Lire Lire 12.000 12.000 rivista rivista semestrale semestrale anno anno IV IV n. n. 22
Università degli Studi di Firenze - Dipartimento di Progettazione dell'Architettura
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I LUOGHI DELL’ARCHITETTURA
In In copertina: copertina: Morfologia Morfologia urbana urbana ee linguaggio linguaggio architettonico: architettonico: Fiesole, Fiesole, modello modello dell’area dell’area centrale. centrale. Vittorio Vittorio Battiglia, Battiglia, Carlo Carlo Chiappi, Chiappi, Enzo Enzo De De Leo, Leo, Studio Studio M. M. 1993. 1993.
Dipartimento di Progettazione dell’Architettura
Direttore Carlo Chiappi
Sezione Architettura e Città Professori Ordinari Gian Carlo Leoncilli Massi Loris Macci Piero Paoli Professori Associati Alberto Baratelli Giancarlo Bertolozzi Andrea Del Bono Marco Jodice Maria Gabriella Pinagli Mario Preti Ulisse Tramonti Ricercatori Antonella Cortesi Renzo Marzocchi Enrico Novelli Valeria Orgera Andrea Ricci
Sezione Architettura e Contesto Professori Ordinari Roberto Maestro Adolfo Natalini Professori Associati Giancarlo Cataldi Stefano Chieffi Benedetto Di Cristina Gian Luigi Maffei Guido Spezza Virginia Stefanelli Paolo Vaccaro Ricercatori Carlo Canepari Gianni Cavallina Pierfilippo Checchi Piero Degl’Innocenti Maurizio De Marco Grazia Gobbi Sica Carlo Mocenni Paola Puma
Sezione Architettura e Disegno Professori Ordinari Marco Bini Emma Mandelli Professori Associati Maria Teresa Bartoli Roberto Corazzi Domenico Taddei Ricercatori Alessandro Bellini Stefano Bertocci Gilberto Campani Marco Cardini Marcello Scalzo Marco Jaff Enrico Puliti Michela Rossi Marco Vannucchi
Sezione Architettura e Innovazione Professori Ordinari Antonio D’Auria Professori Associati Roberto Berardi Alberto Breschi Remo Buti Giulio Mezzetti Ricercatori Lorenzino Cremonini Paolo Iannone Flaviano Maria Lorusso Pierluigi Marcaccini Marino Moretti Vittorio Pannocchia Marco Tamino
Altri docenti Professori Ordinari Aurelio Cortesi Maria Grazia Eccheli Paolo Zermani Professori Associati Carlo Chiappi Paolo Galli Bruno Gemignani Alessandro Gioli Mauro Mugnai Giacomo Pirazzoli Fabrizio Rossi Prodi Ricercatori Laura Andreini Fabrizio Arrigoni
Personale Tecnico Coordinatore Tecnico Giovanni Pratesi Funzionari Tecnici Massimo Battista Enzo Crestini Mauro Giannini Paolo Puccetti Assistente Tecnico Edmondo Lisi Operatori Tecnici Franco Bovo Laura Maria Velatta
Personale Amministrativo Funzionario Amministrativo Manola Lucchesi Assistente Contabile Carletta Scano Assistente Amministrativo Debora Cambi Gioi Gonnella Operatore Amministrativo Grazia Poli
2.2000 dossier Periodico semestrale* del Dipartimento di Progettazione dell’Architettura via Cavour, 82 Firenze tel.055/2757721 fax. 055/2757720 Anno IV n.2 Autorizzazione del Tribunale di Firenze n. 4725 del 25.09.1997 Prezzo di un numero Lire 12.000
DIRETTORE
Sommario
Carlo Chiappi
DIRETTORE RESPONSABILE Marino Moretti
COMITATO SCIENTIFICO Maria Teresa Bartoli, Roberto Berardi, Marco Casamonti, Carlo Chiappi, Marino Moretti, Paolo Vaccaro
REDAZIONE Laura Andreini, Carlo Chiappi
INFO-GRAFICA E DTP Massimo Battista
COORDINATORE TECNICO Gianni Pratesi
COLLABORATORI Massimo Bianchini, Enzo Crestini, Roberto Corona, Laura Maria Velatta
SEGRETERIA DI REDAZIONE E AMMINISTRAZIONE TEL. 055/2757792
Carlo CHIAPPI - Presentazione
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Rosario VERNUCCIO Un monumento da scoprire
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E-mail: progeditor@prog.arch.unifi.it.
Maria Grazia ECCHELI Testimonianze: Venezia, Sarno, Carpi
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Questo numero è stato curato da Laura Andreini
Laura ANDREINI Dall’osservazione al progetto il concorso di architettura come strumento didattico
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PROPRIETÀ UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI FIRENZE
Aurelio CORTESI A=f(U,B)
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PROGETTO GRAFICO E REALIZZAZIONE
Carlo CHIAPPI Progettare nel territorio continuità e contestualità come temi di architettura
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Paolo GALLI Notazioni e istituzioni tra interno ed esterno
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Centro di Editoria Dipartimento di Progettazione dell’Architettura Fotolito Saffe, Firenze Finito di stampare nel dicembre 2000 da Arti Grafiche Giorgi & Gambi, viale Corsica, 41r Firenze *consultabile su Internet http://www.unifi.it/unifi/progarch/fa/fa-home.htm
Mauro MUGNAI La progettazione degli spazi pubblici nel rapporto con la scuola 72 ‘Le due verità’ - considerazioni di carattere generale
nel prossimo numero di
ARCHITETTURA : QUADERNI PROGETTO CITTÀ METODI, STRUMENTI, LINGUAGGI FIRENZE
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Contributi di: Antonio CAPESTRO, Mario FERRARI, Flaviano Maria LORUSSO, Cinzia PALUMBO, Dragana PAVLOVIC, Claudio ZANIRATO.
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La prerogativa saliente del quinto numero di Dossier è di chiudere un ciclo e di aprirne un altro nello stesso tempo. I Luoghi dell’architettura completa, infatti, la prima serie di contributi dei docenti del Dipartimento ma altresì anticipa, con un impegnativo lavoro redazionale, il carattere più frammentario e antologico dei prossimi numeri. Risulta impossibile - post quem - non pensare al dibattito che aveva animato il progetto della rivista o alle finalità con cui inauguravamo, in una situazione particolarmente favorevole, la nuova formula di FIRENZE ARCHITETTURA (gennaio 97). Difficile, per chi vive e lavora “altrove”, capire la complessità di un’operazione che ha mobilitato “a mosaico” tanti ricercatori e studiosi. Difficile anche per chi scrive comunicare la soddisfazione per un importante obiettivo raggiunto, reso ancor più sorprendente dalle pesanti limitazioni: quello di far conoscere tutte (o quasi) le realtà di un contesto culturale molto eterogeneo, non definibile all’interno di un indirizzo o tendenza. Poiché è certo che a tutt’oggi la collana rappresenta lo specchio, anzi il documento più fedele delle “anime”, ovvero delle molteplici identità di un luogo ricco di magiche potenzialità e di profonde contraddizioni. Per tali motivi ci sembra opportuno non tanto trinciare giudizi a posteriori sulle singolarità dei fatti, bensì fissare schematicamente alcuni punti di un dibattito ormai maturo che dovranno trovare lo spazio per ulteriori approfondimenti. In questa serie di studi monografici v’è anzitutto un dato positivo istantaneo, relativamente facile da osservare e consiste nel tentativo di circoscrivere il campo d’azione e d’interessi tramite un riconoscimento reciproco; qualcosa di molto vicino a quello che si potrebbe definire un sentimento generale d’appartenenza, oppure l’eredità di molti individui di una medesima specie, che si trasmette vicendevolmente e consente di promuovere approcci ed esiti sempre più interattivi con la realtà. In secondo luogo, al di là di astratte e velleitarie ambizioni interdisciplinari, v’è l’attenzione verso nuove forme di radicamento, non più chiuse su fenomeni locali, né costruite sui caratteri logori di alcune pratiche, ma quasi alla ricerca di un esordio e di terreni d’incontro con altre comunità scientifiche, in virtù di un sistema di corrispondenze o grazie a proprietà dichiaratamente affini o a modi che si trasferiscono gli uni negli altri. Infine sembra rinascere un po’ ovunque, soprattutto dai contributi dei docenti dell’ultima generazione, uno sforzo comune, un’istanza di rinnovamento che tende ad una graduale ricomposizione di valori e di principi, collocandosi al di fuori della stanca competizione accademica. Ciò testimonia un quasi-trovato clima di libertà e d’immaginazione che può far sperare per il futuro. Il percorso a ritroso su questi Dossier lascerebbe intravedere le svariate nature di tale tensione e farebbe anche emergere in forma palese l’entità di un fenomeno che sarà probabilmente la grande sfida culturale e scientifica, etica ed estetica, ma soprattutto biologica del ventunesimo secolo: il massiccio spostamento di forze sulle ragioni dell’architettura oggi, la ricerca dei punti di sutura tra metodi, tecniche ed obiettivi, a partire da una diversa e possibile epistème; cioè dai processi conoscitivi, dagli strumenti utilizzabili, dai progetti sostenibili. Insomma il desiderio d’interpretare un’idea di contemporaneità che vada finalmente a scavare in questa realtà il senso concreto e preciso del nostro operare. (Marino Moretti)
P R E S E N T A Z I O N E
CARLO CHIAPPI Con il precedente numero della rivista (1-2000, Dossier) il nostro Dipartimento concludeva la presentazione delle proprie Sezioni di Ricerca costituite ciascuna da gruppi di docenti spontaneamente aggregati, affini per comuni interessi di studio, coltivati e sviluppati prevalentemente nel lavoro didattico. Con questo numero invece (2-2000, Dossier) viene illustrata l’attività di un gruppo di docenti che, pur appartenendo ugualmente allo stesso Dipartimento, non hanno ancora aderito ad alcuna delle Sezioni fino ad oggi costituite, quali Architettura e città, Architettura e contesto, Architettura e disegno, Architettura e innovazione. Tuttavia, nel corso dei lavori redazionali per l’approntamento del presente numero della rivista, fu individuato un titolo, I luoghi dell’architettura, che parve poter riassumere e rappresentare in forma certamente sintetica il carattere comune che i vari contributi si apprestavano a proporre e illustrare. Questo riferimento metodologico e tematico è stato, entro certi limiti, seguito e riconfermato, anche se è forse superfluo ricordare come, questa volta, ci si trovi in presenza di un gruppo che non si è dato a priori un preciso indirizzo di ricerca ed un programma comune di lavoro; fatto che inevitabilmente si riflette, anche se solo in parte, sulla stessa organicità dell’insieme di contributi presentato. Con questa presentazione, tali contributi sono stati ordinati in tre gruppi distinti, corrispondenti, ciascuno, ad un più particolare taglio metodologico. Il primo (Vernuccio, Eccheli, Andreini) sviluppa le proprie argomentazioni di progetto per via prevalentemente applicativa, a partire dai vincoli posti da una precisa realtà costruita e che, più degli altri, sembrerebbe cogliere il riferimento tematico individuato preliminarmente. Il secondo (Cortesi, Chiappi) sviluppa invece i propri argomenti in forma di principi fondativi e, potenzialmente, quale apporto ad una riflessione teorica generale sul modo di pensare architettura. Il riferimento al luogo è qui meno diretto e gli esempi applicativi che accompagnano le tesi sostenute si collocano in un rapporto meno mediato rispetto alle argomentazioni sviluppate nel testo. Il terzo infine (Galli, Mugnai) pur sviluppando anch’esso questioni riconducibili in linea di principio agli aspetti metodologici dell’operare, sembra essere collocato più stabil-
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mente nell’intorno di aspetti del pensiero specifici e particolari. Questo è così anche l’ordine seguito nel delineare, con la presentazione, un brevissimo profilo conoscitivo e comparativo. Un monumento da scoprire (Vernuccio). L’indirizzo progettuale dato al tema dell’esercizio didattico è stato definito di concerto con l’amministrazione comunale. Vernuccio ripropone così un’esperienza fortemente integrata con la realtà allo stesso modo di quanto aveva fatto nel corso di esperienze precedenti e così come spesso era stato fatto in passato nella didattica della scuola fiorentina (Gori in particolare). In questo caso si tratta del recupero di un antico organismo edilizio della città che aveva ormai perduto le proprie originarie funzioni (conventuali e carcerarie), che viene ora restituito a nuova vita mediante introduzione di attività compatibili con la struttura edilizio-distributiva del complesso (alberghiere e ricettive). La rifunzionalizzazione introduce altresì nell’organismo temi urbani noti e ricorrenti nelle analisi della città come la corte e la strada, quale ancoraggio e sostegno, stabile e duraturo, tra nuova architettura e luogo di appartenenza. Testimonianze: Venezia, Sarno, Carpi (Eccheli). I temi dell’edificio pubblico quale interprete dei caratteri collettivi della città e del riesame dei fondamenti del progetto moderno nel confronto cosciente e aperto con la sintassi propria dei luoghi (interni ed esterni) della città antica, sono assunti da Eccheli quali campi di esplorazione di nuove e stabili strade per il progetto; ben oltre quindi gli stessi temi funzionali dati dalle occasioni concrete quali temi delle singole esercitazioni (concorsi di architettura in particolare). Un modo certamente convincente per essere ben dentro all’architettura, abbandonando consapevolmente e a ragione residue tangenze fuorvianti, simbolo di ormai obsolete stagioni progettuali. Dall’osservazione al progetto: il concorso di architettura come strumento didattico (Andreini). Evitare ogni forma possibile di astrattezza e, nello stesso tempo, garantire un forte ancoraggio alla realtà, sono i due principi basilari che, anche in questo caso, costituiscono il motore principale del progetto formativo nella scuola. Anche qui, come negli esempi precedenti, viene sottolineato come fatto decisamente positivo e stimolante il confronto con la storia della città, capace di trasmettere al progetto quel DNA che lo preservi tanto dal libero arbitrio quanto dall’enunciazione acritica di fenomeni di moda compositiva. Convincente il senso delle note conclusive dell’Andreini che giustamente ci ricorda come questo approccio progettuale “affondi le proprie radici nella migliore tradizione disciplinare italiana, ultimo originale contributo di uno specifico apporto culturale che il nostro paese può vantare come patrimonio originale e indissolubile della propria identità”. A=f(U,B) (Cortesi). Alcune riflessioni nei confronti del fare e del trasmettere architettura tratte dall’esperienza didattica di Cortesi ci conducono a vedere nuovamente attualizzati alcuni riferimenti alla trattatistica rinascimentale (Alberti in particolare); insieme ad alcune ormai remote, ma certamente antesignane, enunciazioni della poetica di Ernesto N. Rogers che intorno alla metà degli anni ’50, nel tentativo di avviare un superamento dello schematico rapporto forma/funzione, mirava anch’esso a recuperare alla cultura del moderno alcuni
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aspetti della trattatistica classica. Il tentativo rogersiano è sintetizzato qui con la formula architettura (A) funzione di utilità (U) e bellezza (B) che, al di là di ogni possibile considerazione a cui questa può prestarsi, oggi ritorna ad essere particolarmente degna di nota per il fatto stesso di riportare al centro del dibattito sull’architettura il termine bellezza troppo spesso posto in ombra, quasi che esso dovesse svilupparsi spontaneamente solo da una buona e onesta comprensione dell’utile. Il ruolo del disegno ed un approccio autonomo al mondo delle forme costituiscono poi i necessari corollari per lo sviluppo integrato della stessa formula e dello stesso pensiero implicito nella proposta metodologica di Cortesi. Progettare nel territorio: continuità e contestualità come temi di architettura (Chiappi). Il contributo di chi scrive ruota intorno alla convinzione che oggi sia necessario perseguire obiettivi di progetto che trovino un più profondo e stabile radicamento ai caratteri identitari dei singoli territori e dei singoli luoghi sottoposti a trasformazione e modificazione con il progetto medesimo. Il carattere innovativo del progetto moderno dovrà perciò confrontarsi con le regole costitutive delle realtà antropiche, fino ad individuare quelle strutture invarianti che ne sostanzieranno l’appartenenza. In questo percorso si sottolinea inoltre l’importanza assunta dagli studi tipologico-processuali, i quali hanno da tempo posto in essere una solida struttura metodologica di analisi urbana e territoriale da considerare ormai riferimento imprescindibile per chi avverte la necessità di costruire con rigore nozioni utili alla oggettiva trasmissibilità dell’esperienza compositiva. Notazioni e istituzioni tra interno ed esterno (Galli). Questo contributo si sofferma a riflettere sulle sensazioni e sulle emozioni che si provano nell’atto stesso di percepire una immagine e, con ciò, anche le sensazioni che ci provengono da un certo luogo, visto appunto come immagine o come insieme organico e sinergico di immagini. Tali sensazioni inducono Galli ad ipotizzare e sostenere la sua tesi, secondo la quale queste stesse sensazioni ed emozioni siano alla base di ogni atto di progettazione, facendoci così percepire e capire il senso di appartenenza che l’idea può assumere rispetto all’immagine-luogo che l’ha generata. Le immagini progettuali, che accompagnano il testo, frutto di reiterate esperienze didattiche, fondandosi prevalentemente sul soggettivo ci sorprendono piacevolmente per la loro carica decisamente scenografica e per l’effetto sorpresa che riescono a trasmetterci con il loro porsi come soggetti morfologici caratterialmente innovativi. La progettazione degli spazi pubblici nel rapporto con la scuola: “le due verità” - considerazioni di carattere generale (Mugnai). Il ragionamento di Mugnai pur interessandosi principalmente ai temi progettuali riguardanti la scuola, gli spazi e gli edifici per l’educazione, si evolve progressivamente a partire dai fatti che hanno condotto il progetto moderno ad occuparsi prevalentemente dei singoli organismi architettonici, sulla loro forma e sulle loro singole funzioni. Proseguendo su queste tracce egli giunge a radicarsi stabilmente sui recenti orientamenti che hanno diffuso nella ricerca un interesse prevalente nei confronti degli spazi aperti e, in un certo senso, interstiziali rispetto ai singoli organismi e manufatti; facendo perdere così valore metodologico al termine funzione, nel complesso e non completamente codificabile processo di progettazione dell’architettura. L’architettura come forma autonoma è dunque costretta a misurarsi con il suo intorno, con i suoi luoghi e, in una parola, con le forme dell’urbano.
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UN MONUMENTO DA SCOPRIRE Rosario Vernuccio
Noto: il complesso del monastero di S. Agata e le Carceri Reali recuperato all’uso di struttura ricettiva. Esattamente a metà, tra il pianoro naturale del colle dove sorge la “Noto vicereale” modello di città a “quadrillage” unimodulare, partito in sedici insule, definita ai margini dalla “Noto plebea”, con tracciato a modulazione organica di chiaro riferimento e memoria arabomedievale — e il pendio — con tracciato ortogonale a modulazione variabile, allusivamente manierista, ma sostanzialmente metabarocco, sede della “Noto aristocratica” e dell’intellettuale reggenza locale sorge uno tra gli edifici di Noto meritevoli di particolare attenzione e studio che occorre mettere in evidenza come complesso monumentale che nel corso dell’ultimo secolo, anche in seguito alla destinazione ospedaliera, non è mai stato sufficientamente menzionato nelle sue intrinseche qualità architettoniche, senza dubbio potenziate dall’adiacente corpo delle Carceri Reali. Nell’ex monastero di S. Agata e nella sua annessa chiesa, ormai completamente deserti, due dei maggiori architetti della ricostruzione di questa città dopo il terremoto del 1693, Rosario Gagliardi e Paolo Labisi, hanno lasciato notevoli segni dei loro interventi. Alle manomissioni del precedente impiego (nato nel 1700 come organismo conventuale di ordine benedettino; nel 1883 la proprietà fu ceduta agli amministratori dell’Ospizio ospedale Trigona; usato come ospedale sino al 1983, da allora in disuso) si aggiunge ora il degrado del prolungato abbandono. Di uguale sorte soffre l’edificio delle Carceri Reali (1693), poi usato come
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carcere mandamentale e quindi abbandonato. Una duplice perdita, dunque, per una città che dovrebbe offrire al turismo ad esempio, un adeguato complesso alberghiero che tuttora all’interno del centro storico manca. Questo monastero si adagiava così in cima alla collina con una forte dilatazione orizzontale del fronte sud. Un corpo verticale, aggiunto negli anni ’40 per esigenze sanitarie, altera oggi, in parte, l’originario equilibrio. La sua posizione panoramica viene ulteriormente segnalata dall’inserimento della torre dell’orologio in allineamento con le due cupole del Crocefisso e della Cattedrale: un asse visuale privilegiato del panorama urbano. Il monastero non presenta la tipica organizzazione degli ambienti attorno ad una corte interna, forse perché non fu mai interamente completato. La presenza di una corte non è leggibile neanche nel rilievo del Cassone del 1878, mentre al primo piano la presenza dell’“astraco” può rappresentare un accenno. Rimane comunque l’ampio giardino esterno tra i corpi di fabbrica e il confine con il dirupo del colle. Un meraviglioso giardino che si affaccia sui tetti della città sottostante e sul panorama della campagna sino al mare. La tipologia funzionale riflette elementi ricorrenti negli edifici conventuali ideati dal Gagliardi. Ad ovest ci sono gli ambienti per le funzioni spirituali (chiesa, sacrestia, oratori, capitolo, cappelle), a nord-est gli ambienti più propriamente residenziali: al piano terra cucine, dispense, refettorio, officine; al primo piano il dormitorio. Le scelte distributive del dormitorio
privilegiano un orientamento più idoneo alle funzioni abitative; i corridoi, infatti, stanno uno all’esterno, a nord, l’altro all’interno, ad ovest, per lasciare alle celle le più adatte esposizioni a sud con vista interna e ad est con vista sulla strada. La geometria delle volte è variabile, diventa più complessa a seconda della diversità d’uso cui sono destinati gli ambienti. Le Carceri Reali, indicate dal Labisi nella sua veduta del 1750, risultavano probabilmente edificate nel loro attuale sito, sul bordo dell’altopiano del Meti, già nel dicembre del 1693. La porzione di città ai margini dell’altopiano viene denominata area del castello perché anche la prigione venne chiamata “el castillo”. L’organizzazione delle carceri è molto semplice; gli ambienti sono disposti affiancati e unico elemento di distribuzione risulta essere un corridoio che finisce con una gradinata che conduce al piano inferiore; quest’ultimo invece non presenta nessun collegamento di questo genere fra gli ambienti che si affacciano, quasi tutti, sul cortile. La parte amministrativa veniva assolta negli ambienti al piano superiore, a sinistra rispetto all’ingresso, mentre tutte le celle, sia maschili che femminili erano ubicate a destra dell’ingresso; la gradinata posta alla fine dell’edificio portava al cortile delle donne. Al piano inferiore, gli ambienti più grandi venivano usati rispettivamente come cappella e aula scolastica, mentre quelli più piccoli come celle di isolamento; la parte verticale rispetto al corpo veniva utilizzata invece come magazzino. Tutti gli ambienti sono voltati a botte o a padiglione.
Comune di Noto - SR Recupero dell’ex Carcere Mandamentale (già Carcere Reale) ad uso di Ostello Prot 1339 Noto (SR) Proprietà: Amministrazione Comunale di Noto Progetto: Prof. Arch. Rosario Vernuccio Arch. Stefano Martinelli e Arch. Massimo Mortelliti Dott. Paolo Martorano Collaborazione: Arch. Simone Casini Strutture: Ing. Andrea Tellini Impianti: Ing. Ernesto Guarino Impresa Costruttrice: CO.M.EDIL - Consorzio Artigiano - Rosolini - SR Responsabile esecuzione: Vincenzo Pirri
Criteri guida e scelte di progetto. Parcheggi — Il problema dei parcheggi è da porsi come tema prioritario nella progettazione di una struttura come quella in esame. La posizione topografica del nostro edificio rende impossibile individuare nelle immediate vicinanze del complesso aree idonee ad accogliere un numero di autoveicoli sufficiente per la prevista ricettività del nuovo albergo. È stata quindi analizzata la possibilità di risolvere il problema ipotizzando di indirizzare gli ospiti dell’albergo come quelli dell’ostello in opportune aree di parcheggio, con il trasferimento in albergo utilizzando mezzi navetta; questa scelta darebbe così alla clientela la possibilità durante il percorso dal parcheggio all’albergo di poter meglio guardare alcune zone della città difficili altrimenti da scoprire. Queste aree sono state indicate anche per la facilità con la quale si può raggiungere il complesso. Le aree in questione sono tutte situate in prossimità della strada a percorrenza veloce che circonda il centro storico; una a nord ed altre due ad est e ovest, ricavate da vuoti urbani, collegate con la strada perimetrale e con la via Cavour che permette un collegamento più diretto tra i parcheggi. Sulla stessa via Cavour, comunque, è stato ricavato un ingresso ad un piccolo parcheggio posto in diretta comunicazione con il nostro albergo. A questo si accede da uno degli androni dei palazzi nobiliari di Noto, palazzo Astuto; la sua corte infatti si affaccia sul giardino in quota, posto sotto il monastero di S. Agata, al di sotto del quale ci sono, ora, dei magazzini; riutilizzando questi spazi si rie-
sce a ricavare 24 posti auto comunicanti, tramite un collegamento verticale, con il nostro complesso. Centro ricettivo — Il tema della contestualizzazione è stato posto come fattore prioritario nella progettazione architettonica. Si è voluto costruire all’interno dell’isolato una nuova immagine, espressione di una nuova complessità dell’isolato che lo caratterizzi come luogo urbano. Si scopre così la possibilità di poter inserire il luogo nel progetto, di poter fare entrare nel progetto la città, con tutti i suoi molteplici aspetti; sia percettivi (la fantastica posizione di confine tra l’altopiano e il pendio dà la possibilità di vedere da questo punto la città barocca con il suo centro, simile all’agora dei greci, predisposto per gli incontri quotidiani, con le preziose decorazioni delle facciate che si ripetono e si rinnovano negli interni e nei cortili come una ripercussione di echi, la grande cornice delle esedre, degli slarghi, delle scalee, delle minuscole scale, a formare uno scenario che sorprende da ogni angolo di osservazione) sia culturali (dove la cultura comprende memoria e tradizione). Si è quindi accentuata la continuità tra spazio esterno e spazio interno con percorsi pedonali connessi con gli accessi preesistenti e con altri creati ad arte in particolari punti relazionati con i luoghi esterni dove non solo il turista, ma anche l’artigiano, il pensionato, lo studente, la gente comune insomma, possa essere ugualmente fruitore di questo sistema di spazi. Nello stesso tempo si risolve uno dei problemi strutturali di questa città la carenza ricettiva, con il progetto di un albergo e
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Foto 1 L’Ostello dopo l’intervento di recupero Vista d’insieme dal tamburo della cupola della Cattedrale. Foto 2 L’ex Carcere Mandamentale prima dell’intervento di recupero Sullo sfondo da valle della scalinata di via Fratelli Bandiera.
