costruire la natura
FIRENZE
architettura
firenze architettura 1&2.2005
1&2.2005
costruire la natura
Periodico semestrale Anno IX n.1&2 Euro 10 Spedizione in abbonamento postale 70% Firenze
In copertina: Cave di marmo foto I. Bessi, Carrara Archivio Fondazionze Michelucci
Periodico semestrale* del Dipartimento di Progettazione dell’Architettura viale Gramsci, 42 Firenze tel. 055/20007222 fax. 055/20007236 Anno IX n. 1&2 - 1° semestre 2005 Autorizzazione del Tribunale di Firenze n. 4725 del 25.09.1997 Prezzo di un numero Euro 7 numero doppio Euro 10 Direttore - Marco Bini Coordinamento comitato scientifico e redazione - Maria Grazia Eccheli Comitato scientifico - Maria Teresa Bartoli, Roberto Berardi, Giancarlo Cataldi, Loris Macci, Adolfo Natalini, Paolo Zermani Capo redattore - Fabrizio Rossi Prodi, Redazione - Fabrizio Arrigoni, Valerio Barberis, Fabio Capanni, Francesco Collotti, Fabio Fabbrizzi, Francesca Mugnai, Giorgio Verdiani, Claudio Zanirato Info-grafica e Dtp - Massimo Battista Segretaria di redazione e amministrazione - Gioi Gonnella tel. 055/20007222 E-mail: progeditor@prog.arch.unifi.it. Proprietà Università degli Studi di Firenze Progetto Grafico e Realizzazione - Centro di Editoria Dipartimento di Progettazione dell’Architettura Fotolito Saffe, Calenzano (FI) Finito di stampare febbraio 2005 *consultabile su Internet http://www.unifi.it/unifi/progarch/fa/fa-home.htm
FIRENZE
architettura 1&2.2005
editoriale percorsi progetti e architetture
costruire la natura
riflessi
eredità del passato
eventi letture a cura di:
Contro Kafka Luciano Semerani
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Friedrich Schlegel e l’architettura “gotica” Daniele Pisani
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Arrigoni Architetti La casa del gabbiere Fabrizio Arrigoni
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Fabio Capanni Palestra “La Fonte” a Sesto Fiorentino Fabio Capanni
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Francesco Collotti, Giacomo Pirazzoli e Valentina Fantin La memoria nella pietra Francesco Collotti
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Maria Grazia Eccheli e Riccardo Campagnola con Michelangelo Pivetta Giardini Riccardo Campagnola
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Flaviano Maria Lorusso, Pier Paolo Perra e Alberto Loche International design competition for a New Tomihro Museum of Shi-ga Flaviano Maria Lorusso
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Loris Macci con Andrea Giunti Landscraper: costruire con il paesaggio Fabio Fabbrizzi
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Fabrizio Rossi Prodi e Massimiliano Larinni Piscina Comunale a Firenzuola Fabrizio Rossi Prodi
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Paolo Zermani Il Cimitero di Sesto Fiorentino Elisabetta Agostini
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Giorgio Grassi Ricostruzione del castello di Valkhof a Nimega
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Luis Barragán Morfin
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Silvano Zorzi Paesaggi della ragione Eleonora Mantese
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Ma da una ferita è scaturita la bellezza Alberto Breschi
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Ogni uomo è un’isola - Curzio Malaparte brani scelti da Gianni Pettena
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I giardini medicei del Cinquecento: natura e arte nel Journal de Voyage di Michel de Montaigne Grazia Gobbi Sica
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Il Giardino di Boboli Giorgio Verdiani con il contributo di Gianni Sani
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Costruire nella Phisis Roberto Berardi
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Finotti Antonio Paolucci
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Trovare nella terra le ragioni di un fatto poetico 1972-1975 Giovanni Michelucci e il Memorial Michelangiolesco Fabio Fabbrizzi
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Giovanni Michelucci, ritorno alla natura Francesca Privitera
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Banca CR Firenze: un progetto per il futuro Claudio Zanirato
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Fabrizio Arrigoni, Riccardo Butini, Fabio Fabbrizzi, Michelangelo Pivetta, Francesca Mugnai
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Contro Kafka Luciano Semerani
Il progetto di architettura è dettato dalla geografia. Assume il luogo come punto di partenza imprescindibile, ma al contempo lo modifica, ne muta le condizioni originarie tanto da giungere – nei casi più significativi e convincenti – a quella natura artificiata che sembra essere il punto di equilibrio tra la generalità di un’idea (o di un tipo) e la particolarità di un luogo. Avendo come riferimento tale sperimentato orizzonte, Firenze Architettura ha raccolto in questo numero progetti, riflessioni e spunti di ricerca che - in vario modo e secondo diverse declinazioni – possano dar conto dello stato dell’arte sulla questione. In questo ambito avevamo chiesto a Luciano Semerani un contributo che indagasse l’oscillante rapporto tra artificio e natura nel particolarissimo caso di Lina Bo Bardi, per la quale lo stesso Semerani in occasione della recente Biennale di Venezia ha curato una importante mostra monografica e il catalogo edito per i tipi di Marsilio. Le riflessioni di Semerani partono dalla vita e dalle opere di questa singolare protagonista di un “Altro Moderno” trapiantata in Brasile, ma trascendono la circostanza specifica offrendoci il generoso contributo di un intellettuale capace di ridiscutere gli assiomi sui quali ci eravamo acquietati, pensando che dal naturale all’artificiale fosse il percorso unico e scontato di ogni progetto. Contro Kafka: quella che proponiamo come editoriale è dunque la riflessione di un pensatore che costruisce e scrive – in ciò si ritrova l’allievo forse più autentico di Ernesto Nathan Rogers - forzando il paradosso fino a metterlo in grado di generare senso, e facendoci intravedere un’imprevista conclusione secondo la quale sarebbe invece la natura a mutare le condizioni del progetto. la redazione
La mostra su “Lina Bo Bardi architetto”, che si è conclusa al Museo d’arte moderna di Ca’Pesaro, ha destato grande interesse. Immagino i perché ma non val la pena porre, di questi tempi, inutili domande. Lina si interrogava e si rispondeva da sola, e alla fine la sua poesia allontana le nostre paure. Il suo è un modo di pensare e un modo di lavorare che ci aiuta. Per tutto un secolo uomini onesti come Dostojewsky e Musil si sono chiesti, in forma più o meno esplicita quale delle due vie, se il suicidio o l’assassinio, fosse la migliore per “scrollarsi di dosso la cappa dell’ordine”. O, come Kafka, hanno solo atteso di essere assassinati. Il vero ruolo dell’assassino, questa è stata sempre la prima domanda. Un secondo interrogativo, più teorico, ha posto la questione della provenienza delle figure e delle relazioni tra le forme. Da Gottfried Semper a Warburg, dalla
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psicoanalisi di Jung alla psicologia della Gestalt ci si è interrogati sull’origine delle forme e sulla loro pre-esistenza all’esperienza sensibile e intellettuale. E ancora, come terza domanda, ci si posti e ci si pone la questione del paesaggio. Se esso sia direttamente il frutto di una coltivazione agricola o industriale o se esista quella coltivazione architettonica della terra di cui aveva parlato Hegel. Ci si è chiesti se il Giardino delle Affinità Elettive o l’arte topiaria all’italiana o alla francese fossero il modo migliore per amare e guardarsi nella natura. Se visitiamo l’opera di Lina Bo Bardi queste sono tre domande che non interessano un granché, perché esse sono state bruciate, nella sua esperienza. “Nao pise as formigas, nao mate as baratas – contra Kafka”. La raccomandazione delle mamme. Non si uccidono le formiche. Ma allora neanche i bambini? La paura di sve-
gliarsi scarafaggi e di poter essere schiacciati come scarafaggi è seduta tra gli impiegati delle Poste Imperiali e delle Assicurazioni Generali, è il vero fantasma che gira per l’Europa portandosi dietro l’ombra dell’indegnità rispetto ai ruoli prestabiliti. Paradossalmente, ci dice Lina, è il recupero di una dignità per le formiche, per gli scarafaggi, per i serpenti ed anche per le Vacche, meglio se meccaniche, che si trascina dietro la dignità della persona: E anche quella dell’architettura civile. E anche quella dell’architetto. “... in Brasile sono sempre riuscita a fare quello che volevo senza accettare condizionamenti o intrallazzi. Pur essendo non solo architetto, ma per giunta donna.” Anche per quel che riguarda le forme, la loro compiutezza ed intangibilità, Lina spinge avanti un “polochon” che è quel poggiatesta cilindrico, la cui fodera è fermata con due bottoni, del
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“canapè”, ovvero del divano-letto alla francese. Si trasforma in un maiale con due teste, o due sederi. Una goduria surrealista che ci introduce subito nel mondo degli animali fantastici, le sirene, i centauri, l’araba fenice, e in quello delle creature fantastiche, gli arcangeli, i serafini, i cherubini, che Lina coinvolgerà nelle sue esposizioni di ex-voto e di oggetti sacri o magici ma anche nelle mostre di giocattoli “Capiras, Capiaus: Pau-a Pique”. La scelta di un oggetto da esposizione, l’ordinamento di un’esposizione è un atto creativo tanto quanto l’invenzione di un’opera. E un tanto vale anche per un allestimento. Se un esposizione è costruita, come lo era l’allestimento del MASP, sull’Einfühlung, sulla simpatia tra gli oggetti, sul loro valore iconico e non sul loro valore estetico o storico, nella contaminazione e nel meticciamento delle lingue ci si libera dell’“interrogativo sull’origine”. E, cosa ancora più importante, ci si libera della ricerca dell’originale. Da una parte si ritorna alla classicità, quando il mondo dell’arte si mostrava
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per tipi e per copie, e dall’altra si ritrova l’archetipo, che nella sua primordialità ha la stessa forza, tanto quando si presenta come una astratta quintessenza, come “Urtypen”, quanto quando ci aggredisce con la sua bruttezza sublime. È così che incontriamo di seguito l’archetipo dell’arco di trionfo nello “studio per il logotipo del MASP”, il prototipo nella “la sedia da bordo strada”, il carattere ne “el gattino”. La presenza di valori primordiali e dell’archetipo, nei riferimenti culturali di Lina Bo Bardi, chiama in causa quel tipo di conoscenza, fra i tanti, che nasce dalle figure. Non sarà più la tassonomia teutonica o durandiana a tenere il campo, né la meccanica del disegno industriale. Vale per tutti il progetto della “Vaca Mecanica” che su ruote, “possibilmente FIAT”, avrebbe dovuto circolare tra i bambini del “SESC/ Pompeia” distribuendo dalle sue poppe metalliche latte caldo, caffè, e caffèlatte. Difficilmente troveremo un altro incesto così persuasivo e così critico nei confronti delle teorie “Industrial Design” come questa “Wunderkammer” dove il zoomorfico si accoppia con
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“l’outil”- arredo mobile. La metonimia regna sovrana. Innesti e trapianti, assemblaggi, smontaggi e rimontaggi, grottesco e “non-sense” non solo si sostituiscono al tentativo di realizzare “un ordine impossibile”, quale in fondo era stato il sogno del Novecento italiano in cui Lina era cresciuta e maturata, ma impongono alla tragedia contemporanea la presenza del “Mito”, una presenza surrealista ed assurda, conquistata nel sonno della ragione, spesso giocosa, ma anche talvolta drammatica, come nei “ponti di collegamento del SESC/Pompeia”, tesi come le braccia di Prometeo tra i grattacieli della metropoli. Ancora un paradosso o, se vogliamo, un’iperbole nel riconnettere l’inconnettibile. L’innesto dei ponti, che uniscono, per mestiere, sulle torri-grattanuvole, che di mestiere esprimono il potere solitario. Lina esorcizza a modo suo la violenza del Nuovo Mondo. Ma non ha problemi neanche di fronte alla violenza della natura, da cui in buona sostanza si lascia prendere. Il mondo naturale ed il mondo selvaggio diventano il suo mondo. Non sono “serenate al chiaro di luna”, e neppure “notti trasfigurate”. Piuttosto è il principio della “metamorfosi” che porta nel progetto architettonico quei processi germinali, di riproduzione e crescita che sono propri del mondo naturale. L’albero, e segnatamente “gli alberi maestri” il fiore, e meglio una “scala fiore” le piante tutte e gli animali della foresta e della “fazenda”, magari radunati su una “Grande aia”, che è una “trapunta di cotone nero”, non si appoggeranno più, come ornamenti, alla costruzione ma la contamineranno insinuandosi, ancora tronchi, foresta, paglia e strame sui muri, sul tetto, dovunque, anche in verticale come nel progetto per il “Nuovo Municipio di San Paolo”. Gli schizzi in cui le efflorescenze aggressive, poi soppresse nel definitivo, scompongono i tamponamenti del “MASP”, il progressivo immedesimarsi nelle terre, nelle loro forme e nella loro materialità selvaggia, gli impasti di pietre, cocci di ceramica e terra delle case “Cirell” e “Chame-Chame”, inducono una progressiva vegetalizzazione e mineralizzazione dell’architettura. A questo punto il rapporto è rovesciato: non siamo noi che coltiviamo la terra, non siamo noi che disegniamo la natura ma è la natura che disegna noi. Non più un impegno alla mimesi, e
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neppure una integrazione organicista ma piuttosto un lasciarsi prendere, della costruzione, distinta e autonoma nella sua logica interna, dentro la realtà della foresta, o della metropoli, o delle culture altre, attraversando e rendendo indistinti i confini. Lina Bo Bardi è se stessa, con la sua propria storia di incontri culturali in Italia e dopo. È la più brasiliana tra tutti gli architetti brasiliani perché è la più autenticamente libera di essere brasiliana. Alla fine il monile ed il tatuaggio si spostano dal corpo nudo del “selvaggio” all’architettura, la foresta si inerpica sull’architettura dandole una nuova identità. Certamente Lina si domanda ogni volta quanto questi siano elementi aggiuntivi, superflui, parassitari e quando siano espressioni di autenticità. “Autentico” deriva, etimologicamente, da “fatto da sé”. Il tatuaggio è vestito e linguaggio “fatto a mano”. Il monile è segno di appartenenza, un’appartenenza vasta e indefinita come è proprio dell’architettura e della musica, che dicono quel che le parole, più precise nel loro significato, non riescono a far intendere. La natura stessa come efflorescenza rampicante che si insinua e avvolge i materiali duri, l’animaleria popolare e fantastica, che esce dalla foresta e si presenta a teatro, si siede a tavola, come nelle favole e nei sogni, e lo stesso interloquire delle “Marionette” e dei “Balocchi”, più come feticci e come presenze balorde, tutto questo ci aiuta a scoprire “una realtà che non ha la presunzione del veritiero”, ma che conserva invece l’intensità emotiva della “rappresentazione”, e ci commuove.
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Pagine precedenti: 1 Lina Bo Bardi Disegno di studio la “scala fiore” 2 Lina Bo Bardi Museo d’Arte di San Paolo (MASP), 1957-68 3 Lina Bo Bardi Museo d’Arte di San Paolo (MASP), 1957-68 L’allestimento della pinacoteca 4 Lina Bo Bardi Casa do Chame-Chame, 1958 5 Lina Bo Bardi Casa Cirell, 1958 6 Lina Bo Bardi SESC-Pompéia, 1977 7 Lina Bo Bardi Casa Cirell, 1958 8 Lina Bo Bardi “Vaca Mecanica”, schizzo di studio e prototipo realizzato per la mostra della Biennale di Venezia
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Friedrich Schlegel e l’architettura “gotica” Daniele Pisani
La morte di Novalis, il 25 marzo del 1801, suggella di fatto lo scioglimento del circolo jenese dell’“Athenaeum”, da tempo attraversato da forti e ormai insostenibili tensioni interne. A quel punto, i suoi diversi membri prendono strade diverse. La svolta nell’esistenza e nell’opera di Friedrich Schlegel, che del circolo costituiva il fulcro, è particolarmente netta. Nel giugno del 1802 si trasferisce insieme alla compagna Dorothea Veit a Parigi. Nella capitale francese, oltre a tenere lezioni sulla storia della letteratura, si dedica allo studio della letteratura medievale e delle lingue orientali, progetta di fondare un’accademia franco-tedesca e dirige “Europa”, rivista da lui stesso fondata per la quale appronta numerosi saggi. Nel 1803 sposa Dorothea. Sempre lo stesso anno, e sempre a Parigi, conosce Melchior e Sulpiz Boisserée. A settembre – quando incontrano Friedrich e Dorothea – i due fratelli sono in visita a Parigi. Nativi di Colonia, cattolici, appassionati d’arte e d’architettura, negli anni successivi si segnaleranno tra i principali collezionisti d’arte tedeschi, in particolare di quella medievale della Renania; Sulpiz, il maggiore dei fratelli, sarà autore di fondamentali testi sull’architettura medievale tedesca e soprattutto sul duomo di Colonia.1 Certo è che alla conoscenza con i fratelli Boisserée, che con Friedrich stabiliscono subito un rapporto molto stretto, corrisponde un deciso riorientamento dei suoi interessi. Di arti figurative, Schlegel si era sempre interessato. Pare che da giovane, assiduo frequentatore dell’Antikensammlung della Gemäldegalerie di Dresda, avesse assunto l’abitudine di farsi rinchiudere, la sera, nella Renaissancehalle, per potervi contemplare tutta la notte indisturbato i calchi in gesso delle sculture antiche. Il fatto poi che il primo, decisivo incontro tra buona parte dei membri del futuro circolo jenese, nell’estate del 1798, avvenisse nelle sale della medesima Gemäldegalerie dà la misura dell’importanza, non del tutto trascurabile, attribuita da parte loro alle arti figurative. Nell’agosto del 1799, sul terzo numero dell’“Athenaeum” usciva I dipinti. Un dialogo di August Wilhelm, fratello di
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Friedrich; nei primi mesi del 1802, quest’ultimo si trovava a Dresda a tenere, insieme a Tieck, lunghe discussioni sull’arte con Runge; nel semestre invernale dell’anno accademico 1802/1803, Schelling teneva le sue lezioni sulla Filosofia dell’arte. Per quanto significativo, l’interesse rivolto in particolare alla pittura da parte di Friedrich e dei membri del circolo dell’“Athenaeum” non è tuttavia in alcun modo confrontabile con quello rivolto alla letteratura. Se l’incontro con i Boisserée risulta fondamentale è, così, perché esercita su Friedrich un doppio effetto: ne accentua l’interesse per l’arte e introduce ex novo quello per l’architettura, fino allora pressoché assente dalla sua riflessione.2 Nella riflessione di Friedrich Schlegel sull’arte, irremovibile punto di riferimento era sempre stato Winckelmann. Nella sua costruzione teorica, come noto, quest’ultimo concepiva l’arte greca in termini sostanzialmente sovratemporali, ponendola di fatto come modello assoluto.3 Come osserva Haskell, tuttavia, alla cultura tedesca si era al tempo stesso resa evidente la possibilità di “estendere ad altre epoche un concetto che era sempre stato implicito in tutta la sua opera [di Winckelmann]: la grandezza dell’arte greca era dovuta a una combinazione unica di fattori sociali, politici, religiosi, climatici e di altra natura. Senza una trasformazione completa del mondo attuale non sarebbe stato possibile far rivivere quella combinazione”;4 poté in tal modo affermarsi “la nozione secondo cui, proprio come la supremazia dell’arte greca era stata resa possibile solo da una combinazione unica (e probabilmente irripetibile) di circostanze, anche il gotico, nelle sue manifestazioni più alte, era stato il prodotto di un’Età della Fede”.5 Tale possibilità si era tramutata con Herder nella convinzione secondo cui ogni popolo – e non solo quello greco – ha un proprio carattere e, con esso, una propria arte “caratteristica”, diversa da qualsiasi altra e dotata di qualità peculiari. Di qui alla riconsiderazione del mondo e dell’arte medievali compiuta dalla cultura tedesca a partire dagli ultimi decenni del XVIII secolo e, addirittura, all’attribuzione ad essi del ruolo di modello,
1 Karl Friedrich Schinkel Duomo gotico sull’acqua, 1813 (copia di Wilheim Ahlborn, 1823; Staatliche Museen Preuszischer Kulturbesitz Nationalgalerie, Berlin) Pagine successive: 2 Karl Friedrich Schinkel Colonia, Santi Apostoli, 1816 (disegno a matita) 3 Karl Friedrich Schinkel Colonia, San Gereone, 1816 (disegno a penna) 4 Karl Friedrich Schinkel Colonia, San Gereone, 1816 (disegno a penna) 5 Karl Friedrich Schinkel Il Siebengebirge visto da Godesberg, 1816 (disegno a penna) 6 Karl Friedrich Schinkel Il Castello di Ehrenfels, 1816 (disegno a penna) 7 Karl Friedrich Schinkel Il Reno nei pressi di Bingen con i castelli di Rheistein e di Falkenburg, 1816 (disegno a penna) 8 Karl Friedrich Schinkel Il Reno nei pressi di Bingen con il castello di Ehrenfels, 1816 (disegno a penna)
a partire da queste premesse il passo non sarà lungo; ciò che a Herder fa difetto rispetto ai giovani romantici è in sostanza soltanto una rivalutazione della religione cristiana e del suo ruolo nella società e nella cultura medievali.6 Il rapporto con i Boisserée è decisivo nel suggerire a Friedrich di sottoporre ad esame, oltre che l’arte medievale, anche l’architettura; dal canto suo, quest’ultima viene ad assumere tutti i connotati per poter essere individuata come creazione emblematica del Medioevo, ossia a sua volta come un emblema. Nel campo dell’interesse di Schlegel per l’architettura, la conoscenza con i fratelli Boisserée costituisce infatti una svolta. Ancora nel gennaio del 1803, considerava l’architettura come la “più incompresa e la più sublime” di tutte le arti, e di essa confessava di “non aver visto nulla”:7 era vissuto per sei mesi a Parigi senza visitare nemmeno Notre-Dame. Poi l’incontro con i fratelli Boisserée. E, come era successo una trentina d’anni prima a Goethe al cospetto del duomo di Strasburgo, anche per Friedrich l’incontro con l’architettura – medievale – non rimane privo di conseguenze: a un tratto, tutta una serie di interessi e temi si coagula e s’intreccia intorno all’architettura del Medioevo, tedesco in particolare. Saranno i due fratelli a svolgere, nel contesto
dell’interesse di Schlegel per l’architettura, il ruolo di mentori.8 Nella primavera del 1804, in particolare, egli intraprende insieme ai Boisserée e al loro amico Bertram un viaggio da Parigi a Colonia, a testimonianza del quale restano i Briefe auf einer Reise durch die Niederlande, Rheingegenden, die Schweiz, und einen Theil von Frankreich, che qui si propongono per la prima volta in italiano. I Briefe, che costituiscono in buona parte la rielaborazione del diario tenuto durante quello e un secondo viaggio da Colonia a Parigi, compiuto da Friedrich in solitudine nell’inverno del 18049 , si trovano all’intreccio di almeno due forme letterarie. Da un lato, s’inscrivono in quella tradizione della letteratura odeporica che tra l’altro, nei medesimi anni, sta non poco contribuendo al recupero tedesco del “gotico”.10 Dall’altro, si rivelano partecipi e protagonisti di primo piano del coevo tentativo di trovare una sistemazione propriamente storica del Medioevo patrio, e della sua arte e architettura in particolare.11 Tra i due generi letterari, nei Briefe, si compie un intreccio inestricabile. Essi, che secondo Robson-Scott rappresentano “il primo tentativo serio e articolato della letteratura tedesca di investigare la natura e l’origine dell’architettura gotica”,12 e per di più da parte di una delle principali figure del mondo
culturale tedesco, segnano inoltre l’inequivocabile ingresso dell’architettura all’interno dell’universo problematico romantico. A risultarne è un’opera come in cui finiscono per trovarsi riunite storia erudita e antiquaria, da un lato, e storia filosofica, della cultura, dall’altro. Per quanto Schlegel non abbia compiuto in prima persona alcuna ricerca documentaria, infatti, i Briefe non possono in alcun modo venire considerati alieni dalla coeva produzione storiografica; vanno anzi – e questo è un aspetto di particolare rilevanza – visti a fianco dei tentativi più marcatamente scientifici di sottoporre ad analisi l’architettura gotica. Tant’è che una parte consistente della loro influenza sulla cultura europea avviene con l’influsso esercitato sull’opera degli storici di professione: come osserva Frankl, numerosi sono quelli – come Costenoble e Stieglitz – che faranno riferimento proprio ai Briefe.13 Non occorre sfogliare le pagine dei Grundzüge der gotischen Baukunst, la versione riveduta e ampliata dei Briefe che Schlegel mette a punto per la pubblicazione delle proprie opere complete nel 182314 , per avvertire un accento marcatamente nazionalistico. Come fenomeno generale, quest’ultimo s’imporrà nella vita culturale e politica tedesca soprat-
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tutto a partire dal 1806, con la sconfitta subita dalla Prussia nelle battaglie di Jena e Auerstädt; ma nei Briefe esso risulta già sin troppo marcato. Rispetto all’empito cosmopolitico proprio del pensiero primoromantico, l’involuzione sciovinista compiuta dalla riflessione di Schlegel spicca nettamente.15 Non a caso, a interessare a Schlegel non è tanto l’architettura in quanto tale quanto piuttosto quella religiosa del Medioevo tedesco. Ai suoi occhi si tratta in primo luogo dell’architettura connaturata al popolo tedesco – inteso come elemento naturale ed etnico – e alla nazione tedesca – intesa come prodotto culturale.16 “Cristiano” e “tedesco” tendono a porsi come sinonimi.17 Razza, nazione e Cristianesimo diventano criteri in base ai quali leggere i prodotti culturali. Per cogliere il carattere distintivo dell’architettura gotica occorre così, secondo Schlegel, interrogarsi sulla peculiarità della “razza” tedesca; e visto che, a suo parere, quest’ultima affonda a sua volta in una particolare concezione della natura, è quest’ultima che va indagata. Da un lato, nel mondo tedesco, la natura viene intesa come un ambiente originariamente sfavorevole che l’assidua opera dell’uomo trasforma “in un grande giardino ininterrotto”; dall’altro, viene contemplata e ammirata nel suo stato selvaggio, nel suo carattere “sublime”, nel suo essere – in altri termini – non toccata dalla (empia) mano dall’uomo. Le due concezioni della natura sono – come in tutto il pensiero romantico, in cui convivono – inconciliabili: è evidente che se la natura è ciò da cui ci si deve astenere dal porre mano, allora risulta preclusa la possibilità di qualsiasi sua trasformazione e, a rigori, di qualsiasi azione. A consentire un labile, provvisorio punto d’incontro tra le due contrastanti concezioni sono soltanto le rovine, su cui non a caso Schlegel tanto si sofferma, definendole “monumenti dell’età eroica dell’uomo”, in atto di sprofondare nel grembo di “madre natura”. Le rovine più toccanti sono quelle degli antichi castelli abbarbicati sulle rupi, frutto di un’“audacia” che costituisce un “nuovo principio a partire da un sentimento della natura del tutto peculiare”, quello proprio del popolo tedesco, appunto, il più “incorrotto e primigenio” di tutti (“Urvolk”, lo definisce Schlegel). Tra i concetti di “natura” e di “tedesco” viene a stabilirsi un rapporto privilegiato. Al loro punto d’incontro si situa la più grande delle architetture, quella religiosa medievale, che del carattere precipuo del popolo tedesco costituirebbe la manifestazione suprema.18 Dall’equivalenza tra “naturale” e “tedesco” consegue, infine, quella tra “tedesco” e “gotico”.19 In quanto creazione peculiare della razza tedesca, il “gotico” non può avere origini arabe né classiche, per quanto il modello ideale dell’architettura “classica” sia per Schlegel ancora incombente.20 Quando, osservando il palazzo comunale di Lovanio, si dice attratto dalla compresenza di “ricchezza delle decorazioni e bella semplicità, pura armonia”, Schlegel si affretta però poi subito a dichiarare che “del tutto erronea è la supposizione che queste ultime qualità siano assolutamente bandite dalle opere
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dell’architettura gotica”: nei suoi capolavori, sostiene al contrario, si possono osservare, “accanto alla più grande ricchezza delle decorazioni, una forte simmetria e una uniformità nella ricchezza” e “una simmetria altra, completamente diversa da quella greca, e assolutamente peculiare”. Ad ogni modo, tra l’architettura “classica” e quella “gotica” sussiste, storicamente, un rapporto preciso. Schlegel non nega le origini classiche della cultura – e dell’architettura – cristiana;21 inoltre, intuisce non solo la differenza, all’interno dell’architettura medievale, tra una maniera “antico-cristiana” e una propriamente “gotica”, ma pure l’impossibilità di separarle nettamente: giacché tra di esse si dispiega tutta una serie di stadi intermedi.22 Di architettura “gotica” Colonia, una delle culle dell’arte tedesca medievale, ne possiede “una scorta ancora piuttosto completa”. Finché questa scorta si conserva, è auspicabile – sostiene Schlegel – “scrivere una dettagliata ed esatta storia dell’architettura gotica”. La storia rivela qui come sua fondamentale esigenza quella di conservare, di proteggere, di “salvare quanto è ancora salvabile” – nelle parole di Georg Moller –, di sottrarre le opere d’arte al corso del tempo, all’immane imperversare del declino.23 Pur plasmando e volgendo con grande disinvoltura a conferma delle proprie tesi una serie di dati contradditori, eterogenei e di dubbia provenienza, Schlegel prova a tratteggiare a grandi linee origine, peculiarità e sviluppo dell’architettura medievale tedesca e dichiara la necessità di sottoporla a minuziose indagini di natura storica: afferma così che “soltanto esatte misurazioni, messe a confronto con quelle di altri edifici dello stesso tipo, potrebbero dare istruttivi chiarimenti sul mistero di quell’armonia così rilevante per il più tenero sentimento”. È come se Schlegel considerasse la sua opera come una promessa e al tempo stesso uno stimolo a ulteriori e più accurate ricerche. Pur nella sua incompiutezza, per Schlegel come per molti suoi contemporanei è il duomo di Colonia a detenere la palma di capolavoro architettonico del Medioevo tedesco. Il suo utilizzo da parte delle truppe rivoluzionarie francesi come magazzino per le armi, nel 1794, lo aveva del resto reso emblema dell’orgoglio nazionale tedesco che si ribella alle sopraffazioni francesi; in un breve volgere di tempo l’attribuzione ad esso del ruolo di Nationaldenkmal per eccellenza sarebbe divenuta di dominio pubblico.24 Non è quindi un caso che le riflessioni di Schlegel – che proprio al suo interno, il 18 aprile 1808, si converte al cattolicesimo – sfocino e culminino nell’analisi del duomo di Colonia. L’aspetto forse più caratteristico della descrizione offerta da Schlegel consiste nell’evidenziazione del carattere vegetale dell’edificio. Schlegel esamina infatti il duomo riprendendo il topos secondo cui l’architettura religiosa gotica costituirebbe la pietrificazione di una foresta. In particolare, sembra fare riferimento a Georg Forster, che aveva paragonato le colonne fascicolate del duomo di Colonia agli “alberi di una foresta primigenia”.25 Il carattere per così dire naturale del duomo lo caratterizza immediata-
mente, in un’ottica nazionalistica, come prodotto peculiarmente tedesco. Ma la lettura in chiave tutta vegetale del duomo di Colonia ha pure altre e assai più complesse ragioni. Caratteristica dell’essere vegetale, con la sua “organica infinità e inesauribile pienezza”, è - a parere di Schlegel - che tutte le sue parti, seppur correlate e necessarie, stanno in un rapporto non immediato con il fine cui sono volte, al contrario che nell’essere animale, in cui ogni parte è direttamente determinata dal fine cui mira. In quanto analogo a un essere vegetale, il duomo di Colonia è così composto di parti necessarie ma, pure, non “funzionali”.26 Piuttosto che la Zweckmäßigkeit, è la Mannigfaltigkeit – la “molteplicità” – a costituirne il carattere precipuo. Proprio l’unità nella Mannigfaltigkeit – Schlegel parla, “classicamente”, dell’edificio come di un “intero concorde con sé stesso in tutte le sue parti” – costituisce forse il carattere precipuo che Schlegel attribuisca alla configurazione dell’edificio gotico. Ma, all’interno della riflessione del primo romanticismo, la Mannigfaltigkeit, prima che un carattere di ordine formale, lo è di ordine sociopolitico. “Codesta aspirazione – sostiene a tale riguardo Assunto – a recuperare il molteplice e il vario della tradizione e della natura [...] era comune a tutta la cultura romantica; ed esigeva, come principio di ordine interno, l’unità che non rimuovesse il diverso, ma anzi lo avvalorasse conservandolo in sé. Si voleva la diversità armoniosa, la molteplicità ordinata, e non la molteplicità tumultuosa o la diversità dissonante; da qui, comunque la si voglia giudicare, la romantica nostalgia di un Medioevo “romanzo”, dove le lingue diverse erano state unificate dall’ecumene religiosa, ed al molteplice degli individui e delle genti aveva dato ordine il sistema feudale, con le sue cavalleresche gerarchie”.27 Non è proprio per tale ordine di (presunte) ragioni, d’altro canto, che il Medioevo, con il suo equilibrio tra le varie entità individuali e un forte elemento di coesione – la religione cristiana –, assurge (e già con Novalis) al ruolo di ideale socio-politico romantico? Comunque sia, la predilezione schlegeliana per la Mannigfaltigkeit piuttosto che per la Zweckmäßigkeit non sembra estranea al tentativo di trasporre sul piano formale, architettonico, tale ordine di questioni; per quanto svincolato dalle originarie implicazioni socio-politiche, il duomo di Colonia osservato e descritto da Schlegel le contiene e le esprime in una forma che ad esse fa comunque seppur implicito riferimento; in una certa misura l’ideale socio-politico della Mannigfaltigkeit vi viene pertanto realizzato ma, al tempo stesso, neutralizzato in una mera forma. Nel contraltare di Colonia, ossia nella città moderna per eccellenza (Parigi), “lercia, angusta e meschina”, con i suoi sobborghi “desolati, sterili e afflitti” (Saint-Denis),28 l’architettura “gotica” può emergere soltanto quale eccezione, quale monumento di un glorioso passato aggredito da ogni parte e in buona misura già deturpato: Notre-Dame è così “una veneranda figura, degna di tutti gli onori, nel bel mezzo del mondo e dell’ambiente moderno”; la presenza di una dimensione altra all’interno
di quel mondo attuale che, invece, è “quanto di più distante dall’arte e dal bello” vi sia; una sorta di isola, insomma, immersa nella “barbarie dominante oggigiorno”, con l’“avido anelito a distruggere” che la caratterizza. Il definitivo dilagare della barbarie sembra essere mera questione di tempo. Nel presente non compare alcun segno che lasci presagire il rifiorire della grande arte e architettura; dal canto loro, i fiori sbocciati nel passato sono ineluttabilmente destinati a scomparire. E se Notre-Dame appare intaccata, erosa ma ancora sostanzialmente intatta, Saint-Denis è già stata violata. Ovunque, ormai, ma in particolar modo nella “moderna capitale del mondo”, la grande architettura “gotica” non può quindi che costituire una sporadica eccezione. Nel mondo attuale, afferma Schlegel, non vi è spazio per la bellezza e per l’arte. Quel poco che ne rimane è al chiuso, preservato nelle sale di un museo, impossibilitato a uscirne. Della tensione verso il futuro degli anni dell’”Athenaeum”, con la prospettiva di rigenerazione e di palingenesi che l’animava, nessuna traccia sembra più restare. Come se non bastasse, il passato additato come modello si fa sempre più piccolo e meschino, sempre più di maniera, più strumentalizzato politicamente e, non da ultimo, più impotente. Del resto, nell’ottica di Schlegel, l’avversata modernità, una volta confinate le ultime oasi di alterità – ossia le preziose vestigia del passato – in luoghi delimitati e destinati a venir sempre più ridimensionati, ha di fatto vinto la sua battaglia: le restano ormai soltanto piccoli, sparuti sacrari da conquistare, la qual cosa – vista la direzione verso cui il tutto volge – farà in un breve arco di tempo. Il declino imperversa ovunque, e non si è affatto arrestato: dovrà pertanto inevitabilmente giungere il momento in cui anche le superstiti oasi del bello e dell’arte verranno a loro volta violate. Alla domanda se nulla possa intervenire a invertire la tendenza è possibile per Schlegel offrire un’unica risposta: l’arte “dovrebbe impregnare la vita” in tutti i suoi vari aspetti. Dovrebbe perché non può; dovrebbe, tuttavia, e forse potrebbe, se solo ci fosse “un sostegno sicuro per l’agire, una terra che faccia da madre, un cielo, un’aria viva”, come avveniva nella Grecia antica e nel Medioevo cattolico. La costruzione ex nihilo di tale sostegno era stata, fino a pochi anni prima, l’obiettivo della “nuova mitologia” di cui Schlegel, insieme a tanti suoi contemporanei, aveva proclamato l’esigenza, con lo scopo di risollevare i destini di “un’umanità che, allo stato attuale delle cose, non può che ringiovanirsi o soccombere”.29 Come in Einige Gedanken di Gilly, nel passo finale dei Grundzüge è nell’architettura che viene individuato il fondamento della futura “riorganizzazione complessiva”.30 Ma, oggi, è proprio questo sostegno a mancare. L’intellettuale è così condannato a uno sconsolato isolamento: non può che dar vita a opere condannate all’autorefenzialità. E la sua si configura come un’attività di mera resistenza. I Grundzüge – in un passo assente nella redazione dei Briefe – si chiudono con la dichiarazione dell’im-
possibilità per il presente di dar vita a qualcosa di grande, e quindi pure a una grande architettura. A un presente incapace di proporre qualcosa che sia dotato di un effettivo valore, resta il compito di “preservare nel frattempo la conoscenza del bello nel petto fedele” (di conservare cioè l’eredità del passato tanto con la tutela dei monumenti quanto con la loro storia), nell’auspicio del “rinnovamento dei grandi tempi antichi” e nella “speranza di un futuro più ricco”. A questa “attesa di tempi migliori”, corrisponde di fatto una prassi confinata entro ambiti angusti e modesti, ridotta unicamente a ciò che “nel frattempo” si può e si deve fare. In un tale intermezzo non vi è spazio per alcuna forma di architettura che aspiri in qualche modo alla grandezza. Alla fine, così, quel che resta non è altro che un arcigno, vano attaccamento al passato: “sarebbe desiderabile conservare – afferma a un certo punto Schlegel – anche i peggiori monumenti di un tempo”. Persiste, certo, la vaga speranza di una svolta futura. Il presente tuttavia è completamente privato della possibilità di determinarla. La grandezza viene di volta in volta traslata nel futuro, nel passato, o in entrambi. Al presente non restano che la nostalgia e, appunto, la speranza. A nulla può l’attività. I principali superstiti del circolo jenese, e Schlegel in primis, “da creatori del romanticismo” si sono ormai trasformati in “codificatori del programma romantico ed in storici della poesia “romantica” del Medioevo”.31 Dell’“attrazione del futuro” trapelano ormai solo tracce sporadiche. La speranza dell’avvento di ciò che era una promessa, non più carica di attese messianiche ma pur sempre grande, immette nell’opaca miseria del presente un tenue raggio, un bagliore che un poco lo illumina; ma è poca cosa rispetto a quel tempo gravido di avvenire cui la cultura romantica si era rivolta. Collocata in un futuro eventuale, la grandezza additata nel passato medievale si vede preclusa la possibilità di aver luogo nel presente. D’altro canto la rinuncia coatta alla grandezza viene talora ad assumere paradossalmente tratti positivi: è in virtù di essa che ciò che ha valore, custodito negli spazi dell’intangibile, viene preservato da ogni possibile contaminazione con l’attuale decadenza. Del tutto errato, a questo punto, sarebbe sia accantonare la costruzione teorica di Schlegel, contrapponendola frontalmente a forme più “scientifiche” di indagine storica, sia liquidarla per il suo eccessivo passatismo e per il circolo vizioso in cui invischia qualsiasi forma di attività – e in particolare la pratica architettonica. Al di là di ogni semplicistica liquidazione, occorre infatti innanzitutto comprendere come una tale riflessione non costituisca, rispetto al contesto da cui è sorta, una semplice deviazione, una sporadica eccezione, alle cui contraddizioni e aporie saremmo del tutto estranei pure noi. Nella prefazione del 1815 alla prima grande trattazione illustrata dell’architettura medievale tedesca, i Denkmäler der deutschen Baukunst, un architetto come Georg Moller sostiene: “L’arte, che si esprime nella cattedrale di Strasburgo, nel duomo di
Colonia e in altri capolavori, è magnifica e sublime, ma fu il risultato di una determinata epoca […]. Noi possiamo ammirare e imitare queste opere, ma non crearle, giacché le condizioni esterne da cui poté nascere quell’arte sono del tutto tramontate”. Coerentemente, Moller, allievo di Weinbrenner, si astiene nel corso della sua attività di progettista da qualsiasi recupero in chiave progettuale dell’architettura “gotica”. Ma che dire di Schinkel, il quale, nei medesimi anni, affianca a considerazioni analoghe a quelle di Moller sull’inattualità dell’architettura “gotica” affermazioni relative a una sua assoluta superiorità rispetto a quella “classica”?32 Non è allora la pratica stessa dell’architettura a risultare attraversata da una costitutiva contraddizione, che sfocia nella cosciente rinuncia dell’ideale perché ritenuto irraggiungibile in un’epoca di decadenza? Forse aveva colto nel segno Paul Frankl, nel momento in cui avvertiva come la cultura della Goethezeit fosse sin troppo consapevole di non poter resuscitare il tanto decantato “gotico”: “si sentiva troppo debole per riportarlo in vita […]. Il romanticismo conosceva l’impossibilità di soddisfare la propria aspirazione”.33
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Cfr. almeno S. Boisserée, Ansichten, Rissen und einzelne Theile des Doms von Köln, Stuttgart 1821, e Id., Geschichte und Beschreibung des Domes zu Köln, nebst Untersuchungen über die alte Kirchenbaukunst, als Text zu den Ansichten, Rissen und einzelnen Theilen des Doms von Köln, Stuttgart 1823. Più in generale, cfr. M. Boisserée, Sulpiz Boisserée, Stuttgart 1862. Sulpiz riuscirà tra l’altro a coinvolgere Goethe – e insieme a lui opinione pubblica e mondo intellettuale tedeschi – nella vicenda del suo completamento (su questo cfr. almeno R. Ewald, Goethes Architektur. Des Poeten Theorie und Praxis, Weimar 1999). Come esempio della popolarità e della stima in cui veniva tenuto Sulpiz, si veda ad esempio la dichiarazione di Brentano a Runge, nella lettera del 21 gennaio 1810, secondo cui questi sarebbe il più serio studioso di architettura e pittura medievali, cfr. I romantici tedeschi, a c. di G. Bevilacqua, IV, Teatro ed epistolari, Milano 1996, pp. 823-4. 2 Sporadiche – seppur non di rado significative – erano state fino allora le considerazioni sull’architettura sparse nei frammenti di Friedrich. In un frammento composto tra 1797 e 1798, Schlegel definisce ad esempio “l’architettura gotica importante per conoscere l’epoca sentimentale”, F. Schlegel, Frammenti critici e poetici, a c. di M. Cometa, Torino 1998, p. 135 (V, 202). In un frammento, scritto tra 1799 e 1801, sostiene apoditticamente che “l’architettura=K/0 (arte assoluta)”, ivi, p. 401 (IX, 680), senza però sviluppare tale enunciato. In un altro frammento coevo, Friedrich afferma che “l’architettura in ogni popolo [è] il suo culmine, assolutamente individuale”, ivi, p. 402 (IX, 685). Molti di tali spunti verranno sviluppati in seguito. 3 Cfr. ad esempio Nerdinger, Architettura e storicismo, ovvero: dalla verità dell’arte allo stile corretto, in L’avventura delle idee nell’architettura 1750-1980, a c. di V. Magnago Lampugnani, Milano 1985, p. 40. 4 F. Haskell, Le immagini della storia. L’arte e l’interpretazione del passato, Torino 1997, p. 201. 5 Ivi, p. 202. 6 Questa rivalutazione risulta invece ben evidente nelle Herzensergießungen di Wackenroder, nello Sternbald di Tieck, in Die Christenheit di Novalis e nelle Reden di Schleiermacher, opere tutte risalenti agli anni compresi tra il 1797 e il 1799.
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Cit. in H. Eichner, Einleitung a Kritische FriedrichSchlegel-Ausgabe, a c. di E. Behler, in collaboraz. con J.-J. Anstett e H. Eichner, vol. IV, Ansichten und Ideen der Christlichen Kunst, a c. di H. Eichner, München – Paderborn – Wien 1959, p. XXX. 8 Molte delle riflessioni contenute nei Briefe, come nei saggi sull’arte apparsi su “Europa”, oltre che basarsi su informazioni attinte dai due fratelli, portano a sviluppo loro intuizioni e convinzioni: non a caso si è parlato di una vera e propria “collaborazione”, cfr. W. D. Robson-Scott, The literary Background of the Gothic Revival in Germany, Oxford 1965, p. 132. Il rapporto tra Schlegel e i Boisserée è di intenso scambio reciproco; se i fratelli introducono Schlegel all’architettura e perfezionano le sue conoscenze in campo artistico, quest’ultimo dà loro una compiuta formazione letteraria: essi partecipano al corso di lezioni sulla storia della letteratura tedesca che Friedrich tiene nella sua casa parigina di rue de Clichy, dove addirittura si trasferiscono in pianta stabile. Anche in seguito i rapporti rimarranno molto stretti. 9 Anche la composizione dei Briefe sembra risalire a due momenti diversi; in parte prima del settembre 1804, in parte dopo il ritorno a Colonia nel marzo 1805. 10 Si pensi ad esempio alle Ansichten vom Niederrhein (1791) di Forster, alla Beschreibung einer Reise durch Deutschland und die Schweiz (uscita in dodici volumi tra 1783 e 1796) di Nicolai, ai Reisen durch einen Teil Deutschlands, Ungarns, Italiens, und Frankreichs in den Jahren 1798 und 1799 (1804) di Arndt. 11 Si pensi alla Geschichte der zeichnenden Künste von ihrer Wiederaufhebung bis auf die neuesten Zeiten (1798-1808) e alla Geschichte der zeichnend Künste in Deutschland und den Vereinigten Niederlanden (1815-20) di Fiorillo, a Die Ruinen am Rhein (1810) di Ritter, a Über altdeutsche Architektur un deren Ursprung (1812) di Costenoble (1812), ai numerosi contributi di Rumohr su “Deutsches Museum”, la rivista diretta dallo stesso Friedrich Schlegel, alla grande costruzione storica di Stieglitz (dalla Encyklopädie der bürgerlichen Kunst (1792-8) a Von altdetuscher Baukunst (1820)), sempre più incentrata sull’architettura medievale tedesca, alle ricerche di Büsching, autore di numerosi saggi storico-critici sul gotico e titolare, nel 1820, del primo corso, presso l’Università di Breslavia, interamente incentrato sull’architettura gotica (poi pubblicato come Versuch einer Einleitung in die Geschichte der Altdeutschen Bauart (1821)), e infine, ma non da ultimo, all’opera di rilievo e ridisegno dei capolavori del gotico tedesco di Hundeshagen, Benzenberg, Fischer e Müller ma soprattutto di Georg Moller, con i suoi Denkmähler der deutschen Baukunst (1815-51) e le sue Bemerkungen über die aufgefundene Originalzeichnung des Domes zu Köln (1818), e di Sulpiz Boisserée. 12 Robson-Scott, op. cit., p. 130. Sul significato attribuito all’architettura “gotica” nella Goethezeit, cfr. almeno anche P. Frankl, The Gothic. Literary Sources and Interpretations through Eight Centuries, Princeton (N. J.) 1960, pp. 458 sgg.; G. Germann, Gothic Revival in Europe and Britain: Sources, Influences and Ideas, Cambridge (Massachussets) 1973, pp. 48-50; K. Niehr, Gotikbilder – Gotiktheorien. Studien zur Wahrnehmung und Erforschung mittelalterlicher Architektur in Deutschland zwischen ca. 1750 und 1850, Berlin 1999. 13 Cfr. Frankl, op. cit., pp. 466-7. 14 Tra l’uscita dei Briefe e quella dei Grundzüge, Schlegel continua a dedicarsi allo studio dell’architettura, medievale in particolare: nel 1806, tra l’altro, progetta di proseguire con il fratello l’opera intrapresa con i Briefe; nel 1810 confessa a Sulpiz l’intenzione di pubblicare i saggi di “Europa” insieme ai Briefe e ad alcuni nuovi scritti, tra cui uno sulla “orientalische Baukunst”, come Briefe über die Kunst, cui poi lavora negli anni successivi, arrivando al punto di definire, nei propri appunti, il ruolo occupato dall’architettura all’interno del “Geist des Mittelalters”; nel 1812 fonda “Deutsches Museum”, su cui avrebbe aveva pubblicato e accolto numerosi
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saggi di storia dell’arte e dell’architettura; continui rimandi all’architettura costelleranno le sue lezioni sulla Storia della letteratura; cfr. Eichner, op. cit., pp. XLVIII-XLIX. 15 Cfr. L. Mittner, Romanticismo e Germanesimo. Lezioni di letteratura tedesca tenute nell’Anno Accademico 1945-46, Venezia s. d., p. 336 in particolare. 16 Cfr. C. Cesa, Popolo, nazione e stato nel Romanticismo tedesco, in Figure del Romanticismo, a c. di M. Cottone, Venezia 1987, p. 154. 17 Su questa equiparazione, più in generale, cfr. L. Mittner, Storia della letteratura tedesca. Dal Pietismo al Romanticismo (1700-1820), Torino 1971, pp. 801 sgg., pp. 807-08 in particolare. 18 “Da nessun altro monumento traspare così perfettamente lo spirito in generale del medio evo, e particolarmente il tedesco, quanto da quelli di questa architettura così detta gotica”, F. Schlegel, Storia della letteratura antica e moderna, Torino 1974, pp. 162-3. 19 È in tale contesto che s’inserisce la questione concernente la denominazione dell’architettura cosiddetta “gotica”, al cui proposito Schlegel, pur rifiutando la denominazione di “tedesca”, ne conserva tutte quante le accezioni nazionalistiche, trasferendole, sulla scia di Fiorillo, nella denominazione di “gotica”: “con i Goti ha inizio il predominante influsso della razza germanica e del sentire tedesco all’interno della storia, delle tradizioni e delle nazioni dell’Occidente”. Se la denominazione di “tedesca” non è opportuna, è perché essa è, paradossalmente, limitativa rispetto all’importanza dell’influenza esercitata dai popoli gotici. La convinzione, a quel tempo assai diffusa tra i tedeschi, secondo cui le architetture gotiche di tutta Europa sarebbero state creazioni di Baumeister tedeschi dispersisi poi in tutto il continente per diffondervi la loro grande maniera di costruire, viene sintomaticamente fatta propria pure da Goethe ancora nel suo Von Deutscher Baukunst del 1823. 20 Così, “quello che più di tutto stupisce chi abbia l’opportunità di osservare con attenzione la maggior parte dei monumenti dell’architettura gotica è la bellezza delle proporzioni, la semplicità, l’armonia nella grazia, la leggerezza nella grandezza”; Schlegel arriva al punto di parlare di “nobile semplicità”. Anche l’insistenza sul progressivo passaggio dell’arte e dell’architettura medievali da un’iniziale fase di sana rozzezza a una, precaria ma esemplare, di equilibrio a una, infine, di eccesso e di decadenza, per quanto riprenda un topos interpretativo antichissimo, va con ogni probabilità considerata di ascendenza winckelmanniana. 21 “Il cristianesimo (quale i Tedeschi lo ricevettero dai Romani) da un lato, e il libero spirito del Nord dall’altro, costituirono i due elementi, dai quali emerse il nuovo mondo [...]. Il nordico sentimento naturale, che si volse in parte verso la tradizione antica, durata anche sotto il cristianesimo, pigliandovi soltanto una nuova forma, e parte nella germanica direzione del vivere, fu la radice da cui s’innalzò il nuovo edifizio dell’ingegno dei popoli settentrionali. E il cristianesimo [...] è stato il lume superno da cui quegli altri elementi furono di bel nuovo chiariti e foggiati in un sol corpo”, Schlegel, Storia, cit., p. 121. 22 Sull’importanza di tali considerazioni, cfr. Frankl, op. cit., p. 462. Il primo, in Germania, ad aver stabilito una differenza tra le due “maniere” dell’architettura medievale sarebbe stato Stieglitz nella sua Enzyklopädie; cfr. Robson-Scott, op. cit., pp. 137, 245. 23 “... se avessi studiato disegno – affermerà alcuni anni dopo Brentano nella lettera a Runge del 21 gennaio 1810 – o un amico mi facesse compagnia, attraverserei tutta quella parte della nostra patria che ha avuto una ricca storia per conservare con le mie linee le innumerevoli creazione dell’arte più meravigliosa che stanno per andare in rovina... conosco vecchie e umide volte di chiese, ricolme dei più meravigliosi dipinti antichi su legno, ma completamente rovinati; così essi vi marciscono... Di questo passo cent’anni basteranno per cancellare ogni traccia della vecchia scultura e la filosofia avrà facile
gioco nel dire come era”, I romantici tedeschi, cit., pp. 825-26; “colmato dal desiderio di salvare quel che è ancora salvabile, ho messo mano all’opera, per quanto mi hanno concesso il tempo e le circostanze, e consegno queste pagine alle stampe col desiderio che esse possano indurre a simili e ancor più complete raccolte”, afferma da parte sua G. Moller nel breve testo introduttivo (1815) ai suoi Denkmaehler der Deutschen Baukunst. L’angosciosa percezione della continua scomparsa delle preziose e irripetibili opere d’arte del passato non è irrelata ad alcuni precisi avvenimenti storici, e in particolare ai decreti napoleonici, in base ai quali chiese e monasteri erano stati chiusi in gran numero, e alcuni di essi addirittura demoliti; le opere d’arte custoditevi spesso distrutte, e solo sporadicamente trafugate e messe in salvo da appassionati estimatori. Un caratteristico aneddoto a questo proposito, coinvolgente lo stesso Schlegel, viene narrato da Boisserée, cfr. Robson-Scott, op. cit., p. 157. L’acuta percezione di quanto i resti del passato scomparissero, e di quanto fosse urgente intervenire per salvarli, finché vi era tempo, alimentava il concetto romantico di un “ideale” posto nel passato e perduto. 24 Si vedano le dichiarazioni di Joseph Görres sul “Rheinisches Merkur” del 20 novembre 1814. 25 G. Forster, Ansichten vom Niederrhein, in Georg Forsters Werke. Sämtliche Werke, Schriften, Tagebücher, Briefe, vol. IX, Berlin 1958, p. 23. L’opera di Forster aveva costituito la ‘guida’ nel viaggio per Renania e Paesi Bassi che Sulpiz aveva già compiuto; direttamente o meno, pertanto, Schlegel – che nel 1797 aveva peraltro pubblicato un lungo articolo su Forster – è a conoscenza di tale opera e, presumibilmente, pure di tale passo. 26 Non a caso, per Schlegel come per i suoi contemporanei, l’architettura “gotica” è per eccellenza incommensurabile. Secondo Forster, per quanto “l’incommensurabilità dell’universo non si lasci percepire in uno spazio limitato”, la tensione ascensionale dell’interno conduce “l’immaginazione nell’illimitato”, Forster, op. cit., p. 23; Tieck, nello Sternbalb, vede il duomo di Strasburgo come “un’immagine dell’infinito”, cit. in Robson-Scott, op. cit., p. 122; Goethe, alcuni anni dopo i Briefe, afferma che l’architettura gotica ha la facoltà di “rendere afferrabile lo smisurato”, cit. in Ewald, op. cit., p. 218; secondo A. W. Schlegel, l’architettura gotica “sembra toccare i limiti dell’impossibile”, cit. in N. Pevsner, Some Architectural Writers of the Nineteenth Century, Oxford 1972, p. 14. 27 R. Assunto, Introduzione a Schlegel, Storia, cit. pp. XXIX-XXXI. 28 Così Friedrich descrive Parigi nella lettera al fratello del 2 dicembre 1804. Pochi anni prima, Kleist impiegava quasi esattamente le stesse parole, definendo nella lettera a Karoline von Schlieben del 18 luglio 1801 la capitale francese “pallida, scialba, insulsa”. 29 In tali termini si esprimeva nel Discorso sulla mitologia; si veda F. Schlegel, Dialogo sulla poesia, a. c. di A. Lavagetto, Torino 1991, p. 38. 30 F. Gilly, Einige Gedanken über die Nothwendigkeit, die verschiedenen Theile der Baukunst, im wissenschaftlicher und praktischer Ansicht, möglichst zu vereinen, in Essays zur Architektur 17961799, a c. di F. Neumeyer, Berlin 1997, p. 185. 31 Cfr. Mittner, Storia, cit., p. 804. 32 A questo proposito sono del tutto espliciti alcuni scritti di Schinkel come Entwurf zu einer Begräbnißkapelle für Ihre Majestät die hochselige Königin Luise von Preußen e Ueber das Project des Baus einer Cathedrale auf dem Leipziger Platz zu Berlin, als Denkmals für die Befreiungskriege, in A. von Wolzogen, Aus Schinkel’s Nachlaß. Reisetagebücher, Briefe und Aphorismen, Berlin 1863, III, pp. 153-62, 189-208. 33
Frankl, op. cit., p. 450.
