Università degli Studi di Firenze - Dipartimento di Progettazione dell'Architettura
ARCH Lire 12.000 rivista semestrale anno III n. 2
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ARCHITETTURA E CITTÀ
Dipartimento di Progettazione dell’Architettura
Direttore Carlo Chiappi
Sezione Architettura e Città Professori Ordinari Gian Carlo Leoncilli Massi Loris Macci Piero Paoli Professori Associati Giancarlo Bertolozzi Andrea Del Bono Alessandro Gioli Marco Jodice Maria Gabriella Pinagli Mario Preti Ulisse Tramonti Ricercatori Alberto Baratelli Antonella Cortesi Renzo Marzocchi Enrico Novelli Valeria Orgera
Sezione Architettura e Contesto Professori Ordinari Roberto Maestro Adolfo Natalini Professori Associati Giancarlo Cataldi Stefano Chieffi Benedetto Di Cristina Gian Luigi Maffei Guido Spezza Virginia Stefanelli Paolo Vaccaro Giorgio Villa Ricercatori Carlo Canepari Gianni Cavallina Pierfilippo Checchi Piero Degl’Innocenti Maurizio De Marco Serena De Siervo Grazia Gobbi Sica Carlo Mocenni
Sezione Architettura e Disegno Professori Ordinari Emma Mandelli Professori Associati Maria Teresa Bartoli Marco Bini Roberto Corazzi Domenico Taddei Ricercatori Alessandro Bellini Stefano Bertocci Gilberto Campani Marco Cardini Carmela Crescenzi Marco Jaff Enrico Puliti Michela Rossi Marco Vannucchi
Sezione Architettura e Innovazione Professori Ordinari Antonio D’Auria Giuliano Maggiora Professori Associati Roberto Berardi Alberto Breschi Remo Buti Giulio Mezzetti Ricercatori Lorenzino Cremonini Paolo Iannone Flaviano Maria Lorusso Pierluigi Marcaccini Marino Moretti Vittorio Pannocchia Marco Tamino
Altri docenti Professori Ordinari Aurelio Cortesi Maria Grazia Eccheli Rosario Vernuccio Paolo Zermani Professori Associati Carlo Chiappi Paolo Galli Bruno Gemignani Mauro Mugnai Fabrizio Rossi Prodi Assistenti Ordinari Vinicio Somigli Ricercatori Laura Andreini
Personale Tecnico Coordinatore Tecnico Giovanni Pratesi Funzionari Tecnici Giovanna Balzanetti Massimo Battista Enzo Crestini Mauro Giannini Paolo Puccetti Assistente Tecnico Edmondo Lisi Operatori Tecnici Franco Bovo Laura Maria Velatta
Personale Amministrativo Funzionario Amministrativo Manola Lucchesi Assistente Contabile Carletta Scano Assistente Amministrativo Debora Cambi Gioi Gonnella Operatore Amministrativo Grazia Poli
ARCHITETTURA
FIRENZE
2. 99 d o s s i e r Periodico semestrale del Dipartimento di Progettazione dell’Architettura via Cavour, 82 Firenze tel.055/2757721 fax. 055/2757720 http://www.unifi.it/unifi/progarch/ Anno III n.2 Autorizzazione del Tribunale di Firenze n. 4725 del 25.09.1997 Prezzo di un numero Lire 12.000 Abb. annuo Lire 20.000
DIRETTORE
Sommario
Antonella CORTESI, Andrea DEL BONO - Presentazione
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Loris MACCI Louis I. Kahn - Frammenti
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Carlo Chiappi
DIRETTORE RESPONSABILE Marino Moretti
COMITATO SCIENTIFICO Maria Teresa Bartoli, Roberto Berardi, Marco Casamonti, Carlo Chiappi, Marino Moretti, Paolo Vaccaro
Alberto BARATELLI Riduzione necessaria
12
Alessandro GIOLI Progetti onesti e progetti disonesti
16
Fabio FABBRIZZI Sul rapporto tra natura e architettura
20
Andrea RICCI, Daniele SPOLETINI Il Danteum fiorentino
24
COMITATO EDITORIALE Eugenio Martera, Enrico Puliti
REDAZIONE Antonella Cortesi, Andrea Del Bono
INFO-GRAFICA Marco Paoli
DTP Massimo Battista - Laura Maria Velatta
COORDINATORE TECNICO Gianni Pratesi
COLLABORATORI
Valeria ORGERA Recupero della Torre dei Cerchi e del Teatro Nazionale a Firenze 28
Massimo Bianchini, Roberto Corona
COPERTINA Eugenio Martera, Laura Maria Velatta
PROGETTO GRAFICO
Maria Gabriella PINAGLI, Ulisse TRAMONTI Antropologia dello spazio. Una disciplina per la progettazione 32
Antonio Capestro - Marco Paoli E AMMINISTRAZIONE
Antonella CORTESI, Renzo MARZOCCHI Assonanze di fine millennio
40
Questo numero è stato curato da Antonella Cortesi
Giancarlo BERTOLOZZI La verifica sperimentale nel disegno urbano
50
PROPRIETÀ UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI FIRENZE
Andrea DEL BONO Disegno urbano: note sulla ricerca di un metodo
56
Piero PAOLI, Cinzia PALUMBO, Antonio CAPESTRO La didattica del progetto urbano
62
Claudio ZANIRATO Rinaturalizzazioni
76
SEGRETERIA DI REDAZIONE tel. 055/2757792 E_mail: progarch@prog.arch.unifi.it.
REALIZZAZIONE Centro Editoriale del Dipartimento di Progettazione dell’Architettura Fotolito Saffe, Firenze Finito di stampare nel Settembre 1999 da Arti Grafiche Giorgi & Gambi, viale Corsica, 41r Firenze
nel prossimo numero di
ARCHITETTURA
FIRENZE
ARCHITETTURA : DOSSIER ARCHITETTURA E CONTESTO FIRENZE
1. 2000 d o s s i e r
Contributi di: Carlo CANEPARI, Giancarlo CATALDI, Gianni CAVALLINA, Pierfilippo CHECCHI, Stefano CHIEFFI, Maurizio DE MARCO, Serena DE SIERVO, Piero DEGL’INNOCENTI, Benedetto DI CRISTINA, Grazia GOBBI SICA, Roberto MAESTRO, Gianluigi MAFFEI, Carlo MOCENNI, Adolfo NATALINI, Virginia STEFANELLI, Paolo VACCARO.
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Nata, almeno in parte, per “dar voce” alle attività del Dipartimento, in tre anni di pubblicazioni la linea “dossier” di FIRENZE ARCHITETTURA si è venuta configurando come uno strumento per scambiare e confrontare idee, metodologie, linee di ricerca. Grazie all’impegno di un sempre più numeroso gruppo di studiosi, ricercatori, docenti, la rivista si è via via arricchita dei contributi teorici e scientifici delle diverse Sezioni. Sono ambiti distinti, talvolta distanti tra loro, che rappresentano un punto di riferimento importante, un campo di osservazione privilegiato della situazione attuale. Si tratta ora di attivare un nuovo processo, cogliendo il potenziale dei risultati acquisiti; di approfondire i valori maturati, esaminando fino a qual punto potranno essere partecipi di quella trasformazione “irreversibile” che si profila in Italia e nel mondo e non riguarda più solo piccoli gruppi di avanguardia; si tratta, altresì, di valutare se il quadro certamente angusto della cultura ufficiale ed accademica sia in grado di far proprie le istanze di rinnovamento, accettando il dibattito sul progetto d’architettura in termini dialettici, senza isolarsi volontariamente e/o chiudersi in una totale assenza di prospettive. Insomma, occorre riconoscere la necessità di pronunciarsi, d’intervenire, d’allargare interessi ed intenti, di affrontare studi e verifiche. È in questo senso che ci sentiamo di condividere l’apertura che traspare dalle vaste argomentazioni degli autori di Architettura e Città. Raccogliamo un modo di pensare e fare architettura, progettazione architettonica, disegno urbano; d’insegnarli e descriverli. C’interessa quell’approccio totalizzante che, paradossalmente, sembra delimitare il campo in cui la Sezione sviluppa le proprie ricerche e dà luogo alle sue sperimentazioni. I saggi sono come “mappe logiche” che tendono a diventare territorio. Forse stratagemmi, ma volti a colmare tutti gli interstizi perché calati in campo reale e con un interlocutore ben presente. E poi non portano etichette visibili, anzi, c’inducono a pensare alla città secondo prospettive pluridimensionali e ad un progetto moderno dove l’architettura non vince per ragioni di stile, perché rimane, inevitabilmente, un punto di partenza più a monte: trae origine dall’affermazione logica dei principi, di un’idea e, quasi simultaneamente, dal disegno, dalla creazione dell’edificio. Un’ipotesi “a tutto tondo”, dunque; un progetto multiplo, policentrico. E quando questa curvatura delle teorie restaura eventi e messaggi “magici” del nostro secolo, retroattivi di tutti i segni della Modernità, lo fa con l’intento di non risolvere l’architettura nella città né viceversa, per non rinunciare a quello scarto sacrale che apre alla messa in questione del soggetto stesso. Qui la città è un lie-detector dell’architettura, struttura che nutre e viene insieme nutrita; métron, che misurando l’architettura, ci e si misura; disegno a tutta grandezza che non ha scuse biologiche ed è pronta a mettere in dubbio le certezze della forma architettata. Converrebbe parlare di un universo chiuso fra due estremità che ospitano gli ingranaggi dell’evoluzione, i cui dispositivi reagiscono come in un organismo vivente, poiché tutti i tratti sembrano attrarre e prefigurare una coazione, quasi che fossero le stesse leggi naturali ad esigere forme e procedimenti. Così gli autori ci costringono ad interrogarci sulla svolta che s’impone alla vita della città e dell’architettura, non in direzione di una fine, ma in senso inverso. L’argomento non mancherà di essere ripreso, crediamo, nel prossimo numero di Dossier. (Marino Moretti)
P R E S E N T A Z I O N E
ANTONELLA CORTESI, ANDREA DEL BONO Questo numero di Dossier intende mostrare i percorsi culturali e di ricerca progettuale che costituiscono una sorta di fil rouge collegante idealmente docenti e ricercatori della sezione Architettura e Città. Il principio di fondo cui è possibile attribuire la costituzione stessa della sezione è la convinzione che l’architettura debba essere compresa e valutata in rapporto ai processi di modificazione e di rinnovamento della città, della quale la realtà odierna non consente più di avere una visione globale mostrandola come organizzazione di esperienze diverse. Intendimento dell’architetto, a qualunque scala operi, è dare soluzioni attraverso il progetto; tuttavia fornire risposte circoscritte al solo ordine architettonico o non presagire i riflessi di operazioni a scala urbana nella sfera dell’architettura, approfondisce quel distacco tra le due aree che sovente ha qualitativamente danneggiato entrambe. Architettura e città sono termini inscindibili quali che siano la dimensione del pensiero, dell’indagine e della scala dell’intervento; per questo i saggi qui presentati esprimono l’esigenza di approfondire in modo più generale e compiuto la riflessione sul nostro impegno, per chiarire significati che oggi appaiono non smarriti ma nebulosi e dispersi tra affermazioni di tendenze e argomentazioni sovrastrutturali. Il primo gruppo di esempi offre una serie di approfondimenti teorici sul progetto architettonico, mentre un secondo gruppo presenta analoghe considerazioni, più attente, però, alla dimensione urbana, ed in entrambi alcuni autori espongono, oltre alle riflessioni teoriche, verifiche degli assunti concettuali tanto nel campo della didattica che in quello della ricerca progettuale. Il filo che unisce queste esperienze è la volontà di recuperare il valore di una ricerca scientifica volta a riconoscere, al di la delle posizioni culturali e delle poetiche di ciascuno, alcuni principi essenziali per il nostro operare: i significati e la sostanza dell’architettura nei confronti della nostra società in evoluzione, il valore dell’uomo come misura delle trasformazioni della città; ed ancora, sulla necessità di fare chiarezza sulle metodologie d’intervento e sul valore della pluralità dei linguaggi. Nostra speranza è che questo confronto aperto sulle pagine di Dossier prosegua fuori della carta stampata, in seminari, tavole rotonde ed incontri informali, perché sia possibile ritrovare, oltre gli invisibili recinti che ciascuno ha eretto talora inconsapevolmente, la disponibilità ad offrire qualcosa e ad imparare da tutti.
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LOUIS I. KAHN - FRAMMENTI Loris Macci
“...L’architettura per me non è una professione, è una religione...” (Louis I. Kahn)
Per molto tempo ho pensato come avrei potuto iniziare a parlare di Louis I. Kahn a venticinque anni dalla sua morte; poi, finalmente, mi sono tornate alla mente alcune parole di Jonas Salk, nel suo “Omaggio”:
“La grandezza di ogni età è nelle opere di quelli le cui impronte restano. Noi siamo riuniti per rendere omaggio e onore a un uomo la cui immaginazione e il cui lavoro avranno segnato il tempo in cui viviamo.”
Esiste talvolta infatti, nella critica militante, un modo ‘aggressivo’ di manomettere il passato e questo avviene quando la rilettura di fatti, o progetti o architetture torna come appropriazione e quindi deformazione, per forzarne l’interpretazione lungo strade di comodo, costruite dopo, o ancora tutte da costruire; per questo proverò a mettere ordine in alcune riflessioni scelte tra le tante che mi sono tornate alla mente riguardando — ancora una volta — i progetti e le opere di Kahn e rileggendo — ancora una volta — i suoi scritti. Di queste riflessioni — del tutto personali per una riservata consuetudine di studio su Kahn sin dai banchi dell’Università e che appartengono alla sfera delle sensazioni più che ad una pretesa di esercizio critico — la più importante, per me, riguarda l’esigenza che provo, parlandone, e che non so se riuscirò a rispettare, di usare alcune parole e non usarne altre: tra queste ultime — quelle da non usare — desidero comprendere, in particolare: Storia, Memoria, Luogo, Moderno, perché ho ben presente come — su questi temi — quasi tutto su Kahn sia già stato detto e scritto, in un senso — e nel senso esattamente opposto — da storici e critici, da allievi ed epigoni, da estimatori e detrattori. Tutto è già stato scritto sulle ‘ascendenze’: dagli architetti illuministi francesi a Louis Sullivan, dal Durand e Choisy ai grandi architetti del nostro secolo, Frank Lloyd Wright, Mies van der Rohe e Le Corbusier; tutto sulle ‘relazioni’: da George Howe, a Oscar Storonov, da Norman Rice a Robert Le Ricolais, da Paul P. Cret a August Komendant; tutto sui ‘parallelismi’: dagli influssi filosofici di Platone a quelli di S. Tommaso d’Aquino, dalle assonanze con Heidegger alle educazioni letterarie su Goethe; tutto sui ‘riferimenti’: dai grandi complessi laici e religiosi greci e romani a quelli egizi e indiani, da Villa Adriana al Tempio di Horus, dall’architettura medievale francese a quella
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italiana, da Assisi e San Gimignano ad Albi e Carcassonne; tutto sulle ‘ispirazioni’: dalle Tavole disegnate del Piranesi sul Campo Marzio a quelle contenute nella “Storia dei Castelli scozzesi”, dal libro di E. A Wallis Budge — The Nile — a quello di I. E. S. Edwards — The Pyramids of Egypt — tenuti vicino al tavolo da lavoro; tutto sul ‘fondamentalismo’ architettonico: dagli influssi Beaux-Arts alla deificazione della ‘forma’, dal senso delle ‘istituzioni’ al concetto di ‘Ordine’. Anche a me, qualche volta, è successo di cogliere, nell’opera di Kahn, alcune di queste connessioni, non so più se vere o immaginate; in particolare in molte ‘architetture senza architetti’ viste ripercorrendo le tappe dei suoi viaggi nel mondo, in una sorta di pellegrinaggio per provare a comprendere..... Da tempo, invece, ho preferito abbandonare i tentativi di comprensione razionale e di pragmatica decodificazione, tipici del costume critico anglosassone, o i tentativi di giustificazionismo ideologico-operativo, tipici di un più strumentale indirizzo critico europeo, per immergermi completamente nell’emozione; questo, tra l’altro, mi sembra più vicino all’arte — ed all’artista — e forse l’unico modo per comprendere qualcosa davvero. Non casualmente le poche pagine che Kahn ha lasciato, trasmettono una forte impressione che tanti altri fossero i suoi pensieri — o i principi — intorno al ‘progettare’ e costruire rispetto a tutto ciò che su di lui è stato scritto; non casualmente la sua opera ci appare veramente — come dice Vittorio Gregotti — come un qualcosa dove “la regola della costruzione dell’intero sistema ha sapientemente cancellato alcune tracce troppo evidenti della sua riconoscibilità: essa si presenta prepotente, ma misteriosa, continuamente interrotta, estrema possibile rovina archeologica del nostro futuro.” E mai un’architettura di questo ventesimo secolo, più di quella di Kahn, si è proposta come un ‘messaggio avventuroso’ e priva di un codice esterno di interpretazione anche per gli stessi ‘addetti ai lavori’. Di questa avventura interpretativa si rese commosso testimone, ancora, Jonas Salk:
“Dalla mente di un piccolo eccentrico uomo che capitò per caso, grandi forme sono venute, grandi strutture, grandi spazi percorribili. Alcuno alloggia l’essenza del passato, altri i creatori, i precursori e i capi di un futuro emergente. Lo stupore che circonda tutto ciò sta nel mistero della sua esistenza e nelle sue creazioni, mistero che resisterà.”
Abbandonati quindi schemi — e schermi — ideologici nell’affrontare questa traduzione emozionale, l’opera d’arte che è l’architettura di Kahn mi si rivela sempre più attraverso le sue stesse parole e sempre meno attraverso le interpretazioni altrui; ed in essa sento coesistere tre centralità: la prima totalmente rivolta all’uomo come singolo ed all’uomo come espressione della
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comunità per la quale l’architetto lavora... “l’architettura per me non è una professione, è una religione, implica devozione e dedizione alla causa del benessere dell’uomo...” L’attenzione di Kahn a questa causa — spesso, negli scritti su di lui, lasciata in sordina per privilegiare criticamente altri canali di lettura — si manifesta nelle grandi e nelle piccole scelte del lavoro di ogni giorno; illuminante è un suo pensiero, espresso con grande semplicità, sulla ‘scala’: “...le scale sono le stesse per il bambino, l’adulto e il vecchio. Sono concepite nelle misure adatte particolarmente al ragazzo che aspira a fare le scale tutte d’un fiato, sia in discesa che in salita. E’ bene considerare anche il pianerottolo come un luogo dove sedersi, presso una finestra, con accanto possibilmente uno scaffale con qualche libro. La persona anziana, salendo assieme al ragazzo, potrà sostare qui, mostrando interesse per un certo libro ed evitando di dare spiegazioni sulla propria stanchezza.” Questa tensione morale lo porta, in ogni opera, a cercare di esprimere l’essenza stessa della ‘dignità dell’uomo’ attraverso le sue manifestazioni eterne con un ‘simbolismo’ che, particolarmente nella maturità, è insieme matrice della forma e aspirazione al rinnovamento della comunità, e — per me — ‘archetipo della natura sacra di ogni raggruppamento sociale’ più che stereotipo geometrico-formale. Eppure, anche se così alti sono gli obbiettivi, come in apparenza semplici, poetiche, quasi permeate dell’ingenuità di un bambino che apre in quell’istante gli occhi sul mondo sono alcune sue affermazioni: “Io penso che il punto più ricco di ispirazione da cui potremmo partire per tentare di comprendere l’architettura, è la stanza, la semplice stanza, vista come il principio dell’architettura.” In particolare nelle architetture ‘religiose’ — termine forse improprio se per l’uomo Kahn tutte le architetture erano e dovevano essere ‘religiose’ — di questo anelito si fa espressione la ricerca della ‘Luce’, sola capace di rompere il ‘silenzio’, come tramite — insieme — tra il desiderio di essere e l’essere; e quindi tra l’uomo e Dio: “...sulla soglia, punto d’incontro tra silenzio e luce, sta il santuario dell’Arte, l’unico linguaggio dell’uomo.” Questo “passaggio” quasi inesprimibile viene risolto con una ispirata creatività nello spazio della Chiesa Unitariana di Rochester dove trovo la risposta a quella domanda, citata da Kahn, del poeta Wallace Stevens: “che fettina di sole entra nella tua stanza?”; oppure nei meravigliosi progetti per la sinagoga Hurvah a Gerusalemme e per il Convento delle Suore Domenicane a Media. La ricerca diviene negli ultimi anni sempre più intensa perché — come dice Kenneth Frampton — “pienamente cosciente della fatale degenerazione di tutte le istituzioni civili nella città consumistica” e conduce Kahn, quasi inevitabilmente, ad allontanarsi da una realtà che sembra non “sentire” per riferirsi ad un ‘Ordine’ artistico che è il suo rifugio e la proiezione della fede in “...un mondo con tutte le sue genti — ogni uomo un’individualità, ogni gruppo una diversa esperienza, rivelando così la natura dell’essere umano sotto gli aspetti più vari — offre la possibilità di un patto umano di più ricca sensibilità: di qui nascerà la nuova architettura.” Questa proiezione mentale in un assoluto è anche la sua “... risposta a quanto nella vita della società americana è di più drammaticamente attuale: la ri-
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cerca di una tregua contro la mobilità, di un punto fisso di riferimento che riassuma le molteplici contrastanti istanze compresenti in un ordine sociale dilaniato da contraddizioni crescenti....” secondo una interpretazione che aveva anticipato Manfredo Tafuri; esigenza che rappresenterà invece una delle motivazioni primarie della critica di Robert Venturi al pensiero di Kahn, in un tipico esempio di personale giustificazionismo operativo applicato alla rilettura di un Maestro. Di questa religiosità, non solo l’architettura fu permeata, ma la sua stessa opera di insegnante che con grande semplicità e immediatezza di parole egli riesce ad illuminare di antichi, ma sempre nuovi significati: “...quando parlo ai miei studenti...sento di essere in chiesa, e che il mio dovere è quello di scrivere dei salmi.” Una ‘dimensione’ interiore che ci richiama alla grandezza di pensiero di Socrate e ci spiega in maniera ancor più esaustiva quello che aveva appena altrove accennato: “Le scuole nacquero quando sotto un albero un uomo che non sapeva d’essere un maestro incominciò a discutere il suo pensiero con persone che non sapevano d’essere degli allievi. Gli allievi ripensarono a quello scambio di ragionamenti, e a quanto era bello stare insieme a quell’uomo. E desiderarono che anche i loro figli ascoltassero ciò che quell’uomo andava dicendo...”. Così certamente dovette essere se Vincent Scully, in un suo scritto su Kahn, ringrazia: “gli studenti di Architettura di Yale, che fin dal 1952 avevano incominciato, con una fede meravigliosa, a pubblicare Kahn sul loro periodico Perspecta”. E così certamente doveva essere se William S. Huff, un vecchio allievo, ricordando il maestro: “... magro, nervoso e sfregiato, le cui parole, balbettanti, incerte e oscure, non erano per questo meno piene di poesia”, afferma che: “... le sue parole sullo spirito dell’architettura devono essere considerate il suo vero, grande dono ai suoi studenti ed alle successive generazioni”; e per questo ancora: “... se Kahn lasciò Yale verso la fine degli anni ‘50, Yale non lo lasciò mai.”
Una seconda centralità, nell’opera di Kahn, che si intreccia inevitabilmente con la prima, è il senso che ci trasmette della artisticità dell’architettura, e la consapevolezza che questa sta tutta nell’atto creativo di ogni singola costruzione, né può discendere dalle ‘teorie dell’architettura’, perché: “...l’architettura non esiste, esistono solo opere di architettura.” Lo stesso Kahn in una delle sue ultime conferenze — ad Aspen nel 1973 — volle narrare questo momento indicibile della creazione architettonica, l’attesa dell’idea, il suo improvviso esplodere nella mente e nell’animo e la felicità dell’artista, accanto al timore, sintetizzandolo con parole magiche: “Amo gli inizi. Gli inizi mi riempiono di meraviglia. Io credo che sia l’inizio a garantire il proseguimento.” Anche per tante parole criptiche, oltre che per l’universo delle sue ‘forme’, Kahn trasmette una visione poetica trascendente che lo avvicina ai grandi costruttori di ogni epoca; nel suo ritrarsi dalla didascalicità ad ogni costo, nel suo rifiuto della trasmissione di certezze inamovibili, nella ricerca di una verità sempre sfuggente egli è uno dei veri artisti del nostro secolo; ancor più grande perché fuori del tempo o perché ‘non si propone in nessun modo si-
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stematico’, in questo più vicino a Antoni Gaudì — davanti al quale ho provato analoghe emozioni — che a Le Corbusier o a Wright, per quell’essere ‘profeta’ di qualcosa che non può essere profetizzato. L’opera di architettura come ‘vita e cultura pietrificate’ — “una rosa vuole essere una rosa...” — trova in Kahn, a partire da quei Richards Medical Research Buildings attraverso i quali fu ‘scoperto’ in Europa, innumerevoli momenti di completa sintesi; il ricordo dei “Bath House” di Trenton o, ancor più, del Kimbell Art Museum di Fort Worth riesce a spiegare il racconto fatto da Marshall Meyers, nella sua efficace intervista sulle infinite vicissitudini di questa realizzazione e il consenso di tutti di fronte ad un’opera d’arte; “...quando poterono osservarlo, anche non finito, la gente cominciò a capire che era una cosa fuori dal comune, anche se non riuscivano a capire in che cosa. E quando poi fu terminato la loro reazione fu straordinaria. Non ho mai visto una reazione così viscerale per un edificio moderno; era sì una reazione intellettuale, ma questo sentimento profondo veniva dalla gente comune.” Forse lo stesso Kahn si dovette chiedere spesso le ragioni di questo grande successo, anche se sappiamo che non iniziò a disegnare niente del Museo se non dopo sei mesi dal contratto, in attesa di quella ‘idea-forza’ senza la quale non esiste progetto perché: “...un edificio deve iniziare con l’incommensurabile, quindi passare attraverso il misurabile, per finire ancora nell’incommensurabile” e allora, e soltanto allora: “...dalla prima sensazione di bellezza, e dalla meraviglia che ne consegue, si arriva alla realizzazione.” Tra le ragioni del successo, questo ‘fragile poeta’ osa dire anche qualcosa che non aveva mai detto o fatto intuire e che pure tanta rilevanza ha nella sua arte; la ‘confessione’ avviene nel racconto del ‘portico d’ingresso’ al Museo: “...è qualcosa che emerse per suo conto. Sapete perché è così bello quel portico? Perché è assolutamente non necessario.” Una conferma di questa, spesso volutamente, ignorata verità viene anche da gli spazi della Biblioteca Phillips Exeter e, ancor di più, da quelli della Sala dell’Assemblea o delle Corti di Aria e Luce o della Sala della Preghiera a Dacca, testimonianze vere e tangibili di un’altra sua affermazione: “una nuova spazialità nascerà solo da una nuova concezione del patto umano” e che mi riportano alla mente non tanto — o non solo — i disegni delle Carceri del Piranesi, quanto quelle sue semplici parole “...una sacerdotessa che passeggia in giardino. E’ primavera. La sacerdotessa si ferma sulla soglia di casa e resta sbalordita nell’entrare. L’ancella le viene incontro emozionata esclamando: ‘ Guarda fuori, guarda fuori, sacerdotessa, che miracoli ha fatto Dio’. La sacerdotessa replica:’ Guarda dentro, e vedrai Dio’.”
La terza centralità nell’architettura di Kahn è la capacità che essa ha di evocare e trasmettere — tra tante emozioni — anche il vissuto di ‘sofferenza’ necessario per pensarla, disegnarla, costruirla; una sofferenza che viene dall’insoddisfazione e dall’incertezza - “oggi, nemmeno il sole è più una certezza” disse una volta — e che penetra all’interno del ‘mistero’ dell’architettura, la permea di se e ne fa, tra le molte attività dell’uomo, forse quella che riesce ad elevarlo più vicino alla ‘vetta’; ‘l’artista come medium divino’ perché, come pensavano gli egizi, ‘servitore dell’eternità’ o — come pensava Kahn —
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“servitore dell’uomo” in una missione, accettata come destino: “di quello che lo spazio vuole essere l’ignoto può essere rivelato all’architetto”... Di questa insoddisfazione — che viene da lontano e lo accompagnerà nel corso della sua vita — più numerose, come al solito, sono le tracce per me intuibili che non le confessioni palesi anche se è possibile trovarne accenni in alcune testimonianze che ci ha lasciato: una, remotissima — addirittura del 1931 — risale ad un lungo ragionamento del giovane Kahn sugli schizzi di architettura suoi e di altri che la tradizione dei ‘viaggi in Europa’ manteneva viva nella cultura americana e che rappresentavano una tappa obbligata — un ‘dovere’ — di quell’apprendistato necessario ad ogni architetto di grandi speranze. “Nei miei schizzi cerco di non essere completamente asservito al soggetto, tuttavia lo rispetto e lo considero come qualcosa di vivo dal quale traggo le mie sensazioni. ... Se la nostra intenzione è quella di creare, di improvvisare, non dovremmo imitare....” Per questo, accanto alle architetture, gli appunti e disegni dei viaggi di Kahn costituiscono una delle testimonianze più importanti del percorso umano e artistico e sono illuminanti — anche — del suo modo di ‘sentire’ oltre che di ‘vedere’ la città e l’architettura: un modo di vedere e di sentire che Kahn provò una volta — forse pensando alla sua infanzia ed alla incertezza che lo tenne a lungo sospeso tra musica e architettura — anche a definire: “una città è un luogo dove un bambino, quando l’attraversa, può vedere qualcosa che gli dirà quello ch’egli desidererà poi fare per tutta la vita.” Vengono infatti, da questi disegni, trasfigurazioni e messaggi idealizzati, fatti da masse, che sembrano sprigionarsi dalla terra più che ancorarsi ad essa e segnate da luci ed ombre, nel contrasto chiaro-scuro; o impressioni fatte da colori puri, mentalmente attribuiti alla natura dei materiali e restituiti, a volte, in una visione totalizzante, come sarà sempre nelle sue opere. Basta ricordare, tra tutti, i disegni dell’Acropoli di Atene - in una trasposizione da nuovo “Palazzo delle Rocce” — o i disegni di Piazza del Campo di Siena — quasi folgorazione di una solare sintesi materica - per intuire il profondo significato ‘progettuale’ attribuibile alla esigenza di interiorizzare questi ‘contatti’ tra l’uomo ed il mondo esterno, o rileggere il suo primo ‘incontro’ con la Piazza dei Miracoli per trovare il sentimento della propria dimensione umana — modestia nella grandezza — di fronte, pure, ad un’opera degli uomini, quando questi però sono diventati i ‘servitori dell’eternità’: “...la prima volta che sono stato a Pisa, andai direttamente verso la Piazza. Avvicinandomi e scorgendo in distanza uno scorcio del Campanile ne fui così appagato che mi fermai di colpo per entrare in un negozio dove acquistai una brutta giacca inglese. Non osando entrare nella Piazza, deviai per altre strade girandoci intorno, ma senza concedermi di arrivarci. Il giorno seguente andai direttamente al Campanile, toccai il suo marmo, ma anche quello del Duomo e del Battistero. Il giorno seguente entrai temerariamente negli edifici.” Lo stesso timore e la stessa incertezza, se non insoddisfazione, noi troviamo, ancora più tardi, nelle sue parole sul grande progetto dell’Assemblea “una sfaccettata pietra preziosa costruita in calcestruzzo e marmo...” che si staglia — nuovo Tempio di Philae — sull’acqua: “...sentivo che questa pianta, pensa-
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ta poche settimane dopo aver preso conoscenza del programma, aveva una sua forza; ma possedeva tutti gli ingredienti? Se solo uno di questi fosse mancato, essa si sarebbe disintegrata. Questo è il mio problema.” Anche perché Kahn aveva sempre creduto in due grandi principi, da lui efficacemente sintetizzati: “... l’ordine non implica il Bello. Lo stesso ordine creò il nano ed Adone.” e altrove: “non funziona niente, fin quando non funziona tutto.”
