Firenze Architettura 2006-2

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firenze architettura

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abitare il paesaggio

architettura FIRENZE

ISSN 1826-0772

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abitare il paesaggio

Periodico semestrale Anno X n.2 Euro 10 Spedizione in abbonamento postale 70% Firenze 27-11-2006, 9:56


In copertina: Sorgane, il cantiere foto Bazzechi

Periodico semestrale* del Dipartimento di Progettazione dell’Architettura viale Gramsci, 42 Firenze tel. 055/20007222 fax. 055/20007236 Anno X n. 2 - 2° semestre 2006 Autorizzazione del Tribunale di Firenze n. 4725 del 25.09.1997 ISSN 1826-0772 Direttore - Maria Grazia Eccheli Direttore responsabile - Marco Bini Comitato scientifico - Maria Teresa Bartoli, Roberto Berardi, Giancarlo Cataldi, Loris Macci, Adolfo Natalini, Paolo Zermani Capo redattore - Fabrizio Rossi Prodi Redazione - Fabrizio Arrigoni, Valerio Barberis, Fabio Capanni, Francesco Collotti, Fabio Fabbrizzi, Francesca Mugnai, Giorgio Verdiani, Andrea Volpe, Claudio Zanirato Info-grafica e Dtp - Massimo Battista Segretaria di redazione e amministrazione - Gioi Gonnella tel. 055/20007222 E-mail: progeditor@prog.arch.unifi.it. Proprietà Università degli Studi di Firenze Progetto Grafico e Realizzazione - Massimo Battista - Centro di Editoria Dipartimento di Progettazione dell’Architettura Fotolito Saffe, Calenzano (FI) Finito di stampare dicembre 2006 *consultabile su Internet http://www.unifi.it/unifi/progarch/fa/fa-home.htm

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architettura FIRENZE

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editoriale

Abitare il paesaggio Francesco Collotti

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percorsi

Arduino Cantàfora Arance alla vaniglia

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progetti e architetture

Aurelio e Isotta Cortesi Residenze in piazza Fedro, Parma

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Paolo Zermani Completamento e restauro del Monastero di San Salvatore a Camaldoli, detto Casa della finestra, piazza Tasso, Firenze

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Maria Grazia Eccheli e Riccardo Campagnola Casa con loggia al Vescovado, Verona Francesco Collotti

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Adolfo Natalini Tra acque e cielo: Ijsselkade, Doesburg (NL) Fabrizio Arrigoni

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Antonio Capestro Nel cuore del Salento

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Alberto Breschi e Flaviano Maria Lorusso Témenos Valerio Barberis

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Loris Macci, Ugo Baldassarri, Marco Casamonti, Giovanni Polazzi Contemporanee sin-estesie. Residenze e servizi a Kiel Fabio Fabbrizzi

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Massimo Carmassi e Gabriella Ioli Carmassi Residenze e servizi del Campus Universitario di Parma

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Cino Zucchi Piano Particolareggiato di iniziativa pubblica “S. Rocco”

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Aimaro Isola Ritorno a casa

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Le origini della casa popolare a Firenze fra iniziativa pubblica e filantropia privata. Una rilettura Grazia Gobbi Sica

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abitare il paesaggio

ricerche

La casa toscana Fabio Capanni

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La casa nella ricostruzione di un tessuto edilizio del borgo di Virgoletta (MS) Claudio Barandoni

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La casa per tutti. L’edilizia popolare nel secondo dopoguerra Antonio D’Auria

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La ringhiera a Milano. Tipo e funzione Lucia Bisi

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Monolitico versus scomponibile: le case sotto un tetto comune di Josef Plecnik Antonella Gallo

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riflessi

A porte chiuse: le case di Chagall Cinzia Bigliosi Franck

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eredità del passato

Adalberto Libera in Toscana. Il quartiere residenziale Italsider a Piombino Mauro Alpini

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Dalla città reale alla città variabile. L’Isolotto, S. Giusto e Sorgane nel dibattito dell’architettura residenziale pubblica in area fiorentina Fabio Fabbrizzi

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Parsimonia estetica e intensità poetica nelle architetture di Edoardo Detti: alcuni edifici residenziali degli anni ’50 Caterina Lisini

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eventi

IV Convegno - Identità dell’architettura italiana, XI International Seminar - forum UNESCO/University and Heritage, Festival dell’Architettura 3-2006, Padiglione Italiano alla X Mostra Biennale di Venezia

