una cultura da parte di un’altra, è la storia stessa della nostra civiltà, almeno dal sesto secolo dopo Cristo in poi. Quale sdegno o stupore possiamo provare? Alla scomparsa oggettiva dello spazio della gioia e dell’ammirazione dalle nostre opere di progettisti, quale senso possiamo dare, se non quello che ha sempre avuto, di un orizzonte sempre desiderato, ma forse alieno dal nostro presente, non contemplato dalla cupidigia perché il denaro non può comperarlo? Lo spazio ufficiale dell’architettura contemporanea -la città di questo secoloè quello che abbiamo intorno, che è stato prodotto dal nostro secolo, che è meno universale di quanto crediamo, che non è che espediente, imitazione vuota, merce scaduta e il cui ritardo, rispetto al consumarsi delle avventure delle nostre società, è cronico. Forse la nostra architettura di questo secolo apparirà soltanto come un ritardo; forse diventerà incomprensibile, inutilizzabile, e sarà abbandonata. Non sarebbe la prima volta 3
che questo accade, anche se ci sfuggono sempre le forme in cui ciò è
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accaduto. O forse tutto questo non è che un altro mito, il piacere di una delusione estrema che implora la sua legittimazione. Questo non toglie che, in realtà, viste nel loro insieme e quale che sia il valore delle architetture che vi sono confitte, le nostre città appaiono come discariche della confusione dei linguaggi. Le nostre città vere sono le periferie delle nostre città. Esperimento dopo esperimento, insoddisfazione dopo insoddisfazione, l’architettura di questo secolo, quella che ha saputo negoziare il proprio esserci, ha fatto, delle città, una antinomia di frammenti. Possiamo tralasciare le innumerevoli giustificazioni, di ogni ordine, e osservare la qualità del fenomeno. Ogni mania e i suoi contrari figurano in questi ammassi artefatti di materiali spuri, così estesi, anche se sono piccoli, da cancellare insieme e cultura e natura. Il male della nostra economia è di non potersi permettere di disfarsene. Il male della nostra cultura è di non saper fare altro che riprodurli, di non avere coscienza per rifiutarli, né autenticità per ammettere il proprio non sapere più. Quanto alla nostra condizione, simile a uno stato 4
di esaurimento delle risorse possibili per produrre quello spazio -che tuttavia vaga, come perenne possibilità, all’estremità del nostro orizzonte, lo spazio di qualche cosa che sostituisca la città, che fondi la possibilità d’essere delle nostre architetture, quali che esse siano, legittimate ad essere non dalla loro appartenenza a una scuola potente, ma dal grado di felicità che ricominceranno a trasmettere, come è sempre stato, malgrado tutto- la nostra condizione non è che quella di sempre: di chi cerca e sbaglia o riesce e impara o disimpara: Toi, hypocrite lecteur, mon semblable, mon frère! Proprio nel Battistero di Firenze e davanti al fronte della Badia Fiesolana ho sentito rinascere in me l’interesse per le ragioni della geometria, per il suo ruolo nella costruzione della struttura e per la sua organizzazione globale dell’architettura. Strumento e scopo, la geometria si manifesta per emblemi capaci di svelare il segreto della propria composizione: la sua scrittura manifesta conduce alle finezze dell’astrazione: teoremi e luoghi geometrici si rivelano forme di armonia; diventano figure dense di tempo e rimandano a passati ancora più antichi, dai quali sono venuti fino a lì. L’incanto della pelle tatuata del Battistero è determinante per capire la sua natura di apparizione: quel tatuaggio di marmo bicolore è la vera struttura percepibile del monumento, insieme all’incanto d’oro della cupola di mosaico, il cui rovescio è la pura geometria della piramide e della lanterna. Questa fisionomia così particolare, la sua provenienza dalle lontananze temporali dell’esperienza artistica umana (sumeri, ittiti, greci, romani, Bisanzio e i Cosmateschi in età paleo-cristiana) costituiscono uno spazio, meglio, il richiamo a uno spazio, di cui un’eco solenne e sorridente scintilla sulla collina di San Miniato nella composizione tra la fronte templare in marmo bianco e verde e il mosaico affacciato sulla luce del tramonto. Tra i due superstiti, tutto lo spazio e le materie in cui erano nati sono scomparsi. Almeno cinquecento anni ha richiesto il Battistero per giungere all’assetto che vediamo: quali cinquecento anni, dato che il tempo non è costante e varia con le civiltà? Una città di poca pietra e molto legno, poi via via una città di torri di
4-5-6-7 - Orsanmichele, Firenze, 1980, Mostra: “La Corte, il Mare, i Mercanti”. L’esposizione dei volumi: Particolari delle diverse tipologie delle teche.
pietra e casupole di legno, infine una costruzione complessa in pietra, laterizio e legno. Come testimoni di un tempo -e quanto anteriore alle sue trasformazioni rinascimentalila Badia Fiesolana a S. Domenico, la Collegiata di Empoli, San Miniato al Monte e San Giovanni evocano e provocano alla curiosità di uno spazio tutto costruito sul loro canone: la fede nella geometria come produttrice di bellezza nei passati remoti del territorio fiorentino. Ancora più esteso, questo spazio riaffiora, emblematico e sorridente, nelle chiese intarsiate di Pistoia, di Lucca, di Pisa, di Massa, e a Sarzana nelle basiliche pisane della Sardegna e nelle pievi romaniche di tutta la Toscana. Oltre ancora, nel Romanico Padano, si trasformano in rilievi le geometrie degli intarsi, investono le colonne e i portali delle cattedrali; a San Marco a Venezia tra volte, cupole e pavimento si ripropone l’affrontamento tra mosaico figurato e intarsio geometrico, gli stessi tappeti intarsiati di 5
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marmo si trovano a Westminster; ma anche, e anteriori forse a
tutti, nella Grande moschea di Damasco, nella Cupola della Roccia a Gerusalemme, dove pendono alle pareti come arazzi e nelle moschee fatimite del Cairo. Una koiné lega insieme questi luoghi disparati e ne fa uno spazio ideale, reale solo nell’immaginario, ma anche guida dell’immaginario nello sforzo per recuperarlo all’esistere. E lega anche tempi diversi: il paleocristiano del Lazio, il bizantino di Aquileia, i monumenti omeyyadi, la Tholos di Epidauro e i mosaici delle colonne di Ur, gli abiti delle divinità ittite, i mosaici geometrici greco-romani in Italia e in Africa del Nord e gli stemmi del Due-Trecento; lega insieme architetture e cose in una unità subito riconoscibile e tuttavia ormai perduta; desiderabile, ma non riproposta se non in certi scialbi pavimenti di atri ottocenteschi e nelle griglie di ghisa delle finestrelle di aerazione (luci) della stessa epoca. I miei coetanei ricordano certamente i loro primi esercizi di disegno, allora pedanti e noiosi; e tuttavia, solo per come erano proposti e imposti: “greche”, arabeschi, poligoni regolari, tratteggi paralleli; e poi la geometria più complessa della grafia, e ancora i primi esercizi di geometria euclidea: cerchi, tangenti, secanti, triangoli, quadrati, esagoni. La ricerca e le realizzazioni di cui questo testo riferisce sono nate dalla gioia e dall’ammirazione che la scoperta di questo spazio mi ha procurato: gioia di conoscenza e gioia di progetto, perché quell’avventura, che ha accompagnato tante civiltà nel loro svolgersi, come mai potrebbe dirsi conclusa? Questa ricerca, e cioè quella di sperimentare la bellezza astratta, concettuale, della geometria, sui materiali contemporanei, e secondo tecniche contemporanee, non avrebbe avuto alcun senso se confinata in pagine erudite o al chiuso di uno studio; per questo sono grato alle occasioni che mi hanno consentito di portarla a conoscenza del pubblico, come la mostra personale alla Fortezza di San Giovanni per il XVII Florence Gift Mart, quelle (Il Mazzocchio da Paolo Uccello a Piero a Leonardo, Con gli occhi di Piero) in occasione del V centenario (1992) di Piero della Francesca nella Galleria superiore del Palazzo Ducale di Urbino e nella cripta di San Francesco in Arezzo; e infine, da diversi anni, nel Laboratorio di Progettazione Architettonica I della Facoltà di Architettura di Firenze, attraverso il quale trasmetto ai miei allievi le mie scoperte, spingendoli oltre, verso le sperimentazioni più inedite. Diversa, ma altrettanto progettuale, l’esperienza di allestimento, per conto dell’Archivio di Stato di Firenze, in Orsanmichele, nell’aula del primo piano, della mostra La Terra, il Mare, i Mercanti, organizzazione in racconto della Storia dei documenti medicei quattro-cinquecenteschi e delle opere d’arte e d’oreficeria relative a quel periodo e prestate da musei italiani e stranieri in
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occasione dell’Anno di Firenze Capitale Europea della Cultura. Questa mostra, di cui illustro varie vedute generali e di dettaglio, mi ha permesso di sperimentare, in modo del tutto svincolato dall’esplorazione del passato, ma profondamente inscritto in esso, la possibilità di un intervento contemporaneo in ambiente antico, ripartendo da quella curiosità dell’armonia geometrica di cui ho parlato sopra, e arricchendola con una orchestrazione policroma desunta, come si vedrà, da esperienze medievali (Lorenzo Monaco) e manieriste, nonché dalle lezioni di maestri del nostro tempo, come i Cubisti, gli Orfisti e Le Corbusier ( mi riferisco soprattutto alle sue sculture policrome realizzate insieme a Savina). Ma, in definitiva, la cosa più interessante e avvincente è la storia dell’esplorazione di questi territori dello spazio, quale mi è accaduto di fare, inventando il sentiero a partire dalle cose e dalle loro affinità, esplicite o nascoste, e tracciando poi sviluppi e innovazioni, balzando da un mate7
riale ad un altro, da una tec-
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nica a un’altra, in modo da far coincidere, ogni volta, l’incanto delle cose insabbiate nel tempo e quello, nuovo, delle mie operazioni. La Corte, il Mare, i Mercanti. La stazione di partenza è stato il progetto, realizzato nel 1980, in occasione delle Mostre Medicee, dell’allestimento, nell’aula a crocere del primo piano di Orsanmichele, a Firenze, della Mostra dei documenti quattro-cinquecenteschi dell’Archivio di Stato di Firenze. Gli oggetti da esporre non erano solo cartacei: vi si potevano vedere sculture, disegni di grandissimi maestri, dipinti di Tiziano, ritratti in incisioni antiche, medaglie, gioielli, armi, monete, carte di 8 navigazione, oggetti sacri. Il luogo era una grande aula a sei campate, costitu-
ita da due serie adiacenti di tre campate di nove metri per lato, poggianti su due pilastri centrali e sui muri perimetrali. La copertura è a volte di pietra a crocera su archi di pietra. Al piano inferiore è la cappella ottenuta dal portico chiudendo gli intercolumni esterni. La struttura dell’edificio sacro è così identica a quella del piano superiore: e infatti l’aula del primo piano, pur così diversa all’apparenza, interamente vuota, priva di affreschi e di altari, visibilmente costruita per servire da silo per il grano, emana una maestà che noi diremmo da luogo sacro. Ho liberato, per prima cosa, i pilastri che erano serviti da perno per la divisione dell’aula in sei sale da esposizione, ottenuta mediante immensi pannelli di legno di sei metri per sei metri. Ho ottenuto così un’aula a colonne, con alte bifore archiacute in marmo traforato. Per consentire l’esposizione di disegni, stampe e dipinti, le finestre sono state velate; mentre i pannelli di legno, così grandi da non passare per le vie d’uscita possibili, sono stati disposti secondo una spezzata, per isolare la parte di disimpegno dalla parte di esposizione, e sono stati velati come le finestre, Sono state così trovate delle grandi superfici per il fissaggio delle opere grafiche e per i dipinti, senza assolutamente toccare le pareti ad intonaco bianco. Ciò fatto, è apparso lo spa9
zio vero dell’aula, composto di -diciamo così- sei prismi trasparenti, coper-
ti, ognuno, da una crociera ottenuta da un quadrato, sorta di piramide, curvilinea e diafana. Questa composizione luminosa riceveva una sua cadenza e una fortissima organizzazione dal succedersi dei due straordinari pilastri di pietra, e dalle demarcazioni splendenti costituite dalle arcate e dai costoloni ottagonali di mattoni, striati di giunti di malta candida. Luminosità, colore (bianco degli intonaci e delle malte, bruno caldo della pietra forte, colore di cuoio scuro del cotto del pavimento, rosso delle volte di mattoni agivano tra di loro nel costruire questo spazio perfetto. Dalle rare vetrate lasciate aperte trasparivano torri e cupole della città, o anche solo muraglie di palazzi. Dentro e fuori tentavano di raggiungersi: il palazzo dell’Arte della Lana, collegato a Orsanmichele da un ponte, serviva da ingresso alla mostra. Il pubblico, enFortezza da Basso, Firenze, 1985, Mostra personale: “La Primavera dello Spazio”. 8 - Veduta di insieme, con sferoide di Paolo Uccello e scudo dalle Battaglie. 9-10 Mazzocchio di Paolo Uccello e Elmo dalla Leggenda della Vera Croce di Piero della Francesca.
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trando nella mostra, passava a volo d’uccello sulla città. Il materiale da
esporre era numeroso e svariato. Le stampe e le incisioni, i ritratti a olio, le grandi scene storiche dipinte su tela erano in numero tale che furono fissate, come in una quadreria, ai grandi pannelli staccati dal centro dell’aula. In questo modo, dovendo rinunciare alle vedute sulla città, ho ottenuto un perimetro fittizio, fatto di immagini incorniciate, spessissimo delle stesse dimensioni, distribuite in ordine parallelo sui pannelli velati, le sculture, piccole, venivano appoggiate su un basso basamento. Il paesaggio dell’esposizione veniva così precisandosi: e prima di tutto nell’identificarsi con la contemplazione dell’aula, le cui grandi arcate e le cui volte disegnavano liberamente, senza contrasto, il bellissimo telaio della loro geometria. Per l’esposizione dei documenti ho rifiutato l’idea un po’ abusata delle bacheche in cristallo, riservandole solo all’esposizione di monete o pergamene particolarmente preziose, per le quali era necessario un contenitore munito di serratura. Per il resto, ho immaginato una sistemazione derivante da prismi ideali, scomposti in modo variabile e di prismi tagliati da piani diagonali e ribaltati sul pavimento o mantenuti verticali. L’uso abbondante di tagli tronco-piramidali conferiva una circolarità di visione, continuamente variata dall’uso sistematico della policromia delle facce.
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Tutti questi elementi, severamente stereometrici, non raggiungevano che raramente l’altezza di due metri. Sulle facce dei prismi, sui grandi piani inclinati derivanti dalla sezione di un stesso cubo originario, si aprivano nicchie di dimensione regolare, in successione verticale o orizzontale, contenenti altri piani inclinati capaci di accogliere i documenti, spesso miniati e istoriati, come su dei leggii. Tutte le nicchie, in legno naturale, venivano poi chiuse da telai di legno e cristallo temperato per assicurare l’incolumità del contenuto. Sulla geometria severamente sfaccettata, ottenuta con un meticoloso lavoro di ebanisteria, era stato spalmato uno strato dello stesso colore su due facce adiacenti; sulle altre (due o tre), un colore diverso dal primo. Giallo, rosso, blu, verde, rosa, viola venivano così a rendere sempre differente la percezione luminosa dei solidi geometrici, arricchendo ad ogni passo le variazioni dell’armonia cromatica. Tutte le superfici avevano poi ricevuto un trattamento a cera vergine, che veniva rinnovato durante il giorno di chiusura, per impedire ai colori di macchiarsi del grasso della pelle delle dita del pubblico, che aveva preso ad adagiarvisi, appoggiarvisi, e che era così numeroso che ogni vigilanza sarebbe stata insufficiente, oppure estremamente oppressiva. Naturalmente ogni particolare pesava nella composizione generale: non solo il modo in cui le superfici erano dipinte, ma quello secondo cui erano connesse e tagliate: il colore non suppliva a difetti di falegnameria, ma ne esaltava l’esattezza. E si potrebbero elencare l’impeccabilità dei telai, la regolarità della loro avvitatura alle nicchie, la precisione nel taglio delle lastre di cristallo, tutte cose indispensabili alla piena realizzazione dell’esposizione. Coperte le grandi bifore, era da inventare una luce che facesse scintillare i colori e i cristalli, esaltasse le sfaccettature senza creare ombre profonde. I documenti e gli oggetti richiedevano infatti una luce eguale, sempre equilibrata, che permettesse di leggerli da vicino, ma anche di vederli da lontano nelle loro grafie e nei loro colori. Un reticolo di lampade sospeso a metà altezza, anch’esso trasparente, e come galleggiante tra il pavimento e le volte è sembrato la soluzione giusta al problema. E così,
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attraverso questi dispositivi, e anche attraverso la composizione, sul piano e nello spazio degli elementi dell’esposizione, si è ottenuto un insieme del tutto originale, senza alcun contrasto né alcuna sopraffazione del luogo, anzi, con una sua esaltazione. Le illustrazioni permetteranno di valutare il risultato e di cogliere l’importanza della luce, del colore e delle forme sull’intera organizzazione.(Figg. 1-7) La spesa per l’allestimento dell’esposizione è stata di centosessanta milioni (nel 1980). Tutti gli elementi dell’allestimento sono stati smontati e sono stati conservati in un deposito degli Uffizi. Mostra per il Gift Mart al Forte di San Giovanni (Fortezza da Basso), Firenze. Mostra per il Quinto Centenario dalla morte di Piero della Francesca, Arezzo, Cripta di San Francesco; Urbino, Palazzo Ducale, 1992 Nel 1985 i responsabili del Gift Mart mi invitarono ad allestire una mostra tematica (delle mie opere, venute alla luce parallelamente alle ricerche che andavo conducendo sui disegni dei prospettivisti, dal primo Quattrocento alla fine del Cinquecento) nei sotterranei dell’antica porta medievale inclusa nel Forte di San Giovanni, e più precisamente in un vano a volta, ricavato sotto il pilone di una arcata dell’antico ponte sul Mugnone. Nel 1992 una invito analogo mi venne dal Soprintendente Paolo Dal Poggetto, nel quadro degli allestimenti in onore di Piero della Francesca, nel Palazzo Ducale di Urbino, affidati a Guido Spezza e a Giancarlo Cataldi. Luogo della mostra era un tratto d’angolo della loggia superiore della
Palazzo Ducale di Urbino, Galleria del piano nobile, 1992, Mostra personale: “Primavere dello Spazio”: 11 - Veduta di insieme. 12 - Vaso sfaccettato, attribuito a Paolo Uccello o a Piero della Francesca.
