Firenze Architettura 2002-1&2

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architettura FIRENZE

1&2.2002

Periodico semestrale Anno VI n.1&2 Euro 10

nuove topografie


In copertina Arata Isozaki La nuova uscita degli Uffizi

Periodico semestrale* del Dipartimento di Progettazione dell’Architettura viale Gramsci, 42 Firenze tel. 055/20007222 fax. 055/20007236 Anno VI n. 1&2 Autorizzazione del Tribunale di Firenze n. 4725 del 25.09.1997 Prezzo di un numero Euro 7 numero doppio Euro 10 Direttore - Marco Bini Coordinamento comitato scientifico e redazione - Maria Grazia Eccheli Comitato scientifico - Maria Teresa Bartoli, Roberto Berardi, Giancarlo Cataldi, Loris Macci, Adolfo Natalini, Paolo Zermani Capo redattore - Fabrizio Rossi Prodi, Redazione - Fabrizio Arrigoni, Fabio Capanni, Fabio Fabbrizzi, Giorgio Verdiani, Andrea Volpe, Claudio Zanirato Info-grafica e Dtp - Massimo Battista Segretaria di redazione e amministrazione - Gioi Gonnella tel. 055/20007222 E-mail: progeditor@prog.arch.unifi.it. Proprietà Università degli Studi di Firenze Progetto Grafico e Realizzazione - Centro di Editoria Dipartimento di Progettazione dell’Architettura Fotolito Saffe, Calenzano (FI) Finito di stampare novembre 2002 da Arti Grafiche Giorgi & Gambi, viale Corsica, 41r Firenze *consultabile su Internet http://www.unifi.it/unifi/progarch/fa/fa-home.htm


architettura FIRENZE

1&2.2002

editoriale

Maria Grazia Eccheli

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progetti e architetture

Piero Paoli Galcetello Centro Commerciale e Servizi Comunali Antonella Cortesi

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Paolo Zermani Biblioteca Cesare Pavese a Parma Riccardo Butini

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Arcoprogetti e Bernard Huet La riconquista delle rive del Rodano: un progetto per Valence Benedetto Di Cristina

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Loris Macci, Francesco Gurrieri, Alessandro Gioli Bellaria - Igea Marina: tra il fiume ed il mare Fabio Fabbrizzi

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Flaviano Maria Lorusso, Franca Perra, Pier Paolo Perra Talamona, nuove piazze e campus scolastico Flaviano Maria Lorusso

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Giacomo Pirazzoli Sarajevo Zone C1-C2 Marijin dvor

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Fabrizio Arrigoni, Marco Arrigoni Segni nel Paesaggio Fabrizio Arrigoni

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Fabio Capanni Centro Servizi Grotte di Frasassi Fabio Capanni

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Paolo Portoghesi

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Luis Moreno Mansilla, Emilio Tuñón Alvarez Ponte fatto di fiori Francesco Collotti

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Geografie, topografie, suolo e realtà Vittorio Pannocchia

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Topografie fiorentine Grazia Gobbi Sica

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eredità del passato

La costruzione del paesaggio, Giuseppe Poggi a Firenze Elisabetta Maria Agostini

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riflessi

Firenze: ricostruire le identità Intervista a Gianni Biagi assessore all’urbanistica del Comune di Firenze A cura di Fabrizio Rossi Prodi

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Venezia: “dimenticare Thomas Mann”? Roberto D’Agostino

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Halle: “costruire la demolizione” - Le nuove questioni delle città tedesche Elizabeth Merk

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Roaddtown Richard Ingersoll

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eventi

Viaggio nell’architettura del Novecento: la Toscana Ezio Godoli

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letture

a cura di Francesco Collotti, Claudio Zanirato, Andrea Ricci

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nuove topografie


Nuove topografie Maria Grazia Eccheli

Negli anni ottanta, J. Paul Kleihues, a partire dai limiti e dalle contraddizioni della ricostruzione della città europea, fissava i temi per la città di Berlino nella famosa endiadi programmatica “il centro città come residenza” e “la ricostruzione della città distrutta”. Un’endiadi che, incuneandosi come nuovo criterio all’interno delle stessi leggi economiche di costruzione della città, assumeva finalmente la forma della città intera come orizzonte logico di ogni problema. La città tornava ad essere l’oggetto di una architettura senza possibili alibi verso i suoi compiti più generali e profondi: declinare nel corso del tempo “l’idea spirituale e culturale di una fondazione urbana”. Le immense rovine di Berlino all’indomani del conflitto - un surreale paesaggio divenuto una sorta di terribile monito prima civile che “disciplinare” - esigevano una risposta che superasse la manesca prassi successivamente invalsa di “... radicali demolizioni di una sostanza edilizia in rovina, ma ancor ricostruibile, e persino sana”. Tale obiettivo etico costituiva espressamente la motivazione profonda della proposta di Kleihues. Il concetto di “ricostruzione critica” di Kleihues si fondava sulla speranza - di certo programmatica ma basata su innumerevoli esempi della storia - che le città, ancorché ridotte a diruta cadavera, possiedano una intrinseca capacità di rigenerazione, anche attraverso una dolorosa anamnesi della propria tradizione costruttiva. La rovina, superando la sua accezione romantica, e in una paradossale sua visione rivolta al futuro, riacquistava la virtualità di vero e proprio strumento di progettazione.

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Ma la rovina più grande era il piano barocco della Friedrichstadt: per questo Berlino divenne il campo privilegiato di architetti che della città avevano indagato il carattere di stratificazione, fisica e culturale ad un tempo, e sapevano intravedere, nella variegata geologia architettonica della sua formazione, la possibilità del suo stesso futuro. Esemplare in tal senso è il rapporto di Aldo Rossi con Berlino: la sua “oscura innocenza” sembra a proprio agio in un luogo in cui la memoria sembra prima una colpa che una virtù. I suoi progetti berlinesi sanno esorcizzare anche il pericolo più grave della memoria stessa, la sua risoluzione in pura nostalgia. E anche laddove, come nel progetto dell’Isolato in Schützenstrasse, le stesse divisioni catastali - per il loro significato nella storia berlinese: “... (a Berlino) i confini degli isolati e le linee delle strade sembrano più importanti dell’architettura” - divengono quasi un obiettivo espressivo, è piuttosto una sorta di eterno presente a trascendere il loro carattere fossile di fatto inspiegabile e di cui rimangono sconosciute le ragioni.... S’è ricordato il caso berlinese soprattutto per il suo valore metodologico: aver riproposto, con singolare determinazione e acribia attuativa, la necessità e la problematicità del rapporto piano-architettura. In realtà le forme d’attuazione di tale programma imporrebbero inevitabili “distinguo” e prese di distanza... Ma forse sarebbe una pura accademia visto che, contemporaneamente al “caso Berlinese”, i piani delle nostre città venivano redatti in un disperato tentativo di dare “norma” a delle pure quantità, in una perenne astrazione dal-

le forme che avrebbero dovuto inverarle, e considerando il paesaggio - nelle cui forme Hegel riconosceva l’intenzionalità di “una costruzione architettonica della terra” - solo come mero supporto alle inevitabili “espansioni” che ne violentavano la segreta struttura. Necessariamente simmetrico il destino dei centri storici, rigorosamente ed impietosamente perimetrati da linee ancor prima ideologiche che amministrative. In una approssimativa conoscenza della loro realtà fisica e delle norme e leggi della loro struttura, quelle perimetrazioni segregavano di fatto i centri storici dalla storia reale della città e da ogni suo divenire, fermandoli, con norme tanto arbitrarie quanto gratuite, ad un momento del loro sviluppo e defraudandoli in tal modo di ogni possibilità di testimonianza della vita - e delle contraddizioni - della città, in nome di una cultura ormai incapace di essere all’altezza della propria tradizione. E così viene negata all’architettura ogni possibilità di relazione con la sua stessa storia e, quindi, con la sua essenza. Da sempre l’architettura è stata ammirazione e sfida alla propria tradizione: con che mai, oggi, dovrebbe misurarsi? Il “caso” in cui si è trasformato il progetto di Isozaki per gli Uffizi costituisce una testimonianza della crisi dell’architettura attuale, anche per quanto riguarda la difficoltà della sua recezione, solamente ampliata - se possibile - dalla stessa specificità della “città italiana”. Piuttosto che con la Fabbrica-simbolo voluta da Cosimo e realizzata dal Vasari, la volontà del progetto di Isozaki è di rapportarsi alle contraddizioni di Piazza Castellani e con il retro degli Uffizi,


attenendosi strettamente al programma funzionale ed evitando di dar forma a sia pur “raffinate soluzioni di arredo”. La Loggia a struttura metallica, che demanda al rivestimento in pietra serena - sorta di sineddoche espressiva - il compito di evocare un intero mondo culturale, prende proporzioni e misure dalla non lontana Loggia dei Lanzi per raccogliere, sotto la sua altezza, ogni frantumazione e discontinuità presenti nel luogo. Anche le grandi statue, ricomposte sotto l’enorme copertura, vorrebbero continuare funzioni e forma dell’archetipo. Il carattere sintetico della proposta, forse quasi un gesto non ulteriormente descrivibile oltre le sue motivazioni, non è certo rapportabile con il carattere narrativo della proposta per lo stesso luogo di un Giovanni Michelucci. Ma ciò che li accomuna è forse il riconoscimento che il retro della fabbrica vasariana, un luogo attualmente sospeso e senza forma, esige una soluzione del problema che trascenda il luogo stesso e si misuri con la città intera. Ma è ancora possibile parlare di caratteri individuali per città ormai omologate e rese indistinguibili dalle atopiche quantità che le circondano? Forse l’occasione per ripensare il senso ed il volto individuale delle città è costituito dal fenomeno delle cosiddette “aree dimesse”. “Contrazioni, aree industriali obsolete, ghetti”, si tratta di luoghi generalmente interni alla compagine urbana e nei quali la città sembra “implodere” su se stessa. Già paragonata all’esperienza storica dell’espropriazione dei beni ecclesiastici, la generalità del fenomeno ripropone al

progetto un analogo senso di un ripensamento, se non di una rifondazione in stretta aderenza alla sua storia, della struttura della città. Ma è un senso quasi sempre disatteso da progetti meramente sostitutivi dell’esistente, quasi una parodia della città ottocentesca sotto immancabili aggiornamenti stilistici - l’omologazione tipologica e la sua rappresentazione su strada come unico strumento -, piuttosto che vere alternative formali. Scontato il compito di risarcimento e di aggiornamento tecnico, ci si chiede se tali aree non costituiscano in realtà un’occasione per riscoprire un’idea di città svincolata dalla drammatica visione dello zeitgest esigente e coercitivo che le ha prodotte e che, a partire dalla caduta del loro carattere di necessità e della loro raison d’etre, non possa contemplare anche un’ipotesi di una loro restituzione a natura. Perché una ri-fondazione non significa immediatamente una ri-costruzione. A ben vedere si tratta di un’occasione per superare gli stessi canonici caratteri della città ottocentesca e per istituire una nuova gerarchia tra abitazioni ed edifici pubblici, quasi a risarcimento delle incredibili omissioni perpetrate. A tali “vuoti” improvvisi, posti nel continuum della compagine urbana, sarebbe affidato il compito di istituire nessi e gerarchie presenti nel paesaggio attualmente sommerso dall’espansione, contribuendo così a ricostruire quei “criteri di intelligibilità” del processo di costruzione della città nei quali un Oud ravvisava il principio della bellezza di una città. I sobborghi storici, le ville suburbane, le certose, le tracce dei percorsi e delle

forme di divisione dei campi - veri e propri elementi di composizione della città oltre che elementi genetici della sua forma: termini fissi, generalizzando un famoso titolo di Halbwachs, di una “topografia leggendaria” della città avrebbero la capacità di imporre principi di individualità nella pura e astratta quantità edificata, contribuendo nello stesso tempo a chiarire e ad approfondire i nessi con la città antica. E così l’approfondimento del valore degli spazi liberi nella città, irriducibile all’astratta nozione di standard, imporrebbe all’architettura il compito di indagare gli invisibili confini che storia e destino hanno immesso nell’individuale struttura formale della città. Al progetto attuale compete il compito, ormai ineludibile, di formulare, pur nella episodicità delle occasioni, una esplicita tensione verso un’idea di città come proprio orizzonte di senso, in un radicale ripensamento dei “mutevoli” e contingenti miti di cui la città reale costituisce lo sconnesso emblema costruito. Una tensione così singolarmente assente nei progetti il cui obiettivo sembra risolversi nella, ormai disperante, mera riconoscibilità (o autorefenzialità) di linguaggio.

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Piero Paoli

Galcetello Centro Commerciale e Servizi Comunali Antonella Cortesi

Progetto: Piero Paoli 1995 con Bianca Ballestrero Alessandro Bertini Giancarlo Galassi Strutture: Fabrizio Zito

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Scriveva l’abate Laugier nel 1755 nell’“Essai sur l’Architecture” che la città è paragonabile ad una foresta, nella quale l’unitarietà dell’insieme si coniuga con la singolarità e l’individualità di ciascun albero e arbusto. Non parlava della funzionalità dei singoli alberi e arbusti, ma della loro identità. Forse questo costituisce ancora oggi motivo di riflessione quando parliamo di architettura e non di meri oggetti edilizi destinati ad una funzione predeterminata. La nostra cultura, o meglio gran parte della cultura odierna - non solo architettonica - è così povera di punti di riferimento, di convinzioni radicate, diciamo pure di “credo” e di principi (non dogmi), da continuare a rifugiarsi nella consolatoria etichettatura delle cose, che pare risolvere ogni dubbio. Questo è retaggio delle affrettate e spesso superficiali interpretazioni del Movimento Moderno, che ne hanno preso in considerazione i “prodotti” architettonici, piuttosto che i “processi” mentali ad essi sottesi, riproponendo tipi edilizi in quanto tali, presto divenuti stereotipi poveri - se non privi - di contenuti. E sul “prodotto” in quanto tale si sono confrontati e si confrontano numerose tendenze architettoniche degli ultimi decenni, nelle quali spesso gli “ismi” hanno prevalso sulla ricerca dei significati. Non è un caso che, nell’ambito di un insegnamento di Progettazione Architettonica, molti allievi interpretino il concetto di “abitare” con “casa”, così come quello di “educazione” con “edificio scolastico”, così come l’idea di uno scambio commerciale rimanda spesso al “centro commerciale”, stereotipo mutuato da tanti esempi che la cultura europea, prima ed oltre a quella italiana, ci ha proposto nel XX secolo.

Ci piacerebbe e ci piace, ogni tanto, vedere uno spazio urbano e architettonico non etichettabile, così come non erano le piazze dell’antichità, del Medioevo, del Rinascimento... se proprio vogliamo essere banali. Dietro un “significante” sussiste e deve sussistere sempre il “significato”, che non necessariamente è di ordine funzionale; né ci piace una realizzazione di carattere autoreferenziale. La complessità è proprietà e carattere imprescindibile dell’architettura, che comunque non può non rispondere alla complessità dell’uomo. A proposito del Centro Commerciale di Galcetello (progettato dagli architetti Bianca Ballestrero, Alessandro Bertini e Piero Paoli, oltre che dall’ingegner Fabrizio Zito e da Giancarlo Galassi) scrive giustamente Vittorio Savi: “Forse la forma sintetica dello struscio provinciale (...), forse il passaggio nevrotico degli acquirenti di periferia, del tutto esemplato sugli stereotipi comportamentistici diffusi dai media. In fondo non vorremmo né l’una né l’altro. C’è da augurarsi appena la vita, vita e basta, che, nel mondo esteriore, specchio della coerenza interiore, sappia superare la virtù di questo sforzo, questa tensione dell’architettura all’architettura sociale - se non sbaglio ingrediente stabile dell’urbs come della civitas.” Non è infatti tanto l’organizzazione funzionale ad interessare, quanto l’evidente intenzione di costruire un luogo all’interno di un’area oramai ridotta ad un ammasso di non-luoghi, come la periferia nord di Prato. Si è trattato per i progettisti di cogliere una occasione significativa per imprimere nuovo impulso ad un tessuto degradato.



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Si è trattato di cogliere una occasione per introdurre ed applicare - sia pure nei limiti concessi dalla situazione contestuale - alcuni principi della Progettazione Urbana, ambito di studi con il quale i progettisti si confrontano da molti anni. Una Progettazione Urbana concepita non come Progetto dei grandi interventi e/o delle grandi dimensioni, ma come progetto teso alla affermazione delle relazioni e delle connessioni urbane, non circoscrivibile ad un elemento oggettuale ma in grado di avere un valore in quanto nodo delle relazioni. Si scriveva a tale proposito nel 1979 che “(...) L’architettura non è riconoscibile in un manufatto singolarmente preso, ma nel complesso delle relazioni spaziotemporali che si stabiiliscono fra gli avvenimenti grazie alla presenza del o dei manufatti. L’accento è posto su queste relazioni, e qualsiasi oggetto è valutabile solo come nodo di queste”.1 A distanza di decenni, il principio rimane saldo, ma non sembra invecchiato. Semmai, ci sembra importante riaffermarlo, in un momento nel quale pare sempre più trascurata l’idea di relazione a favore di quella di oggetto architettonico. Nel caso del Centro Commerciale di Galcetello, crediamo di poter segnalare alcuni aspetti rilevanti, individuabili nella ricerca: - del superamento dello stereotipo tipologico del centro commerciale, almeno nel riferimento contestuale diretto; - della definizione di una nuova centralità come punto e luogo di aggregazione connesso con il difficile e anonimo contesto; - di un dialogo, sia pure fatto di riferimenti analogici, con l’immagine del tessuto produttivo dell’area pratese, attraverso l’utilizzo dei materiali ad essa riferibili e consoni. Il progetto è descrivibile con una certa semplicità, perché il concetto che lo guida è chiaro: un impianto, inevitabilmente costretto entro un lotto, ma legato strettamente con il contesto. Un impianto assiale, che trova in una galleria vetrata di 100 metri di percorso l’elemento guida sia funzionale che di immagine, cerca di realizzare un “luogo centrale” finora assente nella zona, di recente espansione; un luogo di aggregazione nel quale la sequenza dei negozi, del supermercato, i locali di ristoro a piano terra e gli uffici, la sede del quartiere, la sala consiliare al piano superiore costituiscono occasione per promuovere attività di scambio sociale. Collegamenti a ponte connettono il secondo livello alle aree verdi esterne, realizzando un piano di vita indipendente anche per funzionamento ed orari dalle

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attività del piano inferiore. Alla sistemazione delle aree esterne è affidato il ruolo della integrazione del Centro Commerciale con il contesto sia dal punto di vista funzionale che di immagine. Il nodo centrale è costituito dalla piazzetta, elemento di intersezione fra la direttrice di attraversamento costituita dalla Galleria pedonale e la direttrice ad essa perpendicolare di riconnessione con le aree verdi. Per quanto concerne i caratteri architettonici dell’intervento, è evidente che i progettisti hanno tenuto conto di alcune considerazioni tra le quali le esigenze di riconoscibilità e visibilità di un luogo che non solo cerchi un impatto compatibile con il tessuto circostante ma che possieda caratteri in grado di segnalarsi nel paesaggio urbano. La copertura alta e svettante in acciaio e vetro è visibile a distanza, bilanciando tra l’altro l’area dei negozi rispetto a quella del supermercato, inevitabilmente soverchiante dal punto di vista dimensionale. Al prisma vetrato che copre la galleria pedonale fa da contrappunto formale la copertura semicilindrica di metallo scuro e opaco che segnala la presenza della sala del Consiglio di Quartiere. Ai suoi lati le due piccole cuffie semicilindriche coprono i locali destinati agli impianti tecnici. L’uso del mattone a faccia vista, sia per tutti i paramenti esterni che per le pavimentazioni conferisce al Centro quella unitarietà di immagine in grado di definirne l’identità. Il tema del laterizio trova un forte contrappunto, anche sul piano cromatico, nell’uso dell’acciaio verde scuro per le strutture verticali e orizzontali della galleria pedonale, del ballatoio di distribuzione, dei ponti di collegamento, degli infissi dei negozi, dei parapetti e degli involucri delle scale di servizio.

Pagine precedenti: 1 Veduta della Galleria Commerciale 2 I volumi tecnici 3 L’accesso alla Galleria pedonale da Via Malaparte 4 Planivolumetrico 5 La Galleria Commerciale dal ballatoio degli uffici

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Antonella Cortesi, Carla Francini, Giuliano Maggiora, Piero Paoli, Gianni Sestieri, Virginia Stefanelli, Il campo dello specifico architettonico, in Parametro n. 81 novembre 1979

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Paolo Zermani

Biblioteca Cesare Pavese a Parma Riccardo Butini

Progetto: Paolo Zermani 1998-2001 Collaboratori: Eva Grosso Giovanna Maini Tomohiro Takao Foto: Mauro Davoli

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Il territorio padano è stato oggetto nei secoli passati di numerose opere di bonifica e miglioria agricola, che hanno prodotto variazioni strutturali dello spazio fisico. Era buon uso dei cartografi e degli ingegneri governare le trasformazioni secondo matrici, le quali, spesso, si adattavano ai segni precedenti della centuratio romana di cui la via Emilia è il decumano fondamentale. Quegli elementi, attraverso un graduale e misurato processo di stratificazione, hanno definito un ordine fisico e mentale, che ha determinato la costruzione delle grandi architetture emiliane, dal Battistero alla Pilotta di Parma, al Corridore di Sabbioneta, al Palazzo Farnese di Piacenza. La nuova Biblioteca Cesare Pavese di Parma, realizzata da Paolo Zermani, si inserisce nel lento fluire dei fenomeni storici e si configura come nuovo punto di misura. Mauro Davoli, servendosi del filtro fotografico, realizza un ribaltamento di scala che consente la lettura di rapporti aggiornati; la nuova fabbrica, posta alla base della composizione, sopporta, mostrando la solidità propria dei monumenti padani emblematici, il peso di una città ora incerta. Lungo una linea ideale, che il fotografo fa coincidere con l’asse maggiore dell’edificio, si svolge, con energia rinnovata, il dialogo tra architettura nuova, edilizia banale, e architettura antica, quest’ultima evocata dalle sagome di alcuni lontani campanili, sull’ultimo orizzonte dello sguardo. Zermani riconosce alla città l’incerto destino segnato dal rapido incedere dei fenomeni edilizi contemporanei, ma fissa anche il punto da cui ripartire. La Biblioteca si colloca nel lotto con

l’asse principale in direzione parallela al tracciato della via Emilia, nel tentativo di recuperare delle relazioni forti con il paesaggio e le strutture secolari, secondo un principio ritenuto valido per molte stagioni, soppiantato solo nel secolo appena concluso. L’impianto dell’edificio, caratterizzato da due corpi distinti che affrontandosi racchiudono al proprio interno uno spazio protetto delineato lungo il perimetro da un portico, trova nella simmetria delle parti la forza della propria autorità insediativa. La distribuzione funzionale avviene secondo un principio che ricalca l’immagine architettonica esterna: due sezioni principali e indipendenti dedicate rispettivamente ai ragazzi e agli adulti, collegate da due zone di accesso-prestito, nella parte anteriore, e sala riunioni, sala video, zona prescolare, nella parte posteriore. L’attacco a terra è risolto senza elementi di passaggio, imprimendo direttamente nel terreno la fabbrica di argilla cotta che risponde, altresì, all’ideale processo di continuità tra il materiale del suolo e il materiale da costruzione. I pilastri del portico fissano una misura, che dalla corte interna si allarga, gradualmente, all’intero organismo. Il portico diventa un filtro che ritaglia frammenti di cielo e disciplina l’ingresso della luce nelle sale di lettura. Nello spazio cavo della corte interna, privo di pavimentazione, affiora il manto erboso che circonda la Biblioteca, sospendendola in una suggestiva condizione di apparente non finito. Il rapporto simbolico che l’edificio pubblico è tenuto a stabilire con la città è riflesso nella durezza del recinto, quasi


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totalmente chiuso, definito da due corpi principali che evocano la figura di due libri affioranti dal terreno e contengono in sé, proteggendolo, lo spazio per la lettura e lo studio. L’anima introversa dell’edificio è giustificata dall’analogia con il tema del libro, che nell’esercizio della lettura è scoperto gradualmente. L’architettura, chiusa in se stessa, nasconde un mondo interno e diverso in cui si attiva il cambio di scala, analogamente a chi entra nel libro. La Biblioteca, proprio attraverso lo spazio del libro, governa, per definizione, il rapporto tra grandezze. Il carattere di questo edificio è quello stesso carattere conservato da alcuni luoghi reali, frammenti confluiti nella Parma immaginaria del racconto stendhaliano, luoghi degli sguardi e del pensiero; uno di questi è il Giardino di San Paolo, definito da mura continue, aderenti al Convento, che conserva il tesoro della Camera affrescata dal Correggio. “Nella biblioteca l’attesa è per i libri, che si dispongono su tutte le pareti avvolgendo chi entra, mentre la luce irrompe nel chiostro tranquillo”, queste parole servono all’autore per descrivere un’architettura intenzionata a provocare uno spiazzamento dimensionale e temporale. La Biblioteca rende riconoscibile, all’interno dello spazio che ancora rimane disponibile, una “zona franca” da assumere come camera di compensazione delle vicende esterne. Liberato lo sguardo dalle barriere ottiche e spaziali che hanno prodotto un rapido succedersi di nuovi orizzonti, fino a ridurre sempre più la prospettiva, si può forse giungere al completamento temporaneo delle cose ed alla lettura dei monumenti in una dimensione spuria rispetto al tempo. In un luogo dove il progressivo allentarsi delle maglie del geometrico tessuto storico concede spazio a fenomeni insediativi che sfuggono al dominio della regola e della misura, Zermani dimostra che è ancora possibile una riflessione sui temi del monumento e della scala, incidendo - in un ritrarsi per rifondarsi la superficie della città. La Biblioteca è così opera emblematica della teorizzazione zermaniana, ove enuncia la necessità di nuovi nuclei “in cui raccogliere, nel progetto, ciò che del paesaggio è pronto a salvarsi”. Pochi gesti, netti, sicuri, a delineare una composizione che risponda alla necessità di riequilibrio dei rapporti, oggi compromessi, che regolano la struttura delle cose.

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Pagine precedenti: 1 La biblioteca, l’anonimo contesto e l’ultimo orizzonte della città antica 2-3 Pianta e planimetria 4 Ingresso alla biblioteca Pagine successive: 5 Veduta esterna 6 Veduta del portico della corte interna

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Arcoprogetti e Bernard Huet

La riconquista delle rive del Rodano: un progetto per Valence Benedetto Di Cristina

Progetto: Arcoprogetti Firenze (Benedetto Di Cristina, Donatella Donatini, Grazia Gobbi Sica, Marco Massa, Anna Olivetti) con Vito Disabato e Massimo Guidi e Bernard Huet, Parigi 1989 - 1990

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La struttura e l’immagine di Valence (110.000 abitanti - 130 Km. a sud di Lione) sono state sfigurate, alla fine degli anni sessanta, dal tracciato dell’autostrada A7 (Autoroute du Soleil, LioneMarsiglia) che percorre la riva del Rodano e affianca nel tratto urbano la sua sponda. Passando sul bordo del fiume l’autostrada ha distrutto borghi antichi, ha introdotto una forte cesura tra città ed ambiente fluviale e ha avviato un’espansione disordinata a ridosso del suo tracciato. La consultazione ad inviti aperta dal Comune nel 1990 contava sulla disponibilità del governo centrale a spostare il tracciato più ad est per sanare questa frattura. Valence ha un centro antico fortificato che testimonia il suo passato di piazzaforte militare. Sorta in un paesaggio di bassi plateaux, che si arrestano davanti dal Rodano, è disposta proprio sul margine di uno di questi altopiani, lungo i percorsi stradali e fluviali che da Lione portano al mare. Solo dal secolo scorso ha iniziato ad estendersi verso il fiume ma non ne ha conquistato le rive con un vero e proprio impianto urbano. È rimasta divisa in due parti: il nucleo storico sull’altipiano ed il porto nella basse ville dove trovavano posto le attività produttive e l’abitazione popolare. Forse per questa ragione, oltre che per la speranza di rivitalizzare la sua economia, la città aveva messo a suo tempo a disposizione il quartiere fluviale per un’infrastruttura di questo impatto sottovalutandone largamente le conseguenze. Infatti la costruzione dell’autostrada non ha avuto solo l’effetto di toglierle il suo affaccio naturale, ne ha proprio condizionato la crescita. Per la necessità di affiancarla e superarla, nelle varie

fasi dell’espansione, con le strade urbane e regionali si è prodotta una rete ipertrofica che ha stimolato l’urbanizzazione diffusa delle aree esterne. In queste condizioni lo spostamento dell’autostrada era un avvenimento traumatico quanto la sua costruzione perché eliminava di colpo vincoli fino allora insuperabili ed apriva due prospettive (alle quali si sono allineati, alla fine, anche i progettisti invitati alla consultazione). Da una parte l’aspirazione degli abitanti, sostenuta con forza dagli ambientalisti, a riappropriarsi del paesaggio fluviale ancora così presente nella memoria con le sue sponde alberate, le banchine e gli attracchi delle chiatte: quindi cancellare l’autostrada e tutti i collegamenti lungo il fiume che con essa si erano aperti. Dall’altra l’esigenza di fare assumere a questa piccola città del sud della Francia un ruolo più dinamico e incisivo nella competizione per attrarre nuovi investimenti: dunque occupare le aree più belle con una nuova concentrazione di funzioni speciali alla quale l’autostrada, declassata ed aperta, avrebbe garantito una straordinaria centralità. Il progetto ha voluto sottrarsi a queste due alternative proponendo di estendere l’azione all’esterno dell’area centrale per correggere le alterazioni provocate dall’autostrada all’intera figura della città. Sono trasformazioni più estese della distruzione del quartiere portuale e dei suoi borghi e chiedono un intervento che disegni un nuovo fronte fluviale per tutto il territorio interessato dallo spostamento dell’infrastruttura. È l’occasione per dare alla città un’apertura sul fiume di misura e valore adeguati a bilanciare il peso dei quartieri sorti alle sue spalle. In questa cornice lo spazio


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dell’autostrada, liberato dal traffico extraurbano e ridisegnato come un viale, si converte in un luogo interno alla città nel quale si dispongono in sequenza aree industriali, residenza parchi e attrezzature. Queste indicazioni sono esposte nel piano d’insieme 1:5000. Per fare diventare uno spazio pubblico il nastro a sei corsie dell’autostrada c’è un abaco di sezioni e profili adeguate alle zone che attraversa. Sarà asse urbano a Bourg Les Valence, lungo-fiume nella basse ville, strada-parco nelle aree meridionali fino al nuovo porto turistico ed al nodo di Pont des Anglais. Questo è un modo per selezionare ciò che si può mantenere e utilizzare nel vasto repertorio dei manufatti esistenti (sovrappassi, caselli, argini, rampe) e orientare i progetti di conversione, ma è anche un modo per sottolineare che la concezione dello spazio pubblico dovrà in questo caso precedere la definizione degli edifici. Nella prospettiva di convertire l’eredità antiurbana degli anni sessanta in qualità urbana si è pensato a un sistema discontinuo che fa propria la dilatazione degli spazi e la frequenza dei movimenti, imposte negli anni della prosperità in vista di una crescita prolungata. È un tema che si presenta di continuo e chiede di valutare nel loro insieme le continuità paesistiche del passato e i grandi percorsi strutturali che oggi le attraversano, i monumenti antichi e le piatte espansioni recenti che li rendono ancor più preziosi. Valence è un caso emblematico. L’intervento che l’ha divisa dal Rodano ed ha devastato il suo porto ora può diventare asse portante del progetto di un’altra città, estesa ed aperta al paesaggio, che interpreta la vita dei suoi abitanti, i loro spostamenti quotidiani ed i loro rapporto coi luoghi, come faceva a suo tempo il centro fortificato sull’altopiano. Non sarebbe credibile rimuovere il collegamento nord-sud aperto col tracciato dell’A7 solo per risarcire la città dagli effetti del danno ambientale. Ma sarebbe altrettanto sbagliato continuare a pensarlo unicamente come un nesso tra luoghi più stabili e orientare il progetto alla costruzione di un complesso monumentale “moderno” da disporre al piede del centro antico. La nuova combinazione leggera di natura, velocità e insediamento è il vero monumento che ci ha lasciato il periodo dell’espansione, l’unico che più reggere il confronto con la densità e la stratificazione della città storica quando c’è un progetto di conversione che riesce a metterlo in forma.