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letture a cura di:

Lisa Ariani, Nicola Cimarosti, Claudio Zanirato, Claudio Marrocchi, Valentina Baroncini, Carlo Antonelli, Francesco Collotti

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Abitare il paesaggio Francesco Collotti

La ricerca sull’abitazione è stata nel nostro Paese per diversi decenni del ’900 il tema più avanzato di impegno delle energie intellettuali di molti architetti. Questione delle abitazioni fu per Federico Engels. Berlino di pietra, città delle caserme d’affitto per Werner Hegemann. Problema della casa lo definiscono da architetti - Libera e Vaccaro in uno scritto del 1943. Nella prima pagina del volume di Diotallevi e Marescotti pubblicato nel 1941 per i tipi dell’Editoriale Domus figura la nota citazione di Leon Battista Alberti sui caratteri che accomunano le case dei ricchi e quelle dei poveri, le quali tutte però dovranno comporre una città. E fu ricerca non certo o non solo linguistica, ma sui modi dell’abitare e sulle forme che portavano con sé. Un’idea di città altra e più avanti rispetto alla città esistente. Le serene case di Albini in viale Argonne a Milano (1936) con quei cortili a giardino e quelle logge che adesso la città non sa più costruire, o ancora le sue case di Vialba (1950-53), dove nel giro di poche centinaia di metri troviamo intriganti sperimentazioni/trasgressioni tipologiche su un filone consolidato. Ancora l’alta qualità - quasi aristocratica - delle case per la Borsalino di Gardella ad Alessandria o il luminoso frammento di città orizzontale realizzato da Libera per l’Ina Casa al Tuscolano in Roma (1950-54). Ancora di Libera la città che avrebbe dovuto sorgere a ridosso dell’Italsider di Piombino (1959) e di cui presentiamo in questo numero il poco noto progetto. Una ricerca serrata sull’abitare dove gli architetti danno corpo alle istanze di

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una società capace di esprimerle, come per esempio nel progetto di E. N. Rogers coi B.B.P.R. per Borgo San Sergio a Trieste (1955) dove - a proposito dell’unità di vicinato – egli annota come si sia indagata “la grande varietà di costruzioni che si possono conseguire con un numero tipi relativamente assai esiguo, offrendo, entro una garanzia economica reale, grande differenza di aspetti nel rispetto della personalità” cercando di “interpretare il coesistere degli individui in una società che, mentre ne esalta le libere differenze, riconosce le loro basi comuni e le loro comuni aspirazioni fondamentali”. Abitare e felicità dunque, l’impegno degli architetti e lo scopo della politica? Valore collettivo della residenza oltre il portoncino blindato e videosorvegliato. Smessa la ricerca sull’abitazione da parte degli architetti, dopo anni di scontro ideologico e di forzosa giustapposizione tra abitare e costruire, si è lasciato di nuovo il campo libero al mercato che detta modelli e maniere del vivere, prontamente presidiato da schiere di costruttori che vendono sulla carta (à la carte, pardon). Oggi le case delle gente sono apparentemente più belle della città che le circonda. Una volta era il contrario (gli stilisti – quando ancora eran solo sarti – non facevano invasioni di campo e non imbellettavano le piastrelle). Abitare fu infatti – e per lungo tempo inestricabile da altri termini riferiti a mondi di forme prossimi o paralleli: da un lato costruire, coltivare (il termine bauen li apparenta nella lingua tedesca), d’altro lato quel particolarissimo modo di stare dentro le cose che dice di abito, costume, rito che presuppone

1 Franco Albini Case per lavoratori Incis a Vialba, 1951-53 particolare della veduta dei ballatoi e passerelle Pagine successive: 2 Franco Albini Case per lavoratori Incis a Vialba, 1951-53 veduta dei fronti secondari con distribuzione a ballatoi e passerelle 3 Franco Albini Case per lavoratori Incis a Vialba, 1951-53 piante del piano tipo soluzione preliminare e definitiva 4-5 Franco Albini con Ignazio Gardella Edificio per Iacp nel quartiere Mangianelli a Milano, 1950-52 veduta del fronte nord e pianta del piano tipo 6 Ignazio Gardella Casa per impiegati della Borsalino ad Alessandria, 1952 particolare della veduta del fronte