corte d’onore del Palazzo Ducale, allo stesso piano della Galleria Nazionale delle Mar12
che. (vedi Figg. 8-15)
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Le immagini che propongo rappresentano le creazioni uscite dalle mie ricerche; si vedrà che la specificità di queste consiste nel procedere per progetti e subito dopo per realizzazioni: così che l’immissione dei progetti nella realtà materiale e tecnica diventa il banco di prova per l’efficacia e la fondatezza della ricerca. Poiché descriverò ogni opera nelle immagini, mi preme dare qui conto del procedimento della ricerca, del suo fine e dei suoi significati. La decisione di assumere, come un architetto romanico o greco, la matematica, e più precisamente la geometria, come strumento dell’ armonia nelle sue variazioni innumerevoli, è nata in me, come ho già accennato, dalla lettura degli intarsi del Battistero di Firenze, della Badia Fiesolana, di San Miniato al Monte, e, più tardi, degli intarsi di Venezia, Pisa, Pistoia, Lucca, Sarzana, di centri minori toscani, veneti e anche campani, come Amalfi e Positano; e poi, risalendo l’Antichità, gli intarsi cosmateschi a Roma, Palermo, Monreale, a Civita Castellana, a Ravello, quelli della Cupola della Roccia a Gerusalemme o quelli della moschea di Damasco o della moschea di Ibn Tulun al Cairo; i mosaici geometrici romani della costa mediterranea, dalla Siria alla Tunisia alla Sicilia ad Aquileia alla Spagna; gli intarsi greci di Epidauro e i mosaici ellenistici del Museo Archeologico di Napoli, e, più lontano ancora, nella scultura sumera e ittita. L’essenziale di queste fonti è di aver prodotto a partire da nozioni geometriche elementari, e da luoghi geometrici elementari, dall’uso del contrasto cromatico a due o tre colori, armonia, gioia e stupore, ma anche leggibilità, ricostruibilità e producibilità di armonie, incluse in quel canone, ma variabili all’infinito. La bicromia (Epidauro, Battistero di Firenze e di Pistoia, San Miniato al Monte, Cattedrale di Santa Maria del Fiore, ecc.) illustra anche le possibilità di bellezza e di armonia insite nel giuoco dello stesso e dell’opposto, postulando l’identità dell’uno con l’altro. Una ulteriore lezione sta 13 nell’elogio della semplicità che quest’arte proclama: quanto più la costru-
zione dell’intarsio diventa complessa, tanto più l’impressione di armonia si fa confusa, e l’intarsio si trasforma in labirinto: economia e diseconomia della composizione. Ogni intarsio costituisce un sistema di proporzioni a sé, prodotto da luoghi geometrici di figure notevoli che a loro volta producono figure altre-da-quelle, e costituiscono nuovi luoghi geometrici. La scacchiera, il quadrato inscritto in un quadrato dato, i poligoni regolari, i cerchi e i loro intrecci sono le figure notevoli dalle quali parte ogni intarsio: una riga e un compasso bastano a costruirli tutti, fino nelle variazioni più imprevedibili ed estreme. Si tratta dell’arte di organizzare griglie geometriche nel piano, sovrapponendo luogo geometrico a luogo geometrico, ed estraendo da questo giuoco le figure più incisive. Ho cominciato a riprodurre, attraverso la geometria, degli intarsi del Battistero di Firenze; e ho provato a utilizzare tecniche diverse da quella della tarsia: ho fatto scalpellare delle lastre di labradorite, e ho visto le parti scalpellate divenire più chiare di quelle levigate: un risultato inedito era raggiunto e una cosa nuova era nata. Ho fatto scolpire, su una lastra di marmo bianco di Carrara tutta la spartizione a intarsio della parete absidale interna del Battistero, usando, invece del contrasto bianco-nero, quello del bassorilievo; ho poi doppiato l’immagine del suo opposto, e di nuovo ho visto un originale nuovo emergere dalla variazione sull’antico. Da un mosaico dell’esonartece di San Marco a Venezia, attribuito da Parronchi a Paolo Uccello ho tratto la geometria che gli è sottesa e l’ho prodotta su specchio, usando il contrasto tra la superficie sabbiata e quella intatta e la lavorazione sulle due facce della lastra. Ho poi usato tutti i contrasti e vari materiali, lavorando sempre sulla traccia e con le tecniche d’espressione suggerite dagli antichi intarsi. Le cose nuove si moltiplicavano intorno a me e si mettevano a colloquiare tra loro; era nato uno spazio architettonico indefinitamente variabile, capace di includere se stesso e il proprio opposto, anche soltanto suggerendolo. Al di là dei prodotti dello studio degli antichi, l’indagine partita dagli intarsi e dalle epoche della loro storia, la riflessione sulla geometria mi ha condotto a interessarmi approfonditamente alle opere dei prospettivisti del Quattro-Cinquecento, e segnatamente a Paolo Uccello, Piero della
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Francesca, Dührer, Luca Signorelli, Leonardo, Daniello Barbaro. Nelle opere di questi autori vengono rappresentati corpi geometrici singolari, dai nastri spiralati avvolti intorno a un asse circolare (Paolo Uccello, in San Marco a Venezia, finestra dell’esonartece, mazzocchio a bande elicoidali nelle Battaglie) al cappello di feltro in forma di tronco di cono rovesciato sovrammesso a un basso cilindro e al cappello a forma di fungo, negli affreschi di San Francesco in Arezzo. Ancora di Paolo Uccello, il mazzocchio a cunei chiari e scuri nel Diluvio e nelle 14
Battaglie, e sempre di lui, il disegno conservato al Cabinet des Dessins du Louvre, che disegna in prospettiva perfetta uno sferoide a punte di diamante. L’elenco potrebbe continuare, ma io preferisco limitarmi alla citazione del disegno del Vaso di Piero o di Paolo Uccello, conservato nel Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi e alle due forme geometriche elicoidali ad asse circolare disegnate e firmate da Leonardo da Vinci. Risalire da una prospettiva al progetto -non si dà prospettiva scientifica senza sezioni verticali e orizzontali dell’oggetto rappresentato- permette di ricostruire -o meglio, di costruire per la prima volta da che l’oggetto è stato immaginato, la sua realtà materiale e corporea. Così, appunto, lo sferoide stellato di Paolo Uccello, il mazzocchio dello stesso e quello di Daniele Barbaro hanno trovato la possibilità di esistere, attraverso materie come l’alabastro (sferoide di Paolo Uccello), il legno dipinto (per il mazzocchio di Daniele Barbaro) e la costruzione, per fasi e strati successivi, attraverso l’opera del tornitore,
13 - Corpi geometrici da Leonardo da Vinci. 14 - Corpi geometrici elicoidi di Leonardo da Vinci. 15 - Veduta di insieme.
dello scultore, dell’intagliatore e dell’intarsiatore, di un toro sfaccettato in noce, quercia fossile e pero o in multistrato di betulla finlandese (per i mazzocchi di Paolo Uccello e per il copricapo a cono rovesciato di Piero della Francesca). Queste prove, questi oggetti, l’accuratezza dei loro cantieri, l’abilità manuale necessaria e la capacità di invenzione tecnica da parte degli esecutori, traggono il loro interesse e il loro valore di gradimento, assai più che non dal procedimento che ha portato a loro, dallo stupore, dal senso di fresca bellezza ritrovata, dall’incanto che trasmettono per il fatto di essere loro, di essere lì, indipendenti dal passato, nel presente delle loro tecniche e della loro apparizione inattesa. E cioè, credendo di riprodurre, interpretandolo, un oggetto antico, si è prodotta la nascita di una realtà indipendente, viva per la nuova materia assunta, per la dimensione in cui si sono realizzate le proporzioni che sono la sua struttura e per il trattamento inatteso della materia in cui si è incarnata. Più il procedimento viene riassorbito dalla fabbricazione, e cioè dalla traduzione operata, rispetto all’icona originaria, nel corpo del presente, più l’oggetto o lo spazio realizzati risuonano dell’armonia di partenza, ma si affermano come nascenti. In molti casi si tratta infatti di spostamento dalle due alle tre dimensioni, dal pigmento naturale alla differenza tra materiali, o, viceversa, nel passaggio dalle tre dimensioni dei corpi alle due del piano.
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METAPROGETTO URBANO E RICONVERSIONE FUNZIONALE PER L’EX-INCENERITORE DI S. DONNINO Alberto Breschi, Flaviano Maria Lorusso, Pierpaolo Perra Una delle denotazioni caratteriali più intrinseche delle periferie urbane contemporanee è la ‘produzione’ al proprio interno di autentiche scorie, di veri e propri avanzi- edilizi, funzionali, territoriali -, frutto rovescio delle dinamiche economiche, sociali e perfino politiche che ne determinano il valore precipuo di costante frontiera del mondo vitale di ogni epoca. Aree, attrezzature, preesistenze architettoniche o naturali inglobate espansione periferica senza la definizione di un destino o addirittura, avendone avuto uno, dismesse e abbandonate in ragione del loro superamento, costituiscono un sistema rilevante, per consistenze quantitative o potenzialità strategiche, di spazi e di beni di fatto rimossi e alienati, veri e propri ‘buchi’ di territorio e di senso, che rappresentano una paradossale dilapidazione di risorse, un contraddittorio spreco di ricchezza collettiva: sorta di desertificazione di ritorno dell’ eccesso parossistico e spesso arbitrario di consumo del territorio, ma anche dell’ estrema velocità di mutazione, evoluzione, superamento generata dalle grandi dinamiche epocali di trasformazione e ristrutturazione economico-tecnologiche in atto. Convinzioni, iniziative, realizzazioni si espongono così ad inusitati rischi di delegittimazione o di usura, che producendo appunto rifiuti crea conseguentemente e necessariamente, per la responsabilità gestionale, il problema - concettuale, metodologico e operativo - della definizione di procedure sistematiche di affronto e di risoluzione. Luoghi isteriliti che una diversa, immaginifica volontà gestionale può e deve rendere fecondi ribaltandone il vuoto di senso, la negatività passiva in occasione non solo di recupero, di riuso, di riconversione -secondo le categorie correnti-, ma addirittura di rifondazione di una nuova urbanità, congruente e conforme allo spirito ed ai bisogni dell’attualità. Luoghi che, inopinatamente, divengono così gli ancoraggi preziosi di un nuovo, alternativo disegno possibile della città : nuclei di irradiazione rifondatrice di ordine, di forma, di uso all’intero sistema urbano nonchè ai contesti degradati dell’immediato intorno periferico in cui solitamente sono sopravvissuti. L’ ex-inceneritore di S. Donnino. La struttura architettonica dell’ inceneritore in disuso di S. Donnino, alle porte di Firenze, rappresenta, per consistenza dimensionale, localizzazione e configurazione formale, uno straordinario esempio di ‘avanzo’, di ‘scoria’ urbana, appunto, lascito irrisolto, paralizzato di una non remota stagione della storia collettiva della città. Architettura-funzione interrotta, anzi mai avviata al suo naturale destino operativo e pure formidabilmente segnata, nella sua ‘figura’, dalla rappresentazione del senso di fiduciosa consapevolezza della propria potenza tecnologica e del proprio ruolo territoriale: personaggio in cerca d’autore, dunque, denso di personalità inespressa che una nuova, alternativa drammaturgia deve risignificare e riarruolare ad un destino di responsabilità funzionale ed espressiva di una scena urbana tra le più avvilite e divenirne anzi il protagonista cruciale, aggiornato e coerente, su cui imperniare il riscatto, la nemesi. Il Progetto La riprogettazione della realtà esistente può essere assimilata, metodologicamente, alla ricostruzione della realtà perduta dei siti archeologici sulla base dei frammenti pervenuti. E’ in questo senso che un progetto di riconversione di un manufatto in disuso, e di un manufatto di archeologia industriale in particolare, può costituirsi, processualmente, come una sorta di “progetto di archeologia del futuro” : la pre-visione progettuale del suo possibile destino di nuova configurazione fisico-funzionale si pone in fondo, suggestivamente, come ri-costruzione di una sua compiutezza interrotta e, insieme, plausibilmente ‘latente’ in una sorta di biologia implicita, che assume quali ‘fondazioni’ gli elementi fisici che compongono le sue ‘rovine’. “L’archeologia, come tecnica di costruzione della completezza di un passato in base alle persistenze incomplete di esso, è l’unica tecnica che per il suo carattere attivo ci può permettere anche una plausibile ‘ricostruzione ideale’ del futuro. La progettazione del futuro, come l’archeologia, va considerata un problema di completamento: le parti già note di esso sono i disorganici ruderi contemporanei di lucide simmetrie a venire” (Zziggurat). Nel caso del ‘reperto’ dell’inceneritore di S. Donnino e del suo contesto, questa analogia metodologica trova una naturale opportunità applicativa. La natura ‘ruderizzata’ sia del sito che della struttura edilizia in conseguenza della loro disattivazione o dell’ uso
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parziale e disordinato, li rende ‘materiali’ di una ricostruzione in cui la memoria diviene canovaccio, trama profonda di supporto ma per una germinazione evolutiva, per una enunciazione inedita protesa al futuro: realtà in nuce, portatrice virtuale di una ‘mutazione’ che non è solo modifica, ma ‘ri-creazione’ di una alterità fisica, funzionale e simbolico-figurativa del tutto innovativa. La ‘ri-composizione’ architettonica attuale insieme edilizio-ambientale composto dall’ inceneritore e dallo spazio circostante procede come definizione di un nuovo ‘sistema’ integrato e compiuto che, accrescendo l’articolazione funzionale e dunque spaziale dell’esistente in ragione della nuova destinazione, assume tuttavia lo ‘stato attuale’ come stato intermedio di una forma in divenire, fase di un progetto in evoluzione verso il suo ancora inattuato compimento. L’edificio esistente diviene germe, matrice del disegno compositivo finale e insieme sua ‘quota’ parziale: da esso prendono origine le eventuali espansioni edilizie necessarie nonchè l’organizzazione dell’area esterna di pertinenza, ma per divenirne esso stesso, altresì, solo un segmento biologico a valore paritario con gli altri elementi. Sul piano del più ampio significato urbanistico, il ridisegno dell’intera area parte dalla esigenza imprescindibile e urgente di riqualificazione di un comparto urbano fisicamente e socialmente esemplare delle complesse e critiche dinamiche metropolitane contemporanee. Il suo stato di margine, di frangia innanzitutto, in cui si tangono, seppure attraversate dalla ‘barriera’ costituita dalla sede sopraelevata dell’autostrada, due realtà periferiche assolutamente diverse per connotazioni fisiche e sociali: la periferia fiorentina del quartiere delle Piagge, con i grossi edifici dell’edilizia sociale puramente quantitativa e priva di servizi e di qualità, con spazi esterni inutilizzati e degradati, spesso ridotti a discariche spontanee, dove abitano i ceti più popolari e critici della città, da un lato; dall’altro, il piccolo centro di S. Donnino, con la minuta edilizia storica ancora relazionata ad una trama di piccoli campi ed orti retrostanti ed abitata da popolazione originaria, investita tuttavia da una immigrazione massiccia e repentina di popolazione extracomunitaria che ne ha fatto la base residenziale e lavorativa secondo modi spesso precari e addirittura abusivi, creando dure contraddizioni e condizioni di grave crisi complessiva dell’habitat originario. Due versanti socio urbanistici fra i più complessi e delicati del sistema metropolitano fiorentino, dunque, che necessitano di una profonda opera di riqualificazione e di riequilibrio a tutto campo, e in cui l’edificio dell’inceneritore con il suo spa-
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zio di pertinenza, recuperati a funzione di alto livello, possono assumere il ruolo baricentrico di agenti di rigenerazione qualitativa e di saldatura simbiotica. Il progetto architettonico. L’obiettivo progettuale sul piano più strettamente architettonico persegue la conciliazione della riconversione a funzione museale dell’ex-inceneritore con la necessità di ulteriori nuovi spazi da destinare al centro ricerche, alle attrezzature complementari di servizio (sala congressi, hotel-foresteria, ristorante, caffetteria, servizi igienici) ed al centro sociale per il quartiere. L’incremento edilizio necessario viene però subordinato, sia planimetricamente che volumetricamente, all’edificio originario assunto gerarchicamente come nucleo-matrice della configurazione finale: le nuove parti architettoniche derivano da esso, ne prolungano le masse volumetriche con opportuni allineamenti, se ne distinguono per materiali differenti al fine di ‘rappresentare’ al massimo grado il senso di crescita progressiva, di segmenti, di organismi aggiunti, o meglio scaturiti, originati da esso. Dispositivo compositivo che, inoltre, favorisce la possibilità di programmazione diacronica della realizzazione completa dell’intero sistema secondo fasi successive: dimensione simbolico-figurativa ed opportunità pragmatica convergono nell’esaltazione dell’edificio originario come protagonista fondativo dell’intera operazione. Si determina inoltre, conseguentemente, una chiara organizzazione delle destinazioni d’uso del sistema, per cui vengono a costituirsi tre blocchi funzionali distinti: il Museo dell’Ecologia, accolto interamente nel corpo di fabbrica dell’ex-inceneritore; il Centro Ricerche, insediato in un nuovo edificio-facciata lungo il lato sud, con annessa la sala congressi ed una foresteriahotel; il Centro di Quartiere che assorbe e incrementa l’attuale palazzina degli uffici per accogliere le attrezzature sociali destinate agli abitanti della zona ma anche i servizi di ristorazione e di accoglienza per i visitatori. lI Museo dell’Ecologia. Prevede la sistemazione della funzione espositivo-documentaria attraverso il recupero dei grandi spazi interni dell’ex-inceneritore, con la creazione di nuovi piani d’uso intermedi con cui sezionare parzialmente le alte cavità vuote da cui è costituito e previa la liberazione da macchinari e strutture metalliche ormai fatiscenti e privi di significato documentario: si prevede infatti solo la conservazione come reperto ‘scultoreo’ di una grande benna utilizzata per lo scarico e la movimentazione dei rifiuti. La quota necessaria di spazi amministrativi viene invece prevista ai due ultimi piani di un corpo di fabbrica a lingotto, smaterializzato da pareti interamente vetrate, che prolunga la sagoma dell’inceneritore formando una galleria trasparente sulla lunga rampa esistente, trasformata pertanto in ingresso al museo stesso: sorta di strada interna che ‘inizia’ alla scoperta della grande cavità dell’inceneritore, dalla potente spazialità emozionale, destinata alla funzione di hall di distribuzione ai successivi piani espositivi. Il Centro Ricerche. Prevede la realizzazione di un nuovo edificio specifico, collocato in aderenza lungo il lato sud, a costituire una facciata unitaria che delimita uno spazio di intervallo rispetto all’inceneritore ed al lingotto, ricavato mediante l’espansione longitudinale dell’attuale piattaforma sopraelevata. L’edificio presenta un intaglio nella sua sagoma che inquadra ed esalta la visione prospettica del sistema delle ciminiere dell’inceneritore, individua la porzione destinata all’hotel-foresteria e realizza la hall comune sia a quest’ultima che al centro stesso. Accoglie spazi, attrezzature, laboratori atti allo svolgimento di studi, ricerche, incontri specialistici sulla tematica dell’ecologia e dello sviluppo compatibile, come sede permanente di convergenza pluridisciplinare. Anche sul piano costruttivo, è previsto l’uso, per l’intera facciata sud, di pannelli solari per l’ autonoma creazione di energia, al fine di una dimostrazione esemplare sia dell’opportunità utilitaristica sia della potenzialità estetica della tecnologia architettonica ‘ecologica’: una lunga ‘lama’ nera, emergente da una vasca d’acqua che la riflette, taglia orizzontalmente il parco con l’efficacia di un oggetto semplice e assoluto di arte primaria o di land art dal forte impatto di segnale, di ‘insegna’ che raddoppia ed equilibra in orizzontale il ruolo analogo, ma verticalizzato, delle due ciminiere preesistenti.
