Firenze Archiettura 2000-1

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1. 2000 dossier Periodico semestrale* del Dipartimento di Progettazione dell’Architettura via Cavour, 82 Firenze tel.055/2757721 fax. 055/2757720 Anno IV n.1 Autorizzazione del Tribunale di Firenze n. 4725 del 25.09.1997 Prezzo di un numero Lire 12.000

DIRETTORE Carlo Chiappi

DIRETTORE RESPONSABILE Marino Moretti

COMITATO SCIENTIFICO Maria Teresa Bartoli, Roberto Berardi, Marco Casamonti, Carlo Chiappi, Marino Moretti, Paolo Vaccaro

Sommario

Gianni CAVALLINA, Piero DEGL’INNOCENTI - Presentazione

3

LA RICERCA Giancarlo CATALDI, Patrizia IACONO, Alessandro MERLO La geometria di Firenze. Il progetto matrice della città e del territorio

4

Grazia GOBBI SICA Una rappresentazione cartografica del territorio collinare

18

Roberto MAESTRO Tradizione dell’abitare in Toscana

24

Pierfilippo CHECCHI Testo e contesto nel territorio aperto

28

LA QUALITÀ

REDAZIONE Gianni Cavallina, Piero Degl’Innocenti, Duccio Ferroni

INFO-GRAFICA E DTP Massimo Battista

COORDINATORE TECNICO

Benedetto DI CRISTINA Prospettive del rinnovo urbano

34

Virginia STEFANELLI Progetto e qualità

38

Carlo CANEPARI Riuso ed intensificazione a Torri Cintoia

48

Gianni Pratesi

COLLABORATORI Massimo Bianchini, Enzo Crestini, Roberto Corona, Laura Maria Velatta

COPERTINA Eugenio Martera, Laura Maria Velatta

SEGRETERIA DI REDAZIONE E AMMINISTRAZIONE TEL. 055/2757792 E_mail: progarch@prog.arch.unifi.it. Questo numero è stato curato da Gianni Cavallina, Piero Degl’Innocenti

PROPRIETÀ UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI FIRENZE

I MARGINI Gianluigi MAFFEI, Paolo VACCARO Progettare le periferie

54

Paola PUMA Nuovi paesaggi urbani: per un recupero delle qualità

68

Gianni CAVALLINA Margini, recinti, significati

72

PROGETTO GRAFICO E REALIZZAZIONE Centro di Editoria Dipartimento di Progettazione dell’Architettura Fotolito Saffe, Firenze Finito di stampare nell’ aprile 2000 da Arti Grafiche Giorgi & Gambi, viale Corsica, 41r Firenze *consultabile sul sito http://www.unifi.it/unifi/progarch/

LA SCUOLA

Piero DEGL’INNOCENTI Progettare con i comportamenti

80

Maurizio DE MARCO Un itinerario attraverso i laboratori di Progettazione Architettonica I-II-III 88


nel prossimo numero di

ARCHITETTURA : DOSSIER I LUOGHI DELL’ARCHITETTURA FIRENZE

2. 2000 d o s s i e r

Contributi di: Laura ANDREINI, Carlo CHIAPPI, Aurelio CORTESI, Maria Grazia ECCHELI, Paolo GALLI, Bruno GEMIGNANI, Mauro MUGNAI, Giacomo PIRAZZOLI, Fabrizio ROSSI PRODI, Vinicio SOMIGLI, Rino VERNUCCIO, Paolo ZERMANI.

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Rimane intatta, in questo nutrito Dossier dedicato alla Sezione Architettura e Contesto, l’apertura a tutto campo preannunciata dall’ultimo editoriale (cfr. Architettura e Città). E anche la considerazione sulla svolta che s’impone oggi alla vita della città e delle sue architetture. Mutano, invece, l’angolo visuale e la distanza prospettica. I nostri tipologi - la cui necessità da sempre è quella di stabilire un serrato dialogo tra storia, rappresentazione, rilievo e progetto - colgono relazioni di prossimità altre, grazie ad una “mappatura” dei significati della forma dei luoghi. Compiono, in definitiva, uno straordinario tentativo di colmare il divario tra l’oggettività dello scienziato e la soggettività del progettista. Pur seguendo itinerari diversi e con una serie di scorci di grande respiro - la ricerca, la qualità, i margini, la scuola - gli autori ci offrono i loro sistemi di riferimento, modelli di trasformazione, metodi di lettura capaci di indicare “strategie future” del rinnovo urbano. Il dato a priori di questo notevole contributo sta nella convinzione che la Storia è soprattutto, se non esclusivamente, il vero motore attivo della ricerca progettuale. Essa sembra obbedire all’assioma spinoziano secondo cui ogni essere tende a perseverare nel suo essere e, per una sorta di principio d’inerzia (necessità), deve consolidarsi nella propria compiutezza strutturale. Così la Scelta, questa sì soggettiva, di porre tendenzialmente al centro dell’analisi operativa una nozione di Storia con le sue categorie essenziali, con fatti e costruzioni legati da una sorta di determinismo causalistico, deve infrangere la superficie del costruito per non sviarne o decentrarne le origini che costituiranno il fondamento di un nuovo Progetto di architettura. Così la Fisicità viene mutuata dall’Intorno: è Senso che muove dalla ripresa intenzionale del passato ad opera del presente; s’introduce nella realtà e la condiziona, ricavando le giustificazioni dall’analisi di quegli elementi caratteristici che mostrano le qualità di un Contesto e dunque le prerogative irriducibili della sua forma, del suo essere. Così gli Eventi enunciano via via situazioni di linguaggio, la cui matrice consiste nello stabilire un raffronto tra ciò che si vede e ciò da cui deriva, privilegiando le tracce come idee-chiave, spingendosi ad andare oltre il dato, non per proiettarlo quanto per ispessirlo e ri-costruirlo minuziosamente in un disegno più esteso. Così la Ricerca mette a profitto un metodo iscritto in un preciso orizzonte culturale, assumendo finalmente il ruolo di elemento catalizzatore. La realtà del territorio, della città, la permanenza di edifici e forme sono i fattori determinanti di un’architettura che diviene formula del contesto e viceversa, ne riutilizza scientificamente i cliché e li riproduce in nuove equazioni. Suffragati da secoli d’umanesimo questi studi ci coinvolgono direttamente. Il loro rigore s’ispira ad una Logica ancora più antica, ereditata dalla classicità. È la logica della persuasione, che talvolta si presenta in forma di esercizio severo, talaltra di artificio sottile, soprattutto quando ai valori di cui si alimenta apre uno spazio sempre più grande. Ma in entrambi i casi produce un legame indissolubile tra significante e significato; anzi, ne estrae addirittura il potenziale, con lo scopo di approdare ad una qualità “superiore”, ad una verità indeformabile che ha preso tutte le precauzioni contro l’interpretazione. Soltanto un’altra verità la potrebbe minacciare: che in architettura “ogni modo è reso legittimo solo dal risultato” (A. Rossi). (Marino Moretti)


In ricordo degli amici Vittorio Battiglia Armando Donnamaria

P R E S E N T A Z I O N E

GIANNI CAVALLINA PIERO DEGL’INNOCENTI Gli ultimi decenni del secolo scorso hanno visto profondi cambiamenti e riflessioni sul “pensare” e sul “fare” architettura; la lezione del Movimento Moderno che, lo si sia voluto o no, ha cambiato la faccia del nostro pianeta, è stata ripensata e discussa; si è visto come, pur nella chiarezza e nell’importanza “ideologica” si fosse via via trascurato l’aspetto della continuità con il passato, del riferimento alle radici e agli archetipi, della considerazione di quelle regole formali, tipologiche, strutturali e semantiche che avevano contrassegnato fino ad allora la storia dell’architettura, del manufatto, del territorio, e con essi, di chi subisce ed usufruisce di tutto questo, l’“Uomo”. Nella Sezione Architettura e Contesto sono confluiti, fin dalla sua formazione, docenti e ricercatori che, da diverse estrazioni, si sono comunque riconosciuti in questa “aura di perplessità”, e che hanno sempre pensato che l’Uomo, per sua stessa natura, non può dimenticare il passato né estraniarsi dal contesto, anche in presenza delle più meritevoli ideologie che possano modellare la storia dell’architettura, utopizzandone gli esiti. È difficile, se non impossibile, dare una omogeneità assoluta alle ricerche, ai progetti, ed alla didattica che scaturisce da una sezione come la nostra; è però possibile ritrovare una traccia, un ordine, una griglia, nella quale risistemare e coordinare i non indifferenti sforzi che ognuno di noi opera nei suoi ambiti scientifici. Ci è sembrato opportuno quindi reintegrare ed ampliare i contributi scaturiti dal convegno “Interpretazione e Progetto”, tenutosi al Castello di Buggiano nel mese di ottobre 1999. In questo convegno sono confluiti una serie di interventi che, pur partendo da esperienze diverse possono essere ricollocati in quattro ambiti fondamentali, quello della ricerca, antropologica, geografica, tipologica, sociologica, della qualità del progetto, vista come chiave di lettura delle ultime tendenze, ma altresì come strumento di verifica, quello dei margini urbani, indagati sotto l’aspetto tipologico e semantico, ed infine quello della didattica spesso generatrice di problematiche,e conseguentemente, di nuovi e sempre variabili campi di indagine scientifica. Pertanto gli ambiti di ricerca, sempre capillarmente connessi con i temi della didattica, sembrano essere un humus per il continuo e rinnovato interesse su lettura e progetto, manufatto e contesto, edificio e città, monumenti ed edilizia di base, insediamenti storici e margini, uso e ri-uso, in una parola sul “significato dell’architettura” in relazione al contesto ed all’uomo.

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The architectural theory of the Forma Quadrata Italiae. The goal of this research is to make clear the roman urban planning system. The way of layingout territorial axes was established direct from the original foundation cross scheme, desumed by astronomical bearing, to define the site to be owned and consacred. From the Centuria to the Saltus, to the Ager, to the Milium the gradual acquisition of the Centuria’s multiples, functional to the territorial increases of the political and military growth. Such territorial division was after drawn in scale according to severe and proper methods, arranging the map in conformity with the best angular terms; the Italy’s secundum coelum settlement, or according to the astronomical disposition, is exceeded, for functional reasons, by the secundum naturam (or horizontal) settlement, of the peninsula. The landscape geometrical survey enlarges to the drawing of every geographical and tectonic feature, arranging a precise mathematical form to the geomorphic variations of the peninsula. The town is built in this general planned environment, and the urban blocks are still parts of the branch. Florentia is clearly in a mathematical and geometric connection with the whole ancient pattern of Arno’s valley.

LA GEOMETRIA DI FIRENZE IL PROGETTO MATRICE DELLA CITTÀ E DEL TERRITORIO Giancarlo Cataldi, Patrizia Iacono, Alessandro Merlo “È come se da i brandelli di messaggio che aveva tra le mani, egli avesse capito che la ricostruzione finale doveva portare alla scoperta di una mappa ...” (da Il pendolo di Focault, di Umberto Eco)

INTRODUZIONE: LA TEORIA ARCHITETTONICA DELLA FORMA QUADRATA ITALIAE

Di che si tratta. È il nome convenzionale di una teoria “architettonica” sulle modalità progettuali della pianificazione romana del territorio italiano. La sua verifica (tuttora in corso di elaborazione), con la ricostruzione topografica degli assetti antichi che ne deriva, lascia intravedere nuove prospettive metodologiche sia nel campo degli studi storico-archeologici che in quello dell’architettura e dell’urbanistica. La strutturazione romana del territorio italiano appare infatti costituire il sostrato imprescindibile di ogni trasformazione successiva, ancora oggi leggibile e funzionale, specie per quel che riguarda l’orientamento dei tessuti fondiari e delle divisioni amministrative. Gli esiti di tale ricerca mirano perciò dichiaratamente – nel senso muratoriano di “storia operante” - non tanto (e non solo) ad individuare gli impianti della pianificazione romana, quanto a comprendere più in generale il disegno complessivo che ha portato da fasi ancora più antiche agli assetti attuali. A contribuire cioè in ultima analisi a una maggiore e più consapevole integrazione dei nuovi interventi nel contesto ambientale storicamente consolidato.

Perché “architettonica”. Perché è una teoria che nasce nell’ambito dell’architettura, di cui utilizza il principale strumento operativo – il progetto - nella lettura ricostruttiva della pianificazione romana. Si viene così a prefigurare un nuovo metodo d’indagine, che rivolge al passato la peculiare capacità previsionale del progetto architettonico di penetrare il futuro per ideare virtualmente – alle varie scale del costruito – edifici, insediamenti e infrastrutture non ancora esistenti.

Tota Italia. La chiara percezione dell’unità geografica della penisola italiana da parte dei romani è una prima considerazione che implica l’ipotesi che essi abbiano potuto disporre, come arma segreta nelle campagne militari, di mappe sufficientemente precise rappresentative della forma dei luoghi. Oltre ad essere questa una convincente ragione “tecnica” per spiegare la loro superiorità strategica sugli altri popoli italici (etruschi in primo luogo) - nonché la rapidità e il progressivo incremento del loro raggio di conquista tale considerazione proietta la ricerca (e i quesiti che ne derivano) nei meccanismi operativi di lunga durata che fanno della cartografia la base imprescindibile della pianificazione territoriale. Attività che i romani ereditarono dagli etruschi, ma che svilupparono su scala più vasta, facendo fare a questa pratica (in origine esoterica) uno scatto decisivo. Ruotando di novanta gradi il verso dei sistemi trasversali delle città etrusche – collegate tramite vie commerciali da costa a costa con i centri adriatici – essi riuscirono con una sola mossa a possedere la chiave longitudinale dell’Italia, pervenendo per primi a concepirla geograficamente nella sua interezza.

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Pianificare: misurare, rappresentare, progettare, strutturare la terra. La strategia penisulare romana è attuata mediante un complesso di operazioni tecnico-progettuali tendenti a modificare in senso “geometrico” i territori conquistati con precise finalità di controllo militare e politico, di resa economica e di gestione giuridico-amministrativa. Ultima tra le grandi culture “idrauliche” del mondo antico, la civiltà romana affida dunque alla pianificazione (pianificare vuol dire letteralmente “stendere in piano”) il compito di strutturare le nuove regioni dell’impero, omologandole entro un unico grande disegno egemonico. Nella prassi operativa ciò comporta non solo il progetto grafico di ciò che s’intende realizzare, ma prima ancora la misurazione ri-“levata” (“sollevata da terra”) della forma del territorio, includente sia gli elementi naturalistici (monti, coste, fiumi e pianure) che le strutture preesistenti antropiche (insediamenti, poderi, percorsi, e confini di pertinenza). Non sappiamo come tutto questo sia tecnicamente avvenuto: proveremo a ipotizzarlo con gli strumenti del progetto, sulla base delle notizie (frammentarie) delle fonti scritte (tarde), partendo dalla persistenza culturale di determinati geometrismi, che si ritrovano pressoché identici in culture diverse, geograficamente distanti da Roma, come ad esempio quella indiana, in cui è possibile rinvenire nella concezione del màndala una straordinaria assonanza (non solo linguistica) con quella del mundus latino: entrambe probabili filiazioni di una stessa matrice, riferibile in origine all’indistinta nebulosa migrante dei popoli indoeuropei.

Il mundus-màndala: la misura dello spazio e del tempo nei riti antichi di fondazione. Il quesito dell’orientarsi nel mondo è dal punto di vista territoriale strettamente connesso con quello altrettanto archetipo dell’insediarsi più o meno stabilmente in un determinato luogo. La cui scelta iniziale è lecito immaginarsi debba essere il frutto di attente considerazioni inerenti tutta una serie di parametri naturali (posizione rilevata, presenza di sorgenti, risorse alimentari, legna da ardere, protezione dai venti, esposizione solare, ecc.), la cui importanza tende a non essere adeguatamente valutata dalla nostra odierna mentalità per così dire meccanicamente evoluta, che ha perso ormai ogni riferimento con l’ambiente naturale. L’eco remota della codificazione risolutiva di tali quesiti esistenziali si avverte ancora tuttavia nei riti sacrali di fondazione. La parola latina mundus prima di assumere il significato di “massima area di pertinenza antropica” aveva quello più specifico di “centro”, di perno o asse polare di collegamento tra il cielo, la terra e il mondo sotterraneo degli inferi. Compresente e complementare quindi alla figura “antipolare” del circulus, tracciato al suolo facendo ruotare intorno al palus (materializzazione del mundus) una corda (fig.1), al fine di delimitare lo spazio insediativo, l’orbs (da qui la parola “orbita” dell’orizzonte visivo) corrispondente territoriale dell’urbs. Il destino della città era insomma già virtualmente segnato all’atto stesso della scelta del sito (hic manebimus optime), con l’affissione del palo originario di fondazione, a cui allude probabilmente il toponimo della Roma quadrata romulea (Palatinus = palo latino?). Possiamo provare a ricostruire tale operazione, assegnando ad essa il nome convenzionale di collocatio (parola da verificare attentamente sul piano filologico, come tutte le altre latine qui citate): dove nella successione palus-moduluscirculus il termine intermedio indica la misura del raggio della circonferenza. La cui lunghezza è messa da Vitruvio - nel nono capitolo del suo trattato - in relazione all’altezza e all’ombra dell’asta dello gnomone, allorché nell’introdurre le problematiche complesse della costruzione degli orologi solari, spiega come tali dimensioni varino in funzione della latitudine dei luoghi, facendo l’esempio di alcune note città, la cui posizione sulla terra è esprimibile mediante una coppia di numeri interi, per ascisse e ordinate (ratio). Annotazione di grande interesse che ci fa capire come gli antichi misuravano le rotazioni angolari . Come vedremo tale ipotesi entrerà in gioco nella definizione della nostra teoria, uno dei cui enunciati riguarda appunto la misurabilità “geometrica” dell’ipotenusa dei triangoli rettangoli, come condizione necessaria per la precisione del tracciamento pianificatorio degli angoli retti. Il vantaggio, ad esempio, di assumere il numero 5 come modulus o raggio del cerchio può dipendere dal fatto che al quadrato di lato 5 corrisponde approssimativamente (sul disegno) la diagonale 7, così come la stessa indicazione vitruviana della latitudine di Roma (ratio 9:8) è forse legata alla misura ~12 della sua diagonale. Nella prassi operativa del cosiddetto “cerchio indiano” (altro nome ricorrente del mundus-màndala), l’individuazione degli assi astronomici si otteneva traguardando in un giorno qualsiasi dell’anno le ombre lunghe del palo all’alba e al tramonto: è la cosiddetta cospicio che - come si può dedurre dal disegno (fig.2) - consentiva di determinare l’orientamento dei quattro punti cardinali sulla base di

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una croce di fondazione ortogonale, il cui grado di precisione era dato evidentemente dall’esattezza con cui erano state condotte le operazioni di rilevamento astronomico. A Roma tale compito spettava alla classe sacerdotale, organizzata in collegi, il più importante dei quali era quello dei Flamines (corrispondenti ai bramini indiani), nominati dal pontifex maximus, la cui carica religiosa (come dichiara l’etimologia) era in origine strettamente connessa alla cura e alla costruzione dei ponti. E sempre su base etimologica possiamo assegnare al rex sacrorum la successiva conregio (fig.3): che stabiliva le modalità di tracciamento a terra degli assi cardinali, in base ai quali il tempio celeste veniva diviso in quattro regiones, che il rex appunto denominava e consacrava rivolto ad oriente, divinando il giorno fasto o nefasto, e traendone di conseguenza gli auspici (aves-spicere: osservare il volo degli uccelli). Arriviamo così all’ultimo e più importante atto del processo sacrale di presa di possesso del luogo: la fondazione del tempio terrestre (definitio templi: fig.4), che il re-fondatore poteva tracciare con precisione congiungendo i quattro punti cardinali sulla circonferenza del cerchio, dividendo a metà tali linee diagonali (misuranti 7 nel cerchio di raggio 5), e apponendovi i cippi. A partire dai quali con l’aratro veniva tracciato il mitico sulcus primigenius, che definiva esattamente sul terreno un templum pari a un quarto del quadrato virtuale circoscritto al cerchio di partenza. Facendo però attenzione a interrompere il solco in corrispondenza degli assi cardo-decumanici per l’apertura delle porte: la cui etimologia (altrimenti incomprensibile) mantiene in sé significativamente la memoria della faticosa operazione del sollevare lo strumento per “portarlo” al di là della sede stradale.

1. Misurare la terra: il rilievo dei luoghi. Chi progetta sa di doversi anzitutto riferire alla dimensione del progettato, utilizzando in funzione di tale variabile scalare meccanismi mentali proporzionalmente adeguati. In altri termini quanto più si è chiamati ad operare in grande, tanto più è necessario sollevarsi idealmente dal suolo (proiettandosi al limite all’infinito) per abbracciare in uno sguardo nella sua interezza, non solo l’area di progetto, ma anche (entro certi limiti) l’intorno che la racchiude. Nel nostro caso, l’ampiezza, la diffusione e l’omogeneità dimensionale dei riscontri topografici rinvenuti in ogni località dell’impero fanno pensare all’esistenza di un disegno unitario della pianificazione romana, fondato per quanto si è detto su una precisa base cartografica, implicante a sua volta il rilievo misurato dell’intero territorio italiano. Ammettendo l’esistenza di tali mappe necessarie alla redazione dei piani, dobbiamo però poi cercare di dare risposta al quesito della loro esecuzione tecnica. L’ipotesi più convincente è che esse siano state realizzate con modalità analoghe nella sostanza a quelle tipicamente romane per assi ortogonali e moduli quadrati: mediante cioè a uno dei metodi di rilevamento più antichi e diffusi, la quadratura (quadratio). Termine che indica in generale un qualsiasi sistema di riferimento a maglie quadrate (larghe a piacere) che opportunamente ridotte (o ingrandite) consentono di riportare scalarmente in maniera precisa un qualsiasi disegno. Nel caso di rilievi topografici ed edilizi, si presuppone che tale maglia sia fissata per capisaldi sul terreno a partire da un determinato incrocio originario, dopo aver scelto preventivamente il sistema direzionale più opportuno. Se lo si fa coincidere con l’impianto celeste del mundus, la mappa assume una configurazione assai prossima (angoli retti a parte) a quella delle odierne carte geografiche con il loro reticolato di meridiani e paralleli. Ad ogni quadrato sulla carta deve corrispondere al vero una porzione proporzionale di area rilevata: è possibile di conseguenza ipotizzare che tramite un laborioso meccanismo di allineamenti (ad lineas), picchetti (perticae) e traguardi visivi (spectiones) i romani abbiano disegnato direttamente sul terreno tale sistema modulare, realizzando in pratica quella mappa 1:1 che Borges in un suo racconto assegna invece all’abilità dei cartografi cinesi. Per provare a ricostruirla, dobbiamo però fissarne ipoteticamente il centro (Roma-Palatino o Roma-Campidoglio) e individuarne l’unità di misura. Quella fino ad ora impiegata nelle tradizionali ricerche archeologiche - la centuria quadrata di 710 metri di lato - appare del tutto inadeguata dal punto di vista tecnico, in relazione all’ampiezza e al grado di precisione dei rettilinei stradali romani lunghi parecchie decine di chilometri, come l’Appia e l’Emilia. Sarebbe paradossalmente come usare un righello per il rilievo di un edificio di grandi dimensioni. Riteniamo pertanto che gli agrimensori abbiano utilizzato una misura assai maggiore, tale cioè da consentire il rilevamento topografico, la rappresentazione e il progetto di porzioni territoriali sufficientemente ampie e precise da essere rapportate all’intero territorio italiano. Provando a scandagliare i meccanismi numerici della metrologia romana – impostata su

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Fig.1 Collocatio

Fig.2 Cospicio

Fig.3 Conregio

Fig.4 Definitio templi (urbis) Fig.5 Limitatio agraria

Fig.6 Forma quadrata Italiae secundum naturam

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serie miste quinarie e/o senarie di multipli e sottomultipli – abbiamo perciò considerato la centuria di 2400 piedi di lato l’ultimo anello di una più ampia catena mensoria. Con due (forse tre, con il super-ager di 60 miglia) sovrammultipli quinari: il saltus di 12.000 piedi quadrati (= 5x5 centuriae, modulo ancora insufficiente come unità di pianificazione a grande scala) e quello più ampio dell’ager (= 5x5 saltus), il cui lato di 60.000 piedi (= 12 milia) appartiene anche alla scala lineare delle distanze basate sul milium (= 1000 passus = 5000 piedi), utilizzata nei progetti stradali. I numeri 5 e 12 che contraddistinguono i due sovrammultipli della centuria hanno il vantaggio di presentare la diagonale assimilabile approssimativamente al numero intero in ragione rispettivamente di 7 (7,0710) e 17 (16,97), così da consentire, come si è accennato, nel disegno e nel tracciamento di sistemi ortogonali, a triangolazioni di controllo per ottenere la massima precisione degli squadri angolari. Abbiamo provato a ricostruire induttivamente (fig.5) la progressiva acquisizione dei sovrammultipli della centuria per successivi raddoppi, in funzione degli incrementi territoriali che la politica espansiva dei romani si trovò storicamente a gestire. Senza entrare in dettaglio nelle varie fasi, ci limitiamo a rilevare due ordini di problemi mensori: il primo relativo al quesito del passaggio da uno schema per così dire “organico” (un saltus di 25 centurie) ad uno “seriale” (quattro saltus di 100 centurie), da collegare probabilmente alle necessità quantitative della dilatazione territoriale, che portarono alla lunga a preferire un meccanismo replicativo “speculare” fondato sul numero pari 4, piuttosto che quello “simmetrico” fondato sul numero dispari 5. Il secondo relativo invece allo sfasamento tra la scala superficiale delle aree (centuria-saltus-ager) e quella lineare dei percorsi (passus-pertica-stadium-milium), con cui si misuravano le distanze e i raggi delle cerchie daziarie. Scale che hanno però una misura in comune, le 12 miglia, corrispondenti al modulo dell’ager, che proprio in virtù di tale considerazione, assume nella nostra teoria una grande importanza: sia come unità territoriale urbana (relativa a una città di media grandezza: “tipo” base amministrativo), che come unità itineraria (“tipo” base militare relativo alla capacità di percorrenza di una legione in assetto di guerra).

2. Rappresentare la terra: il disegno dei luoghi. Rappresentare significa letteralmente “ri-presentare” (praesens = prae-esse = che sta davanti), cioè ri-portare alla vista (anche più volte, volendo) l’immagine riprodotta di un qualsiasi oggetto, ambiente o situazione reale. Che prima di essere materialmente “copiati”, devono essere osservati e concepiti (cum-caepio = com-prendo) dalla (e nella) mente. Il problema tecnico del disegno (de-lineatio) si pone allorché cominciamo a “stendere” o riportare (rapportare) l’oggetto sul foglio a due dimensioni (tabula), dovendo decidere - nei limiti del formato a disposizione - quale coefficiente numerico di riduzione (“scala” da scansio-scandere = salire, innalzarsi, guardare dall’alto) scegliere nel passaggio dall’oggetto reale a quello rappresentato. Problema da risolvere con la massima precisione nella rappresentazione cartografica (e architettonica), in cui la misurabilità dell’oggetto disegnato è un prerequisito per così dire irrinunciabile. Dalla lettura del trattato vitruviano possiamo solo farci un’idea dei sistemi e delle tecniche di rappresentazione dei romani: quel che è certo – a giudicare dai frammenti della Forma Urbis, del catasto di Orange e dalla Tabula Peutingeriana – è che essi erano in grado di rappresentare planimetricamente situazioni spaziali anche di ampiezza molto diversa e dilatata, dalla città al territorio locale, all’intera ecumene imperiale. Impiegando a tal fine varie scale, per lo più duodecimali (come ad esempio l’1:240 della Forma Urbis), per ovvie ragioni di frazionabilità, compatibilità e coerenza con i meccanismi moltiplicatori del loro sistema metrico. Il quale aveva come unità minima il piede (pes = cm. 29,6), dimensione stranamente quasi identica a quella dell’attuale formato standard A4: caso senza dubbio singolare, indicativo tuttavia della sua buona resa (in termini di manegevolezza e versatilità) e delle sue capacità di persistenza, dovute probabilmente al grado di diffusione e alla secolare durata del suo impiego. Il principale strumento grafico degli architetti romani era perciò un righello lungo un piede (regula), frazionato sui due bordi in unciae (1/12) e digiti (1/ 16), mediante il quale essi potevano inizialmente predisporre il disegno, squadrando il foglio (limitatio quadri) con la squadra (norma), riquadrandolo in funzione della scala (quadratura: quadratio o reticulatio), e inquadrando l’oggetto nel modo più conveniente (dispositio obiecti in tabula). Operazione quest’ultima particolarmente importante soprattutto nella redazione di mappe e planimetrie, per poter utilizzare al meglio l’intera superficie del foglio. L’Italia ad esempio – data la particolare inclinazione del suo asse peninsulare – costituisce da questo punto di vista un serio problema cartografico: solo disponendola orizzontal-

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mente secundum naturam (come nella Tabula Peutingeriana) si riesce ad ottenere l’inquadratura ottimale delle terre emerse in relazione ai mari (fig.6). Per far ciò correttamente era però necessario individuare la ratio (2:3), ossia il rapporto angolare più opportuno in relazione a determinati capisaldi nodali della maglia astronomica secundum coelum. Meccanismo geometrico di rotazione che applicato ai sistemi modulari pianificati - come vedremo nel paragrafo successivo - costituisce uno dei punti salienti della teoria: è con tali modalità grafico-progettuali riteniamo infatti che i romani riuscirono a gestire la redazione processuale di un sistema di mappe ampio e articolato, disegnate storicamente sul territorio e continuamente aggiornate con i nuovi interventi. Abbiamo provato a ricostruire graficamente una Forma itineraria a grande scala dell’Italia centrale, tracciando le vie consolari a riga e squadra (delineatio) come su un foglio a quadretti in relazione alla maglia astronomica di base: ottenendo così un diagramma “ad albero”, di facile consultazione, del tutto simile come impostazione a uno di quelli con cui oggi si rappresentano schematicamente le reti metropolitane e ferroviarie.

3. Pianificare la terra: il progetto dei luoghi. La fase progettuale del processo di pianificazione messo in atto dai romani costituisce la logica prosecuzione tecnica della redazione geografica delle Formae, anche perché con ogni probabilità (almeno fino in età repubblicana) gli operatori (geografi e pianificatori) dovevano essere gli stessi. Il loro atteggiamento nel concepire i progetti (cogitatio) era pertanto più tendente al perfezionamento del lavoro cartografico svolto – quasi i piani costituissero la precisazione locale del disegno generale delle mappe - che all’ideazione (in senso moderno) dei nuovi interventi, che dovevano sempre risultare progettualmente aderenti alla forma naturale dei luoghi. Si trattava in altri termini di far ruotare parzialmente l’indifferente maglia astronomica di base per adattare i nuovi orientamenti alle più svariate situazioni oro-idrografiche (coste, crinali, fiumi, balze pedemontane), individuando tecnicamente il rapporto più adatto (ratio) per quella determinata angolazione prescelta. Abbiamo potuto verificare sperimentalmente a tale riguardo che qualsiasi coppia di cateti espressa in numeri interi e moltiplicata per n, può giungere a misurare approssimativamente a grande scala un’ipotenusa esprimibile anch’essa in numeri interi. Una gamma così estesa di rapporti trigonometrici (definibili in tal senso “pseudo-pitagorici”) avrebbe il pregio di consentire sempre e comunque (in qualsiasi situazione angolare) la verifica mensoria dell’esattezza degli squadri (fondamentale per il tracciamento degli agri colonici). La scelta progettuale dell’angolo giusto di rotazione era già in un certo senso implicita nel momento sacrale di fondazione, da cui aveva preso le mosse - con il reticolo celeste - l’intera ambiziosa (e grandiosa) volontà operativa di sottomettere la natura alle leggi e alle volontà umane. Il rilevamento geometrico del territorio e il progetto dei piani coloniali erano cioè frutto degli stessi meccanismi mentali, che operavano senza stare troppo a distinguere concettualmente le strutture esistenti da quelle di nuova istituzione. Nel caso dei percorsi, ad esempio, il loro disegno (delineatio viarum) – sia di rilievo che di progetto - veniva comunque riassunto sinteticamente in una spezzata, i cui segmenti erano scelti in funzione della loro capacità di poter essere assimilati (a seconda della scala, aumentando mano a mano il grado di dettaglio) al tracciato effettivo o a quello ritenuto progettualmente più conveniente in relazione ai luoghi attraversati (segmentatio secundum naturam), mantenendo tuttavia come media direzionale sempre la congiungente tra i due capilinea (coniunctio capitum). Il quesito tecnico era praticamente sempre lo stesso: individuare in relazione al reticolo astronomico di base le direzioni diagonali più adatte (con le relative rationes numeriche) per il tracciamento di linee stradali, la cui rettificazione convenzionale rendeva, come si è accennato, le carte itinerarie chiare e soprattutto facilmente misurabili per i fini più disparati (militari, commerciali, amministrativi, ecc). Con un solo obbiettivo strategico: consentire dal centro del sistema una visione globale per il controllo dei territori conquistati (Roma caput mundi). Con il progredire del tempo, intorno al nucleo originario della città si è venuta a creare così una imponente ragnatela viaria (“tutte le strade portano a Roma”), tesa inizialmente a coprire a 360 gradi la regione circostante (quella che sarà la “campagna romana”). Con l’incremento esponenziale del raggio di espansione questo schema polare, centripeto, si è gradualmente trasformato in uno meno organico “a trave reticolare”, avente per aste le vie consolari e per nodi gli altri principali terminali urbani della penisola. Ma a differenza di quanto avviene oggi di solito nella progettazione delle grandi infrastrutture viarie, una strada romana (strata = via pavimentata) nasceva programmaticamente integrata con i tessuti e le divisioni amministrative, di cui anzi di norma costituiva

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l’asse d’impianto, il decumanus, con funzioni di percorso matrice. Che formava con il contro-asse ortogonale (kardo) la cosiddetta croce territoriale di fondazione (tetrans o decussis: institutio cruci secundum naturam), che dava origine a sua volta nelle quattro regioni dello spazio a un certo numero di grandi quadrati territoriali tipo (limitatio per agros), risuddivisi in sottomultipli (adsignatio publica per saltus). Si veniva così a delineare una griglia modulare gerarchizzata che consentiva agevolmente di stabilire – quantificandole in numeri interi - le pertinenze amministrative sia delle città (municipia e coloniae) che degli insediamenti minori (vici e pagi). Siamo indotti pertanto a ritenere dai numerosi campioni territoriali fino ad ora confrontati che con queste modalità la penisola italiana fu progressivamente sottoposta a quella che può essere definita una vera e propria “strategia del domino”, attuata appunto mediante la replicazione tipica e continuativa di agri colonici quadrati disposti secundum naturam lungo gli assi principali di percorrenza, e finalizzata alla copertura integrale della penisola. Con le significative eccezioni delle aree marginali di risulta: e non tanto di quelle programmate derivanti dalla rotazione di due sistemi contigui imperniati sullo stesso percorso matrice e perciò rigiranti geometricamente sulla bisettrice (rotatio agrorum); quanto di quelle “irregolari” in corrispondenza delle aree interstiziali residue tra due sistemi su assi d’impianto diversi e contrapposti, tagliate fuori per mancanza di sovrapposizione modulare (agri publici excepti o subseciva). Dopo il completamento di questa fase della pianificazione riguardante le aree d’interesse pubblico (includente i saltus montani ad uso collettivo, per il compascuo e il legnatico) prendeva avvio la risuddivisione parcellare delle centuriae (di solito nelle aree produttive collinari e di pianura), in base alla quale venivano assegnati mediante sorteggio (per sortes) i lotti privati ai singoli coloni. Con una “pezzatura” dimensionale assai variabile nel tempo: dal mitico heredium (“ereditabile”) di 1/100 di centuria della Roma quadrata romulea alle 4-5 centurie dei latifondi tardo-imperiali. La logica progettuale degli insediamenti (scelta dei siti, gerarchia e grado di loro diffusione territoriale) obbediva invece sostanzialmente a due principi: il controllo dei luoghi strategici d’importanza nodale (incroci stradali, selle, alture, ma soprattutto guadi e passaggi fluviali) e la distribuzione modulare (a distanza ritmica costante) di tipi insediativi differenziati (per posizione e funzione). Questa in particolare perseguita e attuata (almeno in Italia) con chiara sistematicità e determinazione, specie nelle grandi bonifiche di pianura. Il caso notissimo della via Emilia è esemplare a riguardo: i suoi rettifili pedemontani (tre o quattro in tutto, da Piacenza a Rimini, per oltre 260 chilometri) sono caratterizzati agli snodi da città terminali di primaria importanza (i due succitati più Modena e Bologna nei flessi centrali), e a intervalli costanti (ogni 10-12 miglia) da altri centri importanti di fondazione (forse in origine a destinazione specialistica come castra e fora), strategicamente disposti ciascuno a controllo di un ponte lungo la via consolare, all’incrocio con i fondovalle trasversali del versante appenninico. In posizione subordinata – a metà strada tra ogni coppia precedente di centri - una serie tipica di nuclei minori d’impianto regolare a scacchiera, del tutto simili per forma e dimensione ai numerosi altri omogeneamente distribuiti nella maglia centuriale. La cui trama interna di tessuti poderali è a sua volta caratterizzata dal tipo edilizio della grande corte rurale, largamente diffuso in tutta la Padania (in un’ampia gamma di varianti locali), così da far ragionevolmente supporre la sua derivazione diretta dalla villa rustica e dalla domus romana.