Un’altra prova di modestia, insolita in un grande architetto ma che lo rende ai nostri occhi ancora più grande, offre quando accetta idee espresse da altri, anche se queste comportano mutazioni profonde di cose da lui a lungo pensate; a La Jolla, di fronte al mare, si sta completando l’Istituto per Studi Biologici Salk e Kahn racconta il suo incontro con Louis Barragàn, chiamato per suggerire le essenze da inserire nel Giardino degli Studioli: ...“poi, guardando attraverso lo spazio del giardino, verso il mare, disse — non metterei un albero o un filo d’erba in questo spazio. Questo dovrebbe essere una piazza di pietra, non un giardino —. Scambiai un’occhiata con il Dr. Salk e capimmo subito che ciò era profondamente giusto......— se rendi questo spazio una Piazza , otterrai una nuova facciata: una facciata verso il cielo — ”. Fu in seguito lo stesso Jonas Salk a raccontare un’altra confessione di Kahn: “...Lou mi disse che di tutti gli edifici a cui aveva lavorato, quello era l’unico che, una volta realizzato, avesse superato le sue aspettative.” Questi tanti messaggi che l’opera di Kahn trasmette - se esiste attenzione all’ascolto - e che ho separato tra loro per poterne parlare, non so ancora quanto, nella realtà, non siano un unico ‘messaggio’, un grande geroglifico architettonico, inscindibile, ancora diverso da quel che è possibile tradurre in parole.
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Sono trascorsi — da quell’ormai lontano mese di marzo del 1974 nella Penn Station di New York — venticinque anni; tra le molte cose scritte su di lui, ne mandai a memoria una, qualche tempo addietro, di Paolo Portoghesi, alla quale volevo rispondere, un giorno o l’altro: “Louis Kahn ha attraversato come una meteora il cielo dell’architettura e, nei quindici anni che hanno visto nascere e spegnersi la sua traiettoria, il mondo è profondamente cambiato, e insieme con esso il ruolo dell’architetto, le condizioni in cui egli opera, il suo rapporto con la società civile.” A questa metafora ambigua, anche se affascinante e delineata in uno scenario denso di chiaroscuri e di dubbi sull’unica possibile ‘religione’ etica per l’architetto, preferisco la ‘speranza’ espressa da Vincent Scully: “... Kahn tenta di gettare un ponte sull’abisso che separa l’architetto come uomo d’arte dall’architetto come professionista, e in modi quali nessun altro sembra in grado ora di realizzare, — proprio come ha sanato la frattura aperta tra il nostro essere nel presente ed il nostro prossimo futuro, e tra il presente ed il lontano passato. Ma quanto è lenta la crescita di quest’albero, quasi un ceppo d’ulivo, e che pur deve crescere per le generazioni a venire!” Oggi più di ieri, perciò, credo sia necessario guardare a quest’albero che è già cresciuto, ricordando che — dopo di lui — niente nel pensiero e nel fare architettonico è stato come prima ed unendosi ad altri, se non altro, per ricordarci che il compito dell’architetto deve essere sempre lo stesso, anche se: “...la prima riga sulla carta è già la misura di ciò che non può essere pienamente espresso; la prima riga sulla carta è già qualcosa di meno.”
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RIDUZIONE NECESSARIA Alberto Baratelli
Uno dei dati più significativi che contraddistingue il panorama architettonico attuale è il fenomeno del pluralismo linguistico, principale responsabile dell’appiattimento generalizzato dei valori più propri e specifici della società e della sua storia. Non si tratta di una caratterizzazione areale o circostanziata a determinate correnti o scuole ma di sperimentazioni aperte a molteplici direzioni che interessano trasversalmente realtà europee ed extraeuropee. Un segmentato panorama di tendenze e stili alimentato e spesso confuso dal proliferare della pubblicistica specializzata e dai mezzi di comunicazione di massa, che mai hanno interessato in maniera tanto pervasiva e penetrante il campo dell’architettura. E mai periodo storico ha riscontrato il contemporaneo agire e intrecciarsi di linguaggi in un panorama così complesso e vario. Il fenomeno della contaminazione linguistica e della globalizzazione culturale non è affatto nuovo, basti pensare all’enorme diffusione che ha avuto in tutto il mondo antico il codice classico, con le diverse declinazioni e contaminazioni, fino al ‘richiamo all’ordine’ dopo gli eccessi del Rococò che gli architetti illuministi intendevano perseguire, secondo le teorie formulate da Laugier. Modelli e stilemi riverberati attraverso la cultura architettonica del XX secolo fino in pratica al ‘dead point’ portato dall’esperienza delle avanguardie storiche. Un azzeramento totale, operato nella cultura architettonica a discapito del valore della storia, delle convenzioni acquisite e delle tradizioni culturali, rifiutando così la possibilità di trarre da questi elementi regole certe e fondamenti. Due concetti interruzione e continuità, mutamento e storia, apparentemente contrastanti e contraddittori che, nelle successive revisioni critiche operate dal neorazionalismo italiano, trovano un possibile raccordo attraverso un processo di trasposizione di temi regionali e tradizionali alle teorie del Movimento Moderno, secondo un processo di attualizzazione del portato storico. Come reazione al razionalismo radicale e globalizzante e agli effetti indotti sulla città nuovi atteggiamenti metodologici propongono un diverso modo di intendere l’architettura e il suo rapporto con il contesto, superando forme e contenuti ormai sterili della più recente tradizione architettonica; un’etica del costruire che ricerca nel luogo e nella città i valori primigeni e le matrici dell’operare. Assumendo la storia quale principale referente del progetto, attraverso il libero rimaneggiamento del suo repertorio formale e stilistico e la riutilizzazione di un sistema di convenzioni accettate, si compongono sintesi personali estremamente diversificate e oscillanti da un lato tra il rigore metodologico di Rossi, Grassi, Moneo, ecc., che richiama e trascende i paradigmi razionali, e dall’altro la complessa mescolanza di procedimenti espressivi e metodi narrativi che sostengono la necessità della contaminazione tra memoria storica, gusto popolare e tradizione del nuovo, legittimati e strutturati attraverso ibride contaminazioni di tutto il repertorio storico contro ogni dogma di monovalenza e coerenza stilistica. La prima Mostra Internazionale di Architettura allestita presso la Biennale di Venezia nel 1980 col titolo emblematico “La presenza del passato” nell’intento di celebrare la difesa del contestualismo attraverso gli sviluppi del postmodernismo, costituisce un panorama ampio e significativo di come si sta muovendo la cultura architettonica del momento. Di contro sia l’ideologia tecnici-
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sta, prendendo quali referenti la perdita di identità e la fiducia illimitata verso la ricerca avanzata e il progresso tecnologico, sia le teorie decostruttiviste e della nuova astrazione formale, che spostano l’attenzione dall’opera architettonica quale fenomeno concreto e definito e i suoi rapporti con il luogo al processo di costruzione e decostruzione, consentono il procedere su posizioni autonome di un’architettura che cerca una configurazione proprio nell’autodefinirsi quale entità atopica e atemporale. Di fatto, al di là della dicotomia tra questi rigidi schieramenti con cui è stata interpretata buona parte della cultura architettonica degli Concorso per la riqualificazione della Piazza del Duomo a Termini Imerese. A. Baratelli, F. Brunelli, D. Brunelli, M. Meossi, vista prospettica.
anni ottanta, esistono atteggiamenti meno netti e definiti strutturanti percorsi personali frutto di sintesi evolutive di aspetti e tendenze diversi; basti pensare, per citare qualche esempio, alla contaminazione tra cultura locale e internazionalismo presente nell’opera di Kurokawa, al rapporto tra rigore razionale e libertà espressiva riscontrabile in Holl e Koolhaas o ancora al pluralismo linguistico e metodologico di Isozaki, Stirling, Hollein ecc. L’aspetto più singolare che caratterizza una parte sempre più rilevante della produzione architettonica degli ultimi anni sembra essere questa tendenza a travalicare gli ambiti netti e definiti di correnti e stili a vantaggio di un’architettura che riduce al minimo il linguaggio formale traendo le proprie regole dalla costruzione logica e razionale del progetto e dalla reinterpretazione del luogo inteso in senso concreto e fenomenologico del termine. Opere estremamente attente alla tecnica, ai materiali (antichi o moderni che siano), ma soprattutto al contesto del progetto; un’attenzione in parte ascrivibile alle
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mutate situazioni in cui oggi l’architettura è chiamata ad operare, ormai non più secondo una logica di espansione della città ma principalmente tesa a ridefinirne l’assetto nell’ambito di un processo di adeguamento e modificazione della struttura fisica e miglioramento della sua qualità, dove al concetto di innovazione radicale o invenzione si è andato sostituendo quello di adattamento al contesto o reinterpretazione. Un rifiuto dell’invenzione che si lega ad un diverso criterio di contemporaneità intesa come continuità spazio-temporale col luogo; non essendo più concepibile un rapporto col luogo che non faccia leva sulla capacità del progetto di ascolto e di interpretazione, evitando soluzioni arbitrarie o di mimesi ambientale. L’ascoltare rimanda alla natura culturale e critica della pratica progettuale, alla capacità di interpretare il luogo adattando il proprio registro espressivo alle caratteristiche e alle valenze del sito; una più consapevole costruzione
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del progetto che non si basa su atteggiamenti globalizzanti e univoci ma su metodologie aperte e flessibili in cui sia possibile sperimentare criticamente approcci differenziati e variabili al variare del contesto e delle sue peculiarità. Esperienze progettuali diverse o anche lontane ma tese ad una sintesi estrema tra storia e contemporaneità in un rapporto ineludibile col luogo, tra ciò che va lasciato e ciò che può essere oggetto di modificazione in quanto come dice Francesco Venezia “nella contaminazione tra quanto c’è di indecifrabile e per sempre muto e quanto c’è di disponibile ad assumere infinite forme si gioca la durata stessa dell’architettura”. Un concetto Concorso per la riqualificazione della Piazza del Duomo a Termini Imerese. A. Baratelli, F. Brunelli, D. Brunelli, M. Meossi, vista prospettica.
non deduttivo di tradizione e contemporaneità che ha in se il senso della reinterpretazione e del dialogo contro l’invenzione, del silenzio e dell’assenza
contro la ridondanza. Un silenzio che non è “... perdita di parola, di afasia”, per dirla con Gregotti, “ma ritorno di essa nel suo luogo più proprio ed originale, almeno per quanto attiene alla condizione di modernità”. Un’assenza intesa come rinuncia del di più, riduzione al concetto miesiano del “quasi nulla”, ma anche un’assenza ideale dello stile, la sostituzione di canoni ridondanti con un “testo neutro”. Il processo di globalizzazione culturale è un dato di fatto ormai ineludibile, una sorta di livellamento generalizzato e progressivo che rende difficile perseguire quanto c’è di veramente autentico e fondante nella cultura di una società da poter essere assunto quale radicale alternativa, uscendo da stereotipi di facile contestualismo o memoria collettiva. Come ha osservato Moneo, le possibilità che in questa situazione si pongono, coscienti del dibattito nel quale la cultura architettonica oggi si colloca, sono strettamente dipendenti dal livello di libertà con cui si assumono gli elementi caratteristici di una specifica società in determinati luoghi e momenti della sua storia. Quindi più
appropriata sarà la risposta che ciascun’opera darà a questioni globali facendo ricorso alla sua capacità d’ascolto, tanto più questa, uscendo da stereotipi e posizioni standardizzate, costituirà elemento innovativo e perciò stesso il maggiore contributo che una particolare società darà all’insieme della cultura architettonica. E si potrebbe concludere che anche la dicotomia tra regionalismo e internazionalismo come il rapporto tra vecchio e nuovo dipendono dalla nostra capacità di leggere e interpretare la realtà. Infatti come ha scritto Nicolin “In questa avventura che vede il progetto di architettura come attività interpretativa, sta tutta la speranza di vedere l’architettura contemporanea non più come una minaccia ma piuttosto come evento rivelatore. Così il rapporto tra vecchio e nuovo — vexata quaestio — si scioglierebbe nella semplice, olimpica constatazione che le opere veramente nuove non sono altro che quelle che ci fanno vedere con occhio nuovo il mondo che abbiamo conosciuto.”
Concorso per la riqualificazione della Piazza del Duomo a Termini Imerese. A. Baratelli, F. Brunelli, D. Brunelli, M. Meossi, vista prospettica.
Concorso per la riqualificazione della Piazza del Duomo a Termini Imerese. A. Baratelli, F. Brunelli, D. Brunelli, M. Meossi, sezioni longitudinale e trasversale.
Concorso per la riqualificazione della Piazza del Duomo a Termini Imerese. A. Baratelli, F. Brunelli, D. Brunelli, M. Meossi, planimetria generale. Il disegno della pavimentazione scaturisce dalla reinterpretazione delle caratteristiche morfologiche del contesto, generando trame incrociate corrispondenti al tracciato planimetrico del Duomo e del Palazzo Comunale. I reperti archeologici presenti nella piazza vengono resi percepibili perimetrando l’area in un quadrato pavimentato in parte con lastre in pietra e in parte con cristalli ad alta resistenza. Strutture leggere in dogati di legno accolgono un centro informazioni turistiche e posto di ristoro.
PROGETTI ONESTI E PROGETTI DISONESTI Alessandro Gioli
La ricerca sembra essersi trasformata con sorprendente velocità in un fare sempre più disinvolto, che ha allontanato da sé ogni riflessione critica, emancipativa. In un momento di incertezze sommerse ma percepibili rimane sempre più difficile riflettere sul fare, la sua qualità, la sua direzione culturale. Manfredo Tafuri molti anni orsono ebbe a dire: “Il colloquio con la storia: questo tema sembra premere quasi ossessivamente le coscienze degli architetti moderni. Il movimento moderno, d’altronde, sembra aver fallito nel suo tentativo di dominare il futuro con le armi della pura ragione: la tecnologia sembra rivelare il suo vuoto ideale e il suo potere alienante; l’antistoricismo delle avanguardie, ignorato nella sua più profonda sostanza, è letto come fenomeno contingente e superabile, se non già superato. La natura diviene il nuovo mito sostitutivo, la storia viene riproposta come mito secondario.”(1) In effetti dopo le anticipazioni di Tafuri si è affermata definitivamente la crisi della figura carismatica del maestro, come fonte di esperienza, e la si è sostituita con la libertà di espressione che ha esorcizzato, danzando e cantando, la presenza delle regole indotte dal senso del limite, dall’esperienza, dal dovere. Ma si sta reagendo a questo distorto concetto di libertà, oggi si riparla di ordine, di stile, di continuità storica. Sconcerta tuttavia, fermiamoci all’Europa, come la ricchezza produca nuove tradizioni e nuovi orientamenti per noi oggi impensabili ed improponibili. C’è, nel nostro Paese, da domandarsi cosa si stia inseguendo: un rinnovamento della città attento alla rilettura del suo processo storico per un nuovo romanticismo, oppure una rinnovata speranza di riscatto nei confronti di chi impone ottusamente la conservazione dello status quo, o infine la registrazione di una situazione di stallo in cui nessuno più ha la possibilità di fare e di pensare. Cercando di vedere le cose in una prospettiva positiva c’è da credere a mio avviso a quella tendenza che vede in ogni città, nella sua collocazione storica, il principale testo di consultazione per ogni nuova architettura. Potrebbero essere due i termini di una rinnovata ricerca architettonica: natura dei luoghi e storia interpretata della città. Quando penso all’ambiente, alle risorse di cui disponiamo oggi nel nostro Paese, a quale architettura proporre, non posso che pensare a qualcosa di essenziale, di semplice e, nello stesso tempo, di austero ma non di banale né di povero. Può un monumento essere maestoso e semplice nello stesso tempo? Può un edificio non essere solo un contenitore di funzioni da mostrare in pubblico e presentarsi su di una pubblica strada o su di una piazza consapevole del proprio ruolo di necessità, correttezza, bellezza? La risposta, proprio alla luce della storia non può che essere affermativa e allora occorre domandarci perché tutto ciò sia stato dimenticato e sostituito da un distorto concetto di utilità, di funzione e di economia. Etienne-Louis Boullée nel suo “Saggio sull’Arte”, nel ricordarci che “l’architecture c’est mettre en oeuvre la nature”, ha indicato con forza l’esistenza di regole per l’architettura, di un suo fondamento ordinatore come sono le stagioni, il sole, i fiumi, gli alberi della natura; un fondamento logico, un’attribuzione di senso e di carattere. Mi chiedo: c’è, per intendersi, un qualche elemento che possa esaudire questo desiderio di bellezza e di maestosità, di semplicità e di forza senza un insopportabile dispendio di risorse culturali, economiche ed ambientali? Quando si pensa ai tempi passati, alla storia, sappiamo bene che si corre sempre il rischio di avere di quei tempi una visione distorta, quasi sempre non vera, ma ciò che rimane, perché è strettamente connesso al significato di esperienza, è la certezza del termine ‘struttura’. Basta risalire alle origini del costruire ovvero al momento della raccolta dei materiali e della necessità di impiegarli in un certo modo per rendersi conto della sua essenzialità. Il significato di struttura è sempre stato unito a quello di necessità e costituisce la radice comune di ogni composizione. Credo che ogni opera di architettura prenda inizio, anche volendolo negare, proprio da questo termine.
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Struttura è anche sinonimo di architettura e di disegno e non è possibile separare questi tre termini senza perderli da un lato nei meandri di sofisticate alchimie accademiche e dall’altro in una frettolosa pratica professionale. Ad esempio il raggiungimento di una struttura sociale, urbana, architettonica che sia civile è cosa che riguarda il rapporto fra pubblico e privato, è cosa che dovrebbe unire e non separare, che dovrebbe intendere e farsi intendere, è cosa che dovrebbe ottenere un ragionevole consenso. Vorrei, a questo proposito, ricordare Daniel Defoe. Forse non tutti sanno che oltre venti anni prima della sua più importante opera “The Life and Strange Surprising Adventures of Robinson Crosue of York, Mariner” del 1719, il romanzo d’avventura che lo ha reso universalmente famoso, egli pubblica verso il 1696 il suo “Essay upon Projects”. In questo libro singolare, per molti versi di una attualità sconcertante, Defoe annuncia l’inizio della Projecting Age. In entrambi i lavori il tema centrale è la progettualità, ma nel saggio essa è trattata in maniera completamente diversa dal romanzo.(2) Se nel romanzo “Robinson non si chiede mai cosa sia very useful to society ma solo e soltanto cosa sia very useful to me,” in “Essay upon Project” Daniel Defoe parla in prima persona e ci dice, senza mezzi termini, come devono stare necessariamente le cose se vogliamo parlare di architettura. Defoe condanna apertamente quelli che lui chiama facitori di progetti a buon mercato, non utili alla società, inventori ad oltranza, buoni solo per ingannare i cittadini e confonderli sul piano economico. Si tratta, con poche eccezioni, di spregiudicati venditori di Dishonest Projects, che non devono essere confusi con coloro che, come lo stesso Defoe, elaborano Honest Projects per il progresso della società e della vita civile. Propongo al lettore un rapporto fra Robinson che progetta per sé stesso, per la propria sopravvivenza, che usa solo ciò che è utile, rappresentato dal privato di oggi, e l’Istituzione che detta le regole, che dispone che l’architettura sia soprattutto un contributo alla riaffermazione dei principi generali di una società che si riconosce in valori certi da trasmettere alle future generazioni. Si presentano due prospettive: la prima connette il progetto alla sopravvivenza nell’Ambiente naturale, la seconda alle regole imposte, anche se non scritte dell’Istituzione. Con la prima prospettiva Robinson trova intorno a sé cose che la sua intelligenza percepisce come direttamente impiegabili ad uno scopo immediato, ad esempio un qualcosa che faccia le funzioni di un ombrello o di un coltello o di una casa. Trasforma pochissimo, utilizza direttamente. L’utilità prevale sulla tipologia. Quante volte sorpresi da una pioggia improvvisa ci siamo coperti con la prima cosa a portata di mano? E non consiste forse in questa trasfigurazione simbolica l’essenza e la magia dei giochi che i bambini amano fare? Ciò ha grande valore sul piano ambientale perché uso solo ciò di cui dispongo; prendo solo ciò che c’è e gli assegno una funzione, che può anche variare secondo le mie necessità. In architettura è la vittoria della funzione che ci conduce a considerare ogni cosa buona nella misura in cui è utile, ma è anche il momento, a volte altamente drammatico, del ritorno alle origini: le tende al posto delle case, gli alberi o le grotte al posto delle tende e così via. Robinson stabilisce con la realtà un ordine personale, privato, non confrontabile con altri ordini perché solo lui è in grado di riconoscere in una cosa qualsiasi un corrispondente uso; ma è un ordine relativo che infine, se ci fossero tanti Robinson, produrrebbe solo caos ed un generale disordine. La seconda prospettiva ci porta a considerare l’Istituzione come entità definitoria, prescrittiva, come la condizione vera, concreta, che rende possibile ogni riconoscibilità,
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ogni consenso ed assuefazione. Con l’Istituzione ogni cosa è nominata, classificata, riprodotta; si prescrivono distanze, dimensioni, decori, si dettano Leggi e Norme da cui possa discendere il segno di una presenza. Perché ho ricordato Defoe? Perché vedo nelle sue due opere sopra menzionate i contraddittori caratteri del fare architettura, sia per i rapporti istituibili, in varia misura, con l’ambiente, sia per quell’inevadibile interesse all’utile espresso da ogni attività umana. Proviamo ad elencarli. Da un lato il privato indicato nella figura di Robinson, che lavora solo per se stesso, che utilizza ciò che serve per la sua sopravvivenza. E’ una condizione comune a molti ma, per gli architetti e per l’architettura, diviene oltremodo significativa. Da una condizione zero, riconducibile all’isolamento (il naufragio ma anche i luoghi lontani di tante regioni), in cui esiste il bisogno primario del vivere, si passa a condizioni sempre più prossime alla civiltà che consente mezzi, agi, ricchezze. Lungo questo cammino, mentre non cambia sostanzialmente l’etica del privato, cambiano, aumentando progressivamente, i consumi imposti all’ambiente. Possiamo fare l’esempio dei paesi e delle piccole città che ormai lontane dalle capitali della cultura e incapaci di produrne di propria, invece di iniziare, come fa il contadino, ad arare con pazienza il proprio campo per potervi seminare ed in futuro raccogliere, si affidano per essere all’altezza, come vien detto, del loro tempo, all’informazione sporadica e frettolosa, alla copia maldestra cadendo sempre in una patetica e ridicola esibizione. Oppure alla tanto descritta società dei consumi che se ci ha consentito di consumare non è riuscita a prevedere cosa dovevamo fare dei prodotti consumati. Dall’altro l’Istituzione impersonificata nel pubblico; essa lavora solo per la società, definisce le norme giuridiche, le norme estetiche, quelle di ordine economico e così via, da anteporre a qualsiasi costruzione. L’Istituzione prescrive e pretende ma anche rende riconoscibile la città o meglio consente di distinguere ciò che è città da ciò che è somma di edifici. Ora mi si presentano due alternative. Se lascio agire Robinson ho un grande disordine ed un grande disorientamento; la casa non è più la casa, gli oggetti non sono più gli oggetti ecc. ma in compenso faccio fronte ai miei bisogni attingendo direttamente alle risorse naturali, o se vogliamo agli avanzi delle società avanzate, non consumo niente ed utilizzo solo ciò che posso avere. Devo tuttavia stabilire un limite, devo sapere per quanto tempo ancora la natura può continuare a fornirmi direttamente le sue risorse. Se invece lascio agire l’Istituzione ecco lo sviluppo programmato, gli obbiettivi generali; il costruire diviene utile alla società, le architetture sono riconoscibili, tipologicamente allineate ed ordinate; sono costruite a spese delle risorse economiche ed ambientali ma possono e devono essere di buon esempio, esprimono un livello di civiltà. Ma allora c’è davvero da chiedersi, quando progettiamo e costruiamo, quanta ragionevolezza sia contenuta nel nostro desiderio di distinzione, di distacco dalla vera realtà delle cose che ci circondano; e c’è da chiedersi perché il nostro non ricco Paese, dal
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momento che istintivamente rifiutiamo il benevolo giudizio di luogo pittoresco e turistico, si debba presentare con la messa in scena di oggetti privati che consumano risorse quanto quelli dell’Istituzione senza poter avere al contrario di questa alcuna possibilità di impartire un ordinamento e una guida. La domanda alla quale occorrerebbe dare una risposta, se i temi ambientali sono oggettivamente veri, non potrà che riguardare la reale capacità di decisioni, forti, rigorose, definitive, al limite della democrazia, che tuttavia un sistema fondato sulla partecipazione e sul consenso, come quello nel quale viviamo, non credo possa realmente esprimere. Queste sono le risorse e queste sono le architetture possibili; ragionamenti e proposte oggi surreali che però, per esempio, hanno consentito la costruzione, con l’uso di prototipi e di tipi di abitazione, della città ottocentesca alla quale oggi ci rivolgiamo per chiedere un consiglio urbanistico ed architettonico. Potrebbe questo stesso ragionamento contenere il senso di ciò che si
intende per sviluppo sostenibile in relazione allo sviluppo delle città con il nostro patrimonio culturale? Ma c’è un altro termine conseguente a quello di Istituzione e di Ambiente ed è la libertà. Rimango ovviamente nell’ambito dell’architettura e mi affido ad Adolf Loos che in un suo famoso saggio propose: “Posso condurvi sulle sponde di un lago montano? Il cielo è azzurro, l’acqua verde e tutto è pace profonda. I monti e le nuvole si specchiano nel lago e così anche le case, le corti, le cappelle. Sembra che stiano lì come se non fossero create dalla mano dell’uomo. E tutto respira bellezza e
Le immagini si riferiscono alla Scuola Elementare di 20 aule e palestra nel quartiere Le Badie a Prato del 1990. Ogni aula è provvista di una serra che consente di risparmiare energia ed in cui i ragazzi possono svolgere esperienze di carattere ambientale. L’elemento serra ripetuto 20 volte propone un’architettura della facciata e degli spazi interni molto ritmata come fosse un messaggio ripetuto. Progetto: Prof. Arch. Alessandro Gioli e Arch. Andrea Corsi. Direzione dei Lavori: Prof. Arch. Alberto Bove.
pace. Ma che c’è là? Fra le case dei contadini, che non da essi furono fatte ma da Dio, c’è una villa. L’opera di un buono o di un cattivo architetto? Non lo so. So soltanto che la pace, la quiete, e la bellezza se ne sono già andate. E io domando allora: perché tutti gli architetti, buoni o cattivi, finiscono per deturpare il lago? Il contadino non lo fa. Neppure l’ingegnere che costruisce sulle sue rive una ferrovia o traccia con il suo battello solchi profondi nel chiaro specchio del lago.”(3) Attraverso il concetto di libertà ecco riapparire l’Istituzione con le Opere Pubbliche che non deturpano l’Ambiente in quanto i ponti, le ferrovie, le navi, i porti, le strade, le città sono fatti naturali che prefigurano e consolidano la possibilità del vivere civile, ecco tornare il valore della tradizione e del mestiere come fatti esperienziali di (1)
emancipazione e di progresso, ed ecco i Robinson architetti che cercano di sopravvivere “creando in modo diverso.”