di un ostello, che ha costituito da sempre un punto debole per lo sviluppo del turismo a Noto. Infatti, l’assenza pressoché totale di strutture ricettive nel centro storico ed il ritardo nella realizzazione di adeguati esercizi di servizio hanno sinora dirottato il turismo verso altre località più attrezzate della provincia, come la stessa Siracusa, rendendo la città non una meta ma luogo di transito. L’impianto può essere attraversato da quattro possibili vie, tutte “urbane”, anche se in maniera diversa tra loro. L’accesso da sud avviene passando per il parcheggio sottostante mediante un collegamento verticale costituito da scale ed ascensore e pensato nel ricordo degli androni all’interno degli isolati di Noto, dove i loro rapporti dimensionali fanno sì che pubblico e privato s’intreccino in maniera quasi indistinguibile. Altre due entrate, quella da nord passante per l’ingresso principale del vecchio ospedale su via Trigona, e quella da est corrispondente al vicolo che lega l’edificio dell’ostello con quello dell’albergo, ricordano quelle strade dove diversità dei livelli e botteghe artigiane costituiscono le due caratteristiche principali. L’ingresso da ovest è quello più rappresentativo; si accede infatti attraverso la chiesa e salendo la sua scalinata si può quasi immediatamente arrivare ad un percorso panoramico che offre sicuramente una delle vedute più belle che si possono avere della città; veduta che si estende sino al mare. Oltre al recupero vero e proprio dell’edificio si propone la progettazione di una nuova parte che va a “completare” con
una corte-giardino l’edificio del vecchio monastero; corte probabilmente di cui questa struttura è stata da sempre orfana. Altri corpi di nuova edificazione come i laboratori per gli artigiani, vengono previsti sulla piazzetta all’incrocio degli ingressi est e nord, proprio per arricchire ulteriormente l’interno con immagini urbane. Il corpo verticale, superfetazione del riuso come ospedale, costruito in epoca recente, viene demolito per dare spazio ad un corpo che allungandosi sino alle scale provenienti dal parcheggio situato in quota inferiore, chiude la corte-giardino. Quest’ultima, ricavata sfruttando anche la pendenza del terreno, dove il verde che arriva ad attraversare uno spazio porticato viene fuori collegandosi ai giardini esistenti nelle diverse quote, rinnova le tradizioni che vengono sicuramente dalla cultura araba, dove il verde e l’acqua utilizzata anche come elemento climatizzante, offrono un riparo alla calura estiva; entrambi, elementi presenti, dai tempi più antichi, nella memoria dei siciliani. Sfruttando gli ingressi da est e da nord si riesce a formare un percorso pedonale, dove chiunque ha possibilità di vivere uno spazio articolato, dove rivive la memoria di un luogo “urbano”; così noi ritroviamo vicoli e larghi, scalee monumentali e minuscole scale, luoghi insomma dedicati agli incontri quotidiani che fanno di uno spazio un ambiente urbano; ed ancora, ritroviamo gli artigiani che nella storia della città avevano contribuito a rendere fiorente l’economia di Noto, situati lungo la strada di accesso da est, nella piazzetta sottostante e nel
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corpo verticale, quasi a chiudere un ideale percorso cittadino. Quest’ultimo si articola ulteriormente perché si ha possibilità, al piano terra, di girare attorno alla corte-giardino, passando per un percorso all’occorrenza espositivo, fino poi ad immettersi all’interno del giardino. Al piano superiore invece si ha la possibilità di fruire di un vero e proprio percorso panoramico che si conclude, come già detto, in prossimità dell’ingresso della chiesa. Il progetto tende quindi ad una ridefinizione del complesso attraverso l’assunzione di alcuni temi di architettura, emersi dall’analisi della città, quali la corte e la strada interna. Si è fatta molta attenzione all’uso del materiale da utilizzare nella nuova edificazione: la struttura verrà realizzata in cemento armato, mentre i rivestimenti superficiali utilizzati sono la pietra da taglio, liscia e martellata a fasce alterne che riveste tutte le parti dell’edificio che hanno un carattere pubblico e l’intonaco, utilizzando le sabbie tipiche della zona, quale finitura dei corpi propri dell’albergo. Distribuzione funzionale. Le scelte tipologiche e funzionali del progetto corrispondono a due obiettivi prioritari: — riqualificazione urbana, cercando in questo modo di arricchire l’ambiente della città superiore povero di strutture emergenti rispetto a quella inferiore; — rispondere alla domanda ricettiva, che come abbiamo visto è pressoché nulla nel centro storico di Noto. Per quanto riguarda il primo aspetto abbiamo visto come si è tentato di ren-
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Foto 3 L’ex Carcere Mandamentale prima dell’intervento di recupero Vista dall’alto della zona di accesso principale; da notare sullo sfondo il panorama della città di Noto con in primo piano la cupola e la copertura della Cattedrale distrutte dal crollo recente. Foto 4 L’ex Carcere Mandamentale prima dell’intervento di recupero Vista della zona di accesso principale. Foto 5 L’ex Carcere Mandamentale prima dell’intervento di recupero Vista dell’angolo a valle lungo la scalinata di via Fratelli Bandiera.
dere più continuo il rapporto con l’ambiente esterno al nostro complesso. Questo aspetto è rafforzato anche dalle funzioni che vengono date al piano rialzato. Infatti, tra l’ingresso nord e quello est vengono inserite tutte le funzioni che possono servire alla comunità intera, cioè ristorante, self-service con rispettive cucine, sale ricreative; questi spazi si adattano, anche tipologicamente, visto che nel vecchio monastero questi erano gli spazi destinati alle attività collettive. L’ingresso del vecchio ospedale rimane tale e subito in prossimità di questo si collocano la ricezione, il bar e alcuni locali soggiorno. Procedendo poi verso ovest ci sono gli spazi dedicati alle attività socio-culturali, la sala proiezioni e la sala conferenze ricavata nei locali dell’ex chiesa. Il corpo di nuova edificazione ha una forma ad U e, con il corpo preesistente, come già detto, forma una cortegiardino realizzata in pendenza; all’interno di questa si ricava una gradonata centrale, utile per piccole manifestazioni all’aperto. Il corpo ad U è costituito, a partire da ovest, da un piano occupato dalla sala espositiva che prosegue nel lato centrale della U; qui grazie alla pendenza del terreno diventa a due piani; il piano inferiore è costituito da uno spazio porticato, che all’occorrenza può diventare un piccolo palcoscenico; la copertura calpestabile diventa così un percorso panoramico. Il terzo lato è costituito invece da un corpo di quattro piani: i primi due servono innanzitutto al completamento dei percorsi pubblici dove vengono inclusi al piano terra le botteghe artigiane e al primo
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piano gli uffici che assolvono funzioni di tipo turistico; all’estremità di questi è situato il corpo scale che collega il complesso col parcheggio sottostante e con la copertura risolta a terrazza panoramica. Gli ultimi due piani vengono utilizzati invece per le camere dell’albergo, tutte ad un posto letto. I locali di servizio e quelli tecnologici vengono ricavati in un corpo situato davanti alla preesistenza che chiude la U consentendo così la continuità del percorso panoramico nei locali sotto la sala a sud del ristorante. Il primo piano, fatta eccezione per alcune sale comuni è interamente dedicato alle camere da letto, avremo così tre categorie di camere: 1 - stanze ad un posto letto e servizio (n°24); 2 - stanze a due posti letto e servizio (n°13); 3 - stanze alloggio a due posti letto e servizio (n°11); per un totale di 72 posti letto. Anche in questo caso la tipologia dell’edificio è rispettata, visto che questo piano era destinato a dormitorio. L’edificio delle Carceri Reali, con i suoi grandi ambienti, si presta meglio ad un altro tipo di turismo; senz’altro ad un’utenza più giovane. Si è scelto quindi di utilizzare l’edificio come ostello. La parte amministrativa di ricezione e quella comunitaria è posta alla sinistra dell’ingresso, sul lato est, mentre le camere e i servizi igienici sono ricavati nei rimanenti ambienti. L’unica modifica apportata su questo piano consiste nell’unire, a modo di cerniera, con un affaccio, la vecchia passerella con l’unico balcone, realizzando una piccola zona panoramica.
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Nel piano inferiore viene ricavato un collegamento orizzontale tra gli ambienti, visto che questo piano ne era sprovvisto; inoltre nel lato ovest viene utilizzato un’altro ambiente, prima interrato, dove andranno situati i locali igienici; il soggiorno viene ricavato dove prima era situata l’aula scolastica; il cortile diventa una terrazza che si affaccia sulla città. Nelle camere vengono inoltre ricavati dei soppalchi dato che l’altezza degli ambienti lo consente. Ricaviamo così, circa 50 posti letto. Nel corpo verticale, a sud, vengono ricavati i locali tecnici e adiacente a questo viene situato l’ascensore che conduce al piano superiore tramite la passerella.
Fonti bibliografiche: Corrado Latina, Noto: un centro storico fra emergenza e ipotesi di recupero, in Recuperare, n°47, 1990, pp. 256-265. Stephen Tobriner, La genesi di Noto, Ed. Dedalo, Bari 1989 L.Dufur, H.Raymond, Dalle baracche al barocco, A. Lombardi Editore, Siracusa 1990. Corrado Sofia, Noto - le pietre sacre del barocco, Electa, Milano 1991. Corrado Fianchino, La fabbrica barocca, Ed. Netum, Noto 1991 Luigi e Salvatore Di Blasi, Noto l’immagine, Zangara Stampa, Siracusa 1997. UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI FIRENZE DIPARTIMENTO DI PROGETTAZIONE DELL’ARCHITETTURA TESI DI LAUREA Centro ricettivo a Noto RELATORE: prof. Rosario Vernuccio C.RELATORE: arch. Stefano Martinelli AUTORI arch. Paolo Martorano, arch. Massimo Mortelliti
Foto 6 L’Ostello dopo l’intervento di recupero La scala di collegamento del resede inferiore con il cortile dell’Ostello.
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Foto 7 L’Ostello dopo l’intervento di recupero Una camerata al livello superiore aperta direttamente sulla cupola della Cattedrale in corso di ricostruzione. Foto 8 L’Ostello dopo l’intervento di recupero Il cortile aperto sul panorama della città.
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TESTIMONIANZE: VENEZIA, SARNO, CARPI Maria Grazia Eccheli
Premessa Un Dipartimento Universitario a Venezia, un Sistema di Scuole Secondarie a Sarno ed una tesi di laurea per una Scuola di Specializzazione a Carpi: forse è soltanto casuale che i progetti qui presentati siano, pur di diverso ordine e grado, delle scuole. Ma è certo che se l’individuazione del carattere proprio dell’edificio pubblico costituisce, nella privatizzata città odierna, uno dei problemi fondamentali per una architettura che si voglia “civile”, l’edificio scolastico si presta particolarmente ad approfondire, senza un alibi credibile, la crisi attuale dell’architettura a farsi interprete dei caratteri collettivi della città. Forse proviene da qui - dalla particolare necessità per un edificio destinato all’istruzione di attingere anche ad una rappresentazione della propria natura collettiva - la tensione, comune a questi progetti, ad una certa didascalicità rispetto al tema. Non è solo l’Istituto del Concorso (l’occasione di questi progetti) e la sua natura in fondo agonistica a costringere - positivamente, secondo noi, purché non si trasformi in uno sbrigativo avvallo di mera diversità - ad una radicalizzazione della proposta, ad una sorta di tipizzazione, ma anche, nel nostro caso, l’evidente ricerca del valore propriamente costruttivo di una possibile, anche soltanto intuita, norma o “regula” che vada oltre, se non contro, le aspettative stesse dell’Istituzione. Un secondo elemento comune ai lavori che si presentano è il loro cosciente e aperto misurarsi con la città antica: sia che si trovino in luoghi, ad essa interni, la cui ragion d’essere rispetto alla sintassi urbana sia stata incrinata da tra-
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sformazioni più o meno recenti e che attendano dal progetto una sorta di risarcimento; sia che si trovino in luoghi esterni in cui debba essere fondata proprio la plausibile necessità del loro stesso apparire. In entrambi i casi, tali luoghi manifestano l’esigenza di un loro senso rispetto alla città intera. È proprio tale valore relazionale dei luoghi che i progetti assumono come proprio elemento maieutico. In realtà si tratta di un confronto impari e quasi sempre perdente, ma che si ritiene necessario ed insostituibile perché, oltre a trasformare il processo di progetto in un apprendimento continuo dei tratti strutturali della città e a fondare le possibili norme di una sua continuazione (non necessariamente lineare), esso impone allo stesso tempo un riesame degli stessi fondamenti del progetto moderno. Dal punto di vista della localizzazione, i progetti per Venezia e Sarno sono tra loro complementari. Mentre la Scuola veneziana si trova all’interno di un sistema urbano di tale complessità storica e formale da aver costituito da sempre una impietosa pietra di paragone per il progetto moderno, l’edificio di Sarno si vede costretto, da insindacabili criteri di tecnica geologica, ad un forzato isolamento rispetto alla città di appartenenza. È tuttavia l’assunzione a tema, ancora prima della destinazione, proprio della localizzazione dell’edificio, vale a dire del suo necessario rapporto con l’insieme della città, a costringere ad una scelta didattica se non didascalica di forme: la volontà di ritrovare nella disamina progettuale l’imprevista disponibilità e necessità stessa di soluzioni già conosciute, già sperimentate e, per
questo, quasi al di fuori del tempo. Si vorrebbe declinare sul luogo soluzioni, almeno intenzionalmente, definitive. A tale scopo il progetto per Venezia sceglie di misurarsi con giaciture più antiche di quelle che reggono gli edifici che lo circondano e che ora sono sepolte sotto incredibili volumetrie: sceglie cioè di porsi nelle condizioni stesse dell’origine della città. Condizioni che a Venezia, data l’“innaturalità” del sito, sono già una creazione della città e forse la spiegazione dell’inscindibile unione di architettura e natura. Ma non si tratta di una scelta meramente archeologica: l’edificio si sviluppa ricorrendo agli elementi testimoni di una Venezia reale (la declinazione in acque veneziane del Palazzo, l’invenzione della “scuola” veneziana, il più evocativo tra gli edifici della sua storia...) e si affida, alla ricerca di un principio di unità dell’insieme, alla implicita e cogente normatività di un frammento di morfologia lagunare. Sicuro di tale (faticosissima) relazione, l’edificio non vorrebbe dire nulla sull’attesa (ormai spasmodica e a cui viene ormai ridotta l’intera complessità progettuale del progetto) di un’immagine: nel senso che l’edificio può quasi “omettere” i suoi fronti. Ma l’omissione, com’è noto, è tutt’altro che rinuncia. In realtà il progetto affida, in un certo senso, alla città stessa il proprio compimento: demanda alla compresenza della città la risoluzione dei suoi stessi problemi. Non a caso: Venezia ha sempre conservato compresenti le leggi formali della propria crescita, non sai se causa od effetto di una straordinaria fissità tipologica. Poche città possiedono la possibilità di tale visione sincronica del proprio processo storico: i severi edifici
dei “proti” vi convivono accanto all’opera che segna il tempo, in un rapporto vicendevole di mutua e necessaria spiegazione. Il prospetto famoso di San Marco nasconde, in qualche parte vicino all’abside, gli arconi di scarico della proto-Venezia/Alessandria belliniana. E forse non è un caso che la facciata della Scuola Misericordia rifiuti ogni “finito” – fosse anche la forma palladiana -, rifiuti cioè ogni determinazione stilistica. Un tale distacco dalla forma, quasi una sospettosa difesa che può rendere ragione della “moralità” delle pietre di Venezia individuata da Ruskin, può diventare un procedimento di logica formale che la cultura architettonica più avveduta e cosciente ha già additato come soluzione possibile per un “tempo di privazioni”. Il progetto si limita a creare la possibilità e una prova della legittimità stessa del procedimento appena descritto: l’irrazionalità dei confini del lotto a disposizione viene utilizzata per trasformare i limiti esterni in una casuale sezione di una struttura interna, su cui meno esigente sia l’aspettativa di una “rappresentazione”. Nel caso di Sarno il progetto è come soverchiato dalla responsabilità che gli deriva dal forzato isolamento dalla città. L’impossibilità di istituire una qualche dialettica con l’esistente, tuttavia, non esime il progetto dal ricercare una relazione con l’antico insediamento che sia ragione del suo stesso apparire. Data la complessità stessa di un programma che prevedeva un insieme di scuole, la soluzione forse più immediata di un frammento di “tessuto” o di una composizione di più edifici si sarebbe confusa con i lacerti dell’inci-
piente espansione: per questo la soluzione viene vista piuttosto un unico edificio a costituire la stessa spiegazione di questi ultimi. Di qui la scelta di evocare il paradigmatico ruolo delle certose suburbane, che nel loro orgoglioso e altrettanto forzato isolamento nondimeno sono sempre, nel loro declinare segni inequivocabili d’appartenenza, una prefigurazione della città di cui costituiscono l’isolato avamposto nella campagna: Pavia, Parma, Firenze... Proviene da qui il ricorso ad una forma tipica di ogni atto di fondazione che caratterizza quei tipi di edifici - compresa la loro utopica e quasi astorica idealità -, e che sembra riassumere nella sua semplicità la sacralità di ogni inizio, nella speranza di attingere ad una generalità che renda secondaria la contingenza dello stesso programma. Si tratta in fondo di una figura da agrimensori, preoccupata di istituire, o di rapportarsi con un disegno dei campi che si confonde con l’immagine stessa della città mediterranea. Ed è sorprendente che alla fine il progetto ripeta in se stesso la stessa forma dell’insediamento della città cui appartiene. A riscattare l’edificio da questo a-priori formale - si tratta ovviamente di una speranza prima ancora che di un’intenzionalità - è forse la naturalezza con cui, secondo noi, l’edificio può rispondere alla complessità del bando (il legame con il sito, la relativa indipendenza delle tre scuole, il ruolo comune dei servizi sovrascolastici e degli impianti sportivi) semplicemente sviluppando l’implicito ordine tassonomico della crociera, la sua immediata capacità di tradurre in valore collettivo dei nessi distributivi.
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Concorso per una nuova sede IUAV nell’area dei Magazzini Frigoriferi a S. Basilio (Venezia) Maria Grazia Eccheli, Riccardo Campagnola con Maria Chiara Arvedi, Hermes Gabrielli
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Nuova Sede IUAV Relazione “...Venezia, pur in una eccezionale situazione geografica, mette a punto un sistema urbano che prescinde da ogni naturalismo per proporre una organizzazione della città in sé...” (Aldo Rossi) Principi del progetto Troppo grevi e paralizzanti le mitologie che strutturano la “forma urbis” veneziana per non essere costretti a ritornare, letteralmente, alle sue fondamenta. È del tutto risaputo come le fondamenta veneziane costituiscano l’elemento dialettico della declinazione nel tempo di una identica volontà costruttiva. E il progetto non vuole essere altro: vuole riscoprire - come del resto è sempre avvenuto nella storia della città antichi tracciati come condizione stessa del “nuovo”, riscoprendo le “palificazioni” originarie in un atto che non sai se di pura economicità o non piuttosto di inveramento di una vocazione della città verso criteri di certezza, sui quali possa adagiarsi il trascorre del tempo ed il mutare delle esigenze della città. Una storia profonda e quasi indifferente agli “stili” che incarnano le grandi stagioni della Serenissima. Questo è il senso, si crede, della citazione di Aldo Rossi. Nell’area del progetto si scontrano due giaciture: non tanto geometriche quanto storiche. La prima, a fronte del “Campiello dell’Oratorio”, segue la legge fondamentale della città che dispone allineamenti e giaciture perpendicolari al fronte d’acqua (Rio di San Nicolò), mentre la seconda, pur nel
suo apparente principio d’ordine, è piuttosto tesa da inverare volumi e misure dell’atopicità del moderno. Sepolte al di sotto dell’inverosimile volume dei Magazzini Frigoriferi, si incrociano due destini della città. Scelta principale del progetto è di riportare alla luce (quasi come unico suo fine espressivo) la prima giacitura, prolungando così fino al Canale della Giudecca i principi costruttivi della città storica. Tale giacitura struttura l’intero progetto: essa viene delimitata, tuttavia, dalla indifferenza delle linee catastali del lotto a disposizione. L’Edificio nell’Area dei Magazzini Frigoriferi Il nuovo edificio è costituito da una corte allungata che un atrio centrale, completamente trasparente al piano terra, divide in due parti asimmetriche. A conformare il nuovo edificio è un doppio principio tassonomico delle funzioni richieste dal bando di concorso. Al piano terra (ripetendo in questo una distribuzione canonica degli edifici della città) si trovano tutte le funzioni in diretto rapporto con l’esterno, mentre le funzioni didattiche si svolgono ai piani superiori. Il piano terra possiede inoltre una seconda gerarchia: infatti la Sala Conferenze e l’Auditorium, pur annessi alla nuova Sede Universitaria, sono resi da questa indipendenti mediante un quadrivio di “calli” che si inoltrano all’interno del lotto. L’Auditorium è pensato come una “scuola veneziana”: un’unica sala, posta a livello del primo piano e arredata con due cavee contrapposte e separabili tra loro, che si sovrappone ad un
foyer/spazio espositivo situato al piano terra e direttamente raggiungibile dall’esterno della Sede Universitaria. (La nostra proposta, tuttavia, - essendo richiesto il recupero della volumetria del “Magazzino sul Rio di San Nicolò”- prevede la possibilità, data la quasi equivalente metratura per piano, di porre su tale sedime la vera Galleria dei disegni. Essa viene unita sia al Nuovo Edificio che all’attuale Facoltà da un ponte. Tale Galleria, posta al primo piano, poggia su di un portico che si attesta sul piccolo prato antistante l’ex Cotonificio). La nuova sede IUAV sui Magazzini Frigoriferi viene distribuita, a partire dal primo piano, in due corpi contrapposti uniti da un atrio centrale. Nel corpo ad Est si trovano le Aule, mentre il Dipartimento trova posto nel corpo ad Ovest. Entrambi i corpi edilizi sono in comunicazione con una sorta di torre per gli “spazi per incontri di gruppo e seminari” che è posta all’incrocio dei due canali. Il Piano Coerentemente, si crede, con i principi del progetto, il piano particolareggiato prevede l’abbattimento della Stazione Marittima ed il recupero del suo volume mediante un edificio posto a testata dei Magazzini Ligabue. Tale edificio, chiudendo gli eteronomi spazi dei magazzini, potrebbe contenere tutti gli spazi di collegamento e di servizio conseguenti alla nuova destinazione degli stessi. Occorre ricordare che, in tal modo, si ha la possibilità di ricostruire, almeno in lunghezza, i distrutti Granai di Terranova. Senza contare che tale nuovo fronte si compone con il fronte della Nuova
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Sede IUAV, mettendo in risalto, all’interno di un lungo profilo ininterrotto, l’unicità della nuova corte di progetto. La volumetria rimanente della Marittima, viene ridistribuita in una edificazione sia lungo la “Salizada San Basegio” (per contenere la differenza di quota tra la città antica ed il bordo della Giudecca) che lungo il “Rio di San Basegio”. Solo il convento di San Sebastiano rimane in diretta connessione con il verde che costituirà il rimanente dell’area. Il Carattere Il nuovo progetto risulta composto di frammenti di una Venezia al di fuori del tempo. La giacitura longitudinale dei muri posta perpendicolarmente alle vie d’acqua, le stesse diverse citazioni di cui si compone l’edificio, l’aria dimessa ed orgogliosa ad un tempo dei “fondaci” della città storica, la declinazione dell’edificio pubblico in acque lagunari (le “scuole”), la distribuzione per funzioni sovrapposte, la problematica dei “difficili siti loro” di un Palladio o di un Sanmicheli... Al di là dei raggiungimenti, tali intenzioni si credono sostanziali al progetto di una nuova Facoltà di architettura.
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Concorso per la Città della Scuola a Sarno Maria Grazia Eccheli, Riccardo Campagnola, con Daniele Dalla Valle, Hermes Gabrielli e Alessandro Scarnato.
“Topografie Mediterranee” Relazione Il Problema Racchiusa tra due linee ferroviarie e delimitata da due strade provinciali, l’area del progetto palesa una totale astrattezza nei confronti della forma della città (astrattezza riconosciuta dal bando stesso allorché ne demanda i criteri di scelta a motivazioni di natura geologica). L’area, inoltre, è divisa in due da una lottizzazione che s’incunea nella sua forma, quasi a rendere evidente una dualità già presente nella diversità delle giaciture dei campi sulle due rive del Rio Palazzo. A fronte di tali contraddizioni e poiché si crede che il progetto non possa rinunciare ad istituire un fondato rapporto (un giudizio) con la città cui appartiene - e tale rapporto costituire il nucleo originario della successione delle sue scelte - il nostro progetto assume a paradigma la forma stessa di Sarno: un quadrivio tra l’andamento pedemontano della strada principale e la giacitura ad essa perpendicolare della strada-piazza che ordina la sua prima espansione verso la piana. Tale assunzione delle forme e delle giaciture della città all’interno del progetto vuole fondare una possibile dialettica con l’esistente con un obiettivo d’ordine e di indirizzo delle trasformazioni future della città stessa (una virtù che un buon progetto dovrebbe sempre palesare come parte della necessità della sua stessa apparizione, della sua “raison d’être”). È per tal fine che il nostro progetto si
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presenta come un unico edificio: un edificio che vuole superare la pura additività del programma e far coincidere ogni possibile morfologia nell’unicum di una struttura - di un tipo -: soprattutto per rendere più immediato e attingibile quello che per noi rimane il problema più difficile richiesto dal tema di progetto, vale a dire il suo carattere collettivo di grande architettura civile (un classico termine divenuto ormai quasi incomprensibile) Le tre scuole, assieme alle loro funzioni comuni disposte nel quarto braccio, si dispongono così a formare una crociera: tale tipo, che affonda nei secoli la propria legittimazione, rivela una insospettabile attualità nel trasformare la sua intrinseca tassonomia funzionale in una sorta di autorappresentazione del progetto a se stesso. Il risultato - quattro isolati di misure canoniche e collaudate nella tradizione della città disposti a formare un quadrivio - se richiama la teoria della città romana, estende la sua capacità evocativa anche ad edifici (pensiamo ad un incompiuto Albergo dei Poveri piuttosto che alla Reggia di Caserta) che incarnano quasi l’immobile evolversi nel tempo di una astorica città mediterranea. Descrizione La tassonomia fondamentale con cui si identifica il progetto vuole essere la trasposizione del programma dato. Ognuna delle tre scuola è formata da due corpi edilizi di tre piani che, a partire da un atrio di ingresso, individuano una strada interna. Al piano terra si trovano i laboratori (in diretta comunicazione con l’esterno e
con gli spazi liberi del progetto), mentre ai due piani superiori si allineano le aule divise in quattro sezioni di cinque aule ciascuna. Gli edifici delle tre scuole si attestano su due corpi bassi, simmetrici all’ingresso, che contengono la direzione e le funzioni in immediato contatto con l’esterno. Componendosi tra loro gli edifici scolastici formano i tre bracci della crociera. Il quarto braccio è costituito dall’edificio delle funzioni comuni ai tre istituti (mensa e biblioteca), a sua volta innestato sul corpo basso della direzione didattica. In tal modo i tre edifici, indipendenti e ciascuno con un proprio ingresso, sono congiunti tra loro dalla strada interna che diviene così il luogo in cui l’edificio si rappresenta e diviene intelligibile come unità: un grande interno che supera la disparità delle funzioni (chi non ricorda la descrizione della cattedrale Hegeliana?). La strada è costituita dai corridoi colonnati che si sovrappongono al muro continuo del basamento dei laboratori: al suo interno piove la luce dall’ultimo piano, una terrazza scoperta con finestre vuote che si aprono sulle quattro direzioni del paesaggio. L’immagine complessiva è quella di un luogo chiuso, quasi fortificato, in cui gli edifici interni degli spazi didattici s’innalzano sul basso corpo perimetrale. Tale edificio perimetrale, attestato sul corridoio che racchiude le grandi corti a verde, è disponibile a futuri ampliamenti delle scuole stesse, data la labilità temporale (una preoccupazione presente nel bando del concorso) degli attuali ordinamenti scolastici.