4. Strutturare la terra: la costruzione dei luoghi. “Architectura nascitur ex fabrica et ratiocinatione”: forse non a caso Vitruvio in questa celebre definizione che fa da preambolo al suo libro antepone la pratica architettonica al ragionamento, assegnando così un ulteriore punto a favore del luogo comune che vuole i romani più versati alla pratica materiale della costruzione che alla sua ideazione teorica. Senza entrare nel merito di tale questione, qui marginale al nostro argomento, nell’introdurre l’ultima fase dell’iter della pianificazione territoriale (quella attuativa) converrà invece soffermarci sul significato primario del termine latino fabrica. Che sta etimologicamente ad indicare il luogo fisico in cui “si fa”, si realizza un determinato oggetto, edificio o costruzione, corrispondendo perciò nella prassi edificatoria all’odierno “cantiere”. Si è a riguardo potuta riscontrare sulla cartografia dell’IGM l’esistenza di numerosi toponimi di questo genere (“fabrica”, “fabbrica”, “fabbro”), alcuni dei quali rimasti ancora oggi a denotare centri comunali di media grandezza. Viene subito da pensare – sempre nell’ottica della nostra ipotesi teorica – che il grande progetto territoriale della Forma quadrata Italiae sia stato attuato nel corso dei secoli attraverso il lavoro coordinato di una gran massa di manodopera servile e schiavistica, dislocata qua e là in numerose aree di cantiere, divenute col tempo

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Fig.7 La pianificazione romana della piana dell’Arno tra Firenze e Pistoia

insediamenti stabili. E in questo senso la toponomastica dovrebbe da qui allargare il proprio orizzonte, introducendo nuove categorie (e talora smontando quelle più ovvie e fantasiose dei “fitonimi” e degli “zoonimi”): come appunto quella dei “tecnonimi” che conservano con buona probabilità il ricordo degli strumenti operativi di cantiere e della loro identificabilità visiva a distanza (la “capra” per il sollevamento di carichi, il “cervo” per le operazioni di traguardo, e altri ancora: “groma”, “treppiede”, “pertica”, “palo”, “palina” “candela”, ecc); e in aggiunta a quella dei numerali, l’altra non meno importante e significativa dei “geometrali”, sintomatici del tracciamento esecutivo di strutture progettate (“asse”, “rigo”, “linea”, “filo”, “angolo”, “punto”, “piano”, “polo”, “ruota”, ecc); e quelle dei toponimi giurisdizionali (“publica”, “repubblica”, “comunale”, “vincolo”, “marco”, ecc), confinari (“limite”, “fine”, “limina”, “ianua”, “calenda”, ecc), degli “odonimi” (“strata”, “carraia”, “lastrico”, “trivio”, “biforco”, ecc) e degli “istonimi” (“saltara”, “centoia”, “quarrata”, “casellina”, ecc). Nel territorio italiano insomma, oltre ai segni, sono impressi indelebilmente anche le memorie dei nomi della pianificazione romana, più di quanto la toponomastica ufficiale abbia fino ad ora saputo rilevare. Sul piano attuativo essa infatti non poteva che utilizzare gli stessi strumenti mentali e tecnici con cui erano state elaborate le fasi precedenti del rilievo, della rappresentazione cartografica e della progettazione territoriale: vale a dire allineamenti visivi con paline di traguardo (spectiones et metationes), squadri (quadrationes) e triangolazioni di controllo (triangulationes in numeri interi). Niente di nuovo rispetto a quanto ipotizzato: per completare dunque il discorso tecnico resta solo di accennare alla cosiddetta cultellatio, menzionata dai gromatici, che riguarda le modalità di livellazione (e/o della misurazione) delle mezze coste e dei pendii. Da considerare concettualmente una sorta di triangolazione sul piano verticale, necessaria per stabilire con precisione i valori di ”alzata” e di “pedata” dei terrazzamenti montani. Resta infine l’edificazione della città, in funzione della quale abbiamo inizialmente ricostruito il processo del cerchio magico per l’orientamento sacrale del templum celeste e quello successivo di fondazione per il tracciamento cardo-decumanico del suo corrispettivo terrestre. Il pomoerium (letteralmente “dietro le mura”, esteso però nei due sensi, al di qua e al di là) costituisce il margine, la fascia di rispetto inviolabile, dove non si può costruire, né seppellire, né compiere in tempo di pace esercitazioni militari, ma soltanto processioni

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augurali (amburbia) in determinati giorni dell’anno. In caso di assedio ovviamente tale fascia è utilizzata per la difesa della città: dietro l’estrema fossa esterna (l’ex sulcus primigenius) c’è l’agger (la terra di scavo del sulcus) rinforzato talora con una palizzata e quasi sempre posto a cento piedi dalle mura (intervallum), che dispongono anche sul lato interno di un uguale spazio libero per le manovre difensive. Restano così, nel modello teorico del tipo urbano, 800 piedi quadrati a disposizione per gli isolati edilizi, che diventano 1000 se consideriamo forse più utilmente (ai fini dell’individuazione della cinta originaria) lo spazio netto racchiuso all’interno delle mura. Il caso di Florentia è a riguardo esemplare, non solo per quel che concerne specificatamente i meccanismi progettuali del suo impianto primigenio, quanto più in generale per i rapporti geometrico-matematici che sono alla base dell’intera strutturazione antica della grande piana dell’Arno tra Firenze e Pistoia. È quel che proveremo a mostrare nella seconda parte di questo saggio.

LA PIANIFICAZIONE DELLA PIANA DELL’ARNO TRA FIRENZE E PISTOIA

La forma naturale dei luoghi. Cominciamo col descrivere sommariamente la forma naturale dei luoghi. La piana tra Firenze e Pistoia si presenta oggi come una vasta distesa pianeggiante, orientata con l’asse maggiore in direzione nord-ovest sud-est, lunga all’incirca quaranta chilometri e larga dodici. L’Arno la lambisce trasversalmente sul versante meridionale, attraversandola da est ad ovest, tra le due gole montane di entrata e di uscita, in corrispondenza delle quali il suo corso da lineare diviene tortuoso. La parte superiore residua (più ampia) è solcata invece per lungo da due affluenti appenninici, l’Ombrone e il Bisenzio, che convergendo riversano le loro acque in prossimità dell’uscita dell’Arno alle gole di Signa. I crinali che la delimitano disegnano approssimativamente un quadrilatero irregolare, con un profilo frastagliato a pettine sul lato dominante sub-appenninico, a cavaliere dell’altopiano mugellano. Il breve arco delle montagne pistoiesi si raccorda sul versante opposto alla dorsale rettilinea di monte Albano che separa la piana a sud-ovest dalle bassure di Fucecchio: allineandosi, al di là delle gole di Signa, oltre il fiume, con il crinale destro della Pesa che si ricongiunge, nelle colline del Chianti, con il tratto terminale del cosiddetto crinale “etrusco”, spina dorsale del grande sistema territoriale tra il Tevere e l’Arno. Risalendolo verso nord si perviene alle gole di entrata, dove, al di là del guado di Girone, il periplo dei crinali si conclude con il percorso di adduzione per l’acropoli fiesolana.

L’area di strada della Cassia. Firenze da sempre è unita a Roma tramite la Cassia. Via consolare romana, il cui nome comprende però in generale l’intero fascio di percorrenze che hanno nel tempo assolto tale funzione di collegamento (fino all’attuale statale numero 2). Per allargare appunto il raggio della complessa fenomenologia storica relativa alle variazioni di sede e di tracciato di una stessa strada, è stata da non molto coniata la dizione di “area di strada”, che ci consente di includere in tale categoria (delle Cassie) anche il già menzionato primigenio crinale “etrusco”, che unisce i guadi di ponte Milvio sul Tevere e di Girone sull’Arno senza dover (nota bene) attraversare nessun corso d’acqua intermedio. Esso costituisce (sulla base della teoria muratoriana dei crinali) la “matrice” direzionale di tutte le varianti successive, che tendono generalmente a migliorarne il tracciato, in relazione alle diverse situazioni e vicende storiche, privilegiando di volta in volta determinate direttrici attrattive a scapito di altre. La prima Cassia (repubblicana, che sarà poi la Francigena medievale) nel ricalcarne le tracce, cerca però di evitare le asperità orografiche e i giri tortuosi della via di crinale, giungendo con un numero minimo di ponti al guado fiorentino di ponte Vecchio da sud-ovest, seguendo cioè più o meno lo stesso tracciato dell’attuale statale proveniente da Siena (la Francigena prosegue invece da Poggibonsi per la Val d’Elsa, puntando su Lucca). Già nella prima età imperiale alla Cassia “interna” troviamo affiancata una più rapida e rettilinea variante “esterna”, che costituisce l’asse della pianificazione della Val di Chiana e del medio Valdarno (l’odierna “autostrada del sole” ne ripercorre in parte l’andamento). Per raggiungere Firenze, in prossimità di Incisa, il rettilineo del Valdarno si sdoppia in due rami: l’uno più breve, di crinale, oltrepassa il valico di S. Donato in Collina, scendendo per Bagno a Ripoli a ponte Vecchio; l’altro più lungo (ma ovviamente più agevole), di fondovalle, aggira il gomito del fiume, pervenendo mediante il rettilineo della Cassia cosiddetta “aretina” alla porta orientale della città.

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Forma quadrata secundum coelum. Sono numerosissimi sulle carte attuali (in tutta Italia) i segni cardo-decumanici orientati secundum coelum. Per la nostra teoria essi possono costituire in linea di principio altrettante tracce potenziali della maglia modulare del rilievo antico del territorio, sulla cui cartografia ipotizziamo siano stati progettati (secondo precisi dettami geometrico-matematici) i vari impianti coloniali. Per trasformarli in indizi probatori, resta però da dimostrare la loro congruità e compatibilità dimensionale con il sistema metrologico romano, rispetto al quale la verifica mensoria (attuata in genere sovrapponendo alle carte ottocentesche un quadrettato trasparente in scala adeguata, il cosiddetto “centuriometro”), necessita tuttavia di reperti topografici sufficientemente fondati per fissare (eventualmente) i primi tasselli del puzzle ed evitare così di procedere “alla cieca” nella ricerca congetturale della maglia geodetica romana. La lettura sulle carte presenta per la sua estensione numerosi problemi da risolvere: sia per gli inevitabili errori che si debbono mettere in conto in un’ipotesi di questo genere, basata essenzialmente sul grado di precisione della tecnica impiegata dagli antichi agrimensores nel riportare in qualsiasi area della penisola (su territori anche impervi) la stessa direzione astronomica a partire da un unico punto centrale di origine; sia per le difficoltà tecniche che insorgono nel seguire gli allineamenti tra le diverse tracce iso-orientate esistenti nei numerosi fogli che compongono, da Roma alla Padania (in direzione della quale è stata fino ad ora condotta l’indagine), il mosaico della carta amministrativa d’Italia in scala 1:100.000. A cui va aggiunta l’incognita (archeo-astronomica) relativa all’antica direzione del nord. Anche uno solo di tali quesiti, singolarmente o in combinazione con gli altri, può inficiare in ogni caso la nostra indagine, tenendo conto soprattutto che piccole deviazioni angolari comportano a lunga distanza errori macroscopici. Allo stato attuale, dopo una prima fase di verifica dell’ipotesi della croce di fondazione territoriale incentrata su Roma Palatino e sui quattro assi cardo-decumanici orientati secundum coelum (Aurelia-Gabina, Flaminia-Ardeatina), ci si è resi conto della necessità di più precise e tecnicamente fondate misurazioni, basate sulla scansione automatizzata delle mappe e sulla loro connessione georeferenziale, passando con ciò a una seconda fase, condotta questa volta a ritroso a partire dalla lettura della Padania. Ed in effetti, come era lecito attendersi, la pianura Padana per la nostra teoria si è rivelata un banco di prova decisivo: in essa i segni secundum coelum sono numerosi e assai chiari, coincidendo con buona evidenza e precisione con le maglie di un reticolato virtuale che ha come asse generatore di appoggio il lungo rettilineo che unisce Cesena a Ravenna, non a caso chiamato ancora oggi “dismano”. In relazione a determinati incroci di tale reticolato sembra essere stata tracciata la via Emilia, secondo un preciso rapporto numerico (3:5), scelto a tavolino sulla ipotetica carta geografica squadrettata, quale quello tra tutti più conveniente per mantenersi con una determinata angolazione aderente al profilo pedemontano delle colline ed essere al tempo stesso ortogonale (in quanto matrice di tessuti centuriali) al verso dominante del defluire delle acque appenniniche. Sulla base di tali elementi, sono stati prolungati gli allineamenti degli assi principali di carta in carta (verificando di continuo la persistenza delle tracce) fino a pervenire con la maglia secundum coelum alla piana fiorentina. Dove le nostre ipotesi appaiono confermate da numerosi segni iso-orientati e da altre circostanze geometriche (fig.7): tra cui in particolare quella del principale incrocio cardo-decumanico, che viene a cadere proprio nel centro della piana (nei pressi di S. Maria e di S. Giorgio a Colonica) in prossimità del Bisenzio, il cui corso naturale corre parallelo al cardine settentrionale, parimenti al tratto dell’Ombrone ad ovest di Pistoia, che coincide con buona approssimazione con l’asse contiguo, a un modulo esatto di distanza (1 ager = 12 miglia). Altre indicazioni in tal senso convergenti ce le dà la toponomastica, che presenta nelle immediate vicinanze dei punti principali della maglia (come nel caso dei due precedenti suffissi “a colonica” e di altri di cui si dirà nel successivo paragrafo) significativi riscontri di chiara derivazione tecnico-progettuale.

Forma quadrata secundum naturam. Proviamo dunque a immaginare il nostro anonimo pianificatore romano alle prese con il problema del progetto a grande scala della piana. Egli ha sul tavolo, di fronte a sé, la Forma, la carta del territorio così come lui stesso forse l’ha disegnata a seguito del rilievo misurato sul terreno. Non ne conosciamo la grafia, né sappiamo che cosa precisamente vi fosse rappresentato: tra gli elementi naturali molto probabilmente i fiumi, i crinali e i margini pedemontani; i luoghi strategici e gli abitati principali tra i segni dell’uomo: tra cui i siti delle due maggiori città etrusche, Fiesole e Artimino, che

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controllavano la piana (sui due lati) dall’alto delle loro posizioni arroccate di testata di crinale. Ne ipotizziamo però le coordinate di riferimento (ricostruite tramite la ricerca topografica sugli allineamenti cardo-decumanici secundum coelum), che la scompartivano - analogamente al territorio - in quadrati di dodici miglia (e relativi sottomultipli quinari), come una rete virtuale di paralleli e meridiani. Obiettivo del progetto era quello di cercare per il nuovo agro colonico il sistema direzionale più aderente alla forma dei luoghi: si trattava in altri termini di individuare il più opportuno gradiente angolare da assegnare al decumanus maximus – nel nostro caso il rettifilo della Cassia – che in quanto percorso “matrice” doveva costituire l’asse geometrico d’impianto dei tessuti (amministrativi e centuriali) e dei percorsi ad esso ortogonali. Nell’attraversare in lunghezza la piana (dal valico di S. Donato in Collina al Ponte alle Tavole sull’Ombrone, a nord-ovest di Pistoia) il decumano si sarebbe così venuto a trovare in sintonia direzionale con il verso prevalente di deflusso delle acque e con la necessità strategica del contro-asse mediano (kardo maximus), che doveva “infilare” trasversalmente le gole d’uscita dell’Arno, oltre Signa, in corrispondenza della direttrice Comeana-Capraia e Limite. Un modo semplice di affrontare il problema poteva essere quello di far ruotare idealmente la croce delle coordinate celesti al centro della piana fino alla determinazione dell’angolo desiderato. Che in termini di rapporti numerici, sembra qui leggermente meno inclinato rispetto a quello della grande pianificazione emiliana: assumendo in questo caso i valori di 3,5:5 (7:10), che comportano a grande scala (per la misura dell’ipotenusa) la terna pseudo-pitagorica 35:50:~61. Dalla scelta dell’angolo di rotazione effettuata geometricamente sul reticolato della Forma, si può in effetti risalire matematicamente al corrispettivo rapporto in numeri interi, e da questo a sua volta (tramite eventualmente un tabulato) al valore (approssimato) dell’ipotenusa necessario per il tracciamento preciso degli squadri. L’asse della Cassia (di cui sulle carte attuali sono stati individuati diversi tratti allineati tra loro) congiunge in linea retta Firenze (dal bivio esterno di S. Ambrogio) a Pistoia, le due città di fondazione che dovevano programmaticamente controllare ai due estremi la piana con i rispettivi ponti sull’Arno e l’Ombrone. All’incirca a metà strada (cfr. il toponimo “Mezzana”) il cardine trasversale – come si è detto - per prendere d’infilata a Comeana l’asse di uscita dell’Arno, doveva però traslare di una certa quantità a nord-ovest rispetto al centro del sistema astronomico (congiungendo così, tra l’altro, due punti d’incrocio della maglia celeste): di un miglio esatto, misura che espressa in piedi romani (1 miglio = 5000 piedi) può costituire (in funzione del tracciamento esecutivo del contro-asse principale) un cateto della terna di progetto (5000:3500:6100 piedi). Con lo stesso rapporto tra triangoli simili (più o meno grandi a seconda delle diverse situazioni topografiche) si potevano così tracciare precisamente sul terreno in corso d’opera i rimanenti assi della maglia: i cui valori dimensionali (distanze e superfici) erano comunque geometricamente determinabili a tavolino sulla Forma. Abbiamo a riguardo calcolato (per sommatoria delle ipotenuse dei triangoli simili) la distanza complessiva del rettifilo della Cassia dal bivio che precede Firenze al vertice dell’ultimo triangolo prima di Pistoia: 22,8 miglia, che con l’aggiunta di 1000 piedi (1/5 di miglio) giungono a misurare 23 miglia forse proprio in corrispondenza della porta d’ingresso di questa città (circostanza tuttavia da verificare in dettaglio).

Ager florentinus antiquus. Passiamo invece a verificare subito sull’area fiorentina (sulla tavoletta al 25.000 IGM di fine ‘800: fig.8) gli ipotetici meccanismi geometrico-proporzionali della originaria pianificazione romana. Di cui restano ampie tracce centuriali (topograficamente accertate), che sono state naturalmente assunte come base documentaria della lettura ricostruttiva. Nell’integrarle progettualmente dando ad esse un senso compiuto, ne risulta un disegno assai chiaro e convincente, da apprezzare in particolare per essere ancora oggi (a distanza di duemila anni) leggibile e (parzialmente) operante nella sua perfetta aderenza alla natura dei luoghi. Nella nostra ipotesi è stato assunto come mundus locale l’incrocio tra il decumanus maximus della Cassia e il kardo minor della via Faentina, collegante trasversalmente (attraverso Ponte Vecchio) il fondovalle del Mugnone con quello della Greve. Entrambi gli alvei di questi affluenti (contrapposti) dell’Arno sembrano essere stati nel corso dei secoli deviati (artificialmente) ben oltre la città, verso ponente, probabilmente per alleviarla dal rischio di alluvioni. La correzione idrografica appare in particolare evidente (e “innaturale” per essere quasi ad angolo retto) per un altro (ex-) affluente di sinistra dell’Arno, l’Ema, che invece di riversarsi (come sembrerebbe logico) tra le colline del Chianti e quelle di Arcetri (per

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Fig.8 La pianificazione romana della piana fiorentina

confluire nell’Arno più o meno alla Badia di Ripoli, ad est di Firenze) piega invece bruscamente a Ponte ad Ema per immettersi nella Greve al Galluzzo, il cui sistema di ponti (relativamente alle vie Senese e Volterrana) costituisce da sempre uno dei nodi (problematici) del territorio fiorentino, non a caso controllato dall’alto dal “castello abbaziale” della Certosa. In simmetria ponderale rispetto a Firenze, troviamo dalla parte opposta (lungo lo stesso contro-asse) l’altura di Fiesole, che controlla identicamente (anch’essa da una posizione dominante) il sottostante fondovalle che prosegue rettilineo fino alle Croci, oltre Caldine (Cardine?), parallelamente alla via Fiesolana, che collega a sud-est a una centuria di distanza Fiesole con Firenze. Per quanto riguarda il decumano principale della Cassia, i quesiti topografici investono soprattutto i due rami che ne precedono (prima di riunirsi nel rettifilo per Pistoia) l’ingresso nella piana, di cui si è già accennato in precedenza. Resta infatti aperto il problema del loro inserimento geometrico nella maglia centuriale. Il ramo più breve di valico raggiunge Bagno a Ripoli tramite un crinale di discesa, che non coincide con la direttrice decumanica, mantenendosi tuttavia all’incirca parallelo ad essa (a una centuria di distanza). Arrivato in piano, quest’asse sembra proseguire in linea retta fino all’incrocio che precede il fiume: da dove piega per assumere nei confronti della maglia la direzione diagonale 1:2, e puntare così direttamente su Ponte Vecchio. Il ramo di fondo-

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valle, più lungo e pianeggiante, ha il vantaggio di mantenersi sulla riva opposta, potendosi così raccordare secundum coelum con l’asse decumanico per Pistoia, senza dover passare necessariamente per Ponte Vecchio: che si raggiunge ugualmente tuttavia, proseguendo sempre lungo la stessa direttrice est-ovest congiungente il vertice centuriale in località Pistellino con il suo corrispettivo di Ponte a Greve (ratio 7:10). In relazione all’accessibilità da tale asse - tramite un suo raccordo per la porta orientale della città - prenderà origine come vedremo la storia urbana di Firenze.

Il progetto matrice dell’impianto urbano di Firenze (ovvero “La madre di tutti i progetti fiorentini: fig.9) . Assumiamo come punto di riferimento per la nostra ricostruzione delle prime fasi urbane di Firenze la magistrale lettura (ancora oggi perfettamente valida) di Gianfranco Caniggia. Che emendiamo della parte territoriale, integrandola con le nostre ipotesi, i cui punti salienti a riguardo possono essere sostanzialmente così riassunti: - 1. I primi sviluppi della città non precedono il piano territoriale, ma sono progettati in su di esso: la direzione dell’impianto cardo-decumanico di Florentia non coincide infatti (per pochi gradi) con quello secundum coelum dell’asse originario della via Aretina (che “punta” su Ponte Vecchio, scartando il nucleo originario), ma risulta (geometricamente) connesso a due incroci centuriali (la confluenza di via della Vigna Nuova e di via della Spada su via Tornabuoni e il Forte Belvedere), in relazione ai quali riteniamo siano stati tracciati il decumanus del castrum (l’attuale infilata Corso-Borgo Albizi-via Pietrapiana) e il cardo della colonia (l’asse di via di calimala=callis maior). Il rapporto numerico rispetto alla maglia centuriale è 3:5, diverso quindi (di poco) da quello 7:10 che la stessa orditura territoriale presenta nei confronti della maglia astronomica. Notiamo (per inciso) che il decumano cittadino risulta così allineato ad est con lo stesso incrocio centuriale (Pistellino) utilizzato per il tracciamento astronomico della via Aretina. - 2. Il principale contro-asse dell’ager florentinus non è la via Fiesolana di crinale, bensì il fondovalle della Faentina, che si raccorda - attraverso la città e il ponte sull’Arno - con il suo corrispettivo della Greve per Siena. Di conseguenza la croce cardo-decumanica territoriale (mundus) coincide con l’incrocio via Guelfa /via San Gallo (e non con il canto a Candeli tra via degli Alfani e Borgo Pinti), sulla quale si aprirà (non a caso) l’omonima porta principale della cinta trecentesca - 3. L’impianto castrense quadrato (1000 x 1000 piedi) individuato da Caniggia è in perfetta sintonia con il disegno della maglia centuriale e con la relativa viabilità di progetto, risultando in posizione baricentrica a controllo dei punti nodali d’incrocio tra i percorsi territoriali convergenti su Ponte Vecchio: i tre vertici della centuria che inquadra di traverso la città, più il bivio della via Aretina con la Cassia per Pistoia (nodalità tutte in seguito fondamentali nella storia di Firenze). Un’ultima annotazione a conferma delle nostre ipotesi: i confini comunali di Firenze alla fine dell’Ottocento (1874, anno di redazione della carta IGM) sono ancora esattamente tangenti all’interno dei quattro grandi settori quadrati (4 saltus per complessive 100 centurie) incentrati sul mundus territoriale: (fig.8) il ché sta a testimoniare (se ce ne fosse ancora bisogno) la straordinaria continuità strutturale dell’impianto pianificato romano. Meraviglia semmai (data la dimensione) l’andamento circolare della limitatio settentrionale (la cosiddetta cerchia daziaria?), che fa pensare (è la sola ipotesi plausibile) a un’applicazione a grande scala della tecnica sacrale di cui si è detto in apertura.

BIBLIOGRAFIA F. CASTAGNOLI, “La centuriazione di Florentia”, in: L’Universo, n.4, 1948 G. CANIGGIA, “Lettura di Firenze” in: G. CANIGGIA – S. MALFROY, “L’approche morphologique de la ville et du territoire”, pp. 261-399, Zürich, 1986 G. CANIGGIA, “Formazione e crescita di Firenze romana”, in: G. L. MAFFEI, “La casa fiorentina nella storia della città”, pp. 11-30,Venezia, 1990 G. CATALDI, Per una Scienza del Territorio. Studi e note, Firenze, 1977 G. CATALDI, “Processi di formazione del territorio etrusco”, in: Atti Accademia Petrarca, pp. 29-54, v. 44, Arezzo 1983; e in: L’Universo, pp. 537-559, n. 6, 1989 G. CATALDI – E. LAVAGNINO, “La pianificazione antica della Valdichiana: un piano da venticinque secoli”, in: AA.VV, Cortona: struttura e storia, pp. 33-138, Cortona, 1987 G. CATALDI, “Origini pianificate romane dell’edilizia medioevale italiana. Risultanze metrologiche e strutturali”, in: L’Universo, pp. 537-559, n.6, Firenze, 1989 G. CATALDI (e Altri), “Forma Quadrata Italiae: the Plan of Roman Italy”, in: Spirit of Enterprise: the 1993 Rolex Awards, Bern, 1993 G. CATALDI, “L’art de bâtir le territoire chez les Romains”, in: Séminaire International de Morphologie Urbaine, pp. 83-111, Lausanne, 1995 G. CATALDI, P. IACONO, “L’arte della pianificazione territoriale presso i Romani” in: Il Disegno luogo della memoria, Atti del convegno, pp. 97-107, Firenze, 1995 G. FANELLI, Firenze Architettura e Città, 2 vv., Firenze, 1973 M. LOPES PEGNA, “L’origine di Firenze”, in: Quaderni di Studi Storici Toscani, pp. 28-34, 1957 M. LOPES PEGNA, Firenze dalle origini al Medioevo, Firenze, 1962 S. MURATORI, Studi per una operante storia urbana di Venezia, Roma, 1959 S. MURATORI, R. BOLLATI, S. BOLLATI, G. MARINUCCI, Studi per una operante storia urbana di Roma, Roma, 1963 J. RYKWERT, L’idea di città: antropologia della forma urbana nel mondo antico, Torino, 1981 G. SCHMIEDT, Atlante aeofotografico delle Sedi umane in Italia: parte III, La centuriazione romana, tavv. 27-28, Firenze, 1989

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Figg.9-10-11 La Florentia romana: dal castrum alla colonia (rielaborazione del Catasto Leopoldino a cura di A. Signa)

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A larger attention for the landscape and for the architecture in his specific context makes the interest for map-making as a sincere revival. The map is a tool and an image of the land, the drawing is existing territory’s decoding. But there’s a subjectivity, a culture, in the drawing, and taking a deeper and deeper care in doing this bring us out to a total decoding. Explicative of these concepts is the drawing in 1:2000 scale of the municipal florentine landscape between Florence and Sesto, where the rural country, in such a balanced way layered has suffered a deep twisting just with the end of that same world. There’s then need, for the map-making to leave the traditional symbolism of the maps, to regain, by a representional symbolism of the signs, the historical landscape’s values.

UNA RAPPRESENTAZIONE CARTOGRAFICA DEL TERRITORIO COLLINARE Grazia Gobbi Sica Il tema che mi propongo di trattare è, come recita il titolo, “Una rappresentazione cartografica del territorio collinare fiorentino”; si potrebbe forse migliorare la dizione definendolo “un saggio di cartografazione” ad ogni modo, prima di entrare nella descrizione della carta, vorrei premettere alcune considerazioni. Negli anni recenti è stata rivolta una attenzione maggiore al paesaggio e all’architettura nelle sue relazioni contestuali; di conseguenza si sono sviluppati modi di intervento più attenti alla specificità del sito. Da qui la rinascita di interesse nella cartografazione: perché si manifesta oggi sempre più forte un bisogno di conoscenza dell’identità specifica dei diversi territori, e poi perché questa conoscenza appare indispensabile nel momento in cui si è dilatata fino all’ambito territoriale la concezione del “restauro” e comunque del concetto di “tutela”. È chiaro che a questo tema ci si può avvicinare da molteplici punti di vista. Io, dal canto mio, faccio della rappresentazione il nucleo dominante del discorso, anche perché se è vero che il territorio si può studiare e analizzare mediante gli apporti di varie discipline - la geografia, l’economia, la sociologia, la storia - è anche vero che la rappresentazione del territorio mediante il suo disegno costituisce la base conoscitiva dal punto di vista operativo. Dunque il paradigma conoscitivo che sta alla base di questo approccio può essere espresso attraverso la convinzione che il sapere passi attraverso il rappresentare. Affermava André Corboz, in uno suo articolo di alcuni anni fa “di un territorio si fa una mappa per conoscerlo e quindi per trasformarlo, ma prima di trasformarlo bisogna conoscerlo, e questa conoscenza passa attraverso la sua rappresentazione”. Quindi l’obiettivo del mio discorso è quello di riportare l’attenzione sul valore della rappresentazione come mezzo di espressione e di comprensione di una realtà territoriale, e in particolare sul problema di rappresentare questa realtà in tutte le sue valenze sia storiche che morfologiche. In altre parole come le dimensioni critiche del sociale e del figurativo della carta possono essere reintrodotte nella cartografia attuale, specialmente nel piano e nel progetto della città e del territorio. Consideriamo dunque la mappa come strumento e come immagine. Dobbiamo considerare la relazione della mappa col reale e la natura mutevole delle relazioni spazio/temporali e infine dobbiamo sottolineare l’eguale importanza delle tecniche, dei risultati, e della carta stessa. Il processo di cartografazione con i suoi diversi scopi informativi e semantici è da valutarsi per il suo potenziale sia rivelatorio che produttivo. Di conseguenza il concetto di sito si sposta da quello di semplice parcella di suolo geometricamente definita, a quella più ampia e attiva di milieu che è un affare più complesso e molteplice, comprendente un campo sconfinato di fenomeni, alcuni tangibili, altri immaginari. Nel rendere visibile ciò che altrimenti è nascosto e inaccessibile la carta fornisce per così dire un tavolo di lavoro per identificare e rielaborare condizioni polivalenti. La superficie analoga e astratta della carta consente l’accumulazione, l’organizzazione e la ristrutturazione dei differenti strati che formano il milieu stesso. La funzione della mappa non è quella di ritrarre, ma di rendere possibile, di dare immediatezza ad una serie di effetti nel tempo.

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In altre parole la cartografazione non rappresenta geografie o idee, piuttosto rende effettuale la loro attualizzazione. Nel processo di lettura critica del territorio il ruolo del disegno, della rappresentazione cartografica è un ruolo essenziale in cui il disegno diventa medium conoscitivo, catalogazione dell’esperienza. La lettura del reale, cioè, passando attraverso il disegno, diviene decodificazione del naturale e dell’esistente. Mi spiego meglio, la trascrizione cartografica, in quanto interpretazione del reale si fonda su alcune convenzioni: intanto è uno strumento selettivo rispetto ad esempio alla fotografia aerea che è una registrazione neutra della realtà. La carta invece, alla registrazione neutra della fotografia, può opporre una struttura logica di insiemi e sistemi selezionati. Ora, è vero che la neutralità della fotografia potrebbe essere anch’essa messa in discussione. Come afferma puntualmente Jacob Bronowski: “Non vi è nessuna apparenza che si possa fotografare, nessuna esperienza che si possa copiare, nella quale noi non prendiamo parte. La scienza, come l’arte, non è una copia della natura ma una ri-creazione di essa” Ovviamente questa considerazione vale in misura anche maggiore per la carta. L’applicazione di un giudizio soggettivamente costituito è precisamente ciò che fa di una mappa più un progetto che una descrizione meramente empirica. Sia mappe che territori sono prodotti estremamente mediati e la natura dei loro scambi è lungi dall’essere neutrale o non complessa. Le implicazioni di un mondo derivato più da una invenzione culturale che da una natura pre-formata hanno cominciato da poco ad essere esplorate e direi solo accettate a livello di pratica cartografica. Vorrei ancora aggiungere qualcosa, prima di passare all’illustrazione vera e propria della carta, per definire meglio il campo che stiamo esaminando: la rappresentazione che vi voglio illustrare è un tipo di rappresentazione volta a restituire l’identità del territorio, cioè, più in particolare, della città come manufatto costruito e del territorio come supporto fisico e stratificazione dei segni introdotti dal processo di civilizzazione. Una rappresentazione quindi che non può essere ridotta ad un codice, ma che di volta in volta opera una selezione degli elementi che concorrono all’identità, e dei modi stessi della restituzione. In questo senso anche la scelta della scala di rappresentazione non può intendersi unicamente come fatto meccanico, ma intrinseca all’oggetto da rappresentare, riportata cioè al differente formato e natura dell’insediamento. C’è un bellissimo apologo di Borges che viene tirato in ballo quando si parla di cartografia che pone il problema della scala: riguarda i cartografi dell’Impero cinese che per rappresentare adeguatamente il territorio avevano dilatato la scala della rappresentazione fino a farla coincidere con la realtà del territorio: la scala 1:1. “In questo impero l’Arte della cartografia fu spinta a una tale perfezione che la Carta di una sola Provincia occupava tutta una città e la Carta dell’Impero tutta una Provincia. Con il tempo queste carte smisurate cessarono di essere soddisfacenti e il Collegio dei Cartografi elaborò la Carta dell’Impero, che aveva il formato dell’Impero e che coincideva con esso punto per punto. Meno appassionate per lo studio della Cartografia, le generazioni susseguenti pensarono che tale Carta Dilatata fosse inutile e l’abbandonarono spietatamente all’inclemenza degli Inverni. Nel deserto dell’Ovest sussistono Ruderi, molto malandati, della Carta. Animali e Mendicanti ci abitano. In tutto il Paese non vi è altra traccia delle Discipline Geografiche”. Il racconto di Borges non solo cattura l’immaginazione o l’immaginario cartografico ma va al cuore stesso della tensione esistente fra realtà e rappresentazione, fra territorio e carta. Quanto più dettagliata e uguale al reale la mappa si sforza di essere tanto più diventa ridondante e non necessaria. Il ricorso alla scala 1:1 cioè a una sorta di duplicazione della realtà toglie in effetti alla carta le sue qualità. Rappresentazione non significa duplicare ma fornire un elemento di riferimento di lettura, un modello, una sintesi che permetta di interpretare la realtà e/o di intervenire su di essa. Il modello altro non è che un principium individuationis codificato che possiede già almeno latenti alcune delle qualità di comunicazione proprie dell’oggetto cui darà forma, ma al tempo stesso è soggetto a interpretazione e a trasformazione. Ecco dunque che la mappa, la planimetria in scala, costituisce la base per la trasformazione. È vero, d’altra parte, come abbiamo detto, che la scelta della scala non è un fatto meccanico, ma intrinseco all’oggetto da rappresentare. In altre parole, la rappresentazione del territorio che qui ci interessa deve essere rapportata agli elementi del costruito, cioè commensurabile e omogenea con le forme dell’architettura, per potere essere una cartografia dell’identità territoriale.

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Quindi il tipo di carta che consideriamo è una rappresentazione realistica, ma di un realismo selettivo e finalizzato. In questo senso entra in gioco anche l’aspetto qualitativo della carta (una bella carta è anche una carta che esprime i valori dell’identità del territorio che raffigura), che acquista valore autonomo per la capacità intrinseca di descrivere, attraverso la componente creativa stessa della rappresentazione. La carta che vi illustro è riferita a una porzione del territorio collinare fiorentino, localizzato a nord-ovest, fra Firenze e Sesto. Compreso fra la via di pianura, via Reginaldo Giuliani, l’antica via Sestese, che marca il confine inferiore dell’area e i boschi delle pendici collinari di Monte Morello. Un territorio fortemente insediato e connotato dalla presenza delle ville medicee di Castello e Petraia e da una serie assai numerosa di residenze signorili, tali da costituire un sistema continuo nella fascia pedecollinare caratterizzato da giardini formali, parchi, viali alberati, sistemazioni del suolo relative alla struttura agricola. Il mantenimento dell’assetto territoriale, cristallizzato in un modello organizzativo che sancisce l’appartenenza del paesaggio ad un ciclo storico ormai definitivamente concluso, viene interrotto bruscamente, in seguito alla crisi del sistema agricolo tradizionale nei decenni a noi più prossimi. Gli episodi di trasformazione che si sono verificati e ancora si verificano nell’area si sono concretizzati nella sovrapposizione, alla struttura agricola tradizionale, delle manifestazioni tipiche della fascia di tangenza fra città e campagna. In questo contesto ha giocato un ruolo determinante la domanda crescente di terreni fabbricabili e di consumo privatistico dei valori paesistici. In una realtà territoriale così lavorata ed elaborata ogni elemento concorre a far parte di un disegno globale apparentemente spontaneo, ma in realtà frutto di un calcolato e secolarmente sedimentato progetto d’uso (è la città fuori delle mura, insediata al pari di quella dentro le mura, quella che ci descrive già nel XIV secolo Giovanni Villani). Il problema per la restituzione di questo territorio era quindi connesso, oltre che allo studio, alla ricerca delle grafie più appropriate che rimandassero alla ricchezza e articolazione dei fenomeni rappresentati (senza ricorrere da un lato a simbolismi astratti, né dall’altro a imitazioni del realismo grafico delle carte antiche) oltre che alla ricerca delle grafie, dicevo, anche alla scala della rappresentazione, che restituisse nella maniera più precisa e definita l’articolazione degli elementi oggetto della rappresentazione stessa. Nel momento in cui la carta assume al posto del disegno realistico segni simbolici, la chiave di lettura è data dalla legenda; ora, l’articolazione della legenda è riferita al ruolo e all’obiettivo della carta; d’altra parte, nel rapporto fra astrazione e realismo, fra figurazione e apparato di segni convenzionali, tra scala dei segni e scala della carta, va stabilita una precisa relazione. In altre parole, se è vero che nella cartografia moderna il simbolo/figura realistico, come unità segnica è abbandonato, si tratta di trovare un diverso codice di rappresentazione che fornisca una immagine complessiva del territorio più aderente alla realtà. Il tentativo che la costruzione della carta si proponeva consiste dunque nella messa a punto di un rapporto specifico tra dimensione dei segni e scala grafica della carta che, senza giungere al paradosso dei cartografi dell’impero cinese raccontati da Borges, sia tuttavia congruente con la scala dell’architettura. La carta alla scala 1:2000 non si limita a segnalare, attraverso un censimento, una serie di manufatti di pregio, indicandoli alla tutela, ma intende segnalare e rappresentare il permanente potenziale organizzativo che tali strutture esprimono sul territorio e sottolineare il soggiacente tessuto di relazione che lega i vari ingredienti del paesaggio fra loro. In questo senso la carta è referente di un atteggiamento di tutela nei confronti della struttura territoriale; al tempo stesso essa si pone come fondamento per ogni ipotesi sia di conservazione che di controllo nei confronti di interventi di ristrutturazione, e diventa la matrice, il supporto, che esprime delle linee formative e dei potenziali di organizzazione. Questo tipo di mappa dunque può essere considerato come una carta tematica di fondamento ad un approccio di tipo progettuale. In questo senso sono state studiate le varie grafie, al fine di individuare sia il sistema delle emergenze architettoniche, sia il tessuto edilizio lineare del borgo distinto a seconda del grado di alterazioni subite a partire dagli edifici anteriori al XIX secolo, sia i valori di grana e tessitura (uliveti, vigneti) sia i valori di maglia spaziale come definite dall’appoderamento, dalla viabilità di servizio agricolo, dal sistema idrografico, sia i valori di densità e rarefazione delle colture arboree. Il tipo di rappresentazione messo a punto può essere dunque considerato sia un superamento che una integrazione rispetto alle analisi basate su di una percezione soggettiva degli elementi emergenti del paesaggio (visuali preferenziali, aperture, chiusure, barriere) in quanto del paesaggio intende restituire gli ingredienti costitutivi.

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Per concludere, possiamo rilevare come i modi tradizionali di cartografare il territorio abbiano sempre inteso quest’ultimo come pura estensione, cioè come superficie geometrica, riducendo quindi il territorio stesso a semplice supporto materiale aperto ad ogni possibile manomissione. Si può anche rilevare come questi tipi di cartografia anonima siano perfettamente congruenti con un atteggiamento di tipo laissez faire a livello operativo. Viceversa il tentativo di restituire e cartografare lo spessore concreto e i valori qualitativi del territorio nella sua sedimentazione secolare si muove in una linea che evidentemente assume a parametro fondamentale e condizione stessa dell’operare, l’integrità dei valori culturali.