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Il Centro Sociale. L’attuale palazzina uffici ne diviene il nucleo attorno al quale si ricavano gli ulteriori spazi necessari, attraverso un processo di inclusione della stessa nel prolungamento volumetrico della piattaforma esistente, in modo speculare a quanto fatto sul lato opposto. Si crea una testata individuata e funzionalmente organica, cerniera tra il complesso Museo-Centro Ricerche ed i collegamenti pedonali con le aree parcheggio autostradali ed i sottopassi verso Le Piagge. La terrazza-corte-giardino. La piattaforma esistente alla base dell’inceneritore, sul fronte sud, si dilata in senso longitudinale per formare un vasto piano esterno sopraelevato in grado di rilegare vecchi e nuovi corpi di fabbrica e di offrire un nuovo spazio baricentrico di stretta pertinenza del museo e del centro ricerche come corte-terrazza per la sosta, da destinare ai visitatori ed ai ricercatori. Si crea un invaso, dalla profonda prospettiva determinata dai due lunghi edifici laterali, totalmente pavimentato con listoni di legno che salgono parzialmente come frangisole sulla parallela parete vetrata della galleria e culminante nella percezione di scorcio dell’alto blocco costituito dalle ciminiere, che ne divengono il fuoco ‘monumentale’. Per aumentarne la qualità architettonica, fino ad una spazialità evocativa dal forte connotato figurativo e simbolico, viene ipotizzata la creazione di una piantagione artificiale, giardino poetico realizzato da un artista, come manifestazione la più alta e ‘naturale’ di ‘artificio’ umano. Al livello sottostante, oltre allo spazio museale che riutilizza l’attuale grande vano corrispondente alla piattaforma, viene prevista una nuova sala per conferenze con annessi spazi complementari, opportuna per le attività sia museali e di ricerca che sociali. Le ciminiere. Costituiscono l’impressionante elemento di denotazione esterna dell’inceneritore, rendendone possibile la percezione a grande distanza e quindi riferimento segnico a valenza territoriale. Questa caratteristica viene esaltata dal progetto di farne due ‘lanterne’, insegne luminose che ne avvolgono gli estremi e ne prolungano ancora l’altezza realizzate per mezzo di due gabbie cilindriche in lamiera microforata dotate di cerchiature illuminate e di piattaforme accessibili al pubblico: la cavità delle canne fumarie permette infatti l’alloggiamento sia di scale di sicurezza che di ascensori in grado di farvi affluire, seppure in numero ridotto, dei visitatori. Valore segnico di localizzazione e valore metaforico di antenna irradiatrice della luce di una nuova consapevolezza concorrono a risignificarne la potenza ingegneristica e il mero funzionalismo originari.
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LO SPAZIO MUSEALE: IL MUSEO-MOVIMENTO DELL’ARTE Lorenzino Cremonini Siamo alla metà degli anni ’70 e il coinvolgimento spaziale dei media elettronici inizia ad alimentare una nuova qualificazione intellettivo-percettiva ed emotiva nel visitatore al museo. Queste tendenze rafforzate oggi dalla tecnologia multimediale non sono più un tema riservato ai soli specialisti, ma sono divenute deposito di memoria collettiva e strumento di comunicazione di massa, nonchè di presa di coscienza della propria identità. Siamo all’intento di un progetto spaziale sia nelle nuove costruzioni che nelle trasformazioni di edifici esistenti (come il Grand Louvre di I.M. Pei 1983, la National Gallery a Londra di Venturi, Rauch e Bown 1985), di allestimenti spaziali sempre più innovativi, in cui si è andato perdendo il concetto di sola conservazione ed esposizione delle opere d’arte. E’ questo l’intento di due tesi di laurea: l’una attuata sulla Darsena a Milano e l’altra in atto a Firenze nel Museo dei Grandi Uffizi, tesa a far coincidere il concetto di museo con quello della città. Nel previsto “nuovo” centro fiorentino convergono nel confronto col passato i principali percorsi, vi si addensano i simboli artistico-esistenziali di centro di vita moderna tesa alla necessità di aggiornamento culturale, commerciale ed anche ludico; si concludono al suo interno nel proporsi come spazio pubblico e urbano, luoghi adatti al tempo libero e al “consumo” culturale dell’arte. La nuova esposizione intrapresa vuole offrirsi come metafora del museo esistente, ripercorrendo le direttrici degli spazi dei suoi ambienti, qualificati dalle tecnologie multimediali e sottolineati da forti segni di luce che diventano manifesto artistico per la città. Le nuove strutture spaziali coinvolgenti il cortile del Vasari, con binari metallici di navette, passerelle e tapis-roulants librati nell’aria, rendono immediata l’interazione fra storia e futuro, fra reale e virtuale. La dimensione spettacolare dello spazio progettuale è come un palco dove si osserva e contemporaneamente si rappresenta; dove oltre ad essere visitatore si è parte del ciclo espositivo qualificato su alcuni schermi multimediali, per esprimere il suo estro creativo ed essere contemporaneamente osservato da altri in un continuo gioco di integrazioni ed immedesimazioni. Percorrendo il museo sarà come compiere un viaggio attraverso il dinamismo dell’arte, partendo da una “promenade architecturale” che interagisce con la città e genera una molteplicità di spazi arricchiti di eventi che vengono restituiti alla fruibilità cittadina. Viene così considerato sbagliato ormai, pensare il museo solo attraverso ciò che si è esposto e qualificato sovente, secondo diversi ritmi di fruizione quali: piano (per l’opera interessante), veloce (per quella che attira meno), ed aggirare (retro) l’eventuale punto ove un gruppo di persone si riuniscono, col proposito di tornare indietro appena si sia sciolto il capannello. In questo “piano, veloce, retro” esiste l’evolversi di un movimento, di un pensiero, teso ad aumentare la conoscenza e seguire la vena creativa; tutte crescite intellettuali queste attivate in una fase dinamica, di azione. Siamo all’idea di apprendere per muoversi sotto spinte fruizionali, magari fino ad oggi latenti come fantasmi nell’aria, ma che oggi con l’apporto delle tecnologie multimediali, vanno nello spazio museale vissute a diverse velocità (come avviene all’esterno nel museo-città) per una necessità dettata anche dalla vita attuale e dalle sue abitudini. Infatti risulterebbe anacronistico (ma purtroppo avviene) oggi chiedere al visitatore, che in altre sedi può comunicare col mondo in tempo reale, di soffermarsi a leggere le didascalie sotto i quadri, o farlo camminare per centinaia di metri per soddisfare una curiosità momentanea. Oggi il museo deve consentire di essere “vissuto” alla maggior velocità possibile, senza diminuire la qualità stimolante dell’esperienza (intellettuale o meno) che viene intrapresa; quasi un’azione istante per istante paragonabile ai fotogrammi di una pellicola cinematografica. Percorrere il nuovo museo da parte del visitatore, sarà come compiere un viaggio dedito alla conoscenza e alle capacità percettive nell’arte e nel modo di viverla. Lo spazio museale va quindi concepito nella visita, in una successione di azioni suddivisibili
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nelle tre grandi aree: del vedere, dell’imparare, del fare. Nell’area del vedere situata dopo l’ingresso, che porta ad una specie di labirinto con numerosi video sulle pareti (atti a illustrare notizie sulla mostra in svolgimento, e le opportunità che offre nelle scelte di percorso possibile), si ha il primo indispensabile approccio con contenuti del museo capace (con essenziali notizie sulle opere e sugli autori) di esaudire le aspettative del visitatore (nell’approccio con le opere d’arte, secondo le proprie capacità di recepire i messaggi e di reagire agli stimoli) suddivise in tre zone distinte: quelle espositive bidimensionali e tridimensionali, e quelle del percorso video. “....L’area espositiva bidimensionale si presenta come un lungo corridoio largo circa mt. 4,50, con le opere posizionate su pannelli espositivi in diagonale di circa 70° rispetto alla parete laterale, per consentire nell’ambiente ristretto, una corretta visuale (gli stessi video trasmettono notizie correlate per associazione di idee o per riferimenti geografici e storici con un sistema di immagini per citazioni, aumentando la “sete di sapere”); consentendo così al visitatore di capire l’idea espressa nell’esposizione, e passando magari nella corsia centrale per avere un’ampia visuale, senza perdere una sola opera e senza penalizzare chi volesse sostare più a lungo davanti ad un quadro particolare....” (figg. 1-2) Siamo alla conclusione fisica del percorso espositivo bidimensionale, dal quale si può scegliere la possibilità di tornare all’area espositiva tridimensionale o continuare con le scale mobili. Quest’area (di approfondimento) si può considerare una zona di
1-2 - Tesi di Laurea M.C. Della Berta: Primo Livello del Museo.
sosta riflessiva, per l’ampio spazio panoramico che la qualifica. “.....lungo i gradoni discendenti, trovano posto pannelli ondulati in plexiglas (ricoperti da pellicole fotosensibili) con alle sommità proiettori, che trasmettono immagini e informazioni riguardanti l’esposizione e provocano nelle parti del plexiglas colpite dalla luce intensa, la perdita della trasparenza consentendo una perfetta visione delle proiezioni e l’eventualità di maggiori conoscenze sulle opere esposte e interagendo sui terminali collegati ai proiettori....” “...Mentre l’area espositiva tridimensionale, si evidenzia in un ambiente quasi surreale (dove le opere spuntano da ruscelli vetrificati come frutti di una natura impazzita) che si forma con l’unione di tre dei quattro tubi che compongono la struttura. (figg. 7-8-9-10). Infatti lo spazio metafisico è reso dall’acqua che scorre sotto le lastre calpestabili di vetro antiriflesso e dalle immagini (proiettate su pannelli ancorati al solaio superiore) associate alle opere esposte, con la stessa funzione rafforzativa dei filmati descritti avanti. Il soffitto di questa grande sala è qualificato da ampie bucature di parallelepipedi in vetro, quali elementi di collegamento visivo tra i vari tunnel e l’esterno....”. 2
Siamo in questa prima parte, nei diversi ritmi di visita e nella velocità di fruizione
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soggettivamente legata al tipo di oggetto esposto, al cosiddetto museo “freddo” (come lo chiama Marshall McLuhan, intendolo il mezzo di comunicazione povero di informazioni e di stimoli ad una partecipazione attiva), teso nella pura visione delle opere bidimensionali e tridimensionali, al desiderio di approfondimento che verrà appagato nella seconda zona. Il percorso video invece, è qualificato da un tapis-roulant che trasporta l’utente (secondo il tipo di opere esposte) ad una velocità predeterminata, consentendo la visione consequenziale di numerosi apparecchi video, senza però consentirgli una visione “completa” dei messaggi trasmessi, e stimolandolo ad 3 approfondire successivamente ciò che il suo inconscio è riu-
scito a memorizzare. Da ciò nasce la curiosità verso uno o più filmati che potranno essere visionati con maggior calma in locali predisposti. Nella sezione finale di quest’area espositiva, saranno invece collocate opere che si porranno al visitatore in una veste dinamica; infatti in una struttura meccanica predisposta esse scorreranno sotto gli occhi della gente, formando particolari associazioni visive (che vedremo più avanti). Cosicchè dopo la prima fase del viaggio suddetto, dovremmo trovare il visitatore intellettivamente stimolato nel desiderio di proseguire la seconda fase “dell’imparare”; dove l’approfondimento dei ritmi e le necessità variano da soggetto a soggetto, presentando opzioni diverse per le azioni e le relative velocità richieste per compierle e mantenendo la possibilità di visionare (in apposite salette poste in uno dei tunnel del museo) i video d’arte in tutta tranquillità. “....Siamo alla vasta area dell’imparare con gli spazi per artisti ed artigiani, che il visitatore può percorrere in estrema libertà, ora con il lento movimento del tapisroulant, o delle rampe mobili lungo cui sono sistemati i video a circuito chiuso (collegati con gli studi degli artisti e artigiani), o ancora entrando fisicamente nei loro spazi di lavoro e visionare direttamente l’oggetto artistico che stanno compiendo. La visione dei metodi elaborati nelle varie opere e l’eventuale approfondimento nozionistico (attuabile nella biblioteca multimediale), consentono ora al visitatore di divenire esso stesso “artista”, entrando poi a contatto con l’area del fare quale ultima sezione del museo adibita con spazi e strutture adeguate a tutti coloro che volessero dare corpo alle idee....”. (figg. 4-5) “...Limitrofo a queste zone, si troverà un ambiente polifunzionale, un teatro del fare insomma di nuovo genere che ospiterà visitatori e pubblico, oratori e personaggi artistici di vario genere, capaci in diverse fasi e circostanze (sotto la spinta creativa determinatasi) di essere un ponte di collegamento tra l’imparare e il fare, evidenziando magari anche le idee maturate lungo il percorso. L’uso poi dei pannelli mobili video e mega-schermi, creano il supporto ad ulteriori ispirazioni per i novelli artisti e per chi passeggia nell’area del fare (o ancora per chi intravede dagli oblò del piano adibito a bar, posto al 2° livello)....”. Si è compiuto così un viaggio (predisposto in entrambi i sensi) attraverso l’arte e i
4-5 - Lo spazio del fare: La conclusione del percorso museale è lo “sfogo creativo” dell’utente.
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probabili modi di percepirla, attuabili secondo i ritmi con cui soggettivamente si vive questa “visita”, che può essere mentalmente avventurosa, ma che trova nelle parti “accessorie” dell’ambiente polifunzionale suddetto (il teatro) e della zona bar con servizi vari, un vivo riferimento al coinvolgimento sociale che tutti i giorni viviamo nello sguardo urbano. Siamo al movimento dell’arte, al nuovo “modo espositivo” di avvicinarsi all’opera attraverso specifiche associazioni visive, capaci di far risaltare ogni particolare di
3-6 - La Biblioteca Multimediale: lo spazio adeguato a tutti coloro che vogliono “dare corpo alle idee”.
un’opera esposta. Col video-percorso siamo come già detto, all’inversione in termini d’uso, del classico punto di vista museale, teso ora verso quel “racconto” innovativo che l’associazione televisiva ha la possibilità di applicare col movimento delle opere, alla visione quasi statica (da fermo) del visitatore. Cosicchè in questa specie di “video-arte”, le opere scorrono all’interno di una struttura “finestrata”, a cui nella provocazione intellettiva possono fare da cornice gigantografie delle opere stesse, che con ipotetici “continui percettivi” qualificano ambientazioni insolite (magari anche con paragoni immediati tra opere e stili differenti), polarizzando l’attenzione e l’interesse dell’osservatore fino nei minimi dettagli. Siamo al primo percorso video imposto all’utente dallo spazio museale attuato su tapis-roulant, vivendo le immagini a livello quasi sublimale nel bombardamento di innumerevoli flash di suoni e colori, trasmessi con più proiezioni parziali in contemporanea successione irregolare, capace quasi di impedire nella globalità dei messaggi, la concentrazione su un solo filmato. “....I video saranno posti lungo il soffitto, le pareti e il pavimento, in modo da circondare il visitatore (come in un tunnel), e sostenuti da strutture orientabili a piacimento, colorate in diverse tinte associando un cortometraggio con uno specifico colore. Un tapis-roulant dall’andamento sinuoso consente di non vedere tutti i video in contemporanea e non creare un’eccessiva cacofonia di suoni e immagini. L’anda-
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mento curvilineo è reso possibile dalla doppia struttura del nastro trasportatore (tramite una prima serie di placche rigide parzialmente sovrapposte per render possibile le curve) che sostiene un nastro in gomma elastica per mantenere la continuità della pavimentazione....”. (Imparare)”....In questa seconda sezione del museo, vi sono il percorso di approfondimento dei video a circuito chiuso, l’area di approfondimento (in percorso aereo) delle opere d’arte, la biblioteca, gli studios per gli artisti ed artigiani; lo stimolo della curiosità circa le informazioni sulle opere esposte (avute dalle diverse opzioni offerte dagli strumenti e dalle fonti di acculturamento), l’utente deve andarsele a cercare....”(figg. 3-6). Il percorso per l’approfondimento del video può considerarsi il continuum logico e pratico della precedente area video, con un concetto spaziale diametralmente opposto; infatti quanto nella prima parte si voleva stimolare la curiosità e l’interesse (con bombardamento di immagini), tanto in questa seconda parte regna la calma nella possibilità di osservare il video desiderato. “.....la zona d’ingresso in un tratto a forte pendenza (che rallenta il transito) evidenzia un totem girevole in cui sono posti piccoli televisori, che rappresentano in strisce verticali a diversi colori, le determinazioni possibili delle varie salette per visionare i video, poste alternativamente in evidenza cromatica a destra e sinistra di un lungo corridoio....” Gli spazi adibiti a studios artisti e artigiani, a percorso video (a circuito chiuso ad essi collegato), evidenziano un settore, come già tratteggiato, che risulta la parte più viva dell’area dell’imparare e contemporaneamente è il punto in cui la città penetra nel
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museo e porta i suoi artisti ed artigiani per illustrare le metodiche creative delle opere. “....Si può vivere quest’area in modo diretto o indiretto, approfondito o superficiale; l’ideale per sfruttarne le possibilità sarebbe percorrerlo a piedi, limitandosi ad attraversare il corridoio principale; oppure entrare negli spazi degli artisti ed artigiani per rimanervi in contatto diretto. Vi è cioè il pieno rispetto per chi vuole vivere il museo a ritmo accelerato, con due percorsi particolari: l’uno aereo degli studios che permette l’inoltrarsi su tapis-roulants sopraelevati con la percezione diretta e soggettiva (anche se parziale) dell’opera degli artisti; l’altro per l’attraversamento veloce su scale mobili, sul soffitto delle quali, video a circuito chiuso raccontano cosa succede istante per istante negli stu8 dios....”.
“....Il visitatore che nella sezione precedente ha osservato innumerevoli opere, in questo settore (da considerare un punto di arrivo per la sua evoluzione intellettuale) può vederli nascere direttamente e discutere con l’artista o l’artigiano approfondendo le proprie conoscenze....”. “.... le pareti divisorie che separano le aree di maggior passaggio da quelle con più riservatezza, sono costituite da pannelli attrezzati ad ospitare vetrinette espositive, lavagne-massaggi, mensole, ed altro.....” Riguardo allo spazio adibito a biblioteca, siamo ad un ambiente dalle funzioni tradizionali (di studio, di schedari e deposito libri, ma caratterizzato da un’alta informatizzazione con allacciamento dei terminali ad Internet) pensato su quattro livelli, 9 che consente tramite un lato interamente vetrato il
contatto con le strutture spaziali limitrofe del museo; oltre a possedere un ingresso ed una uscita con l’esterno urbano, per chi non ha visitato o non vuole visitare il museo. (figg. 4-5) Siamo allo spazio del fare. 7-8-9-10 - Lo spazio metafisico: l’area espositiva tridimensionale si evidenzia in un ambiente quasi surreale, che si forma con l’unione di tre dei quattro tubi che compongono la struttura.