M. Tafuri, “Progetto e utopia”, Laterza 1973. D. Defoe, “Sul Progetto”, a cura di T. Mandonado, Electa 1983. (3) A. Loos, “Parole nel vuoto”, Adelphi 1991. (2)
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SUL RAPPORTO TRA NATURA E ARCHITETTURA Fabio Fabbrizzi
C’è una perfezione sottile che unisce tutte le espressioni del nostro passato. Questa perfezione è la raffigurazione, ora solida ora ideale, ora astratta ora concreta, di uno stato di equilibrio che passa in molti casi attraverso la raggiunta trilaterazione tra quelli che possono essere considerati come i capisaldi dell’essenza stessa dell’esistenza: “l’uomo è l’immagine della divinità e la divinità manifesta la sua perfezione nell’equilibrio naturale”,(1) sintetizza Wittkower a proposito del Rinascimento, periodo nel quale questo equilibrio ha raggiunto uno dei suoi momenti più alti, ricordando come la natura e l’artificio si esprimono e si strutturano attraverso le stesse regole e gli stessi principi, come espressione cioè di una perfezione divina. Anche la natura costruita, cioè il paesaggio, risulta assestata su questo equilibrio che fondendo disegno e natura appunto, si mantiene, anzi si consolida nei periodi successivi, su questa trama invisibile, su questa perfetta e sotterranea alleanza che rimarrà intatta a definirne l’organizzazione fino all’epoca premoderna. Epoca nella quale l’architettura, ancora circoscritta disciplina all’interno di un più generale mondo dell’arte, continua ad essere considerata come legata alla natura da un sodalizio che rimane inalterato, esprimendosi oltre che attraverso una reciprocità che ne confonde i termini, anche grazie a quella dualità efficacemente colta dal pensiero kantiano per il quale “la natura è bella quando ha l’apparenza dell’arte; l’arte a sua volta non può essere chiamata bella se non quando noi, pur essendo coscienti che essa sia arte, la riguardiamo come natura”.(2) Epoca nella quale inoltre, vengono già contenute molte delle istanze protofunzionaliste che poi sfoceranno solo più tardi in forma più matura, ma che ancora dischiudono e custodiscono la visione di un fare in cui anche “i principi dell’architettura si fondano sulla pura natura, nei cui processi si trovano chiaramente impresse le sue regole”.(3) Anche lo stesso concetto di tecnica, consueto antagonista della realtà naturale, fino alla fine dell’Ottocento assumeva un valore che potremo definire ‘di supporto’ a questa realtà, che rimaneva comunque l’incondizionato modello di ogni riferimento. L’Ottocento vede infatti trasformare in tecnica il concetto più esteso di scienza, attraverso l’affermarsi di una realtà industriale che prima di allora non aveva conosciuto. L’architettura che è sempre momento di un sistema, scarica questa innovazione nell’atto magniloquente della celebrazione di una tecnica come monstrum intesa evidentemente come ‘altro’ dal corrente legame con la natura. Si consolida così la rottura di questi equilibri secolari, iniziata per schegge e frammenti fin dalle posizioni di un Boullée, passata poi per l’astrazione tipologica di un Durand, e approdata all’Ottocento come principale sostenitrice di quella ‘cultura della macchina’ le cui suggestioni tanto peso avranno poi nell’avvio del Novecento. Novecento che registra in maniera alterna e diversamente attenta, la perdita di questi equilibri. La celebrazione dell’irreversibile distacco da ogni legame tra natura e artificio, viene registrata in Italia con straordinaria efficacia negli enigmatici vuoti urbani di De Chirico e nei dolorosi paesaggi urbani di Sironi. Ma è già con estremo ritardo che giungiamo alla coscienza di questa scollatura rispetto ad altre realtà, ad altre culture, ad altri fenomeni di reazione, tra i quali non si può dimenticare tra tutti per efficacia e letterarietà, i solitari rammarichi di Loos sullo sradicamento tra architettura e paesaggio. Paesaggio che divenuto il referente principale al quale sono rivolti i diversi aspetti di una cultura architettonica che cerca comunque di includere la dimensione naturale nella propria annunciata trasformazione, perde a poco a poco i propri connotati fenomenici, figurativi, iconici, per assumere con sempre maggiore frequenza la più fredda accezione di ‘territorio’, traslandolo e dilatandolo in una visione che rende prioritarie le proprie componenti politiche, sociali ed economiche. Il Moderno porta inequivocabilmente con se l’esaltazione della cultura della macchina, l’estetica dell’industrializzazione, ricaden-
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do sull’architettura con i ben noti parallelismi e con le abusate metafore. Ma a ben vedere anche il Moderno è un periodo nel quale si cercano di ricostituire questi perduti equilibri cercando nuove modalità, nuovi percorsi, nuove relazioni che si riallaccino alla tutto sommato rassicurante e necessaria presenza dell’elemento naturale. Al di là dell’apparente e devo dire superficiale linea di ricognizione critica che intende legare questa categoria di pensiero all’ossessione di una architettura come esclusiva metafora della macchina, credo si possa parlare di un nuovo equilibrio, sempre tra tre termini, nei quali la divinità viene sostituita da quella che rimane comunque tutto sommato una nuova espressione dell’uomo e dove la natura cessa di essere assoluto e incondizionato riferimento, per declinarsi alle diverse componenti sulle quali il mondo del naturale si scompone se relazionato a quello del progetto, inteso ovviamente all’interno di quelle modalità proprie della modernità. Modalità che non possono però fare a meno di innescare anche sul piano filosofico la registrazione del disagio di un necessario ricongiungimento tra il mondo dell’artificio e quello della natura. E’ infatti del ’27 lo scritto heideggeriano “Essere e tempo”, nel quale viene sancita per la prima volta la scissione che l’Occidente ha intrapreso nei confronti dell’essere, sradicandosi dalla vera natura delle cose e gettando sulla scienza in quanto ‘provocatrice’ della natura, una luce di inappropriatezza e estraneamento, se posta appunto in dissonanza con l’estrema complessità che caratterizza il piano dell’essere. Ed è in questa consapevolezza, in questa tensione, ancora del tutto attuale e profondamente irrisolta, che può esistere la possibilità di percorrere una nuova linea di ispezione, un percorso obliquo cioè, ma non per questo meno stimolante, da tracciare all’interno dei consueti apparati di inquadramento che hanno teso a seppellire le posizioni degli indiscussi Maestri di questa categoria di pensiero, sotto la parziale immagine di una cieca fede nelle illimitate possibilità del futuro, che ‘riabiliti alla natura’ le loro posizioni e le loro opere. Al di là delle posizioni ormai consumate che vedevano un Wright intento a condensare nelle proprie volumetrie il senso dilatato dello sconfinato spazio naturale americano, uno spazio naturale fondamentalmente ancora intonso e fondamentalmente ancora ben separato dallo spazio della città, si può dire che è proprio la lezione europea, con la propria avviata e oramai irreversibile compromissione delle diverse condizioni del paesaggio dei vari luoghi, e soprattutto con un diverso ruolo dato alla città, a fornire un contributo prezioso al rapporto tra la natura e l’architettura. Per esempio penso al rapporto che un Le Corbusier costruisce nel corso degli anni con questa dialettica, che deve essere letto all’interno delle molteplici accezioni che il concetto di natura può generalmente assumere se riferito al fare architettura, coniugandosi a questa varietà, in maniera anche molto diversificata. Questo rapporto, durante i lunghi anni del suo operare, muta per diverse volte direzione, virando inaspettatamente lungo la linea di una continuità che non si traduce nell’abbandono dei propri termini, anzi, si può dire che, se c’è da trovare una continuità nelle diversissime fasi linguistiche lecorbusiane, questa può essere rintracciata proprio nell’articolazione della relazione naturale-artificiale. Questo rapporto tra architettura e natura si declina a tutte le accezioni che in architettura il concetto di natura può assumere, cercando di adeguarsi e di trovare risposte concrete, innovative ed efficaci al rapporto con il luogo, con il territorio, con il paesaggio, con il verde e con il clima, passando sempre attraverso operazioni di interpretazione che partono da quella serie di visioni, incorporate come archetipi durante i viaggi giovanili e registrate con precisione nei carnet, dove la presa di possesso della realtà naturale, colta nel proprio valore dialogico con l’elemento architettonico, passa sempre attraverso l’inter-
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pretazione di quella sorta di ‘riassunto’ naturale-paesaggistico-territoriale incarnato dall’orizzonte. E a ben guardare questa procedura, questo valore iniziale cioè, rimane in tutta l’opera di Le Corbusier, come icona di progetto. La ‘costruzione di un orizzonte’ è alla base di molti dei suoi progetti e delle sue realizzazioni, da quelli territoriali degli anni ’30 dei grandi piani urbanistici, a quelli di La Tourette e di Ronchamp, fino al grande esercizio del parco del Campidoglio a Chandigarh. O ancora come nell’esempio di Mies Van der Rohe, il percorso intrapreso di interpretazione dell’elemento naturale, può sintetizzarsi attorno ai due momenti principali che ne concretizzano ora le premesse, ora il riepilogo, cioè la Casa Riehl del 1907 e la Casa Farnsworth del 1945. Lungo questo arco di tempo e oltre, Mies affina quella ricerca verso una ‘spazialità compenetrata alla natura’, lavorando sulle volumetrie degli edifici, attraverso la distruzione dell’autorità di ogni punto di fuga che dissolve in una fluidità connettiva lo spazio interno a quello esterno. Le pareti, veicolo di questa smaterializzazione continuano la loro fisicità oltre lo spazio del volume, sospese nella loro caratterizzazione di ‘elemento illimitato’, di quinta ordinatrice e di indicatore di direzione, abbracciando, descrivendo e tagliando l’intorno naturale, il paesaggio, ‘abitando’ la terra e la natura circostante. Ma la vera grandezza di Mies nei confronti del rapporto uomo-architettura-natura, credo debba essere affrontato attraverso il medesimo punto di vista esclusivamente intellettuale attraverso cui egli stesso cercava di sviscerarne gli aspetti, giungendo nei vari progetti ad una sorta di tensione che viene risolta gradualmente approdando a soluzioni che al di là di un comune consenso, custodiscono nel profondo una estrema riflessione sulla natura e sulle relazioni con essa, ricercando la dimensione formale dell’essenza del rapporto uomo-natura, lavorando sulle relazioni che essa instaura con l’uomo e viceversa, lasciando così all’architettura il puro ruolo di mediazione in questo rapporto, nel cercare così di definire con sempre maggiore intensità e sempre maggiore poesia, la dimora di uno snaturato essere. O ancora, nell’esempio di Aalto, che all’incirca a metà della propria carriera affermava che “compito del costruire è realizzare uno strumento che consenta all’uomo di relazionarsi a tutte le influenze positive della natura”,(4) condensando in quell’inesauribile insieme di “influenze” rapportate ad una sempre più matura “umanizzazione della natura”, il perimetro entro il quale comprendere la totalità delle sue posizioni e delle sue opere. Architettura che assume valore, attraverso il valore del luogo naturale inteso nella propria unicità, all’esaltazione delle proprie caratteristiche naturali, al sole, al vento, all’acqua, ma soprattutto al valore dell’uomo con i propri bisogni in relazione al proprio contesto ambientale. E questo bisogno è per Aalto la molla che lo incita a superare l’omologazione ai facili linguaggi, a superare prima le reiterazioni del Romanticismo, poi i rigori del Classicismo e infine a superare i limiti del Moderno, in favore di una cifra personale mai incanalata nelle facili griglie di una appartenenza a buon mercato, ma sempre e comunque legata ad una logica operante nel rispetto della dualità tra l’architettura e la natura. La cultura architettonica italiana, sensibile già dagli anni ’30 alle varie implicazioni che il concetto di ambiente generava nei confronti del progetto, fino dal dopoguerra si dimostra molto sensibile alla lezione di apertura contenuta nel Moderno nei confronti della dimensione naturale, insinuando a più riprese nel proprio spessore teorico, la predilezione per quella particolare espressione del rapporto tra architettura e natura che fu propria della cifra organica. Anche i nostri Maestri italiani paiono inglobare ed esprimere su piani diversi e in modalità differenti, l’attenzione alla natura contenuta comunque nel Moderno. Zevi e Samonà veicolano nella cultura del dopoguerra le posizioni di Wright, assunte poi a vero e proprio modello da Scarpa, impiantandosi poi
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con declinazioni regionalistiche nel già predisposto substrato culturale, mentre la Scuola Toscana intraprende, in un procedere innovativo quanto solitario, la fusione della cifra organica a quella espressionista, dando origine ad opere irripetute per forza espressiva e per ‘radicamento’ al luogo. Ma il nesso più importante che la cultura architettonica italiana riesce ad innescare è proprio questo pensare la realtà naturale all’interno di una visione più ampia che incorpora al proprio interno la dimensione fisica e quella più ineffabile delle diverse valenze esprimibili attorno ad un rinnovato concetto di luogo e articolandosi alla base di quel nucleo teorico che ha cercato di legare lo stesso concetto di luogo a quello di tradizione. La riscoperta del concetto di tradizione come elemento ineludibile all’interno della vastità degli elementi del fenomeno architettonico, permette di dilatare questo riconoscimento di appartenenza, di cui il concetto è veicolo, a quelle ‘preesistenze ambientali’, estese anche al ruolo della città, che duplicano la stessa idea di luogo nelle proprie alterne componenti fisiche e fenomeniche, geografiche e culturali, concrete cioè e spirituali. Questo legame avviene attraverso la definizione progressiva del concetto di continuità che nell’ottica rogersiana allestisce quella necessaria ‘mutazione’ all’interno di una tradizione, prefigurando un rapporto dialettico con la memoria che può affermarsi solo attraverso una serie di operazioni di matura interpretazione. Ma le logiche comuni come sappiamo purtroppo sono state altre, queste splendide posizioni si sono tradotte solo in sporadiche realizzazioni ancora oggi solitari testimoni di una serie di altre possibilità mancate, di occasioni sprecate non cogliendole nella loro portata di innovazione e soprattutto nella loro dimensione tutelatrice. Molto spesso si è stati testimoni della rottura di questa continuità assistendo immoti allo scempio delle nostre periferie, alla distruzione di lembi di paesaggio assestati su secoli di consuetudini e di silenzioso lavoro, alla dilatazione di una città che non ha più confini che si confonde nella intercambiabilità dei ruoli con il proprio intorno, avvertendo imperante, la necessità di una nuova ridefinizione del concetto di natura e di paesaggio. Ridefinizione che dovrebbe cercare di rendere concrete quelle ormai lontane previsioni gregottiane per cui l’idea di una nuova naturalità “deve muovere, invece che verso la conservazione o ricostruzione dei valori naturali separati, verso il riconoscimento della materialità dell’intero ambiente antropogeografico come operabile e continuamente intenzionabile, e fare riferimento alla sua fruibilità totale come ad un valore indispensabile, riconoscibile come una struttura dell’ambiente al di là dello stesso modello di cultura. Si tratta, in parte, della contestazione del valore tecnologico come fondativo dell’immagine del circostante, per riproporre invece la sua integrale fisicità, il corpo vivente della natura di cui facciamo parte come comunicazione e conoscenza di nuove possibilità”.(5) Possibilità che si esprimono attraverso una nuova idea di città contemporanea che si identifica sempre più attraverso i connotati di un generale ‘ambiente totale’, dove il progetto della sua architettura si trasforma nel progetto del suo ‘paesaggio’. Accogliendo in questa ridefinizione, anche un punto di vista altamente interdisciplinare che sommi ai valori della storia e del luogo con le loro identità e le loro dissonanze, tutta la complessità contenuta nelle infinite accezioni del rapporto con la natura, appare indispensabile allora, sottoporre la natura alla modificazione della (1)
sua stessa essenza, non più intesa cioè come entità assoluta ma come una entità rela(2)
tiva, traslabile e modificabile in un costante processo di evoluzione. Processo questo (3)
che ancora una volta non potrà che riconfermare la natura come un dato indispensabile (4)
all’interno della complessità del progetto contemporaneo, proprio perché anch’essa (5)
contemporaneo e ormai inarrestabile fenomeno in continuo divenire.
R. Wittkower, “Principi Architettonici dell’Umanesimo”, Torino 1964. E. Kant, “Critica del Giudizio”, paragrafo 45, Bari, 1997. M. A. Laugier. “Essay sur l’Architecture”, Palermo 1987. A. Aalto, “Idee di Architettura. Scritti scelti 1931-1968”, Bologna 1987. V. Gregotti, “Il Territorio dell’Architettura”, Milano 1966.
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IL DANTEUM FIORENTINO Andrea Ricci - Daniele Spoletini
Armonia - “Concinnitas” “pensai et congettai” (L. B. Alberti)
“La casa deve piacere a tutti. A differenza dell’opera d’arte che non ha bisogno di piacere a nessuno. L’opera d’arte è una faccenda privata dell’artista. La casa no.[...] Dunque la casa non avrebbe niente a che vedere con l’arte e l’architettura non sarebbe da annoverare tra le arti? Proprio così. Soltanto una piccolissima parte dell’architettura appartiene all’arte: il sepolcro e il monumento [...]. Se in un bosco troviamo un tumulo, lungo sei piedi e largo tre, disposto con la pala a forma di piramide, ci facciamo seri e qualcosa dice dentro di noi, qui è sepolto qualcuno. Questa è architettura. La nostra civiltà si fonda sul riconoscimento dell’inarrivabile grandezza dell’antichità classica ...” (A. Loos)
“Scrivere senza aggettivi, costruire muri lisci” (M. Bontempelli)
“Ordine è!” “Progettare è comporre forme in ordine ...”(L. I. Kahn)
Proporre oggi il progetto del DANTEUM un moderno ‘tempio’ laico per il nutrimento della mente e dello spirito in un luogo storico come Firenze è un operazione volutamente paradossale. La localizzazione dell’area progettuale sul limitare della cerchia muraria tra Forte Belvedere e ‘l’acropoli’ di San Miniato, così come l’omonima opera irrealistica di Terragni affacciata sul cuore della Roma antica, pone certamente nel complesso delle sue infinite implicazioni il problema di nuove costruzioni in luoghi non profondamente segnati dalla storia: il problema di una continuità che non sia interpretabile come storicismo, in altre parole il ‘segreto’ dell’eterna autorigenerazione dell’architettura attraverso se stessa. Ma la paradossalità del tema non consiste tanto nella voluta condizione di ricercare un difficile equilibrio con le preesistenze storiche, quanto nella reale possibilità di diventare un preciso ‘gesto’ architettonico, un segnale mirato contro la civiltà dell’immagine imposta dai media, contro i ‘nuovi barbari’ che insidiano la nostra grande tradizione culturale. Ciò significa riscoprire il valore del silenzio e della riflessione in un mondo dominato dal ‘rumore’ degli spazi multimediali, significa anche ritrovare il valore simbolico dell’architettura, partendo dalla constatazione della sua ‘morte’, dunque un’architettura come ‘monumento a se stessa’. Tale recupero della dimensione simbolica dell’architettura non può certamente essere cosa riducibile ad una semplicistica, oltre che anacronistica eliminazione dei vincoli tecnico-funzionali connessi alla realizzazione dell’edificio e legati alla sua pratica utilizzazione, ma si attua come positiva riassunzione dell’antico modo di progettare, pensare e disegnare l’architettura nei termini di uso di una proporzionalità, che informa lo spazio.
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L’uso delle proporzioni, la rilettura di leggi armoniche riabitua a pensare architettonicamente in termini di dimensione-figurazione, recupera le ‘seste negli occhi’ obliate dall’inganno del metro ed oggi dal cattivo uso del computer, diventa infine strumento per riconquistare nella dimensione del piano, la capacita di ‘parlare’ dello spazio astrattamente, senza concessioni al retinismo dell’immagine da un lato, senza pericolosi scadimenti nella meccanica produzione di oggetti edilizi dall’altro. Tutto ciò appare funzionale alla ricerca di corrispondenze tra la struttura del poema dantesco e l’opera architettonica dal momento che progettare il Danteum significa “creare un fatto plastico di valore assoluto vincolato spiritualmente ai criteri della composizione dantesca” una riscrittura architettonica della Divina Commedia che occorre definire ed inventare di nuovo, come già è stato per Terragni. L’insieme degli spazi interni diventa lo scenario astratto del poema, luo-
ghi che parlano di questo senza mimar ne letterariamente la lingua; il Danteum costituisce un percorso, un itinerario mentale e spirituale attraverso una sequenza di eventi costruiti concettualmente analogo al cammino di redenzione e di autentica conoscenza compiuto da Dante. In questa logica ed in modo analogo al progetto romano di Terragni, il ‘muro’ segna in senso fisico e metaforico il voluto distacco dall’attuale mondo delle immagini, dalla realtà multimediale: da un lato esso è schermo impenetrabile che isola e protegge, dall’altro diventa immensa ‘lavagna monumentale’ che, integrando pittura, scultura e architettura, annuncia i propri interni processi, i meccanismi di una sua nascosta ‘ratio’. Il ‘Danteum’ fiorentino non vuole essere il tentativo di un assurda mimesi
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formale dell’edificio che Terragni avrebbe dovuto realizzare nella riproposizione acritica di quella specifica ‘lettura compositiva-spaziale’ del poema dantesco: il progetto romano rimane comunque un modello etico non stilistico. La ricerca nell’ambito del simbolico ed il perseguimento di parallelismi letterari con il poema dantesco, non possono essere disgiunti dal ‘mestiere’ dell’architetto, cioè dalla pratica di una architettura che è soprat-
tutto sapienza costruttiva senza esibizione tecnologica e capacità di dare risposte ‘spaziali’ ai bisogni dell’uomo, senza degenerare nel semplicistico funzionalismo. Oggi accade sempre più di frequente che la maggior parte degli edifici — compresi i luoghi simbolo della civiltà umana— vengono progettati come ‘macchine’, in altre parole ci si accontenta di “gettare un imballaggio di pareti e solai attorno ad un processo” (L. I. Kahn), ma l’architettura do-
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vrebbe aggiungere qualcosa ai processi utilitaristici che essa alloggia, dovrebbe renderli ‘migliori’, unici, come unico è il nesso di relazione che individua lo spazio di ogni singola creazione. Il Danteum si pone contro tale pratica del nostro presente nel recuperare il senso di una ‘monumentalità’ che non è nelle dimensioni fisiche della struttura, ma nella ‘qualità spirituale’ intrinseca al suo spazio, non è nella aprioristica rinuncia alla funzionalità, ma nella ‘trasfigurazione spa-
z i a l e ’ d e l l e n e c e s s i t à c o n t i n g e n t i i n u n o rd i n e s u p e r i o re a i b i s o g n i . Pur ospitando le funzioni ed i servizi che appaiono necessari per un centro studi volto al rilancio ed allo sviluppo di quella cultura di cui Dante è a buon diritto padre, il suo essere in senso proprio ‘monumento’ è del tutto interno al suo strutturarsi concettualmente soltanto come un giardino ed una stanza, il ‘luogo’ di una natura resa artificiale ed il ‘luogo’ di un architettura diventata pura spazialità.
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RECUPERO DELLA TORRE DEI CERCHI E DEL TEATRO NAZIONALE A FIRENZE Valeria Orgera
Nel 1997 fu presentata dalla Fondazione Pontello, all’attenzione delle tre Università della Toscana, un’interessante iniziativa rivolta a studi progettuali finalizzati al recupero ed alla conservazione di ‘emergenze’ della Regione. La proposta avanzata per uno studio operativo sulla Torre dei Cerchi ed il Teatro Nazionale di Firenze - tra le dieci selezionate - ha dato l’occasione per una ricerca complessa - sintetizzata nelle pagine che seguono - nella quale la realizzazione di una ‘sala di musica’ e di un ‘museo del teatro italiano’ nel complesso edilizio costituisce l’esito del lungo lavoro. La secolare storia della Torre e del Teatro, le loro caratteristiche tipologiche e strutturali, la privilegiata localizzazione urbana, hanno infatti consentito un’ipotesi progettuale nella quale il recupero funzionale ed il restauro concorrono a salvaguardare un bene architettonico - così reinserito a pieno titolo nel più generale processo di rivitalizzazione della città storica - sottraendolo a un degrado in apparenza irreversibile. Il grande complesso edilizio, situato nel centro antico di Firenze alle spalle di piazza della Signoria, appartiene a quel tessuto urbano medievale fortemente condizionato dal substrato della città romana. Infatti, sull’antica ‘insula’ romana definita dai decumani rappresentati dalle attuali vie Orsanmichele - Cimatori e Dante Alighieri e dai cardini minori di via de’ Cerchi e via dei Magazzini, si è strutturato il tessuto di case e torri, edifici tipici del periodo, mantenendo una continuità dimensionale con le antiche strutture delle ‘domus’ romane. Naturalmente, nel corso del tempo, il complesso edilizio è stato soggetto ad un processo di ristrutturazione continua, per le frequenti modifiche d’uso, che hanno alterato anche la primitiva immagine della torre. L’intervento di recupero deve fondarsi sull’ultimo stadio raggiunto da questo organismo fortemente stratificato, ed essere attuato con opere essenziali per evitarne la perdita definitiva nell’arco dei prossimi anni a causa di un continuo ed irreversibile degrado. Il progetto prevede la trasformazione della antica sala, che fu prima teatro e successivamente cinema, in una sala di musica e l’utilizzazione della vecchia torre scenica per un museo del teatro italiano. Le funzioni indicate sono congruenti storicamente e tipologicamente e rispondono inoltre alla domanda attuale di avvenimenti musicali e museali garantendo così la conservazione di un bene storico-architettonico all’interno del centro antico di Firenze. Infatti, ripercorrendo una sintetica cronologia degli avvenimenti storico-edilizi, nel pieno medioevo la consorteria dei Cerchi si insediò nel popolo di S. Martino, occupando con case, palazzi, loggia e torri questa area; la loro torre al Canto alla Quarconia ha mantenuto la sua struttura in pietra a filaretto, anche se in parte intonacata e alterata con successive aperture. Nel 1667 il sacerdote Filippo Franci, sotto il patrocinio di S. Filippo Neri, aprì la Pia casa del rifugio de’ poveri fanciulli di S. Filippo Neri, detta la Quarconia, testimoniata sull’angolo fra le due vie de’ Cerchi e de’ Cimatori, da un grande tabernacolo, affrescato da Alessandro Gherardini nel XVII secolo, nel quale è raffigurato San Filippo Neri, che presenta alla Madonna i ragazzi trovatelli. L’etimologia del nome Quarconia è incerta: alcuni studiosi fanno derivare il termine dalla corruzione delle due parole quare quoniam con le quali iniziava il decreto di istituzione dell’ospizio, mentre altri pensano che derivi da ‘Calconia’, come era chiamato il magistrato che giudicava furti e piccoli reati in genere. Nel 1787, dopo il trasferimento dell’Istituto di assistenza, iniziò la ‘storia teatrale’ del complesso e la rilevante variazione d’uso - con tutto quello che comportava sul piano
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edilizio - modificò l’antica unità strutturale della torre dei Cerchi che venne definitivamente alterata a beneficio delle esigenze della sala. Queste trasformazioni non erano rare nel periodo perché l’istituzione teatrale, sotto il granducato di Pietro Leopoldo, aveva acquistato una importanza sociale ed insieme rappresentativa, non solo come fenomeno culturale, ma anche come occasione per la valorizzazione del tessuto urbano circostante; intenzione molto spesso disattesa a causa di ciò che gli spettacoli, talvolta volgari, generavano nel ceto popolare, anche se il teatro era ubicato in zona centrale della città. La localizzazione dei teatri in pieno tessuto storico determinava la loro immagine architettonica; infatti erano distribuiti nei vecchi quartieri della città antica, e realizzati per lo più con ristrutturazioni del tessuto preesistente; quasi mai quindi era rileggibile nei fronti sulla strada - riordinati con parsimonia — la trasforEsempio di raddrizzamento a mosaico con software Archis (M. Giannini)
mazione tipologico-formale avvenuta all’interno. Si passava così da ingressi modesti sulle
Prospetto su via de’ Cimatori (disegno di G. Balzanetti) Planimetria di progetto a livello della sala musicale e settore museale (V. Orgera)
strade e da corridoi e ridotti passaggi interni ai grandi spazi della sala del teatro, perimetrata dai palchetti realizzati in più ordini sovrapposti e con la torre scenica ottenuta con lo svuotamento di vecchi volumi. Tutti i teatri del ‘600-’700 a Firenze furono realizzati seguendo questi criteri urbanistico-architettonici generali ed utilizzando spazialmente per la sala uno schema costante, cioè una forma ad U o a campana, trasformata poi in ferro di cavallo con una curva più o meno accentuata. Questa sala era collocata all’interno di un involucro rettangolare che portava ai bordi i servizi e gli accessori, e con una torre scenica — o vano ‘scena’ — a forma di parallelepipedo contenente sul fondo i servizi degli attori. Lo schema di impianto resterà immutato nelle sue linee architettoniche anche nell’800, con una accentuazione dei caratteri esteriori del teatro, nonostante le grandi variazioni sia delle sceneggiature e delle scenografie, sia della psicologia ed accezione teatrale della nuova società; infatti l’uso della forma di sala con una platea ed i palchetti a ferro di cavallo — detta appunto ‘sala all’italiana’ — costituirà una costante tipologica dei teatri ottocenteschi. Il primo teatro nel complesso della torre dei Cerchi mantenne il nome di
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Quarconia o di Sala della vecchia Quarconia; e fu costruito inizialmente come ritrovo privato, per divenire in seguito un teatro pubblico di carattere popolare. Nel 1826 il teatro fu rinnovato ed ampliato e prese il nome di teatro del Giglio, per eliminare nella città qualunque memoria negativa del vecchio teatro popolare. Una importante ricostruzione del teatro, col nome di Imperiale e Reale Teatro Leopoldo II, avvenne nel 1841 sotto la direzione dell’architetto Vittorio Bellini, che aveva già ricostruito a Firenze il teatro Alfieri nel 1828; tra le varie opere edilizie che la ristrutturazione comportò, le principali riguardarono gli spazi per il pubblico e la sala che fu dotata di cinque ordini di palchi a ferro di cavallo. Furono particolarmente curati i decori ed i dettagli, tra i quali il grande sipario del teatro che fu dipinto dal pittore Cosimo Menitoni con un’opera considerata, a quel tempo, “meritevole e degnissima” . Ma anche la stagione fortunata dell’Imperiale Teatro Leopoldo ebbe breve durata; il teatro riacquistò il suo tradizionale carattere popolare sia per il cartellone che per gli spettatori e la modesta vita del teatro - che aveva intanto cambiato nome in Nazionale nel 1859 alla partenza del granduca seguì alterne vicende fino al 1926 quando entrò nel circuito cinematografico e come cinema rimase fino alla chiusura avvenuta nel 1984. Prospetto su via del Canto alla Quarconia (disegno di G. Balzanetti)
All’esterno, attualmente, la torre dei Cerchi ha conservato la sua struttura in pietra a filaretto fino al quarto livello e sulla via dei Cerchi una cesura evidenzia la torre dal
Pianta piano primo, stato attuale (V. Orgera)
contiguo edificio, mentre le parti più alte sono trattate ad intonaco indicando in modo evidente le trasformazioni ottocentesche. Sui due fronti della torre sono ancora visibi-
Pianta piano ammezzato, stato attuale (V. Orgera)
li i fori delle ‘buche pontaie’, con le mensole sottostanti; al contrario il fronte intonacato del teatro su via dei Cimatori è privo di particolari decorazioni ed evidenzia il volume della sala, insolitamente più alto rispetto a quello del palcoscenico. Solo l’ingresso principale è segnalato da un alto portone sormontato da un piccolo padiglione in ferro e vetro ed all’angolo tra via dei Cerchi e via dei Cimatori rimane il tabernacolo che ricorda la prima trasformazione del complesso in Ospizio. All’interno la vecchia torre conserva la sua struttura muraria originaria fino all’altezza della sala dove sono state demolite le due pareti interne per ricavare un vano scala e servizi al pubblico. Al teatro si accede attraverso un atrio che si apre su via dei Cimatori, con uno scalone che porta al primo piano dove è posizionata la platea della sala; questa conserva la struttura ottocentesca con i cinque ordini di palchi ed il ‘palco regio’ e la cavea è stata solo in parte alterata dalle trasformazione degli anni Venti a sala di proiezione cinematografica; le modifi-
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che più rilevanti riguardano i tre palchi centrali dell’ultimo ordine trasformati in cabina di proiezione e la rozza imbiancatura che ha coperto il dipinto dell’arco scenico e del soffitto e le decorazioni dei palchetti. Il progetto prevede il restauro architettonico e strutturale e di adeguamento normativo dell’intero complesso,
oltre al recupero delle decorazioni. Gli elementi di ‘integrazione’ necessari per
Prospetto su via de’ Cerchi (disegno di G. Balzanetti)
realizzare l’uso dell’organismo sono di conseguenza interpretabili come ‘arredi leggeri’ ottenuti con strutture metalliche ed impalcati in legno, da inserire nella
Sezione trasversale (V. Orgera)
‘scatola muraria’ opportunamente consolidata. Gli obiettivi operativi sono volti ad un restauro filologico di carattere prevalentemente conservativo sia sul piano architettonico vero e proprio che funzionale; infatti la previsione di una sala di musica nell’antica sala teatrale permette il restauro della sala-platea con i caratteri costruttivi originari, ed il ripristino dei cinque ordini di palchi esistenti, completati dei loro elementi costitutivi e integrati dei loro elementi decorativi. La previsione del ‘museo del teatro italiano’ nella zona della vecchia ‘torre scenica’ permette inoltre la conservazione integrale del volume esistente nella sua globalità di percezione, soprattutto attraverso l’arco scenico. Di particolare importanza e significato la previsione del restauro pittorico del sipario storico, simbolo della continuità tra passato e presente.