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Interventi progettati

villa e annessi, chiesa, convento, cappella

cimitero

giardino all’italiana

emergenza del verde (parco, asse viario, alberi isolati, a filari, a gruppi)

viale di cipressi

Organizzazione colturale e infrastrutturale del podere

casa colonica e annessi

viottola poderale

fosso di raccolta delle acque

uliveto a filari

uliveto irregolare

uliveto ciglionato

uliveto terrazzato

vigneto tradizionale

seminativo olivato

seminativo vitato

Elementi di arredo e di integrazione tra l’organizzazione delle colture agrarie e l’organizzazione spaziale del podere

seminativo arborato olivo-vite

muretto di recinzione

siepe

filare di olivo

Vegetazione extra-agricola

filare di vite Edilizia extra-agricola

filare misto olivo-vite

aree boscate

vegetazione lungo i corsi d’acqua

cespuglieti arborati

edifici anteriori al XIX secolo

edifici anteriori al XIX secolo di valore architettonico

edifici del XIX-XX secolo

edifici posteriori al1945

edifici anteriori al XIX secolo, alterati nel XIXXX secolo

edifici anteriori al XIX secolo alterati dopo il 1945

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La mappa è stata rilevata nei primi anni ‘70 da un gruppo di lavoro composto da Grazia Gobbi Sica, Luciana Capaccioli, Teresa Gobbò, Luigi Lazzareschi, Virginia Stefanelli. I segni della legenda sono in scala 1:2000, gli estratti della mappa sono in scala 1:4000. La stesura è stata curata da Teresa Gobbò e da Luciana Capaccioli.

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The urban growth that was getting claimed until the sixties, wasn’t the only way of landscape changing.In this growth there were the consequences the town had, in her growth, on the rural territory.Today there are side-effects outwardly much less glaring, but not less important, mainly for the consequences they have on the social fabric. One of the most interesting feature, in this sense, is the use that’s today made of the country houses, a tuscan landscape’s extraordinary heritage. In a research of ours, that had as experimentation area the Chianti, we have verified 4 planning and using behaviour classes: 1-The abandon and natural deterioration. 2-The modification let to the “creativeness” of designers. 3-The use by the young people refusing the bright lights. 4-A polite way to live the country, carried out by some middle-class families. The first survey area checks the typological study, wich gave us most significant examples, designed or spontaneous, to be studied in their inner connections. The second survey area looks at the creation of a new way of living, good enough to gather the features of our traditional culture, and those coming from the “globalization” of our society.

TRADIZIONE DELL’ABITARE IN TOSCANA1 Roberto Maestro L’attenzione della cultura architettonica degli anni ’60 era tutta volta alle modalità di crescita delle città. Crescita degli abitati maggiori che avveniva essenzialmente per espansione della forma, per “ispessimento” del disegno esistente. Un ingrossamento che non mutava, se non per alcuni aspetti marginali, il disegno territoriale. Gli architetti, soprattutto quelli che si interessavano al disegno a grande scala, si son provati a modificarne le linee, a modificare le modalità con le quali avveniva questa crescita, ipotizzando l’organizzazione del territorio in città lineari, o una crescita per “gemmazione”: nuovi poli che contrastassero la crescita “a macchia d’olio”, come si diceva in quegli anni. Ma quella crescita per espansione dell’abitato compatto, con conseguente attrazione centripeta e desertificazione delle campagne, non è il solo modo come si è trasformato il territorio. Venticinque anni fa (al tempo degli studi per il Piano Intercomunale Fiorentino) mostrammo in uno schema le modalità di scambio di popolazione tra una città e un centro minore, un paese. In questo schema si metteva in evidenza un processo di aggregazione che avveniva per linee e per poli; il gruppo di progettisti, del quale facevo parte, esprimeva dei giudizi e suggeriva delle misure per ridurre gli effetti negativi di questi processi “spontanei” di crescita. Suggerimenti e proposte in parte accettate e trasferite nelle prescrizioni dei Piani Regolatori dei Comuni che facevano parte del Piano Intercomunale. Oggi mi proporrei di studiare le cose anche sotto un altro aspetto. Non cercherei più e soltanto l’effetto sulla campagna causato dalla vicinanza con la città, ma cercherei di studiare quelle trasformazioni che in un qualche modo “saltano” la città, e la sua influenza diretta, e che derivano da fattori esterni. Penso ad esempio al cosiddetto “agriturismo” e a quei diversi modi di uso delle strutture agricole, per il turismo, il tempo libero, la residenza di persone provenienti dai luoghi più impensati (non solo dalla città vicina). Questo processo di crescita e trasformazione assume aspetti meno vistosi di quello che deriva dalla crescita territoriale delle città, ma ad una osservazione attenta non può sfuggire l’importanza del fenomeno, sia per la sua diffusione che Gli effetti dell’abbandono e del degrado naturale.

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per gli effetti che provoca nel tessuto sociale. Oggetto, se non vittima, di questo processo, è l’architettura delle case coloniche. Un patrimonio culturale straordinario, sul quale molti di noi architetti si sono formati. Chiunque di noi abbia radici toscane è allarmato dalla grossolanità con la quale spesso vengono condotti questi lavori di trasformazione. Attraverso le fotografie fatte dall’architetto Michele Piccini, nostro collaboratore in questa ricerca, mostriamo alcuni esempi di trasformazione. Sono scelti tra i più significativi di una zona, il Chianti, che abbiamo individuato come area di studio per la nostra ricerca. In particolare sono evidenziati gli effetti provocati da scelte progettuali diverse, che derivano da modi di vivere il rapporto con la campagna, la sua cultura, la sua architettura antica. Vedremo quindi gli effetti: 1 - dell’abbandono e del degrado naturale; 2 - della trasformazione lasciata alla “creatività” dei progettisti, e alle voglie dei committenti in cerca di folklore; 3 - dell’uso un “sacco alternativo” (come direbbe Verdone), da parte di gruppi di giovani in fuga dalle città; 4 - di un modo corretto di vivere la campagna, da parte di due famiglie che abitano da sempre questi luoghi. Non si tratta di contadini ma di famiglie borghesi, (quella di uno scultore e quella di un architetto) che hanno modificato queste case per adattarle alle loro esigenze. Tra questi esempi non si troverà una ricostruzione conservativa di tipo “museale”, non perché la ritenga impossibile (si pensi ai musei d’arte contadina nati in varie parti della Toscana) ma perché ritengo questo un modo sbagliato di operare. Le case di questo tipo si salvano solo abitandole, anche se questo comporta trasformarle. Occorre rendersi conto che i contadini non ci son più. Non c’è più quel tipo di mezzadro per il quale era stata pensata quella casa, e che lui stesso aveva adattato alle sue esigenze. Quei pochi che ancora abitano la casa ereditata dai genitori o dei nonni contadini, è gente totalmente diversa, che spesso lavora in città, e che sogna di trasformare la sua casa colonica in un villino borghese. Da questa ricerca, sono derivati due filoni distinti. Il primo campo d’indagine riguarda vari aspetti legati alla casa; anzitutto lo studio sulle antiche case coloniche ed il loro recupero filologico, con il quale si tenta di approfondire il problema non tanto dei restauri conservativi, quanto degli adegua-

Gli effetti dell’uso un “sacco alternativo”, da parte di gruppi di giovani in fuga dalle città.

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menti di tali strutture alle esigenze del vivere moderno; la finalità di tale ricerca è pertanto quella di fornire un valido strumento di aiuto agli operatori, e agli stessi proprietari, negli interventi di ristrutturazione e restauro. Partendo dalla letteratura esistente, per un corretto approccio alla problematica, si evidenziano i caratteri meno noti ed i principi che regolano la composizione e l’armonia di queste architetture, tra le quali si contano esempi di altissimo valore formale, paesaggistico ed ambientale. La finalità è dunque quella di non perdere le ultime testimonianze di una forma d’insediamento “popolare”, progettata e spontanea, causata da interventi di recupero e restauro, ma di scoprire i segreti dell’armonia di tali strutture, per improntare ad una maggiore correttezza storica e stilistica i futuri interventi degli operatori. Il secondo campo d’indagine riguarda per così dire la pedagogia abitativa, ovvero la creazione di un nuovo modo di abitare consapevolmente fondato sia sulla nostra cultura e tradizione storica che sugli apporti derivati da influenze esterne. Ripercorrendo con la memoria la propria storia personale ed appuntando ricordi e interessanti testimonianze, abbiamo iniziato una ricerca che vuole studiare lo sviluppo delle case d’abitazione, dei loro interni, delle strutture architettoniche e funzionali in rapporto alle modificazioni indotte dal progresso sociale, politico, economico e culturale. Seguendo un iter cronologico e topografico abbastanza ampio, questi ricordi costituiscono in qualche modo le fondamenta storiche su cui innestare gli altri argomenti. Il discorso si lega strettamente al lato umano, alle esigenze delle famiglie e della comunità, determinando così anche un ideale dialogo tra l’architettura e la società, tralasciando gli aspetti più tecnici. In più, essendosi ricostruito un percorso storico che vuole mantenere vivi alcuni legami con il nostro passato recente, si è voluto aprire il campo d’indagine anche ad un settore ancora quasi del tutto inesplorato: quello dell’impronta psicologica che l’architettura, ma soprattutto l’arredo interno, riceve dal suo committente e dal suo inquilino e viceversa (chi abita in una casa non progettata da lui, finisce per esserne influenzato). Poiché, infatti, si è certi della veridicità del postulato - definito da Mario Praz - secondo il quale la casa è lo “specchio dell’anima”, abbiamo voluto approfondire il rapporto tra l’interno abitativo e l’interno umano, psichico ed emozionale. La ricerca, con la collaborazione della dottoressa Alessia Lenzi, si propone di selezionare un piccolo gruppo di dimore, arredate secondo il gusto di personaggi celebri vissuti nel nostro secolo, attraverso le quali dimostrare quel sottile legame che si

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determina tra la personalità dell’uomo proiettata sull’insieme degli oggetti che definiscono il suo spazio vitale, spazio che costituisce la sfera privata nella quale si trascorre gran parte della propria esistenza.

Le due ricerche hanno prodotto, da una parte, uno scritto con finalità pedagogiche, esposto in forma epistolare, dall’altra, uno scritto sul rapporto tra la casa e chi l’abita. Scritti che non devono essere intesi come un testo conclusivo della ricerca, ma piuttosto come appunti per uno studio tutt’ora in corso d’opera, gli sviluppi del quale non sono ancora interamente definiti. Il primo si intitola: “Consigli per convivere con una casa toscana senza sciuparla”, il secondo porta il titolo provvisorio di “Case con l’anima”. Per il primo ho potuto contare sull’aiuto dell’architetto Michele Piccini, attento conoscitore dell’architettura chiantigiana, per il secondo sull’esperienza della dottoressa Alessia Lenzi, paziente ricercatrice di archivi sepolti.

1

Relazione tenuta al Convegno del Castello di Buggiano - 2 ottobre 1999. Con la collaborazione della dott. Alessia Lenzi e dell’arch. Michele Piccini.

In qesta e nella pagina a fianco: Gli effetti di un modo corretto di vivere la campagna, da parte di due famiglie borghesi che abitano da sempre questi luoghi.

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If we carefully read the last regional legislation of Tuscany about the rural dwelling wealth, we may see as the still present rural houses must be tied to the concept of the contextual relationship. This concept carries his roots from the historical establishment ways of rural building frame, specifically the tuscan rural house, bulding tied to the tenant farming, which from the XIV century took the place of the manorial system. The tenant farming house is a two-storey building, with a portico, an outer stair, a tiled roof, a pigeon-house extension on top of the roof, according to a typology that will recur during the following centuries; it’s an unique blending with the surrounding landscape thanks to the arrangements the farmer has wisely organized. The modern age sees the end of the rural house, towards comparision to the industrial growth. Back in the fifties the agrarian population was the half in front of 1800, and the house modifies herself to hold no more country activitiess, but crafting and touristic business. Today rural house is coming back as country residence. The task of new residents is now take care of the environment defence.We could now resume some ground principles that start from the historical and structural bulding features: removing the fence, letting an outer area serving the estate, preferring an unsurfaced service road, working by scientific building renovation, trying to draw on alternative energy sources.

TESTO E CONTESTO NEL TERRITORIO APERTO1 Pierfilippo Checchi La legge regionale toscana n° 5 del 1995 titolata “Governo del territorio” è andata a sostituire la precedente n° 74 dell 1984 “Norme urbanistiche integrative” modificandone sostanzialmente l’impostazione: da una legge dedicata al controllo della crescita urbana, con il corollario delle aree axtraurbane, ad una orientata al governo del territorio nella sua interezza ed al suo sviluppo sostenibile. Nella stessa logica la legge regionale n° 64 del 1995 “Disciplina degli interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia nelle zone con prevalente funzione agricola” è andata a sostituire la precedente n° 10 del 1979 “Norme transitorie relative alle zone agricole”. Anche la LR n°64, che è dello stesso anno ed immediatamente successiva alla n° 5, partecipa dello stesso spirito anche se il titolo, che sopra abbiamo riportato, sembrerebbe restringerne l’area di intervento alle sole trasformazioni di tipo urbanistico ed edilizio. Ad una lettura attenta della legge e nella ricerca della ratio della stessa, si può con ragione sostenere che gli interventi sul patrimonio edilizio in territorio aperto vengono dalla legge comunque legati ad una valutazione del rapporto con il contesto ed a un intervento anche su di esso con il meccanismo del piano di miglioramento agricolo ambientale e della valutazione dei cosiddetti oneri verdi. Di fatto la legge rende più facile la deruralizzazione degli edifici ancora rurali (rimasti peraltro pochi almeno in prossimità delle città) ma la lega all’individuazione dell’area di pertinenza dell’edificio ed alla sua sistemazione e miglioramento ambientale; se l’area è più di un ettaro tale sistemazione può essere fatta direttamente dai proprietari e se inferiore dal Comune. Questo legame fra edificio e terreno sta alla base di un nuovo concetto introdotto dalla legge: quello di presidio ambientale. La presenza umana sul territorio, anche se non direttamente connessa ad attività propriamente agricole, può, anzi deve, essere utilizzata in funzione di salvaguardia ambientale. Una tale prospettiva di interventi sul patrimonio edilizio delle aree agricole legati a contestuali interventi ambientali sul sistema aziendale (nel caso di aziende agricole) o sulla proprietà di pertinenza (nel caso di edifici a destinazione non agricola o deruralizzati), trova fondamento nelle modalità storiche di costituzione del patrimonio edilizio legato all’agricoltura, ed in particolare alla casa colonica sviluppatasi, in toscana, con il sistema mezzadrile.

Il sistema mezzadrile La mezzadria quale sistema tipico di conduzione delle attività agricole si sviluppa dal tardo medioevo attraverso la diffusione dell’appoderamento e della policultura arborea. La crisi progressiva del sistema curtense, che vedeva generalmente i terreni dati in concessione affittuaria, porta ad un accentramento della proprietà terriera nelle mani di ricchi mercanti. Alcuni documenti dei tempi testimoniano già un interesse comune da parte di questi e del mezzadro affinché quest’ultimo abiti stabilmente il podere anche se tale sistema di conduzione si stabilizza solo in seguito.

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Le immagini riprodotte sono riprese da la tesi di Marina Ciappi “Vaglia: le trasformazioni del paesaggio dai primi dell’ottocento ad oggi” Relatore: F. Pardi, Correlatori: P. Checchi e V. Mordini – a.a. 1996-97. Si tratta di cabrei gentilmente messi a disposizione dall’archivio della Famiglia Corsini: “piante dei poderi componenti la fattoria di Vaglia nel Mugello situata nella comunità di Vaglia e di S. Pietro a Sieve di proprietà dell’Ecc.ma casa Corsini levate sul terreno da Giuseppe Faldi Ingegnere l’anno 1817”; in questa e nelle pagine seguenti sono nell’ordine: Casaccia e Palazzo, Chiuso, Palagio, Casaccia podere, Casaccia casa.

Il sistema mezzadrile, che trova comunque completo sviluppo solo a partire dal XV secolo, si basa essenzialmente sulla divisione degli utili della produzione fra il padrone ed il colono il quale si impegna a coltivare il terreno ed apportare migliorie al fondo. Un simile contratto prevedeva la permanenza duratura della famiglia del colono sul terreno, da cui consegue la necessità di un podere e la sua sistemazione con la costruzione della casa. L’architettura rurale nasce e si sviluppa con il perdurare di queste condizioni sociali ed emerge come episodio esclusivo e spontaneo della cultura contadina: la casa deve essere funzionale al fondo essendo il motore delle attività produttive. La sua costruzione è affidata dal padrone al contadino stesso che opera sotto la direzione del fattore insieme alle maestranze. L’Alberti nei dieci libri del De re aedificatoria ne da un prima descrizione “(...) facciavisi una gran cucina, non buia e sicura da’pericoli de l’abbruciare, col forno, col focolare, col pozzo e con l’acquaio. Di là da la cucina vi sia una camera (...) per i bisogni di giorno in giorno. Si deve fare accanto a la cucina una grande capanna sotto la quale si riposa il carro, la treggia, lo aratro, il giogo, le ceste del fieno e simili altre cose, e sia detta capanna volta a mezzodì, acciocchè la famiglia ne l’inverno vi possa stare a passarsi al sole i giorni di festa. (...) porrai la colombaia, che ne vegga acqua e non la porre troppo alta...” La descrizione albertiana già fa vedere come la casa nasca strutturalmente connessa con il podere. Alcuni riscontri sulle abitazioni rurali del tempo si possono desumere da pitture, anche se la trattazione è paesaggistica e viene effettuata in maniera convenzionale. Dal XVI sec. una serie di documenti iconografici dell’Ospedale fiorentino di S. Maria Nuova offrono un buona descrizione delle caratteristiche tipiche dei beni rustici che ritroveremo nelle case coloniche successive: suddivisione su due livelli, presenza di copertura a coppi ed embrici su due falde a scarsa pendenza, scale esterne e costruzioni minori addossate a quella principale, pochi gli annessi isolati. Lo schema che può dedursi da queste rappresentazioni è quello di una costruzione unitaria con stalle a piano terra ed abitazione già posta al primo piano ed in alcuni casi il magazzino ed il granaio su di un ulteriore livello. Nei secoli XVI e XVII però l’agricoltura in toscana vive un periodo di recessione: è solo con gli interventi di bonifica effettuati dai Granduchi di Lorena (miglioramento della viabilità e degli acquedotti, opere di bonifica idraulica) che l’economia agricola prende nuovo impulso. Gli interessi dei coloni e dei padroni tornano ad essere comuni e la cultura mezzadrile può svilupparsi ed incidere fortemente nella formazione del paesaggio lasciando segni che hanno marcato il territorio fino all’attualità. La casa colonica quale simbolo del sistema mezzadrile e centro delle attività del podere, anche se facente parte del più complesso sistema della fattoria, si consolida così con il consolidarsi del contratto mezzadrile quale forma tipica della conduzione agricola. Il contratto prevede che il padrone, oltre a fornire il terreno del podere, provveda alla costruzione della casa: questa quindi diviene da una parte piena espressione della cultura contadina dall’altra nasce e si sviluppa per mezzo di denaro proveniente dalla città e

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con essa definirà legami leggibili attraverso elementi sia funzionali che formali. Il granduca Pietro Leopoldo nel 1769 da nuovo impulso all’investimento di capitali nell’agricoltura tramite una direttiva edilizia volta a risolvere il problema delle abitazioni mezzadrili delle “Regie Fattorie”. Nelle grandi aree di bonifica e nelle valli oggetto d’interventi migliorativi si diffusero nuovi modelli di case contadine che diventarono il più aggiornato ambito di sperimentazione sulle tipologie dell’edilizia rurale. Il tipo più diffuso fu quello “della casa isolata, sviluppata su due piani, coperta da un tetto a padiglione, sormontata dalla torretta centrale e arretrata dalla colombaia, caratterizzata sulla facciata meridionale da portico e loggia ad una due o tre aperture e dimensionata alle capacità lavorativa della famiglia”. (C.Cresti, La toscana dei Lorena, Pizzi, Milano, 1987) È conseguenza di questo periodo se il tipo della casa colonica acquisisce nuove e forti caratterizzazioni legate ad una regolarità e ad un accorpamento delle funzioni che saranno mantenute anche nei secoli successivi. Al risveglio dell’interesse per le attività agricole e per le costruzioni ad esse annesse ne corrisponde uno legato agli ambienti culturali che mira ad analizzare il fenomeno della mezzadria in tutti i suoi aspetti. Uno di questi studi, redatto dall’architetto Morozzi per conto dell’Accademia dei Georgofili, si sofferma proprio sugli aspetti funzionali della casa colonica descrivendola in questo modo: “(...) un podere di montagna, il quale frutti al padrone in grano, vino, olio, castagne, bestiame vaccino, pecorino e porcino, ed abbia bisogno di una famiglia di 12 o 14 persone, gli conviene una casa che abbia tutti i necessari requisiti a suddetti capi d’entrata: le scale buone, comode e luminose. Una spaziosa chiostra murata attorno. Un pozzo abbondante di acqua buona. Un forno capace di tre staja di pane. Una stanza per il telaio, per i ferri, ceste, corbelli, graticci, pale. Tante stalle quanti sono i diversi generi de bestiami. Una tinaia. Una cantina. Una cacjaia, e stanza da fare il burro. Un seccatoio per le castagne, e stanza per le ghiande. Una capanna; e fienile. Un gallinajo. L’aja per battere. Nel primo e ultimo piano: una grande stanza per cucina, e per mangiare tutta la famiglia. Tante camere capaci di due letti ciascheduna secondo il numero della famiglia opportuna al podere. Un granaio per le raccolte del contadino. Una stanza per distendere le olive, la quale si può cavare sopra la cucina. Un verone o loggia per le faccende nel tempo di pioggia. Una stanza o a terreno, o sopra per il padrone a guisa di magazzino. Una colombaja.” (F. Morozzi, Delle case de’contadini, Pagani, Firenze, 1807, pagg.14-16) Risulta difficile definire quanto l’improvvisa evoluzione della casa colonica sia da imputare agli impulsi arrivati da questi ambienti accademici marginali alla cultura contadina o ai benefici che la produttività ebbe a seguito della rivoluzione agraria di fine Settecento. Questa nuova architettura rurale, comunque, modificando ed integrandosi a quelle già esistenti contribuisce a dare un impronta indelebile al paesaggio interno della Toscana. La casa colonica si fonde con il paesaggio divenendo ad essa connaturale anche grazie ad una serie elementi di rapporto e di mediazione fra l’edificio e l’esterno che la necessità e la sapienza contadina esprimono: la vite di uva fragola addossata alla casa, il noce al limite dell’aia (a volte il gelso, il fico...), l’orto con la siepe di rosmarino e le conche di fiori, la concimaia vero impianto di completo riciclaggio dei rifiuti, il “viaio” in pietra ove appena una vena d’acqua fosse captabile, la strada davanti a casa (spesso vicinale) intesa come ricchezza, come ponte verso la comunità... La casa colonica non era invero mai recintata.

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Le trasformazioni del nostro secolo. La deruralizzazione. Il periodo moderno vede l’agricoltura soccombente nei confronti dell’industria anche nei momenti di rilancio della stessa come durante il fascismo. Nuove costruzioni comunque continuano a sorgere sia per la messa a coltura di nuovi terreni che per la divisione di grandi poderi ma il modo di vivere ed intendere la casa colonica, viene compromesso da nuove esigenze che tendono a spezzare il legame che univa l’uomo al lavoro nei campi. Fenomeni come la crescente industrializzazione, l’espansione urbana, le nuove tecnologie colturali, la meccanizzazione ed il conseguente sviluppo delle vie di comunicazione si attestano come principali cause della deruralizzazione. Nel 1951 la popolazione agricola è praticamente dimezzata rispetto al secolo precedente e si avvia un sempre più accelerato passaggio dalle attestate forme di vita agricole e patriarcali ad altre più urbane e nucleari. Questo cambiamento sociale si riflette anche sull’aspetto edilizio; le grandi case coloniche si modificano per accogliere abitanti e attività non necessariamente rurali, cambia sia la disposizione che la destinazione di molti ambienti. In alcune zone della campagna toscana il fenomeno della deruralizzazione si attenua per mezzo del discreto sviluppo delle attività artigianali e industriali portate a domicilio. È il caso delle campagne comprese tra Prato e Pistoia dove l’industria del tessile trasferisce le proprie macchine nelle abitazioni rurali, trasformando i rustici in locali per il lavoro a domicilio. Se la forte espansione industriale con i suoi indotti, come ad esempio la costruzione di nuove infrastrutture, ha inciso profondamente sull’assetto delle strutture agricole, lo stesso abbandono della coltivazione del podere modifica il paesaggio, in maniera più o meno profonda. Nel Comune di Vaglia, ed es., il cui territorio coincide in maggioranza con la valle del torrente Carza posta a cavallo fra la vallata dell’Arno e quella della Sieve con un proprio microclima più freddo delle altre due, l’abbandono dell’agricoltura ha portato ad una espulsione naturale delle colture tipiche della mezzadria (vite ed olivo), che erano state forzosamente introdotte e ad una espansione del bosco che ha ricolonizzato abbastanza rapidamente i campi incolti. L’esito di questa mutazione è stata una rinaturalizzazione del contesto agricolo, diviso praticamente fra seminativo/pascolo e bosco, che ha portato ad un aspetto “alpino” del territorio. I fattori di trasformazione del territorio degli anni Cinquanta e Sessanta, all’attualità sono stati integrati da altre questioni che hanno portato ad una nuova rivalutazione del rapporto che intercorre tra il contesto agrario e i singoli elementi che lo compongono. Da alcuni decenni, infatti il principale fattore di trasformazione territoriale è dato dal riuso degli edifici rurali; trasformate in residenze temporanee o permanenti queste case rappresentano per la società contemporanea un nuovo tipo insediativo. A questo fenomeno se ne affiancano altri legati al nuovo interesse turistico o agroturistico verso la campagna e allo sfruttamento dei flussi finanziari che convergono verso le diverse attività agricole. Partendo da soggetti e finalità differenti si sta giungendo ad un complesso sistema di trasformazione sociale che trova le sue basi in interessi soprattutto economici. Le priorità sociali generatrici del sistema mezzadrile avevano portato ad un equilibrio tra i singoli elementi che lo componevano; tutto il sistema era coordinato dalle popolazioni rurali che svolgevano un ruolo di presidio sulla rete di comunicazione territoriale e sociale. Il pericolo che attualmente si corre è di focalizzare l’interesse verso i singoli elementi di questo complesso sistema e di non valutare correttamente le conseguenze delle nuove trasformazioni. La tendenza al riuso delle case coloniche abbandonate non deve essere considerato un fenomeno negativo a priori purchè si riesca ad introdurla nel contesto più generale di salvaguardia ambientale.

I problemi della conservazione e del riuso. Il metodo di recupero della casa colonica non può essere basato sui criteri definiti per l’architettura “illustre” ma deve cercare una sua più consona dimensione. Lo sviluppo della pianificazione territoriale ha posto l’accento sulla conservazione dei contesti paesistici rurali e sul valore che noi attribuiamo ad essi. La scelta dei criteri conservativi non può prescindere da un fine

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ultimo che è quello di tutelare l’integrità di questi contesti. Ciò non prevede necessariamente l’immobilità funzionale di essi ne la cristallizzazione del paesaggio nella situazione ideale di fine XIX secolo. Il paesaggio toscano e con esso la casa colonica vivono all’attualità un processo di notevole aggiornamento e la conservazione deve confrontarsi con le nuove pressanti esigenze. Il problema principale è quello di conciliare un’attività di recupero con i caratteri consolidati di queste costruzioni ma anche con il loro ruolo di qualificazione ambientale e paesaggistica. In questa sede possiamo solo accennare alcuni indirizzi che secondo noi possono consentire di impostare il problema sopra esposto partendo dai caratteri costitutivi storici dell’abitazione rurale. Essi potrebbero essere: - il divieto alla recinzione, almeno prossima all’edificio, la quale nega i caratteri fondanti la casa colonica (che era aperta ed ospitale) e altera profondamente il suo rapporto con il contesto ed il suo ruolo paesaggistico. - la verifica del numero massimo di abitazioni possibili senza snaturare l’impianto tipologico. Comunque anche in presenza di più nuclei abitativi vietare suddivisioni dello spazio esterno con strutture fisse ed invasive che rischierebbero di compromettere l’unitarietà, anche formale, del complesso. - lasciare comunque, anche con meno di un ettaro intorno, una parte dell’edificio a servizio del rapporto con il terreno cioè spazi che possano ospitare dagli attrezzi da giardino agli strumenti per la coltivazione del fondo ed anche spazi per la conservazione dei prodotti della terra come degli alimenti. Questo consente di non recidere il rapporto con l’ambiente ed anche di evitare una richiesta successiva di ampliamento dell’esistente per annessi. - lasciare la strada di accesso del tipo bianco e verificare con grande attenzione la collocazione di posti auto, anche ai fini ambientali ove non fosse possibile ricavare garages interni alla casa (ad es. al posto dei vecchi carri). - il restauro scientifico per le parti di interesse storico architettonico con possibilità di ristrutturazione delle altre anche se con tecnologie tradizionali (e biologiche): murature in pietrame e mattoni, strutture orizzontali in legno (e/o ferro), coperture in laterizi, intonaco a calce ecc. Eventuali parti nuove o rinnovate dovrebbero essere identificabili come tali anche se congruenti con il linguaggio esistente e con il ruolo di presidio paesaggistico. Anche questo carattere di modificabilità e aggregabilità fa parte del bagaglio storico della casa colonica. - la tendenza all’autonomia energetica ed all’utilizzo di energie rinnovabili: oggi esistono ormai sperimentate ed avanzate tecnologie per la produzione o l’integrazione energetica ad impianti di riscaldamento, per la produzioni diretta di energia elettrica, per lo smaltimento ed il riutilizzo dei rifiuti solidi e reflui. Oltre che rispondere a requisiti di sviluppo sostenibile sempre più necessari, anche questo carattere di autonomia e di integrazione con la natura è tipico della casa colonica: “... sia detta capanna volta a mezzodì, acciocchè la famiglia ne l’inverno vi possa stare a passarsi al sole i giorni di festa.” (L. B. Alberti, op. cit.) 1

Con la collaborazione di Moschillo Raffaele e Marina Ciappi

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BIBLIOGRAFIA

Case coloniche in Italia

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Today the recognition methods of the environment joined definitely the design praxis and theory, thanks to the continuous cties growth break, and to the new resources opening, by the retirement of big manufacturing areas. All this has allowed to consider again the layered city system, no more as a pattern to enlarge, according to rigid planning principles, but as a contextual chance to think giving new meanings to the spaces, empty and full, of the town. “The town into the town”, reconsidering models as the Villa Adriana, is in the Unger’s thoughts related to Berlin Master Plan. Moreover the current growth is carried out by the unplanned construction of large manufacturing, service, leisure areas, reshaping the new territory pattern. Therefore it seems that the “urban renewal islands” path, safely implemented for the Turin landscape by the large disused areas reuse, is the right one, but also this path seems unlikely practicable in Florence territory.

PROSPETTIVE DEL RINNOVO URBANO1 Benedetto Di Cristina I metodi di lettura del contesto e le loro applicazioni pratiche ai diversi tipi di insediamento e alle diverse parti della città -al suo centro, alle sue espansioni e ai suoi margini- sono entrati a far parte del progetto e hanno assunto un ruolo fondamentale da quando si è diffusa una nozione che ha segnato una svolta nell’urbanistica come nell’architettura contemporanea: la nozione di “rinnovo urbano”. Due sono le condizioni che, tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta, hanno favorito la nascita e la rapida diffusione di una cultura del rinnovo: 1. l’arresto del processo di espansione; 2. la disponibilità di aree interne ai perimetri già urbanizzati data dai fenomeni di dismissione, abbandono e invecchiamento dell’edilizia; La prima condizione consentiva di mettere da parte la ricerca sui modelli di progettazione della città contemporanea che era stata al centro dell’attenzione a partire dal dopoguerra e aveva accompagnato la formazione e l’attuazione dei programmi più noti e apprezzati (Stoccolma, Amsterdam, le nuove città inglesi) proponendosi come un’alternativa completa alla città esistente destinata a guidarne la crescita con gli strumenti del piano. La città non era più da fare né da inventare: era quella ereditata dalla fase dell’espansione. Si trattava di ripararla accettando anche la sua mancanza di forma e la sua eterogeneità. Non riuscire più a ricondurla a un disegno compiuto e coerente, a un modello d’insediamento teorico, attraverso l’azione piano non sembrava più un grave problema di fronte all’esaurirsi della crescita che del piano, come disegno a priori, non aveva potuto fare a meno, anzi la varietà delle sue parti appariva in una luce nuova come un segno della loro individualità. La seconda condizione lasciava intravedere un modo di intervenire puntualmente e strategicamente come di chi opera su un mosaico complesso e di difficile lettura cambiando un certo numero di tessere e riesce in questo modo a fare emergere una figura che connette i diversi frammenti e li dota di un nuovo senso. Gusto per la ricerca del complesso e per la scoperta di identità davano una felice sovrapposizione tra ricerca di un’altra città all’interno della città esistente e progetto della città: il progetto come scoperta e messa in valore dei materiali stratificati. Si scopriva tra euforia e sollievo che la città profonda poteva anche far smettere di pensare ai problemi della città estesa. Poche descrizioni di città hanno avuto allora tanto successo come quelle di Marco Polo 2 che svela quali infinite diversità si nascondono sotto la superficie di un impero senza confini che dà segni di disfacimento ed è impersonato da un sovrano che ha sostituito l’aggressività dell’espansione con la pazienza dell’ascolto. Pochi monumenti sono stati allora presi ad esempio come villa Adriana con la sua consapevole ricostruzione in un solo luogo delle architetture del mondo classico. Ma il documento più eloquente dell’inizio di questa tendenza è un testo piuttosto breve che si intitola “Le città nella città” ed espone in undici punti le tesi elaborate, durante il corso del 1977 alla Sommer Akademie di Berlino, da un gruppo

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internazionale di docenti coordinati da O. M. Ungers3 “per sviluppare strategie future che tengano conto di una riduzione controllata della densità della popolazione, senza pregiudicare la qualità generale dell’ambiente urbano”. Tra le tesi di questo documento è il caso di ricordare nei lori passaggi più significativi: -la seconda: “L’opinione corrente secondo cui i quartieri della città possono essere conservati e salvati soltanto con attività edilizie aggiuntive e integranti parte da premesse sbagliate e perciò è illusoria.” - la terza: “Poiché come ci mostrano gli esempi citati questo processo di riduzione non è un fenomeno locale, ma è piuttosto un segno di una tendenza molto più generale, compito per il futuro non sarà più quello di pianificare la crescita delle città, ma quello di sviluppare nuove proposte e nuove concezioni per far fronte a questo processo di riduzione tutelando quelle che sono le caratteristiche delle città stesse.” - la quarta: “Queste considerazioni inducono a pensare se nel contesto di un programma di riduzione selettiva del sovrapopolamento cittadino, persino una parziale demolizione di quei quartieri malfunzionanti e superflui, la riduzione della popolazione a Berlino non offre una chance straordinaria per sistemare zone che non soddisfano più esigenze tecniche, sociali, strutturali. Contemporaneamente si dovrebbero identificare quelle zone che meritano di essere conservate, sottolinearne o, al limite, completarne, se incompiute le caratteristiche. Queste enclaves liberate dall’anonimato della città formerebbero in qualità di quasi isole un arcipelago verde cittadino in una laguna naturale.” - la sesta: “Non tutte le integrazioni devono essere progettate a nuovo. Con analogismi e raffronti si possono acquisire conoscenze da impiegarsi in senso tipologico.” - la settima: “ Queste isole nella città sarebbero cioè divise le una dalle altre da strisce di verde, definendo così la struttura della città nella città e spiegando così la metafora della città come arcipelago verde.” La nozione di città arcipelago che accoglie nelle zone aperte tra le isole non solo le attrezzature del tempo libero e i servizi legati all’automobile ma anche la residenza temporanea legata a certe forme di nomadismo, ha la capacità di evocare un modo di abitare in cui “le condizioni di natura sono ritrovate” senza imporre le soluzioni univoche e drastiche della Carta d’Atene (separazione delle funzioni, costruzioni in altezza); basterà utilizzare in modo accorto tutti gli spazi aperti dalla decrescita. Anche se si sostiene con immagini che vengono da città del Nord Europa, in cui l’urbanizzazione si è distesa nel paesaggio naturale, questa nozione è applicabile ad altre città più compatte, e, per tradizione, meno dotate di grandi estensioni di verde, perché mette in valore le fratture e gli interstizi nel continuo urbanizzato e spinge a considerare il verde pubblico per la qualità del suo progetto più che per la quantità dei suoi standards Anche la questione dei confini, che ricorre spesso negli anni ottanta nella cultura del piano dando luogo a proposte improbabili di nuove “cinte murarie”, va spiegata in questa prospettiva. Cosa sono i confini attuali della città se non divisioni interne tra le sue parti, discontinuità del tessuto urbano? Infine questa nozione di città legata a una prospettiva di decrescita aveva il fascino di presentarsi come un momento di riflessione e convalescenza dopo la fase febbrile dell’espansione. Per seguire questa nozione di progetto fu trovato un modo di lavorare che si fondava sulla capacità di ascolto e di dialogo col contesto anche mettendo in ombra certi principi della costituzione del moderno (corrispondenza tra forma e funzione, espressione della costruzione, coerenza del tipo e delle sue aggregazioni). Questo consentì di mettere in valore il contributo della cultura architettonica italiana che aveva avuto, nella ricostruzione del dopoguerra e nel periodo della crescita, un ruolo quantitativamente marginale ma qualitativamente importante: era stata di fatto estromessa dalla progettazione dei nuovi insediamenti ma, grazie alla fitta rete di protezione data dalle leggi del 1939 sulla tutela delle cose di interesse artistico e storico e sulla protezione delle bellezze naturali, si era concentrata sulla qualità degli interventi nei centri storici dove l’approvazione dei progetti passava al vaglio delle Soprintendenze e, in generale, di una cultura umanistica non indulgente con gli aspetti più estremi del moderno. Tra l’altro gli italiani erano stati i primi ad assumere, in alcune città, la conservazione e il restauro come obiettivi di politica urbana ed erano gli unici ad avere una scuola di pensiero che legava in modo organico il progetto alla lettura del processo di formazione dell’edilizia, del tessuto e dell’organismo urbano.