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“....con il fare si conclude il percorso museale, e l’energia creativa che si è accumulata durante il viaggio, può attuare in quest’area nell’intenzione dell’utente “il suo sfogo creativo”. La spinta di questa forza attacca in scariche di energia lungo la rampa incastonata nella struttura che poi si dissolve, rompendo nel-
l’emersione il suolo in segmenti isolati. (...) Le alte torri, simbolo della forza cre-
Bibliografia
ativa, si incuneano profondamente nella Darsena, denunciandone la totale ap-
A.A.V.V. - Il museo cittadino: formazione, gestione,
propriazione; (...) e le vetrate incidono la superficie frontale e chiudono le parti
strutture, Roma nis. 1983. A.A.V.V. - Museo, Flaccovio Palermo 1993.
terminali delle torri, attuando con l’illuminazione interna i precisi segnali notturni della loro presenza....” All’interno di quest’area abbiamo le zone distinte del teatro (posto a cavallo tra il fare e l’imparare) e la vera area produttiva, nella quale il visitatore ha la possibilità (tramite attrezzature di pareti, preposte di leggere pannellature mobili e fisse, con ampie aperture per la percezione dell’ambiente circostante; il tutto qualificato da proiettori posti in sommità, quale riferimento con le immagini contenute nella banca dati) di comporre esso stesso opere originali, e grazie a supporti tecnologici, copie di quelle appena viste. Il “teatro” è un elemento di completamento delle varie iniziative museali, potendovi coesistere in contemporanea la possibilità di diversi ruoli (pubblico e spettatori possono scambiarsi in repentine improvvisazioni) e funzioni, con la disposizione interna del palco e della platea (uno incuneato nell’altro) a sottolineare la compartecipazione tra i due ruoli. “.....Da ultimo nella stessa area del fare come tratteggiato, abbiamo la zona luogo di ritrovo e ristoro; nel cui pavimento si evidenziano oblò in vetro e metallo, quali elementi di collegamento visivo con la sala sottostante, che fungono anche da tavolini nella zona bar, consentendo al visitatore di sentirsi ancora partecipe di ciò che avviene nello spazio museale....”. C’è da chiedersi al termine di questo viaggio raccontato, visitare un museo comincia ad essere un piacere? L’operatività spaziale in merito si muove in questo senso, specialmente ora, negli U.S.A. dove la modernizzazione dello “spazio per l’arte” è intesa come una totale disponibilità a favorire una gradevole conoscenza, nella godibilità degli spazi luminosi e intersecati, nell’ausilio audiovisivo, nell’informazione del computer (che consente diverse scelte dei gradi di consultazione e documentazione), e nei servizi. Ne è esempio al Museum of Modern Art di San Francisco dove anche il “navigatore elettronico” più imbranato riesce a farsi aiutare nella difficile attraversata di un’ar10
dua produzione artistica contemporanea.
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“L’ARCHITETTURA SONO IO!” Antonio D’Auria Una tesi compositiva è il frutto, quasi sempre, di una intersezione tra il sapere raggiunto, la competenza acquisita, la consapevolezza dello studente da una parte e la prospettiva teorica del relatore, il suo modo di concepire spazialità e temporalità del progetto, insomma la sua ideologia progettuale. Dopo questa pleonastica, certo, eppure necessaria premessa, aggiungiamo che le tesi e le loro stesure variano soprattutto col variare dei relatori: uno si appropria delle luci di una produzione new wave occasionalmente rifulgenti sulle riviste specializzate e celebranti la contemporaneità come stretta attualità; un altro considera quei bagliori solo riflessi, immagini da confrontare col repertorio di soluzioni estetiche, formali e funzionali sin a quel momento accreditate dalla storia, andando alla ricerca di una sequenza formale in cui inscrivere il progetto e, possibilmente, da aggiornare; un altro ancora approfitta proprio del grado di libertà e di azzardo concesso alle elaborazioni di tesi di laurea e tenta, con esiti non scontati, la carta dell’innovazione, del rinnovamento linguistico, dell’abbandono della consuetudine, della fondazione di un paradigma, di una nuova sequenza formale. I tre atteggiamenti, di conformismo, di ragionata mediazione o di abbandono di ogni prudenza, in fin dei conti sono poi molto meno distanti tra loro, in genere, di quanto si ci possa attendere; e questo quasi sempre dipende dalla forzata prudenza del laureando che in occasione della laurea ha modo di sperimentare, forse per la prima volta, un progetto compiuto, un’ipotesi più o meno realistica di soluzione di un tema d’architettura, in uno spazio dato, in un preciso momento storico, politico, culturale ed economico. Nella sezione “Architettura e innovazione” del Dipartimento di Progettazione dell’Architettura di Firenze l’intento dichiarato dei componenti è quello di percorrere la strada della sperimentazione, giocata soprattutto sugli aspetti linguistici, per la formalizzazione dello spazio - da un lato - in maniera francamente antistoricistica e antivernacolare e - dall’altro - di mediare tra mutamento (nuove tecnologie, nuove tipologie architettoniche, nuovi assetti funzionali) e persistenza (la memoria dei luoghi, il genius loci). Alla fine si perviene ad un rispettoso, per ora quasi timido, confronto tra l’ulteriorità del progetto e l’anteriorità della tradizione (anche didattica) in cui si innesta. Questo processo, che già ora non esclude eccezioni ed oltranze, potrà avviarsi compiutamente solamente con l’istituzione - dal 1998-99 - dell’anno di sintesi contemplato dal nuovo ordinamento della Facoltà di architettura. Fino ad oggi le tesi sono state lo specchio di un duplice orientamento, non necessariamente disgiunto nei lavori seguiti da uno stesso docente: attenzione all’innovazione delle forme e attenzione all’innovazione delle tecniche del progetto architettonico. Ecco, per il tramite di codesta duplicità di interessi, le questioni che il dibattito architettonico attuale si pone - alle soglie di una post-(post)modernità che dagli architetti era stata prima conosciuta nei testi di altre discipline e modelli culturali dotati di una storica autorità teorica, e poi, man mano sperimentata, ad un tempo temuta e promossa - possono essere analizzate e accostate in modi diversi rispetto all’immediata dichiarazione dei contenuti. Secondo quali modalità e con quali curvature metaforiche, ad esempio, sono state negli anni Novanta organizzate e ri-definite le grandi questioni sul progetto architettonico e urbano si trova traccia evidente negli elaborati finali degli studenti, in cui, va aggiunto, si riscontrano anche i segni della asimmetria fra postulato teorico ed esito progettuale nonché della difficoltà di valutare l’influenza di un evento (un progetto autorevole, alla stregua, per intenderci, del recente museo a Bilbao di Gehry) sul modo di pensare lo spazio e il progetto di architettura. In buona parte la ricerca ha perseguito la definizione di modalità progettuali che si segnalassero come contemporanee senza mai entrare in contraddizione con una tradizione progettuale evolutiva, lentamente aggiornata senza ripudio e sensa ansia di contraddizione e vistose cesure. È chiaro che l’impegno per il futuro contempla una riflessione sulla perdita dell’attenzione verso il genius loci - o sul suo recupero come emblema mistificato come forma semplice -, sulla tendenza all’internazionalizzazione dei linguaggi e al cosmopolitismo formale. Altri lavori, come quelli seguiti da chi scrive, aventi come tema privilegiato il recupero di aree dismesse dentro e fuori le città storiche, hanno provato a considerare il progetto urbano come palinsesto: si gratta qualcosa per scrivere qualcos’altro. La traccia della
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vecchia struttura non viene cancellata, anzi viene esaltata come germe attivo, come leit-motif su cui fondare la riscrittura: l’inevitabile aggiornamento linguistico e stilistico si fonda su una struttura latente che, una volta svelata, risulta la trama logica e sintattica su cui costruire il progetto; così la lettura del contesto è un momento del progetto, la memoria è il contrappunto ed anche il fondamento dell’istanza innovativa. Alla difficile ricerca di conciliazione tra etica ed estetica del progetto partecipano le tesi (numerosissime) seguite da Remo Buti (che costituiscono un perfetto contrappunto a quelle poche seguite dal sottoscritto). Esse infatti risultano giocate tra utopia e atopia poiché, invece del flusso storico, mettono in campo l’urgenza del tempo presente, con una società fondata su rapporti mediati da simboli, da comportamenti, da eventi. Nelle tesi di Buti è facile rilevare, preliminarmente, la coerenza nella esplorazione di una rottura radicale con la norma, con il conformismo modernista. Qui una modernità radicale sventa le trappole del post-modernismo, superando le sue istanze più clamorose e più facili di fine della storia, di sfiducia nel progesso, mentre sembra accoglierne altre, come una programmatica deregulation e una avvertita umanizzazione del progetto. Difatti gli artefatti progettati hanno come punto di riferimento, soprattutto, una prospettiva strettamente antropocentrica e come obiettivo la messa a punto di un microcosmo, introverso e intimo, centrato sulla creazione di spazi interni individuali e partecipi di un intérieur più vasto, collettivo, pubblico, ma sempre individuato e delimitato. Pietro Quatrini, Tesi di Laurea Relatore Antonio D’Auria
Mentre risulta implicita una visione critica del passato prossimo - cioé del razionalismo e le sue declinazioni neo-tecnologiche - il progetto, in tante tesi di Buti, si propone come ferma pronuncia a negare, in nome di una rigorosa avventura, le indeterminatezze del presente e le sue confortevoli ambiguità linguistiche. L’istanza centrale sembra essere una reinvenzione spettacolare delle tipologie architettoniche (un museo, uno stabilimento termale, un luogo di ristoro, un cimitero, ecc.) con esiti progettuali fondati sulla comunicazione, sulla multimedialità, sui comportamenti dei potenziali abitatori di quegli spazi. Si tratta di un atteggiamento progettuale che si potrebbe definire assoluto, di tipo ontologico, attraverso il quale si tenta la messa in scena di spazi in cui le differenti realtà individuali trovano il modo di coesistere, di appropriarsi a proprio modo degli spazi, di confrontarsi anche in maniera oppositiva
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con l’architettura e con il novero dei suoi abitatori. Lingua e stile sono coerenti: l’impianto sintattico degli edifici è volutamente elementare, immediatamente comprensibile, adeguato allo svolgimento delle funzioni previste grazie a forme accattivanti, biomorfe, ludiche; le forme si prestano all’esperienza e all’immediata introiezione, basate sul discreto quanto esplicito ricorso ai simboli dell’immaginario antropologico: la scala, il ponte, il labirinto, l’antro, il recinto sono le figure ricorrenti. La ricerca stilistica costituisce una delle peculiarità dei progetti di cui parliamo e risulta sottolineata proprio dal carattere a-ideologico degli approcci progettuali. Se ne deduce un’opzione estetica che apparenta le architetture progettate al mondo degli oggetti di un Sottsass o agli interni urbani di città-non-città come Las Vegas. Lo stile è riconoscibile grazie a ricorrenze non tanto di temi ma di soluzioni: la libertà delle soluzioni formali è ottenuta senza far ricorso all’High Tech, senza declinare paradigmi del modernismo contemporaneo - dal minimalismo al decostruttivismo - ma rifuggendo al contempo dai sintagmi del neoregionalismo o del neo-storicismo. Viene dispiegato un sistema in cui si privilegiano forme semplici, immediate, intuitive che tuttavia si prestano alla complicazione e alla complessità. Ne deriva un’architettura per certi versi organica, almeno nel senso che respinge l’antico mito efficiente della machine à habiter. L’edificio diviene un testo da scrivere più che da leggere e decifrare: lo statuto è tale che il fruitore si tramuta da spettatore ad attore. “L’architettura sono io”, ama ripetere Buti, intendendo che senza l’uomo non si dà architettura e che ogni architettura è uno spazio differente di volta in volta per ogni utilizzatore. Mutando anche solo l’abito, o l’umore, muta l’architettura. Anzi, a volte, è solo l’atteggiamento, il comportamento dell’abitatore dello spazio che ne determinano il carattere e la valenza ambientale. Inoltre si riconosce agevolmente il rifiuto dell’approccio tecnocentrico e razionalistico a favore dell’eterogeneità e dell’atteggiamento aperto e liberatorio verso gli apporti culturali più disinibiti, alla ricerca di una rinnovata antropologia che scansi le certezze totalitarie ed immutabili del modernismo. Più che progetti ispirati alla cosiddetta distruzione creativa, all’istanza di palingenesi dell’architettura, le tesi butiane danno da una parte conto dello spirito del tempo mentre, attraversate come sono da una salvifica ironia, non si propongono come proposte evolutive o come contributi al processo di cambiamento di quello spirito. Si sottraggono alle leggi mistificanti della dinamica storica, direbbe Adorno, giocano un tiro all’esistente. Le architetture progettate sono innanzitutto luoghi di felicità, stimolatori di autoconsapevolezza, spazi in cui abbandonarsi o in cui vigilare, in cui ritrovare se stessi o ritrovare gli altri. Di quanto gli studenti siano consapevoli di questo, non abbiamo modo di sapere; e certo si corre il rischio di un cliché, di una ulteriore omologazione all’interno di un sistema in cui il meccanismo della dissimulazione e del mutamento rischia sempre di convertirsi - in quanto automatismo - alla conformità dell’antico “rinnovarsi o moGiovanni Maini, Tesi di Laurea “La sezione Aurea. Ipotesi per una grammatica spazio - temporale”. Relatore Antonio D’Auria
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rire”. Intanto i progetti risultano l’un l’altro complementari, prefigurano un universo (antiurbano) le cui caratteristiche sono la programmatica mancanza di unitarietà, la scoperta intenzione di non dover dimostrare la propria non-contradditorietà, il con-
sapevole rifiuto di proporsi come risposta ad una precisa domanda. Anzi, tante volte le soluzioni adottate si configurano piuttosto come interrogazioni al sistema reale, per revocarne in dubbio le consolidate certezze, fondate sull’economia, sulla globalizzazione, sull’omogeneizzazione. La struttura sostanzialmente introversa comune a tanti progetti delle tesi butiane non si propone però come forma chiusa, come totalità ma si atteggia a impianto aperto, in cui il caos è controllato ma l’individualità è stimolata, la libertà è la regola ma non diviene mai anarchia. Un’ultima notazione merita un altro versante dello stile butiano, riconoscibile negli elaborati di tesi: la rappresentazione. Il nesso che esiste tra concezione dell’architettura e formalizzazione del suo progetto risulta qui particolarmente evidente. L’idea di spazio in progress viene sottolineata dalla serrata sequenza di sezioni orizzontali e verticali in cui si dà conto - con segni essenziali, con decise campiture nere - dell’evoluzione stessa del percorso progettuale. I grafici inseguono una loro autonomia figurativa che è il corrispettivo di una delle principali cifre di questi progetti, ossia l’assenza di un referente concreto nonché la distanza da qualsivoglia luogo reale. I disegni non si propongono mai come “esecutivi” ma come illustrazioni, funzionali più alla comprensione del progetto da parte di un suo potenziale utente che da parte di un ipotetico costruttore. Le viste tridimensionali che si alternano alle proiezioni piane sono sovente trattate come comunicazioni visive, a metà tra la grafica pubblicitaria e la pittura moderna. Il clou è rappresentato quasi sempre da un modello, spesso colorato e luminoso, con il quale si comunica e si dichiara apertamente lo statuto oggettuale dell’architettura e dunque la sua “maneggiabilità” e la sua disposizione ad essere contettualmente e sensorialmente posseduta. Non mancano poi le elaborazioni al computer per raffinati rendering. Qui l’uso del CAD, oltre a dare conto di materiali, finiture e colori, fornisce un simulacro - anzi, una suggestione - a chi guarda perché percepisca, più che forme dimensioni schemi funzionali o soluzioni tecniche, il sottofondo culturale sotteso alla concezione del progetto. L’uso del CAD è a quanto sembra l’unica concessione che questi progetti fanno alla più avanzata tecnologia (a meno, come capita, che non si tratti, mettiamo, di progetti innovativi di oggetti con materiale a memoria di forma); una concessione che sembra voler neutralizzare il rischio di feticizzazione del progetto, connesso ai grafici “manuali” leggibili come atti creativi e autosufficienti, con un valore aggiunto che appartiene ad altri ambiti espressivi. Che queste tesi, certo non da tutti - com’è lecito attendersi - accettate e condivise, siano la metafora di un’architettura pronta all’evento o addirittura ad una festosa kermesse, è testimoniato da quanto di consueto accompagna il rito della discussione e della proclamazione: una vera e propria folla di studenti e amici che assiste compiacuta e divertita, quasi sempre soddisfatta dalla quota di surprise che quegli elaborati riserva loro, ogni volta.