Friedrich Schlegel Lettere da un viaggio per i Paesi Bassi, la Renania, la Svizzera e una parte della Francia1 Parigi È talmente vario lo spettacolo della vita sociale che, alla fine, si inizia a provare nostalgia della natura; e da quest’ultima non si può essere più separati che a Parigi. Nei giardini e nelle piazze piantumate, il primo, tenero verde viene definitivamente offuscato da una polvere che tutto consuma nel giro di poche giornate calde, non diciamo d’estate, ma già anche soltanto primaverili. Se, pure, si è riusciti a fuggire dalla città in una qualsiasi direzione, si ha l’impressione di venirne perseguitati ancora per ore ed ore. Sulle stradine secondarie che si sono percorse, il frastuono, la ressa e la polvere sono non da meno che in città e, tra le tante case di campagna che si vedono ovunque, si crede di trovarsi ancora nei suoi sobborghi. Se poi finalmente, dopo parecchie ore, si raggiunge una quieta boscaglia, su qualche collina ridente, si trova certo rasserenamento e ristoro, ma nulla delle grandi, sublimi bellezze della natura, di cui chi ne ha fatto a lungo a meno è il primo a sentire la più profonda nostalgia. Parigi è situata in un’ampia, aperta vallata che si distende tra colline lungo un fiume mediocre. La regione è qui e là gaia e piacevole, ma nel complesso niente affatto notevole e tutt’altro che ricca. Alla lunga nemmeno le opere d’arte riescono a compensare la privazione della natura che essa comporta. È questa la ragione per cui i quadri e le statue, posti in un ambiente estraneo come sono qui, risultano privi del bel contesto e della compagnia dell’architettura. La vista di una costruzione sublime resta, per me, un’esperienza ogni volta nuova; mi approprio pienamente di un certo luogo e riesco ad avvertirne sempre meglio la grandezza, nel caso in cui possa vederlo quotidianamente. La vicinanza di un bell’edificio solleva impercettibilmente il cuore di un essere sensibile e mantiene constantemente nello stato d’animo in cui ci si deve trovare per contemplare le opere d’arte; la sensibilità nei confronti dell’architettura costituisce pertanto il supporto di tutto la sensibilità per le altre discipline artistiche. [Gli edifici famosi di Parigi sono però moderni, assolutamente moderni non solo quanto all’epoca a cui risalgono ma anche al loro carattere – un piatto tendere a un antico non poco infiacchito e limitato ma, pure, ancora una volta significativamente migliorato, con alterazioni in qualche modo volte al fine di poter piacere al mondo intero]. Su tutto ciò, altro non so dire. La tanto magnificata facciata del Louvre può nel suo genere risultare meritevole. Ma cosa ci stanno a fare venti o trenta colonne italiane o greche in un paese e in un clima estranei, in mezzo a costumi, usanze e innumerevoli edifici che sono tutt’altro che greci? Qui il divario colpisce in particolar modo, poiché la facciata è applicata su di un edificio che non è né vecchio né nuovo, né greco né gotico, ma nient’altro che sgraziato al massimo grado. [L’unica bella eccezione è costituita dall’antica chiesa di Notre-Dame, in stile gotico, grande e ornata con dovizia di decorazioni. Tuttavia anche qui il piacere viene guastato da qualcosa; questa chiesa si trova in una zona misera e fuori mano, in cui non dà affatto nell’occhio; se ne coglie bene la facciata principale, ma la visione della parte restante va perseguita con grande pazienza, poiché è in parte nascosta, in parte deturpata da costruzione addossate]. Entrambe le torri sono state ultimate all’incirca fino a metà, come capita in così tante cattedrali gotiche: dapprima sono state le guerre cittadine a interromperne la costruzione, poi il diverso andamento del commercio ha dato al denaro un’altra direzione, fino a quando la Riforma, insieme a tutto ciò che ne seguì, determinò un ordine delle cose completamente nuovo. A Parigi, il fatto è forse da attribuire anche a un gusto mutato già precocemente. La chiesa inoltre non è ragguardevole in quanto a dimensioni e non è in alcun modo commisurata alla grandezza della città. Durante la rivoluzione, infine, la facciata venne danneggiata e sfigurata dall’asportazione delle statue e in altri svariati modi. [Ma ancora più grave è la mutilazione dell’interno, intrapresa già in precedenza rendendo tonde le colonne fascicolate, alla maniera gotica, e modernizzando quanto più possibile]. Il divario tra l’esterno e l’interno costituisce un disturbo insopportabile; e quale autentica mancanza di gusto occorre per non avvertirlo, e per voler introdurre dappertutto con la violenza e in un modo dissennato come questo il numero e la misura greci. [Tale intollerante tentativo di persecuzione in campo artistico era tuttavia sin troppo spesso accompagnato da quella falsa mania dell’imitazione dell’antico che, nel diciottesimo secolo, risultò così epidemica; e c’è da temere che essa sia qua e là tuttora sufficiente per distruggere qualche preziosa opera d’arte o qualche monumento del Medioevo. Tuttavia anche così la chiesa di Notre-Dame è, per l’arte, il più importante edificio di Parigi; una dignitosa, veneranda figura avita nel bel mezzo del mondo e dell’ambiente moderni. In questo stato d’animo, con questi esigenze e sentimenti, a inizio primavera abbandommo per qualche tempo l’universalmente magnificata capitale]. Saint-Denis Anche da questa parte i dintorni di Parigi sono quanto di più desolato. Hanno qualcosa di sterile e di afflitto, la qual cosa non è priva di un certo fascino; ci si sente inclini ad una silente mestizia. Ma questa sensazione risulta non poco alterata e intensificata nel momento in cui ci s’imbatte nelle rovine della vecchia cattedrale. Quello che senza eccessiva fatica si poteva distruggere è stato distrutto; sono rimasti soltanto i muri, nudi, e le colonne e gli archi poderosi. Non appena ne venne spalancato il portale, uno stormo di cornacchie e di civette si levò in volo strappato alla sua quiete; e a quel punto vedemmo, scoperchiate, le tombe dei re che il guardiano ci indicava minuziosamente, una per una, così come il posto in cui si trovava l’altare argenteo di Dagoberto.2 Ci sovvenimmo delle antiche statue di Clodoveo, Chilperico e Dagoberto che,
provenienti da questa stessa chiesa di Saint-Denis e a tutt’oggi conservate nell’antico convento dei Petits Augustins, sono quel che di tutto ciò si è salvato.3 Lo visione di queste macerie trascinò i nostri pensieri via, lontano dal presente, a quella remota epoca in cui la Francia venne conquistata e dominata dai tedeschi; a come poi con Ugo Capeto, finalmente cessate le guerre tra famiglie cittadine e l’innaturale unione con la Germania e con l’Italia sotto le due prime dinastie franche, iniziò la vera e propria storia francese e un’epoca, a quanto pare, inizialmente davvero felice. Questo può certo suonare singolare per coloro che, nella storia come nella vita, giudicano soltanto in base allo splendore esteriore e all’apparenza; ma a me sembra che questo sia stato il periodo più felice della storia francese; in genere se ne parla pochissimo, nelle nostre trattazioni, e forse è proprio per questa ragione che è da lodare come il più felice; per lo meno, la Francia non ha mai goduto di una pace tanto interna quanto esterna così duratura come nel primo secolo dopo Capeto. Se a questo si aggiunge il fatto che proprio in quest’epoca cade l’invenzione della poesia cavalleresca così come il fiorire della poesia francese e delle canzoni provenzali, si ha un’immagine tanto più bella di quell’epoca alto-francese in cui sembrano permanere così tante tracce della fedeltà e della cordialità tedesche; come non meravigliarsi poi del fatto che né tutta né la maggioranza della nobiltà fosse di stirpe tedesca. Ultime, toccanti apparizioni successive a quelle remote, migliori epoche sono da considerare San Luigi e, ancora più tardi, la pulzella d’Orleans. [Le figure scultoree salvate dalla devastazione che ritraggono i sovrani franchi di un tempo sono scolpite, come quasi tutti le figure scultoree del Medioevo, nell’arenaria, a grandezza naturale, interamente vestite, e mi sono sembrate lavorate con eccellenza ben altra rispetto a quella di molte altre successive opere di scultura – un’arte per la quale i moderni, al giorno d’oggi, non hanno una disposizione pari a quella per altre arti figurative. Le si doveva di certo vedere ancora nella loro antica collocazione, all’interno della chiesa; così isolate, sono completamente estrapolate dal loro contesto. Si devono infatti considerare le figure scultoree nelle chiese gotiche soltanto come una sorta di opere d’intaglio e di decorazioni, e soltanto come tali le si devono giudicare; analogamente, anche il bassorilievo ha, presso gli antichi, le sue proprie leggi peculiari, e non è lecito che venga esclusivamente valutato in base a quelle della scultura o del disegno. La parte deve servire al tutto; le stesse figure scultoree ornamentali si devono adeguare al fatto che nelle chiese gotiche tutto si protenda, eretto e slanciato, verso le più lontane altezze; ed è proprio da questo che origina la postura generalmente eretta delle figure, e persino quella magrezza e quella sproporzionata esilità che mi hanno sempre colpito, in particolare nelle figure degli antichi sovrani, per il resto realizzate con tanta grazia eppure anche con tanta sobrietà. Si pensi solo a una colonna gotica che si protende slanciata verso l’alto e ad una poderosa figura marmorea antica a tutto tondo, e subito si avvertirà il divario. Senza dubbio una figura scolpita nell’arenaria non può mai avere, del marmo, la naturale morbidezza e la vita, e neppure la delicatezza di contorno; tuttavia la finezza nella lavorazione dei panneggi strettamente aderenti, la semplice posa eretta e l’ingenua, devota sincerità nell’espressione del volto possono innalzarla al rango di una decorazione pregevole quanto bella]. [La scultura, come ogni forma di modellazione plastica, affonda in principio soprattutto nel terreno dell’architettura, a cui – quasi si trattasse del suo suolo natìo – sembra esser cresciuta solidamente ancorata persino nei tempi più remoti, come si può tra l’altro osservare assai bene nell’arte egizia; ed è solo faticosamente e lentamente che la scultura riesce a svincolarsi da questa radice della sua stessa origine. È presso i Greci che, in massimo grado, la plastica si è separata dall’architettura e si è sviluppata indipendentemente; è sempre presso i Greci che quest’ultima ha abbandonato quel suo primevo carattere immenso e sublime ed è passata ad una simmetria puramente gradevole; e proprio per questo è sempre presso i Greci che la scultura, non avendo da badare al concorso di cause estranee, ha potuto raggiungere un grado di perfezione assolutamente incomparabile. Al contrario, la scultura del Medioevo non ha mai potuto separarsi del tutto dall’architettura cristiana e tanto meno svilupparsi autonomamente. Dal punto di vista storico, questo si può ricondurre a due ragioni: in primo luogo, al fatto che nell’architettura gotica la fantasia è talmente predominante e determinante che, per un pieno appagamento del senso artistico sotto questo aspetto, rimaneva quanto meno l’esigenza di colmare l’occhio di sempre ulteriori opere scultoree; in secondo luogo al fatto che, solitamente, nei soggetti di venerazione da collocare nelle chiese cristiane, una simbologia dei colori pregna di significato era così efficace ed essenziale che le raffigurazioni necessarie per la devozione potevano venire soddisfatte soltanto grazie a dei dipinti; per questa ragione, poi, la pittura dovette acquisire e conservare pure nel più recente sviluppo dell’arte la decisa prevalenza su qualsiasi forma di opere scultoree]. Anche la vecchia chiesa di Reims, la città in cui un tempo venivano incoronati i re, era riccamente ornata di figure scultoree di santi; sulla facciata esse erano allineate, come a Notre-Dame, in una galleria di archi ciechi, in posizione eretta, l’una accanto all’altra. In tutta la Germania, nei Paesi Bassi e perfino nella Renania le statue di tal genere sono state asportate e distrutte quasi ovunque, e questo costituisce forse il danno più grave che la Rivoluzione Francese abbia arrecato all’arte. La chiesa di Reims sembra quasi essere di uno stile ancora più antico rispetto a quella di Parigi, con decorazioni ancora più variopinte ma di lavorazione più grezza; anche qui le torri non sono state ultimate, ma sembrano esser state portate a un maggior stato di compiutezza rispetto a quelle di Notre-Dame. Cambrai La regione tra Parigi e i Paesi Bassi si presenta come desolata, piuttosto insignificante, monotona e, per lo più, nemmeno tanto fertile. Nel complesso, il cuore della Francia interna non è propriamente un paese benedetto dalla fortuna; la Borgogna e la Normandia costituiscono delle eccezioni. Risulta così ben comprensibile come la nazione miri ad appropriarsi di possedimenti stranieri, e tutti quelli che ha conquistato nell’ultimo secolo e mezzo sono da annoverarsi tra i più belli e i più ricchi di tutta Europa. Si potrebbe, certo, nutrire più di qualche dubbio sul fatto che i raccolti sui suoli
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all’interno dei vecchi confini fossero sufficienti per il sostentamento della nazione, dal momento che non la si può annoverare tra le più diligenti e laboriose, come sarebbe invece indispensabile per effettuare una coltivazione più scrupolosa. Potrebbe pertanto sembrare per così dire costretta dalla necessità a compiere conquiste, allo stesso modo di innumerevoli tribù delle pressoché disabitate steppe dell’Asia centrale. A Cambrai e nei suoi dintorni sono rimasto incantato da uno spettacolo quant’altri mai meraviglioso, cui ho potuto assistere solamente di passaggio ma che ho tuttavia potuto seguire con lo sguardo per una mezz’oretta in virtù delle svariate svolte che la strada continuava a compiere. Si trattava della cuspide traforata di una torre gotica, che se ne sta ancora là, solitaria, unico resto della cattedrale, adagiata su di un’altura, che è stata venduta una volta nazionalizzata. Questo avvenne durante il terrore – l’acquirente ha pagato in assegni, e già solo con il marmo delle tombe e con il terreno deve aver guadagnato molto di più del prezzo pagato. – Eccezionale maniera di costruire! A partire dal piano superiore dell’alta torre si erge, a rasentare le nubi, una piramide o forse – chissà – un obelisco, tutto traforato, tutto trasparente. Decorato da esili canne che spuntano in boccioli,4 s’innalza più acuminato di una piramide ma meno di un obelisco per poi concludersi in una cuspide tutta sbocciante. Di tutte le torri propriamente gotiche che sono state costruite, se ne trovano solamente poche che siano perfettamente integre. Ho una grande predilezione per l’architettura gotica; ovunque ne abbia scovato un monumento, un rimasuglio, me ne sono rimasto in sua contemplazione e in insistita meditazione; giacché mi sembra che non se ne siano ancora affatto compresi il senso profondo e l’autentico significato. Tuttavia un’unione di grazia esteriore, smisurata e impenetrabile artisticità nella lavorazione e carattere grandioso, immenso e immane dell’opera nella sua interezza come quella che vi si realizza costituisce indubbiamente un’unione rara e veramente bella di facoltà e di modi di sentire opposti della mente umana, nel suo anelare, anche nel più piccolo, a ciò che vi è di supremo. Nel campo dell’arte, nessuna maniera deve soppiantare le altre. I più remoti monumenti dell’arte greca ad Atene, Agrigento e Paestum mi colmerebbero certamente di timore reverenziale, se è vero che bastano vaghi schizzi e disegni delle antichità e delle colossali opere egiziane, persiane e indiane per colmarmi del più profondo stupore e di ammirazione. Ciò che così spesso viene definito gusto greco è però per lo più soltanto conformato e imitato a partire dalle opere dell’epoca più tarda, in cui il senso della grandezza già era andato perduto – la qual cosa, presso i Greci, avvenne con pari rapidità anche nelle altre arti – e in cui, al suo posto, si ricercava soltanto una simmetria gradevole ma insignificante. [L’architettura «gotica» o «tedesca», come secondo Fiorillo5 sarebbe più corretto definirla, dal momento che era comune a tutti i popoli tedeschi e che i Baumeister tedeschi, come nota ogni dotto studioso, realizzarono i più importanti edifici cosiddetti «gotici» anche in Italia, Francia e Spagna – che l’architettura alto-tedesca merita perlomeno che si aspiri a penetrarne le profondità ancora inesplorate. Ai suoi tempi fiorì soprattutto nei Paesi Bassi, e a quanto pare vi raggiunse la suprema perfezione. Non esiste quasi città in tutto il Brabante che non ne contenesse questo o quel notevole monumento]. [Del resto, la denominazione di architettura «gotica» potrebbe risultare appropriata e si potrebbe assumere una volta per tutte non appena s’intendesse il nome di questa grande nazione solamente nel suo senso più lato, in riferimento alla maniera paleocristiana e romantica di costruire propria del Medioevo, a partire da Teodorico fino all’epoca moderna; analogamente, non conviene nemmeno rinunciare all’apparentemente arbitraria e poco calzante denominazione di «romantica», che ci consente oggi di indicare in maniera così caratteristica il predominio della fantasia nella poesia medioevale, e che non può venir sostituita da alcun’altra definizione di carattere storico altrettanto pregna di significato]. Dal momento che erano anch’essi popoli gotici, i Burgundi, i Vandali e pure una parte dei Longobardi hanno dapprima fondato regni cristiani nella Germania meridionale e in Francia, in Italia e in Spagna, e mettendo radici fino nel nord, nei paesi scandinavi, hanno quindi al tempo stesso regnato sulla Russia meridionale e sui paesi che vanno dalla Polonia all’Ungheria; tale è pertanto il nome appropriato per la totalità delle tribù germaniche e tedesche nella storia universale; [giacché con i Goti ha inizio il predominio dell’influsso della razza germanica e dello spirito tedesco nella storia, nei costumi e negli stati come nell’arte e nella poesia dell’Occidente. Le consuete obiezioni che certi critici d’arte oppongono al nome «gotico» dipendono esclusivamente dal fatto che non sono in grado di intendere tale denominazione con sufficiente ampiezza e consapevolezza della storia mondiale. Si potrebbe indagare e tracciare minuziosamente il decisivo contributo offerto dalle maestranze tedesche, anche in quest’arte, nelle opere e nelle creazioni di altri paesi; non possiamo tuttavia chiamare «tedesca» una maniera di costruire che è fiorita in tutti quei paesi un tempo dominati dai Goti, dall’estremo Oriente sino alle più remote propaggini dell’Occidente cristiano], visto che una denominazione limitativa come quella di «tedesco» ricondurrebbe la patria tedesca – a partire dal momento in cui l’imperatore Corrado la separò dagli altri regni – all’interno di barriere decisamente troppo anguste; [d’altro canto, qualora si volesse chiamare «germanica» questa particolare architettura, ci si accorgerebbe di essere risaliti ad un’antichità troppo primitiva, ancora oscura per l’arte]. La denominazione di architettura «altosassone», così come di «normanna fiorita» per quella più tarda, è, dal canto suo, sì perfettamente appropriata per l’Inghilterra, dal momento che designa le due principali epoche della più antica storia di questo paese, ma meno per il resto dell’Europa. Certo, a favore del nome «alto-sassone» si vorrebbe addurre, a favore della Germania, il particolare fiorire dell’architettura sotto i grandi imperatori sassoni, come pure il fatto che Colonia, in cui si trovano riunite le più splendide opere di questo stile, della maniera più remota come di quella più tarda, è stata proprio la città più ragguardevole dell’antica Sassonia. Anche così però la denominazione rimane troppo limitativa, se è vero che la si potrebbe estendere all’intero occidente cristiano e all’antico impero romano, che in massima parte è diventato germanico proprio attraverso i Goti. [Che i primi rozzi inizi ed elementi dell’architettura cristiana fossero neogreci o neoromani è un fatto generalmente riconosciuto e che necessita quindi appena di venir indicato specificamente. Quello che però caratterizza in termini specifici e peculiari lo
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stile di questa nuova maniera di costruire è il predominio di un elemento quale la più audace delle fantasie; tale tratto distintivo trae origine dalla radice germanica e a buon diritto può pertanto venir definito come «gotico». Che questo ingresso di un nuovo principio nell’architettura e in altri rami della cultura e della vita, a partire da un sentimento della natura del tutto peculiare, abbia avuto inizio, in un senso più strettamente storico, proprio con i Goti, e che risulti riconoscibile a partire da quel momento, sebbene sia riuscito a propagarsi e ad affermarsi solo più tardi e gradualmente, tutto questo è già documentato a sufficienza dai monumenti architettonici di Ravenna. Delle due epoche dell’architettura gotica, però, la definizione più opportuna di quella più antica potrebbe essere quella di «paleocristiana», a causa dell’idea prevalente in tale stile di chiese; designeremo invece la maniera di costruire più recente, quella che gli inglesi denominano «stile normanno fiorito», come «romantica», dal momento che proprio in essa il fattore dalla più audace fantasia architettonica ha per la prima volta conseguito la sua piena esplicazione]. Bruxelles [La differenza tra i Paesi Bassi e la Francia interna è estramemente netta ed evidente. Certo, il terreno è ancora pianeggiante; ma questa fertilità diffusa ovunque, questo tenero verde che risplende nei prati e nei campi irrigati, ovunque piacevolmente cinti e interrotti da macchie d’arbusti e da filari d’alberi, offrono lo spettacolo di un immenso giardino ininterrotto. Tale fertilità non costituisce soltanto un dono gratuito della natura; è assai più il frutto, e ne ha pure l’impronta, dell’operosità umana che, in tal modo dispiegata, appare quasi come un’attitudine per l’arte e che, tramite coltivazioni di questo genere, trasforma il territorio e persino il suolo in un’opera d’arte. Per una simile, incomparabile utilizzazione e trasformazione di un suolo almeno in parte sfavorevole, è la Svizzera, oltre ai Paesi Bassi, a fornirci un esempio affine in tutto e ancora migliore. Nel carattere della razza tedesca si annida una particolare attitudine a questo genere di operosità artistica, la cui ragione va forse ricercata già nella loro storia più remota. E non si creda che questo genere minore di attitudine per l’arte, questa operosità bella e ingegnosa, non sia in relazione con i processi attraverso cui si forma l’arte superiore. Non sono affatto sempre ed esclusivamente le terre più ricche e più meridionali a rivelarsi le più favorevoli per l’arte; là la natura dà tutto, tutto nella vita viene da sé e gli uomini si fanno inerti. Al nord invece, dove già persino le condizioni necessarie all’esistenza devono venir procurate e fondate artificialmente, là tutto viene conservato e abbellito artificialmente soltanto grazie all’arte, dal momento che la vita stessa è come un’arte.6 Per tale ragione, la povera Europa settentrionale è anche la vera e propria patria dell’arte; la ricca Asia certamente la primeva terra materna della poesia, nell’arte ha però dovuto cedere il passo alla figlia, più giovane]. Per una ragione analoga l’Egitto, che è almeno in parte assai sfavorito dalla natura e ha potuto diventare quello che era solo con la lotta e con mezzi artificiali, ha forse conseguito nelle arti figurative un grado più elevato di quello che ha potuto essere raggiunto in Persia o in India. [In particolare, però, al nord risultava spontanea una sconfinata inclinazione, fattasi quasi seconda natura, ad una artisticità che tutto conformasse, tutto impiegasse e tutto ornasse]. Non c’è alcun tipo operosità in ambito artistico che non sia fiorita nei Paesi Bassi, visto che, in quanto paesi liberi, conducevano un’esistenza propria e stavano in felice unione con l’impero tedesco. L’allontanamento da quest’ultimo e dalla lingua tedesca ha certamente dovuto ricacciare i suoi abitanti indietro di molti gradini; soprattutto in campagna si riconoscono però ancora agevolmente le tracce dell’arte tedesca. I volti non sono affatto come ci s’immaginerebbe astraendo il principio ideale delle figure fiamminghe dai pittori più tardi, spesso arbitrariamente manierati come sono. Le fattezze dei volti sono anzi nette, marcate e angolose, ma amichevoli e schiette; la capigliatura nera è la più frequente. Nelle città, invece, dove l’antico stampo si era ormai da lungo tempo mescolato con gli stranieri, è diverso; di prototipi per le forme tozze e confuse proprie di codesti pittori olandesi ve ne si possono trovare a profusione; di rado, del resto, la mescolanza tra le razze risulta vantaggiosa per l’aspetto. Nella grande piazza del mercato di Bruxelles si può vedere un bel palazzo municipale in stile gotico; un angelo Michele tutto dorato con il drago ne decora, in alto, l’artistica torre slanciata. È da vedere inoltre il Kuilenbergisches Haus, con quella stessa altana in cui il duca d’Alba se ne rimase ad assistere alla decapitazione di Egmont. A suscitare in particolar modo la mia attenzione è stato il duomo di Santa Gudula. Ha l’impianto della maggior parte delle cattedrali; collocato sull’altura più libera della città, il suo ingresso principale, decorato sul lato occidentale da due alte torri, consiste in tre portali disposti l’uno accanto all’altro; coro e altare maggior ad oriente; le torri non sono decorate tanto riccamente, e sembrano piuttosto concresciute e spuntate da torri minori; e anche nei contrafforti della facciata laterale si slancia tutto in torrette gemmate per concludersi graziosamente. Le torri sono entrambe incompiute, l’interno della chiesa è stato distrutto così totalmente nel corso della guerra che una violenta trasformazione potrebbe davvero risultare inevitabile. Una vasta, grandiosa vetrata dipinta sul lato occidentale rappresenta il Giudizio universale, come non di rado avviene anche in altre chiese gotiche; il pulpito di legno, per contro, è intagliato in modo meravigliosamente artistico, sotto il peccato originale, in alto la madre di Dio in una corona di stelle con il bambin Gesù che, con la croce, schiaccia la testa del serpente; l’albero ne costituisce l’intera meravigliosa struttura, che altro non ne è che la chioma; Adamo, piegato sotto al peso, contribuisce a reggere il pulpito. – Del disegno fornito all’artista che l’ha eseguito, al critico potrebbe non andare tutto a genio; ma l’arte dell’intagliatore era certamente degna d’ammirazione, e dopo di allora ci si è difficilmente spinti di nuovo a un livello così eccelso. Opere in legno, o anche in ferro e bronzo, di suprema artisticità e decoratività costituiscono per una chiesa gotica un’ornamentazione straordinaria; il marmo risulta invece sempre inappropriato e arreca disturbo – si tratti di tombe, statue o anche degli ordini minori degli altari o dei monumenti. In Italia il marmo, in quanto materiale da costruzione e costitutivo delle chiese più antiche, ha posto i fondamenti di uno stile del tutto peculiare di architettura gotica che si può designare come «italiano» e il cui esempio più puro si può considerare il meraviglioso duomo di Siena; la cattedrale di Firenze contiene già qualche accostamento alla maniera di costruire antica, mentre il duomo di
Milano copia in tutto lo stile tedesco. Ora, in questa maniera marmorea italiana propria del più antico stile delle chiese gotiche si manifesta quel principio e quell’aspirazione alla più ricca pienezza della fantasia che contraddistingue specificamente l’architettura gotica, poiché nelle decorazioni in marmo l’artisticità non può spingersi sino alle vette consentite dall’arenaria del Nord, in parte per le molteplici forme di mescolanze policrome dei marmi, alla maniera dei mosaici, in parte pure perché a dominare di gran lunga è la propensione per mosaici veri e propri, per facciate riccamente decorate, per pavimenti artisticamente lavorati o, in alto, per volte sfarzose, come nella chiesa di San Marco a Venezia, nel duomo di Siena e in altre chiese alto-italiane. Rappresentazioni allegoriche come quelle del giudizio universale, del peccato originale e della religione trionfante, collocate in posizioni significative delle antiche chiese come l’ingresso e il pulpito nel bel mezzo alla chiesa, non sono da considerare come semplici decorazioni. [Il significato era la meta più nobile di quegli artisti di un tempo, e non si possono nutrire dubbi sul fatto che il loro deliberato e consapevole intento fosse quello di rappresentare e di alludere negli edifici ecclesiastici reali alla Chiesa stessa – ora combattente ora in apoteosi, a seconda delle circostanze – in senso spirituale, nella sua propria idea. – Com’è però possibile descrivere la magnificenza e la magica impressione provocata da una vetrata dipinta come quella sopra menzionata, quando l’illuminazione è proprio favorevole – quando c’è luce, ma non al punto da accecare e, pure, non è troppo tetro? È come un tappeto celestiale di pietre preziose e di cristalli, come la scintillante superficie luminosa di un mare di fiori di fuoco nel cui moto ondoso di fronte ai nostri baluginano sempre di nuovo occhi tutti i misteri dei colori e della luce in enigmatici intrecci]. Anche questa splendida opera era destinata a cedere di fronte alle recenti disposizioni e alle necessarie trasformazioni, e sarà forse costretta a migrare in Inghilterra, dove è giunta anche la maggior parte delle vetrate dipinte di Saint-Denis. Lovanio Son passati i tempi in cui la sola Lovanio poteva offrire un impiego a domicilio a quattromila impiegati nel settore tessile, Mecheln a più di tremila e Gent a quarantamila, e in cui in proporzione fiorivano anche altri tipi di artigianato. Commercio e mestieri avevano allora la propria sede in Germania e soprattutto nei Paesi Bassi, come ora ce l’hanno in Inghilterra; su quanto ricca e fiorente nel commercio e nell’artigianato fosse la Germania ancora sotto Massimiliano se ne può leggere in Machiavelli una descrizione singolare e quasi da non credere.7 – Tuttavia il Brabante risulta tuttora un paese assai riccamente dotato e privilegiato nonché, per un viaggiatore incline alla riflessione, notevole per le tracce e i monumenti della ricchezza e dell’arte di un tempo sparsi ovunque. [Anche la città di Lovanio conserva un celeberrimo monumento dell’architettura gotica nell’ammirevole palazzo comunale, eccezionalmente integro. Lo osservammo attentamente nel lucore grigiastro della prima luce mattutina; avevo spesso notato come, in una notte chiara o al crepuscolo, su di uno sfondo non troppo accecante, i contorni degli edifici emergano con ancor maggiore chiarezza e nettezza. Ciò che in particolare contraddistingue questo edificio è, accanto alla finezza degli esterni, l’impressione di ricchezza, bella semplicità e perfetta armonia che suscita. Giacché del tutto erronea è la supposizione che queste ultime qualità siano assolutamente bandite dalle opere dell’architettura gotica; è vero che in alcuni casi l’armonia viene violata da un’evidente irregolarità, come nella cattedrale di Strasburgo; ma non si tratta di una legge universale, bensì di una semplice eccezione. In altri edifici gotici si osserva, accanto alla più grande ricchezza delle decorazioni, una rigorosa simmetria e una pervasiva uniformità pur nella ricchezza].8 Giacché sono state asportate tutte le statue dalla facciata del municipio di Lovanio, in cui se ne trovavano più di cento, come si può dedurre dai posti lasciati vuoti nella piccola teoria di archi ciechi in cui erano collocate, anche questa bella opera d’arte risulta oggi parecchio sfigurata e deturpata. Liegi La campagna intorno a Liegi è florida, la città in una bella posizione ma brutta quanto a costruzioni; e anche gli abitanti non colpiscono per la gradevolezza di linguaggio, tratti del viso e costumi. Ci si crederebbe già sul suolo tedesco e ci si ritrova su quello francese. Il francese che parlano i Valloni è però estremamente irregolare, la qual cosa viene ascritta all’influsso esercitato dalle potenti colonie di spagnoli e di italiani che Carlo V vi insediò. Il modo in cui, qui sul confine, si incrociano il francese, il fiammingo e il tedesco potrebbe fornire materia per singolari considerazioni sulla direzione dell’immigrazione e più in generale delle migrazioni di un tempo. È da queste terre franco-tedesche di confine che proviene il primo condottiero dei crociati, il celebre Goffredo di Buglione, un cui tratto notevole è stato riconosciuto nel fatto che, parlando altrettanto speditamente entrambe le lingue, sapeva tanto meglio placare la reciproca avversione tra i cavalieri tedeschi e quelli francesi. Il duomo di Liegi è andato interamente distrutto; è stato proprio il piombo di cui eran fatte le sue coperture ad attirare su di sé la rapacità. Se devo fare affidamento a un’incisione su rame e alle conferme fornitemi da alcuni esperti, per l’arte non si trattò affatto di una grave perdita. Il cattivo e il mediocre appartengono a tutte le epoche e a tutti i generi; li si ritrovano tra i monumenti tedeschi come tra quelli greci. Solo, sarebbe desiderabile conservare anche i peggiori monumenti di un tempo piuttosto che rimettere il giudizio alla saccenteria di uomini come costoro, che hanno interesse a screditarli, magari per il proprio guadagno. Tra le tante particolarità del popolo vallone non ve ne è alcuna che colpisca tanto lo straniero quanto il suo tutto particolare e assolutamente smodato amore per la musica, che arriva sino alle competizioni canore tra fringuelli ammaestrati ad arte – competizioni canore che, come vere e proprie feste popolari, vengono affrontate con tutta la passione con cui lo erano gli antichi tornei. Di questo amore per la musica degli abitanti di Liegi si trovano le tracce già nel Medioevo. Resta ancora da osservare che Diderot era nato in questa città così particolare, che, sebbene parlasse francese, a quei tempi non poteva in alcun modo essere annoverata tra quelle francesi. Uno stato delle cose
leggermente diverso, una piega del destino leggermente altra, ed egli, che abitando in una terra di confine aveva la possibilità di scegliere, avrebbe potuto stabilirsi in Germania e legarsi alla lingua tedesca che, forse, sarebbe stata più conforme al suo spirito; e presso di noi, a lungo andare, non sarebbe certamente stato così misconosciuto come lo è ora in Francia. Aquisgrana [Colli, vallette e limpidi rivoli, come spesso se ne trovano in Germania, annunciano la prossimità di Aquisgrana; il fresco profumo del bosco investe a folate, e ci si sente piacevolmente propensi al ricordo e alla contemplazione. Un fascino tutto particolare lo possiede il colle che sorge accanto ad Aquisgrana, sul quale sgorgano l’una accanto all’altra acqua fredda e calda. Sull’altura si sono formati alcuni placidi laghetti, in mezzo ai quali ce ne andavamo piacevolmente a passeggio in un sereno giorno primaverile. Appena più lontano giacciono, sempre in mezzo agli specchi d’acqua, le rovine del Frankenberg, che devono risalire ai tempi di Carlo Magno. La rocca fortificata è interamente crollata, alcuni cigni scivolavano sulle acque placide, un bambino se ne stava seduto accanto alla fonte intento a leggere uno di quei libri dal carattere popolare in cui ancora sopravvivono i pallidi resti della fiaba e della poesia di un tempo]. Qui si trovava la residenza preferita di quel Carlo Magno i cui incisivi pensieri e le cui istituzioni in parte non hanno a tuttora perduto del tutto la loro efficacia. Rimane singolare il fatto che egli abbia scelto per i suoi castelli e per le sue dimore soltanto queste regioni settentrionali lungo il Reno, a Nimwegen, Aquisgrana e Ingelheim. Ma si sa anche dalla storia che nell’impero dei Franchi la lingua di corte presso entrambe le prime due dinastie era il tedesco e che i principi pertanto amavano il tedesco, poiché erano essi stessi ancora tedeschi, e finché si continua a raffigurarsi Carlo come uno dei re di Francia, che avrebbe intrapreso le proprie conquiste a partire da quest’ultima, resta sempre sorprendente il fatto che abbia potuto stabilire la sua sede così lontana dal centro, così prossima ai confini, per quanto pure le guerre contro i Sassoni lo inducevano a rimanere nelle vicinanze. Ma forse lo indussero, secondo le usanze di quei tempi, motivi molto più semplici di quelli politici. Occorre certamente dire a chiari termini che in un primo momento gli avi di Carlo dominavano l’Austrasia e che, verosimilmente, la consideravano come l’autentico possesso della loro stirpe, e la Neustria e l’Aquitania, invece, come pure la zona interna della Francia, come una più recente acquisizione.9 Nel duomo di Aquisgrana riposavano le ossa di Carlo; ma qui, come di consueto, sussiste ormai poco o niente delle opere di Gerhard, il suo intendente in architettura. Il coro risale a una fase più recente dell’architettura tedesca; non proprio da biasimare, ma nulla di particolarmente eccellente. I numerosi archi delle finestre, lunghi, sottili, poco decorati, allineati fitti l’uno accanto all’altro e separati solo da costoloni estremamente massicci, tradiscono lo stile del quattordicesimo secolo, quando l’architettura gotica già era in declino. A ornare la chiesa circolare e il monumento sepolcrale sono colonne di porfido che vennero per questo scopo asportate dall’antica chiesa di San Gereone a Colonia, alla quale erano state donate dall’imperatrice Elena, madre di Costantino il Grande; allo stesso modo, frammenti di templi pagani venivano non di rado impiegati per decorare chiese cristiane pure in Italia e in Grecia. Queste colonne si trovano ora a Parigi; una di esse, che era rimasta a Colonia, è stata distrutta nel corso della guerra. L’architettura cristiana dei tempi più remoti si fondava senza dubbio, per quanto riguarda i singoli elementi, sulla tarda architettura greca e romana; ma poiché con il Cristianesimo, a partire da Costantino, intervennero nell’architettura un’idea e un significato completamente nuovi, che continuarono poi ad esercitare il loro influsso lungo tutto il Medioevo, questa architettura costantiniano-grecizzante non è più affatto da annoverare fra le antichità greche, giacché appartiene piuttosto al nuovo ordine delle cose. La religione costituisce anche in questo caso l’autentico elemento di separazione. Così anche la poesia cristiana, o quella in rima della tarda romanità, non la si annovera più fra la letteratura antica. E tuttavia in seguito, a partire da quei modesti inizi, è sorto nell’architettura gotica qualcosa di assolutamente peculiare e di completamente nuovo; ricondurre le meravigliose opere dell’architettura alto-tedesca solo e soltanto a questa loro prima origine sarebbe infatti come voler fare risalire i grandi capolavori della poesia più recente, quella di un Dante o di Calderon, ai versi leonini degli antichi solo perché anche in quest’ultimi si trova la rima, e pure prima. La popolazione di Aquisgrana sembra assai vivace e allegra, quale generalmente era l’antica stirpe franca. Il tedesco che vi si parla è un dialetto particolare, piuttosto irregolare, che al forestiero non dispiace per la sua cantilena. Lo stesso avviene pure a Colonia: potrebbe dapprima sembrare trattarsi di Plattdeutsch, ma non lo è in alcun modo; si tratta piuttosto di particolari mescolanze di Oberdeutsch e di Niederdeutsch, che si contraddistinguono soltanto per il fatto di esser rimaste più rozze e meno elaborate.10 Ma a partire da queste mescolanze, laddove le diverse componenti dell’Oberdeutsch e del Niederdeutsch risultano fuse meglio e più intimamente unite, si è sviluppato, specialmente nella Germania centrale, quel tedesco colto da cui è derivata l’attuale lingua scritta. Perciò non sarebbero indegni dell’attenzione degli studiosi di lingua nemmeno questi dialetti, forse non molto colti. In una delle prime poesie epiche tedesche fino ad ora conosciute, la poesia in lode di sant’Annone,11 le tracce del dialetto di Colonia risultano inconfondibili. Nel dialetto di Colonia si trovano ancora parecchie parole romane, per quanto piuttosto storpiate e al principio irriconoscibili. I traffici con i navigatori olandesi con la massa di forestieri che vi affluiva dovettero provocare, in una città commerciale così multietnica, una qualche commistione anche nella lingua. Qualcosa di franco, qua ad Aquisgrana, c’era già sin a partire dal primo insediamento, giacché gli Ubii o gli Oberländer dobbiamo attribuirli a quest’ultimo ceppo.12 A Colonia invece la base, in quanto a lingua come a ceppo e carattere, è nella sua essenza assolutamente alto-sassone; questo del resto lo si percepisce ancora molto chiaramente anche a Bonn. A Coblenza, al contrario, si tratta già assolutamente in tutto della maniera franca, più leggera e vivace; la linea di confine tra il ceppo e il carattere franchi e quelli alto-sassoni va infatti ricercata da qualche parte a metà tra queste due città.
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Neuß In quanto a stile, la chiesa di questa cittadina fa parte delle più antiche chiese gotiche. L’entrata principale, con un solo portale in facciata, ha pure solo un’unica, poderosa, massiccia torre quadrangolare, dalle decorazioni, peraltro, belle e ricche. La cuspide è stata abbattuta dalle intemperie; e così ora la torre assomiglia più alla massiccia, solida torre di una rocca fortificata che ad una torre slanciata e come concresciuta di innumerevoli decorazioni e di piccole torrette e protesa verso l’alto, come se ne vedono invece nelle più perfette e decorate costruzioni gotiche. [Per quanto riguarda la questione dell’origine dell’architettura gotica, tuttavia, non sono prive di importanza le goffe, pesanti torri che qua e là, e non di rado, si vedono proprio nelle chiese più antiche. Ne ho persino viste alcune con i merli dei castelli, a chiara prova del fatto che quanto in esse ci ricorda le antiche rocche fortificate degli ordini cavallereschi non costituisce un’affinità arbitraria o una somiglianza fortuita, bensì un’intenzionale imitazione dell’antica, veneranda maniera di costruire. Non è pertanto affatto necessario far derivare le torri gotiche da quelle delle moschee, con le quali per giunta non presentano la minima somiglianza. Del resto, è già stato provato da altri quanto l’ipotesi di un’origine araba dell’architettura gotica sia del tutto erronea. Anche le notizie e le descrizioni relative a quegli edifici dei quali, da un punto di vista storico, si sa che erano stati costruiti in Sicilia e in Spagna da maestri mori suonano affatto diverse da quelle relative agli edifici alla maniera gotica. Di tale ipotesi non resta propriamente nulla se non una generica somiglianza dovuta a una grande ricchezza di decorazioni]. Le piccole torri delle moschee si basano su di un’esigenza della tradizione orientale: da esse viene annunciata, presso i maomettani, la preghiera pubblica. Il successivo scopo e impiego delle torri delle chiese si ha nello stile costruttivo occidentale: servono a sorreggere le campane, i cui rintocchi ne risuonano così splendidi per la devozione dei fedeli. Ma quanto più grandiosamente e riccamente si è sviluppata la torre cristiana, fino al più audace culmine costituito dall’architettura gotica, rispetto alle torrette arabe? [Neppure una somiglianza maggiore di questa potrebbe dimostrare che l’una sia stata presa in prestito dall’altra, dato che entrambe, l’architettura araba come quella gotica e cristiana, hanno in un certo qual modo attinto ad una sorgente comune]. Poiché pure gli arabi impiegarono certamente anche ciò che trovarono nelle città della Siria e dell’Egitto, o altrove, negli edifici greci e romani; soltanto che, ovviamente, modificarono tutto in base all’esigenza della moschea, all’idea basilare della loro religione e ai loro costumi; così facendo non sembrano però essere arrivati a grande altezza artistica. Così come nella poesia, anche nell’architettura del Medioevo – in quella dell’Oriente non meno che dell’Occidente cattolico – la fantasia s’impone quale elemento preponderante di quell’intera epoca del mondo. Su di essa si basa quella complessiva concordanza che non è necessario far derivare esclusivamente né da una né dall’altra parte; e, per il resto, resta una differenza ancora essenziale e netta tra l’arte e la fantasia cristiane e quelle orientali, come pure tra la nostra lirica più antica e le fiabe arabe o le poesie cavalleresche persiane. Una volta Neuss era ubicata nelle vicinanze del Reno, la cui sponda dista ora invece un bel quarto d’ora; anche in molti altri luoghi il bel fiume ha mutato il proprio letto. Mutamenti che nelle cronache, malgrado la loro importanza, si trovano segnalati con minore diligenza di quanto non siano le stoltezze degli uomini, molte delle quali, pure, sono svanite senza lasciare nemmeno una traccia. Ma chi riuscisse per un istante a trasferirsi in quei tempi remoti, allorché i tedeschi dapprima si espansero lungo il Reno come lungo il Danubio, e si insediarono sulle fertili sponde del regale fiume, quale idea assolutamente altra del modo di vivere, dei costumi, della forma di governo di un tempo e della legislazione dei nostri grandi antenati ci consentirebbe una tale visione, rispetto a quella che rivela la storia, mutilata e da ultimo completamente stravolta e falsata dalla critica del dover essere! Düsseldorf Tra i tanti preziosi dipinti posseduti dalla collezione locale, per la sua ricchezza si segnala soprattutto la sala di Rubens. Tant’è che ci si può fare un’idea completa di questo artista anche solo da quanto vi è esposto. Se però lo si vuole conoscere non solo nella sua Maniera, che nel complesso non è affatto troppo apprezzabile in quanto a rigore artistico, ma anche da un lato più favorevole, non ci si deve allora fermare ai suoi dipinti più celebri, dal momento che la misura della sua fama venne definita in un’epoca in cui anche in Italia il gusto era già del tutto corrotto, determinato com’era dai medesimi pregiudizi e dalle tendenze dominanti nella moda, che allontanavano persino l’artista dalla retta via. Giacché in un uomo così eccellente quale era Rubens, in uno spirito dalla forza così straordinaria, si deve sempre distinguere la predisposizione, buona per natura, dall’influsso nocivo della moda e di altre dannose influenze a cui l’artista soggiacque, pure nel caso in cui la sua applicazione dei canoni dell’arte e della bellezza appaia in tutto e per tutto riprovevole. Rubens sembra infatti riunire in sé quasi tutti gli errori che al suo tempo e poco prima di lui venivano compiuti nelle diverse scuole italiane: la violenza, l’affettazione, l’esagerazione dei manieristi della scuola di Michelangelo; la trascuratezza e la sconsideratezza dei naturalisti più avventati; la ricerca del solo effetto come nei puri coloristi; e perfino le allegorie arbitrarie e infelici del pittore erudito. Ma ciò nonostante egli rimane straordinariamente singolare; e di lui altro non si potrebbe dire se non che, in virtù della sua forza e ricchezza, vale tutti gli altri cattivi pittori messi insieme. È talmente pericolosa l’imitazione della Maniera straniera da far fallire persino il genio autentico. Quale altro grado dell’arte, quale altra altezza nella bellezza avrebbe potuto raggiungere quest’uomo straordinario se avesse scelto come proprio modello, invece degli italiani, già completamente corrotti e degenerati, i nostri pittori olandesi di un tempo, o van Eyck, così intriso d’arte e fedele alla natura, o altri come lui, e avesse ulteriormente elevato e abbellito la reintroduzione dello stile bello e corretto di tutti costoro attraverso il suo colore brillante. Quel che è peggio, nell’imitazione degli stranieri in campo artistico, è che interviene in genere solo quando l’arte, nel paese imitato, è ormai decaduta e degenerata rispetto alla perfezione raggiunta un tempo; analogamente, anche l’epoca attuale imita, timorosa, quello che – seppur greco di nome, di fatto risalente a epoche successive, già degenerate – gli stessi veri e propri antichi Greci avrebbero assoluta-
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mente rigettato e disprezzato. Rimane pertanto la più pericolosa di tutte le esperienze quella di voler accogliere tradizioni estranee anche in campo artistico; ciò che è proprio va di certo perduto, e ciò che è estraneo, per quanto ad esso si sia aspirato, non viene quasi mai raggiunto. In pittura, forse, se ne può ancora discutere con ragioni reali quanto evidenti; ma in architettura il contrasto e la distruzione non solo di tutta l’arte ma anche delle tradizioni, da parte di una maniera di costruire che imiti ciò che è straniero, sono davvero troppo rilevanti e non possono venire attenuati né migliorati da alcunché. Ogni nazione, ogni paese ha un’architettura che le è peculiare, sua propria e solo ad essa conforme, oppure non ne ha affatto alcuna. Questo risulta lampante a chiunque osservi con occhio attento la storia dell’arte e della tradizione e del loro reciproco influsso. Quadri di Rubens in cui ne risalti la natura migliore, presentandosi pressoché privi di qualsiasi commistione con i manieristi, sono a mio giudizio il ritratto di sé e della prima moglie seduti in una pergola,13 il ritratto così profondo – e che tuttavia appare lieve – di un generale dei francescani,14 una Madonna, cinta da tutta una corona di fiori e angeli,15 e alcuni altri. Originariamente il suo colore forse non era così manierato come appare adesso; il cinabro impiegato con tale profusione originariamente non spiccava certo così nettamente, visto che, in proporzione, gli altri colori possono essersi sbiaditi maggiormente.
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Colonia A buona parte dei forestieri questa antica città di solito non piace; come ogni grande città caduta in declino non può poi suscitare un’impressione gradevole. Non mancano tuttavia piazze belle e grandi o che, con piccole trasformazioni, potrebbero venire abbellite. Gli edifici più notevoli e più importanti sono collocati in posizioni opportune e favorevoli, isolate e sopraelevate. Più di un biasimo dei viaggiatori di passaggio è inoltre dovuto alla loro incapacità di riconoscere le esigenze locali; le strade, soprattutto quelle che portano al Reno, sono per lo più anguste, giacché tutto il traffico e l’attività premono su questa zona; qui, del resto, strade molto ampie non sarebbero affatto auspicabili anche per il rigore delle folate d’aria che, in primavera e in autunno, spirano dal Reno. La splendida ubicazione della città, ad anfiteatro sul Reno, lungo la cui sponda forma una mezza luna percorribile in un’oretta, l’enorme quantità di giardini perfino in città, la bellezza della passeggiata interna e di quella esterna lungo i bastioni e la considerevole sopraelevazione di una parte della città, tutto questo ricompensa per la carenza, di non poco conto, di passeggiate nei dintorni, e per la distesa circostante complessivamente pianeggiante, e che solo in lontananza appare limitata dal Siebengebirge – nella misura in cui tutto questo può ricompensare per tale posizione. – Ma, sia come sia, possa anche corrispondere il meno e il peggio possibile alle pretese del gusto attuale, per l’amante dell’arte e delle antichità Colonia è una delle città più importanti e istruttive della Germania. Vi si trovano radunate antichità risalenti alle epoche più disparate. Qua si possono ancora vedere una torre romana e dei lacerti di mura romane di regolari pietre, squadrate in forme svariate e i cui variopinti colori creano una grande varietà se non addirittura un ornamento, o che, posate solidamente e irremovibilmente al modo di quel popolo straordinario in tutto, configurano un tempietto. Qua ci si indica ancora il posto in cui si trovava il Campidoglio e quanto di notevole avvenne sotto i Cesari, il luogo in cui avevano luogo le naumachie, degli acquedotti per le quali, condotti sin dai monti dell’Eifelgebirge, restano ancora alcune rovine; qua il punto sul Reno in cui, quando l’acqua si abbassa più del consueto, ancora affiorano i piloni del ponte in pietra di Costantino. Qua vediamo la vecchia collegiata di Santa Maria, il cui coro risale ad epoca pre-carolingia, e il ritratto verosimilmente contemporaneo o di poco posteriore di Plectrudis, la fondatrice, consorte di Pipino di Heristal, avo di Carlo Magno; ora, poi, la poderosa torre di una rocca fortificata che è rimasta incompiuta e che oggi si trova nel bel mezzo della città, nei pressi di San Gereone, che si iniziò l’anno santo, nell’undicesimo secolo, accanto alla porta urbana e con propositi non proprio amichevoli. Per non dire poi di così tanti altri monumenti eccellenti risalenti a ogni fase dell’intero Medioevo. Per farla breve, sotto i Romani Colonia fu la capitale di quella Germania secunda che ai loro occhi rivestiva una tale importanza; anche nella successiva Austrasia rivestì un ruolo di pari importanza, in quanto sede da Ottone il Grande in poi del più potente elettorato ecclesiastico, città anseatica tra le più potenti e sede universitaria tra le più importanti del Medioevo, in cui si raccolsero dai più svariati paesi del mondo celebri personalità. Qui studiò quello Snorri Sturluson, proveniente dalla remota Islanda, che raccolse e riunì le saghe nordiche nell’Edda16 e che di questo libero stato scandinavo allora così fiorente era a capo; e sempre qui giunse da Napoli San Tommaso d’Aquino, gionane ventenne fuggito dalla sua nobile famiglia per prendere i voti. Non mancano di conseguenza nemmeno ricordi interessanti e curiosità di ogni sorta, in questa antica città precipitata dalle altezze di un tempo a causa di guerre interne, per effetto della Riforma e per il più o meno generale declino della Germania, avvenuto con il mutare dello stato delle cose; condivide ora con le altre città sulla sponda sinistra del Reno la medesima sorte toccata ai francesi.
Specialmente per quanto riguarda l’architettura gotica, qui la ricchezza è veramente inestimabile. Vi si trovano splendidi edifici che costituiscono testimonianze ed esempi significativi non solo di ogni singolo passo della storia dell’arte, ma di ogni deviazione e diversificazione per qualche verso importante, risalenti tanto ai tempi più remoti, quando l’architettura non era del tutto dissimile da quella cristiano-greca, quanto a quelli più tardi, in cui iniziò a perdersi nella fastosa ma sovraccarica architettura spagnola dei Gesuiti, ossia nell’architettura moderna. Oltre alle chiese, è dato ancora di trovare pure un certo numero di case private piuttosto ben conservate risalenti alla medesima epoca, nel medesimo stile dell’architettura religiosa gotica, e in particolare di quello più antico, abitualmente denominate case del Tempio in base alla convinzione diffusa, seppur infondata, che fossero abitate da templari. Un esperto nel settore potrebbe qui procurarsi ragguagli e insegnamenti di non poco conto sulle branche minori e sulla parte meccanica dell’architettura gotica, certo assai notevole e strabiliante, in considerazione delle conoscenze matematiche e scientifiche applicate.17 Dovesse ancora essere possibile redigere una dettagliata ed esatta storia dell’architettura gotica, prima che la barbarie oggigiorno dominante e l’avida smania di distruggere abbiano completamente devastato tutti gli antichi monumenti, allora proprio e unicamente qui ce ne sarebbe una riserva tuttora piuttosto completa; quello che si vede in altri luoghi è, per lo più, soltanto isolato e, al di fuori del suo contesto, può di rado venire compreso e apprezzato. [Di tutti i monumenti il più notevole è il duomo. Fosse stato portato a compimento, l’architettura gotica avrebbe avuto da mettere in mostra un’opera colossale, tale da eguagliare le più superbe tra quelle tanto della nuova quanto dell’antica Roma. Venne costruito soltanto circa un terzo della chiesa, senza la cupola e le parti laterali18 che dovrebbero configurare la forma a croce, e neppure la metà di un’unica torre. Tuttavia anche questo poco è più di quanto si vede comunemente da qualsiasi altra parte, per la grandezza della costruzione e ancor più per la bellezza dello stile. Konrad von Hochstaden, lo stesso uomo audace il cui concreto influsso oppose al terribile Federico II più di un anti-imperatore, fu pure l’artefice di questo immenso pensiero.19 Ne esiste ancora una pianta dettagliata, opera di Maestro ignoto, ultimata fino alla definizione delle decorazioni.20 La costruzione iniziò nel 1248, il coro, ultimato, venne però inaugurato nel 1322. 3 La grandezza di questo sublime frammento afferra chiunque dallo stupore, e in particolare lo sguardo sulla parte superiore delle volte del coro riempie il cuore di meraviglia. Ma quel che qui più di tutto colpisce chi abbia avuto l’opportunità di osservare con attenzione la maggior parte dei monumenti dell’architettura gotica è la bellezza delle proporzioni, la semplicità, l’armonia nella grazia, la leggerezza nella grandiosità. Chiunque abbia sensibilità per tutto ciò, prova la medesima impressione; un sentimento di tal sorta non si lascia tuttavia ulteriormente descrivere o spiegare; soltanto esatte misurazioni, poste a confronto con quelle di altri edifici dello stesso genere, potrebbero offrire istruttivi chiarimenti sul mistero di quell’armonia che un animo sensibile percepisce così intensamente. Quel che è certo è che le principali chiese gotiche, anche quelle celeberrime e rinomatissime, in confronto a questa sembrano da un lato ancora un po’ rudi e pesanti, dall’altro però sovraccariche, superbe e meno conformi al loro fine. Soltanto il palazzo comunale di Lovanio potrebbe venirgli accostato, in piccola scala, in quanto a nobile semplicità e a bellezza dello stile. Nell’impianto complessivo, il duomo è come le chiese propriamente gotiche o tedesche sono solite essere, una volta che lo stile ancora grecizzante della maniera paleocristiana di costruire venne completamente trasformato per opera di una grande artisticità. A oriente la croce latina si conclude, con un’abside, nel coro; due alte torri ornano il triplice ingresso principale verso occidente, e i transetti avrebbero dovuto formare due ulteriori entrate laterali rivolte nelle altre due direzioni. Nel bel mezzo, proprio sopra al reliquario dei tre Re Magi doveva innalzarsi la cupola; non venne però realizzata. Le torri, un corpo composto di innumerevoli colonne slanciate, come concresciuto di finestre ad arco slanciantesi sempre più in alto e da torrette gemmate, dovevano essere di cinque piani; l’ultimo, un obelisco traforato di racemi trasparenti e di grandi gemme che si concludevano in un unico grande fiore; ma vennero ultimati solo due piani di un’unica torre. Torri di tal sorta sono come incommensurabili escrescenze vegetali intrecciate insieme da una ricca opera d’intaglio, superbamente protese verso l’alto; la gran massa di poderosi sostegni con tutti i loro archi rampanti, decorazioni, germogli, cuspidi e torri è così da paragonare a un bosco. In alto, dove formano un arco cuspidato svariatamente traforato, le colonne gotiche stesse – proprio come quelle del duomo, che sembrano rappresentare un intreccio di tante canne slanciate legate l’una all’altra piuttosto che un’unica canna, la base solamente accennata da due sporgenze non molto pronunciate, il fusto che schizza in alto e il semplice capitello fogliato, composto ora da viticci ora da altri innumerevoli fogliami locali – le si è non inopportunamente volute paragonare alla superba volta di un alto viale alberato; altri han voluto riconoscere una somiglianza con le colonne di basalto che si trovano in natura; in relazione all’altezza della volta si potrebbe anche paragonarle al travolgente getto d’acqua di una fontana, allorché ricade non meno fitto di quando era sprizzato verso l’alto. E se da fuori, da lontano, il tutto con tutte le sue innumerevoli torri e torrette pare non dissimile da un bosco, avvicinandosi un poco tutte quanto le escrescenze vegetali sembrano invece rassomigliare piuttosto ad un’immane cristallizzazione. Capolavori artistici come questo, in breve, in quanto a organica infinitudine e a inesauribile pienezza della configurazione, rammentano soprattutto le
opere e i prodotti della natura stessa; a un occhio esaminatore, perlomeno, l’impressione è la medesima, e come la struttura, la trama e il fogliame di un essere vivente sono tanto impenetrabilmente ricche, così pure la ricchezza della forma di un impianto architettonico del genere risulta impossibile da abbracciare con lo sguardo. Tutto è formato e foggiato e decorato, e forme e decorazioni sempre più elevate e maestose sorgono a partire da quelle precedenti e inferiori. Ma le forme e le decorazioni sono quasi tutte tratte dal regno vegetale, dal momento che in quest’ultimo la figurazione sta solo lontanamente in rapporto con lo scopo pratico e con il nudo bisogno, o almeno all’apparenza non rimanda affatto a quanto a tale scopo è volto. La membratura dell’essere animale, al contrario, rimanda sempre direttamente al suo scopo e alla funzione per cui venne formato quale strumento. Di per sé la configurazione animale, pertanto, senza badare alla sua espressione, non è altrettanto bella di quella vegetale; e il fiore è la forma delle piante fattesi, in quanto ornamenti della natura, immagine archetipica di tutte le decorazioni, anche di quelle dell’arte dell’uomo]. Da un punto di vista puramente architettonico, a un approfondito calcolo della struttura artistica dell’intero edificio anche queste supreme creazioni artistiche del secondo stile fiorito dell’architettura gotica si dimostrano fondate sulle medesime figure del triangolo e del quadrato, oltre che su quelle della sfera e della croce, proprie dello stile delle chiese paleocristiane. Ma queste figure non si manifestano più nel loro rigore e nella loro purezza geometrica: tutto ora è rivestito da una doviziosa ornamentazione di fogliame e dalla più fiorente pienezza della vita, allo stesso modo in cui, anche sul tappeto della primavera, nella dovizia del verdeggiante regno vegetale, la legge della struttura e l’intima geometria della natura non si manifestano più nei singoli dettagli, ma tutto fiorisce liberamente nell’infinità della vita dispiegando così la propria bellezza. [L’essenza dell’architettura gotica consiste quindi in una pienezza e in un’infinitudine tanto della figurazione quanto delle decorazioni floreali, analoghe a quelle della natura. Perciò le instancabili, innumerevoli, eterne ripetizioni dei medesimi ornamenti, perciò il loro stesso carattere vegetale; e perciò, di conseguenza, accanto allo stupore al cospetto della grandezza, pure l’impressione di intima commozione, di toccante mistero, di lieta soavità e vitalità. L’architettura gotica ha un significato, e precisamente quello 4 supremo; e se la pittura deve accontentarsi di pallide, indeterminate, mistificatrici, distanti allusioni al divino, così concepita e impiegata l’architettura può al contrario rappresentare e rammentare immediatamente l’infinito stesso, attraverso la pura imitazione della pienezza della natura e anche senza alludere alle idee e ai misteri del Cristianesimo, i quali hanno d’altro canto esercitato una non trascurabile influenza sulla nascita e sullo sviluppo dell’architettura religiosa. Dinnanzi a una simile meraviglia dell’arte qualsiasi descrizione è costretta a soccombere. Rivolgo quindi la mia attenzione alle prime chiese gotiche di Colonia, poiché è proprio in esse che, una volta mostrata la peculiare essenza dell’architettura gotica nel suo esempio supremo, si chiarisce al meglio l’origine di questa notevole maniera di costruire. Si è già notato come, nell’architettura gotica, esistano due epoche assolutamente diverse: una più antica che, per alcune somiglianze con la maniera di costruire costantiniana e bizantina, si potrebbe chiamare «grecizzante»; e quindi quella posteriore, compiuta, incommensurabilmente più artistica e propriamente «tedesca», su cui è caduto il discorso nella descrizione del duomo. All’interno di entrambi i generi esistono poi declinazioni e variazioni estremamente ampie; così, ad esempio, la torre di Santo Stefano a Vienna e il duomo di Strasburgo appartengono certamente all’ultimo genere, ma pure, e il secondo in particolare, hanno non poco di particolare e di divergente. E inoltre, sebbene la maniera grecizzante sia la più antica, entrambe le epoche si sovrappongono l’una all’altra, in parte perché un nuovo stile non s’impone mai tutto ad un tratto, dal momento che quello precedente è solito conservare seguaci ancora per un certo periodo mentre il nuovo già viene seguito da altri, e in parte perché spesso, quando già lo stile posteriore è fiorito, per alcuni tempi si costruisce ancora nel vecchio, a causa dei costi più contenuti o nel caso che non si tratti di un’opera di primo piano]. L’origine e la spiegazione dell’architettura gotica nel suo complesso sono da ricercare nell’idea fondamentale, nella natura peculiare e nel significato della chiesa cristiana, nonché nella natura della maniera di costruire nordica – di quella in uso al nord e al clima nordico conforme –, al cui proposito si deve inoltre tener conto della natura del materiale, giacché la minore bellezza dell’arenaria rispetto al marmo doveva condurre l’arte della decorazione, in un sempre più pronunciato sforzo verso l’abbellimento, a vette che difficilmente avrebbero potuto essere applicabili a un altro materiale architettonico. Tutte le peculiarità più vistose dell’architettura gotica si possono facilmente far derivare da questi semplici fondamenti interpretativi; noi perlomeno tentiamo di farlo con alcune delle più importanti; intendiamo inoltre ricondurre al fondamento quelle chiese più antiche il cui stile sembra ancora grecizzante. Di quest’ultima maniera, a Colonia le più notevoli e belle sono le chiese di San Gereone e dei Santi Apostoli. Entrambe sono libere su pressoché tutti i lati e cadono bene all’occhio. Rammento a questo riguardo che, per cogliere con lo sguardo tutte le belle chiese di questa città, e pure da diverse distanze, è particolarmente raccomandabile la passeggiata sul lato interno delle mura urbane e la veduta che si dispiega a partire dalla gru del duomo.21 La città intera si presenta nella sua massima bellezza dal lato opposto del Reno, da dove forma una vasta mezza luna ben delimitata da parecchie belle chiese e da una vecchia, solida torre. Soprattutto il duomo appare, visto da qui, magnifico;
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niente di meno che magnifica è la sua stessa posizione, su di un’altura assai pronunciata a partire da cui si dischiude un’ampia visuale. Peccato soltanto che una tale bella posizione risulti ancora più deturpata da costruzioni di minori e maggiori dimensioni che le si sono addossate, di una maniera costruttiva diversa e peggiore, come avviene pure ad altri grandi duomi.22 Analogamente, purtroppo, per far posto a un altare italiano, che sicuramente nel suo genere può pure essere bello, ma non si addice in alcun modo a una chiesa gotica, circa quarant’anni fa è inoltre stato abbattuto il vecchio tabernacolo – interamente lavorato con la massima grazia e artisticità nel medesimo stile della chiesa, composto da un proliferare di torrette e di gemme – che per così dire offriva all’osservatore una rappresentazione del grandioso edificio nel suo insieme in proporzioni ridotte e nella forma di distillato di tutta l’arte che, in quest’ultimo, è dispiegata troppo diffusamente per poter essere colta in un’unica occhiata. [Nelle chiese più antiche non è insolito l’impianto con l’ingresso principale formato da un’unica, pesante, semplice torre, e il coro, decorato con due torrette più piccole, la cui ultima cavità si prolunga in una semirotonda tra quest’ultime. San Cuniberto e San Severino sono proprio così, entrambe di forme nobili e grandiose. La torre di San Martino, del decimo secolo, è ancora più squisita; la possente torre centrale è cinta e decorata, nei quattro angoli, da quattro più piccole; solamente due di esse sono intatte. Incomparabilmente più artistica è la chiesa dei santi Apostoli, dell’undicesimo e dodicesimo secolo. Un’unica, possente, pesante torre forma anche in tal caso l’entrata principale. Il coro è formato da tre mezze rotonde sormontate da cuspidi; due torri ornano la rotonda centrale, a conclusione del coro, e sopra alle tre rotonde e alle
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relative cuspidi s’innalza una cupola esagonale sormontata a sua volta da un’altra. Un edificio per così dire composto di più edifici artisticamente imbricati; non un semplice tempio, bensì un superbo trofeo di più templi che s’innalzano l’uno sull’altro. Furono, in fondo, già l’idea e la predisposizione più antiche della chiesa cristiana a condurre a questo stiparsi e intrecciarsi di più edifici in uno. Già Costantino aveva voluto che la sua chiesa venisse costruita a forma di croce; poco più tardi si diffuse l’aspirazione a contrassegnare l’altare principale tramite una cupola centrale innalzata quanto più in alto possibile al di sopra di tutte le altre parti del tutto o delle cupole secondarie, come in Santa Sofia a Costantinopoli o in San Marco a Venezia, che ad essa è ispirata. Il coro, nel suo ruolo di palcoscenico di coloro che prendono parte attiva alla funzione divina, era originariamente separato dal ben definito spazio maggiore riservato ai fedeli; e questo doveva avvenire in base al concetto dominante: il coro formava così quasi una chiesa più piccola in quella più grande. La necessità di un accesso diretto al coro fu all’origine dei passaggi laterali, accanto a quello principale costituito dalla navata, che se ne distingueva a tal punto in quanto ad altezza che, in alcune chiese, questi passaggi laterali erano persino costituiti da annessi più bassi stretti intorno al corpo principale. In tal modo tutto condusse da ogni parte spontaneamente ad un’estrema molteplicità di intrecci che, in seguito, divenne il carattere e l’idea fondamentale da cui quasi tutto deve venir fatto derivare. Come ad esempio la natura delle colonne gotiche. Già nelle chiese più antiche, quelle ancora grecizzanti, si trovano in massima parte colonne non semplicemente tonde, bensì formate da parecchie fasciate in una, come conseguenza della connessione tra il passaggio più alto costituito dalla navata e quelli laterali, dato che le colonne della prima sono al tempo stesso i sostegni delle seconde; oppure a suo fondamento sta anche qui la propensione all’intreccio e alla molteplicità. A partire da inizi confusi come questi, si è sviluppata una delle più peculiari bellezze della maniera di costruire gotica: quelle colonne fascicolate – intendo – che schizzano in alto come canne slanciate e la cui singolare bellezza ha poi dato adito a così tanti profondi paragoni. Le colonne del duomo rivelano chiaramente di essersi sviluppate a partire da quelle più antiche; a costituirne il nucleo è infatti una grande colonna tonda alla quale sono addossate sui quattro lati quattro colonnine poco pronunciate, a tal punto da non distinguersene del tutto; in ogni intervallo compreso tra di esse se ne trova a sua volta ancora un’altra, decisamente più piccola, quasi tutta sporgente; lungo la navata principale, però, in ogni intervallo ve ne sono due, nelle colonne sotto la cupola invece tre; cosicché ogni colonna, se si eccettua quella che ne costituisce il nucleo, consiste in quattro di modeste dimensioni che lo cingono, e di quattro, otto o dodici ancora più piccole, a seconda della minore o maggiore importanza della colonna. Ora, dove si incontrano alcuni di tali sistemi di colonne, come nel lato interno del pilastro angolare della torre, la molteplicità delle colonne fascicolate in una risulta impercettibile sia allo sguardo che all’impatto. Proprio con questo si spiega inoltre la particolare forma degli archi gotici. Il fatto che siano acuti è certamente una conseguenza della forma ad angolo acuto propria dei tetti del nord – in ogni opera, interno e esterno devono risultare consonanti, a meno di non esigere un’eccezione dai principi fondamentali. Ma in alto, per proseguire in base a tale principio formale, i ceppi di colonne fascicolate dovevano per così dire divaricarsi in rami e rametti; è così che hanno avuto origine i cosiddetti archi a schiena d’asino, incrociati ad angolo acuto, grazie ai quali le alte navate, oltre alla grandezza che le caratterizza, acquisiscono la più ricca molteplicità; una buona parte della splendida impressione suscitata dagli edifici gotici sgorga certamente da questa peculiare maniera di edificare le volte. La forma dell’arco, derivata dalla forma dei tetti a falde propria della maniera di costruire
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nordica, contraddistingue pure i portali, in cui numerosi archi, compressi gli uni sugli altri, restringendosi e arretrando sempre più producono e formano la più piena e ricca accumulazione ornamentale che sia possibile. Le più antiche finestre gotiche sono in massima parte a forma di trifoglio; ma è dal fatto che anche qui si sia cercata la forma ad archi snelli e slanciati – di modo che ogni parte, per quanto grande potesse essere, fosse ancora conforme rispetto al tutto e che, pure in tutta la sua varietà, si manifestasse sempre la stessa forma fondamentale – che sono derivate le decorazioni delle finestre, divenute poi consuete nella maniera di costruire gotica più compiuta, accostando due archi di tal sorta al solito trifoglio, per farli ricongiungere a grandi altezze. Nel duomo tutte quante le decorazioni, che appaiono così artistiche e ricche, sono in tutto e per tutto semplici, composte solo a partire dal trifoglio e dalla rosa. Nell’antica maniera grecizzante San Gereone, chiesa anch’essa dell’undicesimo secolo, è forse ancor più bella degli edifici di cui abbiamo sinora fatto menzione. Una rotonda – o meglio un decagono – che si conclude in una cupola costituisce la parte anteriore della chiesa; al coro, posto a un livello considerevolmente superiore, si accede salendo numerosi gradini. Esternamente il coro è decorato solo da due torri. L’interno della chiesa è di straordinaria bellezza; e, all’esterno, lo è l’armonia delle proporzioni e l’artistica semplicità delle ornamentazioni. Già compaiono le teste zoomorfe, in qualità di apparato decorativo secondario, come nei doccioni; nell’architettura gotica l’impiego di figure tratte dal mondo animale si limita pressoché esclusivamente a elementi del tutto subordinati come questi. Manca ancora però quasi del tutto, in questo stile più antico dell’architettura gotica, l’elemento vegetale; qui non si vede mai nessuna di quelle gemme e di quelle torrette gemmate che, in seguito, sarebbero comparse così numerose e che a prima vista potrebbero quasi sembrare ciò che vi è di essenziale; le principali colonne dell’interno sono spesso ancora senza capitello fogliato, e pure senza tutte le loro anse e le loro spire; l’unica decorazione dei capitelli in vista è la doratura. Si 6 vede inoltre un ordine minore di colonne che formano il piano superiore dell’esterno della rotonda, ma che vengono impiegate pure nelle finestre e nei chiostri. Sono di basalto, molto esili e slanciate, e sono binate ma, nei punti principali, raggruppate a quattro. Il capitello è in parte liscio, come nelle colonne di cui sopra, in parte decorato a fogliame, in cui s’intrecciano uccelli, draghi e altre piccole figure. Negli edifici gotici dell’epoca successiva, quella più artistica, non si trova assolutamente mai più questa stessa colonnina. Tutto ciò dovrebbe tuttavia venir determinato ulteriormente mediante misurazioni e chiarito definitivamente mediante disegni. Per il momento, basti questo poco]. Al fine di una diversificazione e di una caratterizzazione dei due differenti generi di architettura gotica, vogliamo ancora addurre quanto segue. Nello stile costruttivo paleocristiano, del quale San Gereone a Colonia offre un modello così perfetto, gli schemi fondamentale del triangolo e del quadrato, della croce e del cerchio così come pure della stella esagonale e di altri innumerevoli poligoni, non sono esclusivamente nascosti nella struttura interna; emergono bensì in una bellezza, se così si può dire, geometrica, ben visibile nelle masse principali e nella cuspide dell’edificio, e conferiscono con ciò all’edificio una configurazione siderea tutta peculiare; il loro meraviglioso accostamento suscita un’impressione di mistero perfettamente appropriata per una chiesa, in quanto edificio sacro che deve per così dire offrire in piccolo un’analogia dell’eterna struttura del cielo. Questa configurazione siderea e bellezza geometrica si ritrae poi nel secondo stile fiorito dell’architettura gotica in cui, di tutte tali figure, solamente quella della croce rimane manifesta ed emerge ben visibile; ma anche quest’ultima rivestita dal più dovisioso ornamento e come avvolta da rose in fiore. In quest’ultima maniera di costruire, la configurazione di colonne, archi e finestre, da cui spuntano morbidi viticci, come di rami che s’intrecciano, la piena ornamentazione fogliata delle decorazioni e, soprattutto, l’elemento floreale e quello vegetale costituiscono la forma fondamentale e la peculiare bellezza, la cui vera origine e il cui primo fondamento sono da ricercare nel profondo sentimento tedesco della natura e nella fantasia, intesa quale elemento spirituale predominante in quell’epoca. Ora, se nello stile delle chiese paleocristiane sia stata raggiunto lo stesso grado di eccellenza e perfezione che nello stile fiorito dell’architettura romantica del duomo di Colonia – a questo riguardo oso appena pronunciarmi, ma tendo a dubitarne, dal momento che un genere come questo presenta un amplissimo spettro che non si può esaurire e attuare in una vetta incontrovertibilmente suprema, per quanto a modo suo San Gereone possa davvero risultare quasi altrettanto stupefacente quanto il Duomo di Colonia, e per quanto siano degni d’ammirazione pure la Basilica di San Marco a Venezia, in stile grecizzante, e il Duomo di Siena, in quello marmoreo italiano. Di alcuni notevoli quadri, collocati nelle chiese come in collezioni private, si parlerà in altra occasione. Avvertito dall’indicazione di un dotto studioso d’arte, mi recai con delle torce nella cripta della chiesa di Santa Maria, sulle cui volte si trovano ancora delle tracce di dipinti risalenti all’epoca di Carlo Magno. Si tratta però solo di tracce; sono ormai alcuni anni che la cripta è stata murata, e la presenza, qua e là, di frammenti dai contorni mezzo svaniti non poteva suscitare una grande impressione né giustificare alcun giudizio. Se ci sia un mezzo per salvare questi resti, non so. – Tra le tante vetrate dipinte che si trovano nelle chiese menzionate e di cui se ne potrebbero trovare di pari eccellenza da poche altre parti, le più notevoli sono quelle un tempo universalmente rinomate della navata laterale del duomo, in virtù delle grandi raffigurazioni che vi sono state eseguite, risalenti al periodo migliore e più fiorente nella realizzazione di vetrate dipinte (la seconda metà del quindicesimo secolo), e quelle in San Cuniberto, in virtù dell’epoca molto più remota cui risalgono (la metà del secolo tredicesimo) e del cupo