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La capacità di ascolto del contesto che avevano dimostrato gli italiani coi loro esemplari interventi di restauro e d’inserimento del moderno nei centri antichi era un vero prodotto artigianale che lasciava ammirati gli osservatori ma non era riconducibile a formule 4 . Anche per questa ragione nella pratica del rinnovo urbano ha successo un’idea più banale, quella della città collage di Colin Rowe, che teorizza la conciliazione dei conflitti nel collage eclettico5 . D’altra parte non si poteva pensare di portare avanti programmi estesi, sui quali si richiedeva il contributo degli architetti più noti, senza lasciare spazio a interpretazioni: per la prima volta si proponeva di mettere al centro la tradizione europea di continua trasformazione di un ambiente urbano denso e stratificato. A distanza di circa venti anni dalla prima stesura dei piani e progetti di rinnovo urbano siamo in grado di valutare i risultati e di delinearne le prospettive alla luce di due cambiamenti avvenuti alla fine degli anni ottanta che si sono imposti all’attenzione anche perché hanno in parte modificato proprio le condizioni di partenza e hanno avviato il progetto in direzioni che allora non si potevano prevedere. La prima correzione riguarda il concetto di decrescita e di fine dell’espansione. In molte situazioni, che si presentano sopratutto nelle aree produttive, si assiste ad un fenomeno diverso: la crescita delocalizzata. Questa non ha la forma convenzionale di una occupazione massiva di nuovo suolo, che procede dalla città verso l’esterno, e si manifesta simultaneamente in diversi luoghi, anche fisicamente lontani, non come annessione all’urbano ma come dispersione insediativa sostenuta dalla mobilità. Anche se in molti casi prende forma attraverso l’edificazione e produce tipi di insediamento (la strada commerciale, la fabbrica diffusa e la residenza unifamiliare nelle aree agricole) il suo impatto di deve in gran parte all’intensità d’uso di tutta la rete stradale e di tutti gli spazi pubblici e all’occupazione semipermanente del suolo con depositi, cantieri, installazioni, discariche, collegati da traffico intenso e pesante. Gli stessi luoghi del tempo libero, dello sport e del divertimento di massa sono usati con tale frequenza, in tutte le ore del giorno, che è impossibile considerarli come dei vuoti o delle pause. All’epoca delle strade corridoio e delle ferrovie metropolitane Raymond Unwin usava questa immagine per la critica alle alte densità: se tutti decidessero di uscire di casa alla stessa ora le strade non potrebbero contenerli. Oggi questa figura così efficace nel dare la sensazione di inquietudine connessa alle città sovraffollate non sarebbe adeguata a spiegare l’effetto densità che viene indotto, anche in luoghi inedificati e inabitati, da tutte le attività che vi si svolgono. Più che di annessione all’urbano di tutto il territorio si deve parlare di nuove modalità della vita urbana che hanno modificato la condizione degli spazi non urbanizzati. Si tratta di modi di uso del territorio legati a una crescente mobilità già diffusi negli Stati Uniti dove, fino dagli anni settanta, gli architetti più colti hanno proposto di spostare l’accento dall’edilizia alle trasformazioni del suolo e alle infrastrutture stradali lasciando gli edifici al grado zero della definizione formale - “ricoveri climatizzati”- per lasciare emergere in primo piano le nuove categorie del paesaggio: estensione e velocità. In Europa, dove densità e stratificazione del paesaggio non consentono quella indulgenza verso la banalità scoperta dalla pittura americana negli anni sessanta, si richiede un diverso approccio alla dispersione; forse un lavoro analogo a quello svolto dalla generazione di progettisti che, negli anni della ricostruzione, avviò la ricerca sulle strutture orizzontali ad alta densità per misurarsi con la trasformazione dei centri urbani senza importare acriticamente le costruzioni in altezza.6 L’altro tema riguarda lo slittamento dell’architettura dal terreno della trasformazione a quello della rappresentazione: l’affermarsi dei suoi valori emblematici a scapito dei valori strumentali. Si parla molto più di architettura ed è proprio della bellezza architettonica e della qualità dell’ambiente urbano che ora parlano gli uomini delle istituzioni. Le rappresentazioni dei progetti sono entrate a far parte degli strumenti con cui si raccoglie il consenso, ma, nello stesso tempo, non sono molti i programmi di rinnovo urbano realizzati in coerenza con le premesse e le aspettative iniziali. Gli interventi sulle aree interne alla città si sono rivelati più onerosi di quanto si immaginava negli anni ottanta mentre le procedure per l’attuazione non sono così lineari come quelle adottate negli anni dell’espansione. Allora le imprese edili avevano la certezza di vendere (o affittare) tutto ciò che costruivano purché fosse conforme ai programmi delle amministrazioni locali che, a loro volta, riuscivano, tra sovvenzioni statali e oneri di urbanizzazione, a sostenere i costi dell’estensione della città. Da quando si

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costruisce per il mercato questo esito è molto più incerto. Per questo i finanziatori istituzionali tendono a circoscrivere il loro impegni7 mentre i finanziatori privati devono confrontare il profitto con quello che potrebbero ottenere impegnandosi dove il rischio è minore, dove mancano i vincoli pesanti dati dalla stratificazione storica del territorio europeo e dalla presenza di movimenti politici organizzati e attivi in grado di ostacolare i progetti o di imporne onerose varianti. Queste condizioni modificano il lavoro dell’architetto che mantiene un ruolo di primo piano nel momento in cui deve convincere i numerosi partners di un progetto, ne ha meno nella fase di attuazione e ancora meno nella definizione del programma. Poiché in fase di valutazione si è ridotto numero di coloro che sanno leggere i disegni di architettura, le tecniche di presentazione basate sul fotorealismo e sulla simulazione degli effetti dei materiali e degli spazi sono diventate fondamentali. Immaterialità, riflessione e luminescenza apprese dai progettisti sui monitors sono diventate i criteri guida nella scelta dei materiali. C’è chi vede nella neutralità, nella perfezione tecnica, nella mancanza di riferimenti formali al contesto, e nella generale inscrutabilità di molti edifici contemporanei i caratteri di un’architettura che accompagna il processo di globalizzazione e asseconda con la sua ipermodernità la rappresentazione dei non luoghi.8 La cultura del rinnovo urbano sembra arrivata al punto di esprimere valori del tutto diversi da quelli che ha sostenuto alle sue origini: favorisce la dispersione insediativa invece della valorizzazione dei vuoti e si vale di immagini spettacolari per rendere accettabili interventi all’interno della città sui quali non è grado di esercitare un vero controllo. In realtà ci sono dei risultati. Realizzando programmi complessi si è arrivati al punto di coordinare i diversi elementi del progetto (nuova edificazione, recupero, verde pubblico, infrastrutture) che una volta facevano parte di interventi distinti e affidati settori diversi dell’amministrazione locale. Nel recupero degli spazi pubblici si è compreso che si poteva contare sulle stesse risorse che oggi convergono su grandi attrezzature suburbane; che, con la stessa logica che sostiene l’attuazione di uno shopping mall si poteva chiedere ai privati di investire nel recupero degli spazi della città compatta. Si è avviata la connessione tra i luoghi pubblici e gli spazi del trasporto pubblico: si sono rinnovate le stazioni per adeguarle all’aumento dei viaggiatori e al potenziamento delle linee: poiché spesso si trovano nei centri, dove ormai sarebbe difficile arrivare coi mezzi privati, hanno esteso la loro accoglienza, sono diventate prolungamenti degli spazi urbani adiacenti, vengono attraversate e utilizzate come grandi halls pubbliche che, con la conversione di alcune tratte in linee metropolitane, sono diventate punti di incontro della periferia con la città antica. Nell’insieme si può affermare che gli inizi della pratica del rinnovo urbano sono stati tanto difficili quanto quelli della ricostruzione europea all’inizio degli anni cinquanta. Allora c’era un paesaggio di distruzioni, oggi c’è uno scenario meno drammatico ma altrettanto esteso di obsolescenza e abbandono dell’armatura delle città. Come allora, nei casi migliori, si riuscì a trasformare la povertà in austerità (gettando le basi di quella che è stata l’identità dell’architettura europea dal secondo dopoguerra) così ora ci si dovrebbe augurare di riuscire a immaginare la sobrietà dall’interno della straordinaria abbondanza di cui si dispone e delle innumerevoli tentazioni a cui ci espone.

1 Questo intervento (che si basa sia sull’osservazione di progetti realizzati nell’ultimo ventennio in alcune città europee, che su casi di studio presentati al Corso di Perfezionamento in Architettura e Contesto) vuole delineare le prospettive che si aprono oggi alla pratica del rinnovo partendo da un confronto dei risultati con i presupposti, gli obiettivi e le aspettative che ne hanno accompagnato la nascita. 2 Le Città Invisibili di Italo Calvino, pubblicato nel 1972, anticipa di diversi anni la disposizione che avrà la cultura del progetto, alla fine del decennio, verso la megalopoli contemporanea. 3 La Città nelle Città è pubblicato integralmente alla pgine 82-97 di Lotus Interntional 19, giugno 1978. Nello stesso numero compaiono studi e progetti sul tema dell’isolato a Berlino e in altre città Europee. 4 Vincent Scully, nel 1984, scrive in un breve intervento per il catalogo Electa su Scarpa: “Cosa fare con una volta gotica, una finestra veneziana, una cavità di pietre che rimanda un’eco, se non toccarle semplicemente un poco? come un creatore troppo rispettoso e fondamentalmente buono, decente, premuroso, intento solo a servirla, a decorarla: aprire qualche porta, far entrare la luce, pulire le pietre. Questi rapporti con le vecchie cose che resistono al tempo sono particolarmente commoventi, perché Scarpa ha amato intensamente le prime e piuttosto eroiche fasi dell’architettura moderna.” 5 Collage City, che raccoglie testi già pubblicati in parte su Architectural Review,

esce nel 1981 per MIT Press e per la collana di architettura del Saggiatore diretta da Giancarlo De Carlo. 6 Shadrach Woods espone questo principio nella descrizione del progetto per il centro di Francoforte presentato al concorso internazionale del 1961: “Francoforte è il centro bancario della Germania ed in quanto tale è particolarmente influenzabile dagli esempi americani. Nuovi edifici, alti e isolati, erano allora la regola ma noi avvertivamo quanto fossero morfologicamente incompatibili col contesto fisico e storico. Perciò proponemmo di sistemare quanto era previsto dal programma, e anche più, in un struttura orizzontale di quattro-cinque piani basata su una griglia di percorsi e servizi a scala pedonale” Shadrach Woods, The Man in The Street, a Polemic on Urbanism, Penguin Books 1975. 7 Dalla fine degli anni ottanta il governo olandese si è rifiutato di continuare a sostenere in misura percentuale i costi del rinnovo delle aree portuali di Amsterdam, che pure è un’operazione portata in fondo con grande competenza ed efficienza, è ha accettato solo una convenzione che lo impegna a dare un contributo di circa 12 milioni per ogni alloggio che verrà realizzato. Si veda in proposito: Egbert Koster: Eastern Docklands, New Architecture on Historic Ground, Amsterdam 1995. 8 M. Boddy, C. Lambert, D. Snape, City for the 21st century?: globalisation, planning and urban change, Bristol 1997.

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Norberg Schulz claims that the modern city distinguishes herself for the “loss of figural form”. Indeed, while the ancient town typifies herself by organic spaces, the modern one loses an unitary view. The reductivism applied to the Man, and to his house, reduces and razionalizes the spaces. But this reduction becomes then practicality’s lowering, just because the functional postulancies of Modern Movement have driven the resident of council houses to a indefinite and bogged down creature, without absolutely taking account of his spiritual and behavioural demands. And it’s just the interpretation of those phenomenons which characterized the transit from the old walled city to the global village the crucial point founding the design. The ancient architecture was organic because grounded around to a values system good for everyone; the industrial town’s process has denied this chance. Today it’s not possible anymore to trust completely the Standards philosophy, but it’s necessary to regain a renewed “humanism”. The strenght of the ancient buildings was to have a soul, a faith, and at the center of everything there was the Man. In other words the dwelling’s quality means to insert these values into the housing space; quality of life means to come back to the reality, and to examine again the “out”, the local feature of the context in which we must work. Quality of life means to deny the theoretical man, and to look for the Individual.

PROGETTO E QUALITÀ. Virginia Stefanelli Tacconi. “Negli ultimi cento anni e soprattutto a partire dalla seconda guerra mondiale, i luoghi hanno subito un processo di disintegrazione. Hanno innanzitutto cominciato a perdere una delimitazione ben definita, in relazione al paesaggio circostante. Mentre gli insediamenti del passato risultavano come “figure” chiaramente delineate, su uno sfondo naturale continuo, oggi gli edifici vengono disseminati a caso, così che diventa difficile stabilire il principio e la fine di un luogo. La “dispersione urbana”, che è un fenomeno comune a molti paesi, porta alla perdita del senso di arrivo e partenza, e dell’orientamento nello spazio. In secondo luogo, anche gli spazi urbani all’interno degli insediamenti, tendono a perdere di coerenza. La strada moderna non è più un luogo che scorre entro confini costruiti, ma solo una parte di un’infrastruttura di comunicazioni, che serve a mettere in rapporto un certo numero di edifici a sé stanti. E la piazza, il “forum” tradizionale, che era il centro della vita sociale, ormai è più o meno inesistente. Con questi presupposti gli individui sperimentano pochissimi incontri e scambi e restano isolati e psicologicamente soli. In terzo luogo, l’ambiente moderno non ha più un carattere locale. In passato villaggi e città si distinguevano per le loro qualità particolari, che avevano ruoli importanti nei processi di identificazione.... La perdita della definizione figurale, dello spazio urbano e del carattere locale, concorrono a creare la perdita del luogo. E la perdita del luogo porta alla perdita di orientamento e identificazione, ossia alla perdita dell’abitare”. (C. Norberg-Schulz).

È noto che, se da una parte il passaggio dall’ordine alla complessità, da una lenta evoluzione ad una sempre più accelerata trasformazione, è un fatto tipico della realtà di oggi, dall’altra le città moderne sono state pensate in modo semplicistico in presenza di una realtà complessa e dinamica: si è scavato un “divario profondo” (L. Berna) tra quest’ultima e la povertà della scena urbana: “Quando si esce dall’edificio residenziale c’è il vuoto tra un edificio e l’altro. Spazi casuali spesso non progettati e quasi sempre mai realizzati. È qui che si è persa l’idea di città, i suoi rapporti dimensionali, la densità, la configurazione degli spazi urbani che nasce dalla relazione tra più edifici, dalla presenza di fronti stradali, porticati, lastricati, dalla piazza, dalla strada, dalla gerarchia degli spazi individuali e collettivi”.1 Mentre la città antica si caratterizza in modo evidente per i suoi tessuti compatti, per i suoi spazi articolati e complessi, dove anche i “vuoti” (tra le case) sono un valore, sono qualificati, flessibili, ricchi di possibilità e di occasioni, nell’attuale periferia c’è una “drammatica riduzione” (B. Secchi) di tutto questo: le strade sono solo “canali” di traffico, gli spazi rimanenti tra di essi non hanno considerazione, hanno una destinazione vaga e indefinita. La città pre-moderna, riflette organicamente nei suoi spazi la ricchezza dei suoi contenuti, non esistono le “separazioni” successive; dopo la rivoluzione industriale, come nota anche P. L. Giordani, “la filosofia del sistema viene ignorata, o quantomeno, superficialmente semplificata.... scegliendo attraverso il modello astratto (nello specifico... il paradigma razionalista) una ipotesi infedele alla dialettica della realtà...”.2 In altra sede (Esercitazioni di lettura critica comparata, città antica - città contemporanea) constatiamo da tempo che il prodot-

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to dell’architettura attuale, in particolare l’alloggio e in genere i quartieri di edilizia economico-popolare, non rispondono allo scopo per il quale sono stati progettati. Una delle concause di questa insufficiente funzionalità discende, a nostro avviso, dall’errata concezione di uomo insita nella filosofia di quei progetti: filosofia dello zoning, dello standard, della specializzazione, delle quantità, prodotta da una “cultura economicista che ha prevaricato quella delle passioni umane”, (G. De Carlo) alla quale va contrapposta quella della integrazione e della qualità.3 Anche S. Acquaviva nota che “chi esce dai centri storici e va soltanto un pò verso le periferie si rende ulteriormente conto del fatto che in Europa la struttura della città moderna è espressione di un’altra civiltà, e quindi di una differente filosofia della vita e della felicità umana”.4 La concezione che ha prevalso (e spesso prevale ancora) e che ha segnato tutta la legislazione dell’edilizia economico-popolare, almeno dal dopoguerra in poi, si rifà al modello di uomo ridotto e riduttivo assunto dagli architetti del Movimento Moderno: un individuo generico che, una volta cristallizzato dalla cultura dominante, ha condotto alla fine a pensare all’architettura in modo astratto. Da qui la delusione e i disagi. Perciò appare importante chiarire a quale idea di uomo ci si riferisca nelle teorie, nella legislazione, nelle normative.5 Considerare con più attenzione le esigenze della persona e della società, significa mettere a fuoco realmente il vero soggetto della progettazione nella sua interezza e complessità.6 Progettare per l’uomo, a sua “misura”, significa dare priorità alle sue “dimensioni” (individuale e sociale, esistenziale e trascendente) che sono diverse ma inseparabili, alle sue necessità, a tutti i suoi bisogni (così variegati e differenti, così antitetici e complementari), che sono complessi e non riducibili a quelli fisiologici, a tutte le sue aspirazioni, senza separazioni e condizionamenti, significa in breve orientarsi verso una ricerca incessante ed una progettazione più personalizzata e più diversificata, che favorisca l’appropriazione dello spazio, sia pubblico che privato, e le relazioni sociali. Ci sembra necessario riscoprire i valori trascurati dall’approccio economico (che non deve prevalere sulle altre dimensioni) e prendere in considerazione la peculiare complessità dell’uomo: l’uomo, la città, la progettazione ed ogni aspetto della realtà sono sistemi complessi e aperti.7 La struttura umana, se vista nell’ottica sistemica, risulta non banale né riducibile ad una sola dimensione, in quanto molto più complessa e integrata col mondo che la circonda di quanto non appaia. Da qui l’importante interazione uomo-cultura e la sua “unicità”-irripetibilità.8 Merita riportare quanto nota V. Tonini: “Un organismo vivente ha sempre una struttura (cibernetica) il cui funzionamento è tanto meglio regolato dall’interno quanto più esso non sia passivamente condizionato da fattori esterni, bensì garantito da scelte selettive (informazioni) e da organi interni omeostatici (conservazione dell’equilibrio interno al variare delle condizioni esterne), autoregolatori (capacità di adattare la condotta al conseguimento di un fine), autogonici (capacità di sopperire con risorse interne a deficienze esterne). Un organismo per durare ed evolvere, deve essere in parte conservativo (stabile) e in parte in equilibrio dinamico con l’esterno, disponendo di un certo grado di indipendenza e di libertà... si può introdurre il concetto di struttura diacronica, cioè di una struttura che perdura, pur variando, nel tempo...”.9

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Il concetto di complessità è ugualmente importante per l’analisi e per l’intervento sulla città e suoi sottosistemi, perché permette la messa a fuoco anche dei concetti di “interdipendenza “ e “varietà” (G. Amendola), fondamentali per leggere e capire la città odierna che è passata in un breve lasso di tempo da sistema apparentemente semplice (città murata) a sistema complesso e aperto fino all’idea limite di villaggio globale. La lettura critica comparata fra le due realtà - la città pre e post rivoluzione industriale - è in questo senso il punto nodale e fondante il progetto, essendo insieme momento di ricerca interdisciplinare, tentativo di descrizione della realtà e contemporaneamente tentativo di evidenziarne le incongruenze.10

L’approccio sistemico adotta un’ampia “prospettiva” in cui il particolare assume un significato nel suo essere inserito in un contesto più vasto e articolato. 11 Pertanto: scelto il luogo dove sviluppare il progetto (nell’esempio il quartiere di Sorgane a Firenze) se ne fa un’analisi il più possibile approfondita e dettagliata. Parallelamente gli elementi caratterizzanti questo quartiere vengono confrontati via, via con quelli della città antica (nell’esempio il quartiere di

Anche la progettazione è un sistema aperto dove interagiscono diverse problematiche “scientifiche” ed “umanistiche” (elementi tradizionalmente quantificabili ed elementi qualitativi) e molte variabili eterogenee (economico-tecnologica, etico-filosofica, storico-culturale, ecc.) il cui numero non permette all’intuizione di padroneggiarne gli effetti. La teoria dei sistemi fornisce strumenti di pensiero e di “calcolo” adatti all’azione progettuale considerando tutte le discipline ugualmente concorrenti alla comprensione globale della complessa realtà.12 Anche per la progettazione sono evidenti “aspetti di rottura con il recente passato: agli elementi fisici si sostituiscono le relazioni, ai modelli semplici e statici quelli complessi e dinamici... occorre tuttavia precisare che per affrontare la complessità dei problemi... non basta passare dal riduzionismo che privilegia le parti, all’“olismo” che privilegia il tutto: è necessario anche tener conto del rapporto tra le parti e il tutto”.13 Progettare significa infatti “saper passare dagli elementi costitutivi al tutto e viceversa senza perdere la ricchezza delle relazioni, i potenziali di sinergia che collegano i due livelli” e considerare le “influenze secondarie”, o indesiderate, alla stessa stregua degli “effetti primari”.14 L’importanza fondamentale delle “relazioni”, dell’aspetto “sinergico”, è nuova e determinante: in un sistema complesso (la città, la progettazione, l’uomo...) uno più uno non fa sempre due; le sue qualità non sono date cioè dalla somma delle proprietà dei suoi componenti, ma dal risultato di una “interazione più complessa” (Manzini). Come abbiamo notato più volte in altre sedi è la

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cultura tecnologica che ci offre un modello di “approccio sistemico” adeguato alla soluzione dei problemi di oggi.15 D’altra parte la tecnologia nell’operare non è neutra: per agire, ha bisogno di una strategia ovvero di obiettivi. Questi obiettivi, che costituiscono parte integrante dell’azione, la molla che guida l’azione, devono essere determinati da una “filosofia esterna” alla tecnologia stessa, che dunque è un mezzo “... da usare per fini più nobili ed ampi di quelli della sua semplice applicazione, essa può essere uno strumento flessibile, vario, accordato con le necessità funzionali, sociali, psicologiche, ambientali...”.16 Proprio la intrinseca capacità di correggere i propri errori e di dominare i problemi ci hanno spinto a tentare di trasferire questa

S. Niccolò a Firenze) per poi analizzarne le interazioni, ricomponendo gli elementi in una sintesi organica e gerarchizzata. La ulteriore sintesi di questi due momenti costituisce la base (la filosofia) del progetto. I disegni sono della studentessa M. Dallolio. Riproduzioni fotografiche Enzo Crestini.

capacità di autocorrezione (in modo esplicito e consapevole) alla progettazione. Le “virtù” della tecnologia sono “... significativa occasione di innovazione profonda dell’architettura”.17

L’architettura del passato era armonica e naturalmente organica, perché faceva parte ed era espressione della cultura antropologica del tempo, in quanto essa stessa unitaria e basata su un insieme di valori condivisi dalla stragrande maggioranza dei cittadini. La città poteva dirsi il risultato di decisioni collettive. Oggi una tale cultura non esiste più perché la maggior parte dei valori tradizionali sono stati smantellati, e non sostituiti da altri. La città è ora il risultato di decisioni isolate e spesso antitetiche: non può esistere perciò un’architettura organica. Infatti mentre la città preindustriale era conseguenza della continuità della tradizione culturale collettiva in cui l’uomo era l’autore dei suoi spazi a tutte le scale, lo sviluppo della città industriale ha comportato la perdita di questa possibilità partecipativa e la necessità di adattarsi comunque alla nuova realtà industrializzata. La città di oggi, caratterizzata da una espansione caotica, molto rapida, senza limiti apparenti e priva di connotazioni, assomiglia ad una metastasi, specchio della sostanziale instabilità del sistema e della sua cultura. Nel nostro periodo, definito momento di passaggio storico, è confortante che finalmente stiamo prendendo coscienza dei nostri

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limiti, che tocchiamo con mano la fine di un modello, di una filosofia pensata per certe situazioni che ormai non sono più reali: c’è desiderio di qualità, ma questa il più delle volte è disattesa tanto che dobbiamo denunciare un diffuso “sfasamento” tra la domanda, che privilegia aspetti qualitativi (“richiesta di case più grandi, articolate e flessibili, capaci cioè di adeguasi alla pluralità e alle modificazioni dei comportamenti individuali; articolazione delle forme e delle funzioni, ricerca di una complessità funzionale e tipologica che riproduca anche alla scala insediativa dei brani di città e non dei tristi episodi separati dal contesto; affermazione delle relazioni tra pubblico e privato, tra abitazioni e città, per ritrovare i significati e i segni che collegano le funzioni interne all’abitazione con quelle interne alla città, senza primati dell’una sull’altra...”) e l’offerta che punta ancora troppo spesso sugli aspetti quantitativi (“riduzione generalizzata delle superfici abitative, uniformità dei tipi edilizi, ripetitività della forma, indipendenza tra interno ed esterno dell’edificio, ... indifferenza per il connettivo, ... mancanza di identità estetica...”) che contrastano con i desideri degli utenti.18 Possiamo riconoscere questi aspetti negativi, vere “invarianti”, in molti luoghi e situazioni anche perché generalmente “... la quantità che è considerata corporea, e quindi concreta, prevale sempre sulla qualità considerata eterea e quindi astratta”.19 Tutto questo per sottolineare ancora il contrasto evidente tra la realtà delle periferie costituita da quartieri “poveri e banali” (R. Roda), degradati, in cui l’ambiente è estraneo all’utente che ne subisce gli abusi e le carenze (mancano le risposte ai più elementari bisogni: verde, servizi, infrastrutture, spazi pubblici, ma soprattutto spazi di vita e di relazione), e le richieste che, viceversa, sono sempre più complesse e legate ad “altri fattori” non facilmente quantificabili, in massima parte inerenti aspetti sociali e spirituali.20 Da qui i disagi degli utenti e la spinta ad andare a cercare “fuori” della casa, o della città, quegli spazi che le mancano “dentro”. Questi disagi derivano dalla sinergia negativa creatasi fra le teorie che hanno generato quella tipologia di alloggio e una cultura deficitaria che non ha svolto l’essenziale funzione critica ed ha accolto invece la filosofia consumistica delle quantità. Invece di perseverare nell’errore di una espansione-cementificazione diffusa, occorre un generale ripensamento, una revisione critica di quello che abbiamo fatto spesso in fretta e male, e soprattutto dei principi stessi e dei metodi che sono alla base di molte realizzazioni edilizie delle periferie. D’altronde i problemi attuali sono del tutto nuovi nel senso che mai si sono presentati in questi termini: le soluzioni del passato, le soluzioni standard, sono inservibili, perchè volte a risolvere problemi diversi da quelli che abbiamo di fronte oggi, e quelle “moderne” lo sono ugualmente perché astratte e inadeguate. Molti dei fallimenti recenti, in particolare quelli delle periferie con tipologie edilizie rigide e a multipiano, dipendono anche dal contrasto che si è verificato tra questi modelli e i modi di vivere articolati e complessi della civiltà odierna. La complessità urbana, rispecchiando la complessità della società, presenta molti problemi che vanno risolti globalmente e simultaneamente; le parole chiave del futuro sono: complessità, flessibilità, integrazione di tutte le funzioni urbane secondo l’idea originaria di città. Per raggiungere questi obiettivi è necessario un approccio organico, capace di ragionare in tempo reale contemporaneamente alle diverse scale e sorretto da un rinnovato “umanesimo” che metta a frutto gli errori commessi. Il problema della città odierna non è tecnico, poichè non ci sono cose che non si possano fare, il difficile è “orientarsi” perché manca “un progetto unitario che ci aiuti nella scelta” (L. Mazza); manca un’etica, una filosofia fondata su dei valori, manca una visione generale unificante, forte, valida per tutti; viceversa abbiamo troppe idee-risposte “deboli” e contrastanti.21 Poiché sono le idee guida che hanno fallito, sono queste che vanno mutate e possibilmente gestite col criterio della “prova ed errore”, ovvero col criterio tecnologico di cui abbiamo parlato. A. Llano, osserva che: “...soltanto una rivoluzione tecnologica come quella in atto permette che emergano valori di tipo qualitativo... da una costola dei “valori dominanti” sta nascendo una rivalutazione di tutto ciò che è umano, i “valori ascendenti”, che vanno a comporre la “nuova sensibilità”... un insieme di valori diffusi, “sentiti e condivisi”, anche se non ancora sistematizzati”.22 Anche Acquaviva, del resto, nota che, in questa fase di passaggio da una civiltà ad un’altra, alcuni valori sono tramontati, altri sono in crisi, altri ancora si stanno trasformando. Ma ci sono. Dunque i valori forti hanno resistito, solo che è difficile vederli, farli emergere, data la confusione e il “rumore di fondo” della complessa realtà odierna. Ciò è confortante, ma rischia di rimanere una constatazione sterile se non riusciamo a coniugare questi valori con la tecnologia, come mezzo potente che permette di inverare le idee. La crisi di oggi, che è crisi di valori, di miti, di comportamenti, si può “leggere” nella realtà in molti modi: anche l’architettura ne subisce le conseguenze, rispecchiando quel disagio che le sta “dietro”. Tonini sostiene che la crisi può essere superata grazie

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ad una “misura razionale” che assoggetti l’uso della tecnologia ad un sistema di valori tali da salvaguardare il bene comune. Questi due aspetti, valori umani e utilizzazione della tecnologia, a prima vista possono sembrare inconciliabili, in realtà invece, sono complementari, anzi possono e devono coesistere poiché il conflitto non si risolve accusando o rifuggendo dalla tecnologia, ma abbattendo le “barriere del pensiero dualistico”, che impediscono la comprensione della realtà. Oggi ci troviamo, d’altronde, nel pieno di una rivoluzione i cui esiti sono imprevedibili. Il rimedio ad un problema, visto da solo, non esiste perché siamo in presenza di un sistema complesso. Occorre dunque capovolgere i comportamenti, ovvero filosofie, metodi e strumenti: “... è necessario che la nostra cultura abbandoni gli schemi duali di cui si è nutrita fino alla nausea e [si sforzi] di passare ad una visione della realtà in termini di relazioni molteplici e complesse. Non credo che la cultura architettonica possa andare avanti scegliendo i pieni invece dei vuoti, l’edificato invece dell’aperto, il centro invece della periferia... io credo che la cultura architettonica debba diventare complessiva e quindi includere quanto finora ha scartato... io credo che la progettazione, o riprogettazione della città contemporanea deve essere radicale, nel senso che deve riferirsi a concetti, metodi e strumenti del tutto diversi (opposti) da quelli finora pigramente utilizzati”.23 Anche Acquaviva, ponendosi una domanda cruciale (“come inventare un futuro di fronte alla mancanza di fantasia e progettualità della cultura contemporanea?”) afferma che “bisogna possedere una cultura diversa, capire le cose con le conoscenze di oggi, non con quelle di ieri... [e avere una] immagine integrale dell’uomo che rispetti tutte le dimensioni del suo essere”.24 Riguardo al primo punto - “necessità di capire le cose con le conoscenze di oggi, e non con quelle di ieri” - ormai sono molti quelli che propongono approcci organici più adeguati. Come abbiamo già osservato, la cultura tecnologica ci offre un “approccio sistemico” nuovo e rivoluzionario, adeguato alla soluzione dei gravi problemi contemporanei. Il suo metodo si avvale di quell’“attitudine razionale” in base alla quale si progredisce a “piccoli passi”, eliminando via via gli errori. Inoltre occorre essere coscienti del grosso spessore etico della tecnologia, e quindi dell’architettura, che oggi va recuperato e riempito con dei valori “umani” e non con delle ideologie astratte e per di più obsolete. Infatti “... in quanto afferente in maniera così pervasiva alla sfera umana, la tecnologia influenzerà e sarà influenzata a sua volta dalle insopprimibili esigenze comunicative ed espressive dell’uomo...”.25 Riguardo al secondo punto di cui parla Acquaviva - “avere una immagine integrale dell’uomo che rispetti tutte le dimensioni del suo essere” - ricordiamo che l’uomo, simbolo della complessità, va visto come sistema aperto e complesso. Le sue dimensioni, quella individuale (o “singolare”) e quella sociale, così diverse ma complementari, non possono più essere separate come è avvenuto nel recente passato: esse sono “interdipendenti” (P. L. Zampetti) e devono essere riferite all’uomo unitariamente considerato. L’uomo “è la misura di tutte le cose... per ricomporre il sapere occorre ricomporre l’uomo, mai come oggi diviso, frastornato, conteso”.26 Egli è un essere “... fatto di corpo e anima, di carne e emozioni che acquistano un senso solo se viene rispettata quell’alchimia misteriosa che compone ciò che è umano”.27 La scarsa qualità della vita di oggi discende dall’aver assunto come valore supremo della “filosofia del vivere” l’uomo ad una dimensione, quella materiale ed economica. Nonostante che questo assunto, che queste ideologie abbiano dimostrato i loro limiti, spesso si continua a ragionare e ad operare prevalentemente con gli stessi canoni, con le stesse ideologie di fondo, con gli stessi metodi. Nella nostra società, nota Acquaviva, “il potere ci amministra avendo davanti a sé una immagine deformata, tutta economica e giuridica della natura umana, un mostro lontano anni luce dall’umanità e dai bisogni fondamentali messi a fuoco dalle scienze dell’uomo”28: un uomo “ridotto”, impoverito, un individuo standard che ha sostituito l’idea di persona.Un rinnovato interesse verso la persona rappresenta un aspetto importante che già a suo tempo L. Mumford mise in luce sottolineando che senza questo “primo passo personale” non si possono ottenere grandi cambiamenti. Constatata l’evidente falsità delle teorie finora applicate, compreso che l’uomo è parte integrante della filosofia di un nuovo modello, ci sembra che occorra un’idea, una visione completa dell’uomo che, come nota L. Moulin, sia “in rapporto con qualcosa che sia trascendente, assoluto, al di fuori di noi”. Per questo è importante “leggere” gli edifici del passato per rintracciare il loro segreto: in essi infatti “... c’è un’anima, una fede, e al centro c’è veramente l’uomo. Ma non un uomo qualunque, bensì l’uomo trascendente”.29 Questo fatto lo abbiamo verificato (attraverso la lettura comparata) negli alloggi dei centri storici,

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ma non in quelli delle periferie: spesso ancora si progetta basandosi sui soli bisogni fisiologici, ignorando tutta una serie di differenziazioni storiche e culturali, legate allo spazio e al tempo e alla personalità umana. Secondo V. Turiaco l’architetto deve saper riconoscere e trascrivere i “modelli di pratiche significative”, intendendo con il termine “pratiche” le caratteristiche abitative delle diverse culture. Queste “differenze” sono preziose. Parlare di qualità dell’alloggio significa iscrivere nello spazio abitativo queste pratiche, questi valori; il fruitore deve essere libero di appropriarsi e di programmare lo spazio, deve poter scegliere la organizzazione del suo spazio. Qualità vuol dire armonia con l’ambiente, modelli insediativi e proposte tipologiche adeguate alla nuova realtà sociale ed ai bisogni psicologici dell’utenza (Baldini). Dunque è ricerca di soluzioni sempre più puntuali.30 La casa, notò Michelucci, concretizza uno spazio tra “due territori”: uno “visibile”, cioè quello fisico della città esistente, e un’altra “invisibile” comprensivo di tutti quei bisogni, aspirazioni, necessità vecchie e nuove degli utenti cui è difficile dare forma, sia alla scala sociale che a quella individuale. Mentre nella periferia le forme degli edifici sono spesso astratte (dettate da leggi estranee a tutto e a tutti), nella città antica invece sono “intrinsecamente determinate da contenuti”, da un modo di edificare con un linguaggio unico e particolare, da dei “comportamenti tipici di fondo” (C. Norberg-Schulz) che hanno radici molto lontane e stimolanti. È noto che “l’uomo non si identifica con delle strutture astratte ma con un mondo di cose palpabili”, concrete, che conosce, riconosce, ricorda (come rocce, montagne, campi, alberi, fiumi, case, artefatti...) e che in architettura “... il mondo delle cose si esprime tramite forme archetipe come la torre, la cupola, l’arco, la colonna, la finestra, ecc... che nel corso della storia sono state continuamente reinterpretate senza mai perdere l’identità basilare.... In questo modo l’architettura... aiuta l’uomo ad intrattenere un rapporto significativo con il suo ambiente.... Il recupero delle forme archetipe è ancora un recupero del linguaggio architettonico”.31 Questo approccio porta ad evidenziare la presenza di “motivi che si ripetono con variazioni” e ad evitare forme estranee al luogo. Ogni luogo, ricorda lo Schulz, si distingue per il suo “carattere locale”, un genius, da capire e rispettare, che è legato soprattutto alle proprietà concrete dell’ambiente e si manifesta nel costruire con un “modo di fare” (una parete, una finestra, un volume, ...) diverso da luogo a luogo. Lettura a livello particolare del quartiere di S. Frediano a Firenze di R. Braga. Riproduzioni fotografiche Enzo Crestini.

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Qualità della vita significa dunque ritornare al concreto e a considerare di nuovo il valore del carattere locale che è una realtà fondamentale per chi progetta. Volendo parlare di qualità dell’alloggio, occorre infatti considerare non solo lo spazio interno (il “dentro”), ma anche quel “fuori” così fondamentale e complementare ad un vivere sociale e significante. Per il proprio equilibrio psico - fisico l’uomo ha bisogno che l’ambiente in cui vive sia stimolante, vario, infonda sicurezza, sia chiaro e leggibile (L. Giannini). È necessario che sia dotato di tre qualità concrete, e cioè: una “gerarchia dei luoghi”, una “struttura concepibile” con la massima possibilità di identificazione, da cui risulti non monotonia, ma complessità cioè ricchezza d’interpretazione ed infine Progetto per il quartiere di S. Frediano a Firenze di R. Braga. Riproduzioni fotografiche Enzo Crestini.

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che sia “relativamente stabile” (C. Norberg-Schulz). È stato evidenziato infatti che l’uomo si muove nello spazio con sequenza logica (interessi), con curiosità, verso qualcosa (un obiettivo) e sente avversione per la monotonia, il disordine, la banalità, gli ostacoli. Lo spazio dovrebbe contenere tre caratteristiche, cioè varietà, contrasti, sorpresa; il criterio generale dovrebbe essere di realizzare quella “continuità di spazi contrastanti” (M. Zaffagnini), caratteristica della città antica. Qualità della vita non significa solo “... quantità di beni di consumo... ma riguarda soprattutto una sfera e una dimensione diversa, un modo diverso di concepire l’uomo, i suoi bisogni, i suoi rapporti con l’ambiente... significa realizzazione piena della personalità umana... [garanzia] per ogni uomo di uno spazio vitale e gioia di vivere”;32 più in generale significa ancora ritornare a capire il “valore psicologico dell’ambiente urbano che è soprattutto spazio di relazioni, spazio di vita non di sopravvivenza, spazio significativo che ci arricchisce spiritualmente e culturalmente; ricco di stimoli, di segnali, di comunicazioni, di inviti”.33 La città è nata infatti come luogo dell’incontro, dello scambio, della crescita culturale e spirituale, dell’acquisizione dei valori simbolici, della maturazione e dell’equilibrio psicologico (A. Scala). La casa invece è da sempre quel luogo privato in cui potersi ritirare e in cui l’individualità può svilupparsi (C. Norberg-Schulz): essa va vista “dentro” (famiglia) e “fuori” (vicinato, quartiere, lavoro). Qualità vuol dire far sì che gli utenti possano sentirsi a proprio agio nel proprio luogo, nel proprio ruolo, nel proprio tempo. Non è vero che l’individuo per essere felice, nota Acquaviva, deve “adeguarsi alla società in cui vive. È vero il contrario”. La felicità d’altronde, nota ancora, dipende non solo dagli uomini, ma anche da come è organizzato il lavoro, la casa, i servizi, la città, ecc. e si può raggiungere solo se teniamo conto delle “influenze reciproche” di tutti quei diversi e numerosi fattori (economici, sociali, psicologici, politici, strutturali, culturali) che caratterizzano la società, la quale è un “sistema globale in cui tutto interagisce con tutto”.34 La qualità del prodotto casa (quartiere, città...) non sta nella sommatoria di un certo numero di fattori, ma in qualcosa di più complesso: essa si ottiene non solo considerando tutti gli aspetti che vi concorrono, ma vedendone anche le loro “relazioni” in una visione organica che includa anche l’uomo. La qualità urbana, infatti, come ha notato anche M. Zaffagnini, non consiste nel rispettare gli standards, nel progettare servizi, tipologie edilizie ottimali, differenziate e di buona architettura, ecc. “... non è nessuna di queste condizioni, se prese separatamente, ma l’insieme di tutte e di tante altre di cui è difficile, forse impossibile, un’identificazione sistematica, perché legate a fatti non sempre oggettivabili o costanti nel tempo. È il colore dei muri, la tessitura delle pavimentazioni stradali... un marciapiedi sgombro dalle auto, una panchina all’ombra d’estate, il portico nelle giornate piovose, ... l’allegro vociare dei bambini che escono da scuola, .... È educazione, senso civico, solidarietà; è coscienza dei propri diritti di cittadini, è cultura. In questo senso qualità urbana è qualità dell’abitare, è equilibrio tra tradizione e innovazione tecnologica, tra sfera privata e spazi collettivi, tra riposo e lavoro, tra rumore e silenzio, tra libertà personali e il diritto di tutti. Questo equilibrio è il frutto di un impegno comune, di tutti, compresi gli architetti”.35 La qualità del risultato dipende in larga misura dalla capacità dei progettisti nel “superare l’inerzia culturale che impedisce loro di vedere il nuovo” (E. Manzini) e nel gestire processi progettuali adeguati. In breve, da qualunque parte si guardi, la qualità della vita è decaduta e recuperarla significa instaurare di nuovo una cultura che neghi l’individuo astratto e cerchi la persona, neghi la filosofia degli standards in favore di una meno rigida e più varia, consideri quantità e qualità un tutt’uno indivisibile, lavorando con mentalità sistemica. Lettura comparata della città a livello generale e progetto per Sorgane di F. Carloncelli. Riproduzioni fotografiche Massimo Battista.