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inveramento del mito lontano… E per questa via fino a Gottfried Semper: il focolare come primo elemento morale dell’architettura. Un mondo per lo più perduto (se non riusciamo a raccontarlo), intransitabile, come gli interni/esterni dello shtetl evocato nel sogno di Chagall qui a sua volta ritrovato da Cinzia Bigliosi Franck. Nell’esperienza della città classica europea la forma della casa ha sempre corrisposto ad un preciso modo di abitare. I beguinages delle città fiamminghe, la Fuggerei di Augsburg, i Wohnhöfe di alcune città tedesche, ancora prima che ambito di relazioni sociali sono fatti fisici secondo cui si declina l’architettura della città nella sua oscillazione tra generalità del tipo e particolarità di un luogo. Una vasta parte degli studi sui fatti urbani ha ri-

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trovato le ragioni della forma di molti centri abitati nella capacità di aggregarsi di alcuni tipi semplici. Comunque esempi in cui abitare e costruire erano collegati da un’alta considerazione del valore collettivo della casa, del suo non poter essere unicamente spazio privato, ma articolata e graduale sequenza di spazi che nella trasmutazione dal pubblico al collettivo al privato estrinsecavano precise forme, appropriato decoro, particolari modi di essere e d’uso. Talvolta bastava una zoccolatura di stucco lungo la scala a dire di una dignitosa voglia di marmo. Un principio di ordine forse ridotto all’osso che sembra però ancora praticabile in alcune isole del silenzio dove l’orgoglio di costruire le case come una cosa ben fatta si accompagna all’attenzione per gli spazi intorno all’abitazio-

ne, come nel caso del quartiere a Doesburg di Adolfo Natalini che qui ci viene introdotto dai Passi d’Oro di Roberto Barni in cammino verso la città e che ancora vengono a interrogarci: “chi sei? dove abiti? quanta vita è con te?”. Gli esempi che abbiamo qui scelto comprendono le variazioni sul tema degli spazi distributivi intesi come luoghi di relazione (le corti affusolate e i ballatoi vicini quasi a darsi la mano del progetto di Zucchi per Faenza) e una più articolata indagine sul rapporto tra paesaggio e città, come nel caso delle sequenze che abbracciano con colore antico la campagna emiliana nelle realizzazioni di Carmassi. Abitare e costruire si sono dunque a lungo rispecchiati in un sereno parallelo procedere, dove i tratti di continuità prevalevano sui gesti di rottura. La


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stessa ripetizione, con scarsa propensione al mutamento, ha fatto paragonare la casa a quegli oggetti d’uso plasmati appena dal lavoro, ma sostanzialmente invariati nel corso del tempo. La casa toscana nell’eccezionale frammento del paesaggio toscano, così come ne parla Fabio Capanni citando la famosa mostra per la Triennale di Giuseppe Pagano. Ancora, a declinare una ulteriore variazione su questo tema, la casa popolare milanese di ringhiera, sospesa figura tra città e campagna, originata nelle grandi corti capaci un tempo di misurare la pianura in distanza, ma anche in grado di far città costruendola per tipi chiari definiti precisi ripetibili. Un’idea di casa che era anche un’idea di abitare prima che i due termini artificiosamente fossero scissi: una antica soli-

darietà di ballatoio ignara della piccolo-borghese nozione di pianerottolo. Per simili ragioni non ci dispiace aprire questo numero di Firenze Architettura con gli straordinari muri abitati di Arduino Cantafora, bagnati dalla luce filtrata con parsimonia dalle gelosie, sensibili al mutare delle stagioni ed allo scorrere della calda vita, eppure orgogliosi di quella loro fissità che ci tranquillizza. Nel renderci conto che il tema dell’abitare mostra scarsa autonomia nel panorama dell’ExBelPaese oggi, abbiamo voluto indagare la questione sul confine di un’altra delle questioni di cui molto si parla, ma che restano poco toccati oltre la superficie giornalistica dei resoconti d’occasione. Sulla scorta di alcuni Maestri fiorentini - che peraltro non avrebbero amato sentirsi definire tali – e dei loro lavori (Ricci, Savioli) che hanno saggiato

il legame che unisce il tema dell’abitazione al paesaggio, abbiamo voluto verificare lo sguardo della casa verso la città e le colline che in alcuni progetti estrinseca quasi un grado di necessità (la Casa della Finestra in piazza Tasso a Firenze di P. Zermani o la loggia al Vescovado in Verona di M. G. Eccheli e R. Campagnola, per esempio). A definire un orizzonte che avremmo voluto forse più generoso verso una sostenibile idea di abitare coniugata all’arte del costruire, vengono per chiudere ancora in soccorso le case sotto un tetto comune di Josef Plecnik rilette da Antonella Gallo, capaci di segnare il limite verso la campagna e - al contempo - di tenere insieme la città, racchiudendo cioè principio d’ordine e accidentalismo in un’unica figura. v