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Una delle strade interne dell’edificio (quella formata dalla Mensa e dalla Biblioteca) si prolunga all’esterno in direzione del Rio Palazzo ad ordinare ed unire alla scuola le funzioni che il programma vuole a servizio anche “del territorio”: l’auditorium e la palestra. Si ottiene così che le funzioni “sovrascolastiche” si trovino distribuite da una strada porticata (deposito di biciclette) che raccoglie l’unica indicazione morfologica offerta dalla città al progetto: la piccola strada che attraversa la lottizzazione che s’incunea nell’area di progetto. Tale strada, per il suo carattere secondario, può divenire l’elemento di unione tra il progetto e l’area a verde (elementi sportivi?) che si trova nell’angolo nord-ovest in diretta connessione con la città. Palestra ed Auditorium sono stati studiati per un accesso sia dall’interno della scuola che dai due parcheggi su cui si attestano. L’accesso previsto dal PRG, infatti, è stato modificato per distribuire sia i tre ingressi delle scuole che per raggiungere i posteggi in corrispondenza delle due funzioni “a livello del territorio”. Il ponte porticato che attraversa il Rio Palazzo è parso indispensabile per stabilire l’unione delle aree di pertinenza della scuola, nonostante la loro fisica divisione.
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Tesi di Laurea “La riscrittura della Cittadella di Carpi� Relatore: Prof. arch. Maria Grazia Eccheli Candidato: Franco Rebecchi Anno Accademico 1997-98
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Carpi: la forma della città In un antico disegno cinquecentesco, attribuito all’ingegnere Terzo de Terzi redatto a conclusione del cantiere delle mura, sembra essere riassunto il carattere storico della città e il suo destino di città ideale voluta dal Principe Alberto Pio III. Pochi segni ne fissano le architetture: le mura fortificate con i bastioni e le porte difendono e definiscono i limiti fisici e geometrici, le chiese-convento degli ordini mendicanti indicano le dimensioni dei borghi, le architetture monumentali del Castello dei Pio, della Cattedrale della Collegiata e del portico, segnano il grande vuoto urbano della piazza centrale, elemento ordinatore dell’idea rinascimentale della città. All’origine di questa semplice figura spaziale sta la ricostruzione di un “foro all’antica” che ingloba la città medioevale e la trasforma in una nuova città idealizzata rispondente non solo a necessità concrete ma anche a quella idea figurativa di rilettura dell’antico che l’accomuna al processo di “renovatio urbis” di tante città italiane, (ad esempio il disegno di piazza ducale a Vigevano). L’antica cittadella (X-XI sec.) “castrum Carpense”, eretta originariamente a difesa del primo insediamento carpigiano, racchiudeva al suo interno architetture rappresentative quali la Pieve di S. Maria, il Castelvecchio e le residenze nobiliari. La Cittadella, ormai non più rispondente alle nuove esigenze autorappresentative del piccolo feudo autonomo, diventa matrice dello spazio monumentale (l’attuale Piazza Martiri): la pianificazione rinascimentale individua
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nelle mura occidentali e nel vasto spazio dei terrapieni l’asse su cui ribaltare l’originaria piazza. Le residenze nobiliari, la Torre dell’uccelliera, la Torre del Passerino vengono inglobati e trasformati nel CastelloPalazzo che dominerà il Nuovo “Foro”. A completamento del nuovo sistema monumentale le case di fronte al “Palazzo” vengono unificate dal Portico Lungo, a nord il Duomo e a sud il Portico del Grano concludono la scena. Un frettoloso disegno concluderà poi parte della Pieve (il rifacimento della facciata sarà opera di Baldassarre Peruzzi) per trasformare la “piazza del gioco del pallone” in “piazza d’armi”. Eppure la cittadella, nonostante l’emarginazione dalla nuova idea di città, nonostante demolizioni e sovrapposizioni, sembra aver conservato una sorta di difesa dei suoi caratteri originari. Il tema di tesi “una scuola di Design del Tessile”, individuando la cittadella come luogo di progetto si incarica: - di risarcire la città del suo nucleo originario; - di restituire alla vita della città quegli spazi degradati tra l’imponenza del “Palazzo” e la nuova inadeguata recente espansione della città; - di ricostruire un frammento di storia della città evocando immagini storiche che possano restituire anche il senso della sua stratificazione e complessità; - di recuperare un rapporto più plausibile con il foro carpense. Il “Castelvecchio” e l’annessa “Sagra” sono accolti al proprio interno come elementi della composizione, frammenti da ricomporre tramite segni contemporanei, rovine da cui carpire l’ordine naturale delle cose. Il progetto, aderen-
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do al programma funzionale della scuola di Design, individua nel disegno degli edifici collettivi l’occasione di ridefinizione e rivitalizzazione dell’antico cuore della cittadella (la “piazza del gioco del pallone”). L’Auditorium e la Biblioteca sono pensati come addizioni del Castello Trecentesco, la loro autonomia formale dettata dagli antichi allineamenti della “centuriazio carpense” rende anche possibile un loro utilizzo aldilà dell’orario della Scuola. A nord a conclusione del sistema degli edifici collettivi la galleria ripercorre il segno delle mura. L’intero sistema di corpi di fabbrica e corti aperte sono percorribili al piano terra - dalla piazza rinascimentale alla piazza della cittadella alle corti interne del progetto, - amplificando quel carattere di “città continua” ritrovabile ad esempio nel sistema dei cortili dell’università di Pavia. Il Castello Trecentesco, “Castellovecchio” restaurato è pensato come sede rappresentativa della Scuola: presidenza, studi dei docenti, uffici amministrativi e segreterie degli studenti. L’altezza del suo loggiato detta la quota del “piano nobile” di tutto il sistema della “Scuola”. L’Auditorium, è pensato al piano terra come un grande atrio ipostilo racchiuso tra due ali dove si trovano la caffetteria e piccoli spazi commerciali. Al piano superiore la grande aula (capienza di 500 persone, sdoppiabile in due aule gradonate contrapposte), è collegato alla scuola dalla “strada coperta”. Al secondo piano le ali che la perimetrano diventano logge.
La Biblioteca, posta tra l’Auditorium e la Galleria, presenta una grande atriosala lettura a triplo volume con ballatoi che distribuiscono i due corpi longitudinali dove sono previsti stanzette per lo studio individuale, depositi dei volumi, biblioteca specializzata, ecc. La Galleria espositiva, che ridisegna le mura a nord della Cittadella, è divisa dalla Biblioteca da un doppio muro dove si trova il sistema dei collegamenti verticali. Al piano terra la “galleria” segna la sua presenza a partire da una nuova Porta Urbana d’accesso alla piazza. Si può raggiungere il “piano nobile” anche dalla scala esterna che, posta verso la piazza rinascimentale, supera attraverso un ballatoio la “porta della cittadella”. La “Strada coperta” parallela alla piazza distribuisce tutti gli edifici della scuola, dalla Galleria fino ai giardini del “Castelvecchio”. Elemento ordinatore di tutto il sistema scolastico al “Piano Nobile”, (permeabile al piano terra), essa racchiude al suo interno tutti gli elementi distributivi verticali. Le Aule e i Laboratori, edifici a pettine disposti perpendicolarmente alla “strada coperta” compongono un tessuto di corti interrotte sul lato est, laddove la strada ha cancellato ogni traccia delle mura. A sud questi edifici sono ombreggiati da logge in ferro colorato.
DALL’OSSERVAZIONE AL PROGETTO IL CONCORSO DI ARCHITETTURA COME STRUMENTO DIDATTICO Laura Andreini
I concorsi di architettura costituiscono uno strumento di straordinaria efficacia nello sviluppo di una didattica finalizzata al progetto. In primo luogo perché il concorso propone sempre un tema reale vincolato dalle esigenze di un bando che costituisce un quadro di riferimento certo, in secondo luogo per la possibilità di verificare attraverso gli esiti di una competizione tra progetti, la qualità e l’appropriatezza del percorso intrapreso. Nel concorso inoltre si individuano necessità ed esigenze che corrispondono alle attese di una committenza svincolata da quelle ristrettezze operative legate alla risoluzione di un incarico professionale diretto. Se in quest’ultima condizione qualsiasi tentativo di interscambio con la ricerca didattica rischierebbe l’impasse oltre una evidente limitazione intellettuale, nella competizione progettuale il confronto sul piano delle idee produce una energica azione di stimolo che costituisce il principale ingrediente di ogni sperimentazione in ambito architettonico. Fortunatamente anche in Italia, dopo anni decisamente contrari alla pratica concorsuale, si è aperta una fervida stagione di consultazioni tra progettisti che lentamente consolida una tendenza operativa in grado di porre la cultura architettonica del nostro paese al passo alle consuetudini europee. L’insegnamento dell’architettura, in modo particolare negli approfondimenti finali degli esami progettuali e nelle tesi di Laurea, si è certamente arricchito, attraverso questa “nuova” strumentazione accolta da studenti e docenti con un’attenzione sempre maggiore, imponendo ad entrambi il
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confronto con temi di elevata complessità e di assoluta concretezza. Sono molto frequenti i casi in cui l’attività dei laboratori progettuali si snoda attraverso un bando di concorso che fissa regole e punti di un programma che deve essere rispettato, compreso e risolto. In questo modo l’attività formativa dell’architetto supera quell’indeterminata astrattezza che allontana l’insegnamento universitario dalla realtà, la pratica dalla teoria, l’esercitazione architettonica dal progetto di architettura. In particolare attraverso il concorso si possono scegliere anche complessi casi di trasformazione urbana prescindendo nella scelta da una articolata e pertinente valutazione dell’opportunità sociale ed economica della trasformazione stessa, valutazione implicitamente contenuta nell’oggetto del bando. Il tema può allora essere affrontato mettendo in gioco gli elementi fondativi del progetto, concentrando l’attenzione sulle ragioni più attinenti all’insegnamento disciplinare della progettazione architettonica e urbana, ragioni che affondano il proprio sguardo conoscitivo sull’analisi del contesto, sulle sue caratteristiche morfologiche e tipologiche, sulle dinamiche compositive dettate dalle tracce e dai sedimenti che il luogo stesso è in grado di suggerire. In genere tanto più il contesto è complesso e articolato tanto più è necessario disporre -o in assenza di questa predisporre- di una specifica analisi dello stato di fatto, della sua evoluzione storica, di informazioni dettagliate sull’uso e lo stato di conservazione dei luoghi, di strumenti grafici e fotografici in grado di rendere congrue le osservazioni e le “misurazioni” sull’esistente.
Concorso per la nuova sede IUAV a Venezia, II fase, 1999. Laura Andreini, Marco Casamonti, Giovanni Polazzi, Silvia Fabi Nicola Santini, Giuseppe Fioroni Francesca Privitera, Paolo Giardiello, Gennaro Postiglione, Federica Bissocoli, Faustina Casanova, Cosimo d’Aprile, Antonella Dini, Antonella Fantozzi, Federica Gargani, Jacopo Maria Giagnoni, Bettina Gori, Giuseppe Lorusso, Raffaella Lecchi, Marcello Marchesini, Giulia Marino, Monica Niccolini, Patrizia Padula, Matthew Peek, Giuseppe Pezzano, Priscilla Pieralli, Lara Tonnicchi
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in alto pianta piano q. 0.00 in basso pianta piano q. 3.88 nella pagina precedente planimetria generale, pianta coperture nella pagina a destra in alto vista prospettica dal canale della Giudecca in basso pianta piano q. 11.64 I cinque parallelepipedi componenti il progetto, apparentemente disgiunti, in realtà si aggregano in due unità che ordinano le necessità funzionali. Il blocco ad est, prospiciente il piccolo canale che separa il lotto di progetto dall’attuale complesso universitario, è composto da due volumi paralleli, di dimensione diversa, tra i quali sono posizionati i sistemi di collegamento verticali. Sul vuoto, illuminato dall’alto, caratterizzato dalla presenza delle scale e degli ascensori si affacciano, da ambo i lati, i due ballatoi continui che disimpegnano le aule e gli studioli dei docenti disposti su quattro livelli.
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vista prospettica dal canale della Giudecca Abbiamo considerato fondamentale il rapporto con il contesto e, in particolare, le relazioni che intercorrono tra il luogo e il nuovo manufatto architettonico. Il progetto si propone quale parte integrante di questa parte di Venezia che, rispetto
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al tessuto minuto della città storica, costituisce un’eccezione essendo caratterizzato da volumi, quelli dei Magazzini Ligabue, la cui dimensione è estranea alla logica propria del centro antico, coerente invece con l’area in cui si interviene a carattere più marcatamente industriale.
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sezione longitudinale sull’auditorium. Parallelamente all’attuale sede della Facoltà di Architettura si dispone il nuovo corpo delle aule e quello con le aule seminariali e gli studioli dei docenti; al di là della piccola calle, interna al progetto, si dispongono i tre corpi, leggermente ruotati l’uno rispetto all’altro,
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contenenti le principali funzioni ad uso pubblico: bar, ristorante, libreria, sala espositiva, la grande hall, sala conferenze e auditorium. La sala dell’auditorium si incastra tra due di questi ultimi volumi evidenziando la possibilità, richiesta dal bando, di dividerla in due spazi capaci di funzionare autonomamente.
La città, l’intorno, le preesistenze ambientali –ritornando su un tema che dopo aver dominato gli editoriali della Casabella degli anni cinquanta dovrebbe acquisire una rinnovata autenticità e pregnanza- costituiscono i dati ineludibili della nostra conoscenza, dati che caratterizzano il DNA di ogni studio architettonico e urbano, dati senza i quali non è possibile articolare nessuna ipotesi di costruzione di una teoria e in ultima analisi di una necessaria e cosciente “scienza del progetto”. E affinché questa particolare disciplina scientifica fondata su dati certi e risultati sempre variati e diversi, acquisisca una dimensione metodologicamente corretta e, conseguentemente, il valore imprescindibile di un sapere trasmissibile, è opportuno, o meglio, è consigliabile utilizzare, nei casi di studio, esempi emblematici tratti da testi e contesti di chiara intangibile bellezza dove la stratificazione e la sovrapposizione storica forniscano immediatamente la consapevolezza che il progetto costituisce prima di tutto la risoluzione di un tema urbano. Per tali motivazioni le esercitazioni che da alcuni anni stiamo conducendo coinvolgono sempre aree centrali e significative escludendo a priori gli interventi in zone periferiche e degradate che pure rappresentano l’oggetto nella maggior parte dei casi reali legati all’agire contemporaneo. Una lettura attenta sull’architettura storica, così come una qualsiasi analisi che coinvolga la città consolidata, non vi è dubbio, facilita lo studio, la conoscenza e l’osservazione del contesto, abituando, nelle prassi progettuale, a servirsi delle tracce, delle direzioni, delle partiture
esistenti come strumento guida e ordinatore di un comporre liberato tanto dall’arbitrio quanto dall’emulazione acritica di fenomeni di moda. Inoltre, nella convinzione condivisa1 che “l’architettura sia maestra di se stessa” e nella, non più ovvia certezza, che la scrittura architettonica si inveri nel disegno, appare improbabile chiedere nella fase dell’apprendimento la restituzione grafica e quindi lo studio, di contesti anonimi, monotoni, squallidi, persino volgari, come purtroppo accade di osservare in molte fasce di nuova espansione. Viceversa attraverso il rilievo e la traduzione in ortogonale di luoghi di straordinario e comprovato valore storico-ambientale, quindi architettonico, si innescano evidenti processi di assimilazione di idee e manufatti che il tempo ha evidentemente distillato; il disegno dell’esistente non si invera allora in una semplice rappresentazione, assimilando e restituendo attraverso l’accostamento di linea a linea, lo studio analitico di un brano urbano su cui è possibile intervenire avendo compreso l’intima struttura compositiva che ne governa l’assieme. Il concorso per la progettazione della nuova sede dell’Istituto Universitario di Venezia, sul Canale della Giudecca, si inserisce perfettamente in questa visione didattico-programmatica costituendo un caso di studio che è stato a lungo utilizzato. Per ponderare in modo diretto il valore della proposta e della conseguente partecipazione al concorso, è sufficiente scorrere e analizzare alcune immagini del progetto che è stato redatto come guida di una sperimentazione progettuale che ha coinvolto studenti e docenti afferenti a più corsi.
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Forse l’esito finale, come è visibile nelle illustrazioni che accompagnano queste pagine, è fin troppo viziato dall’esigenza, per il progetto, di assumere un valore dichiaratamente paradigmatico, tuttavia il rapporto tra manufatto e contesto urbano segna evidentemente una intenzionalità che affonda le proprie radici nella migliore tradizione italiana sugli studi urbani, ultimo originale contributo di una specifica tradizione culturale che il nostro paese può vantare come patrimonio originale e indissolubile della propria identità. Già nella disposizione planimetrica, attraverso l’accostamento parallelo di volumi stretti e lunghi, disposti ortogonalmente rispetto al canale, è dichiarata la volontà di concepire il manufatto come una naturale esigenza del tessuto a rigenerarsi secondo le proprie consolidate leggi costitutive. Come gli arsenali e tutti i manufatti produttivi che popolano le sponde della giudecca anche il nuovo edificio si mostra come un ammasso ammattonato che si specchia nell’antistante Molino Stucky di cui riprende l’articolato e al tempo stesso unitario disegno del fronte. L’ondeggiare e la vibrazione dei vari corpi sull’acqua è mutuata viceversa dal traforo singolare della vicina casa alle Zattere di Ignazio Gardella. E se per quest’ultimo il riflesso variegato dell’acqua modula con casualità e ritmo la scansione delle finestre e dei decori di prospetto, nella nostra proposta tutto si enfatizza in una altalenante variazione dimensionale delle diverse stecche sia in altezza che in pianta realizzando, in questo avanzare e indietreggiare dei corpi di fabbrica, un ampio spazio libero sul canale della
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Giudecca ed un campiello sul lato opposto. I fronti sono inoltre collegati da una calle che attraversa completamente il complesso suddividendolo in due parti chiaramente individuabili sia in pianta che in alzato; conseguentemente le due stecche destinate alle aule per la didattica e le stanze dipartimentali risultano staccate dai tre volumi contenti lo spazio espositivo e l’auditorium organizzato su livelli soprastanti. Tale suddivisione, oltre a rendere permeabile e attraversabile l’edificio, corrisponde ad una studiata suddivisione delle funzioni concepita in modo tale da isolare le attività legate ad una fruizione prettamente didattica rispetto alle attività che assumono un valore eminentemente pubblico quali l’aula magna, suddivisibile in due aule congressi da 250 posti, e lo spazio per mostre ed esposizioni opportunamente collocato al livello del terreno. Dal punto di vista dell’immagine complessiva si è cercato di plasmare il frammentario accostamento dei diversi volumi con un trattamento unitario delle superfici realizzato attraverso la predisposizione di un paramento di facciata in terracotta che emula, tautologicamente, la struttura filiforme della “tenda alla veneziana”. Con tale meccanismo il progetto ricerca, sul fronte della Giudecca, quella ricchezza di trasparenze che caratterizza le bellissime e più sublimate facciate dei palazzi nobiliari prospicienti il Canal Grande e, attraverso una sintetica e più icastica riproposizione dei loro eterei trafori, le bifore, le trine marmoree, l’essenza di un contesto architettonico che affonda le proprie radici nell’arte e nella cultura bizantina. Tuttavia l’insieme è legato
all’immagine di un grande paramento in cotto che rivela la propria “inconsistenza” materica solo se osservato da opportuni angoli visuali o durante le ore notturne dove l’intera facciata scompare in un controcampo di luci. Una sorta di messa in scena della città dove l’osservazione e il ri-disegno del contesto guidano la composizione e le diverse articolazioni, planimetriche, altimetriche e superficiali; un’osservazione in grado di trasformare un linguaggio, necessariamente contemporaneo, in una sentita riflessione sui valori permanenti di una tradizione che mostra, attraverso il nuovo, tutta la propria efficace vitalità, poiché, come ha acutamente osservato Adorno “la tradizione non va negata astrattamente ma criticata senza ingenuità in base alla situazione attuale: in tal modo il passato è costitutivo del presente. Niente va accettato ad occhi chiusi solo perché ora c’è e una volta è valso qualcosa; però niente è spacciato solo per essere passato; il tempo da solo non è un criterio.”2
1 vedi: G. Grassi, Architettura lingua morta, Quaderni di Lotus, Milano, 1988 2 T. W. Adorno, Teoria estetica, Torino, Einaudi, 1975
sezione trasversale sul foyer a destra vista prospettica dal canale della Giudecca I prospetti che insistono sul canale della Giudecca, riescono a proporre un fronte frammentato la cui logica non contraddice gli adiacenti magazzini e, nel contempo, invita e prepara al retrostante succedersi di calli, campi e fondamenta che rendono percettivamente permeabile la nuova architettura.
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A=f(U,B) Aurelio Cortesi
In questo scritto sarà mia cura volgermi alle note programmatiche attinenti al Laboratorio di Progettazione 2, sez. A, nelle quali si afferma il “primato del disegno” e si postula l’attenzione verso la sequenza delle indicazioni teoriche che emergono dai riferimenti della trattatistica, intesa come traccia del “comporre architettura”. Nel delimitare l’ambito del nostro studio si afferma, con l’Alberti, che “l’architettura nel suo complesso si compone del disegno e della costruzione” ponendo inoltre attenzione alla asserzione successiva, “... si potranno progettare mentalmente tali forme nella loro interezza prescindendo affatto dai materiali”. La citazione continua definendo quel “primato del disegno”, che assumiamo, in toto, come nostro tracciato di lavoro, concepito nella mente e condotto a compimento da persona dotata di ingegno e di cultura. Nella citazione si può riconoscere l’eco di più nuove tautologie relazionate all’improbabile “eroe positivo” della viva stagione dell’idealismo al nostro inizio di secolo: a quell’intendente di poesia di cui molto si è disputato. Nell’Alberti si può leggere una presa di distanza, quasi una nota inespressa di biasimo, per un comporre, (un architettare) e un costruire, frutto degli artefici toscani: “una ragnatela di architettori e di ingegneri” intenti, a parole, narra il Vasari, a star “sopra il modo di voltar la cupola”, così come eufemisticamente palesato da quei consoli dell’Arte della Lana e da quegli operai di S. Maria del Fiore che ritardavano il nuovo di ser Filippo per mantenere intatta la gerarchia dei saperi corporativi, sperimentati ma tardivi e comunque
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inadeguati alle attese della fabbrica del Duomo. Alberti poneva in discussione l’assetto consolidato del ruolo dell’architetto, inteso come artefice, ma organico ad un sistema di produzione corporativa per proporre la figura dell’intellettuale compartecipe e protagonista del nuovo blocco di potere. È in questo senso che egli descrive l’ambito teorico attribuito alla figura “intellettuale” che il nuovo architetto incarna: l’autore che progetta mentalmente (le) forme... “prescindendo affatto dai materiali” certo, ma soprattutto si affranca dalla gestione tetragona delle corporazioni affermando un’area di intervento propriamente teorico: il “primato del disegno” consegue come area di conquistata autonoma individualità. Le linee portanti del Rinascimento risultano delineate enunciando principi e teorie che riducono intenzionalmente il legame tra idea ed esecuzione in una operazione che privilegia il processo di progetto astraendosi dai procedimenti tecnici consolidati della costruzione concreta. Alberti, più avanti nel testo, ci fa avvertiti dell’altro corno del dilemma: “riscoprire l’arte del costruire” inteso però come costume morale e non come processo intrinseco del progetto. Questa presa di distanza, ancora una volta, dà senso rinnovato al campo della esecutività che assume una ulteriore autonomia: “Il disegno ne è strumento perché, al di là della scrittura architettonica dell’idea, sviluppa una sua processualità che è “forma delle relazioni e pertanto compone”. Assumiamo queste enunciazioni, al di là delle tautologie possibili, per fissare
il ruolo tra le teorizzazioni e le esecuzioni delle opere, rilevando le intenzionalità dell’estensore che privilegia strumentalmente, il disegno, come fondamentale forma del pensiero architettonico tout court esprimendo “idea e forma delle cose” (Vasari). Si tratta di una strada già esplorata, anni fa, prima e dopo gli anni cinquanta, quando Ernesto N. Rogers espresse una teorizzazione in qualche modo debitrice alla trattatistica rinascimentale, privilegiando (facendosi lui stesso trattatista) il rapporto forma/funzione inteso come trasposizione dei termini di bellezza/utilità e comprendendo implicitamente, nella seconda aggettivazione, la firmitas. Un procedimento analogo, ritengo, a quello sinteticamente enunciato nell’esordio albertiano. Quella proposta mirava recuperare, alla cultura del Movimento Moderno, una parte della trattatistica espressa nella temperie culturale delle avanguardie, segnando una via di riaffermazione dei valori della storia, in tempi nei quali la palingenesi era la premessa per la formulazione di nuove definizioni all’interno del rapporto di formalizzazione canonico. È la ricerca sulle evoluzioni del linguaggio architettonico che lo coinvolge in prima persona. La trattatistica indica, nell’arco del suo pensiero, un nodo applicativo, tra teoria e progettualità che Rogers riuscirà, nei suoi primi anni di insegnamento, dal 1952 al 1955, a diffondere dal pulpito della disciplina Caratteri Stilistici e Costruttivi dei Monumenti. E questo programma rimarrà inalterato fino alla formulazione dei temi successivi, sulle preesi-
concorso a inviti per il recupero di un antico borgo agricolo a Camerata (Todi) 1991. progetto: prof. Aurelio Cortesi, arch. Marco Casamonti con Laura Andreini, Isotta Cortesi, Silvia Fabi, Giuseppe Fioroni, Emanuele Franzoni, Gristina Giani, Cristina Guerrini, Stefano Giovannozzi, Bettina Gori, Marcello Marchesini, Giovanni Polazzi.
stenze ambientali, riferiti alla sua propria elaborazione di progetto. La definizione degli aspetti del moderno, alla luce della problematica rogersiana, rimanda (siamo nel 1954) alla successiva elaborazione sui temi della tradizione nazionale. Un avanzamento teorico ormai conflittuale, almeno nelle enunciazioni, rispetto alle idee consolidate del Movimento Moderno. Una indicazione tematica che in questa sede mi limito ricordare in quanto non pertinente rispetto all’argomento che stiamo indagando, ma che richiamo per ricordare il riverbero culturale di portata generazionale del tema, -la contingenza che prende il sopravvento- rispetto agli sviluppi successivi dell’architettura. Ma a questo proposito voglio sottolineare, comunque, come Rogers perseguisse, sia nelle prime indicazioni qui esposte, di carattere teorico, sia in quelle immediatamente successive, più riferite al dibattito cogente -quello della costruzioneuna comune adesione ai temi della storia fissando, da lì, in modo riconoscibile, il percorso intrapreso dal mondo dell’architettura e che, osservato ormai a distanza di anni, stabilisce la sua coincidente e direzionata strada alla progettazione della Velasca. (E poi del museo del Castello). Assistiamo ad una finalizzazione dei temi indagati; la storia, la tradizione, il luogo, la città, volta ad una nuova pratica della progettazione, intesa questa, come “risoluzione” del momento storico attraversato. Un processo che si pone all’interno dell’assunto albertiano recuperando, tra idea ed esecuzione, principi di coerenza e di concretezza. Come abbiamo già sottolinato, la sua
attività didattica inizia mostrando -degli elementi del fenomeno architettonico- le definizioni e i significati terminologici, saggiando però, di volta in volta, i limiti dei propri settori, affinché risultasse evidente -quasi una tramala delimitazione del campo disciplinare e il suo continuo dilatarsi problematico d’orizzonte. Un testo lucido ma intrigante, funzionale alla costruzione sofisticata del paradosso: un materiale di studio che potrebbe essere assunto, esso stesso, come base teorica per un programma di ricerca sulle “ragioni del comporre”, tentando, finalmente, una risposta non equivoca su “quale storia per la composizione architettonica”. “Struttura della composizione architettonica”, la lezione riassuntiva di tale periodo, pubblicata su “Aut-Aut”, Milano, luglio 1953, precisa le coordinate teoriche della sua didattica. In essa cogliamo, in nota a margine, la sua famosa formula: A=f(U,B), ove l’architettura, A, risulta funzione delle variabili: U- utilità e B- bellezza. In questa formula si può cogliere il senso positivo dei suoi riferimenti tautologici, rilevandone il cipiglio accademico e ironico assieme, misurando la sua capacità di allargare all’interno delle definizioni proposte i compiti dell’architettura e in ultima analisi dell’arte. Architettura e arte intrinseci, per lui, al Movimento Moderno, beninteso. Da queste lezioni che sotto il titolo “Utilità e bellezza (Metodologia della composizione architettonica)” costituiscono la seconda parte di “Esperienza dell’Architettura” (Einaudi 1958), si passa successivamente negli anni 64/ 65 ad un testo che mi accompagna da
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concorso a inviti per il recupero di un antico borgo agricolo a Camerata (Todi) 1991. progetto: prof. Aurelio Cortesi, arch. Marco Casamonti con Laura Andreini, Isotta Cortesi, Silvia Fabi, Giuseppe Fioroni, Emanuele Franzoni, Gristina Giani, Cristina Guerrini, Stefano Giovannozzi, Bettina Gori, Marcello Marchesini, Giovanni Polazzi.