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Pagine precedenti: 1 Veduta del progetto da nord 2 Piano degli interventi previsti lungo le rive del Rodano 3 Spostamento dell’autostrada e riassetto della città: 1 Sistema industriale lineare; 2 Zona espositiva; 3 Boulevard nella sede autostradale; 4 Porto turistico; 5 Basse ville; 6 Galleria commerciale sul vecchio ponte; 7 Parc Jouvet con nuovo parcheggio sotterraneo; 8 Quartiere della Comète; 9 Giardino in lunghezza dell’Epervière con bacino remiero; 10 Rinnovo di rue Victor Hugo; 11 Belvedere sul plateau di Lautagne; 12 Centro direzionale di Pont des Anglais; 13 Teatro


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4 I progetti dell’area centrale ai margini del nuovo boulevard: il porto, la Basse Ville, il quartiere della Comète e il giardino dell’Epervière 5 Foto aerea dello stato attuale 6 Veduta del progetto da sud

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Loris Macci, Alessandro Gioli, Francesco Gurrieri

Bellaria - Igea Marina: tra il fiume ed il mare Fabio Fabbrizzi

Coordinamento: Loris Macci Francesco Gurrieri Responsabile: Alessandro Gioli Piano-progetto: Alberto Baratelli Renzo Marzocchi 1998 - 2000 Analisi storica e tipo-morfologica: Carla Romby Luigi Zangheri Rilevazioni per campioni: Carmela Crescenzi Ipotesi economiche e gestionali: Enrico Novelli Collaboratori al piano-progetto: Ugo Baldassarri Fabio Fabbrizzi Restituzioni grafiche: Duccio Brunelli, Marco Cecchi, Luca Di Fonzo, Federico Orsi

Si parla ormai da molto tempo, all’interno del dibattito sulla città, dell’irreversibile perdita dei suoi confini e dell’urgente necessità di ricucirne i margini e ridefinirne le aree più compromesse, dando senso a quella sorta di intricata complessità formale che ingloba ordine, disordine e casualità. In questa condizione, che ormai domina quasi totalmente lo scenario urbano italiano, occupano un potenziale di particolare rilievo, tutti quei luoghi indefiniti, smarginati, vaghi, ibridi, caratterizzati dal fatto di essere luoghi di tensione, prima che di relazione. Su queste premesse, che caratterizzano anche la realtà urbana di Bellaria Igea Marina, si inquadra la fruttuosa collaborazione tra la sua Amministrazione Comunale e il Dipartimento di Progettazione dell’Architettura dell’Università degli Studi di Firenze, definendo le varie fasi di uno studio di fattibilità per il piano di recupero ambientale ed urbanistico dell’area di pertinenza del fiume Uso e della zona delle colonie. Ha preso così avvio la progettazione di

tre aree distinte tra di loro, accomunate nell’ottica di un generale disegno urbano di riqualificazione. Queste aree sono: l’area della Darsena a Monte, l’area della Darsena a Mare con il Lungo Uso e il Nuovo Ponte urbano e l’area delle colonie. La nuova Darsena a monte, viene prevista nella posizione individuata dalle indicazioni del P.R.G., compresa tra la viabilità territoriale, la ferrovia e il fiume Uso. La forma della darsena è stata ridisegnata prendendo come elemento ordinatore il prolungamento dell’asse attrezzato pedonale proveniente dal centro di Bellaria, diventando così, con le sue strutture, il terminale visivo della viabilità pedonale cittadina. Il bacino acquatico, si compone di due specchi d’acqua separati tra di loro: quello legato al fiume Uso, destinato a darsena per piccole imbarcazioni e una vasca che potrebbe essere usata per giochi di tipo acquatico. Questi due elementi vengono integrati in un disegno complessivo comune che comprende ai suoi margini, strutture e at-


trezzature necessarie alle diverse attività della darsena. Elemento “forte” attorno al quale ruota gran parte della progettazione di questa area, è la piazza coperta, che tende a configurarsi come una grande serra, sotto la cui trasparenza vengono sistemate funzioni commerciali, ricreative e di contemplazione del verde disposto all’interno. La struttura in questione concepita con elementi di relazione con l’intorno, come percorsi, rampe di accesso e un anfiteatro all’aperto, condensa quella necessità di avere una serie di funzioni trainanti in questo luogo, istituendo così una nuova polarità urbana in relazione anche al ruolo aggregante del limitrofo Nuovo Palazzo dei Congressi. I margini del bacino sono stati attrezzati con strutture necessarie alle funzioni della darsena, dalla parte del terrapieno della ferrovia, è stata prevista infatti una struttura per i rimessaggi per i pescatori con officina meccanica e distribuzione carburante, il tutto pensato come una strutturamuro, racchiusa da un lato da un terrapieno inclinato. L’assialità generata da questa struttura, oltre a definire il margine dell’acqua, filtra anche lo spazio destinato all’espansione edilizia, condensata in un disegno generale che prevede due nuclei di attrezzature residenziali permanenti disposti a corte aperta attorno ad uno spazio centrale alberato e da una serie di attrezzature residenziali stagionali, disposte in una sorta di crescent sottolineato ulteriormente dal disegno degli spazi verdi, la cui curva flessuosa dialoga planimetricamente con l’analogo segno urbano della Darsena a mare. L’idea attorno alla quale è nata la progettazione delle strutture e delle attrezzature a terra della Darsena a mare invece, trae spunto dal proseguimento nel terreno del disegno morbido e fles-

suoso della diga foranea; una sorta di prolungamento anche materico, dagli scogli alle strutture della Darsena: Una sorta di graduale “costruzione” della pietra, che da scoglio, casualità, quindi natura, diviene muro, ordine, artificio. Un muro, in questo caso nell’accezione di “muro abitato”, diviene percorso, passeggiata, collegamento dalla terra all’acqua, congiungendo gli spazi delle attrezzature della Darsena e della spiaggia, al mare. Lo spessore di questo muro è “bucato” da spazi di rimessaggio legati ai posti barca e da punti di scambio con la spiaggia. La struttura del muro-percorso, termina con un elemento che nella disposizione generale assolve alla funzione di “cerniera” con la serialità planimetrica dell’edificio delle attrezzature. La struttura turistico-ricettiva, risulta composta da un edificio semicircolare, innervato da diversi percorsi pedonali longitudinali: uno alla quota del terreno, verso il mare, configurato come una sorta di porticato continuo su cui si affacciano le varie attività e intervallato soltanto dalla piazza coperta che contiene gli spazi di collegamento verticale e che “infila” assialmente il collegamento con l’asse attrezzato a verde, proveniente dall’edificio della retrostante Colonia Roma. Al primo livello sono invece presenti due percorsi: uno verso il mare sopra il porticato e uno lungo la parte convessa dell’edificio, verso la città. Il percorso a mare, concepito come una sorta di aereo pontile, realizzato con tavole di legno, si oppone a quello rivolto alla città, incassato tra il muro-pelle esterno ritmato da aperture e quello dell’edificio vero e proprio nel quale vengono aperti gli accessi alle diverse attività previste. La caratteristica principale di questo edificio, risulta essere legata alla interpretazione di un’identità balneare di

doppio segno presente e ben radicata nel territorio della Riviera Romagnola: vernacolare e spontanea da un lato, colta, razionale e astratta dall’altro. Questa doppia memoria la si evidenzia nel concepire la struttura dell’edificio come un guscio continuo, che può essere aperto o chiuso in alcune sue parti, a secondo delle stagioni. Infatti, il sistema dei porticati a piano terra rivolti verso il mare, può essere schermato o meno attraverso delle paratie mobili, che tramite un sistema di verricelli e cavi, scorrono su dei pennoni che sistemati in serie, ritmano tutto il fronte verso il mare. Ma la si evidenzia anche nella copertura a botte sulla quale si aprono file di oblò, allusione al complesso delle “Navi” di Busiri Vici. Tra l’edificio della Darsena e quello della Colonia Roma, viene frapposto un sistema di parcheggi integrati con gli elementi del verde. Il fronte convesso dell’edificio riveste il ruolo di terminale visivo dei percorsi sviluppati lungo l’Uso, così come verso la direzione del Lungomare di Igea Marina, la cerniera tra il muro-percorso e l’edificio curvo, diviene la terminazione visiva di tale asse. Tra la riqualificazione della Darsena a monte e quella della Darsena a mare, si colloca la riqualificazione dei due margini del fiume Uso, prevista limitatamente al tratto compreso tra lo sbocco a mare ed i ponti della ferrovia e della strada. La proposta di riqualificazione prevede una serie di interventi puntuali, che vanno dal ridisegno della passeggiata, a quello delle pensiline di supporto alle attività del mercato del pesce. Il sistema delle sponde dell’Uso, termina verso l’entroterra, con la progettazione del nuovo ponte stradale, i cui sistemi di salita pedonale nascono e si integrano alle strutture pensate per i margini dell’acqua.


La proposta di intervento relativa alla definizione e all’organizzazione funzionale di massima, per la ristrutturazione urbanistica dell’area delle colonie, viene finalizzata alla realizzazione del progetto “Città Europa Giovani 2000”. Il piano generale della proposta di intervento, è volto principalmente alla valorizzazione delle caratteristiche ambientali e alla ricostituzione delle valenze naturalistiche preesistenti nell’area. Intervenendo mediante il recupero di una porzione di lungocosta, si cerca di ricreare così quell’equilibrio naturale tra mare, spiaggia e dune che è stato alterato nel corso del tempo con la realizzazione della strada costiera. Questo recupero generale potrebbe avvenire sul duplice fronte di una attenzione progettuale, attraverso cioè un nuovo disegno urbano ed attraverso una nuova sensibilità operativa di intervento, che potrebbero concretizzarsi attraverso misure di mitigazione e di compensazione che evitino fenomeni di erosione e di accumuli sabbiosi. L’ambito investito da questo recupero, che integra la progettazione del parco naturalistico alla progettazione delle nuove attrezzature sportive che ne costituiscono il margine verso la città, si potrebbe configurare come la testimonianza di uno stato ambientale preesistente. La strada che attualmente corre sulla costa, così interrotta da questa pausa naturalistica, potrà essere deviata lungo il tracciato della linea ferroviaria, per ricollegarsi poi dopo le previste attrezzature sportive al sistema viario generale. Si viene così a creare un ambiente caratterizzato dalla forte presenza naturalistica, sul quale si attestano le frange

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dell’edificato urbano di Igea Marina; questo ambito generale sarà attrezzato con sistemi di verde, percorsi pedonali naturalistici, percorsi ciclabili, specchi d’acqua, in una rifunzionalizzazione generale con destinazione a parco. All’interno di questa area vengono evidenziate diverse categorie di intervento che possono così riassumersi: la “cittadella dello sport”, il “parco naturalistico”, il “nuovo albergo” e il “ridisegno del fronte mare”. Le ipotesi progettuali sviluppate per queste aree, costituiscono un probabile itinerario di fattibilità, utile per dare luogo ad un generale Piano Guida dal quale l’operatività della Pubblica Amministrazione può attingere, per correggere ed aggiornare la strumentazione urbanistica attuale o più auspicabilmente per sviluppare i successivi Piani attuativi. Un itinerario i cui risultati sono lì a dimostrare come la ricerca universitaria possa effettivamente interfacciarsi con la complessità di una situazione reale, fornendo gli strumenti per operare sul territorio in un comune e legittimo desiderio di rinnovamento.

Pagine precedenti: 1 Inquadramento territoriale con individuazione delle aree di intervento 2-3 Schizzi di progetto 4-5-6 Darsena a monte: vedute e planimetria generale Pagine successive: 7-8-9 Darsena a mare: vedute e planimetria generale 10 - 11- 12 Area delle colonie “Città Europa Giovani 2000”: vedute e planimetria generale

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Flaviano Maria Lorusso, Franca Perra, Pier Paolo Perra

Talamona, nuove piazze e campus scolastico Flaviano Maria Lorusso

Progetto: Flaviano Maria Lorusso Franca Perra Pier Paolo Perra 2001

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In opposizione al labirinto, pervasivo ed indistinto, della città diffusa che sempre più informa il paesaggio contemporaneo, appare tornare possibile, per inattesa opportunità evolutiva, un’azione progettuale di riordino, di cura, di regia ampia e compiuta dell’‘aspetto’ dei luoghi e specialmente delle città, inteso come ‘figurazione sapiente’, pre-disposta e ben disposta, dei suoi materiali topici: vie, piazze, giardini, edifici pubblici, monumenti, tessuto edilizio, servizi. Un’azione da perseguire attraverso il recupero di una rinnovata modalità, la più autenticamente contemporanea, di quella “sensibilità topologica” la cui vacanza ha drammaticamente segnato il destino pratico della forma urbana della modernità: destino consumato fra l’involontario esito del vizio epistemologico circa la natura dello spazio, che André Corboz sottolinea come geneticamente inscritto nella pur formidabile innovazione innescata dai Moderni tutti immersi nella conquista di un nuovo oggetto architettonico conforme a fondazione della città nuova, e la cinica vulgata speculativa dell’informe accumulazione utilitaristica della città di fatto. Alla sua dura, coatta, an-estetica topografia involontaria puramente di risulta, proprio l’irruzione delle nuove tecnologie delle reti e della telematica come agenti di una imprevista mutazione liberatrice dal tradizionale ruolo strutturale della città industriale sembra infatti opporre l’opportunità tendenziale, tutta da cogliere, della riconquista di un processo di ridisegno curato del suo corpo, del suo ‘volto’ urbanistico-architettonico responsabilmente assunto come campo topico,

appunto, di una rinnovata intenzionalità collettiva di autorappresentazione alta, di una ‘politica’ della sua riestetizzazione per ‘singolarità limitate’, perciò individuate e compiute. Così, nel concorso per Talamona (Sondrio), il progetto di un nuovo campus scolastico polifunzionale integrato biblioteca, palestra, scuola elementare, scuola materna, auditorium - è concepito come ‘agente topografico’, risolutore strategico del compimento configurativo urbanistico-architettonico dell’intero settore urbano di pertinenza, compreso nella periferia di margine, di cui diviene il caposaldo in forma di condensatore urbano ad alta densità ed interconnessione spaziale e funzionale, con ruolo di polarizzatore e di riordinatore morfologico ed estetico dell’incompiuta discontinuità e dell’inconsistenza formale dell’attuale configurazione edilizia. Dispositivi compositivi ne sono allora sia, innanzitutto, il ribaltamento dell’introversione di retro urbano del gran vuoto di risulta compreso tra gli edifici lungo la viabilità circostante, i quali conquistano pertanto un riequilibrio di valori con il raddoppio dei propri fronti di relazione urbana; sia la creazione di un ‘sistema polare’ di nuove piazze con funzione di cerniere spaziali e comunitarie tra il comparto e il resto della città di cui il campus diviene il tramite, il ‘tirante’ di connessione relazionale nonché lo sfondo, la quinta architettonica di valore. Fra logica di estensione e logica di condensazione quali possibili opzioni metodologiche di trasformazione della periferia contemporanea, è la seconda a indirizzare la soluzione progettuale. Se la prima infatti ne assume i caratteri



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specifici di discontinuità, incoerenza, segmentazione, casualità, perfino caos per costruire metafore, sintassi e linguaggio analoghi di complessa disarticolazione, di frammentazione geometrica fino alla decostruzione; l’altra, all’opposto, cerca una sintesi catalizzatrice, una forma-oggetto primaria nel segno del riequilibrio per radicale contrappunto, per riduzione distintiva all’assertiva traslitterazione figurata d’una geometria elementare, tutta concettuale, d’una unità iperachitettonica: in definitiva, per ‘monolitizzazione’. Un lungo lingotto diviene allora l’univoco macrosegno planivolumetrico che ogni nuova funzione in sé aduna secondo le stimmate, così ben enunciate da Rem Koolhaas, di una nuova, congrua “specie architettonica”: attraversando longitudinalmente il vuoto esistente, per legarne le due testate urbanistiche trasformate in tre nuove piazze - una interna e due di snodo relazionale con il resto della struttura urbana, - esso funziona da barra a forte irradiazione funzionale e simbolico-formale, simile ad una scultura primaria, tranciante di Richard Nonas, che lo risolva nell’ancoraggio baricentrico di un ordinatore ambientale, ma in fuori scala apparente, per mediare e placare in realtà le contraddizioni, le disarticolazioni, le casualità dell’intorno nella superiore coerenza e scala del più ampio, complessivo ‘paesaggio’ urbano circostante, ulteriore ridondanza ‘monumentale’ di identificazione che emerge tra gli edifici senza qualità ed accoglie e guida da uno dei fronti di ingresso alla città. Topografia urbana di sintesi questa volta, come sistema-sequenza lineare

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di spazi, architetture, infrastutture impiantato sulla griglia matrice a fusione reattiva tra segni, campi spaziali, casualità, relazioni esistenti e nuove direzionalità, referenze, geometrie, funzioni e sequenze riverberate dal lingotto, la cui cavità a sezione matrice costante ma modellata in corridoi-gallerie, atri, molteplici spazi a figura variabile, patio interno, terrazzo racchiuso, logge ipotizza a sua volta l’esperienza d’una parallela topografia tutta interiore di un’architettura che si connota ad imitazione della città.

Pagine precedenti: 1 Veduta prospettica: il campus scolastico e le nuove piazze 2 Planimetria: la sequenza delle piazze come nuovo segno di riordine urbano 3 Piazzetta interna: ingressi alla palestra ed alla scuola elementare 4 Fronte nord: gli ingressi alla scuola materna ed alla galleria 5 Piazza della biblioteca, come centro urbano

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Giacomo Pirazzoli

Sarajevo Zone C1-C2 Marijin dvor

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Progetto: Giacomo Pirazzoli (capogruppo) Simone Abbado Marco Zucconi con Lisa Ariani, Andrea Volpe (arte/architettura) Michele Pirazzoli (aspetti ambientali) Luca Ceseri, Emiliano Romagnoli (collaboratori) Concorso Internazionale per il nuovo campus universitario riuso di una area dismessa 2000

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Il progetto persegue una idea di ragionevole conservazione - rispetto alle baracche militari sulla linea di margine - insieme al concetto di grande scala, rappresentato dai green boxes, sculture in vetro a scala di paesaggio ispirate dalla ironica ripetizione dell’inquietante e ben noto Berlin Block for Charlie Chaplin di Richard Serra. Per scelta, le baracche militari vengono conservate e ripulite dalle superfetazioni per tornare ad esser lette come un grande recinto sui bordi aperto alla città e all’interno parco del campus; è qui forte il riferimento alla traccia di questo grande segno urbano riproposto nella sua essenza architettonica e funzionale quale struttura distributiva principale alla quale si agganciano - nuove superfetazioni? - i green boxes. Dalla collina il nuovo campus universitario si identifica come un segno di paesaggio, allo stesso tempo “pesante” durante il giorno ed “astratto” di notte, quando è trasfigurato dalla luce artificiale. I green boxes, cubi ritagliati, non dimenticano al tempo stesso la frammentata memoria della Bascarsija, il centro della antica città ottomana descritta dal premio Nobel Ivo Andric nel libro “Saraci”. L’area interna del campus - che posa su di un piano commerciale - diviene dunque il suolo artificiale del parco. Qui le facciate interne delle vecchie caserme lavorate con un sistema di lettering a grande scala, che annuncia il soggetto della facoltà universitaria cui corrisponde nell’uso - è lo scenario perfetto per i green boxes, unità tecnologicamente avanzate che ospitano, con una pianta modulare largamente sviluppabile, tutte le funzioni richieste. La doppia facciata curtain-wall ad alta tecnologia dei green boxes, insieme con

la pelle esterna delle piante rampicanti riduce indesiderate dispersioni termiche, minimizzando i consumi energetici. Una colorata serie di pitture murali (eseguite da diversi artisti quali Daniel Buren, Sol LeWitt o altri) cambierà la grigia e pesante pelle delle caserme in un nuovo oggetto urbano fortemente legato alla città tramite una serie di passaggi pedonali ed ingressi. Così pianificata, la connessione fisica delle aree residenziali e commerciali renderà possibile una gestione integrata dello smaltimento dei rifiuti consentendo la riduzione della massa e migliorando il rendimento del sistema di riciclaggio. I materiali di demolizione vengono riutilizzati all’interno del procedimento costruttivo, così come parte del terreno di scavo viene reimpiegato per la superficie del parco; ciò contribuisce a ridurre i costi delle forniture in ragione delle diminuite necessità di trasporto. Una consistente superficie di pannelli fotovoltaici viene reperita sui tetti delle caserme, al fine di provvedere una considerevole quantità di energia pulita; ciò consentirà l’alta sostenibilità dei servizi accessori durante tutto il loro periodo di funzionamento. La velocità è il tempo della metropoli. In velocità dalle macchine in strada saranno percepite tutte le facciate colorate delle vecchie caserme, un tempo grigie. Le caserme militari, storicamente zona off-limits per i normali cittadini, vengono così recuperate ad un uso civile; lì ci sarà il nuovo campus universitario, significativamente la principale Istituzione culturale, per guardare al futuro attraverso gli occhi delle nuove generazioni. http://www.zavodzpr-sa.ba/kasforweb/engleski/ENG2.htm


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Pagine precedenti: 1 Planimetria dello stato di fatto 2 Planivolumetrico e sezioni

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3 Richard Serra, Berlin block for Charlie Chaplin 4 Sol LeWitt e David Tremlett, cappella S. Maria delle Grazie, La Morra 5 Il nuovo campus universitario lungo la Zmaja od Bosne 6 Il parco all’interno del nuovo campus universitario 7 Veduta prospettica


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Fabrizio Arrigoni, Marco Arrigoni

Segni nel paesaggio Fabrizio Arrigoni

Dei ritratti da me dipinti, Libero de Libero ha detto che sono altrettanti giudizi. Non mi si poteva fare lode maggiore. Il ritratto è una ‘rivelazione’. Alberto Savinio, Nuova Enciclopedia Fu passando dalla Libia che l’eroe ebbe in sorte Antèo. Qualcuno ricordò che fu il sangue di sua madre Gea a rendere il gigante invincibile: la forza si moltiplicava ogni qual volta il piede poggiava il suolo, facendosi terra. Il nostro lo stritolò, ma solo quando le potenti braccia furono capaci di strapparlo dalla radice rossa del deserto: in aria l’energia non era che cenere nera priva di ogni vigore. La tomba del selvaggio non è distante da quel lontano campo di battaglia: una bassa collina che guarda il mare vicino a Tangeri, Marocco... Nel sole, nell’oro accecante di un mezzogiorno privo di orologio, ecco aprirsi tra piagge salse, lo spazio del fauno e della driade, intriso di bonaccia, calura, e per ovunque silenzio.L’intuizione del Gran Critico ha la forza della concreta epifania: dopo le sue parole il mondo si ricostruisce in forma nuova. I luoghi sono radicalmente fondati da mitologie ed occorreva la forza ed il delirio di un poeta a trasformare un pezzo di terra privo di confine e segnato da una storia di malaria ed emarginazione, nell’ultima reincarnazione di una Grecia impossibile e magica. Monti, fiumi, arenili ma anche luce, odori, vento e pioggia e poi piante ed animali, tutto è come ri-impaginato ed il canto è come lo scheletro del reale, invisibile e purtuttavia necessario. Progetto: Fabrizio Arrigoni Marco Arrigoni 1999 - 2001

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Il Bava, Undicisanti, Masticabrodo, Pattana, Caabullette, Abbriccafame, Mangiasanti, Peritucco, Buzzoverde, Gambaccia, Tatorino, Domè, Digiuno, Cagoli-

no, Straccavizzi: olimpo di perdenti dai nomi che parlano, di trascurati sconfitti da-sempre. Universo di fatica e occhi cerchiati, di donne scure e neonati bianchi, di vele arancio e cielo piombo, a cui la violenza di un bulino e la pazienza del legno stagionato restituiscono un passato, un presente ed un futuro. Un lungo muro a calce separa le molte figure fuligginose e scosse da un’intreccio di alberi, funi, velami dalle tonalità rancide. Vicino all’angolo ed illuminato da una lanterna, un Cristo nero dai bagliori d’oro e di nascita orientale protegge destini infami... Acqua sopra e acqua sotto; un lucore scialbo ovunque e grumi di verde in sospensione. Monti a settentrione ed a ponente, verso il mare. La valle ha per corona rilievi continui e piccoli poderi che sembrano aiuole ne hanno riscritto la faccia. La città, vetusta e nobile, è assai vicina ma qui regnano l’olivo ed il castagno (prima dell’ultima invasione anglo e sassone). L’Angelus abita ancor oggi le sue antiche ed alte case di pietra bigia e bianca, ma la sua voce è sempre più stanca, disattiva: il tempo ha ritmo diverso, la sua progressione altro metro, altra voce. Uno schizzo della piana lucchese di John Ruskin, le terrazze di Pieve a Elici, campanili di San Frediano, San Martino, San Michele, una fabbrica di Masaccio, la Beata Umiltà di Pietro Lorenzetti, il portale di Sant’ Alessandro, leoni sulla Porta di San Pietro, la Madonna dell’Umiltà di Giovanni di Paolo, il mausoleo Hermel nel Libano, la piccola casa nella Carrozzella e Dopo il tramonto di Carlo Carrà, Dal lavoro ci sorte l’oro di Lorenzo Viani, una torre appena accennata nella Deposizione di Beato Angelico a San Marco,


l’Haus freistehend di Horst Antes... i quaderni radunano quotidianamente cose e pensieri dispersi. A vederle contemporaneamente le pagine accennano all’enciclopedia. Ma, come già osservato, può essere ancora lecita questa speranza allorquando la scienza circolare, la scienza conchiusa, che affonda radici nell’affinità spirituale, nella comune tendenza, deflagra in una costellazione di frammenti? La prescrizione ha un fondo instabile, assai obliquo, sul cui piano risulta azzardato con-struere, disporre strati successivi con meccanico automatismo. Una camera spoglia da dove sia possibile - per un momento - umiliare la fronte sulla spiaggia e finalmente vedere con occhi vecchi il grande mare ove si va senza governo. Le pareti si svolgono con continuità priva di sorprese. La luce è sostanzialmente diffusa, omogenea, se non fosse che da piccole incisioni il bagliore si fa più vivido, acceso. Il Cristo galleggia appena sopra la linea dell’orizzonte e la panca da cui lo si prega è l’unica concessione fatta al corpo del visitatore. Ai suoi piedi ancora distinguibile Qui dove speravano riposo battono con l’onde in eterno. Il marmo Calacatta custodisce le vicissitudini del monte, non distante, da cui ha avuto origine; i suoi colori tuttavia sembrano essere l’abaco delle tante sabbie che chiudono queste acque, vaste e diverse ed insieme fisse. Interno di pietra ma fragile; a protezione un gran muro cieco dai colori scuri come le valve di un mitilo e dalla superficie scabra, erosa, dove il vento alloggerà, col tempo, innumerevoli grani ed organismi. Il solido poggia dove la linea di terra si dissolve ed uno stretto ponte lo separa dai giorni confusi, accaldati, rumorosi,

impastati col sapore dolciastro di crema idratante a protezione totale... Rilievi morbidi nascondono il mare, ma la sua luce gonfia d’aria, cessata la pioggia, segna l’occidente. Attorno domina il grigioverde degli uliveti, governati come orti di casa, senza traccia di erbaccio o malapianta. La memoria è quella tessuta e ritmata da piante ed anonime pietre dure, del colore del sasso e della bruma, signorilmente povere. Favola che parla di cose come epifanie di geni ed anime, nascoste o velate per pudicizia e decoro. E allora continuando - un cemento dai molti cristalli e morso dall’acido, il lucore di una calce bianca - o calcare macigno - là come un taglio nel cielo così bello quando è bello... E poi una porta, resa ancora più piccola dalla grande torre che la schiaccia ma fatta preziosa dall’arte e dal bronzo, tanto da ritrarsi, come marea, dai suoi stessi profili. Se ogni costruzione è messa in opera della verità, allora anche in questo edificio necessario e semplice potrà accadere - un giorno - un miracolo segreto... poiché, come vide Goethe, non importa che il vero compiutamente si manifesti: a noi è bastevole il suo infinito echeggiare, come il suono familiare di una campana, lontano oltre un colle.

Pagine successive: 1 Campanile rupestre (Forci, campagna di Lucca, 1999) 2 Cappella dei morti del mare (Viareggio, arenile di ponente, 2001)

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Fabio Capanni

Centro Servizi Grotte di Frasassi Fabio Capanni

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Progetto: Fabio Capanni con Gabriele Bartocci 1997

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Nel racconto degli speleologi, era stata una leggera corrente d’aria a far muovere l’immaginazione. Una piccola fessura nel corpo forte della montagna dalla quale proveniva un respiro. L’intuizione di uno spazio nascosto alla vista dalla crosta naturale del terreno. Strisciando ventre a terra, al di là di quella piccola fessura, una grotta dalle dimensioni ridotte. Ancora oltre, riguadagnata la posizione eretta, un percorso obbligato, angusto, un faticoso procedere fino ad una soglia oltre la quale lo spazio si dilatava all’improvviso e sprofondava nell’oscurità. Un abisso d’ombra nel quale spazio e tempo si arrestavano in uno stato di sospensione, stranianti. Poi la discesa, in una frattura del tempo e dello spazio, dove le percezioni sensoriali sembravano completamente azzerate. Laggiù, nell’oscurità e nel silenzio più assoluti, in uno spazio dalle dimensioni eccezionali, neppur lontanamente immaginabili pochi minuti prima davanti a quella piccola fessura nella crosta esterna del terreno, si svelava uno spettacolo solamente intuibile alla luce fioca delle torce degli speleologi. Lo stupore della sorpresa. L’acqua aveva lavorato con lentezza per costruire un mondo fantastico, inatteso, rubandolo alla luce del sole per formare un universo parallelo nel quale, il tempo e lo spazio, avevano travalicato lo scorrere veloce delle misure umane. Spazio, tempo, luce, ombra, interno, esterno, costruzione: mi era sembrato da subito che il racconto degli speleologi sulla scoperta delle grotte di Frasassi parlasse con il linguaggio dell’ar-

chitettura e che, il progetto per il centro servizi delle grotte, fosse già tutto in quel racconto. Il maestoso contesto naturale scelto per l’intervento e la chiarezza del programma funzionale, andavano a completare in maniera inequivocabile l’idea progettuale nata da quelle suggestioni. Il progetto sviluppa la sostanza di quell’idea tramite un ragionamento svolto parallelamente in pianta e in sezione. Il fiume sottostante forma un’ansa che detta il movimento rotatorio del compasso: un arco di circonferenza misura la distanza fra natura e costruzione addomesticando la geografia del luogo, connotandolo di un nuovo significato. Una frattura in superficie annuncia un’internità appena svelata, nella quale l’acqua scende lentamente tramite una azione erosiva che disegna una sequenza sempre più dilatata di vasche d’acqua. Ci si affaccia su un vuoto che improvvisamente appare e marca una differenza sensibile fra lo spazio esterno e lo spazio interno. Mentre a livello superiore la superficie a disposizione viene utilizzata a parco, stabilendo una continuità silenziosa con il contesto naturale, la cavità ipogea accoglie, oltre al degradare della vasche d’acqua, una galleria con funzioni commerciali ed una sequenza irregolare di volumi circolari in cristallo, all’interno dei quali, sono dislocate le funzioni principali del centro come la biglietteria, le informazioni, il bookshop, il ristoro, ed i locali di accoglienza e gli uffici. Sospesi sulla superficie dell’acqua, come generati dalla lenta opera di sedimentazione del calcare, i cilindri in cristallo sono incastonati nella galleria cir-



Pagine precedenti: 1 Frasassi, Grotta grande del vento sala delle colonne 2 Frasassi, Tempietto della Grotta del Santuario 3 Planivolumetrico 4 Prospettiva dell’interno con le vasche d’acqua, i cilindri di cristallo e la galleria con i negozi 5 Veduta dall’alto del modello di studio 6 Pianta

colare a rilevare la contrapposizione dialettica fra natura e costruito che anima uno dei tratti distintivi del carattere di quei luoghi, peraltro già rivelata alcuni secoli fa dall’architetto francese Valadier che, su incarico di Papa Leone XII, realizzava un elegante tempietto ottagonale all’interno della grotta del Santuario di Frasassi. All’interno della galleria coperta, è stata ritagliata secondo il programma funzionale richiesto, una sequenza regolare di ambienti destinati ad attività commerciali, intercalati ai passaggi di accesso alla viabilità inferiore che distribuisce i parcheggi. Questi ultimi, spostati dal livello superiore, sono stati occultati allo sguardo dei visitatori senza ricorrere alla creazione di parcheggi sotterranei. Sul fiume, la stessa pietra scavata dall’azione erosiva dell’acqua, si trasforma in materiale da costruzione per la cortina muraria esterna della galleria commerciale, pensata come terrazzamento artificiale a sostegno del livello soprastante. Quasi nascosta alla vista del visitatore che la scopre progressivamente nell’avvicinarsi al luogo, mi sono affezionato nel pensarla come una incisione inattesa, lenta opera di distruzione e costruzione delle acque, grotta nascosta che timidamente rivela alla luce del sole, la propria riservata internità.