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Arduino Cantàfora

Arance alla vaniglia

Le ragioni di stupore al N 26 della via del margine del bosco sono veramente svariate. Quella minutaglia di oggetti, che si insinua un po’ ovunque e che invade gli spazi residui, gli angoli di risulta o che si presenta invadente in primo piano e attraverso la quale sento l’ambiguo carattere sofferto della personalità, che lì l’ha accumulata, si fonde con ciò che sopravvive, mutilato o deturpato, di una vastissima biblioteca. Dico di ciò che sopravvive, a causa di evidenti assenze, che raccontano di rimozioni forzate e di guasti compiuti, annullanti l’identità dell’intiero corpus. Sembrerebbe proprio che un odio irrazionale si sia accanito o che qualcuno sia passato per servirsi liberamente di porzioni di esso in tutta casualità e per un utilizzo improprio, distruggendo ciò che un tempo doveva avere costituito una inviolabile unità. Ma forse, nel mistero di questa casa, a morte accaduta del legittimo proprietario di quella vasta collezione di latinità, di grecità e non solo, sarà accaduto, visto ciò che sopravvive, che smembrati volumi siano partiti in svariate direzioni. Al di là di qualunque logica comprensibile. Di opere intiere, i sopravvissuti, nelle scaffalature, sui tavoli o impilati sugli impiantiti di legno, hanno perso il loro significato, tra pagine strappate, copertine rimosse e restano sostanzialmente illegibili. Nelle condizioni attuali, risulterebbe realmente impensabile di chiamare un qualunque libraio, per tentare, di ciò che è rimasto, un possibile mercato, se non per qualche raro volume, compiuto in sé.

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Ma, ahimè! Di questa sorta ve ne sono veramente pochi. Unica soluzione, se mai si volessero riorganizzare gli spazi delle belle biblioteche in solida quercia, sarebbe prendere accordi con chi raccoglie il ciarpame dell’umanità e lo fa sparire in antri, baracche, spianate a cielo aperto, tutte, stazioni indispensabili, nelle quali i tempi di sosta sono imprevedibili, prima di raggiungere l’annullamento totale. Annullamento dei contenuti e della forma, per liberare la materia: carbonio, carbonio e ancora carbonio. Ciò che sparisce, fa parte delle nostre fragili vicende, sempre e comunque sottoposte ad alterne fortune. Le morti, fatalmente, scompongono e se già altri guasti precedenti non avevano disorganizzato ciò che la vita aveva tentato di accumulare, all’avvenuto decesso prende corso il rito della frammentazione, che qui ha raggiunto i limiti del disastro. È la banale storia degli oggetti, che passano di mano o che svaniscono nei limbi degli spazi di risulta. Ed appunto di questi limbi, le periferie delle città ne sono piene e la loro vista è sempre un poco inquietante, non tanto per ciò che vi si accumula, ma per la qualità della vita degli addetti, per così dire, al servizio, il cui orizzonte risulta essere sempre una indicibile rovina, in un disordine totale. Quando li scorgo, ed è quasi sempre dai terrapieni ferroviari, là dove se ne può apprezzare la configurante topografia, ne ricevo quasi una stretta al cuore, non capacitandomi del come, di tale sconfinato disordine, se ne possa fare l’orizzonte di un destino. Eppure vi è chi vi abita, che pur lì rico-

Arduino Cantàfora Muri Abitati, (1 - 15), 1998 olio su tavola, 40 x 25



nosce il progredire delle stagioni, calcando quella terra dell’intorno, che ha sempre un aspetto così malato. E quando la vegetazione riafferma il suo perentorio dovere di essere, quei fragili fiori bianchi di un disorientato biancospino, azzardano in piena indifferenza il richiamo di una incomprensibile impollinazione. Terribile è il vederne i minuti petali, dopo uno scialacquatore piovasco primaverile, schiacciati su quei suoli, venati da ogni sorta di liquami. Ed è pure qui un pullulare della vita, che si ripete: - Ce la faccio, devo farcela. -