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molti anni nella mia esperienza didattica: mi riferisco agli “Elementi del fenomeno architettonico”, (scritto per Laterza ma ristampato successivamente da Guida Editore). Libro fortunoso, scritto in fretta, direi in pochi giorni, nell’occasione di un concorso a cattedra, ma lucidissimo libro al cui travaglio formativo ho assistito e nel quale sono stato chiamato a svolgere una ricerca iconografica (poi risolta, con più autorevolezza e tempestività nella redazione di Casabella). Gli “Elementi del fenomeno architettonico”, rivisitano i luoghi della ricerca rogersiana superando i valori assoluti delle definizioni chiuse in se stesse, per aprire contorni più concreti, ma non per questo meno limitati, coinvolgendo un discorso certamente più maturato e affabile che si sofferma, meno sui principi e su regole finalistiche predeterminate per giungere ad una azione pedagogica colloquiale, maieutica, storicamente riassunta e confrontata con i diversi livelli dell’insegnamento delle singole discipline. Ma torniamo all’equazione A=f(U,B,) e riportiamo da “La struttura della composizione architettonica” la nota a margine che la chiarisce: “Soltanto a scopo didattico e non certo con l’idea ingenua di risolvere la problematica in una formula, ho cercato di esprimere la concezione architettonica con simboli matematici, che, col far intendere l’insufficienza di una definizione additiva (firmitas, utilitas, venustas) di marca vitruviana, mettesse in evidenza la caratteristica fondamentale del fenomeno: che è un complesso di relazioni necessariamente integrate. Architettura (arte applicata) è una fun-
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zione dipendente dai termini variabili Utilità e Bellezza A=f(U,B) (Ma come ogni formula, anche la mia ha i suoi limiti, fuori dai quali perde ogni significato: se nel considerare, ad esempio una macchina vogliamo ammettere che B->0, non se ne deduce che U->∞ e, viceversa, se si considera un’opera di pura plastica, dove U->0, ché altrimenti l’architettura, trovandosi tra i due estremi, ciò significherebbe che essa è tanto più inutile quanto più è bella e viceversa)”. La cautela nell’enunciazione della formula, ascritta ad un esclusivo uso didattico, ci incuriosisce per il ricorso accattivante a simboli matematici: il linguaggio più garantito in una scuola politecnica, certo, ma congeniale, anche, ai rassembramenti internazionali legati alle avanguardie del Movimento Moderno, ove Rogers era considerato un interlocutore privilegiato per quel suo argomentare sul superamento dei rapporti deterministici forma/funzione: rapporti che costituivano, in quegli anni, il nodo centrale della discussione sul “linguaggio” del Movimento Moderno stesso, in vista di un suo invocato superamento. Una formulazione comprensibile e divulgabile nella scuola del CIAM; un grimaldello per affacciare la sua ulteriore trattazione (certamente di minoranza) la quale postulava, a partire dal 1954, una serie di relazioni sul fenomeno architettonico che trascendevano una funzione di tipo deterministico, quasi aritmetico, fra i termini variabili ed indipendenti di Utilità e Bellezza. Ne “Il Cuore della città: per una vita più umana delle comunità”, testo curato oltre che da Rogers anche da J. L. Sert
e da J. Tyrwhitt, (Hoepli 1954) viene affacciato, per la prima volta, dai CIAM, e con ritardo, nel 1951, a Hoddesdon, il problema dei centri storici. Le argomentazioni del suo saggio: “Il cuore: problema umano delle città” risultano di “transizione”. Quasi un camuffamento. Nella prima parte dello scritto assistiamo alla terminologia consueta delle avanguardie. Non manca il riferimento alla geometria, e ancor di più alla fisiologia e alla biologia (riferimenti antiaccademici per eccellenza) per porre successivamente in evidenza il valore della vita della “comunità”. Si avanza la similitudine fra il nocciolo (che contiene le sementi), con il cuore, che esprime e riassume il palpito del sentimento; ci si riferisce ad un lessico consumato all’interno del Movimento Moderno, derivato dalla pubblicistica ancora corbuseriana. Nel testo citato, Rogers, (sia pure con le cautele di rito), prende posizione contro le “fantasticherie astratte delle città ideali”, tracciando una linea di difesa sulla conservazione dei centri storici, rimarcandone lo scempio dovuto all’obbrobrio della guerra ma anche alle vaniloquenti vestigia dell’Ecole de Beaux Arts: il nemico storico. Si tratta di formulazioni espresse in forma ondivaga, a metà strada fra il lessico vitruviano rinnovato, e il linguaggio dell’avanguardia. Concetti che risulteranno, però, dal 1954, con la nuova Casabella-Continuità, puntuali e taglienti supporti ad una battaglia per la nuova architettura della città, perché espressi senza più le remore, anche linguistiche, del gruppo di appartenenza.
concorso per il nuovo Parlamento tedesco nell’area dello Spreebogen a Berlino, 1992 progetto: prof. Aurelio Cortesi (capogruppo) arch. Laura Andreini, Marco Casamonti, Isotta Cortesi, Giovanni Polazzi con Silvia Fabi, Laura Tartagli, Venturina
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A partire da “La responsabilità verso la tradizione” a “Le preesistenze ambientali e i temi pratici contemporanei”, entrambi del 1954 fino alla relazione tenuta al l’INU il 23 marzo 1957 e all’intervento al VI Convegno Nazionale di Urbanistica del 1957, Rogers dà conto di una intenzionalità progettuale radicata, finalizzata alla riassunzione dei termini concreti della complessità urbana. Una creatività selettiva, capace di mettere in discussione, ogni volta, gli elementi compositivi accreditati da tempo, così come dimostra la sequenza dei progetti della Velasca che danno ampia testimonianza del percorso intrapreso e delle sue proprie oscillazioni di tendenza. Ne consegue però la proposta di un linguaggio riconoscibile. Una invenzione linguistica, appunto, celata e forse nemmeno sperata, e se sperata, temuta. Rogers viveva il suo tempo di artista nel timore di una contraddizione manifesta: una conflittualità interna con i propri iniziali enunciati, riferiti al rapporto forma/funzione che si sostanzia nel proposito di riassumere, in una sola opera, il “carattere” di un’intera città. Il riferimento albertiano resta, come si vede, isolato sullo sfondo, non viene abbandonato del tutto, ma l’interpretazione del segno riassuntivo dell’architettura della Velasca si riferisce, in terra lombarda, ad una diversa connotazione della consistenza dei materiali e al senso del loro peso e spessore. Ma anche al colore mille volte variato, rispecchiato da rogge silenziose, di acque che scorrono piano nel fossato, in una terra che non consente astrazioni, se non materiche.
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Una dimostrazione di questa pervicace esperienza risulta possibile, anche se non esaustiva (si pensi al primato del disegno espresso nel S. Andrea di Mantova, ma non solo) ed è riferibile, come asserto, pure agli artisti di derivazione toscana alla corte dei Gonzaga e ancor più, negli artisti “minori” alla Corte milanese. La specificità lombarda, legata com’è all’uso umbratile del laterizio, ne recupera nella rappresentazione, ogni volta, il peso. La Cà Granda, il più grande ospedale mai costruito, la Cappella Portinari in S. Eustorgio, ma anche Castiglion d’Olona, testimoniano del prevalere, sul disegno, dalle condizioni impresse dalla cultura materiale sedimentata e culturalmente espressa nelle fabbriche ancora romaniche: e questo vale tanto per il Filarete quanto per Michelozzo e per lo stesso Masolino. Comporre, dice Rogers, “significa mettere insieme varie cose per farne una sola”. Stabilire una sintesi fra “componenti” diverse attraverso un rapporto “dialettico”. Tra le scorie incombuste va annoverata quale componente essenziale la tecnica del costruire: “Ogni atto compositivo, per il fatto stesso di tradurre l’idea nei fenomeni, implica una relazione fra le categorie dello spazio e del tempo.” L’asserzione poggia sulla formulazione teorica indicata dal Giedion a partire dai primi anni ’40. Lo storico (ufficiale) dei CIAM aveva scritto appositamente, per l’edizione italiana del suo “Spazio tempo ed architettura” (Hoepli 1954), integrazioni concettuali mirate al presunto livello di elaborazione dei nostri studi, ritenuti
concorso per il nuovo Parlamento tedesco nell’area dello Spreebogen a Berlino, 1992 progetto: prof. Aurelio Cortesi (capogruppo) arch. Laura Andreini, Marco Casamonti, Isotta Cortesi, Giovanni Polazzi con Silvia Fabi, Laura Tartagli, Venturina
pencolanti fra storia e progetto. I temi sviluppati rivelano come il teorico per antonomasia dell’ortodossia del Movimento Moderno, intendesse riferirsi alla realtà italiana privilegiandone la sua storia. Atteggiamento che possiamo simmetricamente assumere per capire come i CIAM percepissero la specificità dell’apporto italiano e, conseguentemente, accogliere o meno le teorizzazioni dello stesso Rogers). La messa a punto di Giedion trova riferimento nell’auspicata integrazione tra territorio e sua tecnologia di trasformazione; un’assunzione del nostro rinascimento che privilegia la complessità delle relazioni di contesto a partire dall’analisi di condizioni e funzioni a grande scala: il suo proprio disegno e le innovazioni della rappresentazione, intese come impronta di riferimenti intrecciati. Una scienza con ambiti disciplinari definiti (anche se non ancora consolidati) munita di strumentazioni e di un lessico preciso pur con la consapevolezza che gli obiettivi di fondo, appena intravisti, avrebbero tardato a definirsi. Giedion, a maggior gloria del Movimento Moderno si è reso protagonista di una proposta culturale volta a privilegiare le strade innovative di tutte le integrazioni possibili, situandola, nel tempo, ben al di là di una, necessaria, programmatica, copertura culturale dell’avanguardia. Ruolo peraltro espletato in modo carismatico per tutto il corso della vita dei CIAM. Le indicazioni di Rogers sulla progettazione degli elementi urbani risultano tributari ai riferimenti a grande scala del Giedion “della storia architettonica italiana”, ma le sue indicazioni teoriche cercano una ricapitolazione tutta
interna alla trattatistica: “l’architettura ha sempre aspirato alla sintesi dialettica tra Utilità e Bellezza... le diverse proporzioni, che i due termini del rapporto hanno nella composizione architettonica, determinano il carattere stilistico delle singole opere e, in senso generico, i diversi stili della storia dell’architettura”. La formula “mitica” delle sue lezioni teoriche, A=f(U,B), lo conduce ad assiomi che hanno la forza di slogan: “l’architettura può essere definita come l’Utile della Bellezza o la Bellezza dell’Utile” ed ancora: “Utilità e Bellezza sono gli elementi antinomici della sintesi architettonica: sono anche i protagonisti che riassumono e rappresentano vitalmente le diverse parti del suo dramma. Non esiste architettura dove questo dramma si acquieti per la nullità dell’uno e dell’altro di questi fattori; non esiste architettura al limite dei soli valori pratici, come non esiste architettura al limite dei soli valori formali”. In Rogers la sintesi invocata fra valori pratici e valori formali si concreta, in prospettiva, nell’assunzione dei termini di un fare tecnologico tutto interno al farsi progettuale. La riassunzione “del disegno e della sua costruzione” costituirà l’assorta ragione dei suoi enunciati successivi che, se pur passionali e contraddittori, testimoniano di una ricerca vissuta fra teoria, ideazione e disegno connaturata alla stessa materia della sua concretizzazione.
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concorso nazionale di idee per la realizzazione del nuovo polo espositivo bresciano unitario e integrato 1996 progetto: prof. Aurelio Cortesi con Laura Andreini, Bettina Gori, Marco Casamonti, Isotta Cortesi, Silvia Fabi, Marcello Marchesini, Giuseppina Nerli, Sebastiana Patania, Giovanni Polazzi, Nicola Santini.
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PROGETTARE NEL TERRITORIO CONTINUITÀ E CONTESTUALITÀ COME TEMI DI ARCHITETTURA Carlo Chiappi
Sommario: Necessità di maggior radicamento del progetto al territorio e ai luoghi; verso la ricerca di un punto di equilibrio tra regole di progetto conseguenti alle identità dei luoghi e regole di progetto rispondenti a volontà innovative; il concetto di struttura invariante come condizione necessaria del piano e del progetto; il contributo degli studi tipologico-processuali nel riferimento ad alcuni termini particolarmente significativi; esplorazioni progettuali metodicamente conseguenti agli indirizzi indicati. Da diversi anni ormai il dibattito architettonico sta ripetutamente oscillando tra innovazione e conservazione. Da un lato dunque quelle forze che spingono in direzione del progresso tecnologico, del nuovo e del diverso come valori assoluti della condizione contemporanea in una prospettiva dominata principalmente dalla crescita e dallo sviluppo, dall’altro invece la progressiva acquisizione di consapevolezza critica nei confronti di un consumo illimitato delle risorse naturali e antropiche, così come nei confronti degli esiti che tale sviluppo esige e determina nei fatti. Fatti che nel loro insieme sono andati progressivamente alimentando un vasto movimento d’opinione estremamente sensibile alle istanze di salvaguardia delle identità culturali e delle radici del territorio. Potremmo però anche aggiungere che sarebbe assai facile far prevalere, in un confronto sinceramente dialettico e non pregiudizialmente di parte, l’una o l’altra tesi, portando ragioni a sostegno dell’innovazione ugualmente vali-
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de rispetto a quelle della conservazione e della continuità. Ed è così che di fronte a tale evidenza il problema, e perciò stesso l’obiettivo progettuale da molti individuato, sembra consistere nella ricerca di un giusto punto di equilibrio tra le due opposte posizioni, dove i vari aspetti connessi alle istanze di conservazione e innovazione vadano ad integrarsi in una logica culturale in grado di fornire strategie soddisfacenti dal punto di vista dello sviluppo e della salvaguardia delle identità. È assai probabile, come crediamo, che questa posizione sia destinata a crescere e svilupparsi proprio perché se da un lato non possiamo pensare ad una assoluta espulsione dalla realtà costruita dell’innovazione e dello sviluppo, dall’altro non possiamo non renderci conto quanto nell’ultimo secolo si sia spaventosamente degradato l’ambiente in cui viviamo e quanto abbia inciso e contribuito a questo stesso degrado il carattere dei modelli progettuali di funzionalità, efficienza, innovazione e sviluppo, anche se, come taluni potranno a ragione obiettare e sostenere, solo forse per scarsa lungimiranza facilmente correggibile o solo per cattiva interpretazione del loro spirito più profondo e genuino. In ogni caso non possiamo non registrare che il baricentro degli interessi e della ricerca sulle idee si stia considerevolmente spostando verso una posizione di salvaguardia delle identità dei territori e verso un’idea di progetto alimentata dalla ricerca del nuovo ma nello stesso tempo anche dalla riconsiderazione delle ragioni della storia e della continuità, in una prospettiva appunto
di profondo radicamento delle future trasformazioni al territorio, al conteso, ai luoghi. La contrapposizione tra città storica e città moderna, spesso presente nel dibattito sull’architettura, nasce dunque come giudizio critico negativo nei confronti delle recenti espansioni urbane che rappresentano l’idea di città moderna così come essa si manifesta nella realtà edilizia odierna più diffusa, indubbiamente oppositiva rispetto ai vecchi centri per la radicale diversità dei modi d’intendere e costruire la nuova città. È da questo giudizio che prende origine l’idea e la ricerca di radicamento. Essa nasce perciò come necessità di un diverso ordine progettuale delle cose, il cui obiettivo può essere raggiunto solo attraverso una conoscenza e comprensione dei luoghi studiati soggetti a modificazione. Molte e diverse sono le esperienze che vanno orientandosi in tal senso, ma un contributo di grande interesse e spessore scientifico in questa direzione crediamo sia stato dato da quel filone di studi che prende il nome di “tipologia”, il quale è andato progressivamente sviluppandosi a partire dalla riscoperta della nozione di “tipo edilizio” e dalla sua “processualità”, fino a comprendere l’insieme dei vari e possibili “gradi scalari” in cui può essere articolato convenzionalmente l’insieme delle strutture antropiche. Crediamo valga allora la pena soffermarsi brevemente e richiamare l’attenzione su alcuni termini particolarmente significativi come tipo edilizio, processo tipologico, scalarità del costruito antropico, area culturale.
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Conoscere la città: l’esempio di Fiesole Ricostruzione dei processi di formazione delle strutture antropiche quale premessa metodicamente necessaria per un progetto di modificazione organicamente coerente ai caratteri identitari dei singoli luoghi urbani o territoriali. 1 Il processo di formazione urbana: la città delle origini così come essa può apparirci nella interpretazione e nella lettura delle strutture archeologiche ad oggi conosciute. Andrea Aleardi, Carlo Chiappi, Marco De Marco, Antonio Giuliani, Carlo Salvianti. 1990. La carta costituisce la prima di una serie dove è stato possibile ricostruire l’assetto della città dal secolo XVII fino ai giorni nostri. 2 Il processo di formazione dell’edilizia: rilievo urbano: Simona Bianchini, Francesco Gori, Stefano Trapani. 1991 Il rilievo urbano insieme alle carte della formazione urbana costituisce un valido strumento per la ricostruzione congetturale del processo tipologico dell’edilizia. Nel caso di Fiesole tale ricostruzione sembra mettere in evidenza l’importanza del tipo a corte che dalle origini della città permane fin quasi ai giorni nostri quando cioè iniziano a diffondersi i tipi edilizi ottocenteschi del villino a schiera o isolato e della casa in linea. 3 Morfologia urbana e linguaggio architettonico: modello dell’area centrale. Vittorio Battiglia, Carlo Chiappi, Enzo De Leo, Studio M. 1993.
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Fiesole: ipotesi di ricostruzione filologica del teatro romano ai fini della predisposizione di stabili strutture di rifunzionalizzazione. Benedetta Bandinelli. 1997 4 Ipotesi di ricostruzione filologica: pianta. 5 Ipotesi di ricostruzione filologica: sezione longitudinale, prospetto della scena e prospetto della cavea. 6 Modello dell’area archeologica con inserimento della proposta di ricostruzione tipologica della scena.
Secondo Saverio Muratori e la sua scuola il “tipo edilizio” non è altro che l’idea di casa o di altro organismo edilizio vigente in una determinato luogo e in un determinato periodo storico. Idea derivata per mutazione di una idea precedente e a sua volta origine di una che verrà, secondo un processo di successive modificazioni che definiamo appunto “processo tipologico”, il quale ci fa comprendere il rapporto di derivazione-trasformazione di ciascun tipo dal precedente al successivo e quindi dalle prime formulazioni fino agli esempi odierni. Strumento perciò teorico e pratico ai fini del progetto per poter giudicare il grado di coerenza, in un’ottica di continuità, tra strutturazione raggiunta fino a quel momento dal territorio e dai suoi organismi antropici e progetto di modificazione o crescita degli stessi. Concetti di tipo e processo che possono poi essere applicati ai vari “gradi scalari” in cui può essere convenzionalmente articolata la realtà del costruito quali il “territorio”, la “città”, il “tessuto aggregativo” e i singoli “organismi edilizi”. È evidente come da questa lettura o se si preferisce da questa ricostruzione storico-tipologica dei processi di formazione e trasformazione degli organismi antropici emergano quegli elementi permanenti di lunga durata che attraversano verticalmente ogni singolo processo e che ci consentono di individuare quelle permanenze (“strutture invarianti” secondo una recente definizione diffusasi in ambito urbanistico) su cui costruire la continuità tra realtà significante e sua modificazione. Elementi che possono varia-
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re da luogo a luogo e che ci consentono di individuare un altro concetto di grande interesse, quello di “area culturale”, ultimo termine da noi considerato nella breve e schematica descrizione degli strumenti essenziali usati nel nostro operare didattico. Tutte le grandi architetture del passato e tutta la diffusa cultura edilizia, così come l’essenza del loro carattere, insieme, ma forse ancora prima, del loro essere forma, fondavano la loro sapienza tipologico-linguistica e il loro
fascino su chiari principi costruttivi. Viceversa molti ritengono che la logica odierna del costruire non sarebbe più in grado di garantire un risultato altrettanto positivo per la scomparsa di processi costruttivi unitari, con la conseguenza di una costruzione che prende origine quasi esclusivamente dal mondo delle pure forme dettate, ciascuna, dagli inevitabili estetismi di turno. All’opposto si può affermare invece che se esiste un atto veramente creativo nel progetto dell’architettura questo è costituito proprio dalla scelta co-
struttiva la quale non può essere scissa dalla sua stessa forma, che finirà così per dar carattere all’intero organismo edilizio. Sarebbe insomma questo modo di pensare, proprio di una logica tecnico-costruttiva, a svolgere un ruolo portante nella vita delle forme del costruito, e in questo senso l’atto del costruire sarebbe anche una delle componenti più stabili e durevoli nella vita di una determinata cultura architettonica. L’atto del costruire non può perciò essere considerato semplicisticamente esecuzione pratica di un determinato progetto di forme, ma piuttosto sintesi organica delle varie componenti che concorrono a determinare quella specifica cultura edilizia, propria di una specifica area civile. La condizione di estrema debolezza dei linguaggi architettonici contemporanei che a noi pare cosa evidente (si pensi ad esempio alla complessa questione del “pluralismo” che in architettura non è ricchezza disciplinare come invece taluni sostengono) è espressione di una trasformazione dovuta almeno a due fattori principali: estrema interferenza e sovrapposizione di aree culturali, da un lato, e dall’altro, insorgere di nuove istanze implicanti l’obsolescenza di equilibri e strutturazioni precedentemente raggiunti che esigono necessità di un nuovo aggiornamento. Un altro elemento di questa condizione è rappresentato altresì dalla scissione in fasi del processo formativo del progetto, dove si distingue un momento inventivo spesso delegato all’architetto, ed un momento esecutivo delegato allo strutturista. Significativa in tale senso la distinzione tra progetto architettonico, strutturale, impiantisti-
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Fiesole: sostituzione e completamento edilizio nell’area centrale. Michele Lombardi, Giuseppe Menestò. 1994 7 Il progetto: planivolumetria. 8 Il progetto: pianta piano terra. 9 Il progetto: assonometria.
co, urbano, ambientale e così via. Da questa situazione dunque ha origine la necessità di ripensare nella sua complessità e totalità il problema progettuale a partire proprio dalle opportunità offerte dal significato estetico della costruzione e dal significato formale del ragionamento costruttivo, proprio in un momento in cui l’attenzione generale della ricerca architettonica sembra essersi concentrata quasi esclusivamente sulla forma dell’involucro inteso, appunto, come pura forma ma inevitabilmente astratta rispetto al proprio carattere tettonico e alla propria contestualità. Ebbene, esistono almeno due grandi aree geografico-culturali in cui sono leggibili le origini di specifiche eredità edilizie (strutture invarianti) viste dal punto di osservazione della costruzione. Quella “lignea” propria dei sistemi costruttivi portanti non chiudenti, seriali, leggeri, trasparenti, e quella “muraria” propria dei sistemi costruttivi portanti e chiudenti, organici, pesanti, opachi. Queste due grandi distinzioni originarie sono state oggi assorbite da un unico materiale relativamente “moderno” come il calcestruzzo armato, usato sia per sistemi di intelaiature planimetricamente pontiformi dove il sistema di facciata e delle partizioni interne conduce al principio lecorbuseriano della pianta libera, sia per sistemi murari continui portanti e chiudenti (si pensi ad esempio alle architetture di molti architetti giapponesi, ma non solo, come Tadao Ando). Lo scambio tra differenti aree culturali è stato spesso all’origine di fertili e profonde modificazioni dei linguaggi architettonici (si pensi ad esempio al gotico) i quali però
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Fiesole: espansione edilizia dei margini urbani. Clara Coppini, Massimo Dalla Torre. 1991. 10 Il progetto: planimetria dell’inserimento urbanistico. 11 Il progetto: pianta piano terra. 12 Il progetto: planivolumetria 13 Il progetto: dettaglio assonometrico. 11
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Mercatello sul Metauro: riqualificazione di un’area periferica. Alberto Tomei. 1990. 14 Il progetto: pianta piano terra. 15 Il progetto: planivolumetria. 16 Il progetto: modello di studio.
nello stesso tempo non hanno dimenticato il necessario radicamento ai propri codici genetici della loro collocazione geografica. L’attuale sistema delle informazioni tende ad accelerare e massimizzare i fenomeni di scambio tra aree culturali diverse favorendo così fenomeni di globalizzazione e internazionalizzazione della produzione architettonica, allo stesso modo di quanto avviene in altri campi come il gusto, la moda o l’economia. Nel nostro caso però esso da origine a fenomeni di ibridazione e sradicamento soprattutto là dove siano presenti solide e cospicue sedimentazioni storiche (si pensi ad esempio alle città e ai territori, ma non solo, dell’area europea) con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti, originando perciò una condizione di evidente crisi dei linguaggi nei confronti dei rispettivi codici identitari. Occorre perciò tornare a porsi il problema del “linguaggio architettonico” in rapporto ai luoghi, inteso non come ricerca nostalgica di continuità con le tecniche tradizionali del costruire ma bensì come loro necessario aggiornamento; almeno per due buoni motivi: da una parte per risarcire i danni provocati al territorio da prodotti volgari e da culture ad essi estranee; dall’altra per superare la frattura tra leggibilità del costruito come forma e leggibilità come espressione di una meditata e consapevole tecnica costruttiva. In questo senso, ancora, la riproposizione e la ricerca di maggiore unità delle discipline del progetto, non più scisse in aspetti parcellizzanti e incomunicanti, può rappresentare un ulteriore e utile passaggio verso il ritorno a forme architettoniche linguisticamente significanti.
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Pienza: i nuovi margini urbani e una nuova polarità urbana. Paola Lammardo. 1999. 17 Stato attuale: il nucleo storico e le recenti espansioni. 18 Il progetto: i nuovi margini e le nuove polarità. 19 Il progetto: pianta della nuova polarità per il settore nord-est. 20 Il progetto della nuova polarità per il settore nord-est: assonometria. 21 Il progetto della nuova polarità per il settore nord-est: planivolumetria. 19
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Ravenna: riqualificazione della darsena in riva sinistra. Angela Baccarini. 2000. 22 Quattro ipotesi di riqualificazione urbana della riva sinistra. 23 Il progetto: la nuova chiesa quale nuova polarità nell’ipotesi di riqualificazione. 24 Il progetto della nuova chiesa: pianta piano terra. 25 Il progetto della nuova chiesa: assonometria. 26 Il progetto della nuova chiesa: sezione trasversale (particolare).