sfarzo coloristico. Alcune, che erano danneggiate, sono rifinite in uno stile posteriore che è più luminoso e maturo nella rappresentazione ma non altrettanto sfarzoso. Nella maniera più antica, dal momento che non si sapevano ancora amalgamare i colori, i visi venivano realizzati monocromatici, tutti in marrone, e in genere i colori composti non vengono ancora molto impiegati; in considerazione però dello sfarzo cromatico degli arabeschi, consistenti per lo più di foglie di trifoglio, di rose, occhi di pavone e altre decorazioni che incorniciano l’immagine, si potrebbe quasi accordare la preferenza a questa Maniera più antica. Viaggio sul Reno In tutta la sua bellezza, la Renania ha inizio nei pressi della ridente Bonn: una vasta campagna riccamente ornata che sale per una giornata di viaggio come una grande gola in mezzo a colli e a monti fino alla foce della Mosella nei pressi di Coblenza; a partire da lì fino a St. Goar e a Bingen la vallata si fa sempre più stretta, le rupi più erte, la regione più selvaggia; e qui il Reno è nella sua massima bellezza. Tutto quanto ovunque vivificato dalle operose sponde, sempre nuovo per le svolte del fiume e significativamente decorato dagli audaci frammenti di antiche rocche fortificate che spiccano sulle pendici; questa regione sembra essere un dipinto compiuto in se stesso e una ben ponderata opera d’arte di uno spirito creativo piuttosto che un prodotto del caso. Procedendo contro corrente, tra le tante rovine che glorificano il Reno inizia a levarsi, a partire dalla regione pianeggiante, il Godesberg; una delle più belle, non per l’altitudine e l’audacia, ma per la preziosa veduta e la posizione amena. Il Drachenfels, che fa la sua comparsa poco oltre, sul lato opposto, stimola subito l’attesa di tutte le fiere e singolari rocche fortificate rupestri che, in alto, cingono il fiume. – Tali rovine di antichi castelli, le si contemplano o con una commozione soltanto superficialmente estetica – irrinunciabile sottofondo romantico di ogni sorta di sentimento moderno – oppure vi si riconoscono soltanto castelli di briganti che vennero, e dovrebbero venire, distrutti per la pubblica salvaguardia della pace; indubbiamente molti furono tali, e forse la maggior parte di quelli di cui ancora oggi si vedono le macerie; ma non si dovrebbe sempre e comunque scambiare l’estrema degenerazione con la cosa in sé, rendendosi così insensibili nei confronti del senso dei più splendidi tra i monumenti del passato. Se solamente volessimo interrogare la storia, essa c’insegnerebbe, credo, che di questi rocche fortificate se ne eressero per secoli, finché scoppiò la grande ostilità tra la nobiltà di campagna e le ricche città commerciali, in una specie di continua guerra civile durata secoli interi, finché infine si pensò di stabilire l’ordine pubblico in base al diritto del più forte, con tutto ciò che ne seguì; infatti l’inclinazione da parte dei tedeschi ad abitare sui monti, a insediarsi possibilmente sui monti, è così antica che la si potrebbe – e certo non a torto – ricondurre al carattere originario della nazione. Un’inclinazione sublime non meno che nobile! Già uno sguardo dall’alto e un respiro su monti aperti ci conducono quasi in un altro mondo più lieve e costituiscono per noi un ristoro ritemprante, in occasione del quale ci scordiamo della monotonia delle pianure, e alla vista, ai nostri piedi, di magnifiche distese inspiriamo un nuovo coraggio di vivere. Ma quanto assolutamente diverso dev’essere viverci ed esserci sempre, là dove noi ora c’arrampi7 chiamo a fatica un’unica volta, in giorni particolari, per sentire ancora, anche per una sola volta, quale dev’essere lo stato d’animo di chi vive e respira in piena libertà; e quanto diverso dev’essere vedere sempre davanti a sé la terra nella sua preziosa ornamentazione in ogni momento del giorno e dell’anno, là dove tutto si mostra distinto e singolare – il passaggio delle nubi, il fiorire della primavera, il chiaro di luna, persino i temporali e, d’inverno, i campi tutti imbiancati. Per me le regioni belle sono solamente quelle che vengono abitualmente definite aspre e selvagge; poiché sono le uniche a essere sublimi, e solamente regioni sublimi possono essere belle e suscitare l’idea della natura. Nel caso in cui si sia rimasti lungamente prigionieri nelle città, la visione di distese di campi rigogliose e ricche 8 ridesta gradevolemente a un gioioso godimento della vita; simili incanti della natura in fiore commuovono infatti in maniera tanto più travolgente quanto più vengono goduti di rado. Tutto è qui soltanto sentimento di un presente gradevolmente leggiadro; nulla ci rimanda alla grandezza del passato. Quelle rupi che, in un regno della natura ancora selvaggio, si ergono come monumenti posti in segno delle guerre di un tempo e che testimoniano in così chari termini delle terrificanti battaglie condotte dalla terra nel suo violento contoncersi, sono tuttavia eternamente belle e provocano sempre la stessa identica impressione, che non accenna mai a scemare. Allo stesso modo in cui il mormorio di un bosco e lo scrosciare di una sorgente ci sprofondano sempre nella stessa mestizia, e in cui il grido solitario di uccelli selvaggi esprime un’inquietudine dolorosamente gioiosa e una brama di libertà, alla vista delle rupi noi immancabilmente sentiamo la natura stessa; poiché soltanto grazie ai monumenti risalenti alle più remote epoche della natura, allorché a grandi ondate irrompono davanti ai nostri occhi il ricordo e la storia, volgiamo uno sguardo nella profondità di tale sublime concetto, che, nel godimento di una piacevole esteriorità, non
può proprio manifestarsi. Ma nulla riesce a rendere più bella e intensa l’impressione di quanto non facciano le tracce dell’audacia umana che si manifesta nelle rovine della natura, audaci rocche fortificate su rupi selvagge – monumenti di quell’età eroica dell’uomo che fa seguito alle supreme età eroiche della natura; la sorgente dell’entusiasmo sembra effondersi, ben visibile, davanti ai nostri occhi, e il vecchio fiume patrio ci si presenta ora come un poderoso fiume di arte poetica che si fa nunzia della natura – Wie kühn auch andre Quellen sprudeln, brausen, Wo sonst die Dichter schöne Weihe tranken, Den Kunstberg stets anklimmend ohne Wanken, Bis wo die ewig heitern Götter hausen; Ich wähle dich, o Rhein, der du mit Sausen Hinwogst durch enger Felsen hohe Schranken, Wo Burgen hoch am Abhang auf sich ranken, Ans Herz der Wandrer greift ein ahndend Grausen. Schnell fliegt in Eil auf grünlich hellen Wogen Das Schifflein munter hin des deutschen Rheines, Wohlauf gelebt! das Schifflein kehrt nicht wieder. Mut, Freud’ in vollen Bechern eingesogen Krystallen flüssig Gold des alten Weines, Singend aus freier Brust die Heldenlieder.23 [Lungo il Reno, volgendo lo sguardo verso l’alto, si vedono ancora molti ruderi di fortificazioni, torri e mura romane, che danno adito ad alcune considerazioni. Un tempo qui passava il confine, scrupolosamente sorvegliato, dell’impero romano; quanto simili sono di sovente anche i tempi più lontani; e cosa ne sarebbe poi mai stato della razza umana, in quale abisso d’umiliazione senza fondo sarebbe sprofondato tutto, se questi confini romani fossero rimasti e il più nobile popolo della terra non li avesse finalmente infranti ponendo fine alla sottomissione e introducendo al suo posto un ordinamento fondato, più di qualsiasi altra magnificata istituzione dei tempi antichi e moderni, sulla fedeltà e sulla libertà, sugli aviti costumi, sull’onore e sulla giustizia?] In verità un confine così arbitrario non poteva restare un confine. Ma, per riuscire a comprendere il modo di procedere dei Romani, non lo si può giudicare in base al nostro punto di vista e alle nostre condizioni. A noi non sembra affatto opportuno voler considerare come un confine naturale un fiume, che è anzi piuttosto un reciproco mezzo di traffici vivaci e di unione da ambo le parti; giacché di confine naturale, tra gli uomini, non ve ne è altro che non sia la lingua, oltre che, nel territorio, le alte catene montuose o, al loro posto, anche le grandi aree boschive. Ma a quei tempi, vista l’inesperienza delle stirpi meridionali dei tedeschi a riguardo di tutto quanto riguardi la navigazione, e in mancanza di efficaci mezzi d’assedio, per i Romani il fiume ha potuto costituire una difesa sufficiente. Nei pressi di Rüdesheim, prima di Bingen, nel punto in cui la gola rupestre si restringe e si fa spaventosa e in cui dall’antica torre tedesca si dischiude una veduta così unica, vi è, proprio sulla sponda del fiume, una delle più notevoli rovine romane. Ma quella serie di rovine di antichi castelli tedeschi che qua e là incoronano così magnificamente il fiume Reno ci fornisce, oltre a un immediato sentimento della natura, l’opportunità di un’ulteriore considerazione, dal momento che riconosciamo in questa abitudine e inclinazione originariamente tedesca alle più audaci costruzioni rupestri l’elemento primario dell’architettura gotica tedesca, in seguito sviluppatasi così artisticamente. I tedeschi ebbero e costruirono rocche fortificate sin dai tempi più antichi, già nelle foreste germaniche, come rammenta Tacito nella storia di Arminio e Maroboduo;24 assai prima della realizzazione di città compatte – che, anzi, vennero cinte da mura secondo il modello delle rocche fortificate – erano di uso generalizzato quelle più grandi comunità di case rurali e di insediamenti di contadini cui diamo in nome di villaggi. Tali rocche fortificate, disperse tra sporadiche fattorie, erano la residenza di principi ed eroi poste a loro difesa dai nemici in faide di ogni genere e a loro solida vigilanza, in una condizione di pace sempre armata. Gli antichi Germani non avevano vere e proprie case di Dio, poiché di regola accendevano i fuochi sui monti e offrivano i sacrifici nei pressi di un lago solitario, oppure negli antri più solitari della foresta, all’ombra delle sacre querce. Anche le salme degli eroi venivano sepolte nei tumuli delle tombe megalitiche, oppure immerse sul fondo del letto di una deviazione del fiume. L’intera maniera germanica di erigere per lo più costruzioni torreggianti sui monti non è pertanto derivata dai templi e dalle tombe in uso presso altri popoli, bensì in maniera completa ed esclusiva dalle rocche fortificate, in grado di rispondere all’esigenza di una difesa più agevole e di offrire il vantaggio di una vista libera; anche altre nazioni guerriere, analogamente, avevano spesso collocato le fortificazioni proprio sulle vette. Soltanto che presso gli altri popoli questa abitudine non è stata così generalizzata in ogni epoca come presso tutti quelli tedeschi e gotici; a questo proposito, risulta ben riconoscibile anche la propensione a scegliere preferibilmente proprio le posizioni più audaci, e a sospendere o ad abbarbicae saldamente le torri e le mura come nidi d’aquila sulle rupi più scoscese in maniera spesso incredibile. Pure il sentimento tedesco della natura e la propensione, fattasi per l’occhio esigenza, di pascersi nella veduta di un simile splendore della natura terrena hanno offerto il loro contributo; ancor’oggi vediamo con commozione le macerie del grande castello di Teodorico a Terracina, sulla cima del monte, la vista che domina sino a grande distanza, sul mare. Goffa può dunque anche essere stata l’originaria maniera di costruire delle rocche fortificate, e rozza può esser rimasta nella maggior parte dei casi, mentre certo migliaia di castelli venivano costruiti e nuovamente distrutti, prima che si raggiungesse l’arte e la sfarzosa bellezza dell’eccelso castello imperiale di Barbarossa; ma lo spirito peculiare di tali castelli alto-tedeschi e della maniera di costruirli e che insieme ad essi si è sviluppato ha esercitato un incalcolabile influsso sul formarsi dell’architettura gotica. Quest’ultimo non risiede in singole somiglianze; poiché, dove se ne trovano tra alcune chiese e le rocche fortificate, e dove si manifestano nei merli e pure nel resto della struttura, si tratta per lo più soltanto di chiese in uno stile più rozzo, in cui tutto questo risulta caratteristico. Nella tendenza complessiva e nell’intimo concetto di questi castelli di montagna è però insita una predisposizione a eccitare e ad alimentare
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quell’audace fantasia propriamente architettonica che ha contrassegnato in ogni sua epoca l’architettura gotica, e che già alla sua prima apparizione e nelle sue prime realizzazioni, con Teodorico, venne interpretata e considerata come la sua qualità più evidente e come il suo segno caratteristico. Le varie funzioni, di guerra come di pace, che dovevano venire conciliate in una rocca cavalleresca di questo genere, i siti e gli ambienti differenti e le particolari circostanze locali che occorreva tenere in considerazione, le configurazioni spesso complicate e singolari della rupe su cui l’edificio doveva innalzarsi portarono inevitabilmente con sé una grande irregolarità che ben presto stimolò un compiacimento per l’audace e per il singolare, determinarono un’aperta presa di posizione a suo favore e diedero fondamento a quella meravigliosa fantasia, propria di tale maniera di costruire, che, dell’architettura gotica, è diventata l’elemento primario; l’altro lo si trovò nello stile delle chiese paleocristiane e nel suo significato sidereo; e questi stessi elementi, se considerati insieme, racchiudono l’esaustiva spiegazione dell’intero enigma di questa singolare manifestazione artistica. [Il sentimento della natura tedesco, in quanto radice e sorgente viva da cui tutto è sgorgato, deve però sempre rimanerci presente. La ricchezza della terra o la natura, in arte, vengono intese in duplice maniera anche negli antichi dipinti tedeschi: come giardino oppure come selva. Come giardino, vale a dire come sgargiante tappeto primaverile o, in un senso più profondo, come floreale abito nuziale della beata vergine: oppure come selva, vale a dire, per proseguire con la stessa immagine simbolica della verità, come velo mezzo squarciato del dolore eterno e come perpetuo lamento di una vedova. Il giardino, in questo senso simbolicamente artistico, è uno stato di elevazione, bellezza e trasfigurazione; la natura vera e propria è invece nel luogo desolato, il cui sentimento ci colma di quel profondo dolore che al tempo stesso possiede qualcosa di così meravigliosamente attraente. Solitario sta il figlio del cielo nella selvatichezza della natura, ed erra a destra e a manca nel tentativo di riconquistare il cuore del padre, che ha perduto, nel dolore mai del tutto colmato e mitigato della separazione. In arte, tale è il duplice senso che assumono la natura e il bel paesaggio nella pittura. Come una barriera tutta cintata o un solido castello eretti a fini bellici, si ergono pure alcuni antichi edifici rupestri tedeschi, nella desolazione della natura selvaggia, e il sentimento nei loro confronti fa certamente tutt’uno con quella meravigliosa maniera di costruire. Ma nell’architettura più eccelsa non è più la natura selvaggia nella sua valle di lacrime a essere imitata o rappresentata, bensì la natura trasfigurata, la natura che fiorisce liberamente e pienamente nella trasfigurazione quale celeste città divina, ed è la ben ordinata casa siderea della glorificata creazione, secondo l’idea-fondamento, dominante nello stile paleocristiano, della Chiesa compiuta]. Strasburgo [Celebre in tutto il mondo, il duomo merita proprio la sua fama, ed è indiscutibilmente uno dei monumenti più eccellenti dell’architettura gotica. La chiesa è esageratamente piccola e ancor meno squisita. La sua costruzione venne intrapresa già nel 1015, ma fu portata a termine solo nel 1275. La torre fu iniziata nell’anno 1277 da Erwin von Steinbach;25 alla sua morte, avvenuta nel 1318, a proseguire la costruzione fino al 1339 furono i suoi figli, Sabina e Johannes. Ma il tutto fu terminato solo da Johann Hülz, Baumeister di Colonia che visse fino al 1449. Il sito su cui sorge non è in posizione sopraelevata, ma è libero su tutti i lati ed è meno disturbato da piccole costruzioni a ridosso di quanto solitamente accada altrove. Anche qui la Rivoluzione ha causato notevoli danni, con l’asportazione delle figure scultoree che decoravano la torre con particolare ricchezza. Lo stile della maniera di costruire è quello artistico della seconda epoca dell’architettura gotica, in cui vennero costruiti anche il duomo di Colonia e la torre di Santo Stefano a Vienna. Così perlomeno risulta alla prima impressione, e considerando l’insieme; ma ad un’osservazione più circostanziata, nei dettagli vengono alla luce divergenze di grande rilievo. Qui le decorazioni vegetali si sono già in massima parte trasformate in arbitrari arabeschi. Persino i motivi decorativi delle trabeazioni e dei fregi della torre del duomo di Colonia sono di fogliame; nella cattedrale di Strasburgo sono invece meri ghirigori. Questo stesso fatto risulta assai ben percettibile già alla prima impressione, cosicché tanto il tutto quanto parecchie delle parti che lo costituiscono suscitano più l’effetto di un immane meccanismo artificiale, o ancor più di un artificiale marchingegno metallico, piuttosto che quella di una vegetazione pietrificata. Da questo punto di vista la cattedrale di Strasburgo – e a quanto pare, perlomeno nella sua struttura esteriore, anche la chiesa di Westminster a Londra – costituisce il punto di passaggio verso i primordi dell’architettura italiana, quella ancora mezzo gotica. Nel grande duomo di Milano, costruito da un Baumeister tedesco, Heinrich Gamodius o Zamodius, non vi è assolutamente più nulla di vegetale nelle forme; persino le torrette non terminano con cuspidi e gemme traforate, bensì con uno spiovente spoglio su cui sono collocate alcune figure scultoree. Eppure, la disposizione complessiva è – con le due torri sull’entrata principale, una cupola torreggiante al di sopra del coro e la massa di torrette ornamentali – ancora assolutamente gotica; soltanto, viene a mancare la pienezza delle restanti decorazioni e delle gemme, e lo stile è incomparabilmente meno artistico. Pure nella chiesa di Santa Maria del Fiore a Firenze si possono ancora rinvenire alcune tracce dello stile gotico. Anch’essa, analogamente, era stata impostata da un Baumeister tedesco, che gli italiani chiamano Arnolfo di Lapo o di Cambio; ma la cupola è già tutta puramente italiana, di Brunelleschi. A questa chiesa anche Bramante deve aver fatto riferimento nel suo progetto per il grande San Pietro a Roma, il capolavoro dell’architettura italiana che, passando attraverso numerosi stadi e passaggi, di cui se ne potrebbero incontestabilmente identificare molti altri, si è gradualmente sviluppata a partire dall’architettura gotica. Nell’intero ambito della sua inestimabile ricchezza l’architettura gotica abbraccia d’altra parte, accanto ai due generi principali, significative sottospecie, singolari deviazioni, notevoli passaggi e stadi intermedi, tra quelle due scuole artistiche o epoche profondamente diverse tra le quali lo stile è profondamente mutato. I monumenti propriamente moreschi in Spagna e in Portogallo hanno un carattere peculiare; uno stile ancora altro caratterizza gli edifici dei Templari, in Oriente o dove se ne trovano in Occidente; le chiese marmoree italiane formano poi una maniera particolare, così come
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quelle chiese più simili a castelli, specialmente in quelle province tedesche dove l’arte, in quanto a decorazioni, non giunse al supremo fiorire della perfezione. È tutto questo che una completa storia dell’architettura gotica dovrebbe rappresentare nel suo sviluppo complessivo, cosa che, dopo così tanti lavori preparatori compiuti su casi particolari, sarebbe davvero realizzabile non appena venisse una buona volta afferrata correttamente e stabilita l’idea posta a fondamento del tutto. Un’altra vecchia chiesa di Strasburgo, vale a dire San Tommaso, è una di quelle che nelle forme esterne presenta la massima somiglianza con le rocche fortificate. Nella collezione di dipinti di Strasburgo il più notevole ai miei occhi è risultato il ritratto di un santo di Pietro Perugino; ha uno sfondo tutto chiaro, è privo di attributi, solo un ritratto a mezza figura.26 Il capo e lo sguardo chini accrescono ulteriormente l’atmosfera di quieta e severa leggiadria così consona a questo maestro. Dato che, presa di per sé, la singola figura non si poteva considerare come un dipinto, presumibilmente era collocata su di un’ala di una pala d’altare andata distrutta. Quante opere d’arte possono essere analogamente state smembrate, negli ultimi tempi – come pure anche l’arte in quanto tale – attraverso così numerose funeste dislocazioni! La città di Strasburgo può fregiarsi dei nomi di uno Schilter, di uno Scherz e di così tanti altri, a splendida dimostrazione del fatto che lo spirito e la dottrina tedeschi non hanno smesso di conservarsi anche sotto la dominazione francese]. Basilea [Anche l’Alsazia è una bella regione. È vero, qui lungo il Reno non ci sono paesaggi come quelli tra Bingen e Bonn, ma la regione è fertile e offre una bella visuale, quando si allarga tra i Vosgi e il Reno, in un pendio dolce e graduale dalle cime giù sino al fiume. Se già a valle il colore verdognolo delle acque del Reno risulta assai sorprendente, lo è di gran lunga di più in una città dalla splendida ubicazione come Basilea; qui esso è del verde più intenso. Nella sua collezione pubblica, questa città ospita alcuni dipinti assai notevoli di Holbein [il Giovane], che ce lo presentano sotto ancora un altro aspetto rispetto a quello che si manifesta nell’arte del ritratto, in cui è così eccellente, ma pressoché esclusivamente in un’unica Maniera. Sempre qui si trovano anche alcuni suoi quadri storici, e davvero in stili molto diversi. Una cena del primo periodo, quasi irriconoscibile, alla Maniera di Dürer, come anche la maggior parte dei disegni.27 Un’altra cena mi parve più simile alla Maniera di Tiziano, un po’ come nei suoi discepoli di Emmaus.28 Anche piccoli quadri della Passione, assai considerevoli, che colpiscono per una particolare illuminazione, in mezzo ad una moltitudine di ombre nere.29 Un Cristo morto, pallido, lungo e disteso, mi ricorda più il modo in cui Correggio tratta proprio questi soggetti.30 In breve, in questi quadri storici di Holbein ne risultano altrettanto evidenti sia la poliedricità che la tendenza più prossima alla Maniera italiana, dalla quale Dürer rimase assolutamente distante in ogni sua opera. Ma non ce n’è uno, in questa collezione, di qualità tale da stare alla pari dell’ineguagliabile dipinto di Dresda.31 – Due ritratti femminili di piccole dimensioni, raffigurati dal vero ma con riferimenti simbolici, assomigliano, nei toni tenui della carnagione e nella pregnanza ricertata quanto sospesa del volto, più ai dipinti di Leonardo che agli altri di Holbein.32 Oltre a quelli menzionati, vi sono parecchi dipinti ottimamente eseguiti con il noto, eccellente trattamento assolutamente realistico proprio di Holbein; alcuni pezzi di questa maniera abbelliscono la collezione dei fiamminghi di Basilea. Dell’affresco della celebre Danza macabra, resta ormai solo poco da vedere.33 La collocazione del duomo, su un colle da cui la vista si apre tutt’intorno, è splendida; lo stile però è goffo e, certo, meno aggraziato che nei monumenti dell’architettura gotica sopra menzionati]. Berna [Accedere a un paese sereno come la Svizzera da questa parte, in cui le montagne torreggiano le une sulle altre sempre più alte, assistere allo spettacolo di un così singolare impiego del territorio e delle malghe e delle montagne innevate che scintillano al sole offre un piacere non alieno da un senso di quiete; al cospetto dell’inatteso spettacolo l’inconfessato desiderio di una patria s’acquieta nell’appagamento. È un paese, questo, a cui si è costretti a affezionarsi non appena lo si vede, e sin dal primo momento si comprende la nostalgia di casa tipica dei suoi abitanti. Berna è proprio una bella città e, per come la intendo io, non so se questo si possa ancora dire di molte città. Alcune sono ubicate in una bella posizione, in molte si trovano singole splendide costruzioni, ma vicinissime a queste anche alcune pessime e non di rado in tutte le possibili maniere di costruire, alla rinfusa, forse in un’allusione all’altrettanto enorme confusione dei modi di pensare. Berna invece è tutta d’un pezzo, interamente costruita in un unico modo di pensare. I possenti portici in pietra, le modeste dimensioni della città, gli argini, le grandi masse dei monti che la cingono tutt’intorno, il carattere massiccio persino dell’architettura, rinvenibile anche nel vecchio duomo gotico, tutto ciò provoca la medesima, unica impressione in un accordo perfettamente consonante. La città tutta è come una solida rocca fortificata,34 incoronata da possenti montagne, come da più alte mura di rocche in lontananza]. Sul lago di Ginevra [Qui la natura è già sensibilmente diversa, il cielo più meridionale. Splendido è la spettacolo offerto dal lago, cupo, agitato e sempre mutevole, cosparso di barchette che da lontano, con le loro vele, sembrano uccelli che si librino rasentandone la superficie; i monti della Savoia, la singolare apparizione del Monte Bianco e la rigogliosa vallata in fiore di Chamonix formano poi un bell’insieme. Si crede già quasi di trovarsi in Italia, o almeno si avverte la prossimità del bel paese. La piacevole impressione mi risultava ulteriormente accresciuta dal fatto di trovarmi circondato dall’amicizia.35 Ginevra è situata in una posizione eccellente, ma la città è tutto tranne che bella. Nell’impianto, nella sistemazione e nella maniera di costruire delle città si palesa un certo senso artistico che un tempo, oltre che degli italiani, era proprio anche dei tedeschi, e che proprio presso quest’ultimi si è spesso esplicato in un impiego estremamente ingegnoso di siti e di ambienti apparentemente sfavorevoli. Ad alcune
nazioni questo sembra invece precluso, visto che in esse persino le più splendide bellezze della natura vengono rovinate e deturpate dall’opera volgare, miserabile e raffazzonata dell’uomo. – Non è possibile descrivere a parole quanto bello sia il Rodano nei pressi di Ginevra! di un blu cupo e, pure, così trasparente che si vede ogni sassolino sul fondo, anche a grande profondità; e, impetuosamente, scorre rapido. Com’è del tutto diverso in quanto a colore e a carattere rispetto al Reno, quieto e maestoso, e com’è anch’esso bello a modo suo! Peccato che un po’ oltre venga intorbidato da altri fiumi, che, perfino in città, la riva sia deturpata da alcune orribili, luride capanne, e che da nessuna parte il sentimento possa dispiegarsi indisturbato]. Lione [Con lo sguardo, il Monte Bianco potei seguirlo ancora a lungo, mentre davanti ai miei occhi continuavano a succedersi colline a vallate, e io pensavo ai tempi in cui questa stupenda regione apparteneva alla Germania insieme al regno dei Burgundi, e gli antichi imperatori – i Corrado e i Federico – nelle città burgunde tenevano le loro assemblee imperiali. Per Lione vale lo stesso che per Ginevra: la posizione non potrebbe essere migliore, la città vera e propria è invece brutta come buona parte di Parigi, le strade quasi ancora più strette e sporche; dappertutto la stessa maniera di costruire francese. La più bella veduta della città la si ha dal colle che s’innalza al suo interno. Il clima mi parve più meridionale che a Ginevra, la qual cosa dipende certo dalla differente altitudine. A metà novembre vidi alberi di quel verde tenero che in autunno spunta di nuovo. Nella collezione dei dipinti mi colpirono un Giovanni Evangelista e un vescovo36 del Perugino; belle figure sacre, ora però scompaginate e smembrate, dal momento che facevano verosimilmente parte di una composizione più grande. Inoltre una crocifissione alto-olandese di piccole dimensioni, alla consueta maniera in cui tale soggetto viene trattato in questa scuola e, in seguito, soprattutto da Dürer; soltanto non altrettanto squisita, con un che anzi di grossolano e di contadinesco. Ma a che valgono, isolate tra un paio di dozzine di quadri moderni di scarsa importanza, in una città in cui artisti stranieri possono arrivare solo di rado, un paio di simili antichità, che se riunite, conservate e classificate, potrebbero invece risultare così istruttive? In questa collezione c’è da ricordare anche una notevole flagellazione di Palma il Vecchio.37 Il Duomo di Lione, nelle sue forme, mi parve la più pesante e la più rozza di tutte le chiese gotiche nello stile delle rocche fortificate che io abbia visto]. Parigi [La regione tra Lione e Parigi, se si prende la via che passa attraverso la provincia di Auxerre e il Borbonese, non è particolarmente amena. Ininterrotte lievi alture stancano i viaggiatori, senza che con questo la regione tutt’intorno cessi nel complesso di essere pianeggiante. La grande differenza climatica tra Francia e Germania deriva forse meno dal fatto, non molto rilevante, che la prima è situata molto più a Sud, quanto dalla diversa altitudine. La Francia è uno tra i paesi più pianeggianti. Solo nella parte meridionale si trovano un massiccio e una catena montuosa considerevoli. È però verosimile che l’intera fascia continentale europea sia emersa dal mare solo in un secondo momento, o che anche in tempi non tanto remoti sia stata nuovamente sommersa, come alcune sterili distese sabbiose sembrano testimoniare; e questo sembra valere specialmente per la Francia. E forse sarebbe occorsa soltanto una violenza ancora maggiore o una diversa direzione dell’ultima grande inondazione perché la configurazione dell’Europa risultasse del tutto diversa; la Spagna sarebbe un’isola come la Gran Bretagna, la Francia per la maggior parte un fondale marino e pure la Germania sarebbe diversa. Certo, quest’ultima è montuosa; i monti intorno a Treviri, il Massiccio Scistoso Renano, i Vosgi, il Giura, le Alpi, le montagne della Boemia, della Slesia e della Sassonia e, a settentrione, l’Harz costituiscono un muro di protezione su pressoché tutti i lati nonché un solido massiccio. Mi ha colpito, in questa fascia interna della Francia tra Lione e Parigi, la quasi universale piccolezza delle figure; si tratta forse di un segno distintivo della razza celtica, che nemmeno la mescolanza con più nobili popoli germanici ha potuto innalzare pienamente. Una striscia considerevole come questa la si deve attraversare di tutta fretta, se si vuole evitare di ricevere un’idea non molto favorevole della figura umana; se vi si presta attenzione non si scorge quasi altro che brutture, che si manifestano nella loro massima bruttezza nell’indeterminatezza e nella piattezza dei tratti, quasi non fossero stati pienamente portati a compimento. Di rado capita di far ritorno a Parigi dopo un po’ di tempo senza trovare in un modo o nell’altro mutata la scena. Quando ce n’eravamo andati, era in corso la congiura e Moreau era stato imprigionato.38 Le barriere erano chiuse; tutto era tranquillo ma, pure, era diffuso un pervasivo senso di paura. Ora ci si occupava solo dell’incoronazione, si aspettava il Papa e si facevano i preparativi per le celebrazioni, che spesso, viste da presso, sembrano assai meno splendenti e sfarzose di quanto ne dicano i giornali.39 Non appena rimisi piede nella Biblioteca, vi trovai, tra le altre dotte novità e gli scritti d’arte, anche l’opera di un inglese sull’architettura gotica. Quanto bizzarramente è organizzato il cervello di certi uomini! –. Questo autore nell’architettura gotica ha scorto e svelato la figura dell’albero – le chiome nelle alte navate e i rami nelle volte –, la natura floreale di tutte le decorazioni e soprattutto la somiglianza con il vegetale e la forma delle piante. Ma anziché riconoscervi una peculiare forma del bello, l’idea fondativa dello stile fiorito della maniera di costruire romantica, egli offre una spiegazione in chiave esclusivamente materialistica: il tutto sarebbe sorto a partire dalla fedele imitazione di non so quali capanne rurali di verghe di salice intrecciate insieme o di ogni altra sorta di cesti di vimini. Questa e altre del genere sono più che altro arbitrarie supposizioni; allo stesso modo si poteva anche far derivare la maniera greca di costruire, nello stile delle sue artistiche colonne, dall’imitazione di rozzi pali e di ceppi lignei che il bisogno del selvaggio conficcò nella terra l’uno accanto all’altro per farsi una misera dimora e congiunse in alto tramite alcune travi. E mentre – nella genericità, che non dice nulla, di una siffatta derivazione, proprio troppo naturalistica – si spiega ora pure l’architettura
greca, scompare completamente l’auspicato chiarimento della natura particolare e della peculiarità dell’architettura gotica.40 Quand’anche, in un singolo caso, si fosse dimostrato storicamente che, da parte del Baumeister di un determinato edificio, tali siano veramente stati l’idea o l’intenzione di questa forma di imitazione e di somiglianza, pure, anche da ciò non dovrebbe affatto essere lecito trarre alcuna conclusione relativa all’architettura gotica nella sua interezza, all’idea, alla vera origine e allo spirito supremo che la caratterizzano: e tutto ciò sarebbe da considerare come una deviazione, che un proprio posto ce l’ha solamente tra le interpretazioni e le declinazioni secondarie dell’architettura. Analogamente, tra i monumenti architettonici del Medioevo in Inghilterra si potrebbero indubbiamente trovare alcuni esempi che parrebbero appartenere proprio a questa categoria; ma tanto meno se ne potrebbe far uso nell’ambito di una definizione dell’architettura gotica nella sua totalità e di quella della sua origine, in quanto il suo processo evolutivo è stato completamente altro. Nella sua epoca più antica, ossia nello stile costruttivo paleocristiano, non si trova la minima traccia di tali ghirlande di tralci o di tali verghe di vimini delle capanne, per quanto lo stile più tardo della maniera di costruire romantica si sia sviluppato tutto a partire da questo fondamento dell’architettura religiosa. Allo stesso modo in cui, una volta, si era abbandonato il tetto piano della basilica antica e si era fatta corrispondere la volta interna al tetto, ora si poteva o mantenere, dell’antica architettura, l’antica rotonda cupolata, o preferire il tetto a spiovente cuspidato proprio della maniera di costruire nordica; ed è proprio in tal modo che il grande passo venne compiuto. Le multiformi colonne polistile, composte da molte altre, insieme all’aspirazione a innalzare, imponente, il coro principale con una mezza volta al di sopra delle nevate laterali e delle volte secondarie, dovettero condurre alla volta spezzata e quindi all’arco acuto; a quest’ultime seguirono, in un breve volgere di tempo, le finestre, le porte e le torri nella medesima forma ad arco acuto, tesa verso l’alto, per configurare un insieme concorde con se stesso in tutte le sue parti; e così la nuova architettura gotica nel suo stile fiorito fu compiuta. I suoi primi elementi, tuttavia, giacciono in nuce, per quanto irriconoscibili, già nello stile delle chiese paleocristiane: nel principio, vale a dire, del più ricco riprodursi tanto dell’intero edificio, composto da più edifici insieme, quanto delle sue singole colonne; e poi nel principio dell’innalzamento della cupola principale o della volta del coro al di sopra delle altri parti quanto più possibile. Questa doppia aspirazione verso un’infinita pienezza e verso la maggior altezza possibile costituisce pure il fondamento dell’architettura gotica successiva, che ha solamente dato al medesimo principio il massimo sviluppo e dispiegamento. Nulla di nuovo è subentrato, se non gli ornamenti a forma di fiori, la cui intera ricchezza è scaturita dal semplice archetipo della rosa a più petali e di quella sorta di fiore che è il trifoglio. Questi ornamenti della rosa e del trifoglio, tuttavia, non si lasciano più derivare dal canestro di tralci della capanna di legno e di vimini; essi non poterono infatti venire scelti altrimenti che in base a un libero proposito, mentre già molto presto, se non proprio originariamente, l’idea poteva esser rivolta anche al significato simbolico della struttura regolare di quella triplice o quadruplice forma floreale; senza che sia lecito sforzarsi di attribuire loro, arbitrariamente, un senso altro o più profondo rispetto a quello che venne veramente inteso e sentito. Ciò che più di tutto mi attrasse furono le nuove stanze aperte al Louvre. Naturalmente, molti dei quadri qui esposti li avevo già visti nella dala dei restauri, e ne avevo altrove dato notizia (nel quarto numero di «Europa»).41 Di conseguenza, mi limito qui a quei pochi altri. A questo riguardo, faccio riferimento al Supplement à la Notice des tableaux du Musée Napoléon. An XIII.42 Di Raffaello non c’era niente di nuovo da vedere, se non un vigoroso ritratto del cardinale Bibbiena43 e un’ascensione di Maria, eseguita però dai suoi allievi Fattore e Giulio Romano, e singolare per il modo penetrante in cui è trattato e realizzato il dipinto nella parte superiore, attribuita a Fattore, e in quella inferiore, attribuita a Giulio Romano.44 Il Trionfo di Tito e Vespasiano di Giulio Romano, di piccole dimensioni, possiede tutta le forza dell’antica Roma e la poderosa pienezza che contraddistingue quest’artista, privo però di grande profondità o di scrupolosa accuratezza. Nel modo di trattare l’adorazione dei pastori, emerge anche la sua non meno nota inclinazione marziale; insolitamente, è san Longino, di straordinarie dimensioni, in armatura completa, a occupare il primo piano di un quadro che, per il resto, non è particolarmente squisito.45 Una sacra famiglia di Tiziano – ritratto a mezza figura in cui un santo Stefano regge una lunga palma – è in tutto e per tutto secondo la maniera più antica, soave nella sua semplicità e bella: leggera, quasi fosse soffiata, e tuttavia senza alcunché di teatrale, estremamente vigorosa ma serena e piena di sentimento.46 Di Palma il Vecchio si può vedere una sacra famiglia con sant’Antonio eremita.47 Questo pittore è sempre uguale a se stesso, semplice, modesto, tenero e bello: rincuorante prova del fatto che anche presso i Veneziani, quando il Manierismo già aveva cominciato a imperversare, restarono sempre e comunque singoli artisti fedeli all’antica semplicità. Una sacra famiglia di Giorgione con san Sebastiano; assolutamente semplice e di grande forza, ma senza la profonda verità e l’accuratezza che si trovano in altri dipinti di questo maestro.48 Si potevano inoltre vedere pure parecchi impareggiabili ritratti femminili di Tiziano e della scuola veneziana. La freschezza della carnagione, la magnificenza degli abiti e dei gioielli e specialmente la vivacità dell’espressione conferiscono ai ritratti femminili della scuola veneziana un fascino di una tale forza e pienezza che, a parità di realismo, risultano superiori ai ritratti di Holbein; nei ritratti maschili la superiorità potrebbe invece stare dalla parte di Holbein, per la grande profondità e per l’assoluta accuratezza della caratterizzazione. In un dipinto di Tiziano in cui è raffigurato Francesco I, l’occhio riesce a malapena a riconoscere i tratti caratteristici del maestro, a tal punto l’antipatia del soggetto soppianta ogni altra impressione.49 Né l’arte di Leonardo né quella di Tiziano furono in grado di rendere in qualche modo passabile l’indescrivibile bruttezza di questo viso pingue, dall’espressione da un lato maligna, sleale e testarda e dall’altro ottusa, con i piccoli occhi ammiccanti. La loro fatica risultò qui sprecata! – Il più importante tra tutti i dipinti che vi erano esposti per la prima volta è forse il Giovanni Battista di Leonardo da Vinci, un ritratto a mezza figura in una tonalità tutta brunastra, con uno sfondo marrone scuro. La forma del volto, sottile, incorniciato da una capigliatura di superba sovrabbondanza, è idealmente sublime; intorno alla bocca
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aleggiano però quel sorriso e quella grazia che si trovano in numerosi quadri di Leonardo e che diverranno in seguito regola, ossia Maniera, nella scuola del Correggio. Ma quale meravigliosa esecuzione; e com’è dipinto, e come sono delicati i contorni e come viene catturato al volo il più fine alito dell’espressione, e trattenuto nel suo stato di sospensione e presentato e trattato con un’accuratezza mai eccessiva. Se si considerano quadri di Leonardo come questo, non si sa più cosa pensare di alcuni altri che, pure, portano il suo nome; e quella che fino a un momento prima sembrava la più alta perfezione di esecuzione obiettivamente possibile passa nuovamente in secondo piano. A quanto stretto contatto stanno però la degenerazione e addirittura l’eccesso, nell’arte, con ciò che vi è di più elevato! Nelle opere di Leonardo si crede di scorgere proprio la massima perfezione, e però, se si prende a stabilire confronti e a riflettere, nelle sue opere si scorge proprio il primo germe degli accorciamenti, delle convulsioni e delle contorsioni dei manieristi della scuola di Michelangelo, da un lato, e poi anche la fonte prima dell’affettazione in quanto a uso del chiaroscuro e a leziosa leggiadria della scuola lombarda. Non soltanto un erroneo concetto di natura e verità, non soltanto l’imitazione dell’antico, le cui leggi e le cui forme non sono per niente applicabili alla pittura, hanno spesso fuorviato gli artisti, ma è stata la teoria stessa della pittura ad aver prodotto errori peculiari. Non intendo la moderna teoria estetica, che, essendo senza fondamento e senza contenuto, non ha potuto produrre proprio nulla, né di buono né di cattivo; intendo l’antica teoria artistica, di cui Leonardo deve essere certamente visto come il padre. Suo vero e proprio oggetto sono i misteri della prospettiva; a partire da allora essa allargò il proprio campo anche al chiaroscuro o all’effetto esercitato dalla prospettiva sui colori, agli accorciamenti o all’effetto della prospettiva sulle forme. Ma le conseguenze deleterie sono certamente da ricondurre meno agli errori nei presupposti o nelle deduzioni in cui di tanto in tanto si poteva incorrere che al fatto che, al di là di ciò che è solo mezzo e strumento, ci si dimenticò e si trascurò sempre più l’essenziale. Ma l’essenziale è quel significato divino che, solo, rende bellezza la bellezza e ideale l’ideale. Se non si considerano bellezza e ideale sotto questa luce, si tratta soltanto di chiacchiere prive di contenuto, di un fare il verso a formulazioni filosofiche del cui originario senso quei buoni studiosi di estetica potrebbero avere scarsa famigliarità. Concludo con un quadro del Perugino che raffigura la madre di Dio in una gloria di angeli; in basso stanno, disposti con grande semplicità, i santi Michele e Giovanni, Caterina e Lucia, adoranti in devoto entusiasmo.50 Qui risulta ben visibile quella fiamma della devozione, quell’amore celeste nel pieno del suo splendore che della pittura tutta costituisce il fine e l’obiettivo. Avremmo così fatto nuovamente ritorno in quella che qui viene definita la moderna capitale del mondo, in cui la vita di società turbina senza posa alla rinfusa, in un piacere dei sensi in moto perpetuo, nel mezzo di una polvere che tutto avvolge, sinché alla fine, con l’arrivo dell’inverno, anch’essa non abbandona a sua volta la scena e tutti i trafficati tracciati stradali all’ancor meno piacevole neve fradicia. Quanto distante dall’arte e dal bello è il mondo attuale! Ciò che di prezioso Parigi conserva, di opere di tal sorta, è racchiuso tutto insieme all’interno di poche sale, solitari rifugi dal frastuono del mondo per lo spirito silente che, di eccelse impressioni e sensazioni come queste, se ne va alla ricerca. Fuori, nella vita, di tutto questo non vi è più nulla; tutto è unicamente volto al godimento più facile come alla precipitosa rapina del giorno fuggente, e l’universale assenza di forma propria dell’esistenza, degli edifici e degli abiti, come di tutti i prodotti e gli ornamenti della vita, viene qua e là inframmezzata soltanto dallo scintillante irrompere della moda, con i suoi repentini cambiamenti, e dai suoi capricciosi umori. Dovrà dunque rimanere sempre così e non cambiare mai? Non dovrà l’arte poter finalmente subentrare di nuovo al posto della moda e nobilitare e impregnare l’intera vita con una metodica formazione, così come avvenne presso i Greci e, in maniera diversa, anche nel Medioevo cattolico? – Per quanto riguarda le idee sull’arte, all’ammirazione nei suoi confronti e pure alla conoscenza del bello di un tempo non manca oggi nulla, secondo i singoli aspetti; molto manca però per una sua messa in pratica e per un suo incidere in modo vitale e generale sulla vita reale. Certamente il pittore, indipendente come il poeta o il filosofo, quale eremita all’interno della sua officina, separato dal suo tempo e incurante nei suoi confronti, può riuscire a resistere e a realizzare le sue più alte idee artistiche in singole opere. Ma non appena il discorso cadesse su di una riorganizzazione complessiva, non si dovrebbe tuttavia dimenticare che l’architettura costituisce il solido fondamento ed il terreno e il sostegno comune di tutte le altre arti figurative, e che il rinnovamento deve iniziare a partire da qui, e cioè da una struttura degli edifici d’abitazione pregna di senso artistico; poiché soltanto a partire da un’esistenza rinnovata potrebbe prendere le mosse anche una nuova epoca nell’arte. Ora però, nell’universale inartisticità che caratterizza il nostro tempo, di tutto ciò manca assolutamente qualsiasi indizio. Certo, anche oggi è possibile adottare la romantica maniera di costruire del Medioevo imitandola in piccolo in singole residenze di campagna, come accade di sovente nelle tenute britanniche; i mezzi ci sono tutti e nessun ostacolo si frappone, soltanto il senso non è più lo stesso. Si potrebbero costruire ancora nuove chiese, concepite con la stessa ricchezza artistica e forse ancor più belle nella realizzazione, in stile paleocristiano e in senso simbolico. Finora però il modo di pensare del nostro tempo tende più ad abbandonare al loro declino le antiche dimore di Dio, piuttosto che a fondarne e ad innalzarne di nuove contribuendo alle spese e con tenace zelo. Ci rimane perciò, per l’arte, soltanto il ricordo dei bei tempi passati e la speranza di un futuro più ricco; nel frattempo altro non resta che preservare nel petto fedele la conoscenza del bello, visto che nel presente non le si può più accordare alcun vivo consenso, finché un nuovo epocale slancio della forza non abbia impresso una svolta allo spirito; allora, ciò che è grande sarà nuovamente possibile].
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I Briefe auf einer Reise durch die Niederlande, Rheingegenden, die Schweiz und einen Teil von Frankreich, in Poetisches Taschenbuch 1806 (Berlin 1806), vennero poi ripubblicati, con alcune aggiunte e modifiche, nel sesto volume, Ansichten und Ideen der Christlichen Kunst, dei Sämmtliche Werke (Wien 1823) di Friedrich Schlegel, con il titolo di Grundzüge der gothischen Baukunst; auf einer Reise durch die Niederlande, Rheingegenden, die Schweiz und einen Teil von Frankreich (Tratti fondamentali dell’architettura gotica; da un viaggio per i Paesi Bassi, la Renania, la Svizzera e una parte della Francia). La traduzione dei Briefe è stata condotta sul testo stabilito nella Kritische Friedrich-Schlegel-Ausgabe, a c. di E. Behler, in collaboraz. con J.-J. Anstett e H. Eichner, vol. IV, Ansichten und Ideen der Christlichen Kunst, a c. di H. Eichner, München – Paderborn – Wien 1959, pp. 155-204. Tra i Briefe e i Grundzüge sussistono non trascurabili differenze. Innumerevoli sono le piccole – ma spesso non neutre – correzioni, come le sostituzioni di vocaboli, volte tanto a precisare alcune questioni, migliorandone la formulazione, quanto a innalzare il tono complessivo dell’opera. A queste correzioni non si è qui fatto riferimento, e si è assunto il testo dei Briefe. Dei Grundzüge è però parso utile proporre tutte le principali e spesso consistenti aggiunte rispetto al testo pubblicato nel 1806: oltre ad operare minute correzioni, infatti, Schlegel aggiunge anche alcuni lunghi passi che, visto il loro carattere spesso spiccatamente teorico, risultano di grande importanza per la comprensione della sua riflessione, anche per quanto riguarda l’architettura gotica. Fermo tuttavia restando che, nei quasi vent’anni intercorsi tra la redazione del testo e la sua ripubblicazione, molto nel pensiero di Schlegel è mutato, e che pertanto i passi più recenti non si possono considerare come delle semplici integrazioni rispetto al testo pubblicato nel 1806. I passi assenti nei Briefe e aggiunti da Schlegel nei Grundzüge vengono qui riportati tra parentesi quadre […]. Tutte le note, qualora non indicato diversamente, sono del curatore. 2 Parole molto simili erano state pronunciate poco prima da Chateaubriand, di ritorno dall’Inghilterra all’inizio del 1800, nel suo Génie du christianisme: “Esse non sono più, queste sepolture (…): Saint-Denis è deserta; l’uccello l’ha presa come passaggio, l’erba cresce sui suoi altari infranti; e in luogo del cantico della morte, che rieccheggiava sotto le cupole, non si sentono più che le gocce di pioggia che cadono dal suo tetto scoperto, la caduta di qualche pietra che si stacca dalle mura in rovina…”. Come nel caso della vicenda del duomo di Colonia, cui l’occupazione francese aveva dato immenso stimolo, anche per la cultura francese – così come per Schlegel – il vilipendio delle testimonianze del passato (nazionale, soprattutto) costituisce uno dei fondamentali elementi di stimolo alla riconsiderazione e alla tutela dell’architettura medievale, tra l’altro; paradigmatica la narrazione effettuata da Chateaubriand dell’impatto su di lui esercitato dalla stato di rovina in cui, al suo rientro dall’Inghilterra, nel 1800, si trovano i grandi «templi» parigini. 3 Nel 1789 i possedimenti della Chiesa vengono – come noto – nazionalizzati; molti conventi vengono chiusi e i loro averi confiscati dallo Stato; molti di quest’ultimi – tra cui innumerevoli opere d’arte – destinati ad essere venduti. Vengono così istituiti alcuni depositi in cui poterne compiere una cernita. Il più importante è di gran lunga quello che ha sede nel convento dei Petits Augustins, a Parigi. Diretto da Gabriel-François Doyen tra il 1790 e il 1792 e, quindi, da Alexandre Lenoir, il convento s’arricchisce nel corso degli anni di una quantita sempre maggiore di capolavori artistici. La proclamazione della Repubblica (1792) e l’abolizione del cristianesimo (1793), in particolare, portano con sé un atteggiamento e una politica sempre più virulente nei confronti delle testimonianze del passato. A destare scalpore, tra i vari atti di «vandalismo», è più di ogni altra cosa la profanazione delle grandi tombe dei re di Francia, nell’Abbazia di Saint-Denis, che, iniziata il 6 agosto 1793, prosegue ininterotta per tre giorni e tre notti. A questo infiammarsi della furia distruttiva corrisponde l’assunzione da parte dei Petits Augustins di un ruolo di ancora maggiore importanza. Tra il 1793 e il 1796 un’enorme massa di frammenti delle antiche tombe – oltre a pale d’altare, tesori, sculture – viene portata ai Petits Augustins, dove viene accuratamente identificata da Lenoir e in parte subito sottoposta a restauro. Lenoir, tutt’altro che entusiastico estimatore dell’arte medievale, ha subito la forte la percezione del fatto che un tesoro inestimabile sta andando in fumo, e profonde immensi sforzi nel tentativo di salvare l’arte medievale francese, esponendosi in tal modo all’accusa di essere un «controrivoluzionario»; nel 1795, così, su sua iniziativa, mentre la sua immagine di eroico salvatore del patrimonio nazionale si fa ormai di dominio pubblico, il deposito viene trasformato nel Musée des Monuments Français. Le sue sale e i suoi giardini, adibiti anch’essi all’esposizione di opere d’arte, iniziano a partire da questo momento a venire solcate da un grande numero di visitatori. 4 Per «Knosp», letteralmente «bocciolo», «germoglio» o «gemma», Schlegel sembra intendere il fiore cruciforme, disposto sulla sommita di pinnacoli, ghimberghe o altre sommità a guglia, che in tedesco viene generalmente designato come «Kreuzblume». Rispetto a quest’ultimo termine, «Knosp» sottolinea in misura molto maggiore il carattere dinamico, in fieri, dell’ornamentazione vegetale dell’architettura gotica; lo si è reso con «gemme», senza impiegare un termine tecnico che Schlegel, d’altronde, non impiega, per mantenere l’idea della crescita vegetale associata all’architettura gotica. 5 [Si vedano la sua Geschichte der Malerei (Storia della pittura) e le sue artistische Abhandlungen (dissertazioni sull’arte). Entrambe contengono ricerche estremamente istruttive, e pure dotte non meno che innovative, in particolare sull’origine e sulle epoche più remote delle arti figurative dei moderni] (nota dell’autore). Si tratta, più esattamente, della Geschichte der Künste und Wissenschaften seit der Wiederherstellung derselben bis an das Ende des achtzehnten Jahrhunderts. Zweite Abteilung. Geschichte der zeichnenden Künste, Göttingen 1798-1808, e delle Kleine Schriften artistischen Inhalts, Göttingen 1803-6. Johann Dominicus Fiorillo (1748-1821) insegnò storia dell’arte a Göttingen dal 1781 sino alla sua morte; in ambito artistico la sua opera costituì il principale punto di riferimento per un’intera generazione di intellettuali tedeschi. 6 L’insistito impiego, in questo passo, del sostantivo «Kunst» e dei suoi derivati, l’avverbio e l’aggettivo «künstlich», è impossibile da rendere in italiano; in tedesco, infatti, non esiste distinzione tra «artistico» e «artificiale», «artisticamente» e «artificialmente». I Paesi Bassi sono così un’opera d’arte in virtù della loro natura artificiale; e, inversamente, quest’ultima costituisce in sé una forma di artisticità. 7 Scelto come «nunzio e mandatario» fiorentino alla dieta di Costanza del 1507 e poi sostituito da Francesco Vettori, Niccolò Machiavelli aveva comunque compiuto una missione ufficiale presso l’imperatore Massimiliano I. Al suo ritorno, aveva redatto il Rapporto di cose della Magna, il Discorso sopra le cose della Magna e sopra l’Imperatore e il Ritracto delle cose della Magna; è soprattutto a quest’ultimo, risalente al 1512, che Schlegel fa qui cenno. 8 Al posto di questa frase, nei Grundzüge si troverà: [In altri edifici gotici si osserva, accanto alla più grande ricchezza delle decorazioni, una rigorosa simmetria e un’universale uniformità e armonia pur nella bella pienezza. Per la bellezza delle sue proporzioni e la sua finissima armonia, tra le opere dell’architettura gotica il municipio di Lovanio costituisce in piccola o media scala – come il duomo di Colonia in quella massima – un gradino eccezionalmente alto di perfezione. Giacché quegli sporadici casi di vistosa violazione della simmetria, per un qualunque motivo legato alla fantasia, costituiscono soltanto un’eccezione. Ma, del resto, a dominare non è certo una carenza di simmetria, nelle opere gotiche portate a compimento; si tratta però di una simmetria altra, del tutto diversa da quella greca e assolutamente peculiare, che ha il suo proprio principio e la sua propria legge nella fantasia architettonica] (nota dell’autore). 9 Austrasia e Neustria sono i nomi attribuiti rispettivamente alla parte orientale e a quella occidentale dell’impero dei franchi in epoca merovingia; in epoca carolingia la distinzione venne a decadere, in virtù della loro unificazione.
10 Il Niederdeutsch e l’Oberdeutsch costituiscono rispettivamente le principali famiglie di dialetti della Germania meridionale e settentrionale; il Plattdeutsch è la famiglia di dialetti invalsa nell’uso quotidiano. 11 Il cosiddetto Annolied è un poemetto agiografico, composto probabilmente tra 1080 e 1085, che trae il proprio titolo dal nome di Annone, arcivescovo di Colonia morto nel 1075; la narrazione delle gesta del potentissimo arcivescovo in toni epici rende l’Annolied un capostipite del poema medievale tedesco. 12 Gli Ubier (Ubii, in latino) erano un popolo di radice germanica insediato sul lato orientale del Reno. In contrapposizione ai Niederländern, gli abitanti dei paesi bassi, gli Oberländer sono gli abitanti delle regioni limitrofe al corso del Reno più a monte. 13 Si tratta dell’ Autoritratto con la moglie Isabella Brant sotto la pergola di caprifoglio, oggi conservato presso la Alte Pinakothek di Monaco. 14 Si tratta del Ritratto di francescano con teschio e libro, ora presso la Alte Pinakothek di Monaco. 15 Si tratta dell’Assunzione della vergine, tuttora a Düsseldorf, presso la Städtische Kunsthalle. 16 La Snorra Edda, in prosa, composta intorno al 1220, faceva seguito alla Saemundar Edda, in versi, opera di Sämund Sigfusson. 17 Se il professor Wallraff (un tempo canonico e rettore dell’Università di Colonia, in seguito e tuttora professore di archeologia presso la Zentralschule), dotto studioso di arte antica e storia del Medioevo, riuscisse a trovare il tempo e la calma necessari a rendere noto il tesoro delle sue conoscenze in questo ambito e ad elaborare una storia dell’architettura gotica, per la quale impresa può difficilmente esistere qualcuno che sia attrezzato quanto lui di tutto ciò che occorre! Per le osservazioni qui di seguito, lo ringrazio per gli svariati aiuti che mi ha gentilmente fornito, così come delle assai istruttive conversazioni che mi ha concesso (nota dell’autore). Nei Grundzüge, la nota diventa: [Il canonico Wallraf, dotto studioso di arte antica e del Medioevo a Colonia, ha il merito esser stato il primo nella nostra epoca a rivolgere nuovamente l’attenzione alle magnifiche ricchezze dell’antica città renana; e pure a me la sua amichevole guida e la sua istruttiva conversazione hanno fatto da molteplice stimolo nel primo impatto con questi tesori dell’arte.] 18 Si tratta dei transetti, mai portati a compimento in base al progetto originario e la cui realizzazione verrà intrapresa parecchi anni dopo la morte di Schlegel, ossia a partire dal 1842, a coronamento degli sforzi e della perseveranza di Sulpiz Boisserée, principale sostenitore della necessità di portare a compimento il duomo di Colonia. 19 Nel contesto delle lotte tra impero e papato, particolarmente accentuate sotto Federico II, Konrad di Hochstaden, arcivescovo di Colonia, aveva avuto un ruolo di primo piano, in particolare quando – il primo novembre del 1248, pochi mesi dopo aver posato la prima pietra del duomo di Colonia – incoronò ad Acquisgrana Guglielmo d’Olanda anti-imperatore. 20 [Dopo di allora l’opera di Boisserée, degna in quanto a zelo e a senso artistico del supremo duomo, si è volta a gettare su questo tema e sull’architettura gotica nel suo complesso la piena luce di cui, in questi abbozzi, sono stati soltanto delineati e tratteggiati i primi raggi] (nota dell’autore). Schlegel fa qui riferimento a S. Boisserée, Ansichten, Rissen und einzelne Theile des Doms von Köln, Stuttgart 1821, e a Id., Geschichte und Beschreibung des Domes zu Köln, nebst Untersuchungen über die alte Kirchenbaukunst, als Text zu den Ansichten, Rissen und einzelnen Theilen des Doms von Köln, Stuttgart 1823. 21 Si tratta della celeberrima gru che da secoli si ergeva dalla torre meridionale del duomo, a – involontario – emblema della sua incompiutezza. 22 Dopo di allora la parte retrostante del coro, volta in direzione del Reno, verso levante, è stata liberata da tutto ciò che di estraneo vi era stato edificato; la qual cosa consente una splendida veduta tanto da presso quanto da lontano, in virtù della quale, e soltanto ora, la sua bellezza può in tutta chiarezza venir percepita nella sua pienezza (nota dell’autore). 23 “Quanto ardite zampillano, scrosciano anche altre belle fonti sacre / Da cui un tempo bevevano i poeti, / Sempre intenti a scalare il monte dell’arte, senza vacillare, / Sino a dove, eternamente lieti, dimoravano gli dei; / Sei tu che eleggo, Reno, tu che mormorando / Scorri tra alti sbarramenti di rupi anguste, / Laddove ancora s’abbarbicano alte le rocche, / Il cuore del viandante viene afferrato da un presentimento di terrore. / Rapida scorre in tutta fretta sulle chiare onde verdognole / del tedesco Reno, agile, la barchetta, / Buona fortuna! La barchetta non fa ritorno. / Coraggio, gioia, ingurgitati in bicchieri ricolmi / Il liquido oro di cristalli del vino vecchio, / Cantando a squarciagola i canti eroici”. Dopo essere stata pubblicata, all’interno dei Briefe, nel Poetisches Taschenbuch (Berlin 1806), la poesia – sempre con il titolo di Rheinfahrt (Viaggio sul Reno) – lo sarà in Friedrich Schlegels Gedichte (Berlin 1809) e, nei Sämmtliche Werke (Wien 1823), tanto all’interno dei Grundzüge, nel sesto volume, quanto delle poesie, nel nono. 24 Arminio, comandante dei Germani, e Maroboduo, re degli Svevi; si veda in particolare TAC. Ann. 2, 46-8. I rimandi a Tacito proseguono fitti anche nel passo successivo, come ad esempio nel caso dell’affermazione secondo cui gli antichi Germani avrebbero svolto le loro pratiche religiose «all’ombra delle sacre querce». 25 Al mitico Baumeister del duomo di Strasburgo, il giovane Goethe aveva dichiarato la propria smisurata venerazione rivolgendogli quella sorta di inno di lode che è Von Deutscher Baukunst. Il breve ma fondamentale scritto di Goethe, pubblicato nel 1773 nella miscellanea Von deutscher Art und Kunst, curata da Herder, aveva segnato l’emergere, nel mondo tedesco, di un rinnovato interesse per l’architettura gotica. Che al testo di Goethe Schlegel non faccia riferimento, e che tralasci completamente la mitizzazione di Erwin compiuta dal giovane Stürmer può non essere affatto casuale, visti i cattivi rapporti tra Friedrich e Goethe e l’aperta polemica anti-goethiana che molti dei progetti schlegeliani dei primi anni del diciannovesimo secolo – tra cui «Europa» – perseguono; è del resto possibile che il giudizio sprezzantemente negativo formulato da Schlegel sul duomo di Strasburgo abbia come causa non accessoria anche il contrasto con Goethe, e la necessità di proporre un modello architettonico alternativo. A partire dal secondo decennio del XIX secolo, per contro, pure Goethe volgerà la propria attenzione sul “sublime frammento” del duomo di Colonia, prendendo addirittura parte nella vicenda del duomo di Colonia, coinvoltovi da Sulpiz Boisserée; il suo scritto sull’architettura del 1823, intitolato – come quello giovanile – Von Deutscher Baukunst, nasce proprio come recensione, uscita su «Kunst und Altertum», alla Geschichte und Beschreibung des Doms von Köln di Boisserée. 26 Non è stato possibile identificare questa opera. 27 L’ultima cena, che si suppone facesse parte di un Ciclo della Passione per una chiesa di Basilea, e tuttora conservata presso la Öffentliche Kunstsammlung della città. 28 Una seconda versione de L’ultima cena, anch’essa conservata presso la Öffentliche Kunstsammlung di Basilea (la medesima che nel 1829 Sulpiz Boisserée sosterrà trattarsi del frammento della parte centrale di un altare); l’opera di Tiziano cui viene paragonata è La cena di Emmaus, al Louvre. 29 Si tratta probabilmente del Ciclo della Passione, di cui fa tra l’altro parte la prima delle cene menzionate da Schlegel. 30 Si tratta del Cristo nel sepolcro, tuttora conservato presso la Öffentliche Kunstsammlung di Basilea. 31 Si tratta verosimilmente del Ritratto di Charles de Solier, Sire de Morette, passato alla Gemäldegalerie nel 1746 e tuttora conservatovi. Precedentemente attribuito a Leonardo, venne riconosciuto come opera di Holbein da Rumohr, amico di Schlegel e suo collacoratore su «Europa». 32 Si tratta di Venere e Amore e di Laide di Corinto, tuttora conservati presso la Öffentliche Kunstsammlung
di Basilea. Il Basler Totentanz, realizzato intorno al 1440, probabilmente a seguito della disastrosa epidemia di peste del 1439, era dipinto a tempera sulla parete interna del muro di cinta del cimitero del convento domenicano, e misurava quasi sessanta metri di lunghezza; le figure vi erano rappresentate a grandezza naturale. Nella notte tra il 5 ed il 6 agosto del 1805 il muro venne abbattuto; del Totentanz si salvarono solo alcuni frammenti, oggi custoditi presso l’Historisches Museum della città. Dal momento che Schlegel visita Basilea nell’ottobre del 1804, deve aver visto il Totentanz ancora nella sua collocazione originaria, già in forte stato di degrado. 34 La proposizione di Schlegel – “Die ganze Stadt ist wie Eine feste Burg” – è chiaramente ricalcata su di un celeberrimo versetto della traduzione della Bibbia da parte di Lutero: “Der Name des Herrn ist eine feste Burg” (Spr. (Prv.) 18.10). 35 A Coppet, sul lago di Ginevra, Schlegel trascorre nell’autunno del 1804 sei settimane, ospite, in compagnia del fratello August Wilhelm, di Madame de Staël. 36 Dovrebbe trattarsi dell’opera Santi Ercolano e Giacomo minore, che aveva fatto parte del polittico realizzato da Perugino per la chiesa di Sant’Agostino a Perugia, e tuttora conservata presso il Musée des Beaux-Arts di Lione. Sant’Ercolano vi viene rappresentato con i tradizionali paramenti vescovili. 37 Si tratta del Cristo alla colonna, opera però di Palma il Giovane e non di Palma il Vecchio, tuttora conservato presso il Musée des Beaux-Arts di Lione. 38 Nel 1804 Napoleone scopre e sconfigge il complotto realista di Moreau-Pichegru-Cadoudal; dopo esser stato imprigionato, Moreau verrà esiliato. 39 Il 2 dicembre 1804 Napoleone viene consacrato imperatore per mano del papa Pio VII nella cattedrale di Notre-Dame. 40 Schlegel sta evidentemente facendo riferimento a una delle opere del geologo scozzese James Hall, sebbene il curatore della Kritische Ausgabe sostenga trattarsi del celebre commento di Warburton, vescovo di Gloucester, alle Epistles to several Persons di Pope, che Schlegel avrebbe trovato nel volume miscellaneo Essays on Gothic Architecture, by the Rev. T. Warton, Rev. T. Bentham, Captain Grose, and the Rev. J. Milner, London 1800, pp. 121 sgg. (cfr. Kritische Friedrich-Schlegel-Ausgabe, cit., p. 198 n.). Che non possa trattarsi di quest’ultimo lo dice assai chiaramente la critica che Schlegel gli rivolge: solo Hall, e non Warburton, aveva sviluppato una vera e propria teoria evolutiva dell’architettura gotica, con tanto di dimostrazione pratica nella forma di un esperimento compiuto nei primi anni novanta del Settecento. A conferma del fatto che Schlegel sta facendo riferimento a Hall vi è, inoltre, il fatto che i Works di Pope, con il commento di Warburton alla quarta epistola dei Moral Essays, erano usciti nel 1751 e non potevano quindi essere intesi come una novità (nonostante il passo di Warburton fosse recentemente stato ripubblicato) né – come invece afferma esplicitamente Schlegel – come “l’opera di un inglese sull’architettura gotica”, in quanto quella di Warburton non era un’opera sull’architettura gotica, ma un commento letterario contenente un breve, per quanto fondamentale, passo sull’architettura gotica; quando era invece l’Essay a costituire, oltre che una pubblicazione relativamente recente, un tentativo di stabilire una teoria sull’origine dell’architettura gotica. Cfr. J. Hall, Essay on the Origin and Principles of Gothic Architecture, in «Transactions of the Royal Society in Edinburgh», IV, 1798 e Id., Essay on the Origin, History and Principles of Gothic Architecture, London 1813; sulla teoria di Hall a proposito dell’architettura gotica, cfr. tra l’altro J. Rykwert, La casa di Adamo in Paradiso, trad. it. di E. Filippini e R. Lucci, Milano 1972, pp. 99-102; J. Baltrusaitis, Il romanzo dell’architettura gotica, in Id., Aberrazioni. Saggio sulla leggenda delle forme, trad. it. di A. Bassan Lievi, Milano 1983, pp. 97-8; G. Germann, Gothic Revival in Europe and Britain: Sources, Influences and Ideas, tr. ingl. di G. Onn, Cambridge (Massachusetts) 1973, pp. 30-1. Alcuni studiosi, come W. D. Robson-Scott, The literary Background of the Gothic Revival in Germany, Oxford 1965, p. 143, e J. Pieper, Steinerne Bäume und künstliche Astwerk. Die gotischen Theorien des James Hall (1761-1832), in «Bauwelt», 10, 1982, pp. 328-32, sostengono esplicitamente che Schlegel sta qui facendo riferimento all’opera di Hall. Robson-Scott ipotizza inoltre che Schlegel possa essere venuto a conoscenza dell’opera di Hall tramite Büsching, che nel 1820 ne aveva trattato nel nono volume dei «Wiener Jarhbücher der Literatur» e, l’anno successivo, nel suo Versuch einer Einleitung in die Geschichte der altdeutschen Baukunst; questo significherebbe che Schlegel avrebbe avuto la possibilità di consultare sia l’Essay on the Origin and Principles of Gothic Architecture del 1798 che l’Essay on the Origin, History and Principles of Gothic Architecture, versione ampliata, sistematizzata e corredata da 59 illustrazioni del saggio precedente, e uscita in forma di libro nel 1813. Il fatto che il lungo passo schlegeliano sull’opera di Hall sia presente soltanto nei Grundzüge der gotischen Baukunst del 1823, costituendone una delle principali integrazioni, non sembra tuttavia una ragione sufficiente per diffidare di Schlegel e per sostenere che egli avrebbe consultato l’opera del 1813. Fino a prova contraria, è forse più opportuno fidarsi di Schlegel, quando afferma di aver consultato l’opera di Hall di ritorno a Parigi, e pertanto negli ultimi mesi del 1804; se questo è vero, doveva però necessariamente trattarsi dell’Essay on the Origin and Principles of Gothic Architecture del 1798. 41 Sul quarto numero di «Europa», la rivista diretta da Friedrich Schlegel stesso, erano comparsi nel 1803 lo Zweiter Nachtrag alter Gemählde e il Dritter Nachtrag alter Gemählde, cui l’autore fa ora riferimento. Entrambi facevano seguito al Nachricht von den Gemählden in Paris, uscito sul primo numero della rivista, a Vom Raphael, uscito sul secondo numero, e al Nachtrag italiänischer Gemählde, uscito sul terzo. 42 [Si veda il terzo fascicolo della descrizione dei dipinti, intorno alla fine, e l’inizio del quarto. I numeri riportati qui di seguito fanno riferimento al Supplément à la notice des tableaux du Musée Napoleon, tredicesima annata] (nota dell’autore). Si tratta del Supplément à la notice des tableaux des trois écoles, exposés dans la Grande Galerie du Musée Napoleon. A Paris, De l’Imprimerie des Sciences et Arts…, XIII (1804). Si sono eliminati i rimandi numerici al Supplément riportati da Schlegel. 43 Il Ritratto del cardinal Bibbiena, oggi a Palazzo Pitti, ma a Parigi tra il 1797 e il 1815. 44 Si tratta dell’Assunzione o, più esattamente, dell’Incoronazione della Vergine, per la cui realizzazione era inizialmente stato incaricato Raffaello da parte del convento perugino di Monteluce; oggi viene attribuita alla bottega di Giulio Romano e, talvolta, a Giulio Romano in persona per la parte superiore e a Giovan Francesco Penni, detto il Fattore, per quella inferiore; l’Assunzione è oggi conservata presso i Musei Vaticani. 45 Si tratta della Adorazione dei pastori fra san Longino e san Giovanni evangelista, di cui al Louvre si trova un arazzo su disegno attribuito a Giulio Romano; anche il Trionfo di Tito e Vespasiano è tuttora conservato al Louvre. 46 In realtà si tratta della Madonna con il bambino e i santi Stefano, Girolamo e Maurizio, tuttora al Louvre. 47 Non ci è stato possibile idenificare questa opera. 48 Dovrebbe verosimilmente trattarsi della Madonna con bambino e san Sebastiano, non di Giorgione ma di Giovanni Cariani. 49 Si tratta di Francesco I re di Francia, tuttora al Louvre. 50 Si tratta forse della Madonna in gloria col Bambino tra angeli e i Santi Michele Arcangelo, Caterina d’Alessandria, Apollonia, Giovanni Evangelista; realizzata per una cappella di San Giovanni in Monte, a Bologna, venne requisita dalle truppe francesi nel 1796 e poi restituita, nel 1815, alla Pinacoteca Nazionale di Bologna. 33
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Arrigoni Architetti
La casa del gabbiere Fabrizio Arrigoni
Il disegno è resto e condensa di figure sparse e dissimili; la scrittura è corda che stringe le loro tracce, analogo ai fogli dei taccuini ed alla memoria. “Totus ille collis, cui urbium Etruscarum antiquissima superstructa est ex maris sedimentis exurgit sibi invicem impositi, et horizonti parallelis, ubi multa strata non lapidea veris conchis…” Volterra, cesura tra le valli della Cècina e dell’Era, è stata con insistenza detta attraverso la sua geologia. Cumuli di argille plioceniche azzurre e bigie sormontate da banchi di sabbie calcarifere nelle tonalità dell’ocra, il tufo travertinoso di Pignano, l’affioramento vulcanico quaternario di Montecatini, costituito dalla selagite, roccia buia ma fiammeggiante di scaglie di mica, la serpentina verde-nero detta gabbro; e poi l’alabastro derivato del solfato di calcio idrato, secondo i tipi del bardiglio, del cenerino, dell’agata ed infine dello scaglione, il più nobile per colore perlaceo e trasparenza di tessuto. Sito: l’isolato coinvolto dalle trasformazioni sorge a meridione in adiacenza alla piazza di San Giovanni -sede del Battistero e del Duomo- e tangente via lungo le Mura. Il suolo è trattenuto da una coperta d’asfalto roso e scomposto capace comunque, quale fluido gelato, di avvolgere un dislivello di oltre due metri; i profili sghembi dell’intorno definiscono una successione spaziale precisa che avvicina la domesticità propria di un interno alla libertà dell’aperto, del non condizionato. A settentrione, oltre porta San Francesco, uno slabbro su via di Borgo lascia apparire un piano d’erba, ampio, orlato
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di cipressi e dolcemente inclinato; sul fondo, tra quattro colonne superstiti, un monolite di ghisa: la chiesa di san Giusto. La sagoma rettangolare è un buco opaco nella luce ed il cielo è come disteso sullo stilobate della fabbrica. Meraviglia resa possibile dall’ergersi sul culmine stretto di una balza, terra nuda e guasta che ha trascinato in ciclica rovina necropoli etrusche e cimiteri cristiani, case minute e monasteri imponenti: “naturam expelles furca, tamen usque recurret…” (Orazio, Epistole I, x, 24) Programma funzionale: è richiesto il riordino di un piccolo spazio pubblico, denominato piazza dei Fornelli, il rifacimento della scala di emergenza di un edificio di recente edificazione -con relativa pertinenza- ed in ultimo la sistemazione di una corte imperfetta che, per vicende travagliate, si schiude generosamente sui vuoti precedenti. Torcendo il collo in alto, verso la cinta altomedievale, le architetture si mostrano come fronte di cava spazzolata dal vento; John Robert Cozens dipinse qualcosa di affine nel 1790, a seguito di un soggiorno napoletano. Qui, come nell’acquarello dell’inglese, l’artificiale è colto sulla soglia del disfacimento, nel punto dove i confini certi della cosa stingono nel più vasto mondo minerale da cui essa origina. Se esiste genio il suo emblema non può che essere segno di questa distanza radicale tra il secco, il rigido, lo spigoloso della cittàmacigno e l’umido, il morbido, il curvilineo universo delle valli -misteriosamente illese da progressi esiziali- che la cingono in placido assedio.
Concorso di idee per la sistemazione di Piazzetta dei Fornelli e completamento della fabbrica di via Ortotondo a Volterra Progetto: Fabrizio Arrigoni Marco Arrigoni Damiano Dinelli 2003
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Scopo: andare oltre i desideri della committenza, spingendo alla superficie significati in latenza; tramutare, per quanto concesso, un adeguamento tecnico-legale privato in un fatto urbano pubblico. Un’architettura di/sul margine quale protesi scopica, per un rinnovato anschauliches Denken: uno spazio la cui morfologia determina una variata tipologia di visioni, di possibili intrecci percettivi, capaci di tramare il prossimo ed il distante. Tra il mito del puro Sguardo prospettico e la violenta bramosia dell’occhio desiderante si offre l’intervallo angusto dove la coscienza si mescola con il mondo e si “compie il prodigio di aprire all’anima ciò che non è anima: il gaio dominio delle cose, e il loro dio, il sole” (M. Merleau-Ponty, L’Œeil et l’Esprit, 1964).
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Le indagini del Meiss del Battisti e del Paolucci concordano nel fissare al 1472 la commissione a Piero del dipinto poi battezzato Pala di Brera; nel margine destro Federico compare avvolto da una scintillante buccia acciaiosa, degna della maestria di Vulcano. È arduo immaginare che fosse la stessa con cui pochi mesi addietro il principe mercenario sfregiò la vita nella città per due interminabili giorni. Volterra è luogo che tradisce la vulgata umanista; inevitabile che il suo patrimonio più cospicuo siano due tavole del Rosso. Materie: all’esterno tutti i fronti saranno rivestiti in pietra colombino di forte spessore montata in ricorsi di altezza degradante. Lavorazioni del paramento: rigatura orizzontale nella zona basamentale, scalpellatura in mediana, sabbiatura nel coronamento. All’interno: tutte le superfici realizzate in cemento arricchito con pozzolana, rugato e patinato con cera; la lamina-velario sarà un mosaico di pannelli di alabastro bianco, sostenuti da una struttura a fili tesi. Le lastricature in panchina volterrana di recupero; in alternativa si impiegherà arenaria di Firenzuola extradura.
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Dalla nuova torre, rivolti ad occidente, immersi nei vapori di un giorno calante, ancora gonfio di pioggia: “la verde campagna si solleva in onde ed in creste aguzze, ma è come guardare il mare mosso dalla prua di un’alta nave; qui a Volterra cavalchiamo sopra il mondo…” (D. H. Lawrence, Sketches of Etruscan places and other italian essays, 1932) 5
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Pagine precedenti: 1-2 Veduta interna, maquette, modelli 3-8 Quaderni di studio
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Pagine successive: 9 - 10 Planimetria e vedute esterne
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Palestra “La Fonte” a Sesto Fiorentino Fabio Capanni
La palestra “La Fonte” nasce all’interno di un plesso scolastico ubicato in un’area al limite fra il Comune di Sesto Fiorentino ed il Comune di Firenze ed è stato concepito perché possa essere usufruito anche indipendentemente dall’attività scolastica. Si tratta di un edificio realizzato con l’utilizzo di una struttura prefabbricata in calcestruzzo precompresso, estremamente semplice nella sua composizione planimetrica e volumetrica per poter agevolare l’impiego di tale tecnologia. La stessa Amministrazione aveva peraltro suggerito di sviluppare la progettazione su due livelli paralleli: se da una parte si invitava ad utilizzare una struttura prefabbricata che potesse permettere costi limitati di realizzazione, del tutto analoga a quelle che punteggiano le aree di recente espansione industriale, commerciale ed artigianale, dall’altra, si stimolava a dedicare un lavoro attento alla qualificazione formale dell’edificio che permettesse di donargli una dignità ed una riconoscibilità proprie di un’opera pubblica, lontana dall’omologazione anonima dei capannoni prefabbricati. Ne è scaturito un edificio articolato da due volumi di matrice rettangolare e di altezze diverse che riflettono le funzioni principali: il corpo più alto formato da un rettangolo compiuto ospita il campo di gioco ed è il fulcro della composizione, mentre il corpo più basso, identificato da un frammento di una figura ancora rettangolare ottenuta come per gemmazione dalla figura principale, ospita gli spogliatoi e tutti i locali servizio; un semplice corridoio distribuisce i vari ambienti e collega, separandoli, i due corpi tramite i quali si articola la composizione.