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Paolo Portoghesi

Imparare dalla natura Stiamo attraversando un periodo, l’inizio di un nuovo secolo, che sembra aver riscoperto l’importanza dell’architettura, il peso che essa esercita sulla vita della comunità, il ruolo che potrebbe svolgere per migliorare la nostra vita. E tuttavia il rinnovato interesse sembra generato non tanto dalla capacità dell’architettura di risolvere problemi concreti e quindi di dimostrare la sua utilità sociale, quanto dal clamore che provocano i suoi “gesti” spesso scomposti e velleitari o tanto minimali da far pensare ad una realtà decimata, come diceva Marcel Proust. C’è un modo per convogliare questa riscoperta dell’architettura e la creatività dimostrata dai nuovi architetti verso un orizzonte più umano, verso una creatività non rivolta alla pura provocazione, ma alla ricerca paziente delle qualità ambientali adatte all’uomo d’oggi nella diversità dei climi, delle tradizioni, dei livelli economici. Credo che il solo binomio natura-storia possa aiutare a trovare una sintesi tra le posizioni estremistiche che oggi si dividono il campo, recuperando un sistema di regole al quale ancorare la ricerca. Di regole la disciplina architettonica non può fare a meno senza rinunciare alla sua natura di linguaggio capace non solo di stupire e assordare, ma anche di trasmettere e comunicare. Le regole sono lo scheletro su cui poggiano carne e pelle dell’organismo architettonico e quindi il supporto della visione immaginativa e della capacità di risolvere i problemi di chi abita la terra. La storia, filtrata, ben inteso, attraverso il pensiero critico tipico del nostro tempo, ci consente di individuare le regole

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che nascono dalla sintonia con il luogo e la comunità che lo invera, ma è solo la natura, attraverso la consapevolezza del nostro esserne parte, che consente di individuare altre regole necessarie per orientarsi verso l’innovazione. La natura è stata fin da principio maestra di ogni architettura, ha suggerito all’uomo come proteggersi dalle intemperie, costruendo un universo artificiale, obbediente alle stesse leggi che dominano quello naturale, lo ha spinto a riconoscere negli archetipi (il muro, la porta, il pavimento, la colonna, il trave, la finestra) il trasferimento in astratto di processi osservati nello spettacolo della vita vegetale e animale o nell’autoorganizzazione della materia, nella sua continua metamorfosi, e in virtù di codici non scritti ma basati su esperienze partecipate da una certa comunità. L’architettura della nuova alleanza Se imparare dalla natura è sempre stata una possibilità concreata e fruttuosa per gli architetti, tanto più può esserlo oggi che la natura è minacciata nei suoi equilibri e depredata di risorse non rinnovabili, mentre si assiste a profonde modificazioni climatiche che fanno presagire mutazioni epocali e ci si rende conto in modo drammatico che invertire o solo arrestare i processi degenerativi in atto è un’impresa quasi impossibile. Occorre una nuova alleanza con la natura, ha scritto Prigogine, e il riconoscimento da parte di molti scienziati di una centralità dell’ecologia fa sperare in un nuovo orizzonte conoscitivo in cui si incontrino e si intreccino discipline diverse finalmente dialoganti. Della nuova alleanza gli architetti potranno essere i catalizzatori

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se sapranno riscoprire il ruolo tradizionale del sapere architettonico come sapere pluridisciplinare. “Architecti - scriveva Vitruvio - est scientia pluribus disciplinis et variis eruditionibus ornata, cuius iudicio probantur omnia quae ab ceteris artibus proficiuntur opera” che potremmo tradurre con Pierre Gros: “Al suo giudizio vengono sottoposti i risultati prodotti dalle altre tecniche”. È possibile che l’architetto recuperi la centralità nel concerto disciplinare in un’epoca in cui il sapere si articola in mille rivoli tortuosi? Certo non favorisce questo ruolo la rovinosa politica delle università italiane e in genere l’indirizzo didattico promosso dall’Unione Europea; ma qui parliamo di prospettive future e la speranza è l’ultima a morire. Anche se i risultati sono stati fin qui deludenti, non si può dire che la cultura architettonica abbia ignorato la frontiera ecologica. Da almeno vent’anni la quantità delle pubblicazioni dedicate alla “bio-architettura”, all’“ambientalismo”, agli “impatti ambientali” è in crescita esponenziale; anche perché si tratta di un sapere frammentario e incoerente in cui non vi è quasi accumulazione e bisogna quindi ogni volta ripetere in tono diverso le stesse cose. Forse quello che manca è, insieme a una tecnica degna di questo nome, una “poetica” che superi la dimensione personale. Vi sono opere che dimostrano l’appropriazione del tema della nuova alleanza; ma esse formano un arcipelago ed è difficile connetterle in un disegno unitario. Da una parte la tecnologia che più direttamente si ispira alle forme degli organismi viventi sembra aver dimenti-

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cato, del modello biologico, il “calore” che lo pervade, lo stretto legame tra sistemi che è il suo punto di forza e di complessità, quel legame che fa sì che lo scheletro, i nervi, i vasi sanguigni e le epidermidi si fondano in un corpo, in una struttura gerarchica basata sull’intreccio, sulla concrescita e sulla complementarietà. Dall’altra parte l’architettura di stampo classico, che attinge al minimalismo delle forme per proteggersi dall’ombra dello storicismo, spesso dimentica che il corpo umano non si esaurisce nella tripartizione, nelle regole proporzionali, nelle armonie del numero, nel rapporto nitido e trasparente tra le parti e il tutto, ma nel rapporto tra strutture interne e forma esterna rivela contraddizioni, dissonanze, asimmetrie e confluenze non riducibili a una semplicità data in partenza come obiettivo. La vera semplicità è il punto di arrivo di un processo, di un percorso rischioso, esposto a mille precipizi, la meta da raggiungere obbedendo a regole che solo in parte sono date mentre le altre sono da stabilire interrogando l’opera prima che essa sia compiuta, rimettendo in discussione le proprie certezze e riconoscendo all’opera in se stessa il diritto di svilupparsi con un certo grado di autonomia. Su ciò che l’uomo ha imparato dalla natura accingendosi a trasformarla per i suoi scopi rinvio il lettore al mio libro “Natura e Architettura”, dove ho seguito, per mettere a fuoco questo debito, la genesi e lo sviluppo degli archetipi che hanno strutturato la memoria collettiva fino a diventare dei “fenotipi estesi”. Qui di seguito, ripercorrendo al rovescio la foresta dei simboli di cui

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parla Baudelaire, ho iniziato ad elencare quegli aspetti della natura che più hanno contribuito a suggerire all’uomo delle idee architettoniche. E, per mettere in evidenza i vari e possibili metodi di lettura di una forma naturale, estraggo dall’“Autobiografia” di Frank Lloyd Wright due esempi molto diversi di “ispirazione” nella lettura del “saguaro” e in quella dell’albero. “Nel saguaro si cela un modello di quella che potrebbe benissimo essere l’architettura più adatta all’Arizona. Nel saguaro, perfetto esempio d’una costruzione rinforzata… i suoi sostegni interni verticali lo mantengono rigidamente dritto, conservandone la grande e flautata massa a colonna per sei secoli o più… un grattacielo più autentico di quelli costruiti dai nostri maniaci del funzionalismo. E tutta questa interessante vegetazione del deserto dà, nelle caratteristiche strutturali, prova di una scientifica economia costruttiva. I fusti soprattutto possono essere di ammaestramento agli architetti o agli ingegneri abbastanza modesti o intelligenti per accettare la lezione. In queste costruzioni del deserto l’ingegnere o l’architetto possono scorgere non solo i sostegni di rinforzo scientificamente impegnati come nelle fibre del saguaro, ma anche la perfetta intelaiatura o le costruzioni tubolari nello stile del Cholla e nella struttura cellulare di quell’altra pianta detta “barile d’acqua”, la bignana. Persino le fibre del cactus spinoso meritano di essere studiate in virtù della loro scientifica conformazione. In quasi tutti i cactus, la natura impiega la struttura cellula contro cellula e anche quella continua tubolare, e spesso la costruzione plastica. Per mezzo della plastica, la Natura rende ovunque salda ed efficacissima la continuità, senza dover ridurre i suoi schemi ai pilastri e alle travi. (...) A questo punto il passaggio dell’idea dal piano materiale a quello spirituale cominciò a suscitare conseguenze: il concetto che un intero edificio può “crescere” da determinate condizioni come una pianta cresce dal suolo, eppure essere libero di essere se stesso, di “vivere la propria vita secondo la natura dell’uomo”. Nobile quanto un albero in seno alla natura, ma figlio dello spirito umano. (...) E gli alberi si ergevano in tutto questo scenario come vari, meravigliosi edifici, diversi gli uni dagli altri più di tutte le

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architetture del mondo. Un giorno o l’altro, il ragazzo avrebbe imparato che il segreto di ogni stile, in architettura, era quel segreto stesso che dava carattere agli alberi”. Imparare dall’albero Più nei boschi che nei libri “Troverai più nei boschi che nei libri” ha scritto San Bernardo da Chiaravalle - ed ha aggiunto: “Gli alberi e le rocce ti insegneranno le cose che nessun maestro ti dirà”. Se dalla osservazione e poi dalla utilizzazione dei tronchi sono nate le colonne, l’insegnamento dell’albero nella sua completezza radici-tronco-chioma è stato per l’architettura ancora più profondo e vitale. Le più antiche tradizioni delle grandi civiltà concordano nell’attribuire all’albero un valore simbolico. Come axis mundi, immagine concreta della verticalità, l’albero unisce la terra in cui affonda le sue radici con l’aria che purifica, regione della vita e con il cielo su cui disegna la sua chioma dimora della divinità. Per questo suo luogo di mediazione, di avvicinamento, l’albero è diventato simbolo della vita, compagno dell’uomo che alla sua mobilità e volubilità oppone la “ferma” presenza, la stabilità, la resistenza alle intemperie. Nel descrivere il ruolo dell’edificio come “messa in opera della verità”, Heidegger ricorre all’albero come primo elemento dello sfondo su cui esso si disegna: “Standosene lì l’edificio resiste alla tempesta che infuria sopra di esso e, in tal modo, rivela la tempesta nel suo impeto. Sono proprio il fulgore e il rilucere della pietra - che solo apparentemente giungono ad essa in grazia del sole - quello staglio che rende nitidi la trasparenza del giorno, la vastità del cielo, le tenebre della notte... L’albero e l’erba, l’aquila e il toro, il serpente e il grillo assumono infine la loro peculiare fisionomia (la loro forma) mostrandosi nettamente per quello che sono.” L’architettura non viola e corrompe lo scenario naturale - come mostrano di credere gli ingenui difensori della “naturalità” – ma, quando è vera architettura, dà senso e valore al paesaggio. Lo sapevano bene i pittori cinesi che raramente omettevano nelle loro descrizioni della terra e delle sue supreme bellezze la presenza dell’uomo e delle sue opere, e hanno dimostrato di saperlo gli architetti europei in quella koinè di architettura e natura che è l’arte dei giardini. L’albero si confronta

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con l’immagine architettonica per contrasto e per sottili analogie che l’anima scopre cercando nel visibile le tracce dell’invisibile, attingendo così il mondo astratto delle regole, delle leggi che governano la vita reale e quel simulacro della vita che costituisce il nocciolo di ogni opera d’arte. Legge strutturale dell’albero è la ramificazione o, meglio ancora, l’alberità, che i giapponesi rendono con la parola “edaburi”, tradotta da Frank Lloyd Wright come “disposizione formale dei rami di un albero”. Segando un tronco si scopre che ad ogni primavera si è aggiunto un avvolgimento al nucleo. La sua legge di crescita consiste nell’aggiunta periodica di una forma autosimile, di natura frattale. Qualcosa di analogo avviene per i rami, piccoli tronchi che si articolano all’infinito mantenendo l’autosimilarità. Le foglie, che Goethe considerava Urform, forma originaria della pianta dalla quale, per metamorfosi, sarebbero nati tutti gli altri elementi della vita vegetale, possono anche considerarsi come tronchi o steli “che si aprono” per consentire la fotosintesi e fornire così energia alla pianta e forza per nutrirsi attraverso le radici. Alla logica della ramificazione gli architetti hanno attinto nei secoli per studiare la “utilitas” vitruviana, l’arte di configurare e mettere in relazione gli spazi in funzione delle esigenze funzionali dell’edificio, ma anche nella felice contrapposizione tra il tessuto ortogonale degli apparati murari e la fluenza lineare delle decorazioni plastiche. Anche il tema della leggerezza, del “respiro della forma”, attinge all’esempio dell’albero con la sua chioma aerea e il suo ospitare l’ombra e la trasparenza dentro di sé, attraverso la moltiplicazione e la vibrazione delle foglie, la variazione di colore tra la superficie esposta ai raggi del sole e quella opposta più protetta e più chiara. E che dire della resistenza alla spinta del vento, connaturata alla elasticità dei rami ma resa ardua dalla fragilità nelle stagioni in cui la linfa è più esigua? Anche la scienza delle costruzioni ha contratto i suoi debiti con le forme arboree, in modo particolare con la struttura delle radici che affonda nella terra attraverso i vari tipi di fondazione (a platea, a pozzi e barulle, a pali profondi). Ma forse dalle radici c’è qualcosa di ancora più importante da imparare: l’esigenza dell’architettura di radicarsi nel luogo in cui sorge, assorbendone il nu-


trimento che viene dalle materie e dalle forme attraverso la tradizione che non è – come molti pensano – un sinonimo di conservazione, ma, al contrario significa passaggio e trasmissione di mano in mano di valori stratificati e condivisi. Possiamo concludere questa lode passando la parola a Le Corbusier che di San Bernardo è stato nel nostro tempo (attraverso il Convento de La Tourette) un interprete fedele: “Albero, amico dell’uomo... gioco matematicamente misurato dei rami che si accrescono ad ogni primavera di una nuova mano che si apre. Foglie dalle nervature perfettamente ordinate, tetto sopra di noi tra la terra e il cielo...”. Imparare dall’acqua “Disse ancora Dio” –si legge nella Genesi (I,20) - “producano le acque animali vivi, striscianti e volanti sopra la terra, sotto il firmamento celeste”. La vita si è formata nell’acqua e dove non c’è acqua non può esserci vita. La scienza conferma la parola di Dio; eppure l’architettura, che è nata per proteggere e contenere la vita, ha fin dalle origini identificato nell’acqua, nella pioggia, il proprio antagonista. Gli archetipi dell’architettura: la capanna, il tetto, la colonna, la cornice, sono forme derivate dall’esigenza di impedire all’acqua di penetrare nello spazio racchiuso dove la vita ha il suo nucleo protetto. La vita dell’uomo è ritmata ciclicamente dall’alternanza del separare e dell’unire. Per costruirsi una casa, l’uomo sceglie un luogo e lo separa dal resto, come avviene quando nasce un bambino, espulso dal seno della madre per poter vivere la sua vita.. Ma oltre ad essere “separazione” la costruzione di una casa è “riunificazione” perché in qualche modo è creazione di un guscio accogliente, è un ritorno al seno materno e segna quindi una rassicurante reintegrazione. La pioggia e il vento che infuriano all’esterno definiscono, per opposizione, l’interno dove la fiamma, difesa dall’acqua, può continuare ad ardere. Ancora oggi il rumore delle gocce sul vetro delle nostre finestre è un segnale di intimità conquistata e soltanto questa sensazione di sicurezza ci consente di sfidare le intemperie, di osservarne le immagini senza esserne coinvolti e ci dà la misura del bene prezioso che la casa rappresenta per l’uomo. L’acqua, sentita come nemico da arginare, ha plasmato quell’insieme di regole e di forme, di ineguagliabile prestigio, che è l’ordine

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architettonico classico. La stessa nomenclatura dell’ordine rivela questo legame profondo: gli spioventi del tetto, il gocciolatoio della cornice, l’inclinazione e le gocce delle mensole doriche, le gocce dei triglifi, la forma e il ruolo del capitello, sono altrettanti indizi della cura straordinaria prestata alla prefigurazione dei possibili percorsi della pioggia e dei pericoli che questo flusso comporta soprattutto quando l’acqua, trasformandosi in ghiaccio, aumenta di volume e stacca ciò che era unito o, penetrando nella porosità della materia, ne mina la compattezza e la resistenza. L’architettura di stampo classico ha potuto sfidare i millenni in virtù di queste precauzioni e di questa corrispondenza tra la forma delle membrature e il loro ruolo nel sottile lavorio difensivo. Meno attenta a questa corrispondenza, l’architettura gotica ha richiesto, per sopravvivere nel tempo, la continua sostituzione delle parti più esposte degli edifici. L’architettura moderna di tipo razionalista è nata dall’abbandono di queste preoccupazioni, in un clima di sconfinata fiducia nella virtualità della tecnologia e, nello stesso tempo, di rinuncia a considerare la durata nel tempo come un obiettivo essenziale della architettura. Le dispute sulla eliminazione del tetto a spioventi, resa possibile dai nuovi rivestimenti impermeabili, rivela un completo distacco dalla cultura storica che pure era stata una delle grandi conquiste del secolo precedente. Questo tipo di architettura ha pagato a duro prezzo la propria insensibilità e ha reso problematica la conservazione di opere che rappresentano le pietre miliari della modernità. La villa Savoye di Le Corbusier, mai abitata, ridotta in condizioni pietose nel dopoguerra, è stata da allora restaurata tre volte senza che si sia riusciti a sottrarla al progressivo degrado. Per altre opere di grande qualità artistica, le misure di protezione hanno finito per alterare la purezza volumetrica degli edifici. Anche in questo campo l’architettura italiana degli anni Cinquanta aveva speso preziose energie per risolvere il problema della difesa dagli assalti delle intemperie. Ma oggi i nipoti tornano a commettere gli errori dei nonni, ignorando lo sforzo dei padri per emendarli. Se è vero che l’architettura consente il colloquio a distanza tra le generazioni, si prepara purtroppo una tragica interruzione di questo colloquio.

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Imparare dalla ripetizione modulata (La struttura che connette) In “Mente e Natura”, Gregory Bateson si poneva una domanda apparentemente frivola, ma di capitale importanza per chi, nell’osservare la natura, voglia andare aldilà dell’approccio superficiale. “Quale struttura connette il granchio con l’aragosta, l’orchidea con la primula e tutti e quattro con me? E me con voi? E tutti e sei noi con l’ameba da una parte e con lo schizofrenico dall’altra?”. La risposta a questa domanda è considerata, dal grande biologo e antropologo, di capitale importanza per la sopravvivenza di tutta la biosfera, minacciata dalla violenza che la società moderna esercita sulla natura. L’indagine sulla struttura che connette tutte le creature viventi è, nello stesso tempo, di carattere scientifico ed estetico ed ha come cardine l’analogia e l’omologia, intendendo con questo temine l’affinità tra forme, funzioni e processi in cui si manifestano le stesse leggi. Tra l’aragosta, il granchio e la nostra colonna vertebrale, per esempio, esiste una analogia evidente, la ripetizione cioè di elementi simili ma non uguali in una successione che li vede crescere o diminuire in base alla legge del “modulare”, che vuol dire variare regolarmente e armonicamente qualcosa: un termine musicale introdotto nella nostra lingua da Lorenzo de Medici nell’Aridosia e che ha una precisa connotazione musicale, in quanto variazione di toni e di voci. Chiedersi cosa c’è di comune quindi, non solo tra l’aragosta e la primula, ma anche tra il nostro torace e una sinfonia di Mozart educa a cogliere, in ciò che i nostri sensi percepiscono, qualcosa che unisce, una sacra unità, come diceva Goethe in una “elegia” scritta per attrarsi la simpatia delle sue amiche e inserita in seguito nei “Quaderni di Morfologia” del 1822:

Pagine precedenti: 1-4-5 Cave di Prun, colline veronesi 2 Cappella di Alcamo 3-6 Chiesa di Salerno 7 Nido di calabrone 8 Teatro di Catanzaro, la facciata 9 “Botany” sezione di un fiore 10 - 11 Pianta e prospetto del teatro 12 “dictionary” galeone 13 - 14 Teatro di Catanzaro, vedute della facciata Pagine successive: 15 Teatro di Catanzaro, interno 16 “animaux” conchiglia dal basso 17 “marine” 18 - 19 Teatro di Catanzaro, atrio 20 “lutherie” particolare di uno strumento a corde 21 - 22 Teatro di Catanzaro, interni 23 Teatro di Catanzaro, veduta dei palchi 24 “lutherie” violino 25 - 26 - 27 Scala di Treviso, veduta prospettica, assonometria dal basso, pianta

Tutte le forme sono affini, e nessuna Somiglia all’altra: così allude il coro Ad una legge occulta, a un sacro enigma.

Il sacro enigma coincide in larga misura con l’evoluzione intesa come storicità della creazione che tiene insieme in una successione mirabile il mondo della vita e delle sue forme, dai protozoi all’umanità e, aggiungerei, dalla intelligenza umana ai suoi prodotti, che sono anch’essi manifestazioni della

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vita e delle sue leggi. Partendo dalla “struttura che connette”, Bateson fa capire l’importanza di cogliere attraverso la sensibilità estetica il nucleo originario dell’esperienza e finisce per ammettere che la religione è l’unico sistema cognitivo capace di fornire un modello dell’integrazione e della complessità del mondo naturale, poiché complessità e integrazione sono caratteristiche destinate sempre anche ai più meticolosi sforzi di descrizione. Per la cultura architettonica, la chiara percezione della struttura che connette è fondamentale per riconquistare alla disciplina, ormai sottratta alle sue regole o costretta ad obbedire a regole del tutto estranee al suo campo di autonomia, un solido fondamento e un contatto profondo con la vita e le sue esigenze non solo materiali. Nata dalla osservazione dei fenomeni naturali (Vitruvio fa nascere l’architettura insieme al linguaggio, dopo la scoperta del fuoco e del piacere di stare insieme e godere del suo tepore), l’architettura si è sviluppata come un modo di pensare e di produrre basato sulle stesse leggi che governano il creato e le sue continue metamorfosi e, da un rinnovato contatto con il “sacro enigma”, potrebbe oggi recuperare il suo carattere di scoperta corale dalla unità che lega la nostra mente e i suoi prodotti con la mente che pervade i fenomeni della vita. Non mancano sintomi nell’opera di Piano, di Foster, di Calatrava, di Macovecz, di Ambasz, di Zumthor, dei SITE… di una nuova attenzione verso il mondo morfologico degli organismi viventi, anche se questo tipo di interesse si intreccia con sollecitazioni diverse e raramente cerca di connettere questa ricerca con la vita quotidiana e la riforma delle città, costrette a fare i conti con lo spettro della invivibilità. A volte sembra che gli architetti contemporanei si rivolgano alla natura solo per utilizzarne i suggerimenti a livello statico, indagandone la infallibilità nel risolvere in modo economico i problemi “strutturali”; ma forse è più importante chiedere alla natura di aiutarci a riportare nell’ambiente in cui viviamo la segreta armonia estetica del mondo biologico, la sua capacità di comporre equilibri e squilibri, tranquillità e movimento, semplicità e complessità, educando i sensi a ritrovare la profonda unità che tutto sottende. Allora la parola struttura, che l’architettura ha prestato al mondo della scien-

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za, non sarebbe più una parte scindibile dall’opera, ma un richiamo – secondo la definizione di Bateson – alla struttura che connette il granchio con l’aragosta ed entrambi questi animali con la nostra mente, con i nostri occhi e il nostro cuore. Imparare dal legno L’architettura, prima di essere (quando lo è) arte, espressione individuale e specchio (fedele o infedele) di un’epoca determinata, è un aspetto specifico del lavoro umano che riunisce altri aspetti come il lavoro artigianale e industriale. Uno dei pochi pensatori del secolo scorso che ha saputo dire sull’architettura cose profonde e significative, a partire dalle quali è possibile lavorare per restituirle dignità e coralità, è Martin Heidegger. Notissime sono le sue riflessioni sull’abitare contenute negli “Scritti e Discorsi”: ma non vi è libro o raccolta di saggi nel periodo del dopoguerra in cui non si possano trovare preziosi accenni a qualche aspetto del lavoro architettonico inteso come lavoro della mano che “poggia” sul pensiero. Nelle lezioni tenute dal filosofo presso l’Università di Friburgo in Brisgovia nel 1951-52, riunite sotto il titolo “Che cosa significa pensare?”, in uno dei passaggi riassuntivi pronunciati per ricordare agli studenti, dopo lo stacco di una intera settimana, gli argomenti della lezione precedente, esemplificando il senso profondo dell’imparare, si legge una riflessione sull’arte del falegname che merita estrema attenzione. “Un apprendista falegname, ad esempio, qualcuno che impara a costruire armadi e cose del genere, imparando non si esercita soltanto nell’abilità nell’uso degli attrezzi. Non prende confidenza soltanto con quelle forme consuete delle cose che deve costruire. Se vuol diventare un vero falegname, cercherà innanzitutto di corrispondere alle diverse possibilità del legno ed alle forme assopite che racchiude, al legno così come esso penetra, con la segreta pienezza della sua essenza, fin dentro l’abitare dell’uomo. Questo rapporto con il legno regge anche l’intero mestiere del falegname: senza questo rapporto con il legno, esso resterebbe sospeso nella vuota operosità che non consentirebbe altro scopo all’infuori del profitto”. L’attenzione alle “forme assopite” che il legno racchiude, così come il penetrare di questa materia vissuta “nella segreta pienezza della sua essenza dentro l’abitare dell’uomo”, sono gran-

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de pensiero e grande poesia per l’appropriatezza, il suono e l’unità inscindibile che formano insieme le parole, ognuna delle quali è portata al massimo della propria forza espressiva. Ma oltre a questo, esse ci dicono che non è prerogativa dell’arte soltanto portare il fare della mano ad essere rivelazione della verità. Il lavoro della mano poggia sul pensiero e quindi può contribuire a farci pensare in un’epoca che sembra averne perso la capacità. Che cosa sono le “forme assopite del legno” se non le tracce della sua vita, delle sue metamorfosi? Il riconoscerle nelle loro virtualità estetiche e in quelle relative alla sua struttura è l’unico modo per prevenire danni e utilizzare pienamente il carattere del materiale. Certamente Heiddegger pensava alle case della Foresta Nera, ai rivestimenti di pino o di larice che nella punteggiatura dei nodi e delle venature danno al muro la trasparenza di un velo ricamato e la ricchezza di un testo che non ci si stanca di decifrare, e pensava alle grandi botteghe in cui regnava un ordine armonioso dettato dalla previsione dei movimenti e delle operazioni necessarie alla lavorazione. Siamo quindi allo scenario del “non più” che ci conduce però verso un “non ancora”. L’importanza della riflessione ricondotta al problema sollevato nel corso composto di lezioni, sta nel fatto che anche il lavoro della mano può contribuire ad avviare l’uomo verso il superamento di quella condizione particolare della nostra epoca preoccupante che consiste nel fatto “che ancora non pensiamo”. Tralasciamo di coinvolgere il lettore nell’appassionante identificazione di

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“ciò che si sottrae”, di cui basta aver coscienza per essere in marcia verso di esso, diretti verso le enigmatiche vicinanze del suo richiamo” Occorrerebbe ben altro spazio, rispetto a quello di cui disponiamo; ma torniamo alla mano che del legno, attraverso il tatto, sa valutare l’essenza, la consistenza, la tenerezza. “La mano non soltanto afferra e prende, non soltanto prende ed urta, la mano porge e riceve e non soltanto le cose, ma anche porge se stessa e riceve se stessa nell’altra mano, la mano trattiene. La mano regge, la mano traccia dei segni perché probabilmente l’uomo è un segno. Due mani si congiungono quando questo gesto dell’uomo deve condurre alla grande semplicità”. Nessuno ha mai descritto con tanta forza di verità questo gesto di stringersi reciprocamente la mano che, introdotto nella Santa Messa della Nuova Liturgia, le ha donato un profondo respiro corale. Imparare dalla cava Le cave di pietra si possono considerare per certi aspetti opere architettoniche, in quanto presuppongono una disciplina progettuale e sono “costruite” dall’uomo “in negativo”, sottraendo alla terra parte della sua crosta, fino ad ottenere una cavità che corrisponde al materiale estratto e ne è, per così dire, la controforma. Alla loro appartenenza all’architettura si oppone il fatto che la finalità che ne ha guidato la formazione non è stata, come nell’architettura vera e propria, quella di configurare uno spazio ricavandolo dalla costruzione di un volu-

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me, ma tout court quello di procurarsi del materiale indipendentemente dalle qualità dello spazio ricavato. Ai margini della ricerca estetica, le cave hanno esercitato però, fin dall’antichità, un particolare fascino perché in qualche modo partecipano sia della naturalità che della artificialità e spesso in esse, malgrado le intenzioni puramente pratiche e di rapina, si manifesta una armonia di masse e cavità che ha fornito preziosi suggerimenti agli architetti. Gli esempi più famosi in Italia, come le cave di Siracusa e di Matera, sono ammirate come spazi che partecipano insieme del fascino della grotta naturale e di quello della grandi cattedrali, mentre la cava di Tusa, dove ancora si vedono rocchi di colonne e capitelli per metà scavati e per metà ancora appartenenti alla roccia, costituiscono una significativa testimonianza dell’incontro tra due forme di creazione. Nel caso delle cave di Prun, la impressionante qualità “architettonica” deriva dal fatto che la struttura a strati sovrapposti ben marcati della roccia aggredita dai cavatori ha condizionato, come una vera e propria tecnica costruttiva prefissata, il lavoro di scavo, determinando un insieme di regole che danno al risultato spaziale dello scavo una mirabile coerenza morfologica. Prima e fondamentale, delle leggi che hanno governato il dialogo tra i cavatori e la pietra, è stata la modularità: il fatto cioè che lo spessore pochissimo variabile degli strati lapidei idonei agli usi richiesti appare come fattore di regolarità ed elemento di misura in tutta la compagine della roccia tagliata, che assume di per se stessa una forte ana-

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logia con un muro costruito per corsi sovrapposti. La conoscenza profonda dei caratteri della roccia e la familiarità conquistata dai cavatori con le sue strutture regolari è testimoniata dai nomi con cui gli strati venivano definiti in funzione del loro spessore: grondin per lo spessore di cm 4, stelar o lastrina per quello di cm 5-7, lastra per quello da 10, meseta de fondo per quello da 14, mejon per quello da 25, messel da 35. Anche il carattere della superficie, e perfino il grado di difficoltà nel cavarla, poteva influire sul nome, come nel caso della pelosa, della rabiosa, della zentil. Seconda legge, implicita nella prima, ma che incide in profondità sulla struttura statica della cavità, è la tendenza dei soffitti lapidei a trasformarsi nel corso dei decenni, per effetto delle fessurazioni spontanee e dei crolli, in vere e proprie cupole circolari. Il lento processo dei cedimenti, che fora gli strati di pietra in modo progressivo dal basso verso l’alto, dà luogo a una conformazione a tholos, ossia ad una struttura scalinata con forme arrotondate che raccordano il soffitto con i pilastri di sostegno. Questo processo è la conseguenza del sistema di estrazione dall’alto verso il basso per cui, dopo aver preparato una cavità adatta, si facevano staccare le lastre una per una dal blocco soprastante incidendone i margini fino alla loro completa liberazione. Il processo, talvolta, invece di arrestarsi dopo lo sfruttamento di una campata, continuava con il crollo spontaneo di lastre sempre più piccole, perché sostenute ai bordi da quella inferiore. È interessante notare che una forma analoga a quella che caratterizza molti

dei pilastri della cava, nata da considerazioni pratiche per garantire la stabilità e la sicurezza, si trova in un’opera di un architetto particolarmente sensibile all’insegnamento che viene dallo studio della natura e dalle sue leggi. Nella Grandma House di Frank Lloyd Wright, costruita nel 1954 nella Paradise Valley in Arizona per Harold Price, i pilastri a pianta quadrata che sostengono la copertura si espandono a scatti verso l’alto, con un effetto molto simile, anche se la funzione di questi pilastri non è statica, ma spaziale, e il loro aspetto massiccio è poi contrastato dalla leggerezza dei sostegni metallici su cui poggia il soffitto piano. Uno spazio templare assume così, in virtù di questa rievocazione della roccia stratificata e della sua dichiarata funzione ritmica, un valore di leggerezza e di elevazione ma, nello stesso tempo, di fermo ancoraggio alla terra. La terza legge imposta dall’uomo è la scomposizione delle gallerie di prelevamento in campate di ampiezza variabile, ma tipologicamente riferibili a due principali modelli: quello della galleria con nicchie di approfondimento e quello delle due e più gallerie parallele, che configurano un vero e proprio spazio basilicale, reso originalissimo e imprevedibile dalla grande libertà con cui vennero scelti gli allineamenti e definite le forme dei pilastri lasciati pieni per sostenere il soffitto della cava. Quarta legge, derivata dalla seconda, è quella che ha determinato la rastremazione dei pilastri – o colonne – che vanno allargandosi verso l’alto in funzione del prelievo delle lastre per caduta. Non obbedendo a schemi di semplificazione di origine mentale e


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geometrica, si è realizzato così un sistema che l’architettura non ha mai sperimentato, in cui si dispongono in serie, intersecandosi, delle strutture a tholos, ricavandosi le colonne da questa intersezione. Particolarmente interessante è la configurazione che i sostegni, obbedendo o disobbedendo parzialmente alle leggi enumerate, hanno assunto in funzione dei problemi statici via via evidenziati dallo scavo e dalla capacità creativa di risolverli caso per caso. Vediamo così in una casistica inesauribile la colonna inclinata, la colonna storta, la colonna a stivale, quella sinuosa, persino la colonna inginocchiata proposta da Padre Pozzo nel suo trattato di prospettiva che, tenendo conto del luogo di nascita dell’architetto trentino, potrebbe essere stata anche una “citazione dal vero”. L’equazione utile = bello, che tanta parte ha avuto nella mitologia del moderno, si ripropone qui non come qualcosa di automatico e inconsapevole, ma come raggiungimento di una qualità prodotta dalla concordia e dalla continuità nel tempo di un sapere tradizionale che ha le sue origini nelle miniere neolitiche di selce, ed esprime un rapporto “poetico” con la terra fatto di studio, di comprensione delle sue leggi, di ricerca attraverso l’ordine e la disciplina di una nuova alleanza. Imparare dalle conchiglie Da tempi remoti le conchiglie non cessano di interessare gli architetti e di impartire loro preziose lezioni di “organicità”. La scala a chiocciola è l’esempio più concreto e letterale di questo interesse, giacché la trasposizione del nome ha individuato e fissato una intramontabile tipologia; ma la coclea, o vite di Archimede, usata per secoli per tirar su l’acqua facendola girare su se stessa, sta a dimostrare come la forma elicoidale abbia suggerito non solo analogie formali, ma anche processi dinamici per l’arte meccanica, che dal mondo pratico dell’architettura è trasmigrata nel mondo speculativo delle scienze. L’interesse architettonico di questi animali risiede principalmente nel fatto che essi costruiscono, con le secrezioni del proprio corpo, la propria casa e se la portano appresso come noi a volte sogniamo di poter fare; salvo la inevitabile delusione al risveglio. Costruiscono una casa leggera, spesso decorata con motivi ora geometrici ora

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ritmici ora fluenti, servendosi del colore e delle iridescenze come un raffinato artigiano. Dalle loro forme sinuose, aperte, spesso asimmetriche che ricordano la spuma del mare quando si distende sulla battigia, derivano infiniti motivi plastici di tipo seriale che trionfano nello stile rococò. Fin dalla antichità del resto gli architetti, data la facile reperibilità e leggerezza, si sono serviti non solo di conchiglie dipinte ma di conchiglie vere disposte sulle pareti di grotte e ninfei di giardini. Ma aldilà del fascino superficiale, la conchiglia ha anche il potere di raccontarci una “storia” che merita di essere ascoltata. Gregory e Mary Catherine Bateson, nel libro “Dove gli angeli esitano”, chiariscono che genere di storia sia questa: “Quello che vedi qui è il prodotto di milioni di passi, di un numero sconosciuto di modulazioni successive in successive generazioni di genotipo DNA e tutto il resto. E proprio come me e come te anch’essa è frutto di ripetizioni di parti e di ripetizioni di ripetizioni di parti. Prendi la colonna vertebrale dell’uomo, che è anch’essa una cosa molto bella: ti accorgerai che non ci sono due vertebre identiche, ciascuna è una sorta di modulazione della precedente. Questa conchiglia ha una forma che si chiama “spirale destrorsa”, e anche le spirali non sono niente male, perché sono una forma che può essere accresciuta in una direzione senza alterarne le proporzioni fondamentali. Quindi la forma geometrica della conchiglie è tutta impregnata del racconto della sua crescita individuale oltre che della storia della sua evoluzione”. Aldilà della loro bellezza, quindi, le conchiglie hanno la virtù di essere forme che contengono in sé la propria spiegazione, che ci fanno capire attraverso l’osservazione il processo che le ha generate e le ha fatte crescere sempre fedeli a un programma inviolabile. Nella molteplicità delle forme che designano le diverse specie, emerge con forza l’unità profonda che le connette tra loro e con le altre forme biologiche, compresa la nostra colonna vertebrale e la struttura orientata, destrorsa o sinistrorsa, delle nostre mani. Bateson parla, in “Mente e Natura”, del “procronismo” dei molluschi in quanto “registrazione di come, nel proprio passato, hanno risolto in tempi successivi un problema formale di costituzione di una struttura”. I problemi incontrati nel processo di configurazione del guscio resi-

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stente che avvolge e protegge il mollusco sono problemi che si proiettano “naturalmente” nella attività progettuale dell’architetto: formare un guscio, che resista alla pressione dell’acqua, irrigidire il guscio con nervature, chiudere uno spazio al di sotto di una sorta di cupola (come avviene nelle patelle) o racchiudere tra due membrane uno spazio che si irraggia da un punto e si espande a ventaglio (come nella famiglia dei pecten), combinare il movimento ascensionale a quello di rotazione per salire più lentamente avvolgendosi (clamoroso l’esempio borrominiano della lanterna di S. Ivo alla Sapienza). Un limite della conchiglia, intesa come casa, è che essa sembrerebbe destinata ad un solo abitante e costretta ad esaurire con la sua morte la funzione di guscio accogliente. Ma non sempre è così. Esiste un granchio, l’Eupagurus Bernhardus, detto familiarmente Bernardo l’Eremita, che nelle conchiglie vuote adatte alla sua stazza, stabilisce il suo domicilio. E poiché la cosa si ripete da tempo immemorabile, il paguro

ha modificato nel tempo la sagoma della sua coda rendendola spiraliforme in modo da adattarsi perfettamente alla casa ed ha perfino rinunciato al suo duro rivestimento protettivo, adottando un rivestimento morbido e flessibile. Anche in questo caso gli architetti potrebbero far tesoro dell’insegnamento: la casa deve essere in qualche modo costruita sulla personalità, le aspirazioni e i sogni dei suoi abitanti; ma è pur vero che chi vi abita subisce l’influenza del guscio in cui vive e ad esso, entro certi limiti, può adattarsi creativamente. Ma non tutti gli uomini sono, come Bernardo l’Eremita, disponibili a cambiar vita e forma per adattarsi ai gusti degli architetti. Meglio quindi attenersi alla idea della casa fatta per l’uomo e ricorrere il meno possibile all’idea dell’uomo trasformato dalla casa. Imparare dalle stelle “Imparare dalle stelle” potrebbe sembrare un invito esoterico ad allontanarsi dalla nostra terra eppure la “stellarità”, un messaggio di luce che proviene