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Bientina: studi per la ricostruzione dei borghi. Vittorio Battiglia, Carlo Chiappi, Enzo de Leo, Antonio Giuliani. 1994 27 Planivolumetria della proposta di ricostruzione: in evidenza rispetto allo stato di fatto le parti edilizie di nuova edificazione. 28 Il progetto: particolare del prospetto della tipologia edilizia.
Le esperienze di progetto e le illustrazioni che accompagnano il testo costituiscono una sintesi delle esercitazioni annuali dei corsi di Progettazione Architettonica e Urbana tenuti da chi scrive nei più recenti anni di attività. In questo spazio di tempo hanno collaborato ai corsi per periodi variabili Vittorio Battiglia, Gianni Cavallina e Serena De Siervo in qualità di ricercatori confermati; David Burrini, Enzo De Leo, Paolo Focaccia, Gianfranco Giordo, Johannes Maaz e Giuseppe Menestò in qualità di cultori della materia. Tali progetti sono preceduti da un lavoro di analisi sulla città di Fiesole, organismo urbano sul quale nei corsi ci siamo soffermati ripetutamente e che qui illustriamo in modo estremamente sintetico, quale esempio parziale di materiale conoscitivo usato metodicamente nei corsi medesimi e finalizzato alla costruzione di risposte progettuali maggiormente organiche rispetto ai luoghi studiati e alle risposte da dare alle necessità contemporanee. In particolare, nel caso di Fiesole, sono state spesso decisive certe conoscenze connesse alle questioni archeologiche, le quali hanno trovato in Marco De Marco e Carlo Salvianti alcuni insostituibili riferimenti.
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Firenze: studi per una sostituzione edilizia nelle ex strutture carcerarie di S. Teresa da destinare a nuovo polo didattico di Ateneo. Carlo Chiappi, Piero Paoli, Rino Vernuccio. 1994. 29 Il progetto: planivolumetria. 30 Il progetto: sezioni-prospetto.
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NOTAZIONI E ISTITUZIONI TRA INTERNO ED ESTERNO Paolo Galli
Non è improbabile che ogni idea architettonica e il modo di svilupparla contengono qualcosa di ben definito che non deve andare oltre certi limiti; non è improbabile, ma nemmeno certo, che ogni idea in sé contempli una proporzione simile, ma è anche possibile che questa proporzione non sia presente nell’idea o almeno non solo nell’idea ma anche in noi stessi. Per comprendere un’opera si cercano le ragioni, si trova l’ordine, si vede la chiarezza che è lì per caso, non per una legge o per una necessità. Quelle che riteniamo siano le sue leggi, sono forse soltanto leggi che permettono la comprensione, senza essere per questo le leggi a cui deve sottostare l’opera. L’opera è in grado di rispecchiare, ciò che vi si vede dentro non è altro che l’immagine riflessa della nostra natura, non indica il piano di orientamento dell’opera, ma solo il piano del nostro metodo di orientamento. Che si tratti dello spazio di un opera architettonica o quello di un paesaggio naturale il modo in cui ci colpisce dipende prima di tutto dalla nostra fisicità, è questa che determina il nostro orientamento e le nostre reazioni. Escludiamo per ora implicazioni culturali, sempre e comunque presenti. Mi muovo, senza interessi precisi; dei paesaggi scorrono intorno a me in maniera indifferente, altri, al contrario, vengono registrati, per qualche motivo scelti. In linea di principio il suddividersi di un paesaggio in parti più piccole o più grandi non è né una suddivisione temporale - in tempi di percezione delle parti - né una suddivisione reale dello spazio - un suo modo di apparire; ma esiste nella struttura interiore di chi parla e si ascolta.
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Se tuttavia l’insieme delle sequenze deve essere unitario, malgrado la molteplicità dei suoi membri allora deve esserci in chi osserva, parla e ascolta quasi contemporaneamente, qualcosa che unifichi tante molteplicità e che, imponendole di disintegrarsi in una moltitudine di particolari dispersi e sconnessi le permetta di costituirsi, come suoi membri, in una indefinibile totalità. Questa allora è soltanto un termine di una proposizione. Questa proposizione è una determinazione dell’immagine, anzi dell’immagine legata ad un sistema di riferimento, sensazione attuale ed atti. Un paesaggio è colto come unità; una serie di colline si radunano come in una sequenza; una veduta lontana è parte integrante della sequenza. L’insieme può essere costituito in maniera tale da contenere in sé, anche se si estende per un solo momento di uno sguardo, in un certo numero di membri. Ebbene, tali membri non sono ulteriormente differenziabili. Le singole colline esistono nei limiti dell’insieme percepito in quanto suoi membri, possono artificialmente essere separate, avulse dall’insieme che compongono, non costituiscono elementi di senso. È dunque lecito porsi questa domanda: perché come e quando termina una sequenza di spazi, di paesaggio? Quando il senso formale è soddisfatto, quando l’arco di un pensiero, un’idea, appaiono presentati in tutta la loro chiarezza. Questo è quello che in via provvisoria chiamiamo immagine. Un’immagine è distinta dalla sua forza, dalla sua novità, dalla sua maniera di prodursi e di sparire, dalla sua epoca; insomma dalla sua situazione mentale.
Ma questa indipendenza non è né assoluta né costante. Ci sono delle fasi durante le quali è dipendente. Tutti i caratteri della situazione si rapportano in fondo alla durata e alla transizione dell’immagine ai suoi effetti trasmissivi. Cosa determina l’unità? Un sentimento, uno stato? Ci sono dunque delle parti - dei valori - dei procedimenti di comparazione fra certi raggruppamenti e un oggetto materiale, mobile senza alterazione. Ma quali sono i limiti o quali sono i legami di questa unità? Quando nella continuità del paesaggio scelgo delle cose o dei punti particolari. Quando B segue A l’uno viene dopo l’altro - c’è dunque qualcosa di non qualunque in questo ordine? Cosa è che fa B davanti A? È una omogeneità di natura? È un’unità di coscienza? È una durata? È paragonabile al campo di un colpo d’occhio o alla continuità di un suono prolungato o un riflesso? Qui intorno, in una strada di campagna, c’è un punto speciale: i muri che l’accompagnano curvando attraverso le colline diventano altezze molto diverse, da un lato sporgono gli ulivi, dall’altro, il più alto, sovrasta un gruppo di lecci, in fondo alla curva in discesa un cipresso contro un pezzo di cielo, in breve uno stato di cose attuali. Ma c’è anche il brillante degli ulivi, la compattezza scura dei lecci, il teso della curva, il muschioso del muro, le macchie di luce, il palpitante del cipresso, il sonoro del selciato. Là ci sono delle pure qualità o potenzialità singolari, dei puri possibili in qualche sorta. Sicuramente le qualità potenziali si rapportano agli oggetti, allo stato delle cose come alle loro cause. Ma ci sono degli effetti molto speciali: tutti insieme non rinviano
che a se stessi e costituiscono l’espresso dello stato delle cose, intanto che le cause per loro conto non rinviano che a loro stesse costituendo lo stato delle cose. Il muro altissimo dal quale qualcuno si sporge può essere la sua espressione di vertigine, ma non la crea. Poiché l’espressione esiste anche senza giustificazione, essa non diviene espressione perché si aggiunge qualcosa con il pensiero. Sicuramente le qualità potenziali giocano un ruolo anticipatore, preparano l’avvenimento che potrebbe realizzarsi, il muro inclinato potrebbe franare, la luce sparire, il cipresso ondeggiare per la comparsa del vento. Ma in se stesse, mentre esprimono, esse sono già l’avvenimento. L’espresso, vale a dire l’affetto, è un complesso perché è composto da ogni sorta di singolarità che ora riunisce, ora separa. Il brillante degli ulivi, l’elastico del cipresso, il teso della curva, il vasto del cielo, sono delle qualità positive che non rinviano che a se stesse. Contemporaneamente, nelle varie parti del mio corpo si compiono dei micromovimenti che si riuniscono nella sensazione globale di un movimento che corrisponde all’espressione della commozione di tutte le mie parti. Non si può nascondere che è una sensazione difficile da definire, perché essa è sentita piuttosto che conosciuta: concerne il nuovo dentro l’esperienza, il recente, il fugace, e pertanto l’eterno. Se si vuole è una coscienza immediata e istantanea tale e quale è implicata in tutto coscienza reale, che non è mai, a ben guardare, né immediata, né istantanea. Questa non è una sensazione, un sentimento, un’idea, ma la qualità di una sensazione, di un
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sentimento, di un’idea possibile. È dunque la categoria del possibile, essa esprime il possibile senza attualizzarlo, facendolo in modo completo. Ora l’immagine affezione è nient’altro: è la qualità o la potenza è la potenzialità considerata per se stessa in tanto che è espressa. Allora quel movimento sentito, quel gesto immaginato, quel volteggio, diventa segno. Il segno corrisponde dunque all’espressione non alla attualizzazione. L’affetto è dunque impersonale e si distingue da tutte le cose individuate: non è meno singolare e può entrare nella combinazione o congiunzione con altri affetti. Il movimento sentito è indivisibile e senza parti, ma le combinazioni singolari che forma con altri affetti formano a loro volta una qualità indivisibile, che non si divide se non cambiando natura. L’immagine affezione è la potenzialità considerata per se stessa intanto che è espressa. È il risultato di questo insieme di oggetti. Ma il funzionamento, l’ordine e la situazione di questo insieme di oggetti risultano non dalla loro esistenza, né dalla loro natura, ma da un essere (me) o (quello che ritorna a me) d’un sistema di regole, d’assiomi, che si adattano successivamente all’insieme ed ai suoi elementi distinti di questo insieme, o nella pura collezione di elementi, dalla continuità dell’adattamento. La determinazione di una totalità indivisibile è legata nel modo più stretto possibile al percepire un movimento allo stato nascente, colto attraverso un impulso di tipo muscolare che segnala una dissomiglianza dallo stato di quiete e di indifferenza precedente. La dissomiglianza appartiene all’istante ed è relativa alla sensazione determinata dal-
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l’immagine, oppure è di natura più profonda e durevole. Essa è potenzialmente infinita. È da considerare che esista una dissomiglianza interiore giacché io mi parlo. Senza dissomiglianza non esiste linguaggio. Il linguaggio interiore crea un altro nel medesimo. Qui è determinante l’analisi della sostituzione dall’espresso al constatato. Ma non c’è grandezza senza ordine, vale a dire senza passaggio e senza tensione interna che è la sensazione di passaggio e di accomodamento proprio del cambiamento. Qualcosa in me trattiene-produce. Questa valutazioneorganizzazione è il fatto capitale. È quello che io aggiungo alle percezioni registrabili che costituisce l’unità, che lega in un ritmo agli elementi più disparati. Non appena c’è ritmo c’è scambio; il perché e il come di questo scambio è il segreto stesso del ritmo. Questo scambio non avviene da uomo ad uomo, ma da funzioni a funzioni. La non distinzione fra interno ed esterno comporta però una struttura oppositiva fondamentale: quella fra il limitato dell’ordine dell’esperienza (limite del mondo, del corpo, delle sensazioni) e l’illimitato del sistema che in quell’orizzonte si inscrive. Il limitato è l’ordine della realtà, l’illimitato l’ordine delle astrazioni, l’illimitato l’ordine delle combinazioni, permutazioni, varianti degli elementi di cui è destinato a comporsi un sistema globale senza distinzione fra interno ed esterno. Noi facciamo di una cosa un problema e introduciamo una notazione che permetterà per analogia un perché, un come, un quanto. Noi creiamo delle facoltà, proprietà ecc. - noi trasformiamo in cause quello che altro non è che
una pura notazione associazione. Una notazione consiste in sostanza nel sostituire un atto qualunque e il suo fenomeno riproducibile a volontà, all’eccitazione naturale per la quale una rappresentazione qualunque è chiamata. Una nozione soggettiva è la notazione di un coordinamento particolare. Ma tutti i coordinamenti sono da noi conosciuti sotto la forma di un’accomodazione più una variazione. Ogni ritmo è dovuto alla possibilità di sostituire uno sviluppo di certe sensazioni con un tipo di azione che riproduca questa successione. È una modalità di azione che costruisce, e in questa costruzione il sentimento di questa azione interviene, e c’è una specie di reciprocità. La pluralità dei lecci - in alto oltre il muro - è colta come un avvenimento unico. Come se gli alberi fossero al posto delle puntature a terra del volteggio di ballerino. Le posizioni che ha occupato nel suo movimento fatto di slanci, rotazioni, traslazioni, sono 2 - 1.3.4 5.6. si svolge su tre curve contrapposte che formano una linea continua dolce. Se chiudo gli occhi sento di aver colto il ritmo, sento un movimento unico, come se il mio corpo avesse imparato questo movimento e lo sapesse riprodurre attraverso la successione delle sensazioni muscolari provate. Ogni puntatura ed ogni distensione genera un impulso a continuare una domanda tale che il punto successivo è prodotto dall’avvenimento albero e dall’io risposta. Ogni punto diventa risposta e domanda. Ogni colpo genera uno stato. Produce ben altro che un’impressione, produce una modificazione. Una pluralità di avvenimenti successivi e indipendenti è colta come un tutto.
Noi assimiliamo gli eventi prescelti agli intervalli che li separano e che supponiamo riempiti da eventi semplici silenziosi - invisibili - di valori uguali a quelli dati. Il che equivale a riconoscere o a definire l’unità. In un modo analogo assimiliamo gli uni agli altri gli eventi dati o colti nel loro apparire se essi differiscono per intensità in modo molto semplice. Gli atti di queste condensazioni formano un insieme, una successione, compresi in una sola trasformazione di energia, una sola emissione. E questa sola emissione è definita da questo: che essa risponda ad una sola sollecitazione. Una successione di elementi sembra un ritmo, ma non è propriamente un ritmo. Illumina un ritmo in me - vale a dire che sono portato ad legare questi elementi distinti mediante una legge delle mie funzioni - questa legge è un’unità e questa unità potrà essere ritrovata in successioni molto diverse. È una successione di elementi distinti che può aver luogo in un solo modo nel tempo. Ma tutti i tempi successivi corrispondono ad un simultaneo. Questo stesso simultaneo sarà riducibile ad un segno. Quando si susseguono degli avvenimenti, quali che siano, se sono distinti può accadere di essere indotti a percepirli come se ogni avvenimento fosse la risposta all’avvenimento precedente. Si dirà che questo avvenimento è compreso fra due punti. Esso è dell’ordine di grandezza di un arco riflesso e noi presupponiamo internamente una specie di propagazione. Un movimento del corpo aspetta un contro movimento che lo faccia continuare o fermare. Una nota aspetta un’altra o non l’aspetta; l’unità si intuisce dalla traiettoria della
sua curva, è l’arco di una curva dalla variazione naturale, regolare. Quando c’è disordine non sappiamo che cosa aspettare; non possiamo costruire il meccanismo che potrebbe permetterci allo stesso modo di produrre o percepire l’avvenimento. Ora quello che ci interessa capire meglio è una relazione fra gli atti e gli effetti sensibili - una sorta di reciprocità fra causa ed effetto. È ciò che genera un modo, un sistema completo, chiuso - conservativo - di scambi di tempi contro atti, di potenziale contro energia cinetica. Questo lo si può fare soltanto associando qualche funzione di percezione alla meccanica di una sollecitazione muscolare. La regolarità degli atti o delle sensazioni raggiunge il meccanismo sensoriale e muscolare. La regolarità è ciò che si riconosce, si coglie, si riproduce in una successione. Non c’è il ritmo delle onde. È quello che aggiungo, che io aggiungo alle percezioni registrabili che costituisce il ritmo delle onde od altro. È il coordinamento dei muscoli del saltatore che permette di entrare nel volteggio della corda colto come regolarità. Ogni suo colpo assume il valore di un dispositivo di scatto di un atto muscolare, assume il valore di una previsione. Ma non è la ripetizione a creare il ritmo; al contrario è il ritmo a permettere la ripetizione o a crearla. È un atto unico di emissione e consumo di energia. Se voglio superare un ruscello abbastanza largo devo prendere slancio. Non conto i passi della rincorsa ma sono quelli necessari per liberare l’energia richiesta dalla larghezza del ruscello. Se considero tutto il meccanismo come un insieme appare una specie di trasformazione fra A e B ad-
ducendo B il movimento e il movimento adducendo B. Questo insieme è una successione di atti compresi in una sola trasformazione di energia - una sola emissione. E questa sola emissione è definita solo in quel modo per raggiungere il suo scopo. Solo una successione particolare sviluppa e distende la tensione secondo la direzione e la curva voluta. La previsione di raggiungere il punto B dall’altra riva fa vedere soltanto i punti necessari per il salto e non tutto il terreno intorno, come uno sguardo che cerca un volto tra la folla. Si è detto che la percezione è in qualche modo indipendente dal suo oggetto. È quello che io aggiungo che gioca un ruolo fondamentale. Le condizioni oggettive-soggettive della percezione possono giocare il ruolo di una pressione. Si resiste a questa pressione sia con una sorta di forza di azione o di inerzia. La visione chiara è la corrispondenza di un punto dell’immagine a un punto dell’oggetto. Riconosco l’immagine attraverso una tensione muscolare statica - come una marca che il desiderio ha - un’azione provvisoria per tenere luogo di quella definitiva. È il segno di un movimento possibile, è la coordinazione dei micro movimenti, la commozione di tutte le mie parti è materia di espressione. Tradotto nel nostro funzionamento è la condizione essenziale della nostra azione. L’azione diventa un tipo, e la sua analisi deve fornire la struttura in cui va inserito tutto ciò che è conoscenza, sensibilità, ordine del movimento, ritmo. Un’azione composta comprende sensibilità coscienza pensiero, non è istantanea. Essa richiede un adatta-
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mento peculiare di variabile - e i cambiamenti di stato costituiscono il montaggio della macchina adeguata. In realtà quello che io posso utilizzare della percezione, misurare e quindi riprodurre è l’intensità della sensazione del tempo vale a dire della durata, essa corrisponde al tempo dello svanire della tensione muscolare. Non è un tempo cronometrico, ma un tempo ritmato. Anche lungo una diversità si riconosce il suo ritorno o le sue analogie attraverso una successione naturale ridotta al minimo. Le trascrizioni grafiche delle cose sentite sono ingannevoli nel senso che riassorbono la natura di sostituzione dei fenomeni. Esse introducono un osservatore impossibile - grazie alla conservazione materiale, lasciano vedere simultaneamente un insieme di spazi anche se questo è materialmente impossibile, ed effettuano sul fenomeno che non conserva essenza - che è l’installazione di un tempo che non è semplicemente successivo, bisogna rinunciare a trattarlo come variabile indipendente, farlo figurare come sottoposto a trasformazione come le altre variabili. Bisognerebbe dunque una nozione analoga all’intervallo e dice che c’è tempo particolare che si installa quando c’è ritmo, melos o in genere successione organizzata. L’importante non è il periodo ma ciò che genera questa forma periodica. Ora questo è certamente di ordine muscolare implesso. È notevole che si trovi un regime di impulsi in certi muscoli volontari. Ciò che sta per essere, ciò che è appena stato sono forme di energia reale, sentita. Tutto questo viene a sparire nella curva di registrazione periodica e
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la trascrizione l’omette. L’importanza è tutta qui. È per questo che è così importante l’analisi della costituzione degli intervalli al di sotto e al di sopra dei quali non c’è successione eredità ritmo forma melodica. Le successioni organo sensibile hanno due facce emissione e ricezione ed esse realizzano una particolare relazione di queste proprietà. Contemplo il gruppo dei lecci, in alto sopra il muro, non colgo singolarmente ognuno di loro, anche se sono ben distinguibili, li lego in un movimento unico ritmato. In realtà lego un mio ritmo interiore che viene risvegliato. È emissione e ricezione simultanea. È la percezione di uno scambio e di un’appropriazione. La proprietà è anzitutto artistica. L’arte è insegna, cartello. L’espressivo precede il possessivo, le qualità espressive o materie d’espressione sono necessariamente appropriatrici e costituiscono un avere più profondo dell’essere. Non perché apparterrebbero ad un soggetto ma perché disegnano un territorio che apparterrà al soggetto che le porta o le produce. Queste qualità sono una firma che non costituisce il soggetto ma sono la cifra costitutiva di un dominio. L’espressività non si riduce agli effetti immediati di un impulso che fa scattare un’azione in un ambiente. Ma le qualità oggettive esterne trovano una oggettività nelle sensazioni di tensione e di distensione muscolare che io percepisco realmente. Così l’appropriazione, attraverso il ritmo, di ambienti, di forme, di paesaggi diverrà stile, infatti le qualità espressive materia d’espressione - il gesto ritmato - entrano reciprocamente in rapporti mobili da esse tracciano con l’ambiente in-
terno degli impulsi e con l’ambiente esterno delle circostanze. Ora esprimere non è dipendere, le qualità espressive entrano le une con le altre in rapporti interni che costituiscono motivi territoriali: talora essi sovrastano gli impulsi interni, talora li sovrappongono, talora fondano un impulso con un altro, talora si inseriscono fra i due, ma non sono essi stessi pulsati. Talora questi motivi non pulsati appaiono in una forma fissa o sembrano apparire così, ma talora gli stessi motivi od altri hanno una velocità e un’articolazione variabili, e la loro variabilità non meno della stabilità, li rende indipendenti dalle pulsioni che combinano o neutralizzano. D’altra parte, le qualità espressive, nell’immagine affezione, entrano comunque in altri rapporti interni, che formano delle risposte allo spazio esterno: si tratta questa volta di costruire nel paesaggio dei punti che prendono a contrappunto le circostanze dell’ambiente esterno: la pioggia comincia a cadere, il cipresso palpita mosso dal vento, la luce sosta in modo diverso e cambia colore. Anche qui gli alberi, il muro hanno la loro autonomia di costanza o di variabilità rispetto alle circostanze dell’ambiente esterno, di cui esprimono il rapporto con il paesaggio. Perché tale rapporto può essere determinato senza che le circostanze lo siano, proprio come il rapporto con gli impulsi può essere determinato senza che l’impulso lo sia. I rapporti fra le materie d’espressione - i gesti, i motivi ritmati esprimono i rapporti del paesaggio con gli impulsi interni, con le circostanze esterne: hanno una autonomia in questa espressione stessa. Esplorano le
potenzialità dell’ambiente interno o esterno. Quando c’è espressività del ritmo c’è scambio. Inoltre quando non ci troviamo più nella semplice situazione di un ritmo associato a un soggetto, il ritmo può variare o rimanere costante, può sparire e riapparire, divenire lui stesso il soggetto. Allo stesso modo le qualità espressive entrano in rapporti reciproci, variabili o costanti per costituire motivi o contrappunti che esprimono il rapporto del paesaggio con gli impulsi interni o circostanze esterne. Anche se queste non sono ancora date. È nel motivo del contrappunto che si determina il rapporto con la gioia o con la tristezza con la pioggia, con il tramonto. È nel motivo del contrappunto che il sole, la gioia o la tristezza divengono spazi ritmici o melodici. Ora l’organizzazione di segni qualitativi in linee e colori, in motivi e contrappunti comporterà necessariamente una presa di consistenza o una cattura di segni di un’altra qualità. La consistenza si stabilisce necessariamente fra elementi eterogenei che si limitavano a coesistere o a succedersi; sono presi ora gli uni negli altri per consolidamento della loro consistenza e della loro successione. Il fatto è che gli intervalli e le intercalazioni costituiscono motivi e contrappunti nell’ordine di una qualità espressiva; comprendendo anche qualità di un altro ordine, un colore risponderà ad un suono, una luce ad un volume. È una sintesi fra eterogenei, è una vera e propria operazione macchinica che riunisce gli ordini, le specie e le qualità eterogenee. Tutte le fotografie dei plastici e delle tavole sono dell’Arch. Enzo Crestini.
Ringrazio - insieme all’Arch. Francesco Armato che li ha seguiti, come al solito con molta passione - gli studenti del Corso di Arredamento dell’AA. 1999-2000 che hanno prodotto il materiale da cui sono tratte le immagini. È possibile cogliere nelle intenzioni dei loro lavori l’eco dei temi trattati nel testo.