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Avrei una certa pena a supporvi scaraventato il tomo III del volume II di un Seneca, sopravvissuto testimone dell’opera omnia, che la biblioteca del N 26 della via del margine del bosco, un giorno doveva avere conservato completa. Su di esso i petali di biancospino nel fango nerastro, per pagine moralmente edificanti, di una umanità stoicamente convinta di avere ricevuto una grazia a parte. Mi farebbe decisamente meno pena, meno angoscia, immaginarvi i frammenti di Epicuro, che potrebbe riderne di un riso disperato, dando la schiena con una alzata di spalle.

Il fondamento della vita è tragedia tra quei rifiuti degli ammassi di raccolta, come lo è altrove e in generale neppure corredato dell’auspicabile catarsi. Per fortuna, di tanto in tanto, si può ancora fare esperienza del gorgheggio di un pettirosso, anche se ve ne sono sempre di meno. La sua voce, nell’andare e venire, ci parla di un immane segreto al quale pure noi dovremmo essere iniziati. Tendiamo a dimenticarlo, e lui, piccolo come è, ce lo rammenta, quando, con quel puntiforme meraviglioso occhio, cerca ancora un altro fuscello, da adattare sapientemente alla curva del-


la calotta sferica, che sta mettendo in forma, per l’edificazione del suo nido. Se è in buona salute, un cerchio dopo l’altro, un cerchio sull’altro, nella parabola di raggi dilatantesi, lo compirà perfetto e sarà perfetto perché rappresenterà ancora una volta il gesto più economico che la natura gli abbia permesso di concepire. Con il suo piumaggio, che è un vero batuffolo di grazia, risponde alle immutabili leggi della necessità. Mi consola il vederlo, abbassa le mie ali e rendendomi umile, spazza una parte delle mie angosce, che solo dalla vanità prendono corpo.

La necessità di esistere e niente più, nella consapevolezza di essere appartenente a qualcosa, che inevitabilmente mi ha fatto per come sono, malgrado me, dalla casualità di un accoppiamento, che mi ha generato. Non parlo del mutuo amore di chi mi ha concepito, vi è stato o non vi è stato. In fondo non è affare mio. Anche perché non garantisce necessariamente il passaporto per la vita, che in qualunque situazione può mettersi in atto. Ma poniamo pure che la volontà sia stata reciprocamente totale: un figlio,

un figlio per noi. Ma perché proprio io, nell’imponderabile, assoluta, legge della casualità. Un istante prima, un istante dopo, un’altra vita, esattamente secondo le stesse norme, che hanno presieduto alla schiusa di quella nuova nidiata di pettirossi. Eppure il caso su di me si è arrestato, mettendomi nelle condizioni di essere ciò che sono. Mi ha fatto esattamente come sono. E di me ha forgiato il pensiero per mettermi nelle condizioni di azzardare la vita, che vivo. Il destino, nelle sue improbabili defini-

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zioni, è sempre a posteriori che lo si riesce ad interpretare. Stabilisce proprio nulla delle nebbie dell’avvenire. Ma ripercorrendo la vita, pare essersi attestato in momenti determinanti, che, per convenzione, assumono il suo nome, nell’improbabile significato di una predestinazione. E nel preciso primo istante nel quale lanciai il mio primo grido esistenziale, come è in quella terribile visione della nascita, nella tela di Otto Dix, mio padre volle che fossi Arduino. Né Berardo, né Vincenzo. Mia madre era stata categorica, né un genitore, né

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l’altro, rifiutando le tradizioni, da quella infelice sradicata che è sempre stata. E allora il pensiero corse a recuperare ricordi ancestrali. Nel buio del tempo, la famiglia aveva dato i natali ad un don Arduino, del quale rimaneva una traccia marcante per i sogni frustrati della famiglia. Di lui restava memoria di passioni un poco particolari, che lo avevano situato al di là del semplice accadere esistenziale, oltre la collocazione fatale della casella ricoperta, per la costruzione di un anonimo albero genealogico. Pronunciando il suo nome, la parola stessa faceva emergere dalla notte del tempo immagini di qualche vaga e palli-