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L’ordine compositivo sul quale è fondato il progetto si arricchisce di tensioni provenienti dal luogo e da alcune riflessioni sul caractére: il vicino terreno collinare, costruito con lentezza e fiducia, dove l’inseguirsi degli orizzonti disegnati dai muri a retta e le frange di uliveti e vigneti riflette ancor oggi un ordine formato sulla contrapposizione armonica fra il lavoro dell’uomo e l’ambiente naturale, fra l’astrazione della regola e l’insondabile segreto della complessità organica; ancor più vicino, l’aggressività delle nuove espansioni edilizie, dove una analoga complessità prende forma in un caos indistinto configurandosi nell’elemento costruito, contrapponendolo alla struttura resistente della centuriazione la quale da secoli segna con geometrica precisione l’estensione della “piana” che collega Firenze al mare. In un contesto animato dalla doppiezza fra ordine razionale e complessità organica, ha preso forma un idea del progetto all’interno della quale, oltre agli stimoli provenienti dal luogo, gli usi dell’architettura hanno sollecitato una riflessione sull’essenza delle cose: il mistero del corpo umano, la meraviglia del suo movimento, visitati nella loro momentanea sovrapposizione ad una precisa esperienza progettuale come quella della costruzione di una palestra, hanno fornito la possibilità di un affascinante confronto con la forza originaria di questi elementi e l’occasione di trasformarla in materiale per il progetto. Una selezione critica dei caratteri del luogo, filtrata attraverso alcuni tratti dell’essenza delle cose è diventata materiale privilegiato da costruzione e, passo dopo passo, ha generato spazi, struttu-
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Progetto: Fabio Capanni con Gabriele Bartocci Daniele Buzzegoli Roberta Ricci 1997-2002 Foto: Lucia Baldini
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re, e ordinato materiali, luci, superfici. Se il volume degli spogliatoi rivestito in lastre di travertino di Tivoli definisce un nuovo orizzonte murato quale provvisorio elemento di ordine, il volume del campo di gioco, in accordo con il carattere dell’edificio, sfrutta l’idea del movimento del corpo umano che avviene al proprio interno e la propaga fino a corromperne la superficie esterna. Qui, un’immaginaria fibra muscolare, evocata dai disegni anatomici di Leonardo, prende vita nell’essenza mutevole del rame con la quale è costruita e si espande con quella tensione centrifuga già rilevabile nell’articolazione planimetrica; viene generato un corpo che si dilata verso l’alto a segnare una crescita di un carattere organico quasi non fosse costruito ma nato.
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Pagine precedenti: 1 Leonardo da Vinci Muscoli del braccio destro, spalla e petto (K/P 140v, RL 19008v) Biblioteca Reale di Windsor 2 Veduta dell’angolo Nord della palestra 3 Veduta dell’edificio dalla zona d’ingresso 4 Pianta piano terra 5 Veduta del fronte Nord 6 Veduta del blocco servizi 7 Materiali di rivestimento: travertino di Tivoli e lastre di rame 8 Sezione della parete ventilata in ferro zincato, doghe di legno e lastre di rame 6/10
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Francesco Collotti Giacomo Pirazzoli e Valentina Fantin
La memoria nella pietra Francesco Collotti
Corazzata di acciaio e cemento sepolta nella montagna di pietra. Costruita tra il 1908 e il 1913 dall’Impero austroungarico dentro e sopra uno sperone di roccia pericolosamente in bilico sulla Val d’Astico: ultima propaggine degli Altipiani di Folgaria Lavarone e Luserna verso sud, prima voglia di pianura per i generali austriaci che da qui cercavano Vicenza in fondo nella nebbia di valle e – pare - nelle belle giornate all’alba dicevano di aver intravisto da lungi i riflessi della laguna di Venezia. Forte Belvedere/Werk Gschwent apparteneva al complesso sistema di fortificazioni costruito per la difesa della Vallagarina e della testa della Valsugana verso Trento. Progetti dettagliatissimi di ingegneri militari dediti a queste tremende macchine da guerra sotterranee, collegate tra loro da eliografi e altri strani apparecchi per guardare e traguardare senza farsi vedere, riflettori e bagliori a sciabolare le tenebre: terra dove non annotta ebbe a scrivere Montale in servizio nella Grande Guerra di fronte ad una di queste fortezze. In un più ampio incarico di risignificazione di paesaggi fortificati attraverso operazioni di coltivazione architettonica del paesaggio abbiamo lavorato al recupero e alla valorizzazione del Forte Belvedere con destinazione a Museo della Grande Guerra. Scartato da subito un improbabile ripristino dello stato originario che avrebbe cancellato la memoria esaltando le ragioni tecnocratiche e morbose dell’ingegneria da guerra, il progetto si è concentrato su una interpretazione dell’edificio che desse conto del passare del tempo e di tutte le drammatiche vicende che nel corso del Novecento hanno
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segnato la storia di questo luogo. Messa in opera della memoria attraverso il progetto di architettura, dunque. Un progetto che non solo fosse capace di raccontare la vicenda bellica di questa macchina scavata nelle viscere della montagna (i bombardamenti, la drammatica vita quotidiana dei soldati nelle gallerie sotterranee), ma che chiamasse a far parte della storia dell’edificio anche le successive demolizioni operate in epoca fascista per recuperare il ferro, oppure la riappropriazione da parte degli abitanti di Lavarone di pezzi del Forte che avrebbero rivissuto una seconda vita altrove… una putrella in ferro, un bandone ricurvo, un’anta di legno, il telaio di una porta o un interruttore di porcellana. Per questi motivi il restauro del Forte doveva lasciar leggere quasi in una stratigrafia le tracce di queste diverse storie. Profondamente scorretto sul piano del restauro architettonico sarebbe stato riportare l’edificio al suo presunto originario aspetto. Gran parte del fascino (talvolta sinistro) di quest’edificio è legato al passaggio della storia, al suo essere stato per pochi mesi, per pochi anni, al centro del mondo e delle cronache di guerra, per molti decenni poi vuoto e silenzioso oggetto dismesso. Volevamo che il recupero consentisse ancora di leggere le modificazioni, le aggiunte e le incertezze che di volta in volta hanno reso questo edificio più interessante, enigmatico e misterioso (una scaletta iniziata e mai finita, una uscita per la fanteria poi murata, una nicchia riscoperta, un rinforzo alla copertura aggiunto sotto i bombardamenti dai soldati che uscivano di notte sul tetto e usavano i resti dei proiettili
Progetto per il recupero della fortezza austroungarica di Belvedere/Werk Gschwent a Lavarone con destinazione a Museo della memoria della guerra e della pace, dei popoli e delle nazioni, della comunità e del territorio Committente: Comune di Lavarone (Provincia Autonoma di Trento) Progetto 1998 – 2000 Realizzazione 2000-2003 Progetto: Francesco Collotti Giacomo Pirazzoli Valentina Fantin Consulente storico: Lucio Fabi Immagine coordinata: Valentina Biorcio
1 La fortezza di Belvedere in una storica foto aerea 2 Planimetria
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3-4 Pioggia di bombe: subito prima e subito dopo installazione Giacomo Pirazzoli 5 Dettaglio allestitore guerra bianca 6 Prospetto, sezione, pianta piano terra 7-8 Foto storiche
esplosi per impastare il cemento). La spoliazione conseguente alla cessazione dell’uso militare ha lasciato impronte profonde sui muri, strani vani che possiamo immaginare occupati da fasci di cavi di rame, macchinari, ventilatori, apparecchi delle trasmissioni, tubi ottici per la segnalazione luminosa, pompe idrauliche, isolatori di porcellana. Di tutto ciò resta un mondo fatto di figure in negativo stampate nelle spesse pareti. L’immaginazione, vero materiale da costruzione del sito museale, ci ha aiutato così a completare la collezione. Ma è il risarcimento l’unica vera operazione che oggi il Forte accetta. Gli interventi da noi proposti riflettono allora su una chiara idea che ancora oggi ci sembra l’unica possibile strada praticabile per restituire un qualche senso all’edifi-
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cio: riportare il ferro al Forte e, per questa via, elaborare e ricomporre la memoria ferita di questo incredibile oggetto cui gli abitanti di Lavarone guardano, malgrado tutto con rispetto e affetto. E si tratta di ferro di forte spessore, acidato e trattato così da rievocare per durezza e per effetti quel mondo di acciaio e lamiere tipico delle corazzature militari, delle cupole Skoda, delle mitragliatrici che spuntavano dagli scudi posti nei punti adatti a battere l’intorno della fortezza. Ragionando sulla natura dell’edificio, sulla sua missione di guerra, abbiamo cercato di lavorare su quella natura dura e priva di orpelli che lo caratterizzava, entrando in quel mondo fatto di forti spessori, di ragioni tattiche che sovraintendono alla forma di oggetti per
fortuna oggi distanti dalla nostra vita di tutti i giorni: ecco allora il portone rivestito come la corazza di un animale barbarico, il rifacimento dei pavimenti in battuto di cemento grezzo oppure in larice (legno resinoso, tecnico, non da arredatore), le tabelle con la originaria destinazione dei locali ricavate scavando a tutto spessore con la fiamma lastre di ferro profonde, allestimenti fatti di lamieroni e di scatole della memoria che non cercano di adattarsi con grazia alle camerate, ma che si isolano dalle pareti, lasciandole così come sono con i chiodi, le percolature di umidità, tracce di canali o tubi, vani tecnici oramai vuoti. I soffitti, ricostruiti filologicamente ove era necessario per guadagnare alla mostra lo spazio indispensabile, hanno consentito di ragionare sulle tecniche
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moderne impiegate dagli austriaci... dai soffitti esistenti però non abbiamo voluto togliere le vecchie stalattiti in cui il corso del tempo ha voluto pietrificare l’acqua che scendeva dalla copertura crepata dagli obici. Di ferro acidato sarà pure il cubo di 3,5 x 3,5 metri in corso di realizzazione che segnerà l’ingresso al forte dal piazzale contenenente la biglietteria e i servizi. Nelle vecchie stanze recuperate alcune bacheche raccolgono i pochi disperati oggetti rimasti, una collezione per forza di cose laconica, composta senza ansia di completezza e allestita con quel distacco che consente agli oggetti che recano ricordo di divenire anche oggetti il cui uso è sospeso, oggetti esposti, messi su un piedistallo o sotto un vetro, incorniciati a prender la giusta misura
dal visitatore (una vicinanza irriducibile)... oggetti magari riprodotti in grande serie o di massa (questo fu la Grande Guerra), ma che sono ormai diventate cose che ci raccontano una storia precisa, inevitabile, che ci dicono della traccia individuale delle persone che le hanno usate e che forse, dopo pochi minuti sono caduti nel bosco qui vicino. A questo lavoro di recupero e valorizzazione si è aggiunta la grafica, la segnaletica e l’immagine coordinata. Un racconto disposto su pannelli di alluminio con grandi fotografie ha completato l’allestimento ricostruendo la storia dei luoghi e degli uomini, ripercorrendone i momenti felici delle tavolate con i soldati e gli ufficiali sul piazzale esterno (persino quei fiori leziosi disposti in un vasetto jugendstil memore della pace
subito prima), le vicende drammatiche della nuvola di fumo che aleggia sul Belvedere bombardato, le cupole centrate, le foto rubate dei servizi segreti italiani che dimensionano l’opera segreta telemetrando la scarica di sassi che piomba verso valle. E poi il silenzio, dopo la guerra. La perdita di senso, la deliberata (e forse giusta) amnesia. Distanti dai toni di scontro nazionalistico che hanno caratterizzato molti musei della Prima Guerra Mondiale, abbiamo cercato di dar corpo e forma ad un museo volto più al recupero della memoria del manufatto e alla storia delle genti dell’Altopiano in guerra come nella successiva faticosa pace.
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9 - 10 - 11 Allestimenti del Museo 12 - 13 Pianta piano primo e piano secondo
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Maria Grazia Eccheli e Riccardo Campagnola con Michelangelo Pivetta
Giardini Riccardo Campagnola
Nella città antica – per usare la sintetica, ma precisa ed evocativa definizione di M. Poëte - la presenza della natura, suo antipolo e modello antagonista ad un tempo, costituiva, artificiale o meno, l’elemento fondamentale del suo variegato e multiforme volto. I vasti spazi liberi custoditi all’interno dell’esatto circuito delle mura ne erano componente non solo necessaria – così da costituire categoria analitica decisiva per la ricostruzione della storia della città e dell’intricata genealogia dei suoi tipi edilizi – ma anche il dato caratterizzante, al punto da divenire talvolta il principium individuationis di ogni singola città. Il sito naturale - la conformazione geologica e altimetrica del luogo, il fiume che l’attraversa o lambisce, il colle che la domina, ecc – si trasformava immediatamente, da dato razionale, nell’elemento dialettico delle scelte di configurazione formale della città. Quale città sarebbe comprensibile senza quel rapporto piano/natura che ne delinea la disposizione spaziale e ne sostanzia, nel corso del tempo, ogni singola invenzione? Verona, di cui forse le osservazioni precedenti sono fin troppo scopertamente una generalizzazione dei caratteri, costituisce un exemplum paradigmatico. Elogio di un catasto I giardini, che per il catasto austriaco di Verona nella versione del 1847, non sembrano già più un oggetto degno di nota se non meramente quantitativa, costituivano invece per il precedente catasto napoleonico uno dei criteri privilegiati di descrizione, se non d’interpretazione, della città.
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Restituiti, forse per l’ultima volta, con una rappresentazione che - fedele o meramente simbolica che fosse - ne preservava l’integro significato, i giardini di Verona vi figurano con tal evidenza da stridere sia con le ben note motivazioni amministrative che con gli stessi obiettivi “scientifici” di una mappa catastale. All’edificato, rappresentato mediante la sola e canonica occupazione del suolo, il disegno dei giardini aggiunge, infatti, norme sconosciute e certo non pertinenti: - si veda l’evocazione di stagioni storiche della città attraverso l’enumerazione dei suoi capisaldi verdi (il Broilum Magnum attinente ai Palazzi Scaligeri e il giardino degli Esposti già di Taddea di Carrara nei pressi del Duomo, i rinascimentali giardini di Palazzo Giusti, di palazzo Murari Bocca Trezza ecc); - oppure il ruolo rivelatore della geometria segreta della città che assumevano gli allineamenti, gli assi di simmetria e le inspiegabili partizioni che informavano i disegni dei giardini in una sorta di araldica naturale, esibendo al contempo la loro vera natura di continuazione all’aperto delle omesse planimetrie. Per spiegare la puntigliosa ed inspiegabile presenza di tali raffigurazioni in documenti che, legati ad una nuova politica d’imposizione, avrebbero richiesto il censimento della mera quantità, si è ricorso alla presenza di maestranze di ascendenza pittorica. Una spiegazione attendibile ma che tuttavia non tiene conto di quanto quei disegni additano: in un passaggio epocale della storia, un’idea di città più comprensiva e complessa di quanto l’incipiente e astratta città ottocentesca avrebbe in seguito inverato.
Progetto: Maria Grazia Eccheli Riccardo Campagnola Michelangelo Pivetta 2004
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Pagine precedenti: 1 La porta che unisce i due giardini 2 Vista dall’interno 3-4 Il giardino dei frammenti 5 Pianta: a - il giardino dei frammenti (quota 0.00) b - il giardino di pietra (quota + 0.20) c - torre - biblioteca d - il giardino degli aromi (quota + 0.80) e - il giardino delle siepi (quota + 0.80) Pagine successive: 6-7 Vista del giardino a quota + 0.80 8 Il giardino di pietra
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I giardini vi figurano anche come interpreti della stessa particolare natura del suolo urbano e custodi di qualità che l’odierna esasperazione puramente quantitativa dei fatti urbani ha ormai annullato. Così il suolo urbano ricompare con valenze dimenticate: orientamento, esposizione, rapporto con il sito geologico sembrano parametri ancora plausibili. Si tratta forse dell’ultima possibile sopravvivenza o dell’ultima ancora comprensibile versione di atti come l’elezione del sito, il fine ultimo dell’inestricabile coacervo dei riti di fondazione. Un’aria di perenne inizio (questo il senso di augurale?) o di ricominciamento diviene fatto concreto, restituendo la lieve ansia che percorre i trattati d’architettura nel fondarne l’esigenza. Voci vecchie di secoli divengono familiari… La stessa situazione geologica della cit-
tà, quell’altimetria comunemente omessa nella cartografia storica, viene restituita dalla presenza dei giardini come un fatto straordinariamente concreto che ne rivela la capacità maieutica di quanto un tempo, a delimitare possibilità degne dell’esaudimento della costruzione, erano designate come idee giuste (“idee, secondo Alain, che non negano nulla dell’elemento naturale”). Elogio di un sito L’edificato in fregio alla romana Via Postumia (l’attuale Via San Nazaro) termina, a nord, contro l’alta parete tufacea del Monte Castiglione, che s’erge all’improvviso dal livello della città, quasi tipo particolare di costruzione. Ogni edificio è formato da una doppia costruzione: alla parte principale, posta in fregio a Via San Nazaro, s’aggiunge un secondo corpo edilizio, generalmen-
te un “corpo semplice”, posto a delimitare una piccola corte e che s’affaccia, a concludere la sequenza longitudinale della casa, su di un giardino posteriore, a tal punto necessario che talvolta, viene innalzato, per forza di geologia, a livelli superiori della stessa casa. In forme e misure dimesse, si tratta tuttavia della ripetizione del medesimo gesto e della stessa ragione con cui il poco lontano giardino del Palazzo Giusti - un archetipo del giardino cinquecentesco - mette in opera la natura, declinando un’identica situazione geologica. Il progetto È bastato diradare o trasformare quanto nel corso del tempo aveva sommerso lo spazio libero compreso tra la città e la natura per riscoprire il carattere formativo di spazi liberi che si rivelano talvolta indipendenti dalla stessa fram-
mentazione delle proprietà, corrispondendo invece, nelle dimensioni, all’unità dei fronti su strada. Poiché il progetto non ha altro fine che l’inventio di tracce catastali e della loro, per quanto minimale, virtù di testimonianza della struttura della città, il muro di separazione tra i due giardini è stato mantenuto – anche per la diversità di quota tra i due giardini –, stabilendo tuttavia la loro compresenza mediante l’apertura di porte e finestre aperte sul verde. La piccola casa a torre di tre piani, posta sul confine comune ai due giardini e destinata interamente a biblioteca, detta il luogo della porta tra i due spazi verdi: essa è aperta all’interno della piccola panca semicircolare che risolve la diversità di quota tra i due spazi. Dalla presenza del muro discende poi la diversa natura dei due spazi a verde. Il giardino a quota zero è definito da
due identiche facciate: portici virtuali formati dalla fitta iterazione di alte aperture che si corrispondono, parallele, ai due lati del prato. La facciata a nord, sempre assolata, è vuota - quasi un rudere o, forse, macchina del variare delle ombre – e delimita una stanza a cielo aperto, pavimentata in pietra, che custodisce al suo interno uno dei tre alberi da frutto che caratterizzano il giardino. Le due facciate sono unite tra loro da un percorso in pietra sul quale s’allunga la panca in muratura adiacente al muro. Il secondo giardino, alla quota superiore, è definito dalle alte siepi di alloro disposte ad uniformare un perimetro troppo disomogeneo e gravato da servitù di vista. Un percorso in pietra divide le poche essenze arboree, scelte in funzione di una sorta di rotazione dei colori secondo le stagioni.
Flaviano Maria Lorusso Pier Paolo Perra e Alberto Loche
International design competition for a New Tomihro Museum of Shi-ga Flaviano Maria Lorusso
“... Più d’ogni cosa, il nuovo museo sarà il luogo per creare il mondo che Hoshino costantemente ricerca, il mondo della gentilezza, del coraggio di vivere, e amare...”.
Sul limite tra naturale ed artificiale, è lo sguardo dell’architetto -ma non solo il suo- il primo artificio che si pone: nell’idea-immagine, nello schizzo, nell’enunciazione d’una parola-concetto: virtuale solco di fondazione che, prendendo posizione -la propria, da un dove- e gettandosi sull’oltre della natura -ciò che precede, che “è prima dell’esserci”-, vi immette una relazione, un’interpretazione. E’ in esso l’inizio dei due artifici per eccellenza -il più concreto, l’architettura che abita, ed il più astratto, la parola che nomina-, i quali congiunti delineano e prefigurano, infine, uno spazio -dell’emozione, dell’uso e dell’espressione- che ne sanziona già la metamorfosi in costruzione culturale, in prodotto e segno del passaggio dal mero stato di natura a luogo: del corpo, della mente, dell’anima. Prima immissione -nella natura che dapprima semplicemente è, sta, nè bella nè brutta nè significante- del progetto/atto della forma: l’artificio come imprescindibile marcatore antropico che solo, del naturale, può rivelare e determinare il possibile statuto di valore e perfino di senso etico-estetico: opposti, o distinti, ma ineludibilmente necessari per il reciproco chiarimento di individuazione. Come per Castel del Monte, misterioso, assoluto paradigma d’uno sguardo acuto che seppe intravedere e posare, in cima al colle prima muto, interrogazioni e risposte in forma di pietre astrattamente disposte per raccordare final-
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mente la terra al cielo, la natura alla mente perspicua, nell’unità d’una definitiva organicizzazione. Così come per Casa Malaparte, a Capri, altro sguardo, di un architetto e di uno scrittore assieme: e altro paradigma, manufatto d’arcaica elementarità inciso dall’eco d’una cavea antica e tuttavia sagomato da purpurea torpedine all’ancora, per il quale solo, compiutamente, la natura attorno si chiarisce nella sua possibilità di identità estetica. Laddove la stanza immateriale del terrazzo, rinunciando a parapetti, realizza -inedito istmo architettonico- lo spazio della perfetta fusione con paesaggio e cielo in cui si protende e che su di essa dilagano. E come accade nella pittura cinese classica, per cui i paesaggi non esprimono bellezza in assenza di figure umane e delle loro opere. Come accade infine per lo SHI-GA, genere figurativo-letterario giapponese, per cui la corporea bellezza della natura, ricreata nell’artificio dell’immagine di un disegno ad acquerello, trova compimento estetico nell’accostamento, a subitanea perequazione, ai segni degli incorporei ideogrammi d’un poema. Alla produzione artistica ed al pensiero dell’ex atleta Hoshino, immobilizzato totalmente, tranne il capo, per un grave infortunio, è dedicato il nuovo Museo di Azuma, che deve ricrearne stile di vita e messaggio etico ed estetico, dedotti dallo sguardo sulla splendida natura attorno al suo villaggio e instillati negli Shi-ga, sintesi esemplari delle due polarità universali, la natura e l’umanità. Il progetto asserisce, a fronte della soverchiante potenza naturalistica del sito, la strategia concettuale di una relazione alla pari dell’architettura in ter-
Progetto: Flaviano Maria Lorusso Pier Paolo Perra Alberto Loche 2002
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...coraggio di vivere e di amare...: il museo prende la forma di un’architettura che, incastonata con discrezione nell’antico cuore di granito della montagna, come la vita stessa che si ancora alla memoria ed alla natura, osa lo slancio di un inaudito aggetto di sè nella bellezza del paesaggio per sospendersi in esso: l’azzardo, tecnico e simbolico, del coraggio proiettivo e fiducioso, appassionato e affettivo del più profondo umanesimo...
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mini di netto contrappunto, figurato in un monolito dall’archetipica esattezza geometrica di un elementare prisma quadrato, ad un solo piano, dell’intera superficie funzionale richiesta. Diverse figure concettuali ispirate agli auspici del bando ed alla personalità di Hoshino ne plasmano il carattere finale. Innanzitutto, i concetti di radicamento fisico nel sito, di ancoraggio relazionale all’arteria stradale e di rappresentazione simbolica del coraggio vitale di Hoshino e del suo richiamo all’immersione nella natura. Il Museo si incunea del tutto, fisicamente e simbolicamente, nella massa granitica del suolo, naturale grembo primigenio; evita quindi di emergere rispetto alla strada per non interromperne la percezione del panorama e ne dilata anzi la spazialità sotto forma di copertura-terrazza; si aggetta, infine, oltre il ciglio del pendio sul lago, con un potente sbalzo, senza enfasi strutturalista, ma secondo una inapparenza, una naturalezza dello sforzo assorbito nella sua configurazione morfologica. Lo slancio verso il paesaggio determina la variazione di trattamento materico del Museo, dapprima rivestito e lastricato col più classico dei materiali giapponesi, il legno; quindi, verso l’affaccio sul lago, con il cristallo, trasparente o opalino, secondo una crescente rarefazione a geometria fratta, per dissimulare e fondere sempre più l’artificio architettonico con gli elementi naturali più immateriali -l’aria, la lucein cui si distende. Rarefazione ribadita all’interno, a cifra del Museo, che dalla trascolorata leggerezza, dalla diafana matericità degli acquerelli, dall’astratta purezza dei versi e dei loro ideogrammi traduce l’eleganza, la gentile raffinatezza, l’immaterialità spirituale articolando lo spazio con stanze di legno chiaro per funzioni racchiuse che richiamano l’esterno; quindi, ricorrendo solo a diaframmi di vetro, di policarbonato, di tessuto a varia finitura e colorazione, intervallati con patii-lucenari in vetro colorato sparsi come captatori-diffusori opalescenti di luce e con teche di plexiglass variamente colorato e trattato. Fino alla galleria-balcone totalmente vetrata, compreso pavimentazione e struttura portante, che si prolunga con ulteriore aggetto per immergere corpi e sguardi, secondo l’esortazione di Hoshino, in ogni direzione, nella sostanza estetica e morale dispiegata dalla natura circostante.
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Pagine precedenti: 1 Veduta prospettica del Museo 2 Planimetria generale 3 Copertura, pianta e sezioni 4 Vista planimetrica 5 Veduta prospettica dall’alto
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Pagine successive: 6 Vista dal lago
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...gentilezza...: un umanesimo della eleganza interiore che fa della discrezione gentile, della conquista progressiva della leggerezza, la forma-immagine del museo, che si propone come un prisma luminescente, a progressiva rarefazione materica, dove la luce, nelle sue molteplici variazioni, diviene la materia del nuovo spazio...
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...shi-ga...: materia trascolorata, diafanizzata come la materia degli acquerelli, come le loro velature di colori tenui, diluiti, che vetro, plexiglass, policarbonato, di varia pasta, consistenza, pigmentazione, simulano per creare all’interno, trasfigurati fino all’astrazione pura delle parole dei poeti, un tenue, incantato giardino di Alice...�
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Loris Macci con Andrea Giunti
Landscraper: costruire con il paesaggio Fabio Fabbrizzi
Da molto tempo si affronta in maniera sistematica all’interno del dibattito d’architettura, il tema della natura. Esso, pare costituire una sorta di nuova parola d’ordine e l’ennesimo paradigma di riferimenti, ai quali il progetto contemporaneo deve aderire pena l’esclusione o la caduta nel provincialismo nei confronti dei grandi circuiti culturali. Ma dietro questa attenzione che forse il più delle volte nasconde solo atteggiamenti di facciata e posizioni di comodo per contrabbandare vecchie concezioni di architettura in nuove vesti alla moda, esiste un nucleo prezioso che solo la parte più sensibile della ricerca e del progetto contemporaneo, paiono avere recepito. Nucleo che riesce ad evolvere e declinare all’interno di variegate sensibilità linguistiche, i presupposti di una Ökologische Aesthetik di cultura tedesca e di una Environmental Aesthetic di cultura anglosassone, le cui visioni hanno contribuito a formare il substrato per una nuova sensibilità tematica, linguistica e progettuale che sempre più sta orientandosi nella direzione di una vera e propria “nuova alleanza” tra i sensi della natura e quelli dell’architettura, rifondando la complessità della disciplina progettuale, sulla dimensione fisica e spirituale del luogo. All’ancoraggio di respiro europeo, si somma la percorrenza di uno spazio teorico e operativo d’intatta lungimiranza, ovvero quella pratica all’interpretazione sensibile dei valori che costituiscono il senso dell’identità di un luogo, di un contesto, di un paesaggio, che costituendosi come l’eredità forse più interessante lasciata dalla lezione italiana degli anni ’50, è progressivamente divenuta un termine ineludibile
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di riferimento nella ricerca di possibili vie d’azione al progetto d’architettura. A poco a poco, l’immissione del senso del luogo, delle sue tracce, delle stratificazioni, delle latenze, delle vocazioni e delle misure che lo caratterizzano, si è orientata verso un’operatività che “usa” la stessa dimensione fisica del luogo come matrice, ma anche come materia di progetto. In altre parole, come se lo stesso luogo fosse soggetto e oggetto della dimensione formativa e strutturante, sia essa figurale, simbolica o solo tettonica, dell’idea di progetto. Questo si traduce sul piano operativo in una serie di architetture che il neologismo anglosassone landscraper sintetizza alla perfezione. Architetture costruite nel paesaggio, con esso e per esso, adoperandolo come matrice figurale, come matrice compositiva, ma anche come “materiale” reale per la sua realizzazione. Sono architetture che costruiscono nuovi scenari ambientali e nelle diverse particolarità dell’ambiente, si inseriscono ora prepotentemente a ribadirne una caratteristica essenziale, ora delicatamente a sottolinearne unicità e poesia. Sono architetture il cui legame con il senso della natura avviene il più delle volte attraverso l’intrecciarsi di piani diversi, generando di volta in volta una formatività che allestisce tutte le modalità di relazione tra le due polarità, ovvero ponendosi come frammento assonante nei confronti della stessa natura, o innescando operazioni di mimesi con essa, o più semplicemente dando l’avvio a operazioni di vera e propria costruzione della natura. L’opera di Loris Macci, da sempre attenta interprete di un’architettura ineccepibile sul piano delle relazioni con il luogo,
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Impianto di Compostaggio a Faltona nel Mugello Progetto: Loris G. Macci Andrea Giunti 2002 Collaboratori: Paolo Frongia Guido Murdolo Francesco Stolzuoli
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incorpora con matura sensibilità riscontrabile in molte realizzazioni e in molti progetti, i nuclei della poliforme via contemporanea al rapporto tra artificiale e naturale. Molte delle sue architetture, pur in collimazione con le derivazioni e i purismi della grande lezione del Moderno, contengono al contempo molti dei temi che appartengono alla riconoscibilità dell’idea di Scuola Fiorentina, dilatandone in molti casi le intuizioni più interessanti. All’interno del vastissimo tema della natura, Macci ha saputo evolvere quella scintilla già presente in germe in molte opere di questo segmento, ampliando temi e suggestioni in esse contenute. L’idea di natura architettata presente in alcune realizzazioni di Spadolini, la metafora delle colline artificiali dell’ultimo Gamberini, il rispetto per il suolo professato da Savioli, il senso del radicamento di Ricci e le impercettibili “correzioni” della fisicità dei luoghi messe in atto da alcune visioni michelucciane, radicano l’opera di Macci, ad un divenire che è espressione di contemporaneità e interpretazione di un accento ben definito della tradizione. Il progetto per l’impianto di compostaggio che verrà realizzato nel Comune di Borgo S. Lorenzo, a Faltona nel Mugello, articola con straordinaria efficacia i punti di questo duplice itinerario interpretativo, prefigurando un’architettura che costruirà con i materiali del paesaggio, l’essenza ambientale del luogo. Per questo Macci sceglie di integrare non solo visivamente ma anche fisicamente l’edificio alla naturalità del sito, progettando una serie di movimenti di terra che contengono, come concrezioni antropizzate del terreno, le diverse funzioni. Nell’assecondare il naturale andamento del suolo, l’impostazione generale risulta costituita dall’avvicendarsi di piccole bastionature, annunciate da un sistema di muri di sostegno che indicano la presenza di un “sotto” ricco di significati e relazioni. Relazioni che mettono in pratica uno schema tecnologico di impianto predisposto con la consulenza di una società olandese leader a livello mondiale nel campo del compostaggio. In pratica l’avvicendarsi dei volumi, contiene una linea di trattamento completamente sviluppata “in interno”, con l’evidente vantaggio dell’annullamento dell’impatto visivo, acustico e olfattivo, verso l’esterno. Funzionalmente il sistema si articolerà con un primo padiglione adiacente al piazzale di arrivo, nel quale avverrà la prima raccolta del materiale da trattare,
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che dopo essere passato attraverso una strada-galleria, verrà introdotto nelle nove biocelle nelle quali permarrà il tempo necessario per una prima maturazione. Successivamente, sempre all’interno della struttura, il materiale avviato alla maturazione, verrà vagliato e introdotto in un successivo padiglione suddiviso in settori, nei quali compirà la maturazione definitiva. In adiacenza al padiglione di ingresso del materiale, viene previsto un piccolo padiglione sviluppato su tre livelli destinato ai servizi per il personale. Ne risulta una aggregazione di elementi funzionali diversi, vertebrati dalla presenza dell’elemento di collegamento longitudinale, pensato come una serra vetrata a volta che oltre ad accomunare le varie parti dell’insieme, illuminerà l’interno degli ampi spazi previsti. La compattazione degli ambiti, l’interramento parziale dei volumi fino alla quota delle stratificazioni rocciose e il relativo contenimento dei fronti ottenuto con rampe verdi addossate a proseguimento del verde dell’intorno, genera nell’insieme una continuità mimetica frutto di un delicato equilibrio tra il senso della natura e quello dell’architettura, coinvolgendo nello stesso itinerario progettuale sensi apparentemente inconciliabili tra loro. Fondendo cioè, in un unicum al contempo forte e poetico, le valenze per così dire retoriche della natura legate alla sua percezione letterale e oleografica, alla dimensione tecnica, modificandole e trasformandole in morale e forza propositrice. Da sottolineare il trattamento delle superfici verticali che emergono dalle quote della sistemazione a verde, ottenuto con l’utilizzo di un rivestimento in “pietra a sacco” che tampona una retrostante ossatura in c.a.. Questo sistema, che impiega una gabbia a rete metallica per il contenimento di pietre a spacco a dimensione variabile, garantisce nelle sole aree destinate all’alloggio degli impianti, la necessaria circolazione dell’aria, aiutata dove necessario, da tagli ed asole protetti da persianature metalliche orientabili meccanicamente. All’esterno l’articolazione dei pochi segni che emergono dal verde, lascia intuire la dislocazione degli ambiti principali dell’impianto. La copertura del padiglione d’accesso e quella del padiglione per la maturazione definitiva, vengono previste con un “tetto rovescio” che verrà completato con uno strato superficiale di ghiaione dall’ampio potere filtrante, mentre la copertura dell’ambito ospitante le biocelle, viene ipotizzata con tre
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grandi vasche d’acqua a ricambio continuo, che serviranno al raffreddamento dei sottostanti sistemi tecnici. Tutte le altre coperture verranno realizzate con movimenti di terra di riporto a formare sistemi artificiali di “prato armato”, ovvero terrazze e piani inclinati verdi, che consentiranno il quasi totale assorbimento del nuovo sistema nell’ambiente naturale dell’intorno. Questo progetto di Macci, incarna al meglio le molte sfaccettature della dimensione contemporanea che il ricercato equilibrio tra natura e architettura assume, definendo con immutata forza ma con nuove modalità, l’eterna relazione tra ragione e sentimento, tra poesia e tecnica. Una ricerca che è ancora legittimata culturalmente dalla forza propositiva del Moderno, dalla carica utopica e felicemente innovativa che la sua astrazione conteneva, declinata poi alla più concreta serie di possibilità che la cultura del dopo Moderno ha offerto alla ricerca progettuale, ma al contempo contiene la consapevolezza, sublimata in prassi, di una necessaria mitigazione dell’utopia, orientata verso una strada maggiormente umanizzata. E in questa contraddizione, ben colta da Macci, l’unica via ammissibile pare essere quella di una serena appropriatezza, che superando le aporie del Moderno, propone di non risolversi esclusivamente nella ricerca di un consenso unanime tra nuclei di valori inconciliabili, quanto piuttosto promuovendo lo stimolante incontro tra le diversità. Incontro che significando recupero di universali significati e umanizzazione di questa universalità, lascia intravedere un senso della natura che da assoluto presupposto di riferimento, diviene progressivamente elemento variabile di un ben più ampio divenire. Per questo, mentre l’icona architettonica per eccellenza del XX Secolo è stata lo skyscraper, cioè il grattacielo, l’icona che riuscirà a rappresentare l’innovazione espressivamente più caratteristica del XXI Secolo, sarà credo, quella di questa architettura che costruisce la sua essenza con l’essenza dello stesso paesaggio, caratterizzata dalla prevalenza della dimensione orizzontale, dal recupero del rapporto con il suolo, con la terra, con la materia, con la natura. Architettura, che riconfermando ancora una volta, il tratto ciclico dell’evoluzione formale e tematica della propria dimensione progettuale, riuscirà a sancire in inedite organizzazioni e in nuovi sistemi, una serie di antichissimi significati.
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Pagine precedenti: 1 Veduta generale dell’intervento 2 Planimetria generale 3 Sezioni 4 Veduta della copertura delle biocelle con le vasche d’acqua 5 Prospetto Nord
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Fabrizio Rossi Prodi e Massimiliano Larinni
Piscina Comunale a Firenzuola Fabrizio Rossi Prodi
La piscina in costruzione sorge in una valle ai margini del Santerno che corre a sud di Firenzuola, piccolo centro posto nell’Appennino tosco-emiliano. La piscina comprende una vasca regolamentare e una per bambini, gli spogliatoi, un bar e una piccola palestra con sauna. I servizi sono circondati da ampi spazi all’aperto, da pergolati e portici. La pietra serena cavata in queste montagne attorno a Firenzuola, il legno dei boschi e il colore dell’acqua e della natura, costituiscono i materiali della costruzione. La struttura è in muratura rivestita di pietra serena con un motivo orizzontale con lastre allungate, alternate a travertino a ricorsi variati, in modo da esaltare - nel contrasto il principio della stratificazione litica. Una griglia di travi in legno copre gli ambienti e crea i loggiati, sostenendo la copertura, rivestita in zinco-alluminio. Anche gli infissi sono in legno, mentre i cristalli sono caratterizzati da una sfumatura verde acqua. Le pavimentazioni esterne - e parte di quelle interne - sono in pietra serena, oltre al klinker di alcuni ambienti e del piano vasca. La copertura e i loggiati sono interrotti e incisi da alcune aperture, attraversate dalla luce e da alcune piante. Pur assumendo orientamenti e regole osservati nei principi insediativi della città di Firenzuola, l’organismo architettonico è deliberatamente interrotto sia nella pianta, privata di alcune parti, sia nella copertura, frequentemente incisa, ma soprattutto ricerca un contrasto fra il guscio petroso della struttura e la morbida azione di risarcimento compiuta da infissi e pannelli in legno, contrasto accentuato dalla fragilità della copertura, appoggiata su
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muri e pilastri. Ne deriva un montaggio di solidi cavati, disposti all’interno di una sagoma geometrica che subisce anch’essa alcune variazioni ai suoi margini, verso la città o verso il fiume, proprio come se tutto l’organismo avesse subito erosioni e dilavamenti dalle acque del torrente. Nel ridiscendere il Passo del Giogo, verso Firenzuola, mi avevano colpito quelle vedute di rocce che affiorano dai pascoli e poi ancora i campi morbidi interrotti dai resti del bosco, solcati dai torrenti. L’acqua del Santerno incide il terreno, strappa ciottoli alla stratificazione delle pareti rocciose, li accumula sul suo fondo, li scava, come i lavoratori cavano la pietra serena e poi l’accumulano e la ordinano; più tardi la rimontano, a strati, nel rivestire i muri, vi sovrappongono il legno delle coperture, talvolta più volgarmente la lamiera. L’evidenza insolitamente ripetuta di questi tre materiali si lega ad alcuni pensieri sull’acqua e sul nuoto. Corpi che si muovono, leggerezza, corpi che si mostrano al sole, sguardi. Il riparo, l’acqua e la natura sono sensazioni forti, quasi come un salto di scala: grande freddo, grande caldo, il contatto della pelle con le pietre, con l’erba, con l’acqua; e tutto con una vertigine da distanza, con prospettive troppo fluide, con un tempo immobile, come quello del sole lento nella calura di un pomeriggio estivo. È un’occasione di esperienze sensuali: la brezza inonda la pelle e le membra e par le faccia respirare. Sono pori che si aprono, sono rivelazioni di fisicità plastica, trasalimento e vertigine che si oppongono a un principio classico di equilibrio del
Progetto: Fabrizio Rossi Prodi Massimiliano Larinni 2002 Collaboratori: Simone Abbado Jacopo MariaGiagnoni Emiliano Romagnoli Nicola Spagni Marco Zucconi
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Pagine precedenti: 1 Il portico e la pergola verso la piscina 2 Pianta 3 Veduta dell’ingresso 4 Veduta del fronte verso la piscina 5-6 Modello 7 Planimetria d’insieme
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sé con la natura. Dunque governa l’ordine di un organismo classico e il disordine e lo straniamento dei desideri individuali, l’orizzontale dell’acqua e della pietra contro la verticale della luce e della vegetazione. Le tracce incancellabili di memorie, tutte di terme, di portici e di stoà sono avversate dalla distanza antiprospettica delle impressioni tattili, come il timore di scivolare, l’importanza del contatto con la materia, la brezza e il calore, la profondità spaziale, il verde, cedendo la scena a vedute che evaporano al sole, quando la realtà cede al sogno della luce sensuale e del riverbero e suscita immagini surreali di oggetti che perdono i limiti della loro figura, come resti acropolici contro il cielo e il paesaggio.
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Paolo Zermani
Il cimitero di Sesto Fiorentino Elisabetta Agostini
L’adesione ad una autentica ragione dei luoghi e alla sottile arte delle differenze che ne ha perpetrato l’identità, conferisce voce chiara del tempo al progetto per il cimitero di Sesto Fiorentino. Paolo Zermani, memore della paziente ed operosa intelligenza con cui, alle soglie del XIX secolo, veniva compresa la matrice unitaria delle necropoli riemerse, generata dall’addensarsi in una folta successione organica della geometria esatta dei tumuli sepolcrali, affida all’identità dei paesaggi pervenuti sino a noi come filamenti sottili, la trama del proprio pensiero. L’ipogeo sepolcrale, assunto come nucleo in grado di suscitare il carattere stanziale dei luoghi, ripercorre, in un itinerario di natura, il significato del tumulo etrusco, operato nella sottrazione e nel riposizionamento di materia, a voler plasmare il suolo, il confine tra terra ed aria, nella superficie increspata del velo erboso disteso a protezione del molteplice reiterarsi della singola camera in tal modo svelata, e misurata dal taglio della sua sezione. Dalle seducenti narrazioni dei luoghi attraversando la loro odierna condizione, lo sguardo di Paolo Zermani si posa ad osservare la piana tra Firenze e Prato, luogo designato ad accogliere il cimitero di Sesto Fiorentino, e riflette sulla condizione di odierna opacità e di cesura che i nostri paesaggi sembrano riverberare: elementi incongrui sono frapposti tra pianura, città e collina. Tali presenze, a partire dal momento in cui la città abbatte il confine e profilo su cui da tempo secolare si esercitava il “punto di vista” dei suoi abitanti verso il paesaggio, e che coincide con il desiderio di ricondursi al senso originario della
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camera (a ciò che è protetto da una volta), proseguendo la lenta e costante opera di scavo archeologico, permangono a rimarcare la straniante distanza che intercorre tra le cose, che è infausta soluzione di continuità tra interno ed esterno. Il cimitero di Sesto Fiorentino si identifica in una pausa di misura, teso a raccordare la lontananza dei monti, l’abitato e la pianura che si estende verso l’autostrada, ed a stabilire il margine del costruito verso la Piana, e fa sì che a quest’ultima l’impianto offra il corpo duro della composizione: un fronte gradonato dal forte spessore contiene la sequenza organica delle piazze interne, campi per le sepolture inumate. Sul lato opposto una teoria di sacelli funerari definisce il fondale dei campi di inumazione nella euritmica successione delle cappelle famigliari che giacciono al disotto del leggero tumulo erboso determinato dallo scavo, che, a partire dal canale esistente, individua una vasca di esondazione a monte delle stesse nel profilo della sezione. Il rapporto tra la vita e la morte risiede nella distensione del tumulo a grande scala, abitato al suo interno dalla memoria dei vivi che lì esercitano il proprio ricordo. Il recinto cimiteriale è individuato all’interno del perimetro generato dalla teoria continua delle cappelle ed ha un’unica parte emersa in corrispondenza della prima corte in cui trova spazio la Cappella cimiteriale. Al centro della corte sta l’Ossario: dalla fossa per l’inumazione collettiva, ricavata nel suolo, l’edificio si eleva in forma circolare come in un processo di osteogenesi analogamente all’impianto cimiteriale suddiviso in stralci funzionali edificabili
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Progetto: Paolo Zermani con Mauro Alpini, Fabio Capanni, Giacomo Pirazzoli, Fabrizio Rossi Prodi, Paolo Osti (strutture) 1999 Collaboratori: Elisabetta Agostini Patrizia Alberini Gabriele Bertocci Fabio Gioé Giovanna Maini Valeria Ronchini
in progressione – e si configura come corpo permeabile all’aria, in struttura di ferro con un elemento di distribuzione e di accesso centrali e la corona delle urne individuali a definirne il perimetro. La materia dell’architettura è la pietra locale, l’alberese, ed il manto erboso che veste la sommità delle cappelle famigliari ed il corpo degli avelli, secondo lo stesso felice binomio che si scopre in lontananza osservando la presenza dei luoghi in cui l’uomo cavava la materia della propria costruzione sottraendola all’opera della Natura. Dall’interno del cimitero, percorrendo la strada di spina centrale, si vedono collina e cielo; al disopra del corpo gradonato, percorribile in quota, si osservano Sesto, Villa S. Lorenzo, e la Piana. Il cimitero si identifica come percorso di avvicinamento graduale al luogo della memoria, accompagnato dalla prospettiva del paesaggio, anch’essa intesa come forma del com-prehendere. Il progetto di sezione come ambito di paesaggio in cui vengono richiamati in un unico gesto interno ed esterno, dà voce ad una solida tradizione toscana e chiarisce la natura dello spazio del cimitero che nell’espletare il tema della sepoltura, offre un autentico tributo spaziale ad una brano del paesaggio italiano, assumendone pienamente l’eredità, dal lontano lascito dell’universo etrusco a ciò che di esso ci consente di ricucire i frammenti della nostra identità, nella consapevolezza di una ineluttabile discontinuità e limitatezza della percezione, resa impervia dal frapporsi di episodi incongrui. Il progetto preliminare per il cimitero di Sesto Fiorentino volge lo sguardo del progetto di architettura all’interpretazione del territorio italiano come straordinaria opera illustrata, in cui al fianco di figure a tutta pagina stanno pagine dai margini finemente istoriati come frutto della stessa mano. Il fondale allora si identifica con la continuazione, l’amplificazione del soggetto centrale delle raffigurazioni, oppure con la sua antitesi diretta; ma in ogni modo l’arte ed il paesaggio si richiamano l’un l’altro, completandosi, e dando continuità all’antico rapporto dialettico tra opera dell’uomo ed opera di Natura. Così il significato dell’architettura passa necessariamente attraverso la declinazione della relazione possibile tra interno ed esterno in un dialogo continuo, reso manifesto da un osservabile e classificabile ordine. 3
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Pagine precedenti: 1 Franciszek Smuglewicz Rilievo della Tomba del Cardinale,1763-66 Wurzburg, Martin von Wagner-Museum der Universitat 2 Vista del modello 3 Piante del primo modulo 4 Prospettiva dell’interno 5 Vista prospettica verso i monti 6 Vista prospettica verso la piana
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Pagine successive: 7 Vista del modello
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Giorgio Grassi
Ricostruzione del castello di Valkhof a Nimega
Con la demolizione del castello di Valkhof e la sua trasformazione in parco pubblico due secoli or sono è andato perduto un elemento fondamentale della forma-urbis di Nimega. Di qui il proposito della città di far sì che questa parte importante della sua memoria storica possa tornare a essere protagonista della trasformazione fisica della città, oltre che della sua vita, e la decisione, coraggiosa, di ricostruire ‘dov’era’ il castello di Valkhof. Non sfugge a nessuno la differenza che c’è fra la pura e semplice riconoscibilità del luogo in cui il castello si trovava e invece la sua presenza fisica, il suo concreto emergere sul profilo della città. Di fatto oggi il parco pubblico con la sua presenza esclude il castello e così facendo lo cancella dalla memoria storica della città. È evidente che la questione della ricostruzione di un monumento dell’importanza del castello di Valkhof è una questione aperta e problematica e per questo divide chi ha a cuore il destino della città. Ma è altrettanto evidente che solo la proposta concreta, cioè il come della ricostruzione, è in grado di far chiarezza e di dirimere la questione. Solo il come del progetto è in grado di spiegare senza equivoci la ragione di essere della ricostruzione, il suo perché. Anche noi per prima cosa ci siamo posti il problema della opportunità della ricostruzione, e quindi del senso del nostro lavoro, a partire dai dati razionali del programma, ma anche dalle motivazioni più generali, dalle aspettative, ecc., consapevoli del fatto che l’architettura è in grado di rispondere solo a determinate domande. E la nostra conclusione provvisoria è stata che la rico-
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struzione del castello di Valkhof avrebbe avuto senso solo se fosse riuscita a trovare un convincente equilibrio fra le diverse componenti in gioco e, in particolare, sul piano della risposta architettonica, fra castello e parco ottocentesco e poi fra il castello e la sua nuova destinazione d’uso. Per noi ricostruire vuol dire costruire, nel senso più ampio del termine, l’oggetto necessario e la forma corrispondente, la forma plasmata dal bisogno, ma anche l’aspettativa che è legata a quella forma, il posto che occupa nella memoria collettiva. Ricostruire il castello di Valkhof vuol dire costruirlo dov’era e com’era senza alterazioni o deviazioni, ma anche costruirlo con i nostri occhi e con i nostri mezzi, cioè come lo vediamo noi oggi e con i mezzi espressivi e tecnici di cui disponiamo, per la città di oggi. Proviamo a fare l’esempio di un castello che ha perduto nel tempo, se non i segnali della sua identificazione come tale, quantomeno la connotazione difensiva, la sua caratteristica chiusura verso l’esterno, per assumerne un’altra, adeguata a nuovi obiettivi, ad esempio un castello diventato Residenza, palazzo aperto sui suoi giardini, con ampie finestre e loggiati, ecc., ma pur sempre un castello, con le mura, le torri, ecc. Sarebbe per questo un castello meno vero? Non è forse questa la storia di tanti castelli centroeuropei, per non parlare dell’Italia? Ma non è forse questa anche la storia del castello di Valkhof? Forse la sua forma non l’ha registrata in passato con la stessa chiarezza di altri castelli (Heidelberg ad esempio), ma la sua storia certamente sì e oggi la sua rico-
Ricostruzione del castello di Valkhof a Nimega, Olanda, 1997 Concorso a inviti Progetto: Giorgio Grassi con U. Barbieri N. Dego E. Grassi S. Malcovati S. Pierini
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Pagine precedenti: 1 Veduta del modello 2 Planimetria 3 Fronte ovest e sezione sul corpo principale 4 Fronte est e sezione sulla corte chiusa 5 Pianta piano terra 6 Pianta piano tipo Pagine successive: 7 Fronte sud 8 Veduta del modello
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struzione, per così dire, lo esige. La nuova condizione di necessità del castello di Valkhof, non è forse proprio anche il nuovo ruolo che lo aspetta, la sua nuova relazione con la città? Il Valkhof come Residenza, come grande storico palazzo aperto alla città attraverso i suoi nuovi giardini. Il parco ottocentesco Si è detto dell’incompatibilità parco/ castello, escluso quest’ultimo e ridotto a innocua, pittoresca rovina. Ma, come il castello, anche il vecchio parco appartiene ormai definitivamente alla città, alla sua memoria, e sarebbe una violenza altrettanto gratuita quella di escluderlo a sua volta. Col nostro progetto abbiamo voluto anzitutto rimediare a questa assurda, storica contrapposizione. Abbiamo voluto aggiungere alla forma del vecchio castello quegli elementi architettonici che ne favoriscono, ed esprimono, la relazione col parco, i loggiati, il portico, i giardini pensili, ecc. e anche la nuova destinazione come palazzo ad uso pubblico aperto alla città: la forma del castello adeguata al nuovo compito e il vecchio parco come elemento complementare, anzi come elemento necessario stavolta, del castello. Il centro manifestazioni nel sottosuolo del Valkhof Un’analoga questione d’incompatibilità si pone col nuovo programma delle funzioni ed è relativa alla compresenza di due fatti di valore e anche di dimensioni molto diversi: il castello ricostruito e il centro per grandi manifestazioni previsto nel sottosuolo. Nel nostro progetto abbiamo cercato di perseguire il più possibile, insieme all’unità architettonico/costruttiva di queste due parti, anche la loro compatibilità, per così dire, tipologica. Nel progetto l’edificio del castello inizia nel sottosuolo, in un vasto spazio ipogeo, il cui modello architettonico sono le grandi cisterne romane e medioevali (la Piscina Mirabile di Baia ad esempio) e la sua pianta cruciforme si adatta con coerenza costruttiva alla struttura sottostante, fino a fare delle due parti così vistosamente diverse un insieme unitario e plausibile sul piano tipologico: un castello con i suoi vasti e profondi sotterranei. L’architettura del Valkhof La forma del castello ricostruita in base a una notevole documentazione e a rilievi attendibili, impostata nel luogo
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preciso in cui si trovava grazie alle rovine esistenti e alle tracce di fondazioni sopravvissute. Un nuovo complesso edilizio che orgogliosamente ripete i suoi segnali di riconoscimento, le mura e le torri circolari, la grande torre maestra e l’edificio principale a forma di croce con i corpi minori quasi incorporati alle mura. Poi i pochi elementi dell’austero linguaggio dell’architettura del Valkhof: i corpi edilizi tutti indistintamente conclusi in alto dai loro Trapgevel o Tuit-gevel secondo dimensioni e importanza, i tetti aguzzi e le grandi superfici murarie interrotte solo dalle aperture delle grandi finestre crociate o di quelle più piccole a feritoia. Il tutto in mattoni rossi, com’era presumibilmente l’antica costruzione e come sono del resto le due cappelle rimaste, e i tetti dell’edificio principale rivestiti con lastre piane di zinco. E poi il corpo nuovo dei loggiati e del portico, aggiunto sui fronti sud e ovest, quelli rivolti verso il parco e la città: alto e sottile, una seconda facciata molto aperta, costruita in pietra arenaria affinché l’addizione risulti ben evidente e anche il suo scopo, che è appunto quello di rappresentare, con la trasparenza della struttura e l’uso di un materiale diverso e più prezioso, i nuovi compiti dell’edificio. Infine le mura rese percorribili come passeggiata panoramica a completamento del perimetro del parco, i vecchi cortili chiusi e i tetti piatti dei corpi minori come giardini pensili e come terrazze su cui si apre a quote diverse l’edificio del castello.
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Luis Barragán Morfin
… Mi emoziona profondamente il fatto che questo premio mi venga concesso perché si è ritenuto che il mio impegno nel campo dell’architettura sia “un atto sublime di immaginazione poetica”, secondo quanto dichiarò alla stampa il Sig. Jay A. Pritzker. In me si premiano, quindi, tutti coloro che inseguono la poesia e la bellezza. Dalla maggioranza delle pubblicazioni di architettura e dai quotidiani sono scomparse le parole bellezza, poesia, fascino, magia, sortilegio, incantesimo. Le parole, serenità, silenzio, mistero, stupefazione, incanto. Parole tutte che amo profondamente. Per questo credo che in me si premino coloro che inseguono queste parole meravigliose e la realtà che in loro si rispecchia. Non pretendo di esserci riuscito, tuttavia, questo è stato sempre l’interesse principale della mia vita. Religione e mito Non si può capire l’Arte e la sua storia senza il sentimento religioso e senza il mito di cui è provvisto il fenomeno artistico. Se così non fosse, esisterebbero le piramidi egiziane? I templi greci? Le cattedrali gotiche? Le meravigliose danze rituali di Haiti, dell’Africa, dei Mari del Sud? “Nell’arte di tutti i tempi e di tutti i popoli impera la logica irrazionale del mito”, mi disse un giorno il mio amico, Edmundo O’Gorman, e con o senza il suo permesso, ho fatto mie queste sue parole. Bellezza Mi è difficile definire quest’idea, ciò nonostante credo che tutti siano in grado di riconoscerla quando è presente. L’Uomo è alla sua ricerca da sempre.
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Dai tempi più remoti è presente. Dai tempi più remoti è presente negli ornamenti corporali, nei tatuaggi, e si sono abbellite non soltanto le dimore ed i templi ma anche gli attrezzi di lavoro e gli oggetti di uso quotidiano. Non riesco ad immaginare una vita sana e morale in cui la bellezza sia assente. Silenzio Nei miei giardini, nelle mie case, ho sempre cercato di far sì che il placido sussurro del silenzio prevalesse dappertutto. Nelle mie fontane canta il silenzio. Solitudine Nella solitudine ritroviamo noi stessi. La solitudine è la fonte della nostra ispirazione. La solitudine è una buona compagna. Serenità L’Uomo ha sempre cercato di proteggersi dall’angoscia e dal timore. Ha cercato di fare in modo che gli spazi da lui abitati siano fonte di serenità. Mediante alcuni elementi e una tavolozza di pochi colori, ne sono sempre stato alla ricerca. Sentiamo il bisogno ed è nostro dovere creare ambienti sereni. Dobbiamo far sì che tale sensazione venga diffusa e trasmessa. Allegria È indispensabile alla vita. Allorché gli uomini perdono l’allegria, ci è impossibile poter pensare che siano ancora vivi. Come si gioisce della vita nella danza, nelle fiere, nella musica, nelle risate dei bambini, nei colori dei muri, delle porte e altri elementi che formano l’ambiente delle genti e particolarmente nelle architetture popolari.
1 Fontana dell’Abbeveratoio Atizapán de Zaragoza Stato del Mexico, 1959-62 Pagine successive: 2-3-4-5 Fontana degli Amanti Atizapán de Zaragoza Stato del Mexico, 1964 6 Scuderia San Cristóbal Atizapán de Zaragoza Stato del Mexico, 1967-68
Ritengo che un lavoro sfiori la perfezione quando in solitudine si gode della sua allegria, della sua serenità e del suo silenzio. La grande architettura esprime allegria silenziosa e serena. La morte È fonte di vita. Quando le creazioni umane sopravvivono al loro artefice e permangono vive dopo la sua morte, la morte diventa vita. Giardini La natura, per quanto bella, non è giardino se non è stata addomesticata dalla mano dell’Uomo, per creare un mondo personale che gli serva di rifugio contro l’aggressione del mondo esterno. La costruzione e il piacere di un giardino fa sì che la gente si abitui alla bellezza, al suo uso istintivo e ad esserne partecipe. “L’anima dei giardini racchiude il maggior grado di serenità di cui possa disporre l’Uomo” diceva saggiamente Ferdinand Bac. Fu Ferdinand Bac che risvegliò in me l’ambizione di creare giardini. Diceva: “In questo piccolo territorio (i giardini di Les Colombièrs) non ho fatto altro che unirmi alla solidarietà millenaria a cui tutti siamo soggetti, che non è nient’altro che l’ambizione di esprimere con la materia un sentimento comune a molti uomini alla ricerca di un vincolo con la natura, creando un luogo di riposo, di piacere sereno”. I giardini devono essere poetici, misteriosi, magici, sereni e allegri. Quando mi ritrovai in un campo di lava a sud di Città del Messico, meravigliato dalla bellezza di questo paesaggio vulcanico, decisi di creare giardini che rendessero tale luogo abitabile, meraviglioso e che lo completassero. Procedevo tra crepe di lava, muri alti di roccia, per giungere, con mia sorpresa, a bellissime valli le cui forme fantastiche erano straordinariamente belle e capricciose. Ho provato una sensazione simile mentre percorrevo il tunnel, basso e scuro, che conduce al “Patio de los Mirtos”, de L’Alhambra, dove ci si immerge in una serenità sconcertante. Abbiamo la sensazione che un giardino contenga l’universo intero. Giardini di silenzio Nel 1941 creai il mio primo giardino a Città del Messico. Acquistai un terreno con vari dislivelli,
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7 Casa Gustavo R. Cristo Guadalajara Stato di Jalisco, 1929 8 Casa Ortega Colonia Tacubaya Mexico D.F., 1940-43 9 - 13 Casa studio Barrรกgan Colonia Tacubaya Mexico D.F., 1947-48
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completai ed appianai vari ripiani in modo tale da creare un giardino diviso in scompartimenti, ricordando la bellezza dei giardini e cortili di L’Alhambra e del Generalife. Fontane Una fontana ci dà pace, allegria e gradevole sensualità. Le fontane sono allegre e serene, Quando si possono considerare incantate, sono perfette. Mi ritornano in mente le bellissime fontane, le fontane della mia gioventù; gli scoli dell’acqua superflua degli sbarramenti; i depositi e gli specchi d’acqua delle tenute, i canali di irrigazione che circolano allegramente; gli acquedotti che vengono da lontano per gettarsi in uno stagno. Architettura La mia opera è autobiografica, come dice Emilio Ambasz nel libro che tratta del mio lavoro pubblicato dal Museo di Arte Moderna di New York. Si tratta dei ricordi del rancho con i cavalli, della provincia. Il mio lavoro è trasferire al mondo contemporaneo tale nostalgia. Sin dall’infanzia ho tratto piacere dall’architettura popolare: dalle pareti imbiancate a calce, dall’allegria e dall’incantesimo della pace dei cortili e dei frutteti; dal colore delle case, dagli acquedotti, dagli abbeveratoi e dai granai. Insomma, da svariati spazi costruiti con tanta bellezza e spontaneità in campagna e in provincia. Più tardi avrei apprezzato ed accettato l’influenza dell’architettura popolare delle genti dell’Africa del Nord: Marocco, Tunisia e altri. Come cattolico, ho visitato spesso conventi e chiese, ho sempre sentito benessere e pace nei chiostri e negli spazi religiosi. Di tutta questa tradizione ho voluto trasferire, rinnovandolo, il modo così bello di risolvere i problema della vita quotidiana, e poter offrire così all’essere umano una dose di “sapore” che gli dia il raccoglimento e la vita interna di cui sono sprovviste le città moderne. L’architettura è azione visiva. Dobbiamo essere in grado di guardare in modo spontaneo affinché l’analisi non prevalga in noi. Vorrei qui menzionare, a guisa di omaggio, il nome di un grande amico il cui infallibile gusto estetico ci ha guidato in varie occasioni, il pittore Jesùs Chucho Reyes Ferreira. Un grande maestro che con umiltà ed af-
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14 A Karl Lagerfeld fashion shoot in front of the Satélite Towers, Vogue, January, 1966 Pagine successive: 15 - 18 Torri del Satellite Naucalpan Stato del Mexico, 1957-58
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fetto ci insegnò a vedere. Dell’importanza di vedere, ricordo i versi del mio caro amico, il grande poeta Carlos Pellicer: Attraverso gli occhi il bene e il male giungono fino a noi occhi che non vedono niente anime che non attendono niente Bisogna ricreare e rinnovare la nostalgia, rendendola contemporanea, perché una volta che l’architettura ha soddisfatto i bisogni utilitari e funzionali, sul suo cammino vi sono altre mete da raggiungere. La bellezza e il fascino delle sue soluzioni, se vuole continuare ad essere annoverata tra le belle arti.
Attualmente, con il mio socio Raùl Ferrera e con la nostra piccola équipe, cerchiamo di svolgere il nostro lavoro sulla base dei concetti che abbiamo elencato e che condividiamo. Se nel riuscire a raggruppare nei nostri lavori alcuni di questi concetti non saremo in grado di risolvere i problemi dell’Uomo, almeno collaboreremo affinché la sua vita sia più gratificante, più bella e più sopportabile e lo aiuteremo a non cadere preda della disperazione. Grazie. Nota: Discorso pronunciato da L. Barragán in occasione del premio Pritzker consegnatogli a Washington nel 1980. (da BARRAGÁN opera completa, Logos Impex srl, Modena 1996) Foto: Fondazione Barragán Vitra Design Museum
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Sivano Zorzi
Paesaggi della ragione Eleonora Mantese
Nell’opera di Silvano Zorzi, uno dei grandi protagonisti dell’ingegneria italiana, la ricerca di un rapporto necessario e appropriato dell’opera con il luogo è stata una costante all’interno del procedimento logico che accompagnava il suo lavoro. Era una costante di natura complessa per la consuetudine a disporre simultaneamente, con molta chiarezza, sul tavolo di lavoro, il maggior numero di variabili per inquadrare un tema di progetto e arrivare a una concezione strutturale e figurativa unica per il luogo dato e il problema posto. L’opera avrebbe dovuto trasmettere, senza ostentazioni, un’idea di congruenza con il luogo senza esibizione di uno sforzo strutturale secondo l’aforisma di Jacques-François Blondel: “Tout ce qui sent l’effort fatigue l’esprit.” Per ricordare alcune variabili che entravano come componenti primarie nell’impostazione di un progetto che, come Zorzi scrive, “è sempre il frutto di un travaglio inventivo personale che coinvolge conoscenza e coscienza” certamente il senso della durata dell’opera era una preoccupazione continua. Zorzi parla di una necessità di permanenza fisica delle opere e lega la persistenza nel tempo alla qualità dei materiali, vero e proprio settore di ricerca nel suo studio, e alla necessità di costruire “a regola d’arte.” L’analisi topografica, geomorfologica e storica dei luoghi era condotta come un’esplorazione profonda delle peculiarità fisiche di ogni ambito geografico e portava a una condizione di “unicità” della scelta finale dopo aver vagliato sempre altre possibili soluzioni. L’unicità delle soluzioni era legata allo stretto rapporto con il tipo di impresa, di mae-
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stranze, di conoscenza dell’evoluzione tecnica delle macchine; il “prendersi cura” complessivo dei molteplici aspetti lo guidava verso una generale “economia dell’opera”. Descrivendo lo sviluppo del suo lavoro in una pubblicazione del 1981 che è un’avvincente esposizione sulle ragioni delle scelte dei sistemi strutturali e costruttivi, Zorzi scrive di un “unico processo logico” che impegna il progettista in modo sempre più complesso nell’assumere come fattori inscindibili lo schema strutturale, i materiali, i procedimenti esecutivi e le macchine coinvolte. La soluzione arrivava per logica conseguenza in un ragionamento ininterrotto, spesso condotto, a voce alta, con i suoi collaboratori. Conclude il testo introduttivo a un libro sui ponti e viadotti con queste parole: “…A prescindere dai successivi laboriosi sviluppi, la fase iniziale richiede esperienza, sensibilità e intuito strutturale; e poi matita, carta e un semplice regolo calcolatore”. Raramente si ripetono nel suo lavoro soluzioni uguali, essendo di volta in volta diverso l’approccio alla situazione reale, concreta in cui la ricerca dell’innovazione si innesta, avanzando, rispetto alle soluzioni precedenti, sempre esente da cifre stilistiche autoreferenziali. Anche la componente del calcolo senza dubbio attentissima e sempre più, nel tempo, accompagnata dall’esperienza e dall’intuizione è dominata dall’idea che modella la struttura e il materiale in forma resistente e lo adegua alla sua funzione, è una logica conseguenza di un procedimento costruttivo. Le sue parole descrivono con consueta, emblematica chiarezza, questo tipo
1 Silvano Zorzi con Lucio Lonardo e Enrico Faro Viadotto sul torrente Paola, Masso Santa Maria, Vercelli, 1973 Pagine successive: 2 Silvano Zorzi con Lucio Lonardo Progetto per un ponte sul Rio Guayllabamba, Ecuador, 1968 Prospettiva 3 Veduta del modello 4 Sezione longitudinale e pianta di un tratto di ponte, dettagli costruttivi 5 Planimetria generale schema di dimensionamento componenti e particolari costruttivi 6-7 Silvano Zorzi con Lucio Lonardo e Sabatino Procaccia Ponte sul torrente Sfalassà, Bagnora Calabra, 1968-72 8 Viadotto per la superstrada Porto Empedocle - Caltanisetta, 1978 9 Silvano Zorzi con Sabatino Procaccia Progetto per la regolazione delle bocche di porto di Venezia, Prospettiva bocca di Malamocco, 1976
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di preoccupazione e di interesse concreto: “…L’argomento ponti e viadotti è, per ogni progettista responsabile, uno dei più affascinanti perché trattasi di opere che, a differenza di quelle monumentali, testimoniano la civile volontà dell’uomo di programmare architetture strutturali utili allo sviluppo delle comunicazioni tra i paesi e le genti; indipendentemente da ambizioni fideistiche o magniloquenze autoritarie; non soggette a momentanei stili architettonici o mode capricciose, testimoni solo di un intrinseco rapporto tra correttezza tecnica ed espressività estetica. L’opera da realizzare deve infatti certamente essere la più funzionale ma, nel contempo, essa deve configurarsi come un armonico e durevole inserimento nell’ambiente e costituire una visione di per sé appagante. In gergo tecnico, ponti e viadotti sono chiamati ‘opere d’arte maggiori’ e, in effetti, il progettista, nell’impostarne lo studio, dovrebbe percorrere le tappe della creazione artistica. Egli perciò non deve passivamente adeguarsi alla metodologia del momento; piuttosto deve anticiparne gli sviluppi, essere il protagonista delle innovazioni. Di conseguenza, in virtù del progresso tecnologico, oltre che cono-
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scere a fondo i problemi statici e le loro implicazioni matematiche, egli deve anche disporre di mentalità imprenditoriale, determinare i procedimenti costruttivi, conoscere le macchine coinvolte, sapere come sfruttarle nelle diversificate esigenze, essere in grado di preventivare costi e tempi dell’opera.” Da un’impostazione di questo tipo derivano, necessariamente, forme e sistemi strutturali e costruttivi diversi a seconda dell’insieme dei dati di partenza rispetto al luogo. Come ricorda Eduardo Torroja “ogni valle trova il ponte che le si addice, il tecnico deve trovare la soluzione al caso specifico, come si fa per un anello da infilare al dito.” Nel breve spazio di queste note e rispetto al tema specifico della costruzione del paesaggio il progetto del 1968 per un ponte sul fiume Guayllabamba, in Ecuador, assume un valore iconografico esemplare. Il paesaggio gli sta di fronte a una distanza che diventa fonte di obiettività: una valle molto profonda con una pendenza molto accentuata dei versanti comportava la necessità di un attraversamento a una quota tale da portare la sua lunghezza a 360 metri.