Francesco Alessandra, Aligi Alfani, Tomas Manuel Ayala, Diana Andreotti, Andrea Angeloni, Iacopo Baglini, Francesco Bani, Lorenzo Baracchi, Gianluca Bernardi Fabrani, Beatrice Biasetti, Marco Bisogni, Alessio Borghesi, Filippo Bozzi, Paola Brandinelli, Leonardo Briganti, Luca Camaiani, Lorenzo Cappelletti, Claudio Cappelli, Andrea Cardelli, Franco Casella, Antonina Casoria, Luigi Casoria, Marco Casprini, Emilia Castellani, Odoardo Castellucci, Stefano Castellucci, Domenico Cataldi, Nicole Catemi, Carlo Cecchi, Cecilia Ciabilli, Chiara Ciampa, Gherardo Ciampini, Anna Cini, Claudia Cirolli, Claudia Coccoletti, Giulia Cogo, Ghigo Compagnoni, Mauro Compagnucci, Maria Cristina Conestabile Della Staffa, Cesare Conti, Valentina Conti, Gianluca Cornuti, Stefano Corrado, Laura Costa, Alessandra Costantini, Rita Creti, Federico Crociani,Luca Cubadda, Manuela Dallolio, Alberto D’Andrea, Elena Danti, Donatella D’Antoni, Gianfranco D’Arrigo, Costanza D’Asta, Luca Datteri, Giovanni De Gara, Laert Dedndreaj, Sira Dei Pieri, Eleonora Dell’Aquila, Lisa Dell’Unto, Sandro Del Pistoia, Lara Del Re, Michela Dell’Agnello, Eleonora Dell’Aquila, Maria Felicia Della Valle, Alexis Dendias, Francesco Deriu, Stefano De Santi, Michele De Vena, Chiara Di Carlo, Raffaele Di Marco, Stefano Diomelli, Michele Diroma, Alexander Di Stefano, Vera Di Tatto, Simona Di Tomaso, Sergio Di Tondo, Alessandro Dolci, Chiara Domenichini, Michail Epanomeritakis, Federica Fabbri, Nicoletta Fabbri, Ilaria Fabiani, Amanda Fagioli, Beatrice Falchini, Francesco Falli, Mattia Fantoni, Ada Faretra, Simone Farinazzo, Giulio Farinelli, Alberto Favaro, Juri Favilli, Tommaso Fedeli, Francesco Felici, Enrico Ferranti, Giovanni Ferranti, Federico Ferrari, Giovanni Ferrati, Athanassios Fessatidis, Stefania Ficcadenti, Enrico Fiesoli, Emanuela Figus, Jurji Filieri, Emiliano Fiordi, Maura Fiorelli, Moris Fiorelli, Raffaella Floria, Giovanna Focardi Nicita, Flavio Ferdinando Foderini, Angelo Fornaciari, Alessandra Foschi, Marco Francesconi, Alessandra Franchi, Marta Franci, Federico Frongia, Marco Frontini, Valentina Fumelli, Cecilia Gabilli, Tommaso Gabbrielli, Alessio Gai, Mauro Galluccio, Pier Francesco Galuppini, Clara Gambelli, Francesca Gambelli, Selenia Gardic, Pierpaolo Garripoli, Andrea Gazzarrini, Maura Genovese, Roseda Gentile, Ilaria Gentili, Leonardo Gherardi, Irene Ghiandai, Lisa Ghilarducci, Lapo Giagnoni, Marco Giampellegrini, Francesco Giani, Francesco Giannetti, Michele Giombini, Elisa Girlanducci, Ilenia Girolami, Sandro Giuntoli, Andrea Giusti, Fabio Giusti, Sebhen Ickay Gokoz, Monica Gnaldi Coleschi, Giacomo Gori, Miller Gorini, Sara Gracci, Laura Graffeo, Lorenzo Granocchia, Michela Grazietti, Simone Grazzi, Manuela Grazzini, Mirko Greco, Eleonora Grifoni, Francesca Guarducci, Maria Chiara Guarnacci, Sauro Guarnieri, Silvia Impelluso, Sebastiano Italia, Fabio Izzetti, Sebastian Krosen, Stefania Labonia, Matteo Lai, Ingrid Lamminpää, Lucia Lancetti, Chiara Lascialfari, Michele Lascialfari, Silvia Lattanzi, Daniela Lattuneddu, Roberta Lazzeretti, Cristiano Lenzi, Francesco Leonardi, Paolo Lerede, Antonella Lezi, Egidio Lista, Sara Lochi, Riccardo Lombardi, Mirko Lorenzini, Olimpia Lorenzini, Chiara Lotti, Leslie Lucchesi, Lucia Luchini, Samuele Luziani, Elisabeth Macchi, Stefano Maffei, Benedetta Maio, Patrizia Malavasi, Andrea Mandalari, Luisa Manfrini, Rachele Manganelli Del Fà, Francesco Mangani, Luca Mangia, Stefano Manna, Federico Mannella, Giovanni Mannelli, Tommaso Mannozzi, Samira Mansour, Giovanni Manuelli, Annalisa Mariani, Marco Marinai, Annalisa Marini, Giulia Marino, Loredana Marino, Luca Marino, Chiara Marrocco, Alberto Martinelli, Elena Martinelli, Marco
Martinelli, Michele Martinelli, Johnny Marzuoli, Serena Masini, Samanta Masotti, Gennj Massafra, Panayotis Mastrou, Federico Mastrorilli, Fabio Mati, Riccardo Matteucci, Simona Mattiacci, Francesco Mattioli, Gianna Maurri, Sara Mazzanti, Arianna Mazzi, Donatella Mazzini, Loredana Mazzolani, Erica Mauro, Federico Mei, William Meli, Alessandro Menchini, Manuela Menichelli, Francesca Meoni, Manuela Mereu, Valentina Mereu, Giada Meucci, Monica Meucci, Chiara Michelacce, Silvia Michielotto, Giuseppina Miglietta, Angelo Milano, Francesca Miscia, Pietro Mocali, Valentina Montanelli, Cristian Montaini, Stefano Montioni, Valentina Moretti, Lara Mori, Gabriele Morigoni, Simone Morselli, Lucia Mosconi, Sabina Moruzzo, Umberto Muccioli, Paola Mura, Marco Mussoni, Anastasia Myrissa, Viviana Naccarato, Michele Nardella, Fabio Nardini, Gaetano Natilla, Alessandro Nava, Alessandro Neri, Maria Netkidou, Elena Nilfedi, Alessia Nobile, Alessandra Nocenti, Gianluca Nocentini, Pietro Nocentini, Marzia Nocetti, Chiara Nostrato, Erika Novelli, Lucia Nuzzi, Marta Occhini, Tommaso Olivieri, Silvia Ombellini, Silvia Onnis, Enrico Onori, Barbara Orlandi, Benedetta Orlandi, Cristina Orlandi, Stefania Orlandini, Maura Orro, Antonella Ottaviano, Monia Ottolini Franceschini, Ilaria Pacchiarotti, Valentina Pacini, Mauro Pagnani, Pierluigi Pala, Giuseppe Paladini, Leonardo Palanti, Irena Palavrsic, Serena Palazzi, E l e o n o r a P a l u m b o , A n d re a P a m p a l o n i , E u g e n i o Pandolfini, Tamara Panichi, Luka Pantic, Benedetta Papa, Stefano Papa, Maria Papacristou, Malamatenia Papagiota, Andrea Parenti, Claudio Pasqualini, Andrea Pasqui, Mara Pasquini, Costanza Pazzi, Colomba Pecchioli, Valentina Pecci, Federico Pecorari, Leonardo Pecori, Mirka Pederzoli, Andrea Pellegrini, Lian Pellicanò, Mara Pelliccia, Stefano Pepi, Simone Perini, Stefania Pertici, Irene Peruzzi, Diego Petrai, Flavio Petretti, Mariacristina Piccinini, Emi Pichierri, Domenico Piemonte, Enrico Pieraccioli, Alessandro Pierleoni, Silvia Pieroni, Domenico Pilmonte, Silvia Pintus, Stefano Pioli Di Marco, Federico Piras, Lorenzo Piscopiello, Enrico Piva, Silvia Piva, Luciana Pochinu Carta, Benedetta Pollastri, Carlotta Ponzelli, Emilio Ponziano, Maria Luisa Poppi, Stefano Porcu, Maria Isabel Poveda Fontes, Daria Predari, Simone Prex, Stefano Proietti, Chiara Puccini, Silvia Quaresima, Federica Quieti, Lucia Raffaelli, Paola Rampini, Monica Rasmini, Emiliano Ravanelli, Bettina Reali, Sara Reali, Gabriella Reave, Francesco Renieri, Simone Riccardi, Valentina Rinaldi, Linda Robba, Alessio Rocchegiani, Alessio Rocchi, Rogio Serrano Alonso, Tiziana Romano, Alessandro Romolini, Piergiuseppa Rosatini, Cristiano Rossetti, Francesco Rossetti, Silvia Russotto, Stefano Sacchetti, Giacomo Salizzoni, Valeria Salvi, Laura Sarri, Francesca Sarti, Annalisa Savarese, Duccio Scarpetti, Valentina Sensi, Nicoletta Sestola, Andrea Sisti, Alessandro Sisto, Michela Sodini, Alessandro Sonnati, Samuele Sordi, Daniele Sorrentino, Milton Sperone, Gianna Stefani, Roberto Stella, Costanza Stramaccioni, Valentina Taccetti, Lorenzo Tappi, Chiara Tarini, Stefano Teodani, Elisa Terzani, Silvia Testini, Silvia Thicci, Silvia Tiva, Anna Toollou, Alessandro Tollini, Enrico Tomidei, Maurizio Tondi, Alessandro Tonini, Antonella Tonini, Davide Tovani, Marco Tradori, Sara Trevisani, Fabio Tridenti, Romina Tronci, Ambra Trotto, Marianna Truglia, Mehmet Karem Tuncay, Alessandra Turano, Rudi Ulivi, Mauro Vannucci, Maria Vecchi, Francesco Vedele, Paolo Velpi, Pamela Ventroni, Marco Venturi, Riccardo Verna, Irene Vino, Andrea Viviani, Lorenzo Volpe, Elena Zerbinati, Esther Ziegler, Giorgio Zoli, Fulvio Zorzi, Marco Zupa, Simone Zurli.
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IONIZZAZIONE: UN INSIEME DI SPAZI ETEROGENEI PRIMA DISPERSI E DOPO ARTICOLATI Estratto dalla Tesi di Laurea di Sabrina Bianchini Relatore Prof. Paolo Galli Correlatore Arch. Ramin Razani La tesi è distinta in tre fasi che riguardano tre operazioni diverse sulla forma, sulla materia, sul ritmo. Per ogni spazio immaginato il percorso dell’itinerario dei segni, sia esso organizzato in viste di piante, sezioni, prospetti o prospettive conduce all’acquisizione dei fattori richiesti per il suo apprezzamento estetico. Lo scopo è
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quello di individuare le componenti o le costanti che producono senso, che producono la capacità di stimolare la fantasia e quindi realizzare il desiderio e l’idea di esserci dentro anche per un momento. L’individuazione delle costanti dei segni architettonici ha consentito di distinguere alcune categorie che, per similitudini, analogie ed assonanze si raggruppano e si accostano a formare e a focalizzare le relazioni dell’insieme e delle parti al di là delle singole figure inizialmente costruite assemblando elementi verticali, orizzontali, scavati o in rilevato. Diluizione e concentrazione insieme alla selezione delle forme elementari
costituiscono il panorama da indagare, catalogare, scomporre e ricomporre in ordini diversi. L’elenco sovverte l’ordine precostituito e fornisce lo spunto per una molteplicità di punti di vista. Tramite questa lettura interpretativa si giunge ad un sistema di nuove relazioni possibili e allo sviluppo conclusivo. Alla maniera della partitura utilizzata come termine di paragone si ha la reintegrazione dei particolari (nucleari) arricchiti dal processo (di ionizzazione). “Il ciclo è compiuto.”1
1 Vedi: Traduzione in francese di Edgard Varèse di un testo di analisi di Ionisation redatto da Nicolas Slonimsky, la quale è riportata alle pagg. 98-100 di Odile Vivier, Varèse, Parigi, 1973.
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LA PROGETTAZIONE DEGLI SPAZI PUBBLICI NEL RAPPORTO CON LA SCUOLA ‘LE DUE VERITA’ - CONSIDERAZIONI DI CARATTERE GENERALE Mauro Mugnai
Progettare un ‘polo’ (il cannone di J. L. Sert e i due contesti) Il tema della progettazione di questo ‘polo’ si è inteso di prenderlo in considerazione facendo riferimento al concetto di ‘tipologia’, tipologia di uno spazio. Alla ricerca di come strutturare in senso unitario degli spazi esterni, vivibili, abitabili dal cittadino inteso come pedone; progetto, quindi, essenzialmente finalizzato alla definizione di un ‘involucro’ per il pedone-abitante. E, di conseguenza, individuazione delle quantità minime indispensabili per realizzare un assetto significativo: “Nel minimo spazio, il massimo della qualità…”, potremmo utilizzare come slogan, parafrasando una pubblicità della Sony (che poi aggiunge: “È Sony e si sente”, a cui potremmo contrapporre: È un polo e si vede! Se in effetti è vero, come scrive Richard Neutra nel suo Progettare per sopravvivere1 che “l’architettura/…/la pianificazione dell’ambiente sono in complesso ‘omnisensoriali’” ci si rivelano attraverso “tutti i sensi”, in fase di progettazione siamo praticamente costretti ad utilizzare soltanto la vista, anche se il termine ‘vedere’ non pare rendere conto più di tanto della partecipazione ad un determinato assetto spaziale). “ARCHITETTONICA. In generale l’arte di costruire in quanto suppone la capacità di subordinare i mezzi al fine e il fine meno importante a quello più importante” (Nicola Abbagnano, Dizionario di filosofia, UTET 1993). “L’architettura come arte della delimitazione Certamente l’architettura è, più di ogni altra, l’arte della delimitazione e della ripartizione spaziale/…/Potremmo allora convenire che l’architettura è propriamente costituita da una spazialità, interna ed esterna al tempo stesso, una spazialità che, a differenza di quella della scultura, anziché “inserirsi” nello spazio, lo comprende e lo delimita dall’interno e dall’esterno, e lo rende al tempo stesso spazio abitabile in tutte le sue diverse accezioni.” (Gillo Dorfles, Il divenire delle arti, Torino, Einaudi 1959, p. 133,134) “non ci stupirebbe che in un futuro non troppo lontano i nuovi centri urbani cercassero di sposare un rinnovellato ‘senso della facciata’ con quella ricerca d’una prospettiva pluridimensionale propria di molta architettura d’avanguardia. Questo dovrebbe permettere anche una pacifica convivenza tra edifici antichi e nuovi, senza che si giunga ad un eccessivo stridore stilistico e prospettico.” (ivi, p.149,150). “Eppure oggi, a distanza di pochi decenni, ci accorgiamo che anche il rigorismo bauhausiano è superato, ci accorgiamo cioè che il divorzio così assoluto tra le tre arti non aveva, e non ha, una reale ragion d’essere, che anzi è forse solo con la re-immissione di pittura e scultura che si potrà vivificare anche l’architettura.” (ivi, p.152). “immettere nell’architettura l’elemento cromatico oltre che sotto l’aspetto dell’opera pittorica anche sotto quello più elementare ma altrettanto efficace della cromatizzazione diretta dell’edificio.” (ivi, p.152) “Solo riagganciando l’arte alla scienza e alla filosofia, se non è più ammissibile di riagganciarla alla magia e al rito, sarà possibile restituirle una vasta base di comunicatività.” (ivi, p. 290). “Sarà giusto e “moderno” riaccettare il concetto di decorazione nel senso inteso da Sullivan (ossia come facente parte integrante della “funzione” di un edificio), e non certo nel senso di qualche tralcio di glicine o di altre superfetazioni ornamentali appiccicate alle pareti nude d’una costruzione a imitazione dei fasti (e nefasti) dell’Art Nouveau.” (Gillo Dorfles, La modernità è da inventare, “l’Arca” n. 5 1987, p. 2). “In questo sforzo del movimento moderno, a me pare che si possano ravvisare – sostanzialmente – due sentieri alternativi: il primo è quello degli architetti che si concentrano nello studio “dei pieni”: textures, involucri, effetti plastici e così via, intendendo l’architettura come un problema di volumi e di spazi interni. Il secondo sentiero è quello degli architetti che – partendo da volumi programmaticamente poveri (case popolari costruite in serie ecc.) – si sono concentrati essenzialmente nello studio “dei vuoti”, degli spazi interposti tra quei volumi elementari, intesi come una sorta di “mattoni urbanistici” della nuova città e della nuova figuratività. Per motivi vari, fino ad oggi il primo sentiero è risultato molto più praticato e suggestivo del secondo, ma le cose potrebbero anche rovesciarsi, domani, e la ricerca di “monumenti spazio, come in ogni altra epoca umana, divenire di nuovo intelligibile alla comune comprensione di tutti gli uomini: come capita per altre manifestazioni artistiche, soprattutto musicali e letterarie ma anche plastiche e figurative.” (Francesco Tentori, “Casabella” n. 453, dicembre 1979, p.52). “tel dessin d’un volume cubique pourra être vu comme la limite externe d’un solide que nous percevons du dehors ou comme l’entourage d’un espace que nous percevons du dehors ou comme l’entourage d’un espace que nous percevons de l’intérieur. Dans ce cas ambigu, la consigne qui pourra être donnée, indirectement, au sujet percevant, de voir la forme ‘en sailli’ ou ‘en creux’, décidera de la solution qu’il adoptera.” (Noël Mouloud, La peinture et l’espace, PUF, Paris 1964, p.32). … “le opere i cui spazi portano un contributo di benessere alla vita della popolazione e favoriscono l’incontro degli uomini, hanno un loro fondo che può definirsi politico e sociale anche perché spostano i termini architettonici da una concezione di casta intellettuale o specializzata a quelli di una corale partecipazione/…/Io mi sono domandato più volte perché mai tante celebrate opere di architettura lasciano indifferente o scontento il pubblico e che cosa occorrerebbe fare perché esso si avvicinasse all’architettura di oggi senza i pregiudizi e le reticenze che, spesso ironicamente, dimostra. Perché è certo che quanto più una costruzione sembra interessante per i tecnici, i critici e gli uomini di cultura, tanto più è incomprensibile per i non ‘competenti’.
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Mentre a noi i grattacieli di Mies rivelano un giuoco sapientissimo di rapporti e molte altre cose ancora che lodiamo, al pubblico in generale paiono gabbie o prigioni; e mentre per noi la Chiesa di Ronchamp è un fatto plastico e molte altre cose da meditare, per il pubblico è una forma strana o non una Chiesa; e così via (Giovanni Michelucci, Riflessioni, “La Casa” n. 6, p. 219). “Il terzo grande ostacolo all’autoconoscenza umana è – almeno nelle nostre culture occidentali – un’eredità della filosofia idealistica. Sorge dalla bipartizione del mondo nel mondo esterno delle cose, che per principio è senza valore per il pensiero idealistico, e nel mondo interno del pensiero umano e della ragione, a cui soltanto vengono riconosciuti valori. Questa bipartizone è cara alla superbia spirituale dell’uomo e sostiene in maniera gradita la sua avversione ad accettare che il suo comportamento sia determinato da cause naturali.” (Konrad Lorenz, L’aggressività, Milano Euroclub 1978, p.283) “In che consista l’essere scostumato: quali atti sieno spiacevoli a que’ co’ quali si usa. Si dividono questi secondo il numero delle potenze dell’anima, alle quali si può render noia. Il che acciò che tu più agevolmente apprenda di fare, dèi sapere che a te convien temperare ed ordinare i tuoi modi, non secondo il tuo arbitrio, ma secondo il piacer di coloro co’ quali tu usi, ed a quello indirizzarli: e ciò si vuol fare mezzanamente: perciò che chi si diletta di troppo secondare il piacere altrui nella conversazione e nella usanza pare piuttosto buffone, o giuocolare, o per avventura lusinghiero, che costumato gentiluomo: si come per lo contrario chi di piacere, o di dispiacere altrui non si dà alcun pensiero, è zotico e scostumato e disavvenente. Adunque con ciò sia cosa che le nostre maniere sieno allora dilettevoli, quando noi abbiamo riguardo all’altrui e non al nostro diletto; se noi investigheremo quali sono quelle cose, che dilettano generalmente il più degli uomini, e quali quelle che noiano; potremo agevolmente trovare quali modi siano da schifarsi nel vivere con esso loro, e quali siano da eleggersi. Diciamo adunque, che ciascuno atto che è di noia ad alcuno de’ sensi; e ciò che è contrario all’appetito; ed oltre a ciò quello, che rappresenta alla immaginazione cose male da lei gradite, e similmente ciò che lo intelletto have a schifo, spiace e non si dee fare.” (Giovanni della Casa, Galateo ovvero de’ costumi, Firenze Le Monnier 1949, p.30-31). Su “Mattina” del 14.10.97, Condono, tutto da rifare. A rischio chi ha già pagato, si dà notizia di una legge del 1939 che all’articolo 15 elenca una serie di violazioni dei vincoli paesaggistici, ambientali, geologici e simili. La finanziaria dell’anno scorso ha previsto un regolamento per questa legge e dovranno così essere riviste tutte le pratiche di condono edilizio.
“Senza concetti non c’è universalità o oggettività: non c’è forma: forma non può essere che lo eidos, l’idea, il concetto (la lezione inconsunta dei greci): e ‘immagine’ e musicalità e simili appartengono, per se stesse, all’ordine dello immediato o soggettivo o sensibile o particolare che si dica.” (Ignazio Ambrogio, dalle Note alla Critica del gusto di Galvano della Volpe, in G. Della Volpe, Opere, 6, Editori Riuniti, 1973, p. 463). Potrebbe quindi essere, dovrebbe quindi essere l’’idea’ di un rapporto con un utente esterno, l’idea della strutturazione di un ‘vuoto’. L’idea della strutturazione di un ‘contingente’. NON la rappresentazione di un ‘u n i v e r s a l e’. “L’idea è, per se stessa, un universale: e nel campo artistico l’universale è il niente. S’io dico pianta, intendo tutte le piante, cioè nessuna pianta concreta. S’io dico capitano, intendo tutti i capitani e nessun capitano. Il filosofo e lo scienziato, gli speculatori puri, si partono appunto dagli universali od arrivano agli universali. La scienza e la filosofia hanno per oggetto l’universale. L’artista guarda anch’egli all’universale; ma all’universale limitato, oscurato, vorrei dire spezzato nella realtà.” (Eugenio Donadoni, L’Anima e la Parola, vol. II, Società Editrice Dante Alighieri, Milano, Roma, Napoli 1915, p.20). Dire scuola, non dice niente. Dire quella piazza vuol dire mettere in grado gli abitanti di utilizzare quello specifico spazio. Se una pittura ha valenze universali può essere utilizzata per determinare uno spazio, ma l’oggetto che ha in sé la determinazione non collaborerà mai alla costruzione di uno spazio esterno. Idea, quindi, sì, ma di un ‘vuoto’. “L’unica via possibile, abbiamo detto, è di pensare fino in fondo il funzionalismo” (Jan Mukarovsky, Il significato dell’estetica, Torino, Einaudi 1973, p. 385). “L’indagine formale sull’architettura non potrà mai riferirsi ad uno spazio in astratto, ma al modo in cui sarà stata accusata e risolta la indispensabile esternità-internità dell’edificio. Nelle modalità della formulazione si recupera allora la chiave stessa della spazialità, di cui si è inteso investire l’immagine. - Ma occorre rifare tutta la storia dell’architettura! - esclamò sgomento Cortese. Perché non dovrebbe essere rifatta? Postillò Carmine/…/Comunque, Cortese, per questa famosa storia dell’architettura, che è pur da rifare, si dovrà tenere presente una discriminazione inevitabile/…/E questa discriminazione riguarda il modo col quale ci si sarà rivolti all’architettura, se prevalentemente immaginandola come un interno o in esterno. Che poi questa prevalenza non sia occasionale, ma investa di volta secoli di storia, sarà facile rendersene conto, solo che ci si rivolga, con un colpo d’occhio, alla successione storica di certe forme architettoniche. - E allora si scoprirà, - disse, caricato, Carmine/…/che lo spazio interno è dei retrogradi, lo spazio esterno dei progressivi” (Cesare Brandi, Eliante o dell’Architettura, Editori Riuniti, 1992, p. 264, 275). “E che cos’è dunque la città, se non una grande esposizione permanente?/…/I Vetrinisti son degli artisti, allo stesso titolo degli architetti, degli scultori e dei pittori che abbelliscon la grande casa nella quale viviamo; anzi son i soli pittori di pareti, oggi che l’affresco e il graffito all’aria aperta son quasi scomparsi” (Giuseppe Prezzolini, America con gli stivali, Vallecchi, 1954, p.520-521). “La decorazione è ritmo; in essa si nasconde lo stesso arcano che regna nella metrica del poeta. Parte dominante dell’architettura del Novecento ha operato allo stesso modo del poeta che si è scoperto a scrivere allontanando da sé la metrica: l’uno e l’altro hanno cercato di togliere la maschera al mondo, convinti di trovare la sostanza, e in questo hanno rischiato il nulla e molto spesso hanno rischiato di portare a compimento la totalizzazione eticopolitica dell’Ottocento” (Roberto Masiero, Elogio della decorazione contro la superficialità, “Rassegna” n. 41 1990, p. 23). “Non esiste alcunché di più direttamente emozionante per l’occhio di un artista che l’arredamento interno di quel che negli Stati Uniti si chiama un appartamento ben ammobiliato. Il suo difetto più comune è la mancanza di armonia. Noi parliamo dell’armonia di una camera come parleremmo dell’armonia di un quadro, perché ambedue, la camera e il quadro, sono egualmente sottomessi a quei principi indefettibili che sorreggono tutte le varietà dell’arte, e si potrebbe quasi dire che le leggi con le quali giudichiamo le qualità principali di un quadro sono sufficienti per apprezzare l’armonia dell’arredamento di una camera” (Edgar Allan Poe, cit. da Giuseppe Bartolucci, Edgar Allan Poe pioniere dell’arredamento, “ Arte Club” n. 20, 1964, p. 57). Aggiungiamo il seguito (da: Edagar Allan Poe. Oeuvres en prose traduites par Charles Baudelaire, Gallimard 1969, p. 972): “Il y a quelquefois lieu d’observer un manque d’harmonie dans le caractère des diverses pièces de l’ameublement, mais plus généralement dans leurs couleurs ou dans leur modes d’adaptation à leur usage naturel. Très-souvent l’oeil est offensé par leur arrangement anti-artistique. Les lignes droites sont trop visiblement prédominantes, trop continuées sans interruption, ou rompues trop rudement par des angles droits. Si les lignes courbes interviennent, elles se répètent avec une uniformité dèplaisante. Par une précision outrée, tout l’aspect d’une belle chambre se trouve complétement gâté.” Sempre di Baudelaire sono da notare i richiami ad una concezione dualistica dell’arte (da Baudelaire Critique d’art suivi de Critique musicale, Paris Gallimard 1992): “Plus l’art voudra être philosophiquement clair, plus il se dégradera et remontera vers l’hiéroglyphe enfantin; plus au contraire l’art se détachera de l’ensegnement et plus il montera vers la beauté pure et désintéressée. L’Allemagne, comme on le sait et comme il serait facile de le deviner si on ne le savait pas, est le pays qui a le plus donné dans l’erreur de l’art philosphique.” (p.259) “La dualité de l’art est une conséquence fatale de la dualité de l’homme” (p.345) “De tous les arts ou, plus exactement, de totes les techniques susceptibles d’atteindre parfois à l’art, c’est peut être l’architecture qui inspire au public le plus de timidité, alors que c’està propos d’elle, par excellence, qu’il importerait le plus u’il eût des avis. Il a des réaction, des abstensions - sourtout des abstensions - rarement des avis. Les hommes se sentent et se disent volontiers profanes en ce domaine où ils ne devraient pas l’être, puisq’ils sont bien forcés d’être les usagers de l’architecture et que toute leur vie en dépend. (Jean-François Revel, Les “progrès” de l’architecture, Peut-on parler de divorce entre le public et les pionniers de l’architecture depuis en siècle?, “Connaissance des Arts”, n, 95 1960, p.87). “La dicotomia studiata qui appare di un significato e di una portata fondamentali per comprendere pienamente il comportamento verbale e il comportamento umano in generale” (Roman Jakobson, I poli metaforico e metonimico, in Saggi di linguistica generale, Milano, Feltrinelli, 1994, p.42).