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ANTROPOLOGIA DELLO SPAZIO. UNA DISCIPLINA PER LA PROGETTAZIONE Maria Gabriella Pinagli - Ulisse Tramonti
Il nostro intento, in queste pagine assegnateci nella rivista del Dipartimento, è quello di dare ragione dei passaggi essenziali che ci hanno coinvolto nella formazione della disciplina europea ‘Antropologia dello spazio’, di sottolineare quali ulteriori opportunità sono derivate da ciò, e come i Corsi di cui eravamo titolari hanno parallelamente sviluppato i propri contenuti, anche in funzione dei medesimi rapporti inter nazionali. Ancor prima di entrare a far parte del gruppo europeo, parte del nostro lavoro era rivolto ad una rilettura dei temi della Scuola fiorentina, non per fini di natura storica ma piuttosto perché eravamo della convinzione che i temi di questa ‘tradizione’, prima di subire la cancellazione da parte dei ‘nuovi poteri nazionali’ nell’ambito della progettazione, potevano essere reinterpretati in modo creativo e operativo rispetto alle necessità del tempo. Erano gli anni in cui esemplificare il progetto attraverso gli scritti e le opere di quelli che erano stati i nostri professori risultava inconsueto, deviante, per cui appariva emblematico venire a conoscenza che i nostri allievi erano attenti lettori delle riviste di architettura ma che ignoravano totalmente le ragioni della nascita e dell’impostazione che Firenze aveva dato alla sua facoltà. Non sembri comunque singolare il rilevare come chi faccia parte di questo nostro piccolo gruppo non è nato anagraficamente a Firenze. Tra le diverse sedi universitarie, in cui costruire la propria formazione di architetto, lontane dai luoghi dei nostri studi liceali, si è scelta Firenze perché facoltà in cui i Corsi, in continuità e discontinuità con il passato, non dimenticavano di rapportarsi alle scienze umane. Tanto più che le operazioni progettuali ‘manifesto’ della scuola, come la stazione di S. Maria Novella e la costruenda Chiesa dell’Autostrada per l’architettura e il Piano Detti per l’urbanistica avevano suscitato e suscitavano grande interesse nel dibattito nazionale. Un interesse riconosciuto che le altre scuole hanno teso a perimetrare, attribuendo loro caratteri di unicità piuttosto che matrici esemplificative di un modo di costruire il progetto; operazioni che, in qualche modo, erano ‘antesignane’ rispetto all’essere e al farsi del progetto e che sembrano ancora oggi for nirci strumenti sul come muoversi, sul come ‘pensare’ il futuro; operazioni che si materializzano in tempi storici diversi e che possiedono un elemento di forte analogia: quando i vecchi riferimenti ‘vanno a pezzi’ e il nuovo non si è ancora stabilizzato e consolidato, chi possiede sensibilità ai problemi e cultura, possiede le risorse che riescono ad orientare e a sviluppare al massimo la propria intelligenza creativa. Oggi, con una certa soddisfazione e, per certi versi, facendosi da parte, anche per non far la fine del vaso di coccio di manzoniana memoria, vediamo pubblicazioni, convegni e mostre intorno ad alcuni Maestri della Scuola ma, talvolta, ci sfiora l’idea che si tratti di ‘rito’ piuttosto che di sostanza. Conoscevamo infatti una scuola in cui si confrontavano, persino ‘troppo’, le diverse posizioni culturali mentre, ora, non si sa più se decidersi per l’indifferenza, per l’impossibilità a muoversi per ragioni di tipo endogeno e/o esogeno, per stanchezza. Indubbio che vi sia una generalizzata, anche se non totale, acquiescenza rispetto ad una rigida strutturazione organizzativa rispetto alla formazione e ai percorsi didattici offerti agli allievi: l’autoreferenza
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della progettazione induce a non voler pensare al cambiamento, ma erroneamente a pensare che il cambiamento sia dominabile, senza riflettere che non si è più in situazione di linearità di sviluppo, secondo una visione newtoniana di continuità. Forse, in modo indistinto, prima ancora delle rimozioni ideologiche da parte nostra, si rifletteva intorno all’assetto di discipline quali Architettura Sociale e Caratteri Distributivi degli Edifici che, nella facoltà, non erano riuscite indenni da osservazioni estremizzanti, ma che, al contempo, si erano appiattite o rischiavano di appiattirsi in ambiti eminentemente funzionali. Già allora, anche se informalmente, si erano avviate prime collaborazioni con colleghi stranieri sulle tematiche dell’Antropologia dello Spazio; contemporaneamente, il ‘nuovo’ assetto dipartimentale tentava operazioni aggregative di docenti, intorno a metodologie o a temi specifici: si costituì, nell’A.A. 1991-92, l’Unità funzionale “Spazio, architettura e società”. Tale unità faceva capo ai docenti titolari dei Corsi di Architettura Sociale, Caratteri Distributivi degli Edifici, Sociologia Urbana e Rurale e Teoria dei Modelli per la Progettazione, nell’intento di superare la schematicità degli ambiti disciplinari, di dare continuità all’impronta della Scuola Fiorentina, di essere di supporto alla progettazione. Inizialmente il lavoro del gruppo europeo, costituito da antropologi, sociologi, geografi, storici, giuristi ed architetti di scuole politecniche e di scuole di architettura, trovava legittimazione e finanziamenti dall’allora CEE ed era finalizzato alla formazione e definizione dell’impianto scientifico della disciplina che, partendo da caratteri di interdisciplinarità, doveva chiarire strumenti, metodi, finalità. - L’elemento aggregativo iniziale era scaturito da un lavoro scientifico dal titolo “Anthropologie de l’espace”, dovuto a Françoise Paul-Levy e Marionne Segaud, pubblicato a Parigi intorno alla metà degli anni ‘80 che, analizzando situazioni antropologicospaziali di società ‘primitive, storicamente inquadrabili’ rintracciava i primi ‘paradigmi’ di interconnessione tra spazio organizzato / luogo / cultura. La grande tradizione sociologica e antropologica francese tentava qui un approccio alla comprensione dell’architettura e degli insediamenti attraverso interconnessioni disciplinari. Questo volume, divulgatissimo soprattutto negli USA, in Canada ed in qualche paese dell’Europa occidentale, non trovava riscontri nelle scuole antropologiche italiane, forse perché non ancora investite dai problemi spaziali propri dell’architettura.
Certamente l’agilità organizzativa e didattica della facoltà di Firenze, così come si presentava prima del ‘nuovo ordinamento’, ha consentito di lavorare su più tematiche come “Identità spaziali della città mediterranea”, “Mobilità e uso della città”, “Il territorio come bene culturale”, ecc. e da parte nostra, dato che eravamo un esiguo gruppo di docenti, la ricerca e la sperimentazione nei corsi e nei seminari, ha potuto essere estremamente produttiva grazie al contributo di molti colleghi architetti, cooptati in veste di ‘addetti alle esercitazioni’ e alla partecipazione vivace di molti nostri allievi che si sono impegnati, collaborando nella costituzione di mostre, in Italia e all’estero, nella formazione di pubblicazioni e cataloghi. (1)
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L’offerta didattica che l’Unità funzionale forniva, attraverso le discipline ad essa afferenti, si articolava come segue: - Architettura Sociale, disciplina che assume la caratteristica di trasferimento dei processi cognitivi in progetti specifici; - Caratteri Distributivi degli Edifici, disciplina che si configura come caratterizzazione dei sistemi di aggregazione spaziale; - Sociologia Urbana e Rurale, disciplina che analizza l’evoluzione societaria nell’ambito dell’organizzazione dello spazio definito da elementi di pensiero, sociali e fisici; - Teoria dei Modelli per la Progettazione, disciplina che costituisce elemento di sintesi tra istanze culturali e progettazione nell’interazione dinamica teoria / operatività.
In quegli anni le finalità, riguardo alla disciplina Antropologia dello Spazio e le attività di interscambio a livello europeo entrarono a far parte dei programmi Erasmus e, in seguito Socrates e ciò ha consentito una mobilità studentesca che a tutt’oggi supera le cinquecento unità oltre all’opportunità di teaching staff reciproci tra le diverse sedi europee, alla indizione di reseau organizzativi e scientifici nelle varie sedi europee e alla pubblicazione annuale di un test book in cui apparivano e appaiono i contributi dei docenti inseriti nel programma. (2) Successivamente oltre al riconoscimento della disciplina, da inserirsi nel quadro didattico delle facoltà afferenti, l’U.E. ha inteso finanziare la formazione di un master europeo (CDA) che avrà inizio nel 2000, con l’assegnazione di 35 borse di studio. Contemporaneamente veniva costituito il Centro internazionale di Antropologia dello Spazio con sede sociale a Lione e con sede di ricerca operativa in Firenze. Mentre rimane assolutamente incomprensibile, soprattutto ai colleghi stranieri, che il quadro delle discipline che hanno contribuito, per la propria specificità, alla costituzione della disciplina europea (fatto salvo per Caratteri Distributivi degli Edifici), siano scomparse dal quadro didattico delle facoltà italiane, le stesse Conferenze dei Presidi delle facoltà di Architettura italiane disattendono costantemente le istanze dell’U.E. che raccomanda per azioni, programmi, progetti e formazione l’interconnessione attività disciplinare scientifico-tecnico con quelli delle scienze umane. A tutto campo si parla di crisi del progetto, di fine della storia e l’ermeneutica così come la critica, più o meno militante, paiono essere l’ultima possibilità di agire, di operare nel reale. Nella cosiddetta ‘società dell’incertezza’, nella società della fine della scientificità, così come era stata intesa, un aspetto fondamentale è costituito dal recupero dell’etica del progetto. Il progetto, in questa dimensione, non è però da intendersi come tecnica funzionale alla realizzazione o alla definizione di obiettivi sociali, ma come un vero e proprio processo di apprendimento sociale, attraverso il quale si delinea una scoperta del futuro, dunque una prospettiva orientata di cambiamento. Possiamo in un certo senso dire che la progettazione, nel suo valore etimologico di ‘gettare innanzi’, è il nodo di Gordio per la riduzione dell’in-
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certezza e, contemporaneamente, un produttore di nuova incertezza da ridurre. Il progetto porta, dunque, con sé il senso di operare per il futuro. Il progetto è l’essenza delle trasformazioni in atto, è il movimento di ‘farsi altro’, è presenza differita, dove il virtuale tende ad attualizzarsi, ad emergere, senza essere passato per una concretizzazione effettiva/formale; al contrario del ‘possibile’, il progetto è un complesso problematico, è il nodo di tendenze e di forze che accompagna una situazione, è la negazione della ‘mano invisibile’. Allora non possiamo definirlo come mera analisi delle necessità, ma una autentica strutturazione condivisa di possibilità. In fondo l’idea di progetto ha in nuce quella di cambiamento di paradigma, che esclude l’idea di una realtà dove tutto avverrebbe come se, in fondo, l’immobilità fosse la vera regola. Per definire una disciplina in formazione, in un momento in cui i confini disciplinari si sgretolano, la multidisciplinarietà risulta essere la condizione necessaria ma non sufficiente e forse l’ipotesi di partenza dovrebbe riconsiderare il concetto di progetto, come processo compiuto di apprendimento, anzi di apprendimento dell’apprendimento. Il processo di evoluzione di una disciplina non può mai essere considerato del tutto autonomo, determinato solamente dalla sua logica interna. Un nuovo paradigma non è una conseguenza logica, un affinamento o una generalizzazione di quello che l’aveva preceduto, ma è una maniera del tutto nuova di interpretare ed osservare i fenomeni. (3) Il cambiamento che interess a u n a n u o v a i m p o s t a z i o n e d e l l e p ro b l e m a t i c h e d i s c i p l i n a r i n o n è descrivibile o sottoponibile esclusivamente alle relazioni determinate sulla base di considerazioni logiche e metodologiche; i fattori esogeni alla disciplina, che Francesco Capra definisce paradigmi sociali, sono altrettanto determinanti. (4)
Questa premessa induce a due diverse considerazioni: In questa prospettiva la scienza non è in grado di risolvere crisi, ma solo di generarne; Il processo di transizione all’inter no del sistema scientifico tra un paradigma e l’altro non include aspetti di tipo cumulativo.
L’antropologia dello spazio si colloca tra quelle discipline che, con Roger Caillois, (5) potrebbero essere definite diagonali, che tendono ad elaborare una conoscenza in grado di permettere la percezione di un genere di relazioni che solo un sapere polivalente è in grado di stabilire. Il suo genus è costituito dalla volontà di leggere ed interpretare i luoghi — spazi culturalizzati, dunque dotati di senso —, senza il prevalere della logica della semplificazione, che rischia di privare l’oggetto di studio delle problematicità di cui è espressione. Se, infatti, così come scriveva Marcel Mauss, (6) l’unità sociale non è da identificarsi con la tribù ma, piuttosto, con l’insediamento, questo assume una duplice valenza, è al contempo un raggruppamento sociale ed una unità territoriale. Ne deriva che l’insediamento ha in sé il concetto di unità religiosa, linguistica, sociale, in
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breve il senso di appartenenza, l’identità: è contemporaneamente la forma e il contenuto delle relazioni che possiedono fini comuni. Del resto il concetto di ‘comunità’ si riferisce ad un sistema socio spaziale di dimensioni limitate: non esiste un essere sociale senza un’interpretazione spaziale. La configurazione, o meglio, tutte le possibili configurazioni della comunità sono ciò che rappresenta l’essenza del sistema di vita. Le considerazioni fatte non vogliono limitarsi a sottolineare che esistono tanti spazi quante sono le comunità che li abitano, non è solo l’affermazione di un relativismo culturale per le diverse letture dell’esperienza spaziale, vuole piuttosto sostenere che esiste una incessante costruzione di senso del tessuto comunitario che parte dall’esperienza degli spazi.
In un certo senso lo spazio è equiparabile ad altri fenomeni di radicale significanza per il tessuto comunitario ma, allo stesso tempo, difficilmente riducibili e veicolabili al ‘puro’ dato culturale, perché inseriti in una dimensione ‘altra’, quella caotica, che irrompe a frantumare la solidità dell’ordine sociale. Questi fenomeni sono aspetti ‘interstiziali’, sono, per parafrasare Jorge Luis Borges, la visualizzazione degli interstizi di assurdità che mostrano la continua falsificazione del mondo ridotto a parametri razionalizzabili. Ne ha data chiara testimonianza l’antropologo italiano Er nesto De Martino, sottolineando che la prima vera forma dell’‘esserci’ sociale è il riscatto culturale dall’indifferenziato, l’espressione ideologica e istituzionale entro la quale si muoveranno le esperienze individuali. La possibilità di annettere culturalmente lo spazio in modo da renderlo luogo, di una forma mitologica, storica, sensoriale, che costituisce l’unica garanzia dell’esserci, che nega la crisi della presenza, dell’oggettività del mondo. E’ peraltro vero, come scrive Marc Augè, (7) che è tramontata l’idea che il tempo sia un principio di intelligibilità: non sempre, come dimostrano i fenomeni spaziali, il prima serve a spiegare il poi, o non è del tutto sufficiente. Lo spazio urbano della postmodernità lo dimostra chiaramente: le condizioni sociali e culturali di tante metropoli rendono estremamente fragili i centri nevralgici, pensiamo alla situazione delle aree di crisi industriale, dove l’abbandono di porzioni enormi di costruito, una volta quasi altri tessuti urbani rispetto all’insediamento storico, rimette in discussione l’essenza stessa del concetto di città storica. Le città, pur perpetuando pratiche sociali e spazi precedenti, li hanno comunque ridefiniti nel loro senso profondo: la ‘generazione’ di senso è un’opera incessante, creata dalla collettività quasi in un moto perpetuo, è la condizione dell’essere allo spazio. Il senso dell’antropologia dello spazio non vuole dunque essere quello di scoprire verità immanenti o nascoste, ma neppure quello di ridurre il fenomeno spazio in una somma di pseudo-asserti, ma piuttosto di contribuire a leggere i fenomeni spaziali per produrre strumenti utili alla progettazione. Oggi il problema delle città è diventato un coacervo di tematiche entro cui confluiscono praticamente tutti i problemi della contemporaneità, una sorta di specchio
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privilegiato capace di riflettere le contraddizioni di questo ‘evo di mezzo’: dai problemi connessi alla pianificazione e al controllo di uno stato che si sta trasformando da sistema di regolamentazione a uno di regolazione, ai problemi ambientali, d’inquinamento dell’aria e delle acque e del suolo, a quelli economici, con la metropoli che si trasforma in uno dei più importanti porti d’accesso ai mercati globali. A questo si aggiunga una pletora di ulteriori problematiche, che vanno dall’occupazione al conflitto sociale, che nelle città ha sempre trovato il proprio luogo deputato, alla crisi del welfare: in breve le prospettive di sviluppo e di crescita della comunità. Evidentemente, quando parliamo di ‘crisi della dimensione urbana’, non lo facciamo a causa dei suoi problemi, urbanistici o sociologici che siano, ma perché diventa difficile immaginare la città stessa. Oggi è difficile prefigurare la città perché stanno venendo progressivamente a mancare quelli che sono sempre stati riconosciuti come caratteri intrinseci della dimensione urbana: fenomeni quali le aree metropolitane o la campagna urbanizzata, contribuiscono alla cancellazione del tipico profilo urbano, restituendo un insieme di problematiche che superano quelle legate all’attribuzione di senso, alla definizione di comunità, per giungere all’enorme difficoltà di pensare agli strumenti di governo del territorio.
Tra i diversi temi di ricerca che il nostro gruppo avrebbe potuto portare ad esemplificazione dell’Antropologia dello Spazio, si è preferito scegliere quello che più immediatamente si riconnette agli interessi della sezione “Architettura e Città”, nell’intento di chiarire quale possa essere la collocazione della disciplina nel più ampio ambito della progettazione.
Il tema delle aree metropolitane, oltre a connettersi ‘naturalmente’ con le problematiche relative allo sviluppo dell’urbanizzazione in Italia, fa riferimento ad un preciso titolo della “legge 142/90”, sull’Ordinamento delle Autonomie Locali, legge che realizza la previsione sul futuro modo di abitare e di autogover narsi dei cittadini italiani. L’istituto dell’area metropolitana rappresenta una prima risposta istituzionale al fenomeno delle conurbazioni, rivedendo gli strumenti amministrativi e politici alla luce di realtà territoriali sempre più complesse. Si tratta, dunque, di una avanzata risposta istituzionale ai numerosi problemi che il fenomeno delle conurbazioni, delle infrastrutture, delle attività economiche ‘globali’ dei servizi essenziali alla vita sociale pongono alle amministrazioni delle diverse realtà territoriali. Uno dei problemi europeisti, come si desume chiaramente dalle vicende politiche degli ultimi anni, sarà nelle ‘forme’ con le quali il localismo potrà manifestarsi per queste aree: come per le comunità montane, infatti, il territorio di pertinenza costituisce l’aspetto sostanziale del problema. I dubbi più radicati stanno sulle caratteristiche di queste aree metropolitane, visto che non tutte possiedono i requisiti minimi definiti dagli strumenti urbanistici o da un certo sviluppo storico. La 142/90 non dà dei parametri di identificazione, ma esistono naturalmente indicatori analiti-
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ci in grado di fornirci qualche parametro, anche se va tenuto in considerazione che, per via di uno sviluppo storico del tutto peculiare, le città italiane sfuggono ad ogni tipo di parametro. Un esempio su tutti: se si prendesse come standard quello francese dell’appartenenza all’area metropolitana di almeno 30 comuni, Roma, la capitale d’Italia, non avrebbe i requisiti di accesso. Altri aspetti molto controversi, se confrontati con le esperienze di altri paesi, sono nella rigida delimitazione dei confini dell’area metropolitana richiesti dalla normativa. In altri contesti europei e statunitensi, questi confini sono ritenuti un aspetto non particolarmente vincolante, vengono anzi abbattuti per essere sostituiti da aggregazioni ‘volontarie’ di comuni, perché più flessibili ai cambiamenti strutturali emergenti. L’apparizione della riforma degli enti locali ha avuto, sul piano della ricerca sociologica, l’effetto di un sasso lanciato nello stagno, rilanciando il tema ‘urbano’ alla ribalta, dopo anni di relativa marginalità. Ma l’aspetto più significativo, ai nostri fini, è indubbiamente la necessità di prendere atto che l’area metropolitana non è solo una revisione della normativa degli enti locali, ma una forma diversa di concepire la città e la comunità. Il ‘confine’ della città è qualcosa di sempre più sfumato ed incerto, soggetto ad una fitta rete di interrelazioni che vanno a connotare nuove ‘marginalità’ sociali e culturali. In questa prospettiva è necessario subito distinguere tra il concetto di metropoli e di area metropolitana. Nella prima, vanno ricondotte tutte le realtà proprie di una certa fase dello sviluppo del territorio: c’è insomma un collegamento chiaro tra metropoli e area urbanizzata. La distinzione tra ciò che è metropoli e ciò che è ‘periferia’ rurale è nettissima, qui si definisce chiaramente il concetto di dominanza, cioè la tendenza di un polo urbano di annettersi le funzioni del territorio circostante, imponendo a suo favore la consistenza culturale e strutturale. Si parla insomma del tradizionale ruolo polare dei grandi nuclei urbani, ruolo che sviluppa fortemente un modello economico e amministrativo dominante. L’area metropolitana innesca rapporti e interdipendenze enormemente più complessi. Si pensi a situazioni territoriali quali quelle della periferia fiorentina che, dalla fine dell’800, nella zona nord est, verso Sesto Fiorentino, ha prodotto un modello urbanistico del tutto peculiare, che sfugge alle definizioni tradizionali: la campagna urbanizzata. Da un punto di vista urbanistico l’area metropolitana va considerata come il prodotto di tre livelli sociologici da quello di scala più ampia, ‘macro’, cioè la geopolitica e la globalizzazione delle economie, al livello intermedio che considera le trasformazioni urbane, l’economia regionale, a quello microsociologico che definisce i rapporti tra la popolazione e la città, con gli aggiustamenti necessari per definire amministrativamente le sub-aree urbane collegate a qualche importante funzione istituzionale. Le aree metropolitane rischiano di omogeneizzarsi nella predisposizione del proprio segmento terziario direzionale perdendo ulteriormente di vista altri obiettivi di riequilibrio sociale, minacciati dalle chiare tendenze del mercato organizzato. La città dei ghetti, delle barriere ar-
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chitettoniche e culturali, la fine della pedonalità e dell’utopia dell’incontro segnano chiaramente la fine della città come civitas.
Il problema, oggi è chiaro, non è certo più quello delle economie di scala, vanificate dall’avvento massiccio delle nuove tecnologie, quanto il peso comunque rilevante che le aree metropolitane avranno per lo sviluppo di tutto il territorio e la relativa economia. E’ comunque nelle metropoli che hanno (e avranno) sede le direzioni dei grandi gr uppi industriali, le tecnologie avanzate, le strutture di ricerca sia universitarie che private, il sistema delle infrastrutture, le attività direzionali bancarie e finanziarie, i servizi alle imprese e alle persone, la politica territoriale volta verso l’innovazione. Strutture e funzioni di vario tipo, insomma, che ricentralizzano il ruolo della città nonostante per anni qualcuno ha voluto leggere una imminente fine della metropoli: se la città industriale si basava sul trasporto delle merci, sul contatto fisico tra chi presta e chi riceve, si trovava nella condizione di essere il meccanismo trainante per l’economia e poteva svolgere questa funzione senza grand i s p o s t a m e n t i d i p o p o l a z i o n e . L a m e t ro p o l i c o n t e m p o r a n e a , i n v e c e “contiene un numero di funzioni tali da poter esser e svolte solo ricevendo / trasferendo grandi masse”. (8)
Questi aspetti interferiscono pesantemente sul tessuto architettonico urbano, così come in quello sociale dei cambiamenti assolutamente radicali. Se la città tradizionale era soprattutto luogo del lavoro e della residenza, oggi si è trasformata in luogo della ricreazione e degli scambi. Del resto industria e urbanesimo sono aspetti che spesso risultarono fortemente connessi e che, nel secolo scorso, cambiarono già radicalmente il senso della città storica. La città, per quanti cambiamenti ‘sopportasse’, era un’entità fissa, chiaramente definita culturalmente e geograficamente, anche quando mutava di forma e di dimensione. Bisogna inoltre precisare che oggi, dopotutto, è veramente difficile stimare il numero di abitanti di un polo urbano; su chi fruisca davvero della città il dibattito sociologico, finalizzato a rendere più pertinenti gli strumenti di analisi demografica, è apertissimo. Si pensi ai cosiddetti “city users”, che vanno dal turista allo studente, al “metropolitan businessman”, che sono in grado di cambiare completamente il volto della città. L’attuale ridefinizione della 142/90 sul ruolo degli Enti Locali, soprattutto per quello che concerne le aree metropolitane, tende anche a rafforzare la vocazione alla competitività economica di ciascun centro. In altri termini uno degli aspetti sostanziali è stimolare l’innovazione. Del resto innovazione non è solo la fase intermedia di un processo, è tutto il processo, in ogni suo aspetto.
Hanno collaborato gli Architetti Maria Gordini e Marco Bianchini.
(1)
Il sistema territoriale Garfagnana. Castelnuovo Garfagnana (Lucca) 28 luglio-31 agosto 1993 - Identité de la Ville Mediterraneéenne. École d’Architecture de La Villette. Paris. 15 maggio -15 giugno 1994 - Gli Istituti di beneficenza a Firenze. Storia e Architettura Montedomini, Firenze 24.4.98/ 25.5.98 (2) Università Statale Barcellona, Etsab Barcellona, Università Complutense di Madrid, Università Nova Lisbona, Ecole d’Architecture de Paris La Villette, Università Paris X Nanterre, Università della Franca - Contea Besançon, Politecnico di Atene, Politecnico di Salonicco. (3) Cfr. Kuhn, “La struttura della rivoluzione scientifica”, Einaudi, Torino 1976. (4) Per paradigmi sociali si intende quella “costellazione di conclusioni, concetti, valori, tecniche, percezioni e comportamenti condivisi da una comunità, che danno forma ad una visione del mondo.” Cfr. F. Capra, La rete della vita, Rizzoli, Milano 1997. (5) R. Caillois, “L’occhio di medusa”, Raffaello Cortina Editore, Milano 1998. (6) M. Mauss, “Teoria generale della magia ed altri saggi”,Raffaello Cortina Editore, Milano 1998. (7) M. Augè, “Nonluoghi”, Eléuthera, Milano 1993. (8) Per avere un’idea dell’entità del problema, si pensi che la voce “Viaggi e trasferte” è al 4°posto nei rendiconti di spesa delle grandi multinazionali, dopo, nell’ordine: materie prime, salari, elaborazione dati. Cfr. G. Martinotti, Metropoli, Il Mulino, 1993.