Zorzi con Lucio Lonardo esamina vantaggi e svantaggi di molte possibili soluzioni che vengono di volta in volta scartate per gli elevati costi e la complicazione costruttiva. L’obiettivo è di trovare una soluzione che non turbi il paesaggio con pile che richiedano tagli sui versanti e contemporaneamente raggiunga il massimo di economia e di razionalità nell’esecuzione. La soluzione finale si configura in una tensostruttura in cemento armato precompresso di sezione molto sottile: un nastro di cemento armato precompresso di 10.50 metri di larghezza con uno spessore di 30 centimetri aumentato a 50 in corrispondenza dei cordoli, di 300 metri di lunghezza tra gli appoggi. Zorzi studia le pendenze di imbocco e di uscita in modo tale che chi si accinge ad attraversare il ponte percepisca un gioco di prospettive che renda consapevoli della leggerezza della struttura. Ciò che è di particolare interesse, oltre all’immagine di un’essenzialità condotta al limite, tema ricorrente nel lavoro di Silvano Zorzi, è il tipo di procedimento costruttivo unito alla previsione delle diverse fasi di cantiere che fanno del ponte un organismo modellato e sagomato durante la costruzione attraverso sollecitazioni che
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saranno quelle massime nella sua vita futura. È un cantiere organizzato intorno alla vita del ponte che ha un tempo di nascita e uno di assestamento. È chiaro che questo progetto, non realizzato, viene assunto qui come esempio paradigmatico della sua ricerca rispetto alle condizioni di luogo; a fronte di una situazione geomorfologica particolarmente complessa reagisce con una figura che tende al limite. In realtà il suo lavoro è connotato da una mole di opere costruite che lui stesso riordina, con molta stringatezza, secondo i processi costruttivi; leggendo le relazioni che accompagnano le opere ricorre sempre una strategia per configurare il progetto e il punto di partenza è sempre il luogo, la sua conoscenza fisica, materiale, percettiva: è del luogo che Zorzi si impossessa, innanzitutto, per trasformare la natura in un paesaggio della ragione attraverso le sue straordinarie invenzioni costruttive. Dramatis personae Per l’amicizia che ha legato la mia famiglia a Silvano e Alessandra Zorzi e ai fratelli Ceti e Francesca nell’arco di tutta la vita, molti ricordi si affacciano scrivendo queste brevi note, alcuni strettamente legati al suo modo di lavorare, di viaggiare, di vivere. Nel suo divertito ripetere alcune condizioni di vita passata, accennava spesso alla sua formazione classica, con qualche intenzionalità pedagogica nei riguardi di noi, allora, ragazzi; parlava della consuetudine alla traduzione dal greco al latino e viceversa e all’importanza e al piacere della conoscenza di molte lingue. Una giovinezza impregnata di studi umanistici ha influito moltissimo nell’impostazione logica del suo lavoro; diceva che avrebbe seguito studi di filosofia se non fosse stato per l’incontro con Gustavo Colonnetti in Svizzera. Vittorio Gregotti ci ricorda che in Inghilterra all’ingegnere era attribuita la denominazione di Philosopher nel senso di chi affronta la specificità del proprio sapere con il senso di responsabilità di ricoprire un ruolo eminente nella condizione storico- sociale. E Silvano Zorzi ha sempre vissuto storicamente e socialmente; era molto consapevole della responsabilità e del valore della professione nel suo accalorarsi per alcune condizioni politiche e sociali difficili del nostro paese, per alcune scelte che riteneva sbagliate, improprie, miopi. Parlava sempre con molto orgoglio della qualità del lavoro dei suoi studi di Mi-
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lano, Roma, Venezia a cui nel tempo si affiancavano altri, nel mondo, e della professionalità e dell’impegno dei suoi collaboratori. Il suo lavoro ha percorso l’evoluzione della tecnica nel nostro paese dagli anni cinquanta agli anni novanta e in questo viaggio costruttivo dal nord al sud del paese si rintracciano i principali temi che hanno costruito il paesaggio italiano. Ricordo con quanto incoraggiamento volesse indirizzarmi per la tesi di laurea che avrebbe seguito personalmente a una ricerca sul tema delle infrastrutture, in Italia, in una comparazione con il resto del mondo; questo tema, oggi così attuale nelle facoltà di architettura era impensabile nel 1975. Accadeva spesso che la lungimiranza fosse per lui anche motivo di dispiaceri e di amarezza; lo ricorda Giorgio Macchi con un particolare riferimento alla mancata attuazione, nel 1957, della prima soluzione proposta per il ponte sul Po a Mortizza. C’era una passione sociale, etica, politica nel mettere a fuoco i diversi temi e alcuni a cui aveva lavorato e che lo appassionavano particolarmente sono oggi di straordinaria attualità, quali le soluzioni per le bocche di porto a Venezia e le riflessioni sul ponte sullo stretto di Messina; anche qui la preoccupazione verso l’ambiente e il paesaggio, unita a considerazioni tecniche e critiche, era particolarmente forte. Ho un ricordo intenso, in un viaggio negli Stati Uniti con Silvano e Alessandra di una visita al museo della Nasa. Lui conosceva molto dello sbarco sulla luna, ci spiegava ogni dettaglio con un’animosità particolare: avevamo la netta impressione che avrebbe lavorato molto volentieri in nuovi spazi, che stesse pensando a che cosa avrebbe potuto fare sulla luna. Contemporaneamente, insisteva molto, negli ultimi tempi, su qualche cosa che sarebbe stato più di un desiderio, ritornare a costruire ponti in pietra, ancora per un’idea di permanenza nel tempo e contro il prevalere di standardizzazioni macchinistiche che appiattivano una vera ricerca innovativa. A fronte della complessità crescente dei problemi richiamava spesso un concetto di libertà come sinonimo di conoscenza, un invito ad affrontare i temi ineludibili delle singole specializzazioni solo con chi possedesse una conoscenza più generale. Nel ricordarlo a dieci anni dalla scomparsa, sentendo fortemente la mancan-
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za della sua indipendenza intellettuale e della sua grande umanità, possiamo constatare quanto lo spessore di un pensiero profondo accentui la sua validità travalicando contingenze temporali. Silvano Zorzi conclude il suo libro Ponti e viadotti con queste parole: “Oggi, anno 1980, in un periodo di rallentamento dello sviluppo e di ripensamento, il momento di un generale bilancio cade opportuno, sotto molteplici aspetti, su quanto è stato fatto e sul da farsi. Si è costruito molto, spesso si è costruito male. È ormai scaduta l’ipotesi consumistica che ponti, viadotti, strade urbane, sovrappassi debbano essere programmati come “strumenti per la viabilità”, a tempi di ammortamento brevi. Essi, al contrario devono essere previsti come inserimenti permanenti nell’ambiente. Mancano gli spazi per altre diverse future collocazioni; si riducono le fonti delle materie prime e scarseggiano quelle energetiche per la trasformazione; il costo del lavoro in costante aumento, anche se solo riferito a quello dei materiali,
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impone la più accorta impostazione e progettazione. Le opere devono risultare durature, come facenti parte dello stesso contesto naturale; possibilmente senza congegni meccanici artificiosi, necessitanti costante manutenzione: più ci si affida a questi, più si deve paventare l’incuria e il guasto del tempo; meglio valersi di schemi strutturali autonomi, che sfruttino le intrinseche caratteristiche elastoplastiche dei materiali componenti. Si è visto che l’impiego delle macchine ha prepotentemente sostituito l’opera dell’artigiano, la cui sapienza sta scomparendo; in una società in rapida evoluzione il processo pare irreversibile, ma c’è il rischio che, in funzione del reimpiego dei macchinari, vengano a volte riproposti schemi strutturali inadatti o sproporzionati, oppure inserimenti inadeguati. Mi auguro che, in una società più riflessiva, sia ancora possibile il recupero dell’antica esperienza e anche, a volte, il ritorno a forme più armoniose, meno drammaticamente esasperate dalle esigenze funzionali delle macchine operatrici. Il travaglio della scelta circa l’ottimale
soluzione dipende, caso per caso, da diversificati e contrastanti fattori che comportano, per ogni progettista responsabile, un percorso obbligato sempre più faticoso, da intraprendere, senza schematizzazioni aprioristiche, con umiltà ed entusiasmo creativo, avendo a cuore l’espressione essenziale della struttura e la sua corretta esecuzione. In clima di grande competitività e a fronte di committenti per lo più distratti, egli si troverà purtroppo sovente solo.”
Per un approfondimento sull’opera e il pensiero di Silvano Zorzi si rimanda in particolare a: Silvano Zorzi, Ponti e viadotti, De Luca ed., Roma 1981, in occasione della Mostra Al Museo di Castelvecchio, genn-febb 1981 coordinata da Licisco Magagnato, curata da Arrigo Rudi e da Massimina Lauriola per la IN.CO Angelo Villa, Ermes Martinelli, a cura di, Silvano Zorzi ingegnere 1950-1990, Electa ed., Milano 1995, in occasione della mostra “Silvano Zorzi. La difficile semplicità”, Palazzo dei Trecento, Treviso, 1995, curata da Toni Follina e Eleonora Mantese Stefania Casucci, Stefania Lincetto, Silvano Zorzi e i suoi ponti, biblioteca di Galileo, collana diretta da Enzo Siviero, Padova 1995 Massimina Lauriola, a cura di, Realizzazioni IN.CO, Fortuna ed., Milano 1981 Filmato La strada di Silvano Zorzi, diretto da Francesco Villa e A. Dall’Olio, 1995
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Ma da una ferita è scaturita la bellezza1 Alberto Breschi
La giornata, come in genere lo sono quelle invernali in cui domina l’alta pressione, era bellissima. Arrivammo a Città di Castello dopo un breve viaggio per lo più immersi nella nebbia e soltanto nella sosta d’obbligo a Monterchi, per vedere la Madonna del Parto di Piero della Francesca, gli studenti si erano ripresi dal torpore che li aveva fino ad allora ammutoliti. Non sono sicuro se a causare questo risveglio sia stata la folgorante e altera bellezza di quel volto rinascimentale tratteggiato con una ineguagliabile perfezione, oppure il sole che, inaspettatamente, aveva spazzato via la densa coltre di nebbia e ci aveva rivelato le linee ondulate e spezzate e i colori ora lievi e ora intensi dello splendido paesaggio rurale dell’alta valle tiberina. Di fronte a quella giovane donna prelevata da una delle tante corti rinascimentali a cui lo stato goffo e orgoglioso di gestante niente toglieva alla solennità della figura, ognuno di noi aveva avvertito una sorta di inquietudine. Un disorientamento che la pittura di Piero produce spesso nello spettatore perché, come efficacemente ci avverte Longhi, se anche è perfetta sintesi prospettica di forma-colore, è spesso drammaticamente priva di ogni trascendenza, se non di sentimenti. Reso ancor più drammatico da una totale assenza di movimento “il pittore toscano non dipinge un sorriso labile o un pudore fugace, non dipinge rimpianto o attesa, ma rilievo di ossa e calore di sangue”.2 Questo è un volto di carne a cui non è possibile scorgere un destino, una speranza se non quella della condizione umana reclusa nella propria esistenza terrena.
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La discussione che era seguita dopo la visita non era stata allora particolarmente interessante ed era parso troppo arduo, in quelle ore assonnate di prima mattina, avventurarsi in una lettura di Piero della Francesca che andasse oltre le notazioni della storia dell’arte, troppo difficile trovare le connessioni con Leon Battista Alberti, l’architettura e le sue tematiche. Si era parlato per lo più delle modalità espositive del dipinto e su questo argomento tutti avevano concordato sul fatto che il luogo prescelto dal Comune, dopo la rimozione dalla piccola cappella del Cimitero, e individuato in via provvisoria in un’anonima scuola elementare degli anni ’60 modestamente riadattata, non fosse certamente all’altezza del compito. Non lo era per la collocazione urbanistica perché marginale al nucleo più antico e carente di un’area di parcheggio adeguata; non lo era per l’impianto funzionale banalizzato da una successione di stanze anonime senza neppure quei servizi complementari - informazioni, book shop, audiovisivi,…- ormai indispensabili per ogni spazio espositivo; non lo era, soprattutto, per la qualità dell’architettura, perché i modesti interventi di ristrutturazione non riuscivano a riscattarne l’originaria matrice di edilizia scolastica corrente da manuale. Per non incorrere nel facile e scontato atteggiamento polemico nei confronti dell’incompetenza e dell’incapacità dell’Amministrazione ad assumere una maggiore e responsabile operatività, mi ero dilungato nel descrivere e commentare alcuni interessanti progetti commissionati dal Comune di Monterchi, ben sapendo che a quei progetti, ancora una
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volta, non era stato dato alcun conseguente e concreto esito operativo.3 A città di Castello ci aveva accolto un freddo pungente e una luce tersa e vivissima che metteva ancor più in risalto i contorni, le ruvidezze e i contrasti di una città e di una popolazione che sono espressione di quell’“Umbria remota delle stimmate e dei sudari, delle veroniche e dei raffinati paliotti popolari,”4 in cui vanno ricercate le radici più profonde della poetica di Burri. Poiché eravamo un po’ in anticipo sull’apertura del Museo, approfittammo per una breve visita a questo piccolo centro che i raffinati e colti signori del Castello, i Vitelli, rinnovarono completamente dalla seconda metà del cinquecento, ristrutturando il borgo medievale murato con criteri rinascimentali, allargando e dando respiro a strade e piazze e inserendo in ogni quartiere splendidi palazzi di famiglia riccamente decorati. L’eccessivo numero degli studenti ci costrinse a dividere il gruppo in due parti ed io mi trovai a iniziare la visita all’opera di Burri a ritroso nel tempo: partendo dall’Essiccatoio con la produzione dell’ultimo periodo e proseguendo successivamente in palazzo Albizzini dove è raccolta in un percorso antologico tutta la produzione a partire dagli anni del dopoguerra. Fu questo un ottimo espediente per entrare subito in argomento con ciò che più mi premeva: l’esperienza artistica, le contaminazioni e le analogie con l’architettura, i suoi materiali e le tematiche sul costruito e le sue trasformazioni. Il collegamento è certamente irto di pericolose suggestioni formalistiche ma è oltremodo efficace per fornire argomenti di riflessione nella costruzione di quel pensiero progettuale che rischia di essere compromesso dal dilagare di immagini di architetture che le riviste specializzate e Internet ci riversano quotidianamente e che i giovani studenti acquisiscono a modello senza una vera presa di coscienza. Atteggiamento spesso provinciale che tende a far assumere acriticamente, senza comprenderne appieno i moventi con la sola esibizionistica preoccupazione di apparire aggiornato e moderno, i linguaggi e i comportamenti della sperimentazione architettonica più avanzata e innovativa, con soluzioni continuamente fuori luogo e in fin dei conti incapaci di rappresentare un’istanza di reale modernità. Una consuetudine e un apprendimento che finisce per produrre un rassegnato distacco verso l’architet-
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tura e quel disincanto carico di pessimismo verso il mestiere che sembra essere il tratto più evidente della personalità delle nuove generazioni. Entrando negli Essiccatoi il rapporto tra l’espressione artistica e l’architettura è così intrinseco ed immediato che non ci fu bisogno di alcuna premessa esplicativa. Ci trovammo immersi in un luogo che rendeva superfluo ogni sottolineatura, tanto era evidente l’integrazione tra le opere ed il suo contenuto. Il brusio, a volte divertito e distratto che sempre accompagna una visita didattica, cessò di colpo . Ognuno diventò immediatamente partecipe di quell’evento. Una stupefacente serie di quadri su una scala gigantesca, i Cellotex erano di fronte a noi, si fondevano con quel contesto e ne stabilivano un legame inscindibile. Come attori di una rappresentazione arcaica, riuscivano a stabilire con noi muti e sorpresi spettatori uno straordinario coinvolgimento emotivo. Un’architettura del silenzio, resa ancora più vibrante dal freddo intenso che richiamava alla memoria i grandiosi spazi ipogei e più monumentale dall’essenzialità della struttura e dalla semplicità delle finiture.
Due soli colori, il grigio del pavimento in cemento industriale e il nero o il bianco delle pareti definivano uno spazio immenso di luogo senza tempo, un luogo sacrale senza icone religiose, animato soltanto da queste misteriose olimpiche presenze con cui Burri seppe mirabilmente esprimere il suo distacco, in questo spazio grande come la scena del mondo, da “un mondo sempre più confuso, più intollerante e più legato a problemi avulsi dalla realtà degli avvenimenti”.5 Alcune riflessioni che durante il corso avevo cercato di trasmettere agli studenti e di cui, in fondo, dubitavo che venissero realmente assimilate - ... “Riconquistando appieno la sua realtà contingente il luogo si carica di quelle qualità di orientamento, scala, luce, atmosfera, che si determinano per l’inte-
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razione dello spazio dato e dell’architettura con la soggettività dello spettatore…-6 in quel momento ero sicuro che sarebbero state comprese, perché il luogo riusciva a trasmettere un’emozione che nessuna parola poteva efficacemente descrivere. I quadri appesi alle pareti erano impressionanti per dimensione e impatto visivo. Evocavano quell’emotività misteriosa che trasfigurava il dipinto in un oggetto più da meditare che da assaporare piacevolmente. Si avvertiva chiaramente che erano il risultato di un’indagine perseguita attraverso un estremo rigore e una assoluta semplicità cromatica ed essenzialità compositiva. La sequenza con cui l’artista li aveva collocati e ordinati ci faceva comprendere con grande immediatezza il senso delle relazioni che venivano ad instaurarsi reciprocamente e con l’ambiente. Dovendo ricorrere ad una metafora, essi rappresentavano una sinfonia, un’opera composita dove ogni pezzo era collocato in sequenza e concorreva alla creazione di un unicum. Si veniva così a formare uno spazio nuovo, inscindibile, tra l’opera e l’ambiente. Uno spazio che non esprimeva dinamiche, né movimento, ma solo l’estremo silenzio delle profondità inesplorate della ragione e di un ordine superiore. Una atmosfera non terrena, immateriale sublimata dal colore e dalla luce. Ne è peraltro testimonianza il recente vincolo del Ministero dei beni ambientali a tutelare non solo le opere ma anche l’edificio che le contiene, gli Essiccatoi. Il riferimento alla dimensione spaziale, in un campo dove si fa più stretta la relazione con l’architettura, era già stato affrontato da Burri con il periodo dei Cretti e si era concretizzato in quella surreale operazione di land art a Gibellina. Una distesa di cemento bianco con le dimensioni di un quadrilatero dalla forma irregolare di circa 300 x 400 si dispiega dolcemente sul crinale della montagna ed è ben visibile anche da chi pro-
viene dalle altre località della valle del Belice. Avvicinandosi ulteriormente se ne coglie la particolare conformazione a blocchi dalle dimensioni variabili da 10 a 20 metri separati tra loro da profonde fenditure di 1,60 di profondità e 2, 3 metri di larghezza, percorribili a piedi. Ma il grande cretto di Gibellina è qualcosa di più di un’opera ambientale dalle dimensioni inusuali, è anche un immenso e terribile sacrario perché sorge sugli stessi luoghi dove un violento terremoto distrusse, nel lontano 1968, l’intero abitato di Gibellina. Sovrapponendosi a quelle rovine che non fu possibile né ricostruire, né rimuovere, questa gigantesca distesa di materia rievoca i terribili momenti della distruzione in cui tutto si è frantumato, immortala le sofferenze dei suoi abitanti e al tempo stesso, con la sua struttura, recupera la memoria dell’antico tracciato viario, con gli isolati e le piccole strade interne. Percorrendo quelle tracce è come immergersi in un sudario, se ne percepisce il senso di morte reso ancora più intenso dal singolare contrasto che l’opera crea con l’ambiente circostante, aspro soltanto a tratti, ma per lo più misurato e rassicurante per l’ordinata coltivatazioni dei vigneti lungo i pendii delle colline. I cretti rimandano alla materia, pur non essendo materia nel senso tradizionale. Richiamano alla mente aride distese assolate e terreni riarsi senza vita in cui una sorta di trama sottile, chiara e ordinata nella sua razionalità, ne ha tracciato e disegnato lo schema compositivo: dalla grande alla piccola scala. In una trama infinita di spaccature la luce è intrappolata e mette in equilibrio i vuoti con i pieni che hanno percettivamente il sopravvento sulla consistenza e natura della materia. Sono una materia ambigua, non naturale né totalmente artificiale, il cui ”valore dell’organico è tutt’uno con il geometrico, come se la nuova esistenza della materia spontaneamente si organizzasse secondo i ritmi profondi, gli appelli più
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semplici e persuasivi della ragione”.7 Questi paesaggi ci chiariscano i termini di una delle tematiche più affascinanti della ricerca architettonica contemporanea: natura e architettura che si fondono insieme in un rimando continuo, natura che si fa architettura, architettura che diventa natura. Quella che è stata definita una nuova ecologia architettonica, - i progetti di alcuni contemporanei, dai Foreign Office ad Eisenman e Miralles, solo per citarne alcuni che hanno caratterizzato l’ultima Biennale di Venezia sul tema della Metamorfosi8 - la scommessa cioè di trasformare la natura in architettura e viceversa, credo che abbia proprio nei cretti un precedente molto significativo. Anche se l’esempio che mi venne spontaneo di portare all’attenzione per un confronto non era di un architetto ma di un altro grande protagonista della scena artistica del periodo informale: Arnaldo Pomodoro. Con il progetto per il cimitero di Urbino l’artista era riuscito a fornire una sorprendente invenzione tipologica richiamando, con quella lacerazione alla terra, mitiche architetture arcaiche di grande suggestione formale. Il segno tracciato da Pomodoro sulla collina urbinate è anch’esso un intervento di land art, come i segni nel deserto di De Maria, gli argini di Smithson, gli scavi di Heizer, le trincee di Oppenheim, ma è anche un bellissimo esempio di architettura, “un’occasione per imparare a fare del nuovo, per sentire l’orgoglio e la capacità, proprio in termini democratici e culturali, di saper fare del nuovo.”9 I cellotex e i cretti rappresentano l’ultima e straordinaria evoluzione della ricerca estetica di Burri, ma anche tornando indietro nel tempo, all’incessante irrequieta sperimentazione sulle materie più disparate fin dai primi anni del dopoguerra, troviamo utili analogie e fecondi argomenti di riflessione in relazione all’architettura. È preziosa a questo riguardo la visita al palazzo Abissini dove lo stesso Burri ha personalmente curato la disposizione delle opere secondo un istruttivo percorso cronologico. In tutta la precedente produzione è infatti costantemente presente un tratto significativo e caratteristico della sua ricerca che, qualunque fosse la materia trattata, si è sempre svolta costantemente tra i due versanti, integrati e distinti contemporaneamente, rappresentati l’uno da un’attenzione alle materie prelevate dalla realtà e assimilate alla superficie del quadro e l’altro da un ordine geo-
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metrico e strutturale che ordisce e compone l’immagine. “ La geometria e la materia dei quadri di Burri, pur essendo legate da una relazione tesa e profonda, non si risolvono l’una nell’altra e rimangono sempre distinte e separate, negando a chi guarda sia l’orrore di vedere la geometria sopraffatta e travolta dalla materia, sia il sollievo di veder la materia inquadrarsi, rarefarsi nella struttura geometrica: la presenza della materia contraddice e distrugge lo spazio, così come la presenza della geometria contraddice e distrugge il tempo.”10 Ed è proprio questo rapporto tra l’organico e il geometrico, questo nuovo significato che la materia assume quando quasi spontaneamente si organizza secondo una sorta di geometria nascente, sta a testimoniare che “non è la pittura a fingere la realtà, ma la realtà a fingere la pittura”11 e il suggerimento alla costruzione del progetto d’architettura è in tal senso straordinario: guardare alle materie architettoniche che ci circondano – e in particolare a quelle più modeste e degradate - come ad un mondo in divenire il cui disegno, già tracciato al loro interno, occorre far emergere con una trasmutazione che si attua nel pensiero dove la realtà è immaginata cioè creata. Le materie che Burri sceglie sono per lo più i resti di cose che hanno avuto una storia. I sacchi, i legni e i ferri, che l’artista usa e struttura con bruciature, lacerazioni, rattoppi e balenanti inserti di colore rosso o nero testimoniano con la loro natura la vita degli uomini, le loro esistenze, il senso della vita che scorre e la memoria che stringe un rapporto inscindibile con il passato. Bergson ha detto che la materia è memoria e in queste materie che ci parlano della corruttibilità del tempo entra il gesto dell’uomo, il suo pensiero, “questo granello accidentale che può cambiare il corso della natura”.12 È un insegnamento prezioso non solo per gli architetti ma per tutti coloro che sono chiamati a confrontarsi con un costruito, ovvero con la necessità di provocare una trasformazione dell’esistente. Una nuova sensibilità che ci dispone in modo più partecipe e ci aiuta a trovare in questo contesto, la sua intrinseca natura e la sua storia ovvero le matrici di una possibile trasformazione. Gli intonaci lacerati e segnati dalle vicende umane, i metalli che la ruggine e il tempo hanno corroso, i marmi e le pietre logorate dalle impronte di una umanità spesso dolente, i legni deumidificati gri-
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Pagine precedenti: 1 Interno degli ex essiccatoi di tabacco a Città di Castello 2 Frank Gehry, Steven Holl, Jean Nouvel, Philip Stark interni 3-4 Alberto Burri serie di “Cellotex” e “Plastiche” 5-6 Alberto Burri serie di “Sacchi” e “Ferri” 7 Peter Eisenmann Foreigne Office of Architecture, OBDC progetti presentati a “Metamorph” IX Mostra Internazionale Architettura di Venezia, 2004 8 Arnaldo Pomodoro Cimitero di Urbino particolari del modello Pagine successive: 9 Alberto Burri veduta del “Cretto di Gibellina” foto di Giovanni Chiaramonte
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gi come foreste pietrificate, consunti e bruciati, le stoffe lacerate e strappate che mostrano le trame delle macchine che le hanno generate, perfino i frammenti di oggetti che a fatica la mente ricostruisce nella memoria, entrano definitivamente in una dimensione estetica che è ormai parte integrante anche della cultura architettonica più aggiornata. Mi vengono in mente gli interni di J. Nouvel per il “Bordeaux Hotel” con i rivestimenti e gli intonaci originari del vecchio decrepito albergo e le pareti e gli ingranaggi dell’antico teatro del “Triatrix“di P. Stark a Madrid, integrati perfettamente in nuova e coraggiosa architettura, o, addirittura, progetti più sorprendenti come la “Texas House” di Steven Holl o la “Doreen Residence” di Frank Gerhy. Ma la realtà del mondo ci parla non solo di materie naturali, vissute con una loro genesi ed una storia, ci parla anche di materie artificiali, i catrami e le plastiche, che non hanno mai avuto una forma e che rappresentano metaforicamente il segno più degradato dello sviluppo industriale. Su queste l’operazione di Burri, uscito da un lungo periodo di stasi dovuto all’immobilità della malattia, è ancora più sconvolgente. Questa nuovo campo di indagine è il prodotto di un processo industriale massificato irrazionale e dilagante. Su questo scenario si volge lo sguardo dell’artista, non solo critico ma comunque pervaso da un’inesauribile energia d’invenzione e costruzione. Questa nuova materia, bianca o nera, trasparente, sgradevolmente appannata o dimessamente lucente non può essere trattata con una cucitura o uno strappo. La composizione in questo caso è affidata ad un mezzo diverso dalla manualità quasi rituale con cui aveva operato in precedenza. Per la sua consistenza molecolare solo il fuoco può aggredirla, solo la fiamma ossidrica può dipingerla. Tuttavia l’operazione non è mai casuale, il fuoco non distrugge ma, sotto il controllo attento e partecipe dell’artista, crea con questa materia, la più insignificante e anonima, combustioni, pieghe e crateri che si aprono su fondi neri e lucidi a comporre nuovi e grandiosi territori. L’artista attua in sostanza la più antica delle metamorfosi: trasforma la materia più umile in oro con la magia dell’alchimia. Questo è un processo che potrebbe investire anche l’architettura se rapporteremo quelle materie artificiali alle materie dei contesti informi delle aree metropolitane e periferiche. Sono un labirinto della città per dirla con
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Rella, un luogo di smarrimento ma anche di scoperta: uno spazio fatto di frammenti disomogenei, di realtà incompiute e di degradazioni, che non possono essere chiuse in uno sguardo; se il nostro contesto è pertanto quello reale, composto da monumenti e pregevoli nuclei storici ma anche e soprattutto da vuoti urbani e anonimi casermoni, da manufatti e infrastrutture tecnologiche, da viadotti e raccordi autostradali, da relitti industriali e attrezzature dimesse, da esso dobbiamo trarre il massimo delle iterazioni possibili. E pare particolarmente efficace l’analogia con le operazioni artistiche di Burri da cui potremo derivare un più costruttivo rapporto con il contesto e in architettura, rinnovare soluzioni formali di un nuovo fondamentalismo materico di assolutezza espressiva. Materia e forma questi due termini che non solo il pensiero figurativo, ma anche quello architettonico, vuole divisi, torneranno di fatto a coincidere. Come quando in un dipinto figurativo i tagli e le cesure aprono squarci di cielo dobbiamo disporsi di fronte al progetto con analogo e partecipe atteggiamento; il risolversi dell’informe nella forma per un architetto significa, come già ci aveva insegnato Alberto Burri, accogliere i più insignificanti frammenti del panorama quotidiano, accettarli nella loro banalità e trasformarli in una forma, una dignità figurativa, un “ordine che congiunge la forma umana ad una realtà più alta, quella dello spirito”.13
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James Johnson Sweeney, Alberto Burri, Catalogo della VII Quadriennale Nazionale d’Arte, Roma, Novembre 1955 – Aprile 1956 2 Oreste del Buono, Piero della Francesca, Rizzoli editore, Milano, 1967 3 Arch. Paolo Zermani: nuovo museo per la Madonna del Parto, Arch. Gino Tavernelli: ampliamento del cimitero di Monterchi 4 Francesco Arcangeli, presentazione alla Mostra “Opere di Alberto Burri” Galleria La Loggia, Bologna: 22 Ottobre – 1 Novembre 1957 5 Bruno Matura, Presentazione al Catalogo della Mostra “Alberto Burri”, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma: 15 Gennaio – 14 Marzo 1976 6 Dalla relazione della Tesi di Laurea di Nicola Faini e Renata Sicilia, Soundscape: spazi e attrezzature per attività musicali - A.A 1989-90, Relatore: prof. Alberto Breschi, correlatore: arch. R. M. Ansari 7 Giulio Carlo Argan, Salvezza e caduta dell’arte moderna, Milano, 1964 8 Metamorph Trajectories – 9° Mostra internazionale di Architettura, Venezia 2004 9 Paolo Volponi in Il cimitero sepolto, Feltrinelli ed., Milano, 1982 10 Giulio Carlo Argan, op. cit. 11 Giulio Carlo Argan, op. cit. 12 Maurizio Fagiolo, Rapporto 60 - Le arti oggi in Italia, Roma, 1966 13 James Johnson Sweeney, op. cit.
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Ogni uomo è un’isola Curzio Malaparte brani scelti da Gianni Pettena
Gli scritti malapartiani qui presentati, molti dei quali inediti o poco conosciuti, sono stati selezionati con l’intento di mettere in luce sia alcune delle tematiche che stanno alla base della genesi concettuale della casa di Capo Massullo a Capri, sia quanto la vita e l’opera dello scrittore di questa abbiano partecipato. Senza pretendere in alcun modo di ‘catalogare’ l’opera di Malaparte in base a argomenti o soggetti - impresa d’altra parte quasi impossibile in un autore tanto prolifico e di tale complessità e ampiezza di riferimenti - i brani, le poesie, le pagine di diario, le lettere e le estrapolazioni da testi di volumi o di raccolte sono stati suddivisi, per ordinare e agevolare la lettura, in tre gruppi, dei quali i primi due introducono, in modo diverso, al tema centrale della ‘casa come me’ e del contesto naturale in cui lo scrittore scelse di collocarla. Gli scritti raccolti sotto il titolo L’isola illustrano esperienze, ricordi e impressioni legati sia agli anni del confino a Lipari e Ischia, sia a quelli successivi della vita a Capri. “Ogni uomo è un’isola”, scrive Malaparte, e se inizialmente ciò può derivare da un’idea di costrizione obbligata, di prigione imposta, lentamente l’idea di ‘isola’ si trasforma in una visione di serena e composta libertà che si esprime nell’osservazione della natura e della classicità mediterranea o nel racconto, a volte disincantato e ironico, del mondo caprese. L’isola finisce dunque per rappresentare, per Malaparte, proprio questa idea di raggiunta libertà, che si traduce nella scelta di isolamento nella casa quasi inaccessibile a picco sul mare. Per Idee di architettura sono stati scelti brani, corsivi e osservazioni che da un lato dimostrano come Malaparte fosse attento al mondo della cultura contem-
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poranea anche in questo campo, ma che soprattutto illustrano quale fosse la ‘sua’ idea di architettura, il suo modo di guardare al contesto abitato dall’uomo. Uno sguardo, certo, di poeta, rivolto, più che a ciò che l’uomo ha creato, all’osservazione del rapporto tra natura e costruito così come viene a determinarsi nella storia, creato dai sentimenti e dalle vicende umane. Architettura è per lui un ‘palazzo di acqua e di foglie’ o una ‘città di pane’, una strada di Napoli o di Prato, o i pini marittimi che inquadrano una casa di pescatori. Non si sono riportati i brani che esprimono opinioni ‘ufficiali’ sull’architettura di regime, ma si è inteso piuttosto illustrare quel sentire poetico che per Malaparte legava l’architettura alla vita degli uomini e alla natura: quel medesimo sentire che egli esprime nella ‘casa come me’. Nella terza parte, La casa e il contesto naturale, si compongono e si arricchiscono i racconti e i concetti visti in precedenza. L’isola, come idea di libertà e scelta di solitudine, e l’architettura come espressione delle vicende umane e del contesto naturale che le sottolinea e comprende, trovano compimento nella casa voluta a immagine di sé in un luogo che è insieme sfida e conforto. La casa viene illustrata nelle sue forme e negli aspetti di vita, anche i più quotidiani, che in essa si svolgono, ma è soprattutto protagonista dell’opera poetica, ideale palcoscenico di un mondo creato dallo scrittore. Malaparte scrive della casa nella casa. Guardandosi intorno, descrive e ricrea in molti racconti, quasi senza accorgersene, la casa e il paesaggio, tante volte prima già immaginato, del Massullo e di Matromania. G. P.
foto di Mario Cozzi e Alberto Scribani
ma la par te
“Ogni uomo è un’isola” Curzio Malaparte - brani scelti da Gianni Pettena - foto Mario Cozzi e Alberto Scribani - inserto staccabile di Firenze Architettura 1.2005
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L’ISOLA da Gli ultimi giorni di Capri, 1944 (...) Ogni uomo è un’isola, l’umanità intera un arcipelago. Ogni esistenza umana è un’isola sulla quale l’uomo vive solo, in una perpetua solitudine ch’egli, con la sua fantasia, e con la sua fame di calore umano, popola di affetti, di illusioni, di speranze, in una parola, di sentimenti. I quali in gran parte non si sarebbero sviluppati nell’uomo, se questi fosse stato fin dall’origine un uomo socievole, e vissuto in grandi famiglie umane. Si son sviluppati in lui per la necessità che egli aveva di crearsi un mondo abitato da esseri come lui, e, in mancanza di questi, da simboli, cioè da sentimenti e da idee. Sotto questo aspetto, Robinson Crusoe è sommamente moderno, poiché nessuno, quanto l’uomo moderno, è un’isola, è un essere insulare, che vive isolato dal resto del mondo.1 (...) Mattino a Marina Corta Lipari, 18 aprile 1934 Seduti lungo il muro bianco sul trapezio d’ombra che oscilla nel candido fuoco mattutino intorno alle ceste lucenti di scaglie rosse verdi gialle, i pescatori masticano amari grumi di sonno turchino. L’isola dorme alla deriva sotto un cielo di vetro rosa dove si specchia fuggitiva un’azzurra ombra amorosa. Sull’alta rupe le mura d’Eolo, sonore nel vento, mandan bagliori di rame. Si copre di verdi squame sotto la brezza viva l’onda dai capelli d’argento addormentata sulla riva.2 Isola, 1934 Su questa poca terra Immensamente io vivo. Smisurati orizzonti al mio cuor fanno guerra.3 da Kaputt, 1944 (...) In prigione, il carcerato fissa per ore e ore, per giorni, per mesi, per anni, le pareti della sua cella, sempre quelle pareti lisce e bianche: in quelle pareti egli vede il mare, ma non può figurarselo azzurro, non può immaginarselo che bianco, liscio, nudo, senza onde, senza tempeste, uno squallido mare illuminato dalla luce scialba che penetra tra l’inferriata della finestra. È quello il suo mare, quella la sua libertà: un mare bianco, liscio, nudo, una libertà squallida e fredda. Ma quello davanti a me era il mare, il tiepido e delicato mare napoletano, il libero e azzurro mare di Napoli, tutto arricciato di piccole onde, che si rincorrevano con dolce strepito sotto la carezza del vento, odoroso di sale e di rosmarino. Quello davanti a me era il mare azzurro, era l’immenso, libero mare increspato dal vento, non era il bianco, freddo, liscio, nudo mare della prigione, ma il tiepido, azzurro mare profondo. Quello davanti a me era il mare, era la libertà, e io piangevo, guardandolo di lontano dall’alto di una strada che attraverso una grande piazza scendeva verso la marina4 (...) da La passeggiata, 1936 (...) Sentiva che la cella n.461 del IV braccio di Regina Coeli era dentro di lui, era rimasta dentro di lui: era divenuta la forma segreta del suo spirito. Pensò ad un uccello che avesse ingoiato la propria gabbia. Si portava la sua cella con sé, dentro di sé, in quel viaggio verso Lipari, come una donna incinta porta il suo bambino nel ventre.5 Senza titolo, 1934 Ed ora eccomi qui, su questa piccola isola di Lipari (...) L’isola entra nella notte come una nave in porto, e le stelle che si accendono ad una ad una alte sui verdi monti lontani della Calabria e sulle turchine vette della Sicilia, splendono come i fanali sugli alberi delle navi, vengono incontro all’isola per il cielo terso e l’ombra frana da ponente con un opaco rombo silenzioso che si diffonde sul mare con un oscurarsi successivo. S’alzano serene le voci dei pescatori da Marina Corta, s’odono i fianchi delle barche rimbombare cupi, i pescatori con i lunghi remi sulle spalle scendono alla marina uscendo dai vicoli intorno alla mia casa, e passando davanti alla mia porta alzano il capo salutando. I piedi nudi sull’acciottolato fan un lieve fruscio, come se camminassero tra l’erba. Il mare è fermo, piatto, teso, lucido come un’immensa lastra di marmo rosso che i riflessi d’acciaio della notte percorrono guizzando. Seduto presso la finestra, nella mia grande stanza fredda e nuda, con un libro aperto sulle ginocchia, io seguo Achille tra i canneti dello Scamandro, il pallido e funebre Achille vestito di ferro, dalla corta turchina veste svolazzante intorno alle ginocchia bianche e lisce, - Oh! Lasciami morire fra...6 da Il lebbroso di Lipari, 1934 (...) Egli sembra guardare la vita di Lipari e il popolo dall’alto. Ho notato in seguito che i malati vedono e guardano le cose dall’alto. Non si può dire che un lebbroso guarda il mondo “dal fondo della sua abbiezione” ma “dall’alto della sua abbiezione”. Anch’io guardo il mondo dall’alto della mia sventura e della mia tristezza, e il senso della mia abbiezione mi esalta, o mi consola. Nulla, né la viltà degli amici, né la cattiveria, né la disonestà, mi potranno mai impedire di essere un uomo civile, un uomo onesto, un uomo libero. Non mi sono mai sentito libero come da quando sono entrato in prigione. Quando ero nella mia cella della prigione romana di Regina Coeli (...) io mi son detto che, per rimanere un uomo civile, per salvarmi dalla inevitabile umiliazione, abbiezione, degenerazione, del regime del carcere, della clausura, io avrei dovuto, non mi restava che coltivare in me il senso della mia libertà personale. Ogni catena, ogni sbarra, ogni cancello che io andavo scoprendo, mi aumentavano in cuore questo sereno e delicato senso della libertà. Ero incatenato ma libero. Ero imprigionato, ma libero. La cella era stretta, buia, sorda, ma io mi ci sentivo come in uno sconfinato, immenso, smisurato spazio. La finestra era chiusa da grosse sbarre, protetta da una persiana di vetro opaco, chiusa da una rete metallica, ma io mi ci sentivo come davanti a un cielo aperto, a un orizzonte immenso. Lo
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sforzo di immaginazione che mi occorreva nei primi tempi per non sentire la mia condizione di prigioniero, per persuadermi che ero libero come sulla cima di un monte, era grandissimo. Ma a poco a poco mi ero venuto abituando a questa mia singolare sensazione di libertà, e quando mi toglievano dalla mia cella, per farmi camminare un’ora al giorno in un piccolo corridoio largo tre passi e lungo dieci passi, era come se mi chiudessero. Non avevo l’impressione di essere prigioniero che durante quell’ora, quando alzavo gli occhi e vedevo su di me una stretta striscia di cielo. La vista del cielo mi dava un’impressione di angustia. Non potevo respirare. Non ero veramente libero che nella mia cella.7 (...) da La pelle, 1949 (...) Avevo riconosciuto quel silenzio. Nell’inverno del 1940, per fuggire la guerra e gli uomini, per guarirmi di quello schifoso male che la guerra fa nascere nel cuore degli uomini, m’ero rifugiato a Pisa, in una casa morta, in fondo a una delle strade più belle e più morte di quella bellissima e morta città. Avevo con me Febo, il mio cane Febo, che avevo raccolto morente di fame sulla spiaggia di Marina Corta, nell’isola di Lipari, che avevo curato, allevato, cresciuto, nella mia casa morta di Lipari, e m’era stato unico compagno durante i miei deserti anni d’esilio in quella triste isola, così cara al mio cuore.8 (...) da L’isola di pietra galleggiante, 1934 (...) Ma è davvero una prigione, quella casetta bianca appollaiata in sommo all’antica Acropoli? Sembra piuttosto una gabbia d’uccelli, appesa all’orlo dei bastioni del Castello a picco sul mare, formidabili bastioni di pietra squadrata e liscia, interrotti ogni tanto da rupi rossastre che paion di rame. E tornano in mente quei versi dell’Odissea dove Omero descrive il Castello quale appare di lontano ai marinai “tutto recinto di sfolgoranti mura di rame”. (...) (...) Dall’alto del Castello, verso sera, si vedono i monti di Calabria azzurri in fondo all’orizzonte, e le montagne di Sicilia di un verde triste e denso. La rupe di Scilla, proprio là in faccia, manda bagliori rossastri, e pare una stella che sorga fra i vapori del tramonto. Sulla ragnatela delle correnti marine, che s’incurvano e s’incrociano disegnando chiari tatuaggi, un piroscafo tutto bianco, alto di bordo, si profila lontano con la prua verso la punta di Monte Rosa, e il fumo si scioglie in riccioli morbidi nell’aria di vetro. Dall’America e dalla Francia vengono i bastimenti davanti ad Acquacalda a caricare la pietra pomice cara a Catullo, leggerissima, candida, dolce al tatto (...) (...) Il monte Pelato incombe su Acquacalda come un’alpe nevosa... e le pioggie improvvise trascinano giù per i fianchi del monte fiumane precipitose di ciottoli di pomice, che si rovesciano in mare come valanghe. Le onde, il vento, le correnti spingono alla deriva quei fiumi di pietre, che a poco a poco dilatandosi formano un immenso tappeto bianco: sembra, di lontano, una innumerevole moltitudine di gabbiani in riposo, una nuvola a fior d’acqua, un’isola errante. Anche Omero parla di queste isole vaganti, le famose planctae, di cui i dotti grecisti dissertano infaticabili per tentar di spiegare a che cosa volesse alludere omero con questa favola d’isole vagabonde. Le barche dei pescatori, quando incontrano una plancta v’entrano arditamente, e paiono slitte su un campo di neve: intorno la pietra galleggiante frigge e s’imperla di bollicine d’aria, fa un sussurro che si allontana in cerchi sempre più larghi (...) (...) Lontano, una plancta alla deriva splende sotto la luna già torbida. L’orizzonte si oscura all’improvviso, il cielo si copre di nere nuvole gonfie di vento tempestoso, tra poco la furia dello scirocco getterà la plancta contro gli scogli... la bianca isola errante, l’immensa lastra di pietra, si spezza, vola in frantumi, e le onde sconvolte scagliano contro la riva una tempesta di ciottoli, che battono e rimbalzano sul lido come se veramente li avventasse la mano irata di Poseidone.9 da Axel Munthe e gli uccelli, 1938 Già da qualche momento una nube grigia e rosea s’è levata a picco sulla Punta della Campanella, e viene oscillando verso l’isola. Che siano uccelli? Ed ecco un’altra nuvola, in tutto simile alla prima, ma di color più chiaro, apparire sopra Sorrento, e viene dal golfo di Castellamare, dalle pendici del Vesuvio... [e] ...voltandomi verso Mastro Adamo che mi accompagna in questa mia gita al vertiginoso davanzale della Migliara, vedo venir dall’isola d’Ischia un’altra nuvola di colore verdissimo, quasi d’erba, e galleggiare nell’aria azzurra proprio a mezzo fra Ischia e Capri. “Sono proprio uccelli” mi dice Mastro Adamo, indovinando il mio pensiero. “Uccelli migratori?” “No - mi risponde Mastro Adamo, - sono gli uccelli di Capri. Hanno saputo che Axel Munthe è partito stamane, col piroscafo delle otto, e se ne tornano a casa.” Tornano a Capri? E dov’erano andati? Mastro Adamo mi guarda e sorride. Un sorriso che sta fra quello del marinaio e quello del pastore, ed è il sorriso di tutti i buoni Capresi, dove la saggezza, la prudenza, la misura geografica del mondo e quella morale delle cose umane si fondono in un’ironia nobile e antica e nobile. “Tornano al nido - mi dice - tutte le volte che Axel Munthe se ne parte per qualche suo viaggio (...) ma appena sanno che è di ritorno, tutti gli uccelli di Capri scappano via (...) “E scappano per paura?” “No - risponde Mastro Adamo strizzando gli occhi nel sole - fuggono per noia.” (...) “Il guaio è che Axel Munthe vuol troppo bene agli uccelli”. E mi racconta che un tempo, prima che quell’illustre medico svedese sbarcasse per la prima volta in quest’isola felice, Capri era veramente il paradiso degli uccelli. Da tempo immemorabile, tutte le specie di uccelli mediterranei avevano eletto il nido su queste rupi, in queste selve di pini, di cipressi, di lecci, in questi vigneti e in questi giardini di aranci. L’aria, la vegetazione, la forma degli scogli e dei monti, questa luce particolare di Capri, fatta per sostenere le ali e aiutare il volo, sembrano create apposta per la felicità degli uccelli. Così tutta l’isola echeggiava di gorgheggi, dove le cadenze spagnole si mescolavano a quelle siciliane, dove gli accenti liguri si confondevano con quelli saraceni, dove la parlata greca s’intonava con quella toscana. L’armonia di quelle voci divine, in gara con la musica del mare e col mormorar delle fronde, faceva l’aria meravigliosamente limpida e lieve. (...) “Eppure - esclama a un tratto Mastro Adamo, fermamdosi serio serio a guardarmi in viso - eppure il Dottor Munthe dovrebbe saperlo che gli uccelli son come gli uomini, e amano faticare e lavorare per campar la famiglia! Che diamine! Han bisogno anche loro, per esser felici, di sudare e di penare. Sarebbero le creature più disgraziate del mondo se dovessero accontentarsi di star fermi sui rami ad aspettare che il Dottor Munthe venga a imbeccarli di miglio e d’acqua minerale, d’aranciata e di pancotto. Per fortuna - conclude - gli uccelli di Capri san come fare” e mi mostra con la mano tesa le tre nuvole grigie e rosee, che ormai son giunte a picco sul nostro capo, congiungendosi con festosi gridi come tre eserciti alleati, che s’incontrano e s’uniscono prima d’inoltrarsi in paese nemico.10 da Un delitto cristiano, I, 1944 (...) In quel momento una nuvola bianca spuntò di dietro le cupole della chiesa, e si fermò nel cielo turchino, proprio sulla prima cupola dipinta col bianco di calce, gonfia anch’essa come una nuvola, e il cielo cominciò a poco a poco a mutar colore. Era il vento d’Ischia, il foràneo, che tingeva il cielo di verde. Come fa un fiume
“Ogni uomo è un’isola” Curzio Malaparte - brani scelti da Gianni Pettena - foto Mario Cozzi e Alberto Scribani - inserto staccabile di Firenze Architettura 1.2005
dove entra in mare, che tinge l’acqua salsa di un tenue color d’erba e di foglie, così il vento entrava nel cielo, ogni giorno a quell’ora, tingendolo di quel verde antico che han le marine selve profonde d’alghe e di coralli. Anche il colore dell’aria nella piazza mutava lentamente: si faceva roseo come il corallo. Il fianco del campanile, dalle cella campanaria fino alla base, era in ombra, e appariva tutto coperto di scaglie rosee, come un corno di corallo antico, ossidato dal tempo11 (...) IDEE DI ARCHITETTURA da L’isola di Adamo ed Eva, 1934 (...) O felicissimi uomini! Veramente quei due sono lo specchio vivo del come si debba intendere e amare la natura: direttamente, a tu per tu, senza intermediari, senza il lenocinio della mitologia, della letteratura, dell’arte, della storia. Che importa a loro di Ulisse, di Enea, di Tifeo, di Gerone Siracusano, di Vittoria Colonna? Essi credono più alla natura che alla storia. Nei tramonti sereni, quando il Castello d’Ischia si tinge di croco e sfuma lentamente in azzurro, e dall’azzurro in viola, sullo sfondo cinereo della lontana penisola di Sorrento e della costiera di Capri, non si può forse mirare estatici l’alta rocca e le cupole e le mura severe, senza pensare a Gerone di Siracusa, agli Aragonesi e allo sposalizio di Vittoria Colonna? È proprio così: bisogna saper guardare un capitello come si guarda la chioma di un pino; una chiesa, un palazzo, un monumento come si guarda un bosco; una colonna come si guarda un albero; una statua come si guarda un uomo vivo12 (...) Un palazzo d’acqua e di foglie, 1940 Vi sono palazzi che paiono di carne, e hanno figura d’uomo, forma di membra umane. Altri sembrano mobili lussuosi, di antico legno; o giganteschi monili; o immense lacrime d’ambra. Altri paiono animali: palazzicavalli, palazzi-uccelli, palazzi-pesci. Altri, alberi: come lucenti e funebri lecci, e carrubi generosi e severi, e pioppi chiari. Altri ancora hanno in sé qualcosa d’inesplicabilmente femminile: palazzi-donne dai lunghi capelli che il vento scioglie nell’aria tiepida e stanca della sera, sui tetti della città triste e nebbiosa. (E vi son palazzi dalle radici sprofondate per sempre nella terra. Prigionieri immoti, insensibili, non vedono, non odono, non parlano. Ma vi sono altri che camminano sotto la luna, e son della stessa materia di cui son fatti i sogni). E vi son case e palazzi che son fatti come noi, della nostra stessa carne, e il sangue scorre nelle loro vene, e odono, vedono, parlano, hanno una voce grave, umana, piena di musiche umane. Quasi tutte le nostre antiche città son fatte di case e di palazzi che giocano con i bambini, che sorridono alle donne: e par che vivano dentro di noi, non già che noi viviamo dentro di loro. Tanto è dolce il senso della loro familiarità affettuosa. Tutta la storia d’Italia è fatta di queste segrete parentele di carne e di pietra. Ma vi sono palazzi e case che non hanno nessun rapporto con la natura né con l’umanità: che vivono di vita propria, secondo una loro legge misteriosa, aliena da quella che regola la vita degli alberi, dei monti, degli animali. Talché sempre, in loro cospetto, io rimango incerto, pieno di timore e di dubbio: in che cosa la loro sorte sia diversa da quella umana, e quali siano le loro oscure libertà e le loro oscure schiavitù nei confronti della natura e degli uomini. V’è senza dubbio, nell’animo di certi architetti, una zona misteriosa e vietata: dalla quale nascono, come dal grembo di una donna, esseri strani e inesplicabili, che vivono oltre le quattro regole del Vignola. E il proprio dell’architettura è, appunto, non solo di creare nell’ordine umano quel che corrisponde agli alberi, ai monti, ai fiumi nell’ordine della natura, ma di creare organismi viventi, esemplari complessi di una superiore vita animale. Com’è di questo Palazzo della Montecatini, che Giò Ponti ha sentito e pensato non solamente quale una forza elementare della natura, bensì quale un essere vivo, un organismo intelligente e sensibile, dotato di cinque sensi, come l’uomo (...) Già l’aspetto di questo uomo di pietra rivela il segreto della natura lombarda nella sua forza e nella sua dolcezza, più esatte e più inaccessibili. Sulla facciata di marmo d’un verde chiarissimo e sensibile, che varia d’intensità secondo le ore del giorno e le stagioni, passa come su uno schermo il paesaggio caro a Giò Ponti, architetto lombardo. Il suo paesaggio interiore. Aperti orizzonti, laghi dal viso sereno, specchi delicatissimi dove trasmigrano nuvole gonfie di tenere foglie. Qualcosa di astrattamente poetico è in questa esatta architettura, dove il gioco dei vuoti e dei pieni è equilibrato secondo un ritmo la cui cadenza è assolutamente libera da leggi norme convenzioni, fino a crearsi una regola sua propria, una ragione prospettica che tiene altrettanto dell’arte quanto della natura: i vuoti apparendo qui in funzione di pieni, con le loro superfici lisce di vetro e di alluminio, dove il cielo non soltanto si specchia, ma si scompone e si ricompone, direi, chimicamente; e ora è acqua, ora è aria, ora è erba, ora è luce meridiana, ora è luna. Le stagioni vi lasciano un loro ineffabile segno. L’inverno v’incide i suoi crudi lineamenti, e il marmo, il vetro, l’alluminio vi splendono algidi e astratti. La primavera vi lascia la sua carne rosea, i suoi lampi teneri e dolci. L’estate vi abbandona le sue albe tramortite, i veli pesanti dei suoi meriggi assonnati, i suoi tramonti di fuoco. L’autunno le sue lente evasioni; le sue maturazioni intime, le sue stanchezze, le sue speranze... E così, egualmente, le ore del giorno vi alternano le loro fugaci profezie. E che l’ha visto, all’alba, uscir dalla nebbia notturna nel nitore di un cielo ancora acerbo, non dimenticherà mai il senso misterioso (di un’infanzia appena avvertita, appena accennata, in equilibrio ai limiti di una speranza) che assume la città in quell’ora, da quella magica apparizione. Milano appare all’improvviso mutata, liberata dai suoi stessi significati, di mano in mano che quell’eccelsa architettura esce dal grembo della notte, e par che oscilli nell’aria tersa, come un albero che muova la chioma verde nel primo verde vento mattutino (...) Le immagini della città notturna svaniscono a poco a poco nell’acqua limpida dei suoi cristalli (il grido ansioso delle sirene nelle officine, l’urlo breve dei primi camion, simili al pianto rauco dei gabbiani nella foschia dell’alba, nei porti. Il sole illumina il palazzo-albero, il palazzo-selva. (Questa architettura verde, come un parco nel cuore della città: il suo valore di parco cittadino). Poi, nel meriggio a picco, il Palazzo si specchia fra le case come un lago alpestre; s’indovinan nel fondo le immagini capovolte dei monti, le selve d’erbe acquatiche, i fiori diafani che salgono lentamente a galla, come da un cielo profondissimo. Al tramonto, il cielo in fiamme, color di carne viva, diffonde nei suoi marmi un’ombra pura e trasparente. Abissi azzurri si aprono nel curvo seno della facciata, grotte marine dove pesci luminosi scivolano lentissimi. E il Palazzo, nella sera milanese grave di suoni, di odori, di parole, di sentimenti, di sapori, pare un’enorme selva di corallo, che a poco a poco s’accende, affonda nella notte, simile a un’enorme testa di Argo dai mille occhi fosforescenti.13
da Città come me, 1937 Vorrei costruirmela tutta con le mie mani, pietra su pietra, mattone su mattone, la città del mio cuore. Mi farei architetto, muratore, manovale, falegname, stuccatore, tutti i mestieri farei perché la città fosse mia, proprio mia, dalle cantine ai tetti, mia come la vorrei. Una città che mi assomigliasse, che fosse il mio ritratto e insieme la mia biografia... E tutti, appena entrandoci, sentissero che quella città sono io, che quelle strade sono le mie braccia aperte ad accogliere gli amici. L’intonaco dei muri, le persiane, gli scalini di pietra serena davanti alle porte delle case e delle chiese, i davanzali delle finestre, il Duomo, il Palazzo del Comune, l’ospedale, le carceri, i caffè, il cimitero, le botteghe, le fontane, i giardini, vorrei che fossero la parte migliore di me, i lineamenti del mio viso e del mio spirito, gli elementi fondamentali dell’architettura e della storia della mia vita. Che m’assomigliasse, e che ciascuno sentisse, vivendoci, di stare dentro di me. Vorrei edificarla sul davanzale di una pianura, allo sbocco di una valle ventosa, ai piedi di colline verdi di vigne, di olivi, di boschi di cipressi, di lecci e di querce: e un po’ più indietro i monti, dai fianchi selvosi e dalle cime nude, dove si vedesse il macigno affiorar tra le ginestre. Monti morbidi e insieme acuti, che t’invogliassero a salirvi e ti rompessero le gambe proprio sotto la vetta. Il fiume che farei scorrere per quella valle dovrebbe avere più del torrente che del fiume, e spumeggiar tra i sassi, precipitar di rupe in rupe, urtar mugghiando contro le rive scoscese, in una gola profonda, fra pareti a picco e montagne nere di selve. E a un tratto, sbucando fuor della valle in pianura, gli darei lentezza e dignità di vero fiume, farei il suo letto ampio tra rive dolci: ma non profondo, chè lo vorrei di poca acqua, sparsa tra ciottoli bianchi e isola di sabbia dorata. La corrente accompagnerebbe verso la foce, verso il mare, foglioline argentee d’olivi, larghi pampani, aghi di pino, e quell’erbetta molle che galleggia nei ruscelli. Allo sbocco della valle metterei, lungo le sponde quiete, ville su clivi lentissimi, rivi che scendessero mormorando giù per le pieghe dei poggi, chiesine solitarie con i due cipressi-carabinieri davanti al sagrato, e cimiterini pieni di fiori selvatici, con le tombe nascoste sotto l’erba come i solchi sotto il grano. E case di contadini, pagliai gialli di sole, e giù giù, a mano a mano che il fiume s’avvicina alla città, gli darei un’aria trasognata, l’aria di un contadino che scende per la prima volta in città. Ma non vorrei che entrasse dentro le mura. Mi piacerebbe che scivolasse via lungo le mura rossastre, accarezzando pigramente le pietre dal bel colore di sangue raggrumato: e seguitasse il suo corso a zonzo per i campi, voltandosi indietro ogni tanto a rimirar da lontano le torri e i campanili oscillanti nell’azzurro. Per entrare in città dalla parte del fiume, farei un ponte di mattoni e di pietra, e in capo al ponte una porta alta e stretta, difesa da merli e barbacani, non già perché temessi qualche brutto scherzo dagli abitanti del contado, ma per dare ai cittadini il senso che la città è una casa, una grande casa. Non soltanto mia, ma di tutti: dove, chiusi usci e finestre, riposare tranquilli delle fatiche della giornata. Ben cinque porte aprirei nelle alte mura: una per ciascun vento, perché l’aria della campagna entrasse da padrona senza dover perdere tempo a cercarsi un varco. Una porta per il tramontano, una per lo scirocco, una per il libeccio, un’altra per il grecale, e la quinta per quel venticello di stagione che soffia quando gli pare, svogliato, capriccioso e bighellone com’è, e se non gli dai il passo si mette a far le bizze e riman tutta la notte a mugolar fuori le mura, raspando le pietre, come un cane che ha trovato chiuso l’uscio di casa. E ti tocca alzarti dal letto e aprir l’uscio. Le strade le farei non troppo larghe né diritte, ma tagliate secondo una prospettiva armoniosa e prudente, che mettesse in vista e in luce gli angoli dei palazzi, lo sfondo di una chiesa, di un muro, di una piazza. Le case le vorrei tutte di bella pietra, ben squadrate, con le altane aperte sui golfi del cielo. Alcune intonacate di grigio, altre di quel bianco avorio che la pioggia e la polvere fanno lucido e vivo. Altre le farei che la pietra si vedesse, nuda e liscia, a riflettere il variare della luce secondo il volgere del sole. Le chiese le vorrei pure e tristi, con le facciate di marmo bianco e di marmo verde a strisce alterne, come nei campi i solchi ondeggianti di tenero grano e l’incavo di terra tra un solco e l’altro. Ad ogni chiesa il suo campanile, schietto e snello, con le campane dal suono grave appese alla trave (...) Nelle piazze belle fontane, con acqua viva zampillante da bocche nascoste, da dare un canoro senso di fresco alle case intorno nelle sere d’estate (...) I tetti li vorrei di tegole rosse, ben cotte, di quella pasta d’argilla porosa che raccoglie la polvere e il polline (...) Una distesa di tetti rossi, ecco la città del mio cuore vista dall’alto. Moderna, ma con una cert’aria antica, e in qualche punto vecchiotta. Tutta nuova, ma con certe macchie di muffa qua e là, e ciuffi d’erba fra pietra e pietra, fra mattone e mattone. Le soglie le farei consunte, a dar l’idea di un gran via vai di generazioni: e lisci e lucidi i davanzali delle finestre, come se cento generazioni di ragazze ci avessero appoggiati i gomiti nelle mattine di primavera... Tutta pulita, tutta piena di luce e d’aria la vorrei: con qualche vicoletto piuttosto sudicio, sparso di fogli di carta, di bucce d’arance, di gusci di lupini e di semi di zucca. Un po’ di vicoli sporchi ci vogliono in una città, perché sia vera e ci si possa vivere. Ma tutte le altre strade le vorrei di bucato, col lastrico di bella pietra grigia, dalle scaglie azzurre incise dal ferro degli scalpellini. Dietro le case, in una cinta di muri altissimi, vorrei giardini segreti, folti di melograni, di magnolie, di allori, dove un innumerevole popolo di passerotti cinguettasse dall’alba al tramonto, e il cinguettìo illuminasse gli angoli più oscuri delle case.14 (...) da Maledetti Toscani, 1956 (...) Chi voglia persuadersi di questa greca virtù dei toscani, la più greca delle loro virtù, e cioè del senso della misura, guardi la pittura senese e fiorentina, dove le architetture son così fatte, che un uomo a cavallo empie tutta la contrada, e sopravanza del capo il tetto più alto, e le montagne son più piccole degli alberi, e gli uomini sembrano bambini a petto delle viti, degli olivi, delle ginestre, e di quell’uccellino che canta lassù, fra i rami di quel cipresso: che non è per difetto di prospettiva, ma per antipatia di ogni magniloquenza. E se i palazzi e le torri ti suggeriscono a prima vista l’idea che i toscani siano un popolo di giganti, quando poi guardi le case dove quel popolo vive, mangia, dorme, che son case piccolissime, ti meravigli che gli stessi uomini, i quali han costruito Santa Maria del Fiore, il Bargello, il Palazzo della Signoria, la Torre di Arnolfo, la Torre del Mangia, Palazzo Strozzi, Palazzo Pitti, San Lorenzo, Santa Maria Novella, possano abitare in così piccole case: con quelle porticine, quelle finestrine, ma il tutto disegnato con tale armonia, con tal preciso senso della statura, o per meglio dire, della natura umana, che una volta dentro, benché alzando una mano tu giunga a toccare il soffitto, ti paion più grandi di Palazzo Pitti. E non perché i toscani siano bassi di statura (...), ma perché l’uomo, se lo guardi da vicino..., è un animale piccolo, e ha bisogno di vivere, per sentirsi uomo, in mezzo a cose fatte a misura sua. (...) (...) Le case altissime, dalle facciate tinte di un intonaco biondo, dove il rosa e il verde si confondono, splendono al sole con riflessi d’oro e di verderame, come l’acqua dei canali sparsa di chiazze d’olio. Le persiane hanno il colore delle foglie secche, son pallide e polverose. Un senso di nobiltà un po’ stanca, di libertà popolaresca, è nell’architettura aperta e liscia di queste case, le più belle del Mediterraneo15 (...) da Città di pane, 1940 Compatta città, senza una fessura, senza uno spiraglio, una città di muri lisci, impenetrabili. Costruita tutta di mattoni, murati l’uno su l’altro, l’uno stretto all’altro... Una città, direi, costruita non da architetti, ma da capomastri e semplici muratori, con l’aiuto soltanto di una squadra e di un filo a piombo. Con un misurato, cauto, ostinato, totale senso del volume e del peso. Talché non solo le porte e le finestre, ma perfino le piazze, le
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strade, i vicoli, sembrano scavati a furia di scalpello e di piccone nella compatta muraglia delle case. Una città che ha una sua architettura singolarissima, legata alla natura del materiale con che è stata costruita: l’assenza del marmo e della pietra si finisce per non avvertirla più, tanto è naturale la parentela del mattone col legno, là dove le colonne son di tronchi d’alberi, e le architravi di quercia sorreggono severi castelli di terracotta. Una città dove il barocco non è riuscito a penetrare se non per insidia, si direbbe, e con immensa fatica e prudenza, e solo in pochi tratti meno difesi, meno muniti, per quei varchi, per dove penetrano di solito nelle città i cavalli di legno. E ci sta a suo rischio e pericolo o, meglio, a suo disdoro. Un tutto, insomma, così compatto, così solido, che a toglierne un mattone, uno solo, la città crollerebbe come un castello di carte. Da questa immensa catasta di mattoni, ogni tanto, è pur vero, qualche mattone tenta fuggirsene al volo: e a quel primo, cento, mille altri tengono dietro, e questa è l’origine delle molte torri di questa città, che la fanno famosa. (...) Su questi immensi, continui muri, la luce non genera colori, ma toni, che è tutt’altra cosa. Il rosso, da padrone di casa, vi si adagia con garbo; e sopra quell’ampio letto si stendono i verdi, i gialli, i bruni, i neri, l’un tono entra nell’altro, rispettandosi tuttavia a vicenda, in una gradazione di tinte che ha del familiare e del magico... Il volume, la forma, il peso, tutto vi è dato dal tono, non dal disegno. Una pittura, si direbbe, tonale: tutta luce, meravigliosamente. Una luce calda, saporosa, se pur lieve, dove predominano il rosa, il verde e il nero che son poi i colori di questa campagna emiliana, se vi aggiungi il giallo delle crete sui poggi intorno alla città. Il mattino, sui tetti e sui muri, ha riflessi morbidi e stanchi... (...) In nessuna città, come in questa, si avverte la dolorosa assenza di alberi, di acqua, di erba. E dentro la cerchia delle mura pochi i giardini e gli orti: chiusi, quei pochi, fra muri altissimi, magri e deserti. Due o tre soltanto i parchi pubblici... L’occhio cerca invano un po’ di verde per riposarsi: e solo qua e là, fra mattone e mattone, in qualche invisibile incrinatura del muro, o al riparo di qualche ornato di cotto, scopre con inattesa delizia un esile ciuffo di erba, o qualche fungo trasparente, o appena un’ombra, forse verde, forse rosea. (...)