pagg. 50-51 “Stanze vuote” Remo Buti
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ARCHITETTURA: COMPLESSITA’ DEL PROGETTO CONTEMPORANEO Paolo Iannone Premessa. Uno dei problemi del progetto architettonico contemporaneo riguarda le “dimensioni” dell’architettura, da sempre in bilico tra l’oggetto architettonico, la città e il territorio. Non è un problema di poco conto se si pensa che ormai da molti anni si assiste ad una continua ridefinizione degli ambiti (architettura, urbanistica, pianificazione territoriale ecc.) che, direttamente o indirettamente, riguardano la progettazione di assetti spaziali a diverse scale e con diversi gradi di approssimazione. Un altro problema deriva dalla presa di coscienza di una realtà urbana complessa (nelle zone di espansione) che non può più essere considerata semplicisticamente un “cattivo” prodotto di una iniqua speculazione o di una mancanza di controllo “ordinato” sul territorio, ma che rappresenta in qualche modo le contraddizioni e la complessità della vita contemporanea. Un terzo problema che investe direttamente la sfera più specifica del fare architettonico è la ricerca di un linguaggio (linguaggi) della contemporaneità. Inoltre ci sembra di poter dire che l’architettura contemporanea si nutre di “nuovi riti” e di “nuovi miti” (parafrasando un celebre testo di Gillo Dorfles) che riguardano le nuove caratterizzazioni funzionali di spazi del coinvolgimento, della partecipazione, dell’informazione , dello spettacolo, della gioia e dell’ammirazione: i nuovi “musei”, le gallerie espositive, i cinema multisala, i centri multimediali ecc. Infine due momenti del vivere contemporaneo più convenzionali e storicamente sedimentati con cui bisogna misurarsi in termini di progetto architettonico: la discoteca e i centri commerciali sempre più iper e sempre più complessi nell’immagine che propongono di cittadelle autonome del consumismo più sfrenato, ma anche festaiolo e spettacolare. Le “dimensioni dell’architettura”. Da sempre l’architettura ha operato a varie scale e a più dimensioni. Ma è nella città che essa ha trovato e trova la sua vocazione come espressione tangibile della cultura di un popolo. Dalla città romana alle città ideali, alle utopie megastrutturali degli anni ’60, le intenzioni “urbane” dell’architettura si sono espresse come volontà ordinatrice dei luoghi della città, dilatando a dismisura il concetto dell’”abitare” fino a comprendere in esso il paesaggio rurale e il territorio urbanizzato. Parallelamente, soprattutto in questo secolo, con l’avvento della disciplina “Urbanistica”, la città è stata programmata semplificando e trasponendo i processi di analisi in proposte di town design che trovavano nello zoning la massima espressione progettuale, producendo ancora oggi effetti assai poco edificanti nella crescita delle nostre città. Negli ultimi anni è maturata la coscienza che il fenomeno città non può essere preordinato in un progetto globale più o meno duttile a successive elaborazioni. E’ necessario invece prendere atto che la città tende a identificarsi come un insieme correlato di sistemi a volte in dialettica tra loro ( la viabilità e i sistemi di comunicazione fisica, le residenze, i servizi, i luoghi di coinvolgimento culturale, ludico, sportivo ecc.). Questo insieme che si produce “naturalmente”, a dispetto dei piani urbanistici tradizionali, in molte cosiddette periferie urbane degradate, ancorché sia in qualche modo programmato, non può generare immagini urbane di sereno equilibrio formale, in una visione utopistica di città “organica” o “integrata”. Al contrario le forze in gioco che si pongono producono tensioni che si traducono in immagini caratterizzate da dinamicità, contrasti e sovrapposizioni. Il ruolo che l’architettura può assumere in questo modo di intendere il progetto della città è fondamentale. Al di là della “dimensione” scalare che prefigura progetti di interi brani di città (la Defence a Parigi) o di
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grande complessità funzionale (l’International Business Center di Rem Koolhaas a Lille) e che si lega alla tradizione degli interventi a media e grande scala nella città, è interessante porre in evidenza la “dimensione” di molti edifici specialistici e polivalenti che ormai sono diventati i nuovi grandi segni urbani del nostro tempo. Patrizia Pisaniello Esercitazione finale del Laboratorio di Progettazione Architettonica II A.A. 96-97
Dal Centro Pompidou alla Biblioteca Nazionale di Francia, dai grandi edifici finanziari al Museo della Scienza e della Tecnica alla Villette, dal New Metropolis di Renzo piano ad Amsterdam al The Getty Center di Los Angeles fino ai grandi spazi della gioia e dell’ammirazione ( Il Guggenheim Museum di Bilbao). Questo fenomeno costituisce certamente una delle nuove “frontiere “ dell’architettura, celebrative forse di un nuovo tipo di religiosità con forti caratterizzazioni simboliche. La città come coacervo di complessità. Nella premessa si accennava alla necessità di una rivalutazione critica dei fenomeni urbani spontanei o scarsamente programmati nelle aree di espansione e di trasformazione delle nostre città (fenomeni che rappresentano comunque la tendenza della città a rendersi sempre più complessa). Alla luce degli sviluppi derivanti dalle nuove “dimensioni” dell’architettura, comprendendo in esse anche gli interventi complessi a media scala che coinvolgono un numero elevato di attività pubbliche e private (residenze), ci sembra di poter affermare che l’impatto con le preesistenze non è mai “dolce” o “indolore” o semplicemente dialettico, al contrario spesso è un impatto “forte”, segnato dalla presenza del “nuovo” che tende a imprimere una grande accellerazione formale all’intero contesto. Questa fenomenologia, che sembra ricorrente, mostra, a dispetto delle intenzioni dei progettisti spesso sensibili alle sollecitazioni contestuali, come le dinamiche prodotte dai nuovi modi di interpretare le forze trainanti della civiltà del nostro tempo e, di conseguenza, gli esiti architettonici che ad esse possono riferirsi, rendono complesso l’insieme urbano e spesso contraddittorio. La ricerca di nuovi linguaggi. L’architettura è o può diventare sempre di più l’espressione più profonda del proprio tempo, nella misura in cui riesce ad esprimere gli equilibri e le tensioni che formano il suo substrato culturale: ideologiche, politiche, sociali, economiche, comportamentali. L’architettura è inoltre portatrice di valori, sia direttamente (spazio architettonico), sia indirettamente (spazio simbolico); tali valori, in termini di linguaggio, generano associazioni di concetti che comunicano, in modo complesso, una particolare visione del mondo. Il balletto delle tendenze linguistiche degli ultimi anni (non nuovo nella storia dell’architettura) testimonia della variegata messe di ipotesi che nutrono il campo del
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progetto architettonico. Possiamo, a tale proposito e con un forte grado di semplificazione, distinguere sostanzialmente due tipi di tendenza: “storicistica” ed “evoluzionistica”. La prima considera la storia non recente come elenco di tipologie architettoniche a varie scale , fino ai dettagli, a cui fare riferimento nel processo progettuale; l’altra, molto articolata, partendo dall’esperienza del Movimento Moderno e di altre correnti di pensiero artistico (espressionismo, costruttivismo) sta tessendo a livello globale una miriade di linguaggi, dall’Hight Tech al Decostruttivismo, al Minimalismo, al Neo-Espressionismo. Non crediamo opportuno, per la brevità di queste note, approfondire i termini di ognuna di queste correnti che meritano adeguati approfondimenti critici. E’ invece importante segnalare due linee di tendenza che caratterizzano molti progetti e realizzazioni in varie parti del mondo. La prima (alcune opere di Jean Nouvel, Rem Koolhaas, Toyo Ito e tanti altri), nata parallelamente alla raffinata ricerca tecnologica di materiali “leggeri”, adatti ad una decisa industrializzazione dei processi costruttivi, si caratterizza per una particolare “trasparenza” dell’involucro esterno. L’involucro, di norma molto semplice nella sua stereometria , ma estremamente raffinato nei materiali che caratterizzano la “pelle” degli edifici, sembra voler dialogare con il contesto in modo pacato, senza imporsi drasticamente ma, al contrario, intregrandosi con esso. In realtà si tratta di architetture di alto “livello informativo”, in quanto mostrano in modo solo allusivo e con cicli temporali imprevedibili la “vita” interna degli edifici. Il gioco di luci interne e il rapporto con la luce esterna accompagnano lo scorrere del tempo di questa architettura “viva”, che ben rappresenta il mondo complesso dell’informazione a cui siamo destinati culturalmente. La seconda, più complessa (ambigua?) è la tendenza di alcuni edifici di grandi dimensioni (o con funzioni meramente tecniche) a caratterizzarsi in modo sostanzialmente autonomo rispetto all’organizzazione spaziale interna. L’esterno, in questi casi, partecipa al dialogo contestuale con proprie “leggi”, in una sorta di immagine-segno che rimanda a simulacri celebrativi del passato. Quest’ultima tendenza ricorda storicamente i grandi “segni” totemici di ispirazione religiosa o “pagana” che hanno informato città e territori (a dispetto dell’utopia del Movimento Moderno in merito alla presunta continuità tra spazi interni e spazi esterni, l’architettura rivendica il suo ruolo di polivalenza e interscalarità segnica in continuità con il mondo della natura). Nuovi riti e nuovi miti. Da molti anni ormai le discoteche rappresentano un luogo di forte attrazione. Esse vengono vissute dai giovani come luoghi di massima partecipazione e rito individuale e collettivo che si sostanzia di un plafond comune intriso di musica, luce, colore, ecc. Nel mondo contemporaneo al rito della discoteca ancora vivo e reso complesso da
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strutture complementari integrate si abbinano altri “riti” legati ai circuiti informativi e multimediali che ormai sostanziano culturalmente la nostra società. Il museo tradizionale, le gallerie espositive, i cinema, i teatri, le biblioteche tendono sempre più a trasformarsi in centri informatizzati interattivi in cui convivono esperienze di media tradizionali e media elettronici, in una complementarietà che rende complessi ed estremamente vitali questi organismi. Essi tendono sempre più a caratterizzarsi come “luoghi” di forte partecipazione e coinvolgimento per i giovani e i meno giovani. Questo nuovo “mito” urbano configura con certezza uno degli organismi architettonici in cui sperimenteremo sempre meglio un nuovo tipo di spazialità in cui convivono lo spazio fisico legato al mondo della natura e lo spazio virtuale legato al mondo dell’informazione. Il grande interrogativo che ci accompagnerà nel progetto architettonico sarà legato a questo problema di convivenza di due entità non omogenee ma che si influenzano a vicenda, dilatando immensamente a livello percettivo e “culturale” la dimensione spazio-tempo. Un discorso a parte meritano i nuovi centri commerciali che tendono a diventare delle vere e proprie “città del consumo”. E’ un fenomeno che interessa ormai anche le piccole città e rappresenta, a suo modo, un altro “mito” della nostra società con cui bisogna misurarsi in termini urbani e architettonici. La forte specializzazione degli ipermercati, di per se alienante, viene attutita dalla presenza di strutture complementari di servizio ma anche ludiche e di spettacolo. E’ possibile prevedere nel futuro una integrazione anche fisica di questi organismi nel più generale contesto di luoghi della collettività, collegati strettamente ai servizi intermodali, ai centri multimediali, alle residenze specialistiche. La società dell’informazione cioè potrà produrre una città sempre più integrata nelle sue parti, superando la forte specializzazione dello zoning che ha costituito finora una degli strumenti meno opportuni a imprimere “qualità” alla città contemporanea.
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IL VUOTO Eugenio Martera Se attraversiamo il panorama di realizzazioni e progetti più innovativi degli ultimi anni ci rendiamo conto che gran parte di questi hanno per oggetto una categoria spaziale specifica: il vuoto. Questa tema progettuale va dagli spazi aperti rigettati dalla cultura industriale alla previsione di vuoti “architettonici” di grandi dimensione all’interno di nuovi edifici. I primi, su cui il dibattito è ormai codificato da diversi anni costituiscono le occasioni progettuali di ridefinizione di gran parte delle città europee. Questi luoghi, come molte esperienze tipo quella barcellonese dimostrano, possono diventare nuove centralità capaci di strutturare l’intorno informe delle periferie costituendosi come “vertebratori” urbani, o “rivitalizzare” socialmente i centri storici innescando meccanismi di autorecupero urbano. I secondi sono sicuramente quelli che potranno maggiormente scardinare i parametri tradizionali di riferimento che regolano il rapporto tra architettura e città. Saranno questi ultimi a mio parere i luoghi dove si riscriveranno i concetti base che definiscono lo spazio architettonico. Saranno questi gli “spazi della gioia e dell’ammirazione”, spazi dove la città e i suoi abitanti potranno rappresentare se stessi per se stessi. La previsione di tali spazi modifica profondamente i parametri tipologici propri delle varie funzioni proposte suggerendo un nuovo rapporto tra interno e esterno. L’evoluzione di questo concetto suggerisce una nuova relazione tra architettura e tessuto urbano e inserisce all’interno del contenitore architettonico una tipologia spaziale che genera un nuovo “esterno” con caratteristiche prettamente urbane individuando una nuova “scala dimensionale” intermedia tra quella prettamente architettonica e quella urbana. Le potenzialità di queste soluzioni architettoniche/urbane riguardano le prefigurazione di nuove tipologie di spazi che fisicamente fanno parte del progetto architettonico ma funzionalmente e figurativamente appartengono al progetto urbano. “Uno shock che l’architettura ha dovuto assorbire in questo secolo è stato che, per la prima volta nella sua storia, il cliente dell’architettura divenivano le masse e per accettare questa sfida senza precedente bisognava progettare programmi oltre che edifici” Rem Koolhaas Sicuramente questo fatto ha innescato una nuova epoca e questa epoca è arrivata oggi forse ad un punto di maturazione tale da produrre “densità senza architettura” facendo emergere chiaramente in alcune sperimentazioni la figurazione del “programma”. Soprattutto nell’esperienza di R. Koolhaas è possibile rilevare come il vuoto si trasformi in “programma” concettuale, come le specificazioni funzionali diventano quasi un incidente di percorso, suscettibili quindi di accogliere qualsiasi modifica purché all’interno del programma. E’ l’azzeramento del design a favore di una trama concettuale atta ad inglobare all’infinito altri significati. E’ la capacità di “padroneggiare il vuoto” rendendolo una densità concettuale e percettiva. Per ottenere questa densità il “progetto ambientale” contemporaneo dovrà avere la capacità quindi di individuare le potenzialità nel “vuoto” come matrice per la strutturazione di nuove tipologie spaziali per la cultura metropolitana. La grande sterilità nel proporre nuove tipologie spaziali a scala urbana è conseguente ad un problema di “vocabolario”, non si può pensare di soddisfare le aspettative della città contemporanea solo attraverso l’uso di “parole” che abbiamo ereditato dal secolo scorso e a cui non abbiamo apportato nessun aggiornamento. Una concezione urbanistica che non consideri questo aspetto favorisce lo sviluppo di una cultura urbana limitata che non riesce a fare quel salto epocale che gli permette di accorgersi che mentre gli urbanisti della seconda metà del nostro secolo si sono affannati a definire la città contemporanea questa, la città, si è spontaneamente consolidata e sviluppata seguendo regole di mercato ed economiche. Oggi sta avvenendo quindi una paradossale situazione in cui la cultura dominante cerca di consolidare una città che non esiste più e parallelamente immagina una città futura totalmente incompatibile con quella attuale. La tematica della “densità concettuale” del vuoto può diventare un nuovo territorio teorico della nostra epoca, proponendo in un paesaggio contemporaneo caratterizzato dal disordine e dallo smembramento una possibilità di ricostruire un unità, “far risorgere il reale e reinventare il collettivo”. Questi interventi e la successiva teorizzazione potranno innescare meccanismi di recupero e ridisegno non più finalizzati all’utopica
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illusione dell’integrazione e della mimesi con il paesaggio urbano consolidato ma che viceversa accettino ed evidenzino le difformità e si preoccupino soprattutto della definizione di tipologie di spazio urbano/ architettonico che siano capaci di innescare processi evolutivi anche alla scala sociale. Tra le città Europee dove l’utilizzazione del vuoto ha avuto un risultato più soddisfacente c’è sicuramente Barcellona. Il criterio più importante che venne fissato nel rinnovamento legato all’Olimpiade del ‘92 è stato quello, infatti, di considerare come ossatura di tutti gli interventi lo spazio aperto: il vuoto. L’obiettivo era quello di considerare le strade, le piazze, i giardini come la spina dorsale di tutti gli interventi. Un intuizione urbanistica che è stata base concettuale di riflessione di tutta una serie di piani e progetti sviluppati in Europa negli anni successivi; ma che solo a Barcellona ha avuto una così completa ed efficace attuazione grazie sicuramente al rapporto attuato tra piano urbanistico e progetto architettonico già sottolineata. La prima fase di interventi costituì la realizzazione di un gran numero di piazze, veri e propri “vertebratori” di porzioni di spazio urbano. La “forza” e la “ricchezza” di queste realizzazioni sussiste indipendentemente dalla loro dimensione, questi luoghi riescono a proporre realmente ai loro fruitori “nuove spazialità” e suscitare in essi ammirazione e curiosità con i loro “dettagli”. La riconoscibilità legata alla loro peculiarità è quindi automaticamente inserita come bene sociale fruibile e non come anonimo vuoto spaziale all’interno di anonime architetture. Questo tipo di spazi si realizzarono attraverso il ripensamento di spazi urbani Tesi di laurea “CHB -Residenze e spazi pubblici nel centro storico di Barcellona” di Lorenzo Brilli, Tommaso Brilli, Matteo Zetti. Relatore: A. Breschi, correlatore E. Martera
esistenti (restauro di spazi storici, caratterizzazione di spazi anonimi, razionalizzazione di aree destinate alla viabilità) e alla “saturazione” dei vuoti derivanti dalle mancate definizioni degli spazi aperti da parte dell’edilizia anni ’60 (la mancata realizzazione delle opere di urbanizzazione). In conclusione questi “vuoti” che hanno caratterizzato gli interventi barcellonesi sono riusciti a strutturare porzioni urbane senza qualità e portare un “germe” di mutazione positiva all’interno dei tessuti problema, germe potenzialmente in grado di contaminare gli intorni senza per questo compromettere le scelte sui sistemi generali. Dimostrazione importante questa che quando un progetto attraverso la sua specificità e riconoscibilità è concepito come un organismo integrato è sempre riconducibile anche ad un sistema (organismo) di scala superiore. La tesi che è presentata in queste pagine riguarda il concorso “CHB - Residenze e spazi pubblici nel centro storico di Barcellona” e si colloca nel dibattito sopracitato. Affronta il problema della ridefinizione di un nuovo vocabolario cercando di proporre categorie di spazio aperto non codificate anche se derivanti da evoluzioni concettuali di memorie storiche.