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“Quelli che nel secolo XIII si chiamavano “magistri aedificiorum et stratarum”, o semplicemente “aedificiorum”, nel se. XVI si chiameranno invece “magistri viarum et aedificiorum” o semplicemente “viarum”. E la posizione di priorità o d’esclusiva, che nella intitolazione tengono questi due termini di edifici e di strade, indica il soggetto alternativamente prevalente delle attribuzioni dei maestri nei vari tempi. Nei secoli XIII e XIV i maestri - e non per nulla tutti i documenti, che ce ne rimagono, sono sentenze arbitrali - sono soltanto dei giudici: giudici “super omnibus questionibus Urbis edificiorum, domorum, murorum, viarum, platearum, divisionum tam intus Urbem quam extra”. Il concetto d’ornato e d’utilità pubblica stenta ancora evidentemente a svolgersi dalla selva dei casi concreti e delle vertenze particolari di convenienza e d’utilità privata (Emilio Re, Maestri di strada, Roma, A cura della R. Società Romana di storia patria, 1920, p. 5 sgg.). “Fin dal trecento, nel 1299, a Firenze, era stato costituito l’ufficio delle contrade, delle piazze e dei ponti. Il principio del rettifilo incominciò ad avere impero verso la metà del quattrocento, sotto gli auspicii di Niccolò V e di Sisto IV/…/i magistri viarum, ebbero il compito speciale di occuparsi dell’allineamento delle strade e della loro ornamentazione. Identici concetti imperavano a Siena, dove troviamo gli Uffiziali dell’ornato (1469), a Ferrara e a Milano” (Eugenio Müntz, L’arte italiana nel quattrocento, Milano 1894, p. 365). “Quasi tutta la nostra esistenza si svolge tra quattro pareti, che limitano e condizionano la nostra esperienza. E la parete non è soltanto una superficie solida di mattoni intonacati, è anche un colore: l’opera del pittore che tinteggia una parete non è meno costruttiva di quella dell’architetto che l’ha progettata e del muratore che l’ha fabbricata. Il gesto pittorico di Rothko è il gesto pacato, uniforme dell’imbianchino che tinteggia un muro: a poco a poco, seguendo il ritmo regolare del moto che distende il colore, si avvede che la tinta muta la situazione ambientale e che uno spazio sta nascendo là dove non c’era che una cesura nella continuità dello spazio. La parete cessa di essere un limite, un divieto psicologico; come assorbito e filtrato attraverso la trama del colore, lo spazio al di là passa al di qua, trabocca dai limiti del muro, invade la stanza col proprio vapore. La parete diventa ambiente; lo spazio infinito, cosmico, si trasforma in spazio empirico, da viverci dentro. Lo spazio che la pittura definisce non è più al di là, ma al di qua della superficie dipinta; e questa, come u musaici delle chiese bizantine (Rothko è russo), serve a colorire l’aria nel vano architettonico.” (Argan de L’Arte Moderna (sppl. N. 10 del “Corriere della Sera”, p. 482) “L’architettura è al tempo stesso un insieme di tecniche e una forma d’arte. L’idea di architettura non implica solo la costruzione di manufatti (muri, case, città), ma un modo complessivo di intendere lo spazio, dallo spazio individuale ai grandi spazi collettivi (la piazza, la strada, un intero territorio in quanto abitato e modificato dall’uomo” (L’arte come mestiere a cura di Umberto Eco, Milano Bompiani 1972, p.107). “…parlare di teatro diviene necessariamente parlare di espressione di fatti comunicativi in uno spazio determinato. Il quale non è solo spazio scenico, ma contemporaneamente luogo in cui variamente si svolgono rapporti sociali. È nel luogo teatrale, insomma, che si articolano e si dialettizzano in maniera strettamente intrecciata scena, pubblico, mercato e ambiente sociale/…/Ludovico Zorzi, nel recente Il teatro e la città/…/ci fa inseguire la multiforme fenomenologia dei luoghi teatrali così ripensati nella storia: la chiesa, la sala, il cortile, il giardino, la piazza, la città intera, ‘il cui tessuto viario viene percepito, nell’occasione di ingressi e di cerimonie solenni, come uno spazio ludico collettivo’.” (Omar Calabrese, Lo spazio, il luogo, il pubblico. Dal decentramento alla progettazione di nuove strutture, “Rinascita” n. 9, 3 marzo 1978, p.24). “Prima di essere forma, una cosa è colore. I colori sono le qualità di un quadro. Ogni artista ha i suoi colori o la sua colorazione” “Cerca di dimenticare gli oggetti che ti stanno davanti: un albero, una casa, un campo ecc. Pensa soltanto: qui c’è un piccolo quadrato azzurro, qui una striscia di giallo, e dipingi come ti appaiono” (Manet) (U. Magrini, A. Nastasio, Educazione artistica 1, Firenze Sansoni 1970) “È importante ricordare che gli oggetti fisici non ci vengono dati come elementi primari. Ciò che vien dato è soltanto un complesso di sensa; e un sensum/ …/è qualche cosa di “irrelato”. In altre parole, il sensum, come tale, è semplicemente una macchia colorata senza alcun riferimento a oggetti fisici esterni” (Aldous Huxley, L’arte di vedere, Mondadori 1951, p. 49). “Più volte mi è stato chiesto per quale necessità ho modellato alcune statue ‘a rovescio’, cioè ho modellato lo spazio che racchiudeva il pieno, e non il pieno direttamente” “Si può considerare il valore del vuoto non come derivato ma come fatto attivo, agente sul pieno” (Mirko, La fondazione Mirko per Firenze, Firenze Vallecchi 1979, p.26) “Quale sarà la via d’uscita? Io credo che essa si trovi in quei punti di raccordo in cui la democrazia chiede che tutti i soggetti siano presenti: il politico deve accostarsi all’architetto, l’architetto e il politico devono accostarsi al cittadino per avere una visione comune, per descrivere la vita com’è, e pensare come può essere, come deve essere. Bisogna sottrarsi al pericolo di essere costruttori di episodi architettonici non ripetibili solo per il gusto di vantarsene facendo la ruota come il pavone, perché in questo modo si aumenta il distacco tra costruire e vivere; e se aumenta il distacco tra costruire e vivere, aumenta lo spazio per i cattivi costruttori/…/la lunga esperienza storica italiana, che è un’esperienza autoritaria in tutti i sensi [autoritaria socialmente, culturalmente, economicamente, autoritaria anche dal punto di vista religioso] non ha affatto invogliato l’opinione pubblica a partecipare alla costruzione della vita pubblica.” (Conversazione con Furio Colombo, “l’Architetto” n. 147 giugno 2000, p. 17,18).
Così questo spazio abitato viene necessariamente a caratterizzarsi con un centro, come un luogo a cui è collegato il concetto di polo. Uno spazio realmente rappresentato non può non avere un centro: “Lo spazio e il tempo, così come ce li rappresentiamo, hanno un centro: non ci possiamo rappresentare un tempo se non all’indietro o in avanti rispetto al momento presente al quale viene riferito il tutto. Qualcosa di analogo vale per la rappresentazione dei luoghi”.2
In sostanza, quale tipo di spazio esterno si ritiene di dover strutturare in una determinata parte di ‘città’, al fine di agevolare la caratterizzazione di quel luogo come ‘polo’ significativo in quella determinata zona? Ecco quindi che si precisano alcuni connotati della proposta: spazio esterno, spazio pedonale, che tipo di spazio pedonale…. In definitiva, una forma che riesca a darci la sensazione di un contenuto di questo tipo.
“Quel che Kant compie è /…/ una messa in chiaro risolutiva di quanto costituisce lo specifico carattere (carattere che non è determinante, e quindi non apodittico) del giudizio estetico; e nel contempo egli dimostra l’impossibilità di ogni dottrina del bello. Applicato alle arti, questo tipo di riflessione filosofica si risolve nel colpire con l’accusa di inconsistenza dal punto di vista conoscitivo ogni dottrina filosofica fondata su una definizione dell’arte di carattere essenzialistico: il discorso estetico viene così ad essere limitato al piano d’ una critica che prenda in esame e valuti le opere e - verrebbe da aggiungere - allo studio delle strutture fenomeniche di queste ultime. Ora, il fatto è che il romanticismo - e tutto quanto ne discende - produce un corto
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circuito proprio nella problematica della Critica del Giudizio allorché mette in atto la riduzione del Bello al Vero e procede alla identificazione tra l’esperienza estetica e l’operazione con cui un contenuto ontologico viene presentato e determinato (Jean-Marie Schaeffer, L’arte dell’età moderna. Estertica e filosofia dell’arte dal XVIII secolo ad oggi, Bologna, Il Mulino, 1996, p.25). “una cosa è concepibile se è rappresentata da un concetto; non occorre che sia un concetto, per essere concepibile” Hilary Putnam, Mente, linguaggio e realtà, Milano, Adelphi 1987, p. 299. “il n’y a d’originalité‚ possible qu’avec la vérité, que l’originalité‚ n’est autre chose qu’une des formes que prend la vérité pour se manifester; et ces formes heureusement sont infinies” Eugène Viollet-le-Duc, Entretiens sur l’architecture t.I, Paris, Morel 1863, p.451. “Il bello rientra pertanto nel farsi evento nella verità. Non è quindi qualcosa di relativo al piacere, quale suo semplice oggetto” (Martin Heidegger, Sentieri interrotti, Firenze, la Nuova Italia 1987, p.64). …“nel XVII secolo, si affermò il particolare dualismo dei due tipi di fiducia dell’uomo in se stesso; uno, era quello della fiducia che l’uomo aveva delle proprie esperienze sensibili della realtà; l’altro, quello della convinzione di poter conoscere la realtà… extra-sensibile e inimmaginabile, in modo matematico e astratto, fedele alla realtà stessa, anche se non corrisponde all’esperienza” “E sempre non sappiamo se l’uomo è un essere nato nel sole e proteso verso di esso o se il suo regno è l’ombra e il freddo della notte durante la quale si vedono le stelle” (Bogdan Suchodolski, Le idee copernicane e il loro significato filosofico e culturale, Accademia Nazionale dei Lincei, 1970, p.7, 14). “È fuori dubbio che il Mondo Moderno, liberando l’individuo, ha fatto trionfare il soggettivismo e l’individualismo. Ma è altrettanto certo che nessuna epoca precedente ha elaborato un oggettivismo così spinto e che in nessuna età precedente il non-individuale trovò tanto credito sotto forma di collettivo” (Martin Heidegger, Sentieri interrotti, Firenze, La Nuova Italia, 1987, p.85). “Mademoiselle de L’Espinasse: Che pensate dell’incrocio delle specie?/…/ Bordeu: Senza dubbio; l’arte di creare degli esseri che non sono, a imitazione di quelli che sono, è vera poesia. Questa volta, in luogo di Ippocrate, mi permetterete dunque di citare Orazio. Questo poeta, o facitore, dice in qualche parte: Omne tulit punctum, qui miscuit utile dulci; il merito supremo è di aver unito il gradevole all’utile. La perfezione consiste nel conciliare questi due punti. La azione gradevole e utile deve occupare il primo posto nell’ordine estetico; non possiamo rifiutare il secondo all’utile; il terzo sarà per il gradevole; e relegheremo all’ultimo posto quella che non rende né piacere né profitto.” (Denis Diderot, Dialoghi filosofici, Canova, Treviso s.d. p.171). “ne recevoir jamais aucun chose pour vrai que je ne la connusse évidemment être telle” Descartes cit. da Viollet-Le-Duc (Op. Cit., p.453). “il nostro occhio si esercita continuamente a maneggiare forme innumerevoli: la massima parte dell’immagine non è impressione dei sensi, bensì prodotto della fantasia. Dai sensi vengono presi soltanto piccoli motivi e occasioni, e ciò viene poi elaborato con l’invenzione. Bisogna mettere la fantasia al posto dell’inconscio: la fantasia non fornisce deduzioni inconsce, quanto piuttosto possibilità proiettate (quando ad esempio i bassorilievi si trasformano in rilievi per l’osservatore). Il nostro ‘mondo esterno’ è un prodotto della fantasia, alla costruzione del quale sono state, di nuovo, adoperate fantasie precedenti come attività abituali ed acquisite con l’esercizio. I colori, i toni, sono fantasie, non corrispondono affatto esattamente al processo meccanico reale, bensì alla nostra condizione individuale” (Friedrich Nietzsche, Frammenti postumi, cit. da Carlo Mongardini, Esprimere/Comprendere, Annuario dell’Insegnante 1973-74, INA). “ogni fatto psichico esiste non propriamente come fatto (qualcosa di già compiuto, precostituito), ma come atto.” (Giovanni Gentile, Sommario di pedagogia come scienza filosofica, Firenze Sansoni 1934, p.26). …“ogni percezione è una comunicazione o una comunione, la ripresa o il compimento da parte nostra di una intenzione estranea, o viceversa è la realizzazione all’esterno delle nostre potenze percettive e come un accoppiamento del nostro corpo con le cose. Se non è stato possibile accorgercene prima, è perché la presa di coscienza del mondo percepito era ostacolata dai pregiudizi del pensiero oggettivo. Tale pensiero ha costantemente la funzione di ridurre tutti i fenomeni che attestano l’unione del soggetto e del mondo e di sostituire a essi l’idea chiara dell’oggetto come in sé e del soggetto come pura coscienza” (Maurice Merlau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Milano, Il Saggiatore 1965, p. 418).
Negli ultimi anni il tema degli spazi aperti è stato di attualità (ricordiamo, ad esempio, per Firenze, alcuni titoli di incontri promossi dal Circolo Fratelli Rosselli negli anni ’91, ’92: Costruire l’ambiente de-costruire l’architettura; La piazza; La facciata della città. Fino alle diverse modalità di riferirsi o di utilizzare gli spazi pubblici che hanno preso campo. La Triennale di Milano 1997 con il tema: “Le architetture dello spazio pubblico. Forme del passato forme del presente” fa il punto su questa stagione progettuale e sugli esiti relativi a varie sperimentazioni in rapporto alla ‘costruzione’ dell’ambiente e alla ‘decostruzione’ dell’architettura. A Firenze, tra il dicembre ’98 e l’aprile ’99 è previsto un ciclo di conferenze su alcune piazze cittadine, individuate così come ‘oggetti’. In sostanza, con il tema della rivalutazione dello spazio pubblico, abbiamo da fare i conti con i connotati di un vero e proprio accadimento che ha contribuito a spostare l’attenzione dall’architettura intesa come edificio collegato ad una funzione - la casa, la scuola ecc.- ad un ‘involucro’ cittadino). Si tratta peraltro di eventi che vanno in parallelo con l’accentuarsi della crisi dell’architettura moderna. Il cosiddetto Moderno viene ‘superato’ dal Postmoderno e da altre ‘sigle’ che si costituiscono come risposte in chiave simbolico-espressiva, mentre il disagio per l’utente delle nuove realizzazioni non pare tenda a diminuire così come le polemiche e le discussioni che spesso si sostituiscono all’attivismo delle realizzazioni del dopoguerra.3 Per quanto ci riguarda, un Corso universitario si caratterizza essenzialmente come tentativo di spiegazione razionale del senso di determinate modalità di approccio, in questo caso relative al progetto dell’architettura. “In tutte le opere d’arte è/…/necessario che l’autore abbia un piano prefisso ed un oggetto” scrive David Hume.4 In questa sede, in sostanza, scegliamo questo della definizione di un ‘vuoto’ come ‘oggetto’ dell’architettura in certo qual modo assumendolo come riferimento funzionalmente prioritario intrinsecamente congruo.5 “La definizione più precisa che si può dare dell’urbs e della polis è in realtà molto simile alla definizione scherzosa del cannone: si prende un foro, vi si avvolge attorno strettamente del filo di acciaio ed ecco il cannone. Così l’urbs e la polis cominciano con l’essere uno spazio vuoto, il forum e l’agorà e tutto il resto sono soltanto il mezzo per delimitare quello spazio vuoto, per tracciarne il contorno” (J. L. Sert, Centri per la vita della comunità, Ciam. Il cuore della città, Hoepli, Milano 1954, p.3).
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La considerazione che si può fare in relazione al brano citato di José Luis Sert sul ‘cannone’ è che con l’impostazione di questo Corso siamo al tempo stesso in linea perfetta con questo tipo di valutazione e, paradossalmente (o in conseguenza a considerazioni come quella di Sert), alla ricerca di obiettivi sostanzialmente alternativi a quelli praticati di fatto dal Movimento Moderno.6 Ad esempio in rapporto a una realizzazione come quella della sede del Bauhaus a Dessau, caratterizzata da “un impianto dinamico, privo delle convenzionali gerarchie rappresentative tra fronte e retro, tra interno ed esterno”7 dove il protagonista indiscusso è costituito dal ‘pieno’ dell’edificio. Le varie parti del Bauhaus di Dessau sono viste come componenti funzionali specifiche assemblate nell’impianto (che Gropius amerà presentare visto dall’alto). Ed è questa una delle ragioni per cui prendiamo in considerazione, come ‘esempi’, gli edifici scolastici nord europei. Rifiutando tuttavia la filosofia dello standard come determinante della forma del ‘pieno’: nel caso del Bauhaus, una sorta di restituzione morale dell’oggetto8 vale a dire la determinazione della forma partendo dalla ricerca dell’essenzialità. Con il concetto di standard che uniforma l’architettura alla macchina (convertendola definitivamente ad ‘oggetto’) si mira alla spersonalizzazione, mentre noi, per la valorizzazione dei ‘vuoti’, dobbiamo tendere alla reintroduzione della componente personale ancorata ad un determinato contesto, recuperando in questo senso il concetto di standard.9 E cercando di scindere il più possibile la strutturazione artistica da quella dell’oggetto: “L’Art comme la Nature est rytmique c’est-à-dire Éternel. Si l’Art s’apparente à l’objet il devient descriptif, se rabaisse vers des moyens imperfaits, il se condamne dei lui-même, il est sa propre négation.”10
Il cosiddetto Movimento Moderno si caratterizza per presupposti teorici che Leonardo Benevolo sintetizza in slogan come: “L’arte per cui lavoriamo è un bene di cui tutti possono partecipare, e che serve a migliorare tutti quanti; in realtà, se non vi partecipano tutti non potrà parteciparvi nessuno” (Morris) o “Programma di redistribuzione dei beni artistici”11
Sigfried Giedion, citando van de Velde, individua le ragioni di questo movimento in una “rivolta morale” contro il mascheramento dei vecchi edifici. Per cui, in sostanza, abbiamo due tipi di ‘moralità’ cui far fronte: quello della ‘moralità’ delle forme alla ricerca di ciò che sta dietro ai mascheramenti e quello della moralità del fare architettura, cercando di porla a servizio di tutti.12 Le carte vengono ovviamente giocate sul primo dei fronti nel quale si possono in qualche modo raccogliere dei frutti, tanto che riguardo all’architettura moderna Giulio Carlo Argan può riconoscere che i valori estetici conservano una loro attendibilità mentre quelli programmatici hanno mostrato palesemente i loro limiti: “L’insuccesso dell’architettura razionale sul piano dei valori estetici è ancora da dimostrare; il suo insuccesso sul piano ideologico è un fatto che può riempirci di tristezza, ma non si può contestare”.13
Il nostro assunto consiste nel porre in rapporto, in linea di principio, il fallimento degli obiettivi programmatici con il ‘successo’ di quelli estetici. I due fatti paiono connessi molto di più di quanto si potrebbe ritenere a prima vista. Si potrebbe addirittura sostenere che con la sua carica utopica in realtà tutta sbilanciata sul piano della ‘poetica’, la strategia dell’architettura del XX secolo parte dando per scontato il fallimento degli obiettivi programmatici. Quando un Paul Scheerbart nel 1914 collega problemi di rinnovamento culturale della società con l’architettura del vetro e della trasparenza, vuol dire che tende ad utilizzare al massimo la carica idealistica del concetto di innovazione in una sorta di formula vincente: aboliamo le pareti! “Noi viviamo per lo più in spazi chiusi. Essi costituiscono l’ambiente da cui sorge la nostra cultura. La nostra cultura è in certo modo il prodotto della nostra architettura. Se vogliamo portare la nostra cultura ad un più alto livello, siamo costretti bene o male a trasformare la nostra architettura. E questo sarà possibile soltanto se elimineremo dagli spazi in cui viviamo il carattere di chiusura.”14
Il che significa collegare, mettere in campo, obiettivi di carattere sociale con slogan che facendo breccia su istanze di rinnovamento sociale, pongono la ricerca di standard assoluti, dove l’interno si fonde con l’esterno, l’Io dà libero sfogo alla propria creatività aprendo il settore ad una completa decontestualizzazione.
“L’uomo può essere opposto a se stesso in duplice modo: o come selvaggio, quando i suoi sentimenti dominano sui suoi princìpi; o come barbaro quando i suoi princìpi distruggono i suoi sentimenti. Il selvaggio disprezza l’arte e riconosce la natura per sua sovrana assoluta; il barbaro schernisce e disonora la natura, ma, più spregevole del selvaggio, continua assai spesso ad essere schiavo del proprio schiavo” (F. Shiller, Dell’educazione estetica dell’uomo, lettera sesta, Milano Edizioni Accademia 1973, p.192).
In realtà l’architettura era già ampiamente decontestualizzata, seguendo un processo partito da lontano. Già la componente formale si è resa autonoma dall’organismo e con il Moderno questa autonomia viene istituzionalizzata ‘scientificamente’. Il singolo oggetto può essere elaborato con tutta la libertà consentita dal ‘sistema’. Quando Adolf Behne nel 1923 solleva lo slogan dell’architettura funzionale,15 distingue la forma dalla funzione: “l’impulso a far cosa piacevole dette origine all’interesse per la forma”. Solo che in passato - sostiene - le forme, il ‘gioco’ hanno preso il sopravvento per cui è andato a finire che “L’importanza attribuita alla forma superò quella dello scopo. Così, risalire allo scopo è sempre un atto rivolu-
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zionario: significa rifiutare la tirannia di certe forme, al fine di creare, riflettendo sulla funzione originaria, forme rinnovate, vitali, vive, partendo da una situazione il più possibile neutra. Il carattere strumentale della costruzione ne fa un’entità relativa, Il suo carattere di giuoco ne fa un’entità assoluta. Essa deve tenersi in equilibrio tra questi due poli. Non si può parlare di equilibrio per gli ultimi secoli della storia edilizia europea. La forma ebbe il sopravvento, e lo scopo era già sufficientemente raggiunto se la casa funzionava nonostante la forma, ossia quando la forma non annullava addirittura lo scopo.”
Nella copertina della pubblicazione sta scritto che “L’importanza del saggio di Behne non consiste tanto nei postulati sociali che egli pone a fondamento dell’architettura moderna, quanto nel rapporto diretto da lui stabilito fra tali postulati e la forma nuova dell’architettura, dato che soltanto nella forma l’architettura si realizza e vive.”
Il discorso etico, le motivazioni sociali, le esigenze di adeguamento funzionale vengono tirate in ballo per giustificare delle forme, tanto che la funzionalità viene ad acquisire un valore politico rafforzato dal costituirsi del Movimento.16 Nel tentativo di afferrare l’essenzialità di un rapporto con la ragione di essere dei singoli oggetti, edifici compresi. Ma una funzionalità dell’architettura esiste nella misura della possibilità di riportare a considerazioni razionali le questioni delle forme, ponendole in rapporto all’uso che se ne deve fare.
“è l’uso caratteristico al quale è rivolto l’oggetto per via delle sue qualità specifiche, che fornisce il significato col quale si identifica” (John Dewey, Democrazia e educazione, Firenze La Nuova Italia 1951, p.40).
I ‘funzionalisti’ si occupano in sostanza di una ‘riduzione’ ad oggetto di un’architettura che non aveva ancora acquisito a pieno questo carattere sotto tutte le latitudini: se ne stava in bilico tra una spesso male intesa esigenza di decoro e una sostanziale autonomia del singolo manufatto. Era tempo che questa autonomia diventasse forma vitale. E in questo individuano l’‘uso’ dell’architettura. In pratica pare questo il significato del titolo del primo capitolo di Behne: Non più facciate, ma case. Pare da un lato lo slogan di un operatore che ha perso la capacità di una lettura unitaria dell’ambiente ma che, al tempo stesso, pone il problema di una riflessione sistematica sull’architettura al di là dell’accademismo di una decorazione fine a se stessa.17 Una libertà di riflessione sulla forma da dare all’architettura. Ed è questo il messaggio culturale avanzato che l’epoca della Nuova Architettura lascia alle generazioni seguenti. Anche se nella sostanza, la strategia è quella di sostituire alla forma della facciata (e ai vincoli con la città) la forma, l’immagine, dell’oggetto autonomo. “La forma geometrica come razionale a priori, viene assunta con valore di cosa in sé, indipendentemente da ogni funzione di determinazione spaziale”.
Questa pare sia una delle didascalie relative all’architettura presenti alla nona Triennale del 1951.18 Una spiegazione della ‘funzionalità’ di questo comportamento, del perché ha fatto in certo qual modo strada, diffondendo la prassi degli oggetti autonomi più o meno sconnessi da quanto li circonda, ce la dà Argan operando la distinzione tra significato e funzione dell’edificio: “Non ho alcuna difficoltà ad ammettere che l’architetto abbia studiato e progettato insieme la funzione e la forma della stazione; ma io, quella stazione, o la percepisco o la giudico, o la vivo nel suo dinamismo funzionale o la contemplo. La stazione rimane quello che è, è il mio atteggiamento che muta, e l’atteggiamento contemplativo fa parte dell’esistenza ed è modo d’esperienza esattamente come l’atteggiamento attivo. Questo spiega perché un’architettura possa conservare il valore estetico anche quando cessa la sua funzionalità oggettiva: come il Colosseo, appunto, che ha conservato e probabilmente accresciuto il suo valore estetico benché non serva più agli spettacoli del circo/…/Nulla di più errato che identificare, di un edificio inserito nel contesto urbano, funzione e significato. La funzione non dà il significato, ma semplicemente la ragion d’essere. Per esempio: la stazione ferroviaria è, per me, funzionale nel momento in cui vi entro per salire sul treno, ma è là e io non cesso di ‘esperirla’ ogni volta che, senza dover partire o arrivare, passo davanti al grande edificio, o me ne valgo come punto di riferimento per andare in qualche luogo che è al di qua o al di là, vicino o dalla parte opposta della città. È una specie di topos privilegiato, che rimane tale anche se, per avventura, la stazione non è un grande edificio, ma semplicemente un punto di arrivo e di partenza. Non è affatto escluso che, a costituire questo privilegio, concorra il pensiero della continua funzionalità della stazione: di quell’arrivare e partire di gente che costituisce indubbiamente un elemento delle vita della città.”19
La posizione è tipicamente idealista. Se la stazione ‘funziona’ entrandoci dentro, cos’è che ‘funziona’ rimanendo fuori? Soltanto la contemplazione? Come se anche lo spazio antistante la stazione non fosse riferibile a una funzione, a una funzionalità, come se anche le mura del Colosseo non fossero costituite da un particolare modo di trattare aperture e materiali, adatti o meno ad interessare qualcuno che ne costeggi il perimetro; e che magari non ha intenzione di contemplarlo?20 si apre una pur certamente legittima rincorsa al ‘significato’ dell’architettura indipendentemente anzi in modo del tutto autonomo rispetto alla costruzione di uno spazio urbano antistante. Più sconnesso sarà, per dire, un supermercato e più facile sarà identificarne il ‘significato’.21
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Per comprendere cosa significhi far collaborare un edificio alla costruzione della città, basta leggere il saggio su La reggia e la città di Paolo Portoghesi22 come quando riflette sul fatto che “il barocco, almeno a Roma, è essenzialmente arte urbana preoccupata di plasmare gli spazi esterni delle strade come spazi interni della città.”
o dove descrive il Palazzo Ducale di Venezia e il modo di strutturare quella parete.23 Oppure raccogliere (e interpretare) le considerazioni dello stesso Manfredo Tafuri, quando, trattando del teatro, si chiede: “fino a che punto le recenti lotte per il decentramento culturale e una nuova gestione pubblica della cultura stessa saranno capaci di evitare la palude del populismo e incidere in modo muovo sulla struttura profonda dell’istituzione teatrale? E fino a che punto quelle rivendicazioni, in Italia sempre più vive, sono premessa di una concezione diversa dello spazio urbano?”24
Se è vero “che per la ricerca modernista è di fondamentale importanza lo spazio abitabile,”25 non risulta tuttavia corrispondente alla realtà che l’abitabilità dello spazio abbia costituito obiettivo centrale, dal punto di vista pratico, per l’architettura moderna.26 Dichiarazioni a parte, come abbiamo già rilevato nel Progetto della scuola in Italia,27 nella cosiddetta architettura moderna: “i riferimenti funzionali tendono ad essere rapidamente codificati, ed in posizione subalterna rispetto all’esigenza di produrre nuove sollecitazioni spaziali e ambientali”.28
La ricerca funzionale effettiva, in fondo, implica relazioni sociali. Per l’architettura moderna l’obiettivo non può essere che quello espressivo, legato alla sintesi della ‘macchina’, o all’elaborazione di messaggi relativi alla propria ‘identità’, più che alle analisi delle condizioni abitative; alla ricerca di nuove modalità di espressione, che non alla risposta sistematica ad esigenze oggettive che pur fa parte del bagaglio culturale del Movimento Moderno.29 Quindi la funzionalità è sostanzialmente all’insegna della metafora. La “linea analitico-razionale”30 non trova condizioni particolarmente favorevoli per il proprio sviluppo. Nella stessa scelta dell’industria come committente, si risolve la riduzione dell’obiettivo ad oggetti da mettere sul mercato, come espressione simbolica di modernità, e nel metodo dell’analogia la maniera di definirli.31 E questa è un po’ l’eredità che, questa volta nella pratica dell’ideologia dominante, il Moderno ha lasciato alla cultura degli architetti: ai valori della vivibilità viene attribuita un’importanza secondaria. Non è l’architettura che costituisce un ‘relativo’ nei confronti dell’abitabilità, ma il contrario!