(...) Il cielo si accende di colori violenti, le crete biancheggianti delle colline si tingono a poco a poco di riflessi di fiamma. Le nuvole paion volute di fumo, qualcosa brucia nell’orizzonte, forse un fienile, forse un campo di stoppie. Il mattone comincia a cuocere nella rossa sera, tutta la città lievita come se le case, i plazzi, le torri, fossero di pasta, e quando la notte s’apre a oriente, simile a un forno, e il riverbero del tramonto fiammeggia in quella nera bocca, Bologna sembra un’immensa forma di pane appena sfornata, e un grato odore di pane si spande tiepido per la pianura.16 da Cielo e terra, 1938 (...) Per quanto siano particolarmente visibili nei Toscani un certo orgoglio, una certa intima persuasione della propria superiorità sulle stesse forze naturali alle quali soggiaciono, e contro le quali stanno in perpetua lotta, un certo, direi, disprezzo per tutto ciò che sfugge al dominio della loro cauta e parsimoniosa ragione, è chiara tuttavia in loro quella modestia che nasce dal senso delle proporzioni, dei rapporti, delle parentele. Il mondo in cui i Toscani vivono è un mondo umano, il più umano fra tutti quelli nei quali vivono i vari popoli. Un mondo dove ogni oggetto, ogni persona, ogni elemento, ogni forza, ogni animale o pianta, ha il suo posto, non assegnato dalle sole leggi della natura, ma dalle leggi dell’uomo, da quelle, specialmente, cui presiede la particolare ragione dei Toscani, una ragione senza fantasia. Tutto è governato, in quel mondo, non soltanto da leggi fisiche, ma da norme morali: dalle regole di un’architettura che è la stessa per le cupole, gli archi, le case, le forme e i colori dei monti e degli alberi, i pensieri, le azioni e i sentimenti degli uomini.17 (...) da Benedetti italiani, 1961 (postumo) (...) Un contadino, davanti alla sua casa non ha una piazza, ha il campo. Da qui viene l’origine del nome ‘campo’ che i veneziani danno alle loro piazze. Si affacciano sulla piazza come i contadini si affacciano sul loro campo. Guardano il cielo, l’aria libera, lo spazio. Nella loro coscienza, in fondo alla loro memoria antica, la piazza rievoca il campo, la campagna, gli alberi; i canali, che si chiamano ‘rio’, che è il nome dei fossi nelle campagne venete, ricordano loro i fossi. I vicoli senza uscita son come i rami secchi di un albero, ed essi li chiamano rami. I rami dell’antica boscaglia che tuttora vive nel fondo della loro memoria. A certe calli i veneziani danno il nome di ‘salzada’: in ricordo delle stradette di campagna fiancheggiate di salici. Lo stesso nome di corte, che essi danno non ai cortili, ma a certi spiazzi aperti fra le case, ricorda loro le ‘corti’ che si aprono fra le braccia dei loro casolari, nella campagna veneta, quel che in Toscana ha il nome di ‘aia’, dove battono il grano, spogliano il granturco e si riuniscono nelle sere d’estate a godersi il fresco che scende dai monti. (...) (...) Nulla di quella vanità, che spinge gli uomini tutti, e anche i toscani, a costruire palazzi, e chiese, e monumenti, a dipingere muri che tutti posson vedere, ad architettare facciate di chiese e di palazzi che son
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come visi umani, aperti e intelligenti, dove il gioco dei marmi, ora bianchi ora neri, ora bianchi ora di quel verde di Prato che par rubato a certa erba, al fogliame dell’alloro, ora di quel grigio azzurro della pietra serena, che par rifletta il cielo di seta pallida di Firenze e di Siena, imita i giochi d’ombre e di luci del viso umano. Nulla, insomma, di quella Toscana leggiadra e crudele che si è spesso tentati di credere uno specchio della vita, dell’umana felicità, e delle cose terrene. Qui tutto è sotterraneo, qui la vita si è rifugiata nelle tombe. Le sole città rimaste da quegli antichissimi tempi, son le necropoli. Le sole città etrusche costruite di pietra, son le necropoli, le città eterne. (...) (...) Lì davanti, sull’altra riva, fuma una fornace, e i bei mattoni rossi, ammucchiati in riposata architettura su una saliente prospettiva d’erba, fanno col prato, di un verde intenso qua e là illanguidito da zone pallide, un contrasto risentito e impaziente. Un fianco di quell’architettura di mattoni è più chiaro, quasi giallo, di quel giallo papale che sulle prime sembra stonare col colore vivo dell’erba e con gli aurei riflessi del sole, poi, a poco a poco, entra nell’intimità del paesaggio, diventa, direi, di casa, s’imparenta con la storia di quel prato, di quella riva erbosa, di quei poggi, di quell’orizzonte. La fornace è rossa e nera, sovrastata da una selva di pini che incoronano il ciglio di un colle. Nuvole gonfie, dai contorni netti, si appoggiano ai monti, ai boschi, alle case, con un’insolenza pigra e sontuosa. Ogni tanto qualche nuvola si muove, entra di sghembo nell’altra... generando una strana geometria che ha l’innocenza ermetica dei sogni infantili. Un che di preciso e insieme di fantastico è infatti nell’aria...18 da Kaputt, 1944 (...) Passeggiammo per qualche tempo nel parco, sotto i pini gonfi di vento, poi Axel Munthe mi condusse nella più alta stanza della sua torre. In antico doveva essere una specie di granaio, ora egli ne ha fatto la sua camera da letto per i giorni di nera solitudine, quando si chiude lassù come nella cella di una prigione, tappandosi gli orecchi col cotone per non udir la voce umana. (...) (...) Eran cominciati i giorni chiari e le notti bianche dell’estate finlandese, e le ore mi sembravano interminabili nelle trincee e nei camminamenti del fronte di Leningrado. L’immensa, grigia città, sullo sfondo verde dei boschi, dei prati e delle paludi, mandava strani riflessi metallici nel sole notturno: a volte pareva una città d’alluminio, tanto il bagliore era dolce e spento, a volte una città di acciaio, tanto il bagliore era freddo e crudele, a volte una città d’argento, tanto il bagliore era vivo e profondo. (...) (...) La via Kàlevala è stretta, e la facciata della casa, vista di sotto in su, pareva pendere in bilico, incombere minacciosa sulla piccola folla raccolta sul marciapiede di fronte. Era una casa modernissima, costruita con grande abbondanza di cristalli e di acciai cromati: e le antenne della radio irte sul tetto, la bianca facciata nuda e liscia, dove le innumerevoli orbite di vetro delle finestre specchiavano il chiaro cielo notturno con un gelido nitore d’alluminio... uno spettro modernissimo, quale sembrano evocare le architetture di Le Corbusier, la pittura di Braque e di Salvador Dali, la musica di Hindemith e di Honegger: di uno di quei nichelati spettri ‘streamlined’, che appaiono talvolta sulla funebre soglia dell’Empire State Building, o sull’eccelso cornicione del Rockfeller Center, sulla tolda di un transatlantico o nella gelida luce azzurrina di una centrale elettrica. (...) (...) Al principio della guerra mi trovavo a Napoli, al tempo dei primi bombardamenti aerei. Una sera mi recai a cena a casa di un mio amico, che abita al Vomero. Il Vomero è quell’alto ciglio che domina la città, dal quale si stacca e scende in mare la collina di Posillipo. Il luogo è incantevole, e fino ad alcuni anni or sono era un paese agreste, sparso di casette e di ville smarrite nella verdura. Ogni casa aveva il suo orto: un po’ di vigna, qualche olivo, e terrazze dove fiorivano le melanzane, i pomidoro, i verzi, i piselli, dove odoravano il basilico, le rose e il rosmarino. Le rose e i pomidoro del Vomero non cedevano per bellezza e per fama alle antiche rose di Pesto e ai pomidoro di Pompei. Oggi gli orti son mutati in giardini. Ma tra gli enormi edifici di cemento e di vetro qualche antica villa e qualche umile casa di contadini sopravvivono, e ogni tanto il verde di un orto solitario stinge dolcemente sul pallido, immenso azzurro del golfo: laggiù, di fronte, Capri sorge dal mare in una caligine argentea; a destra Ischia, e il suo alto Epomeo, a sinistra la costa di Sorrento, appaiono attraverso lo specchio trasparente del mare e del cielo...19 (...) LA CASA E IL CONTESTO NATURALE Il mondo è lo scrittore che lo crea (da Brano senza titolo, 1947) L’altra notte, a un certo punto, alzai il viso e deposi la penna sul tavolo... il mare urlava sotto le mie finestre, Orione già camminava in bilico sul filo dell’orizzonte. Scrivere, dissi, scrivere: la gioia dello scrittore non è soltanto nello scrivere, nel creare immagini e forme, nell’esprimere il suo mondo segreto, il mondo nel quale egli vive. La gioia dello scrittore, la più alta e la più pura, è nella coscienza del potere che lo scrittore ha sul mondo, sulla vita sociale e morale di tutti gli uomini, anche di coloro che non lo leggono. Più di ogni altra arte, più della scultura, più della pittura, dell’architettura, della musica, l’arte dello scrivere crea e trasforma il mondo a propria immagine (...) Il mondo è lo scrittore che lo crea.20 Ritratto di pietra, 1940 (Una casa tra greco e scirocco) Il giorno in cui io mi son messo a costruire una casa non credevo che avrei disegnato un ritratto di me stesso. Il migliore di quanti io non abbia disegnati finora in letteratura. Da tutto ciò che vi è di autobiografico nelle opere di ogni scrittore, è facile trarre gli elementi, le linee del suo ritratto morale. Anche dalla mia opera letteraria è facile trarre le linee del mio viso morale. Ma non posso dire che i miei libri diano di me un ritratto essenziale, nudo, senza ornamenti, quel ritratto che ogni scrittore idealmente si prefigge di sé. Uno scrittore dipinge sempre se stesso, in un certo senso, anche quando descrive un oggetto, un albero, un animale, una pietra. Quando io scrivevo “Donna come me”, ad esempio, era il mio ritratto che io dipingevo in quell’essere strano, che prendeva dal cavallo, dal cane, gli elementi della sua forma interiore, il calco del proprio mondo interno. Fra tutti gli scrittori italiani, credo di essere fra quelli, assai pochi, che più hanno avuto il coraggio di mostrare quali sono. Ma non m’era mai avvenuto di mostrare quale io sono, come quando mi sono provato a costruire una casa. E benché siano molte, e strane le prevenzioni che uno ha dell’architettura, considerata un tabù, un’arte difficile, etc., io mi accinsi alla prova con un coraggio e una decisione, che nessuna difficoltà, nessuna ostilità sono riusciti mai a diminuire. E prima fu la scelta del luogo dove costruire la casa. V’era a Capri, nella parte più selvaggia, più solitaria, più drammatica, in quella parte tutta volta a mezzogiorno e ad oriente, dove l’Isola da umana diventa feroce, dove la natura si esprime con una forza incomparabile, e crudele, un promontorio di straordinaria purezza di linee, avventato in mare come un artiglio di roccia. Nessun luogo, in Italia, ha tale ampiezza d’orizzonte, tale profondità di sentimento. È un luogo, certo, solo adatto per uomini forti, per liberi spiriti. Chè facile è lasciarsi dominare dalla natura, diventarne lo schiavo, lasciarsi stritolare da quelle fauci delicate e violente, farsi ingoiare in quella natura come Jona nella balena. Mi apparve chiaro, fin dal primo momento, che non solo la linea della casa, la sua architettura, ma i materiali con cui l’avrei costruita, avrebbero dovuto esser intonati con quella natura selvaggia e delicata. Non mattoni, non cemento, ma pietra, soltanto pietra, e di quella del luogo, di cui è fatta la roccia, il monte. E come nessuna concessione poteva da me esser fatta alla natura, così nessuna concessione a quella falsa
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idea che gli uomini si fanno, e cioè che l’architettura di un luogo si presti a ogni parte del luogo: e per Capri, che l’architettura così detta caprese si adatti egualmente al versante sul golfo, a quello di Marina Piccola, a quello idillico, episodeo, di Anacapri, e a quello greco di Matromania. Qui, nessuna casa appariva. Io ero dunque il primo a costruire una casa in quella natura. E fu con timore reverente che mi accinsi alla fatica, aiutato non da architetti, o da ingegneri (se non per le questioni legali, per la forma legale), ma da un semplice capomastro, il migliore, il più onesto, il più probo, fra quanti abbia mai conosciuti. Piccolo di statura, silenziosissimo, poverissimo di gesti e di parole, l’occhio nero coperto da una palpebra lenta e prudente e saggia, Mastro Adolfo Amitrano cominciò col tastar la roccia con la mano: allora si scendeva sulla Punta Massullo calandosi lungo uno sperone di roccia a picco. Passavamo là, su quella punta ventosa, gran parte delle nostre giornate, ed era inverno. Ma egli seguiva le mie parole, le idee che gli andavo spiegando sulla casa, approvando o negando. Per mesi e mesi squadre di muratori hanno lavorato su quell’estremo davanzale di Capri, finché a poco a poco la casa cominciò a uscir dalla roccia, sposata a quella, e prese forma, si rivelò per la più ardita e intelligente e moderna casa di Capri. Molti eran quelli che avrebbero voluto che io concedessi allo stile caprese, senza pensar che è proprio qui, nel concedere e nel far stile, che io mi rifiutavo e stavo sul mio. Nessuna colonnina romanica, perciò, nessun arco, nessuna scaletta esterna, nessuna finestra ogivale, nessuno di quegli ibridi connubi, tra stile moresco, romanico, gotico e secessionista, che certi tedeschi, trenta o cinquant’anni or sono, portarono a Capri, inquinando la purezza e semplicità delle case capriote. I problemi da risolvere non erano pochi, e non erano facili. A cominciare dall’orientamento poiché c’era da scegliere fra due venti, il greco e lo scirocco, che vi battono spesso. E io preferii affrontarli col gomito, per così dire, orientando la casa con gli angoli volti a tagliare i quattro punti cardinali. In quanto alla sua forma, essa m’era dettata dall’andamento della roccia, dalla sua struttura, dalla sua pendenza, dal rapporto dei suoi sessanta metri di lunghezza con i suoi dodici metri di larghezza. La feci lunga, stretta dieci metri, lunga 54. E poiché, a un certo punto, dove la roccia s’innesta al monte, la rupe si incurva, si abbandona, formando come una specie di collo esile, io qui gettai una scalinata, che dall’orlo superiore della terrazza scende a triangolo.21 Da Kaputt, 1944 (...) Dovevo ripartire la mattina dopo per Riga e per Helsinski... Ci avviammo verso il centro della città, io camminavo accanto a Louise... Aveva smesso di piovere, le sera era tiepida e chiara, senza luna. (...) “Perché non viene a passare la sua luna di miele in Italia, Louise?” “Ah, lei sa già che mi sposo? Da chi l’ha saputo?” “Me lo ha detto l’altro giorno Agata Ratibor. Venga a Capri, a casa mia. Io sarò lontano, in Finlandia, sarà lei la padrona di casa. La luna, a Capri, è veramente dolce come il miele”.22 (...) da La pelle, 1949 (...) Era il tramonto, e il mare prendeva a poco a poco il colore del vino, che è il colore del mare in Omero. Ma laggiù, fra Sorrento e Capri, le acque e le alte rive scoscese e i monti e le ombre dei monti si accendevano lentamente di un vivo color di corallo, come se le selve di coralli che coprono il fondo del golfo emergessero lentamente dagli abissi marini, tingendo il cielo dei loro riflessi di sange antico. La scogliera di Sorrento, folta di giardini d’agrumi, sorgeva, lontana, dal mare, come una dura gengiva di marmo verde: che il sole morente feriva obliqua dall’opposto orizzonte con le sue stanche saette, traendone il dorato e caldo bagliore delle arance, e i freddi, lividi lampi dei limoni. Simile a un osso antico, scarnito e levigato dalla pioggia e dal vento, stava il Vesuvio solitario e nudo nell’immenso cielo senza nubi, a poco a poco illuminandosi di un roseo lume segreto, come se l’intimo fuoco del suo grembo trasparisse fuor della sua dura crosta di lava, pallida e lucente come avorio; finché la luna ruppe l’orlo del cratere come un guscio d’uovo, e si levò chiara ed estatica, meravigliosamente remota, nell’azzurro abisso della sera. Salivano dall’estremo orizzonte, quasi portate dal vento, le prime ombre della notte. (...) (...) Il mare, aggrappato alla riva, mi guardava fisso. Mi guardava fisso con i suoi grandi occhi verdi, ansando, come una bestia aggrappata alla riva: mandava un odore strano, un forte odore di bestia selvatica. Lontano, verso l’occidente, dove il sole già declinava in un orizzonte caliginoso, dondolavano ancorati al largo del porto centinaia e centinaia di piroscafi, avvolti in una densa foschia grigia, rotta dal bianco bagliore dei gabbiani. Altre navi solcavano remote le acque del golfo, laggiù, nere contro l’azzurro spettro trasparente dell’isola di Capri: e una tempesta che saliva da scirocco, ingombrando a poco a poco il cielo (erano nubi livide, spaccate da lampi sulfurei, da improvvise, sottili incrinature verdi, da accecanti neri bagliori), spingeva innanzi a sé bianche vele smarrite, che cercavano scampo verso il porto di Castellammare. La scena era triste e viva, con quelle navi fumose in fondo all’orizzonte, quelle vele fuggenti innanzi al balenar verde e giallo della nera tempesta, con quella remota isola errante nell’abisso azzurro del cielo: era un paesaggio mitico, e in margine a quel paesaggio Andromeda incatenata a uno scoglio piangeva, chi sa dove, Perseo, chi sa dove, uccideva un mostro. (...) (...) Durante i giorni ch’egli trascorreva nella mia casa di Capri, il Generale Cork si alzava all’alba, e, solo, andava a spasso nel bosco dalla parte dei Faraglioni, e si arrampicava su per le rocce che cadono a picco sulla mia casa dalla parte di Matromania, o, se il mare era calmo, usciva in barca con me e con Jack a pescare tra gli scogli sotto il Salto di Tiberio. Gli piaceva sedere alla mia tavola con me e con Jack davanti a un bicchiere di vino di Capri, spremuto dai vigneti del Sordo. La mia cantina era ben fornita di vini e di liquori, ma al miglior Borgogna, al miglior Bordeaux, al vino del Reno o della Mosella, al più regale Cognac, egli preferiva il semplice, schietto vino delle vigne del Sordo, sul Monte di Tiberio. La sera, dopo cena, andavamo a sdraiarci davanti al camino, sulle pelli di camoscio che coprono le lastre di pietra del pavimento: è un immenso camino, e in fondo al focolare è murato un cristallo di Jena. Attraverso le fiamme si vede il mare sotto la luna, i Faraglioni sorgenti dalle onde, le rocce di Matromania, e il bosco di pini e di lecci che si stende dietro la mia casa. (...) (...) Un giorno, a Capri, la mia fedele housekeeper, Maria, venne ad avvertirmi che un Generale tedesco, accompagnato dal suo aiutante di campo, era nell’atrio, e desiderava visitare la casa. Era la primavera del 1942, poco prima della battaglia di El Alamein, la mia licenza era finita, il giorno dopo dovevo partire per la Finlandia. (...) Andai incontro al Generale tedesco, lo feci entrare nella mia biblioteca... lo accompagnai di stanza in stanza per tutta la casa, dalla biblioteca alla cantina, e quando tornammo nell’immenso atrio dai finestroni aperti sul più bel paesaggio del mondo, gli offrii un bicchiere di vino del Vesuvio, dei vigneti di Pompei. Disse “Prosit” levando il bicchiere, bevve tutto d’un fiato, poi, prima d’andarsene, mi domandò se avessi comprato la mia casa già fatta, o se l’avessi disegnata e costruita io. Gli risposi - e non era vero - che avevo comprato la casa già fatta. E con un ampio gesto della mano, indicandogli la parete a picco di Matromania, i tre scogli giganteschi dei Faraglioni, la penisola di Sorrento, le isole delle Sirene, le lontananze azzurre della costiera di Amalfi, e il remoto bagliore dorato della riva di Pesto, gli dissi: “Io ho disegnato il paesaggio”. “Ach, so!” esclamò il Generale Rommel. E dopo avermi stretta la mano, uscì. Io rimasi sulla porta a guardarlo mentre saliva la ripida scala, tagliata nella roccia, che dalla mia casa porta a Capri. A un tratto lo vidi fermarsi, volgersi di scatto, fissarmi a lungo con un duro sguardo: poi voltarsi e andar via.23 (... )
Da Benedetti Italiani, 1961 (postumo) Apro la finestra, ed è la notte di Capri sul mare, chiudo la finestra, ed è la notte di Capri nella mia casa solitaria a picco sul mare, la notte italiana sui libri e sui quadri della mia biblioteca: sulla Spiaggia normanna di Dufy, sui tre Paysages parisiens di Delaunay, sulla giovane donna del Concerto di Kokoschka, sul Déjeuner sur l’herbe di Pascin, sulla Crocifissione di Chagall; la notte greca di Capri sul mazzo di fiori di Giorgio Morandi, sulla Spiaggia della Versilia di De Pisis, sul pavimento di mattonelle di maiolica bianca con la lira incoronata di alloro, disegnata da Goethe in margine al manoscritto del Viaggio in Italia. Apro la finestra, e fra poco sarà l’alba. Il cielo è chiaro sui monti del Cilento, bianchi di neve, sulle colonne dei templi di Pesto, là di fronte, e il promontorio di Agropoli, el il capo Palinuro. Fra poco il sole romperà il guscio dell’orizzonte, e sul mare, il monte, le rive, da questo deserto d’acque, di rocce, di pini, di cipressi, di mirti, nascerà la voce dell’uomo. Esco, ed è già l’alba, m’avvio su per il sentiero che sale a Matromania, e nel prato di asfodeli mi fermo a cogliere una fronda di leccio. Questa fronda è l’immagine dell’Italia, queste foglie verdi, frastagliate come coste marine, sono l’Italia: che è cosa della natura, un frutto della natura, e gli uomini che nascono da lei sono cose della natura anch’essi, sono i frutti di questa fronda, sono animali bellissimi, e nel chiarore argenteo dell’alba li odo chiamarsi da roccia a roccia, da olivo a olivo, da barca a barca, e hanno voci dolci, lente, remote. E non son voci d’uomini, son voci della natura, come la voce del mare, del vento, delle fronde degli alberi, degli uccelli marini, come le voci degli animali che si chiamano dalla terra e dal mare.24 (...) Un delitto cristiano, 1944 II. Quando il sentiero che da Tragara prosegue verso Matromania, svolgendosi a picco sul golfo roccioso di Tragara, ai piedi dei Faraglioni e del Monacone, scendendo e risalendo per rocce e valli e botri selvosi o nudi scogli a picco sul mare, giunge alla svolta che è sotto il Pizzolugno, l’aspetto del paesaggio cambia all’improvviso... È un paesaggio deserto dove l’uomo si sente straniero. Non è più la grazia languida del golfo di Napoli, ma la dura bellezza e selvaggia della Grecia. Un paesaggio abbandonato, rifiutato dall’uomo, come Delfo, Micene. Cui l’uomo rinunzia, per sua debolezza, per paura. (Per paura di sé). Rari sono i passeggeri che si addentrano per quelle rocce e quelle fitte selve di mirti, di ginepri, di lecci, di cipressi, fra i quali il pino prorompe solenne e triste. (...) Non v’appaion case, né segni della presenza dell’uomo, del suo lavoro, della sua vita. La montagna cade a picco sul mare, dalla cresta del Pian delle Noci e di Tiberio, sulla selva di Matromania, e tutta scavata di grotte segrete, profonde, che aggiungono al misterioso e pauroso di quei luoghi. Come spaurito di quella selvaggia natura, lo sguardo si ritrae dal monte, si allontana per un’immensa e dolcissima prospettiva d’acqua, di cieli, di isole remote, di remote rive, delicate nella luce rossa e grigia, tenuissima. L’occhio trascorre dal golfo di Castellamare, da Sorrento, al ciglio verde della montagna di Agerola, al clivio di Ravello lontanissimo, alle lontananze delicate e grigie del golfo di Salerno. Nei giorni chiari, proprio di faccia, è visibile oltre il golfo la costa di Pesto, oltre la foce del Sele, oltre Agropoli: e in certe ore del mattino, quando l’aria è trasparente, si vedono rosseggiare, sulla riva sabbiosa (un’apparizione misteriosa, quasi un ricordo), le colonne dei templi di Pesto. In quella parte dell’isola, la particolare bellezza di Capri esprime con libera intensità la sua profonda, dolorosa tristezza. L’uomo, di fronte alla natura, è per sé stesso vile. Accetta la bellezza senza lotta, senza resistenza, come un dono felice. (...) III. Il paesaggio si appoggiava dolcemente al vetro della finestra, con le sue delicate tinte di pastello sbiadito. L’alta parete rocciosa di Matromania faceva da quinta al remoto abbandono della costa di Amalfi, pallidissima nel cielo di un verde tenue, venato di lievi cicatrici rosee. Cosimo era seduto sul divano, nella “corte”, quasi immerso nel paesaggio appoggiato al vetro del finestrone. Si cominciò a muovere piano piano, su un fianco, cercando di non respirare. Si alzò in piedi, mosse qualche passo sul lastricato del pavimento. La suola di gomma delle sue scarpe da tennis aderiva strettamente alla superficie ruvida della pietra di Massa. Gli pareva di far fatica a camminare... si avvicinò in punta di piedi alla porta che dà sul corridoio interno, sulla piccola anticamera interna. Nella penombra dell’anticamera intravide gli aspetti familiari delle due stampe colorate di Alessandro di Russia. (...) In quel suo primo tentativo quasi inconscio, in quel suo primo istinto, in quel suo primo incerto e pallido tentativo di volontà, e di azione, egli si aggrappava inconsapevolmente a tutti gli appigli che gli capitavan sotto mano nel breve tragitto dalla corte alla stanza di Lavinia. Ora era fermo davanti alle due stampe appese al muro... Si mise a ridere, mordendosi il dorso della mano sinistra appoggiata al muro. E a un tratto tornò indietro. Aprì adagio adagio la porta, si fermò sulla soglia, misurò con lo sguardo l’immenso salone. (...)
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IV. Il cielo s’incrinò a un tratto, e dal labbro della lieve ferita uscì a poco a poco un paesaggio triste e severo, un ordine di colonne rossastre sullo sfondo azzurro dei monti. Erano le colonne dei templi di Pesto, di contro ai monti del Cilento, bianchi di neve. Il cielo era di una purezza spettrale, sembrava un cielo di plenilunio. Quasi una macchia il sole pendeva dall’arco azzurro, dello stesso colore del cielo, forse un poco più opaco. E non dava ombra... Un profondo silenzio era sospeso come una luce sul mare. Solo il grido dei gabbiani rodeva ogni tanto l’orlo di quel silenzio... Gli alberi sorgevano lentamente nella luce intensa, diffusa, ingigantivano, si addensavano in macchie di un verde denso, umido, profondo. Anche le rocce emergevano dai fianchi del monte, gli arbusti, i cespugli, i fili d’erba. Paolo camminava lungo il sentiero che sale a Matromania, e proprio nella selva di asfodeli, che si stende dal piede degli olivi del Massullo verso Matromania, udì un sibilo lieve, un richiamo dolce e sottile, udì frusciare nell’erba, si fermò, rimase in ascolto. (...) V. (...) L’aria era serena, il cielo puro. Ma ogni tanto qualche improvviso soffio di vento, uscito chi sa di dove, penetrava acuto come una lama di coltello dentro le macchie d’erba e di rovi, sibilando. Nubi di polvere si alzavano lontano, dal nudo monte del Deserto, era una polvere rossa, che si spandeva sul mare, nel vento di greco... Poi, una mattina, dopo tre giorni di attesa inquieta, il mare prese un colore scuro e denso, di un bel turchino triste, lucidissimo. Il vento di grecale vi trascorreva sollevando veli d’acqua e di schiuma bianchi, pareva un ghiacciaio, l’immensa distesa di un ghiacciaio all’annuncio primo della tormenta. Eppure la natura intorno era calma, se non serena. La voce dei grilli al calar del sole risuonava acuta, allegra, giovanile, spensierata, era una voce giovane, un canto fiducioso e tenero. Il canto incrinava il cristallo puro della notte. Erano gli ultimi giorni di luna, la luna sorgeva assai tardi, nel cuor della notte, tramontava nel chiarore bianco dell’alba. (...) VI. (...) Stefano usciva all’alba, si arrampicava sulle rocce, andava a vedere il refrigerio che la notte aveva apportato agli alberi e alle piante e agli animali. Il cielo si tingeva di rosa, deliziosamente, dietro lo schermo vitreo dei monti del Cilento... Il mare era teso come una tela di seta, i gabbiani gridavano dal Monacone, senza avventurarsi nell’aria già calda. Dietro il “castello”, verso settentrione, le piante non avevano sofferto. La terra vi è grassa, profonda, e l’ombra della costruzione massiccia vi tratteneva gelosamente l’umidità. (...) Ed era in quelle ore della prima mattina, che Stefano assaporava la severa purezza della natura e quel senso mortale, funebre, della bellezza dell’isola. Alla ineffabile dolcezza del paesaggio della costiera di Sorrento e di Amalfi, quelle lontananti prospettive argentee e azzurre, quella diffusa, aerea, sospesa caligine argentea e verde nell’aria, quel delicato suggerir di piani remoti, uno stinto sull’altro, fino alle quasi invisibili montagne dell’interno..., la nuda, aspra, dura, severa, funebre nudità di Capri, quella precisa, immediata, definitiva presenza di acque, di scogli, di alte pareti di rocce precipiti, quelle rupi a picco, quelle macchie di verde nei crepacci del monte, quell’improvviso trascolorar argenteo di olivi contro la rossa e dura roccia, quell’argenteo verde trascolorar dei rosmarini, quei bianchi cieli stellati delle selve di asfodeli lungo il sentiero di Matromania e, a ponente, l’architettura guerriera, mitica dei Faraglioni, facevan duro contrasto, creavano all’improvviso, all’occhio e allo spirito distratti e migranti nella delicatezza del remoto paesaggio oltremarino, un paese non di amanti, non di amori, ma di spettri, di nudi spiriti in lotta. (...) È qui che Stefano si sentiva finalmente in accordo con la natura. È qui che la coscienza della sua impurità cessava di umiliarsi, diveniva attiva. (...) Così piccola cosa è l’uomo, e i suoi sentimenti più profondi e più veri, a confronto con quel gelido riserbo della natura, con quella attesa immota... Il belar di qualche capra spersa sul monte, il suono di voci che sale dal mare, voci di pescatori modulate su una lunga nota acuta, il cigolio dei remi negli scalmi; lo stridere dei gabbiani roteanti intorno alla cima dei Faraglioni, l’ombra del falco raggiato di sole, a picco sul mare, e il battere ritmico delle onde sul tamburo del mare, ... il mormorio del vento negli alberi, e quei gridi improvvisi dolorosi, subito spenti nel gran silenzio azzurro intorno... (...) VII. Cosimo uscì e la seguì di lontano. Lavinia camminava sulla terrazza, si stagliava contro il cielo nero. Era vestita di bianco, pareva una statua. Il vento le gonfiava i capelli, era come un’apparizione. (...) Fu allora che Cosimo osservò la grande nuvola nera che incombeva sul mare. Era una grande nuvola color pece, densa lucente, la sua ombra cadeva a picco sul mare sconvolto e sul tetto di quella nuvola una luce rosea splendeva, era la luce della luma, che a poco a poco saliva dalle profondità del cielo. Di contro a quel cielo tempestoso, la muraglia di Matromania si drizzava dura e minacciosa, tutta percorsa da lenti guizzi bluastri, da enormi e profonde vene verdi. Il sommo della muraglia era avvolto in gialli vapori, che il vento scomponeva rabbioso, come una capigliatura. Il mare urlava, e quel grido lungo, insistente, doloroso, dava alla scena selvaggia della tempesta un accento di pietà, un delicato tono, quasi una voce triste e dolce. (...) Stefano era disteso fra i mirti, e guardava Lavinia muoversi lentamente sull’immensa terrazza, camminare nel nero vento della tempesta, inciampare ogni tanto nel rauco respiro delle onde che saliva dal mare selvaggio. IX. Debbo ricominciare da capo, si disse, son partito col piede sbagliato. E come uno che si prepara a partire per una corsa, che allunga il piede innanzi, l’altro dietro, e si curva in avanti, teso, Cosimo si mise in fondo
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alla ‘corte’, con le spalle appoggiate al muro, il piede destro un po’ più avanti del sinistro, e a un tratto si mosse, lentamente, La luce che, rimbalzando sul mare, veniva a frangersi nel soffitto e di lì pioveva sul pavimento, lo illuminava in pieno. E così si fermò, guardò giù il mare. Una lieve brezza increspava le onde. Tramontana. Un po’ di bracia palpitava nel grande camino. Non son fatto per questo, si disse. Provava un sentimento strano, giovanile. Da bambino, gli pareva di giocare. Senza accorgersi attraversò il salone, il corridoio, l’anticamera, spinse la porta della stanza di Lavinia...25 (...) da Calagrande all’Argentario, 1937 (...) Ad ogni passo mi veniva incontro un’aria densa di odori violenti dove il sentore acuto del vento si mescolava a quello dei licheni, degli aranci, dell’uva... L’odore caldo del mare si alzava davanti a me, come un alto muro. (...) (...) Lì enormi rupi piombavano a picco sul mare. È come una conca, un arco che per lungo tratto abbraccia un profondissimo specchio d’acqua, dove le barche dei pescatori trovan rifugio nei giorni di tempesta: i due promontori che terminano l’arco stringono lo specchio marino come nelle morse di una tenaglia, e pareva infatti di udire uno scricchiolio strano (era certo lo strepito delle onde contro gli scogli), simile allo scricchiolio di una lastra di materia dura stretta fra le morse di una tenaglia.26 (...) da La tempesta, 1940 (...) Stefano si andava talvolta abbandonando ai pensieri più inconsueti, nelle ore notturne che egli trascorreva nella immensa corte del ‘castello’ seduto davanti ai cristalli, di fronte alla pura e immota fuga delle rive e delle acque, nella luce fredda degli astri, nel loro riverbero nel mare. (...) (...) Si metteva a ridere, guardandosi intorno, sentendo quella presenza di sé, quella presenza estranea di sé, a sé medesimo, presente e sensibile. Spesso si addormentava davanti al cristallo, e si svegliava all’alba, nel tramonto della luna. Usciva allora sulla terrazza del ‘castello’ e lì, davanti a quella morte dolcissima della notte, davanti a quel labbro orientale che si tingeva di rosa, a quella bocca ancora immersa nell’ombra che a poco a poco si accendeva, si muoveva, e le parole giungevano dapprima indistinte, fino al grido, al primo grido rosso del giorno sul mare cinereo (...) (...) Si udiva il mare battere fiaccamente contro lo scoglio, l’acqua, l’onda dentro le cavità della roccia faceva una musica dolce e triste, quasi la voce di un animale. Il mare respirava lento dietro la porta, come una mucca. Gli astri, nel cielo altissimo, e puro, splendevano intensamente, senza tremolare, con una loro fissità immota che ne accresceva lo splendore, dava un che di misterioso e di intenso al loro fisso splendore. Un fuoco era acceso sulla sommità dei monti, laggiù dietro Pesto. Era un fuoco pallido, in astro esangue.27 (...)
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Lettera a Maria Montico, 1941 Capri, 30 novembre 1941 XX Cara Maria, durante la mia assenza, la prego di curare perché siano condotti a termine, o comunque eseguiti, i lavori di cui segue l’elenco, raccomandandosi per l’esecuzione a Mastro Amitrano e a Ciro. 1° Il tappezziere deve fare la tenda nel mio studio, lunga fino a terra, e della larghezza indicata dal segno in lapis da me tracciato sul muro. 2° Il tappezziere deve fare le tende nel salone con la stoffa esistente: la stoffa è piuttosto scarsa, ma ciò non deve impedire che le tende siano eseguite. Vuol dire che verranno senza cannoli. Ciò non ha importanza, poiché le tende saranno quasi sempre aperte. 3° Il tappezziere deve fare la tenda nella mia camera da letto, lunga fino a terra, e della larghezza delle prime due tende del mio studio, con quella stessa stoffa. E così pure la tenda nella stanza della favorita. 4° Il tappezziere deve coprire i tre divani. 5° Il falegname deve ultimare l’osteria e il camino, deve ultimare lo studio (sostituire la cornice alla libreria, nel punto in cui si è rotta, verso la stufa, applicare la cimosa sulla scrivania, sotto l’orlo della finestra, e la persiana e la pedana sotto la scrivania) e togliere la linea barocca alle porte di Guardascione (quelle del piano nobile). Per questi lavori non è necessaria la mia presenza. 6° Ciro deve far chiudere i margini sotto i finestroni, e applicare lo stucco a vernice sotto i cristalli, all’esterno, come promesso da Mastro Giovanni. 7° Il falegname deve dar la cera alla scala mia, la cera alla scala di servizio, raschiare e dar la cera al pavimento dell’osteria, riguardare e aggiustare le porte sbagliate. 8° Ciro deve far mettere i sifoni - o cassette - in tutti i bagni. Stia bene attenta al cattivo odore. Ho già detto a Mastro Adolfo che lui mi deve fare il piacere di eliminarmi questo grave inconveniente, di chiunque sia la responsabilità. 9° Ciro deve far mettere il pavimento (pietre e mattoni) sulla terrazza esterna, e sui pianerottoli esterni. 10° Mastro Adolfo deve far mettere il passamano alla scala-stradetta, di legno nei punti meno pericolosi, di ferro nell’ultimo tratto e, se ne avanza, anche presso la roccia a punta a metà scala. Deve far mettere anche il cancello a metà scala. 11° Stia attenta alle macchie di umido che si formano sui muri. Se son basse, è segno che provengono dal basso, se son alte, provengono dall’alto. Sorvegli i punti di innesto dei ferri della ringhiera della terrazza nel pavimento della terrazza stessa. È di lì che passa l’umido. 12° Faccia mettere il quadro elettrico, e il motore della cisterna. Si ricordi, che passato l’inverno, la cisterna deve essere pulita e piena d’acqua, e che nessuno deve più tornarci. Altrimenti rimarremo
senz’acqua d’estate. 13° L’ultimazione della terrazza esterna è importantissima, perché permetterà la raccolta dell’acqua piovana nella cisterna piccola, la quale dovrà servire ai lavori di intonacamento della casa. 14° A poco per volta faccia portare giù in cantina le bottiglie in deposito in casa Amitrano. 15° Tutte le mattine, quando piove, accenda la stufa nel mio studio, in modo che la stanza si mantenga sempre asciuttissima, e così i libri, quando verranno, non troveranno umidità e non soffriranno, come pure non soffrirà la grande stampa alla parete. Nei giorni di bel tempo, accenda la stufa due giorni la settimana. Ma l’accenda per tutta la giornata, non per un’ora sola. 16° Mantenga sempre puliti i fori d’innesto dei ferri delle finestre, in modo che le finestre si possano chiudere benissimo. 17° Il fabbro Massimino di Anacapri ha avuto i soldi in acconto per gli scaffali di ferro nella cantina. Lo solleciti, perché la cantina senza scaffali è un disastro. Come pure lo solleciti per la rete alla finestra della cantina: se no, entrano i topi. 18° Copra il prosciutto con un velo, per evitare che ci si posi il moscone. 19° Solleciti Ciro perché metta i bagni di marmo. Li voglio trovare al mio arrivo. Ciò renderà abitabile il piano superiore (mi organizzerò provvisoriamente, col mio letto di giù, la stanza della favorita) e permetterà di mettere il passamano alla scala-stradetta. Se il marmista non ci si ritrovasse con i marmi, chiami Castello, che mi ha aiutato a fare il disegno, e può aiutare il marmista. 20° Scriva ogni tanto al vetraio Lettera per gli specchi. Mi faccia la cortesia, quando riceverà i soldi, di ordinare a Lembo due vetri della grandezza delle finestrine dei bagni degli ospiti (le finestrine in alto sul corridoio) e li faccia mettere. Così non si sentiranno più gli ospiti lavarsi. Li ordini spessi, i vetri, così attutiranno i rumori. 21° Sorvegli Cerrotta per il maiale. Quel fesso è capace di farlo morir di fame. Vada a trovare Guglielmo [il maiale] ogni tanto. 22° Se il prosciutto si guasta, mangiatelo. 23° Cerchi di lasciarmi una delle due forme di lardo croato. 24° Quando verranno i tappeti, li metta all’asciutto. Li poseremo per terra al mio ritorno, a stagione buona. 25° Importante! Per illuminare le statue, ci vuole una lampada dall’alto, a circa trenta-quaranta centimetri sulla testa delle statue; al centro, in alto. Bisogna che Vittorio l’elettricista mi metta l’attacco per questa lampada. L’attacco deve essere comandato dalle due porte d’ingresso del salone. 26° Faccia comperare un coniglio maschio e due femmine, e li faccia mettere sul roccione, in cima. Ciro sa dove. Così in pochi mesi avremo conigli a bizzeffe. 27° Quando saranno andati via gli scalpellini, faccia pulire tutto intorno alla casa, ma pulire sul serio, per
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evitare che si formino le zanzare e le mosche. 28° Faccia raschiare e pulire con cera la tavola della panca davanti al camino. 29° Nel caso ci siano ospiti, non serva la colazione a letto la mattina. Ma la prepari nell’osteria, con tutti i bricchini, etc. Gli ospiti, chiunque essi siano, faranno colazione dopo essersi lavati e vestiti, tutti insieme. Si ricordi che in una casa signorile si fa così. 30° Si fissi un giorno alla settimana di vacanza, per esempio la domenica. Anche se ci sono ospiti. Nel qual caso, prepari il sabato da mangiare (freddo: carne fredda, etc.) e così la domenica lei è libera. Può darsi che per la domenica gli ospiti vadano a mangiare in paese. Si ricordi che in tutte le case inglesi la domenica si mangia freddo, appunto per questa ragione. Dunque non è mancar di riguardo agli ospiti eventuali, chiunque essi siano. 31° Tolga il suo mangiare per sé, prima di portare in tavola. Se lo ricordi. 32° Cerchi di essere sempre vestita, o con un grembiule (se ne faccia fare, o bianchi, o verdi, o rossi, o azzurri etc.) o col vestito croato. Il grembiule deve essere ampio e lungo. Lei non lo vuole capire, ma sta molto meglio così. Lei ha un po’ l’abitudine di andare in giro per la casa vestita come Dio vuole. 33° Prenda una donna per lavar la biancheria pesante. 34° Faccia portare il carbone a casa. Si provveda di legna. Bisogna che ci sia sempre legna in abbondanza. Caso mai telefoni al padrone del ristorante Campanile, al marito di Maria, Signor Cannavale. È lui che vende la legna. Non si fidi della pigrizia di Ciro, che dice sempre “domani”. 35° Se vengono i libri, li tolga dalle casse e li disponga nella libreria . Li mettrò in ordine io, per materie, al mio ritorno. 36° Se viene Margherita, si faccia sempre vedere vestita bene. Margherita è austriaca, e dà molta importanza a queste cose. Che sono molto più importanti per lo stile di una casa signorile (tipo castello come il Massullo) di quanto lei non creda. 37° Quando il pavimento è finito, e asciutto, metta pure il tavolone sulle due colonne-base. Lo metta parallelo alla finestra di tre metri che guarda i Faraglioni. Lo faccia spolverare, e dargli una mano di cera, di quella buona, solex, che abbiamo noi. Sempre, per i mobili, e le pareti dell’osteria, faccia adoprare il solex (anche per la scala di legno).28 Lettera a Orfeo Tamburi, 1942 Capri, 16 novembre 1942 Caro Tamburi, ormai la casa è finita. Sto ficcando nel muro gli ultimi chiodi, appendendo gli ultimi quadri. E ogni tanto mi metto a seder per terra, guardo il muro liscio e bianco dell’anticamera, tenendo in una mano la foto del suo mosaico, e socchiudo gli occhi pensando a come starebbe il muro col suo Apollo e col suo Marsia. Starebbe bene? quel verde un po’ giallo, non stonerebbe? oppure, come vede dentro di sé Tamburi, io non ne capisco niente, come tutti gli scrittori, del resto? Son dunque proprio un cretino? e se così fosse? Nell’anticamera superiore starebbe bene la Madonna etiope nel caso che io mettessi il suo mosaico in quella inferiore. Così si stabilirebbe un rapporto di toni, che non mi dispiacerebbe. Avevo già condannato la Madonna etiopica, l’ho tirata fuori del ripostiglio, l’ho messa con le spalle al muro, e mi son venuto persuadendo che se metto il Marsia metto la Madonna, e se metto la Madonna metto il Marsia, e che non posso metter la Madonna senza il Marsia, e non il Marsia senza la Madonna che te frega. Ma la Madonna lei me l’ha consegnata senza una striscia laterale, e allora dovrei tagliarla, e tagliandola verrebbe troppo stretta e lunga, non più in proporzione col Marsia. Vuol farmi la cortesia di vedere, caro Tamburi, se ha in casa sua, o allo studio, quei pezzi di stoffa con aquile, fiori ecc. decorativi, che rimasero inutilizzabili di tutte le pitture etiopiche? Se ne ha, me ne mandi qualche striscia, debbo riempire una striscia di un metro e mezzo per 30-40 cm. Faccia la carità al povero Belisario e mi risponda subito, la prego, in modo che mi sappia regolare. Se poi si decide a venir da me, a passar qualche tempo di delizia e di lavoro, venga pure, e mi farà un immenso piacere. Il suo Curtino Preferirei dei pezzi di quei grossi fiori, tipo margheritone, si ricorda? Sono nel margine in alto delle Madonne.29 Giornale segreto, 1943 Capri, 28 Settembre 1943, Martedì Ruggero Marotta a colazione. Cianca sta male. Febbre molto alta. Alle 2 terribile temporale da ponente, un’enorme tromba marina che si scioglie, anzi si scatena, in pioggia e in turbine di vento. Alle 16,30, saliamo in paese, Marotta, Didi Rulli ed io. Alla Solitaria incontriamo [....] che viene a portarmi il libro di Junger (Rocce di marmo). Io porto un chilo di riso a Cianca. Visto Bracco e l’abbacchiato Nutti. Poi da Cianca, con Elena Croce, Craveri e la sorella. Cianca si era assopito. Per non disturbarlo siamo entrati nella camera del Magg. Munthe e del Ten. Galliegos. Sul tavolino da notte di Galliegos c’era un’edizione completa di Shakespeare, e un - Lexicon of the italian painters. Fo da infermiere a Cianca, finché torna Tarchiani andato a cena. Temporale. Poi dai Dombré. C’era Elsimar soltanto. Didi ha dormito in paese. 29 Sett. Mercoledì Lavorato, un po’ stanco. Iniziato la Parte Terza: “I cani” di Kaputt. Alle 13,30 tornato Didi. Alle 16 dormivo, son venuti: Marotta e Gastone de Luca, il giovane chirurgo. Maria è andata in paese. (Ho mandato i pesci fritti a Tarchiani). Alle 18 sono salito da Cianca. Sta meglio. Venuta Elena Croce e due sorelle. Poi Schiano, Aldo Garosci, Craveri. Poi il Magg. Munthe, col quale ho parlato di Axel Munthe in Svezia ecc. Garosci grosso, grasso, preciso e abbondante. Craveri semplice, moderno, intelligente, simpatico. Poi con Didi ad assistere Cianca fino alle 21,30. Poi a casa. Alle 23 a letto. Giornata non ancora del tutto serena, e un po’ più fresca. 30 Sett. Giovedì Bellissima giornata. Mentre lavoro, passa il convoglio inglese e americano diretto a Napoli: sei trasporti speciali, con due incrociatori... Le navi cariche di carri. Poi, alle 11, venuti Cottrau, poi Francis Buselli, la piccola Croce. Non salgo nel pomeriggio in paese. Didi è rimasto in paese. Non ho chiuso occhio per la fame. 7 Ottobre 1943, Giovedì Non ho dormito. Mi sono alzato alle ore 6. Tempesta in mare. Sceso a tirare su il sandolino che il mare minacciava di portare via. Ho deciso di parlare francamente a X, presente Y. Sarà l’ultimo tentativo di salvare X dalle sporcizie che dicono sul suo conto. Se non riesco neppure così, rinunzierò a X, sebbene con rammarico. Se io fossi stato a Capri quando X l’hanno preso come ospite, ciò non sarebbe probabilmente accaduto. Poi, après tout, vadano al diavolo loro e le loro démangeaisons (si scrive così? meglio dire pruriti). Stamani, alzandomi all’alba, ho pensato quanto tristi diventano i giorni, allorché una donna li sporca, L’alba era anche essa grigia e sporca. Nel pomeriggio ho mandato a X una lunga lettera. Alle 16 son venuti Longanesi e Steno, sotto un violento temporale: erano bagnati fradici. Poi è sopraggiunto X. Leo trova la casa bellissima. Leo e Steno partiti, X e io abbiamo parlato gentilmente, se pur con grande
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amarezza. Sono salito con lei, andato da Cianca, poi a cena all’Ercolano dove ho avuto un incidente con una delle tante sporche spie americane. Alle 23 tornato a casa.30 1
da Gli ultimi giorni di Capri (1944), in E. Ronchi Suckert, “Malaparte”, vol. VI, Ponte alle Grazie, Firenze 1993. 2 Poesia Mattino a Marina Corta (1934), in E. Ronchi Suckert, “Malaparte”, vol. III, Ponte alle Grazie, Firenze 1992. 3 Poesia Isola (1934), in “L’Arcitaliano e tutte le altre poesie”, Vallecchi, Firenze 1963. 4 da Kaputt (1944), in C. Malaparte, “Kaputt”, Aria d’Italia, Roma-Milano 1948, pp.460-461. 5 da La passeggiata, racconto in “Fughe in prigione” (1936), in ‘Il meglio dei racconti di Curzio Malaparte’, Oscar Mondadori, 1991. 6 da Brano senza titolo (Ed ora eccomi qui, su questa piccola isola di Lipari ..., 1934), in E. Ronchi Suckert, “Malaparte”, vol. III, Ponte alle Grazie, Firenze 1992. 7 da Il lebbroso di Lipari (1934), in E. Ronchi Suckert, “Malaparte”, vol. III, Ponte alle Grazie, Firenze 1992. 8 Brano da La pelle (1949), in C. Malaparte, “La pelle”, Aria d’Italia, Roma-Milano 1949, pag. 201 9 da L’isola di pietra galleggiante (1934), in “Il Corriere della sera”, 28 novembre 1934. 10 da Axel Munthe e gli uccelli (1938), in “Il Corriere della sera”, 27 aprile 1938. 11 da Un delitto cristiano, I (1944), in E. Ronchi Suckert, “Malaparte”, vol. VI, Ponte alle Grazie, Firenze 1993. L’autrice riporta di seguito (pp. 527-541) nove diversi inizi per “Un delitto cristiano”. 12 da L’isola di Adamo ed Eva (1934), in “Il Corriere della sera”, 31 agosto 1934 13 Un palazzo di acqua e di foglie (1940), in “Aria d’Italia”, 21 maggio 1940 14 da Città come me (1937), in “Il Corriere della sera”, 14 febbraio 1937 15 Brani da Maledetti Toscani (1956), in C. Malaparte, “Maledetti Toscani”, Leonardo editore, Milano, pp. 35-36, 127. 16 da Città di pane (1940), in “Il Corriere della sera”, 26 aprile 1940 17 da Cielo e terra (1938), in “Il Corriere della sera”, 5 gennaio 1938 18 Brani da Benedetti Italiani (1961, postumo), in C. Malaparte, “Benedetti Italiani”, Vallecchi, Firenze 1961, pp. 157-158, 191, 254-255. 19 da Kaputt (1944), in C. Malaparte, “Kaputt”, Aria d’Italia, Roma-Milano 1948, pp. 8, 251, 254, 292-293. 20 Il mondo è lo scrittore che lo crea (da Brano senza titolo, 1947), in E. Ronchi Suckert, “Malaparte”, vol. VII, Ponte alle Grazie, Firenze 1993. 21 Ritratto di pietra (Capri, 1940), in Atti del Convegno “First Soviet-Italian Symposium on macromolecules in the functioning cells”, Capri 1978. Poi pubblicato senza data con il titolo Una casa tra greco e scirocco in “Il Mattino del sabato” di Napoli, 20 giugno 1978. 22 Brano da Kaputt (1944), in C. Malaparte, “Kaputt”, Aria d’Italia, Roma-Milano 1948, pag. 285. 23 Brani da La pelle (1949), in C . Malaparte, “La pelle”, Aria d’Italia, Roma-Milano 1949, pp.45-46, 174-175, 249-250, 253-254. 24 Brano da Benedetti Italiani (1961, postumo), in C. Malaparte, “Benedetti Italiani”, Vallecchi, Firenze 1961, pp-7-8. 25 Un delitto cristiano II, III, IV, V, VI, VII, IX (1944) in E. Ronchi Suckert, “Malaparte”, vol. VI, Ponte alle Grazie, Firenze 1993. L’autrice riporta di seguito (pp. 527541) nove diversi inizi per “Un delitto cristiano”. 26 da Calagrande all’Argentario (1937), in “Il Corriere della sera”, 19 ottobre 1937. 27 da La tempesta (1940), in E. Ronchi Suckert, “Malaparte”, vol. V, Ponte alle Grazie, Firenze 1992 28 Lettera a Maria Montico (20 novembre 1941), in M.I. Talamona, “Casa Malaparte”, clup, Milano 1990. 29 Lettera a Orfeo Tamburi (16 novembre 1942), in E. Ronchi Suckert, “Malaparte”, vol. VI, Ponte alle Grazie, Firenze 1993. 30 Giornale segreto (1943), in ibidem
“Ogni uomo è un’isola” Curzio Malaparte - brani scelti da Gianni Pettena - foto Mario Cozzi e Alberto Scribani - inserto staccabile di Firenze Architettura 1.2005
Postfazione Nell’avvicinarmi a Casa Malaparte, a ciò che ha rappresentato per lo scrittore, a ciò che racconta a noi oggi, sono stato guidato dal coinvolgimento in un processo di simile avventura, all’isola d’Elba: l’innamoramento nei confronti di un luogo a picco sul mare, isolato e ‘selvaggio’, il rapporto con una natura forte, prevalente, che ha le sue regole e ti costringe a un dialogo che si sviluppa nell’attenzione ai dettagli, alle materie, nel costruire una ragione per essere lì (ci si scopre, ogni volta che si torna, a compiere dei rituali che sono del tutto simili a quelli dell’animale che
marca di nuovo il proprio territorio...). E poi la fatica della costruzione, portar giù i materiali, accompagnare sul luogo i muratori, gli artigiani, e ancora l’attenzione allo sviluppo della costruzione - alimentata dal costante dialogo con gli amici - e ai diversi momenti solo tuoi che il divenire della costruzione, già abitata, interpreta. Ora, trascorsi gli anni, sono già guidato a una rivisitazione, perché la somma dei piccoli reperti lasciati da chi in quel luogo ha abitato anche per brevi periodi - compresi i miei - costituisce ormai un piccolo universo di stratificazioni successive, a partire dall’originario ruolo di ri-
covero per una rete di tonnara. Casa Malaparte, anche in questa chiave, mi ha raccontato molto, molte similitudini a comportamenti deducibili da ciò che lo scrittore ci ha lasciato, in forma di poesia scritta con i mattoni, ma anche come diario, un insieme di osservazioni minuziose sull’avventura dell’acquisto e sulla costruzione, così come scritti più generali, più teorici. Lo scrittore rivela così, intatte, quelle attitudini che, indagate e coltivate, riescono a far emergere la nostra capacità di comprendere e relazionare con l’ambiente nel modo che, chi parla ancora il suo vernacolo, sa fare.
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I giardini medicei del Cinquecento: natura e arte nel Journal de Voyage di Michel de Montaigne Grazia Gobbi Sica
Si j’estois du mestier, je naturaliserois l’art comme ils artialisent la nature. (M. de Montaigne)
Nel saggio Montaigne e il suo viaggio in Italia Alessandro D’Ancona individua il rapporto tra il diario di viaggio e molti capitoli degli Essais “nell’assidua osservazione del proprio interno e nella sagace e retta considerazione delle cose esterne”.1 Oltre le Alpi, dove Montaigne si reca attratto dal mito di Roma non meno che alla ricerca di rimedi efficaci per la sua salute, si apre un vasto campo di osservazione in cui vi è la possibilità di osservare direttamente mores hominum multorum et urbes. Osservazione dell’uomo e osservazione della natura, dunque: “la grande image de nostre mere Nature”2 interessa infatti Montaigne soprattutto in quanto teatro delle azioni umane. Nella sua osservazione dell’uomo e della natura Montaigne, dotato dell’“honneste curiosité de s’enquerir de toutes choses”, ritiene che “il fault tout mettre en besongne et emprunter chascun selon sa marchandise, car tout sert en mesnage”.3 Precursore di quel Grand Tour che diverrà moda ricorrente un secolo e mezzo più tardi per la rifinitura educativa della classe dirigente, egli sostiene che il viaggiare sia un esercizio giovevole, perché “l’anima si esercita continuamente a notare le cose sconosciute e nuove”: non c’è scuola migliore “per formare la vita che di metterle continuamente avanti la diversità di tante altre vite, idee e usanze, e di farle gustare una così perpetua varietà di forme della nostra natura”. Il desiderio di scoprire l’uomo nella varietà delle sue inclinazio-
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ni, dei suoi costumi e, come vedremo qui in particolare, nella sua attitudine a trasformare l’ambiente che lo circonda, rendono Montaigne, agli occhi di noi posteri, una figura di studioso di assoluta modernità, per il desiderio di conoscere, di vedere e scoprire quanto più possibile senza stabilire graduatorie d’importanza. Come afferma ancora il D’Ancona: “Nulla vi ha di frivolo per lui, perché nulla ei guarda con frivolezza”.4 Qui, isolando alcuni frammenti all’interno dell’opera di Montaigne, e particolarmente del Journal, ci proponiamo di analizzare una zona d’interesse collaterale, ma che testimonia secondo noi, per l’appunto, un gusto e una sensibilità assolutamente moderni: si considererà l’attenzione di Montaigne per il paesaggio che egli ha modo di osservare scendendo in Italia, e in particolare per i giardini. Si è detto che la modernità della figura di Montaigne, non semplice turista ma autentico viaggiatore, emerge nella curiosità e nell’amore per la scoperta che lo portano ad adeguarsi alle varie peculiarità dei luoghi senza preconcetti, anzi con uno spirito assolutamente aperto alle realtà diverse e multiformi che si presentano al suo sguardo; e poi nell’attenzione prestata agli spettacoli più vari e ai percorsi meno convenzionali: anche lo svolgimento del suo itinerario è determinato da un’attitudine libera da categorie precostituite. Inoltre, in ogni occasione Montaigne si mostra pronto a rivedere la prima opinione che aveva espresso, se ha la possibilità successivamente di una più approfondita conoscenza e di una più meditata riflessione: si veda per esempio l’opinione espressa su Firenze, città non partico-
larmente apprezzata, in un primo momento, nonostante la vista panoramica dal campanile di Giotto (“Je ne sçay pourquoi cette ville soit surnommée belle par privilege; elle l’est, mais sans aucune excellence sur Boulongne, et peu sur Ferrare, et sans comparaison au dessous de Venise”, p. 83); quell’opinione sarà rivista dopo una ulteriore visita, quando Montaigne dichiarerà: “infine confessai ch’è ragione che Firenze si dica “La bella””).5 Al tempo di Montaigne esistevano guide che indicavano i luoghi da visitare, davano informazioni sulle abitudini e sui costumi dei popoli, citavano i monumenti pubblici e privati più significativi. Fra questi Baedeker del XVI secolo era la Cosmografia Universale di Sebastian Münster, corredata delle piante delle città; delle maggiori essa riportava anche gli epiteti (Venezia la ricca, Milano la popolosa o la grande, Genova la superba, Firenze la bella, Bologna la grassa, ecc.). Montaigne probabilmente aveva consultato queste guide prima di partire, ma anche se si dispiace di non averle portate in viaggio, come ricorda il suo segretario, probabilmente non ne avrebbe seguito le indicazioni: egli non è interessato infatti alle considerazioni generali, quanto al particolare; non a quello che avrebbe dovuto vedere, quanto a quello che ha realmente visto. Durante il viaggio, l’interesse maggiore di Montaigne è per la città come aggregato di costruzioni e di funzioni; l’architettura suscita grandemente la sua attenzione, specie nella sua contrapposizione al territorio. Numerosissime sono le notazioni sui caratteri del paesaggio, e dell’agricoltura che di quest’ultimo è elemento costitutivo e
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1 Giambologna, 1580 ca. il Gigante Appennino nel parco di Pratolino
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centrale. Ancor di più suscitano la sua attenzione palazzi e chiese, così come ville e giardini: questi ultimi in particolare sono l’oggetto, come si è detto, della nostra indagine. Prima di tutto, seguendo le tappe del viaggio, consideriamo quali sono i giardini visitati da Montaigne. La prima tappa per una visita a un giardino è a Pratolino (novembre 1580); segue la villa di Castello (24 novembre 1580); del giardino di Boboli e di palazzo Pitti non c’è menzione alcuna, anche se nel 1580 il palazzo aveva già subito gli ampliamenti dell’Ammannati, e la sistemazione del primo nucleo del giardino con l’anfiteatro. Dopo il soggiorno romano, c’è la visita della villa d’Este a Tivoli (4 aprile 1581); poi, al ritorno da Roma attraverso l’Umbria e le Marche, Montaigne è di nuovo a Firenze, e visita Castello (il 3 maggio, ma senza poter visitare il giardino) e la villa di Poggio a Caiano (il giorno successivo); segue un lungo soggiorno al Bagno alla Villa di quasi due mesi, poi c’è il ritorno a Firenze e la terza visita a Castello (22 giugno) e di nuovo a Pratolino (29 giugno). Intorno al 10 agosto Montaigne è a Lucca per una visita alle ville lucchesi (fra le tante sono citate la Buonvisi, Pinitesi e la villa del Vescovo a Marlia Viterbo e la villa Lante a Bagnaia) e poi a Caprarola (30 settembre). Un primo aspetto che vale la pena di sottolineare è l’interesse particolare suscitato dai giardini medicei, che Montaigne non si accontenta di visitare un’unica volta ma che sceglie come oggetto di ulteriori approfondimenti: a Castello torna tre volte – anche se in una di queste gli è impedito l’accesso – e a Pratolino due volte. Tutte le altre vil-
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le e tutti gli altri giardini visitati, ad eccezione di quelli lucchesi che formano un capitolo a parte, vengono messi a confronto con le realizzazioni medicee, che evidentemente risultano il caposaldo di questa esperienza. Consideriamo più in dettaglio quali sono gli elementi che richiamano l’attenzione di Montaigne, e che suscitano le sue descrizioni così minuziose e attente. Pratolino Nel percorso da Bologna a Firenze, avendo varcato l’Appennino seguendo la vecchia via Bolognese, e dopo una sosta a Scarperia, Montaigne annota: et passasmes un beau chemin entre plusieurs collines peuplées et cultivées. Nous destournasmes en chemin sur la main droite environ deux milles pour voir un palais que le Duc de Florence y a basti depuis douze ans, ou il employe tous ses cinq sens de nature pour l’embellir. Il semble qu’expres il ait choisi une assiette incommode, sterile et monteuse, voire et sans fontaines, pour avoir cet honneur de les aller querir à cinq milles de là, et son sable et chaux à autres cinq milles. C’est un lieu, là, ou il n’y a rien de plain. On a la veue de plusieurs collines, quiest la forme universelle de cette contrée. La maison s’appelle Pratellino. Le bastiment y est meprisable à le voir de loin, mais de prés il est très-beau, mais non de plus beaux de nostre France: il disent qu’il y a six vingts chambres meublèes; nous en vismes dix ou douze des plus belles. Les meubles sont jolis, mais non magnifiques.
È interessante notare qui prima di tutto l’approccio visivo dell’autore all’oggetto che si appresta ad esaminare: è l’avvicinamento che fa scoprire le sue qualità, mentre da lontano esso appare addirittura meprisable. Emerge inoltre qui una concezione, di stampo albertiano, dell’architettura come precisa intera-
zione fra luogo e azione umana, che si ritrova anche in altri passi del Journal. Ma è soprattutto al giardino, cui viene dedicata una descrizione puntuale e piena di ammirazione, che si rivolge tutto l’interesse di Montaigne, e in particolare non tanto agli elementi “naturali”, per così dire, di esso, quanto alle creazioni attraverso cui la natura è sottomessa all’arte. Anzi, è proprio a partire dal presupposto di considerare la materia del giardino alla stessa stregua dell’architettura, cogliendola essenzialmente nei suoi valori di manipolabilità, che si ha la scomparsa di ogni inconciliabilità qualitativa fra edificio (cioè la parte propriamente architettonica) e il mondo per sé “a caso posto” dalla natura; ciò che, sulla scorta della concezione albertiana di cui si diceva, costituirà l’idea-fondamento del giardino rinascimentale e manierista: il giardino diviene la perfetta quintessenza dell’armonia naturale, di una natura more geometrico demonstrata, e cioè di una natura sottomessa alle leggi della geometria, spazio di volumi puri stretti da precise relazioni, anzi da rapporti geometrici oltre che da significati e luoghi simbolici.6 La villa di Pratolino sorgeva sul crinale della collina, mentre il parco si svolgeva sui due lati del pendio sottostante, diviso da un muro in due parti: il “parco nuovo” situato sul versante nord della collina e il “parco vecchio” in quello sud. Per passare da un parco all’altro era necessario attraversare la villa passando attraverso le grotte che si trovavano al piano terreno: Grotta Grande, di Galatea, della Stufa, della Spugna bianca, dei Satiri, della Samaritana. Sono appunto queste che a Pratolino colpi-
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scono immediatamente Montaigne: Il y a de miraculeux une grotte à plusieurs demeures et pieces: cette partie surpasse tout ce que nous ayons jamais veu ailleurs. Elle est encroustée et formée partout de certaine matiere qu’ils disent estre apportée de quelques montaignes; et l’ont cousue à tout des clous imperceptiblement.
La grotta, elemento fondamentale del giardino manieristico che cattura subito l’attenzione di Montaigne, aveva già fatto la sua comparsa nel giardino di Castello. Anch’essa è notata e descritta da Montaigne nella sua visita del 24 novembre Il y a aussi là une belle grotte, où il se voit toute sorte d’animaux representés au naturel, rendant qui par bec,qui par l’aisle, qui par l’ongle ou l’oreille ou le naseau, l’eau de ces fontaines.
La grotta rappresenta uno dei temi di maggiore interesse nel giardino manierista: secondo Eugenio Battisti “il tardo Cinquecento, alla cupola, oppone un tema del tutto inconsueto all’occidente cristiano e d’una drammaticità arcaica: la grotta naturale o artificiale”. Nella grotta si realizza quella trasposizione della natura in artificio tipica delle ricerche del tempo; essa è elemento per eccellenza naturale ma ricreato con materiali artificiali, sì da mimare una natura assolutamente artefatta.7 La più grandiosa grotta di Pratolino, detta di Galatea, era rivestita di pietra pomice, e suddivisa in sei scomparti ricchi di giochi idrici studiati da Lazzaro delle Fontane; la grotta era immaginata sul punto di crollare, e raffigurava un paesaggio marino, con le pareti rivestite di madreperla, e scogli ricoperti di coralli, conchiglie, cristalli. Qui la ninfa usciva da una porta su una nicchia, tirata da delfini, con la scorta delle compa-
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gne provenienti da luoghi diversi. Osserva ancora il Battisti: “I meccanismi ora acquistano un autonomo e generale apprezzamento come meraviglia d’ingegno, come imitazione della natura spinta all’estremo limite delle possibilità umane, e anche come via per conoscere nuove nozioni sulla realtà. L’imagerie fiabesca, il gusto biomorfico, naturalmente trionfano”.8 Uno dei motivi dominanti e più originali e fastosi di queste scenografie naturali è il sistema delle fontane e il gioco delle acque che ne è connesso. L’acqua del resto ha anche un preciso significato sociale: serve a celebrare il potere granducale in una città che ne era povera e lo sfoggio delle acque nelle fontane, in città come nel territorio, è legato a un lavoro di ingegneria idraulica che creava acquedotti che dalla collina conducevano le acque alla città. Fontane, giochi d’acqua, vivai e peschiere con una ricca e sofisticata iconografia celebravano il potere mediceo. Fra tutti i capolavori d’arte generalmente riconosciuti e le molte invenzioni artistiche e tecniche, Montaigne mostra un particolare interesse anche per i giochi d’acqua delle fontane. Le invenzioni delle macchine idrauliche catturano la sua fantasia, egli le ammira addirittura estasiato: nella grotta di Galatea a Pratolino il y a non seulement de la musique et harmonie qui se fait par le mouvement de l’eau, mais encore le mouvement de plusieurs statues et portes à divers actes que l’eau esbranle, plusieurs animaux qui s’y plongent pour boire, et choses semblables. A un seul mouvement toute la grotte est pleine d’eau, tous les sieges vous rejaillissent l’eau aux fesses; et fuyant de la grotte, montant contremont le escalier du chasteau, il sort de deux en deux degrés de cet escalier, qui veut se donner ce plaisir, mille filets
d’eau qui vous vont baignant jusques au haut du logis. La beauté et richesse de ce lieu ne se peut representer par le menu.
Il Buontalenti fu l’inventore dei complessi meccanismi che con giochi d’acqua e figurazioni semoventi animavano il parco. Egli convogliò le acque che sgorgavano dalla fonte dell’Appennino, che si trovava nel “parco nuovo” a nord, per portarle nelle stanze terrene della villa, dove azionavano i mantici idraulici che muovevano gli automi, per poi disperdersi nei numerosi condotti del parco. La capacità inventiva e tecnica, il gusto manierista degli architetti che erano allestitori degli apparati di corte e delle scenografie, si applica qui al disegno del paesaggio, passando con estrema duttilità e abilità dalle figurazioni in legno, cartapesta gesso e tela al disegno di verzure, concrezioni in pomice, spugne, conchiglie e madreperle, giochi d’acqua. Montaigne, nella sua sconfinata ammirazione per i risultati che sono sotto i suoi occhi, non dimentica mai il lavoro e l’ingegno umano che li hanno permessi, spesso sottolineando come l’arte produca un effetto totalmente naturale. Arte e natura cospirano per restituire un simulacro perfetto di naturalezza artefatta, secondo la concezione del tempo per cui ars est celare artem: lo scopo è far dimenticare la parte di artificio che interviene nelle incredibili invenzioni. Di questi concetti, particolarmente dell’idea di felice concorrenza fra arte e natura si trovano numerose eco anche negli Essais.9 Il giardino di Pratolino si articolava estendendosi davanti e dietro alla villa, collegato ad essa mediante terrazze e scalinate. La parte di giardino geometrico “all’italiana” era circondata da una
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vasta zona a parco, solcata da viali che ne geometrizzavano l’impianto più libero, a partire dal grande vialone centrale che funge da asse di simmetria del complesso. Ecco la descrizione di Montaigne: Au dessous du chasteau, il y a, entre autre choses, une allée large de cinquante pieds et longue de cinq cens pas ou environ, qu’on a rendue quasi egale, à grande despense. Par les deux costés, il y a des longs et trés-beaux accoudoirs de pierre de taille de cinq ou de dix en dix pas; le long de ces accoudoirs, il y a des surgeons de fontaines dans la muraille, de facon que ce ne sont que pointes de fontaines tout le long de l’allée. Au fond, il y a une belle fontaine qui se verse dans un grand timbre par le conduit d’une statue de marbre, qui est une femme faisant la buée. Elle esprint une nappe de marbre blanc, du degout de laquelle sort cette eau; et au dessous il y a un autre vaisseau, ou il semble que ce soit de l’eau qui bouille, à faire buée. [La grotta del Diluvio] Elle esprint une nappe de marbre blanc, du degout de laquelle sort cette eau; et au dessous il y a un autre vaisseau, où il semble que ce soit de l’eau qui bouille, à faire buée. Il y a aussi une table de marbre en une salle du chasteau en laquelle il y a six places, à chacune desquelles on soubleve de ce marbre un couvercle à tout un anneau, au dessous du quel il y a un vaisseau qui se tienr à ladite table. Dans chacun desdits six vaisseaux, il sourd un jet de vifve fontaine, pour y rafraischir chacun son verre, et au milieu un grand à mettre la bouteille. Nous y vismes aussi des
scalici o come rispecchiamento dell’ordine (o del disordine) cosmico – allegorie, miti meccanicistici, riti di omaggio alla magia degli elementi attraverso giochi d’acqua, moto di automi e riproduzione artificiale di suoni naturali, rappresentano concretamente quella tendenza al superamento della natura da parte dell’uomo che è il motivo dominante di tutta la letteratura artistica cinquecentesca”. 11 In Montaigne c’è un’ammirazione per le invenzioni tecniche e architettoniche che nobilita quanto di ingannevole l’arte come “artifice par excellence de la séduction” contiene in sé. Se altrove l’autore degli Essais critica gli eccessi di poeti e artisti (“Si j’estois du mestier, je naturaliserois l’art comme ils artialisent la nature”),12 nella sua critica alla “artialisation de la nature” non sono compresi gli artifici della invenzione tecnica e architettonica: l’ingegnosità delle macchine idrauliche semplicemente suscita il suo entusiasmo ed è ripetutamente presente nelle ammirate descrizioni delle visite che egli compie durante il viaggio. Si sarebbe tentati di affermare anzi che, più che l’idea generale dell’impianto del giardino, sono proprio gli aspetti legati alle invenzioni tecniche che catturano la sua attenzione: impressione che viene confermata anche dalla successiva visita a Castello.
Pagine precedenti: 2 Giusto Utens, 1599 Pratolino, tempera su tela, cm.145x245, Firenze, Museo Firenze com’era 3 Salvatore Vitale, 1639 Pratolinum Magni Ducis Hetruriae, Firenze 4 Giovanni Guerra, 1598 ca. Grotta del Cibo, penna e acquerello cm. 22,6x16,7 Vienna GSA 5 Bottega del Giambologna, 1585 ca. Giambologna mostra al principe il modello di una fontana per Pratolino, Firenze Museo Nazionale del Bargello 6 Dettaglio della grotta degli animali di Antonio Lorenzi (?) nel giardino di Castello 7 Bartolomeo Ammannati, 1565 ca. L’Appennino nel giardino di Castello 8 Il giardino di Castello in una foto recente 9 Dettaglio delle fontane al centro del giardino del laberinto a Castello nella lunetta di Giusto Utens
trous fort larges dans terre, où on conserve une
mille gardoirs et estangs, et tout cela tiré de deux
Castello Nel pomeriggio del 23 novembre, dopo aver pranzato con il Granduca, sua moglie Bianca Cappello e i fratelli minori, Montaigne si reca insieme a quattro gentiluomini e a una guida a visitare “un lieu du Duc qu’on nomme Castello”. Qui si mostra più direttamente interessato alla forma propriamente del giardino:
fontaines par infinis canals de terre….
La maison n’a rien qui vaille; mais il y a diverses
Il colosso del Giambologna raffigurante l’Appennino, in costruzione al momento della visita di Montaigne, è l’elemento culminante della zona del parco dietro la villa. Qui, la prevalenza assoluta dell’elemento scultoreo si realizza nell’evoluzione estrema del concetto di fontana tradizionale, che cede il posto al gigante-montagna “di grandezza tale che la testa serve per camerino, e gli occhi per finestre, ove il gran duca Francesco staua all’hora a diporto a pescare essendo questa gran figura fatta a giacere sopra la rippa di un gran stagnio d’acqua” come testimonia lo Zuccari.10 Manfredo Tafuri ha scritto: “Nel giardino cinquecentesco – vero e proprio teatro volta per volta creato a fini dida-
pieces de jardinage, le tout assis sur la pente
grande quantité de neige toute l’année, et la couche-t’on sur une litiere d’herbe de genest, et puis tout cela est recouvert bien haut, en forme de pyramide, de glu, comme une petite grange. Il y a mille gardoirs. Et se bastit le corps d’un geant, qui a trois coudées de largeur à l’ouverture d’un oeil, le demeurant proportionné de mesme, par où se versera une fontaine en grand abondance. Il y a
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d’une colline, en maniere que les allées droites sont toutes en pente, douce toutesfois et aisée; les transverses sont droites et unies. Il s’y voit là plusieurs bresseaux [berceaux], tissus et couverts fort espois, de tous arbres odoriferants, comme cedres, cyprès, orangiers, citronniers, et d’oliviers, les branches si jointes et entrelacées qu’il est aisé à voir que le soleil n’y sauroit trover entrée en sa plus grande force, et des tailles de cyprès, et de ces autres arbres disposés en ordre, si voisins l’un de l’autre qu’il n’y a place à y passer que pour trois ou quatre.