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ASSONANZE DI FINE MILLENNIO Antonella Cortesi - Renzo Marzocchi
“Un incubo stava sdraiato sul mio spirito, come un gatto su un bambino. Ero ignaro, inconsapevole; non immaginavo che potesse esserci qualcosa di diverso; sommerso com’ero dal salotto, ero convinto che il salotto fosse il mondo intero”. (1) Così noi, agli inizi degli anni Settanta; giovani laureandi ignari, inconsapevoli e guasconi, mentre cercavamo nuove dimensioni per il progetto architettonico, raggiungemmo la convinzione che architettura e città fossero fenomeni inscindibilmente legati, e che un progettista non potesse fare a meno di attraversare questo insidioso guado. La città —dicevamo— non è riconoscibile in un insieme di oggetti edilizi; è interazione fra gli uomini che vivono in comunione di intenti ed il luogo da essi costruito. Eravamo convinti che le risposte ai problemi che affliggono la città non potessero essere trovate affidandosi alle sia pur raffinate tecniche urbanistiche, né tanto meno alle regole recitate dal razionalismo, né a quegli storici dell’architettura che applicavano questa espressione agli ‘edifici progettati con fini estetici’, né ai movimenti inneggianti alla trasgressione —in auge in quegli anni— che sollecitavano molti spunti creativi e culturali, ma che per noi non coglievano la sostanza del problema perché affondavano le loro radici nell’effimero, mirando ad un’utopica e transitoria felicità. Sono molti, oggi come allora, coloro che condividono quelle finalità; lo dimostrano i fatti concreti e gli eventi architettonici più noti, che continuano ad affermare l’‘effimero’ e lo ‘stupefacente’. In quegli anni, il nostro giovanile entusiasmo e il desiderio di affermare quei valori in ambito architettonico cercò di cogliere l’occasione offerta dall’Istituto di Composizione Architettonica IV-V dell’Università di Firenze —presso il quale stavamo elaborando le nostre tesi di laurea— che aveva scelto come tema principe l’‘edilizia scolastica’. La scelta di quel tema come argomento di tesi fu tutt’uno con il rifiuto della logica stessa dell’edilizia scolastica —a dir la verità, con una discreta presunzione da parte nostra—. Accompagnati in questo non facile percorso di ricerca dal nostro amato relatore, Professor Gianni Sestieri, elaborammo, in due tesi di laurea separate e consecutive, una piccola teoria, che alla nostra ingenuità e alla nostra ignoranza appariva come ‘rivoluzionaria’: cercavamo di superare l’equazione ‘età scolare=edifici scolastici’, e di uscire dallo schema funzionale ‘edilizia scolastica=edificio-scuola’, per arrivare ad affermare —in sintesi— che il ‘percorso educativo’ di ciascun cittadino poteva coincidere con il ‘tessuto urbano’, a condizione che quest’ultimo fosse riconducibile a specifiche caratteristiche e qualità architettoniche afferenti a ciascuna fase evolutiva. Senza tali caratteristiche e qualità —sostenevamo— la città non educa, dunque non è città, pertanto non è neppure architettura. Questo era l’assunto centrale.
A partire da esso, cominciammo ad esplorare la realtà urbana, nella speranza di arrivare a coglierne la sostanza, quella che, aldilà delle convenzioni e delle regole nonché delle trasgressioni, potesse condurre ad una sorta di DNA della città, ed ancor meglio ai Quark, ovvero alle componenti elementari —se mai esistono— dell’archi-
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tettura e della città. Per arrivare a questo, sembrava indispensabile scomporre gli elementi noti, secondo parametri che —in quel caso— erano riferiti al tema della formazione dell’individuo, ma che per noi, successivamente, avrebbero trovato riferimento in alcuni valori-matrice sui quali si imposta la vita dell’uomo urbano: quelli che Louis Kahn chiamava ‘aspirazioni’, e che nella fucina temporale della storia divengono ‘istituzioni’. Era necessario arrivare a ricercare, nella città —dicevamo e ancora sosteniamo— come si manifestino le espressioni del ‘senso del...’ (della libertà, della giustizia, della religiosità...), perché queste espressioni soltanto individuano i caratteri della città, il ‘genius civitatis’. Esse distinguono una città da un’altra, concretizzando le alchimie specifiche di quel ‘vivere’ urbano. Ancora oggi dobbiamo scoprire il quando e il come della loro attuazione nella città costruita, ma non rinunciamo a questa ricerca. Allora, come ora, si trattava di un esercizio privo in buona parte di scientificità; ma l’intuizione e la creatività non sono forse ingredienti importanti della scienza? E poi —ci domandavamo— l’architettura deve essere solo galileiana scientificità? Si trattava comunque di un ragionamento tendente a s u p e r a re a l c u n i c o n d i z i o n a m e n t i d e l l a c u l t u r a i m p e r a n t e , a s u p e r a re l’identificazione dell’architettura con l’edilizia dell’oggetto costruito e con la sua ‘estetica’ (È ‘bello’, quindi è architettura!). Su queste premesse, non si poteva non arrivare alla convinzione che fosse necessario, una volta ‘destrutturata’ la realtà —era il 1971— ricomporla attraverso ‘sistemi’. Svolgevamo questa ricerca esercitandoci prevalentemente attraverso la verifica didattica, che, come assistenti del Professor Gianni Sestieri prima e del Professor Piero Paoli successivamente, ci condusse ad elaborare alcuni concetti che ancora riteniamo solidi nelle fondamenta, ma che necessitano di un certo qual rinnovamento sia sul piano di alcuni contenuti sia delle loro verifiche.
La cultura architettonica attuale si presenta come quella dell’infinità delle immagini, delle variazioni dei linguaggi, dei ‘rendering’ più raffinati, delle repentine mutazioni di rotta, che talora conducono ad uno stato di alienazione dell’architetto nonché allo sconcerto del cosiddetto fruitore. Già nel 1981 John Maule Mc Kean (2) condensava in cinque tristissimi punti questa situazione: 1— sensazione di essere ignorati da chi ha il potere; 2— sfiducia nelle proprie capacità di realizzare i propri obiettivi; 3— convinzione di essere in declino; 4— senso di inutilità della vita; 5— persuasione di non poter contare su nessuno.
In questa particolare condizione, il nostro contributo diviene quasi un pleonasmo; eppure l’ostinazione delle nostre convinzioni non cede. La città —dicevamo, in modestissima sintonia con un Maestro come Louis Kahn— è il luogo della trasformazione delle aspirazioni in ‘Istituzioni’, è stratificazione storica di questo procedimento, che si attua modellandosi in sistemi (i quali si specializzano sia in tessuti delle relazioni umane sia
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della fisicità costruita); in essi si stampa il carattere di coloro che li hanno concepiti e prodotti, e quando questi sono capaci di imprimere ciò che abbiamo chiamato il ‘senso del...’, ovvero la strategia esistenziale attraverso l’organizzazione della materia, delle sue funzioni e delle sue forme, allora il risultato del loro atto può sfociare nel mare delle categorie spirituali... oppure nel rifiuto totale di esse. Come è facilmente intuibile, l’introduzione del concetto di ‘sistema’ è di per sé strumentale, fa parte di un procedimento che non prescinde dal ‘sito culturale’, ma tende a trasformarlo in ‘luogo spirituale’; ovvero consente di evolvere da una bassa e intuita condizione culturale ad una consapevolezza spirituale, dove —è nostra convinzione— il ‘senso del sacro’ diviene il minimo comun denominatore di ogni ulteriore atto organizzativo. Secondo il dizionario Devoto-Oli, ‘sistema’, in una particolare accezione, è “complesso organico di strumenti, meccanismi o elementi strutturali destinato a particolari fini tecnici”. L’introduzione del concetto di ‘sistema’ in architettura, a proposito della residenza, del commercio, del verde, eccetera, costituisce senza dubbio un apprezzabile superamento dell’idea di zoning e del concetto di città come sommatoria di oggetti edilizi, o di architettura come atto e s t e t i c o i m p re s s o i n u n e d i f i c i o , ma, se non viene accompagnata dalla ricerca dei ‘quark’ legati al ‘senso del...’ (del mettere insieme i propri principi, le proprie finalità e conoscenze, del concepire la giustizia, dell’incontrarsi con il sac ro . . . ) r i s c h i a d i a p p i a t t i r s i , s u o malgrado, sulla stessa logica funAntonio da Sangallo il Giovane, il Bastione di Porta alla Giustizia a Firenze, Firenze, Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi (da Amelio Fara, “Bernardo Buontalenti — L’architettura, la guerra e l’elemento geometrico”, ed. SAGEP, Genova 1988, pag. 104)
zionalista dalla cui contestazione trae origine; rischia di divenire impoverimento di un pensiero che, strategicamente, vorrebbe tendere a distinguere per meglio comprendere, a riaggregare per non compromettere la totalità, e si evolve nel superamento dei ‘distinguo’ attraverso la ricerca dei fini ultimi: —diciamo noi, ripetendoci— l’incontro della città con il Sacro.
A volte, quasi senza accorgercene, sfioriamo ciò che riteniamo essere la sostanza delle cose. Qualche volta, piccoli straordinari eventi ci avvicinano alla sostanza dei problemi più di quanto non riescano a fare estenuanti ricerche o seminari. Un incontro con Giovanni Michelucci, atteso e meditato per ben cinque anni, provocò un’emozione tanto grande da far dimenticare, oggi, tutte le parole da lui pronunciate. Michelucci non parlava, comunicava e basta! Le sue parole erano coriandoli di una vivacità armoniosa, spontanea, velata dalla melanconia che rende il ricordo attuale e al tempo stesso irraggiungibile. Michelucci aspirava alla bellezza che non si deteriora, che si libera dalle catene di una corporeità corrotta e corruttibile. Sognava un’architettura intrisa di umanità e un’umanità che facesse
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corpo con l’architettura, un’architettura che fosse pietà e riscatto. Se da una parte non è possibile ricordare una sola parola di quell’incontro, dall’altra è vero che se ne avverte ancora la forza travolgente, come di quell’Arno in piena, di quel fiume amato e temuto, che nel novembre del Sessantasei dimostrò come la ‘solidarietà di tutti’ fosse capace di superare ogni stupore, di far dimenticare le parole e di colmare le inadempienze di tanti uomini ‘importanti’. Qualche anno più tardi, un altro incontro fu particolarmente ‘illuminante’. In prossimità della Palazzina Reale in Via Valfonda, dopo una lunga e sofferta osservazione della nuova pensilina, nel dubbio più profondo sulla nostra serenità di giudizio, si presentò l’opportunità di fare due chiacchiere con un anziano Professore della Facoltà, che passava di lì (guarda il caso urbano!). Alla domanda su che cosa ne pensasse dell’opera di Toraldo di Francia, egli rispose: “Quando ero ancora studente squattrinato, per farmi un po’ di esperienza e guadagnare qualcosa, collaboravo, nello studio Baroni, al progetto della Stazione di Santa Maria Novella; avrò disegnato forse un migliaio di prospettive. Ora non le vedo più, sono state coperte da questa opera!” Poche battute, e l’anziano professore ci aveva suggerito che la sos t a n z a d e l l ’ a rc h i t e t t u r a n o n p u ò identificarsi con un’assonanza stilistica o con un richiamo ad una generica ‘memoria’, ma definisce e configura una vera e propria strategia: strategia esistenziale. In quell’istante intuimmo che, se il Brunelleschi aveva sacralizzato l’orizzonte dei Fiorentini, alzando il loro sguardo sulla prospettiva di Santa Maria del Fiore, Michelucci e Gamberini, cinque secoli dopo, con la Stazione di Santa Maria Novella, l’avevano riportato ad altezza d’uomo (qualcuno potrebbe dire ‘laicizzato’), Toraldo di Francia, con la sua raffi-
John Hejduk, House 10, 1955: assonometria (da “Five Architects NY”, a cura di Camillo Gubitosi e Alberto Izzo, ed. Officina, Roma 1976, pag.54)
nata opera, aveva reso opaco l’orizzonte, quindi il processo dialettico fra le due strategie: la consapevolezza del Sacro nell’uomo per appartenere a Dio, l’umanità del Sacro per essere uomini. Chi ricerca la struttura ricerca prima di tutto ciò che sta nella sua personale profondità spirituale, mediandola con l’universalità dell’uomo; senza questo sforzo, la forma visibile perde la ragione di esistere e qualunque forma diviene fine a se stessa, si svilisce. La sostanza del sentimento —crediamo— travalica le apparenze. Eppure, oggi —almeno a leggere il pensiero di molti critici e di molti illustri architetti— sembra che questa ricerca non sia proprio in ‘pole position’. Guardiamoci intorno, guardiamo gli ‘ismi’ dilaganti e ‘godiamo’! Scriveva Peter Blundell Jones, una quindicina di anni fa, che “abbiamo vissuto all’ombra di un mito: (...) l’idea di uno stile internazionale, di un’architettura scientifica e anonima, del predominio della macchina (...)”. (3)
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Ma aggiungeva che si trattava di una interpretazione riduttiva che attraversò l’operare sullo spazio del vivere umano, negli anni dal 1920 al 1970, e che questa pur vera realtà veniva riscattata dall’opera di alcuni grandi, la cui poetica sfondava i margini del ‘modernismo’, o meglio del Movimento Moderno, quali ad esempio Taut, Häring, Asplund, Aalto, e, perché no, Wright e altri ancora. “Purtroppo, però —sottolineava— le buone architetture erano poche e isolate: erano l’eccezione e non la regola (...)”. (4) Questa considerazione non ha perduto valore; non mancano oggi le grandi opere né i grandi architetti —gli ‘eroi’ ci sono ancora— tuttavia, ciò che manca è l’architettura ‘media’, che non significa ‘edilizia di base’, ma quella organizzazione dello spazio del cittadino che tutti coinvolge ed aiuta nel vivere quotidiano, e non produce esaltazione ed entusiasmo solo in alcuni particolari momenti, ma semplice ordinaria e banale gioia di esistere. Secondo Lucien Kroll, il modernismo ha disseminato ovunque “identiche scatole, mute e sorde, indifferenti al clima, alla cultura, alla funzione”. (5) Oggi, per contro, nelle rigidità delle retroguardie moderniste, tutto si decompone, si sfilaccia, si dilata, per costruire frasi architettoniche nuove; i ‘solai’, i ‘livelli di vita’ a noi paiono i soliti solai, rivestiti di immense e costose lastre di marmo, lustre e levigate; spesso ci troviamo di fronte alla consueta e stucchevole sequenza di anodizzati e vetro, più o meno storti, ...sembra quasi che si debba ricordare a tutti i costi il terremoto come anima del nostro secolo. I tarantolati danzano con ritmici cimbali, e ogni gesto e suono è coerente con quei tremori e con quella terra; ma noi, colpiti non dal sisma ma solo dagli ‘ismi’, disponiamo porte e finestre secondo i modi di un utilizzatore di crack; altrimenti, come si fa ad essere ‘anti’? Più storte sono porte e finestre, più siamo all’avanguardia! Sul tema degli sbandamenti, pensiamo con più simpatia e indulgenza al vecchio dottore ubriacone di “Ombre rosse”! Si rischia di arrostire nel falò dell’antisintatticismo millenni di passi, sia pur piccoli, di una cultura che non è né classica né anticlassica, ma è semplice espressione di umanità, nei suoi principi, nei suoi sentimenti e nel suo senso del luogo. F 117 Nitghthawk (da “Stealth — Gli aerei invisibili”, supplemento alla rivista “Aerei” n. 4, aprile 1999)
Non ci si chiede più se le cose che si fanno siano comprensibili, se le ripicche oscure e i contorsionismi filosofici e gli scontri semantici verranno capiti da coloro che dovranno vivere (o meglio subire) i nostri progetti. Il libretto di istruzioni per l’uso —in varie lingue— è quasi d’obbligo! Al di fuori del circuito degli addetti ai lavori, solo la meraviglia e lo stupore divengono sapore universale; ma, ci chiediamo, non si sono per caso perdute per la strada le finalità dell’architettura? Più il linguaggio è complesso, più si è liberi...? di incupirci in torvi pensieri di miserie umane?
Riprendiamo la riflessione su alcune contraddizioni dei movimenti oggi di moda, che a nostro avviso trovano il loro limite più forte nel momento in cui ci si chiede quanto quelle opere siano disponibili al mutamento, e ci si
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scopre a riconoscere in esse una immutabilità maggiore di quella che possiamo trovare in un’opera dell’antichità classica. Cosa c’è di più permanente di una carteratura in un edificio high-tech o di un rivestimento in titanio di un’opera decostruttivista? Cosa c’è di più vecchio di un edificio nato per durare vent’anni, e in corso di restauro dopo trenta e più? Il Beaubourg, per il quale la nostra generazione di cinquantenni ha, a suo tempo, provato grande emozione, e dal quale ha certamente ricevuto molti stimoli, sembra oggi una Greta Garbo vecchia, priva dei suoi occhialoni scuri, che mostra a tutti la propria decadenza e fa rimpiangere la levigatezza del volto di Regina Cristina. L’immagine di Marilyn però resta intatta, è ormai nel mito, salva da ogni rischio di decomposizione... i nostri ‘ismi’ si consumano, purtroppo non muoiono prematuramente, non lasciano l’aura del ‘mito’. Razionalismo, post-modernismo, decostruttivismo, avanguardie, e qualunque altro ‘ismo’, non importa sotto quale ombrello ideologico, tendono oggi —almeno così ci sembra— ad alimentare soprattutto il mercato dell’immagine. Siamo ossessionati dalle immagini, saturati dalle gigantografie policrome delle riviste, incalzati dalle teorie architettoniche antipodiche del classicismo, dell’anticlassicismo, del post-classicismo e di qualunque futuribile neoclassicismo, e rimaniamo inebetiti, privi di linfa a primavera. Ogni dissacrazione rispetto a ciò che ha sapore di ordine viene accolta da entusiastici e scroscianti applausi, e ciò che è ordine diviene dittatura del nostro vivere. Siamo tutti lì, fuori dalla sala cinematografica, a chiedere: ‘com’è questo film?’. L’architettura è divenuta una pellicola cinematografica, e noi siamo in coda, attendendo di vederla, e paghiamo il biglietto! Sbagliamo se pensiamo che l’architettura sia qualche cosa da vivere e non solo da guardare? La necrosi delle nostre città ci costringe a scagliarci con violenza contro chi le ha così ‘ingessate’ e rese sterili al seme dell’umanità. Costruiamo nelle luci immagini sfolgoranti, concepite per l’anamorfismo criptico del decostruttivismo, poi, guardandoci con sguardo ebete, ci benediciamo incensandoci come dei novelli neroni, ma forse siamo solo dei bombaroli mediocri!
Peter Eisenman, “Modelli di studio” (da “El Croquis” n. 83, 1997, pag. 32)
Dove sono le teorie dei ‘tempi nuovi’ di noi ipernutriti architetti? Per pensare qualche cosa di nuovo è proprio necessario ricorrere ai filosofi e far vivere da filosofi quello che si costruisce? In un serial televisivo di qualche anno fa, “Miami Vice”, si vedevano bianche ed asettiche ville, e ci si chiedeva come si dovesse vestire uno che abitasse quelle lussuose dimore, quale colore dovesse indossare per non contraddire l’ospedaliero architetto autore di tali meraviglie; senza parlare poi di ciò che avrebbe dovuto mangiare, perché temiamo che una semplice ribollita (di koenigiana memoria) avrebbe potuto divenire motivo di furioso litigio con il progettista. Si ha la sgradevole impressione che tra l’opera dell’architetto e il ‘fruitore’ si sia aperto un crepaccio sempre più
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incolmabile. Andiamo in pellegrinaggio al Guggenheim di Bilbao, poi, felici (se non siamo felici siamo poveri imbecilli), torniamo ai nostri miseri condomini e cortili, che solo Nini Rosso in “ballata triste di una tromba” sapeva rendere poetici. E godiamo come i ‘fans’ che hanno potuto intravvedere da lontano una rock-star. Diceva il già citato Peter Blundell Jones: “Se gli edifici tradizionali erano determinati in gran parte dalle condizioni locali e quelli moderni hanno perso questo rapporto con il contesto, resta il vuoto da riempire.” Noi lo riempiamo con un ‘wow’ di stupore. Ancora di più, rispetto ai ‘moderni’, i ‘post-moderni’ ci sembrarono annaspare nel vuoto. Nemmeno oggi, dopo tanti anni, ci convincono le definizioni di Charles Jencks, che individuava il principale connettivo fra architetti come Charles Moore, Robert Venturi e altri emergenti di allora, il ‘doppio codice’, che “comunica almeno a due livelli in uno stesso tempo: agli altri architetti e a una minoranza che comprende i significati specifici dell’architettura, e a un più vasto pubblico o agli abitanti del luogo che si occupano di altri problemi quali il comfort, la costruzione trad i z i o n a l e e l o s t i l e d i v i t a” . ( 6 ) C i spaventa la considerazione che oggi i cittadini non siano più tali, ma solo ‘abitanti’; che abbiano abdicato al loro ruolo di costruttori del luogo, a quel ruolo rispetto al quale gli architetti erano interpreti, mediatori, spesso emergenti, di un senso comunitario. Senza nostalgici e anacronistici ritor ni ad un passato del quale non conosciamo, quindi non possiamo app re z z a re , i t e r m i n i , c i s c o n c e r t a B2 SPIRIT (da “Stealth — Gli aerei invisibili”, supplemento alla rivista “Aerei” n. 4, aprile 1999)
comunque l’idea che gli architetti oggi facciano spesso prevalere il loro egoismo e la loro vanità rispetto alle istanze comunitarie, che le espressioni architettoniche (che gli abitanti dovranno esperire e subire) possano essere solo sperimentazioni di laboratorio di un sistema di elucubrazioni del tutto personale. Con la riaffermazione del vuoto, continuava Blundell Jones, si apre la via “al predominio della tecnica (...) E quando si vede che questo approccio non funziona, si riempie il vuoto in molti altri modi: con incursioni nella storia, esercizi stilistici, ossessioni geometriche e formalismi di ogni gen e r e . ” ( 7 ) P ro p r i o c o s ì : o g g i l ’ o p e r a a rc h i t e t t o n i c a d e v e ‘ f a re e ff e t t o ’ . Sembra di rileggere le parole di Giovan Battista Marino, che, da buon barocco, asseriva: “È dell’artista il fin la maraviglia; chi non sa far stupir vada alla striglia”. Oggi cerchiamo la meraviglia negli ‘small soldiers’ in 3D che combattono battaglie epocali, sbarchi simulati in Normandia che ci inducono allo svenimento; spendiamo miliardi per meravigliarci; ciò che è stato cacciato dai
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mass-media dalla porta, (compresa la morte in diretta), rientra attraverso i mass media stessi dalla finestre. Eppure, per stupirci, meravigliarsi davvero, basterebbe pensare alla ‘vita’. Siamo costituiti da miliardi di elettroni protoni e chissà quante particelle ancora, che non hanno né bocca che parli, né naso che respiri, e li ritroviamo aggregati a formare un uomo un cane o una farfalla; è come se una casa di mattoni si mettesse a parlare; ma, se sono inanimati, come fanno a costituire qualche cosa che vive? L’architettura oggi —con dispiacere lo diciamo— deve solo stupire! Perché è un’opera d’arte —dice qualcuno—. Chi lo nega? Noi riteniamo di non conoscere niente di Architettura. Infatti, con un atto di impudente saccenza abbiamo appallottolato e gettato nel cestino pensieri e opere di decine di ‘anni-architetto’, chiamando con spregio ‘ismi’ tutte le proposte che non guardino al vivere dell’uomo come fuoco delle loro prospettive. D’altra parte, supponendo pure che le riflessioni e le struggenti ricerche di tante belle menti siano solo positività ...che cosa arriva al cittadino di tutti i giorni, al Signor Travet della porta accanto? Soltanto echi di un vociare lontano, rumori e brusii di fondo. Siamo ai confini dell’Impero, e le notizie arrivano già vecchie, in rit a rd o , c o m e a c c a d e v a a i “ S e t t e messaggeri” di Dino Buzzati. Dobbiamo rinunciare allora alla ricerca e agli ‘ismi’? Crediamo proprio di no. Essi fanno parte del nostro esistere. D’altra parte, è necessario n o n l a s c i a re l ’ A rc h i t e t t u r a c o m e arte del solo guardare. Noi, esseri umani e cittadini, sappiamo che questa indispensabile Arte è innanzitutto strumento complesso di indagine, forse il mezzo più sofisticato di domande e risposte che l’uomo può articolare vivendo concretamente, non solo guardando, udendo o pensando, ma esplicitando in toto
Frank O. Gehry, Lewis Residence, Cleveland, Ohio, 1989-95, Prospetti e hall di ingresso (da “El Croquis” n. 74/75, 1995, pag. 242)
la sua esistenza. E’ un modo articolato per interrogare quello che chiamiamo temporalità, spazialità, esistenzialità. Non opera che chiude un circuito ma convergenza che apre l’orizzonte alla conoscenza dell’essere; e comunque, se anche il suo compito fosse meno ambizioso, essa potrebbe fornirci l’appiglio per chiederci chi siamo, prima di uccidere, di cancellare; ...siamo sicuri che il ‘caso’ —come direbbe qualche illustre scienziato— ricompirà sempre il miracolo delle combinazioni biologiche?
Concludiamo queste brevi riflessioni con due personali, individuali, forse banali esperienze di vita.
A— Una decina di anni fa, in una accattivante profumeria di Strasburgo, mentre sceglievo i piccoli cadeaux da portare a marito e familiari, la profumiera mi chiese da dove venissi e, quando le risposi ‘da Firenze’, mi guar-
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dò con aria triste e mi disse con compassione: “Sono passata una volta da Firenze, in automobile, per andare a Roma. Peccato! Un paesaggio così bello rovinato da una città così brutta!” Non posso che rispettare l’idea che si era formata quella signora, che da libera cittadina aveva colto, senza il cosiddetto ‘know-how’ degli architetti e urbanisti, il significato disastroso di una crescita quantitativa che ha sommerso, anche in un europeo immaginario collettivo, ogni tipo di qualità. Diamo pure le colpe agli amministratori, al malgoverno, all’incultura e alla voglia di quattrini che ci omologa sempre di più alla cultura di stampo USA e Getta, che ci conduce alla globalizzazione di tutto; cerchiamo però anche nelle nostre singole coscienze qualche motivo, non tanto per indurre inutili sensi di colpa, quanto per alimentare una pur debole speranza per rinascere, per recuperare una umanità smarrita, un ‘buon senso’ che si ritrova solo, a volte, quando si dialoga fra amici e colleghi al di fuori del dibattito ‘colto’ e ‘istituzionale’, e si esprime il proprio disagio di fronte alla realtà architettonica e urbana. Vale forse la pena di esprimere il mio, e nostro, personale disagio. Nei confronti di una contraddizione che non è solo dentro l’architettura della scala edilizia-oggettuale, ma è soprattutto nel contrasto fra una certa teorizzazione sulla città fatta da alcuni studiosi della Progettazione Urbana e la pratica dell’Architettura operata dagli stessi. Cosa c’è di più dinamico di un ‘territorio della complessità’, dove tutto è in continua trasformazione ed evoluzione, e che cosa c’è di più statico di ciò che l’odierna architettura della dissacrazione sta proponendo? Spesso chi elabora interessanti e ricche teorie sulla ‘complessità’ del territorio, della città e dell’architettura, affermando il primato dell’‘innovazione’, corre il rischio di dare importanza, nel ‘prodotto architettonico’, alle espressioni formali, al sovvertimento delle regole, fino a definire e cristallizzare un’accademia dell’anti-accademia, e al contempo rischia di dimenticare che ricercare significa sempre essere disponibili a mettere in dubbio e Giuseppe Calonaci, “Espansione”, (da “La porta della Pace”, pag.11)
a superare i propri paradigmi. Il mestiere di progettista —credo— deve tendere, anche attraverso il dubbio, al raggiungimento della speranza. La speranza per una progettazione capace di proporre uno spazio di vita in cui le finalità non siano smarrite, può essere rappresentata dalla quasi logora, ma non per questo meno forte, citazione di Marshall Mac Luhan: “Se una farfalla, oggi, muove con le sue ali l’aria di Pechino, fra un mese forse può modificare i sistemi climatici di New York.” Potrà questa farfalla, simbolo di relazioni e interdipendenze, e non di globalizzazioni, farci dimenticare l’architettura degli oggetti-monumento?