“Ma per caso si abita bene in una casa di Mies van der Rohe? Oppure L’urlo di Munch è per caso un quadro rilassante? Ora, l’equivoco nasce sull’architettura, perché in essa vi si abita e quindi c’è il pregiudizio che bisogna abitare in maniera comoda e felice, ma tutta l’arte contemporanea è caricata di forti tensioni e di inquietudine. Ma sulla funzione bisogna pure mettersi d’accordo, perché quello che è funzionale per certi non lo è per altri” (Manfredo Tafuri. Non può esistere un valore collettivamente riconosciuto intorno a cui far ruotare il sistema della cultura, intervista di Giacinto di Pierantonio, “Flash Art” n. 154, 1990, p. 92. Si noti come nella stessa intervista Tafuri fa presente i pregi di un’architettura che individua “un nuovo tessuto urbano” contro “le risposte attuali” che “al contrario cercano di enucleare dei punti quasi rinunciando ad influenzare la scala urbana, accettando lo stato di frantumazione, anzi rifrantumando ancora di più”). “Maldonado cita una frase di Friedrich Dessauer: ‘Il fine dell’edilizia non è la casa, ma l’abitare, così come il fine della produzione di locomotive non è la locomotiva, ma il trasporto’. Considerazioni di quelle che appaiono ovvie, ma di cui in pratica si finisce per tenere poco conto…” (Carlo Meolograni, L’oggetto casa, “Rinascita” 9 settembre 1977).
In sostanza si identifica lo sviluppo della città con il singolo intervento ‘qualificato’ necessariamente incentrato sui ‘pieni’, affidandosi alle capacità di sintesi dell’architetto-artista. A fondamento di questa situazione che perdura fino ai nostri giorni sta la ricerca da parte dell’architettura moderna di un “linguaggio universale, comprensibile ovunque”, una sorta di manifestazione dell’Io che trova un veicolo di diffusione nelle riviste, libri, mostre, dove il critico, che tende ad isolare lo specifico oggettoartistico che sta analizzando, viene ad assumere un’importanza determinante nella valorizzazione della forza dell’immagine che tende ovviamente ad identificarsi con un oggetto.32 E non potrebbe essere altrimenti date le premesse idealistiche: “tutto ciò che è spirituale è superiore ad ogni prodotto naturale”;33 l’uomo trasforma “le cose esterne su cui imprime il sigillo del suo interno e in cui ritrova ora le proprie determinazioni”.34 L’architetto stesso si fa critico al fine della promozione della propria opera. Altrettanto ovviamente, tutt’altra cosa è l’universalità di un contesto determinato, dove a giudicare è l’abitante dello spazio, che tuttavia, al momento, non ha in pratica alcun ruolo in questi confronti a livello soprattutto internazionale sulle dispute sull’arte in quanto tale, dove il ‘locale’ non ha voce in capitolo.35 Ponendosi come arte, non ‘relativa’ ma assoluta, l’architettura si stacca necessariamente da un determinato invaso spaziale ma anche dal rapporto con le modalità con le quali viene solitamente ‘utilizzata’.36 Che pare poi il problema della particolarità sollevato da Lucács. E, prima ancora, dal Dewey: “In primo luogo, vi è l’opposizione della conoscenza empirica a quella razionale più elevata. La prima è congiunta con gli affari giornalieri, serve agli scopi dell’individuo comune che non ha scopi intellettuali specializzati, e porta i suoi bisogni con un certo nesso con l’ambiente immediato. Questa conoscenza è disprezzata, o almeno poco considerata, come puramente utilitaria e priva di significato culturale. La conoscenza razionale dovrebbe essere qualcosa che tocchi la realtà in modo definitivo, intellettuale; qualcosa che dovrebbe essere perseguito per se stesso, non abbassato con l’applicazione alla condotta. Socialmente la distinzione corrisponde a quella fra l’intelligenza usata dalle classi operaie e l’intelligenza usata da una classe istruita lontana
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dagli interessi che concernono i mezzi della vita. Filosoficamente, la differenza diventa distinzione fra particolare e universale. L’esperienza è un aggregato di particolari più o meno isolati, e la conoscenza di ognuno di essi va fatta separatamente. La ragione concerne cose universali, principi generali, leggi, che stanno al di sopra dell’ammasso dei particolari concreti”.37
Concentrandosi sul ‘particolare’ o sul ‘locale’38 possiamo arrivare, in linea teorica, anche all’organizzazione del “paesaggio come un autentico paradiso terrestre” sostenuta da Karel Teige.39
Note: 1 Milano, Edizioni di Comunità, 1956, p. 178. 2 Carl Stumpf, Psicologia e metafisica, Firenze, Ponte alle Grazie, 1992, p. 132. 3 Vedi ad esempio il carattere di ‘allestimenti impermanenti’ rilevato da Furio Colombo per le architetture moderne (Architettura e comunicazione: costruzioni irrepetibili, “L’Architetto” n. 130, ottobre 1998). Architettura come ‘comunicazione inutile’? “C’è un gran rumore per non dire niente. Come fa la televisione. Anche Popper la detestava” (sono considerazioni di Gombrich dal “Sole 24 ore” del dell’1.11.98). Tutto il discorso si può ridurre alle attitudini comunicative? Quello dell’architettura “Uno tra i mille modi di comunicare” (dal Viaggio nel mondo degli animali n.29). Comunicare che in uno spazio si possono compiere determinate azioni. Mentre, per dire, per Frank O. Gehry si nota come per lui non vi sia “collegamento tra forme e funzioni dell’architettura” (Sebastiano Brandolini, “La Repubblica delle Donne” 12.10.98), la ‘ragione’ tende oggettivamente ad attaccare posizioni di questo tipo. Furio Colombo deputato DS coordina “Le città: spazi per partecipare” al 2° Forum internazionale Verso città amiche delle bambine e dei bambini a Torino 15-17 ottobre 98. Resta il fatto che nelle sperimentazioni dell’arte contemporanea si è provato veramente di tutto e, a seconda delle prospettive prescelte, paiono ancora validi aspetti del Moderno e addirittura “A questo punto tornano i conti persino con la caotica rivisitazione del passato che opera il post-modernismo” (Maurizio Calvesi su “Rinascita” del 13 marzo 1981), specie nel desiderio di riorganizzare completamente il discorso “Però la rimessa in causa di tutti i linguaggi può avvenire in due maniere: o in modo critico, responsabile, problematico; o in modo caotico, acritico, carnevalesco, come è il caso di certa produzione pittorica ma anche architettonica. Questo secondo modo, evidentemente, non promette nulla di buono.” 4 L’estetica dell’empirismo inglese, a cura di Mario M. Rossi, Firenze Sansoni 1944, t.II, p.531. 5 Anche altri corsi pare si interessino dello steso tema. Cfr. Celestino Porrino che si riferisce ai “vuoti ed il loro uso sociale”, “Archi e Colonne” A:I, n.5-6 settembre-dicembre 1985, p. 11. O Franco Mancuso, quando, dopo aver preso atto che oggi la norma “non consentirebbe mai la manifestazione di un organismo urbano con la vitalità urbana di un campo di Venezia, di una piazza di Siena, di una strada di Firenze” rivendica l’importanza del disegno urbano “quando per affrontare i problemi di una città, o di una sua parte, occorre partire dalla definizione degli spazi, piuttosto che da quella dei manufatti” (L’architettura tra piano e progetto, “Architetti Veneto” n. 1 luglio 1990, p.16). Ma non risulta possibile la compresenza di due intenzioni diverse e magari opposte: una ordinatrice dei vuoti per l’urbanistica e l’altra , l’architettura, che magari li distrugge. 6 Nonostante la critica al Bauhaus (che segue) è proprio a Gropius che dobbiamo la rivalutazione del cittadino inteso come pedone: “il pedone è stato respinto contro il muro nel processo di costruzione della grande rete del traffico automobilistico che ha fatto espandere tanto esplosivamente la nostra comunità. Io sono convinto che è altrettanto se non più necessario creare ora, in aggiunta a quelle per il traffico automobilistico, reti indipendenti di traffico
pedonale, separate e protette contro le automobili. Questo tracciato stradale pedonale, sovrapposto a quello automobilistico, comincerebbe e finirebbe non su un’autostrada, ma in una bella piazza, vietata alle automobili, vero cuore e centro dell’unità urbanistica, che dovrebbe servire come centro locale per il pubblico scambio di opinioni e la partecipazione agli affari comunitari.” (Architettura integrata, Milano Il Saggiatore 1963, p.206). 7 Marco De Michelis, Agnes Kohlmeyer, Bauhaus, “Dossier” all. ad “Art e Dossier” n. 119, Firenze 1997. Non a caso, sulla pagina opposta del brano di Sert è riprodotta una foto di piazza San Marco a Venezia. 8 “La forme devenait morale lorsqu’éteait mise à nu la fonction” (Erich Michaud, La vie moderne, Bauhaus et ‘modenisme’, “Les Cahiers du Musé National d’Art Moderne”, n. 19,20, Juin 1987, p.132). Nel marzo 1987 “Domus” n. 681 ripubblica Struttura e architettura di Giuseppe Pagano, dove la posizione moralista/essenzialista emerge con particolare chiarezza: “per effetto di coloro che hanno sentito il problema morale dell’architettura moderna in tutta la sua vastità, si affronta la questione nella sua essenza, fino a cercare di ogni cosa la fisionomia finale, la forma-tipo, la sintesi volumetrica assoluta, anonima, prima.” (p.19,20). Anche Pagano vede l’origine di questa “Arte moderna primitiva” nei maestri nord-europei. In particolare in Henry van de Velde. Che in effetti afferma “che il nostro cervello è rimasto più sano dei nostri occhi” (Per un nuovo stile, Il Saggiatore 1966, p. 124), instaurando così una sorta di egemonia dell’‘intelligenza’ (e dell’‘ingegneria’). Invece dell’oggettività si mira all’oggetto, invece di applicare principi di questo genere all’analisi oggettiva dei fatti, si trasferisce questa “logica” nella definizione dell’edificio. Se la situazione non potrà divenire “morale” sarà l’edificio al quale si cercherà di attribuire contenuti del genere. L’errore teorico è manifesto: in certo qual modo anche Lucács pone in evidenza i limiti della matrice ‘interna’ della forma del Bauhaus quando osserva (Estetica, vol.II, Torino Einaudi 1970, p.1199): “Molte teorie moderne (per esempio del Bauhaus) commettono un errore teorico e pratico funesto per lo sviluppo dell’architettura proprio perché nella realizzazione oggettivo-tecnologica di una costruzione, quando essa è riuscita come tale, vedono un fatto ovviamente estetico.” Eppoi, di fatto, introduce il paragone con la cupola del Brunelleschi e l’esigenza di presentare “tratti qualitativamente nuovi”. Il concetto di standard in quanto tale presenta peraltro possibilità di interpretazioni senz’altro positive, poiché risponde ad esigenze oggettive. Le Corbusier “In difesa dello standard scriveva in Vers une architecture: ‘Tutti gli uomini hanno un medesimo organismo, medesime funzioni. Tutti gli uomini hanno medesimi bisogni’.” cita Renato De Fusco (Il progetto di architettura, cit. p. 58). È quando lo standard diventa edificio e forma precostituita e non garanzia di un certo livello qualitativo nella definizione delle forme che le verifiche complessive lasciano a desiderare. “Che la costruzione organica/…/della città si imponga all’elemento standard per rinnovarlo e non che l’elemento standard condizioni la costruzione”, scrive Enzo Paci su la “Rivista di estetica” n. 1, gennaio-aprile 1956, p. 61. 9 Nelle situazioni e nei margini in cui gli individui
vengono lasciati liberi di organizzarsi vengono fuori spesso risultati di particolare interesse. Vedi ad esempio: Handmade Houses, A Guide to the Woodbutcher’s Art, Idea Books International, London 1975. La pubblicazione inizia con queste parole di Sim Van der Ryn: “For some years we have heard the extravagant technological promise of housing at low cost. It has never come to pass. The answer to low cost housing, it seems to me, is to make a break with a ‘standard of living’ that makes us slaves to centralised decision-making and control, to an economy whose values are the magnitude of production and consumption. The dollar is not a reasonable measure of the quality of life or the quality of place.” In pratica, pare svilupparsi un “naturalismo” di segno opposto a quello caratterizzante la Bauhaus dove “il naturalismo formale si dissolve nel cosiddetto Astrattismo. Questo, come è noto, si fonda sul principio dell’indipendenza della forma artistica da ogni determinante empirica” con la relativa “impossibilità di una fabula de lineis et coloribus” scrive Argan (Walter Gropius e la Bauhaus, Torino Einaudi 1051, p. 25. 26). Proprio perché il prodotto si pone come opera d’arte: “l’opera d’arte, come qualsiasi cosa della realtà, è constatabile ma ingiudicabile.” (ivi, p. 26). 10 Robert Delaunay, rip. In Robert Delaunay, Du cubisme a l’art abstrait, a cura di Pierre Francastel, Paris S.E.V.P.E.N., 1957p. 150. Un ‘descrittivo’ che in architettura ostacola o impedisce la partecipazione alla scena urbana. 11 Citato da Stefano Ray, L’architettura moderna nei Paesi Scandinavi, Bologna Cappelli 1965, p. 20. 12 “L’attività progettante per eccellenza è la filosofia” “Si possono avere due concezioni dell’architettura, a seconda che essa venga o no messa in rapporto con la ideologia. Nel primo caso l’architettura è puramente un’arte per l’arte, cioè un esercizio creativo di forme, il cui substrato ideologico è un fatto preliminare personale, dell’artista; si fonde, cioè con la ‘poetica’ ispiratrice. Oppure si ritiene – e questo è il richiamo all’ordine fondamentale del pensiero razionalista – che l’architetto, con le sue nuove forme, voglia contribuire a quello che genericamente si definisce come ‘progresso sociale’; e quindi l’ideologia non è più un fatto preliminare, personale della creazione artistica, bensì qualcosa che illumina tutto il processo creativo.” (Giovanni Klaus Koenig, Metodi e limiti del progettare, “Quaderni dell’Istituto di Elementi di Architettura e Rilievo dei monumenti”, n. 6/7 Firenze LEF 1964, p. 83,84). Koenig pone il problema del rapporto tra progettazione e filosofia, la filosofia come una sorta di ‘scienza della progettazione’ “l’attitudine costruttiva e la capacità di dedurre da principî arbitrariamente posti il piano dell’universo” scrive Zino Zini prefazione ad Alessandro Mazoni, Del sistema che fonda la morale sull’utilità, Torino Paravia 1931, p. 84. Quindi, per usare le parole di Koenig, un tipo di architettura che trova nell’ideologia il fondamento della sua strategia, dandosi cioè degli obiettivi in contrapposizione al principio dell’arte per l’arte, di una sorta di oggetto che si esaurisce in se stesso, non individuando altre motivazioni al proprio esterno (aspetto, come si vedrà, da recuperare anche in una prospettiva ‘ideologica’). 13 Citato da Stefano Ray, L’architettura moderna nei Paesi Scandinavi, cit., p.82.
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14 Architettura del vetro, ora in Ulrich Conrads, Manifesti e programmi per l’architettura del XX secolo, Firenze Vallecchi Centro Di 1970, p.27. 15 Adolf Behne, L’architettura funzionale, Firenze Vallecchi 1968, p.15. 16 Gombrich ci ricorda che Cicerone nel De oratore evidenzia le strette connessioni tra utilitas e venustas. Van de Velde cita Socrate: “Un oggetto è bello solo quando è stato creato/…/in modo che corrisponda allo scopo cui deve servire”. 17 Mentre invece Le Corbusier: “La facciata, non più vincolata a una funzione portante, può essere considerata una semplice membrana che isola l’interno dall’esterno.” Maniera di pensare l’urbanistica, Bari, Laterza 1965, p.23. 18 Riportata da Giulia Veronesi (Profili, disegni, architetti, strutture, esposizioni, Firenze Vallecchi 1969, p. 82). La considerazione è relativa a Ledoux, ma si ritiene di poterla estendere anche all’architettura razionale. 19 Giulio Carlo Argan, Lo spazio visivo della città. In AAVV: Il fenomeno ‘città’ nella vita e nella cultura d’oggi, a cura di Piero Nardi, “Quaderni di San Giorgio” Firenze Sansoni 1971, pp. 165-167. 20 Nel caso del teatro Carlo Felice di Genova, Argan osserverà che era meglio partire dalla verifica della piazza: Bisognava prima ripensare la piazza, “Rinascita” n.32, 11 agosto 1984. Con relativa replica di Aldo Rossi (“Rinascita” n.33 25 agosto 1984) dove sostiene che fra tante torri a Genova ci può stare anche quella del teatro. Lui è per un progetto che “non diventi arredo urbano”. Coglie anche l’occasione per esprimere il proprio compiacimento per la realizzazione della Torre Velasca a Milano “bella da essere riprodotta sulle cartoline più diffuse”. 21 Nella stessa raccolta di saggi della rivista all’insegna del “Fenomeno ‘città’”, Giuseppe Samonà (p.150), a proposito del rapporto tra centri storici e architettura: “anche coloro che in omaggio all’idea di continuità del processo storico, teorizzano la possibilità di sostituire gli edifici fatiscenti, e in contrasto alla matrice antica, con volumi pari a quelli dell’edilizia di questa matrice, quando poi si vedono davanti, finito, uno degli edifici di sostituzione, lo trovano sempre brutto e incongruo, con mille difetti che cercano sempre di portare a giustificazione del loro rifiuto che contrasterebbe con l’idea metodologica dell’inserimento omogeneo. Lo stesso potrebbe ripetersi per coloro che predicano l’assoluta mancanza di problemi del genere, in quanto teorizzano la necessità dell’accostamento sic et simpliciter di opere modernissime alle antiche, accostamento che poi trovano perfido, quando lo vedono realizzato: Zevi, per esempio.” 22 Paolo Portoghesi, La reggia e la città, in Le corti italiane, Milano, Touring Club 1977, p. 33. 23 Paolo Portoghesi, La reggia e la città, cit. Da un lato il loggiato che si apre sulla città, ma che non pone in crisi il principio di realizzazione dell’edificio come ‘parete’, parete colorata: “la scarsità delle ombre portate non è d’altra parte che la spia di una volontà precisa e coerente che tende a rispecchiare, nel microcosmo dell’opera, il macrocosmo della città: la esaltazione del colore come elemento fondamentale della visione, la subordinazione dei contorni (degli ‘orli’ secondo la definizione albertiana) alla vibrazione cromatica delle superfici.” p. 27. 24 Manfredo Tafuri, Il luogo teatrale dall’umanesimo a oggi, Teatri e scenografie, T. C. I., Milano 1976, p.39. 25 Paola di Biagi, Lo spazio abitabile nei Congressi internazionali di architettura moderna (dal Supplemento a “Urbanistica” n. 106). Ignasi de Solà-Morales (Architettura e esistenzialismo: una crisi dell’architettura moderna, “Casabella” n. 583, ottobre 1991), a proposito del CIAM del 1954: “Abitare è il paradigma della vita urbana e il sistema che si articola nella casa, nella strada, nel quartiere e nella città, è una concettualizzazione della forma urbana che, abbandonando la divisione in quattro della città [abitazione, svago, lavoro e trasporto] concepita nella Carta di Atene, pone l’individuo al centro dell’organizzazione dello spazio abitabile”. Pare un po’ singolare vedere questi aspetti come ‘crisi dell’architettura moderna’. Semmai, a prescindere
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dalla loro attuabilità, come sviluppi naturali della razionalità e delle analisi sui problemi della progettazione dell’architettura. 26 Anche Giulio Carlo Argan (DEAU “Architettura”) sostiene che “l’abitabilità/…/costituisce la finalità prima dell’intenzionalità dell’architetto” e che “comprende almeno due momenti di esperienza: quello dell’esterno e quello dell’interno” e che “l’a. raggiunge il fruitore senza interrompere il flusso dei suoi interessi e dei suoi atti” , ma poi, seguendo il Koenig, sostiene che le tipologie “non debbono considerarsi come prescrizioni a priori, ma come deduzione di certe costanti distributive e strutturali dalla serie storica delle opere fatte per adempiere a una determinata funzione”, come se il rapporto con il concetto dell’abitabilità potesse esimersi dal trasferirsi immediatamente e prioritariamente nei tipi che accolgono detta abitabilità. E, in quanto agli “schemi di abitabilità o fruibilità funzionali”, le tipologie non sono schemi, ma assetti strutturati fino nei dettagli. Il fatto è che per a. si intende una sorta di sintesi artistica in rapporto a un contenuto più o meno riconducibile a un concetto, più che ricerca della strutturazione di un tipo: la componente espressiva è vista di fatto come determinante, e quella abitativa in subordine. Il Battaglia ad es. definisce l’architettura “la costruzione eseguita con intento artistico” e non, per dire, l’utilizzazione dell’arte per realizzare una determinata abitabilità in rapporto alle funzioni. Per contro, il concetto lecorbuseriano di machine à habiter, se non subordinato a un’immagine, ma trasferito all’interno e all’esterno dell’architettura, pare funzionale in relazione alla definizione di un assetto idoneo. 27 Il progetto della scuola in Italia dall’unità al fascismo, Firenze, Cesis 1984, IV, p. 40. 28 Erich Steingräber (Cosa è l’arte, Oggi?, fascicolo n.25 dell’Enciclopedia universale dell’arte, La Repubblica-Leonardo), nota come l’arte, oggi (ancora oggi) abbia successo indipendentemente dalla comprensione da parte della popolazione. 29 Cfr. ad es. il concetto di vivibilità su cui insiste Richard Neutra. La stessa ricerca funzionale di Josef Hoffmann dela palazzo Stoclet (1905-14) di Bruxelles, all’insegna della ‘Gesamtkunstwerk’, della collaborazione fra tutte le arti (cfr. di Georges Marlier, La première maison totalement nouvelle du XXe siècle, “Connaissance des arts” n.140, Octobre 1963), pone in chiara evidenza questa strategia. L’accusa di ‘ambiguità’ che viene mossa a Hoffmann da Andrea Silipo (DEAU) “l’uso della linea come mezzo per ridurre lo spazio ad un ente conoscibile solo attraverso setti bidimensionali”, può forse costituirsi come chiave di lettura per la rottura della monoliticità dell’oggetto. Di particolare interesse, la progettazione totale, anche nel senso dell’integrazione nel progetto dei più minuti dettagli dell’arredamento. “Cultura da cui nacque la Bauhaus”, dove tuttavia le singole componenti (perdendo una committenza specifica tipo Stoclet che le rilega ad un determinato ‘spazio’) subiscono un processo di disaggregazione, e rendendosi reciprocamente autonome, ‘sacralizzano’ le relative componenti. 30 “Penso si possa dire che il modernismo contempla una linea analitico-razionale e una di avventura irrazionale” (Carmelo Strano, What was postmodernism?, “l’Arca” n. 5, aprile 1987, p. 107). 31 “L’analogia /…/è simiglianza, diretta simiglianza tra oggetti qualsiasi, isolati e tenuti immobili” (Ferruccio Rossi-Landi, Metodica filosofica e scienza dei segni, Milano Bompiani 1985, p. 51). 32 Ad esempio, a proposito di Frank O. Gehry, Sebastiano Brandolini, “La Repubblica delle Donne” cit., scrive di “una felice coincidenza tra il suo stile e le idee dei critici di architettura”. 33 Hegel, Estetica, Torino Einaudi 1963, p.38. 34 Hegel, Estetica, cit., p.39. Imprimendo l’uomo il sigillo del proprio interno, l’oggetto tende alla comunicazione universale e alla dialettica con il contesto come dalla riflessione di Goethe che riportiamo di seguito. Mentre - seguendo le considerazioni di Theodor Adorno (Teoria estetica. Torino Einaudi 1977, p.528) - l’arte che si aggiudica “l’alieno” diventa antagonista della realtà (Cfr. di Quirino Princi-
pe L’armonia? È antagonista della realtà -“Il Sole 24 ore” 11.10.98- secondo Adorno “la funzione dell’arte è dialettica, nel senso che l’arte (e la musica in particolare) è un’antagonista della realtà, non un suo arricchimento. Perciò la felicità concessa dall’arte è un istante privo di estensione nel tempo e di possibilità di dilatazione; è rivelatrice, non appagante, e non appaga proprio perché rivela”. 35 E spesso anche la vita nei confronti della “superstiziosa riverenza al passato” (Marx, citato da Karel Teige, Il mercato dell’arte. L’arte tra capitalismo e rivoluzione, Torino Einaudi 1973, p. 130). Ovvia esigenza di valutare le ipotesi d’intervento in funzione dei costi/benefici in modo attendibile e non improvvisato anche in rapporto alle preesistenze, tenendo conto che “né, soprattutto, sono immortali quelle opere create con l’aspirazione alla vita eterna.” Le opere con un carattere di convincimento sono quelle che hanno ‘risolto’ e che continuano a risolvere determinate situazioni con una ‘oggettività’ che non può essere conquistata che mediante confronti serrati tra aspetti diversi e anche con l’individuazione di adeguati livelli decisionali. 36 Pare problema di tutta l’arte moderna che tende, possiamo dire, istituzionalmente, a imporsi all’attenzione diretta del pubblico che deve essere ‘educato’ a comprenderla: “L’artista moderno non vuole intermediari. Vuole rivolgersi al pubblico direttamente, per mezzo della sua opera. Se il pubblico non lo capisce spetta a lui fornire le sue spiegazioni. La ragione principale per cui il pubblico si trova in posizione sbagliata, quando si tratta della nuova arte, è l’incapacità della critica profana, che oscura, con mistificanti rivelazioni sull’arte visiva, la visione e l’esperienza senza preconcetti delle opera d’arte. C’è un solo modo per ritornare a un vedere senza preconcetti, distrutto dall’ignoranza e dalla compiacenza della critica d’arte tradizionale: si devono stabilire principi elementari e universalmente intelligibili dell’arte visiva, che è quel che si tenta qui” (Theo van Doesburg ora in Scritti di arte e di architettura, a cura di Sergio Polano, Officina Edizioni 1979, p. 311. 312). Mentre van Doesburg pone il problema di una lettura ‘totalitaria’ (lo spettatore deve ‘ricrerae’ l’opera, in certo qual modo ‘entrarci dentro’. “Può accadere, per esempio, che qualcuno alla vista di un’opera d’arte esatta, si senta piacevolmente commosso, in modo sensoriale (sul piano del gusto) per gli effetti di colore. È chiaro che tale reazione non ha niente a che vedere con un rapporto artistico con l’opera d’arte” - p. 335) isola l’opera in se stessa e indica tuttavia anche gli strumenti per una definizione complessiva dell’opera d’arte, estendibile anche alle caratteristiche di un’ambiente: “Nell’arte classica il fine artistico è, in maggiore o minor misura, velato da mezzi secondari. Nell’arte moderna il fine artistico si manifesta con sempre maggior chiarezza, con esattezza sempre maggiore/…/una percezione che rende lo spettatore consapevole di un’armonia, nella quale l’azione di dominanti diverse trova il suo equilibrio/ …/. L’esperienza artistica autentica non può essere passiva, perché lo spettatore è costretto a sperimentare insieme all’artista la variazione continua e ripetuta, la compensazione di posizione e di dimensione, di linee e di piani. Arriverà a comprendere quali rapporti armonici nascono infine da questo gioco di variazioni ricorrenti e di compensazioni di un elemento con un altro. Ogni elemento si organizza con gli altri. L’unità ‘formativa’ del tutto scaturisce da ciascun elemento (ma le singole parti non si staccano e non predominano sul tutto). Si raggiunge così un equilibrio perfetto di rapporti artistici. Non c’è nulla che distolga lo spettatore; egli è libero di parteciparvi” (ivi, p.336-337). 37 Democrazia e educazione cit. p.446. La prima edizione di New York è del 1917. 38 “Il pensiero locale ci invita dunque a una rivoluzione copernicana” scrive Michel Maffesoli, Nel vuoto delle apparenze, Milano Garzanti 1993, p.94. 39 Tratto da uno scritto di prima della guerra, da un brano riportato nell’Introduzione a Il mercato dell’arte. L’arte tra capitalismo e rivoluzione, cit. p. XX.