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LUOGHI DI CULTO, SPAZI DI TURNO, NUOVI SITI Marino Moretti Nella storia della Terra esistono luoghi misteriosi e sacri, costruiti su particolari principi: vasti scenari urbani e territoriali dove l’architettura nasceva grazie a forti accumulazioni d’energia. In molte civiltà del passato l’ubicazione di una città, di un villaggio, una strada o una casa, di un cimitero o una chiesa, costituiva un evento importante. Una grande rivoluzione di idee ci separa da quel mondo, in cui lo spazio della vita sociale coincideva prevalentemente con l’ambiente geografico e dove una concezione mitica della Natura era patrimonio della cultura diffusa. Se spostiamo ed alziamo tutto di un gradino, prendendo giustamente le distanze, è possibile immaginare anche oggi dei punti che entrano metaforicamente in contatto, pur senza intersecarsi: i geomanti (le multinazionali) della comunicazione e del marketing interpretano ancora gli auspici; certo, non lanciano tavolette di legno, ma softwares della socializzazione e dell’acculturamento. A Londra, nella notte del 2000 spariranno le gru gialle nel quartiere di Greenwich. Il 31 dicembre 1999 sarà inaugurata “the Millennium Dome” di 80.000 metri quadrati. Richard Rogers ha progettato una tenda in vetro di 50 metri d’altezza per 320 metri di diametro. Nella sala principale, con più di 10.000 posti a sedere, i visitatori potranno intraprendere un viaggio multimediale. Molte altre grandi città cavalcheranno il secolo a suon di Giubilei, Fiere planetarie. Mostre epocali, idoli e spazi talvolta improbabili, ma fisicamente raggiungibili, pre-museificati dalla devozione al nuovo e al “diverso”. Già ora piccole città in miniatura (città della Musica, della Cultura, della Scienza, delle Merci, ecc.) sono meta di pellegrinaggi come lo erano anticamente gli eremi e i sacri monti. Tali forme archetipe e protettive esistono sulle mappe turistiche, ma non appartengono né alla città, né al territorio. Operano come outputs di bisogni reali o indotti ed esaltano un urbanesimo ridotto all’essenza, all’evento, che appartiene a noi ed a tutti quelli come noi. Luoghi di culto spiritualmente vuoti, depurati dal tono sacrale che contraddistingue comunemente i grandi spazi monumentali delle nostre città. Senza indirizzo e senza abitanti. Talvolta sono realtà di grandi dimensioni (Venezia) o loro rappresentazioni (Disneyland); tal altra zone di passaggio e sosta temporanea; quasi sempre insulae consolatorie, comunicative, ludiche, interattive come i videogiochi. Extra moenia o ai margini delle metropoli, nelle estreme periferie o fuori delle autostrade, queste stazioni diventeranno il contrappunto dei nostri centri abitati, creando nuove geografie di riferimento fra habitat e persone. Da decenni si è aperta la prospettiva di un immenso mercato della cultura, con luoghi d’attrazione accessibili a tutti. “La catastrofe è ormai avvenuta - scriveva Baudrillard nel 1983 (Le strategie fatali) - non è più il soggetto che desidera, ma è l’oggetto che seduce”. La perdita d’identità, la crisi dell’uomo, la mutazione antropologica in corso, sono certamente il frutto dei preoccupanti squilibri di una civiltà che, in modi affatto diversi e più o meno involontariamente, ha tagliato i ponti col passato; cioè con quel sistema di valori che l’era industriale aveva scambiato per certezze; con la cultura di una tradizione mistificata e la paranoia della ragione (Horkheimer). Ora la società dello spettacolo (Debord) poggia su di un terreno instabile, senza eredità da gestire (ideologie) tra fiducia e rischio, sicurezza e pericolo (Giddens). E tuttavia essa possiede un’enorme riserva di potenzialità ancora da esplorare: ha in sé un presente e davanti a sé un futuro che non le daranno tregua, perché sta percorrendo altre vie e si sente giustamente minacciata dalle proprie stesse scoperte. Così, se da una parte questi spazi di turno rappresentano il prodotto di una sofisticata tecnica del convertire all’utilità comunitaria gli stimoli della fragile società multimediale, sullo sfondo, fuori scena, non si può trascurare come visualizzino concretamente i nodi di accesso del nostro rapporto col sapere (multiplo, policentrico) e producano flussi d’interazioni (sociali ed affettive) in ogni caso decisive per il destino della collettività. Nei luoghi d’incontro e d’intrattenimento si captano eventi reali o inattesi; si concentrano situazioni oggettive; istanti solenni cui potremmo attribuire significato religioso (da religare, che equivale a unire), capaci di dare all’effimero e al banale, sembianze di eterno. Sentire e pensare individualmente non basta più; occorre procurarsi l’illusione del movimento, del rumore, della folla, “essere” con il mondo, perché le alternative che il domani ci pone potrebbero farci trovare spodestati o esiliati in un mondo virtuale. Così, nulla è più
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Elena Pucci “Nuovi spazi per il culto: una chiesa a Roma” A.A. 1994-1995 Relatore Marino Moretti Correlatore Dario Biondo
gratificante della partecipazione ad un gioco in cui, come dei cubisti, ci riconosciamo specchiandoci narcisisticamente negli occhi degli altri. La “nuova spiritualità” fa proprio un enorme desiderio di comunicazione, espresso dal potenziamento e dalla fusione di due segnali sociali in apparenza contraddittori: partecipazione e scambio interpersonale da un lato sono trasferiti sui networks, dall’altro su luoghi e spettacoli lontani, con grandi rendez-vous e spostamenti di masse. Da ciò il ricorso ad arti quasi-magiche d’identificazione/partecipazione. In una società che vive di frammenti, gli usi e i costumi diventeranno più importanti delle leggi. Anche se siamo ancora lontani dall’organizzare strutturalmente le nostre previsioni sulla durata delle loro capacità comunicative, proprietà, dimensioni di questi luoghi di culto (macroarchitetture o microcittà) sono così autoreferenziali da potersi progettare a qualsiasi scala (S, M, L, XL) ed ovunque, sia disseminati sul territorio sia nelle periferie monouso. Certo, il futuro si annuncia ancora più minaccioso per le nostre care e vecchie città, chiuse dentro un recinto che le trattiene e ci isola. Questo confine fisico e mentale doveva costituire una barriera intelligente all’espansione disordinata e si è rivelato un’illusione, una trappola, alimentando il nostro desiderio di fuga. Il centro urbano come spazio d’incontro e di scambio, quello dei monumenti, delle strade e delle piazze, conserva uno “status” sociale che di rado corrisponde alle esigenze di chi lo abita. E non solo perché il maxi ipermercato dell’autostrada è meno caro e più facile da raggiungere del mercato cittadino, ma soprattutto per una combinazione d’effetti che, se nei secoli arricchiva la città antica di bellezza, oggi è fatalmente esaurita. Arte e Natura che hanno saldato fioritura e sviluppo sono il più delle volte in opposizione tra loro o addirittura sommerse, o sopravvivono in forme posticce e patetiche. Di fatto, con questa perdita di spazio relazionale si sta consumando industrialmente quel tentativo di distruzione e di laicizzazione (ma senza la tanto attesa riappropriazione) che costituì l’obiettivo delle avanguardie architettoniche della seconda metà del XX secolo. Il territorio non appartiene più alla città, non è più suo; anzi, le è ostile. La gaia utopia dell’Instant City degli Archigram (1969) è oggi una realtà assai meno effimera. Ed è pure evidente come tutto il complesso apparato teorico costruito dal Moderno per l’architettura sia irrimediabilmente saltato. La “città dell’Acquario” pre-postindustriale, pre-postmuseale, nasceva a Woodstock nell’agosto del ‘69. Essa rappresentò la colonizzazione fisica di un nuovo sito e la conquista di un territorio appena conosciuto, quasi inesplorato: quello della parteci-
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pazione planetaria agli eventi. Non era segnata sulle carte, né vi rimase e, come gli empaquetages di Christo, lasciò la sua immagine cultuale nei videotapes. Oggi, a trent’anni di distanza, l’attrazione fatale dei nuovi siti non è più un mitico gioco d’evasione; è anche l’effetto di un mettersi in campo, in cammino verso luoghi comunicativi ed interattivi, trasmigrando di continuo alla ricerca del proprio abitare. Cosa può significare per l’architettura, in concreto, questa mutazione? Probabilmente che a tutte le sue dimensioni s’aggiunge ora un valore che cresce con una spettacolare discontinuità di complementi intorno alla geologia precedente e racchiude in sé l’immagine privilegiata di linguaggi parlati, di Oggetti vivantes che esaudiscono desideri altri e li immettono in una rete di percorsi e di significati talvolta ancora da assegnare. Poiché, se è vero che le origini del disincanto sono di natura reattiva - la città antica, chiusa, inviolabile; la città contemporanea, caotica, invivibile - alle radici di tale nomadismo sta il nuovo che avanza (Serra): è lo spazio dell’uomo contemporaneo, misurato su grandi distanze, su di un vuoto senza miti né limiti; un ibrido, un’entità dotata di qualità mutevoli ed arbitrarie, espressione di un dato individuale irriducibile: l’esserci. E se i confini fisici dell’abitare stanno per essere cancellati, i domini pubblico e privato sono ormai sconvolti in un tormentato scambio di riflessi, rafforzato dalla scomparsa di quelle nicchie dell’intimo e del simbolico che Gaston Bachelard ci aveva così straordinariamente descritto ne La poetica dello Spazio. Oggi si naviga nel virtuale-sintetico e ci si può muovere da fermi, grazie a sensori o un semplice collegamento in rete. Lo spettacolo più incredibile di questi anni consiste forse nella sorprendente K del fenomeno e nei suoi eccessi, nella massa infinita di fatti che lo hanno portato ad integrarsi quasi completamente nelle realtà del quotidiano. Il dato saliente della vicenda è dunque la sensibilità e la disponibilità a vivere qualsiasi esperienza, ad abbandonare lo sterile Giuoco delle perle di vetro (Hesse). Perché in un’epoca dove il bisogno d’identità, radicalizzando il suo punto estremo (fine delle introspezioni e nascita del “sentimento oceanico”), diventa cultuale, ogni nuovo evento risulta molto legato alle conferme, al consenso, a spazi virtuali o reali da condividere con gli altri. Nomadizzazione, sradicamento e ubiquità (deterritorializzazione) sono le condizioni su cui poggia la progressiva fuoriuscita degli abitanti dal cuore delle città verso un territorio dove si sperimentano occasioni di vita, non-vissuta, ma da vivere insieme, che ricollegano questi spazi della gioia e dell’ammirazione e i loro rituali a stati affettivi individuali (di sopravvivenza?). Così il progresso si mobilita, sposta e va rompere l’idea stessa di comunità urbana, d’ambiente domestico e lo sostituisce con l’existenz-maximum (la vendetta). E quest’estensione trascina con sé sia le gerarchie d’uso dello spazio collettivo sia l’integrità degli ambiti - dalla stanza alla casa, alla strada, alla piazza, alla città, al territorio. “La gerarchia urbana degli spazi della vita pubblica e privata - scriveva Serge Chermayeff nel 1963 - comprende grosso modo sei campi: Pubblico-urbano, Semipubblico-urbano, Pubblico-di-gruppo, Privato-digruppo, Privato-familiare, Privato-individuale.” La differenza dipende non tanto dal fatto che tale messaggio cercava allora regole di significazione autonome, necessarie a canonizzare lo spazio della città, quanto dalla sostanza di un sapere che oggi, pur con la sua fragilità, va a trasformare tutto: non designa le verità dello spazio, della forma o dell’immagine, bensì un altro spazio, un’altra forma, un’altra immagine. Una volta raggiunta una tanto evidente distorsione d’ampiezza tra pubblico e privato, non solo risulta impossibile padroneggiarne il limite o fissarne la soglia, ma è anche il dato stesso a risultare coercitivo. Ne deriva che non sarà più da neutralizzare o equalizzare, ma da registrare e riprodurre, aggiornare e prefigurare. In altri termini, questi luoghi di culto, quelli di turno e quelli più intimi, ormai intrecciati e sovrapposti gli uni agli altri senza distinzioni e gerarchie, hanno decostruito la nozione
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forse troppo consolidata di spazio individuale e stanno ormai configurando l’antitesi: un modello alternativo ed il futuro paradigma dell’abitare collettivo. Quando tale “stiramento”, prodotto e modellato dalla grammatica dei gesti e degli spostamenti, viene proiettato dentro la sperimentazione architettonica, va ad inserirsi quasi automaticamente in uno dei suoi anelli predefiniti; cioè nella paziente e difficile impresa di desacralizzazione e dissezione di forme attualmente in corso. E, nella logica di questa sfida, l’architettura delle Chiese giubilari e Megadiscoteche, dei Luna-parks, Festivals e delle Esposizioni Universali, non si limita a testimoniare l’avvento di nuovi temi espressivi, ma produce altresì una risonanza significativa: è la
ritrovata fiducia verso un esercizio estetico al quale, in fondo, pochi credevano ancora. Poiché, con simili prerogative, essa si è fatta depositaria di un’incessante indagine sul “da farsi”, lavorando sul frammentario o “su nebulose” (Nouvel) e facendo propri modi e tecniche che la cultura ufficiale 20 anni fa avrebbe bollato come disgustosi episodi della scuola del Pittoresco. E’ un’architettura dell’età elettronica (Eisenman) che vive nella presunzione d’ipermodernità, sottraendosi alle maglie figurative della cultura che l’ha preceduta; regolata, anzi de-regolata, da un diverso funzionamento dello sguardo. Sembra proporci l’idea di un gioco più libero da ipoteche d’ordine semantico e rendersi disponibile ad un uso che può, ed insieme può non assomigliare alle categorie che rappresenta. In definitiva è l’architettura di un nuovo pragmatismo - quello da tabula rasa - che ha raggiunto il proprio culmine antieroico, perché supporta il linguaggio e sta vivendo un’atmosfera da esperimento clinico. Perciò non utilizza modelli né tipi, ma un campionario tematico; non possiede punti fissi, solo classi referenziali d’esempi e riferimenti analogici che dovrebbero comunque premunirci contro lo stupore, perché richiamano la Torre Eiffel, Piazza del Trocadero, il Palazzo di Cristallo. E persino il Colosseo e le Cattedrali nella misura in cui va ad incarnare lo stesso desiderio della totalità e dell’adunanza. L’esito formale è dunque, oggi più che mai, “il Fiasco”, ma quello di Peter Blake (Forma follows Fiasco) e può coincidere con l’evocazione, con una formula che fin dall’approccio esibirà una natura incantatoria: non si racconta, non dichiara; si mostra. Crea un paesaggio di macchine celibi ed oggetti senza luogo, estranei al contesto, la cui forma oscilla tra il carattere dell’impianto industriale e l’immagine dei mobili nella valle (De Chirico). Il visitatore-spettatore-attore-cliente (fruitore) è spinto ad acquistare familiarità con apparizioni portentose, con un repertorio d’immagini vivide che lasciano ricordi slegati, riflessioni sospese. Non più simboli, ma visioni e spazi capaci di sovvertire la realtà. Icone le cui azioni sono tanto più forti quanto più alta è l’illusione e la perfezione formale raggiunta. Grandi enclavi, luoghi extraurbani, spazi aperti e disaggregati dalla città, miriadi di punti che si accendono d’interazioni umane e presto diventeranno costellazioni nella topografia dell’immaginario collettivo.
pag. 64 Michele Pacini, Ranieri Picchi, Fabrizio Reali “Firenze Expò MMX: padiglione Italia” A.A. 1994-1995 Relatore Marino Moretti pag. 65 Gian Luigi Novello “Festival: spazi per la musica a Città di Castello” A.A. 1995-1996 Relatore Marino Moretti, Corr. Federico Rossi pag. 66 Progetto per il “San Francisco Embarcadero Waterfront” 1992 pag. 67 Progetto per il “Greenport Waterfront” 1996
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CALL FOR VISION
SAN FRANCISCO EMBARCADERO WATERFRONT COMPETITION /1992
MERET OPPENHEIM Girocollo in oro con corallo, onice nero, crisoprasio, agata rossa
Marino Moretti (capogruppo) Dario Biondo Claudio De Filippi Roberto Frosali Domenico Minguzzi Collaboratori Filippo Innocenti Lapo e Neri Lorenzetto Bologna T H E
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THE CITY AS A WORK OF ART T H E
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NOT DISREGARDING OR SUBSTI TUINGANYOFTHEVARIEDEXISTING BUSINESSPOPULATION,WHICHHAS MANYHISTORICLINKS,ORTHEMORE RECENTRESIDENTIALDEVELOPMENT. BUTINSTEAD,CONSIDERINGTHEMAS INDIVIDUAL ELEMENTS EACH WITH UNIQUE QUALITIES, WHICH CAN BE REINTEGRATEDINTOANEVER-EVOL VINGWHOLEOFSPATIALFACTS. T H E
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FOCUSING ALONG THE WATER FRONTCONCEPTSWHICHHAVEBEEN INSPIREDBYTHECITYLANDSCAPE. THESEFOCALPOINTSOFURBANRE NEWAL: THE WATERFRONT BOULE VARDS,THEMARKET,THEPROMENA DE, THE WATER GARDEN AND THE MAIN PIAZZA, WILL INFLUENCE THE EXISTINGSURROUNDINGAREAANDIN TURN THE DAILY LIVES OF THE IN HABITANTSOFSANFRANCISCO. T H E
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UTILISING THE IMMENSE NATURAL RESOURCESOFTHEAREAWITHITS INATEFIGURATIVEQUALITIES.SPLIT TING THE LANDSCAPE INTO A NUM BEROFINDIVIDUALSEAVIEWSAND BY USING A COMBINATION OF THE EXISTINGURBANLANDSCAPETOGE THERWITHTHESYMBOLICIMAGERY OFBEADSANDAQUATICFORMS,AN IDEAL DESIGN SOLUTION IS REA CHED. A CONCEPT WHICH PUSHES FORWARDTHEFRONTIERESOFCITY ARCHITECTURE INTO THE THIRD MILLENNIUM.