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Concludendo: oggi è necessario progettare con la consapevolezza della complessità e della interazione idee-tecnologia. Le “idee” per nuove strategie dovrebbero essere costruite pragmaticamente, individuate tramite quel faticoso cammino in salita, quella “lettura critica” per la quale ci siamo impegnati, con tutti gli approfondimenti che essa comporta, ovvero che siano al tempo stesso a livello generale e particolare. Ciò per individuare una strategia (“filosofia”) che fondi il progetto, il quale, come nota Coppola Pignatelli, “... per definizione non può essere un a - priori immodificabile. È piuttosto un modo con cui si possono indirizzare, governare, controllare le scelte in funzione degli obiettivi che ci si è dati”.36 Questo modo di lavorare che rimanda continuamente all’intero e alle sue parti, all’oggetto studiato e alla sua struttura, questo approccio unitario, in base al quale si può lavorare contemporaneamente a scale diverse e mettere in relazione situazione semplici e complesse, è l’aspetto che caratterizza da tempo la nostra didattica.

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Cfr. P. A. Martini, Abitare in Europa, in Professione Architetto, n.6, 1990, p. 14. Cfr. P. L Giordani, Della complessità nella organizzazione del territorio: certezze del moderno e incertezze del post-moderno, in Paesaggio Urbano, n. 6, 1995, p. 12. 3 Il riduzionismo ha favorito la specializzazione e la conseguente separazione degli elementi che costituiscono la realtà perdendone la visione unitaria e favorendo una progettazione intesa come semplice sommatoria dei vari aspetti, riducendone il numero, fino al limite di prediligerne solamente uno (solo l’aspetto tecnologico, o quello formale o quello funzionale, spesso solo quello economico/ normativo) a discapito di tutti gli altri. “Possiamo oggi certamente constatare una caduta di tensione... con la affermazione, non condivisibile, di un’autonomia disciplinare che tende ad ignorare le problematiche che emergono da altri settori disciplinari, quali ad esempio la psicologia e la sociologia. Il primato della dimensione economica... tende ad ottenebrare il valore d’uso dei manufatti, dall’ambiente all’oggetto, per esaltarne il solo valore di scambio, isolando il momento progettuale da un più ampio processo analitico”. Cfr. M. R. Baldini, Il significato dell’abitare, Alinea, Firenze, 1988, p. 10. Le strette e molteplici relazioni che intercorrono tra l’architettura e le “condizioni al contorno” di varia natura (economiche, sociali, culturali, tecniche, ecc.) danno ragione ed impongono la conoscenza dei diversi punti di vista dei molti ambiti disciplinari che vi interagiscono. Come nota N. Foster l’architettura deve essere considerata un “sistema globale di convergenze interdisciplinari”. Il riduzionismo applicato all’uomo, lo riduce a “ciò che è misurabile” (R. Musil), ai soli bisogni fisiologici e applicato all’alloggio ne riduce superficie e flessibilità, specializzandolo e “razionalizzandolo” in funzione di questi bisogni. Molta della storia dell’abitazione moderna coincide con la storia della “riduzione al minimo dello spazio, minimo che non corrisponde al soddisfacimento dei modelli culturali” (V. Turiaco), ma solo, più o meno bene, alle necessità materiali e soprattutto a ferree esigenze di economia costruttiva e di funzionamento, ignorando tutte quelle implicazioni (sociali, psicologiche, culturali e spirituali ) che sono alla base dell’abitare. Il suo valore spesso si misura in base alla superficie e al costo e non in relazione al suo “intorno” e alla capacità di rispondere effettivamente alle esigenze degli utenti. 4 Cfr. S. Acquaviva, Progettare la felicità, Laterza, Bari, 1994, p. 30. 5 “Preliminare diventa pertanto la conoscenza dell’abitante nella sua complessa e concreta realtà di portatore di bisogni fisiologici, psicologici, sociologici, simbolico-culturali. È il superamento della prospettiva biologistica, ed in qualche misura ergonomica, dei primi razionalisti del Movimento Moderno, la crisi del quale è stata appunto determinata dall’impatto con bisogni ed aspettative non contemplati nei progetti. Anche in architettura l’elenco dei bisogni umani si è progressivamente ampliato... esprime... il continuo ampliamento della ricerca che riconosce nella esperienza abitativa un’esperienza globale, e quindi tale da incontrare... uno spettro estremamente ampio e pressoché totalizzante di bisogni...”. Cfr. G. Amendola, Uomini e case, Dedalo, Bari, 1988, p. 73. 6 È importante chiarire che la persona è un’entità reale e non ripetibile, mentre l’individuo è un’entità astratta, riferita ad un uomo-tipo innaturalmente costante e perciò artificiale. Nel linguaggio comune i due termini vengono confusi, nella sostanza invece sono profondamente diversi. 7 La nozione di sistema è necessaria quando si hanno molti elementi che interagicono tra loro, cioè in un insieme complesso, determinando delle risposte non prevedibili con la sola intuizione, come avviene nel caso della progettazione. La teoria generale dei sistemi è importante perché tiene conto dell’interazione e del valore reciproco di tutte le discipline, considerate su di un piano di parità; ha inquadrato le nozioni di struttura gerarchizzata, di organismo, di sviluppo, di interazione tra individuo e ambiente, recuperando le nozioni di finalità e di valore. I modelli della teoria generale dei sistemi (che è anche “teoria generale delle previsioni”, come ha rilevato anche J. L. Destouches) sono utili non solo per prevedere stati futuri, ma anche per descrivere il presente. 8 Cfr. S. Acquaviva, op. cit., pag.65. 9 Cfr. V. Tonini, Strutture della tecnologia, Armando, Roma, 1968, p. 128. Si veda anche: G. Amendola, op. cit., p.67. 10 Cfr. V. Stefanelli-Tacconi, Il processo progettuale nelle componenti complessità, valori, lettura critica, Print-Service, Firenze, 1998. 11 Cfr. L. Von Bertalanffj, Il sistema uomo, ILI, Milano, 1971 (trad. it. di I. OcchettoBaruffi), p. 372. Cfr. anche V. Tonini, op. cit. p. 70. 2

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La “teoria generale dei sistemi”, come nota P. Delattre, ha favorito l’insorgere: di una reazione alla moltiplicazione delle specializzazioni (e alla conseguente “separazione” delle diverse discipline in saperi parziali e autonomi, che ha portato alla incomunicabilità, esiziale per la interdisciplinarietà) e della convinzione della inadeguatezza del metodo “tradizionale” via via che aumentava la conoscenza dei sistemi più complessi: “... oggi sempre più i problemi di progettazione vanno approssimandosi a insolubili livelli di complessità... anche questi problemi hanno una base di esigenze e di attività che sta diventando troppo complessa per essere afferrata intuitivamente”. Cfr. AA. VV., Tecnologia dell’architettura, Officina, Roma, 1973, p. 57. Cfr. P. Delattre, Teoria generale dei sistemi, Einaudi, Torino, 1984, p. 3. Cfr. anche V. Stefanelli-Tacconi, op. cit. 13 Cfr. E. Manzini, La materia dell’invenzione, Arcadia, Milano, 1986, p. 61. 14 Ibidem, p. 60. 15 Questa filosofia dell’operare non si basa su schemi fissi, ma su una struttura concettuale applicabile per fasi successive (i così detti piccoli passi), sul confronto di tutte le soluzioni possibili, sulla revisione dei risultati via via raggiunti ed infine sulla previsione di correzioni necessarie: si tende a realizzare un particolare “programma” che, correlando la logica dl concreto con quella dell’astratto, procede secondo una “linea evolutiva” intenzionale e ottimizzabile. 16 Cfr. A. Benedetti (a cura di), Norman Foster, Zanichelli, Bologna, 1988, p. 13. 17 Il ricorrere alla tecnologia industriale ha, per N. Foster, un duplice significato: “... di una risposta sia alle carenze di una tecnologia edilizia tradizionale, ma progressivamente impoverita dalla dispersione delle capacità artigianali, sia alle esigenze di ricostruzione di una comune base di valori, in alternativa alla precedente, perduta “naturalezza” dell’atto del costruire. In questo iter materiale e spirituale Foster ha cura di esaltare tutti gli aspetti che sostanziano il proprio operato come elementi inscindibili dalla complessa totalità dell’architettura”. Ibidem, p. 13. 18 Cfr. A. D’innocenzo, in Controspazio, n. 4, 1994. 19 Cfr. G. De Carlo, La città contemporanea, in AA. VV., La città contemporanea, Atti del Convegno (Catania, Marzo 1992), a cura di E. C. Occhialini e S. Zappalà, ILAUD, Catania, 1993, p. 11. 20 Non c’è dubbio, notò a suo tempo anche Michelucci, che “... quelle abitazioni, quegli edifici siano connessi ad una vita interiore. Ci sono delle vite umane che sono abituate a convivere con quegli spazi, con quelle strade”. Cfr. G. Michelucci, La casa: uno spazio tra due territori, in AA. VV. (a cura di V. Esposito e L. Landi), Qualità urbana: la fatica di un mosaico, La Casa Usher, p. 10. 21 Cfr.anche P. L. Giordani, op., cit., p. 12. 22 Cfr. A. Llano, Il bello del post moderno, in Avvenire, 2/02/ 1996. 23 Cfr. G. De Carlo, op. cit. 24 Cfr. S. Acquaviva, op., cit., p. 23. 25 Cfr. G. Benedetti (a cura di), op., cit., p.13. Cfr. anche V. Stefanelli-Tacconi, op. cit. 26 Cfr. A. Scala, Una città per l’uomo, Guida, Napoli, 1976, p. IX. 27 Cfr. M. Cecchetti, La città dell’angelo, Marietti, Genova,1992, p. 10. 28 Cfr. S. Acquaviva, op., cit., p. 5. 29 Cfr. L. Moulin, in E. Cecchetti, op., cit., p. 46-49. 30 “Qualità è la legittimazione dell’architettura nei confronti della storia.... Ma è anche la trasformazione... perché l’architettura deve rispondere alle aspettative della società”. Cfr. M. Cecchetti, Città d’ovè la tua anima?, in Avvenire, 27/07/’89. Cfr. anche M. R. Baldini, op. cit. 31 Cfr. C. Norberg-Schulz, Luogo e identità, Relazione al Convegno: I confini della città, Fondazione Michelucci, Firenze, 1987 (non pubblicato). Cfr. anche L. Berna (a cura di), La città monumento e la sua immagine, in Paesaggio Urbano, n. 6/’94. 32 Cfr. A. Scala, op. cit., p.4-8. 33 Ibidem, p. 62. 34 Cfr. S. Acquaviva, op., cit., p. 103. 35 Cfr. M. Zaffagnini (a cura di), Note sulla progettazione degli spazi aperti (trad. it. da “An introduction to lajout”), Materiale didattico n. 3, Dipartimento di Processi e Metodi della produzione edilizia, Università degli Studi di Firenze, p. 4. 36 Cfr. P. Coppola Pignatelli, V. Quilici, V. Turiaco, La sfida architettonica, Gangemi, Roma,1991, p. 138.

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The area of Torri-Cintoia took more and more shape as one of many suburbs, another “urban crash”. The approach to the design, in the meantime fearful and free, begins from the place reading and from the re-use philosophy, according to a tradition that goes from Nolli to Krier. The suburb is a no-place, is the modification of the country in a landscape that not only shows low environmental qualities, but it’s unlikely if not impracticably readable and analysable too. The actual project has spotted, at the contrary individualised well definite places and sites. The design methodology grounded herself on the use of reading patterns, that, in the same way of a model, made possible the study of working context. Another methodology we have used has been the estrangement’s, lying in secluding, only by the meaning of the drawing, the urban surveied parts. A different methodology, still coordinated with the previous other, is the so called layers system, which allows us, through an overlapping transparent layers process, to value, thanks to several systems, the shaping of the city at the same time. But, perhaps, in case of the suburb’s reading, it’s even more important to recognise the original elements, which, alone, charachterize the area, and which strongly impress availability of the spaces.

RIUSO ED INTENSIFICAZIONE A TORRI CINTOIA1 Carlo Canepari TORRI CINTOIA L’area di Torri Cintoia, fa parte di quella grande fascia di espansione di Firenze, attuata nel dopoguerra, alla fine degli anni ’50, in direzione ovest. Un’area che ha visto coinvolte grandi personalità della comunità fiorentina, come Giorgio La Pira che aveva immaginato una città nuova dove, la politica per le classi sociali disagiate e l’espansione della città, si sarebbero dovute coniugare anche attraverso i contenuti estetici dell’architettura moderna. Michelucci, legandosi a questa visione utopica di La Pira, aveva lanciato su quest’area l’idea della rifondazione della città povera, ma dignitosa. Questo grande sogno poi non si è avverato. Un critico dell’architettura come Koening, 30 anni dopo, chiamerà questa periferia “quel disastro urbanistico di Torri Cintoia”. Sull’area poi sono state fatte diverse proposte progettuali che hanno avuto varie difficoltà e non hanno trovato sviluppo attuativo. Un’area quindi difficile a cui ci siamo avvicinati con un certo timore, ma anche con grande decisione e libertà. Come spesso accade, anche in questo caso, ci siamo ispirati alle parole di Michelucci, quando invita a “sperimentare il riavvicinamento della periferia alla città, per offrire un tessuto di relazioni umane prima ancora che di servizi per l’abitare”. Un invito a “dibattere” i problemi della periferia come luogo, attraverso il progetto della sua trasformazione. Così abbiamo creduto di operare con la ricerca su Torri Cintoia, fra tante difficoltà comuni a tutte le periferie, che in questo luogo vengono esasperate ed esaltate.

LETTURA E RIUSO In queste pagine non vogliamo illustrare tanto il progetto, quanto i procedimenti di lettura (o di interpretazione) del contesto, che si sono attuati prima e durante l’elaborazione progettuale. Per meglio comprendere questi procedimenti è necessario esaminare il particolare approccio progettuale che si fonda su due filoni di ricerca ben definiti: la lettura del luogo come strumento del progetto; la filosofia del Riuso che si fonda sulla valutazione dell’esistente come risorsa e non come limite. Per i procedimenti di lettura mi sento dentro ad una tradizione che personalmente ho vissuto nei venti anni di collaborazione con Mario Bartoletti. Una tradizione che ha fra i contemporanei illustri rappresentanti come De Carlo, Venturi, Ungers, Krier. Andando a ritroso nel tempo si incontrano poi personaggi come il Piranesi o il Nolli, che hanno elaborato metodi di rappresentazione della città a cui ci siamo direttamente ispirati nelle nostre esperienze di lettura critica, non certo per trarvi riferimenti estetici, ma piuttosto perché affascinati da quei procedimenti metodologici di invenzione e rappresentazione. Per il riuso architettonico faccio riferimento al lavoro personale svolto in questi ultimi anni, che ha prodotto alcune pubbli-

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Progetto di riuso ed intensificazione del quartiere Torri Cintoia: planimetria generale; l’area di intervento, in colore rosso l’edificato esistente.

cazioni, tra cui con la collaborazione di Vincenzo Cioni “Il Riuso architettonico progetto e concetto”, Studio Editoriale Fiorentino Firenze 1997. Inoltre sul Riuso architettonico troviamo una antica tradizione documentata in vari trattati e particolarmente dal Serlio, che insegnava come trasformare vecchi edifici medioevali, in moderni palazzi cittadini. Anche a lui ci siamo ispirati, cogliendo la leggerezza e l’agilità del suo approccio progettuale, in particolare nelle trasformazioni architettoniche che abbiamo attivato nel nostro progetto. Sul Riuso inoltre ci sono oggi fermenti che hanno aperto nuove prospettive progettuali: basti pensare ai nuovi Piani di Recupero Urbanistico (P.R.U.).

LA PERIFERIA Le ricerche urbanistiche sono prevalentemente indirizzate ai centri storici od, in contrapposizione, al territorio aperto; valori generalmente condivisi, che sollecitano comportamenti di difesa e di salvaguardia. Con la parola periferia in genere si intende invece definire qualcos’altro che non è né centro storico, né aperta campagna o ambiente naturale. Un luogo non-luogo, caratterizzato da scarse, o nulle, qualità ambientali su cui la cultura moderna ha operato, in genere, con progetti di invenzione, piuttosto che di conservazione, in assenza di forme di rispetto ambientale. Anche se lo stato di provenienza della periferia è in genere quello agricolo, essa è il luogo in cui si sono perduti o mancano i valori che apprezziamo nelle altre condizioni ambientali. Avvicinarsi alla comprensione della periferia esclusivamente con i metodi consolidati dell’analisi strutturalistica e storicistica, non dà e non ha dato, in genere, gli stessi buoni risultati che si ottengono nelle altre due condizioni ambientali. Le periferie si presentano come aggregazioni frammentate e soggette a forti e rapide trasformazioni ed in questo senso, esse rappresentano anche la parte più attiva e dinamica della città contemporanea, anche se quasi sempre appaiono prive di identità urbana. Abbiamo individuato con il nostro progetto, luoghi e spazi ben definiti e soluzioni tecniche accessibili sia sul piano economico, che in quello sociale.

Andrea Nannini MODELLI DI LETTURA E DI TRASFORMAZIONE Il lavoro di analisi è stato condotto rilevando direttamente sul luogo alcuni elementi, che sono stati poi trasferiti sulla cartografia scala 1:2000, costruendo dei modelli di studio, definiti appunto, di lettura e di trasformazione. I modelli di lettura sono serviti per conoscere e comprendere il contesto dove andavamo ad operare; i modelli di trasformazione hanno avuto lo scopo di controllare e verificare le idee di progetto e confrontarle con l’esistente.

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O.M. Ungers: struttura degli spazi e struttura dell’edificato. Spreeinsel, Berlino; Giovan Battista Nolli: pianta di Roma del 1748.

Queste elaborazioni sono state chiamate “modelli”, proprio perché hanno avuto la stessa funzione che, di solito, svolgono i plastici di studio nella progettazione architettonica. Il procedimento di rappresentazione del lavoro di analisi ha seguito alcuni criteri, che vogliamo enunciare per rendere maggiormente comprensibili le elaborazioni qui riprodotte.

-Straniamento. L’elemento rilevato è rappresentato isolato, in campo nero, sul supporto cartografico. L’esigenza di isolare gli oggetti presi in esame, scaturisce sia dalla banale necessità di mettere in evidenza le parti rilevate, ma anche dalla volontà di ricondurre la carta ad una rappresentazione il più possibile astratta dalla realtà. Diversamente dal disegno architettonico di piccola scala, come la pianta o la sezione di un edificio (immagini simbolico convenzionali, comprensibili solo dagli addetti ai lavori e di fatto, non riscontrabili nella realtà), una planimetria ottenuta con procedimento aerofotogrammetrico, rappresenta la città secondo una realtà visibile e percepibile sia dall’occhio meccanico installato sull’aeroplano, che da quello di un uomo posto, ad esempio, su un’alta collina. C’è, insomma, una notevole coincidenza fra l’immagine che possiamo ricevere “dal vero” e la rispettiva rappresentazione cartografica. I segni contenuti sulla carta traggono motivazione e giustificazione dalla realtà che li contiene e gli elementi della città riprodotti, relazionati gli uni agli altri, assumono un significato, che gli deriva dal fatto stesso di esistere e di essere presenti e “vivi” su quel luogo. Le storture e le incongruenze possono, in definitiva, anche apparire ragionevoli, poiché la realtà, anche la più aberrante, ha sempre una sua logica di funzionamento. Come avviene in campo artistico, lo straniamento ha lo scopo di “decontestualizzare gli oggetti in modo da giungere, attraverso la loro libera associazione, ad un significato inedito” (R. Barilli, ARS n.1/97). Infatti gli elementi urbani isolati ed evidenziati perdono il riferimento con la scala grafica ed ogni collegamento con le altre parti, diventando una massa di colore, astratta quanto lo è la pianta di un edificio, ma proprio per questo valutabile ed utilizzabile, per confronto con altri oggetti simili.

-Scomposizione. La cartografia tecnica regionale non va aldilà di un semplice riconoscimento di elementi che possono, solo in parte, essere utili per la lettura del contesto urbano. È dunque necessaria un’ulteriore elaborazione che individui quei segni della carta che abbiano un significato specifico per

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Progetto di riuso ed intensificazione del quartiere Torri Cintoia: planimetria del piano terreno e profili; il raddoppio di un edificio esistente con formazione di una struttura a galleria.

la ricerca che stiamo compiendo. La scomposizione degli elementi presenti sulla carta o rilevati direttamente sul posto, comporta una classificazione in gruppi e sottogruppi che distinguono diversi aspetti di uno stesso elemento. Non ha senso prendere in considerazione, ad esempio, le aree verdi, senza operare ulteriori distinzioni fra i diversi caratteri che il verde assume nel quartiere. Nell’approfondimento della scomposizione e nel riconoscimento dei diversi aspetti dello stesso elemento, sta la soggettività dell’analisi; è chiaro anche come il livello di approfondimento sia relazionato alla scala grafica della carta e alle modalità di rappresentazione dei risultati.

-Stratificazione-Layers. La descrizione esclusivamente planimetrica della città, non si presta alla valutazione di quegli aspetti che sono distinguibili in senso verticale. Basta pensare alle destinazioni di uso che hanno una discriminante prettamente verticale all’interno degli edifici, e poi, una differenziazione in senso orizzontale, rispetto all’intera città. Però le carte di analisi cercano di sottrarsi alla logica della rappresentazione per piani dello spazio che è tipica del disegno architettonico, ma che non ha senso nella lettura a grande scala dell’intorno urbano. Attraverso la semplificazione concettuale dei layers, cioè di “strati trasparenti” contenenti una determinata categoria di oggetti, è possibile la selezione, la sovrapposizione, l’associazione e la ricomposizione dei vari sistemi e strutture che, insieme, formano la città.

-Molteplicità di significato. Un elemento può avere un altro significato, per un diverso tipo di lettura. La logica è stata quella di dare molteplici significati agli oggetti osservati, poiché appare riduttivo imprigionare i fatti dell’urbano in un retino o in una colorazione che dà ad essi un valore univoco. Sappiamo invece, specialmente dalla città storica, come la realtà urbana presenti aspetti ricchi di sfumature, doppi sensi, ambiguità e contraddizioni. Pertanto, nella nostra analisi, le aree verdi possono essere considerate simultaneamente, in tutto o in parte, aree pedonali, se si vuole sottolinearne la funzione di collegamento e percorso che queste svolgono; ma anche la vasta hall di un centro commerciale può essere valutata come spazio pedonale, specialmente se all’interno del quartiere non si trova neppure una piazza.

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-Riconoscimento di elementi originali. Lo studio del contesto non è una formalità di routine che deve essere svolta, per poi magari dimenticarla in un cassetto. Se si individuano soltanto gli elementi, diciamo, canonici che troviamo in ogni analisi urbana, come: le destinazioni di uso, le periodizzazioni storiche, la viabilità, ecc., ampliamo sicuramente la nostra conoscenza del luogo, ma rischiamo di non vedere alcuni fatti che sono caratteristici di quel determinato intorno urbano. Nelle analisi urbane su Las Vegas svolte da R. Venturi, si vede bene come solo attraverso il riconoscimento di elementi originali, egli riesca ad evidenziare l’intensità dell’uso del suolo della strip americana. Si tratta cioè di capire e ricercare quegli elementi che hanno importanza per quel luogo. Nel caso della periferia di Torri Cintoia, dopo avere effettuato diversi sopralluoghi e valutazioni sulla nascita e la “storia” del

Sopra: modello di lettura della pedonabilità. E’ evidente il criterio adottato dell’isolamento dell’oggetto rilevato, sulla cartografia in campo nero. E’ subito chiaro come i percorsi pedonali esistenti (colore giallo) siano la logica, o meglio, l’illogica conseguenza del sistema carrabile. Essi, infatti, affiancano sempre le strade e vi si distaccano solo nel caso delle aree verdi, dove diventano all’improvviso pseudo-naturali, restando tuttavia molto schematici. Tant’è vero che gli abitanti del quartiere utilizzano dei tracciati alternativi (colore rosso), che sono percorsi informali e spontanei, fatti dalle persone per abbreviare le distanze, attraversare i grandi spiazzi, o raggiungere un punto in maniera più veloce rispetto a quanto consentito dai vialetti propriamente progettati. Oltretutto la viabilità di tipo suburbano rende la maglia dei percorsi estremamente larga, con tratti rettilinei troppo lunghi e faticosi per il pedone. Questi percorsi non si allargano mai per formare una piazza ed infatti nella lettura è stato indicato come spazio pedonale l’atrio del supermercato Esselunga progettato da Mario Botta, di fatto, l’unico spazio pedonale degno di nota del quartiere Sotto: modello di trasformazione della pedonabilità. Il progetto crea una vasta piazza su due livelli ed un sistema dei percorsi molto articolato fra gli edifici esistenti e di nuova progettazione. Viene creata una passerella pedonale sopraelevata sulla Via dei Bassi, in diretto collegamento fra la parte civico-residenziale ed il centro sportivo di progetto, legato al verde esistente; si razionalizzano i “percorsi spontanei”.

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Sopra: modello di lettura delle “delimitazioni”. Il disegno urbanistico originario di Torri Cintoia era pensato come accrescimento ed espansione della città mediante la realizzazione di una serie di strutture di servizio molto caratterizzate, che avrebbero dovuto vincolare fortemente i successivi progetti esecutivi residenziali, da parte dell’allora IACP, o delle cooperative di abitazione. La realtà attuativa è stata ben diversa. In funzione del periodico reperimento dei finanziamenti e sotto l’urgenza di realizzare alloggi, si sono compiuti interventi-stralcio, semplificando enormemente l’originario disegno urbano, del quale, di fatto, non ne rimane traccia. I servizi che dovevano fare da coesione al quartiere, sono venuti ben dopo e con qualità e numero inferiori al necessario. I grandi blocchi residenziali con le rispettive aree di pertinenza recintate (corrispondenti agli interventi stralcio), sono diventati delle entità a sé stante, separate dal resto; isole nel mare della periferia, senza alcuna relazione con ciò che le circonda. In effetti, le aree delimitate da recinzioni (colore blu) costituiscono una continua barriera invalicabile, che rende impenetrabile questo particolare “tessuto edilizio”. Alcuni di questi “recinti” raggiungono dimensioni enormi, se confrontate, ad esempio, con le misure degli isolati di un tessuto storico. Nell’area di studio un “recinto” ha un lato ininterrotto di 260 metri ed una superficie complessiva di quasi 26.000 metri quadrati. Sotto: modello di trasformazione delle “delimitazioni”. Il progetto, nell’area presa in esame, apre dei varchi nelle delimitazioni, corrispondenti al nuovo assetto dei percorsi pedonali e meccanizzati, riducendo le aree intercluse.


quartiere, è emersa la necessità di rilevare e rappresentare le aree delimitate dalle recinzioni degli edifici condominiali, poiché questo semplice dato, nello specifico, ha dimensioni abnormi che incidono fortemente sulla fruibilità degli spazi. Lo stesso dicasi per l’analisi dell’attacco a terra dell’edificato. La rappresentazione planimetrica dell’ingombro degli edifici, infatti, non ci svela come essi siano sollevati su pilotis, determinando, a livello del terreno un “vuoto” continuo, su praticamente tutto il quartiere.

1 Convenzione ATER Firenze 97/98 responsabile della ricerca Carlo Canepari, gruppo di ricerca: Matteo Bonaguidi, Vincenzo Cioni, Enzo Crestini, Riccardo Guidi, Andrea Nannini, Paolo Puccetti. Riproduzioni fotografiche Enzo Crestini.

Sopra: modello di lettura degli spazi pubblici-privati. Nella sua pianta di Roma del 1748, Giovan Battista Nolli opera una selezione fra gli spazi pubblici (strade, piazze, ma anche l’interno delle chiese ed i cortili dei palazzi) e quelli non pubblici, che invece vengono rappresentati con campitura nera. Emerge chiaramente la fitta rete di relazioni del tessuto urbano e la grande ricchezza e diffusione di spazi pubblici interni ed esterni all’edificato: il sistema piazza-chiesa, il palazzo-cortile. In una ipotetica carta alla Nolli della periferia fiorentina, vediamo invece come vi sia una forte contrapposizione fra aree a carattere pubblico (in chiaro) e spazi non pubblici (nero). Se, all’interno degli edifici, si vogliamo trovare destinazioni di uso pubbliche o a carattere pubblico (colore rosso), queste sono concentrate in poche strutture specialistiche: il supermercato, la chiesa, la scuola, ecc. Sotto: modello di lettura dell’attacco a terra. La pressoché continua sopraelevazione su pilotis degli edifici esistenti, pare non abbia favorito lo sviluppo dei percorsi pedonali fra gli edifici stessi e l’attraversamento in senso trasversale degli isolati. Emerge, in effetti, una forte contraddizione fra una monotona scelta tipologica su pilotis, “vuota” a livello del terreno ed uno schema dei percorsi pubblici che non prevede mai l’attraversamento dell’edificio. L’opposto avviene nella città storica, dove il tessuto edilizio molto compatto è però ricco di attraversamenti e scorciatoie pedonali fra gli isolati.

Sopra: modello di lettura del verde. Il verde esistente è stato scomposto in tre categorie: quello pubblico attrezzato (verde chiaro), quello condominiale (verde scuro) ed alcune parti residuate di terreno ancora sfruttato a fini agricoli (marrone). Il verde pubblico attrezzato si differenzia molto dal punto di vista qualitativo, poiché in alcuni casi assume le caratteristiche del vero parco di quartiere, ma altre volte, come nel caso dell’area circostante gli edifici oggetto di studio, si banalizza ed in pratica diventa la piazzola spartitraffico dei parcheggi. Nel caso specifico però, non si è voluto dare una valutazione qualitativa, ma si è distinto l’uso fra verde pubblico e condominiale, dando già per sottinteso il disvalore di quest’ultimo ed avendo la necessità di evidenziarne lo status. Sotto: modello di trasformazione del verde. Il progetto di riuso prevede l’eliminazione di gran parte del verde condominiale, da sostituire con aree pedonali lastricate e l’integrazione delle parti coltivate nel sistema del verde di quartiere. Viene confermata la vocazione ricreativa della vasta area ad ovest della zona di intervento, inserendovi attività di tipo sportivo (campi calcetto-basket, palestra) da unire all’attuale pattinaggio, mentre i ritagli di verde, privi di qualità, della parte ad est, vengono riassorbiti dal nuovo disegno della piazza. Proprio qui il progetto introduce il tema delle alberature a filare (arancione) sulle superfici pavimentate. E’ questo un verde difficile da quantificare con gli standards dell’urbanistica, ma è comunque una presenza naturale qualificante, sia dal punto di vista paesaggistico (variabilità stagionale), che architettonico (tracciamento di assi, direzionalità dei percorsi) ed infine bioclimatico (frescura per la piazza, barriere per il vento ed il rumore).

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The contemporary town shows herself as two antagonistic urban models, the nineteenth-twentieth-century conurbation and the current disjointed growth. The current city has denied the permanence among old and new, already deteriorated by the nineteenth century town, that had replaced the model with the type. With the Modern Movement the ideological research of the renewal, towards the utopia of the functional town; from this the “tabula rasa”, the “zoning”, the “artistic personality of single interventions”. The architectural reading, perfect knowledge of natural context, remains unavoidable device for balance planning. The reading becomes however more difficult and complex when we move our point of view from the downtown to the suburbs: relationships among paths and areas, shaping axes, connections, must always be related to larger infrastructural and structural district’s scale. The three cases we have studied, one for florentin area, one for Arezzo’s, the other for Terni, showed us distinguished looks. For Florence we have areas with a linear shape development and the duplication of an urban outskirt typified by sporadic pattern, with the passage from an antinodal to a nodal complexion. For Terni three cases present us antinod’s conditions then become situations of functional and structural indistinctness. For Arezzo the surveied area presents a change from antinod to node, liable of deep transformations on the historical town shape.

PROGETTARE LE PERIFERIE Gianluigi Maffei - Paolo Vaccaro La crisi della città contemporanea. La città contemporanea appare sdoppiata in due immagini contrapposte: una coincidente con il centro storico, la periferia ottocentesca e quella dei primi decenni del Novecento, l’altra propria delle aree costruite nell’ultimo dopoguerra fino ad oggi: da un lato una forma unitaria, seppur diversificata e gerarchizzata al suo interno, dall’altro una forma fratturata e povera di individualità. Evidente nelle espansioni più recenti, se confrontate con il nucleo antico, la perdita di moduli organizzativi intermedi tra la dimensione del singolo edificio e quella dell’intera città: le nozioni di quartiere o di rione sono in qualche modo ancora applicabili, ma tendono a coincidere con la localizzazione topografica, non esistendo una strutturazione del costruito capace di identificarle come organismi relativamente autonomi. Le strade si riducono in genere a pure percorrenze, ammettendo al più delle distinzioni puramente quantitative e di specializzazione della sede; le piazze e gli altri spazi collettivi appaiono distribuiti in maniera del tutto episodica, analogamente a quanto avviene per gli edifici speciali. Anche la molteplicità delle organizzazioni plano-volumetriche degli edifici residenziali e la loro indifferente localizzazione nel lotto, senza una regola se non puramente quantitativa, determina un aggregato fratturato, episodico, povero di gerarchie: è la città dell’individualismo e della sopraffazione reciproca, in cui sembra perdersi il principio stesso della città, la coralità. Né a questo sterile disordine riescono ad ovviare gli strumenti urbanistici correnti in quanto la progettazione unitaria per comparti, per pezzi di città, non può produrre che uno spostamento a dimensione più ampia della stessa “logica” formativa accentuandone i caratteri di episodicità e di oppositività delle parti attraverso effetti di “fuori scala” e di forte differenziazione del disegno complessivo di una parte rispetto all’altra conseguente all’individualità dei diversi progettisti. È ben vero che le diverse espansioni urbane realizzate in tempi brevi, in periodi di “boom” edilizio, si sono poste in contrapposizione al nucleo precedente in quanto prodotte da una valutazione critica di questo, a seguito delle nuove esigenze, ed espressione di un vedere e fare la città in maniera aggiornata: solo un certo lasso di tempo può produrre una omogeneità di comportamento tra “nuovo” e “vecchio” con un assetto e un funzionamento unitario. Nelle attuali periferie nulla di tutto questo si è ancora realizzato e il tempo intercorso tra le urbanizzazioni degli anni cinquanta, per esempio, fino ad oggi non è stato sufficiente a riportare una parvenza di equilibrio con il costruito antico: l’integrazione tra espansione e preesistenza ha necessità per attuarsi di un tempo inversamente proporzionale alla maggiore o minore aderenza degli strumenti impiegati nella progettazione alla continuità del processo formativo. La città attuale appare “eversiva” tanto da rendere assai problematica ogni prospettiva di integrazione: ben diverso era il comportamento delle zone otto-novecentesche nelle quali una forte “permanenza di effetti” delle leggi di formazione consolidate della città antica ha contenuto gli effetti eversivi, che già andavano maturando, tanto che esse costituiscono una omogenea cornice ai nuclei di più antico impianto. Le stesse leggi che nella città sedimentata garantiscono contemporaneamente l’unità e la diversificazione delle parti appaiono in queste zone come sterilizzate e applicate convenzionalmente: la grande ricchez-

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za di linguaggio delle epoche precedenti si è congelata in forme sempre più vuote di senso. La leggibilità espressa dalle facciate non corrisponde ai contenuti interni e in lotti omogenei per forma e dimensione si ammettono edifici tipologicamente assai dissimili; forma e dimensione dei lotti d’angolo degli isolati sono indifferenti alla gerarchia dei percorsi; tutto ciò esprime un sistema seriale di rapporti tra gli elementi del tutto congeniale alla convenzionalità del linguaggio e che si riflette anche nella generica regolarità della rete stradale e della collocazione degli spazi nodali. Pur tuttavia la continuità ed omogeneità delle pareti urbane, la permanenza e la leggibilità delle modulazioni degli isolati, degli edifici e il lascito di procedimenti costruttivi e di apparecchiature stilistiche proprie delle singole aree culturali, hanno costituito gli strumenti di quella chiara volontà di fare città che, a partire dalle grandi capitali europee, ha investito complessivamente anche l’immagine delle nostre. È stata questa l’ultima grande stagione della città europea in quanto la ricchezza delle articolazioni, la completezza delle infrastrutture e l’ottimale risoluzione del rapporto tra dimensione urbanistica e dimensione edilizia rendono ancora l’insieme apprezzabile come organismo urbano. Ma l’ottocento è stato anche la stagione in cui si è manifestata sempre più vistosamente la crisi del linguaggio architettonico: la crisi si evidenzia nel procedere per “modelli” anziché per “tipi”, nel riferirsi cioè ad edifici ed a loro parti ritenuti esemplari, i quali, decontestualizzati, divengono schemi inerti all’interno dei diversi ambienti in cui vengono applicati. Inoltre ai fattori di crisi si aggiunge l’inversione del metodo tipico di formazione e di modificazione processuale: dal linguaggio proprio dell’edilizia speciale si ricava quello dell’edilizia di base, dal linguaggio d’elite si passa a quello di tutti anziché viceversa come era avvenuto in precedenza. Queste contraddizioni erano state rilevate già dagli esponenti del “Movimento moderno”, come esigenza di un sostanziale rinnovamento della concezione della città e dell’architettura alla luce della dinamica delle profonde mutazioni tecnologiche, strutturali e funzionali in corso. Ma l’approccio era ancora una volta settoriale, sottolineando la preminenza di una componente rispetto alle altre, e astraente, non cogliendo la coerenza dei processi storici di formazione del costruito, anzi rifiutandoli programmaticamente (la “tabula rasa”) o assumendoli letterariamente come stimoli formalistici o come citazioni. Caratteri che si sintetizzano nelle proposte di “zoning” rigido, da cui consegue la contrapposizione tra “città antica” e “città nuova”, e nella scarsa attenzione alla dimensione più propriamente edilizia della città e alla formazione della struttura base della città che è il tessuto: si privilegiano astratte indicazioni di assetto generale da un lato, qualità “artistica” dei singoli interventi attuativi dall’altro, favorendo quella logica di individualismo sopraffattivo sempre più accentuata fino ad oggi. Tutti i problemi di “qualità della città” fin qui delineati possono cominciare a trovare una risposta non episodica e ricca di valenze operanti solo a patto che si consideri la città stessa per quello che è veramente: un’organismo unitario, prodotto complessivo di un processo storico-tipologico di formazione.