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da remote lontananze, e partendo da un centro si rivolge in ogni direzione, è divenuto un concetto della geometria e pervade in modo discontinuo il mondo dell’architettura: “Stella – ha scritto Rudolf Schwarz in “Bau vom der Kirche” - è luce che scaturisce originariamente. Tre cose costituiscono la sua struttura: il centro generatore; i raggi luminosi che sono vie dal centro verso tutte le direzioni; il globo luminoso che è la sfera crescente nella quale il centro va ampliandosi. Questi tre elementi insieme costituiscono la forma stellare. Ciascuno è espressione e trasformazione dell’altro e l’uno non è pensabile senza l’altro: la forma è perfettamente unitaria”. La stella è centralità assoluta ma non è, come il cerchio, delimitazione, chiusura, ma sintesi di apertura, irradiazione, percorso, esplosione e, nello steso tempo, richiamo e concentrazione. L’architettura, sebbene permeata alle origini dall’idea di rispecchiare il macrocosmo nella forma del microcosmo costruito, ha scoperto tardi il fascino dello spazio centrifugo e stellare. Se ne può individuare qualche traccia nella architettura adrianea, nel Pantheon, che sublima il modello della Yurta, la capanna dei mongoli con il foro centrale attraverso cui la fiamma e il fuoco ed il fumo trovano sfogo rendendo concreta l’idea dell’axis mundi, ma anche negli spazi dilatati della Piazza d’oro e del cosiddetto “Teatro marittimo” di Villa Adriana. Piante stellari si ritrovano in Europa, dopo l’esperienza dell’interno polilobato di S. Vitale, in molte cappelle preromaniche come quella di Planes nei Pirenei o quella dedicata alla SS. Trinità a Poljud nei presi di Spalato che, il giorno della festa di S. Dalmo, il 7 maggio, viene attraversata dai raggi mattutini del sole attraverso le tre finestre absidali appositamente orientate. Ma è nella architettura islamica, e poi in quella gotica, che gli impianti stellari si moltiplicano. Tipici esempi la cupola della Sala degli Ambasciatori nell’Alhambra di Granada e il Mihrab della Moschea di Cordoba, da dove le stelle riverbereranno in Occidente: dalle cattedrali di Burgos, di Ely, di Saragoza, alla chiesa dei Francescani di Saliburgo e in innumerevoli volte e finestre a rosone, dal Duecento al Cinquecento. Boemia e Moravia continuano a sperimentare la virtualità della forma stellare sia nelle volte che nelle piante degli edifici, fino alla reinterpretazione del tema in quello straordinario architetto gotico e

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barocco che fu Johann Santini Aichel che, dopo diverse esperienze preparatorie, realizza su uno schema stellare il suo capolavoro: il santuario di San Giovanni Nepomuceno presso Zd’ar. Dopo una lunga eclissi, la stella riappare nella Germania, negli anni del primo conflitto mondiale, ed è Bruno Taut che se ne fa alfiere in un appassionante percorso visionario originato dalla inevitabile “Dissoluzione della città” e rivolto verso un mondo nuovo di cui l’architettura è l’angelo annunciatore. “Lasciate crollare le costruite volgarità” – scrive Taut in apertura del suo libro, rappresentando una caotica immagine urbana che tanto somiglia al volto attuale delle nostre periferie - e aggiunge: “Contenuti di vita diversi creano diverse forme di vita”. Mentre disegna case di forma stellare invoca la terra: “Santa terra! Materia e spirito insieme, così come anche l’uomo generato e generante, una cosa sola con la terra, rispetto ad essa una unità, singolarità contrapposta a una grande molteplicità”. Descrivendo “il grande fiore” ne parla, con toni profetici, come di “Un santuario per assorbire l’energia solare con lastre di vetro e lenti e specchi ustori”. La stella, che l’architetto aveva sperimentato nella “Casa del Cielo” e in un edificio scolastico, ispira, nella “Dissoluzione della Città”, la forma del Grande Tempio e della Chiesa. Una macchia nera cosparsa di punti bianchi reca la didascalia: “le stelle della terra, i templi risplendenti, salutano le stelle”. La ragione profonda di questo continuo riferimento alle stelle sta forse nella loro lontananza che contrasta con la loro così netta visibilità. La stella, per Taut, incarna l’utopia e il rifiuto di un mondo degradato. “Utopia? – si chiede – Non è forse il “sicuro reale” l’utopia che nuota nello stagno dell’illusione e della pigra abitudine! Non è forse il contenuto del nostro desiderio il vero presente che poggia sulla roccia della fede e della conoscenza?”. Nel 1922 Otto Bartning raccoglie la provocazione progettando, dopo aver costruito molte chiese tradizionali, la Sternkirche, un edificio mai realizzato ma presente nelle pagine di molte storie dell’architettura moderna, uno spazio che cerca di risolvere il conflitto tra pulpito ed altare, tipico della tipologia del tempio protestante, dividendo lo spazio in due parti, quello dell’ascolto e quello della celebrazione. Commen-

tando il suo progetto, Bartning parla della sua ricerca di “uno spazio unanime” contrapposto ad uno “spazio sezionato” e aggiunge: “L’anima che è sensibile allo spazio vi si irradia in tutte le sue parti fino a riempirlo completamente”. Forse è proprio questo il segreto della stella, forma simbolica simile a quella dell’occhio umano con la pupilla e l’iride raggiante, che guida l’anima verso l’alto.

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Mansilla + Tuñón

Ponte fatto di fiori Francesco Collotti

Montale diffidava dei poeti laureati che si muovono soltanto fra le piante dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti. Si riconosceva invece tra quelli che mettono negli orti, tra gli alberi, dei limoni. Dovremmo cercare sempre nel progetto la messa in opera semplice di pensieri complessi. E la messa in opera di un’idea immediata e semplice è la proposta di Mansilla e Tuñon per la città di Pamplona: un ponte fatto di fiori dove possa svolgersi, tra l’altro, la tradizionale festa della fioritura. Un ponte che cambia topografia e orografia della città. Un ponte tra la città densa e costruita, la città di pietra arrampicata sulla sua acropoli e il parco posto ai piedi della città consolidata. Addizione a ridosso delle mura che gioca sul limite inquieto tra natura e architettura. Addizione urbana irriverente e provocatoria nel punto di fragile confine tra il verde e il costruito, al contempo intrusione/irruzione della natura variamente ricomposta tra le case. Un ponte il cui impalcato di grande prato fiorito si inspessisce a divenire museo de los sanfermines, spazio artificiale sopra, sotto e dentro la natura. Nel ponte è il museo, luogo estremo della rappresentazione dove il passato finge di appartenere al momento presente in cui viene esperito/visitato: el San Fermín virtual. Nella cascata di spazi pubblici che parte a ridosso del bastione antico fino a giungere al parco fuori le mura, un’idea che si istituisce a metafora del movimento e della simultaneità delle azioni possibili: atraversar, conservar, exponer, revivir, illusionar, pasear, descansar, comer, beber, amar…

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Vari gradi di natura artificializzata e non: il parco intorno, il prato sopra, l’acqua sotto. Un pensiero che taglia corto sui luoghi comuni che vogliono il progetto dedicarsi al pieno mentre il vuoto sarebbe quel che resta, spazio di risulta, terra di nessuno vittima delle giravolte modaiole degli arredatori o tappezzieri di turno. Una proposta che dimostra come non necessariamente solo i segni minimali siano il mezzo con cui l’architetto costruisce nella natura e con la natura. Il progetto di Mansilla e Tuñon per la città di Pamplona non è infatti per nulla leggero, anzi costituisce un vero e proprio ampliamento urbano che, osando rischiare, tiene tuttavia sotto controllo un calcolatissimo fuori-scala. Per questa via si aggiunge alla città storica un fatto urbano inatteso. In modo analogo, seppur con tutt’altri presupposti, l’auditorium per la città di Leon, progettato sempre da Mansilla e Tuñon, diviene immediatamente architettura della città. Impianto teatrale doppio composto da due platee contrapposte, separate dal corpo scenico (teatro è vedere e vedersi). L’interno rivestito di legno prezioso, trattato come la cassa di uno strumento musicale, l’esterno quale raffinata composizione di volumi dalla forte identità: un blocco prismatico da cui sporgono le emergenze sceniche e, di traverso rispetto alla pianta principale, un muro in cemento bianco di forte spessore accentuato nel chiaroscuro dagli sguinci profondi. A suo modo una partitura di facciata che gioca con i modi che accomunano la composizione nell’architettura e nella musica.

Progetto: Luis Moreno Mansilla Emilio Tuñón Alvarez 1995



A differenza di analoghi edifici di cui tanto si parla in questi mesi sulla stampa quotidiana qui la funzione è esibita con garbo, senza ostentazione della tecnica, assolvendo ai compiti cui l’edificio è chiamato all’interno, ma non rinunciando a una grande composizione architettonica in grado di conferire identità e carattere ai luoghi. Scorrendo la biografia degli autori si scopre che il concorso per l’Auditorium di León è del 1995 è che oggi l’edificio è già perfettamente in funzione. Ancora, scorrendo le biografie di una ventina di bravi architetti spagnoli i cui lavori sono pubblicati in un recente numero doppio de El croquis si scopre che molti di loro sono nati in media attorno al 1960/62, pochi negli anni Cinquanta, diversi subito prima del 1970. Li accomuna una lunga sequenza di primi premi in concorsi nazionali e internazionali. Eppure non è tanto questo a stupirci, quanto la breve durata che intercorre dall’indizione del concorso fino alla realizzazione e al completamento dell’opera (valga per tutti, sempre di Mansilla e Tuñon, il progetto del Museo di Belle Arti di Castellón - concorso 1997, ultimazione 2000).

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Forse, poi, osservando tutti questi progetti si potrebbe anche con malizia cogliere che tale rapidità nella realizzazione riflette, a monte, anche una precisa stima del loro costo in sede di programmazione da parte della stazione appaltante. Per questi motivi l’iniziale serenità che ci coglie guardando queste opere lascia a poco a poco il passo ad un’inquietudine profonda quando ripensiamo al particulare della nostra realtà. Al contrario di questi felici esempi spagnoli, e quasi a latere di tutto ciò, viene spontaneo osservare con vivissimo disappunto e civile indignazione come in Italia il mestiere dell’architetto sia malato e in buona misura irriformabile (malgrado le periodiche prese di posizione, le lamentationes di un’aurea mediocritas professionalistica, le chiamate alle armi preelettorali, malgrado ancora quei nobilissimi e accorati appelli che ogni tanto consapevoli, eroiche oppure solo “interessate” pubblicazioni lanciano). E proprio dalle pagine di questa rivista che nasce nella scuola viene voglia di sottolineare tutta l’inadeguatezza rispetto all’architettura da parte di numerose amministrazioni locali e di quella che, ormai per pochi casi e ancora per irragio-


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nevole abitudine, ci piacerebbe di poter continuare a chiamare cultura politica. Se questo fosse un paese normale, non dovrebbe far notizia che un ente o un’istituzione bandisca un concorso, né questo per noi raro evento dovrebbe essere pubblicizzato, a seconda del banditore, come moderna cultura d’impresa o grande novità nelle politiche degli enti locali (tra le forme di propaganda o, più garbatamente, di costruzione del consenso il concorso di architettura è relativamente a buon mercato). Tantomeno dovrebbe far notizia che il concorso giunga a buon fine, venga giudicato e dunque si dia corso al progetto esecutivo e poi alla fabbrica. E invece questo è lo stato dell’arte con cui fare, nostro malgrado, i conti. Ciò che a Berlino venti anni fa ha consentito di iniziare a ricostruire una città in base ad un’idea precisa chiamando a raccolta il meglio della cultura architettonica, oppure quella prassi di concorsi che in Francia consente di rendere orgogliosa un’amministrazione locale per la qualità del costruire pubblico, viene qui considerato un fastidio, una lungaggine inutile, un impiccio per la macchina burocratica e un rallentamento degli

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intoccabili proclami di indirizzo assessorili. Fa notizia che Milano da qualche anno abbia un ufficio concorsi ottenuto, sia detto per inciso, grazie soprattutto a un Ordine degli Architetti particolarmente consapevole e insistente. Concorsi di architettura come eccezione… e molti di quelli che si fanno non sono vincolanti per le amministrazioni banditrici, che scelgono poi altro oppure non scelgono affatto. Vi è già chi ha osservato questa straordinaria generosità degli architetti nell’impegno a produrre idee, figure, immagini che, con lo strumento del concorso, vengono donate a una città. Nessun’altra arte liberale interviene a titolo gratuito con tanto dispendio di ingegno, energie e mezzi nel produrre idee per la trasformazione della realtà, per la magnificenza civile dei nostri paesaggi urbani e non (che poi talvolta le idee non siano all’altezza della situazione è altra questione). Eppure questa dovrebbe essere la prassi per avere i progetti migliori. Questo il percorso per far belle le città.


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Geografie, topografie, suolo e realtà Vittorio Pannocchia

“Può darsi ch’io non sia il solo ad amare molto il suolo. Può darsi che tutti l’amiamo, più di quel che si crede, obbedendo a certi profondi legami che neppure sospettiamo con oggetti di questo genere”. J. Dubuffet, Topografie, testurologie.1 Spesso diventiamo consapevoli delle opere compiute dalla natura quasi all’improvviso come se, fino a quel momento, esse non fossero esistite. Tutto quello che era usuale e per noi privo di interesse attira l’attenzione in modo irrefrenabile. Allora, la fantasia viene subito colpita dalla “anonimità” caratteristica delle azioni naturali e dei loro risultati che, almeno nell’immaginario collettivo, sembrava denotarli. Fra tutte, quella ricordata, è senz’altro la prima impressione avuta dalle osservazioni condotte su “oggetti” dati quale è, ad esempio, il suolo. Si badi bene, stiamo discutendo intorno alla sua mancanza di qualità derivata non dai sensi trasmessi dalla parola in sé, così generica, quanto piuttosto dalle occasioni nelle quali riteniamo opportuno farne uso. Nel linguaggio comune il termine suolo rare volte manifesta le proprie peculiarità. Perché ciò accada deve accompagnarsi con parole od aggettivi necessari a sollecitare la formazione di una immagine precisa2 nella mente che poi adoperiamo quando vogliamo indicare “qualcosa d’altro”.3 Volgere il pensiero verso il “solum” significa, innanzi tutto, considerare una superficie con dimensioni indefinite. Forse proprio per questa ragione diviene meno importante analizzare le sue principali caratteristiche, tanto che ci proponiamo di interessarci ad esse

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solo in alcune circostanze ben definite nei tempi e luoghi. D’altra parte tutto ciò si lega a ragioni fondamentali. La conquista della posizione eretta dimostra, ancora oggi, come la specie umana abbia teso ad affrancarsi dal vincolo, dovuto alla postura originaria, di indirizzare lo sguardo verso il basso. Seguendo il proprio istinto l’uomo ha voluto non solo poter veder liberamente verso tutte le direzioni ma anche guardare avanti o, meglio, oltre. Nei ragionamenti comuni, dunque, il suolo acquista valori e denota funzioni simili a quelle proprie ad un piano generico idoneo a sostenere (cose ed esseri animati) anche se nella realtà può essere accidentato. Quando, invece, ci interessiamo alle sue rappresentazioni che, come accade per qualsiasi tipo di descrizione, sono costruite secondo regole dettate dalla necessità di astrarre l’oggetto rappresentato dal reale e rimandare immediatamente la nostra mente al rilievo da esso acquisito per la vita stessa, le analisi da condurre sul suolo devono dare altri risultati. (fig. 1) Le finalità perseguite con gli studi mutano profondamente così le diverse parti componenti e gli elementi fisici come i materiali costitutivi acquistano una particolare importanza. Allora anche le famiglie di segni, impiegate per rendere visibile un suolo attraverso opportuni procedimenti tesi a simbolizzarlo, forniscono un quadro obiettivo. (figg. 2 -3) Le convenzioni stabilite conducono ad ottenere una immagine coerente, in ogni zona, alle qualità che contraddistinguono il suolo rappresentato. Pertanto, l’itinerario mentale, percorso per unire una rappresentazione alla realtà


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dalla quale deriva, non solo si svolge tutto all’interno dell’immaginazione ma segue anche le medesime tappe in successione sia quando i nostri interessi sono diretti allo studio della Geografia4 che a quello più specifico della Topografia.5 Dobbiamo ora, per ragioni di necessità, dire di più intorno alla scienza “che studia e descrive il mondo in cui viviamo”6 ed alla disciplina istituita, invece, secondo l’accezione comune, per “rappresentare col disegno in una mappa con segni convenzionali, colori, linee punteggiate, curve e simili il livello e le accidentalità del terreno”.7 Non cerchiamo conferme sull’attendibilità dei metodi usati, ormai codificati dopo continue sperimentazioni fatte dall’uomo nel corso del tempo,8 né raccogliamo prove per giudicare la veridicità dei risultati raggiunti, quanto piuttosto vogliamo sperimentare di persona le conseguenze della loro vicinanza o, forse, soltanto verificare l’inscindibilità tra due territori della conoscenza. Oltre molte convenzioni ed alcune regole della rappresentazione, ci chiediamo quali fatti essenziali abbiano in comune geografia e topografia se non la necessità di fondarsi sulle finzioni. Sono, senza dubbio, le simulazioni, nate dalle alterazioni delle reali dimensioni di qualsiasi cosa, a rendere possibile la rappresentazione di un luogo su un supporto per lo più piano e di ridotta grandezza. Il fatto in sé non desta meraviglia. Sappiamo, innanzi tutto, come gran parte degli accadimenti quotidiani, che scandiscono la continuità della vita, tragga le proprie origini o, comunque, abbia rapporti immediati con le finzioni.9 Semmai nel periodo contemporaneo, caratterizzato dall’impiego di diversi media, dovremmo ancora riuscire a sorprenderci dei risultati raggiunti in modo così semplice. A tal proposito è necessario fare ulteriori osservazioni. La rapidità con la quale viene messa in essere una finzione, ovvero, l’illusione della realtà creata da una rappresentazione, permette all’uomo di ottenere esiti in grande quantità. Però, diversamente da quanto accadeva in passato, non li raggiungiamo più attraverso una successione ordinata di operazioni pratiche legate alla nostra abilità manuale. Oggi, l’intervallo di tempo utilizzato si accorcia in funzione degli strumenti disponibili. Così, l’uso continuo e diffuso delle macchine, facilita il conseguimento dei fini perseguiti e può fornirci anche alcuni risultati, fino a quel momento, inimmaginabili. Quando si tratta di rap-

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presentazioni della realtà gli effetti ai quali aspiriamo giungere sono, senza dubbio, quelli capaci di far scomparire la differenza tra vero e falso. Anche se, e lo sappiamo, nessuna immagine in base alle sue doti specifiche potrà mai colmare la distanza che la separa dalla realtà per sostituirsi ad essa. Attraverso la visione diretta di immagini artefatte oppure recepite indirettamente dai mezzi comunicativi, ci troviamo a dover esprimere giudizi sulle qualità specifiche di cose diventate nelle raffigurazioni piccolissime, anzi lillipuziane. Diversamente da quanto accade nelle memorie di viaggio scritte dall’immaginario Lemuel Gulliver10 non seguiamo certo, durante il protrarsi di queste operazioni, principi etici.11 Gli atti che sono necessari per rappresentare rispondono ad un particolare requisito e le rappresentazioni da questi derivate hanno un valore speciale. Il primo non deve essere scambiato con l’onestà, mentre il secondo è diverso dalla veridicità, per altro difficile da controllare. Si tratta, piuttosto, della loro comprensione diventata, per noi, semplice in quanto legata al primato conquistato dalle immagini sulle altre forme comunicative almeno in alcuni campi, geografia, topografia ed architettura nei quali sono insostituibili. Le famiglie di segni, proprie a queste discipline devono avere qualità specifiche per rendere “neutrale” una rappresentazione. È, dunque, proficuo costruire immagini secondo regole accettate, tali cioè da permetterci di “considerare qualcosa in un certo modo” (nonostante ciò possa, talvolta, contraddire la realtà) quando vogliamo evocare luoghi o loro parti di diverse dimensioni quali ad esempio catene montuose, colline, il mare un fiume od un lago. In conclusione se intendiamo suggerire agli osservatori l’esistenza inconfutabile di cose reali dobbiamo, per essere compresi, portare alla loro attenzione “immagini neutre”. Nonostante esse comunichino molti fatti, quanto stiamo rammemorando denota il valore acquisito da una circostanza che si ripete frequentemente. I risultati raggiunti incontrano senza dubbio la nostra fiducia tuttavia per interpretare in modo più ampio tutto quello che ci offre una immagine neutra dobbiamo imparare a cogliere segnali sia pur deboli. Solo allora acquistano grande rilievo molte cose prima da noi ignorate perché nascoste all’interno dei segni riportati sulla carta (geografica e topografica). La forza di gravità le assoggetta, le fa aderire al suolo legan-

Pagine precedenti: 1 Territorio Nero, 1990 inchiostro nero su carta cm 103x70 2 Territorio Rosso, 1992 inchiostro rosso su carta cm 106,5x72,5 3 Territorio Rosso scuro, 1992 inchiostro rosso su carta cm 107x72,5 4 Territorio di Cotto, 1995 sanguigna e inchiostro nero su carta cm 50x70 Pagine successive: 5 Aperture, 1982 matite colorate su cartoncino cm 100x35 (singolo elemento) cm 101x107 (assieme) (foto Enzo Crestini, Edmondo Lisi)


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dole così agli eventi, spesso indecifrabili, dai quali vengono coinvolte. Diciamo cose per indicare, con il termine più generico della lingua italiana, tutto quello che compone e, nel medesimo tempo, dà forma al mondo esteriore. L’impiego di questa parola però non segnala la nostra rinuncia a dare descrizioni puntuali di ciascuna di esse, anzi l’opposto. Intendiamo comportarci come l’esploratore12 posto di fronte all’indecifrabile. Egli osserva con cura anche il più piccolo dettaglio della “sua” scoperta per riuscire prima a comprenderne la natura e poi descrivere ad altri le qualità ad essa proprie. Solo quando abbiamo simili reazioni, nei confronti del mondo, tutto quello da cui siamo circondati diventa per noi inaspettato. Decidiamo cioè di imparare a “vedere con occhi nuovi” guidati dalla nostra libera volontà di capire che, attraverso i sensi, avvia procedimenti percettivi tesi a svelare tutto, anche quello da noi ritenuto familiare. Se compiamo queste operazioni mentali la carta topografica esprime di più o, meglio, anche altro, essa stessa appare nuova. (fig. 4) Durante le esplorazioni sono inutili i consueti strumenti adoperati per rintracciare le differenti posizioni realmente occupate. È senz’altro superfluo consultare la bussola quando tutti gli elementi, componenti la scena, favoriscono l’orientamento dell’osservatore. Per gli spostamenti fatti con il pensiero, attraverso le rappresentazioni, ci vengono poste le medesime condizioni esistenziali di un viaggiatore senza bussola disposto, in ogni attimo della sua ricerca, a farsi sorprendere dalle cose incontrate. L’uomo, lo sappiamo, riesce ad orientarsi nei luoghi anche per le esperienze dirette avute del suo intorno. Nella mente realtà (suoli) e simulazioni (topografie) sembrano unirsi come accade in molte carte dei secoli passati che integrano mappe e vedute prospettiche su un medesimo supporto ben definito. Potremo, dunque, dire in quale situazione spaziale ci troviamo durante ogni attimo. La nostra immaginazione guiderà le parole necessarie per descriverne i contenuti. Essi saranno analoghi a quelli riportati. Inizieremo così: “Là fuori oltre questa fessura c’è la natura. L’architettura, artefatto per eccellenza generato dalle idee, la delimita”. La narrazione continuerà in modo inarrestabile “due alte pareti con superfici indefinite, ritagliano ed isolano una stretta ma profondissima porzione che, forse, si espande all’infi-

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nito oltre l’ultimo orizzonte. (fig. 5) Ignoriamo se sia possibile affacciarsi, quasi protenderci oltre l’apertura, oppure iniziare, partendo da questo interno, a percorrere ipotetici itinerari per saggiare nelle successive tappe la graduale e differenziata consistenza propria alla solida terra, al soffice prato od al cielo gassoso. Lo sappiamo oltre i limiti imposti dal piano del foglio vi sono moltissime cose, fatti, accadimenti e talvolta eventi che possono seguire l’uno all’altro in sequenze infinite”.

1 “Dove vanno i nostri sguardi in quell’immensa parte del nostro tempo in cui non li controlliamo?” È questa domanda posta dall’artista, a sé stesso ed ai lettori, che muove le considerazioni qui riportate. J. Dubuffet. Topografie, testurologie. Les Lettres Nouvelles. N. 8 (22 Aprile 1959) riportato in R. Barilli (a cura di) J. Dubuffet, I valori selvaggi. Prospectus ed altri scritti, Milano 1971, p. 165. 2 Ad esempio suolo accidentato ed altri, mentre suolo pubblico o privato indica il tipo di uso fatto dai singoli o dall’intera comunità. Sono comuni le espressioni innalzarsi dal suolo, cadere o stramazzare al suolo, nelle quali il termine è riferito ad una o più azioni. 3 Ricordiamo, tra tutte, il fertile suolo per indicare il terreno o la terra in sé, il natio suolo che rimanda il pensiero all’idea di patria. 4 Descrizione della terra. 5 “La Topografia ha per soggetto la rappresentazione di parti non molto estese della superficie terrestre ed allo scopo studia i metodi che servono ad individuare limitate superfici del terreno ed a rappresentarle sopra un piano”. P. Monti, Lezioni di topografia svolte nel R. Istituto tecnico Pier Crescenza, Vol. I, Bologna 1916, p. 4. Altri autori, considerano diversamente le funzioni della topografia intesa sì come scienza ma indirizzata a rappresentare i luoghi. 6 Lo Zingarelli 2001. Vocabolario della lingua italiana di Nicola Zingarelli. Bologna 2001 p. 774. 7 La descrizione si estende ricordando anche “…La giacitura delle valli, la direzione e l’altezza delle montagne, il corso e la lunghezza dei fiumi, dei laghi, delle strade ecc.” Per gli argomenti trattati, al momento, interessa solo la parte riportata op. cit. p. 1898. 8 Ad iniziare dall’opera di Tolomeo, ultimo grande geografo della classicità, che operò “la sintesi grafica delle conoscenze acquistate nel periodo in cui l’ecumene nota agli antichi raggiunse i più estesi confini”. Così L. Pagani nella Presentazione a Claudii Ptolemaei. Cosmographia. Tavole della Geografia di Tolomeo, Forlì 1990, p.III. 9 Se per fingere intendiamo “rappresentare con la mente” allora possiamo dire finzioni di tempi, di spazi, di luoghi o, meglio, come accade per molti media indicare con questo termine la negazione del reale che porta ogni cosa fuori da tutto quello che è misurabile. 10 Travels into several remote nations of the world, opera di Jonathan Swift pubblicata a Londra nel 1726. 11 Nella finzione letteraria, il medico di bordo nella flotta britannica per i sensi e valori (comunicati da tutto ciò che vedeva) arrovesciati nei confronti di quelli acquisiti durante la vita in patria, gradatamente fu costretto a giudicare l’umanità per quello che effettivamente era. 12 “L’esploratore è un essere assolutamente illogico. Non conosce mai il momento in cui sta per fare una qualche scoperta straordinaria. E la logica è un termine privo di significato se lo si applica all’esploratore”. M. Mc Luhan in AA.VV. Pour ou contre Mc Luhan, Parigi 1969, p. 15 citato nella post fazione di F. Iannucci al volume M. ed E. Mc Luhan. La legge dei media. La nuova scienza, Roma 1994, p. 308-309.


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Topografie fiorentine Grazia Gobbi Sica

Quocumque ingredimur, in aliquam historiam pedem ponimus Cicerone La rappresentazione della città mediante la carta topografica rispecchia, oltre che la cultura e l’organizzazione spaziale della società in cui è prodotta, anche le finalità che ispirano la sua produzione ed è quindi uno strumento che si configura diversamente a seconda degli scopi cui è destinata. La selezione di esempi che qui si propone esamina differenti criteri di espressione che la carta documenta e visualizza nell’ambito di una rappresentazione tendente a restituire i valori di identità della realtà urbana. In altri termini, se l’interesse a trasferire la realtà urbana in un codice di segni per meglio intenderla e rapportarla alla rappresentazione dell’architettura che della forma urbana è l’elemento costitutivo è alla base della ricognizione che qui si va conducendo, la ricognizione stessa esclude tutti quei prodotti riconducibili a un tipo di informazione quantitativo/statistica, che sovrimpongono allo spazio figurale della realtà urbana una interpretazione che ne esclude gli elementi di congruenza con le espressioni dell’architettura. Nel processo di progressiva astrazione del linguaggio cartografico che accompagna l’evolversi e la moltiplicazione dei fenomeni rappresentati, il quadro di informazioni fornito non appare più dunque referente dell’identità urbana, ma si configura piuttosto come quella “disumanizzazione dell’immagine in cui lo sguardo dell’uomo non riconosce ormai più nulla di ciò che gli è familiare”.1 “Di un territorio si fa una mappa per conoscerlo e quindi per trasformarlo ma

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prima di trasformarlo bisogna conoscerlo e questa conoscenza passa attraverso la sua rappresentazione” Se quanto affermava André Corboz 2 in un suo saggio di alcuni anni fa è vero, è altrettanto vero che tale affermazione è estensibile alla città. Anzi, in misura ancora maggiore l’affermazione vale per la città rispetto al territorio, proprio per il fatto che la città e la sua idea di “costruzione fisica” e in definitiva di “architettura” è sempre stata presente in forme più o meno latenti nella cultura urbana dell’Occidente cristiano, anche se si manifesta compiutamente solo a partire dal secolo XV a livello di figurazione, di intenzionale ricerca iconografico/cartografica, volta sì a registrare obiettive situazioni in atto, ma anche, a partire da queste, ricettiva di tensioni verso un assetto ideale dell’ambiente urbano, o infine, ma solo più tardi, predisposta a un “progetto”. È evidente che accostarsi al tema ricchissimo e vario della topografia urbana implicherebbe una serie di considerazioni preliminari che includono sia i criteri di espressione che i criteri di selezione degli oggetti che la carta evidenzia o tace, sulla base di un filtro che è dato dalla destinazione e dagli obiettivi che la carta stessa si propone, avendo presente che tali criteri sono altresì condizionati dalla scala di rappresentazione. D’altra parte i processi conoscitivi della realtà ambientale di cui la carta è il più immediato referente si sono ampliati in misura tale che per trasmetterli il linguaggio della carta ha dovuto evolversi da figurazioni realistiche a forme ideogrammatiche e a segni simbolici, segnando un progressivo distacco sia sul piano della possibilità di percezione


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1 Pisa e Pavia nel “Supplementum Chronicarum” di fra’ Jacopo Foresti 1490, xilografia 2 “Florentia” nella “Geografia” di Tolomeo, 1469, miniatura su pergamena di Pietro del Massaio 3 Pianta di Roma di Herman, Paul e Jean Limbourg per le “Très Riches Heures du Duc de Berry” 1416, miniatura su pergamena

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da parte di un utente non specializzato che su quello della espressività. Della iconografia urbana medievale basterà evidenziare - sulla base di una serie nutrita di studi, da Jung a Lavedan - il disinteresse alla registrazione esatta e analitica dei fatti urbani, e la riduzione dell’immagine a poche famiglie di tipologie ricorrenti, nelle quali la sintesi figurativa è ottenuta di volta in volta, secondo la funzione specifica dell’immagine agiografica, celebrativa, didascalica, devozionale - con procedimenti di forte astrazione simbolica, con accostamenti del tutto irrispettosi dell’unità di tempo e di luogo, attraverso l’impiego di analogie e di topoi mitico-fantastici. “L’immagine della città si fonda su valori essenzialmente astratti e simbolici; raro è l’interesse per una riproduzione dell’ambiente in senso realistico - come osserva Pa-

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olo Sica - Nel Liber Chronicarum di Hartmann Schedel del XV secolo lo stesso disegno serve a indicare Troia, Pisa, Tolosa e Ravenna”.3 Il riferimento alla concezione medievale della città come speculum terreno della città di Dio influenza e rafforza il permanere, al di là di ogni realtà specifica da rappresentare, dell’immagine della Gerusalemme celeste, sorella di Roma, centro della cristianità. Da ciò la grande quantità di figurazioni urbane con elementari e schematiche parti identificabili di città entro gli schemi circolari o geometrici assunti dalla cinta muraria, spesso scandita da torri o porte regolarmente dislocate secundum coelum e in numero canonico. Basti per tutte la celebre figurazione di Roma nella miniatura dei fratelli Limbourg per il libro d’ore del Duca di Berry.