GREENPORT WATERFRONT INTERNATIONAL DESIGN COMPETITION 1996 Marino Moretti (capogruppo) Michele Pacini Ranieri Picchi Fabrizio Reali
WATER INK COLOURED SQUARE
In this project Greenport Park is seen as the magic prototype of a third millennium ecological land scape. A thin, wide water surface slowly flows down from and to the sea.The Squa re will look as a toy and memory container (Regina Maris, Carousel).This wavy,artificial ly coloured water carpet creates a surreal urban "enclave". Both from Front Str., and Ma rina is clearly visible the scenographic effect of a great number of coloured fountains get ting bright at night; it's a lively place, sym bolizing the uniting of earth and sea, that changes colour every season. The walls of the open air pedestrian routes, (a sort of "calli") cut into the Square, are continuously sprayed by wa ter, which is canalized and filtered, and flowing again. SPRING - SUMMER - AUTUMN - WINTER
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LO SPAZIO DELLE RAPPRESENTAZIONI TRA CONSERVAZIONE E INNOVAZIONE Vittorio Pannocchia Che alcuni spazi reali, naturali oppure delimitati con l’impiego di artifici, riescano a suscitare l’ammirazione dell’uomo, o meglio dell’osservatore, in virtù delle caratteristiche fisiche ad essi proprie, è un fatto accertato. Non vi è ugualmente dubbio: tale circostanza procura gioia come ciascuno di noi ha potuto sperimentare durante gli accadimenti della vita. Semmai quando intendiamo analizzare questo risultato ed i motivi che l’hanno generato per spiegare la sua efficacia immediata e perché quest’ultima continua, con il trascorrere del tempo, a mantenere alto il suo valore, diviene difficile prima rintracciare e poi definire quali possano essere le ragioni obiettive ed i processi seguiti dalla mente dello spettatore. Ecco, tra le numerose considerazioni possibili acquistano rilievo quelle relative ai rapporti diretti che esistono tra mezzi usati e le loro capacità di rendere spettacolari gli spazi. Arte e Scienza, spesso contrapposte, vengono ad avvicinarsi l’una all’altra e, nel medesimo tempo, i territori della tecnica e dello spettacolo devono essere considerati sovrapposti e “quasi” coincidenti. La ricerca di un equilibrio, generato dal confronto tra le differenti potenzialità espressive offerte dalle nuove tecnologie e le necessità caratteristiche della “Società dello spettacolo”,1 non può essere evitata specialmente nel periodo attuale, in cui i mutamenti delle situazioni sono sempre più ravvicinati tra loro nel tempo e le continue innovazioni nei differenti campi (culturale, tecnologico, sociale) portano all’invenzione e costruzione di meccanismi originali. D’altra parte tra tutte le attività svolte dall’uomo necessarie per distinguerlo dalle altre creature vi è , da sempre, la capacità di realizzare delle macchine. L’affermazione comunica una certezza e rafforza l’evidenza di un dato noto a chiunque consideri ed analizzi le continue trasformazioni avvenute, durante un intervallo di tempo definito per la sua durata, nelle manifestazioni culturali di una popolazione che abita una città, una nazione oppure una determinata area geografica. Le conseguenze dirette o mediate delle macchine sullo svolgimento della vita, mostrano la volontà dell’uomo di costruirle, la specie di necessità che con il loro impiego si intende soddisfare, i mezzi materiali e le effettive opportunità presenti in un luogo in un dato momento o periodo. Riuscire, dopo la realizzazione, a stabilire se l’utilizzazione delle macchine procuri gioia od all’opposto dolore dipende, dai diversi tipi di condizioni presenti in quel momento, da chi usufruisce delle loro prestazioni oppure subisce gli effetti del loro impiego. Ciò accade, ad esempio, quando osserviamo da distanza ravvicinata, le macchine necessarie per fare “le guerre”.2 Queste, costruite per apportare un gran numero di danni ad altri fino a rovinare qualsiasi cosa od addirittura annullarne l’esistenza, finiscono sempre più di frequente per rivoltarsi contro i proprietari. Non vi è dubbio oltre i congegni studiati nel vasto campo di applicazione ricordato, al di là delle crudeltà rese possibili, le macchine che per la loro specifica destinazione dovrebbero riuscire a mitigare i disagi ed alleviare le fatiche necessarie ai singoli ed alle comunità umane per raggiungere, con maggior facilità, le mete stabilite, recano gioia. Le macchine sono altre da noi. Ciò accade ad inventori e costruttori ma, anche a coloro che hanno facoltà di usarle. I risultati raggiunti, le conseguenze ad esse dovute ampliano, nell’immediato, il numero di occasioni nelle quali possiamo esercitare la nostra azione su persone o cose e, molte spesso, influiscono o guidano, perché apportatrici di innovazioni, lo svolgimento di accadimenti ed avvenimenti. Dobbiamo illustrare altri aspetti dei risultati effettivi raggiunti con l’aiuto delle macchine poiché, ormai, nella società contemporanea si mostra netta la tendenza a considerare meccanismi, congegni e dispositivi, capaci di sostituire “quasi” del tutto molte delle differenti parti dell’organismo umano destinate ad esplicare funzioni vitali. Per come stanno andando i fatti, è ragionevole considerare un gran numero di macchine simili a protesi del nostro corpo.3 Ma l’analogia può essere ritenuta attendibile per tutte quelle da noi conosciute, quando valutiamo le influenze immediate da esse avute “sul complesso dei fenomeni e delle funzioni che consentono all’individuo di formarsi un’esperienza di sé e del mondo”.4 Spesso riusciamo ad accertare l’autenticità del fatto citato, nella simultaneità degli accadimenti, in quanto mantiene immutata l’attualità del proprio valore una delle doti naturali
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dell’uomo, vale a dire la propensione a “guardare a lungo e con ammirazione” le cose date ai sensi in un preciso momento. Lo spettatore, manifesta la volontà di porre sé stesso in relazione con il mondo, mentre intende dare soddisfazione ai suoi desideri, e proprio in conseguenza ai fatti ricordati, viene a trovarsi nella necessità di risolvere un dilemma derivato dalle prestazioni offerte dalle macchine. Infatti egli tende, nel medesimo tempo, ad immedesimarsi fino ad identificare, con differenti gradi di consapevolezza, le sue capacità di risolvere i problemi posti dalle diverse situazioni con quelle specifiche degli “strumenti” disponibili al momento ed all’opposto a separare la sua identità da quella delle macchine per esaltare l’abilità necessaria a raggiungere i risultati desiderati. Il potere esercitato da ciascun congegno sugli esseri umani (vale a dire attrarli e sedurli) aumenta e si arricchisce per effetto di dubbi ed incertezze, e dei comportamenti ai quali essi inducono. Forse è questa conclusione, basata solo su apparenze e qualche probabile indizio, a rendere manifeste alcune delle ragioni che spingono ad ideare e costruire macchine necessarie per trasformare uno stato di fatto, una situazione spaziale od una rappresentazione (teatrale, cinematografica, etc.) in molte altre, successive e ripetibili nel tempo.5 Oggi si ritiene l’abilità necessaria per far avvicinare a sé gli altri, e catturare la loro attenzione con qualsiasi mezzo, seguendo regole ritenute idonee a stimolarne gli interessi, essere la principale caratteristica necessaria ad una organizzazione sociale e culturale per intrattenere rapporti con altre, anche se quest’ultime sono distanti 1-2-3-4 - A.A. 96/97 Corso di Scenografia G. Merico, F. Mosciatti, M. Tumino. Progetto di spazio scenografico dal Barone Rampante di Italo Calvino. Forte di Belvedere di Firenze. Vedute del Modello.
nello spazio. In una prospettiva simile acquistano valore l’efficienza dei mezzi necessari alla comunicazione e soprattutto il grado di spettacolarità ad essi proprio, infatti se l’indice di gradimento diviene alto sembra che i risultati desiderati possano essere raggiunti con facilità in quanto diminuiscono le difficoltà incontrate nel prevedere, con precisione, l’accoglienza del messaggio da parte dei suoi destinatari. Ad iniziare da questa ipotesi, è indispensabile delimitare il campo in cui le spiegazioni dei fenomeni in atto, date dagli studiosi, divengono importanti per mostrare la presenza delle loro “manifestazioni” nella realtà quotidiana. A tal fine basta ricordare un fatto: “lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra individui, mediato dalle immagini” Guy Debord.6 Nel 1967, al tempo in cui il “situazionista” Debord scriveva queste parole ben pochi intuirono che esse avrebbero acquistato, con la successione degli accadimenti tipici di fine secolo, un vero e proprio valore di profezia. Egli sottolineava l’esistenza di una realtà, oggi ritenuta usuale, nascosta alla lettura immediata dall’affermazio4
ne “lo spettacolo non è un insieme di immagini” ma che ad un successi-
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vo esame invita alla comprensione di un pensiero fatidico ed innovativo. D’altra parte la stessa origine da cui il termine deriva lo chiarisce, profeta è chi parla per conto di qualcuno (di solito più od una entità divina) al fine di rivelare anche fatti ignoti, fino a quel momento, alla mente umana. In virtù di queste osservazioni sulla società contemporanea, il messaggio comunicato dal “dottore in nulla” è diventato una predizione capace di tramandare, alcune certezze acquisite nel corso del tempo e di apportare serie di mutazioni delle quali però, possiamo oggi dire, non fu possibile, al momento, stabilire tutte le qualità né valutare per intero il valore. Per quanto riguarda le “verità” conquistate dalle differenti culture nei territori delle immagini, senza dubbi, almeno nelle Arti della Visione, da sempre, le più importanti sembrano nascere dagli studi condotti sulle rappresentazioni. Se i processi secondo cui un “contenuto di percezioni, immaginazioni, concetti si presenta alla coscienza”7 esistono e si sviluppano con l’aiuto delle immagini allora esse hanno anche la funzione di mediare la realtà. La conclusione, solo in apparenza semplice, deve essere collegata, per comprenderne i differenti aspetti, al tipo di medium usato, necessario a dar vita ad una rappresentazione seppur al suo stadio minimo. Ciò è 5 accaduto, ad esempio, negli anni ’60 agli artisti del “concettuale” che han-
no avviato indagini per valutare la necessità di esplorare la stessa idea di arte (tra tutti l’americano Joseph Kosuth).8 Oggi vengono elaborati e resi sempre più puntuali sistemi destinati a rendere evidenti i significati. Quest’ultimi, poi, divengono espliciti in virtù delle conclusioni raggiunte per mezzo delle analisi condotte sui doppi legami che mandano lo spettatore dell’opera dal segno all’idea da esso mostrata o dimostrata e viceversa. Il processo seguito porta a registrare più di una coincidenza tra opera d’arte e concetto fino a far raggiungere, la certezza della loro identità. L’acquisizione di questo dato, nei campi dell’Estetica, ha permesso, in base alle “regole” che guidano le speculazioni del pensiero avvenute al loro interno, di estendere i sensi acquisiti dalla sovrapposizione ricordata ad un’affermazione che ha ridotto le conclusioni di un lungo dibattito tra gli operatori al semplice enunciato “opera uguale arte”. Nella società contemporanea, secondo le convinzioni espresse da alcuni studiosi tra i quali si distingue H.M. Mc Luhan,9 è accaduto un fatto molto importante. Le comunicazioni, quantunque differenti tra loro per tipo e finalità, sarebbero vincolate in modo cosi forte al mezzo attraverso il quale sono diffuse che esso riuscirebbe a condizionare le conoscenze del mondo e le possibili esperienze pratiche sviluppate dall’uomo. Scomparirebbe, allora, lo stesso messaggio in quanto “il medium è il messaggio”. Oggi stiamo vivendo un periodo in cui tutto tende a ridursi (non solo dimensionalmente) o addirittura a svanire, secondo J. Boudrillard10 l’arte sarebbe un ricordo del passato ed in virtù delle esperienze dirette avute da cose ed accadimenti, anche la realtà oramai “non è più”.11 Tutto ciò che avviene o potrebbe avvenire deriva da continue e ricercate sostituzioni di una “cosa”, con “qualcosa d’altro” prima inesistente. Ci chiediamo se questo stato rappresenti le estreme conseguenze di una tendenza culturale e sociale, guidata da uno spirito innovativo che dopo aver riconosciuta possibile l’esistenza del “villaggio 6 planetario” ne promuove lo sviluppo, oppure, se l’attuale situazione serva
solo a celare il desiderio di ciascuno a seguire l’attitudine originaria, di indirizzare il proprio ingegno verso la conoscenza di quello che al momento appare ignoto. Ma, potrebbe esservi la probabilità di interpretare il fatto in modo diverso e cioè: la tendenza in atto mostra la volontà dell’uomo di acquisire un tale potere su tutte le cose così da essere in grado di fissare il momento, quasi l’attimo, della loro fine. L’affermazione di Mc Luhan, porta delle conseguenze importanti nella vita quotidiana poiché il mezzo usato per comunicare diviene, in modo inevitabile, simile ad una
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estensione dei sensi e delle facoltà a noi proprie di compiere azioni, atti, gesti. Naturalmente le capacità della mente e dell’animo vengono esercitate attraverso una “riproduzione” dei processi che, da sempre, contraddistinguono la specie umana. Oggi, come oggi, non solo viviamo in simili circostanze ma, vista la rapidità con la quale, in questi campi, una innovazione sostituisce la precedente, i media sono inclini a mescolarsi per rendere simili le une alle altre le proprie caratteristiche e se portiamo il processo alle sue estreme conseguenze, ad unificarsi. La parziale sostituzione dell’uno con l’altro, le somiglianze o le corrispondenze tra alcune loro qualità producono sullo spettatore effetti nuovi e molto spesso del tutto imprevisti. Dobbiamo, dunque, tenere in considerazione e porre in risalto tutti questi risultati che, se colti per l’effettivo valore dal quale sono caratterizzati, conducono ad apprezzare i mutamenti apportati nei modi personali di valutare le qualità ritenute indispensabili per sentirsi a proprio agio all’interno di uno spazio fisico. Ecco, nel momento in cui esaminiamo i pensieri e le opinioni espresse da G. Debord ci troviamo di fronte ad un rinnovato interesse per la “forma sensibile”. Egli, però, sembra indicare differenti aperture e strade opposte in confronto a quelle percorse in passato, di fatti mentre assume un atteggiamento simile ad un irremovibile iconoclasta dice: “tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione” in quanto “tutta la vita delle so-
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cietà nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli”.12 Le ragioni poste all’origine di una simile situazione restano ancora oggi valide perché “lo spettacolo è la principale produzione della società attuale”. In fondo esso altro non è che “... indispensabile ornamentazione degli oggetti attualmente prodotti”; “... esposizione generale della razionalità del
5-6-7-8 - A.A. 96/97 Corso di Scenografia G. Benedetti, D. Nocentini, R. Mariani, F. Nuti. Progetto di spazio scenografico da La Commedia di Dante Alighieri (Canti VII-VIII-IX). Area dell’Argin Grosso Firenze. Vedute del Modello.
sistema” ed infine ma non ultimo per importanza”; “... settore economico avanzato che foggia direttamente una moltitudine crescente di oggetti-immagine”.13 Le citazioni riportate, sarebbero, da sole, adeguate a sottolineare se ve ne fosse la necessità, che esibizioni di oggetti e comunicazioni di pensieri, rappresentazioni di immagini od idee, insomma tutte le cose e gli accadimenti ritenuti comuni durante la nostra esistenza ed essa stessa, ormai danno, di continuo, luogo ad occasioni utili per trasformare la vita in un costante spettacolo. Pare ovvio ricordarlo: le conclusioni ora raggiunte non esprimono convincimenti personali e neppure giudizi, derivati da astratti principi teorici, ma sono limitate a riconoscere lo stato attuale dei fatti. Dopo aver esposte alcune considerazioni sul valore riconosciuto alle opportunità che, in ogni momento, si presentano per utilizzare le macchine e sui comportamenti assunti dall’uomo contemporaneo nei confronti dei diversi tipi di media, ci chiediamo quanti e quali possano essere, nella realtà, i rapporti da intrattenere con lo spazio destinato alle rappresentazioni e con le differenti conformazioni assunte da quest’ultimo. Dobbiamo ammetterlo il nostro spirito è ora diviso tra la necessità di promuovere innovazioni e l’altra, ugualmente incombente, di ancorarsi al presente per non rinunciare ad alcune certezze tramandate dalle regole formulate in tempi passati. Quali tra i nostri convincimenti siamo disposti a ritrattare per verificare la rispondenza alla realtà e procedere, ancora una volta, secondo le regole poste alla guida del “Gioco sapiente”14 e quali principi, invece, abbiano ancora le capacità di rassicurarci, non è dato di poter verificare né tantomeno di stabilire. Quelli ora riferiti sono i principali dubbi posti agli operatori contemporanei (architetti, scenografi, artisti) dalla situazione del momento, ad essi dobbiamo unire gli interrogativi derivati da tutte le possibili definizioni formulate per chiarire l’espressione “spazio delle rappresentazioni”. Nel momento in cui volgiamo i nostri interessi verso lo studio dei tempi trascorsi, incontriamo molte testimonianze scritte e
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documenti visivi degli avvenimenti, da questi possiamo ricavare prove delle successive “messe in scena”15 delle città per volontà ed opera delle comunità che le hanno abitate. Oggi nei territori e negli aggregati urbani non esistono più collocazioni specifiche in cui le rappresentazioni possono avvenire (non alludiamo ai luoghi per lo spettacolo, quali teatri, stadi o quant’altro) perché le differenti parti che compongono le città hanno perso sempre più la rispondenza alle funzioni sociali, di scambio e relazione tra gli abitanti. Così, strade e piazze, isolati ed edifici (nomi derivati da antiche identificazioni) hanno mutato, nel tempo, il loro aspetto fino a diventare irriconoscibili. Le difficoltà che incontriamo non nascono dalle forme con le quali queste vengono sottoposte alla vista poiché, di solito, continuano 9 a rispondere alle “vecchie regole” messe alla base della definizione
dei rapporti dimensionali tra gli elementi costitutivi. Piuttosto sono generate, in modi differenti, dalle percezioni avute durante gli attuali tempi di percorrenza delle distanze, molto ridotti se confrontati con quelli necessari nel passato. Sarebbero i nuovi vincoli imposti, alla nostra conoscenza delle cose, dal dinamismo percettivo ad indurci a mutare le situazioni attuali, insomma, a costringerci ad innovare quelle che riconosciamo essere le caratteristiche principali di molti fatti spaziali. Troppo spesso dimentichiamo l’effettiva importanza della percezione dello spazio fisico perché, in fondo, i media hanno annullati, o detto con precisione, trasformati i valori assunti dalle distanze nello spazio e nel tempo reale in astrazioni, necessarie al fine di mostrare l’ineluttabilità della loro esistenza. 1
G. Debord, La società dello spettacolo, Milano 1997. Il testo scritto dall’autore nel 1967 ancora
oggi “Anticipa la produzione immateriale in cui l’automobile è sostituita dalla merce cultura. Ripete tutte le opere successive sulla simulazione e duplicazione della realtà. Riassume tutti i simulacri. Denuncia il crimine perfetto che ha soppresso la realtà”. Come è precisato nella introduzione (pp. 26-27) da C. Freccero e D. Strumia. 2
Nel corso dei tempi il numero di personaggi (matematici, fisici, architetti, ingegneri, artisti etc.) che
hanno indirizzato in maniera consapevole od involontaria il proprio ingegno verso questo tipo di invenzioni è andato sempre più aumentando. Tra gli altri ricordiamo Euclide, Leonardo, Michelangelo, etc. 3
T. Macrì, Il corpo postorganico. Sconfinamenti della perfomance, Genova 1996, p. 10. Per i territori
dell’arte, ad esempio “questo nuovo sentire, artificiale ed estremizzato, dilata l’intero sistema di produzione estetica, contagiando l’esistenza in una intensificazione totalizzante. Le azioni radicali prodotte da questi artisti forniscono informazioni di trasformazione sociale, trasferiscono sul piano esistenziale lo scavalcamento economico e politico nel passaggio dal moderno al postmoderno”. 4
G. Devoto, G.C. Oli, Vocabolario illustrato della lingua italiana, voce, Psiche. Il ricorso in questo caso,
come in altri successivi, alla definizione di una parola e dei concetti con essa espressi dati ed illustrati da un dizionario comune e diffuso è stato stimato indispensabile per mostrare l’essenzialità di alcuni concetti. 5
9-10-11 - A.A. 96/97 Corso di Scenografia S. Corraduzza, D. Padovani. Progetto di spazio scenografico da Guernica di Pablo Picasso. Area della Fabbrica Campolmi Firenze. Vedute del Modello.
Oltre le “macchine teatrali” dobbiamo ricordare l’importanza, per la storia delle rappresentazioni e
dello spettacolo non teatrale, degli apparati e delle macchine della “gioia” che trovano la loro naturale collocazione sulla scena urbana. Tra gli altri vedi: C. Di Lorenzo, Il teatro del fuoco. Storie, vicende e architetture della pirotecnica, Padova 1990. M. Gori Sassoli, Della Chinea e di altre “Macchine della Gioia”. Apparati architettonici per fuochi d’artificio a Roma nel Settecento, Milano 1994.
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G. Debord, op. cit., 4. p. 54.
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G Devoto, G.C. Oli, op. cit., voce Rappresentazione.
8
J. Kosuth, Zeno all’orlo del mondo conosciuto, Bien-
nale di Venezia, XLV Esposizione Internazionale d’Arte, Padiglione d’Ungheria, 1993. 9
M. e E. Mc Luhan, La legge dei media, Roma 1994.
10
J. Boudrillard, La sparizione dell’arte, Milano 1988, p. 49.
L’autore conclude il saggio con queste parole “l’arte in quanto tale sarà forse stata solo una parentesi nella storia dell’umanità, e conviene prevedere un’occupazione prolungata per una nuova era la cui durata è imprevedibile. Who knows?”. 11
J. Boudrillard ha espresso, con tenacia, questa con-
cezione oltre che in scritti e conferenze anche in interviste pubblicate su riviste e giornali. 12
G. Debord, op. cit., 1 p. 53.
13
G. Debord, op. cit., 15 p. 57.
14
C. Dardi, Il gioco sapiente, tendenze della nuova Ar-
chitettura, Padova ,1971. 15
Sono le feste, le solennità religiose e civili che portano a
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questo uso speciale degli spazi urbani. Le macchine e gli apparati hanno sempre dato un notevole contributo in virtù della loro provvisorietà. Tra gli altri vedi G.R. Kernodle, From Art to Theatre, Chicago, 1944. A. Lancelotti, Feste tradizionali, Milano 1951. L. Zorzi, Il teatro e la città, Torino, 1977.