Appunti di metodologia operativa. La lettura del luogo è il mezzo conoscitivo indispensabile per arrivare ad una progettazione che risolva veramente i problemi delle attuali periferie riequilibrando il contesto. Una conoscenza approfondita delle strutture costitutive di un determinato ambiente può produrre una soluzione progettuale più aderente e coerente con l’esistente e apportare una riqualificazione all’insieme. Qualsiasi luogo presenta una serie di strutture, maggiori o minori a seconda della maggiore o minore perifericità, determinate prima di tutto dalla naturalità del luogo e poi dai diversi segni prodotti dall’antropizzazione. La struttura naturale, nelle sue implicazioni geomorfologiche e materiche, dovrebbe determinare atteggiamenti e scelte diverse dettate dalle diverse realtà che si possono riscontrare. La generalizzazione delle soluzioni progettuali, buone per ogni luogo, porta allo sfascio attuale di molti nostri territori: la dove non si è tenuto conto delle qualità intrinseche di un certo luogo si verificano alluvioni, crolli, smottamenti come se la natura volesse riprendere il sopravvento sulla sconsiderate operazioni condotte dall’uomo. Le strutture proprie dell’antropizzazione sono assai più numerose e più complesse da comprendersi, in quanto stratificate in un susseguirsi di utilizzazioni all’interno di un processo continuo di adeguamento della realtà alle diversificate necessità espresse dall’uomo nel tempo. È necessario quindi raggiungere la comprensione della consistenza di quel luogo tramite la ricostruzione della successione delle fasi di strutturazione che ci facciano capire la situazione attuale attraverso l’analisi a ritroso dei momenti significativi precedenti e concatenati l’uno con l’altro tanto da essere ognuno l’effetto consequenziale del precedente e causa

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indispensabile del successivo. Anche il territorio più marginale presenta una serie di segni - legati alla percorrenza, all’utilizzazione agricola e/o boschiva - indotti dall’uomo e indissolubilmente sovrapposti ed adeguati alla naturalità; segni determinanti l’intervento progettuale che dovrebbe da questi correttamente derivare; a maggior ragione quanto più ci avviciniamo a luoghi densamente utilizzati, con una maggiore concentrazione di strutture antropiche, tanto più l’attenzione alla rete complessa delle strutture presenti deve aiutarci a progettare un intervento al massimo grado capace di riequilibrare il contesto. Consapevolmente bisogna non sottacere le difficoltà proprie di una lettura del genere in quanto legata alla maggiore o minore capacità di capire e di arrivare ad una comprensione che sappiamo non poter essere che parziale della realtà: l’affinamento dei mezzi di conoscenza è opera lunga e difficile e arriva solo a livello asintotico ad abbracciare la complessità del reale antropizzato. Si possono sintetizzare i mezzi codificati utili alla lettura in gruppi di “rilevazioni” metodiche delle strutturazioni alla scala dell’edilizia e del tessuto edilizio: la prima scala è la comprensione del tipo edilizio residenziale proprio dell’area culturale generale e della specifica zona in cui dobbiamo intervenire. La generalizzazione attuale del concetto di casa come appartamento, più o meno grande, facente parte di un edificio pluripiani e plurifamiliare (casa in linea a corpo doppio o a corpo triplo) ha delle accezioni diversificate nelle diverse zone anche della stessa area: distinzioni profonde e delicate, derivate dalla storia processuale diversificata, come per esempio le differenze di linguaggio architettonico e di diversa qualificazione compositiva dello stesso tema progettuale. I diversi materiali impiegati, propri dell’identità di un certo luogo rispetto ad altri, codificati nell’uso e consolidati nel tempo devono determinare una ricerca attuale che nella continuità ne aggiorni e ne contemporaneizzi l’applicazione. Ciò significa, per riferirsi alla struttura portante oggi più diffusa in Italia, quella a telaio in c.a., che essa può essere progettata con tamponamenti diversi più o meno adeguati alla realtà dei materiali locali; ma anche la stessa maglia strutturale può essere morfologicamente diversificata, nella sua consistenza e nella sua geometria, a seguito di una maggiore o minore coerenza con i caratteri concettuali elastico-lignei o plastico-murari espressi nelle diverse aree. Una lettura di confronto, anche non eccessivamente approfondita, deve determinare la consapevolezza delle loro differenze tipiche necessarie a sostanziare in maniera diversificata il progetto del nuovo intervento. Per esempio in un edificio progettato a Terni la distinzione tra struttura e tamponamento, in questo caso di tipo “pesante”, sembra la più coerente con il contesto, analogamente sarà più coerente che ad Arezzo il rivestimento della struttura, posta su di un piano diverso, sia realizzato con gli stessi materiali “a vista” del tamponamento, così come a Firenze sarà da privilegiare un involucro complanare con una finitura unificante come l’intonaco. La scala del tessuto edilizio ci permette di capire le fasi di costituzione dell’aggregato in esame e di dedurne la diversa evoluzione nel tempo: dai luoghi più consolidati interni alla città, alle prime periferie otto-novecentesche, agli immensi sobborghi attuali dove spesso non esiste più soluzione di continuità tra un aggregato e un altro, si può, con difficoltà sempre maggiore da quelli più antichi a quelli odierni, comprendere la logica conformativa del tessuto e le sue leggi di aggregazione. Nelle loro variazioni temporali queste sono indicative, all’interno di un processo, della prassi operativa passata e condizionanti la strutturazione che possiamo proporre nel progetto di riassetto urbanistico. La lettura delle costanti e delle variabili proprie di un aggregato edilizio deve determinare la scelta dell’intervento in maniera più consapevole se si vuole che questo riesca ad assimilarsi il più possibile con il contesto e che rappresenti un vero e proprio riequilibrio dell’assetto ambientale esistente: è facilmente intuibile come in un’area periferica a bassa densità è improponibile progettare un tessuto composto da torri di otto-nove piani e al contrario in un’area ad alta densità abitativa sia fuori luogo proporre case a schiera monofamiliari. Ma al di là di queste macroscopiche ed evidenti discrasie si può incorrere anche in più sottili e sostanziosi errori di valutazione del luogo in esame. La determinazione del lotto pertinente e la sua forma; la legge di aggregazione e la relazione di reciprocità fra i lotti edilizi e il percorso; la localizzazione dell’edificio nel lotto e la determinazione di uno standard non solo quantitativo ma anche, e preferenzialmente, tipologico; la relazione tra percorsi e aree di sosta, aree di servizio e piazze; non sono che alcuni dei problemi propri della progettazione di un aggregato, che di volta in volta devono essere affrontati, e che possono essere risolti, a nostro giudizio, solo con un’attenta lettura dell’esistente. A questo proposito bisogna precisare che alcuni elementi della comprensione della scala del tessuto edilizio derivano da un ampliamento ulteriore della lettura rapportata alla scala del tessuto urbano in quanto è indispensabile

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allargare l’analisi ad una parte più ampia dell’insieme per ricavarne alcune letture indispensabili: gli assi formativi del contesto nella loro reciproca gerarchia (assi nodali accentranti, antinodali dividenti e/o di confine), i luoghi e i loro rapporti di organicità (localizzazioni nodali, antinodali, polari o antipolari) si possono comprendere solo in una lettura, complessa e più attenta, di una più vasta area territoriale in cui queste relazioni strutturali siano più attendibilmente determinabili. Ottenuta pertanto una conoscenza, non opinabile e il più possibile oggettiva della strutturazione complessa del luogo, si può procedere alla stesura di una ipotetica conformazione futura, che si attualizzi con il progetto di riassetto, in cui gli elementi di programma stiano in ragionevole consequenzialità con il presente e contemporaneamente ricavino da questo il loro potenziale sviluppo futuro. I mezzi della logica tipologico-processuale, fin qui esposti, permettono un buon approfondimento della conoscenza delle strutture antropiche, come abbiamo potuto verificare in numerose esperienze professionali e didattiche. In questa sede proponiamo, in quanto didatticamente emblematici, una serie di progetti di riassetto urbanistico ed edilizio svolti con l’utilizzazione di questi mezzi, in tre aree urbane a confronto: per evidenziare il metodo la loro illustrazione è limitata alla conformazione planimetrica, rinviando per maggiori dettagli alle pubblicazioni che raccolgono i risultati dei Seminari da noi tenuti su Terni ed Arezzo1.

Le aree periferiche di riassetto urbanistico. I campioni d’intervento che esaminiamo sono localizzati nell’area fiorentina, in quella aretina e in quella ternana. Le diverse aree culturali sono rappresentate da progetti svolti in sottozone d’intervento che presentano difficoltà di lettura e conseguentemente mostrano una casistica di progettazione del riassetto urbano anche notevolmente diversificati: zone periferiche di semplice edificazione con bassa densità edilizia, zone di periferia ad alta densità, zone limitrofe al centro storico con evidenti e graduali maggiori implicazioni tipo-morfologiche. Sono aree di cambiamento di destinazione d’uso (di solito ad utilizzazione speciale dismessa) in quanto periferiche in una fase urbana precedente ed oggi inglobate dalla città che nel frattempo gli è cresciuta intorno, per cui si vengono a trovare in posizione nodale tra vecchie e nuove urbanizzazioni e sono spesso cerniera tra le parti. Altre sono aree periferiche destinate allo sviluppo residenziale, con maggiore o minore densità fondiaria, dove è importante il disegno del tessuto progettato e la scelta del riammagliamento con l’esistente. Altre infine sono aree marginali di saturazione, ma subito limitrofe alla parte antica della città, in cui il progetto di tessuto si pone come completamento in continuità con l’esistente. Per ciascun caso è stata condotta una lettura degli assi e dei nodi allo stato di fatto e di progetto, distinguendo quelli a scala di organismo (frazione, quartiere) da quelli a scala di tessuto urbano componente. Dei tre casi-studio in ambito fiorentino i primi due hanno collocazione accentuatamente periferica essendo posti nella piana dell’Arno ad ovest del centro, ove la permanenza degli antichi tracciati centuriali condiziona tuttora gli assetti fondiari e le urbanizzazioni. Il primo caso riguarda la definizione architettonica di una seminodalità in margine alla frazione di Brozzi tramite il completamento di un tessuto edilizio lineare a carattere estensivo. Il secondo riguarda l’espansione, dimensionalmente assimilabile ad un raddoppio, della frazione di Quaracchi, caratterizzata da un assetto episodico in cui tessuti lineari estensivi si alternano ad edificazioni puntiformi intensive. Il terzo caso riguarda la ristrutturazione urbanistica di un’area industriale dismessa, in margine a viale Giannotti ed a via Erbosa, nel quartiere semiperiferico di Gavinana posto ad est del centro e compreso tra l’Arno, la collina di Santa Margherita a Montici ed il raccordo per la A1. L’area, in origine tipicamente antinodale, è venuta progressivamente assumendo valore nodale a seguito dei successivi incrementi del quartiere, originariamente disegnato dal Piano del 1914 sia sull’asse matrice di viale Giannotti, sia lungo l’antica pedecollinare (via di Ripoli). L’attuazione del Piano del 1962 ha prodotto un incremento del quartiere, lungo viale Europa (prosecuzione verso est di viale Giannotti), che si configura come un effettivo raddoppio del primo impianto secondo l’asse di ribaltamento di via Erbosa. Non a caso sul margine opposto di viale Giannotti si è formato uno slargo e l’area e gli edifici stessi sono parzialmente utilizzati per un mercato rionale e per sede di un centro sociale formatosi spontaneamente. I tre casi-studio in ambito ternano si riferiscono ad altrettante aree marginali al nucleo urbano: quelle del CRAL Terni e delle dismesse officine Bosco, lungo il confine segnato a nord dalla ferrovia, e quelle gravitanti attorno all’accesso da sud alla città. La prima è un’area a verde ad ovest della stazione lungo il viale Fonderia che è utilizzata come dopolavoro dei dipendenti delle

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acciaierie: originariamente antinodale con uso a basso rendimento fondiario, si trova oggi in posizione favorevole ad una variazione che coniughi un maggior sfruttamento con una destinazione più congruente. La seconda comprende la sede di un impianto industriale, da tempo demolito per incompatibilità con il tessuto circostante, e le aree immediatamente adiacenti lungo la ferrovia. In particolare l’area prospiciente la stazione raccoglie prospetticamente due assi importanti dell’ampliamento urbano otto-novecentesco (viale della Stazione e viale Curio Dentato) senza avere una piazza degna di tale accezione: davanti alla facciata della stazione esiste un bordo verde di risulta derivato dai lati di pertinenze ordite lungo le due percorrenze sopradette. Le aree antinodali correlate al margine urbano opposto (porta Romana) appaiono del tutto indeterminate funzionalmente e strutturalmente, in particolare quella a sud-ovest a seguito della demolizione del monastero dell’Annunziata e di altri edifici per eventi bellici e per interventi di ricostruzione, fra cui l’apertura di corso del Popolo, quale nuovo asse di penetrazione che doveva sdoppiare il ruolo di via Roma, l’antico asse decumanico: in realtà la costruzione di edilizia su di un solo margine e l’area a parcheggio derivata dalla demolizione dell’ex monastero lo rendono incompleto e senza un preciso ruolo urbano. La prima delle aree scelte per le sperimentazioni progettuali ad Arezzo è quella compresa tra il nuovo ospedale ed il parco del Pionta a sud, l’asse di via Vittorio Veneto ad est, il Foro Boario ad ovest, l’asse di via Pescaiola a nord. Essa è attualmente interessata dal fascio dei binari della stazione ferroviaria e, sui margini di questo, da una serie di edifici isolati a prevalente destinazione speciale, fra cui il complesso dell’ex ospedale neuro-psichiatrico. Si tratta di un’area veramente strategica per il futuro assetto urbano, in quanto coincide con l’ideale cerniera di ribaltamento della città murata che, nel corso del ‘900, ha raddoppiato la propria consistenza in direzione sud-ovest, lungo l’asse via Romana - via Vittorio Veneto, oltre a più contenute espansioni lungo i principali assi territoriali: ciò induce una progressiva mutazione del suo ruolo da antinodale, come confine dell’espansione gravitante su di un proprio polo (piazza Saione), a nodale, come potenziale baricentro di una città continua. Questo processo è fortemente ostacolato dalla presenza della ferrovia, che marca un limite, contrapposto a quello delle mura, altrettanto difficile da valicare, come provano le strozzature della maglia viaria d’espansione che sottopassa la ferrovia solo in due punti. L’entrata in funzione della “direttissima” ferroviaria Firenze - Roma ha portato peraltro ad un declassamento dello scalo aretino servito dalla vecchia linea. Da tale constatazione è scaturita una proposta che vuole anticipare ed ottimizzare gli esiti della mutazione funzionale in atto: la sostituzione del raccordo tra la stazione di Arezzo e la direttissima con una metropolitana leggera, avente anche compiti di trasporto veloce urbano, che si sopraeleva nel tratto incidente l’abitato consentendo la previsione di un’effettiva continuità del tessuto tra le due parti principali del nucleo urbano. L’assetto proposto per il nuovo baricentro urbano non poteva non avere una coerente ricaduta sul centro storico, in particolare sui tre isolati di grande estensione, tipicamente antinodali rispetto a questo, posti a valle della controradiale via Garibaldi, a nord dell’area di ristrutturazione ottocentesca incardinata sul rondò di piazza Guido Monaco. Questi isolati sono oggi definiti da edilizia di antico impianto, in forma di borgo lineare lungo la radiale via San Lorentino e di successione di edifici speciali lungo via Garibaldi, nonché da edifici speciali otto-novecenteschi (caserme, scuole di vario ordine) nelle aree scariche verso il confine costituto dalle mura. 1

G. Maffei - P. Vaccaro, Forma urbana e Architettura a Terni, Alinea, Firenze, 1993; G. Maffei - P. Vaccaro, Forma urbana e Architettura ad Arezzo e a San Giovanni Valdarno, Alinea, Firenze, 1999.

LEGENDA

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scala

1:5000

CONFINE

ASSE NODALE CENTRALE

ASSE NODALE LOCALE

ASSE ANTINODALE PERIFERICO

ASSE ANTINODALE LOCALE

NODALITÀ

NODALITÀ LOCALE

ANTINODALITÀ

ANTINODALITÀ LOCALE

NODALITÀ INTERMEDIA

NODALITÀ INTERMEDIA LOCALE


Sopra: Firenze, Brozzi, stato di fatto e progetto. Il consolidamento e la qualificazione della seminodalità, diametralmente opposta ad una analoga ad ovest del polo (piazza I° Maggio) del nucleo insediativo, risultano dalla sostituzione con un tessuto lineare di case a schiera monofamiliari a due piani fuori terra (tipo portante nel contesto) che si nodalizzano progressivamente divenendo plurifamiliari a tre piani con destinazione dei basamenti a laboratori e negozi. Sotto e nella pagina sucessiva: Firenze, Quaracchi, stato di fatto, progetto di “primo impianto”, progetto definitivo. Il progetto di primo impianto investe un’area scarica alle spalle del costruito esistente, gravitante sull’antica via di Brozzi, assumendo come asse matrice via di San Piero a Quaracchi. Da questa,

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con verso di formazione da sud verso nord, si diparte una serie di percorsi di impianto lottizzativo posti a distanze modulari che si concludono in un percorso di collegamento, che sul margine scarico forma una propria fascia di pertinenza lottizzativa. Una prima nodalizzazione risulta dal dimezzamento ponderale degli isolati piÚ vicini al polo origine del sistema insediativo; la nodalizzazione definitiva prevede la formazione di una piazza e la mutazione dei tipi edilizi prospettanti su di essa, da case a schiera monofamiliari a case in linea. La qualificazione del baricentro dell’espansione connota implicitamente un potenziale baricentro a scala dell’intero nucleo insediativo, come riferimento per successive espansioni, e comporta il declassamento locale di via di Brozzi a percorso seminodale.

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In questa pagina e nella sucessiva, dall’alto: Firenze, Gavinana, stato di fatto, progetto di “primo impianto”, due varianti di progetto definitivo. La stesura di primo impianto prevede il riammagliamento dell’area tramite la formazione di isolati rigiranti di case in linea a corpo doppio, (destinate omogeneamente a residenza), che in prossimità della nodalità si dimezzano ponderalmente per conseguire una maggiore densità fondiaria. Orditura, numero dei piani e destinazione d’uso dei basamenti (a negozi, a laboratori o a depositi, a residenza) concorrono alla leggibilità del grado di nodalità od antinodalità dei percorsi. I progetti definitivi prevedono la sostituzione con edilizia speciale dell’edilizia di base in collocazione nodale secondo due accezioni. La

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prima, più seriale, comporta il potenziamento delle testate degli isolati in margine a viale Giannotti mediante la formazione di corpi tripli, a destinazione mista, e la sostituzione di quelli maggiormente nodali con corpi tripli/ quintupli, assimilabili ad isolati contratti, destinati ad attività commerciali e ad uffici. La seconda, più organica, prevede una maggiore articolazione del costruito mediante formazione di una piazza delimitata da corpi tripli/quintupli, che integra spazialmente lo slargo esistente, cui si affianca un isolato unitariamente progettato come “casa dello studente”, nonché il potenziamento delle testate degli isolati adiacenti mediante corpi tripli. In tutti i casi la definizione di una nodalità alla scala dell’aggregato globalmente considerato comporta il declassamento di piazza Elia Dalla Costa da nodo di quartiere a nodo locale.

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Dall’alto: Terni, area ex officine Bosco ed area della stazione ferroviaria, stato di fatto e progetto. Il tessuto progettato nell’area di recupero dell’ex officina Bosco è composto da un aggregato di isolati gravitanti attorno ad una piazza sulla quale affacciano un edificio polifunzionale A ed un albergo B; il resto dell’edificato prevede edilizia residenziale a corpo doppio rigirante sul perimetro degli isolati con la variante, in margine all’asse di scorrimento viario, di un garage C a più livelli per gli automezzi privati. La spina lungo via San Pietro in Campo, già utilizzata da un plesso scolastico di recente costruzione, è ulteriormente confermata in questa destinazione con il progetto di una scuola media inferiore D connessa alla precedente con un percorso pedonale aereo. Lungo il viale che costeggia la ferrovia si è attrezzata la stazione degli autobus urbani ed interurbani E con un edificio a snodo con l’attuale stazione. Di fronte a questa infine si è definito uno slargo polare, che ne qualifica il ruolo urbano, tramite la previsione di un edificio a forma complessa a corpo triplo F.

E F

C

D B

A

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Dall’alto: Terni, area Cral, stato di fatto e progetto. Il progetto di riammagliamento prevede la formazione di un sistema di percorsi d’impianto derivati da via Muratori che definiscono isolati residenziali di case in linea a corpo doppio aggregate per continuità, che si nodalizzano in prossimità della piazza A, letta come nodo a scala locale. Particolare cura è stata prestata alla risoluzione dell’isolato prospiciente via Torricelli B.

B A

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Dall’alto: Terni, area accesso sud, stato di fatto e progetto. Il progetto prevede la costituzione di una fascia di edilizia seriale a corpo triplo e a destinazione mista A sul fronte attualmente vuoto di corso del Popolo, che si conclude verso il Nera con un edificio speciale nodale a destinazione polifunzionale B connesso con la sistemazione a verde dei margini fluviali, mentre verso il centro città, dove gli edifici esistenti sono arretrati rispetto al filo strada, si ricerca un riallineamento visivo con la dislocazione di percorrenze coperte. Sul retro, lungo via Bazzani, è previsto un garage coperto a più piani C che dovrebbe risolvere tutti i problemi di parcheggio del centro storico. Nel prolungamento di via Roma (viale del Cassero), reso pedonale tramite l’interramento dell’ortogonale viale Aleardi, si sono progettati un mercato coperto D ed un ponte pedonale E che ripropone la continuità dell’antica via Flaminia con conseguente recupero di via Roma come asse urbano principale.

E

D

B

A C

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Dall’alto: Arezzo, area della stazione ferroviaria, stato di fatto e progetto. Il progetto prevede la formazione di un tessuto di completamento sul margine nord-ovest di via Vittorio Veneto, comprendente anche la parallela via Masaccio, formato da un sistema di isolati che si gerarchizzano in relazione alla loro prossimità al nodo individuato dall’intersezione tra l’asse principale e la pedemuranea (viale Michelangelo) A; l’area attestata sul nodo viene ulteriormente qualificata dalla pedonalizzazione delle percorrenze locali, mediante interramento dell’asse di scorrimento viario sottostante alla linea metropolitana. Si prevede inoltre l’urbanizzazione delle aree occupate dalla ferrovia e dal Campo Marzio tramite un sistema di isolati originato da via Pescaiola B e delimitato a sud dal percorso tangente l’ex neuro-psichiatrico C. In posizione intermedia, a contatto con il parco del Pionta, si prevede infine una piazza-parco D, qualificata dalla presenza di edifici speciali nodali.

B A

D C

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Dall’alto: Arezzo, area tra via Garibaldi e le mura, stato di fatto e progetto. Il ridisegno complessivo dell’area è fondato sullo studio attento delle mutazioni di nodalità ed antinodalità indotte dalla ipotizzata traslazione del baricentro urbano. Coerentemente si prevede la maggiore densità fondiaria nel grande isolato attestato su piazza Guido Monaco, che viene ritagliato in due serie di isolati A, aventi rispettivamrente come matrici via Petrarca e via Leoni, ed in un isolato antinodale che comprende le caserme e nuove costruzioni finalizzate al loro recupero come plesso scolastico B. Il progressivo attenuarsi dell’influenza del polo principale è reso leggibile attraverso la crescita dimensionale degli isolati ed una utilizzazione meno intensiva dei loro margini, destinati ad edilizia prevalentemente residenziale, e, a nord di borgo San Lorentino C, con la perdita di ruolo nodale della percorrenza in fregio alle mura, sulla quale si attestano aree a parcheggio ed a verde attrezzato D.

A B A A C D

A A

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The new architecture border is now formed by urban edge, the outskirts, that seem to escape a precise setting, whether from the point of view of reading and analysis, or that of architectural and urban proposal The problem varies from the interest for spontaneous forms to a sort of design pessimism, a nihilism. We think, and our convincement is strenghtened by the current research, that just those quality shortage, which forces us, and on the other hand allows us, a clearly codified survey for city centres, permits a greater freedom for critical reading and for planning. For a reading the outskirts features are: spontaneous languages, urban empty areas, chance of re-balance for industrial areas, expression freedom allowed by housing lacking value. The consolidated town’s studies instruments lose now scientific ground, within the limits of outskirts on behalf of: A)-re-assignment of urban role; B)-architectural identities re-establishment; C)-renewal and re-qualification; D)-technological and functional re-adjustment. The current research phases consist in tuning a reading methodology, made on an urban specimen of Florence outskirts, Novoli, and of the subsequent design method’s direction.

NUOVI PAESAGGI URBANI: PER UN RECUPERO DELLE QUALITÀ. Paola Puma Il titolo dell’intervento introduce all’argomento dei cosidetti “territori di frangia” che caratterizzano le città contemporanee. Perché è alle frontiere delle nostre città che la cultura architettonica dovrà d’ora in poi applicare massicciamente le sue energie, con uno sforzo teorico e applicativo pari a quello che tradizionalmente l’Italia ha da sempre dedicato ai suoi centri storici. Con uno slogan potremmo dire che la nuova frontiera dell’Architettura si dovrà spostare verso le frontiere delle città. Occupandomi da qualche tempo dei fenomeni che caratterizzano negativamente i margini delle città e indicati complessivamente come il degrado delle periferie, ho visto l’argomento essere avvertito secondo tutta una gamma di approcci e reazioni: dal primo scetticismo verso quegli “originali” che si occupavano del brutto, alla diffusione di libri e analisi sull’argomento a testimoniare l’interesse crescente degli studiosi, alla presa di coscienza del problema finalmente anche a livello politico e di opinione pubblica. Il problema, però, è ancora immaturo dal punto di vista culturale, di propositività e di fattibilità progettuale e sono in ogni caso prevalenti gli studi teorici e critici1 e in forte minoranza i tagli operativi e propositivi. Se la diagnosi può considerarsi avanzata -i mali delle nostre città sono ormai noti, studiati e analizzati in profondità- tanto non si può dire della terapia. Al momento il dibattito è, infatti, ancora concentrato su due posizioni estreme: quella impraticabile -ed utopica per il nostro paese, sintetizzata dallo slogan “rottamate le periferie”- di un rinnovo esteso del patrimonio edilizio moderno e quella pessimistica ed improduttiva dell’impossibilità totale di controllo e della rinuncia ad ogni progetto. Più utile, invece, sarebbe porsi in termini ragionevoli il problema e ciò significa trovare una terza via, forse in prima battuta ridotta rispetto alla gravità ed all’estensione del problema, ma realistica e praticabile nella fattività quotidiana.

La cosa presenta evidenti difficoltà ma, se si vuol dare un contributo fattivo e superare lo stadio della critica sterile, occorre provare, almeno, a lavorarci: occorre superare il tabù del brutto chiedendosi se si possa guardare con maggiore speranza a questi, pur scoraggianti, paesaggi.

La ricerca che presento è perciò motivata dall’intento critico di superare il diffuso atteggiamento di nichilismo progettuale nei confronti di realtà urbane che -pur presentando obiettive difficoltà di interpretazione per il caos delle forme fisiche, funzionali e sociali che le connotano- non devono essere lasciate a se stesse, perdendo in tal modo le eventuali residue probabilità di operatività e controllo progettuale. Innanzitutto è necessario cambiare l’approccio al problema e ipotizzare strumentazioni concettuali ed operative ad hoc; inoltre l’invecchiamento del moderno obbliga ad iniziare a porsi il problema del suo rinnovo: il problema si farà sempre meno eludibile

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e sarebbe opportuno cercare di prevenire i tempi per farne terreno di progetto secondo le più opportune forme di intervento. In sintesi la domanda da porsi è se sia ancora possibile, e in che modo, ri-disegnare i paesaggi urbani più nuovi. Questa ricerca vuole porsi la questione nei termini volutamente pragmatici di una strumentazione tecnica definita attraverso parametri, griglie d’interpretazione, procedure esecutive; nei termini concreti ed applicativi di un’operatività progettuale plausibile per la sua scala d’intervento, perché fondata su una strumentazione critica ma oggettiva. Questa ricerca è ancora in fase di avvio, quello che segue non è perciò un programma definito ma piuttosto una traccia di lavoro.

L’oggetto della ricerca L’argomento di studio è costituito dalla possibilità di individuare opportuni criteri di analisi ed intervento sui contesti di periferia e frangia urbana delle città contemporanee. In particolare l’interesse si accentra sul problema del recupero di qualità dei paesaggi tipicamente metropolitani: alla scala d’ambiente, della scena urbana ed alla scala architettonica.

La metodologia Rispetto alla scoraggiante esperienza delle condizioni delle nostre periferie si deve chiedersi se, andando oltre l’immediata percezione di una serie di mancanze e perdite2 , non si possa mettere a fuoco un’analisi del problema meno istintiva, più metodica e, soprattutto, mirata specificamente all’esplorazione dei caratteri dei non-luoghi metropolitani. Non è escluso che -con un atteggiamento più disponibile e possibilista- non si possano individuarvi anche dei caratteri positivi

Le immagini non hanno riferimento diretto al testo, quanto un ruolo di commento generale, quasi un sottofondo visivo.

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come la sperimentazione dei linguaggi più attuali (spontanei ma non per questo sempre privi di intenzionalità o progettualità); la possibilità di fruire dei vuoti urbani guardandoli come risorsa e non come avanzo; la potenzialità di riequilibrio funzionale di grossi comparti urbani che risiede nel recupero delle aree industriali dismesse; la libertà di espressione consentita da edilizia raramente di pregio e intoccabile come perlopiù è nei centri storici. È difficile dare una descrizione univocamente determinata della città contemporanea: complessità, provvisorietà, ambiguità, contradditorietà, flessibilità, molteplicità, ibridazione sono alcuni dei termini più ricorrenti che ben descrivono il territorio fluido del nostro ambiente fisico, oltre che culturale. Un territorio, quello delle città che per la loro velocità di modificazione potrebbero dirsi estemporanee, che più si esamina più sfugge e si complica. Gli strumenti ed i metodi classici di analisi della città storica non valgono più e non sono più sufficienti: il rilievo tradizionalmente inteso, l’uso della cartografia, le letture tipo-morfologiche mostrano tutti i loro limiti di fronte alle scomposte periferie. La lettura è stata perciò strutturata non più sui caratteri formali dell’edilizia, giacché proprio di mancanza di forma questi contesi soffrono, ma a partire dai moventi esigenziali che l’oggetto presenta: - ri-attribuzione del ruolo urbano; - ri-costituzione di identità e riconoscibilità architettonica; - rinnovo e riqualificazione formale; - ri-adeguamento funzionale, tecnologico etc. Il quadro programmatico d’intervento si articola, in parallelo al sistema d’analisi, in livelli procedurali a scala decrescente -dall’urbano all’edilizia- definiti singolarmente dalla strumentazione tecnica di un repertorio applicativo.

Le fasi della ricerca Lo studio si svolge nei classici quattro momenti tipici di ogni sperimentazione:

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1) messa a punto del sistema di analisi: lettura, classificazione, valutazione critica dei caratteri architettonici (ambientali, morfologici, quantitativi, costruttivi etc.) del campione di studio;3 2) elaborazione della conseguente metodologia di intervento; 3) sperimentazione su un campione urbano significativo delle fasi 1) e 2); 4) ridefinizione delle fasi 1) e 2).

Risultati prevedibili Il prodotto della ricerca è un saggio-campione costituito da un piano-progetto contenente: - le indicazioni di metodo per l’impostazione dell’analisi; - la definizione dei caratteri-marcatori e della griglia di lettura; - l’esemplificazione progettuale dell’applicazione su un campione significativo scelto nella periferia nord della città di Firenze.

Ultmo aggiornamento La ricerca si trova ad oggi, aprile 2000, nella prima fase; è stato avviato il rilevamento degli isolati costituenti l’asse della via di Novoli, attraverso la ricognizione planimetrica e dei fronti edilizi. Sono contemporaneamente in svolgimento le mappature tematiche a scala d’ambiente.

1 ho appuntato le mie considerazioni teoriche e critiche in vari contributi ai quali rimando: cfr. P. Puma, La brutta scena della città, ... sta in: Paesaggio Urbano n.6/ 96. P. Puma, Della memoria, ovvero dell’avvenire, sta in: Atti Convegno Lerici 1997. P. Puma, Nè sopra nè sotto ma intorno alla superficie ..., e Segni e di-segni della città contemporanea, stanno nella Ricerca Murst: “Rappresentazione dell’architettura ...”, 1997/98. P. Puma, La città contemporanea ..., sta in: Atti Convegno Lerici

1998. P. Puma, I nuovi topoi urbani, sta in: Atti Convegno Camerino 1998. 2 mancanza di senso e di riconoscibilità dei luoghi, perdita di identità degli elementi e delle sue relazioni con l’intorno; tutte assenze aventi l’esito finale dello spaesamento, della perdita del senso di appartenenza ad una collettività e la rottura di ogni possibilità di comunicazione tra la città ed i suoi utenti. 3 sono a questo proposito orientata a lavorare su Novoli;

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The ancient town, sacramentally founded by the Aruspex, is a walled up town. We are therefore tied, as men belonging to the west culture, to the walled up city’s symbol, and the outer border has always been warranty of formal perfection, of “figural image”. Today, after the Modern Movement, the town has no more borders, the urban shape is blended and mixed with the suburban and former-rural one, into a figure our senses cannot decode, a “fractal figure”. Now, we can determine 4 classes of border overcoming, examined in a research on the Florence county: A)-continuous and undifferentiated growth, according to european model, from the city center to the XIX-XX century town, till the fifties and sixties centrifugal breaking-down; B)-strong interruption between old core and following spreads; C)-division into poles, every following morphological codes already described; D)-strong interruption between historical and current phases, proved for poles. But today, is still possible give a meaning to the current borders? Today, for terms as Borders, Walls, Monuments, as for Block, Square, Street we look for a whatever rebirth, that is at least figural within the outskirts, and now, in Europe there are architects who engaged in this almost hopeless challenge. And also within the Florence school of architecture, within the design workshops, the theme of a “New Identity” is amazing the future architects.

MARGINI, RECINTI, SIGNIFICATI Gianni Cavallina I limiti storici della città. Confini figurali. Il “dentro” ed il “fuori”. Il margine urbano, il muro che separa il “dentro” dal “fuori”, il limite di difesa e di identificazione del contesto umano che chiamiamo città, è un’immagine ben presente nella nostra mente, e, probabilmente, a livello simbolico, lo è ancor più nel profondo della nostra psiche. “Si potrebbe anche dire che l’ordine, che al di “fuori” si presenta solo a sprazzi, si stabilizza e si propone, al di “dentro” fungendo quindi da vera e propria “immagine” del mondo.”1 Il dentro è quindi il “tutto”, la totalità delle vite, delle storie, dei miti, il fuori è, se non il “niente”, comunque l’ignoto, il caos, la mancanza di ordine e di identificazione precisa. E comunque il “fuori”, è radunato solo dal “dentro”, dal conosciuto, e da ciò che può essere ordinato dall’uomo riunito in una società di simili. Ma il margine si presenta anche come un preciso oggetto, o insieme di oggetti, o meglio, continuità di forme, il muro.2 Il recinto, il margine, il baluardo che comincia a sostanziarsi nei primi villaggi neolitici, e che, poi, a poco a poco, caratterizza sempre di più gli insediamenti dell’uomo, non è solo la concretizzazione di una pura e semplice esigenza difensiva.3 È, a livello psicologico, l’affermazione di una identità etnica e sociale degli abitanti; a livello formale è, esso stesso, in quanto contenitore spaziale, sintesi figurale della città. Dunque: “Figurabilità: cioè la qualità che conferisce ad un oggetto fisico una elevata probabilità di evocare in ogni osservatore un’immagine vigorosa”.4 È proprio nella caratteristica di “figurabilità” indicata dal Lynch la capacità della città-oggetto di evocare una immagine forte, e, di conseguenza, di assicurare, attraverso la sua identità, un preciso e rassicurante significato. E questa caratteristica figurale è proprio data dalla consistenza del margine, dalla sua identità, dal suo richiamo semantico e simbolico.5 Del resto l’importanza simbolica, mitica, della città, è nello stesso atto di fondazione, che, riunendo al contempo il rito dell’infissione del bastone dell’aruspice nel colle sacro, nel punto dove sorgerà il primo tempio urbano, ed il tracciamento del margine esterno, sintetizza anche il carattere ed il significato sacro del popolo fondatore e dei suoi dei: “... si può affermare (...) che la città è nella sua essenza “fondazione”, cioè attuazione delle archài primordiali, e la prima comprensiva raffigurazione del mito.”6 Ma è anche, la città, immagine del mondo, del cosmo, riduzione al comprensibile ed al noto dell’universo così grande ed incomprensibile, nella sua vastità.7 L’immagine della città nella storia non può prescindere dalla figura e dalla forma delle sue mura; la città medioevale, che è, probabilmente nell’inconscio collettivo dell’uomo europeo, la semantizzazione della città come storia dell’uomo, rimanda, per ognuno di noi, a quella figura che compare sullo sfondo dei quadri del Lorenzetti, dell’Angelico, del Mantegna, così chiaramente descritta all’interno delle sue mura protettive. E le mura sono da sempre il simbolo della comunità di uomini che da esse viene circoscritta; esse si pongono così ben al di là del mero significato difensivo, superando la consistenza semantica della loro “funzione primaria”.

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Limite e non-limite / Alternanze. In realtà poi la città storica presenta questa natura di luogo murato solo in certi ambiti, per determinate “ecumeni civili”. Più volte il limite ben definito delle mura, quello che per Norberg Schulz è condizione indispensabile per la identificazione di una “forma figurale” della città, è assai labile, se non addirittura del tutto assente. Nella stessa Polis greca se ne disconosce persino la loro indispensabilità, funzionale alla difesa dai nemici. Platone, nelle “Leggi” afferma che dovrebbero essere le stesse case di margine dell’abitato ad essere pensate e strutturate come limite difensivo: “... Se gli uomini devono avere mura, le case private dovrebbero essere disposte in modo che tutta la città possa essere un muro, avendo tutte la case la possibilità di essere difese a motivo della loro uniformità e della loro uguaglianza verso le strade.”

1-2. L’immagine figurale della città: a sinistra, Beato Angelico, particolare dalle Storie di San Nicola (Pinacoteca Vaticana). A destra un disegno di K. Lynch illustrante la diversità dei margini di Boston: il ben più marcato limite geografico esterno ( il mare ) e gli sfuggenti confini dei quartieri interni ( da K. Lynch “L’immagine della città”).

Gli Spartani affermavano sprezzanti che bastavano i corpi dei soldati a costituire il baluardo difensivo della loro invincibile polis. Ma addirittura, in certe aree del pianeta, a Creta, come nel Centro America, civiltà come la Minoica, la Maya, la Tolteca, hanno rinunziato, per ragioni e motivi diversi (spesso perché facenti parte di regni ed imperi in pace, altre volte perché affidavano la loro difesa ad altri strumenti militari, come la flotta), al baluardo difensivo murato. E, a ben pensare, tutto il mondo anglosassone ci presenta città generalmente senza mura; questo tipo di difesa è demandato ai castelli, i veri centri del potere politico; le città non ne hanno generalmente bisogno, sono agglomerati nati lungo strada per esigenze agricole e commerciali, e continueranno ad espandersi come insediamenti residenziali ed operativi, accentuando a dismisura, con l’avvento della rivoluzione industriale, la vocazione all’assenza di limiti e quindi all’espansione continua indifferenziata in tutte le direzioni. Dal modello anglosassone la città che non prevede, e non vuole, limiti; quella stessa che, esportata dai coloni nel continente americano, ha dato luogo alla città diffusa, quella senza confini, quella che si presenta già, fin dalle sue prime espressioni, come estroversa, tesa verso il “fuori”, incurante della sacralità del rito di fondazione, dell’infissione del bastone dell’aruspex, e del tracciamento rituale del recinto esterno; essa è tutta tesa alla sua espansione, allo scambio economico, alla affermazione globale, militare e commerciale, in ambiti territoriali sempre più estesi. Ed è dalla città diffusa di tipo anglosassone che derivano le attuali metropoli, o megalopoli, o comprensori, rifiuto della storia ed aspettativa di un progresso tecnologico dalle infinite possibilità. “Benchè la metropoli non sia più un fenomeno raro, in nessuna parte del mondo vi è tuttavia un’area metropolitana con un forte carattere visivo, con una struttura evidente. Le città famose soffrono tutte alla periferia della stessa smarginatura priva di forma.”8

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Si assiste quindi, nella storia dell’uomo e della città, ad una continua alternanza di limite e di non-limite, ad un affermarsi di un baluardo ed alla sua distruzione, alla creazione di nuovi, diversi limiti, ed al loro superamento; ma questa libertà non è senza prezzo; questo prezzo sembra proprio essere, come afferma il Lynch, e con lui molti altri, la irrimediabile perdita della forma.