B— Oggi mi sono riconciliato con Firenze; sul greto dell’Arno ho notato con stupore una garzetta e un martin pescatore; l’una zampettava col suo pennacchio da cavallerizza, al di là del bel ponte di Morandi; l’altro, verde nel suo sparato arancio, era figurante del calcio storico, nervoso e dignitoso nel ruolo di guardiano della salute di un sognante fiume... forse an-
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che lui si è adeguato all’inquinamento. E’ vero, caro vecchio John Ruskin, in questa città “non c’è un solo punto (...) che sia veramente pittoresco.” (8) Tutto è ruvido stantio e insignificante. “Non ci sono portici, niente ornamenti turchi o moreschi...”. (9) E oggi, parafrasandoti, potremmo dire che non ci sono le opere della cooperativa Himmelb(l)au, di Tschumi o di Zaha Hadid; chissà se tra un po’, a rompere la monotonia del sempre uguale panorama fiorentino, qualche lungimirante amministratore ci farà l’onore di procurare l’opera di qualche grande artista, nella penombra di questa inquieta fine di millennio? Certo, i bravi architetti non mancano, ma forse manca una architettura fatta per tutti i cittadini, quella che intuisca aldilà dei linguaggi un pensiero capace di orientare e guidare le attitudini. La filosofia educa al rigore della coerenza, perché è alla ricerca della verità, l’architettura blandisce l’intuizione ad ornare la verità con il suo più bel gioiello, l’“umanità”. Grazie, Ruskin, per esserti allontanato dalla “stupida Firenze”, perché, se fossi rimasto, avresti finito per impoverirla del suo gusto aspro, scostante e un po’ cinico. La notte, umida e intrigante, nella stazione di Santa Maria Novella, basta a ripagarmi di quella varietà di sogni e incubi repressi, che la luce del giorno mi porta ma non estingue attraverso le fessure aperte degli spioventi dei tetti. Firenze ha strade in terra impresse come ferite, e altre in cielo che guidano alla luce abbagliante del sole o alle colline violacee, a Monte Ceceri. Caro John, hai appena intuito che duplice è la città di Firenze: l’una vegeta sulla terra, ‘piccola e misera’, l’altra aspetta i suoi angeli — chissà da quanto — in cielo. E’ vero, ti eri affezionato a “Gustavo”, il tuo “valet de place”; perché allora non chiami Firenze ‘Gustavo’, oppure non le dai il nome ignoto di quella fioraia che per venti paoli ti ha inondato la carrozza “di rose bagnate e benedizioni”? Firenze è essenziale, possiede un vago profumo di morte e di rose, è disincantata in ogni angolo, cosparsa dal vaglio delle contraddizioni. Ma a quale Firenze mi riferisco? Ogni assonanza a lei mi riporta!
Pensavamo di poter concludere così queste riflessioni. Ci sembra però che la sintesi più efficace di quanto volevamo dire possa
Daniel Libeskind, Sachsenhausen, Concorso di Urban Design (da “El Croquis” n. 80, 1996)
essere affidata alle parole di qualcuno che di architettura se ne intendeva davvero. In un’intervista rilasciata pochi mesi prima di morire, Le Corbusier, alla domanda “Ci sarà finalmente una poesia dell’architettura?”, rispondeva: “Ah, sì... sì... ce ne sarà. Ce ne è già. Se non è nei fatti, sarà nei cuori degli uomini o nei loro desideri (...) E poi... litigheranno sempre, perché sempre ci saranno quelli che fanno soldi per le loro idee... e faranno di tutto per fare soldi. (...) Ma ci sono anche quelli che puntano le loro vanità sulle loro idee (...) che sempre punteranno sulle loro idee la loro vanità (...) Oppure ci sono quelli che hanno il sentimento della società e che continueranno a cercare di parlare insieme. (...) Non si lavora per essere vezzeggiati... si lavora per dovere verso la propria coscienza, che accompagna ogni essere umano (...) e che è lì per dirgli se agisce bene o male.”
(10)
(1)
P. Prangnell, “Ville Savoye” in “Spazio e Società” n. 13, marzo 1981 J. Maule Mc Kean, “La coscienza inquieta dell’architetto”, in “Spazio e Società” n. 13, marzo 1981 (3) P. Blundell Jones, “Spazio, funzione e significato” in “Spazio e Società” n. 36, dicembre 1986 (4) P. Blundell Jones, op. cit.. (5) P. Blundell Jones, op. cit.. (6) “Enciclopedia dell’Architettura”, Garzanti 1996 (7) P. Blundell Jones, “Spazio, funzione e significato” in “Spazio e Società” n. 36, dicembre 1986 (8) J. Ruskin, “Diario italiano 1840-1841”, Mursia, Milano 1992 (9) J. Ruskin, op. cit.. (10) “Messaggio in una bottiglia” in “Spazio e Società” n. 6, giugno 1979 (2)
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LA VERIFICA SPERIMENTALE NEL DISEGNO URBANO Giancarlo Bertolozzi
(Riflessioni a lato del saggio dell’autore: “La ricerca sperimentale nel progetto di architettura”, in AA.VV. “Hacia una epistemologia de la Arquitectura”, Firenze, 1999.)
L’ANALISI
Il progetto della modificazione di una realtà ne presuppone l’analisi. Essa consiste nell’ipotesi di un modello che descriva la realtà da modificare come un sistema interno al modello dell’altra realtà che la influenza e/o ne è influenzata, l’ambiente del sistema. I modelli del sistema e del suo ambiente li rappresentano come insiemi complementari di parti ‘tecniche’, nelle quali le realtà fisiche sono state costruite utilizzando specifici sistemi di costruzione, in modo da condizionarle come insiemi di parti ‘funzionali’, usate in un certo tempo dai soggetti che le vivono seguendo particolari codici di comportamento, e producendo insiemi di parti ‘semantiche’ che comunicano i valori esistenziali che le realtà assumono per i loro soggetti secondo loro specifici codici linguistici. La regola con la quale l’insieme delle parti tecniche del sistema (l’insieme tecnico) influenza quello funzionale e quest’ultimo genera il semantico è la struttura o forma del sistema, da leggere all’interno della legge con la quale l’insieme tecnico dell’ambiente genera quello funzionale e quest’ultimo il semantico della realtà contestuale. Le validità della regola e della legge vengono verificate mediante un esperimento che ipotizzi gli esiti dell’applicazione della regola, nel contesto di quella della legge, in un tempo successivo a quello dell’analisi ed accerti il loro manifestarsi al tempo previsto. Qualora gli esiti previsti si manifestino anche nel ripetersi di esperimenti analoghi in tempi diversi, la regola e la legge ipotizzate possono essere considerate verificate. Ogni regola, infatti, è credibile se in suoi ripetuti esperimenti mantiene coerenza con una ‘teoria’: cioè, nel caso dell’analisi architettonica, se la realtà del sistema, nel ripeterne l’analisi nel tempo, conserva le medesime modalità di influenza spaziale reciproca con la realtà del suo ambiente, cioè conserva continuità spaziale e temporale con essa, ed i modelli che descrivono entrambe sono tra di loro complementari e coerenti con i sistemi di riferimento tecnico, di comportamento e semantico che caratterizzano i loro soggetti e che hanno guidato la definizione dei modelli.
LA PROPOSTA
Sulla realtà analizzata, dopo averla giudicata cercando di interpretare i valori che indirizzano le attese dei suoi soggetti, l’architetto innesta la proposta di un nuovo-sistema nel contesto di quella del suo nuovo-ambiente. Tale proposta implica ipotizzare i loro modelli descrittivi. Da tali modelli, con analoghe caratteristiche di quelli della realtà analizzata, ma con una nuova-regola ed una nuova-legge volute e considerate credibili a priori, sono dedotti in successione inversa a quella seguita nell’analisi, gli insiemi semantico, funzionale e tecnico della realtà futura, de-
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scritti sulla base dei medesimi sistemi di riferimento utilizzati in analisi, ed infine la loro stessa descrizione fisica.
LA VERIFICA
La verifica della credibilità della modificazione fisica proposta del sistema e di quella del suo ambiente consiste nella loro simulazione, nell’esperimento delle loro capacità di essere tecnicamente realizzabili in modo da condizionarne l’uso e comunicare i valori esistenziali attesi secondo una regola e una legge uguali alle modificazioni volute della regola nella nuova-regola e della legge nella nuova-legge, che costituivano la domanda ed il problema da affrontare nel progetto.
LA QUESTIONE DELLO SPAZIO E DEL TEMPO
Un sistema architettonico, pertanto, in ogni fase della progettazione, viene descritto da un modello che ha un proprio tempo, che è quello in cui si accerta o si ipotizza l’uso della realtà da parte del soggetto, ed ha un proprio spazio, che è il suo rapporto geometrico col modello del suo ambiente, e trova verifica negli accertamenti o previsioni della sua continuità spaziale e temporale con il suo ambiente e della coerenza di ambedue con i sistemi di riferimento tecnico, funzionale e semantico, caratterizzanti i soggetti della loro realtà. Se il suo soggetto è mobile nello spazio allo scorrere del tempo ciclico nel quale egli vive la realtà in modo ripetitivo, è possibile individuare una catena di sistemi dei quali egli è soggetto, uno per ogni tempo significativo della sequenza e ciascuno con il proprio spazio, cioè nel contesto di un suo proprio ambiente. Egli vive i propri sistemi in sequenza temporale ciclica ed in continuità spaziale. Anche se il soggetto fosse statico e vivesse in sequenza temporale la stessa parte della realtà, si potrebbe sempre parlare di una catena di sistemi in sequenza temporale ed in continuità spaziale con i propri ambienti.
LA VERIFICA SPERIMENTALE DI UN SISTEMA ARCHITETTONICO
La verifica sperimentale di un sistema architettonico, pertanto, deve avvenire nell’accertare la sua continuità spaziale e temporale con i due sistemi della catena cui appartiene, perché hanno lo stesso suo soggetto ed i loro tempi ne precedono e seguono immediatamente il tempo specifico, perciò uno lo
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influenza e l’altro ne è influenzato ed appartengono ambedue per definizione al suo ambiente, e riscontrare quella spaziale con gli altri sistemi con soggetti diversi dal suo, ma che nello stesso tempo lo influenzano o ne sono influenzati.
LA VERIFICA SPERIMENTALE DI UN SISTEMA URBANO
Se definiamo come sistema ‘urbano’ il sistema la cui realtà fisica abbia in sincronia più soggetti diversi, cioè che costituisca l’intersezione di due o più sistemi architettonici con soggetti diversi che la vivano in uno stesso tempo, quali caratteristiche dovrebbe avere la verifica sperimentale di un sistema così definito?
LA VERIFICA DELLA SUA CONTINUITÀ SPAZIALE
Se la continuità spaziale di un sistema Sai (con soggetto a nel tempo i) con il suo ambiente ASai consiste nella reciproca influenza delle modificazioni spaziali loro apportate, anche quella dell’intersezione tra i due sistemi Sai e Sbi (con soggetto b nello stesso tempo i) con l’intersezione dei loro ambienti consiste nella loro reciproca influenza, come anche la continuità della differenza tra il sistema Sai e la sua intersezione con Sbi avviene con la differenza tra l’ambiente ASai e l’intersezione tra i due ambienti. Si può facilmente dimostrare che sommando la continuità del sistema intersezione con quella del sistema differenza si ottiene la continuità che il sistema Sai ha con il suo ambiente ASai. Lo stesso avviene, in modo simmetrico, se consideriamo la differenza tra il sistema Sbi e la sua intersezione. In altri termini si può affer-
mare che la continuità spaziale di una intersezione di due sistemi è complementare sia a quella della differenza di un sistema con la sua intersezione con l’altro nel formare l’unità della continuità del primo sistema che a quella della differenza dell’altro con la sua stessa intersezione a formare l’unità della continuità del secondo. La verifica sperimentale della continuità spaziale di un sistema urbano o di intersezione, pertanto, è un momento interno alle verifiche delle continuità spaziali dei sistemi cui appartiene ed è complementare a quelle delle loro parti non intersecate.
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LA VERIFICA DELLA SUA CONTINUITÀ TEMPORALE
La continuità temporale tra i sistemi Sa(i-1), Sai e Sa(i+1), vissuti nella sequenza dei tempi i-1, i, i+1 dal soggetto a, è traducibile nell’intersezione spaziale tra il primo ed il secondo sistema, unita all’altra tra il secondo ed il terzo. Altrettanto avviene per la continuità temporale tra i sistemi Sb(i-1), Sbi e Sb(i+1). La verifica pertanto della continuità temporale sia del sistema Sai che di quello Sbi diviene la verifica di queste continuità spaziali. Le continuità spaziali delle unioni delle intersezioni dei sistemi con le intersezioni dei loro ambienti risultano complementari a quelle delle differenze tra i sistemi e le loro intersezioni con i rispettivi ambienti a realizzare l’unità dei sistemi Sai e Sbi nei propri ambienti ASai e ASbi. Si può, in sintesi, affermare che le continuità temporali dei sistemi intersecati coincidono con le loro continuità spaziali nei rispettivi ambienti.
UNA CONCLUSIONE
Per verificare, in conclusione, la continuità spaziale-temporale del sistema urbano costituito dalla intersezione dei sistemi Sai e Sbi, complementare con le parti non intersecate sia di Sai che di Sbi, è necessario riferirla all’intersezione dei loro ambienti ASai e ASbi, utilizzando nel costruirne i modelli in analisi, proposta e verifica, i sistemi di riferimento tecnico, funzionale e semantico che caratterizzano sia il soggetto a che quello b dell’intersezione dei loro sistemi.
CRITERI DIVERSI DELLA VERIFICA SPERIMENTALE DI UN SISTEMA URBANO
Dalla conclusione precedente discendono diversi modi di analisi, proposta e verifica nella progettazione delle intersezioni di sistemi, nella cosidetta progettazione urbana. Tale diversità è funzione dei criteri diversi di scelta tra i sistemi di riferimento tecnico, funzionale e semantico da usare nella costruzione dei modelli e tra i valori di guida per giudicarli, caratterizzanti i soggetti diversi delle intersezioni. Nelle progettazioni concrete si osservano spesso criteri ordinabili per tipi di scelta dalla crescente numerosità e rappresentatività dei riferimenti e valori utilizzati:
1 - vengono scelti soltanto i riferimenti ed i valori comuni ai soggetti dell’intersezione; 2 - privilegiati i riferimenti ed i valori comuni ai soggetti e considerati equivalenti tutti gli altri;
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3 - soltanto i riferimenti ed i valori più significativi, comuni e non comuni, caratterizzanti i soggetti diversi; 4 - privilegiati i riferimenti e valori più importanti, comuni e non comuni, e considerati equivalenti tutti gli altri; 5 - considerati tutti i riferimenti ed i valori dei soggetti dell’intersezione, tutti equivalenti tra loro.
In funzione dei tipi di criteri di scelta si hanno progettazioni urbane che propongono trasformazioni della realtà nelle quali i suoi soggetti diversi più o meno si possono riconoscere e dalle quali possono estrarre maggiore o minore soddisfazione delle proprie attese, esprimendo sentimenti o atteggiamenti reciproci di maggiore o minore conflittualità. Il primo criterio della scala precedente fa loro riconoscere come propria la parte della realtà in cui s’incontrano, ma non garantisce l’ottenere una risposta alle loro attese più significative. Simula l’esistenza di un soggetto unico del sistema d’intersezione senza alcuna contraddizione interna, un soggetto virtuale caratterizzato da quanto accomuna i soggetti diversi del sistema urbano. Questo criterio garantisce soltanto la non conflittualità tra i soggetti, non la loro soddisfazione. Con il criterio successivo alcune progettazioni rendono
la realtà riconoscibile come propria ai suoi soggetti diversi, privilegiando tra i riferimenti ed i valori quelli a loro comuni, e cercano di offrire una risposta a tutte le loro attese, anche se contraddittorie tra di loro, considerando come equivalenti tutti gli altri riferimenti e valori dei soggetti diversi. Non garantisce però la soddisfazione delle attese più importanti, perché nella equivalenza dei riferimenti e valori più significativi con quelli di scarsa influenza si scioglie ogni garanzia di soddisfazione. Il terzo criterio cerca di risolvere il problema posto da quello precedente, garantisce infatti la soddisfazione delle attese diverse, se queste non sono tra di loro così contraddittorie da far generare dei sentimenti di conflitto tra i soggetti che le esprimono. Anche il quarto, che si differenzia da quello precedente per l’aggiunta dei riferimenti meno importanti, comuni e non comuni, considerati tra loro equivalenti, cerca di risolvere il problema. Anch’esso può portare all’annullamento della soddisfazione delle attese più importanti per la loro possibile contraddittorietà. Le progettazioni che utilizzano l’ultimo criterio cercano di abbassare le possibilità di conflittualità tra i soggetti, ma rischiano l’indifferenza progettuale.
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UN ESEMPIO
Le immagini allegate sono state estratte dagli elaborati di progetto di un gruppo di allievi (A. Tanganelli, M. Sarzotti, R. Serrano, F. Scanu), redatto nell’A.A. 1998/99 nel Laboratorio di Progettazione architettonica IV, di cui è responsabile l’autore. Nell’ipotesi della ristrutturazione urbana dell’area ferroviaria di Porta al Prato di Firenze, gli allievi hanno ipotizzato un terminale di ingresso al centro storico della città ed ai Viali dalla tangenziale ovest, da rendere compatibile con l’espansione del parco delle Cascine e l’attuazione del centro politico-amministrativo della Circoscrizione Ovest di Firenze, oltre ad altre funzioni di interesse urbano. In questo esempio sembrano evidenti le intenzioni di progetto di intersecare sistemi architettonici diversi, ciascuno dei quali con soggetti specifici che possano vivere l’area ristrutturata in continuità spaziale e temporale: gli abitanti del quartiere di San Jacopino dal nord hanno un accesso diffuso ai servizi del centro articolati sotto delle coperture trasparenti e sotto i giardini pensili che dilatano i prati delle Cascine, sui quali sosta chi frequenta l’espansione del parco; chi arriva a Firenze da ovest può usare l’asse di penetrazione sotterraneo, sia viario che metropolitano, che si raccorda ai Viali, dove trova possibilità di sosta e scambio tra mezzi diversi di traffico. Sembra che gli allievi abbiano utilizzato un criterio di scelta dei riferimenti e dei valori di guida della progettazione che si avvicina al terzo ed al quarto tipo di scelta della scala precedente dei criteri. In ogni sistema architettonico il soggetto specifico attuerebbe forse le proprie attese più importanti, ma se nell’intersezione dei sistemi si può osservare equivalenza tra il sistema in continuità con il quartiere a nord e l’altro di espansione delle Cascine, il sistema di accesso, ancorato alla traccia della primitiva linea ferroviaria ed attestato sulla recuperata stazione Leopolda e tangente alle antiche stalle, appare invece subordinato agli altri ed i suoi soggetti potrebbero sentirsi, se non degli intrusi, almeno degli ospiti. La consapevolezza di queste loro scelte e l’assunzione di responsabilità progettuale da parte degli allievi può essere stata favorita anche dalle riflessioni precedenti, alcune delle quali sono state oggetto di approfondimento nell’attività didattica sperimentale svolta nel Laboratorio, nell’ambito del quale gli allievi hanno eseguito l’esperienza dalla quale è stato estratto l’esempio.
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DISEGNO URBANO: NOTE SULLA RICERCA DI UN METODO Andrea Del Bono
La disciplina urbana si trova al centro di una crisi di valori che si riflette nella contrapposizione tra cambiamento e permanenza, antico e nuovo, continuità e discontinuità; questa pluralità di posizioni manifesta sì grandi fermenti di ricerca ma anche il disorientamento teorico e l’incertezza metodologica che spesso fa ripiegare su valori solo creativi e formali. In questo fluido magma la progettazione urbana è alla ricerca di nuove razionalità, nuovi metodi e strumenti di progetto e di controllo, di un rapporto migliore e più evidente tra problemi sociali e culturali della comunità urbana e risposte spaziali. Dunque affrontare le tematiche riguardanti i processi per pervenire alla definizione di un disegno per la città implica preventivamente qualche riflessione sul concetto di metodo e sul suo valore di efficace strumento nei confronti degli obiettivi di questa disciplina. Entrando direttamente nel cuore della questione consideriamo come il termine metodo abbia etimologicamente il significato di itinerario verso un fine; tuttavia nella storia dell’epistemologia sono venute precisandosi nei suoi confronti interpretazioni che privilegiano la ricerca e la conoscenza che propendono ad identificare il suo traguardo in una verità ‘certa’; fatto che, vogliamo sottolineare, nel campo urbano spesso ha un valore discutibile. In ogni caso una dottrina del metodo può essere interpretata, in estensione del concetto, come ricerca di conoscenza destinata ad una ricerca di produzione; quindi processo conoscitivo che si sviluppa congiuntamente in campo teorico e sul piano pratico, riunificando due momenti dell’attività progettuale destinati a risolversi nell’unità. Nella ricerca scientifica che si fonda sul moderno pensiero critico il metodo si propone, nella logicità delle sue costruzioni e nella verifica sperimentale, come una successione ordinata di scelte ed azioni da concatenare per giungere ad un obiettivo precedentemente individuato poggiando la sua validità sulla coerente conformità tra lo svolgimento delle azioni ed il perseguimento dei fini; è quindi basato su un visibile rapporto di causa-effetto. (1) Tuttavia nel dare risposte ad un certo tipo di dubbio, per il fatto di fare assegnamento su concetti di una cultura che può divenire statica con il congelarsi di determinati aspetti del processo operativo, introduce quasi automaticamente un altro tipo di dubbio. In termini più espliciti, affrontando una definizione di metodo va tenuta in considerazione la possibilità che esso possa affinarsi e cristallizzarsi in un sistema di regole fisse disgiunto dall’avanzare del pensiero anziché affermarsi come continuo approfondimento di ricerca. Ci si può riferire allora ad una idea di metodo in cui ogni azione crei di momento in momento i propri fini ed i mezzi per ottenerli, presentandosi come un processo che si avvale di meccanismi logici diversi in funzione dei soggetti, dei fini e dei mezzi coinvolti nella ricerca, con la sola costante che, per la compresenza di soggettività ed oggettività il suo valore si afferma nella trasmissibilità e nella adattabilità a situazioni diverse. È necessario anche approfondire le possibilità di trasferire il concetto di metodologia dall’ambito
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filosofico al campo operativo, la progettazione urbana, per la quale occorre definire una teoria complessiva, una dottrina delle finalità e dei processi capaci di garantire, nel continuo mutare della realtà, gli strumenti principali di un progetto destinato a costruire luoghi per la vita della comunità; strumenti che si ispirino ad una fondamentale invariante: il prevalere degli aspetti pubblici sulle ragioni particolari. Costruire una teoria che precisi i metodi logici di progettazione degli spazi della città è possibile analizzando e razionalizzando le sperimentazioni compiute e affinando i meccanismi induttivi con i quali estrarre i fondamenti su cui basare un corpo disciplinare; la cosa imporProgetto per la sistemazione della darsena di Rimini. Schemi strutturali Tesi di Laurea di S. Pasini - F. Monni
tante è che le metodologie si articolino come ricerca di progressivi processi in evoluzione collegati tanto al mantenimento di alcuni principi ed obiettivi generali, quanto alla messa in atto di dispositivi unitari atti ad accogliere ed elaborare sistemi di previsione, di verifica e di attuazione di procedimenti operativi. Nel disegno urbano le problematiche connesse alla ricerca progettuale si articolano in due aspetti principali. Il primo, all’interno della ricerca stessa, per cui analisi ed indagini non si orientano più alla segmentazione e frammentazione degli elementi per giungere alla loro conoscenza come fatti singoli, ma verso una visione complessiva dei processi che li hanno generati; il secondo cerca la definizione del progetto come identificazione del suo significato —quindi anche dei suoi obiettivi primari— attraverso la lettura del fenomeno alla luce di un’analisi critica per farne emergere i comportamenti futuri. In questo procedere appare importante il metodo strutturale che mira ad evitare l’ambiguità che nasce qualora si confondano i due piani: quello globale della lettura del fenomeno e quello di metodo e operativo che si appoggia alla ricerca sperimentale. In definitiva si tratta di riorganizzare i dati a disposizione trovando in questa operazione obiettività e rigore logico; cioè costruire un metodo che non contenga quei due termini ‘processo’ e ‘fine’ tra i quali la cultura contempora-
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nea colloca la dimensione delle sue contraddizioni, in quanto ad un processo individuato non sembra lecito assegnare un fine preventivato. Per questo nel progetto dello spazio urbano, come fatto unitario ma anche collettivo ed esteso nel tempo, viene in primo piano la necessità di stabilire una legge e, nello stesso tempo, alcuni gradi di libertà orientati ad una concezione intuitiva della realtà. Un momento complesso si presenta nella distinzione tra fatto architettonico e fatto urbano. Vi sono aspetti dell’architettura, riguardanti più direttamente la sua
Una strategia per Taranto. Ipotesi generale di riassetto. (1:2000) Tesi di Laurea di V. De Palma
natura compositiva, che mantengono una loro autonomia nei confronti degli aspetti urbani; ciò nonostante caricandosi di significati sociali, civili ed ideologici propri di un’epoca divengono chiarificatori nei confronti dei fatti urbani; in alcuni casi questa identificazione può risultare chiara e trasmissibile, in altri essere annullata dal confuso sovrapporsi di nuovi prodotti di scarsa qualità. La separazione tra i due diviene più sfumata e sottile se come punto di partenza si scelga una teoria dello spazio rifiutando classificazioni utilitaristiche e funzionali riferite ai valori oggettuali più che a quelli socioculturali; tuttavia le divergenze sorgono al momento di definire la nozione di fatto urbano in relazione al suo specifico architettonico. Una risposta condivisibile appare quella articolata su due tipi d’interesse: l’attenzio-
Una strategia per Taranto. Il nodo di Porta Napoli. (1:1000) Tesi di Laurea di V. De Palma
ne morfologica nella descrizione e definizione della struttura sulla base di condizionamenti ambientali, sociali ed economici —che ne sottintende una lettura fenomenologica— e l’interesse per il fenomeno strutturale che analizza i funzionamenti per scoprirne le leggi evolutive, il processo di formazione e di sviluppo.(2) Esiste una ulteriore ambiguità che condiziona questa disciplina. L’azione progettante si forma attraverso processi binari, razionali ed irrazionali, consci ed inconsci, che cercano risposte ai bisogni della collettività siano essi primari o sovrastrutturali. Al di là della difficoltà di comprendere e selezionare in un grande organismo come la città quelli essenziali per la sua identità, per il suo valore spaziale e per la sua funzionalità, rimane il fatto che ogni progettista è impregnato di questa dualità che ha permesso di creare spazi di vita anche contraddittori ma ca-
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paci di sopravvivere alle ambiguità, dando origine a continuità storiche che sono di per se stesse ragione di vita. Questo fa sì che la città muti il suo impianto urbano ed il suo aspetto inventando sempre nuovi spazi e nuove aggregazioni. Alle formulazioni originarie si sono so-
Riccione. Proposta di riorganizzazione del sistema Terra-Mare. (1:2000) Tesi di Laurea di M. Zeppa
vrapposti nuovi assetti, spesso in antitesi, per cui quale sia l’approccio critico con il quale si affrontano la lettura e l’ideazione dello spazio urbano, occorre dare giusto peso a tutte le componenti che l’hanno determinato e che possono contribuire a crearlo: la razionalità come criterio di scelta finalizzata e l’istintività prodotta dalle scelte emotive della società. L’essenza della città è il sistema attraverso il quale essa trasforma e modifica i suoi spazi per consentire la comunicazione sociale non mediata; così facendo le sue caratteristiche spaziali (di forma) e d’uso (di funzione) più facilmente rilevabili si legano ai valori che la comunità conferisce e riconosce ai luoghi ed alle forme dell’ambiente, mentre gli spazi pubblici generici “rappresentano le situazioni intorno alle quali programmare l’espansione o la trasformazione
Riccione. Ipotesi di sistemazione della spiaggia. (1:500) Tesi di Laurea di M. Zeppa
urbana futura e riplasmare per quanto possibile quella passata.” (3) La messa a punto di una base metodologica della disciplina prende in parte le mosse anche dalla cognizione della sua autonomia dall’urbanistica quanto dalla composizione architettonica. Nella prima si trovano oggi poche risposte ai problemi nuovi della città che guardino oltre la sua pianificazione funzionale e l’assetto ordinativo dell’esistente secondo scelte principalmente tecniche. D’altro canto le tendenze attuali vedono l’architettura come oggetto, fatto concluso
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in se stesso, esprimendo in forme definite singolarmente le componenti urbane di qualsivoglia tipo e livello, offrendo di queste ultime interpretazioni sostanzialmente formali, non di vero cambiamento sul piano della forma della città come significato ed immagine. Il progetto urbano suggerisce un metodo che al suo interno attua il progetto degli obiettivi del processo di trasformazione e, al tempo stesso, gli elementi culturali, economici e fisici per renderlo concreto, avendo come linea-guida l’ideazione e la produzione degli spazi, e dei loro meccanismi di aggregazione, richiesti con varie modalità dalla comunità. Poiché l’ambito d’intervento si estende a grandi brani della struttura urbana modificando in parte o completamente sistemi specifici comunque interrelati, il progetto deve proporsi come processo aperto per affrontare la modificazione, anche non definitiva, di una situazione cercando nuove condizioni di coesistenza attraverso diverse interpretazioni degli elementi compresenti. Oggi non ci è consentito immaginare la città futura come icona globale creata con la partecipazione di tutti; si mostra confusa ed incongrua perché mentre si sviluppa con logiche multiformi, è programmata e controllata in termini univoci. Ciò non significa sostituire l’idea di città così come ci è pervenuta con sistemi aperti di relazioni complesse centrati su nodi di servizi comuni, controllati in continuità da strumenti di verifica più semplici ed agili nel settore gestionale; si tratterebbe comunque di un tipo operativo sostanzialmente formale avvantaggiato da dispositivi tecnici più moderni. Ci stiamo rendendo conto che qualsiasi progetto che tenti di controllare solo sul piano tecnico e formale una trasformazione della città è destinato quasi certamente al fallimento poiché affronta la questione con un’ottica limitata. In campo urbano sono rare le soluzioni per questo o quel problema isolato. La gestione dello spazio della città è globale; di volta in volta modifica la morfologia del costruito ed insieme il funzionamento della società. Lo stesso problema deve essere affrontato su piani diversi dal momento che in uno stesso luogo s’intrecciano molteplici tematiche da accordare e delle quali occorre individuare le sinergie; inoltre, se i cambiamenti di funzionamento coinvolgono fattori morfologici e tecnici, ugualmente inducono negli abitanti comportamenti diversi che il progetto deve, per quanto possibile, prevedere e anticipare. In proposito ha osservato Pica Ciamarra: “il problema è ritornare, in termini attuali, alla partecipazione collettiva non solo o non tanto alla realizzazione della città ma essenzialmente al suo disegno. La città può essere il risultato dell’effettiva condizione della società, e di questa accettare e riflettere tutte le contraddizioni e le ambiguità, i contrasti e le incongruenze, assumendoli come caratteri propri e distintivi del suo disegno.” (4)
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In che termini è possibile? Piuttosto che configurazioni concluse è necessario progettare quelle situazioni che abbiano capacita di organizzare lo spazio sia come contenuti che formalmente, per affidare ad esso una propria volontà di costituirsi come opera aperta collettiva, coinvolgendo la stessa comunità nel processo di progettazione e formazione di questi volani di sviluppo della città. La complessità come valore da comprendere e non frammentare, la diversità come affermazione dell’individualità dei gruppi e delle culture, un rapporto con la storia dinamico, il valore dell’immagine, anche tecnologica, come rappresentazione emblematica del nostro tempo sono i punti sui quali fare perno per affrontare i temi del cambiamento. Trasformare uno spazio urbano porta a identificare i nuovi contenuti da attribuirgli, mentre la sua fruizione nella dimensione spazio temporale richiede che la comunità sia produttrice e non spettatrice del suo processo di costru-
Firenze. Intervento sull’area FIAT di Novoli. Vista prospettica dell’intervento. Tesi di Laurea di N. Chirdo
zione; solo così esso può divenire quel luogo d’integrazione di fenomeni e d’interrelazione di eventi che è stato detto ‘complessità orizzontale’. Scopo ultimo è elevare la progettazione a strumento di conoscenza che si prefigga di valutare criticamente la realtà cogliendo i caratteri della dinamica interna di uno spazio e gli aspetti di processo indispensabili a qualsiasi scelta. La necessita di precisare un processo e d’individuarne gli obiettivi è così tanto più viva in Pescara. Riorganizzazione del vuoto urbano antistante la Stazione FF. SS. Plastico del nodo pedonale centrale Tesi di Laurea di A. Pierfelice
(1)
quanto essi non possono essere descritti se non all’interno di una precisa esperienza, cioè non definiti a priori o dedotti a posteriori, ma orientati e corretti nello stesso processo di costituzione della forma. In ultima analisi vogliamo sottolineare che il continuo scambio tra ipotesi e verifiche favorisce esso stesso i risultati, ed il progetto come momento operativo ritrova nella dialettica tra il gesto e la sua oggettivazione la realtà strumentale di una più generale metodologia.