Quello che comunque emerge con grande forza è l’idea della città come manufatto, come costruzione fisica, sia nella figura chiusa e definita della civitas rappresentata come entità microcosmica perfetta e mirabile, sia come concentrazione di oggetti e paesaggi monumentali, talvolta affastellati l’uno sull’altro quasi in una visione telescopica e dominati gerarchicamente dalla cattedrale, talvolta profusi più o meno liberamente entro il perimetro urbano senz’altro ordine che quello data dalla identificazione di “luoghi” significanti. In questa linea, attraverso la concettualizzazione simbolica che mostra tuttavia un avvicinamento verso l’identificazione di una specifica realtà urbana, si inserisce la figurazione di Firenze tratta da un codice vaticano miniato di Piero del Massaio. La Firenze del codice è basata


su un principio analogo alla Roma dei Limburg, anche se in quella è presente una strutturazione dell’organismo urbano più precisa, una volontà di identificazione che si spinge a raffigurare in modo più realistico gli elementi rappresentati. La Florentia di Pietro del Massaio presenta una chiara articolazione delle emergenze - non solo le chiese, tra cui spicca la cattedrale, ma anche i palazzi, le logge, i mercati, gli ospizi - precisate nella loro identità anche mediante scritte. Se il metodo è ancora quello che seleziona gli elementi più noti e riconoscibili, tendenti a fissare più l’idea di città che la città stessa, coi monumenti isolati e sospesi nel vuoto, in questo caso la topografia della città (come rappresentazione appunto di un topos specifico), come restituzione di identità urbana, è referente di “un modo - secondo Lucio

Gambi - di prendere coscienza della città nella sua storia e anche negli elementi funzionali caratterizzanti”.4 L’abbandono della chiave paradigmatico/simbolica non è tuttavia ancora un fatto generalmente compiuto neppure all’inizio del secolo XVI quando già progressi eccezionali sono stati realizzati nella ricerca della rappresentazione dello spazio e nella elaborazione di un codice specifico per la progettazione architettonica. E in ogni caso, il passaggio avviene verso la diffusione della visione prospettico/assonometrica piuttosto che verso strumenti più astratti ma certo anche dotati di maggior rigore metrico. Non è un caso che proprio Firenze che ha dato l’avvio alla “riscoperta della forma” nel campo delle arti figurative abbia la prima rappresentazione realistica, non più ideografica, nella quale la visione

simbolica è completamente superata e la città è analizzata nella sua complessità di fatto costruito. Non è un caso che la prima raffigurazione urbana a stampa, la cosiddetta “Veduta della Catena” (1470 ca.), venga prodotta nell’ambiente stesso in cui sono maturate le esperienze di Masaccio e Brunelleschi, secondo un’articolazione fondata su un’orditura razionale e geometrica che regola, oltre alla situazione particolare, l’intera città e il territorio. Qui per la prima volta la città è considerata e rappresentata nella sua effettiva materialità, con l’intero tessuto abitato, per la prima volta il territorio extraurbano è reso in maniera omogenea al tessuto interno. Nella Veduta della Catena la città forma un quadro prospettico equilibrato, impostato su un baricentro ideale (la Cupola) più che su un punto di fuga, dove le mura costituisco-

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Pagine precedenti: 4 “Fiorenza” nella veduta berlinese detta “della Catena”, 1470 ca, xilografia 5-6 “Nova pulcherrima civitatis Florentiae topographia accuratissime delineata” di don Stefano Bonsignori, 1584, incisione su rame. (particolari) 7 “Pianta geometrica della città di Firenze” di Federigo Fantozzi 1843. ( particolare) 8 Firenze e il territorio: il piano Poggi nella prima versione 1864 Pagine successive: 9 Carta comunale 1911 I.G.M. foglio 16 settore del centro storico 10 Carta comunale 1911 I.G.M. foglio 10 Montughi e il Pellegrino 11 Foglio XLVI impianto del nuovo catasto del Comune di Firenze 1939 ca.: il quartiere di Piazza Leopoldo 12 - 13 “Veduta panoramica di Firenze” di Luigi Zumkeller 1934-36

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no la prima cornice, la natura lo spazio di contorno e che il disegno limita, anche con qualche artificio grafico, nel perimetro ideale della cornice. Ma se la Veduta della Catena rappresenta un prodotto di quel vedutismo che evolverà successivamente verso le elaborazioni analitiche dei Fiamminghi, si può parlare di vera e propria cartografia urbana, assegnando a questo termine il significato univoco, immanente alla definizione stessa di rappresentazione sottoposta alle leggi del rilievo e della trascrizione geometrica misurata, nel caso della pianta prospettica di Firenze di don Stefano Buonsignori, (1584) vera e propria carta geometrica costruita a partire da una rigorosa misurazione degli spazi, per mezzo di una tecnica - l’assonometria corretta prospetticamente negli alzati - che consente di rappresentare il limite degli isolati senza occultare il tracciato stradale, e rende in tal modo visibile ogni parte della città nelle stesse condizioni. Non pochi elementi legano queste nuove tecniche rappresentative alle precedenti; in primo luogo la scelta di un punto di vista privilegiato, che può anche ribaltare, in rapporto alla valorizzazione ideologica di un nuovo sito, la direttrice canonica acquisita, ma che conserva il principio di una visione figurale e quasi antropomorfica della struttura urbana. Nella carta del Buonsignori l’immagine complessiva della città è colta con immediatezza nel suo assetto generale con un risalto quasi didascalico alla stratificazione storica del tessuto (il nucleo romano, altomedievale, medievale; il sistema delle lottizzazioni, più minute al centro, più ampie in periferia; l’impianto viario effetto degli interventi medicei). Non sempre, va detto, la topografia a volo d’uccello tocca i valori informativi e

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rappresentativi della carta del Buonsignori, o di quella veneziana di Jacopo de Barbari, come risulta dall’esame dei prodotti di quella maniera che va codificandosi nel corso del XVII secolo nella elaborazione di Atlanti divulgativi, destinati a un più vasto pubblico di amatori (dalle Civitates Orbis Terrarum di Braun-Hogenberg fino alle settecentesche raccolte del Mortier). Produzioni spesso derivate anziché da operazioni di rilevamento ex-novo, dalla rielaborazione di rami precedenti. D’altra parte va osservato anche che, al di là dei valori espressivi e figurali, la proiezione mediante la carta dei dati conoscitivi non è mai totale poiché - come afferma Lucio Gambi - “essa li seleziona col filtro di griglie funzionali alla sua specifica destinazione. Così come i metodi della visualizzazione non sono uniformi: ma anch’essi condizionati dagli scopi che ispirano il suo allestimento, e logicamente pure dalle evoluzioni delle modalità tecniche con cui si compie la rilevazione degli oggetti”5 In definitiva possiamo affermare che la veduta prospettica, offrendo una rappresentazione armonica compiuta della città risponde adeguatamente alle esigenze autocelebrative del potere politico signorile, nel quadro di una sostan-

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ziale immobilità della crescita urbana. La terza fase di evoluzione, con le topografie misurate e leggibili con riferimento scalare, si afferma, intersecata alla fase precedente, a partire dal XVII secolo, con significative anticipazioni quali la pianta di Imola rilevata da Leonardo nel 1502 e quella di Roma del Bufalini del 1560 o, alla fine del secolo quella di Parma di Smeraldo Smeraldi che raffigura l’intera città in vista di interventi urbanistici. La planimetria zenitale infatti risponde al rigore dell’accertamento metrico che prelude al progetto. Ed è proprio al fatto che solo a partire dai primi decenni del Settecento si pone in Europa una “questione urbana”, l’esigenza cioè di una profonda riforma dell’organizzazione materiale e funzionale della città, e la convinzione che a questo programma si deva rispondere con strumenti razionali e incisivi, che si deve il perfezionarsi e diffondersi della tecnica di rappresentazione zenitale della città. Come per il manufatto architettonico la lettura planimetrica è riduzione della ricchezza espressiva dell’oggetto attraverso il codice proprio della pianta, così nella carta topografica zenitale l’organismocittà perde il suo risalto tridimensionale per essere ridotto a due sole coordinate

complanari orizzontali. Si tratta, anche in questo caso, di una rivoluzione nel modo di concepire l’immagine urbana, in funzione di una utenza specializzata e di obiettivi diversi, fondamentalmente più “strumentali” che “rappresentativi”, come quelle che si impongono con forza alla cultura illuminista e alle nuove esigenze organizzative degli stati nazionali. La planimetria zenitale nasce dall’esigenza di trasferire in una trascrizione scientifica misurabile e confrontabile i dati relativi alla consistenza fisica della città rilevati in una sezione orizzontale a livello del suolo: estensione concettuale questa, ritardata, di quell’astrazione linguistica che già dal XV secolo consente di rappresentare l’architettura per spaccati convenzionali - mai effettivamente presenti come tali all’osservazione visiva e sensoriale - quasi in una lettura anatomica dell’oggetto. Le motivazioni che promuovono il nuovo bisogno di conoscenza sono di molteplice natura: in primo luogo esigenze di pianificazione: la cartografia si pone come strumento conoscitivo di base per ogni azione di ampliamento e trasformazione della città. La planimetria urbana è sempre più parte integrante della vita urbana, recependo in anticipo e visualizzando ogni decisione


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urbanistico/amministrativa; in secondo luogo le esigenze fiscali dal momento in cui la ricchezza immobiliare diviene oggetto di riflessione scientifica; i catasti urbani sono lo strumento di una contabilità delle risorse pubbliche e private della municipalità; quindi l’accertamento dell’esazione pubblica della rendita necessita di un supporto cartografico che fissa con estrema precisione le categorie specifiche quali la superficie dei manufatti e dei lotti non edificati, la configurazione della proprietà, talvolta, più raramente, le tipologie edilizie. Le conseguenze di questo nuovo atteggiamento sui modi del disegno cartografico si traducono in un progressivo processo di astrazione che elimina i dettagli figurativi e sostituisce l’immagine sensibile con un segno uniforme, irrigidendo il linguaggio cartografico nella convenzionalità di un codice. Tuttavia nel rigore della restituzione zenitale, la realtà che ne deriva si carica di significati e interpretazioni diverse a seconda del codice con cui si esprime e degli elementi che seleziona. Il carattere non neutrale della pianta e il suo ruolo interpretativo si precisano attraverso questo processo di astrazione sia pure arbitrario del linguaggio. La “natura logica” della pianta fa emergere una “realtà car-

tografica” che non è passiva registrazione della realtà urbana. Così nella pianta di Roma di Giambattista Nolli, del 1748, fondamentale caposaldo della tecnica planimetrica, le qualità figurali della forma urbana emergono nell’opposizione tra l’uniformità del tessuto edilizio e i grandi contenitori pubblici scavati all’interno della loro struttura muraria e così assimilati e posti in continuità con gli spazi collettivi esterni. “Il Nolli non si limita a indicare gli isolati e le vie né radiografa la totalità della consistenza edilizia né fa vedere la ripartizione particellare, ma rappresenta strade, piazze, chiese, teatri giardini, cortili di palazzi e accessi anche coperti a questi luoghi come un unico sistema di spazi pubblici; il resto non è che una superficie uniformemente tratteggiata. Questo vuol dire tra l’altro che la pianta del Nolli è già una interpretazione della città perché - ancorché esatta - ne privilegia certe componenti”.6 La ricchezza “figurativa” della pianta del Nolli si appoggia a un rilievo quasi impeccabile, sul quale si innesta una grafia ricchissima in grado di esprimere le infinite variazioni di un tessuto urbano e suburbano sempre mutevole, profondamente lavorato. La capacità di rendere la struttura morfologica del tessuto si accompagna alla mi-

rabile restituzione dei vuoti - verde pubblico e privato, tessitura di giardini e orti fino alle alberature maggiori. Di quasi cento anni più tarda, la pianta geometrica di Firenze di Federigo Fantozzi (1843) “l’ultimo e il più suggestivo documento topografico prima della crescita e delle trasformazioni”7 nella scala 1:4500 rappresenta il punto più alto della cartografia storica della città, in cui si equilibrano il rigore geometrico e la capacità figurativa complessiva. La bella pianta in quattro fogli è racchiusa in una cornice circolare che segna un margine allusivamente paragonabile al quattrocentesco limite offerto dalla catena di contorno alla veduta prospettica omonima. La Firenze del Fantozzi, a partire dall’elaborazione tematica di un impianto planimetrico di tipo catastale che individua nell’edificato le ripartizioni particellari, fa emergere i temi monumentali dell’impianto stesso sulla base di una trascrizione molto dettagliata degli elementi tipologici offrendo, al pari della Roma del Nolli, una capillare lettura del rapporto fra vuoti e pieni, attraverso modalità rappresentative che consentono la visualizzazione di una continuità spaziale nella connessione stabilita fra i grandi contenitori pubblici

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e i vuoti delle strade e delle piazze. Nella versione del 1866 la carta del Fantozzi riveduta dall’ing. Fisch si arricchisce della dimensione diacronica, introducendo nello stesso spazio la realtà urbana e il progetto della sua trasformazione - in questo caso il piano di ampliamento per la nuova capitale del regno - antecedente la sua realizzazione. Esempi di diacronia nella figurazione urbana sono del resto già stati introdotti in epoca napoleonica ed è la carta di Milano del Pinchetti (1801) che fornisce uno dei più pregnanti esempi inserendo nel disegno reale un progetto mai intrapreso. Un singolare prodotto che nell’assoluta rigorosità della restituzione zenitale traduce con precisione di dettaglio l’articolazione urbana anche nelle sue determinazioni orografiche, è la pianta della città in 30 fogli in scala 1:2500 eseguito dall’Istituto Geografico Militare nel 1911 che doveva fornire la base cartografica per l’elaborazione del nuovo piano regolatore interrotto per motivi bellici. Alla definizione planimetrica degli isolati e all’articolazione in lotti che si appoggia alla parcellizzazione catastale, la carta unisce la rappresentazione delle infrastrutture, e dell’orografia a curve di livello secondo le modalità tradizionali della cartografia militare, la figurazione delle aree libere, definite nella suddivisione degli appezzamenti e nell’orditura delle colture arboree e del disegno dei giardini formali. Su questa linea operativa, al massimo dell’astrazione convenzionale si unirà progressivamente in seguito una perdita di qualità nel potenziale espressivo della carta che tende ad una sempre più accentuata ri-

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duzione dei valori figurali o a quella “disumanizzazione dell’immagine” che secondo il Farinelli connota la produzione cartografica tecnicamente più evoluta. Soluzione planimetrica e soluzione prospettica convivono affiancate e devono la scelta dell’una o dell’altra alla diversa funzionalità della rappresentazione. Ecco dunque che per esprimere valori estetici e spaziali di una descrizione cartografica che si proponga di raffigurare una determinata realtà nei suoi valori di organismo concluso la veduta a volo d’uccello viene ripresa anche in tempi relativamente recenti come nella singolarissima veduta panoramica di Firenze prodotta nel 1936 dall’architetto Luigi Zumkeller. Lo straordinario disegno a china, conservato oggi al Museo Topografico Firenze com’era, traduce con realistica forza e certosina precisione la perdita della forma urbana della città dilagata al di là dei suoi confini in una accerchiante espansione che si va configurando come la “colmata” della piana.

1 Franco Farinelli, La cartografia della campagna nel Novecento, in Storia d’Italia, Atlante, Einaudi Torino 1976 pp. 626-636. Franco Farinelli, I segni del mondo: immagine cartografica e discorso geografico in età moderna, La Nuova Italia, Firenze 1992 2 André Corboz, Il territorio come palinsesto in Casabella 516, 1985, p. 25 2 Paolo Sica, L’immagine della città da Sparta a Las Vegas, Laterza, Bari 1970 (1991) p.98. 3 Lucio Gambi, Creatività della cartografia in Parametro 103, 1982 p.8. 4 Lucio Gambi, ivi. 5 André Corboz, Vedute riformatrici in Capricci veneziani del Settecento, Umberto Allemandi, Milano 1988, p.54. 6 Edoardo Detti, Firenze scomparsa, Vallecchi, Firenze 1970, p. 26.


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La costruzione del paesaggio, Giuseppe Poggi a Firenze Elisabetta Maria Agostini

1-2 Panorama del viale dei colli, Giacomo Brogi, Firenze 1870. Stampe 19x25 cm su supporto di cartoncino panna. ACGV Fondo Poggi 3 Giuseppe Poggi, Pianta indicativa e ingrandimento di Firenze, 1865. Stampa 40x56 cm su supporto di cartoncino panna 42x57 cm. ACGV Fondo Poggi

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Il paesaggio quale materia plasmata ed interrogata dall’uomo come espressione della perfezione divina, condensato in quel connubio equilibrato di natura ed artificio che il Rinascimento aveva espresso e strutturato in uno dei suoi momenti più alti, e ancora colto sul finire del XIX secolo dai viaggiatori che a Firenze indagavano le misure di questo rapporto, rappresenta il sostrato noetico con cui si tenta la lettura dell’opera poggiana. L’intuizione del paesaggio, intesa come filo conduttore dell’opera costruita dal Poggi avvalora il suo scritto, l’opera costruita appunto, del peso attribuito negli atti della composizione architettonica alla dimensione del territorio conosciuto, sintetizzato in quella attitudine descritta da Lorenzo Gori Montanelli come la prevalenza dei “valori tattili e di una linearità tagliente” quale carattere dominante determinato dal complesso di emozioni suscitate dall’ambiente toscano1. Quel carattere, assaporato dal giovane Rilke in apertura del Florenzer Tagebuch, dove la dimora è assimilata al paesaggio in virtù del significato di raccolta “internità” che quest’ultimo possiede2, quando osserva l’ampiezza del diorama reale e costruito “appeso” dinanzi alla sua terrazza di lungarno Serristori, sua dimora temporanea, attraversa il lavoro di Giuseppe Poggi a Firenze. L’attenzione per la struttura del territorio accompagna le prime ricognizioni dell’architetto in viaggio nella Maremma toscana, quando trascrive appunti sopra ogni genere di dettaglio architettonico contenuto nella struttura del paesaggio, sia esso naturale che costruito dalla mano dell’uomo. Una miscellanea manoscritta del 1837 raccoglie l’inserto in cui accanto ai lavori di bonifica che inte-

ressano lo sguardo attento dell’architetto, trovano spazio gli aspetti del paesaggio e soprattutto i rapporti visivi instaurati tra le strutturate emergenze che lo compongono. Del Monte Argentario viene afferrato il panorama che si offre dalla vetta, “una veduta di mare la più sorprendente (…)” dove “il Giglio sembra a pochi passi dalle falde del Monte”, nonché della Coltivazione Regia dove “i muri a secco fanno le veci delle arginature di piste” sul colle che “ha quasi la forma di un cono”3. Dalla dimensione ampia ed incommensurabile della veduta di mare l’osservazione passa agli elementi dettati dalla scrittura della misura dell’uomo nel paesaggio, fino a compendiare la riduzione della natura stessa alle forme geometriche commensurabili. Natura-artificio “Conformazione di corpo antico a funzione di vita moderna, innesto di bellezza nuova” sintetizza Isidoro del Lungo nel 1911 i lavori del Poggi per Firenze Capitale, “su quella (bellezza) che le passate generazioni si erano tramandata per secoli”4, a sottolineare la capacità dell’opera poggiana di con-crescere con il corpo urbano fiorentino iscrivendosi, senza soluzione di continuità, nell’ambito di quella dimensione condivisa dall’opera toscana tramandata nel tempo. Il piazzale Michelangelo, l’opera poggiana tra le più controverse per quell’impostazione “inutilmente grandiosa” conferita allo spazio del piazzale stesso, inserito come parte integrante dei lavori di ingrandimento della città di Firenze, sembra teso all’esaltazione del carattere del paesaggio presente all’osservazione del suo autore. La sommità del podere rinvenuto sulla base di piante catastali,


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occupato da una “discreta superficie leggermente inclinata”5, suddivisa in più campi coltivati, contempla, nella lettera indirizzata all’amico Giuseppe Barellai, delle presenza legate all’uso di quei poderi da parte dei frati di San Firenze subito tradotte, nell’ambito della dichiarata intenzionalità progettuale, in “anormalità locali” che occludono e frammentano l’osservazione della città. Il Poggi acquista maggior consapevolezza che in luogo delle presenze descritte, attraverso una sorprendente opera di regolarizzazione, dovesse sorgere il grande Piazzale Michelangelo, visuale unica e sorprendente sulla città e sui colli antistanti. La lettera nella quale la visuale, così come è già presente alla mente dell’architetto, viene minuziosamente descritta, chiarisce il significato dell’operazione condotta: “(…) si sarebbero godute, attesa la sua giusta distanza ed elevatezza dal piano della città, le parti più elevate ed imponenti dei grandi monumenti che sopr’essa si innalzano e, volendo, si sarebbe potuto analizzarli, così nelle linee generali, come nei loro particolari”. Una sorta di misurazione, di “geometria” della città nel territorio, avrebbe introdotto la corretta posizione altimetrica del piazzale Michelangelo all’interno della città, così da consentire l’analisi particolareggiata e la comprensione tanto della sua struttura territoriale quanto dei suoi monumenti. Dove l’eccezionale dimensione del piazzale priva l’opera poggiana di quella consueta misura distintiva, emerge il valore attribuito alla necessità di calibrare il progetto all’interno della sua scala territoriale, tutta racchiusa nella veduta semplice ed eloquente che traspare dalla lettera informale indirizzata ad un amico, in cui

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indiscutibile sembra la necessità di ponderare i pesi della composizione attraverso una adeguata misura conferita al progetto, contenuta nella visione prefigurata dalla mente del suo autore e tracciata nella grande sezione trasversale del piazzale con la loggia. Una volta smarrita la sintassi con la morfologia del sito, che vede tagliare la sommità della collina e svanire la serrata continuità stabilita dalla sequenza di inquadrature offerta dal viale dei Colli, il panorama subentra quale unica matrice concettuale e progettuale. La misura del progetto è allora tutta condensata nella sua posizione altimetrica - “[…] attesa la sua giusta distanza ed elevatezza dal piano della città” - con la relazione stabilita con il corpo più alto della città e con i monumenti verso i quali si tenta un avvicinamento finalizzato allo studio dei loro particolari, e alla conoscenza della conformazione urbana nel paesaggio quale estensione comprensiva. Il progetto del piazzale trova una corretta sintesi nella reiterazione di un piano artificiale, traslato verso l’alto della giusta misura rispetto a quello naturale della città del fiume, e di una “naturalità” della struttura e della forma territoriale, da cui poter osservare quest’ultima. “Un fiume che attraversi una città le dà un più facile orientamento e sviluppo” si legge in alcune pagine dedicate alla “Logica della città monumentale” e ancora: “L’Arno, di fronte alla cerchia delle colline […] dov’è apparire come il suo diametro”6. Nella parte bassa della città il sistema delle Rampe di San Nicolò dovrà riallacciare la grande apertura del piazzale Michelangelo al tessuto urbano, traducen-

do parte del versante collinare in un sapiente angolo di città poggiana. La giustapposizione delle due fabbriche a corredo dell’asse del borgo antico proveniente dalla città, speculari alle altre due, e la rispondenza con la torre medievale, di cui le Rampe ripercorrono la giacitura, introducono la misura della piazza nella città accompagnando la graduale mutazione, come lenta progressione, dal tutto artificiale dello spazio costruito al tutto naturale della collina soprastante. La piazza delle Mulina, quale punto di aggancio del tessuto urbano alla collina, si sottrae all’accento monumentale delle altre piazze realizzate lungo il viale circondario a vantaggio della rilettura di un antico rapporto dello spazio urbano fiorentino con il suo corso d’acqua. Lo spazio della piazza, che nel progetto risultava simmetrica lungo l’asse normale alla porta urbana, oppone al lato che vede la mole della torre con lo sfondo delle rampe, sorta di inusuale profonda facciata, il fondale aperto della città storica. Risulta possibile leggere in questo ambito quella ammirazione del Poggi per l’opera brunelleschiana nell’osservarne la “potenza architettonica”7, quella stessa che lo aveva portato a voler rivolgere la facciata della chiesa di Santo Spirito verso l’Arno, “per modo che chi viene a Firenze di riviera di Genova, la vedano in faccia passando per la via”8. Se per il “Brunelleschi Mago” narrato da Giovanni Michelucci il volto autentico della città doveva offrirsi al visitatore attraverso una delle sue facciate urbane, il Poggi sembra rinvenire un valore analogo nell’innesto di elementi di progetto in grado di perpetrare e rendere manifesto il carattere della città consolidata. Così la Piazza delle Mulina, odierna Piazza Poggi, si ap-


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propria del fondale della città storica come quinta di progetto a completare lo spazio della piazza, passando attraverso la definizione di una facciata costruita come tessuto di “natura naturata”. “La cupola costruisce un paesaggio senza confini e la sua forma non è costretta nel suo perimetro fisico ma si compone e si scompone nel paesaggio, nelle colline, fra i tetti delle città, nei chiaroscuri profondi delle strade, dei solchi tracciati dalla vita intensa della piccola-grande città […]”9 scrive Giovanni Michelucci della cupola brunelleschiana, focalizzando l’introduzione di un tema nel progetto della cupola, di una possibilità, che non tenta mediazioni con i percorsi, gli assi e le prospettive esistenti, ma la vera e propria costruzione di una architettura il cui campo di risonanza diviene il paesaggio stesso. Nell’inventare (invenio) il tema del panorama attraverso la reiterazione di un tema noto, il parterre panoramico, Poggi sembra adottare un metodo analogo a quello brunelleschiano nell’innesto di un possibile accordo, di una disarmonia indotta dalla misura inusuale, quasi azzardata, del progetto, da un “fuoriscala” dettato dalla ricerca di una monumentalità scritta nella grandiosità dello spazio introdotto, e di una sensibilità classica in grado di conferire una tale ampiezza di superficie al piazzale da generare una soluzione di continuità con la ricca sequenza spaziale delle Rampe e del Viale dei Colli. Così definito il manufatto del piazzale assume quasi valore di astrazione, di operazione concettuale prima ancora che fatto costruttivo, divenendo elemento determinante di una natura artificiale nella ri-scrittura di un principio d’ordine che affianca, ed indissolubil-

mente lega, l’artificio architettonico al dato naturale. Il sistema dialettico che vede il rapporto ponderato tra elemento di natura ed artificio come fatto della costruzione in cui i due elementi della composizione si affiancano con analogo peso e valore, compiutamente espresso dalla sensibilità classica, diviene l’intenzione con cui Poggi definisce la “misura” (classica) del piazzale Michelangelo. Durante il suo “Viaggio in Italia” Goethe, dopo aver osservato l’acquedotto di Spoleto “che nel tempo stesso è ponte fra una montagna e l’altra”, definisce l’arte architettonica degli antichi come una seconda natura “che opera conforme agli usi e agli scopi civili”10, ad espressione di un ordine generato dalla mano dell’uomo affine, per assolutezza e rigore, all’ordine naturale. Un numero del Bollettino Tecnico del 1966 riporta un inserto dal titolo “Una considerazione di Giuseppe Poggi” in cui si legge che “[…] L’architettura considerata in tutta la sua estensione, è l’arte più difficile a impararsi ed a bene esercitarsi, essendo quella che meno delle altre arti può apprendere dalla natura, quella che più delle altre ha bisogno del soccorso della scienza e della storia, di precetti e di regole”11. Se brevi risultano le annotazioni del Poggi riconducibili ad una riflessione sul paesaggio, quanto l’opera costruita è in grado di narrare, accanto alle tracce presenti nei manoscritti, nelle lettere, nei libri della sua biblioteca e nel corpus fotografico collezionato nel lungo corso della sua esistenza, consente di aggiungere dei tasselli all’immagine di un architetto che sulla base del rigore scientifico degli assunti fatti propri attraversa con consapevolezza di intenti il fascino della cultura di cui è densa la materia della

4 Torre di San Nicolò con il progetto delle Rampe di Giuseppe Poggi, Giacomo Brogi, Firenze, 1871. Stampa 28x38 cm su supporto di cartoncino panna, a destra in basso a lapis “per album”, grafia di Giuseppe Poggi. ACGV Fondo Poggi 5 Nuova scala di accesso alla torre San Nicolò (non compita), Giacomo Brogi, Firenze 1870, stampa 28x38 cm su supporto di cartoncino panna, a destra in basso nota a lapis “prova prima di essere finita”, grafia di Giuseppe Poggi. ACGV Fondo Poggi 6 Piazzale Michelangelo con Loggia, Giacomo Brogi, Firenze, 1873. Stampa 28x38 cm su supporto di cartoncino panna. ACGV Fondo Poggi

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sua osservazione, il paesaggio. Le bellissime vedute con cui si ritagliano brani di città come inquadrature di paesaggio, sono significative del rapporto mai smarrito nell’opera poggiana, anche quando questa si configura come un fatto territoriale a vasta scala, con la trama singolare della struttura osservata. Il parterre che da Piazza Beccaria guarda verso le colline per distinguere, in lontananza, le strutturate emergenze che compongono la trama fiorentina, rappresenta una sorta di strumento ottico, un cannocchiale in forma di vuoto urbano graduato dalla materia verde, e puntato sull’osservazione di una porzione di paesaggio. Con analogo intento vengono calibrate le altre vedute, quella di piazza della Libertà verso il parterre ed i primi sproni dell’Appennino, e quella che dalla Piazza Vittorio Emanuele guarda verso lo sfumare delle linee del parco delle Cascine nel suo stesso confluire, con assonanza di linee e colori, nel paesaggio circostante raccolto ed individuato dai monti. Il Milizia nei “Principi di Architettura Civile” indica l’architettura come un’arte di imitazione assimilandola, sotto questo aspetto, alla pittura, alla scultura ed alla


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musica, ed aggiunge: “Altro divario fra loro non passa, se non che alcune di queste Arti hanno dinanzi il modello naturale e non hanno che aprir gli occhi. L’architettura non ha tal modello. All’architettura manca in verità il modello formato dalla Natura; ma ne ha un altro formato dagli uomini” 12. Il significato di quell’architettura che per Francesco Milizia attinge i propri modelli dai suoi sedimenti storici senza imitare la natura, ma semplicemente affiancandosi ad essa con analogo peso e legittimità, nutre i contenuti delle opere che a scala urbana si iscrivono nell’ambito della ricerca di una appropriatezza dell’opera dell’uomo affiancata all’opera di Natura. L’identità toscana Le varie ragioni che ordinano il costruire dell’uomo, pratiche quando incidono sulla fisicità del prender corpo di un’opera e di altra natura quando regolano “il modo e l’apparenza di questa fisicità, cioè la forma”, si nutrono di quelle immagini che l’uomo ha nutrito dentro di sé, cosicché “egli formula la sua opera servendosi di quel linguaggio che si viene a trovare”13. Se indubbia è la risonanza nei progetti poggiani condotti a scala

urbana delle esperienze compiute nelle Capitali oltralpe, dall’opera costruita affiora l’eredità di quei valori formali trascritti da sempre nell’opera toscana, confluiti nel lavoro di un architetto chiamato, sul finire del XIX secolo, a riscrivere il volto della solida cristallizzazione urbana fiorentina. L’epigrafe con cui nel centenario della nascita Giovanni Rosadi commemorerà amorevolmente l’amico Giuseppe Poggi in Palazzo Vecchio oggi si legge una volta giunti al Piazzale Michelangelo, una volta stabilito con la città ed il paesaggio fiorentini quel contatto che aveva mosso la volontà del suo autore alla realizzazione di un’opera tanto importante quanto controversa. L’architetto toscano cui si affida il compito della trascrizione della Firenze ottocentesca nella Capitale del giovane Regno d’Italia, lavora dapprima su episodi progettuali di minore entità per la committenza aristocratica fiorentina, in interventi che, nella maggior parte dei casi, si configurano come ristrutturazioni ed ampliamenti di preesistenze. Tra i primi, nel 1839, la Villa Archinto alle Forbici, “la mia prima commissione architettonica”, sulle pendici di San Domenico di Fiesole, realizzata per il conte

7 Il piazzale Michelangelo e le rampe di piazza San Nicolò ripresi dal campanile di Santa Croce alla fine del XIX secolo, Archivio Fratelli Alinari 8 Giuseppe Poggi, Pianta di piazza delle Mulina con le rampe, incisione a colori inserita nella relazione “Sui lavori per l’ingrandimento di Firenze 1864-1877”, Firenze, 1882 9 G. Poggi, Prospetto del terzo ripiano delle rampe, ASF piante Poggi 10 Rampe di San Nicolò, Giacomo Brogi, Firenze 1872. Stampa 29x37 cm su supporto di cartoncino panna 49x64 cm. ACGV Fondo Poggi

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Giuseppe Archinto come ristrutturazione di un fabbricato esistente. Nei Ricordi si legge: “[…] presi cognizione dello stato dei luoghi, e trovai, quanto alla villa, che, mentre riusciva impossibile all’architetto, a cui era stato ingiunto di conservare il perimetro, il formare una villa grandiosa, era però il suo potere il renderla comoda e ridente col profittare dell’area del cortile interno e porre in evidenza l’amenità della posizione”14. Il tema progettuale concrezionato nell’introduzione della terrazza panoramica, eloquente e misurata, che circonderà la villa a livello del piano nobile lungo il lato che guarda Firenze, e che Poggi, sempre nei Ricordi, indica come “requisito essenzialissimo, specialmente in una posizione come quella che, per ogni lato, presenta un panorama dei più incantevoli”, viene appoggiata su alcune logge affacciate sul giardino sottostante ed affiancata da una scalinata, parallela al corpo della villa, che collegherà le due parti della terrazza e delle logge sottostanti fino a riallacciare nella composizione la quota del giardino. Il Poggi non riduce il suo intervento all’introduzione di una terrazza panoramica, ma interviene modellando sapientemente lo spazio esterno secondo una ricca sequenza di inquadrature in corrispondenza ad una articolata variazione altimetrica e planimetrica dei piani, volta a radicare il volume puro della fabbrica alle pendici collinari ma soprattutto ad enfatizzare il tema della veduta. Il parco, con il serpeggiante viale di accesso a sud della villa, creerà un efficace contrasto con le linee severe ed asciutte del corpo di fabbrica, trascrivendo quell’antico rapporto dialettico artificio-natura già presente nel paesaggio toscano, e

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già introdotto nella sovrapposizione dei muri e dei terrazzamenti al modellato del terreno. Inserito all’interno del parco e del paesaggio circostante presente aldilà della ringhiera che contorna a sud-est la grande terrazza belvedere, l’algido e severo volume del corpo di fabbrica esistente, in cui il modus operandi toscano è presente nella “struttura astratta e purista progettata, in virtù della sua conformazione geometrica e della sua luminosità, […] e della sua levigatezza esteriore”15, si addolcisce del dialogo con il paesaggio, alla ricerca di un rapporto interlocutorio con quest’ultimo, divenuto presenza essenziale nella definizione dello spazio della dimora. Nel disegno di studio del viale di accesso alla villa Archinto si evidenzia il progetto dello spazio esterno nella orchestrazione dei piani della terrazza, ma soprattutto nell’attenzione rivolta alla definizione del parco e del suo viale, quest’ultimo concepito dal Poggi come sequenza continua di inquadrature su parte sempre diversa del giardino, come elemento costante di variazione della veduta sul paesaggio, in un crescendo continuo fino al raggiungimento del culmine della composizione nella veduta elargita dalla terrazza panoramica. L’osservazione della villa e del suo intorno rimanda a quella misura spaziale che nel paesaggio toscano lega l’opera architettonica alla totalità del fuori da sé, quello stesso carattere che nella loggia, nella terrazza belvedere, nello spazio del cortile aperto sul paesaggio, fa confluire una visione allargata dall’opera stessa al paesaggio, nel prolungamento e nella continuazione dello spazio dell’opera stessa, in modo analogo alla dosatura delle membrature architettoniche che


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Leon Battista Alberti fa corrispondere nella facciata di Palazzo Rucellai alla partitura delle linee e del carattere della via in cui quest’ultimo si sarebbe inserito, secondo un gusto pittorico e senza aggetti che interrompessero la continuità di quel paesaggio urbano. Lo stesso carattere avvertito dal giovane Rilke quando il contatto stabilito con il paesaggio ampio e raccolto della valle fiorentina, osservato dalla terrazza della Pension Benoit, lo porta a definirla “la stanza all’esterno” in cui poter ricevere un ospite di riguardo, e in cui lo spazio della dimora, la terrazza di pietra, connotata come una stanza appunto, ci consente la rilettura di quel carattere di partecipazione dell’architettura fiorentina, il suo essere parte, volendo ripetere un’immagine borchardtiana, di quell’“adorno anfiteatro montuoso”, un esterno che possiede il significato pregnante di raccolta “internità” toscana. Nella chiara articolazione altimetrica dello spazio esterno, nelle linee severe del corpo di fabbrica, nelle sottili balaustre di ferro che accompagnano la formulazione misurata dello spazio esterno, la villa Archinto alle Forbici lascia intravedere una forte identità ed una silenziosa assonanza con il panorama dell’architettura toscana già presente sulle colline, ed una chiara anticipazione di quei temi che verranno reiterati a scala urbana. La successione spaziale delle terrazze, su cui la villa dovrebbe semplicemente essere appoggiata, stabilisce una sequenza di relazioni con il paesaggio circostante, graduando, con l’introduzione di un ricco registro dimensionale nella distensione dei vari piani nello spazio aperto, il passaggio dalla misura di un interno a quella di un esterno, il pae-

saggio presente. Si stabilisce allora una sorta di progressione verso il tema del panorama, della veduta attuata in corrispondenza ad una variazione di percorsi, di piani, di inquadramenti, vicini e lontani, la stessa che dal percorso delle rampe di San Nicolò accompagna il passaggio dalla misura della piazza allo spazio onnicomprensivo e totalizzante del piazzale Michelangelo. La misura spaziale sperimentata e messa a punto nei progetti di villa informa i progetti per Firenze Capitale: l’episodio delle rampe di San Nicolò, la parte funzionale al collegamento breve della città con il piazzale Michelangelo, adotta la stessa precisazione spaziale nella individuazione di una sequenza, di una progressione misurata da uno spazio urbano alla grande apertura soprastante, lo spazio del paesaggio. L’intervento delle rampe denota in modo velato ma eloquente, aldilà della sua caratterizzazione linguistica, una forte aderenza a quel tema toscano del terrazzamento, dei muri eretti a sostegno delle scarpate, elementi da sempre scritti per necessità nella morfologia del paesaggio toscano. Progettate anche a sostegno del versante collinare, oltre che come collegamento breve al piazzale, le Rampe, nella solida impostazione simmetrica ad abbracciare idealmente il corpo dell’antica torre di San Nicolò, preservata ed inserita quale perno compositivo e fulcro ottico dell’impianto, sono strutturate in modo analogo a quel paesaggio creato dall’uomo nel terrazzare i declivi collinari e nell’alterare le superfici con coltivazioni ordinate da lui, in una operazione di appropriazione di parte del paesaggio e di trascrizione in esso della propria misura.