Di scena in scena. La spettacolarità dello spazio interno. I territori dell’Architettura e quelli della Scenografia hanno, da sempre, elementi comuni. Così la spettacolarità dello spazio interno, caratteristica propria ad ambedue acquista notevole importanza quando si intendono conoscere i valori obiettivi ed il rilievo che tale qualità ha per lo studio dello spazio fisico e per la formulazione di ipotesi progettuali. Oggi, il confronto non tende più a contrapporre in maniera artificiosa mondi diversi per stabilire linee di confine invalicabili, bensì a trasformare i termini di paragone (Architettura e Scenografia) in Architettura scenografica e Scenografia architettonica. Ciò non significa negare l’esistenza di confini tra i due ambiti ma che, nel corso del tempo, si è assistito ora al prevalere dell’uno sull’altro e viceversa fino alla situazione attuale. Un dato, comunque, è acquisito: nei territori dell’Architettura sono stati innestati alcuni dei principi fondanti la Scenografia quando la rappresentazione degli ideali, ritenuti importanti per la vita dell’uomo, doveva essere più incisiva. D’altra parte la Scenografia ha fatto riferimento a parametri di valutazione dei fatti spaziali, tipici dell’Architettura, quando era necessario portare sulla scena eventi per i quali diventava indispensabile il contributo di costruzioni reali, non solo al fine di facilitare il loro sviluppo, ma anche, per rendere le rappresentazioni più credibili se non addirittura “verosimiglianti”. Da tempo, ogni organizzazione sociale avverte la rilevanza acquisita dall’Architettura scenografica e le funzioni da essa assunte per la cultura di ciascun periodo storico, tant’è che sappiamo, già nel parlare comune, assegnare questo attributo alle costruzioni. Nello stesso modo conosciamo la rilevanza della Scenografia architettonica e le sue funzioni specifiche all’interno di molte civiltà del passato ma è sufficiente riferirci ai contributi invero importanti, in questo secolo, almeno a partire dalla Modernità, dati dalla Scenografia all’Architettura. In effetti se lo spazio per lo spettacolo, nel tempo, si è integrato con la spazialità dello spettacolo è perché, molto spesso, l’Architettura ha saputo rispettare le regole necessarie a risolvere problemi funzionali indispensabili per lo svolgimento delle rappresentazioni ed imporre le proprie leggi di organizzazione e controllo dei rapporti tra l’uomo (spettatore-attore) ed i fatti dimensionali, alla Scenografia. Che quest’ultima abbia forti connotazioni per poterla considerare “molto vicina “all’Architettura, ormai, non sorprende più nessuno. Sintesi estratta da: Vittorio Pannocchia, Di scena in scena. Una problematica spaziale, Print & Service, Firenze 1997.
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1997 Tesi di laurea: Parigi, La Terminazione de “L’Axe Historique”, A. Belvedere Relatori V. Pannocchia, G. Maggiora Correlatore M. Zoratto 12 - La Torre delle Immagini, sezione trasversale. 13 - Il Teatro della Musica, sezione trasversale. 14 - La piastra, sezione. 15 - La piastra ed il viadotto autostradale, sezione. 16 - La Stazione della metropolitana ed il Teatro della Musica, sezione.
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UN PROGETTO PER I MUSEI FIORENTINI Paolo Setti La concentrazione delle funzioni museali ed espositive in uno spazio del territorio urbano fiorentino circoscritto al centro storico e la consequenziale necessità di ricercare localizzazioni alternative per il completamento e la rifunzionalizzazione del sistema museale fiorentino, impongono alla scala urbana scelte che muovono dalla necessità di riequilibrare, attraverso il decentramento, la saturazione delle funzioni museali, prevalentemente collocate sulla riva destra dell’Arno. Le mura, per loro natura segno alla scala territoriale e limite - di demarcazione - tra realtà morfo-tipologiche diverse, assumono il ruolo di asse strutturale al quale si agganciano le nuove localizzazioni funzionali. La quantità di aree che si dispongono naturalmente lungo il loro percorso enfatizza, rivalorizzandolo, il ruolo di infrastruttura urbana che, oramai privato della funzione originaria, si carica di nuovi valori: elemento di dialogo tra antico e moderno, supporto per il collegamento tra le nuove funzioni inserite, elemento di riunificazione delle singole etereogeneità presenti nel quartiere, limite naturale al dissolvimento sul territorio del sistema. L’ipotesi del decentramento delle funzioni nell’Otrarno come alternativa al centro storico, è avvalorata dalla presenza di eventi che possono assumere il ruolo di tiranti, elementi capaci di convogliare e indirizzare interessi culturali, interessi economici, flussi turistici, potenziando le risorse e rafforzando le relazioni tra quegli elementi già presenti nel luogo e che costituiscono la realtà sociale di tutto il quartiere. Museo dei bambini. Il progetto di Francesco Pierazzi ricerca le proprie radici formali nel luogo dove si instaurano nuovi rapporti relazionali tra architettura e vuoto urbano, tra funzione specifica e significato del progetto. L’idea di un organismo unitario, strutturato secondo le caratteristiche di un tessuto urbano, fatto di strade e piazze, slarghi che propongono visuali inattese, corridoi e ambienti diversi, scale e percorsi a gomito, diviene idea matrice, generatrice di una soluzione progettuale che, assieme alla registrazione dell’esperienza del luogo e di quelle più ampia del ‘fare’ contemporaneo, ispirato alle visioni dell’arte, concettuale e informale, ma anche ai sentimenti che scaturiscono dalla partecipazione - diretta, mediata, filtrata, rielaborata - e dall’osservazione dello spazio architettonico costruito, capace di coagulare segni, sensazioni, movimenti, gesti, esperienze, volontà a priori, sequenze di spazi. Attorno a uno spazio centrale vuoto, si dispongono dialetticamente le funzioni: il portico che affaccia sul chiostro, relazionando lo spazio aperto a quello coperto, diviene piazza urbana rivolta verso le colline di Bellosguardo; attorno si strutturano percorsi con funzioni distinte: di collegamento tra realtà diverse, di passeggio, di svago, di gioco e di relazione sociale. La grande sala centrale, rivolta verso la città, ospita mostre temporanee: l’idea dell’esposizione, che si realizza nell’allestimento di ‘scenografie’, di ambientazioni e di paesaggi artificiali, come un grande set cinematografico allestito in studios dalle proporzioni gigantesche, ribalta il tradizionale concetto di allestimento. Così come la piazza, prima dell’intervento, si costituisce come un vuoto urbano delimitato da un pieno, anche l’architettura, in maniera concentrica si ripropone seguendo lo stesso meccanismo: un quadrato di 80 metri di lato emerge, per metà, a circondare lo spazio baricentrico. La radicalità dell’oggetto si complica, aumentando le qualità degli spazi attraverso l’inserimento di due tagli: la strada urbana collega l’arteria di grande scorrimento con la città storica, invitando alla scoperta di realtà nuove, poiché scarsamente conosciute; su di essa si affacciano le funzioni legate alla vita del quartiere ma comunque necessarie alla costituzione e allo svolgimento dell’intero programma funzionale. Centro di produzione per l’arte contemporanea. Il centro progettato da Barbara Lami dovrebbe rappresentare un anello di contatto tra la realtà urbana, a scala ridotta del quartiere, e le più ampie prospettive dell’arte contemporanea nella globalità del sistema mondiale tramite: archivio aggiornato alle realtà di iniziative e mostre fruibili in città come in qualsiasi altra parte del globo, con la proiezione di documenti, video, che riguardino il lavoro di artisti contemporanei e le loro opere. Con il contatto e la promozione dell’operato del museo (oramai si pensa realizzato) di arte contemporanea di Firenze e il museo Pecci a Prato. La
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creazione di spazi dove gli artisti sono invitati a sperimentare e produrre opere ex-tempore, permetterebbe di creare un dialogo costante tra l’artista, l’opera, lo spazio, il tempo e i suoi fruitori. Gli spazi specialistici si collegano l’un l’altro e sono separati, all’evenienza, da diaframmi mobili. Lo spazio delle esposizioni e degli incontri con l’arte costituisce il fulcro dell’edificio e nell’intenzione vorrebbe essere un non-spazio, poco connotato, articolato su due livelli, come una piazza coperta, come un mercato, come uno spazio cittadino. La particolare localizzazione del lotto scelto, a ridosso dell’argine dell’Arno tra la Porta Santa Rosa, le mura cittadine e Via della Fonderia, propone lo sviluppo del progetto secondo un’asse parallelo al fiume e l’altro, ortogonale a questo, parallelo alle mura. La struttura dovrebbe così proporsi come una seconda porta cittadina da oltrepassare uscendo dalla città, da utilizzare come ponte pedonale per superare il flusso di automobili che percorre Via della Fonderia; da vivere come elemento qualificante dell’attuale parco ubicato lungo il fiume e come elemento aggregante, a livello culturale e sociale, per il quartiere. Quindi dalla relazione con il fiume e le mura dovrebbero scaturire gli elementi caratteristici del progetto e le possibilità di fruizione di questo, sia a livello meccanico che pedonale. “Ipotesi di sviluppo del sistema museale fiorentino”. Tre tesi di laurea coordinate. Stefano Amadio, Barbara Lami, Francesco Pierazzi Relatore: A. Breschi. Correlatore: P. Setti
Museo dei giardini storici. Nel progetto di Stefano Amadio la natura si lega al giardino attraverso l’idea che l’uomo si è fatto di essa nel tempo: i giardini sono costruzioni concettuali basate sul principio della riproduzione di un ambiente mitologico, sacro e cosmogonico. Sono inoltre ‘metafore della città’, poiché ne riproducono l’impianto attraverso l’uso della geometria, delle superfici, della presenza di eventi monumentali. Con l’architettura l’uomo riesce a imporre alla natura forme che non le sono proprie, conferendo ai giardini le peculiarità di un ‘spazio per abitare’. E’ significativo, considerando gli argomenti trattati nel museo, porre l’accento sulle possibili interpretazioni dell’idea di giardino contemporaneo, alla luce di una non chiara definizione di natura che ne ha da sempre indicato le linee progettuali. Confrontare Boboli con una nuova realtà attraverso il filtro delle mura significa mettere in gioco tre stimoli fondamentali: ritenere questo nuovo spazio come un habitat naturale o come il ‘contenitore di oggetti’ legati alla natura contemporanea attraverso l’uso di determinati materiali e forme; valutare l’idea di ‘cammino’ attraverso questo nuovo spazio; creare un accostamento di concezioni opposte di natura: quella imbrigliata di Boboli e quella artificiale di un giardino di nuova progettazione. In questo modo ‘l’artificio si fa natura’.
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Roberto Berardi Alberto Breschi Lorenzino Cremonini Antonio D’Auria Paolo Iannone Eugenio Martera Marino Moretti Vittorio Pannocchia Paolo Setti
S. Amadio A. Belvedere G. Benedetti D. Biondo L. Brilli T. Brilli R. Buti S. Corraduzza C. De Filippi M. C. Della Berta R. Frosali F. Innocenti B. Lami F. M. Lorusso G. Maggiora G. Maini R. Mariani G. Merico D. Minguzzi F. Mosciatti D. Nocentini G. L. Novello F. Nuti M. Pacini D. Padovani P. Perra R. Picchi F. Pierazzi P. Pisaniello E. Pucci P. Quatrini F. Reali F. Rossi M. Tumino M. Zetti M. Zoratto
INDICE IMMAGINI E FONTI DELLE ILLUSTRAZIONI CAPITOLO “DIBATTITO VIRTUALE” Innovazione e Architettura Pag. 6 - Installation By Eduard François And Duncan Lewis For The Garden Festival In Saint Cloud Park Near Paris, May 1996 “Landscape Architecture Gets A Breath Of Fresh Air”, Topos 16, 1996. Pag. 7 - Spider’s Web For Inspiration Only, Academy Editions, London,1996. - Lz 129 Hindenburg, 1936: Gondola Motore “La Forma Della Velocità”, Rassegna 67,1996. - Biblioteca di Francia, R. Koolhaas, Oma, 1989, Parigi. Rem Koolhaas, Bruce Mau, S, M, L, XL, 010 Publishers, Rotterdam, 1995 - Casa della Cultura Giapponese, T. Ito, 1990, Parigi. Architectural Monographs N.° 41 Toyo Ito, Academy Editions, 1995 - Teatro dell’opera Di Tokio, J. Nouvel, 1986, Tokio. Patrice Goulet, Jean Nouvel, Edition du Regard, Parigi, 1994 - Torre del Vento, T. Ito, 1984, Yokohama. Architectural Monographs N.° 41 Toyo Ito, Academy Editions, 1995 Pag. 8 - Duplex-Realisation (Photographisch), Edition Cantz, Kassel 1992 Documenta IX, Kassel, Edition Cantz, 1992. - Nasa Ax5 Space Suit, 1984 For Inspiration Only, op. cit. - Lockheed F117 Wooden Mock-Up, 1985 For Inspiration Only, op. cit. Pag. 9 - Two Man Luge Team, 1984 For Inspiration Only, op. cit. - Nasa Space Shuttle Parachute, 1979 For Inspiration Only, op. cit. - The Baron Vert, P. Starck, 1992, Osaka. Rodolfo Machado, Rodolphe el-Khoury, Monolithic Architecture, Prestel, MunichNew York, 1995 - Signal Box Auf Dem Wolf, J. Herzog, P. De Meuron, 1994, Basilea. Rodolfo Machado, op. cit. - The Max Reinhardt Haus, P. Eisenman, 1992, Berlino. Rodolfo Machado, op. cit. Innovazione e Città Pag.10 - Soft City 1993 (Transgenetic) Phase 3 “Grandes Proyestos Transformadores: Proyecto Y Planificaciòn”, Quaderns D’arquitectura I Urbanisme 213, Barcelona, 1996. Pag. 11 - Richard Serra: The Encircle Base Plate Hexagram Right Angles Inverted, 1970 “Quel Che Resta Nell’architettura”, Rassegna 36, 1988. - Grand Arches, O. Von Spreckelsen, 1989, Parigi. - Biblioteca Nazionale Di Francia, D. Perrault, 1989, Parigi. foto Eugenio Martera - Hotel e Centro Congressi Palm Bay, R.
Koolhaas, Oma, 1989, Agadir. Rem Koolhaas, op. cit. - Louis I. Khan: Khan’s Movements Notation, Philadelphia, 1962 Frank O. Gehry Special, Edizioni Kappa, Roma,1984. - Mediapark Complex, J. Nouvel, 1992, Colonia. Patrice Goulet, Jean Nouvel, Editiond du Regard, Parigi, 1994 Pag. 13 - F. Kruckenberg: Zeppelin Su Rotaia, 1930 “La Forma Della Velocità”, Rassegna 67, 1996. - Hong Kong Principale Porta D’accesso Della Cina Grazie Al Nuovo Aereoporto Di Chek Lap Kok “La Costruzione Di Una Nuova Porta Per La Cina”, Le Scienze 354, 1998. - Night Club City: Creative Engineering Workshop From the edge: Student Work, New York, 1991. Innovazione e Tecnologia Pag. 15 - Douglas Dc-3 ‘dakota’, 1935 For Inspiration Only, op. cit. - Boat Semi-Monocoque, 1979 For Inspiration Only, op. cit. Pag. 16 - Donna e Bambino Electronic Paintings, Edizioni Socrates, Roma,1993. - Elizabeth Diller + Ricardo Scofidio: Suitcase Studies Semiotext(E) Architecture, Sylvere Lotringer Editor, New York, 1992. - Uss Sea Shadow Stealth Ship, 1986 For Inspiration Only, op. cit. Pag. 17 - Istituto del Mondo Arabo, J. Nouvel, 1981/1987, Parigi. foto E. M. - Pozzetto Del Condotto Di Scarico Del Gas Dei Dirigibili Lz 130 Graf Zeppelin Ii E Lz 129 Hindenburg “I Leviatani Dei Cieli”, Rassegna 67, 1996. - Centro Multimedia Sendai, T. Ito, 1996, Sendai. Architectural Monographs N.° 41 , op. cit. Innovazione e Società Pag. 19 - Il Nuovo Hangar Della Luftschiffbau Zeppelin Gmb H A Friedrichshafen, 1930 “Un Tetto Per La Nave Dell’aria”, Rassegna 67, 1996. - Nam June Paik, Videoskulptur Fur Die TvShow, 1984 “Kunst Zwischen E Und U”, Documenta 8, 1987. - Casa per Anziani, Mvrdv, 1997, Amsterdam. foto E. M. Pag. 20 - James Derderian: War/Games As Video Semiotext(E) Architecture, Sylvere Lotringer Editor, New York, 1992. - La Camera Del Plasma “Iter: Il Tokamak Sperimentale Internazionale”, Le Scienze 286, 1992. - Hong Kong “Trans-Orient Express, Dence De Lux,Dence De Lux, Ediciones Rdl/Rock De Lux, 1996. Pag. 21
- The No-Stop City; Andrea Branzi, 1970 Andrea Branzi Luoghi: The Complete Works, Ed. Idea Books, Milano, 1992. Innovazione e Cultura Pag. 22 - Scenes From The Third Man, Directed By Carol Reed, 1949 “Sota Ciutat”, Quaderns D’arquitectura I Urbanisme 191, Barcelona 1958. - Piazza Schouwburgtlein, West 8, 1996, Rotterdam. foto E. M. Pag. 23 - Scenes From The Third Man, Directed By Carol Reed, 1949 “Beneath The City Sota Ciutat”, Quaderns D’arquitectura I Urbanisme 191, Barcelona, 1958. - Layout Of An Underground Complex I Tokyo, Functional Stratification Of Urban Networks “Subsòl: Colonitzaciò I Estrats”, Quaderns D’arquitectura I Urbanisme 191, Barcelona, 1958. - Hong Kong “Trans-Orient Express, Dance De Lux, Ediciones Rdl/Rock De Lux, 1996. Pag. 24 - Polaroids De Leila Méndez “Imàgenes”, Dence De Lux, Ediciones Rdl/ Rock De Lux, 1996. - Jenny Holzer Inespressionismo: L’arte Oltre Il Contemporaneo, Edizioni Costa & Nolan, Genova, 1988. - Egg of Wings, T. Ito, 1991, Yokohama. Architectural Monographs N.° 41, op. cit. - Monument Valley (U.S.A.), Deserto del Sahara (Algeria, Tunisia) foto E. M.