Un altro degli elementi che colpiscono l’attenzione di Montaigne è l’articolazione del giardino superiore dove Il y a un grand gardoir entre les autres, au milieu duquel on voit un rochier contrefait au naturel, et
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semble qu’il soit tout glacé au dessus, par le
Il y a aussi un cabinet entre les branches d’un
souverainement bien le degout d’une petite pluie,
moyen de cette matiere de quoy le Duc a couvert
arbre tousjours vert, mais bien plus riche que nul
de quoy ils furent tout arrosés par le moyen de
ses grottes à Pratellino, et au dessus du roc une
autre qu’ils eussent veu car il est tout estoffé des
quelque ressort souterrain que le jardinier remuoit
grande medaille de cuivre, representant un homme
branches vives et vertes de l’arbre; et tout partout
à plus de deux cens pas de là, avec tel art de de
fort vieil, chenu, assis sur son cul, ses bras croisés:
ce cabinet (est) si fermé de cette verdure qu’il n’y
là en hors, il fasoit hausser et baisser ces
de la barbe, du front et poil duquel coule sans
a nulle veue qu’au travers de quelques ouvertures
eslancemens d’eau comme il luy plaisoit, les
cesse de l’eau goutte à goutte de toutes parts,
qu’il faut pratiquer, faisant escarter les branches
courbant et mouvant à la mesure qu’il vouloit.
representant la sueur et les larmes, et n’a la
çà et là. Et au milieu, par un cours qu’on ne peut
fontaine autre conduit que celuy là.
deviner, monte un surgeon d’eau jusques dans ce
Si tratta della statua eseguita da Bartolomeo Ammannati, che rappresenta l’Appennino nelle forme di un vecchio barbuto tremebondo, il quale nel disegno iconografico celebrativo inventato da Benedetto Varchi è il punto dal quale si dipartono, attraverso condotti sotterranei, le acque che alimentano i fiumi della Toscana: Arno, Mugnone, Ombrone, raffigurati da statue virili poste nel giardino inferiore. L’attenzione rapita di Montaigne è pienamente giustificata: per la prima volta nella storia del giardino moderno d’Occidente, a Castello il giardino diventa oggetto di un ambizioso disegno complessivo per il quale la posizione della villa, in leggera pendenza, permette la realizzazione di un complesso piano di utilizzazione delle acque, e dove le statue, le grotte, le curiosità, vengono assunte in una concezione unitaria, che è, ad un tempo, raffigurazione allegorica della Toscana e, insieme, rappresentazione celebrativa delle virtù della casata medicea che governa la regione, come Giorgio Vasari documenta puntualmente nella Vita del Tribolo. Le acque incanalate dall’acquedotto della Castellina andavano ad alimentare fontane e statue e parte di esse confluiva in un giardino segreto il cui elemento di sorpresa era una quercia di cui Montaigne dà la stupita descrizione:
cabinet au travers et milieu d’une petite table de
Appare singolare, invece, che Montaigne non faccia menzione della statua della Venere del Gianbologna, la cui realizzazione sembra doversi collocare intorno al 1570-72, e che quindi all’epoca del Journal doveva essere presente nel giardino grande.14 Se l’Ammannati ha rovesciato con l’Appennino il concetto tradizionale di fontana, facendo sgorgare l’acqua dalla barba stillante del vecchio tremebondo, un’altra invenzione che moltiplicava gli artifici illusionistici sul filo tra realismo e magia era data appunto dalla Venere posta al centro del giardino del Laberinto e in cui confluivano le acque dalle fonti dell’Arno e del Mugnone. Viceversa Montaigne ci fornisce una dettagliata descrizione dell’altra fontana presente nel giardino centrale:
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marbre. Là se fait aussi la musique d’eau…
I motivi di sorpresa nel giardino sono numerosi: gli elementi naturali vengono usati con lo scopo di creare meraviglia, sospensione; l’architetto paesaggista si può dire che abbia l’obiettivo di scuotere la sicurezza dello spettatore, attraverso tutta una serie di effetti illusionistici dovuti alle invenzioni, in cui è difficile distinguere tra la deliberata intenzionalità dell’artefice e i suggerimenti offerti dalla natura stessa. L’acqua che sgorga dalla terra, scaturisce dalle statue, zampilla dalle fontane segrete, costituisce un elemento fondamentale del giardino, e tende nelle sue diverse emergenze a coinvolgere lo spettatore nello spettacolo improvviso degli elementi. Di quest’intenzione, che sulla scorta di Tafuri possiamo definire ludica,13 il Montaigne si mostra destinatario bendisposto e ricettore ideale, nell’entusiasmo con cui mostra di apprezzare le invenzioni:
Ils virent aussi la maistresse fontaine qui sort par le canal de deux fort grandes effigies de bronze, dont la plus basse prende l’autre entre les bras, et l’estreint de toute sa force; l’autre demy pasmée, la teste renversée, semble rendre par force par la bouche cette eau, et l’eslance de telle roideur que, outre la hauteur de ces figures, qui est pour
Ailleurs ils virent, par très plaisante experience, ce
le moins de vingt pieds, le trait de l’eau monte à
que j’ay remerqué cy dessus: car, se proumenant
trente sept brasses au delà.
par le jardin, et en regardant les singularités, le
Si tratta della Fontana grande o di Ercole e Anteo che, al tempo di Montaigne era posta sopra un ripiano rettangolare realizzato nel pendio del giardino e collegato ad esso mediante una gradinata. La fontana, insieme con la grotta degli animali, rappresenta la più spettacolare
jardinier les ayant pour cet effect laissés de compaignie, comme ils furent en certain endroit à contempler certaines figures de marbre, il sourdit sous leurs pieds et entre leur jambes, par infinis petits trous, des traits d’eau su menus qu’ils estoient quasi invisibles, et representant
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attrattiva del giardino: dalla grandiosa vasca ottagonale si eleva un sistema di fusi verticali finemente decorati e piatti, di misura decrescente, scolpiti in marmo dal Tribolo e da Pierino da Vinci, fino al gruppo bronzeo delle due statue opera dell’Ammannati: Ercole solleva Anteo stringendolo fino alla soffocazione, così che dalla sua bocca si sprigiona un violento getto d’acqua, simbolo dello spirito vitale che lo abbandona. Alla drammaticità dell’invenzione scultorea si accompagna così lo straordinario effetto dell’acqua, che ricadendo nel piatto sottostante “fa un vedere meraviglioso”, come disse Vasari. Dopo la visita compiuta nel novembre 1580, a Castello Montaigne tornerà due volte. La prima il 3 maggio 1581:
cando la condizione invernale del giardino e assaporandone con la fantasia la bellezza della condizione estiva, andava troppo al di là della realtà. Poggio a Caiano Nel frattempo il 4 maggio, attraversando Prato, Montaigne si porta a Poggio a Caiano ma da questa villa, opera di Giuliano da Sangallo, non appare troppo colpito: nous prismes une autre transverse de bien 4 milles de destour, pour aller à Poggio, maison de quoy ils font grand feste, appartenent au Duc, assise sur le fleuve Ombrone; la forme de ce bastiment est le modele de Pratolino. C’est merveille qu’en si petite masse, il y puisse tenir cent très-belles chambres.
attendre, ce que je ne voulsis pas faire…
Oltre alle belle stoffe che ricoprono i letti, una cosa degna di attenzione gli appare il gabinetto di distillazione del Duca; ancora un particolare “meccanico”, che riguarda, pur se in scala più piccola, la trasformazione della natura:
la seconda il 22 giugno:
Nous y vismes le cabinet des distilloirs du Duc et
venni a desinare a Castello, in un’osteria dirimpetto
son ouvroir du tour, et autres instrumens: car il est
al palazzo del Granduca, dove fummo di poi
grand mechanique.
desinare a considerare più minutamente questo
È evidente da questa rassegna di passi citati seguendo il percorso seguito nel Journal, quanto in Montaigne, nelle sue descrizioni dei luoghi e delle opere visti, sia costante l’ammirazione per le invenzioni dell’ingegno umano; non c’è mai infatti solo il riferire ciò che egli ha sotto gli occhi, ma a questa comunicazione si accompagna sempre una valutazione più articolata di cause ed effetti, attraverso confronti e riflessioni, e una espressione del proprio gusto, in modo fortemente personale. In questo quadro, come si è cercato di mettere in evidenza, l’arte è vista come prodotto dell’ingegno umano che si avvale delle risorse
L’endemain… allasmes pour voir Castello, de quoy j’ay parlé ailleurs; mais parce que les filles du Duc y estoient, et sur cette mesme heure alloient par le jardin ouïr la Messe, on nous pria de vouloir
giardino. E m’avvenne là come in più altre cose: l’immaginazione trapassava l’effetto. L’avea visto l’invernata, ignudo e spogliato. giudicava della sua bellezza futura nella più dolce stagione, più che non mi parve al vero.
È significativo che Montaigne torni più volte sui suoi passi nell’esame dei giardini visitati, nella considerazione minuziosa e nel confronto tra essi. L’ultima impressione di Castello, rivisto nella stagione più favorevole al giardino, è questa considerazione che “l’aspettativa trapassava l’effetto”, con cui egli respinge ogni retorica per riconoscere che ciò che aveva immaginato giudi-
della natura per realizzare un artefatto “naturale”: così anche Tivoli, dove la musica degli organi idraulici produce una vera musica come di organi naturali; ma si sono visti molti altri esempi. Quanto alle ville medicee, può essere interessante, ai fini di una ricostruzione minuziosa e al tempo stesso globale di come essi si presentavano, considerare le descrizioni verbali di Montaigne parallelamente a quelle pittoriche del fiammingo Justus Utens. Queste ultime furono eseguite nel 1599 a decorazione del salone principale della villa di Artimino, per celebrare il potere mediceo attraverso la raccolta iconografica dei possedimenti della famiglia. Il procedimento del pittore, in questo caso, è quello di una riproduzione attenta – ma non sempre fedele nelle simmetrie degli spazi, per le costrizioni della cornice della lunetta o per desiderio di sottolineare una concezione in tutto proporzionata e armoniosa – della realtà, di cui fornisce un’immagine completa e dettagliatissima, senza abbellimenti o omissioni. Talvolta, certo, rintracciare il sistema di corrispondenze fra la descrizione letteraria e quella pittorica, porterebbe a riscontrare le divergenze fra le due: o per i mutamenti avvenuti in quel breve spazio di anni (i berceaux che tanto colpiscono Montaigne a Castello, per esempio, sono scomparsi nella vignetta dell’Utens), o, come si diceva, per le esigenze imposte dalla volontà di sottolineare la simmetria della concezione globale (ancora nel caso di Castello, la lunetta riporta una corrispondenza fra l’asse dell’edificio e quello del parco, che in realtà non c’è). Ma anche nei casi di perfetta corrispondenza, per così dire, tra i due sistemi, verbale e iconico,
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il disegno, che in questo caso ha il carattere quasi documentario di una fotografia, non restituirà il senso globale che le notazioni descrittive di Montaigne sottendono, cioè il rimando continuo dalla forma esterna della realtà circostante alla forma interna dell’uomo che quella realtà modella e manipola con arte e artificio: quel trapassare, insomma, da un piano all’altro che si diceva all’inizio, con le parole di D’Ancona. “Les idées sont mes maitresses”, ha dichiarato Montaigne; ma è pur vero che il gioco delle idee nel Journal si traduce vividamente in un affresco della realtà avvicinata in ogni suo aspetto con la curiosità intellettuale che anima l’autore. Ancora egli afferma: “Un uomo dotto non è dotto in tutto; ma un uomo di talento ha del talento in ogni cosa, perfino nell’ignorare”.
Questo testo è il risultato di una serie di conversazioni avute con Beatrice Sica durante l’autunno 2003. 1 Cfr. la prefazione all’Italia alla fine del secolo XVI: Journal de Voyage de M. de Montaigne, Città di Castello, 1889; poi in Viaggiatori e avventurieri, Firenze, 1912 (ora 1974). 2 Essais I, 25. 3 Essais I, 25. 4 D’Ancona, cit., p. 14. 5 L’epiteto è probabilmente mutuato dalla Cosmografia del Münster (v. più avanti nel testo). 6 Sebastiano Serlio, nel suo Trattato, illustrando “disegni per compartimenti di giardini” aggiunge “ancora che per altre cose potrebbero servire” chiarendo definitivamente le basi di astrazione geometrica cui la natura deve sottostare. Da affermazioni di tale intransigenza, del resto perfettamente conformi agli ideali culturali del Rinascimento, deriveranno, oltre ai principi compositivi generali, le tecniche di trattamento architettonico delle masse arboree, delle siepi, dei percorsi, fino ai luoghi monumentali del giardino stesso, costretti ad una astratta perfezione di volumi e superfici. In questi estremi risultati acquisiti nella pienezza del secolo XVI si nasconde naturalmente un principio di contraddizione intrinseco che sfocerà nel tardo manierismo e nel secolo successivo in una gara fra arte e natura, sul filo di una peren-
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ne ambiguità, perfettamente colta da Claudio Tolomei in una lettera a Giovan Battista Grimaldi quando afferma che: “mescolando l’arte con la natura, non si sa discernere s’ella è opera di questa o di quella, anzi or altrui pare un naturale artifizio, e ora una artificiale natura” cit. in E. Battisti, L’Antirinascimento, Milano, 1962, p. 176. 7 Continua il Battisti: “La grotta in un certo senso è come l’Inferno di Dante una cupola capovolta, puntata verso la terra, invece che verso il cielo. Ma è, ancora di più, una guglia invertita. La sua zona di maggior interesse non è tanto la parte più luminosa, quanto quella più buia; verso quel buio dobbiamo procedere, pur sapendo di non tendere verso la conoscenza ma verso il mistero. La grotta inoltre, specie se artificiale, ha la capacità di accompagnarci e sprofondarci progressivamente nel cuore della natura. La sua decorazione, infatti, non è astratta come quella della cupola, ma naturalistica: già le sue pareti sono rivestite di tufo e di conchiglie, famosi scultori si affrettano a immetterci le riproduzioni di tutti gli animali della terra; i fabbricanti di automi vi evocano canti di uccelli, e di Orfei che domano le belve… La grotta ha in sé qualcosa di statico, di fuori del tempo. La grotta riconduce l’uomo a se stesso, lo isola dalle accecanti apparenze, lo inserisce nel cuore più autentico della realtà” (L’Antirinascimento, Milano, 1962, p. 182). 8 E. Battisti, L’Antirinascimento, cit., p. 235. 9 Cfr. F. Rigolot, introduction à M. de Montaigne, Journal de voyage, Paris, Presses Universitaires de France, p. XXIX. 10 cfr. F. Zuccaro, L’idea de’ pittori, scultori e architetti, a cura di D. Heikamp, Firenze 1961, p. 260. Le esperienze scenografiche e teatrali di questo periodo sono la matrice culturale, insieme agli apparati per feste e cerimoniali di corte, che determina e influenza la composizione giardiniera nelle realizzazioni più significative del tardo cinquecento fiorentino, attraverso la geniale personalità di un artefice come il Buontalenti nel suo rapporto con un mecenate-artista come il granduca Francesco. “È questa corrente – secondo il Tafuri – una delle più importanti per valutare il senso di quella fondamentale componente di naturalismo cinquecentesco che sfocia nell’imagerie, nell’ironia, nel gioco” (M. Tafuri, Il mito naturalistico nell’architettura del Cinquecento, in “L’Arte”, V (1968), pp. 23-26. 11 M. Tafuri, Il mito naturalistico nell’architettura del Cinquecento, in “L’Arte”, V (1968), p. 23. 12 Essais III, 5, 874 c. 13 Cfr. M. Tafuri, cit., pp. 25-26. 14 Si veda per questo H. Keutner, La statua del Giambologna (Venere Fiorenza), in AA.VV., Fiorenza in villa, a cura di C. Acidini Luchinat, Firenze, 1987; e C. Acidini Luchinat, G. Galletti, Le ville e i giardini di Castello e Petraia a Firenze, Pisa, 1992, pp. 191-200.
Pagine precedenti: 10 Giusto Utens, 1599 Castello, tempera su tela, cm.147x233 Firenze, Museo Firenze com’era 11 Giusto Utens, 1599 Poggio a Caiano, tempera su tela, cm. 141x237, Firenze, Museo Firenze com’era 12 Poggio a Caiano, le quattro stagioni, dettaglio del fregio sull’architrave del portico (Giuliano da Sangallo, Bertoldo, Andrea Sansovino 1490 ca.) 13 A. Allori, 1578-1582 la Fortuna, dettaglio della lunetta nel salone di Poggio a Caiano
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Il Giardino di Boboli Giorgio Verdiani con il contributo di Gianni Sani
Estendendosi per circa quarantacinquemila metri quadri, il Giardino di Boboli rappresenta la più grande area di verde entro le mura di Firenze. La dizione entro le mura assume poi, in questo caso, un carattere del tutto particolare, in quanto il confine stesso del parco comprende una porzione significativa delle fortificazioni superstiti al rinnovamento urbano ottocentesco. Il visitatore ha la percezione della delemitazione data dalle muraglie in maniera avvertibile e chiara solo quando visita le parti confinanti con il Forte Belvedere e quando si trova nel Giardino del Cavaliere - che per l’appunto indica un bastione, un cavaliere -, lungo il ripido viottolo di confine che risale il limite Sud del parco a partire dalla fontana dei Mostaccini e nei pressi dell’uscita su Porta Romana. Nel parco sono compresenti due entità tangibili: il parco progettato secondo una struttura chiara, e quella del parco progettato secondo interventi di integrazione e modifica del progetto complessivo, adottati per adeguare la struttura principale al mutare delle esigenze e non sempre pienamente reintegrati, con la conseguente definizione di parti autonome che presentano caratteristiche molto diverse tra di loro e scarsamente legate, sia a livello formale che a livello percettivo, con il contesto generale del giardino. Il Giardino di Boboli, il cui etimo ha dubbia origine, ma probabilmente è da riferirsi ad una iniziale proprietà del terreno, viene definito secondo una serie di progetti di recupero e trasformazione di una porzione di territorio compreso entro le mura della città e già fortemente antropizzato al momento delle
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sua prima trasformazione in giardino di palazzo. La cava di arenaria presente alle spalle di Palazzo Pitti era stata aperta su un terreno precedentemente utilizzato ad orti, e se questa parte, oggetto del primo progetto di creazione del giardino, usufruisce in maniera efficace della morfologia dovuta alla cava per ottenerne un anfiteatro, al tempo stesso il progetto seicentesco di ampliamento verso Porta Romana beneficia del bacino artificiale presente lungo il pendio e realizzato a supporto dell’attività agricola lì praticata. In questo senso il verde di Boboli è un verde estremamente progettato, non solo come adattamento e trasformazione di un terreno non urbanizzato, ma come vero e proprio intervento di recupero e trasformazione delle destinazioni d’uso, in un’area soggetta ad attività umane di tipo agricolo e estrattivo. In un certo senso rimpiazza due attività di trasformazione dinamica con una soluzione statica, portando un assetto relativamente stabile e fortemente ordinato rispetto a delle condizioni soggette a continua mutazione, lo scavo nel suo progredire, le colture nel loro alternarsi. Il principale intervento di trasformazione, immediatamente successivo all’acquisizione del palazzo e dei terreni da parte di Eleonora di Toledo, consorte di Cosimo dei Medici, è dovuto al progetto di Niccolò Tribolo, con successive integrazioni e completamenti ad opera di Giorgio Vasari, Bartolomeo Ammannati e Bernardo Buontalenti, mentre il grande ampliamento verso Porta Romana, avvenuto sotto Cosimo II dei Medici ha come progettisti Giulio e Alfonso Parigi.
1 Giardino di Boboli La statua rappresentante il gioco del “Saccomazzone”, posta lungo il “viottolone” a partire dalla metà del XVII secolo, opera di Orazio Mochi e Romolo Ferrucci, rappresenta un gioco popolare fiorentino, dove i due contendenti, bendati, cercano di colpirsi a vicenda utilizzando dei panni, senza togliere la mano appoggiata su un ceppo. La parte di scultura raffigurante il panno del contendente superiore è andata perduta. foto Giorgio Verdiani Pagine successive: 2 Boboli pianta generale, tratta dal Cabreo conservato presso l’Archivio Centrale dello Stato a Praga foto di Martin Hrubes in Alessandra Contini, Orsola Gori “Dentro la Reggia, Palazzo Pitti e Boboli nel settecento”, Edifir, Firenze, 2004 3 Giardino di Boboli Veduta dell’anfiteatro con le nicchie e le statue aggiunte nelle modifiche operate nel XVIII secolo. foto Giorgio Verdiani 4 Giardino di Boboli L’anfiteatro di Boboli sorge sull’invaso prodotto da una precedente cava di pietra forte. L’assetto originale, dovuto al Tribolo, prevedeva una struttura di “verzura”. foto Giorgio Verdiani 5 Giardino di Boboli La fontana dell’isola, vista dal perimetro esterno. Sviluppata nell’ambito dell’ultimo grande ampliamento del giardino, la vasca si basa su di un precedente bacino di irrigazione impiegato per le colture. foto Giorgio Verdiani
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Questi interventi, con la definizione dei due assi di sviluppo del giardino, costituiscono gli aspetti principali dell’organizzazione della miriade di episodi dovuti all’architettura, alla vegetazione e alla scultura; tuttavia, se taluni episodi si legano in maniera efficace alla struttura principale, alcune vicende secondarie appaiono in evidente contrasto con l’organizzazione principale portando come risultato la definizione di spazi che appaiono inconsueti e disattesi rispetto alle caratteristiche predominanti del parco. Il caso principale in questo senso sono i cupi boschi di lecci cresciuti nelle risulte lasciate dalla rampa delle carrozze, eseguita nella prima metà dell’Ottocento per volere del Granduca Leopoldo II e dalla rampa stessa, ottenuta al costo della demolizione dei labirinti di siepi che fiancheggiavano sul lato Sud del “viottolone” ovvero del viale che sottolinea il princi-
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pale asse del progetto Parigi -. Il giardino vede quattro fasi significative di sviluppo, diversamente caratterizzate e tutte tra loro interrelate, in quanto ogni fase di intervento si sviluppa rispetto alle precedenti e prevede sempre delle rivisitazioni dello stato di fatto dei precedenti progetti. La prima fase, vede la nascita del giardino nella sua prima forma, con una soluzione d’asse rispetto alla struttura dell’originale Palazzo Pitti, una forma delimitata tra questo corpo di fabbrica, il Forte Belvedere e la cinta delle mura. Questa prima fase, sviluppata a partire dal 1550, è ben rappresentata nella veduta Belveder con Pitti, opera di Giusto Utens, del 1599. La seconda fase, sviluppata nell’arco del Seicento a partire dall’ampliamento del giardino - necessario a soddisfare le esigenze di rappresentanza di Cosimo II dei Medici vede in maniera maggiore l’introduzio-
ne di espedienti ludici e mitologici che portano al distribuirsi, lungo il pendio verso Porta Romana di una folta schiera di statue, fontane, e allestimeti verdi che propongono un ambiente variato tra aspetti mitologico-simbolici e richiami alla vita agreste e popolare. Nella terza fase, avvenuta sotto gli Asburgo-Lorena nel XVIII secolo, si ha l’integrazione nel Giardino di alcuni, particolari, edifici che sottolineano e arricchiscono le scelte progettuali pregresse, come nel caso della Kaffehaus che viene posta a Est della parte originale del giardino, al termine del prolungamento dell’asse del progetto Parigi. Nella quarta ed ultima significativa fase di trasformazione, avvenuta all’incirca tra il 1830 e il 1850, si ha la forzatura di alcune scelte utilitarie di poca felice risoluzione, come la già citata rampa per le carrozze, ma anche il consolidamento definitivo del carattere del Giardino
che sfugge così ad alcune ipotesi di trasformazione in “Giardino all’Inglese” ipotizzate tra la terza e la quarta fase di sviluppo, ma mai passate in fase esecutiva. Questa continua trasformazione del parco è fatta di significative modifiche morfologiche, del terreno, della struttura complessiva del giardino, degli allestimenti e della disposizione dei numerosi contributi scultorei, che portano allo spostamento da una parte all’altra del parco di intere fontane monumentali, come nel caso della fontana di Oceano, opera del Giambologna, trasferita al posto della Venere al bagno al centro della Vasca dell’Isola. Le stesse statue di Esculapio ed Ippolito e quella di Igea, disposte lungo il “viottolone” presentano visibili tracce di una originaria struttura idraulica che ne attesterebbe una precedente destinazione al decoro di qualche fontana.
Con l’andare degli anni, oltre alle statue appositamente eseguite per il parco si aggiungono numerose opere provenienti da altre proprietà medicee e da altre locazioni. Oltre all’obelisco posto al centro dell’anfiteatro, risultano particolarmente importanti le statue dei Prigioni di Michelangelo Buonarroti, poi trasferite dalle grotte al museo del Bargello, le sculture di epoca romana dei Daci in catene, e le grandi statue del giardino delle colonne, composte da teste originali, perlopiù di matrice romana, ricollocate su busti realizzati ex-novo. Su queste basi, l’aspetto stanziale della soluzione del giardino in vece della mutevole cava e delle alterne colture, non sembra certo tanto stabile. Tuttavia si deve tenere conto che la volontà stessa del progetto originale immaginava un assetto ben solido e poco incline alla mutazione, una intenzione percepibile
anche nella scelta delle essenze arboree, con una forte predilezione per le essenze sempreverdi, preferite, specie nel periodo di Cosimo I, come metafora di una presunta primavera perenne dovuta alla stabilità politica derivata dalle scelte del governo mediceo. La continua trasformazione del parco beneficia indubbiamente di una condizione derivante dall’integrarsi delle parti e dal loro disgregarsi che comunque riesce sempre a risarcirsi in una forma complessiva sostanzialmente omogenea, forse in virtù della continua crescita delle piantumazioni, del loro infittirsi, del continuo combattere tra la razionalità del taglio imposto dal giardiniere e la libera organicità della ricrescita delle fronde e del serpeggiare delle radici che in qualche maniera elabora, uniforma, frantuma e ricompone l’assetto formale e percettivo degli spazi, fino a riportarli ad una condizio-
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ne di equilibrio tra naturale e progettato che racchiude l’essenza di questo monumento vivente. A chiudere queste considerazioni un racconto inedito di Gianni Sani, architetto, che qui presenta l’avvicendarsi del tempo e degli eventi nel Giardino di Boboli secondo un punto di vista del tutto particolare. Folli, rapidi, brulicanti. A volte fastidiosi. Credo che sia lo stesso per voi quando una zanzara vi ronza promettente una puntura attorno all’orecchio; un rumore veloce, ma carico di significati. Ormai sono più di quattrocento anelli che vivo qui e ne ho viste passare di cose. Prima cavalli, carrozze, feste, ora nonni, ragazzi e turisti. Affannati salgono per il viale dei giovani cipressi, quelli arrivati nei primi anni del seicento, quando quel tipo, amico del Galilei, un tale Cosimo secondo, della famiglia dei proprietari di qui, decise di rimaneggiare viali e fontane. Mi ricordo il gran movimento quando portarono enormi conche di agrumi laggiù vicino alla vasca che chiamano dell’oceano e poi piantarono la cerchia grande un folto gruppo di Lecci intrecciati a formare una galleria ed i piccoli bossi topiati a labirinto… scomparsi nell’ottocento. Io ero già qui a vedere tutto. Sono nato qui, assieme a tanti altri come me, ancora prima che queste belle colline diventassero l’orto dei Pitti. Eravamo giovani e spensierati e partecipavamo felici ala nascita di questa comunità di artisti e mecenati, ci piaceva ascoltare le canzoni che poeti ed innamorati si scambiavano furtivamente qui sotto. Ed è stato affascinante seguire i lavori del Tribolo, del Fortini, del Vasari, dell’Ammannati e del Buontalenti e poi quell’istrione del fiammingo, il Giambologna. Il 1637 è stato un anno memorabile, che incredibile evento fu il trasporto del gruppo scultoreo al centro della fontana, erano tutti preoccupatissimi, urlavano e si raccomandavano a destra e a sinistra, e le decine di operai, capomastri, buoi, cavalli tutti intenti a tirare, a far scorrere corde, ad oliare carrucole. Ne ho viste di persone faticare, spingere, tirare, pulire, potare, allestire e smontare e tutto per il breve sollazzo di pochi benvestiti signorotti intenti solo a bere, mangiare e divertirsi.
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A volte, però, gli spettacoli erano davvero belli le libagioni davvero interessanti e le chiacchere avvincenti; ho sentito dire che dietro la collina sia stato fatto un teatro e che quelle musiche e quelle belle storie che vengono raccontate delle quali qui non arriva che un eco lontana provengono proprio da lì. Ma io non posso vederle, io vivo qui, da sempre. Ormai sono vecchio. Ma altissimo. Mi ricordo quando ero poco più di quattro metri e l’Eleonora di Toledo venne qui ed apprezzò le mie forme e decise di non farmi abbattere. Quei Medici, strana gente, ne ho visti passare di qua: Cosimi, Lorenzi, Ferdinandi, con le loro mogli, le loro sorelle; nel bene e nel male però li preferivo agli Asburgo Lorena, quelli arrivati nel settecento, quelli che hanno costruito la Limonaia, il Kaffehaus e la Palazzina della Meridiana, quelli che poi, quando è arrivato quel tal Napoleone hanno abbandonato tutto. Poi sono tornati e da allora non è successo più niente. O meglio, qua sotto non è successo più niente perché invece fuori ne sono successe di cose. È stato terribile quel giorno delle bombe; all’inizio credevamo fossero fuochi d’artificio come tante altre volte, ma poi ci siamo accorti che non era così. C’è stato molto silenzio e molto dolore per diverso tempo e poi, piano piano la gente è tornata. Palloni, risate, corse, carezze mi fanno compagnia. Spero solo di non ridurmi come il povero Pino giù, vicino al palazzo; lo hanno imbracato, puntellato, legato perché pare che rischi di cadere giù. Ed io da quassù continuo ad osservare quei folli, rapidi e brulicanti esseri umani che passano di qua.
Bibliografia essenziale: AA.VV. a cura di Litta Maria Medri, Il Giardino di Boboli, Silvana Editoriale, Milano, 2003. Arianna Nizzi Griffi, La fontana dei Mostaccini e gli antichi labirinti nel Giardino di Boboli, Collana Tascabili da Passeggio, Edizioni Sillabe, Città di Castello, 2002. Claudio Pizzorusso, A Boboli e altrove. Sculture e scultori fiorentini del Seicento, Casa Editrice Leo S. Olschki, Firenze, 1989. Marco Vannucchi, Giardini e Parchi. Storia Morfologia Ambiente, Alinea Editrice, Firenze, 2003. Mariella Zoppi, Guida ai Giardini di Firenze, Alinea, Firenze, 1996.
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Costruire nella Phisis Roberto Berardi
A Delfi, in una geografia senza uomini, preistorica, Apollo sceglie il luogo del suo tempio. L’Inno omerico ad Apollo (VI secolo) ci pone davanti al dio della guarigione e delle epidemie, come a un fondatore di città. La sua prima fondazione avviene a Delo, l’isola che non aveva avuto paura della sua nascita, poi a Crisa, nei pressi di Delfi, ai piedi del Parnaso. Qui la volontà detta la sua decisione e la decisione è la fondazione di un tempio. La scelta è innanzitutto quella del luogo: collina rivolta a occidente, ai piedi del Parnaso coperto di neve. Su di essa incombe una rupe e sotto si estende una valle profonda. È questo il luogo e la scelta che presiederà alla costruzione di tutti i templi greci, dalla Penisola alla Megale Hellas, da Bassae a Epidauro a Segesta a Tindari ad Agrigento. Talvolta, come a Selinunte e a Siracusa, il mare avrà la sua parte. Altre volte a Selinunte, a Epidauro, saranno i monti lontani e la pianura fertile. Ma le caratteristiche del luogo, le potenze in giuoco, sono fissate per sempre. Dunque, innanzitutto, è il luogo che è sacro, pieno di ninfe dell’acqua e di boschi ombrosi, della forza ctonia delle montagne, della fertilità della terra, tema di un dramma cosmico che ha per centro Demetra e per paredri Kore-Persefone e Hades. Appena Apollo ha scelto, dopo il disboscamento e secondo le sue direttive appaiono due architetti, Agamede e Trofonio, che sulle fondamenta ampie, profonde, compatte costruite dal Dio, alzano il podio: e infiniti uomini, poi, le mura con pietre solidamente impiantate, perché (il tempio) fosse in eterno celebrato nel canto. “Disboscare per abitare e fondare un insediamento è una attività essenziale della fondazione, è ktizein una
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terra. Il fondatore si chiama, in greco, ktistzès”: Dal tempio di Apollo Pythio, ai piedi dell’Acropoli, ad Atene, a date variabili, una processione raggiungeva Delfi, passando per Eleusi, sul tracciato della strada aperta a colpi d’ascia dagli Ateniesi che, secondo una leggenda, avevano accompagnato il Dio nell’organizzazione della regione dell’Attica. Ancora a Crisa, ma questa volta sulla riva del mare, vicino al porto, propaggine sul golfo della città in collina, Apollo vuole far erigere un altare. Con uno stratagemma che ricorda quello di Dioniso e i pirati, cattura dei marinai di Creta e ne fa i propri sacerdoti. Il sacrificio di fondazione dell’altare è un’offerta di farina bianca, dono di Demetra, signora della terra fertile e del grano. L’intera Delfi è fondata: acropoli, territorio, fonte di acqua dolce e porto, le strutture dell’economia e del commercio e le forme della venerazione della potenza sono stabilite. Il tempio, insieme all’altare che gli è correlativo, è la prima costruzione a partire dalla quale si definisce la geografia delle civiltà urbane. L’architettura è la tecnica divina per riunire gli uomini intorno a una devozione comune, al commercio, all’agricoltura e all’allevamento che producono ricchezza per loro e per il tempio del dio, signore dei luoghi e protettore degli uomini. Sul sito di Cirene l’Inno di Callimaco ad Apollo ci narra di un’altra fondazione, nella quale è celebrata la nobiltà di Callimaco stesso. A quattro anni, il Dio, che ha bevuto da Temi la precoce giovinezza, decide di fondare, in Libia, Cirene. Innanzitutto, come materiale da costruzione, la sorella cacciatrice, Artemide, ammucchia sulla riva teste di animali dalle grandi corna. Con queste corna, Apollo
1 Tempio d’Aphaia Pagine successive: 2 Paestum basilica 3 Templi di Paestum 4 Segesta vista d’insieme 5 Segesta particolare 6 Segesta particolare Tutte le immagini sono foto di Henri Stierlin tratte da “Monde grec” Office du Livre, Fribourg, 1966
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costruisce le fondazioni del proprio tempio, poi l’altare e infine il teikos, alto muro che lo racchiude. Questo è il dato originario. Poi l’eroe Batto, antenato di Callimaco, che l’oracolo di Delfi ha mandato a fondare la città di Cirene, traccia, secondo le giuste regole, i recinti dei santuari, disegna la via sacra e costruisce la città, feudo di Apollo dio delle soglie, delle porte, dei percorsi dei supplici, della decima e dei rituali di purificazione. Fuori dal mito, e dentro la storia delle colonizzazioni greche: l’Asia Minore, nei XIII-IX secoli, la Megale Hellàs, dall’VIII secolo: il fondatore di colonie oikistès procederà secondo le norme apollinee, sia nella scelta del luogo, suscettibile di essere consacrato, che nelle procedure rituali di fondazione. Poiché le terre non sono sempre inabitate, si può pensare che Ares, la guerra, abbia provveduto allo spopolamento o alla riduzione in schiavitù. Ma poi l’oikistes diventa ministro del sacro: porta dalla nave il fuoco sacro (Hestia) tratto dall’altare del Pritaneo della patria, costruisce l’altare originario, compie il primo sacrificio, definisce i recinti dove saranno edificati i santuari, delimita i lotti e costruisce le mura che proteggono l’insediamento. La relazione con il luogo consiste nella creazione del luogo stesso, i cui modi sono fissati da norme di ispirazione divina, e che lo trasformano secondo principi universali di armonia e di apertura di un universo civile. Il vero luogo cultuale è il temenos (e chi è stato a Didima ne ha una nozione impressionante), con il suo altare per le carni, fuori dal tempio, un podio spianato, offerto alla visione del cielo che ne pretende l’omaggio. L’altare e il tempio sono chiusi nel recinto sacro, come la città è chiusa dentro le sue mura. Questo, dice Callimaco, è l’insegnamento di Apollo per la fondazione degli insediamenti. Queste caratteristiche dureranno fino ai tempi di Roma, dove la geometria rigorosa dei recinti si inscriverà, nelle città molto antiche, all’interno di un tessuto del tutto diverso. Il sacro è separato, la città è murata. Il tempio è chiuso in un temenos e in esso, dal cielo, è caduta l’effigie di legno o la pietra sacra del dio (xoanon) nei tempi immemoriali delle origini. Così a Troia, il Palladio, in Tauride, la statua di Artemide, per fare solo due esempi. Nel paesaggio sempre impressionante: a Paestum, orientati verso le montagne aride incombenti sulla pianura fertile; nella pianura alla confluenza tra il corso del Sele e il mare, a Seli-
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nunte; ad Agrigento, sulle rocce o nella valle; a Segesta, tra le nubi i monti e le valli; ad Aphaia, nella cerchia del mare di Egina; a Bassae, tra montagne prive d’acqua e tempestate dal sole; ad Atene, in vetta all’Acropoli o ai sui piedi, a Didima o ad Ortygia, il tempio è costruito come una cosa altra, inconfondibile, serrato in una legge inflessibile, vibrante, nella sua costruzione, nella sua materia, nella sua luce, nei modi del suo volume, di una vita a prima vista incomprensibile, non naturale, eppure espressa con pieno diritto, con totale naturalezza: è un evento, allo stesso titolo di un evento naturale, come quelli che lo circondano e verso cui si orienta:
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è un corpo ma è anche un’immagine; è la presenza, il marchio di una potenza, ma anche il segno di una devozione umana espressa in società cittadina. Non c’è città senza templi, senza volere concorde di dèi; non c’è città senza leggi scritte, senza colture, senza vigne e stalle per i buoi e per le pecore; non c’è città senza Pritaneo, senza Bouleuterion. Pritaneo e Bouleuterion sono templi come i templi. Nel primo, brucia il fuoco di Hestia, colei che radica nella terra ed esprime in volute profumate il fumo del sacrificio verso il cielo. È il luogo in cui la città ospita gli ambasciatori e dove abitano i suoi magistrati. Nel Bouleuterion vengono votate le leggi sopra l’altare che sta al centro della cavea quadrata o semicircolare. Lo Zeus ospitale e Dike, la Giustizia, sono, con Hestia, i loro signori. Certo, la santità civile, la probità, l’integrità di fronte a Dike sono di un altro ordine rispetto all’indiscutibilità dell’antichissimo, divino tribunale di Temi. Il fuoco di Hestia, attinto a quello del Pritaneo, brilla sugli altari domestici, ma anche su inconfessabili deviazioni, inerenti alla condizione umana. Proprio questo ci farà aggiungere a questi un altro tempio, di rilevanza cruciale per la città: il teatro. D’altra parte tutta la
città, nella sua interezza è sacra, e perché è fondata secondo le norme divine, e delimitata, rispetto all’universo naturale –la chora – da un temenos, come un tempio. L’idea del tempio, come artefatto collocato nella chora, nella natura indifferenziata, è molto ampia, come si è visto. Senza attribuire un particolare fervore religioso a tutti i Greci, tuttavia questa sacralità ancestrale è ben presente nei poeti, come Pindaro, negli storici, come Pausania, nelle leggende del Ritorno come nell’Iliade e nell’Odissea, nelle Opere e i Giorni come nei Tragici. Nei Sette a Tebe, nell’Orestea, sono gli dèi stessi a scendere in campo, a interferire nelle vicende della città. Un tempio greco, un teatro greco, un pritanèo, come li vediamo noi, dalla Sicilia alla Campania alla Grecia, sono cose della memoria: monumenta; ma sono provocazioni: posseggono, nella relazione di sguardo, di visione, di studio che stabiliscono con noi, la forza di un invito e quella di una interrogazione. Sono cose del tempo che passa, ossa e maceria di creazioni su cui si sono accaniti i venti, la sabbia, le tempeste, i terremoti, i saccheggi, ogni usura; stremati dall’abbandono, spogliati o distrutti dalle guerre e dagli incendi, morsi dall’erosione, la natura tenta lentamente di riassorbirli in sé Ha tutto il tempo che è e che sarà, e i nostri restauri, le nostre anastilosi, le nostre protezioni sono sempre fragili di fronte alla sua forza. La città di Bam, in Iran, si è disfatta in polvere; chi mai potrà restituirla, se non in immagine? Lentamente le pietre di Segesta, di Agrigento, di Epidauro, vedono riaffiorare per l’erosione gli strati della roccia in cui sono state tagliate; ma finché giungerà quel richiamo, quell’interrogazione, qualcosa dell’antica, inconoscibile lezione di queste rovine continuerà a evocare un senso. Così per noi, queste forme che, da lontano, a volte, appaiono intatte, sono un richiamo verso una realtà, che fu loro, ed è scomparsa, e però, in qualche misura, ancora traspare: realtà impressionanti, che mozzano il respiro per la loro capacità di spingerci, oltre il loro aspetto attuale, verso traguardi della costruzione –della creazione- non raggiungibili, forse, ma che sono come il nord del nostro orientarci: segno perentorio, non localizzabile, sfuggente quando si crede di averlo raggiunto. Eppure, per molti ancora necessario. Al dilà della bellezza, ma attraverso di lei; al dilà dell’eleganza matematica, dei sottili inviluppi della geometria, della sapienza, della scelta e del trattamento dei materiali, al dilà per-
sino del suo saper far corrispondere, giuocando, funzione e distribuzione fino a sorriderne, l’architettura greca -quella del Partenone o di Epidauro come quella delle case di Delo- benché impallidita nella sua usura e nei sui crolli, emette il richiamo di ciò che è senza compromesso se non con il cosmo, che non si confonde con null’altro che se stessa, come se uscisse a sua volta dalla natura, altra dalla natura, ma fatta di natura trasfigurata: luogo, pietra, scultura, colore, bronzo e oro, istituendo l’intelligenza dei materiali, della loro lavorazione, della loro messa in opera nello spazio in vista di una ragione, non esprimibile in parole, dell’opera e per mezzo di strumenti intellettuali indistinguibili dall’opera stessa. Come ci appare nel VII-VI secolo, il tempio è effettivamente la materializzazione in un hic di una costruzione mentale sostanzialmente immutabile. Qualunque sia il dio che vi ha eletto la sua dimora, il tempio è sempre uguale, nelle sue parti e nel 3 suo tutto; differirà, se mai, per le dimensioni. Questa materializzazione è specifica e differisce da tutte le altre costruzioni per la presenza di un sistema matematico-geometrico di riferimento che investe tutto lo spazio, tutti i volumi, e li mette in stretta, esatta relazione- una relazione numerica semplicegli uni con gli altri. La pianta più semplice del tempio, quella in antis, ci riporta a un passato molto antico, di cui resta testimonianza in certi modellini in terracotta che risalgono all’età geometrica, e che rappresentano piccole costruzioni a un solo vano, precedute da un portico a due o tre colonne, forse ricordo del megaron miceneo, a sua volta ripreso da quello dei palazzi di Creta. Ma la pianta del tempio classico rimane quella di un grande vano, sdoppiato in due celle opposte, santuario e tesoro, quasi sempre avvolto da una o due file di colonne (ulteriore temenos) che sembrano, da sole, sostenere il tetto a protezione del ricetto in penombra, occupato dall’immagine sacra. La cella, e cioè il santuario, è un
edificio per i soli sacerdoti e per il simulacro divino. Ora, già in questa semplicità di impianto prendono a giocare relazioni numeriche: numeri pari sul pronao, numeri dispari sul lato, legati a una misura uniforme di intercolumnio; e realtà geometriche costruite su osservazioni ottiche: quasi nessun allineamento è retto: tutti hanno una curvatura che corregge, nell’occhio, le alterazioni prodotte nella geometria dalla percezione. Così –an-
che se non sempre- il tempio è anche una serie di approssimazioni alla retta, al volume cubico, al cilindro come è nel caso delle colonne, dove l’entasis, che è una regola consapevole, è una costruzione geometrica e una tecnica costruttiva -intellettuale e materiale- operata attraverso la creazione di un inviluppo che genera una curva e trasforma l’allungato tronco di cono del fusto in un elastico cilindro nella visione dei fedeli. Colonna e tempio si costruiscono su un paradigma che si coniuga e si declina attraverso misure che seguono le leggi di proporzione tra quantità e di generazione delle forme dalla materia. Nello spazio del tempio, nella configurazione delle colonne, la costruzione indaga sulle forme profonde, non visibili, della natura generante: sulle serie geometriche, sulle spirali, sulla gemmazione per elementi. I rocchi delle colonne si sovrappongono senza sfalsamento; sopra le loro basi sono iscritti il pentagono, il decagono e il doppio decagono regolari sui cui vertici
poggiano le direttrici delle scanalature. Essi materializzano l’elevazione della colonna come sommatoria; le scanalature danno il senso preciso di un solido di rotazione. Moto circolare uniforme imperniato sul podio di base e nell’echino svasato o rigonfio. Tra rocchio e rocchio, i perni di bronzo assicurano la moltiplicità lungo gli assi, come le staffe di bronzo sigillate dal piombo assicurano la stabilità dei grandi conci dei muri, fanno di muri un integrale di pietre. Tutta questa geometria matematica compone l’architrave, articola il fregio, la cornice, presiede al timpano triangolare; è capace di accogliere la scultura policroma, come è capace di accordare i diversi toni di pietra usati per peristilio e per la cella. Questo rapporto di misure, questo accordo di materiali, questa complementarietà di tecniche espressive fanno pensare inevitabilmente alla musica e alla danza, con l’architettura arti maggiori tra i Greci. E probabilmente è in questa intelligenza di dialogo tra pesi, misure e numeri che risiede la sostanza vera di queste architetture. Il Timeo di Platone attribuirà al Dio modi affini nella creazione della materia e delle cose del mondo. La bellezza nella proporzione che regola il tempio, l’indefinita variabilità dei rapporti e della giustezza dei rapporti nella visione fa sì che l’esperimento può essere ripetuto indefinitamente, senza che lo standard venga meno o sia risucchiato nell’uniformità. E cioè il tempio, come evento, come avvento di una cosa che conosce e segue le procedure segrete della natura, ci appare ogni volta come un riferimento a un pensiero che non verrà mai perfettamente materializzato, ma intorno alla cui figura, ideale, tutti gli esperimenti architettonici gravitano, perché senza quel pensiero nessun tempio sarebbe mai stato così com’è apparso. Guardiamo costruzioni così distanti tra loro. A Selinunte, a Siracusa, ad Agrigento, a Segesta sono le colonne superstiti ai terremoti che ruotano su se stesse davanti ai nostri occhi; sono le
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loro architravi che scandiscono quel ritmo, calmo ed eguale, materializzato dalle frequenze delle modanature come dall’alternanza dei triglifi e dei vani delle metope. È da queste rovine che si ridisegna nel nostro pensiero quella solida e pacata crescita della pietra in tempio. Diversa dalla terra, dalla pietra, dagli alberi, dal volo degli uccelli e dalle onde del mare, questa costruzione, invariante per variazioni non è una intromissione: è una presenza, che si accampa sul mondo in luoghi scelti e lì fa parte della realtà: senza choc, senza usurpazione dello spazio, senza improprietà di materia, accogliendo anzi, e inscrivendo su di sé, le figure e i colori che evocano l’esistenza della vita. Anche il roccioso tempio di Zeus ad Agrigento, crollato su se stesso, che non rivedremo mai, nella sua durezza accentuata dagli enormi telamoni di pietra, con la sua grande area e la sua enorme altezza doveva porsi in cadenza, variazione impressionante, con le altre forme canoniche. Ma adesso, al margine superiore del tronco di cono che appoggia la sua base minore sulla terra, scandito in anelli di pietra secondo un andamento scalare, si rivela allo sguardo questa conca ascendente, discendente, raccolta intorno a un centro, che è il tempio millenario del massacro di Dioniso, della sua ri-generazione, della sua peregrinazione tra gli uomini; ed è anche il tempio dove si incontrano e scontrano (Eumenidi, Prometeo) le due giustizie: quella di Temi, la figlia di Urano e di Gea, originaria eterna, e quella di Dike, degli dèi olimpici e della polis. Il tronco di cono, a gradini di pietra, che fa apparire al limite una figura della geometria, ma la reinventa, appoggiato naturalmente, senza scasso, contro il pendìo della collina, non è un recinto chiuso: anzi è spalancato. La sua base maggiore, dove pullula il pubblico, si prolunga verso l’alto: il cielo, le nuvole, le pendici di monti più alti, come a Pergamo, come a Segesta; la sua base minore, dove suonano gli strumenti a corda e a fiato e danzano i cori, non è né un cerchio né un semicerchio, ma dodici ventesimi di cerchio, dove appare il fondamento pentagonale (Così ad Epidauro; nove sedicesimi di cerchio a Megalopolis: quattordici ventiquattresimi di cerchio a Corinto, sette dodicesimi a Delfi, e così via, ricalcando il rapporto tra il numero di colonne del pronao e quello del fianco di un tempio). Al dilà della piccola costruzione della scena, la conca del teatro si spalanca sul mare
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calmo o in tempesta (Siracusa, Apollonia) o sul porto ricco di navi (Mileto), o sulla pianura fiorente dei frutti di Demetra, (Atene, Segesta, Priene) stretta tra ondulazioni di colline (Epidauro) o si affaccia su varchi tra speroni di monti (Delfi). La Terra -la materia plasmabile da cui, per leggi sottili, si producono le forme- si apre, sotto il cielo sereno da cui possono scaturire le nubi,, rimbombare i tuoni, scatenarsi le folgori e rovesciarsi le acque che rendono Gea fertile e vengono dal trono di Zeus. Mentre sulle gradinate di pietra, gremite di pubblico, passa lo svariare del giorno, il colore delle sue atmosfere, il morso o la carezza dei suoi climi, nel fondo della cavea risuona, udibile egualmente da ogni ordine di posti, la dizione scandita dell’ipermetro, dell’anapesto, del dimetro giambico, delle variate misure del verso, organizzate con il loro ritmo nella cadenza della strofe, lungo la quale si insinua la musica. Cui Apollo ha dato le leggi che Orfeo ha sviluppato e Pitagora ha ritrovato con gli strumenti della geometria e della matematica. Per costruire questo teatro-tempio, custode delle memorie del mito e della complessità della condizione mortale, sede del tribunale della Giustizia, della santità delle leggi e della consacrazione del diritto della città, la cultura greca ha sperimentato il tracciato circolare dei gradini di pietra, la pendenza migliore per lo sguardo e per l’orecchio, per la convergenza dell’attenzione su un solo punto, facendolo così comune a tutti, ma lo ha spalancato, volume di suoni, di immobilità e di concentrazione, sulla presenza della natura, e, attraverso di essa e delle peripezie dei mortali, su quella di tutti gli dèi. La natura è appena
scalfita: è un appoggio e le si imprime una forma che era già contenuta in nuce, ma contenuta per la percezione e la ricerca dell’uomo che progetta e costruisce. Solo là dove il tronco di cono si interrompe appaiono muri di sostegno. Questo frammento di costruzione, questa geometrizzazione di un pendìo accolgono come un’ eco lo spazio che li circonda e fa loro fronte. A Segesta, intorno alla conca, è una natura serena, fertile, boscosa, che sfuma nei monti lontani. A Epidauro, ondulazioni boscose temperano l’aridità; ad Atene, lo sguardo vaga sulle montagne dell’Attica e sul mare del Pireo; a Dodona, sui monti altissimi dell’Epiro; a Delfi, sul Parnaso e sulla valle profonda, tra il profumo di cipressi e di pini; a Mileto, a Priene, sulla piana del Meandro; a Delo sul mare e sul porto; a Pergamo, sullo scoscendimento ripido verso la pianura ondulata. Dal pensiero e dagli esperimenti che hanno dato forma al teatro provengono
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anche altri edifici, a loro volta solenni, perché consacrano nella realtà visibile e nell’azione pratica la comunione dei cittadini nelle tante, fragili e preziose forme che la Grecia ha sperimentato. Si tratta dei Bouleuteria, degli Ekklesiasteria e dei Telesteria, presenti in tutte le poleis a governo democratico o aristocratico. I l bouleuterion quadrato a Priene e semicircolare a Mileto e ad Atene, è la sala, coperta da un tetto a capriate e preceduta da un portico, dove i pritani, magistrati della città, votano le delibere di interesse pubblico e consacrano i loro voto sull’altare che sta al centro,, nello stesso modo in cui l’oratore deponeva il suo scettro, cedendolo al successivo, nelle assemblee degli Achei. Santità del potere ricevuto in delega, santità della legge, responsabilità conseguente alle deleghe sono il contenuto civile di queste costruzioni che sembrano piccoli odeon incastrati nel tessuto cittadino. Tempio, dunque, promiscuo, ricondotto in unità da Dike, garante dell’armonìa, ed anche luogo di esorcismo del polemos, cruda e quotidiana realtà dell’epoca, sia dentro le mura che fuori. A Paestum a Metaponto, ad Agrigento, a Delo, tra sesto e quinto secolo, appaiono gli Ekklesiasteria: gradinate circolari all’aria aperta, inserite nell’agorà, e destinate a una grande, periodica riunione di popolo, l’ekklesìa: Sono gli antesignani del bouleuterion, che li sostituisce nel quarto secolo, e possono ospitare fino a ottomila persone. Grandi edifici, dunque, cinti da muri ciechi molto alti, dove certe forme di dignità civile si organizzano in una nuova formula, il cerchio intero, chiuso su se stesso a proteggere l’assemblea e a definire l’eguaglianza di ognuno con ognuno, espressa attraverso l’isonomìa proprio come per i punti del cerchio. Questa volta il tronco di cono è chiuso e le sue gradinate si raccolgono intorno a un punto centrale, dove la parola riguarda e illustra gli aspetti e le necessità del bene comune, fondamentale principio di unione per la città, che per consacrarsi ha posto nell’agorà le statue degli dèi agoraioi. Pritanei e i Bouleuteria, Ekklesiasteria sono interni alla città, non la guardano necessariamente dall’alto, non sono protetti da un temenos e si trovano nei pressi dell’agorà o nell’agorà stessa. Non sono palazzi, ma il loro volume spicca nel tessuto, introflesso, concentrato sull’unità garantita dalla legge. Sono creazioni della città, non delle potenze del cosmo, che pure ospitano e venerano. Meno prossimi al senso politico della
polis, e più vicini ad istanze religiose profondamente radicate e attinenti alla natura effimera della vicenda umana, sono i Telesteria, tra i quali i più noti sono quelli di Eleusi e di Megalopolis. Si tratta, ad Eleusi, di un luogo sacro ai Misteri di Demetra e Kore. Lì i fedeli assistono ai riti, seduti su gradinate che formano il perimetro dell’edificio, chiuso su se stesso, illuminato da un lucernario al disopra di un’edicola sacra. In penombra, dunque, questa cavità circondata da muri ciechi, forati solo da porte, è ingombra di colonne, bene ordinate, che rendono isotropo e isomorfo lo spazio: dunque senza direzione, mai visibile nella sua totalità, sempre interno a se stesso, come un pozzo o una cisterna. I misteri di Demetra e Kore avevano a che fare con Hades, il dio dell’oltretomba sotterraneo, fratello di Zeus e di Posei-
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don. Demetra, sorella di Zeus e sua sposa, come Hera, e madre di Kore-Persefone, è la fertilità della terra, la produttrice di grano e di orzo, donatrice dell’alimento vegetale agli uomini; capace però di provocare sterilità e morte. Persefone incarna le stagioni, il loro passare sulla terra con aridità e fecondità. Il vuoto profondo del Telesterion era il teatro e il tempio dei significati che legavano le anime ai cicli di morte e resurrezione. L’a-direzionalità del suo spazio, l’uso probabile dei semi di papavero o il profumo dell’oppio dovevano far entrare gli iniziati in un mondo sospeso tra la realtà della vita e lo smarrimento della morte, mentre la spiga di Demetra e il ritorno di Persefone dovevano rivelare loro la via della resurrezione. E sono proprio i Telesteria a suggerire una lunga catena di ascendenze con le sale ipostile delle regge e delle case dei dignitari nella nemica Persia degli Achemenidi, nel sesto secolo, e attraverso di loro, con gli Hittiti
e con Urartu e con i Medi, tra nono secolo e ottavo secolo prima di Cristo. La relazione tra l’opera dell’uomo e quella della natura sembra essere stata instaurata, in Grecia Classica, attraverso due versanti: quello dello studio dell’Essere e delle cose del mondo, iniziato da Anassimandro -il primo greco che scrisse un libro- (ma nella leggenda fu Orfeo, che parlava nei suoi rotoli della natura degli dèi e del cosmo), e proseguita dalla scuola pre-socratica, con i suoi matematici, i suoi geometri, i suoi fisici. Per Anassimandro come per Pitagora, Talete, Anassimene, Anassagora, lo studio della natura della materia, della dinamica degli astri, dei meccanismi di riproduzione della vita, come anche in Democrito, in Eraclito, in Empedocle, in Parmenide, definiscono un rapporto tra gli dèi, la natura e l’uomo, il contingente e l’eterno che segnano profondamente il rapporto tra città e territorio, tra luogo e luogo, tra costruzione dell’uomo e relazione con l’intorno marino, montano, arido o boscoso, fertile e roccioso, intatto o trasformato dalla coltura arboricola o cerealicola; e certamente questa fusione di elementi conoscitivi e di interpretazioni scientifiche, diffuse attraverso i poemi dei filosofi deve aver finito per influenzare, anche in forma inconscia, ma profondamente, la forma mentis del popolo greco. L’altro versante, altrettanto potente nel modellare percezione e pensiero, è quello nella credenza negli dèi, così intrecciati alla natura –Gaia o Gea, ma un tempo Gé, madre degli dèi- alla sacralità dunque della terra, del cibo vegetale, del miele e della carne contesa appunto a Zeus da Prometeo che la percezione stessa del luogo come materiale per l’azione e come sito divino deve aver prodotto una visione e una misura, come abbiamo visto del resto per i templi, che non rimane in nessun racconto se non, indiretta, nelle liturgie dei miti e nella straordinaria descrizione della Grecia fatta da Pausania. Tuttavia, benché inconoscibili, questa visione e questa capacità di azione nello spazio geografico, la sapienza nella creazione del tòpos, la sua risoluzione in armonia riescono a giungere fino a noi, al nostro sguardo, alla nostra esperienza, al nostro studio. Certo, si tratta di altro rispetto all’assetto architettonico e alla cultura originaria: eppure preme, come una necessità che il nostro sapere sente ancora, mentre la storia, come un maglio, piomba su tutto e lo sfigura.
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Finotti Antonio Paolucci
Alla base di tutto c’è la scoperta della divina bellezza che abita i grandi materiali della scultura: lo statuario di Carrara, il marmo di Candoglia, il rosa del Portogallo, il nero del Belgio, il bronzo. L’incredibile sapienza tecnica di Novello Finotti, quel suo prodigioso mestiere che fa venire in mente Bernini e Finelli, Leone Leoni e Giambologna, presuppongono, secondo me, un atteggiamento che è, all’origine, di riverente sottomissione al primato dei grandi materiali: chiusa, minacciosa, inattingibile bellezza, intatto inviolabile splendore. Cosa c’è di più bello del marmo di Carrara che è puro e luminoso come la carne viva? O del nero del Belgio, profondo come la notte, insondabile come il destino? Materiali così assoluti esigono un culto esclusivo, pretendono l’omaggio della rigorosa sapienza e del prodigioso mestiere. Finotti ha accettato l’azzardo e ha dedicato la vita a studiare e a perfezionare i modi e le tecniche che permettono di avvicinare quelle nobili sostanze, di capirle, di ascoltarle, di penetrarle. È un duro percorso che richiede una attenzione totale e una fatica tesa fino allo spasimo. Ma alla fine del duro percorso i nobili materiali diventano benevoli come divinità generose disposte a premiare la fedeltà, la devozione e l’attesa. Ogni volta che guardo le sculture di Finotti dico a me stesso che non si può essere più bravi di così nel levigare o satinare un marmo, nel modularlo e nel proporzionarlo secondo una logica e una necessità che sono sue (del marmo intendo dire) prima di essere, per simbiotica osmosi, dell’artista. Chiunque ha pratica d’arte sa che per arriva-
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re a simili risultati occorre una disciplina assoluta molto simile all’ascesi. Il premio di un così alto dominio della materia, è l’arte. Non si tratta di un traguardo obbligato perché l’arte, come la Grazia, Dio la dà a chi vuole. Mi sembra, però, che nel caso di Finotti il passaggio sia quello. Vada cioè dalla perfezione del mestiere che domina i materiali fino al punto di entrare in loro e di identificarsi con loro, allo splendore dell’arte. È questo per me il tracciato di Finotti, questa la porta stretta che egli ha saputo varcare. Quando la porta stretta è varcata, quando il dominio della tecnica sulla materia è diventato assoluto – ma è necessario che io insista sulla fatica, sulla durata, sull’attesa che hanno accompagnato il percorso – allora la Fantasia, il Sogno, il Mito possono dispiegarsi compiutamente. Allora succede, davvero, il miracolo che Michelangelo descrive nel sonetto famoso. Il “concetto” che vive nella mente dell’artista è già vivo e reale dentro il marmo che lo circoscrive e “solo a quello arriva la mano che ubbidisce all’intelletto”. Ma la “mano” e cioè la qualità tecnica deve raggiungere un grado di eccellenza tale da perdere ogni meccanica materialità, deve trasfigurare in una sorta di sapere mentale. Altrimenti il “miracolo” non avviene. Guardo “Clessidra” del 1989, un melodioso elastico nudo di donna che potrebbe anche essere un giovane albero, una conchiglia, un ciottolo di fiume levigato da milioni di anni. Mi viene fatto di pensare che la curva delle reni e quella piega ondulata che attraversa lo sterno cavo della “donnaalbero-sasso” già c’erano nel blocco
1 Novello Finotti Il tronco dei miei amori, 1992 Pagine successive: 2 Novello Finotti Omaggio a Shakespeare, 1980 - 1984 3-4 Novello Finotti Clessidra, 1989 5 Novello Finotti Fossile, 1995 Tutte le fotografie sono di Aurelio Amendola, tratte da Finotti, Edi.Artes
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bianco di Carrara che Finotti ha penetrato, modulato e accarezzato così intensamente e così a lungo da liberarlo del suo “soverchio”. Il fatto è che la scultura di Finotti è una scultura mentale e non solo per i simboli e le allegorie che la abitano (il “Cobra” e “Shakespeare”, il “Grande Nilo”, e la “Colonna di Eva”, l’”Uovo” primigenio e “Anubi”, la generazione degli Uomini e la contemplazione della Morte), ma perché egli crede, fermamente crede, nel destino affabulatorio, illustrativo e persuasivo (mentale dunque) dell’arte. Per questo ha voluto rimanere fedele all’albero figurativo perché egli è persuaso – come io sono persuaso – che nonostante la dissoluzione dei linguaggi, nonostante la Babele degli idiomi, l’eclisse delle culture sto-
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riche e il loro rimescolamento (nonostante questi fenomeni, anzi proprio perché questi fenomeni esistono e tutti ci coinvolgono e ci inquietano) la figurazione resta il “medium” ancora intelligibile e meglio praticabile: un fragile ponte alto sugli abissi. Finotti, come un magico funambolo senza rete, cammina sugli abissi. Vede il Sogno e il Mito, contempla con classico distacco gli orrori e gli splendori dell’umana condizione. Scopre il fascino ipnotico del “Grande Cobra”, il totem nero che abita in fondo alle nostre paure e ci attende alla fine del viaggio. Scopre la gioia e l’ironia degli incontri d’amore (l’incantevole, sofisticato, squisitamente manierista “Siamesi con lumachina” del 1993) stupisce (e
noi stupiamo con lui) di fronte alla sigillata eleganza della memoria. Guardo il meraviglioso “Fossile” del 1995 così pulito, così elegante, così senza tempo e al tempo stesso così attuale, e mi chiedo a che cosa pensava Finotti quando ha concepito una invenzione tanto straordinaria. Pensava ai calchi pompeiani? Oppure alla graziosa mummia del Tirolo che proprio in quegli anni veniva scoperta? Non lo so, i percorsi di Finotti sono come il labirinto di Cnosso immaginato da Borges, circolare, illusorio, senza uscita, pieno di specchi che moltiplicano lo stupore e l’attesa. In qualunque luogo puoi incontrare la malinconia e la saggezza del Minotauro o di Teseo la spada misericordiosa.