Gatti elenca otto tipi di metodo: deduttivo (aprioristico), induttivo (aposterioristico), inquisitivo, dimostrativo, espositivo, dogmatico, dialettico. A. Gatti, “Il disegno della città”, Roma 1987 (2) Nella querelle instauratasi anni orsono tra storicismo e strutturalismo -ricordo che in quell’occasione Lacan definì Clio come la più rimbambita delle muse- si può ripercorrere il filo di una dialettica interna che trascende la valutazione di un metodo per approfondire la frattura tra due modi diversi di concepire la realtà. Vedi in proposito lo scritto di M. Capobianco sullo strutturalismo metodico in “Il metodo del disegno urbano”, Marsilio Editori, Padova 1970 (3) A. Ardigò, Atti del congresso di Assisi, 1967 (4) M. Pica Ciamarra, “Sintassi del progetto” in “Il metodo del disegno urbano”, Marsilio Editori, Padova 1970
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LA DIDATTICA DEL PROGETTO URBANO Piero Paoli - Cinzia Palumbo - Antonio Capestro
P. P.
L’insegnamento della Progettazione Urbana ha, nella nostra Facoltà, una lunga tradizione; da molti anni infatti si è
cercato di mettere a punto una chiarificazione sul significato stesso della disciplina e soprattutto di individuare strumenti metodologici coerenti ed avviare sperimentazioni progettuali di verifica. Nell’ambito della mia personale esperienza, si può ricordare che già nel 1979 veniva pubblicato un primo testo(1) nel quale si individuavano elementi di definizione teorica e si formulava una prima ipotesi di metodologia progettuale. Contemporaneamente, nell’ambito del Corso biennale di Composizione Architettonica IV e V, si provvedeva alla messa a punto di strumenti progettuali adeguati. A conclusione di un primo quadriennio di ricerca e di attività didattica, veniva pubblicato un nuovo testo(2) redatto con la collaborazione dei colleghi che in quegli anni parteciparono all’attività della Cattedra da me tenuta, nel quale venivano illustrati analiticamente i processi progettuali adottati dai diversi gruppi di studenti. Negli anni successivi la verifica progettuale ha continuato a mettere a punto strumenti operativi sempre più efficaci. La scelta di ‘trasformare’ il mio personale impegno di docente e ricercatore dalla Progettazione Architettonica a quella Urbana è derivata dal radicato convincimento che il modo di fare la città che ha caratterizzato gli ultimi decenni, segmentato nei diversi momenti del pensare il Piano e del realizzarlo attraverso singoli interventi architettonici, non può risolvere i problemi della città attuale. E ciò non per mancanza di buoni architetti o urbanisti, ma, ritengo, per un vizio congenito negli strumenti stessi e soprattutto nel loro rapporto. Questa convinzione, accompagnata evidentemente da una visione del problema tipica di chi è abituato ad operare ‘a valle’ del Piano, mi ha indotto a cercare una strada alternativa nel Disegno Urbano (o come ormai è entrato nell’uso definire nelle Università italiane, della Progettazione Urbana) che, a mio parere, può essere riconosciuto come nuovo possibile strumento di progettazione della città. Non certo alternativo all’Urbanistica e alla Progettazione Architettonica, bensì ad esse complementare.
C.P.
Il passaggio epocale che stanno vivendo comunità, città e territorio focalizza l’attenzione su un nuovo bisogno di città
che, pur attingendo ad un sistema di permanenze e di valori stabili si esprime attraverso una pluridimensionalità di stimoli, norme comportamentali e orientamenti rinnovati. È difficile delineare un panorama completo delle ‘forme’ e delle ‘valenze’ che spazi e città assumeranno durante questa transizione. È comunque certo che il nuovo bisogno di città e le nuove tendenze della Progettazione Urbana e Architettonica riflettono il fermento di innovazioni introdotte dalle nuove tecnologie di comunicazione avvertite sia rispetto alla ristrutturazione dei processi produttivi sia in riferimento alla rivoluzione delle modalità di scambio e di interazione sociale. Partendo dalla premessa che le nuove tecnologie introducono una radicale trasformazione delle coordinate spazio-temporali dei sistemi di rapporto e delle modalità di diffusione delle informazioni nella società e nella produzione emergono due concetti fondamentali: - il concetto di rete e di connessione, che sottolinea la predominanza di un sistema di relazioni locali e globali; - il concetto di interattività che basandosi su nuove forme di scambio e di informazioni avvia, in tendenza, un recupero della soggettività e della individualizzazione delle azioni dopo il periodo di standardizzazione industriale. Questi due aspetti poiché agiscono in maniera determinante sulle norme comportamentali e culturali si riflettono anche sul ruolo e sulle valenze
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che la struttura urbana assume nelle sue conformazioni e nel sistema di permanenze che è in grado di produrre attraverso l’articolazione di spazi. La domanda di città, nel passaggio dal periodo industriale a quello postindustriale si sta profondamente trasformando. Se, infatti, il periodo industriale aveva standardizzato, razionalizzato, compartimentato e centralizzato tutti i sistemi da quelli produttivi a quelli sociali, comportamentali e dunque quelli urbano-territoriali gestendoli ed organizzandoli secondo il principio della massima funzionalità, della ‘one best way’, del-
l’utilità, il periodo attuale di industrializzazione avanzata non esclude la funzionalità ma la amplifica a valori che fanno riferimento alla complementarietà dei sistemi che interagiscono secondo dinamiche basate sulla imprevedibilità, sulla velocità dell’evento e sulla emozionalità dell’esperienza urbana. La città industriale conciliava all’interno di un contesto geografico identificabile attività, popolazione e potere, oggi la città si inserisce in un flusso di dinamiche eterogenee dove simboli, informazioni, capacità di gestire l’insieme degli orientamenti si trasformano in temi conduttori di una modificazione che, fondata sul processo e una intrinseca capacità di modellarsi in fieri, prefigura un nuovo rapporto tra cultura urbana e qualità dello spazio e di conseguenza tra progetto della città e dell’architettura nella sua fisicità e nella sua raffigurabilità e significatività. La città ‘prende forma’ non solo attraverso gli spazi ma anche attraverso nuove ritualità sociali, produttive e comunicative; diventa permanenza non solo per la comunità stanziale poiché le integrazioni tra locale e globale diventano sempre più complesse, la loro possibilità di interrelazione si amplifica delineando un cityscape che è la sintesi di una esperienza urbana che tenderà sempre più a riaccostare le scale dell’abitare in un continuum di attività e di spazi dove organizzare, attraverso un sistema integrato, produzione, tempo libero, mobilità e residenza.
A.C.
La città e la società contemporanea sono, sostanzialmente, diverse da quel-
le delle epoche precedenti perché costrette ad assimilare l’attuale cambiamento esponenziale come un valore in cui sapere elaborare capacità di orientamento esistenziale e modelli strategici di intervento che, valutando ogni aspetto di una realtà dinamica e fluttuante, siano in grado di indirizzare la trasformazione verso risposte urbano-territoriali adeguate ed alternative. Uno degli aspetti di innovazione più emergenti che segnano il passaggio al Terzo Millennio fa riferimento al concetto di complessità: la complessità è un evidente fattore caratterizzante e destabilizzante dell’attuale momento di transizione verso l’industrializzazione avanzata. I suoi principi fondamentali hanno già contaminato l’ambito della produzione scientifica ed industriale; hanno suggestionato la natura degli scambi, delle merci e delle interazioni dei soggetti sociali, ma soprattutto da fenomeno destabilizzante rispetto all’assetto strutturale dei contesti urbano-territoriali si sta convertendo in motivo
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ispiratore degli interventi di riqualificazione e reinvenzione della città. Questa nei suoi modelli di trasformazione è sempre stata sintesi di tre sistemi fondamentali: quello relazionale, che fa riferimento ad una dimensione sovrastrutturale, quello spaziale con una dimensione strutturale, e quella semantica che, integrando le prime due, genera una dimensione sottostrutturale interprete della tensione e dello scambio tra comunità e luogo. Con andamento ricorsivo ogni sistema, con modi e tempi diversi, si è amplificato nell’altro generando figure e strutture urbane differenti. La figura… ne schematizza i tratti fondamentali. Nella ‘città-testo’ dell’epoca preindustriale la struttura del sistema relazionale aveva maturato un coerente modello spaziale producendo una riconoscibilità ed una semantica del luogo urbano espressa attraverso una immagine inequivocabile. La ‘città-elenco’, industriale interrompe la coinciden-
za tra relazione, spazio ed immagine della città , introduce cioè una sfasatura fra struttura (di città e territorio) e cultura (della comunità e della società) che, nel passato, divenivano l’una espressione dell’altra in forma integrata. Ora la città-elenco, industriale sta cedendo il passo ad una ‘città-ipertesto’ dove le variabili di innovazione in continuo progredire, da fenomeno di destabilizzazione possono tradursi in opportunità di scelte, di rimandi, di connessioni che modellano la città come palinsesto in cui ogni soggetto, a diverso titolo, sia coinvolto. La multidimensionalità del modello relazionale si riflette nella organizzazione di uno spazio estremamenente dinamico, produce un’immagine del contesto urbano non cristallizzato e dunque rigenera una tensione di aspettative che vanno a rimodificare il modello relazionale e quindi la fruizione del modello spaziale secondo un processo di ricorsività a complessità crescente. Superato, dunque, il modello gerarchico industriale, che ha prodotto la città-elenco, si creano le premesse per un modello più flessibile, fluido (basato sulla complessità delle interazioni dei sistemi) per ricercare nuove valenze di continuità interpretando la discontinuità, il dissenso, la differenza, il decentramento e la dispersione e formulando strategie dove diventa importante saper sentire per valutare ogni aspetto della quotidianità, che si sviluppa su più livelli dimensionali e saper negoziare con i fatti per inventarsi in una dinamica di trasformazione processuale. Nei modi e negli usi la città si sta già trasformando in un ipertesto, quindi, in cui ognuno può sviluppare un proprio
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itinerario conoscitivo ed esperenziale. La fruizione della città diventa interattiva: questo implica uno spazio processuale ed una nuova estetica del senso che riavviano, in tendenza, una rinnovata integrazione tra modello relazionale, modello spaziale e modello semantico.
RELAZIONE
P. P.
Ritengo che tutti, urbanisti ed architetti, avvertano che è necessario ten-
dere ad una nuova comprensione dei processi di formazione della città per capire se e come si possa incidere sulle sue prossime trasformazioni. Se si considera infatti la città come l’habitat di una comunità (così come certamente è stato per molti secoli prima delle grandi espansioni indotte dalla rivoluzione industriale) ne
consegue che la crisi della città attuale è direttamente determinata dalla crisi della comunità stessa, che si esprime in una situazione paradossale, in quanto nessuna parte del territorio urbano può oggi essere definito, a tutti gli effetti,
“Una nuova spazialità per l’Isolotto: proposta di un tessuto relazionale reinserito nel circuito urbano” Tesi di Laurea di A. Capestro e C. Palumbo Relatore: P. Paoli Correlatore: A. Cortesi
habitat di una comunità. Non lo è più, infatti, il nucleo antico della città nel quale sono insediate oramai solamente attività direzionali, amministrative, commerciali, ricettive e di rappresentanza e dal quale sono escluse le attività residenziali permanenti; non lo sono le aree periferiche e marginali che a causa dell’allontanamento progressivo delle attività produttive tendono sempre più a connotarsi come meri dormitori. Affrontare il problema della riorganizzazione urbana significa, quindi, tendere alla ricostituzione di un habitat comunitario e pertanto assecondare una diffusa ed intensa domanda di città. Significa, altresì, affrontare il tema del superamento della dicotomia centro/periferia facendo riferimento a modelli alternativi di organizzazione tendenti ad individuare una nuova struttura che potremmo definire della città tutta. Una nuova struttura, cioè, basata su un sistema di centralità diffuse in grado di riequilibrare la differenza di potenzialità urbana oggi presente nell’organizzazione dicotomica. Conseguentemente a queste premesse, da alcuni anni, nell’ambito dell’attività di ricerca è stato messo a punto un modello di organizzazione urbana che abbiamo definito della ‘Interpolarità Generale’, basato su una ipotesi di continuità relazionale fondata su autosufficienza e interdipendenza, perseguibile a condizione che la collettività ristabilisca con il
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luogo un rapporto sufficientemente stabile e che sarà realizzabile solamente se alla attuale condizione di mobilità permanente, generatrice di dissociazione fra gli individui e fra questi e il luogo o i luoghi dell’abitare, si riuscirà a sostituire una situazione in cui la mobilità divenga un fatto eccezionale e, soprattutto, non rappresenti una necessità imposta da un’equilibrata organizzazione territoriale, ma piuttosto si identifichi con la possibilità di relazione fra ambiti complementari. Questo modello organizzativo consente di ipotizzare un effettivo riequilibrio della potenzialità urbana all’interno dell’intero sistema insediativo garantendo un recupero di ‘dignità urbana’ per ogni singolo intorno relazionale. Occorre ipotizzare, quindi, una concatenazione di interventi capaci di incidere in termini sostanziali sulla totalità dei comportamenti della popolazione, e non solo sui suoi aspetti di ordine funzionale. Si può cioè ritenere che si debba operare tendendo a perseguire fondamentalmente due obiettivi: occorre puntare su gradi crescenti di autosufficienza delle aree insediative, e su gradienti di specializzazione capaci di assicurare interdipendenza tra i vari livelli di relazione: ed occorre altresì tener presente che questa duplice condizione di autosufficienza e interdipendenza può essere acquisita se si recupera un ruolo significativo per ogni punto del sistema insediativo nell’ambito del disegno organizzativo generale, ruolo che possa garantire ad ogni elemento del sistema dignità urbana.
C.P.
Nel passato consistenza e durata, permettendo
la reiterazione dell’esperienza, consentivano la formazione di un’idea di realtà, nell’ambito di una comunità riconoscibile, che si spazializzava in una forma architettonica ed urbana. Il modello di città che ne scaturiva costituiva la sintesi di una corale esperienza significativa consolidata e verificata nel tempo tanto da assumere la stabilità e la consistenza di una forma materiale. Oggi la moltiplicazione delle possibilità di connessioni, di contatti, di comunicazione per l’amplificazione dei rapporti introducono un aggancio inedito tra soggetto, comunità e spazio urbano. Ciò presuppone un superamento dell’aspetto funzionale a vantaggio di nuovi valori di fruizione dello spazio e di nuove forme “Una nuova centralità per il territorio di Bagno a Ripoli: proposta per un sistema ricettivo di promozione - informazione” Tesi di Laurea di R. Carrus Relatore: P. Paoli Correlatore: A. Capestro
di relazione tra gli assetti urbani. La ricerca di strategie di complementarità muove, fondamentalmente, dalla volontà di risoluzione di due mali urbani: il male delle periferie degradate che compongono la città retaggio del modello di organizzazione industriale, ed il male della loro periferizzazione rispetto ad una globalità di interessi definita su scala mondiale. Situarsi in una condizione di periferizzazione vuol dire avviarsi alla necrosi. Riscattarsi da una condizione di periferizzazione vuol dire inserirsi in un sistema, strutturato a rete, di rapporti interdipendenti: significa alimentarsi di un ruolo nella connessione. Se da un lato i nuovi temi della progettazione di città e spazio sono rivolti alla individuazione di una singolarità riferita al ruolo e agli interessi e all’imagine che riesce ad assumere, dall’altra tale singolarità tende a completarsi in un sistema di riferimento che è più che mai estroversa, legata ad un sistema di relazioni ed aspettative che superando la contestualità
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del luogo la completa come singolarità sistemica. Si forma, così, l’immagine di una città che progetta il suo decentramento attraverso l’elaborazione delle connessioni fisiche e relazionali e l’elaborazione di strategie di complementarità. Il progetto della città in questo senso valuta sia le risorse materiali (sistemi insediativi, vuoti, infrastrutture ed altro) sia le risorse immateriali che riguardano flussi informativi, interessi, capacità di gestione, invenzione di orientamenti e di indirizzi, elaborazione di strategie possibili. Ciò significa che se prima la costruzione della città avveniva soprattutto per la presenza e l’accessibilità a risorse materiali ora la ricerca dei valori urbani si svolge anche attraverso altri canali. Non si tratta più di scoprire risorse materiali per produrre ricchezza, o perlomeno non solo; si tratta di inventare ruoli avvalendosi delle risorse che possono essere materiali ed immateriali. Questa considerazione rappresenta una chance non indifferente per le strutture urbano-territoriali. Nel modello di città industriale, la periferia è coincidente, nel significato, con la periferizzazione: l’una è la concretizzazione spaziale delle condizioni che l’altra introduce. Nel modello di città-territorio della industrializzazione avanzata, la periferia può riscattarsi dalla periferizzazione. Infatti un sistema di relazioni a rete, permettendo la connessione, consente il recupero del ruolo per alcune parti di città periferiche e periferizzate. Questo vuol dire la fine della logica della concentrazione, dell’intervento puntiforme e locale e l’avvio di strategie di intervento che organizzino la città secondo modelli di reti di interessi basate su sistemi di relazioni variabili. Ed è proprio la decostruzione che si offre come occasione di riprogettazione delle polarità, private di senso e di connessioni; questo significa rivalutarle in un contesto di complementarità con servizi che stimolino una atmosfera di crescita individuale nel sociale, controllando la destrutturazione per convertirla in valore e creare mobilità di interessi. Se pensare all’interno di un sistema diventa know-how progettuale, infatti, la città ridiventa protagonista in un processo, in una rete relazionale, riuscendo a tessere i suoi valori e le sue vocazioni con addensamenti e rarefazioni di interessi esterni in grado di configurare continuamente lo scenario urbano prospettandolo come campo per una molteplicità di opzioni. Questo la configura come un palinsesto, modello che contiene sempre il controesempio, una possibilità ulteriore di organizzazione.
A.C.
La rottura dei confini e dei margini urbani, i nuovi rapporti di
“Una nuova centralità per il territorio di Bagno a Ripoli: proposta per un sistema ricettivo di promozione - informazione” Tesi di Laurea di R. Carrus Relatore: P. Paoli Correlatore: A. Capestro
scala nelle relazioni, un diverso concetto di mobilità, la infrastrutturazione fisica e telematica del territorio implicano il ripensamento dei sistemi urbani ed introducono nuovi temi di Progettazione Urbana ed una metodologia d’intervento per città e territorio che sia dinamicamente plasmata su un divenire in accelerazione. La metodologia progettuale a cui si fa riferimento si basa sulla progettazione di flussi relazionali che definiscono un ‘livello sovrastrutturale’ nell’organizzazione urbano-territoriale e che indaga e assume come elementi indispensabili tutti quei sistemi che incidono nella costruzione del luogo urbano e che costituiscono un patrimonio di risorse immateriali (attività, flussi informativi, vocazioni, rapporti
centro pagina: P. Eisenman: Virtual House Modello ideogrammatico
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di scala) da cui non si può prescindere nel progetto delle trasformazioni e nella proposta della struttura di un sistema delle relazioni. Il sistema di flussi relazionali, per la sua flessibilità intrinseca, legge come dato di fatto la decostruzione dei valori urbani e, senza rinnegarne le aspettative, le utilizza per creare un circuito di relazioni attive; stabili al momento della loro organizzazione e dinamiche nella loro disponibilità al cambiamento. La loro organizzazione, fondata su un dinamismo stabile, è indissolubile dalla nozione di ambiente, si qualifica come sistema aperto al territorio. Si tratta di assumere, quindi, come strategia per il progetto della città e del territorio la ridefinizione dell’insieme di spazi insediativi in modo che possano diventare argomenti di progettazione in toto. Poiché la prevedibilità degli effetti cede il posto ad una molteplicità di elementi, che non si possono più né sintetizzare né razionalizzare in un unicum, le tematiche di progettazione urbana, ispirate dai fermenti di rinnovamento culturale e sociale, si indirizzeranno verso altre regole ispirate al processo che con flessibilità interpreta l’attuale molteplicità di scelte ed opzioni e l’organizzazione per poli distinti e non interagenti che contraddistingue la maggior parte delle città attuali. Rendere fluidi i rapporti tra le polarità, in questa logica, vuol dire progettare i collegamenti e non semplicemente congiungere i poli, significa frantumare il concetto di centripeticità spaziale per ricomporlo secondo un flusso che rielabora in maniera continua le polarità, si sostanzia di polarità che rimandano a polarità traducendo il percorso stesso in un nuovo tipo di polarità diffusa. Così il flusso non rinnega le permanenze e la strutture urbane già costituite, ma da un lato, ne recupera il patrimonio naturale e storico, dall’altro, reinterpreta tutti gli elementi che richiedono trasformazione ed un nuovo ruolo. Mette in moto una serie di situazioni che, elaborando nuovi codici culturali e relazionali, inducono nuovi comportamenti e, conseguentemente, organizzazioni diversificate e “Una nuova spazialità per l’Isolotto: proposta di un tessuto relazionale reinserito nel circuito urbano” Tesi di Laurea di A. Capestro e C. Palumbo Relatore: P. Paoli Correlatore: A. Cortesi
complesse. Ricerca, cioè, forme di continuità dalla lettura della discontinuità e della decostruzione attraverso tre punti fondamentali: - il progetto delle polarità, caratterizzate da un diverso concetto di centralità, diffusa, cioè non finita; - il progetto delle connessioni come entità fisica e relazionale, cioè il vuoto relazionale, sottoforma di tensione tra gli spazi e i luoghi di una città; - il progetto di uno scenario ecologico come campo di espressione dei primi due elementi di spazio non finito e del vuoto. L’ambiente, il concetto di spazio non finito e del vuoto, come nuova dimensione da progettare, strutturano un modello di gestione strategica della trasformazione della città, quella attuale, che si decostruisce e si ricostruisce in un paesaggio che è sintesi di differenti ecosistemi.
SPAZIO
P. P.
L’ipotesi dell’interpolarità impostata su queste premesse, consentirebbe ad
ogni intorno relazionale di possedere sostanzialmente due valenze: una tendente a
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comportare, per ogni ambito, la possibilità di essere polo di riferimento primario e permanente per un certo quantum insediativo; l’altra capace di attribuire allo stesso ambito la capacità di divenire riferimento saltuario per dimensioni territoriali più vaste. Si potrebbe parlare cioè di potenzialità relazionale articolata in due aspetti: l’uno di carattere diffuso, l’altro di carattere emergente; ognuno di essi esplicabile in organizzazioni spaziali e sistemi di segni architettonici dotati di differenziata intensità e riconoscibilità. Da questa ipotesi è derivata la messa a punto di una metodologia progettuale che consentisse di affrontare la realtà urbana in termini problematici senza costruire ‘certezze’ e dogmi ma che mettesse al centro dell’attenzione progettuale le relazioni tra gli individui, i gruppi sociali, le diverse attività e lo spazio urbano ed attribuendo alla progettazione un ruolo di innesco dei processi piuttosto che di produzione di risposte definitive. La messa a punto quindi di una metodologia progettuale ‘anomala’ rispetto alla maggior parte delle logiche più consuete di avvicinamento al progetto. Anomala rispetto alla logica oggettuale, in quanto fa delle relazioni e del concetto di sistema la propria sostanza. Ed il concetto di sistema, se agilmente accettato sul piano teorico, crea non pochi problemi sul piano progettuale, fino a che non si accetti l’idea di una progettazione aperta e disponibile ad automodificarsi. Che non significa ‘flessibilità’ nei termini di neutralità indifferente e indifferenziata dietro la quale si nasconde talora la volontà di non compiere scelte, ma disponibilità ad accogliere nuovi elementi evolutivi. Anomala rispetto alla tradizionale contrapposizione architettura-urbanistica, in quanto si pone come metodo riferibile a tutte le dimensioni progettuali; è evidente che anche un intorno spaziale minimo può essere progettato con questo metodo a condizione che si continui a considerare ogni ambito spaziale nelle sue relazioni con il sistema più ampio. Anomala rispetto ad una logica di tipo meramente funzionalista, in quanto affida la propria incidenza sui rapporti interpersonali, al ‘come’ le
P. Eisenman: Institute of Art and Sciences Staten Island
attività umane si svolgono e interagiscono, piuttosto che al rispetto dello ‘standard’. Anomala rispetto alle tendenze che perseguono immagini architettoniche precostituite prescindendo dall’uomo, dal luogo e dalla storia, anche se dalla storia assumono talora le espressioni esteriori.
C.P.
Oggi la città sempre più si costruisce non tanto intorno a spazi quanto intor-
no a luoghi in grado di permettere una esperienza personalizzata tracciata sulla correlazione degli eventi cui ciascuno attribuisce una significatività costruita attraverso itinerari urbani. Il concetto di luogo, cioè, non si identifica più con il singolo spazio ma si riassume nelle relazioni tra gli spazi che, decostruiti come edificiocontenitore si restituiscono come brani di città disponibili alla interpretazione del singolo attraverso la pratica urbana. Nell’era postindustriale cambia, dunque, la ritualità di fruizione dello spazio ed il progetto dello spazio stesso. La ricerca architettonica su nuove forme di spazialità è in fieri. E’ comunque certo che per quanto discutibile, nel periodo industriale i sistemi spaziali urbani assumevano una coerenza funzionale alle logiche di produzione. Ora quel tipo di produzione si pone
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accanto a nuove forme di elaborazione e di attrazione di capitali, a nuove merci di scambio a nuovi valori e finalità che, assimilate, si traducono in nuove forme di produzione dell’effetto urbano. In particolare ci si avvia verso un modus vivendi che interpreta e gestisce in forme diverse produzione, tempo libero, mobilità e residenza. L’opposizione tempo-occupato, tempo-libero (dal lavoro) tenderà sempre più ad annullarsi al punto da delineare nuove forme di attività che ibridano, in tendenza, gli spazi e le scale dell’abitare che il periodo industriale ci ha tramandato standardizzati. Il luogo della fabbrica, il luogo delle residenze e dei servizi, retaggio della segmentazione funzionale industriale, tenderà ad annullarsi per aprire nuovi orizzonti a categorie produttive e spaziali diverse. In questo senso lo spazio del lavoro si concilierà con quello del tempo libero. Ad esso, cioè, tendenzialmente verrà richiesta una ibridazione delle relazioni e delle attività intese non tanto come mix funzionale per garantire una percentuale equilibrata di attività (per esempio attraverso una macrostruttura spaziale che permette il funzionamento di un intorno chiuso) quanto come un sistema di attività note ed anomale (tendenti a creare l’evento in un sistema certo) ed in evoluzione che collaborano a qualificarlo come polarità con una sua presenza, una riconoscibilità ed un ruolo. In particolare l’edificio-contenitore distinto dal contesto e monofunzionale tenderà a scomparire. I luoghi della formazione e della conoscenza (le scuole, le Università, i laboratori scientifici), i luoghi dell’arte e della memoria (i musei), i luoghi dell’archiviazione delle informazioni (le biblioteche) si stanno configurando in questi ultimi anni come sistemi complessi che sfuggono ad una classificazione in una categoria. Si prospettano come nuove istituzioni sociali ed urbane, come singolarità riconoscibili ma disponibili alle contaminazioni derivanti da un sistema di relazioni. Scuole, biblioteche, musei, teatri, laR. Koolhaas: Zentrum für Kunst und Medietechnologhie Karlsruhe, 1989
boratori di ricerca, spazi di consumo, diventano il nuovo luogo della produzione di beni immateriali, legati alla lavorazione della materia-informazione a tutti i livelli. E questo costituisce uno degli aspetti più interessanti da esplorare tra i fenomeni di cambiamento introdotti dalle nuove tecnologie. Sembra, infatti, abbastanza indicativo che la maggiore disposizione di tempo non occupato dal lavoro di tipo tradizionale-industriale stia producendo non una città cablata ma una città di relazioni, tra gli spazi, tra gli individui e tra le comunità sociali.
A.C.