La disgregazione del margine. Ma è soprattutto negli ultimi due secoli che avviene ovunque e in modo definitivo la disgregazione del limite urbano; non sembra possibile oggi che qualcuno o qualcosa possa consentire il suo ritorno, se non, forse, per parti, ed in senso traslato. Ad un incremento formale e sostanziale della cinta muraria, avvenuta tra il sedicesimo ed il diciottesimo secolo, incremento dovuto soprattutto alle mutate esigenze militari di difesa, succede, nel secolo scorso, un definitivo abbandono delle mura. L’abbattimento del margine murario viene sentito addirittura come una liberazione; la città non è più costretta nel suo “dentro”, e può finalmente uscire all’esterno, espandersi in larghi viali, creare nuove estese zone produttive, lasciare spazio ai binari delle linee ferroviarie, ed a zone residenziali che aspirano, secondo la logica borghese, ad imitare i luoghi dei monarchi e dei dignitari di corte dei secoli precedenti la rivoluzione francese. Ma questa esplosione dell’antico insediamento verso l’esterno non è ancora la perdita di una “immagine figurale”; a quella medioevale si sostituisce il disegno della città ottocentesca, con i suoi viali circolari (il “ring”), le zone verdi, portatrici di una nuova purezza e di una nuova forma urbis ideale, la “città giardino”, le ordinate e dignitose abitazioni della classe borghese. Sarà con il nostro secolo, e più precisamente con le espansioni indifferenziate del secondo dopoguerra, agevolate (suo malgrado?) dal credo lecorbusiano del Movimento Moderno, che la città perderà in modo definitivo ogni concretezza figurale, ogni riconoscibilità, ogni possibilità di donare una precisa identità ai suoi abitanti. “Al giorno d’oggi... l’abitato è così sparso che non si possono più riconoscere il principio e la fine del luogo; è anche così eterogeneo da non comunicare più l’impressione di unità. Quando la demarcazione sparisce, pure l’“aia”, l’“abitato” o meglio il luogo perdono di identità. Allo stesso tempo si disperde la caratteristica del paesaggio come sfondo unitario...”9 Quanto affermato dal Norberg Schulz è tanto più evidente se si pensa al senso di confusione percettiva che impedisce, anche in Italia, e addirittura anche in Toscana, di cogliere una sintesi figurale del paesaggio: “Lo spazio non si concretizza e lo sparpagliamento dell’abitato non trasmette alcun carattere. Il tutto appare sconfortante.”10

La città dei confini frattali Il confine è adesso incomprensibile e non misurabile. La frammistione continua ed incoerente tra aree residenziali e produttive, tra l’edificato ed i residui agricoli inutilizzati, tra questi e le zone di risulta e di accatastamento, è quanto di meno decifrabile e catalogabile possa esserci. “Il caos completo senza alcuna traccia di connessione non è mai piacevole”.11 Ci può venire in aiuto solo la geometria dei frattali, ovvero di quelle figure che, moltiplicando ripetutamente, nella loro frammentazione, il numero dei lati, portano la lunghezza del loro perimetro a misure astronomiche, pur non uscendo dalla metà di un foglio di carta (basti pensare alla curva di Koch, che può arrivare, con 100 iterazioni, partendo da un triangolo equilatero, ad un poligono di superficie analoga, ma il cui perimetro misura la metà della distanza della terra dal sole!). È quindi assai significativo che il limite della città attuale possa essere avvicinato solo facendo ricorso alla scienza relativistica, così incomprensibile, dal punto di vista della esplicabilità, per l’uomo “euclideo”. Oggi, in ogni parte del territorio abitato del pianeta, siamo in pratica di fronte a limiti del costruito che si possono definire “frattali”. E questo è vero anche in aree dalla importante connotazione storica, e non solo in territori che, dal punto di vista antropico e geografico, sono assai distanti dai canoni che contraddistinguono la città murata medioevale.

Processi di dissolvimento dei limiti caratteristici dell’area fiorentina. Crediamo che poche aree, come quella della Provincia di Firenze, oggetto della ricerca promossa dalla “Sezione Architettura e

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Contesto”, possano essere testimoni dell’ambito storicizzato della città, e rispondano ad un criterio di ordinato equilibrio di parti urbane, campagna e insediamenti. Eppure, anche in questa zona così storicamente caratterizzata, sono presenti al massimo livello i fenomeni di disgregazione frattale del limite urbano. Per i 44 comuni facenti parte della Provincia, anche se oggi, e proprio in considerazione della disgregazione urbana, è difficile se non impossibile isolare un territorio amministrativo dall’altro, pur tuttavia si può procedere comunque ad una sorta di classificazione “volgarizzata” imperniata su 4 categorie principali. Queste quattro categorie riguardano il meccanismo di accrescimento dell’abitato per ogni comune, tenendo presente al momento della ricerca solo tre fasi, la prima, quella del consolidamento storico, per lo più medioevale, prorogato fino all’anno dell’unità nazionale, il 1861; la seconda fase caratterizza lo sviluppo otto-novecentesco, dall’unità di Italia fino alla seconda guerra mondiale; la terza fase, infine, concerne il periodo di accrescimento che contraddistingue il secondo dopoguerra, dal 1945 ad oggi.

3-4. I perimetri frattali: la curva di Koch. L’“aberrazione concettuale” di un perimetro di una figura geometrica che, con 100 successive iterazioni, riesce a raggiungere, in un foglio di formato A 4, la misura di 75 milioni di chilometri, può essere ricollegata alla impossibilità di definire un effettivo confine geometrico, per le nostre periferie. A sinistra: le aggiunte successive al triangolo equilatero che portano alla figura di Koch (da E. Gori “Matematica e confini”, in “La città e il limite”, a cura di G. Paba, Firenze 1990). A destra: una possibile immagine di margine frattale ipotizzabile per la periferia sudoccidentale dell’abitato fiorentino.

La prima sintetica categoria che si è individuato è la: A) - Contraddistingue la crescita continua ed indifferenziata, per lo più radiocentrica, che caratterizza in genere gli insediamenti principali, e comunque quelli che presentano una maggiore consistenza della città storica. Questo tipo di crescita continua, senza soluzioni di continuità, è precipua di Firenze, espansa, oltre le mura, con i viali del Poggi in una città otto-novecentesca non priva di un suo disegno, e, dove essa è rimasta, di una certa dignità architettonica, che contribuiscono, comunque, a produrre una certa “qualità figurale”; al di là di questa conurbazione assistiamo nell’ultimo mezzo secolo, ad una espansione lungo i più importanti assi di percorrenza, con grossi agglomerati residenziali e produttivi; quest’ultima espansione ha causato la perdita definitiva dell’immagine figurale di Firenze, assai più della città otto-novecentesca; l’immagine è ora demandata ai singoli elementi polari del centro storico, i monumenti, divenuti oggetti di consumo turistico. Nella stessa categoria, pur con qualche distinguo, ci sembra di poter inserire Empoli, Castelfiorentino, Fucecchio, Borgo San Lorenzo, Figline Valdarno, e, solo per quello che riguarda l’area adiacente al centro, Sesto Fiorentino. Da notare che, in quest’ultimo caso, il centro non presenta le connotazioni “canoniche” dei centri storici di origine romana o medioevale.

La seconda categoria: B) - Le caratteristiche di espansione sono caratterizzate da una forte soluzione di continuità fra il nucleo storico originario e la città recente. Il centro storico, chiaramente caratterizzato, che ha spesso conservato la propria cinta muraria originale, non ha nessun collegamento “morfologico-volumetrico” con la città attuale, che, semmai, può ritrovare, ma non sempre,la propria

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origine negli elementi urbani otto-novecenteschi, già di per sé disgiunti dall’agglomerato storico. Esemplari, per questa seconda categoria, i comuni di Certaldo, Calenzano, Cerreto Guidi, Montespertoli.

La terza categoria: C) - I poli generatori dell’espansione sono più di uno: siamo in presenza di più centri, più o meno fortemente storicizzati. Ognuno di questi centri tende ad assumere un proprio sviluppo continuo, con la presenza delle tre fasi storiche, e quindi con una propria espansione continua ed indifferenziata, senza che questa espansione contamini o sia in alcun modo influenzata dall’accrescimento del polo vicino. In questa categoria potremmo collocare Campi Bisenzio, Signa, Tavarnelle Val di Pesa, e Bagno a Ripoli. Quest’ultimo è inoltre caratterizzato dalla mancanza di veri e propri centri storici, ma semmai dalla presenza di centri urbani che hanno cominciato ad assumere una loro importanza solo nel secolo scorso od all’inizio del novecento. Infine la quarta categoria (in realtà si potrebbe procedere all’individuazione di più sottocategorie): D) - Si ha la presenza di più poli insediativi originari, e di accrescimenti che presentano forti soluzioni di continuità con essi. Talvolta non esiste alcun collegamento organico tra le conurbazioni originarie (storiche ed otto-novecentesche) e le espansioni recenti, che, in questi casi sono coperte per percentuali superiori al 95% da insediamenti produttivi, a servizio del terziario, e della grande distribuzione. Più spesso, per ciò che riguarda questa categoria, l’abnorme sviluppo delle zone produttive è dovuto anche all’adiacenza di comuni dal forte spessore edificatorio (è il caso, appunto, di Vinci-Sovigliana-Empoli, di Barberino V. Elsa-Cipressino-Poggibonsi, ed altri ancora). Un altro fattore che determina questa assoluta separazione tra i nuclei originari e le espansioni recenti è dato dal fatto che le zone produttive sono sovente collocate nei fondovalle, lontano dai nuclei,

5. Le 4 sintetiche categorie secondo le quali si possono sommariamenie dividere i processi di accrescimento ed espansione e, conseguentemente, di superamento dei limiti, presenti nei 44 comuni della Provincia di Firenze. A) Crescita radiocentrica continua ed indifferenziata (Firenze, Empoli, Figline,ecc).- B) Soluzione di continuità tra nucleo storico, ampliamenti otto-novecenteschi, ed espansione recente (Certaldo, Calenzano) -C) Espansioni multiple radiocentriche (Campi, Signa, Tavarnelle) -D) Soluzioni di continuità poilcentriche (Vinci-Sovigliana, Barberino Val d’Elsa, ecc).

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(posti generalmente in quota) per l’effetto di esigenze economico-amministrative (v. la legge sulle aree depresse degli anni ’50). In questa categoria possiamo inserire i già citati comuni di Barberino Val d’Elsa e di Vinci, con la sua appendice empolese di Sovigliana, in pratica una città aggiunta, Fiesole, con le appendici separate delle Caldine e di Compiobbi, e, in modo meno evidente, dal punto di vista dimensionale, Reggello e Gambassi Terme. Come si vede, si tratta di fenomeni che, pur verificatisi in aree fortemente storicizzate, seguono canoni di formazione morfologica analoghi a quelli presenti nel resto dell’Europa ed in gran parte del pianeta. C’è

6. La conurbazione fiorentina mostra i processi di superamento dei limiti tipici della categoria A) Infatti l’accrescimento del tessuto urbano, pur avvenendo secondo precise direttrici radiocentriche, si è svolto, nella fase successiva a quelle antiche e otto-novecentesca, in assenza di un vero disegno urbano.

da notare che il tipo di produzione presente nei comuni della Provincia è legato alla costruzione di grandi edifici, i cosiddetti “capannoni”, parallelepipedi che coprono a volte ognuno dimensioni di più ettari, ospitano grandi volumi di macchinari e magazzini, e impiegano nella maggior parte dei casi un numero assai limitato di addetti. Questa condizione per certi aspetti paradossale ha influito in modo abnorme sull’ampliamento degli insediamenti, e quindi ne ha stravolto ancora di più ogni possibile vocazione a mantenere un’assetto “figurale”.

Sulla necessità di una ri-Semantizzazione dei limiti. È oggi possibile ridare un senso alle nostre conurbazioni, è oggi possibile riavere un significato dai margini della città? La prima risposta suggerita dalla logica, o quantomeno dal buonsenso è senza ombra di dubbio desolatamente negativa. Bisogna pur tuttavia pensare, e sperare, che per questo tema, legato del resto alle risorse del pianeta ed a criteri di sostenibilità, ci potrebbero essere sviluppi impensati ed imprevedibili, derivanti da quel senso “etico” di sopravvivenza e di rispetto per la natura ed il panorama civile esistente, che, in varia misura, è presente in ognuno di noi. “Saremo addirittura più saggi, se concentreremo i nostri sforzi sulla chiarezza fisica dell’immagine e consentiremo ai significati di svilupparsi senza la nostra guida diretta.”12 Si può quindi auspicare che un recupero, anche parziale, della “figura urbana”, contribuendo ad una ritrovata reidentificazione nel “luogo” e nella “memoria”, possa essere in grado di farci riesaminare il modo di vedere le cose e di riesaminare addirittura il nostro sistema di vita; del resto non era pensabile, quarant’anni fa, l’attenzione ecologica alla natura, ed il rispetto spesso rigoroso nei riguardi della città antica, presente oggi a tutti i livelli, operativi come critici. È stato in fondo proprio allora (la frase del Lynch risale al 1964), che alcuni urbanisti, progettisti e studiosi hanno sentito la necessità di un recupero di chiarezza fisica della città.13 E, a più riprese, nell’arco degli ultimi venti anni, noti operatori hanno proposto una sorta di “risemantizzazione“ dei confini. Domenech e Busquets per il piano di Lérida, Ungers per Salemi, Gregotti per la ristrutturazione dell’area meridionale di Ferrara, chiaramente indicata dall’autore come “nuova porta urbana”, Francesco Venezia per il Piano Regolatore di Lauro, con la riproposizione del “simbolo muro”, hanno dato significativi contributi in questa direzione; si tratta, per lo più, di proposte e di opere cariche di significati portati al limite del simbolico, una sorta in fondo di “risemantizzazione provocatoria”, in reazione all’espansione indifferenziata urbana. La presunta velletarietà di simili proposte, è, a nostro parere superata proprio dalla carica etica che questa voglia di significati e di identità va ricercando; in fondo si tratta sempre di opere che trasmettono contenuti, avvisano, ricordano, e quindi (da “moneo”) si propongono come elementi primari, monumenti del paesaggio urbano. Ed anche per opere minori, frazioni di città, può tornare l’idea traslata, la metafora del margine; esemplare, a questo proposito, la stazione di via dello Statuto, a Firenze, di Toraldo di Francia.

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Proposte didattiche per una riproposizione figurale del limite urbano. Anche nel campo della didattica, esplicata negli ultimi anni nelle scuole di architettura attraverso i Laboratori di Progettazione si può operare nella direzione di ridare un senso, una identità, alle nostre frange periferiche; agli studenti viene proposta una sorta di sfida: provare le proprie capacità nel campo della restituzione di una identità alla città stravolta della fine del millennio. Alcuni laboratori di progettazione del primo anno della Facoltà di Firenze si sono appunto cimentati, pur con l’inesperienza e l’ingenuità dovuta alla inadeguatezza delle prime elementari conoscenze sulla città, sugli edifici, e sui loro caratteri tipologicolinguistici e strutturali, nel difficile campo della riproposizione di un limite; limite che, se non visibile baluardo formale, si poteva presentare di volta in volta come formalizzazione naturale ed edilizia di talune particolari frange della conurbazione, tal’altra come reidentificazione di limiti interni, o ricostituzione di preesistenti margini storicizzati. Ci sembrano particolarmente significativi, sempre restando nell’ambito della valutazione didattica di lavori del primo anno,

7-8. Anche se non è pensabile, oggi, riproporre le mura urbane, si può tuttavia operare nel senso di ridare un significato ai margini. il progetto di Domenech, Cercos e Busquets per la riqualificazione del centro storico di Lerida, e la proposta di un vero e proprio “muro abitato” per il comune di Lauro, da parte di Francesco Venezia, ne sono validi presupposti.

talune proposte per il margine della conurbazione fiorentina lungo il Mugnone, dove la progettazione del verde si pone come filtro graduale tra l’edilizia in linea degli anni 50-60 ed una campagna che ha perso le sue caratteristiche strutturali di ordinato sistema territoriale; tali proposte interessano sia il margine nord (Ponte alla Badia), che quello sud, della conurbazione fiorentina lungo il torrente (il Barco), dove l’immagine semantica di “termine” è particolarmente evidente. D’altra parte talune proposte di risistemazione dei vuoti urbani, come quello per l’area ex-Superpila di piazza Leopoldo, e per la piazza della Costituzione a San Donnino si propongono di ri-semantizzare parti degradate del contesto urbano, a diverse scale, con proposte di larga massima di “limiti interni”. Ancor più significative, a nostro parere, talune proposte di “ricostruzione” della cinta medioevale di Cascina, pensata attraverso la ricostituzione simbolica di parti, che, nella proposta di sistemazione dei vuoti, tenessero presenti, sia dal punto di vista morfologico, che da quello semantico, il carattere linguistico delle preesistenze. È questa una sfida, per gli allievi architetti, che, pensiamo, e ci auguriamo, proseguirà in una pratica professionale tesa alla restituzione della dignità, operando proprio sulla risemantizzazione dei limiti, nel solco della cultura della memoria urbana e del recupero della “immagine figurale della città”. 1 C.Norberg Schulz: “Architettura, presenza, linguaggio e luogo” Skira Ed., Milano 1996, p.192. 2 “...all’arrivo ci si trova davanti al “dentro” del confine o del muro, dopo di che, attraverso un’apertura, si entra nel “dentro” dello spazio di cui il luogo si compone.” ibid. 3 “Nel passato un insediamento consisteva sempre di una totalità caratteristica, che risultava sullo sfondo di un paesaggio coerente, si trattasse di una fattoria, di un villaggio o di una città. Il termine nordico tun (aia), che corrisponde all’inglese town (abitato), indica proprio la demarcazione di un luogo, e ritorna anche nel tedesco Zaun (recinto).” Ibid., p. 31. 4 K. Lynch: “L’immagine della città” Marsilio Ed., Venezia 1964, pp.31-32 5 ibid., p. 113: “Il margine inoltre acquista vigore se è visibile frontalmente da una certa distanza, se contrassegna un vivo gradiente nel carattere dell’area, e se unisce chiaramente le due aree delimitate. 6 P. Sica. “L’immagine della città da Sparta a Las Vegas” Laterza ed., Bari 1970, p. 12.

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7 “L’esperienza religiosa della fondazione è un “mettere in sintonia” (o un “mettere in armonia”) uno spazio, che si rende atipico, con il modello eterno del cosmo.” Ibid., p. 14. 8 K. Lynch, cit., p. 107. 9 Norberg Schulz., cit., p. 31. 10 ibid., p. 33. 11 K. Lynch, cit., p. 27 12 ibid., p. 30. 13 In senso ancor più ampio, riferibile al portato globale della civiltà umana, si esprime Saverio Muratori. “Entro il limite di quella realtà e di quella disciplina (relativa al patrimonio civile n.d.r.) c’è la possibilità, il futuro possibile, la verità morale e la libertà stessa dell’uomo; fuori c’è solo l’errore e lo scacco, l’illusione, l’alienazione e il non senso” da “Studi per una operante storia del territorio”, di S. Muratori, R. Bollati, S. Bollati, G. Marinucci, Roma 1969, cit. in “Saverio Muratori, il pensiero e l’opera”, a cura di G. Cataldi A-Linea Ed., Firenze 1984, p. 113.


9-10. Proposta di parco ed attrezzature per il tempo libero a Ponte alla Badia (studenti Di Carlo e De Gara, Laboratorio di Progettazione Architettonica 1 del 1996-97).

11-12. Proposta di sistemazione delle sponde del Mugnone nell’area del Barco (a sinistra: studenti S. Nencioni, C. Niccolai, E. Pontenani, a destra: S. Nicoli, S. F. Moschen, Laboratorio di Progettazione Architettonica 1 del 1998-99).

13-14. A sinistra: recupero dell’area Ex-Superpila, in P.zza Leopoldo (A. Mignone); a destra: riproposta dell’antico limite medievale: le mura di cascina (F. Novi, Laboratorio di Progettazione Architettonica 1 del 1997-98).

15-16. Piazza dei Caduti a Cascina: riproposizione di elementi di memoria (M. Genovese). Il lavoro dei laboratori è stato coordinato da G. Cavallina, P. Di Nardo, S. Lambardi, M. Masci, D. Ferroni, A. Pastorini.

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About the didactic fundamental problems. The didactic field, the “Distributive Architecture’s Characters” concerns the “how” are made the buildings, a very difficult subject for a second year’s student. Since as isn’t possible to teach everything about all, the didactic must be founded upon two ground leading ideas. The first is the one of regulations, connected for us to two buildings classes, the housing buildings and the show buildings. The second is the one of functionality, strictly tied to safety rules. But it’s not enough to teach How are made the buildings, but Why. And the Why is into the Man, into his behaviour. Today the man isn’t so interesting, also the architecture photographers avoid him in their shots; but a designer with this attitude is an half-architect. The sensations induced in the user by his own senses make depend his space behaviour. In this way noise and silence can become designing keys. Asking to someone how, in his opinion, would have been designed a cimitery, the man replaied: “We should heard a creaking small gate”. So the olfaction, like touch, can show more or less unpleasant sensations. However it’s in the behaviours field we can study the design. And, to become design, the functionality standards must turn into relationship space, materials, dimensions. It’s still the man’s life and the consequence of his needs, that makes the designer understanding how is possible some mistakes could determinate the life of thousand people.

PROGETTARE CON I COMPORTAMENTI Piero Degl’Innocenti Un corso di Caratteri dovrebbe occuparsi di come sono fatti gli edifici, ma nel nuovo ordinamento didattico della Facoltà di Architettura la cosa è piuttosto problematica. La brevità del tempo disponibile e la collocazione della materia al secondo anno rendono difficile rapportarsi con studenti che non sono ancora pronti per un ragionamento che si spinga un po’ oltre la manualistica. A ciò si aggiunga che la materia è ferma ad impostazioni tipo Neufert, e che la ricerca è sopraffatta dalla proliferazione delle normative che coprono ormai ogni aspetto della progettazione - cosa d’altra parte comprensibile in una società sempre più livellata in comportamenti prevedibili e programmati -, e si capirà così la significativa perdita di ruolo di questo insegnamento rispetto ad altri più pienamente progettuali. Gli studenti lo avvertono, e cercano di non perdere tempo per avere le informazioni ritenute necessarie ai loro lavori, informazioni che nei tre anni successivi avranno tutto il tempo per dimenticare, come spesso si dimostra alle tesi. In questo contesto non è pensabile cercare di insegnare tutto di tutto: bisogna puntare su dei concetti-guida e sull’analisi di alcune tipologie. Dopo aver dato in alcune lezioni introduttive una sintesi delle principali norme riguardanti la materia, ho scelto perciò di occuparmi delle residenze e degli edifici per lo spettacolo, che presentano temi d’interesse generale e propongono in modo evidente il rapporto con la cultura dell’utenza. Si ha così anche un’occasione di stimolo per gli studenti ad ampliare il loro orizzonte culturale. Una seconda parte dell’insegnamento riguarda i criteri che danno funzionalità agli edifici, che in fondo altro non sono che aggregati di ambienti e di funzioni. Le logiche di questa aggregazione sono più d’una, e tutte strettamente connesse (ci sarebbe da considerare anche la logica usata per tenere sotto controllo lo stesso processo progettuale; ma qui non ce ne possiamo occupare). Accenniamo per prima alla funzionalità dicendo che negli edifici complessi il raggiungimento delle prestazioni viene perseguito con aggregazioni secondo criteri di compatibilità e di specializzazione, con logiche di tipo binario (collegamentochiusura) e scalare (continuità di livelli). Un altro criterio guida è la sicurezza, vista come protezione o, in prospettiva temporale, come continuità, sia per conservazione di beni materiali che di valori. Un principio di economia governa infine i processi, cercando l’ottimizzazione delle risorse nel tempo, e si esprime nel rapporto costi-benefici e in una certa flessibilità di impianto per poter adattare l’organismo all’evolversi delle situazioni. Ogni edificio nel suo insieme è poi strutturato anche in base a valutazioni di gestibilità e definendo zone di competenza degli addetti preposti alle funzioni. Questo, brevemente, per quanto riguarda le logiche di strutturazione degli aggregati edilizi. Ma per formare nuovi architetti non basta dire come sono fatti gli edifici: bisogna anche cercare di spiegar loro perché. E il perché di tutti i perché sta nell’uomo, nel suo comportamento, nel suo modo di rapportarsi con gli spazi, di percepirli, usarli e viverli. Qui nascono altri problemi, perché sembra proprio che l’uomo oggi non sia tenuto come primo riferimento del progetto, forse perché, come s’è accennato, è così appiattito e prevedibile nei comportamenti che suscita pochi interessi. Anche i fotografi di architettura lo invitano sempre a togliersi cortesemente di mezzo per non sciupare le immagini per le riviste. Quest’assenza è sintomo di un modo di vedere le

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cose, un puntino rosso che prelude al morbillo di progetti fatti per il buon risultato estetico più che per la vita degli uomini. Perciò nel corso ci si sofferma sulle esigenze percettive e relazionali che possono arricchire la progettazione, facendo riflettere sulle implicazioni culturali e sociali di cui si pongono le basi con il progetto, e quindi sull’impatto che esso può avere con la vita quotidiana, con il “vissuto”. Possiamo qui accennare ad alcuni punti su questi temi. Si avverte un senso di estraneità e di freddezza davanti ai progetti che, come dei “salotti buoni”, sono stati fatti essenzialmente per esser visti. Certo la vista è dominante, e spesso riesce a surrogare gli altri sensi, come quando si attribuiscono ai colori sensazioni di caldo o freddo; ma per creare spazi stimolanti bisognerebbe attivare più risorse percettive possibili, facendo attenzione ai corretti dimensionamenti perché gli spazi dilatati generano una rarefazione delle intensità percettive. Spesso ad esempio si trascura di progettare per o con l’udito, che è un forte complemento della vista. Possiamo intuire con discreta precisione le dimensioni di un ambiente anche al buio in funzione del tempo di riverberazione: un cieco inglese del ’700 sbalordiva per questo, e comunque tutti saprebbero distinguere se una stanza è piccola o grande, arredata o vuota, e anche rivestita in ceramica o in velluti. Possiamo dunque arricchire l’esperienza visiva. Ritrovare infatti in una chiesa la sensazione acustica di un hangar, o in un asilo quella di una corsia d’ospedale sono risultati non appropriati che confondono l’utenza e l’inducono a comportamenti negativi, perché le esperienze sensoriali condizionano i comportamenti. Molte persone ad esempio parlano più piano entrando in un ambiente nel quale le loro parole risuonerebbero; e ricordo che cosa avvenne in un placido museo olandese immerso nel verde quando lo attraversò una signora che esprimeva i suoi commenti con sonorità mediterranee. Un rumore può anche diventare la chiave di un progetto. Degli studenti intervistarono un signore su come si doveva progettare un cimitero. “Si dovrebbe sentir cigolare un cancellino entrando”. Una risposta molto istruttiva. Per un altro verso, i difetti nell’isolamento acustico favoriscono le violazioni della privacy, che è invece più facilmente controllabile sul piano visivo. Di notte poi tutte le difese saltano per la mancanza dei rumori di fondo, causando disastri acustici, specie nei condomini. Ninne nanne fatte di abluzioni igieniche, gorgoglii di scarichi e viavai di ascensori rendono sgradevole la vita di vicinato, quando non capita di peggio, come a una giovane signora che di notte faceva involontariamente sapere anche a chi stava a due piani di distanza quando perdeva il controllo di sé. Il risultato, dal punto di vista distributivo, fu in quel caso che alcuni condomini spostarono la camera dei bambini. Anche l’olfatto genera stimoli comportamentali fortissimi, soprattutto in negativo. La nostra vita sociale si fonda sulla rimozione dell’olfatto, come dimostrano i corpi sudati in ascensore e le abitazioni impregnate di odori, particolarmente sgradevoli in cucine e bagni privi di aerazione diretta. Una corretta aerazione, cancellando le tracce olfattive, è un efficace azzeratore di allarmi comportamentali, a riprova dell’importanza del ricambio d’aria: sotto questo aspetto le imitazioni di casa Yano dovrebbero porre più di un problema. Per via tattile si trasmettono sensazioni altrettanto coinvolgenti; si pensi alle vibrazioni, ai bassi profondi, all’appoggio dei piedi sul piano di calpestio, e la stessa reazione epidermica “a pelle d’oca”. Una sensazione tattile può equivalere al calore, e dare messaggi di comfort e intimità o di freddo e repulsione. È arduo creare messaggi di accoglienza con materiali “freddi” o con colori equivalenti. I teatri hanno le poltrone di velluto, e se il velluto è rosso l’effetto equivale al calore del ventre materno. I bambini sono tattili e tutti restiamo un po’ bambini: perciò grandi architetti come Wright hanno largamente usato i valori tattili cari a Berenson. Alle percezioni si deve unire una attenta valutazione delle relazioni interpersonali e dei comportamenti delle persone. È fondamentale educare ad osservarli e a relazionarli con gli spazi, a cercare gli stimoli e i segni che li generano e ad individuare i codici usati dai vari tipi di utenza. La maturazione del progettista va insieme alla capacità di collegare i segni che traccia sulla carta con il vissuto - e cioè con le sensazioni, i codici di lettura e i comportamenti che probabilmente avrà l’utenza negli spazi che materializzeranno quei segni - e ad orientare di conseguenza le proprie scelte di progetto non solo sulla base di valori formali e percettivi, ma anche comportamentali. Chi prende per valori dei surrogati del tutto soggettivi o altri valori che fanno parte di codici di riferimento estranei al contesto, crea spazi non comunicativi ed alienanti. Bisogna quindi educare a pensare mentre si progetta alle situazioni che si faranno vivere. Di conseguenza è molto importante utilizzare con senso critico le riviste (sirene che raramente propongono modelli di vita adatti ad altri contesti) e i manuali (miraggi

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Il complesso rapporto che si viene a stabilire, nell’uso quotidiano di un edificio, tra fattori della distribuzione e comportamenti indotti nell’utenza, è stato studiato da Francesca Lamacchia per la biblioteca di Viipuri progettata da Alvar Aalto. Individuati i “meccanismi di selezione” (costituiti da nodi di controllo e di passaggio) posti lungo i percorsi per dare accesso ordinato alle varie zone interne (“territori” funzionali o di gestione), l’allieva ha valutato i differenziali comportamentali che la logica distributiva seguita dal progettista ha creato tra situazioni e ambienti contigui. (Dall’alto figg. 1-5) Fig. 1 - Meccanismi distributivi di selezione. Si definisce selezione una sequenza ordinata di condizioni per la quale l’accesso dell’utenza ad una successione di zone è soggetto ad una serie di controlli di passaggio previsti in corrispondenza dei nodi. I meccanismi distributivi di selezione seguono le fasi del movimento dell’utenza. Fig. 2 - Accessibilità degli spazi. Fig. 3 - Analisi della rigidezza comportamentale dell’utenza negli spazi serviti. Fig. 4 - Analisi della rigidezza comportamentale dell’utenza negli spazi serventi. Il livello comportamentale, previsto in fase di progetto per ciascun ambiente, è dato dall’equilibrio tra le norme necessarie e vincolanti e l’attenzione del progettista nei confronti dell’inerzia culturale e comportamentale degli utenti. Fig. 5 - Analisi del differenziale di rigidezza comportamentale fra spazi serviti e spazi serventi. (L’analisi fa riferimento alla direzione e al verso del passaggio da un ambiente servente ad uno servito; per la delimitazione degli ambienti si veda la legenda della scheda Analisi comportamentale dell’utenza). Il differenziale di rigidezza è definito come la variazione di grado della stessa nel passaggio da un ambiente ad un altro. Esso può risultare: a) nullo, se si verifica un passaggio tra due ambienti di uguale grado di rigidezza; b) positivo, se si verifica un passaggio da un ambiente ad un altro di minore grado di rigidezza; c) negativo, se si verifica un passaggio da un ambiente ad un altro di maggiore grado di rigidezza. L’analisi del differenziale di rigidezza comportamentale fra spazi serviti e serventi rivela: 1) la presenza prevalente di punti in cui il differenziale è nullo o negativo, il che significa che la localizzazione degli spazi serventi è pertinente al funzionamento dell’edificio; 2) la presenza di un unico punto, a, in cui il differenziale è positivo, il che significa che si passa da un ambiente servito con minore rigidezza comportamentale (sala di consultazione), rispetto a quello servente (collegamento verticale a chiocciola). Questo dato, apparentemente anomalo perché unico rispetto agli altri, ben si comprenderebbe se si considerasse che la sala di consultazione è servita da due collegamenti verticali e, perciò, pur rimanedo invariata la direzione del passaggio, il verso è duplice. Infatti se considerassimo il verso opposto a quello preso in partenza per l’analisi, il differenziale di rigidezza comportamentale risulterebbe negativo; 3) la presenza di quattro punti b,c,d,e, in cui il differenziale è altamente negativo ovvero vi è uno scarto di due gradi di rigidezza comportamentale; per ovviare a questo inconveniente, occorrerebbe potenziare l’insonorizzazione dell’ambiente servito o inserirvi un filtro che svolga la funzione di ‘zona cuscinetto’ fra i due ambienti. Questo accentuato scarto di differenziale potrebbe essere accettabile nel punto d, poiché l’ingresso si immette direttamente in un parco, in cui l’inquinamento acustico è di gran lunga inferiore a quello della città, e nel punto e, poiché il passaggio di rigidezza comportamentale avviene fra due ambienti serventi.

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in cui tutti pensano di trovare le soluzioni dei propri problemi). Un inquadramento di questi aspetti della progettazione è stato dato da E.T. Hall nei suoi studi di prossemica, disciplina che ci guida ad analizzare il rapporto tra spazi, codici di lettura e comportamenti indotti. Visualizzando i comportamenti si può studiarne le matrici spaziali. Con foto scattate ad intervalli regolari e in situazioni confrontabili, o addirittura con la tecnica della candid camera alcuni studenti hanno documentato situazioni prossemiche e comportamentali nelle sale di attesa, sui treni, per la strada, a teatro, alle casse del supermercato o sulle stesse tribune degli stadi dove si formano le curve isovisuali descritte nei manuali. Una studentessa si accorse mentre guardava un serial in tv che i personaggi seguivano precise regole prossemiche di territori e distanze, e le documentò. Ad un altro livello artistico, altri studenti notarono nel “Grande dittatore” di Chaplin gli accorgimenti prossemici messi in atto da Hinkel per dominare l’amico-avversario Napoloni (ed è inquietante scoprire che Hitler ricorreva davvero a certi accorgimenti). Come abbiamo accennato per le improprietà olfattive, quando le distanze saltano, salta un altro fondamento del nostro comportamento sociale. Una studentessa analizzò il disagio provocatole da un parcheggio fuori mano nelle sere brumose all’uscita dal lavoro, e un’altra ancora raccontò l’angoscia provata nel rimaner chiusa dentro un cimitero. In entrambi i casi, alla radice dei comportamenti c’era una precisa situazione spaziale che comportava la perdita del contatto sociale. I criteri di funzionalità, sicurezza, economia ecc. visti sopra, per diventare architettura devono farsi spazi, cioè materiali, relazioni e, appunto, dimensioni. È interessante studiare i modi in cui si giunge ai dimensionamenti di un progetto. Tralasciamo quelli psicologici e percettivi, per i quali bisognerebbe allargare troppo il discorso. Per i dimensionamenti fisici di oggetti e corpi si ricorre all’esperienza, ai manuali, alle normative. Per il dimensionamento di movimenti e di eventi bisogna rifarsi invece al concetto di portata (es.: la sezione di un passaggio) o a valutazioni di tipo probabilistico (es.: un ambiente per accogliere persone). Nel corso si sono portati vari esempi, come la lunghezza di un banco bar per il pubblico dell’intervallo di uno spettacolo, il numero delle porte di un casello autostradale, il raggio di influenza di un bagno in una casa di riposo per anziani, la distanza mamma-bambino in un giardino pubblico. Dimensionare per il progettista vuol dire però anche farsi un’idea di fin dove può giungere in concreto l’impatto di certe scelte di progetto, per poterne definire meglio una graduatoria di importanza le une rispetto ad altre. È fondamentale conoscere l’impatto sul vissuto che può avere una previsione di progetto, anche per valutare la sua importanza nella gerarchia delle scelte. Uno scalino sbagliato può essere in sé un piccolo errore, ma se ogni giorno procura una storta a qualcuno è un grande errore. Un discorso analogo vale naturalmente anche per uno scalino che una volta tanto può causare una caduta grave. Dovendo cercar di sapere quale e quanta parte dell’esistenza delle persone sarà condizionata dagli effetti delle previsioni progettuali, è necessario formarsi una casistica: è cioè utile l’esperienza quotidiana e più in generale la conoscenza della storia per acquisire un dimensionamento di fenomeni non sempre tutti esprimibili in grandezze fisiche, ma anche psicologiche, probabilistiche, culturali, politiche. I dimensionamenti possono rappresentare infatti anche la proiezione di modelli di vita e di comportamento, e essere quindi diretta espressione di speranze, desideri, logiche di valori. Dal trullo al Vittoriale, gli spazi abitativi offrono al riguardo un amplissimo panorama, ed esercitandosi un po’ si può apprezzare la diffusione sociale di certi comportamenti. Un esempio: a Pompei c’era un lupanare ogni 400 abitanti; in una città come Firenze oggi c’è un bar ogni 1100 abitanti, comprendendo nel conteggio anche latterie, pasticcerie e vendite di tabacchi. È bene insomma far capire ai futuri progettisti che, nei limiti delle possibilità, dovranno tener conto dei modelli di vita. Anche se chi progetta non può fare miracoli, credo sia importante insegnare a individuare e a tener conto di certe richieste, e a cercare di soddisfarle anche anteponendole a qualche ambizione personale. Allargando il concetto, diciamo che è necessario il rispetto dei diritti degli utenti, siano singoli o comunità. Come accade per i diritti del malato, del cittadino ecc., perché infatti non dovremmo considerare un diritto anche la vivibilità degli spazi? Tutti hanno diritto a vivere in case non anonime (ricordate Mon oncle di Jacques Tati?), in spazi accoglienti (perché si progettano edifici pubblici come labirinti?), secondo appropriate relazioni sociali e con il rispetto delle identità culturali. Il progettista che non tiene conto di questo genera frustrazione e accumulo di negatività, e innesca il degrado di periferie e quartieri. Il discorso qui si farebbe lungo, perché questi diritti a un vivere “civile” sono tutti da definire (da chi e come?), e poi sconfinano

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Figg. 7-9 - (in qesta e nella pagina a fianco) Analizzando la distribuzione di un edificio, si vede che le parti che lo compongono sono aggregate secondo criteri di affinità (funzionale, di gestione ecc.) e per livelli di complessità crescente. Graficamente ciò si può rappresentare partendo dalle unità spazio-funzionali elementari, e procedendo poi con una serie di successivi raggruppamenti per nuclei omogenei di scalarità crescente, analogamente a come si fa con la semplificazione delle espressioni algebriche. In genere si giunge ad una struttura di tipo duale (zona giorno-zona notte, addetti-non addetti, pubblico-privato). Questa elaborazione è di Flavio Di Nauta.