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Trovare nella terra le ragioni di un fatto poetico 1972-1975 Giovanni Michelucci e il Memorial Michelangiolesco Fabio Fabbrizzi
Già all’interno della “fase dell’espressione”, percorsa da Michelucci con la realizzazione di opere molto diverse, come la Chiesa dell’Autostrada e l’Osteria del Gambero Rosso, nelle quali si passa con disincatata disinvoltura dalla sacralità ricca di simbolismo della struttura a tenda della Chiesa alla spiritosa1 spazialità dell’Osteria, è possibile registrare uno stimolo che ritornerà prepotente nei segmenti successivi della sua poetica. Questo stimolo è rappresentato dalla natura, ovvero dalla gestione delle molte accezioni con le quali il concetto di natura si declina all’architettura: dalla mediazione tra interno ed esterno, dall’interpretazione della forma intesa come frammento assonante con lo spazio naturale dell’intorno, fino alla definizione mimetico-interpretativa di alcuni elementi ricorrenti come l’albero, la foglia, il ramo, la radice e il petalo. L’approdo agli anni ’70, segna nell’opera di Michelucci, un abbandono progressivo alla consueta pratica del cantiere e questo orienta gradualmente il proprio orizzonte verso le suggestioni della sola fase inventiva, nella multiforme variabilità di un fare, che a poco a poco diventa sempre più metaprogettuale. La sua opera è pervasa da nuove aggettivazioni, da una riscoperta di valori e di spunti formali mai sopiti e da una, potremo definire, universalità che prima non conosceva, nella quale però rimane intatta, la sua proverbiale inclinazione al dubbio. E c’è il paradosso dell’uomo che rinasce, della parabola della vita, della fiaba della natura, nelle sue ultime poetiche posizioni; frutto e segnale del rincorso rinnovamento di uno spirito al contempo terreno e superiore, laico e religioso, comune e simbolico, reale e assoluto, che fa
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dell’architettura, come molte altre manifestazioni umane, solo la sua traduzione. Nell’ultima stagione della sua vita, una sola certezza pare affiorare dal suo percorso; una certezza mutevole, fragile e al contempo eterna che si radica al corpo profondo dei suoi progetti, alla direzione delle sue osservazioni. Questa scintilla di certezza, è rappresentata appunto, dalla complessità e dall’universalità della natura, le cui leggi sono le uniche sicurezze che Michelucci riconosce. Una natura che viene introdotta con sempre maggiore intensità nello spessore creativo ed immaginifico del suo mondo e che riverberando ogni gesto e ogni pensiero, diviene a poco a poco l’ossatura portante del progetto. Ma come credo appaia ovvio, quella alla quale Michelucci guarda, non è un concetto di natura oleograficamente inteso e nemmeno una via alla contemporaneità; quanto piuttosto un necessario orientamento, indispensabile ad ogni agire umano. Una riscoperta che porta oltre la semplice manifestazione degli elementi del mondo naturale; una natura che dona all’uomo soltanto la capacità d’osservazione: “ma così non si conosce la natura, si conosce l’ombra dell’albero o i suoi rami, ma questa non è la natura. Natura è ciò che entrando dentro di noi suscita un’evoluzione tale per cui ci si accorge che s’è sbagliato ogni cosa.”2 Questo nuovo significato che Michelucci assegna al progetto, porta direttamente e paradossalmente in un capovolgimento di ruoli, a riscoprire la natura attraverso l’architettura, cioè come unico mezzo insieme al mito, in grado di porsi come metafora universale delle sue leggi. Molti dei suoi disegni, si condensano attorno alla metafora dell’ulivo, radice, tronco e
1 Cave di marmo, Carrara foto I. Bessi Archivio Fondazione Michelucci Pagine successive: 2-3 Plastico di studio realizzato da Bruno Sacchi - Studio Forte ’63 foto A. Coppitz Archivio Fondazione Michelucci 4 Cave di marmo, Carrara foto I. Bessi Archivio Fondazione Michelucci 5 Plastico di studio realizzato da Bruno Sacchi - Studio Forte ’63 foto A. Coppitz Archivio Fondazione Michelucci 6 Plastico di studio particolare della struttura di copertura Archivio Fondazione Michelucci 7 - 11 Giovanni Michelucci Disegni di progetto Archivio Fondazione Michelucci
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ramo, a loro volta metafora di flussi e movimenti che come nell’acuta interpretazione portoghesiana, incarnano una “logica di sofferta strutturalità di desiderata, frenata liberazione.”3 Una liberazione progressiva dalle inibizioni della costruzione e che trova in un’espressività finalmente depurata, finalmente assurta al ruolo d’icona, ancora una volta, tutta la felicità della propria, al contempo ingenua e navigata, purezza. Momento generativo di questa tendenza, è rintracciabile nel progetto per il Memorial Michelangiolesco alla Foce di Pianza. La cava dismessa di Morlungo situata nell’irripetibile scenario delle Alpi Apuane, a quota 1300m d’altitudine, alla Foce di Pianza, tra il Monte Sagro e il Monte Borla, è stata nel corso dei secoli, una delle localizzazioni principali dalla quale si è cavato il marmo adoperato da grandi artisti per le loro opere, come Arp, Martini, Moore e Marini in tempi recenti e come Michelangelo in tempi passati, che in questi luoghi scelse e lavorò direttamente i blocchi per molte delle sue opere. Luogo di straordinaria potenza evocativa, sospeso tra cielo, terra e mare, influenzò anche lo stesso Miche-
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langelo che accarezzava il sogno di potere realizzare “un colosso che da lungi apparisse a’ naviganti,4 una grande scultura collocata sulla cima dei bacini marmiferi, che opportunamente illuminata da una gran face, potesse costituire una sorta di riferimento e contemporaneamente di “misura” dell’intero territorio. Questa stessa idea, dopo vari tentativi avvenuti nel corso del ’900, come quello d’inizio secolo con cui si proponeva di realizzare una grande insegna luminosa visibile dal mare e come quello lanciato nel 1964 dal quotidiano “Il Telegrafo”, riprenderà corpo all’inizio del 1972, quando il cenacolo artistico “Arturo Dazzi” incarica lo scultore Henry Moore e l’architetto Giovanni Michelucci, della realizzazione di un monumento dedicato “al mito e alla leggenda di Michelangelo nell’era spaziale,” da costruirsi proprio nel bacino estrattivo di Foce di Pianza. Le indicazioni iniziali, che prevedevano la realizzazione di una sfera, una grande struttura visibile illuminata e illuminante, come nell’idea michelangiolesca, anche dal mare, vengono a poco a poco elaborate da Michelucci, che trasforma l’idea del monumento in un “Centro Speri-
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mentale del Marmo” dedicato a Michelangiolo, affiancando, nella prefigurazione di una comunità artistica e scientifica, anche un osservatorio solare e ricorrendo ad una serie di elementi architettonici che nascono come parziali “correzioni” alla confermazione al contempo naturale e artificiata delle cave. “Michelangelo non ha bisogno (...) di monumenti. Il mio progetto prevede la creazione di elementi architettonici che sono in parte ricavati, “scolpiti” nel terreno della montagna: un piccolo teatro all’aperto ad esempio dove potersi ritrovare, sarà ottenuto “correggendo” di poco la forma naturale del suolo. Per questa via, anziché un elemento inerte dovrebbe sorgere sulla foce apuana un organismo vivo e operante, un centro di attività e di cultura (...). Io non vedo la ragione di creare una sfera, e non sarei capace di progettarla. D’altra parte l’antenna per l’osservatorio sarà alta una sessantina di metri, ed avrà alla sua sommità una sfera, funzionale, che potrà forse in parte soddisfare le aspirazioni dei promotori.”5 Il corpus dei disegni elaborato dal ’72 al ’75, è sostanzioso e fittissimo di variazioni, di abbandoni, di riconferme e di disgregazioni dell’idea iniziale, quella cioè di un assemblaggio di architetture suggerite dalla forma della roccia e delle cave. Prendono forma fin dal primo nucleo di disegni, i frammenti di un’ideazione figurale che pur declinati in infinite variazioni, rimarranno costanti in tutte le revisioni, ovvero: la grande copertura, la torre osservatorio, la gradonata del teatro all’aperto, gli spazi laboratorio e i percorsi, quest’ultmi, vera rappresentazione di flussi sottratti al terreno, in un progetto che “nasce attraverso successive esplorazioni del rapporto fra natura e architettura, cogliendo dal terreno i suggerimenti plastici e dal paesaggio delle cave la dialettica tra l’informale della natura e il formale dell’intervento dell’uomo.”6 I disegni delle diverse fasi, esprimono la complessità della natura e la particolarità del sito, lasciando percepire con i consueti tratti filamentosi, ora sommari ora insistiti, l’idea di piani di sosta sovrapposti e sfalsati tra loro, la flessuosità delle forme del teatro all’aperto, così come i tralicci che sorreggono la copertura della cava, con una struttura ondulata e flessuosa come una foglia, il tutto saldato da una visibile variabilità che unisce la discontinuità dell’esistente con quelle del progetto, in un magmatico avvicendarsi di correzioni, di verifica e di sostituzioni che testimoniano l’idea del progetto come esclusivo momento “in
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divenire”, come transitoria ma orientata affermazione di stimoli e d’intenzioni. “Io ho percorso coste e crinali per rendermi conto dei punti di vista, ma anche per avere sensazioni precise in rapporto alle cose vicine e lontane. Ad un certo punto si ha una cava, una grande cava, di fronte, in cui si vede il lavoro. Allora si sente che il lavoro, il lavoro reale, (si vede la gente che si muove, si sentono i colpi di mazza) ha una precisa funzione e fisionomia: e di fronte a questo il lavoro diciamo intellettuale può apparire, qui, fuori posto e fuori scala. Ti porti dietro un apparire, qui, fuori posto e fuori scala. Ti porti porti dietro un oggetto che ti sembra importante, e qui è falso (...). E questo succede perché qui si cambia noi, ci si spoglia di tante cose. Qui ci sono delle forme: delle forme che sbalordiscono (...). Il mio discorso è quindi quello di aderire alla terra e di trovare nella terra le ragioni di un fatto poetico, di scendervi con queste forme, con questi percorsi. Inutile cercare quassù le altezze; non si potrà mai competere con questo mondo. Non ci si fa; si farebbe una brutta figura!”7 La lucida interpretazione del rapporto con la natura, si affianca con un’altra interessante polarità registrabile, anche se in filigrana, nell’ultimo segmento michelucciano, ovvero il ritorno al classicismo. Classicismo già percorso anche in precedenza e che pur non rasentando la letterarietà di alcune realizzazioni passate, convive con gli assoluti della natura con spregiudicata prolificità, portando ad intravedere nei due approcci, apparentemente così distanti, una base comune. Una sorta di commudolarietà d’intenti cioè, che confidando sul fatto che già nel classico è solidificata un’allusiva trascrizione di una naturalità implicita, delle sue leggi, delle sue proporzioni, dona all’ultimo segmento michelucciano, il tentativo di una progettualità totale. Ma si tratta di un atteggiamento progettuale che va a ripercorrere come acutamente osserva Belluzzi,8 la declinazione barocca del classico, privilegiando quella sintassi della dilatazione dello spazio, tipica premessa della composizione tardorinascimentale, attraverso una spazialità fluida, ma al contempo imbrigliata da contrappunti di ordine gigante, che nel progetto in questione vengono incarnati dalla torre osservatorio e dal traliccio a sostegno della copertura a foglia, che mentre definisce un ambito, si apre a incorporare il paesaggio, riconfermando la parabola di un uomo, che come ricordava Padre Balducci,9 era profondamente disturbato da ogni segno di recin-
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zione, fisica, culturale e mentale. L’immensa transitorietà di temi e figure sperimentate da Michelucci durante le varie fasi dell’elaborazione, viene “fermata” attraverso un grande plastico di gesso, realizzato con l’ausilio di Bruno Sacchi e dello Studio Forte ’63. Prende visibilità quindi, la copertura a foglia, immaginata con una struttura metallica reticolare, prima ipotizzata con un rivestimento in rame sostituito poi da un più ambientato manto di cemento, che copre lo spazio di due cave abbandonate, poggiandosi per tre lati sui bordi delle rocce e sorreggendosi sul quarto lato con il traliccio metallico portatore dei collegamenti verticali che raggiungono le passerelle sistemate sotto lo spazio di copertura. Si precisa anche la torre dell’osservatorio solare, immaginata come uno stelo alto 60m e largo 2m, alla cui sommità viene innestata una sfera di 10m di diametro che viene circondata da un ampio belvedere e affiancata a livello più basso da una piastra che funziona come piazza sopraelevata in raccordo ai movimenti del terreno circostante ospitanti tutte le attrezzature di
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fruizione turistica. Completa l’insieme una cavea per rappresentazioni teatrali ottenuta con minimi adeguamenti degli andamenti esistenti, un complesso d’abitazioni e di studi per artisti. Al tutto si aggiunge la grande statua di Moore dedicata alla Fratellanza Universale e un connettivo naturalmente intonso, che è al contempo architettura e paesaggio. Il progetto, non eseguito per motivi economici ed organizzativi, pur incontrando i pareri favorevoli delle amministrazioni che ne inaugurarono la realizzazione posando la prima pietra, si scontrò con i pareri più critici di qualche addetto ai lavori, come per esempio Bruno Zevi, che dalle pagine dell’Espresso registrò tutte le incongruenze di questo progetto troppo “puro”, rimproverando a Michelucci l’impostazione paratattica di un’aggregazione che rifiuta una ricerca finalizzata ad affrontare nuovi orizzonti linguistici. “La “tenda” sembra troppo preziosa (…). Forse occorre lacerarla, agire come Michelangiolo rispetto agli “ordini” rinascimentali, con gestualità dissacrante, tesa a reintegrare quanto la sintassi quattrocentesca aveva scomposto in moduli ir-
ripetibili. La triade torre-tenda-scultura va rifusa e poi disfatta non in brandelli, ma in dissonanze anche cromatiche, polidirezionate, onde coagulare e centrifugare in senso anticlassico, disarmonico, cioè aperto, capace di completarsi nell’estensione di un interno insieme dolce e drammatico. Tra gli architetti viventi, Michelucci è l’unico che possa affrontare questa sfida (…).”10 Ma la critica di Zevi, tutta incentrata sulla forma, non pare interessare Michelucci, come sempre ben conscio della portata esistenziale della propria opera, rispetto ai valori arbitrari della dimensione formale. Felicemente conscio del fatto che all’interno di un progetto come questo, esiste sicuramente la visione di un progetto di fruizione simbolica che come un vero e proprio aspetto etico, investe l’uso e la realizzazione del complesso. Ovvero, un aspetto, che oltre al rapporto con la natura inteso come veicolo d’apertura verso nuove relazioni umane, viene proteso ad incarnare il desiderio di una nuova visione del progresso scientifico, segnando la metamorfosi di un valore legato al lavoro, alla fatica dei cavatori, in
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corale osservazione di una dimensione artistica che nasce dal lavoro stesso. “…alla base di questa mia proposta c’è, oltre a fattori pratici, un aspetto morale: il monumento va eretto a chi ha faticato ed è morto tra questi dirupi scoscesi senza scoprirne ad ammirarne la bellezza. E c’è infine un desiderio utopico: che in virtù di una solidarietà nuova, del progresso scientifico e delle sue applicazioni tecniche, la fatica si trasformi in contemplazione e l’arte fiorisca spontaneamente nel momento del lavoro.”11 Parole che anticipano l’essenza delle sue ultime visioni progettuali, concrezioni di una natura scabra e squillante affidata a disegni nei quali, oltre all’inchiostro si aggiungono pochi toni di colore: le cere i pennarelli, a indicare il cielo, il verde, l’acqua, i segni della natura uniti a quelli dell’uomo, nei quali la metafora arborea delle radici e delle ramificazioni, ormai consueta ossessiva predominanza, si confonde con la visione dell’Arca incagliata tra le rocce. Simbolo estremo del relazionarsi reciproco tra il potere dell’architettura e quello della natura, dalla quale l’uomo, l’uomo universale e l’uomo Michelucci, al
di la della propria apparente inconciliabilità con qualunque approccio di regola, di trasmissione e di riferimento, pare ricevere conforto, indicazioni e strumenti, per la propria auspicata rigenerazione.
pia in: AA. VV. Michelucci per la città, la città per Michelucci, Firenze 1991, pagg. 33 e segg. 10 Cfr. ZEVI B., Michelangelo sotto la tenda, in: L’Espresso del 23/11/1975. 11 Cfr. MICHELUCCI G., messaggio inviato in occasione della presentazione del progetto nell’auditorium della Camera di Commercio di Carrara, avvenuta il 10 Novembre 1975, in: NALDI F., Op. Cit.
L’autore ringrazia la Fondazione Michelucci e l’Arch. Corrado Marcetti, che ha gentilmente messo a disposizione, tempo, materiale e indicazioni.
Bibliografia: AA.VV. Michelucci per la città, la città per Michelucci, Firenze 1991. BELLUZZI B., CONFORTI C., Giovanni Michelucci, Milano 1990. BORSI F., Michelucci: memorial michelangiolesco sulle Apuane, in L’Architettura. Cronache e storia, n°224, 1974. CONDIVI A., Vita di Michelangiolo, Roma 1553. GODOLI E., Il progetto di Michelucci per un Centro sperimentale del marmo dedicato a Michelangelo sulle Apuane, in AA.VV. IX Biennale internazionale di scultura Città di Carrara, Milano 1998. LUPANO M., Colloquio con Giovanni Michelucci, in Domus n° 720, 1990, pag. 24. MARTELLACCI R., Giovanni Michelucci: progetto per un centro sperimentale del marmo dedicato a Michelangelo a Foce di Pianza, 1972-1975. Catalogo dei disegni, in: Op. Cit. pag. 110-129. NALDI F., Centro Sperimentale del Marmo dedicato a Michelangelo. Foce di Pianza (Carrara), in La città di Michelucci, Catalogo della Mostra, Fiesole, 1976, pagg. 183-190. ROSAIA L., Un punto di incontro di lavoro e di cultura, in: La Voce Repubblicana, del 11/02/1975. SANTINI P. C., L’ultimo Michelucci e un’idea per Michelangelo, in Ottagono, IX, n° 34, 1974, pag. 103. ZEVI B., Michelangelo sotto la tenda, in: L’Espresso del 23/11/1975.
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Cfr. KÖENIG G. K., Architettura in Toscana 19311968, Torino 1968, pag. 99. 2 Cfr. MICHELUCCI G., nell’intervista di M. LUPANO, Colloquio con Giovanni Michelucci, in Domus n° 720 1990, pag. 24. 3 Cfr. PORTOGHESI P., Imparare dalla natura, in AA.VV. Michelucci per la città, la città per Michelucci, Firenze 1991, pag.18. 4 Cfr. CONDIVI A., Vita di Michelangiolo, Roma 1553, in: NALDI F., Centro Sperimentale del marmo dedicato a Michelangelo Foce di Pianza (Carrara) 1972-75, in: La città di Michelucci, catalogo della mostra, Fiesole 1976, Pagg.183-190. 5 Cfr. MICHELUCCI G., in: P. C. SANTINI, L’ultimo Michelucci e un’idea per Michelangelo, in: Ottagono, IX, n°34, 1974, pag. 103. 6 Cfr. BORSI F., Michelucci: memorial michelangiolesco sulle apuane, in L’Architettura. Cronache e storia, n°224 1974. 7 Cfr. MICHELUCCI G., in: SANTINI P. C., Op. Cit. 8 Sull’argomento cfr. BELLUZZI A., Le malie della forma e gli imperativi della morale in BELLUZZI A, CONFORTI C., Giovanni Michelucci, Milano 1990. 9 Cfr. BALDUCCI E., Un dialogo tra memoria e uto-
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Giovanni Michelucci, ritorno alla natura Francesca Privitera
Tutto nel cielo ti protendi solo non curando se l’ultime tue foglie cadono lente tremolando al suolo, chè nella notte nera che t’assorbe passa l’azzurro della primavera ch’ogni tuo ramo aveva gemmato d’oro (Giovanni Michelucci, L’albero, 1920)
La meditazione di Michelucci sui mutamenti della vita, degli spazi e sulla verità dell’architettura, lo costringe ad una continua “messa in crisi” della propria opera. In un canovaccio per una lezione universitaria dedicata all’illustrazione della propria opera, Michelucci, riferendosi alla Basilica di San Lorenzo, appunta: (…) ”VAGAVO” VIVEVO SPAZIO CHE dal SAGRATO - piazza mi conduceva SACRISTIA = CHIOSTRO fino a trovarmi contatto CUPOLA =
schiana, iniziata proprio attraverso il contatto quotidiano con gli spazi del paesaggio fiesolano, si affianca una concezione della natura ormai lontana dalla visione poetica degli anni giovanili, durante i quali un sentimento panico per la natura si completava con un profondo “francescanesimo”. Da questo momento in poi il ragionamento di Michelucci relativo al rapporto architettura – natura cambia radicalmente i propri termini. Superate le posizioni vernacolari de “Il Frontespizio”, i dibattiti sull’architettura organica dalle pagine de “La nuova città ” e anche l’eredità rinascimentale, Michelucci chiarisce che la relazione fra opera dell’uomo e natura non è un problema di ambientamento e di intonazione ma piuttosto di evocazione:
CAMPANILI = TETTI (…) ENTRA AULA SE NAVATA CENTRALE COVONE FIENO non sorpresi, tanto
(…) il rapporto vero con la natura si stabilisce
qui in questo SP/ SENSO NATURA d’attorno FI /
quando la costruzione sa evocare gli spazi e le
Una CIVILTÀ SECOLARE cercato precisare un
forme naturali anche se non è immersa nella natura;
RAPP / INEQUIVOCABILE UO = NATURA: dell’UO
non quando la imita o, addirittura, la modella (…).2
/ con S / ESIGENZE pratiche = spirituali. Ed è precisazione raggiunta con DISPOSIZIONE FILARI VITI = ULIVI con andamento solchi campi: muretti, canali opere insomma che servono garantire produzione agricola; e quelle che servono ABBELLIMENTO: rose rifiorenti fra ULIVI. QUESTA è NATURA di cui SATURO SPA / BR / (…) Dopo questa scoperta considerai mia attività conclusa. Dovevo iniziare con nuovi concetti (…).1
Michelucci divide così esattamente in due periodi la propria opera. La Chiesa di Santa Maria a Larderello chiude la prima fase, il progetto per la Cassa di Risparmio di Firenze apre la seconda: lo spartiacque è la rilettura critica di Brunelleschi. Alla comprensione dell’opera brunelle-
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La volontà di cercare oltre al fatto formale le ragioni più profonde dell’architettura, che sono sempre incentrate sull’uomo, sembra condurre Michelucci attraverso un percorso a ritroso, “apparentemente regressivo”, come il sogno dell’Angelo che abita una capanna nel bosco,3 verso la sostanza originaria della costruzione: la natura, anzi lo spazio della natura, diventa archetipo dello spazio architettonico. Ritornare alla natura per ritrovare il cammino dell’architettura diventa allora un percorso necessario per progredire verso il futuro, perché tornare alle radici della costruzione significa tornare alle primordiali e quindi genuine esigenze degli uomini,
1 Chiesa di San Giovanni Battista, Campi Bisenzio Pilastro con persona, 1961 2 Chiesa di San Giovanni Battista, Campi Bisenzio Studio di albero pilastro con teschio animale, 1961-64 Pagine successive: 3 Chiesa di San Giovanni Battista, Campi Bisenzio Genesi della forma del pilastro: dal tronco d’albero all’immagine dell’uomo crocifisso alla struttura portante, 1961-64 4 Chiesa di San Giovanni Battista, Campi Bisenzio Studio di sezione, 1961-64 5 Veduta di paesaggio con casa sull’Appennino pistoiese, 1942-45 6 Santuario della Beata Vergine della Consolazione, Borgo Maggiore Sezione con inserimento ambientale dell’edificio e indicazione del sito, 1962-64 7 Veduta di Firenze, 1945 8 Paesaggio, 1941 9 Alberi e struttura architettonica, 1990 Fonti iconografiche: 1-7 Giovanni Michelucci, Disegni, 1935-1964, Fondazione Giovanni Michelucci (a cura di), ed Diabasis, Reggio Emilia, 2002. 8-9 Michelucci per la città, la città per Michelucci, catalogo della mostra, ed Artificio, Firenze, 1991
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alla verità delle cose necessarie. L’osservazione della natura diventa allora fonte di rinnovamento per l’architettura che rigenera in essa le proprie forme e i propri spazi. Racconta Michelucci: (…) Salivo un giorno verso un convento, lungo un percorso alberato da cipressi altissimi, a fianco dei quali c’erano grandi prati. Salendo ho visto due persone, penso fossero marito e moglie, che avevano posto un tavolino e due sedie sul prato, avevano apparecchiato la tavola, e stavano chiacchierando. Queste due persone avevano scoperto gli spazi della natura portando con sé gli elementi della casa. Più in là un giovane steso sull’erba prendeva il sole; un po’ più distanti alcuni bambini giocavano. Queste persone formavano gli
centrato prima sullo spazio, vera carta di tornasole dell’evoluzione dell’uomo e quindi della società e, solo successivamente, sulle forme. Anche quando la suggestione delle figure naturali subita dall’Architetto sembra essere esplicita e le forme dell’architettura arrivano quasi alla mimesi e alla imitazione di quelle della natura, la sola ragione della determinazione della forma architettonica si conferma in realtà come la soddisfazione di un’esigenza umana pratica ma soprattutto spirituale. L’uomo rimane costantemente al centro del ragionamento sull’architettura, come chiarisce Michelucci in una lettera – confessione indirizzata all’amico Luigi Figini:
abitanti di quello spazio. Da loro ho scoperto come possa venire dalla natura l’insegnamento spaziale,
(…) la genesi di ogni forma che io proponga, ha al
cioè quale spazio occorra veramente all’uomo.
suo centro gli uomini, alla cui vita mi ispiro; così
Uno cercava l’ombra, l’altro il sole, qualcuno
che potrebbe avvenire che le mie forme
giocava. Queste persone hanno creato il “testo”
divenissero quasi conchiglie ad immagine umana
delle esigenze reali dell’uomo. (…) Scopriamo così
(…) debbo confessare (tu mi permetti la più
che l’apparente immobilità della natura è invece un
aperta sincerità), che io non ho mai pensato di
mondo che si viene formando sulle esigenze
<<ispirarmi>> ad una forma naturale, e tanto
dell’uomo che lo abita (…).4
meno di imitarla; non ho mai pensato cioè di trarre ispirazione dagli stupendi <<iceberg>> o
Il ragionamento, come sempre nel pensiero critico del Maestro toscano, è in-
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dalle montagne che tu documenti, per progettare la chiesa dell’autostrada (…).5
I pilastri arborescenti della Chiesa di San Giovanni Battista, le cavità rocciose del Santuario della Beata Vergine della Consolazione a Borgo Maggiore, i disegni di “radici di città” sono allora l’espressione di un modello architettonico - naturale primitivo. L’albero come struttura statica coerente e sempre diversa, privato delle accoglienti fronde ombrose dei disegni giovanili e quasi essiccato, la caverna come primordiale ricovero dell’uomo, la radice come fondazione. La continuità spaziale e strutturale raggiunta nella Chiesa dell’Autostrada, tale da rendere difficile la distinzione fra recinto e copertura e fra spazialità discendente ed ascendente, sembra così trovare il suo modello non tanto nei profili delle colline che circondano Firenze quanto nella “bellezza dei luoghi celesti, là dove il fiume, il mare, le montagne si fondono in una unità totale”.6 La natura propone allora un insegnamento di metodo e non dei modelli da copiare: l’insegnamento è nel suo continuo divenire, nel suo essere sempre diversa, nella sua continuità fisica e biologica. La riflessione sull’architettura spontanea, le cui prime tracce affiorano nei di-
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segni di paesaggio fatti a La Cugna, durante gli anni della guerra, subisce anch’essa un’ulteriore sintesi: la casa rurale toscana diventa il paradigma architettonico della perenne evoluzione e continuità della natura. Essa nasce e si trasforma per soddisfare le esigenze dell’uomo che cambiano con il mutare delle stagioni e della storia. La casa colonica, priva di muri di recinzione, rappresenta non tanto la continuità fisica fra opera dell’uomo e natura ma piuttosto la continuità culturale fra interessi umani e naturali. L’aia è il luogo dove l’osmosi di tali interessi è totale, essa è simultaneamente il luogo della celebrazione di riti collettivi connessi alla vita sociale della comunità e di riti connessi invece alla vita dei campi e ai tempi della natura. Mutamento e continuità quindi come vita, non solo biologica, come quella del bosco che cambia colore nelle diverse stagioni, (…) passando dal bianco al celeste e poi al rosso secondo il tempo delle fioriture (…)7
ma anche e forse soprattutto come vita dell’animo in perenne evoluzione, così annota Michelucci:
(…) mi ha sempre sorpreso Ungaretti = vita natural durante, portò propri versi continue varianti. Così che considerò sua poesia non mai compiuta. Egli non creava cosa nuova anche se riscriveva il tutto, ma dava nuova versione argomento di fondo suo mondo poetico; nuova definizione se stesso e suo tempo (…).8
Si avvia da questi presupposti critici e filosofici il principio della città variabile. Michelucci non concepisce più l’architettura come opera compiuta ma come opera in divenire e in perenne creazione, come la casa colonica, come il bosco, come la poesia di Ungaretti. A questi presupposti culturali e filosofici si affianca, integrandoli e precisandoli, la lettura critica di Brunelleschi che determina il definitivo superamento da parte di Michelucci della concezione rinascimentale del rapporto natura- architettura alla quale è legato fino agli anni cinquanta. Emerge attraverso la riflessione sull’opera di Brunelleschi un insegnamento fondamentale: Brunelleschi porta la natura dentro l’architettura, rompe idealmente il recinto che racchiude la costruzione separando lo spazio interno da quello esterno così che fra costru-
zione e natura non c’è soluzione di continuità. Lo spazio brunelleschiano riflette esso stesso il senso della natura senza ricorrere all’imitazione o alla mimesi perché rispecchia il carattere e la misura della natura toscana, come i cipressi e le rocce dipinte da Giotto riassumono l’intero paesaggio umbro. Il senso della natura quindi è nell’uomo prima che nell’opera, in Brunelleschi come in Giotto come in Michelucci. La continuità fra natura e costruzione è quindi continuità culturale ed emotiva prima che fisica. I muri delle fabbriche di Brunelleschi sembrano perdere la loro consistenza materica, diventano una cortina provvisoria oltre la quale si percepisce non solo la città ma l’eco della collina e dell’alternarsi delle stagioni. Lo spazio architettonico perde allora di staticità, diventa variabile e quindi vitale, come lo spazio della natura, dei fienili e delle case coloniche ma anche della Chiesa di Campi Bisenzio e di quella di Borgo Maggiore. La spazialità di Brunelleschi è quindi fondata su un principio di continuità fra spazio interno e spazio esterno e il movimento è l’elemento di coesione dei due sistemi.
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Attraverso questi presupposti critici Michelucci approda ad una concezione dello spazio aperta, senza soluzione di continuità fra città e natura. Completa il ragionamento sulla “rottura del recinto” iniziato con una riflessione sullo spazio racchiuso fiorentino, maturato successivamente attraverso l’osservazione delle rovine di Ercolano e Pompei e corroborato nella tragica esperienza delle macerie fiorentine. Il Maestro toscano scompone definitivamente la “scatola muraria” percepita come ostacolo all’incessante fluire dello spazio e della vita e riconosce al sistema dei percorsi il valore di matrice dell’architettura: giustificazione di una forma, come si legge in appendice ad uno dei primissimi schizzi per la chiesa dell’Autostrada. Lo spazio diventa allora percorso, ovvero lo spazio è la sintesi di città e natura, principio che verifica per la prima volta nei progetti per le chiese di San Giovanni Battista a Campi Bisenzio e del Santuario della Beata Vergine della Consolazione a Borgo Maggiore e che diverrà la sigla di tutti i progetti futuri. Il percorso sembra allora essere per Michelucci l’approdo di quel cammino a ritroso attraverso la natura alla ricerca dell’essenza della costruzione, della verità del rapporto tra uomo – natura – architettura, sigillo di tutta la sua opera. Il sentiero nel bosco, tratteggiato da Michelucci tante volte nei suoi disegni giovanili a ricordare la presenza dell’uomo, è interpretato ora come radice della costruzione, archè della città. Ma come sempre nel pensiero Michelucciano il “punto di partenza” è l’uomo, allora come la conchiglia assomiglia ad un’immagine umana e l’albero assomiglia al pilastro e, ancora prima forse l’albero assomiglia all’uomo, così è la radice che assomiglia alla strada e non viceversa. (…) I sentieri nella natura hanno una loro vita particolare, nacquero dalle impronte, dapprima timorose, che lasciò il passaggio dell’uomo. Da questi tortuosi percorsi si diramarono punti di incontro, luoghi per la sosta, tende, case, borghi, città meravigliose. Ma il sentiero, poi strada, resta il punto di riferimento più immediato fra l’uomo e la natura (…).9
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Nei disegni di Radici di città le strade trasformate in radici di alberi avviluppano la città o, piuttosto, le strade sono la labirintica radice di una città che invade lo spazio della natura. L’uomo, fino a questo momento presenza incessante nei disegni di Miche-
lucci, ritratto solitario e panicamente immerso nella natura nei disegni che precedono la guerra, protagonista dello spazio assieme ad una formicolante umanità in movimento in quelli successivi, abbandona ora la scena. Nei disegni di radici della città la presenza dell’uomo scompare, o forse, più probabilmente, l’uomo c’è ma il groviglio delle radici lo avviluppa e lo rende prigioniero di ciò che lui stesso ha creato aggredendo sconsideratamente la natura. Ma l’uomo, Teseo contemporaneo, troverà la via della salvezza proprio attraverso il caos che lo imprigiona. La radice, infatti, è anche generatrice di vita ed è quindi soltanto attraverso di essa, o meglio, tornando ad essa, ovvero tornando alla propria origine e quindi alla propria identità che l’architettura potrà trovare la via del suo rinnovamento e progredire così verso il futuro. 8
Ringraziamenti. Si ringrazia la Fondazione Giovanni Michelucci di Fiesole, in particolare l’architetto Corrado Marcetti, che ha consentito alla pubblicazione di un estratto inedito tratto dall’Archivio delle lezioni di Giovanni Michelucci. 1 Fondazione Giovanni Michelucci, Fiesole, “Archivio delle lezioni”. 2 Fabrizio Brunetti, “Abbiamo perso la fiducia in noi stessi e non abbiamo più il senso della storia” in Giovanni Michelucci intervista sulla nuova città, Laterza, Roma, 1981. 3 Il racconto del sogno dell’Angelo ricorre costantemente, ogni volta con qualche piccola variante, negli scritti, nei colloqui e nelle interviste a Michelucci. 4 Affacciato alla finestra, in “L’Arca”, n. 48, pag. 48, 1991 5 Lettere a Chiese & quartiere in “Chiesa & Quartiere”, n.33, pag.2-5, 1965 6 Eglise de l’Autoroute du soleil, pres Florence, in “L’architecture d’Aujourd’hui”, n. 113, pag. 166171, 1964 7 Colloquio I “Gli anni della formazione: Pistoia e la guerra” in Giovanni Michelucci, intervista, a cura di Franco Borsi, ed LEF, Firenze, 1966 8 La felicità e il caos: Le radici di Michelucci, in Alle radici di Giovanni Michelucci Pistoia come luogo felice, a cura di Giovanni Battista Bassi, ed Alinea, 1992 9 Le radici della città 1985, in Giovanni Michelucci, incontri di giugno, a cura di Fabrizio Brunetti, ed Lalli, Poggibonsi, 1988
Fonti bibliografiche oltre ai testi citati nelle note: Gilberto Rossini, La chiesa di Michelucci a San Marino, Aiep editore, 1987 Giovanni Michelucci, Brunelleschi Mago, ed. Tellini, Pistoia, 1972 Giovanni Michelucci, Non sono un maestro, ed Carpena, 1976 Michelucci: il linguaggio dell’architettura, ed Officina, 1979. Giovanni Michelucci, abitare la natura, ed Ponte alle Grazie, Firenze, 1991 Lettere, Michelucci a Halprin, Halprin a Michelucci in “La nuova città”, n.2, pag.14-15, 1987 Mario Lupano, Colloquio con Giovanni Michelucci, in “Domus”, n. 720, pag. 21-32, 1990 Giovanni Michelucci fotografo, ed Mandragora, Firenze, 2001
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Banca CR Firenze: un progetto per il futuro Claudio Zanirato
La Banca CR di Firenze ha programmato di spostare gli uffici della Direzione Generale in una nuova sede più ampia, di più facile accessibilità e di una migliorata funzionalità, capace di garantire anche un adeguato possibile sviluppo nel tempo; l’area prescelta è a Novoli, molta vicino al costruendo Palazzo di Giustizia lungo viale Guidoni e baricentrica rispetto al nascente polo direzionale ed universitario. La volontà di realizzare un’ampia area centrale a giardino, di oltre un ettaro, ha indotto una disposizione compositiva dei volumi edificati lungo il perimetro regolare del lotto, ed ha quindi costituito una costante nelle sette proposte progettuali messe a confronto su invito, assieme all’evidenziazione della parte direzionale posta sul fronte d’ingresso privilegiato. A confrontarsi sono stati i lavori degli studi parmensi e fiorentini di Paolo Zermani e di Fabrizio Rossi Prodi, dei milanesi Giorgio Grassi e Mario Bellini, dei newyorkesi Steven Holl e Lee Polisano per KPF Associates, e quello londinese di Norman Foster. L’inserimento della sede centrale di una banca nello scenario in divenire della nuova cittadella direzionale di Novoli equivale, per valore simbolico, all’impianto urbano di un palazzo signorile in epoche passate: il ruolo scenograficopercettivo, la trasmissione di un preciso ruolo sociale e del suo valore collocativo, sono gli aspetti referenziali principali della traduzione architettonica del compito assegnato. In questo modo, l’edificio è un episodio compositivo compiuto, che s’inserisce in piena autonomia nella compagine urbana, distinguendosi con evidente autoreferen-
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zialità ma nel pieno rispetto delle regole costruttive ed aggregative della città. Così, accanto al “castello-cattedrale” del Palazzo di Giustizia, assoluta eccezione, e vicino alla trama minuta degli altri edifici già pianificati, la costruzione a corte della Banca ha indotto i progettisti a rilevare il fronte su Viale Guidoni con maggiore enfasi, dovendo qui contemplare anche la presenza degli spazi direzionali di maggiore rappresentanza: per tutti i concorrenti questo è risultato un fronte chiuso e compatto, a differenza di quello contrapposto, che per i più doveva rimanere più aperto e permeabile nei confronti del vuoto dello spazio centrale. Il coinvolgimento progettuale di questo spazio aperto-racchiuso ha trovato interpretazioni molto diverse: il richiamo, più o meno esplicito, alla tradizione italiana del giardino appare evidente nei lavori di Steven Holl soprattutto, e di Norman Foster, anche se, in questo, l’omogeneità del luogo è molto frammentata; favolistica appare invece la proposta di Mario Bellini, con un disegno quasi esuberante, in cui prevale l’intento decorativo; di tutt’altro segno è, invece, la trasformazione in grande piazza pavimentata ed alberata del progetto di Lee Polisano; più utilitarie e funzionali all’impianto organizzativo delle costruzioni sono, infine, i giardini strutturati rigorosamente sui percorsi di Fabrizio Rossi Prodi e di Giorgio Grassi. Il disegno di una “facciata” privilegiata, quasi una quinta urbana, diventa per Giorgio Grassi e Norman Foster la scomposizione in tre corpi gerarchizzati e collegati, per Paolo Zermani la sospensione su un’arcata tesa quasi all’infinito e schiacciata a terra, per Fabri-
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1 Giorgio Grassi plastico 2 Paolo Zermani plastico 3 Fabrizio Rossi Prodi plastico Pagine successive: 4 Steven Holl plastico 5 Mario Bellini plastico 6 Norman Foster plastico 7 KPF Associates plastico
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zio Rossi Prodi una sequela di setti che disegnano un avancorpo colonnato con ordine gigante quanto trasparente. Questa composizione chiusa ed orientata ha posto quasi tutti i progettisti a confrontarsi con la necessità di un impianto improntato alla simmetria: gli unici che sembrano sfuggire a tale logica sono Lee Polisano, che sovrappone un secondo piano compositivo interno leggermente ruotato, e Steven Holl, che sposta verso gli angoli l’attenzione principale. L’idea di massività, propria di molta architettura fiorentina conferita alle co-
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struzioni dalle murature compatte e spesse, si ritrova ricorrente in molti di questi progetti, nel lavoro di scavo della materia dei volumi e nelle scelte materiche, in cui la pietra, spesso proposta in estese lastre, è prevalente, ed, in subordine, il mattone tesse pareti non meno possenti, mentre al vetro è demandato il compito soprattutto di spettacolarizzare, conferendo profondità volumetrica con la sua trasparenza. L’articolazione dei fronti urbani avviene pertanto con masse compatte, con prevalenza della scansione dei piani orizzontali con piccole aperture, sal-
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tuariamente squarciate da ampie vetrate: solo Fabrizio Rossi Prodi e Lee Polisano contrappongono in maniera decisa un’intelaiatura, fatta di pareti cieche e di pilastri, con vetrate continue impiegate in funzione dialettica. Ad eccezione del progetto di Giorgio Grassi, che si propone perfettamente speculare nel disegno degli involucri esterni ed interni, nelle altre proposte si avvertono differenze di trattamento, anch’esse confrontabili con il repertorio usuale del Palazzo a corte: in tutti gli altri prevale il bisogno di una maggiore leggerezza nei fronti interni, data da
volumetrie più frammentate o dall’impiego più diffuso di vetrate. Anche il tema della copertura fortemente aggettante e/o staccata dal corpo di fabbrica o in subordine l’accenno al loggiato di coronamento, che si possono riscontrare in diversi progetti, sono tutti riconducibili allo scenario fiorentino: soluzioni conclusive che diventano enfasi dell’intera proposta progettuale in Norman Foster, che la reinterpreta addirittura con un monolitico anello di copertura “sospeso” dall’edificio con una riflessione metallica. L’architettura delle banche è stata
spesso condizionata dalla volontà di connotarsi come costruzione possente, solida depositaria dei valori economici, e perciò ha prevalso di sovente il ricorso agli elementi costitutivi simbolici ritenuti più appropriati a questa forma di comunicazione: l’analogia con il palazzo nobiliare di città trova molti punti in comune, com’è possibile confrontare con i progetti presentati, e la scelta di premiare la proposta di Giorgio Grassi forse conferma questa riflessione, in quanto è più in sintonia con la visione consolidata dell’edificio bancario.
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letture
Ulisse Tramonti, Sergio Martellucci (a cura di) Vincenzo Pilotti 1872-1956 Città immaginata città costruita Alinea Editrice, Firenze 2003 La straordinaria vicenda progettuale di Vincenzo Pilotti, architetto marchigiano nato nel 1872, ha trovato finalmente dopo lunghi anni di completa trascuratezza, un corretto e doveroso inquadramento critico, attraverso la sistematizzazione dell’intera sua produzione. L’organizzazione di un’interessantissima mostra tenutasi ad Ascoli Piceno nel 2003 nei locali della Cartiera Papale, e del suddetto libro che funziona come catalogo, hanno tolto dall’oblio di una macroscopica disattenzione storiografica, l’intenso lavoro di questo architetto che formatosi nel clima di fin de secle ha attraversato tutta la prima metà del Novecento. La formazione accademica romana prima e quella fiorentina poi, accanto a personaggi come Coppedè e Fantappiè e sotto la guida di architetti quali Vincenzo Micheli ed Enrico Ristori, profondamente legati agli stilemi di un tardo accademismo storicista e monumentalista, generano in Pilotti, le basi per un atteggiamento progettuale di tipo eclettico. Un eclettismo anomalo, trasversale alla coeva compagine architettonica italiana, non solo espressione di ridondanza formale, ma capace di contenere nell’accumulo di temi, istanze e figure, profondamente distanti tra di loro e fuse in una spregiudicatezza che non sfiora nessuna critica morale, la possibilità di delineare una personale quanto preziosa parabola espressiva, ricca comunque di inaspettate quanto innovative soluzioni compositive. Il libro disseziona l’itinerario compositivo di Pilotti, nei suoi momenti principali, andando, con gli scritti di: Adele A. Amadio, Antonello Alici, Gerardo Doti, Adriano Ghisetti Giavarina, Sergio Martellucci, Maria Luisa Neri, Ulisse Tramonti e Stefania Zoboletti, ad approfondire le esperienze compiute ad Ascoli, a Teramo, a Pescara, insieme all’analisi di ricorrenze nella sua produzione, come la realizzazione in diverse varianti della tipologia della villa, la partecipazione a numerosi concorsi di architettura e la collaborazione con il pittore Adolfo de Carolis. All’enorme produzione progettuale di Pilotti, si deve affiancare un’altrettanto fervida attività di insegnamento, che lo vide prima insegnante di disegno nella R. Scuola Tecnica a Caltagirone, poi nell’analogo istituto di Ascoli Piceno, per passare poi dopo un anno come professore di Disegno d’Ornato e Architettura Elementare all’Università di Cagliari, all’Università di Pisa nella R. Scuola d’Ingegneria per insegnare Architettura Tecnica e Generale, dove ebbe tra i numerosi allievi anche Giovanni Michelucci. La vastissima produzione di Pilotti, documentata dalla presentazione dei bei disegni, quasi tutti eseguiti con matita su carta lucida, spazia dai temi urbani, ai temi residenziali sviluppati per l’alta borghesia marchigiana o per altri personaggi illustri
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dell’epoca, ai temi ecclesiastici e monumentali. Tra i progetti a carattere urbano, si evidenziano tra gli altri, ad Ascoli Piceno le nuove costruzioni intorno ai chiostri di San Francesco, il progetto di isolamento del San Francesco e il Palazzo INA e il progetto per il nuovo Istituto Tecnico, a Teramo la nuova Casa Littoria, il Palazzo Postelegrafico, a Pescara la piazza dei Vestini e il nuovo quartiere intorno al Palazzo Comunale, il nuovo ponte per la città, il Palazzo per l’Economia Nazionale e il bellissimo quanto inaspettatamente razionalista, monumento a D’Annunzio, una sorta di teatro all’aperto felicemente integrato al paesaggio circostante. Vengono presentati inoltre molti esempi di residenze, come il villino Puccini a Viareggio e il villino per il senatore Gentile a Rosburgo, oggi Roseto in provincia di Teramo. Il libro, pur nella parzialità della propria veste di catalogo di mostra, riesce ad approfondire la complessità dei temi linguistici incrociati da Pilotti nella loro multiforme declinazione, offrendo la sottolineatura della sua evoluzione linguistica, attraverso l’avvicendarsi di “voci” diverse che nel corso del tempo si alternano, sovrappongono o sostituiscono ai valori d’impianto che per Pilotti restano fortemente ancorati alla formazione accademica ricevuta, nella caparbia convinzione, espressa su più fronti, che “in Italia non esiste uno stile vero e proprio moderno, che sia veramente originale e tale da caratterizzare l’epoca attuale.” Fabio Fabbrizzi
Ulisse Tramonti, Mariacristina Gori (a cura di) I beni della salute Il patrimonio dell’Azienda Sanitaria di Forlì Federico Motta Editore, Milano 2004 La messa in funzione del nuovo complesso ospedaliero di Forlì, ha rappresentato un’interessante occasione, subito colta dalla locale Azienda Sanitaria, per costruire una serie di iniziative culturali atte a celebrare l’evento. In particolare, molte di loro sono state volte a rendere note tutte le ricerche che da molto tempo venivano effettuate all’interno del vasto patrimonio, che da quasi tre secoli di distanza, dalla costruzione cioè della Casa di Dio, la prima struttura sanitaria con un preciso carattere architettonico e monumentale eretta a Forlì, costituisce una preziosa quanto sconosciuta riserva di opere d’arte e di storia locale. Ulisse Tramonti e Mariacristina Gori, coordinatori delle ricerche effettuate e curatori del bel libro che ha funzionato anche come supporto alla mostra tenutasi a Palazzo Albertini a Forlì, hanno avviato la proficua riflessione attorno ad una narrazione inedita che incrocia i valori positivi dell’architettura, della pittura, della scultura, e della tecnologia, con quelli di carattere morale come la solidarietà e la carità, ricordando che molto spesso i luoghi del-
la cura, costituiscono un testo chiave, per la comprensione della storia artistica e sociale di una comunità. Mariacristina Gori analizza il patrimonio artistico degli ospedali e delle strutture sanitarie di Forlì, mentre il ben supportato contributo di Ulisse Tramonti, traccia le vicende architettoniche dell’istituzione ospedaliera, partendo dal progetto di Giuseppe Merenda, Cavaliere dell’Ordine di Malta, fino alle varie fasi dei contemporanei sviluppi del complesso. Il Grande Ospedale dell’Ordine dei Cavalieri di Malta, costruito a La Valletta nel 1575, costituisce il modello al quale si ispira il giovane Giuseppe Merenda, quando nel 1720 inizia la progettazione della Nuova Casa di Dio per gli Infermi di Forlì. Il bellissimo modello in legno di noce, conservato alla Pinacoteca Comunale della città, oltre a testimoniare l’innovativo impianto planimetrico formato dall’innesto urbano di una corsia a T per i malati e delle altre funzioni necessarie alla conduzione della struttura, intramezzate dalla presenza di due chiostri interni, mostra una serie di invenzioni tecniche di notevole caratura, come le latrine-armadio disposte a separazione di ogni posto letto, oltre ad una cura e ad un livello generale di attenzione per il benessere del malato, di straordinaria attualità. Tramonti passa poi ad analizzare con cura scientifica, i frammenti dell’evoluzione architettonica e urbana di questo luogo, e degli altri che poi nel corso del tempo hanno affiancato la struttura iniziale, descrivendo per la prima volta la storia di un’architettura che costituisce uno dei nodi di maggiore interesse della realtà forlivese. Il suo “racconto”, affronta i numerosi progetti, gli entusiasmi, le revisioni, gli ampliamenti, e le conferme, che sono andati di pari passo alle proclamazioni di intenti, alle mutate necessità e alle variabili sorti politiche e sociali che hanno delineato l’immagine e la sostanza contemporanea della struttura ospedaliera, ben conscio che attraverso il racconto dell’avvicendarsi delle forme, si evinca il ben più utile avvicendarsi delle idee. In questa storia, spicca il capitolo degli anni ’30, durante i quali furono costruiti gli interessantissimi edifici del Complesso Sanatoriale IX Maggio a Vecchiazzano, Forlì, nel quale Tramonti riesce a penetrare al di là dell’evidente lettura di un formalismo simbolista e macchinista degli edifici di cui si componeva originariamente il complesso, nell’acuta registrazione di una indubbia qualità compositiva, non immune da caratterizzazioni di ordine psicologico. Infatti, oltre all’immagine della nave dell’aereo, del carro armato e della torre di controllo, a cui gli edifici paiono alludere, la lettura ci conduce a soffermarci sugli aspetti che legano l’architettura al tema del benessere, che individua una spazialità, che al di là della retorica, contiene un prezioso carattere confortante, sottolineato oltre che da un appropriato studio cromatico, dalle relazioni con l’esterno, con il clima, e con il paesaggio. I due itinerari di ricerca, svolti con impeccabile de-
dizione dagli autori, oltre all’eccellente ed evidente risultato scientifico, sono lì a testimoniarci ancora una volta -pare una banalità ma sempre più spesso nel mondo della ricerca e del progetto si tralascia questa elementare verità- che la progettualità in ogni forma la si voglia intendere, legata all’arte, all’architettura, o alla tecnologia, non può prescindere dalla natura dell’uomo. Un uomo, i cui bisogni, i cui desideri, le cui necessità e cure, sostanzialmente invariate nel corso della sua evoluzione, rimangono a ricordare la sua finitezza e parzialità. Fabio Fabbrizzi
Adolfo Natalini Album Olandese AIÓN Edizioni, Firenze 2003 ISBN 88-88149-11-2 La pubblicazione si presenta come primo esempio di una collana di approfondimenti monotematici promossa dalla rivista fiorentina. In centoundici pagine di ampio formato è allestita una significativa panoramica dell’attività dell’architetto in terra olandese. Comprese in un arco di tempo di tredici anni si documentano sei realizzazioni –dalla ricostruzione della Waagstraat a Groningen (19911996) alla torre ed edificio per uffici a Roermond (1999-2002)- e sette progetti –dal concorso per l’area Markt-Maas a Maastricht (1994) al concorso per l’area delle Lange Stallen a Breda (2003). Il saggio di apertura di Hans Ibelings è centrato su due questioni. Una prima concerne la paradossale fortuna nataliniana in Olanda, sospesa tra l’ammirazione, non affievolita, per la trascorsa avventura radicale (fu lo stesso Rem Koolhaas ad invitare l’architetto pistoiese ad insegnare all’Architectural Association School of Design di Londra sul finire dei sessanta) ed il grande favore che le proposte ‘neomoderne’ di questi anni riscuotono tra un pubblico vasto. Lo scritto più che misurare la distanza tra queste esperienze dissimili, insegue le tracce che testimoniano una continuità dell’azione e del pensiero dell’autore (indagine già in parte istruita da Pierluigi Nicolin in altre occasioni). Un secondo nodo –anche se non direttamente espresso- riguarda i rapporti tra queste prove e quelle rubricate sotto la sigla new traditionalism o romantic architecture da critici quali Martin van Schaik e Werner van den Belt. Al fondo del problema stanno le modalità, non scontate, del rapporto della contemporaneità con le forme ereditate, con il contesto, con gli statuti della disciplina. Anche in questo caso la lettura di Ibelings, rilevando il grado di astrazione delle sintesi –alle diverse scale- di Natalini, trova un decisivo antecedente nelle ricerche sulle culture materiali degli anni settanta, quale primo tentativo orientato al disvelamento di una “semplicità originaria”. L’intervento di Roberto Mantovani, Rileggendo l’album olandese, ricorda
alcune delle strategie impiegate al fine della ricostruzione della città europea, ipotesi antitetica al territorio dell’ipermoderno. Dai miei quaderni olandesi e Voglia di città sono due contributi inediti dell’autore; analoghi alla scrittura che da molto tempo accompagna l’impegno progettuale –ed il disegno- intrecciano spunti letterari, di analisi, biografici. Testi spurî, dal tono privato, che si mostrano quali frammenti, parti di un racconto lungo che sembrano trovare interlocutori per chance fortuita (una mostra, un catalogo, una rivista…). I temi sono di natura diversa ma tutti hanno come centro invisibile l’architettura quale strumento privilegiato di indagine, conoscenza e costruzione di un mondo (il filo potrebbe essere qui teso con le pagine dell’Autobiografia aldorossiana). Suggeriamo un prossimo lavoro editoriale dal carattere più intransigente e meno corretto. Un volume che accosti risolutamente la narrazione alla fotografia –sulla ruota di alcuni prototipi di inizio XX secolo; lontano dalla cronaca e dalle vicende contraddittorie che sempre accompagnano il mestiere, questi fogli futuri avvicineranno il sotterraneo all’eretto, il continuo all’occasionale, il singolo al collettivo, in un salto privo di rete (ma l’architettura non è un lapsus tra lapis e lapide?). Fabrizio Arrigoni
Paolo Zermani Identità dell’architettura Officina Edizioni, vol. 1 1995, vol. 2 2002 Scritti a distanza di sette anni l’uno dall’altro, i due libretti gialli di Paolo Zermani contengono una nitida costruzione teorica sui possibili principi genetici dell’architettura contemporanea, definendo, allo stesso tempo, la poetica dell’architetto emiliano. A corredo e dimostrazione degli enunciati espressi che, per lo stile secco e aforistico talvolta conferiscono allo scritto i tratti del manifesto programmatico, sono portate le esperienze progettuali dello stesso autore. In filigrana quasi un teorema, costruito sulla certezza della logica ma vibrante di una poetica inclinazione ad istituire relazioni inaspettate. In entrambi i volumi il primo capitolo di riflessioni teoriche introduce i due successivi dedicati alla descrizione dei progetti e del percorso intellettuale che li ha generati. Nel solco tracciato dal ragionamento intrapreso da Aldo Rossi sulla centralità del monumento nelle dinamiche di sviluppo della città, Zermani pone come istanza la necessità di tornare ad ‘ascoltare’ i monumenti, i quali, pur vivendo una “condizione anomala” di isolamento per l’aggressione mossa dalla civiltà contemporanea, “rimangono la scaturigine fondamentale da cui l’architettura può generarsi”, fidi depositari del codice di trasmissione del carattere dei luoghi.
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Significativamente l’autore parla di “luoghi apocrifi” istituendo una evidente associazione tra il paesaggio contemporaneo ed un testo letterario che sia stato alterato, nel tempo, da addizioni e sovrapposizioni. Anche per quello del paesaggio, che è un testo mutevole, in continuo divenire, può sorgere un problema di autenticità e quindi di comprensibilità quando alla lingua condivisa si sostituiscono segni indecifrabili, o privi di senso partecipato, che impoveriscono, o perfino arrestano, il secolare flusso della narrazione. Preservare l’identità, includendo la contaminazione, significa allora disegnare “una continuità comprensibile, a fronte della frantumazione dei codici e delle categorie canoniche di riferimento”. Non un nostalgico vagheggiamento dei tempi andati ma un rifiuto netto della cancellazione della memoria dai processi genetici dell’architettura. “L’identità è temporanea. L’identità non si crea e non si distrugge: si trasforma. Ciò deve avvenire senza dissipazione”. Del resto Zermani assume come punto di partenza del progetto proprio la lettura della realtà modificata – “apocrifa” appunto – e fa della comprensione del difficile rapporto (“non risolto”, per dirla con Pasolini) tra passato e presente, la chiave per uscire dall’impasse della babele architettonica dei nostri giorni. Ordine e Misura sono gli strumenti di questa operazione attinti dal patrimonio architettonico classico, i quali, traghettate le acque del Moderno, assumono qui un senso anch’esso modificato. A colmare il vuoto lasciato dall’abbandono del canone classico, viene invocata la necessità di una nuova forma di Ordine all’interno della quale “i frammenti che ci sono stati lasciati… abbiano ancora un significato o ne assumano uno nuovo”. Un Ordine, dunque, capace di arginare e superare il caos, che restituisca un senso all’immagine confusa di quel difficile mosaico che è il paesaggio contemporaneo, facendosi carico di ristabilire i nessi perduti o, al contrario, di creare le necessarie distanze. Ma l’assoluto kahniano del “progettare è comporre forme in ordine” viene ricondotto da Zermani ai termini contingenti della odierna “proliferazione selvaggia” rispetto alla quale “possiamo offrire… solo proposte di odine differenziate e frammentate”, che aderiscono di volta in volta alla specificità del contesto. Tornare a misurare i monumenti, questa volta in maniera “fortemente percettiva”, attraverso uno sguardo critico e selettivo che sappia cogliere la distanza concettuale fra le cose, è condizione essenziale per ripristinare i ‘rapporti’ interrotti. “La misurazione si esprime come osservazione delle mutate condizioni”, afferma l’autore: il gesto simbolico di Le Corbusier che tenta di misurare la circonferenza di una colonna del Partenone con un abbraccio impossibile, ci restituisce in modo icastico la distanza incolmabile tra due mondi. Un rocchio di colonna a terra è tanto a portata di mano quanto inafferrabile nella sua originaria condizione, ma il suo essere parte di un tutto irrimediabilmente
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distrutto, da osservare con la lente di ingrandimento della contemporaneità, si presta ad una fertile operazione di astrazione dalla quale nascono alcune delle architetture di Zermani, concepite proprio come frammenti fuori scala: il “basamento abitabile” del Museo e Famedio del Cimitero di Torino; il rocchio di colonna del Museo dell’Acropoli di Atene; di nuovo il basamento, che si fa recinto e colombario, nel cimitero di Sansepolcro. Per Zermani, è lo sguardo, attraverso dilatazioni e contrazioni, inclusioni ed esclusioni, a compiere quella misurazione necessaria per ricostruire la struttura che tiene insieme i vari elementi del paesaggio contaminato, in uno stato di sospensione tra la temporaneità e l’atemporalità. “Realtà materiale e mente si avvicinano nell’osservazione del paesaggio divenendo parti attive del processo inventivo dell’architettura. Il confine tra il vedere e il non vedere e soprattutto la soglia tra il vedere il vero e il vedere l’immaginario costituisce un modo singolare di rapportare interno ed esterno, cioè l’essenza stessa dell’architettura”. Così il Padiglione di Noceto diventa un diaframma che nella sua trasparenza raccorda le colline e il mondo agrario con quello più recente, ma già superato, della ferrovia; mentre nella Biblioteca Pavese a Parma, che è metafora della funzione che ospita, lo sguardo è tutto introverso, raccolto all’interno di due libri aperti, il cui fuori scala allude al salto dimensionale e temporale che compie chi si accinge alla lettura. David Kaspar Friedrich, Rudolf Borckhardt, Attilio e Bernardo Bertolucci, Alfred Roth, Henry James, Martin Heidegger (solo per citarne alcuni) sono i riferimenti che guidano il percorso intellettuale di Zermani, che ci pare significativo di un approccio umanistico all’architettura, volto a fondare la disciplina su basi più ampie di quelle meramente specialistiche per riportarla nell’alveo di un sapere complesso e restituirle il valore di esperienza culturale totale. E anche se essa “non può guarire i mali del mondo” Zermani sembra suggerire una via morale e civile al progetto di architettura facendo fronte comune con chi si oppone ad un progresso omologante e distruttivo. Francesca Mugnai
Milena Matteini Proposte di lettura - Pietro Porcinai, architetto del giardino e del paesaggio Electa, Milano 2004 (terza edizione) Esce nel 2004 la terza edizione del prezioso libro di Milena Matteini, sulla vita e le opere di Pietro Porcinai, pubblicato per la prima volta nel 1991, a Milano, per i tipi di Electa. Il testo è accompagnato da un ricco apparato fotografico ed iconografico, costituito dalle splendide immagini a colori ed in bianco e nero di Karl Dietrich Bühler, e dai bozzetti, progetti e disegni esecutivi provenienti dall’Archivio fiesolano dello Studio Porcinai, a villa Rondinelli. Il libro, apparso cinque anni dopo la morte di Porcinai, ha avuto il merito di abbozzare per primo e con cura, il ritratto di uno dei maggiori paesaggisti del Novecento, delineandone la vicenda umana e professionale con la competenza critica e l’acutezza d’indagine di Milena Matteini, architetto paesaggista, che di Pietro Porcinai è stata allieva e collaboratrice. Pietro Porcinai nasce nel 1910 a Settignano, in una abitazione annessa alla Villa Gamberaia dove il padre Martino lavora come capo-giardiniere per la principessa rumena Catherine Jeanne Ghika che, proprio in quegli anni, trasforma il celebrato parterre settecentesco in un inconsueto water garden, secondo un raffinato disegno formale, oggi non più esistente. Il giovane paesaggista inizia così la sua formazione tra le aiuole della Gamberaia, icona del giardino storico italiano, seguendo il lavoro del padre e della principessa, per continuarla successivamente
sui banchi dell’Istituto di Agraria di Firenze. Nel 1928, dopo aver conseguito il diploma, Porcinai si trasferisce per qualche mese all’estero, a Bruxelles, presso il vivaio Draps, ed in seguito nel parco del castello di Fürsterstein, vicino a Breslavia, in Germania, dove viene in contatto con la solida tradizione tecnica e botanica dei paesi del centro Europa. Queste esperienze giovanili gli conferiranno un’attenzione rigorosa per il dettaglio tecnologico e costruttivo ed una concretezza progettuale abbastanza rara tra i professionisti suoi contemporanei operanti in Italia. I due anni di pratica spesi nell’ufficio tecnico del vivaista pistoiese Martino Bianchi, dal 1932 al ’34, contribuiranno ad istruirlo sulle dinamiche della produzione vivaistica, fornendogli nozioni preziose per la progettazione e realizzazione di spazi verdi di ogni tipologia e dimensione. Nei primi lavori come progettista autononomo, una serie di giardini privati per edifici d’abitazione, come la scomparsa villa Scarselli a Sesto Fiorentino (1932), la villa Il Quercione a Settignano (1937), o villa La Striscia ad Arezzo (1937), Porcinai effettua scelte compositive di tipo geometrico e tradizionale, d’obbligo nell’ambiente toscano dell’epoca, caratterizzato dalla riproposizione degli schemi classici del giardino all’italiana, secondo l’immagine parziale e storicamente alterata che di esso aveva fornito la celebre Mostra del ’31 in Palazzo Vecchio, della quale peraltro Porcinai non apprezzò l’impostazione culturale, né la banalità dei risultati in campo progettuale. Negli anni successivi il paesaggista abbandona le soluzioni formali di impostazione neo-classica, per raggiungere una maturità progettuale, supportata da un metodo rigoroso e da una competenza tecnica eccezionale che gli consentono di operare in ogni tipo di situazione, creando giardini e paesaggi contemporanei di straordinaria bellezza. Le realizzazioni dagli anni ’50 agli ’80, mostrano un talento compiuto e consapevole ed una perfezione esecutiva perseguita fino al minimo dettaglio, unite ad una non comune libertà compositiva, come nei celebri progetti per i giardini di Villa Il Roseto a Pian dei Giullari (1960-’65), Villa il Martello a Fiesole (1973), Villa Il Castelluccio a Santa Croce sull’Arno (1971-’80), Villa Riva ad Alpino (1951-’52) e Villa Fiorita a Saronno (1953-’58), questi ultimi con Ludovico Barbiano di Belgiojoso e lo studio di architettura BBPR. Diverse fattive collaborazioni, vengono intrecciate da Porcinai anche con professionisti come Luigi Cosenza, per il Parco Olivetti a Pozzuoli (1951’52), Oscar Niemeyer per il parco ecologico della nuova sede Mondadori a Segrate (1972), Marco Zanuso per il Parco di Collodi (1963-’72), e poi ancora con Carlo Scarpa, Vittoriano Viganò, Franco Albini e Franca Helg, e molti altri. Costanti e proficui sono anche i rapporti di Porcinai con i colleghi europei, come i paesaggisti inglesi Geoffrey A. Jellicoe, Sylvia Crowe e Russell Page, la tedesca Gerda Gollwitzer e lo svizzero Willi Neukom, il belga René Pechère, il danese Carl Theodor Sørensen, e la svedese Ulla Bodorff. Nel 1948 Porcinai fa parte del gruppo internazionale di paesaggisti che, a Cambridge, fonda l’International Federation of Landscape Architects e, nel ’79, unico italiano, viene insignito dalla Bayerische Akademie der schénen Kunste, dell’anello di Friedrich Ludwig von Sckell, la massima onorificenza concessa in Germania ad un paesaggista. L’attenzione per le tematiche ecologico-ambientali e per la fitosociologia ante litteram e l’ampiezza degli orizzonti professionali che spaziano dal recupero di cave dismesse e siti contaminati, allo studio di giardini ‘aziendali’ e luoghi per il lavoro, ai parchi archeologici o sostenibili, fanno di Porcinai una figura di paesaggista matura e completa, disinvolta e capace anche nella gestione della scala territoriale, come dimostrano i progetti per la sistemazione del sito di Abu Simbel (1963), in seguito ai lavori per la diga di Assuan, o, dal ’65, la preziosa consulenza paesaggistica prestata per la realizzazione dell’Autostrada del Brennero.
All’interno del testo principale, Milena Matteini delinea con precisione il percorso personale e professionale di Porcinai, alternando la narrazione e la descrizione delle opere con l’esame diacronico di tematiche specifiche, quali l’uso dell’acqua, o gli studi sull’illuminazione, o le influenze formali sul processo progettuale. Il volume, presentato da Annalisa Maniglio Calcagno, comprende, oltre alla corposa disamina cronologica e critica dell’intera attività professionale, curata dall’autrice, una sezione che riporta alcuni degli scritti di Porcinai, introdotti da Alessandro Giannini ed una serie di saggi tematici: Ippolito Pizzetti analizza le scelte botaniche del paesaggista, e Caterina Zappia si occupa degli elementi artificiali nei giardini di Porcinai, mentre Carlo Camarlinghi ci rivela, attraverso i numerosi brevetti depositati, le capacità di un grande designer. L’esame dei titoli della biblioteca di Villa Rondinelli, infine, curato da Biagio Guccione, ci mostra un professionista aggiornatissimo sulle pubblicazioni internazionali di settore, ma anche un lettore appassionato e curioso di testi di architettura, urbanistica, storia, filosofia ed archeologia. Chiude il volume un’interessante raccolta di testimonianze su Porcinai, uomo e paesaggista, raccontato da una galleria nutrita di collaboratori, committenti, professionisti, colleghi e personaggi della cultura, ed il fondamentale regesto delle opere, ordinate cronologicamente a cura di Gianni Medoro.
Elisabetta Maria Agostini Giuseppe Poggi La costruzione del paesaggio Diabasis Editore, Reggio Emilia 2002 “Il paesaggio quale materia plasmata e interrogata dall’uomo come espressione della perfezione divina, condensato in quel connubio equilibrato di natura e artificio che il Rinascimento aveva espresso e strutturato in uno dei suoi momenti più alti, e ancora colto sul finire del XIX secolo dai viaggiatori che a Firenze indagavano la misure di questo rapporto, rappresenta il sostrato noetico con cui si intraprende la lettura dell’opera poggiana”. Le parole tratte dalla nota introduttiva del libro segnano con efficacia i termini di una ricerca dal tratto originale sull’esperienza teorica e progettuale dell’architetto fiorentino Giuseppe Poggi. Elisabetta Agostini compie una paziente ricognizione archivistica che le consente di raccogliere numerosi documenti praticamente mai esaminati fino ad ora: i disegni, le fotografie e gli scritti delineano un percorso di lavoro contraddistinto da esemplare coerenza intellettuale, che a partire dai numerosi interventi toscani porta, dal 1864, al complesso delle proposte per l’ampliamento di Firenze Capitale d’Italia.
La struttura del libro si articola in quattro capitoli, L’identità toscana nel progetto di paesaggio, La matrice dello spazio urbano: la veduta, Strumenti di progetto: la tecnica fotografica e il disegno di architettura, La costruzione del paesaggio, nei quali l’autrice isola i principali temi che alimentano la ricerca poggiana, analizzando il metodo nella messa a punto della prefigurazione dei progetti: il panorama, la veduta, la continuità ricercata tra spazio interno e spazio esterno o spazio urbano e paesaggio. Questi sono affrontati dall’architetto negli scritti e nei progetti, dalle prime commissioni architettoniche di ville fino agli importanti interventi di trasformazione urbana per Firenze. Le soluzioni progettuali sono messe a confronto con il contenuto degli scritti autografi, come nel caso di Brevi parole sopra il viaggio in Maremma, con le annotazioni di un viaggiatore affascinato, soprattutto, dai rapporti di veduta, costruiti o naturali, che caratterizzano il paesaggio osservato o di Ricordi della vita e documenti d’arte dove sono riportate annotazioni sulle vicende progettuali e osservazioni di carattere teorico. Gli appunti e le riflessioni di Poggi sulle trasformazioni messe in atto sul finire del XIX secolo nelle Capitali del Nord Europa e quelle raccolte sulla struttura del paesaggio toscano confluiscono, sottolinea l’autore, ne “la ricerca di uno spazio pubblico in cui tessuto urbano e paesaggio, monumenti e collina sono strettamente connessi, per esprimere ed esaltare il valore dell’opera architettonica, in una vera e propria costruzione del paesaggio nel dialogo incessante con l’opera di Natura”. Uno scritto interessante, chiaro nella stesura e nei contenuti, quello proposto da Elisabetta Agostini come primo esito della ricerca intrapresa su Giuseppe Poggi. Il libro consente di avvicinarsi, con un taglio preciso, all’opera dell’architetto fiorentino e fornisce gli elementi per una opportuna riflessione sul mutato rapporto tra progetto d’architettura e paesaggio. Riccardo Butini
Massimiliano Falsitta Villa Adriana Una questione di composizione architettonica Skira editore, Milano 2000 La dimora che Publio Elio Adriano volle costruirsi sulle colline di Tivoli da circa cinque secoli concentra tutte le linee di una ricerca di tipo rifondante, attraverso un ideale tentativo di ricombinazione di alcuni concetti sostanziali quali quello dell’autorità logica dell’antico e della semantica dell’imitazione. La Villa appare in effetti come un territorio di mezzo, sospesa da sempre tra architettura e storia e tra archeologia e filologia. Vi possono essere almeno due modi sostanziali per osservare e comprendere questo caso architettonico: il modo dell’archeologia, fatto di rilievi preziosi e precise ricostruzioni e quello dell’architettura che con la Villa interagisce attraverso alcune delle proprie categorie come quelle della composizione, della tipologia, del dettaglio e della tecnica. L’archeologo rimanda continuamente alla catalogazione, all’assunzione di dati e di elementi anche generalizzanti, mentre l’architetto indaga i temi della versificazione, attraverso un itinerario che dall’accettazione di fatti a-poetici, come il rilievo e la ricostruzione arriva agli assunti della teoria architettonica fino ai suoi principi filosofici. Gli scritti del Ligorio ed i disegni del Piranesi sulla Villa sono vere miniere di descrizioni filologiche, di rilievi e di rappresentazioni dei frammenti degli edifici visibili a quell’epoca e ci permettono oggi di comprendere una fase importantissima della storia del complesso di Tivoli, fase in cui esso era ancora vera rovina, adagiata sul suo colle nell’attesa di essere scoperta, luogo esclusivo per pochissimi studiosi ma allo stesso tempo pascolo di greggi. Anche i recenti volumi della Ricciotti e di McDo-
nald, ponendosi questioni diverse sia per l’origine della trattazione che per l’obiettivo della stessa, offrono importanti riflessioni sui temi del rapporto tra fatto archeologico ed interpretazione architettonica pur senza voler arrivare ad esiti definitivi. L’opera di Massimiliano Falsitta, in questo ambito, diviene probabilmente un nuovo riferimento, poiché sembra riuscire nell’intento di chiarire, dal punto di vista dell’architettura, i temi fondanti il carattere di unicità della Villa stessa; attraverso un percorso di analisi meticolosa (che trae le proprie origini anche dalle ricerche sui temi della Tipologia e della Città cari alle esperienze degli anni settanta ed ottanta) l’autore pone in relazione quelle che sono le questioni di ordine storico della figura di Adriano inteso come genius, oltre che come nuova ed inedita esegesi della mutata condizione artistica e culturale del tardo impero. Per arrivare a ciò, il Falsitta, si concede un’ampia ed interessante ricerca introduttiva imperniata anche sulle problematiche filosofiche di tipo umanistico dell’interazione tra l’apollineo ed il dionisiaco, concludendo, come osserva Gianugo Polesello nella sua breve ma intensa prefazione, che“… per comprendere l’antitesi è da considerare l’ontologico, il senso dell’essere come luogo di origine e di destinazione del viaggio/ricerca, come in una descrizione dell’interno e dell’esterno del Sé”. Stabilito un ordine logico, l’analisi dell’architettura della Villa si inserisce in un preciso quadro storico e l’autore predispone il terreno per una chiara osservazione di tipo analitico-architettonico sui temi dell’importante rapporto tra natura ed artificio, ponendo, caso per caso, l’accento sulla profondità di approccio che Adriano (e chi con lui) ebbe nella concezione dei singoli edifici, che posti in corrispondenza tra loro in un insieme di relazioni libere spesso anche in opposizione anti-logica - insistono comunque in un unico esteso schema in cui convergono trasfigurate tutte le esperienze e le memorie trascritte qui in un grande testamento di pietra e calce. Il libro oltre a risultare un’ottima epitome alle ricerche architettoniche fin qui svolte su Villa Adriana, si permette, in maniera notevole, di essere uno strumento di conoscenza -interpretabile a più livelli- dei principi fondamentali che guidano da sempre il fare architettura, utilizzando i concetti validi per l’Adriano architetto che volle ricondurre la molteplicità in un unico tema compositivo perfettamente concepito ed assimilabile ad una immensa trasposizione del sapere tecnico ed umanistico del periodo con l’obiettivo di superare l’astrazione temporale della propria soggettiva morte fisica e quella oggettiva del suo mondo attraverso la materialità spaziale dell’architettura costruita. Michelangelo Pivetta
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1 Fabrizio Arrigoni 2 Fabio Capanni 3 Giacomo Pirazzoli e Francesco Collotti 4 Maria Grazia Eccheli, e Riccardo Campagnola 5 Flaviano Maria Lorusso 6 Loris Macci 7 Fabrizio Rossi Prodi 8 Paolo Zermani 9 Daniele Pisani 10 Roberto Berardi 11 Alberto Breschi 12 Grazia Gobbi Sica 13 Giorgio Verdiani 14 Giorgio Grassi 15 Luciano Semerani nella casa de vidro 16 Silvano e Alessandra Zorzi 17 Novello Finotti 18 Luis Barragán 19 Giovanni Michelucci
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI FIRENZE - DIPARTIMENTO DI PROGETTAZIONE DELL’ARCHITETTURA Direttore - Marco Bini - Sezione Architettura e Città - Gian Carlo Leoncilli Massi, Loris Macci, Piero Paoli, Ulisse Tramonti, Alberto Baratelli, Antonella Cortesi, Andrea Del Bono, Paolo Galli, Bruno Gemignani, Maria Gabriella Pinagli, Mario Preti, Antonio Capestro, Enzo Crestini, Renzo Marzocchi, Andrea Ricci, Claudio Zanirato - Sezione Architettura e Contesto - Adolfo Natalini, Giancarlo Cataldi, Pierfilippo Checchi, Stefano Chieffi, Benedetto Di Cristina, Gian Luigi Maffei, Guido Spezza, Virginia Stefanelli, Paolo Vaccaro, Fabrizio Arrigoni, Carlo Canepari, Gianni Cavallina, Piero Degl’Innocenti, Grazia Gobbi Sica, Carlo Mocenni, Paolo Puccetti - Sezione Architettura e Disegno - Maria Teresa Bartoli, Marco Bini, Roberto Corazzi, Emma Mandelli, Stefano Bertocci, Marco Cardini, Marco Jaff, Barbara Aterini, Alessandro Bellini, Gilberto Campani, Carmela Crescenzi, Giovanni Pratesi, Enrico Puliti, Paola Puma, Marcello Scalzo, Marco Vannucchi - Sezione Architettura e Innovazione - Roberto Berardi, Alberto Breschi, Antonio D’Auria, Marino Moretti, Mauro Mugnai, Laura Andreini, Lorenzino Cremonini, Flaviano Maria Lorusso, Vittorio Pannocchia, Marco Tamino - Sezione I luoghi dell’Architettura - Maria Grazia Eccheli, Fabrizio Rossi Prodi, Paolo Zermani, Fabio Capanni, Francesco Collotti, Alberto Manfredini, Giacomo Pirazzoli, Elisabetta Agostini, Andrea Volpe - Laboratorio di rilievo - Mauro Giannini - Laboratorio fotografico - Edmondo Lisi - Centro di editoria - Massimo Battista - Centro di documentazione - Laura Maria Velatta - Centro web - Carlo Battini - Assistente Tecnico - Franco Bovo - Responsabile gestionale - Manola Lucchesi - Amministrazione contabile Carletta Scano, Debora Cambi - Segreteria - Gioi Gonnella - Segreteria studenti - Grazia Poli