11 L’ingresso delle Cascine a Firenze nel progetto dell‘architetto G. Poggi, prospettiva a matita e acquerello, AMFC 12 G. Poggi, Il viale di villa Archinto alle Forbici, disegno di studio a matita e acquerello su cartoncino con variante del tracciato del viale principale a china rossa e indicazione delle sezioni, FDSR Fondo Poggi

Indice delle abbreviazioni: ACGV - Archivio contemporaneo A. Bonsanti del Gabinetto G. P. Vieusseux di Firenze, Fondo Giuseppe Poggi FDSR - Fondo dei disegni poggiani in affidamento presso la Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici per le provincie di Firenze, Prato e Pistoia AMFC – Archivio del Museo “Firenze com’era” ASF – Archivio di Stato di Firenze

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13 Nuova scala di accesso alla torre San Nicolò, fotomontaggio di Giacomo Brogi, Firenze, 1870. ACGV Fondo Poggi 14 Il disegno della nuova scala di accesso alla Torre San Nicolò con il prospetto della medesima e la sezione della vasca antistante riportato in G. Poggi “Sui lavori per l’ingrandimento di Firenze 1864-1877”, Firenze, 1882, fig. 21

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La tecnica fotografica nella costruzione del paesaggio Il fondo archivistico proveniente dallo studio di Giuseppe Poggi raccoglie un corpus fotografico molto vasto, eterogeneo per quanto concerne i soggetti, ma interessante per ciò che più da vicino riguarda il ruolo giocato dallo strumento fotografico nel lavoro dell’architetto. La ricchezza dei contenuti, se da un lato rende piuttosto difficile ricostruire la personalità e le scelte di chi ha raccolto e commissionato il materiale fotografico, consente di indagare l’adozione, negli ultimi anni della sua attività, dello strumento della fotografia nella messa a punto del progetto. La ricca fototeca poggiana, oggi custodita presso l’Archivio Contemporaneo A. Bonsanti, denota che più che trattarsi di una collezione di immagini attinte dal repertorio classico e rinascimentale legate allo studio quale possibile fonte di ispirazione, sembra essere stata affiancata al disegno di architettura come strumento ausiliario a quest’ultimo. Uno scatto commissionato a Giacomo Brogi, “Nuova scala di accesso (non compita)”, lascia supporre che l’immagine, realizzata in modo tale da conservare l’ortogonalità delle linee verticali, sia adottata in sostituzione, o in aggiunta, del disegno del prospetto di architettura, necessario al Poggi per conferire la giusta proporzio-

ne alla scala di accesso e alla fontana inserite nel progetto16. Lo stesso scatto, utilizzato in un secondo momento per ritagliare il paesaggio urbano presente sullo sfondo ed inserire in primo piano il progetto della fontana con le statue, avvalendosi della tecnica del fotomontaggio, riconosce alla fotografia il ruolo di strumento di progetto, che, in questo caso, simile ad un prospetto (in realtà esiste un punto di fuga centrale perché fosse possibile avvertire il riflesso della torre nello specchio d’acqua sottostante) prefiguri la realizzazione dell’opera. Escludere lo sfondo nella chiara volontà di astrarre l’immagine della torre equivale alla messa in atto di un processo di avvicinamento della stessa al disegno di architettura: il progetto viene isolato per poter proporzionare, con maggiore esattezza, gli elementi della composizione, la torre, la scala di accesso e la fontana. La fotografia, per il solo fatto di trarre origine da una inquadratura, ritaglia un brano della realtà, crea una cornice ed inserisce un ordine. Con analogo intento Poggi commissiona ai Fratelli Alinari una serie di scatti aventi per soggetto le antiche porte della cerchia difensiva, per poterne studiare da vicino e “dal vero” i dettagli; queste vengono ritratte in tutta la loro altezza conservando il parallelismo del piano di ripresa con quello reale. Poggi si avvale di


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questi scatti come di veri e propri prospetti di architettura su cui poter riportare delle misure, sovrapponendo una scala quotata, ed indagare le proporzioni dell’opera, nello svolgimento di un percorso finalizzato alla conoscenza approfondita dei rapporti di misura. Accanto al valore documentario della fototeca poggiana emerge con chiarezza il valore progettuale che il Poggi affida alla tecnica fotografica quale strumento di visualizzazione e prefigurazione di una realtà immaginata. Quel dato sperimentale che accompagna da vicino i fenomeni nascenti viene colto in particolare per quei progetti in cui si rivelerà di fondamentale ausilio la possibilità di proiettarne, come fosse realtà, la visione, soprattutto quando questi sono condotti a vasta scala e presentano una maggiore difficoltà di controllo attraverso il disegno. Così le Rampe vengono ritratte dai Fratelli Alinari dal Campanile di Santa Croce quando ancora non sono terminate, così come la torre di San Nicolò viene ripresa con il cantiere in corso, lasciando aperta la possibilità che la fotografia diventi uno strumento di lavoro in corso d’opera, assunto, anche attraverso la manipolazione del fotomontaggio, con valore analogo al disegno di cantiere. Dall’esame della ricca fototeca poggiana pervenuta riaffiora quella predisposizione per l’osservazione del paesag-

gio in cui senza dubbio è confluita l’attenzione per la trascrizione minuziosa delle proprie impressioni, già evidenziata negli appunti di viaggio coincidenti con l’avvio dell’attività professionale, ed ora avvalorata dall’alto grado di oggettività che la tecnica fotografica possiede. Laddove la realizzazione del progetto è in grado di sintetizzare la proiezione visiva dell’intera struttura urbana colta nella propria tessitura di linee e colori come in un fotogramma senza cornice, lo strumento attraverso cui l’autore intende forgiare i propri progetti, quindi le proprie proiezioni, sembra essere, nelle ultime battute della sua attività, a buon diritto quello della tecnica fotografica, dove quella sensibilità al dialogo antico-nuovo nel calibrare l’innesto del progetto all’interno del corpo urbano, e quella attenzione al rapporto dialettico artificio-natura trovano traccia nell’esercizio di una estetica della percezione, che, attraverso l’immagine fotografica, prefigura con precisione l’esito del progetto e ne soppesa, con spiccata esigenza d’esattezza, l’introduzione nel paesaggio.

1 Cfr Gori Montanelli L., Introduzione. Appunti sull’intuizione ambientale in Architettura e paesaggio nella pittura toscana, Firenze, 1959. A proposito dell’attitudine del toscano a recepire e riprodurre il carattere scritto nel paesaggio circostante si legge: “E quando

poi questi (i valori tattili) si sono figurativamente fissati, allora essi hanno assunto l’ineluttabilità di una lingua, alla quale è naturale attenersi per comunicare, dato che in essa è stata ricevuta ogni comunicazione”. 2 Cfr Rilke R. M., Florenzer tagebuch (Diario fiorentino), Milano, 1998. 3 Poggi G., Brevi parole sopra il viaggio in Maremma. Aprile 1837 in Miscellanea manoscritta ossia appunti presi sopra diversi autori, in diverse ispezioni, (anni diversi), Archivio contemporaneo A. Bonsanti del Gabinetto G. P. Vieusseux di Firenze, Fondo G. Poggi. 4 Cfr Poggi G., Ricordi della vita e documenti d’arte per cura dei nipoti, con prefazione di Isidoro del Lungo, Firenze, 1909. 5 Poggi G., Come avvenne che trovai la posizione del piazzale Michelangelo, lettera indirizzata a Giuseppe Barellai trascritta in G. Poggi, Ricordi …, cit. 6 Cfr Barfucci E., Logica della città monumentale in Giornate fiorentine, la città, la collina, i pellegrini stranieri, Firenze, 1958. 7 Giuseppe Poggi scrive: “Se nell’arte da me […] esercitata avessi sognando (dico sognando) potuto fare un voto, avrei invocato la Provvidenza di possedere la potenza architettonica del Brunellesco, a preferenza di quella di Michelangiolo”. G. Poggi, Ricordi …, cit. 8 Cfr Michelucci G., Brunelleschi Mago, a cura di Mario Toscano, Sesto Fiorentino, 1990. 9 ibidem. 10 Cfr Goethe J. W., Viaggio in Italia, Milano, 1999. 11 Bollettino tecnico, 5-6 anno XXXI, maggio-giugno, Firenze, 1966, p. 4. 12 Milizia F., Principi di architettura civile a cura del prof Giovanni Antolini, Milano, 1832, copia appartenente alla biblioteca di Giuseppe Poggi, attualmente conservata presso l’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento di Firenze, Fondo G. Poggi. 13 Cfr Gori Montanelli L., Architettura e paesaggio …, cit. 14 Poggi G., Ricordi …, cit., p. 79. 15 Cfr Ackerman J. S., La villa, Torino, 1992. 16 La stampa 28x38 cm su supporto di cartoncino panna, riporta a destra in basso una nota a lapis del Poggi in cui si legge “prova prima di essere finita”. La fotografia è attualmente custodita presso l’Archivio contemporaneo A. Bonsanti del Gabinetto G. P. Vieusseux di Firenze, Fondo G. Poggi, coll. P/G P.3.120.

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Firenze: ricostruire le identità Intervista a Gianni Biagi assessore all’urbanistica del Comune di Firenze. A cura di Fabrizio Rossi Prodi

FRP - La tecnica è certamente una delle nostre ossessioni. La tecnica tende ad imporsi come super-pensiero nella sua autonomia e a costituire strumento di regolazione dei rapporti fra gli uomini e dei rapporti con le cose. I più attenti fra gli architetti ricorrono al termine di “appropriatezza” della tecnica rispetto al progetto, insomma tendono a ricondurre la tecnica sotto la sanzione della ragione e ad asservirla a dei contenuti, a dei valori. Insomma sembra proprio che sia in atto uno scontro eroico e forse tragico fra i valori (e dunque i principi, gli obiettivi e i significati) e la tecnica. In fondo anche l’urbanistica per decenni è rimasta imprigionata dentro una tecnica, con risultati assai deludenti, quantomeno in Italia. L’assessore all’urbanistica di Firenze, è anche un architetto e un urbanista, quindi raccoglie in se molteplici, preziose competenze, ma anche maggiori responsabilità. Per questo gli chiediamo come cambia l’urbanistica nell’affrontare il ridisegno di una città storicizzata come Firenze e quale orientamento le assegna chi ha un compito di indirizzo politico e dunque è ancora più sensibile ai principi, ai valori e ai fini? GB - L’urbanistica è lo strumento tecnico che tende a raccogliere gli indirizzi politici, i valori. Il valore fondamentale su cui lavorare è quello di costruire una città che sia più vicina, più sentita e vissuta dagli abitanti come propria. Il problema della città contemporanea è che spesso è estranea alla vita quotidiana. Una città storica, direi storica piuttosto che storicizzata come Firenze, ha anche un problema in più ovvero il bisogno di non diventare un parco di diver-

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timenti. Quindi uno degli obiettivi è riscoprire le diverse città e le diverse entità urbane che compongono la città di Firenze. I fiorentini si riconoscono nella grande Firenze e anche nella Toscana, ma poi sono cittadini di zone precise della città come Rifredi, Rovezzano e via dicendo. L’urbanistica, attraverso la tecnica, deve riscoprire e nel caso far resuscitare l’identità delle diverse parti della città. Un altro aspetto fondamentale è costruire gli strumenti tecnici per conoscere e governare processi complessi come la vita e la trasformazione della città e quindi avere a disposizione, attraverso le procedure informatizzate, la conoscenza in tempo reale dei processi di trasformazione per orientarli e nel caso correggerli. FRP - Proprio il discorso sulla tecnica ci riconduce al problema dei fini, all’idea di città. Siamo convinti che debba esistere un rapporto fra l’idea di città e il progetto di architettura o il progetto urbano, proprio perché il progetto è una scrittura logica di formulazioni teoriche in parole e figure di pietra e dunque discende dal ragionamento complessivo sulla forma, sui problemi e sui fini della città. Ha senso oggi parlare di idea di città, o di una serie di idee di città, che vadano oltre la banale rappresentazione della negatività metropolitana? GB - Credo che esistano diverse idee di città a seconda dei modi in cui i cittadini la usano e la vivono. Non si tratta di ritornare a un concetto di progetto urbano, forma urbis che pure ha fatto scuola nel passato della cultura urbanistica, ma di interpretare la città per rendere minori le possibilità di con-


flitto che emergono nell’uso diverso che i diversi utenti fanno della città. Per esempio il lavoratore e l’abitante del centro storico hanno esigenze e idee diverse della città che derivano dall’uso che ne fanno. Non esiste quindi un’idea unica di città anche se chi governa ha necessità di rendere il più possibile convergenti gli interessi per ridurre la conflittualità sociale. FRP - La città vive di un sottile rapporto con il paesaggio, fatto di limiti, di vedute, di inclusioni che è diventato addirittura un cliché culturale, proprio come continua ripetizione di elementi razionali, misurati e continuamente variati. Quali strumenti sono stati adottati per preservare questo delicato rapporto e soprattutto per reiterarlo nei nuovi interventi di progetto urbano? GB - Si dovrebbe distinguere tra il paesaggio urbano, che è costituito da un susseguirsi di un tessuto urbano normale e da episodi che assurgono ad elementi simbolici dell’architettura mondiale, e il paesaggio costruito della campagna urbanizzata intorno a Firenze che è pure presente come paesaggio della città. Per quanto riguarda gli strumenti si è avviato lo studio dell’analisi del costruito fino ai particolari come gli intonaci e le modalità d’utilizzo degli edifici, dall’altro si è cercato di rinnovarlo introducendo nel centro storico elementi di architettura contemporanea come peraltro è stato fatto in passato: la città è infatti il frutto di continue trasformazioni edilizie. E poi si è lavorato per individuare gli elementi costitutivi del paesaggio della campagna urbanizzata attraverso la lettura

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analitica degli elementi costitutivi del paesaggio e delle parti da tutelare in quanto identità del paesaggio stesso. FRP - Credo che proprio la ricchezza di differenze, nei volumi, nei grandi spazi pubblici, nelle presenze Istituzionali e funzionali, abbiano reso celebre l’architettura di questa città. Come introdurre questi caratteri nei nuovi interventi e nelle trasformazioni urbane? E, a margine, perché non si è costruito più alcuna piazza? GB - Sono d’accordo. La ricchezza di differenze è un valore. Nei nuovi interventi e recuperi urbani si è pensato di proporre, proprio per esaltare la ricchezza di differenze future, concorsi di architettura per singole parti di queste zone di città. Questa è una delle risposte possibili. L’altra è prevedere differenti caratteristiche e tipologie urbanistiche all’interno di interventi coordinati. Per quanto riguarda le piazze, è vero che non si sono costruite piazze ma non è vero che non se ne costruiranno delle nuove. Anzi è prevista la realizzazione di nuove piazze, per esempio due sorgeranno a Novoli e una a Porta a Prato. FRP - Firenze come città d’arte, che vive del suo patrimonio culturale, più di altre città dovrebbe valutare che ogni intervento non riconducibile ad un rapporto fra il “moderno” e la sua tradizione, costituisce una dissipazione, di cui vediamo testimonianza in una drammatica caduta di qualità che aggredisce il tessuto urbano. Dunque, da un lato abbiamo le esigenze di sviluppo della società contemporanea, dall’altro

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questa responsabilità di preservare il carattere della città e della sua architettura (quella definita così bene da Ruskin): al di là della generica e pilatesca libertà di espressione lasciata agli architetti, al di là del demagogico sperimentalismo, che spesso nasconde il nulla, vorrei sapere se l’identità dell’architettura fiorentina è un valore riconosciuto da questa Amministrazione e quali strumenti concreti sono stati adottati per preservare questo equilibrio fra modernità e tradizione. GB - Non c’è dubbio che Firenze è ancora una città che vive del suo patrimonio culturale con caratteristiche marcatamente rinascimentali: gli interventi rinascimentali connotano la conformazione e l’immagine di città. In merito all’equilibrio tra modernità e tradizione, il piano strutturale contiene uno studio per approfondire la conoscenza dell’architettura del ’900 che a Firenze presenta interventi importanti al di là della stazione di Santa Maria Novella, opera del Gruppo Toscano. Da una parte c’è una lettura attenta del sistema urbano e della situazione esistente, dall’altra c’è un’idea di innovazione che deve comunque tener conto dei luoghi, delle dimensioni e della scala degli interventi. Per esempio nel centro storico abbiamo utilizzato due diversi modi di procedere: per l’uscita degli Uffizi il progetto di Isozaki rinnova la tradizione delle logge fiorentine introducendo elementi di contemporaneità. In via del Proconsolo invece abbiamo preferito un inserimento ordinario in considerazione della qualità del contesto esistente e della limitatezza dell’intervento.


FRP - Infine mi fa piacere ricordare il fecondo rapporto che il primo centro-sinistra seppe stabilire a Firenze con la Facoltà di Architettura, dando luogo a un laboratorio di sperimentazioni preziose. Ogni Facoltà dialoga con il proprio territorio di riferimento, sul cui corpo sviluppa studi, ricerche e proposte. A Firenze questo rapporto appare difficile, ma occorre ritrovare questo dialogo.

In questa e nelle pagine precedenti: Arata Isozaki La nuova uscita degli Uffizi

GB - Certo, il primo centro sinistra stabilì un fecondo rapporto con la Facoltà di architettura. Ma è anche vero che allora la Facoltà seppe aprirsi e contribuire in modo importante allo sviluppo della città con idee e progetti con valenti professori che allora vi insegnavano. L’Amministrazione comunale è molto interessata ad aprire un dialogo e la Facoltà di Architettura ha iniziato un percorso con proposte concrete sulle quali stiamo collaborando.

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Venezia: “dimenticare Thomas Mann”? Roberto D’Agostino

Nel 1999 alla Fondazione Cini di Venezia è stata fatta una mostra intitolata “Venezia la nuova architettura”, con catalogo pubblicato da Skirà, nella quale venivano presentati 25 progetti fatti tra alcuni dei principali architetti che agiscono oggi sulla scena internazionale, oltre che da architetti delle ultime generazioni. La mostra è stata poi richiesta da varie città europee (Vienna, Barcellona, Rotterdam) e sudamericane (Buenos Aires, Asunciòn, S. Paolo, Rio de Janeiro). Per Venezia si è trattato un vero evento per molti motivi. Innanzi tutto perché a Venezia non veniva affrontato il tema della progettazione di qualità da alcuni decenni, praticamente dai primi anni del novecento, durante i quali, a differenza di quanto si pensa, si è costruito moltissimo, ma a bassissimo livello. E a questo proposito sarebbe davvero interessante una analisi approfondita sulla cultura architettonica prodotta in una città che vede la presenza di una delle principali facoltà di architettura europee ed esiti così modesti negli interventi edilizi. Ma un evento anche perché i 25 progetti esposti rappresentavano solo la punta dell’iceberg di una attività progettuale di dimensioni eccezionali per una città italiana. E infine perché si trattava di progetti destinati ad essere realizzati e che infatti oggi sono tutti in via di realizzazione o già terminati. Si può dunque ragionevolmente affermare che a partire dalla metà degli anni novanta si è invertita quella logica che aveva, tanto per citare i casi più clamorosi, impedito la realizzazione dei progetti di Wright, Le Corbusier, Kahn, o ostacolato in ogni maniera l’attività di

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Carlo Scarpa. Quella logica e quell’attitudine culturale che meriterà per il futuro alla Venezia del novecento, e alla sua espansione di terraferma Mestre, un giudizio assai severo sul piano della qualità urbana e architettonica. Molti di questi progetti dovrebbero essere oggetto di articoli specifici per descriverne genesi e forma, sono cioè prodotti meritevoli di essere trattati da una rivista di architettura (e infatti tutti sono stati ripetutamente pubblicati). Tuttavia, più che entrare nel merito dei singoli progetti a me sembra interessante ragionare sul perché si è aperta una stagione così significativa di nuova progettualità e quale è la qualità che unifica tutti questi interventi. Nel suo saggio che compare sul catalogo della mostra L. Benevolo scrive: “Davanti (o dietro) i problemi della progettazione dei singoli interventi c’è il problema della progettazione della città intera, che è stato studiato dal nuovo Piano Regolatore e che è ugualmente un problema architettonico, alla scala urbana”. Certamente questa è la chiave per capire quanto è successo Venezia nell’ultimo decennio. La città si è dotata di un nuovo grande progetto urbano, fondato su una nuova idea di città, entro il quale hanno trovato una logica e necessaria collocazione i diversi progetti specifici, più noti e meno noti, che sono stati predisposti. Voglio qui sostenere che il fallimento delle prospettive architettoniche della Venezia degli anni precedenti derivava essenzialmente dall’incapacità della città di dotarsi di una idea trasparente e condivisa per il proprio futuro. In assenza di questa idea, ogni proposta appariva estemporanea, sostanzialmente autoreferenziale e facile preda


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del sistema lagunare dei veti incrociati. L’ultimo piano regolatore di Venezia risaliva infatti agli anni cinquanta ed era un piano figlio delle urgenze post belliche, e di una cultura urbanistica in via di ricostruzione. Per fare due esempi, il piano non affrontava il tema del centro storico, rimandandolo a futuri piani particolareggiati per tutta la città e prescriveva ineffabilmente che a Portomarghera dovessero essere insediate le industrie che inquinavano l’aria, l’acqua e la terra. Il piano di allora si basava sostanzialmente, e la confermava, sull’ultima grande idea di città concepita da Venezia che risaliva ai primi decenni del novecento. Allora la città decise di uscire dai propri confini lagunari dentro i quali, dopo la fine della Repubblica, aveva cercato di modernizzarsi attraverso la realizzazione di importanti infrastrutture, quali il porto e il ponte ferroviario translagunare, e l’insediamento di importanti attività industriali. La realizzazione del porto industriale di Marghera e della città di terraferma e la colonizzazione del Lido lungo il mare avevano enormemente dilatato i confini della città e ne avevano disegnato un nuovo modello di sviluppo destinato ad avere un enorme successo nei decenni successivi. Alla crisi di questo modello, determinata da fattori produttivi, economici, demografici, urbanistici, che si manifestò nei primi anni settanta e che non è qui possibile esaminare, Venezia rispose con una attitudine conservatrice in ogni campo: da quello urbanistico, a quello architettonico, a quello economico. Temendo di perdere la propria identità e quanto era riuscita a raggiungere in precedenza, la città si era avviata a perdere tutto, precludendosi la possibilità di ripensarsi e di

traghettare sé stessa nella modernità. A partire dai primi anni novanta, una nuova “idea di Venezia” venne proposta come base dell’azione amministrativa della giunta eletta in quella stagione di rinnovamento politico. Venne allora definito un nuovo ruolo della città che doveva essere resa capace di rispondere alle sfide della modernità: una Venezia, collocata nella sua naturale dimensione internazionale, forte, produttiva, coesa e competitiva, in grado di reggere vittoriosamente alle sfide della competizione globale. “Dimenticare Thomas Mann” fu la parola d’ordine del sindaco Cacciari, che rappresentò la sintesi concettuale del mutato atteggiamento politico e culturale. Questa idea richiedeva un nuovo disegno urbano che riconoscesse l’anomalia di una città con un centro senza periferia e con le periferie che diventavano tante città a loro volta. Dunque un sistema urbano policentrico, una città arcipelago, che doveva essere riorganizzata e tenuta insieme attraverso nuove strutture, nuove centralità, nuove funzioni di carattere metropolitano, corrispondenti alla natura metropolitana e alla vocazione del suo territorio. Il nuovo disegno urbano si è fondato su alcune scelte urbanistiche che sinteticamente fanno riferimento ai seguenti punti: riconoscimento della struttura bipolare dell’organismo urbano; individuazione di nuove centralità, collocate tra le due città d’acqua e di terra, dove tradizionalmente venivano collocate le attività non desiderate; individuazione di un nuovo sistema di accessibilità; costruzione di una nuova qualità urbana e ambientale diffusa; recupero di vaste aree dismesse.

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Pagina precedente: 1-2 Santiago Calatrava Il nuovo ponte sul Canal Grande (fotomontaggio) e plastico 3 Wilhelm Holbauer, Paolo Piva, Roberto Sordina Il Parco Scientifico Tecnologico a Portomarghera 4 Giorgio Lombardi, Giorgio Macola - Le Conterie a Murano, edifici residenziali 5 Eric Miralles, Benedetta Tagliabue – La nuova facoltà di Architettura a Venezia 6 Francesco Venezia, Laboratorio Prove Materiali, Mestre 7 Ugo Camerino – La stazione marittima passeggeri di Venezia 8 Cino Zucchi – Edificio “D”, Venezia, 1997-2000 9 Vittorio Gregotti, sede IUAV di Campo delle Lana 10 Alberto Cecchetto, Ove Arup – Il Terminal automobilistico di Fusina (Marghera)

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Per realizzare concretamente questo nuovo disegno, che è quanto qui ci interessa, occorreva un nuovo modo di concepire il governo delle trasformazioni territoriali, fondato non più su regole e vincoli, ma su un processo virtuoso che partiva dalla nuova idea di città, ne concepiva il disegno urbanistico complessivo, ne progettava le singole parti, individuava le procedure necessarie, le risorse occorrenti e gli attori della trasformazione. Tutti i progetti significativi che da allora sono stati concepiti trovano posto all’interno di questo disegno urbano, di cui materializzano l’idea, e ne traggono la propria coerenza. Ogni singolo edificio che viene realizzato può dunque essere più o meno riuscito dal punto di vista architettonico, ma la sua giusta collocazione e la sua inevitabile necessità lo rende comunque un buon edificio. Naturalmente, la qualità del disegno e la coerenza del sistema funzionale non possono prescindere dalla qualità delle nuove architetture che segneranno i diversi snodi strategici della città: lo impone, se non altro, il grande modello urbano di riferimento. Per questo motivo si è dato vita ad una stagione concorsuale estremamente intensa per cercare di garantire la migliore qualità dei risultati: anche se per raggiungere questo scopo, come si sa, non basta un concorso, per quanto ben fatto. In questo modo da alcuni anni Venezia è diventata un luogo di confronto e di elaborazione progettuale per molti dei principali protagonisti della scena architettonica mondiale e per molti giovani architetti che hanno trovato occasioni e soddisfazioni creative. Ogni area strategica del nuovo disegno

urbano, composta di molteplici elementi architettonici, ha avuto uno o più concorsi di progettazione i cui esiti stanno materializzandosi nella città. La riorganizzazione del sistema di accessibilità vede la realizzazione del nuovo ponte sul Canal Grande tra piazzale Roma e la Ferrovia, progettato da Santiago Calatrava in un momento particolarmente felice di ispirazione; il nuovo terminal automobilistico di Fusina su progetto di Alberto Cecchetto con Ove Arup; e, nel nuovo terminal automobilistico di Tessera, un complesso edilizio di Frank O. Gehry; la nuova stazione passeggeri del porto di Ugo Camerino. Nelle aree che definiscono le centralità urbane vi sono i progetti di Francesco Venezia e quelli di Eric Miralles e di Vittorio Gregotti per edifici universitari; e poi quelli di Wilhelm Holzbauer con Paolo Piva e Roberto Sordina per il parco scientifico e tecnologico. Nelle innumerevoli aree di recupero, i progetti di Bernard Huet, di Cino Zucchi, di Giorgio Lombardi, di Giorgio Macola, di Boris Podrecca, di Giancarlo De Carlo. Ho fatto un elenco di nomi incompleto e, in parte, casuale senza citare, tra l’altro, nomi di giovani architetti di grande qualità e vincitori di alcuni dei concorsi, o di noti architetti internazionali che si sono misurati con la città, ma i cui progetti non sono stati scelti. Il senso di tutto questo risiede in quanto detto all’inizio: e cioè che un buon progetto urbano, difficilissimo da concepire e che richiede un’idea forte e condivisa della città, è la condizione senza la quale buone architetture non possono essere fatte. Dopo di che, come si sa, occorrono buoni architetti e buoni committenti.

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Halle: “costruire la demolizione” Le nuove questioni delle città tedesche Elisabeth Merk

The shrinking city or small is beautiful das Phänomen der schrumpfenden Stadt (il fenomeno della città che si dilegua e che si dissolve) Quella sinfonia della metropoli - per usare una metafora musicale - o, meglio, quella visione della città-metropoli intesa come l’irresistibile “crescendo” della città industriale, perfettamente rispecchiata sia nell’ideologia dei progetti del futurismo che nelle utopie lecorbuseriane e a lungo preservata nelle vaste aree d’influenza degli ideali socialisti, ha forse smesso di risuonare per le città della Germania dell’Est. Se, da un punto di vista generale, nei recenti sviluppi delle città della ex DDR è possibile riconoscere degli indubbi miglioramenti e progressi, non ultimo l’impegno nel recupero dei centri storici, è tuttavia doveroso segnalare i problemi ancora irrisolti. Dopo la caduta del muro di Berlino, le città della Germania Orientale hanno subito un profondo cambiamento strutturale per la massiccia ristrutturazione degli impianti industriali e della conseguente crisi del mercato del lavoro. Il risultato di tale processo ha provocato una sorta di rovesciamento dello “sviluppo urbanistico del territorio”, con inevitabili riflessi sul tessuto urbano e sulla topografia delle città.

Elisabeth Merk architetto Head of town planning department city of Halle

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È noto che, storicamente, le città della Germania dell’Est devono la loro crescita esplosiva, nella seconda metà del secolo scorso, in molti casi alla clamorosa espansione dell’industria chimica. A soluzione di tali problemi, veniva prospettata la ben nota idea di città moderna, la cui razionale organizzazione prevedeva la distinzione dei vari tipi inse-

diativi: la “città del lavoro”, la “città dell’abitare” e la “città del tempo libero”. È presumibile che, nella Germania dell’Est, la visione della città socialista sia propaggine degli ideali lecorbusieriani: una città costruita per un uomo nuovo e moderno che, lasciatosi alle spalle il trauma della seconda guerra mondiale, fosse pronto ad entrare nel paradiso socialista di un mondo migliore. In sintesi, dal punto di vista architettonico ed urbanistico, le città della Germania dell’Est presentano una forma riconducibile alla compresenza di una doppia tipologia; alla città europea, cresciuta in un lungo arco di tempo secondo i parametri dello sviluppo economico-industriale, integrata nelle sue prime zone periferiche dall’idea di città-giardino, si contrappone la città costruita in pochi decenni secondo l’utopia socialista. Diametralmente allo stesso ritmo con cui si sviluppava la città nuova, la città antica subiva un veloce abbandono. Tale relazione si è rovesciata dopo la caduta del muro; alla rivalutazione del tessuto urbano della città storica è corrisposta una perdita d’immagine e di qualità degli insediamenti residenziali costruiti nel periodo socialista, i cosiddetti “Plattenbauten”. Era pertanto inevitabile che si aprisse un radicale ripensamento, non solo sul piano filosofico ma anche su questioni propriamente di metodo, circa la costruzione del territorio, tenendo presenti le limitazioni di un sistema politicosociale che non riconosceva alcun valore alla proprietà individuale (i vari regolamenti di lottizzazione, di riforma agraria e catastale).