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in una visione complessiva della società facendo emergere il ruolo “politico” del progettista. Comunque, essi si traducono sicuramente in un’infinità di suggerimenti che arricchisce il progetto: pensiamo, che so, al ruolo che possono assumere le fasce marginali di utenza (bambini, anziani, invalidi anche temporanei; o, in casi più frequenti di quanto si pensi, i disadattati, gli affetti da disagi mentali, i “diversi” per etnia o altro) o alla valutazione di esigenze che la gente non sa esprimere per incapacità di linguaggio o per insufficiente presa di coscienza. Ci sarebbe poi anche quello che potremmo chiamare un diritto al futuro, che può tradursi in valutazioni squisitamente economiche (diritto ad un giusto investimento dei propri soldi, ma si potrebbero anche fare esempi di progetti che hanno avuto forti conseguenze sul piano sociale e dell’occupazione), oppure - e non sembri eccessivo - in questioni di vera e propria sopravvivenza. Comunque, cercando di valutare l’impatto dell’insensibilità progettuale si intravedono dimensioni impressionanti: basti pensare a quanta esistenza se ne va condizionata da scelte inutili o banali, o che sembrano scaturite da menti perverse. Un Fantozzi qualunque, ad esempio, le può subire per 60-70000 ore, che è il tempo della sua vita di impiegato passato in ufficio. È facile farsi un’idea della vastità e della profondità di certi desideri. Gli utenti parlano attraverso il mercato, e i prezzi degli immobili rurali sono la misura di quanto poco piacciono le città che costruiamo. In un corso abbiamo fatto caso agli spot in tv come indicatori dei desideri del pubblico. Gli spazi domestici in cui si ambientano storie di saponi, spaghetti, merendine e rotoli di carta igienica rivelano i desideri delle masse di consumatori. Tradotte nella banalità del progettare corrente, fatto di condomini e di cooperative, sono pressanti richieste di verde, natura, luce, vedute, tranquillità, intimità, identità, personalizzazione. Desideri tanto vasti da riuscire a condizionare gli stessi strumenti di condizionamento di massa. In conclusione, perciò, mi sembra ancora importante l’insegnamento dei Caratteri. In fondo, anche se tutti amiamo il bello, con il brutto si può convivere e al brutto ci si può anche affezionare (ricordate “La spartizione” di Piero Chiara?), altrimenti non si spiegherebbe come mai tante città del mondo, grandi e piccole, non siano state abbandonate da un pezzo. Ma vivere dentro spazi mal progettati, dove la distribuzione non ha senso, dove le dimensioni non permettono di farci quel che vorremmo e dove non esistono le giuste possibilità di relazione è un tormento continuo che alla fine può diventare insopportabile. La mitica “misura d’uomo” di cui sempre si parla, che cos’altro può essere se non una risposta data con il progetto a tante giuste richieste?

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Figg. 10-13 - (in alto) Claudia Ferrari ha studiato il sistema dei percorsi di un edificio pubblico (una scuola), individuando gli elementi che lo compongono e studiandone quindi il funzionamento con criteri simili a quelli usati per studiare la dinamica di un fluido in un condotto. In sostanza, ogni area viene servita da una propria diramazione e passando da un apposito filtro, entrambi appositamente dimensionati; ma se il sistema viene verificato anche in condizioni di moto inverso, come è necessario, si evidenziano i punti critici nella progettazione.

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Figg. 14-19 – (sotto) Nei corsi non sono mancate occasioni per proporre un diverso e piÚ divertente approccio alle questioni distributive. Qui vediamo come in alcune tavole del lavoro di un allievo particolarmente dotato come Paolo Manganaro si sia riusciti ad illustrare con la tecnica del fumetto dei concetti fondamentali (nel caso, quelli della progettazione delle vie di esodo), coinvolgendo con garbo e sense of humour anche il sottoscritto.

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Considerations about the current nature, the appeal and the attitudes of the architecture student, about his behaviour and understanding of the space, that is, today, sensorial and visual. We think correct, as didactical method, let the student gain an his own indipendence, free by too much tying programmatic guidelines of the proffessorship, who has instead the task of outline a general path, giving if ever the chance to the learner of progressing among different worlds and fields, premise this of what will be the future, complex professional behaviour. It’s provided, for the first year, a step by step passage among simple themes, who however allow the variation from the “room” to the “town”; for the second year will be right the acquisition of a housing types knowledge, and, therefore, of the itself cultural area, fit for students themselves; at the third year the quality step will aim to that “professional” comprehension of problems variety and variability which marks the “others” beahaviour in the space context. This research, illustrated by well-thought images of course results, has been carried on in three years in a row, with the coordination of “Distributional Characters” course.

UN ITINERARIO ATTRAVERSO I LABORATORI DI PROGETTAZIONE ARCHITETTONICA I - II - III Maurizio De Marco La mia attenzione progettuale e didattica è prevalentemente di tipo pedagogico. A me interessa non tanto, o non solo, trasferire contenuti o tecniche, quanto coinvolgere ogni studente nella costruzione di se stesso, attraverso l’acquisizione di consapevolezza di sé e dello spazio, a partire dal primo anno di corso, per una professione che non è al momento conoscibile, né ipotizzabile nell’immediato futuro o a medio termine. Dal momento che il nostro settore professionale è oggi ancora più aperto e indefinito di ieri, anche se può sembrare utopia o eresia, pensiamo sia legittimo sperimentare modalità pedagogiche, oltre a quelle propriamente didattiche, tese a lavorare anche sui modi di formazione e non limitarsi all’informazione. Al fondo di tutto, e come obiettivo principale, è la necessità di offrire agli studenti gli strumenti di verifica della scelta della facoltà. C’è quindi un imprescindibile compito pedagogico: insegnare a sapersi guardare dentro, ad esaminare le proprie caratteristiche, i limiti e principalmente riconoscere prima possibile se si è in possesso della capacità di adattamento-risposta del progetto al mutare delle condizioni e dei riferimenti rispetto ai quali si effettuano le scelte. Per questo ho provato, in modo molto empirico, a rompere diaframmi per rendere diretto e biunivoco il rapporto tra insegnante e studente. Tale attenzione potrebbe farci ricorrere a passaggi didattici variati quel poco che inneschi una maggior disponibilità all’ascolto critico da parte degli allievi. Ho sperimentato che è importante intanto conoscere gli studenti personalmente. Scopriamo allora che mentre la loro provenienza scolastica poco ci può dire, più significative sono le motivazioni che hanno indotto ognuno di loro a scegliere la facoltà, ma maggior significato hanno le descrizioni dei propri interessi personali che possono fornire un quadro anche sommario del microcosmo di persone che ci troviamo di fronte. Rispetto alle mie esperienze didattiche di anni precedenti, gli studenti seguiti al primo anno (a.a.1996-97) appartengono ad una generazione che presenta più marcate caratteristiche di dipendenza dal docente, unite ad un più accentuato realismo, ad una maggiore concretezza. La loro formazione culturale è musicale, è sonora oltreché visiva. Al primo anno attraverso l’ascolto, per esempio, di brani musicali, i concetti di derivazione, continuità, trasformazione, trovano un uditorio più attento, ma soprattutto più capace di cogliere le interferenze tra produzioni culturali derivabili da campi diversi e, ciò che più conta, ad incuriosire circa le potenzialità di leggere ambiti differenti: aprirsi per esempio a letture comparate del contesto territoriale e antropologico, morfologico e sociale, tipologico e tecnologico, e così via, per iniziare ad esplorare gradualmente il processo progettuale. È l’ouverture che provoca l’intensità dell’attenzione.

In base alla finalità scelta, per introdurre progressivamente gli studenti alla progettazione è importante partire dall’elaborazione delle loro esperienze personali vissute e acquisite o lette nei comportamenti altrui come specchio dei propri. Nel laboratorio ho dunque proposto più contenuti come strumento di mobilitazione delle loro coscienze che di sviluppo del loro livello conoscitivo, per cui alla fine del corso non dovrebbero più domandare: “Che cosa devo fare?”, ma: “Ho effettuato scelte

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in base a questi criteri, riferendomi ai seguenti parametri; è coerente il risultato progettuale?”. In tale prospettiva il docente, a mio avviso, nelle istruzioni progettuali dovrebbe limitarsi a indicare tracce di percorso da seguire, lasciando agli studenti margini di scelta sempre più controllati. Ovviamente ogni scelta effettuata costituirà una condizione per le successive, da parte dello studente. L’eccessiva rigidità di un insegnamento può invece negare il processo di autocritica e maturazione necessario a costruire professionisti in grado di modulare il comportamento nelle infinite e imprevedibili varianti attive nel nostro campo professionale. Un architetto dovrà navigare non solo all’interno di normative urbanistiche ed edilizie, ma anche entro programmi economici, piani urbanistici attuativi, anche con contrattazione e partecipazione dell’utenza, proposte di riattribuzione di senso a luoghi urbani, verifiche di compatibilità ambientale degli interventi, percorsi ecologici, temi di bioarchitettura, progetti di fattibilità a varie scale, ecc. Sono personalmente convinto che sia possibile esimersi dall’indicar loro, almeno al primo anno, come altri professionisti progettano. Si rischia di introdurre un’impronta (imprinting) che può condizionare uno studente alle prime armi. Sono caso mai orientato a far loro esplorare la derivazione, anche da parte dei migliori progettisti, da una condizione antropologica di base che sarebbe importante evidenziare, per stabilire il debito contratto dai contemporanei famosi nei confronti di una cultura antropica spontanea, anonima e determinante, più assimilabile dalle esperienze degli studenti.

È vero che, ad un primo anno, far sviluppare un tema a partire dalle conoscenze proprie e dalla ridotta esperienza disciplinare è un rischio, ma è anche un tentativo di sperimentare un insegnamento che sollecita, cerca di mobilitare reazioni a largo spettro, per far esprimere al meglio la varietà, le differenti vie per approdare al progetto attraverso procedimenti ‘trasversali’. Come testimoniano i risultati, si attivano itinerari progettuali nei quali non rimane il ‘segno’ del docente. I progetti vengono costruiti insieme, ma comportano le responsabilità personali degli studenti ed esprimono il loro modo di porsi nei confronti del proprio processo mentale. La strategia dell’iter pedagogico complessivo teso a tali obiettivi può esser così sintetizzata. Gli studenti al primo anno devono formarsi una valutazione sulle proprie capacità di attraversare una gradualità di passaggi semplici, sempre meglio conosciuti, cercandone le connessioni progettuali, a partire dagli spazi vissuti personalmente, affrontando livelli di progettazione scalarmente differenziati: dalla stanza alla città (arredo urbano). Per loro sono fondamentali sia l’osservazione, sia l’autoanalisi, sia l’iniziazione alla pratica di concetti quali la flessibilità e il pendolarismo mentale, vuoi per quanto concerne la lettura/interpretazione di un contesto, vuoi per quanto riguarda l’assimilazione, sia pure embrionale, del feed-back progettuale, principalmente nei passaggi di scala. Al secondo anno essi proseguono la formazione acquisendo l’esperienza abitativa personale e dei familiari, osservandone i comportamenti e gli spazi connessi, nella propria abitazione. Successivamente ricostruiscono, riconquistandoli sulla base della loro esperienza, tipi edilizi, scoprendo l’aderenza o meno degli stessi ai tipi ‘canonici’ precedenti. In seguito modificano i tipi che ogni studente ha progettato adattandoli, a piccoli gruppi, al progetto unitario di un tessuto edilizio che esprima una cultura abitativa, da riconoscere come comune a loro/noi e agli altri che condividono esigenze di base, comportamenti e affinità culturali interagenti con lo spazio. In tal modo essi si appropriano, sperimentandolo, del valore pratico, esecutivo, di concetti quali derivazione e coniugazione tra storia e progetto; scoprono, ricostruendoli personalmente, che spazi da loro abitati sono spiegabili storicamente come esiti di processi civili edilizi, caratterizzanti aree con determinate culture. Essi imparano, attraverso esercitazioni accademiche, la responsabilità dell’appartenenza alla propria cultura edilizia; ad essere parte attiva, direttamente coinvolgibile nella rigenerazione di spazi di cui apprezzano provenienza e immanenza. Al terzo anno la processualità compie un salto a livello di maggior complessità di tipo ‘professionale’. Si tratta di formare capacità reattive a condizioni di difficoltà crescenti, contemporaneamente al loro combinarsi e intersecarsi. Gli ‘altri’, variabile sconosciuta, sono da simulare, rintracciando presunte analogie con le proprie esperienze vissute. I comportamenti nelle loro complessità, risultano in qualche modo derivati dall’organizzazione dello spazio. Da qui un ulteriore livello di responsabilità: il tentativo di immedesimazione svolto anche con interviste, racconti, letture. L’itinerario che sommariamente viene qui presentato è solo una delle possibili esperienze conducibili all’interno dei primi tre

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laboratori di progettazione architettonica della Facoltà. Il tracciato seguito è stato l’occasione per verificare se con una conduzione triennale continua, essendo stato il sottoscritto l’anello di collegamento tra i laboratori del primo, del secondo e del terzo anno, si sarebbero ottenuti risultati soddisfacenti o meno. Al primo e al secondo anno lo scrivente è stato responsabile dei laboratori. Al secondo anno è iniziato il coordinamento con l’arch. Degl’Innocenti, titolare del modulo di Caratteri tipologici e morfologici dell’architettura. Al terzo anno il coordinamento è avvenuto tra lo stesso, titolare del laboratorio, e il sottoscritto in qualità di titolare del modulo di Analisi della morfologia urbana e delle tipologie edilizie. Al primo e al secondo anno sono stati seguiti gli stessi studenti; al terzo, per l’attribuzione alfabetica diversa, solo una parte di loro ha proseguito il percorso. I nostri obiettivi hanno coinciso, nei limiti possibili, con la prassi di attivare interazioni, in modo da stimolare il coinvolgimento attivo e responsabile degli studenti, condizione fondamentale dell’insegnamento/apprendimento a progettare.

Nell’iniziare l’itinerario didattico, sono tornato a pensare al tema abitazione, che si presta ad essere al primo anno sia un’occasione per imparare a guardare, sia per guardarsi dentro. Osservare la propria camera, forse prima usata passivamente, è occasione per scoprire le qualità, i messaggi, i significati di un piccolo luogo, dove si svolgono distrattamente azioni abitudinarie, ma è anche spunto per riflettere sui caratteri, i comportamenti, le proprietà culturali di chi abita e vive quel luogo. Se lo spazio presenta alcuni inconvenienti o viene sottoposto a micromodifiche, come lo spostamento di una porta, di una finestra, le risposte circuitano osservazione, acquisizione di inconvenienti, miglioramento degli stessi. Quindi gli studenti del primo anno scoprono che l’osservazione di un luogo è fondamentale per una qualunque trasformazione del luogo, a partire dalla stanza con la quale hanno maggior dimestichezza. L’aula con i tavoli, gli sgabelli e i loro occupanti possono fornire un ottimo osservatorio di sé, letto nell’altro: posizione, ingombri, dimensioni, movimenti, ostacoli, necessità. L’introduzione dell’ergonomia come disciplina che spiega, a partire dalle dimensioni antropometriche, dai comportamenti, i modi di adattare l’ambiente in generale e gli strumenti del lavoro all’uomo è un altro passaggio importante per l’esercizio critico. Anche qui, notati gli inconvenienti o i limiti, gli ostacoli, è utile attivarsi per suggerire modifiche agli arredi o alla posizione del nostro corpo. Ma il passaggio dall’esame della propria camera (e sommariamente dell’abitazione) all’aula universitaria offre altri spunti importanti. La lettura del percorso casa-facoltà è indubbiamente un’altra occasione per estendere la crescita personale del saper vedere, leggere i caratteri dei luoghi, iniziare l’approccio con il contesto in modo progressivo, fino ad iniziare una prima esperienza urbana. Principio fondamentale sviluppabile attraverso questa esercitazione è il concetto di scala mentale da usare nel processo di conoscenza dello spazio, procedendo da una stanza, all’edificio, alla strada, alla città1.

Seguendo l’itinerario concettuale sopra descritto l’esperienza è proseguita nel Laboratorio di progettazione architettonica II, in tandem con l’arch. Degl’Innocenti, affrontando due temi: la progettazione di tipi edilizi a partire dal proprio vissuto; la progettazione di un tessuto edilizio di case a schiera in un’area di Brozzi a Firenze. A partire sempre dalla propria abitazione sono stati rintracciati i percorsi e le funzioni interne, in particolare della cucina e del bagno. Come al primo anno sono state condotte dagli studenti esercitazioni preliminari, quali piccole trasformazioni della propria cucina e del proprio bagno. Anche in questo caso, dopo aver esaminato i concetti base del tipo, gli studenti sono stati invitati a progettare una casa a schiera e una casa in linea, come interferenza tra questi tipi e le loro esperienze abitative contemporanee. Sono state quindi discusse le proposte e insieme le diversità delle varie case a schiera presentate. Sono state estrapolate alcune costanti strutturali e distributive. Alla fine si sono rintracciati i caratteri comuni emersi. Le differenze di passo, di profondità, di dotazione di servizi sono state utili per costruire una batteria di abitazioni diverse, che dovevano integrarsi costringendo gli studenti a cambiamenti e adeguamenti reciproci. Dal punto di vista pedagogico gli obiettivi consistevano nel penetrare meglio lo spazio abitativo in qualità di progettisti di residenze per ‘altri’, a partire dalle proprie esperienze di abitanti. Si è constatato che, una volta assimilati i caratteri dei tipi vigenti nell’area, è mancata – nella maggioranza dei casi per motivi di tempo – la capacità di modulazione tra esperienza, conoscenza dei caratteri del luogo ed evoluzione del progetto2.

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LABORATORI DI PROGETTAZIONE ARCHITETTONICA I

1 Mimma Morelli – Attrezzature di gioco per bambini in piazza Tasso a Firenze. Allestire un’area per giuochi è stata l’occasione per recuperare dalla memoria immagini archetipiche: l’attraversamento, la struttura elementare della capanna, che trovano nel momento ludico multiformi e imprevedibili esperienze. 1

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2 Enrico Marradini – Arredamento di piazza Tasso. Il ridisegno complessivo della piazza con l’inserimento di valori figurativi simbolici e la nuova conformazione fulcrano la loro qualità in atti quotidiani, ergonomicamente studiati con l’intento di suggerirli e al tempo stesso agevolarli. Il ricorso a materiali appropriati al luogo circuita funzionalità, memoria e immaginazione.

3 Marco Montagnani – Ridisegno e arredo di piazza Tasso. Dopo aver delineato in gruppo un proprio progetto di ridisegno complessivo della piazza lo studente ha approfondito uno specifico tema, riguardante in tal caso aree di sosta e di riposo.

4 Annalisa Moles – Studio di pensilina per attesa autobus, con attrezzature e arredi in piazza Tasso. La ricucitura, sia pur minimale, del varco esistente nelle mura medioevali è stata occasione per un progetto d’inserimento di un nuovo intervento in una preesistenza storica da riattivare all’uso contemporaneo.

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5 Angelo Milano – Studio di una pensilina in piazza Tasso. Lo studio di una semplice pensilina per l’attesa degli autobus prende spunto dalla scelta di ristabilire un trasparente ma attivo completamento della piazza, ricostituendo un simulacro confinario, tenue memoria delle preesistenti mura. Funzione utile e logisticamente appropriata la pensilina esprime gerarchie che connotano un ‘ingresso’ alla piazza, a sua volta citazione di un precedente accesso daziario.

In questi progetti, oltre a leggere la varietà dei temi e delle risposte, si precisano mentalità progettuali fondamentalmente consapevoli del rispetto dell’esistente, assunto come suggeritore di scelte funzionali, formali, simboliche. L’interesse per i materiali nella preoccupazione di integrarsi al contesto e di inserire con umiltà i segni dell’intervento contemporaneo significano una maturazione del processo mentale e del progetto, tenendo conto dell’esperienza di un primo anno.

1 Il metodo, oltreché attivarsi attraverso scambi personali tra docente e studenti, singoli o in piccoli gruppi, è fulcrato sui rapporti tra studenti. E questo vale per tutto l’itinerario triennale compiuto. In proposito, al primo anno, la diversa provenienza scolastica induce apporti diversi e complementari all’interno dei gruppi. Nel processo di acquisizione di strumenti critici è inoltre opportuno coinvolgere gli studenti nell’esame e nel giudizio dei lavori altrui, perché è anche dal lavoro degli altri che, con il concorso del docente, può derivare la correzione di errori propri. Ma c’è di più: questa integrazione non facile di contributi è un buon viatico per esperienze di compartecipazione ad un itinerario che è personale e collegiale ad un tempo, esplorazione e pratica di una futura collaborazione a competenze integrabili nella professione. È inoltre un allenamento proficuo per il docente al quale spetta l’oneroso compito di decrittare ed estrarre dai limiti tecnici e di rappresentazione delle proposte degli allievi i sottostanti messaggi inespressi o incompiuti, quando sono in nuce. È un esercizio - difficile e faticoso - di interpretazione senza intromissione. Alle prime esercitazioni di rilievo, osservazione e restituzione dello spazio abitato, dalla propria stanza al percorso abitazione-facoltà seguono gli esiti progettuali conclusivi dell’esperienza del laboratorio.

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LABORATORI DI PROGETTAZIONE ARCHITETTONICA II

1 Lucia Mosconi - Riprogettazione di cucina e bagno. Le modifiche e le varianti introducono il tema della trasformazione, più o meno leggera, che consente maggior razionalità d’uso, ma principalmente dimostra che ogni spazio può essere risorsa di un proprio miglioramento. Anche piccoli cambiamenti in un vano di ridotte dimensioni costituiscono un’iniziale palestra di allenamento per il progetto di modificazione dell’esistente. 2 Simona Morabito – Studio del contesto esistente a Brozzi, periferia di Firenze. L’osservazione del luogo, con i caratteri specifici dell’area, del tessuto e dei tipi edilizi, insieme al comportamento degli abitanti, costituisce la partenza imprescindibile di ogni successivo atto progettuale. 3 Erika Mora – Studio del contesto e progetto di tipi edilizi. Dall’esame del tessuto e dei tipi edilizi rimangono impronte coniugabili con le attuali necessità igieniche e funzionali a modi d’uso mutati; l’interesse per l’ambiente consiglia un’attenzione alla proposta del nuovo intervento.

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4 Roberta Maccioni, Gianna Maurri, Valentina Melloni, Mirco Montomoli – Progettazione di un nuovo tessuto nell’area studiata a Brozzi. Si sono formati piccoli gruppi che hanno progettato più varianti di tessuto edilizio, combinando i tipi riprogettati da ogni studente. 5 Tamara Marzari, Francesca Millucci, Pietro Mocali, Simona Morabito, Lucia Mosconi – Progetto di un nuovo tessuto edilizio a Brozzi. Pur seguendo regole comuni ogni gruppo ha approntato progetti variamente rispondenti ai caratteri del contesto e recuperanti i tipi edilizi preesistenti.

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6 Giulio Matteini – Progetto di microattrezzatura urbana. Migliori occasioni di libertà sono offerte da un piccolo servizio nell’area - passaggio coperto, soste con arredo, spazio di socializzazione-, che concorre a promuovere qualità e arricchimento nel luogo. 7 Sergio Lenzi – Progetto di un nuovo tessuto edilizio a Brozzi. L’esperienza è stata condotta in prima persona, a partire dal progetto di tipi base all’articolazione degli stessi in uno spazio semipubblico innovativo e al tempo stesso memore delle preesistenze.

2 È stato interessante riscoprire che tipi edilizi in parte ‘intenzionali’ - seppur non controllati del tutto da studenti del II anno – e in parte ricostruiti sulla base dell’esperienza - quindi in qualche modo ‘spontanei’ - non si discostano molto dai tipi storici. Il percorso di ricostruzione e scoperta è però importante perché è legato ad una responsabilità e ad una partecipazione critica diretta al riprogetto stesso. Trattandosi di prodotti di memoria, immaginazione ed esperienze personali gli spazi progettati non risultano solo frutto di assunzione dall’esterno, quanto, anche se con le dovute precauzioni, estrazione e conquista interiore. I limiti dei prodotti in tal senso sono da accettare. Un livello di crescita si è rilevato nell’integrazione tra tessuto residenziale e un piccolo edificio di servizio all’area, ma l’esperienza di crescita complessiva, personale e tramite gruppo e laboratorio, già sviluppata al primo anno dagli studenti, non si è ripetuta con lo stesso progresso al secondo anno. I ritmi di lavoro imposti dal N.O., insieme a scadenze ravvicinate poste da alcuni corsi hanno impedito una sperimentazione densa e continua. A parte la necessità di collaudare un’esperienza del genere, gli studenti hanno iniziato a pensare, giustamente, a superare il biennio in tempo utile, anche a costo di rinviare i tempi di maturazione progettuale.

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LABORATORI DI PROGETTAZIONE ARCHITETTONICA III

1 Gianna Maurri – Progetto di un centro parrocchiale a Ponte a Greve (Firenze). Ricucendo un settore di tessuto esistente, il complesso ambisce a diventare una nuova presenza urbana, principalmente a livello simbolico, oltreché morfologico e funzionale.

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2 Annalisa Moles – Progetto di un centro parrocchiale a Ponte a Greve Le condizioni geometriche guidano la composizione, che nel conformare il complesso attorno ad una corte aperta raccoglie un’eredità residua da tipi rurali, in parte riproposti da combinazioni tra edilizia storica e manufatti aggiunti in periodi successivi. 3 Mirco Montomoli – Progetto di un centro parrocchiale a Ponte a Greve. Il tipo ”chiesa” media riferimenti canonici con memorie che recuperano la sezione caratteristica di edifici industriali, presenti nell’area.

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4 Angelo Milano, Pietro Mocali, Stefano Montioni – Progetto di un centro sociale a Ponte a Greve. La diversificazione dal contesto murato è dovuta alla componente morfologica desunta dalle serre esistenti in loco, strutture povere, a loro modo risorsa formale in un ambiente residenziale non particolarmente qualificato. 5 Sara Menicucci, Mimma Morelli – Progetto di un centro sociale a Ponte a Greve. Il processo progettuale trova in questo esito qualità figurative che irrompono nell’area, cercando di costruire una nuova identità -di riferimento per gli abitanti- oggi assente dal contesto.

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Riproduzioni fotografiche Enzo Crestini.

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L’impostazione pedagogica del Laboratorio di progettazione architettonica III è stata tesa a sviluppare negli studenti un atteggiamento progettuale ancora più versatile, flessibile. Il grado di difficoltà è aumentato passando da un tema residenziale (edilizia di base) ad un’edilizia più rivolta ai servizi alla residenza (edilizia specialistica), quindi con maggiore complessità di percorso mentale. Si è proposto la costruzione di un progetto ancorato di volta in volta ad un parametro di riferimento, assegnando per esempio un budget di partenza; si è chiesto di stabilire, con approssimazione, diversificando il costo per vari interventi e per le destinazioni, quanta superficie avrebbero potuto utilizzare. Si è poi proceduto ad un dimensionamento di massima, al problema dell’orientamento, ad una destinazione funzionale, a riferimenti contestuali, alle condizioni geometriche, fino ad approdare ad un planivolumetrico come prima indicazione di larga massima. Ogni progetto che era predisposto esclusivamente alla luce del parametro di volta in volta assunto come prioritario, doveva essere modificato e tarato man mano che gli altri parametri erano coinvolti. Una volta acquisito il processo l’intero progetto è stato smontato e rifatto, questa volta tenendo presenti contemporaneamente i riferimenti prima separati: qualità e quantità, risorse e limiti, costi e benefici, geometrie e funzioni, orientamento e contesto. A nostro giudizio il procedimento, pur provocando iniziali smarrimenti, ha consentito di far apprezzare agli studenti arricchimenti combinatori inesplorati. I passaggi hanno liberato valenze precipue all’interno di ogni gruppo. Gli studenti hanno scoperto affinità interne e specifiche rispetto ad un parametro più che agli altri; così si sono create le condizioni per stabilire integrazioni organiche nei gruppi stessi. Il sistema delle revisioni collegiali discusse all’interno di tutto il Laboratorio con la presentazione del proprio lavoro era seguita da interventi critici da parte dei docenti e degli studenti. Il raggiungimento di traguardi progettuali e di esiti finali dimostrativi dell’efficacia pedagogica del laboratorio non c’è però stato per la quasi totale scomparsa della maggioranza degli studenti in concomitanza con la sessione straordinaria di esami e il suo prolungamento in vista del superamento del biennio. Si sono così persi quasi due mesi. Pertanto i risultati sono stati inferiori alle aspettative; questo in ordine all’obiettivo di preparare tecnici capaci di affrontare problemi nascenti a breve termine, come più oltre preciseremo.

Dalla comparazione degli esiti progettuali degli stessi studenti all’interno delle esperienze compiute nei Laboratori di progettazione I, II e III, si evidenzia una sorta di rallentamento nel processo progettuale. Ciò non è spiegabile semplicemente, come prima abbiamo accennato, con la necessità di superare il biennio in tempo utile; in realtà gli studenti pagano una mancanza di coordinamento generale all’interno delle discipline attivate, che aumenta il loro carico didattico oltre i livelli necessari ad una corretta e razionale preparazione. Ricordiamo che nella Direttiva CEE 85/384 e nelle successive è scritto a chiare note che le Facoltà di Architettura devono istruire e formare tecnici con competenze specifiche nel progetto di architettura inteso come progetto ambientale, culturalmente appropriato non solo ai luoghi fisici, alle caratteristiche contestuali, ma anche rispondente ai bisogni sociali dell’uomo cioè, e qui sta una delle qualifiche più rilevanti delle responsabilità dell’architetto, con interventi capaci di indurre identità e solidarietà da parte degli abitanti. Una delle sfide più importanti che il terzo millennio pone al progettista architetto in una società mutante verso dimensioni transculturali, è quella di cogliere, interpretare e proporre in termini di qualità ambientali spazi adatti a convivenze tra culture che si incontrano per la prima volta, in termini strategici, nei nostri territori. Quali forme di accoglienza deriveranno dalle scelte progettuali e viceversa? Quali spazi favoriranno incontri, intersezioni, interscambi tra persone di etnia diversa, con differenti ritmi di vita, di lavoro, con abitudini, credenze, fedi, comportamenti, che possano costruire un nuovo glossario comportamentale, una grammatica spaziale che agevoli o non ostacoli relazioni che attraverso il progetto degli spazi personali e collettivi consentano, o meglio promuovano, sinergie preziose capaci di concorrere ad una maturazione umana più estesa, più profonda, delle nuove generazioni, per le quali l’assenza di spazi di identità civile può indurre pericolose regressioni, come eventi contemporanei testimoniano. Da qui la necessità che il progetto sia posto con forza al centro etico e civile della formazione dell’architetto. Ma perché ciò avvenga occorre che tutte le discipline favoriscano questa centralità. Il che non significa affatto renderle subordinate; anzi, occorre integrarle nella costruzione del progettista; il che non può avvenire se l’autonomia diventa pretesto di isolamento, e perciò stesso

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viatico di debolezza e di caduta degli obiettivi. Non è possibile che ogni titolare di corso, laboratorio, disciplina, si senta al centro della facoltà; è l’itinerario il centro dei nostri interessi, e la sua utilità logica, organica, è l’obiettivo corale da perseguire. Per questo occorre rendere la componente studentesca uno dei fuochi dell’orbita – pur mutevole – percorsa dalla facoltà. Ogni docente deve considerare la necessità didattica e pedagogica di svolgere programmi non solo coordinati agli altri, ma proporzionati alla diminuita disponibilità di tempo che i semestri comportano agli studenti. Occorre invece offrire agli stessi l’opportunità di disporre di almeno tre o quattro mezze giornate per poter studiare fuori dalle aule, o per rigenerarsi nella vita quotidiana. Questo richiede, ripeto, che i docenti responsabili delle materie non progettuali considerino loro personale gratificazione l’impegno di coordinarsi e finalizzare contenuti e modi didattici alla costruzione di personalità autocritiche progettanti. È il pensiero di ogni studente che deve essere attivato criticamente nella massima flessibilità e capacità di rinvii tra conoscenze diverse presentate e iso-orientate in modo da agevolare una formazione unitaria, complessa, organica, ricca sotto il profilo umanistico non meno che scientifico. Istituzioni di analisi matematica, per esempio, è non meno importante di quanto non sia oggi, assunta in sé e per sé, se proposta in tal senso ad un laboratorio di progettazione architettonica per “costruire” un progettista. Noi tutti dovremmo ambire ad essere una grande facoltà, anziché accontentarci di essere una facoltà grande solo in quanto numerosa. In questa mutazione epocale non è consentito non vedere, non ascoltare, non dire ciò che in realtà comprendiamo perfettamente. Come corpo docente ci competono precise responsabilità. In primis, dobbiamo capire e spiegare quanta parte abbiamo nel fenomeno dell’abbandono, spesso rinviato dagli studenti dopo cinque-sei anni di soggiorno in facoltà; poi dobbiamo ricercare i cambiamenti da apportare ai carichi didattici incrementando in ogni modo possibile i rapporti con l’esterno, con le attività produttive, con l’Europa in generale. Siamo ancora un’ azienda che non funziona, per colpe non solo nostre; ma avviare un serio esame della situazione è il minimo che si possa offrire ad un’istituzione che va profondamente cambiata e che richiede una nuova dignità etica e organizzativa. Credo che ognuno di noi sia una risorsa che può essere ottimizzata solo all’interno di un rapporto sinergico con tutte le energie presenti. Nella configurazione del nuovo ordinamento occorre dunque dare maggior spazio a collegamenti transdisciplinari, incrementando partecipazione, razionalizzando e coordinando contenuti, tempi, sistemi di insegnamento che proprio nella separatezza tra discipline esprimono e derivano un’incapacità a rispondere alle domande complesse che il presente ci pone. Attivare sistemi di reti informatiche che coinvolgano le isole del sapere in un sapere integrato, interconnesso in reti sinergiche multiformi, interattivo con l’esterno e capace di collegare gli entusiasmi delle presenti e future generazioni a nuove figure professionale che la società ci chiede sempre più velocemente; per parte nostra occorre innestarvi quel background culturale e sapiente che compete all’università. Tutto questo complesso di atteggiamenti rinnovati dimostrerebbe che la parola cultura è tale solo se invera valori dinamici; non è pensabile ibernare saperi consolidati; è necessario estendere riferimenti e principi , contenuti e metodi alle generazioni per le quali i modi di dare l’informazione devono animare nuove forme di ascolto, nuovi tipi di ricezione. Occorre che il sapere colto, per essere tale, muti le modalità della propria trasmissione. Cultura non come hortus conclusus ma come campo pronto a nuove semine. Se non è questo il fine superiore per il quale lavoriamo dovremmo forse rassegnarci all’accusa, vecchia di quattrocento anni, di Giordano Bruno: “Gli accademici sono ottusi: concepiscono il sapere non come mezzo di unione, ma in separazione; sfugge loro l’insieme. Non hanno vita nel corpo, e le loro conoscenze sono in odio alla vera cultura, alla gioia di essere”. Ritornando ai risultati didattici ottenuti dobbiamo dire che, o si muovono in concomitanza più corsi coordinati orizzontalmente e verticalmente o gli sforzi finiscono per essere utili solo ad una minoranza di studenti. Ma ci sono ambiti problematici che non abbiamo potuto affrontare per difficoltà oggettive e perché o sono problemi strategici per l’intera Facoltà, o è impossibile affrontarli. Sono preoccupato dalla marginalità in cui è tenuto il tema casa, abitazione; in particolare l’abitazione di tipo economico, quasi non fosse più necessario riprenderlo e approfondirlo sullo scenario del terzo millennio, vuoi come recupero povero, facilitato, speditivo dell’esistente (penso all’edilizia storica degradata, ma anche ai contenitori industriali dismessi), vuoi come completamento interstiziale, vuoi come espansioni urbano-agricole. Se in Italia il trend immigratorio aumenterà, insieme alla

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diminuzione di nascite autoctone, come danno per probabile le previsioni statistiche, nel 2035-’40 secondo alcune proiezioni il nostro paese dovrebbe contare circa 40-45 milioni di italiani insieme a 12-15 di immigrati. Anche prendendo i dati con le dovute cautele, è probabile che gli architetti si troveranno ad affrontare il problema del recupero e della progettazione di case a basso costo: problema non solo importante, ma strategico, vitale, ai fini di una costruzione più razionale, equilibrata, sostenibile della città “per parti”. La casa, il tessuto abitativo “esteso” saranno ancora protagonisti in un più consapevole sviluppo urbano nella misura in cui si sapranno individuare, in un nuovo modello transculturale, nuovi riferimenti di un abitare integrato. Questo in ordine a domande che presumibilmente una società multietnica e transculturale potrebbe porre domani. Ma non solo: oggi il bene casa sta divenendo sempre più inaccessibile per milioni di famiglie italiane: anche se oltre il 70% è proprietaria dell’alloggio in cui abita, il problema rimane per un buon 20 - 25%. Per questa legittima domanda dovremmo pensare ad abitazioni che per essere a basso costo, dovranno essere consegnate non ultimate, ma in condizioni tali da facilitare interventi dilazionati nel tempo, fino all’eventuale autocostruzione parziale o alla finitura da parte di un’utenza che magari è abituata o può costruirsi - parzialmente almeno - la casa in proprio. Per conseguire tali obiettivi credo occorra raccogliere una sfida: riscoprire e coniugare archetipo generativo e tecnologia, cercando di integrare il top dell’avanzamento progettuale culturalmente e tecnologicamente evoluto con il massimo di profondità umana esperibile. Anche se questo è difficilmente realizzabile - o pensabile addirittura - credo sia corretto scandagliare quel sapere architettonico geneticamente interiorizzato e misconosciuto che ognuno di noi possiede e fulcrare, con il contributo della produzione edilizia esistente, il recupero di esperienze innate, ma sommerse, anche attraverso il confronto con altre culture. Credo sia necessario attivare più contributi per rintracciare quei riferimenti archetipi, che a livello di DNA operano nelle nostre scelte progettuali. Ognuno ha un diverso DNA, ma come la nostra lingua parla secondo una grammatica che, a ritroso, si può far risalire ad una comune grammatica generativa, così si dovrebbero rintracciare i principi attivi del progetto, radice profonda dell’idea di casa, città, territorio. È come se al livello di corteccia cerebrale potessimo discernere ed esprimere quanto appartiene agli strati profondi da quello che viene trattenuto il tempo di un’immagine effimera dallo strato superficiale. E qui veniamo alla transculturalità. Facciamo un esempio didattico concreto. Nell’esperienza progettuale condotta all’interno del Laboratorio di progettazione architettonica II nell’area di Brozzi abbiamo constatato la compresenza di case a schiera e di case a corte spesso non pianificate, composite, ma rispondenti a proprietà culturali degli abitanti. All’interno dell’area si è da anni insediata una comunità di cinesi provenienti da esperienze abitative di case a corte. Nessuna politica di socializzazione è stata attivata, ma a partire dai tipi edilizi comuni riteniamo sia possibile esplorare modi d’uso che rendano disponibili le corti (pensiamo ai bambini) cogliendo l’opportunità di sperimentare una comunicazione tra culture diverse, basandosi sulle loro consuetudini con spazi tipologicamente simili. Potremmo sperimentare in quell’area un progetto di case a corte con minimi comuni denominatori spaziali compatibili per entrambe le culture. È certo che il tema dei tipi appropriati non è proprio il primo approccio al problema di una progettazione transculturale, ma almeno a livello accademico mi sembra importante attivare ricerche in tal senso, per individuare nuovi campi esperibili dall’architetto. Quello che voglio ribadire, effettuando un salto rispetto ai contenuti dell’esperienza didattica descritta, ma ad essa collegabile con ragioni a mio avviso legittime, importanti e urgenti, è che esiste un problema, c’è una domanda insoddisfatta di alloggi a basso costo che non esistono oggi sul mercato e per la quale dovremmo cercare di preparare professionisti adatti, a partire dai criteri precedentemente illustrati. Un tema del genere non si può affrontare da soli. Mi sembra una sfida da raccogliere da parte di una sezione che fra quelle attivate nel nostro dipartimento è la più vicina a misurarsi con una tematica socialmente alta.

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26-09-2013 13:07:22



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