Se da un lato è quantomai opportuno il recupero dell’ambiente a tutti i livelli,
nello stesso tempo è necessario riflettere sulla figura simbolica che l’ambiente e gli spazi che lo costituiscono dovranno assumere. Esiste oggi, infatti, una crisi della rappresentazione e non della costruzione. Fino agli anni ’70 si è ritenuto che crescita urbana fosse sinonimo di crescita fisica della città rispetto ad un ambito territoriale. Dagli anni ’80, il termine crescita confrontandosi con il termine crisi ha cominciato ad assumere valenze particolari imboccando la strada del ‘cambiamento senza crescita’ riferibile a diversi tipi di territorio, spaziali e non. Ciò ha comportato la trasformazione dell’esistente, del riuso, del recupero ma anche la considerazio-
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ne di assetti extra moenia che contemplavano, oltre che sistemi strutturali fisici, anche la messa in valore di risorse e di interessi da inventare. La città, in questa logica, assume un diverso carattere di centralità che non è più un attributo della località ma diviene dimensione da modellare in un sistema strutturato secondo flussi di relazioni basate su una politica urbana attenta a regole di cooperazione e partenariato. Ciò non vuol dire sottovalutare il proprio habitat locale ma riaccostare le scale che vanno dal globale al locale secondo schemi di senso che si fondano sul processo. Anzi su un processo che inneschi altri processi che viene qui inteso come possibilità data agli infiniti flussi di relazioni di organizzarsi e di lasciarsi organizzare: il fine è quello di far abitare attraverso una riappropriazione consapevole dello spazio dopo il periodo di standardizzazione industriale. Questo suggerisce altre regole di progettazione, definisce un livello strutturale dello spazio urbano che compendia in un sistema tutti i gli elementi fisici che organizzano la città. Si considerino, a proposito, le potenzialità delle infrastrutture viarie, ferroviarie o di collegamento in generale, gli elementi naturalistici sviluppati linearmente come i fiumi, o gli elementi capaci di diventare attrattori di interessi correlati per l’omogenea distribuzione sul territorio come i parchi naturali, oppure le opportunità di relazione che le grandi fasce di aree dismesse possono offrire. Il ‘livello strutturale’ complesso, si identifica come sistema aperto, come non finito, che non coincide con l’indefinitezza e la polifunzionalità ma piuttosto tende ad organizzare la tensione tra assetti possibili per ricercare una figurabilità dello spazio, una riconoscibilità che contenga un concetto di armonia acquisito attraverso nuove forme e rapporti spaziali. La morfologia di una spazialità non finita, infatti, passa attraverso forme finite ma le rielabora in un meccanismo processuale e non causale, la definisce in una dimensione complessa che tende alla unicità di un assetto ma non si identifica con essa. Il concetto
P. Eisenman: Institute of Art and Sciences Staten Island
di dimensione, se si risale all’etimologia del termine (dimensus=misura), infatti, non riguarda solo la forma-immagine tradotta geometricamente ma anche la sua entità relazionale, la dimensione delle tensioni e degli interessi che riesce a permettere. La riconoscibilità della permanenza può, quindi, in questa logica, ricercarsi più nella possibilità di innescare un processo di costruzione esperenziale, offerta dallo spazio, che nella identificazione in una morfologia inequivocabile ed in una tipologia data a priori.
IMMAGINE
P. P.
Questo approccio contrasta con quegli atteggiamenti che tendono a costru-
ire certezze e dogmi dai quali, chi si accosta per la prima volta all’esperienza progettuale architettonica, è facilmente indotto ad essere attratto e affascinato. Una visione di questo genere comporta inevitabilmente conseguenze rilevanti anche sul piano del linguaggio architettonico. L’importanza attribuita all’interno di questo metodo allo spazio come conduttore dei rapporti comunitari, comporta una parti-
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colare attenzione progettuale alla concatenazione degli spazi per superare un comportamento progettuale fondato sulla definizione di superficie e volumi considerati come involucri, contenitori di funzioni precostituite. La convinzione che le azioni, le attività umane, non possano essere definite aprioristicamente in termini univoci, né imprigionate all’interno di oggetti edilizi e che lo spazio architettonico sia una totalità all’interno della quale si addensano e si diluiscono gli eventi umani, è una delle premesse che in sede dialettica risultano di essenziale importanza perché coloro che si avvicinano ai problemi della progettazione possano capire che scopo della loro attività progettuale non può essere la celebrazione della propria capacità ma la ricostituzione dei valori comunitari, attraverso operazioni sullo spazio che ne promuovano l’innesco. Sul piano didattico si tratta evidentemente di un esercizio paziente e costante, che comporta rinunce a modelli precostituiti e l’introduzione di una componente di misura (si potrebbe dire di ‘umiltà’) nel comportamento progettuale. L’esperienza condotta negli ultimi anni nell’ambito dei corsi di Progettazione Architettonica e di Progettazione Urbana ha dimostrato come sia possibile operare sul piano didattico nella direzione della verifica del metodo e delle premesse teoriche. Non solo: attraverso l’esperienza didattica, che, rispetto all’attività professionale, si caratterizza anche per un maggior grado di libertà e di indipendenza dai condizionamenti tipici di una realtà operativa, è possibile condurre il ragionamento progettuale dalla grande scala alla dimensione del dettaglio. Alla base dell’esperienza didattica sussiste la convinzione che, negli studi di architettura a livello universitario, la materia progettuale compositiva sia disciplina essenzialmente tendente allo sviluppo di una attitudine e di un comportamento progettuale maturo. Oggetto dell’esperienza non può quindi essere la semplicistica acquisizione di un corpus di conoscenze tecniche, né tanto meno lo sviluppo di tendenze gestuali e immotivate, ma l’operazione cosciente sulle trasformazioni dello spazio, inteso come conduttore dei rapporti interpersonali. La particolare delimitazione di campo riferita allo studio di relazioni urbane, se da un lato complica il problema per la presenza di Herzog & de Meuron - J. Herzog: Azienda Vinicola Dominus Yountville, California
una quantità rilevante di componenti, dall’altro offre materia complessa e articolata che consente una verifica del metodo particolarmente ricca. All’accezione di disegno urbano assunta come si è cercato di illustrare consegue che occuparsi di disegno urbano in sede didattica non significa invadere campi disciplinari estranei o complementari alla progettazione architettonica, né tanto meno eludere il problema ‘architettonico’ in senso stretto; al contrario, significa agire progettualmente, a tutte le dimensioni operative, sempre tenendo presente la corrispondenza fra i livelli dei rapporti interpersonali e i diversi livelli di caratterizzazione spaziale. L’esperimento didattico condotto in questa direzione ha contribuito e sta contribuendo non solo a chiarire i momenti metodologici, ma anche a mettere a punto un sistema di rappresentazione dei momenti e degli aspetti del processo progettuale non codificati dai linguaggi più diffusi. Particolarmente interessante sembra essere, sul piano della rappresentazione, il tentativo compiuto dagli allievi di esprimere con chiarezza la processualità dell’attività progettuale, nella volontà di lasciare va-
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lenze aperte alla immissione di nuovi elementi. Sia pure nell’autonomia e nella libertà di espressione delle attitudini progettuali del singolo, si può delineare, sulla base dell’esperienza condotta, una successione di fasi e di momenti di approfondimento del tema progettuale comune a tutte le esperienze ed estendibile sul piano metodologico. I temi delle esercitazioni possono essere diversi per estensione e complessità; è essenziale che si tratti comunque sempre di temi progettuali estesi ad un ‘contesto’ urbano e non ad un singolo oggetto edilizio.
C.P.
Se le nuove forme di produzione avviano verso i Knowledge works e la
mentedopera, che interessano il trattamento dell’informazione dal bit puro alla sua organizzazione ed elaborazione in forme di intrattenimento culturale e ricreativo, di gestione e di orientamento esistenziale, allora gli spazi della città tenderanno ad organizzarsi per effetto di questa nuova ritualità sociale e produttiva. Poiché al principio dell’utilità segue e si affianca quello del desiderio la prima considerazione che emerge è la seguente: innanzitutto piacere sta diventando sempre più importante del funzionare. L’ibridazione delle attività in questo nuovo modus vivendi concorre a formare nuove immagini spaziali che rappresentano uno starter importante per la definizione dei caratteri della singolarità dei luoghi nel contesto urbano inserito in un sistema di relazioni complesse e definite su più scale, dal locale al globale. In un mondo dove la produzione dei beni si lega più che alla quantità alla qualità, in un mondo dove il prodotto della produzione si sdoppia, cambia la sua ontologia in produzione di beni materiali legati all’industria (ristrutturata ma non scomparsa) e produzione di beni immateriali che immette sul mercato simboli e informazioni, produce immagini e cultura l’immagine di un luogo diventa importante quanto e più della realtà. Da qui l’attenzione sempre crescente alle possibili variabili che costruiscono sistemi di risorse in grado di amplificare le valenze del Progetto Urbano che è costantemente teso tra riqualificazione e invenzione attraverso strategie di progettazione flessibili che progettano il carattere del luogo anche al di là dell’aspetto morfologico valutando aspetti materiali ed immateriali degli assetti urbano-territoriali. Il carattere di immate-
J. Nouvel: Fondazione Cartier Parigi, 1991 - 1994
rialità, come componente importante nella progettazione, comincia a prendere forma anche nello spazio architettonico facendo emergere, almeno nelle interpretazioni più originali, una nuova forma di sensorialità che è propria dell’era elettronica ma che non rinuncia ad esprimersi nella materialità e fisicità dello spazio. La tendenza nel periodo attuale ad interpretare lo spazio inteso come flusso e non come contenitore chiuso implica la sua organizzazione come laboratorio che assume connotazioni diverse rispetto al periodo industriale. L’immagine che ne consegue è totalmente rinnovata. La Bauhaus di Gropius, per esempio, indicativa di una metodologia progettuale della civiltà industriale si presenta come una fabbrica di idee espressa attraverso forme chiare, riconoscibili rispetto al contenuto, con spazi organizzati secondo criteri geometrici razionalizzabili. Alcune architetture in epoca elettronica si prospettano nelle
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loro organizzazioni come laboratori in continua evoluzione, come organismi complessi: spazi ed attività ibridano la loro composizione e completano la loro singolarità attraverso regole compositive che compendiano materia, relazioni ed interessi; la loro singolarità diventa sistemica perché si definisce al di là dello spazio come oggetto architettonico. In questa logica l’involucro non assolve solo la funzione di filtro tra interno ed esterno, ma diventa membrana di assorbimento e di mediazione di un flusso che completa l’organizzazione dello spazio interno nel contesto senza soluzione di continuità. Suo fine è gestire informazione e comunicazione, permettere esperienze diversificate: come tale diventa spazio-contenuto e non solo spazio-contenitore. La sua materialità si esprime attraverso forme cangianti sia dal punto di vista relazionale che fisico. Le facciate diventano monitor, diaframma che decostruisce l’involucro di chiusura dissolvendo lo spazio interno in quello esterno stabilendo nuovi rapporti visivi e fruitivi. (Si confrontino a titolo esemplificativo alcune architetture come quelle di Rem Koolhas, lo ZKM a Karlsruhe, la Fondazione Cartier di Jean Nouvel a Parigi, la Mediateca a Sendai di Toyo Ito). L’organizzazione dello spazio come sistema di informazione che già nel ’39 era stata interpretata da Alvar Aalto, nel Padiglione finlandese all’Esposizione Universale di New York, viene ulteriormente sviluppato. I materiali della composizione di spazio e immagine diventano membrane fluttuanti, piani di materia permeabile che superano il concetto di funzione di chiusura per esprimere la possibilità di interconnessione tra più realtà che non sono più tipologicamente definite. Contenitore e contenuto si ibridano in un rapporto che è in continua trasformazione. Lo spazio diventa medium per il passaggio di informazioni e per lo svolgimento di una esperienza soggettiva e non predeterminata, si apre al contesto e con esso stabilisce un rapporto emozionale e dinamico, diventa palinsesto e supporto per una diversa riappropriazione, fruizione e leggibilità dello spazio.
Asymptote Architecture, Lise Anne Couture, Hani Rashid: Display panoramico all’interno della sala operativa della borsa di New York. N. Y., N. Y.
A.C.
Il nostro modo di percepire la geometria del mondo è cambiato. E’ cambia-
to anche lo spazio mentale che ci permette di stare e pensare nel mondo. L’abbandono delle idee chiare e distinte denota una frattura epistemologica che introduce uno spazio mentale particolare, complesso. Si può ragionevolmente pensare, rispetto al caso-città, che il dialogo permanente con la scoperta e con l’aspetto emozionale dello spazio non dia luogo ad un’anarchia formale ma ad una forma superiore di ordine nella organizzazione relazionale, formale/spaziale e semantica. L’attenzione ad uno spazio mentale da costruire attraverso la modellazione del vuoto relazionale, fisico e di senso diventa un tema da progettare essenziale quanto la modellazione del pieno. E, quindi, i soggetti della progettazione si amplificano. Non si tratta di progettare solo dei pieni spaziali localizzati in sedi opportune. E neanche si può pensare di ritagliare il vuoto urbano come interstizio di risulta. Poiché progettare il vuoto di senso come pieno equivale a progettare quel particolare spazio che collega città e cittadino attraverso la pratica urbana e la capacità di riconoscersi nella città e quindi di restituire un’immagine del luogo urbano come
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sintesi di una pluralità di sistemi complessi: quello relazionale, quello spaziale e quello semantico. Lo spazio fisico e materiale, finito, si completa, dunque, con il progetto dello spazio vuoto come spazio di senso che ora più che mai si sostanzia di relazioni tra le cose. Ciò che sta tra gli individui diventa argomento di progettazione in quanto spazio fisico e architettonico da progettare o in quanto luogo, dove più spazi, fisici e mentali, interagiscono; diventano elementi da modellare senza subordinare il vuoto al pieno, poiché l’edificio come la connessione, intesa come campo di forze e di tensioni tra gli spazi, hanno come fine la formulazione di spazi collettivi, risultante di itinerari e sequenze descritte dall’individuo in rapporto ad una collettività e a più ecosistemi, da quello urbano a quello naturale e territoriale. Il progetto del sistema semantico della città esprime la definizione di un ‘livello sottostrutturale’ basato sulla complessità dei sistemi del sentire subordinati o assenti nella logica razionalizzante industriale. Il sistema dei segni, dei simboli evocano delle aspettative che insieme alla forma fisica che lo spazio assume costruiscono l’immagine dei luoghi urbani come processo di interpretazione di una realtà in continuo stato di assestamento. Dal punto di vista metodologico, quindi, la valutazione di un assetto relazionale e spaziale non può prescindere dal progetto di tutti quei sistemi che fanno parte della sensorialità e dell’emozionalità dello spazio: luce, colore, materia costruiscono un’immagine che eccede dall’aspetto funzionale, interpretano un sistema di aspettative monitorate su una fluttuazione di bisogni/ desideri. Per questo la dimensione degli spazi sarà data non solo dalla loro configurazione fisica ma anche dalla capacità di stimolare l’interazione tra individui, di sollecitare dimensioni più particolari legate al pathos, all’emozionalità. Si pensi a questo proposito alla ricerca iniziata da Wright negli Uffici Johnson in cui l’impianto spaziale organizza e permette un flusso relazionale che eccede dalla dimensione puramente funzionale e quantitativa. La stessa originalità esperenziale viene offerta nello spazio espositivo a spirale del Museo Guggenheim di New York dove la forma implica un particolare rapporto tra utente ed attività e dove l’immagine del museo si articola nella personalizzata fruizione dello spazio progettato come per-
Asymptote Architecture, Lise Anne Couture, Hani Rashid: Centro operativo avanzato della sala delle contrattazioni della borsa di New York. N. Y., N. Y.
corso, esposizione e sosta e dunque non secondo una tipologia ma secondo una rinnovata modalità di interpretazione dello spazio-museo. La ricerca architettonica contemporanea sta elaborando tematiche progettuali in cui l’impianto dello spazio architettonico è sempre meno oggettuale e sempre più rivolto ad una contaminazione formale e relazionale con il contesto che diventa parte integrante nella definizione della sua immagine fisica e della sua riconoscibilità. I soggetti della Progettazione Architettonica e Urbana sono profondamente mutati ed uno dei temi più importanti sta diventando il raggiungimento di una spazialità ecologica, di spazi cioè dove i rituali della collettività possano svolgersi superando le alternative (1)
classiche per progettare un tutto articolato e vivo. In esso simboli, vocazioni, relazioni e materia acquisiscono la stessa importanza nella proposta di una immagine dello spazio architettonico e urbano cangiante dinamico.
P. Paoli - A. Cortesi, “Disegno Urbano - Una proposta per la città come sistema”, Pitagora Editrice, Bologna, 1979 (2) P. Paoli - A. Cortesi - A. Del Bono - R. Marzocchi, “Identità Urbana e disegno della città”,Pitagora Editrice, Bologna, 1979
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RINATURALIZZAZIONI Claudio Zanirato
Nel panorama della città diffusa, dove è tutto il paesaggio ad essere abitato, questo è destinato a scomparire assieme all’architettura. Il paesaggio è il naturale sfondo dell’architettura, il piano di definizione della città, è lo spazio di confronto di cui l’architettura abbisogna per essere un interno ed un esterno nel contempo. Il concetto di paesaggio, come spazio naturale che separa le città, non esiste più, e la campagna appartiene al nuovo immaginario. Dilatata al territorio, la città smembrata fa dei grandi segni della natura i propri elementi monumentali, così l’architettura si adatta sempre più al territorio, ne segue le giaciture: si generano luoghi come paesaggi, a-spaziali. Spazio urbano e naturale non sono più tanto concetti in opposizione, ma sono mescolati in realtà spurie e disgregate. E l’estensione della città al territorio, l’orbis divenuto urbs, in un paesaggio improvvisato che si somma a segni e tracce, traduce la città estesa come insiemi di paesaggi urbani, una geografia artificiale che coincide con la ‘natura’. L’originale rapporto città-campagna sta per essere sostituito dal binomio città-metropoli, per cui nell’ampia fascia periurbana si collocano edifici residenziali, attività ricreative, terziarie e altro, attività comunque prive di alcun rapporto costruttivo con l’ambiente naturale o con il contesto cittadino. Queste aree suburbane non possiedono né i tradizionali vantaggi tipici della vita urbana, né li compensano pienamente con i privilegi della solitudine campestre, nell’indefinita extraurbia della città diffusa. La dilagante crescita urbana porta il cittadino alla conseguente disurbanizzazione, ripristinando in lui i difetti più tipici dell’abitante rurale ma senza i vantaggi della vita comunitaria, e proprio quando aumenta la densità urbana diminuiscono gli effetti culturali della vicinanza, sostituendo alla comunicazione la frammentazione. La proiezione tendenziale sembra essere la suburbanizzazione e la ruralizzazione, cioè la fusione tra città e campagna, il progressivo annullamento delle differenze. (1) Così la città contemporanea si compone come un pseudo-territorio. Sembrerebbe più opportuno definire questo prodotto ‘anti-città’, dal momento che non è né urbano né rurale, avendone annullato la tradizionale contrapposizione. L’esistenza di questo paesaggio intermedio, spurio, è sintomatico dell’attrazione verso i valori della campagna visti come proiezione invertita dei mali della città, non il tentativo di una loro soluzione. L’identità strada-edificio si disperde, aumentano le distanze e le separazioni, in una progressiva destrutturazione spaziale postmoderna, che ha avuto il via dalla creazione del parco-giardino ottocentesco, che ha interrotto l’unitarietà della visione prospettica e sociale della città. Mentre storicamente gli spazi verdi, orti e giardini, erano collocati sul retro degli edifici urbani, oggi stanno prevalentemente davanti quando non del tutto attorno. Anche se il costume “d’introdurre nel tessuto urbano una zona che traesse configurazione, scopo e significato dalla campagna risale almeno agli antichi romani: Rus in urbe, consentiva ai patrizi, la cui esistenza era essenzialmente urbana, di deambulare entro il terreno della villa in modi del tutto famigliari e rassicuranti”,(2) mentre la tensione individuale/collettivo prende forma nel tentativo di trasformare materialmente la città in campagna, sul modello della città giardino di R. Unwin. (3) Proseguendo con la concettualizzazione dell’edificio-nave nel ‘mare verde’ Lecorbusierana, nell’esasperata ricerca di una completezza ambientale governata dall’architettura, improbabile fusione tra l’assoluto
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artificiale e l’assoluto naturale. (4) La proposizione del tetto giardino induce ad atteggiamenti esclusivi nel rapporto tra architettura e città, dal momento che l’edificio non appoggiato a terra lascia intaccato sotto di sé un suolo che però non è più tracciato dalle connaturazioni culturali, ritornando ad essere un terreno indifferenziato, inselvatichito. L’originario modello tipologico della villa, capace di trasmettere allo spazio della campagna il disegno e la visione dello spazio urbano, ritorna oggi alla città riportando di converso l’ideale di un paesaggio in grado di coniugare natura e architettura. (5) Nell’“orizzonte individuale di ciascuno di noi c’è la casa in città insieme a tutti gli altri cittadini, e una casa in campagna, al mare, in montagna, per potersene talvolta affrancare.” (6) La costrizione sociale si avverte soprattutto in città, per cui si tende a trasformare la ‘non città’ nella forma della campagna abitabile, nello spazio utilizzato anche solo in parte nel tempo, ma privo di convenzioni e limiti. Si configura pertanto una tensione ideale tra città e campagna che non rispecchia solo il disagio di una condizione materiale, ma più che altro il disagio di una condizione morale stimolata dagli obblighi, non soltanto quelli dovuti dalle norme del comportamento sociale, ma soprattutto dalla consistenza fisica della città. Nella città moderna il continuum urbano forma reticoli nel vuoto della naturacampagna anch’essa dispersa: lo spazio verde è diventato il simbolo di un rapporto perduto. Così come nelle campagne non ancora urbanizzate stanno sorgendo complessi edificati di tutti i tipi, come isole disperse, perimetrate ed introverse, e non solo quindi seconde case disseminate dovunque, che obbligano alla dotazione di infrastrutturazioni adeguate, le quali finiscono per attenuarne l’originalità e la riconoscibilità, ma senza neanche ripopolarla in alto: Green Port, New York Progetto per un parco urbano attrezzato nella marina sotto: Castello di Serravalle progetto per il nuovo polo scolastico
veramente come un tempo. Nei modelli dottrinali della modernità, lo spazio residuo era puro verde, “e la sua controllata nitidezza era una dichiarazione moralistica di buone intenzioni che scoraggiava l’associazione, l’uso”. (7) Così come per molti teorici dell’urbanistica moderna la città ideale è città-territorio, ispirata alla città giardino, popolata da case unifamiliari immerse nel verde, tutti modelli basati sulla crescita non intensiva, sulla ruralizzazione urbana. Così il reticolo agricolo sembra diventare il modello della città diffusa, per l’appunto reticolare. La coesistenza del desiderio di isolamento con il desiderio di mobilità, la voglia di identificarsi con il verde, conducono al compromesso tipologico della ‘villetta’, che non è in grado di confrontarsi con tutto ciò che esiste oltre il suo recinto. La civiltà postindustriale, abbattute le mura cittadine, reggimentato il territorio, ha finito per aggredire l’ambiente tanto da metterne in serio pericolo la stessa
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sopravvivenza, quasi estinguendolo. “La conservazione induce ad estendere la progettazione a tutto l’ambiente, se lo si vuole preservare”, specie dall’edificazione.(8) La fragilità e scarsità di risorse della natura inducono alla coesione progettuale, poiché le aree cittadine non sono più le sole zone urbane, come neppure l’ambiente può essere relegato ai pochi residui naturalistici integri, ne deriva che bisogna pensare a forme di paesaggio in cui convivano più ecosistemi. Rimane solo la natura a contrastare il dilagare urbano: si assiste così ad impropri processi di rinaturalizzazione in corrispondenza di aree dismesse, oppure, alle insinuazioni tentacolari degli assi viari che trascinano concentrazioni edilizie fuori dai nuclei urbani consolidati, a cui fanno riscontro le intrusioni vegetazionali che si addentrano verso il centro, tra gli spazi di risulta degli impianti radiali. Si sono creati così veri e propri ecosistemi urbani, forme di parassitismo faunistico all’interno delle città. Queste aree verdi interstiziali, oramai salvaguardate in larga misura, dovranno trasformarsi tra breve in grandi giardini e parchi. Colmare il vuoto dismesso industriale facendo entrare il verde in città, ma anche attraverso il recupero del residenziale obsoleto e gli spazi ex-agricoli, sta diventando un simbolo di progresso, in controtendenza con la ‘cementificazione’ di un temBergamo Progetto di un insediamento residenziale di margine
po. Il parco di-
centro pagina: Genova Voltri Progetto di sistemazione dell’area a mare
mento di risarcimento
venta così l’ele-
dei danni dell’urbanizzazione industriale, dei danni dell’inquinamento prodotti dal traffico, dalle fabbriche e dai loro rifiuti. Accanto ai processi di desertificazione del territorio per abbandono ed incuria,(9) esistono terreni incolti ai margini della città, semplicemente in attesa di essere trasformati, divenuti ‘riserva edilizia’, che possono essere considerati vuoti ex-agricoli o aree agricole dismesse. L’agricoltura attiva attorno alle città è oramai soprattutto quella delle produzioni fortemente specializzate, con rendite elevate per unità di superficie: come il florivivaismo per ‘l’abbellimento della città’, che appare come una ‘retroguardia’ della campagna che si confronta con l’avanzata della città, e che spesso si confonde con gli scenari degli ‘orti metropolitani’. Pertanto, “l’agricoltura suburbana è effimera: essa emigra senza sosta verso l’esterno, finché non viene fermata da ostacoli naturali”.(10) “Ai margini delle periferie ci sono vaste aree che più testimoniare un passato, dicono di un futuro che gli eventi hanno scartato, aree agricole intercluse dalla campagna ma non inglobate nella città, in attesa di utilizzi ora improbabili”. (11) Fa da contrappunto il fenomeno degli ‘orti metropolitani’, miniature della campagna interna circoscritta, riedizioni degli ‘hortus conclusus’, an-
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che se appaiono ai più come una forma di degrado ambientale, tollerato o reggimentato come forma di recupero sociale. In definitiva, è in larga misura cessata o è impropria la fuga dalle campagne verso la città, poiché oramai la
Casalecchio di Reno Progetto per il nuovo municipio
città è diventata tanto pervasiva da raggiungere la campagna. E se circoscrivere i luoghi dell’abitare in opposizione alla campagna ha costituito per secoli la ragione fondativa della città, oggi la sua diffusione conduce ad inglobare la campagna nell’edificazione del territorio: la città ingloba la natura e la campagna viene industrializzata. La consistente capacità di alterazione materiale dell’ambiente demolisce ogni confine, il processo di artificializzazione del supporto naturale non conosce limiti, e una miriade di prerogative urbane inondano un territorio, non più arginato e divenuto spazio antropizzato, senza soluzione di continuità con la città. Lo scenario metropolitano si caratterizza per l’artificiosità di tutte le sue componenti, persino quelle naturali, tanto da farne venire meno la contrapposizione. Le ‘villes nouvelles’ e le ‘new towns’ alla loro nascita sono state spesso circondate da una cintura intangibile di boschi e campi, a sua volta circoscritta da una superstrada di ridistribuzione, e solo più esternamente si può trovare la vera campagna. (12) Al ‘verde’ si ricorre spesso nell’improbabile tentativo di compattare lo spazio tra le case e tra queste e la strada, frapponendosi agli edifici isolati, fluttuanti in uno spazio indefinito e le arterie stradali a sola circolazione. La natura e non la campagna rischia di essere l’interfaccia ambientale della città diffusa: la natura, in quanto caotica, si accompagna all’essenza del caos diffuso della città, originata proprio come ordine concentrato a di-
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In questo Los Angeles è la prima città che incorpora delle ‘distanze rurali’ nelle sue smisurate ramificazioni urbane. (2) J. Dixon, “Nel concetto delle tre nature”, in Casabella n.597 (3) M. Romano, “L’estetica della città europea”, Einaudi, TO, 1993 (4) Le Corbousier esaspera l’idea di un’architettura staccata dal suolo fino al pensiero di poter calare dall’alto i suoi volumi senza addirittura toccare un filo d’erba. (5) Ed i paesaggi più significativi di questo percorso a ritroso possono individuarsi nelle serre-salotto dell’Inghilterra vittoriana, poi nella moda dei cottage suburbani, nella teo-rizzazione degli spazi verdi aperti come garanzia d’igiene, nel disegno dei parchi urbani. (6) M. Romano, op.cit.; (7) R. Koolhaas, “La città generica”, in Domus n.791, 1997; (8) B. Secchi, “Un progetto per l’urbanistica”, Einaudi, TO, 1989; (9) che anche in Italia con la sua densità demografica è stimato nell’ordine del 20%. (10) J. Gottmann, a cura di, “La città prossima ventura”, Laterza, Bari, 1991; (11) B. Secchi, “I vuoti urbani”, in Casabella n.503; (12) Sono rimaste pochissime grandi foreste naturali attigue alle città, come a Bruxelles, Berlino, Lussemburgo ed in parte anche a Parigi. (13) esistono città satelliti come una molto grande attorno a Huston, totalmente ‘camuffate’ nel verde.
fesa dell’irrazionalità della natura. La presenza del ‘verde’ in città è relativamente recente, e risale al 1600, mentre oggi la città cerca di rendersi invisibile, quasi dissimulata nel bosco, sembra
Foligno Progetto di sistemazione dell’area aeroportuale
ricercare un sorta di mimesi naturalistic a , ( 1 3 ) o p p u re l o p o s s i a m o c o n s i d e r a re come una riconquista della natura sulla città, forse in via di estinzione pure lei? Perduta definitivamente di vista la campagna si cerca di ricreare artificiosamente un ambiente verde ma senza successo, per cui per ritrovare nuovamente la sensazione di un tempo bisogna imboccare l’autostrada e la ferrovia ed allontanarsi molto dalla città.
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