Tuttavia, è doveroso riconoscere alcuni risultati positivi del precedente sistema: l’organizzazione razionale del territorio che, insieme alla penuria di materiale edilizio (“Mangelwirtschaft”), hanno permesso una composizione “sostenibile” (“sustainable development”) del tessuto urbano. La situazione attuale Se, nei primi anni successivi alla caduta del muro di Berlino, il problema più grave consisteva nella mancanza di abitazioni, favorendo in alcuni casi un incontrollabile sviluppo delle città, oggi, la questione principale è divenuta l’abbondanza di alloggi e di case sfitte. Questo, il risultato di insediamenti freneticamente tirati su dal nulla e costruiti all’esterno delle città, privi di qualsiasi connessione con le infrastrutture con l’inevitabile spreco di terreni e risorse ambientali e contemporaneamente estranei alla ristrutturazione dei centri storici. Solamente la situazione della città di Berlino sfugge a questa contraddizione tra centro ed espansione: la ricostruzione di Berlino riguarda solamente il centro, quel “Berlin Mitte” perduto in seguito alla grande spaccatura rappresentata dal muro. Oggi, dodici anni dopo la riunificazione delle due Germanie, non rimane che prendere atto di quanto sia profonda la trasformazione prodottasi nelle città dell’Est, attuatasi oltretutto secondo parametri lontani da quelli ipotizzati. La migrazione dall’Est all’Ovest, conseguente al crollo delle vecchie industrie della DDR, ha spopolato le città dei nuovi Länder: molti i cittadini, che han-

no approfittato della libertà di scegliere luogo ed tipo di casa, abbandonando le loro città d’origine. Il mercato degli alloggi è completamente crollato e la disponibilità d’abitazioni è ormai illimitata, con gravi conseguenze non solo economiche ma anche sociali ed urbane. Il fenomeno ha raggiunto ormai bibliche dimensioni. Halle, la città dell’industria chimica per antonomasia, ha visto diminuire i suoi abitanti da 308.000 unità nel 1989, a 245.000 nel 2001. Tale tendenza, secondo le attuali previsioni sembra destinata a continuare nell’arco dei prossimi otto anni, fino a portare la popolazione a 220.000 abitanti. Anche città come Lipsia e Dresda, pur diverse per storia e struttura, perderanno dai 60.000 ai 100.000 abitanti, sebbene, attualmente, l’entità dello spopolamento risulti attenuata da una riforma che ha incorporato alle città i comuni circostanti. Al fenomeno della migrazione verso l’Ovest, verso la possibilità di lavoro, si aggiunge la continua negatività del tasso di incremento demografico che riguarda non solo la Germania dell’Est ma anche quella dell’Ovest se non l’intera Europa. La “città che si dilegua e che si dissolve” (schrumpfenden Stadt), un problema generalizzato in tutta l’Europa Orientale, produce effetti devastanti sul territorio, sulle infrastrutture e sulla situazione economica tali da comportare nuovi scenari urbani. Le contromisure (concetti a scala urbana) Quasi tutte le Amministrazioni Comunali, a partire dal 2000, hanno iniziato una aperta discussione dei problemi posti dal processo sopra descritto, coinvol-

gendo i vari protagonisti: i cittadini, gli urbanisti e i politici, ma anche le grandi società immobiliari ed i proprietari privati. Ad Halle, sulla base di precise analisi e possibili prognosi, è stato redatto un nuovo “Masterplan”, calibrato sui criteri dello sviluppo territoriale e del mercato degli alloggi. Il progetto e il dibattito politico hanno dovuto riconoscere che la questione “Quale sarà il nuovo carattere delle città?” (topografico, morfologico e tipologico), non può trovare risposta solo dalla riorganizzazione della struttura urbana, dalla distribuzione delle funzioni o dal solo criterio dell’economia e dell’estetica e nemmeno dai modelli della “città europea”, ma la risposta dovrà tener conto dei cambiamenti sociali, come povertà e disoccupazione, delle parti di città senza più ruolo, senza padrone e senza speranza, ridotte ad una sorta di paradossale maggese urbano. Pur essendo il “Masterplan” di Halle “aperto e flessibile”, alcuni importanti temi sono già stati affrontati dal magistrato di Halle. Numerosi sono i campi in cui il nuovo masterplan prevede contromisure, in base alle quali anche i governi dei Länder e della Repubblica Federale hanno stanziato finanziamenti fino al 2008 previsti nel cosiddetto Stadtumbau Ost (la ricostruzione delle città nell’Est) - che vanno ad aggiungersi a quelli, già in fase attuativa nella Comunità Europea. L’obiettivo è l’integrazione delle varie risorse economiche in modo da concentrare gli interventi e migliorare i quartieri secondo tutti i parametri urbanistici sociali ed economici.

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Le aspettative sono molte ed i problemi scoraggianti. Tuttavia, la possibilità di creare una nuova immagine ed una nuova identità per queste città - che spesso possiedono un patrimonio culturale e storico importanti - è ancora da scoprire. Le iniziative intraprese ad Halle che possono essere giudicate esemplari, sono: - un nuovo masterplan, a scala urbana, che nasce in funzione dei nuovi parametri sociali ed economici e che tiene in considerazione le incidenze sulle infrastrutture, sulla viabilità e sui servizi pubblici; - il recupero degli spazi pubblici e la rivalutazione degli spazi verdi; - l’inserimento sistematico di nuove strutture collettive, come campi da gioco, strutture per il tempo libero e centri commerciali proporzionati alle esigenze quotidiane; - il miglioramento della sinergia tra le varie tipologie di trasporti pubblici; - un nuovo piano per il fiume ed il verde che lo definisce come risorsa potenziale situata nel cuore della città; - il recupero del centro storico; - la riqualificazione, tramite nuove destinazioni, degli impianti industriali dell’ottocento (in gran parte edifici vincolati); - la trasformazione in parchi o in terreni edificabili delle aeree liberate da servitù militari; - un programma che prevede, da un lato, la ristrutturazione di alcuni quartieri nel loro complesso (arrivando anche alla possibilità di sovvenzionare la ristrutturazione del singolo edificio) e dall’altro possibilità di demolire alcuni edifici residenziali costruiti nell’epoca socialista con densità edilizie troppo elevate. Il recupero dei nuovi quartieri prevede

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contemporaneamente la riqualificazione del Centro Storico e la rivalutazione dei quartieri residenziali dell’Ottocento e degli anni venti. Le trasformazioni previste sono di vaste proporzioni. Come risposta ai 60.000 abitanti in meno e alle 20.000 abitazioni vuote e in parte degradate, il nuovo masterplan prevede la demolizione nella sua prima fase di attuazione di 4.000 alloggi, con l’obiettivo finale di demolirne da 8.000 a 12.000. Halle è, come si diceva, una “città doppia - anche sotto questo aspetto è un “exemplum” delle città dell’Est -”: il suo centro storico di alta qualità è circondato dal grande ampliamento dell’Ottocento cui s’aggiungono, quasi come antitesi, le vaste Siedlungen dell’era socialista. Questo contrasto si pone, ad Halle, in modo quasi paradigmatico: alla “città classica” europea, cresciuta nei secoli su di una riva della Saale, si contrappone, sull’opposta sponda del fiume, la città ideale del socialismo: l’“Halle Neustadt” di 100.000 abitanti, realizzata in pochi decenni (dal 1965 al 1989) su progetto di Richard Paulik, allievo del Bauhaus. “Halle Neustadt” fu concepita come una città autosufficiente, costruita sull’idea lecorbuseriana: città compatta e centripeta con una forte predominanza della concezione estetica espressa attraverso performances artistiche per lo più al servizio del regime - grandi manifesti socialisti in forma di pitture murali, sculture e ceramiche -. In realtà la qualità degli spazi pubblici e dei volumi costruiti, pur se equilibrata ed ampia nella prima fase della sua costruzione, non riesce più ad essere l’elemento compensante dei suoi quartieri attualmente in degrado.

Le prospettive per il futuro Divengono pregiudiziali le seguenti domande: Come è possibile progettare la diminuzione della città, anziché il suo ampliamento? Quali strumenti della legislazione urbana sono adeguati ad intervenire nel processo con la necessaria tempestività? Come è possibile trasformare il paesaggio urbano progettando “il vuoto”? Che conseguenze avranno per la topografia della città, le modalità con cui si trasformeranno sia i valori urbani che l’identità e l’immagine di una città che ha subito, nell’arco di dieci anni e per la seconda volta, uno sradicamento totale? Esiste una declinazione specifica di queste domande per le città della Germania Orientale rispetto a quanto avviene nelle città della Germania Occidentale? Il dibattito degli ultimi anni sulle trasformazioni della città contemporanea e sul disegno dei vuoti urbani ha sortito, a livello internazionale, numerosi concetti e/o teorie: “collage city”, “la città frammentaria”, “la città intermedia” ecc.... Eppure la discussione non è nuova: basti solo ricordare le utopie dell’inizio del Novecento, a partire dalle concezioni di Bruno Taut sulla dissoluzione della città. Ciò nonostante, ci troviamo di fronte ad un problema che non sembra avere modelli di soluzione, se non altro perché coinvolge la società di un’intera nazione. Il compito consiste, da un lato, nell’individuare - ricorrendo al concetto di “sottrazione” e di “demolizione” - nuovi valori urbani e, dall’altro, nel delineare un nuovo linguaggio architettonico e/o urbano che permetta di usufruire delle qualità dello spazio disponibile.


Da tale punto di vista, le concezioni sul futuro della città fondate sull’aspetto ecologico e sul “sustainable city development” possono certamente contribuire al raggiungimento della soluzione. Come “costruire la demolizione”? Come progettare, in modo urbanisticamente efficace, il vuoto delle volumetrie distrutte? Dato che per le principali funzioni urbane vi è ora disponibilità di spazio in abbondanza, è necessario approfondire il potenziale valore di questi vuoti sia per la ristrutturazione del paesaggio urbano che per una riscoperta del paesaggio naturale. Assumendo questo punto di vista, il problema comincia a rovesciarsi e a divenire una vera e propria risorsa. Il lato percettivo e figurativo del nuovo paesaggio urbano potrebbe trarre dalla disponibilità di spazio risorse per una nuova immagine in grado di superare i limiti dell’idea stessa di “città giardino”. La pianta della città ha la possibilità di divenire una matrix, al cui interno si possono creare boschi o laghi in significativa compresenza con gli spazi pubblici: l’innegabile fascino ed il significato urbano della tradizionale piazza sarà accompagnato ed accresciuto dalla compresenza degli spazi “aperti” dei campi. Con questo obiettivo è possibile prevedere anche l’utilizzazione temporanea di alcune aree che, un domani, potranno essere reintegrate in un’espansione più conservativa: in questo modo tali trasformazioni potranno divenire realizzabili anche dal punto di vista economico - il cosiddetto Stadtumbau -. Ci troviamo davanti all’opportunità di “superare”, non fosse altro che a livello

di immagine, la contrapposizione (paradossale) fra città e campagna, e trarre da questo superamento una nuova qualità capace di garantire un futuro alle nostre aree urbane: una qualità originale e difficile da trovare in quelle città “costrette”, per così dire, ad un continuo incremento, fatale quanto incontrollato. Tanti, forse troppi, i problemi che rimangono da risolvere: dalla ridistribuzione dei lotti edificabili alla copertura economica degli interventi. Forse non sarà facile creare e mantenere questi nuovi paesaggi urbani. È innanzitutto necessario cambiare gli stessi fondamenti del nostro ragionare sulle cose; ma è consolante, e infonde fiducia, che un primo cambiamento sia già avvenuto per quanto riguarda la ristrutturazione delle grandi industrie e delle aree dismesse. In numerose città della Germania - a Francoforte e Monaco, soprattutto - la necessità di nuove zone residenziali ha fatto esplodere in termini economici, il mercato del terreno e degli immobili, portando ad una sorta di crescita nauseante delle periferie. Il primo appello, pertanto, è per una realistica volontà politica che voglia riequilibrare il mercato del lavoro, facendo partecipi dello sviluppo economico sia l’Est che l’Ovest. Tenendo presente l’ovvietà che, se in una regione è giocoforza consumare troppo terreno in pur necessarie espansioni, sarebbe possibile ed equo - mediante l’uso di tassazioni specifiche o di altri strumenti economici - creare in altre regioni la possibilità di recuperare dei terreni anche in deroga agli standards legislativi.

Certo, i problemi vanno risolti caso per caso e non si dà regola che sia valida indifferentemente per tutte le città. Un fatto però è sicuro: se lo sviluppo demografico seguirà le previsioni attuali, il problema del degrado degli agglomerati residenziali si porrà anche per le città dell’Europa occidentale. E siccome le parti residenziali, soprattutto recenti, difficilmente sottostanno a vincoli monumentali, s’impone la necessità di valutare come plausibile non un semplice cambio d’uso e di funzione ma anche seguendo il concetto della “sottrazione” e/o demolizione - della riduzione a natura e a paesaggio di parti della stessa topografia urbana, a sua volta occasione di una grande varietà di forme e qualità. Spero di aver dato un’idea dell’enormità dei problemi da affrontare, proporzionale tuttavia - lo si afferma con un filo di speranza - alla complementare chance di cambiamento e di miglioramento della qualità degli spazi urbani che gli stessi problemi fanno intravedere. È la stessa gravità dei problemi, infatti, a rendere più credibile l’opportunità che abbiamo di contribuire veramente alla “sustainable city”, alla città che si prende cura delle proprie risorse e che ha la possibilità di rigenerarsi a partire proprio dalle sue stesse contraddizioni.

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Roadtown Richard Ingersoll

Foto: Claudio Zanirato (da una ricerca per immagini sulle aree di recente trasformazione situate lungo la via Emilia)

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Nella storia dell’urbanistica non esiste un progetto così esteso nelle sue dimensioni e nel tempo del suo sviluppo, quanto quello che si può chiamare “Roadtown E-R”, cioè la città lineare che forma la spina centrale della regione Emilia-Romagna. Questo asse diagonale di eccezionale scala scorre senza interruzioni per duecentocinquanta chilometri da Piacenza a Rimini. La sua nascita è dovuta alla pratica coloniale romana di aggiungere ogni città conquistata nella vallata del Po alla strada consolare. La via Emilia1 serve anche come decumano di ogni città ricostruita dai romani, per questo gli undici centri urbani condividono ancor oggi la stessa strada principale. L’asse consolare divide la regione in due condizioni geografiche: a sud-ovest le zone boscose e di pascolo delle pendici dell’ Appennino, a nord-est i terreni centuriati e prosciugati della pianura “Padusa” che si estende fino al fiume Po. Le uniche grandi città della regione che non cadono sul tragitto della via Emilia, Ferrara e Ravenna, potrebbero benissimo essere considerate come pendenti per una collana di perle. L’assialità della Via Emilia (ormai Strada Statale 9) è rimasta una costante per due millenni, nonostante i diversi assetti politici della regione. Con la stabilità politica dell’unità d’Italia negli anni sessanta dell’Ottocento, vennero completate le linee ferroviarie nazionali. Il tracciato ferroviario corre parallelo a nord della via Emilia, alla distanza precisa di un chilometro, rafforzando l’asse storico.2 La dislocazione delle stazioni ferroviarie all’interno delle città determina la ridefinizione dei perimetri dei centri urbani, creando spesso una netta divisione tra zona storica e zona moderna. Quasi un

secolo dopo la ferrovia, un altro intervento infrastrutturale, l’Autostrada del Sole, costruita dal 1956 al 1960, rafforzò ancora l’asse storico della regione.3 Se la linea ferroviaria Milano-Bologna è attualmente la più frequentata d’Italia, un’analoga intensità di traffico esiste per le sei corsie della A1, e per il suo proseguimento come A14 oltre Bologna. La crescente serie di complessi industriali, parchi per uffici, zone fieristiche e ipermercati lungo la A1-A14, dimostra che le autostrade dispongono ormai di una energia economica e produttiva tale da togliere alcune forze urbane dai centri, indirizzandole verso i luoghi meno densi ma più accessibili al traffico veicolare. L’autostrada non penetra nei centri delle città, anche se costeggia l’abitato sia di Piacenza che di Bologna, ma in ogni caso non è mai a più di due chilometri dal centro. All’inizio del nuovo millennio, i tre fili paralleli delle linee di trasporto sono intrecciati in una grande corda di quattromila metri di larghezza, legando tutta la regione al suo destino lineare. Non è mai esistita un’esplicita intenzione di pianificare un’unica realtà urbana a partire dalla via Emilia. Mentre i cittadini della regione ovviamente non soffrono di grandi dubbi sull’autonomia municipale delle loro città, sono emerse negli ultimi tempi chiare indicazioni che le città in Emilia-Romagna, come in tante altre parti del mondo, stanno allo stesso tempo sgretolandosi in tessuti meno compatti e amalgamandosi una all’altra. Quello che rimane peculiare in questo scenario di diffusione urbana è il fatto che, invece di crescere radialmente intorno al nucleo urbano storico, lo sviluppo è spesso attratto dall’asse della via Emilia. La distanza tra le città varia da


dieci a trenta chilometri, una giornata a piedi per gli antichi, e oggi è di dieci o venti minuti in macchina o in treno. Se quindici chilometri separano Milano da Monza, una zona che attualmente viene spesso citata come il più chiaro esempio della città diffusa, non dobbiamo sorprenderci se simili distanze lungo la via Emilia sono in fase di urbanizzazione, anche se meno intensa.4 Nessuna delle città dell’Emilia-Romagna, nemmeno Bologna, può essere considerata una metropoli, ma insieme fanno una popolazione di quasi due milioni di abitanti, cifra che si avvicina a quella di una metropoli.5 Per essere più preciso, la spontanea “Roadtown” che nasce dalla via Emilia sta diventando un territorio urbano, non una metropoli che cresce su se stessa, ma una frammentata megalopoli che cresce sparpagliata in maniera polinucleare. Il geografo Eugenio Turri recentemente ha avanzato l’idea che l’intero nord Italia sia come un’ unica “megalopoli padana”.6 Sembra più attendibile che esistano frazioni regionali di questa nebulosa urbana, come i dintorni industriali di Genova, Torino e Mestre, l’area con un raggio di cinquanta chilometri intorno a Milano, e la città lineare della via Emilia, che appartengono a una federazione informale di megalopoli con simili ma indipendenti caratteristiche economiche e sociali. Nella storia sono apparsi alcuni precedenti di città lineari, in particolar modo nella vallata del Nilo e sull’isola di Manhattan, ma questi casi erano determinati geograficamente e rappresentano delle vere eccezioni di morfologia urbana, contrari alla norma di espansione concentrica. Con la fondazione di un’urbanistica scientifica nel tardo Ottocento,

viene proposta sempre più spesso la teoria della città lineare, studiata in ragione delle efficienze delle nuove tecnologie di trasporto, e dello sviluppo delle reti elettrica, del gas, igienica. Lo spagnolo Arturo Soria y Mata propose la tesi della “Ciudad Lineal” nel 1882, concetto che verrà messo in pratica nella periferia di Madrid nel 1897. La sua città, strutturata lungo la linea della tramvia con un percorso alberato, segue i criteri della città giardino, di case singole a bassa densità. Ai fianchi della striscia urbanizzata, lunga dieci chilometri e larga cinquecento metri, Soria y Mata propone un vincolo per conservare i terreni come fascia verde.7 Nonostante un buon inizio, la “Ciudad Lineal” rimase un’utopia mai completata, e la sua densità e assialità, per non dire della voluta e protetta fascia verde, furono stravolte dopo gli anni ’20 con l’espansione della città verso la periferia. L’introduzione dell’automobile contraddisse fortemente l’idea di un unico asse di trasporto e nello stesso tempo diminuí l’utilizzo delle tramvie in periferia. Sorsero anche problemi concettuali contro il modello lineare: uno tra i tanti appare nella critica all’urbanistica moderna di Albert Pope nel suo libro Ladders, dove sostiene che la tendenza di concentrare lo sviluppo in lunghi assi impedisce la libertà di movimento offerta dalla maglia urbana tradizionale.8 L’idea della unidirezionalità è presente anche nella “Citè Industrielle” di Tony Garnier (1904) e prevale nella mitica Roadtown di Edgar Chambless (1910). Chambless fu uno degli ultimi di una generazione americana di utopisti, seguaci del socialista-tecnocratico Edward Bellamy (autore di Looking Backward, 1887). La sua “Roadtown” sostiene che

l’ambiente naturale e agricolo degli Stati Uniti potrebbe essere meglio conservato e la vita urbana potrebbe essere meglio servita, se si limitasse lo sviluppo della città alle linee ferroviarie che attraversano il continente. Il suo modello è una curiosa megastruttura, una specie di lunghissimo palazzo a serpentina sopra tre livelli di binari interrati. Tutte le funzioni della città trovano posto nel lunghissimo edificio, mentre sul tetto scorre un grande viale pedonale con portici e aiuole, un luogo eccezionale per la ricreazione. Questo percorso pedonale e panoramico dovrebbe sostituire le strade sporche e congestionate delle metropoli come New York, dove Chambless ha passato la sua vita. Sicuramente la costruzione della Grand Central Station (1903-13) deve aver influito sulla sua idea di una città stratificata di infrastrutture per il trasporto.9 Nell’epoca del modernismo la città lineare ha avuto alcune riproposizioni significative, in particolare il “Plan Obus” per Algeri (1931-39) di Le Corbusier, versione lirica di Roadtown che propone un lungo, sinuoso viadotto per l’autostrada come impalcatura per le abitazioni della città. Nello stesso periodo, gli urbanisti in Unione Sovietica, sotto la guida di Nikolai Miljutin, immaginarono città lineari per le grandi industrie, per compiacere la politica di disurbanizzazione del governo. La pianificazione di Magnitogorsk prevedeva una lunga griglia, a scacchi alternati, di parchi e abitato costeggiata da zone industriali concentrate lungo la ferrovia. Negli anni successivi, alcuni frammenti di città lineare sono stati realizzati, ad esempio il serpentone di appartamenti di Forte Quezzi, nelle colline sopra Genova, di Luigi Carlo Daneri (1956). La realizza-

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zione di una megastruttura a molti livelli con vari tipi di trasporto integrati si trova in alcune grandi città: come la Stazione Umeda a Osaka in Giappone (1970-80), in cui stazioni di linee urbane ed extraurbane si incontrano con quelle per gli autobus e i taxi, servite di gallerie per i pedoni. Con cinque livelli per uffici, commercio e trasporto, la Stazione Umeda, lunga un chilometro e larga duecentocinquanta metri, somiglia ad una sezione della città utopica di Chambless.10 La più completa realizzazione di città lineare rimane Brasilia, la nuova capitale del Brasile, disegnata da Lucio Costa (1956-63). Nonostante la sua straordinaria coordinazione compositiva nell’idioma architettonico moderno, la sua efficenza infrastrutturale e la sua generosa dotazione di spazi verdi, Brasilia viene più spesso biasimata che lodata dai critici, perchè manca completamente la dimensione umana. La sua organizzazione in enormi “superquadros,” che mette grandi distanze tra una a funzione e l’altra, obbliga a una totale dipendenza dall’automobile per tutti gli aspetti della vita quotidiana.11 Le dimensioni di Brasilia -lunga quindici chilometri e larga due- corrispondono quasi perfettamente ai segmenti tra una città e l’altra lungo la via Emilia. Mentre Brasilia dimostra un’enorme mancanza di vitalità urbana, perché il suo asse principale collega un qualsiasi posto anonimo con un altro, l’ipotetica città lineare in Emilia-Romagna non rischia la stessa fine sociale visto che comunica tra nodi urbani già molto intensi. Le proposte raccolte secondo la legge 19 del 1998 della Regione Emilia-Romagna con i Programmi per la Riqualificazione Urbana (PRU), hanno individuato

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molti luoghi dentro o vicino alla fascia assiale formata dalle tre linee infrastrutturali della via Emilia. Se questi luoghi verranno trasformati nei prossimi anni per altri programmi e funzioni come componenti di una spina megalopolitana, è importante riconoscerne la scala imponente, la posizione storica nel tessuto urbano, e l’ordine formale. Che siamo lontani dai tempi in cui un demiurgo poteva pianificare una città a suo piacere è indubbio, e senz’altro meglio: la paurosa e alienante coerenza formale di Brasilia è da evitare. C’è anche da dire che nella regione Emilia-Romagna non c’è il rischio di raggiungere la densità demografica di Osaka o Manhattan, dove sono nate le spontanee megastrutture intorno ai centri di trasporto. Dall’altro lato, in Emilia-Romagna la tendenza verso una pianificazione guidata, incentivata, comprensiva, ha avuto notevoli successi fin dagli anni del dopoguerra, riscontrabili nella qualità delle zone industriali coordinate e nel programma di rinnovo di case sovvenzionate. Nonostante le buone intenzioni, la pianificazione deve sempre confrontarsi con le forze dinamiche del mondo produttivo, in questo caso delle piccole e medie imprese, che oggi rappresentano una grande fetta dell’economia locale. Attualmente in regione si può contare un’impresa per ogni dieci abitanti, una realtà organizzativa che gioca molto sullo spazio urbano, sulle scelte di trasporto, e sulle pratiche di impiego. Definita da Aldo Bonomi come “capitalismo molecolare,” questa nuova tendenza verso la decentralizzazione produttiva tende a diminuire il ruolo della città, sostituendolo con la diffusione di un nuovo modello di “territorio come

fabbrica.”12 L’ascesa di questa trasformazione produttiva ed economica è intimamente legata alle immagini del degrado della città post-industriale documentato da Basilico. Ripensare la via Emilia come “Roadtown” servirebbe per cercare di anticipare e per mitigare alcuni costi sociali e ambientali che verranno con la de-collettivizzazione dei servizi e la frammentazione del paesaggio. L’ipotesi di “Roadtown E-R” ruota sul concetto di espandere la interconnettività dei servizi con l’asse storico. Se le condizioni di “capitalismo molecolare” prevalgono, è giunta l’ora di riesaminare due ingredienti che oggi sono essenziali per il successo economico: le scienze della comunicazione e le infrastrutture per un trasporto sempre più veloce. Il nuovo modello di organizzazione produttiva, il “just-in-time,” insegna quanto contano l’informatica e il trasporto. Inizialmente una ditta s’impegna nella ricerca, analisi, marketing, creazione dei prototipi e pre-vendita prima della produzione, poi, quando arrivano gli ordini, si produce con mezzi velocissimi e si spediscono le merci in tempi rapidi. In questo modo si può eliminare la sovraproduzione e lo spreco, e anche il problema spaziale dei magazzini. In ogni fase, dalla generazione del prototipo al marketing, alla produzione e alla spedizione, l’informatica è divenuta essenziale per ridurre i tempi. Una nuova classe è entrata in fabbrica - possiamo chiamarla la classe infocratica, e sta sostituendo sia la base proletaria che la gerarchia manageriale. Per ora soltanto il 10% della forza lavoro nella regione è laureato, ma in alcune imprese la maggior parte degli impiegati ha frequentato l’università. I nuovi programmi per i siti da riqualifi-


care devono comprendere questo grande cambiamento sociale e nello stesso tempo riconoscere l’altra categoria nuova, l’immigrato extra-comunitario, che è diventato essenziale per la mano d’opera quasi quanto la vecchia classe operaia. La composizione della famiglia italiana è drasticamente cambiata in questi ultimi anni, sempre meno numerosa, con il fenomeno del giovane single o dell’anziano solo sempre più evidente. I bisogni culturali della classe infocratica sono sempre più sofisticati. I problemi di accoglienza, integrazione, e acculturazione per la nuova classe di immigranti rimangono per ora una questione molto delicata, spesse volte evitata. Il progetto per “Roadtown E-R” inizia con la strategia di rinnovamento delle infrastrutture, per ottenere alcuni miglioramenti sociali ed estetici. L’unico fatto politico - o quasi - sul quale si riesce a raggiungere un facile consenso, è la modernizzazione delle infrastrutture. Se si potesse creare una maggiore integrazione dei mezzi, trasformando la via Emilia in asse intermodale, i benefici sarebbero per tutti, anche per gli ambientalisti. Se invece si continua a privilegiare l’automobile, i benefici saranno meno distribuiti, e l’impatto sull’ambiente sarà sempre più appesantito. Per ottenere più cooperazione in un programma di intermodalità occorre incentivare i progetti in grande scala, come quelli della legge 19/98, che hanno come obiettivo la integrazione dei mezzi, tramite parcheggi collegati alle stazioni, piste ciclabili, collegamenti con gli scali merci, le stazioni dei tram e delle corriere, e cosi via. Ci sono già leggi ed interventi sul quali basare un approccio più coordinato. Il piano regionale dei trasporti, il

PRIT, approvato dalla Regione nel 1999, prevede di convertire una parte del trasporto industriale dagli automezzi alla ferrovia. Il grande Interporto di Bologna, una stazione di depositi per mezzi di trasporto pesante, si trova a dieci chilometri verso nord, è già in funzione da alcuni anni, ed è un buon esempio di come ridurre l’impatto degli automezzi sul tessuto urbano, creando un nuovo tipo di scalo merci dove camion e treni possono trovare meno ostacoli nello scambio. Molte città della regione (Bologna, Modena, Cesena, Forlì) stanno programmando l’addizione di nuovi strati alle stazioni ferroviarie per integrare meglio gli autobus, i parcheggi e i passaggi pedonali. Stiamo quindi assistendo alla nascita di frammenti di una megastruttura a vari livelli per facilitare le funzioni di transito. Altri programmi, commerciali e sociali, si possono aggiungere negli spazi tangenti: dai centri commerciali alle scuole, dai cinema alle case per immigrati, dagli studi artigianali ai centri sportivi. La rigida classificazione e la discreta recinzione dei siti post-industriali si devono aprire ai programmi incrociati che combinano infrastrutture con funzioni economiche e funzioni sociali. Questo manifesto vuole superare l’utopismo di Chambless, dichiarando che una megastruttura lineare è già in atto. Ma un po’ di sano idealismo rimane vicino al modello originale quando si chiede che gli interventi possano rallentare l’entropia crescente e allo stesso tempo creare un ambiente collettivo più equo. Tra i siti da riqualificare ci sono due situazioni diverse. Quelli che si possono collegare all’asse di “Roadtown E-R”, e quelli che restano fuori e appartengono ad un patrimonio archi-

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tettonico-ambientale da proteggere. Aumentare la densificazione urbana lungo la via Emilia aiuterebbe a scoraggiare la crescita centrifuga delle città verso la campagna, e nello stesso tempo favorirebbe più opzioni di trasporto integrato e flessibile, riducendo perciò l’utilizzo dei carburanti. Il recente appello di Pier Luigi Cervellati a considerare tutta la regione come un parco naturale, nel quale non si può cambiare niente, è una sfida provocatoria, tanto che richiederebbe una svolta teocratica per applicarla.13 D’altra parte, il 7% della regione è attualmente schedato come parco naturale e si potrebbe insistere in più terre vincolate e in più collegamenti contigui tra parchi. Più di venti fiumi e torrenti incrociano la via Emilia e hanno il diritto di chiamarsi “parchi fluviali”, ma in pochi casi le rive di questi corsi d’acqua sembrano essere oasi naturali. Ci vorrebbe uno sforzo concertato per creare confini articolati, anche utilizzando fatti architettonici dove i parchi intersecano l’asse di “Roadtown”. Per risanare le zone periferiche dove si trovano alcuni siti da riqualificare, sarebbe legittimo demolire gli edifici anomali dei paesaggi extraurbani e non ricostruire, facendo un sacrificio per la natura, cercando di ristabilire il ritmo tra città e contado. Per pianificare “Roadtown E-R” in modo non oppressivo occorre ricordare lo spirito cooperativo espresso nel sistema dei portici di Bologna. Ogni palazzo è legato al prossimo con un percorso coperto che fa parte del corpo architettonico di ogni edificio ma rimane un fluido spazio pubblico di gradevole utilità. I portici avevano origine spontanea, ma dal 1249 sono definiti, protetti, e incoraggiati negli statuti urbani del Comune.14 L’effetto estetico dei portici trasmette grande eterogeneità, essendo costruiti ad incrementi graduali da attori diversi. Non sono generati da un’imposizione autoritaria, ma sono un prodotto collettivo, espressione di una straordinaria unità sociale. La realizzazione di “Roadtown E-R” dovrebbe ricalcare questo processo urbano, per una parte frutto di legislazione e incentivazioni, ma anche espressione di molteplici attori individuali, che contribuiscono ad un sistema misto di infrastrutture per il bene collettivo. “Roadtown E-R” non assomiglia al gelido assetto di Brasilia, ma nemmeno alla mercificata confusione della strip commerciale americana. Come i portici bolognesi, “Roadtown” sarà un insieme equilibra-

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to di molti frammenti individuali che contribuiscono ai collegamenti per i servizi collettivi. questo saggio proviene, semmai in forma leggermente diversa, dal catalogo L.R.19/98. La Riqualificazione delle aree urbane in Emilia-Romagna, a cura di Piero Orlandi, Editrici Compositori, Bologna, 2001. 1 Pier Luigi Cervellati, Emilia Romagna. Cultura delle città, Cantini, Bologna 1987. Cervellati cita Lucio Gambi e Riccardo Bacchelli per la tesi di un’unica realtà urbana, o la “strada regione.” Nonostante alcune pieghe, per esempio nel tratto intorno a Cesena, la via Emilia mantiene una perfetta linea retta come nessun’altra strada in Europa. L’antica via Emilia prende il suo nome da Marco Emilio Lepido, il conquistatore di Bologna e comincia cronologicamente con Piacenza, rifondata nel 190 a.C., e Bologna, costruita sopra Felsina nel 187 a.C. 2 Marzia Marchi, “La formazione della rete ferroviaria in Emilia Romagna (1842-1934)” in INARCOS, 1997. Gli accordi per congiungere le linee esistenti erano già stati presi dal governo austriaco, dal Vaticano, dal Granducato di Toscana, e dai Ducati Emiliani negli anni 50 dell’800, ma la realizzazione cominciò dopo l’Unità. 3 Enrico Mendumi, L’Autostrada del Sole, Il Mulino, Bologna 1999. La più controversa tappa dell’autostrada fu a Modena, dove passa dal nord al sud della via Emilia 4 S. Boeri, A. Lanzani, E. Marini, Il Territorio che cambia. Ambienti, paesaggi e immagini della regione Milanese, Abitare Segesta, Milano 1993. Monza fa parte della zona della Brianza, dove negli ultimi venticinque anni le città si sono amalgamate al punto da non riuscire a distinguere una dall’altra. 5 La demografia delle città lungo la via Emilia: Piacenza, 98.732; Firenzuola D’Arda, 13.468; Fidenza, 23.029; Parma, 167.523; Reggio Emilia, 14.482; Rubiera, 10.231; Modena, 175.485; Castefranco Emilia, 23.011; Anzola Emilia, 10.176; Calderara di Reno, 33.145; Zola Predosa, 16.037; Casalecchio di Reno, 33.145; Bologna, 382,006; Pianoro, 15.817; San Lazzaro di Savena, 28.740; Castel San Pietro Terme, 18.976; Imola, 64,184; Faenza, 53.325; Forli, 107.279; Forlimpopoli 11.280; Cesena, 89.510; Savignano sul Rubicone, 13.879; Sant’Arcangelo di Romagna, 18.518; Rimini, 130.160; Riccione, 33.678 (totale: 1.712.810). I due assi tangenti verso Ferrara e Ravenna: Ferrara, 132.697; San Pietro in Casale, 9.438; Lugo, 31.623, Ravenna 138.122 (totale: 311.880). La popolazione dell’intera regione: 3.959.924. 6 Eugenio Turri, La megalopoli padana, Marsilio, Venezia 2000. 7 Jose Ramon Alonso Pereira, La Ciudad Lineal de Madrid, Caja de Arquitectos, Madrid 1998. 8 Albert Pope, Ladders, Rice University School of Architecture, Houston 1996. 9 Richard Ingersoll, “Welcome to Roadtown: a Fable,” in Cities in Motion: Toys and Transportation, Centre Canadien d’Architecture, Montreal 2000. Con l’arrivo dell’automobile di massa negli anni ’20, l’idea di Chambless ha perso ogni motivazione, tranne quella ambientale. L’autore, che pubblicò da solo il suo testo come atto di propaganda nel 1910, portò avanti, con scarsi risultati, la sua campagna divulgativa fra uomini d’affari e politici fino al suicidio nel 1935. 10 Marc Treib, “Osaka: Undergound in Umeda,” in Streets. Critical Perspectives on Public Space, a cura di: Z.Celik, D. Favro, R. Ingersoll, University of California Press, Berkeley 1994. 11 James Holston, The Modernist City. An Anthropological Critique of Brasilia, University of Chicago Press, Chicago 1989. 12 Aldo Bonomi, Il capitalismo molecolare. La società al lavoro ne Nord Italia, Einaudi, Torino 1997. 13 Pier Luigi Cervellati, L’arte di curare la città, Il Mulino, Bologna 2000. 14 Naomi Miller, Renaissance Bologna, A Study in Architectural Form and Content,: Peter Lang, New York 1989.



Viaggio nell’architettura del Novecento: la Toscana Ezio Godoli

Foto: Archivio Fondazione Michelucci

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La mostra Viaggio nell’architettura del Novecento: la Toscana, e il relativo catalogo (Edizioni Polistampa), rappresentano il compimento di due degli obiettivi prioritari di un programma pluriennale di ricerca proposto dalla Fondazione Michelucci e finanziato dalla Regione Toscana: realizzare un inventario regionale delle architetture del XX secolo che possa svolgere una funzione di sensibilizzazione dell’opinione pubblica al problema della loro tutela e, al tempo stesso, avviare un monitoraggio dello stato di salute di tale patrimonio. Sono dati scontati che una efficace politica di salvaguardia non possa svilupparsi in assenza di un largo consenso e che quest’ultimo possa essere assicurato soltanto da una azione continua di educazione del pubblico, capace di avvalersi di diversi strumenti di comunicazione e soprattutto di ottenere udienza presso i media. Un impegno “didattico” di tal tipo appare ancor più urgente quando si ha a che fare con un patrimonio edilizio di cui generalmente abbiamo difficoltà a riconoscere il valore d’arte o di documento storico, per la sua vicinanza temporale, per la sua appartenenza al paesaggio della nostra vita quotidiana, per la consolidata abitudine a considerarlo principalmente dal punto di vista del valore d’uso. Privato per queste ragioni dell’aura del monumento, esso viene naturalmente associato ad un destino di consumo e di trasformazione. Il fatto che le architetture più recenti siano prevalentemente considerate per il loro valore d’uso trova, del resto, una eloquente conferma in alcune sentenze che hanno loro negato quel diritto alla protezione dalle manomissioni assicurato ad

altre creazioni dell’ingegno dalla legislazione sul diritto d’autore. La soprelevazione di un piano di un edificio d’autore non provoca ancora lo scandalo che susciterebbe l’addizione arbitraria di un capitolo a un romanzo di Calvino o di un movimento a una sinfonia di Stravinskij. Con tutta evidenza, sebbene esplicitamente menzionata tra le arti “protette” dalla convenzione di Berna sul diritto d’autore sottoscritta pure dall’Italia, l’architettura gode ancora di un trattamento differenziato, che la rende particolarmente esposta a mutilazioni e alterazioni. Questo ovviamente non esclude che, anche per le realizzazioni di data più recente, possano essere trovati altri strumenti normativi di tutela. Ma anche la possibilità di disporre di una adeguata legislazione sarebbe di per sé insufficiente in assenza di una decisa volontà politica di avvalersene, che può essere imposta solo dalla pressione di influenti gruppi di opinione, come stanno a dimostrare i successi (in verità ancora pochi) conseguiti in Europa dalle associazioni culturali o dai comitati di quartiere che hanno avviato campagne di mobilitazione in difesa di testimonianze dell’archeologia industriale o dell’architettura del XX secolo. Da simili considerazioni è stata suggerita la scelta inconsueta di allestire la mostra non in una sede frequentata da un pubblico di addetti ai lavori, ma in un luogo di grande transito, come la stazione di S. Maria Novella, che è anche uno dei monumenti più rappresentativi dell’architettura toscana del secolo passato. In tale decisione era implicita una sfida gravida di rischi: quella di riuscire a catturare l’attenzione di


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1 La stazione di Santa Maria Novella (foto Bazzechi) 2 Il cantiere della stazione (foto Brogi)

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una massa di viaggiatori sottoposti a una molteplicità di richiami e sollecitazioni. Proprio al fine di creare una rete capace di intercettare l’attenzione distratta del maggior numero possibile degli utenti del servizio ferroviario si è deciso di distribuire la documentazione (costituita da stampe fotografiche, diapositive, fotocolor trasparenti, pannelli con foto e testi esplicativi) in diversi punti di grande transito accettando il rischio che fosse esposta a una rapida usura (salone delle biglietterie, galleria di testa, termine dei binari, atrio d’accesso al fabbricato viaggiatori dal sottopassaggio e dal garage sotterraneo, caffè del primo binario), anziché concentrarla in un luogo appartato che offrisse migliori condizioni di conservazione dei materiali. Anche dando per scontata una elevata percentuale di distratti, non sussistevano dubbi sul risultato di riuscire a raggiungere un numero di persone che non sarebbe stato possibile far convergere verso più canoniche sedi espositive. È peraltro auspicabile che la stazione fiorentina sia la prima tappa di un itinerario attraverso la Toscana, e anche attraverso gli istituti italiani di cultura all’estero, che consenta di sfruttare a pieno il potenziale educativo della mostra, contribuendo ad imporre all’attenzione di una popolazione disattenta, ed anche refrattaria ad apprezzarlo, la realtà di un patrimonio sottovalutato e a dissipare il luogo comune che la regione offra al turismo colto straniero una scelta rigorosamente circoscritta alle architetture medievali e rinascimentali. A qualche inguaribile ottimista, convinto che in Toscana già esista una consapevolezza diffusa dell’esigenza di sal-

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vaguardare anche il patrimonio architettonico del Novecento, dal liberty agli anni più recenti, tale impegno potrebbe apparire come un superfluo dispendio di energie. A smentirlo provvedono le cronache che registrano episodi recenti di distruzioni (particolarmente gravi a Firenze quelle dei cinema Capitol e Stadio di Nello Baroni) o di minacce di trasformazione di importanti testimonianze dell’architettura del secolo scorso (dal cinema Apollo – già Rex – di Baroni alla stazione di S. Maria Novella, al palazzo delle Poste in via Pietrapiana di Michelucci, per restare nella sola Firenze). Diversi episodi indicano che il patrimonio edilizio pubblico non è meno esposto al rischio di manomissioni di quello privato. Non vanno infatti sottovalutati i pericoli impliciti nella cattiva abitudine, comune a molte amministrazioni, di assumere decisioni relative ad ipotesi di riuso di importanti manufatti del XX secolo non solo senza alcuna consultazione popolare (come avviene nella vicina Svizzera dove, all’opposto, si eccede nel ricorso al referendum ogniqualvolta si tratta del destino di edifici di rilevante interesse pubblico, dalla fabbrica ottocentesca alla sala cinematografica degli anni ’20), ma anche senza una adeguata pubblicità, nel chiuso delle “segrete stanze” attraverso trattative con studi professionali privati, evitando accuratamente il ricorso all’istituto del concorso d’idee (emblematica è a tal proposito la vicenda del mercato orto-florofrutticolo di Pescia). Né meno censurabile appare la consuetudine, ormai solo italiana, di affidare i restauri di importanti architetture del XX secolo a professionisti generici, abituati ad operare indifferentemente su

edifici di diverse epoche, forti di un vecchio dogma – oggi largamente contestato – secondo cui non esisterebbe una specificità del restauro dell’architettura contemporanea e le stesse metodiche sarebbero applicabili a costruzioni di epoche diverse. È questo un patetico tentativo di difendere una anacronistica figura professionale che trova ancora libero corso solo in Italia e che non risulta in grado di competere con il modello operativo, che si va ormai diffondendo nel resto dell’Europa, del gruppo nel quale sono compresenti diverse competenze, sotto la responsabilità scientifica dello storico dell’architettura (generalmente di formazione umanistica, per il limitato sviluppo che hanno avuto, in altri paesi, gli studi storici nelle scuole di architettura). La raccomandazione, espressa con particolare enfasi nei documenti sul restauro dell’architettura contemporanea diffusi dagli organismi internazionali, che il progetto di restauro sia fondato su una approfondita conoscenza storica dell’opera, del suo autore e del contesto culturale e materiale che la ha prodotta, risulta largamente disattesa in Italia, mentre nessuna amministrazione pubblica, in Germania o in Belgio, si azzarderebbe ad affidare il restauro di una Siedlung di Bruno Taut, di Walter Gropius o di Ernst May o di un hôtel particulier di Victor Horta o di Paul Hankar ad una équipe della quale non facesse parte uno storico dotato di una conoscenza specialistica di questi autori e non solo del periodo nel quale hanno operato. Quando mai in Italia, prima di affidare un incarico a un professionista, è stata richiesto un curriculum vitae che attestasse una conoscenza specialisti-


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ca dell’opera e del suo autore? Al contrario si è incoraggiato, e si continua ad incoraggiare, il dilettantismo di professionisti del restauro buoni per tutte le stagioni, con una sovrana noncuranza dei danni che tale pratica può arrecare ad un patrimonio collettivo. Si potrebbe obiettare che tale ruolo di supervisione può essere svolto in Italia dalle soprintendenze, ma sarebbe eccessivo pretendere che, con gli attuali organici, esse possano assolvere efficacemente anche a questo compito. Ed anche una volta che fossero potenziati gli uffici deputati ad occuparsi dell’architettura contemporanea, non è ipotizzabile che essi siano in grado – senza il supporto di competenze esterne – di assicurare una concentrazione di conoscenze specialistiche riferite ad un patrimonio costituito (è opportuno sottolinearlo) da un numero elevato di edifici. Il dato quantitativo finisce infatti con l’assumere un ruolo determinante nella messa a punto di strategie di gestione di tale patrimonio praticabili, perché sostenibili in termini economici e capaci di assicurare un grado accettabile di conservazione dell’opera. Vale la pena, a tal proposito, di riflettere sulle ragioni che hanno indotto, nei documenti relativi al restauro dell’architettura contemporanea, a sostenere con particolare insistenza la necessità di fondare su una approfondita conoscenza storica il progetto di restauro. Questa posizione è conseguente a un atteggiamento realistico che, di fronte all’elevato numero di costruzioni suscettibili di essere incluse nell’inventario del patrimonio edilizio del XX secolo, dà per acquisite l’impraticabilità e l’insostenibilità di un’operazione generale

di congelamento, di ibernazione dei manufatti nel loro stato di origine (scelta questa giustificabile solo per un nucleo ristretto di opere altamente rappresentative, e come tali riconosciute da una nutrita letteratura), e collega le loro prospettive di sopravvivenza alla possibilità di adattarli a nuove funzioni. Questa disponibilità intellettuale all’idea di mutamento, come condizione inevitabile per assicurare all’edificio quella vitalità che sola ne può giustificare la conservazione, comporta come operazione prioritaria la fissazione dei limiti dell’intervento di trasformazione. Una analisi del manufatto che non si limiti soltanto ad individuare nuove destinazioni d’uso compatibili con le sue caratteristiche tipologiche e costruttive, ma che produca anche l’elenco degli elementi da considerare intangibili per l’eccezionalità del loro valore d’arte, di memoria o di documento, su cosa può essere fondata se non su un profondo sapere storico? Per potere assumere in maniera responsabile decisioni che comportano necessariamente delle rinunce è indispensabile una conoscenza di alto livello specialistico, capace di orientare la selezione degli elementi da vincolare sulla base di uno studio approfondito dell’opera in relazione al complesso della produzione del suo autore e del suo periodo culturale, al suo contesto regionale, all’organizzazione del cantiere e alle tecniche costruttive dell’epoca, ecc. Questi cenni ad una problematica che necessiterebbe di una esposizione più estesa servono ad introdurre altri aspetti dell’utilità del lavoro di censimento e di schedatura svolto dai ricercatori della Fondazione Michelucci e

3 La chiesa di Santa Maria Novella e sullo sfondo la stazione ferroviaria (foto Barsotti) 4 Uscita dalla galleria arrivo treni (foto Barsotti)

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condensato nel CD Rom allegato al catalogo della mostra. Sebbene ancora incompleto, condizionato dalla necessità di prendere in considerazione in modo equilibrato le diverse realtà provinciali della Toscana e di fornire una ampia selezione delle diverse tipologie architettoniche, questo lavoro - che va considerato come work in progress - si propone innanzitutto come impianto di base di una banca dati nella quale fare confluire tutte le informazioni necessarie ad impostare uno studio storico approfondito dei singoli edifici (fonti bibliografiche e archivistiche, disegni di progetto e esecutivi, fotografie d’epoca, ecc.) e a segnalare le loro principali peculiarità. Coerente con questa concezione di un lavoro necessariamente in divenire è stata la decisione di diffondere i risultati del lavoro di schedatura mediante un supporto di agevole aggiornamento e di prendere in considerazione l’eventualità di una futura immissione in rete. Altra non trascurabile finalità di questo prodotto è quella di offrirsi come strumento per l’elaborazione, a scala regionale, di un piano di salvaguardia del patrimonio architettonico del XX secolo, che, individuate le architetture di cui si ritiene irrinunciabile la conservazione e il restauro, evidenzi i casi critici per i quali risulti particolarmente ardua l’elaborazione di progetti di tutela, indichi le priorità e fornisca un quadro generale di riferimento entro il quale promuovere e orientare iniziative, pubbliche o private, verso interventi di riconversione funzionale degli immobili, compatibili con la salvaguardia dei loro caratteri tipologici, strutturali e formali, e fondati su una attenta valutazione dei bisogni

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delle città e del territorio. Molto spesso infatti la perdita di importanti testimonianze dell’architettura del secolo scorso è imputabile non alla insostenibilità della loro conservazione per ragioni d’ordine economico o urbanistico, ma più semplicemente alla mancanza di idee, a scelte estemporanee imposte da poteri forti in assenza di una ponderata valutazione delle possibilità d’uso dell’immobile in relazione ai bisogni del quartiere e della città. Per restare ai casi fiorentini citati, rimane ancora da dimostrare che in prossimità di piazza della Signoria, di Palazzo Vecchio e degli Uffizi fosse più utile un centro commerciale Benetton che un’ampia sala utilizzabile per convegni, conferenze e altre manifestazioni, come quella del distrutto cinema Capitol, oppure che in una posizione strategica per la vicinanza alla stazione, al palazzo dei congressi e al polo espositivo della Fortezza da basso, la scelta migliore sia insediare un centro commerciale e di accoglienza per turisti in una grande sala, come quella del cinema Apollo, celebrata al tempo della sua costruzione per l’acustica esemplare. Contribuire ad avviare una più ponderata riflessione su questi temi è il risultato più importante che la mostra e il catalogo hanno inteso perseguire, e non mancano segnali che stanno ad indicare come la provocazione non sia rimasta inascoltata. E sarebbe una grave responsabilità che un progetto come questo venisse archiviato, condannato ad esaurire la propria carica propulsiva proprio nel momento in cui questa comincia a dimostrare a pieno la propria capacità di comunicare con un ampio uditorio, di attivare sinergie e

di stimolare nuove iniziative (come sta ad indicare il programma dell’Itinerario alle origini del contemporaneo 18701970: architettura e decorazione murale, organizzato, nel quadro della IV settimana per la cultura, dal Ministero per i beni e le attività culturali e dalla Soprintendenza per i beni architettonici e il paesaggio e per il patrimonio storicoartistico e demoetnoantropologico delle province di Firenze, Pistoia e Prato).

5 Salone della biglietteria (foto Barsotti) 6 Ingresso alla stazione lato Valfonda negli anni ’30 7 Galleria arrivo treni (foto Locchi)


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Abitare la terra rivista trimestrale diretta da Paolo Portoghesi Gangemi editore, Roma Paolo Portoghesi architetto Skira editore, Milano, 2001

letture

A chi volesse oggi cercar di ragionare sulla resistenza ovvero sulla plausibilità dell’architettura italiana si dovrebbe forse suggerire di non leggere le riviste di architettura. Numerose, troppo numerose forse, lussuose e patinate, con l’ansia di piacere a tutti i costi a un pubblico molto variegato (anything goes?), talune normalizzate da quel pensiero unico che fa risparmiar corrispondenti (e amore per l’architettura), talaltre riconoscibili per avere sotto il vestito niente, altre ancora sgarbatamente riaperte sotto nuovo padrone o direttore, senza neanche farci un saluto: ecco uno spaccato significativo delle riviste italiane di architettura. Ingratitudine dei tempi, ma, come dice la canzone dopo aver fatto l’elenco di quel che non va, il

cielo è sempre più blu. Quindi forse va bene così. Felice eccezione in questo panorama, la programmatica nuova alleanza tra uomo e ambiente serenamente promessa da Abitare la terra, diretta da Paolo Portoghesi. Ancora una volta un’impresa di generosità intellettuale e curiosità rara, dove l’ottimismo forse eccessivo che fu della precedente Eupalino (magnifiche e illuminate ancorché ormai intransitabili sorti…) si tramuta in consapevolezza per la finitezza delle risorse e necessario ricominciamento a partire dal primordiale abitare. E se per primo Loos, tra i Moderni, cercò di declinare il tema del risarcimento verso la memoria offesa della città, verso i suoi perduti Maestri, gli antichi Romani grandi costruttori, Fischer von Erlach, K.F.Schinkel, verso le origini dimenticate e la ragioni semplici delle cose, ci pare di ritrovare analogo desiderio di risarcimento nel tentativo di riconciliare l’uomo alla terra interrogandosi su quel comune impasto che lega indissolubilmente abitare/essere a coltivare/costruire. Come per Loos però, Abitare la terra sembra voler essere ripensamento senza sensi di colpa, ma con alta consapevolezza e responsabilità civili, forse uno spirito di servizio in funzione dell’equilibrio da recuperare, o almeno verso il quale tendere. Non la statica cristallizzazione o la fissità ossessiva, ma quell’equilibrio dinamico che solo si impara dalla natura, fatto anche di ripetizioni mai identiche (come le foglie di G.Semper, le foglie che tante volte Portoghesi ridisegna), piuttosto imparentate con laiche sacralità, riti che nella loro origine nascondono un mito. Di volta in volta architettura come messa in opera della natura, coltivazione architettonica del paesaggio o, con Goethe, seconda natura

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che opera a fini civili. Comunque un singolare e fecondo modo di intendere topografie antropizzate. E in tutto ciò rischiare di accorgersi di quella analogia tra il sinistro accartocciarsi delle facciate di acciaio delle torri (…) e il volto tormentato e “decostruito” di certe architetture (P.Portoghesi). Quando i mostri metropolitani preconizzano catastrofi, c’è al contempo chi si adopera ad esorcizzare Apocalissi, confinandole nel regno del virtuale: a sovrapporre i grovigli incastrati disegnati da Liebeskind alle immagini recenti già mille volte consumate di Manhattan implosa, o quelle facciate berlinesi afflosciate come un sacco vuoto o ancora le torri di Lione simili a tubi ammorbidi dal fuoco, torna la convinzione antica che comunque l’architettura rispecchia il mondo, o quei frammenti di mondo in cui sorge, e ci aiuta a capire lo spirito del tempo. Malgrado quello schricchiolio prolungato e inquietante, amplificato dall’architettura, che in chiusura di secolo preannunciava terremoti, slittamenti e clamorose deflagrazioni, ci rasserenano le belle parole che Portoghesi in apertura dedica a la tenera crescita e che si interrogano se l’architettura

possa aiutarci anche – come spesso è avvenuto nella storia – a orientare quel mondo, ed a cambiarlo. Può sembrare un paradosso che nell’epoca che tesse gli elogi della complessità si debba ripartire da un’unità originaria che, se correttamente interrogata, sarà capace nuovamente di mostrarci possibili percorsi. E allora, a fianco della resistenza che lega al paesaggio i monumenti padani (P.Zermani) o al discreto aggiustare la città cercando con pochi gesti l’identità di una piazza fatta da architetto e non da urbano arredatore (N.di Battista su P.Giordano), lo stupore divertito e intrigante di ritrovare per gradi successivi di avvicinamento alla natura il Bernini tra corporalità e angelo nella Cappella Cornaro, il ritorno della memoria delle pietre (sempre palazzi/città/labirinti intorno al Mediterraneo), i dubbi sulla semplificazione delle meccaniche classica e quantistica in favore di una più adeguata presenza di caos e instabilità, ancora le riflessioni sui cristalli come specchio della creazione e depositari di principi trascendenti ed eterni imparentati al costruire (M.Casciato) accostate alla metamorfosi del vetro che nella sua seconda vita riciclata torna ad essere natura artificiale, montagna e piramide che nel suo progetto prevede anche un dissolvimento dolce, non traumatico, né aggressivo per l’ambiente (V.Gangemi). Non così distante, dunque, la bella monografia con l’introduzione di C.Norberg-Schulz dedicata a Paolo Portoghesi architetto (2001, Skira editore, Milano) dove Giovanna Massobrio ci parla di “Architettura come vita” che parte da quello sguardo smanioso di conoscere una cosa per estenderlo (…) a tutto quello che gli sta intorno come in una rete che non finisce mai, sconfinando dal campo dell’architettura in quelli meno vicini. Interessi che non rimangono separati, ma si compenetrano l’uno nell’altro: storia, scienza, natura, filosofia, psicologia… per poi tornare all’architettura con una sapienza concreta che dava alle cose costruite un’impronta profondamente umana. Versus l’amnesia e la moda del Mo-


derno con le sue cartilagini bianche, ecco allora il “muro inflesso” di Portoghesi (valga per tutti il Nuovo Politeama di Catanzaro), l’arte aperta della memoria in continuo scambio tra il giusto senso di “radicamento” ad un luogo (Norberg-Schulz) e l’inevitabilità di un moderno del tutto trasfigurato e laico, per nulla ideologico, quasi edificio ambiguo aperto a molteplici interpretazioni (dalla primissima Casa Baldi fino alla ben più recente Moschea di Roma). Tradizione e memoria appunto come trasfigurazione e metamorfosi; forze profondamente radicate che, a Roma in particolare, hanno piegato ad un particolare modo di intendere il rapporto col passato costruttori venuti di lontano come Bramante, Raffaello, Michelangiolo, Bernini, Maderno e Borromini. E nel lavoro di architetto diviene allora materia da costruzione il dialogo con le figure leonardesche di foreste pietrificate o le colonne ad tronconos del Bramante nel cortile di Sant’Ambrogio: ritornano nel salone di uno stabilimento termale, geometrizzate in uno show-room, liberate nuovamene nel restauro di un palazzo dove prendono corpo nella straordinaria introduzione di una scala-albero. E poi ancora memorie di moderni eretici e scomodi come Ridolfi, forse Albini, Plecnik, Van de Velde che fu a sua volta rivisitato da Perret, in una contaminazione costante tra tipo e luogo, facendo nella maggior parte dei casi vincere la trasfigurazione del tipo attraverso le suggestioni e le trame antiche dei luoghi? Per questa via dunque indagare mondi di forme sul confine, inquietante oscillazione per i classificatori della fissità e per i custodi dei frigoriferi: come per esempio nel caso della costellazione urbana del Vallo di Diano, ove continuo è lo scambio tra la tradizione colta e quella popolare recuperando un singolare carattere della tradizione barocca campana, oppure ancora a proposito della Moschea e del Centro culturale islamico di Roma dove ci si interroga sui fili perduti che un tempo univano la cultura musulmana e quella cristiana, ma anche sul mai risolto dialogo tra il gioco a contrasto tra pesi, spinte, resistenza della materia e l’alterazione operata da fattori puramente visivi. Per chi provenga da esperienze distanti da quelle che la monografia di Skira ci presenta, posson forse diversi tra i progetti pubblicati apparire eccessivi o quantomeno non immediatamente leggibili con codici condivisibili, eppure la grande generosità intellettuale e il disinteressato entusiasmo che emerge dall’opera costruita e teorica di Paolo Portoghesi sembra superare i motivi di differenza per far rileggere d’un fiato, senza quasi potersi permettere dei distinguo, la vicenda degli ultimi quarant’anni di architettura italiana. Anche e soprattutto nei suoi aspetti più polemici e provocatorî: ci si volti indietro a guardare la Via Novissima, il Teatro del Mondo ancorato alla punta della Salute che Portoghesi fece costruire ad Aldo Rossi, ancora la sperimentazione del 1971 alla Facoltà di Architettura di Milano occupata e la sospensione dall’insegnamento dei professori complici del preside Portoghesi (Albini, Bottoni, Belgiojoso, Canella, Rossi…) e si pensi a che cosa sarebbe oggi l’architettura italiana e la sua scuola se non avesse vissuto tutto ciò. E ancora non possiamo sentirci estranei perché tutto ciò passa inevitabilmente per gli eroici frontespizi di Controspazio, per quella stupefacente quantità di pubblicazioni a tutt’oggi imprescindibili per chi si accinga a comprendere la vicenda recente della nostra architettura, ma anche per quei volumi che hanno riscritto dall’interno della disciplina dei costruttori le figure di Guarini, Michelangiolo, Leonardo fino alla straordinaria rilettura di Borromini, di cui Portoghesi nel ridisegnare l’opera finisce quasi a costruirla ex-novo… e ancora l’architettura del Rinascimento a Roma, il Moderno degenerato di Horta o i mobili Thonet, fino appunto a quell’ottimismo di Eupalino o alla ricerca di nuove energie al fianco della presenza del passato tentata con Materia. Per l’architettura italiana a venire auguriamo la stessa voglia di continuare a porre domande più che confezionare risposte gratificanti e illusorie, la stessa vitalità, entusiasta, consapevole, serena. Francesco Collotti

Roberto Maestro Il bello e il brutto a cura di: Valentina Baroncini Polistampa, Firenze, 2002 Cos’è il brutto nelle nostre città? Quali ragioni, estetiche e sociali, lo hanno causato? In quali casi l’imbruttimento può essere un fenomeno arginabile, reversibile? Può, il brutto, avere aspetti “positivi”, qualità? Roberto Maestro, ne “le ragioni del brutto”, il primo capitolo di questo testo di diversi autori, tratta questi ed altri interrogativi. Per niente interessato al progetto “ex novo”, intravede possibilità positive di riscatto proprio nel ripensamento, nel riuso. Il titolo del suo capitolo, “le ragioni del brutto” si deve, infatti, intendere proprio in questo senso: quando e perché anche il brutto ci affascina, ci attrae? Nel suo essere “vero”, pertanto a volte migliore dell’”abbellimento”? Quando il brutto è bello, ed il bello brutto? Maestro parte da un’analisi del degrado della

sua città, Firenze, stilando punti sui perché del degrado e trovandolo anche nel centro storico più importante e conosciuto, e scorgendo, invece, fenomeni interessanti nei retri di case di periferie o d’edilizia lungofiume (specialmente lungo il Mugnone), dove costruzioni spontanee animano il territorio di gran creatività ed inventiva. Dopo aver analizzato le fasi del degrado, passa ad una seconda, interessantissima parte nella quale elenca in quattordici punti le possibilità d’intervento su di una costruzione esistente (1.crescita per aggiunta di corpi, 2.aggiunta di facciate, 3.sopraelevazione, 4.svuotamento dell’interno, 5.specularità, moltiplicazione, raddoppio, 6.demolizione parziale, 7.trasposizione ed innesto di parti, 8.ribaltamento percettivo, 9.mimetizzazione, 10.cambio di pelle o di colore, 11.cambio di funzione, 12.scavi, 13.architettura nell’architettura, 14.effimero), intravedendole anche e soprattutto non tanto in esempi “aurei” dei maestri, ma nella crescita comune e spontanea della sua città. Paola Puma continua l’analisi su Firenze in un quartiere della città particolarmente degradato, Novoli, trattando dei temi più generali della periferia e di un possibile recupero della qualità urbana, offrendo, per questo scopo, linee guida. Marcello Balzani tratta del rilievo del brutto (operando con esempi tratti dalla costa adriatica), compiendo un’operazione estetica e interrogandosi su quali siano i nuovi valori da dare al bello ed al brutto, interessandosi ai nuovi caratteri d’indeterminazione, caos, perdita di carattere, confusione di scale propri della città contemporanea. Valentina Baroncini si occupa dei rapporti fra casualità e progetto in architettura, dei progetti

deviati rispetto alle intenzioni iniziali, dunque di un particolare aspetto del brutto: il non finito, trovandolo, invece, spesso assai bello, e suddividendolo in categorie/possibilità d’intervento a seconda della quantità di materiale rimasto rispetto ad una presunta opera originaria e dell’importanza attribuita all’opera (frammento/ spolio, rudere/conservazione dello stato di degrado, parzialità rispetto al progetto originario. Silvia Mantovani si occupa delle aree verdi, spesso tali solo sulla carta, in realtà più frequentemente vuoti mai pensati, a volte imbruttiti dallo stesso “verde attrezzato”. Queste letture e queste immagini fanno riflettere su come gli architetti stanno trasformando le nostre città e soprattutto su come queste si costruiscono loro malgrado. Claudio Zanirato

Gian Carlo Leoncilli Massi Danteum Angelo Pontecorboli editore, Firenze, 2000 La proposta di un tema come il Danteum, moderno tempio laico, in un luogo così profondamente segnato dalla storia come Firenze, nasce e si sviluppa nell’ottica di un parallelismo, certamente non stilistico, ma etico-disciplinare, con l’omonimo progetto romano di Terragni. La scelta del Danteum va ben oltre i risultati pur lusinghieri di una semplice esercitazione didattica, diventa un gesto alternativo all’attuale civiltà dell’immagine che insidia l’antico “mestiere dell’architetto”, contribuendo in tal modo a marcare la differenza tra la pratica di un progetto che soltanto produce oggetti edilizi ed il processo conoscitivo del comporre che esplicita l’idea spaziale in forma. Tale manifesta “diversità” culturale offre l’occasione per riflettere sulla necessità di recuperare la pratica di un disegno che sia forma dello “scrivere” architettonico, di riconquistare quella “sintassi” che un tempo sapeva dare leggibilità allo spazio in rapporto al contesto ed alla tradizione. Ciò significa scoprire il valore del “silenzio” in un mondo dominato dal “rumore” degli spazi multimediali, significa soprattutto ritrovare la dimensione simbolica di un’architettura intesa come “monumento a se stessa, al suo interno processo di costruzione”. Contributi di: Salvatore Di Pasquale, Gian Carlo Leoncilli Massi, Loris Macci, Gabriele Morolli, Elena Pontiggia, Andrea Ricci, Daniele Spoletini, Timothy Verdon. Andrea Ricci

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1 Piero Paoli 2 Paolo Zermani 3 Duccio Brunelli, Alessandro Gioli, Loris Macci, Francesco Gurrieri, Ugo Baldassarri, Alberto Baratelli 4 Flaviano Maria Lorusso 5 Giacomo Pirazzoli 6 Fabio Capanni 7 Marco e Fabrizio Arrigoni 8 Vittorio Pannocchia 9 Grazia Gobbi Sica 10 Paolo Portoghesi 11 Luis Moreno Mansilla e Emilio Tuñón Alvarez 12 Giuseppe Poggi 13 Elizabeth Merk

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI FIRENZE - DIPARTIMENTO DI PROGETTAZIONE DELL’ARCHITETTURA

Direttore - Marco Bini - Sezione Architettura e Città - Gian Carlo Leoncilli Massi, Loris Macci, Piero Paoli, Alberto Baratelli, Andrea Del Bono, Paolo Galli, Bruno Gemignani, Marco Jodice, Maria Gabriella Pinagli, Mario Preti, Ulisse Tramonti, Antonella Cortesi, Enzo Crestini, Renzo Marzocchi, Enrico Novelli, Valeria Orgera, Andrea Ricci - Sezione Architettura e Contesto - Roberto Maestro, Adolfo Natalini, Giancarlo Cataldi, Pierfilippo Checchi, Stefano Chieffi, Benedetto Di Cristina, Alessandro Gioli, Gian Luigi Maffei, Guido Spezza, Virginia Stefanelli, Paolo Vaccaro, Fabrizio Arrigoni, Carlo Canepari, Gianni Cavallina, Piero Degl’Innocenti, Grazia Gobbi Sica, Carlo Mocenni, Paolo Puccetti - Sezione Architettura e Disegno - Marco Bini, Roberto Corazzi, Emma Mandelli, Maria Teresa Bartoli, Stefano Bertocci, Domenico Taddei, Barbara Aterini, Alessandro Bellini, Gilberto Campani, Marco Cardini, Marco Jaff, Giovanni Pratesi, Enrico Puliti, Paola Puma, Michela Rossi, Marcello Scalzo, Marco Vannucchi - Sezione Architettura e Innovazione - Roberto Berardi, Alberto Breschi, Antonio D’Auria, Remo Buti, Giulio Mezzetti, Marino Moretti, Mauro Mugnai, Laura Andreini, Lorenzino Cremonini, Paolo Iannone, Flaviano Maria Lorusso, Pierluigi Marcaccini, Vittorio Pannocchia, Marco Tamino - Sezione I luoghi dell’Architettura Maria Grazia Eccheli, Fabrizio Rossi Prodi, Paolo Zermani, Fabio Capanni, Francesco Collotti, Giacomo Pirazzoli - Laboratorio di rilievo - Mauro Giannini - Laboratorio fotografico - Edmondo Lisi - Centro di editoria - Massimo Battista - Centro di documentazione - Laura Maria Velatta - Centro web - Roberto Corona - Operatore Tecnico - Franco Bovo - Segretario Amministrativo - Manola Lucchesi - Amministrazione contabile - Carletta Scano, Debora Cambi - Segreteria - Gioi Gonnella - Segreteria studenti - Grazia Poli



www.carifirenze.it

Il futuro, da 170 anni.

La Cassa di Risparmio di Firenze è la banca che, da più di 170 anni, anticipa il futuro. Dove le idee si realizzano unendo all’esperienza di un solido passato, una costante apertura a ciò che di buono verrà. Non a caso è stata la prima realtà bancaria a credere nel remote banking, sviluppando tramite internet, telefono e wap nuovi servizi di virtual banking. Servizi che per molti sono ancora futuro.

La banca delle idee.


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