da certezza, ad allargare la speranza della veridicità del valore del ricordo. Erano queste quei tipi di figure, che ogni famiglia prima o poi aveva tenuto o teneva come pagina preziosa nel tempietto dell’intima memoria, per conferirsi una minima traccia della credibilità di essere, perché, attraverso quei punti fermi, poteva alimentare l’illusione della certezza di essere già stata. E questo era proprio il ruolo, che stava ricoprendo don Arduino lungo l’asse della patetica storia privata della famiglia di mio padre. Così si erano dovuti intrattenere, in una trasmissione orale, prima che io


venissi al mondo, desiderosi di attribuirmi la responsabilità della memoria del suo essere già stato. Attraverso il nascituro si sarebbe potuto ricucire uno strappo spazio temporale, che, da quel profondo laggiù, avrebbe riportato per la vita il fantasma della pronuncia di quel nome. Nome strano, per altro, rispetto al contesto originario, per nulla legato al genius loci locale e per il quale mi sfugge una chiave decifratoria, ma che mi fa comunque supporre incontri, scambi, contaminazioni in atto, nel suo immediato precedente venire al mondo. Oppure per lui pure, il suo destino era sta-

to quello di assumere rinnovata presenza di altri, ancora più lontanamente dispersi nel tempo. La famiglia aveva voluto che già lui fosse Arduino. Volle che fosse tale, per così dire, spiazzandolo geograficamente. Non gli aveva dato infatti i natali là dove affiora la morena del Neozoico, subito al di qua delle porte della valle, nel bel territorio di Ivrea, risignificando il sogno di un’antica italica regalità rifrequentata. No, non lì. Ma laggiù, laggiù, all’altro capo del mondo, tra i vigneti di Cirò e dove la colonna del tempio di Pitagora guarda al

braccio di mare, che unisce alla Grecia. Ne vidi la tomba a fianco della chiesa, che a quello stesso mare si rivolge. Arduino Cantàfora, come una condizione della mia vita, alla quale in un certo senso dovessi rispondere. Un mio doppio. O meglio, in verità, rinato io doppio suo. Questo fu il destino, che si scrisse per me. Che io lo avessi desiderato o no, per tutto il tempo della mia esistenza, mi sarei trovato confrontato a questa impalpabile presenza, con la quale avrei dovuto ragionare sul senso stesso della mia vita. Non, evidentemente, nella praticità quotidiana, ma nell’oscuro infrare-

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gno silenzioso, di quando, un poco perplessi, si ristà di fronte allo specchio. I nomi dei morti chiamano, non si può restare indifferenti. Da subito divenne un gioco interno, di famiglia, un poco malato ed anche insensato. Il piccolo Arduino avrebbe dovuto rispondere con coerenza al fatale richiamo del suo nome. E quando, prima di Natale, in un rituale ripetuto, nonno Vincenzo distribuiva ai nipoti le pallide arance alla vaniglia, che aveva appena ricevuto dalla terra lontana, mi pareva che me ne facesse dono con una speranza inespressa. Io, chiamato a rappresentare sulla scena della vita il riscatto della sua infanzia tradita, vocato da quel nome, carico di significati, per ciò che lui non ebbe la ventura di essere. La cosa era evidente, mi chiamavo Arduino e poi, a conferma, stavo già dando chiari segni di una passione tutta speciale per il disegno. In verità disegnavo né più, né meno, come tutti i bambini del mondo. Ma a forza di sentirselo ripetere, qualcosa deve rodere il cervello in formazione e qualche dubbio può prendere stazione, alloggiandosi come un dovere. E da qualche giorno a questa parte, qui, al N 26 della via del margine del bosco, probabilmente sollecitato da quelle ricognizioni sull’origine della vita di quel vecchio inquilino, risidente in questa casa e morto ai tempi della mia infanzia, il profumo di quelle arance per il giorno delle vigilie di Natale, sta riassumendo una nuova importanza dimenticata. E ad esse si associa, al ricordo dell’obiettiva difficoltà nello sbucciarle, un turbinio di odori altri,

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che in un modo o nell’altro, sempre a quel profumo di rosolio alla vaniglia si riconducono. E sto rivedendo volti, sto riascoltando parole che fra un gesto e l’altro, seduti attorno la tavola della vigilia di Natale, mi riaprono le porte di profonde stanze, da troppo tempo non più frequentate. Forse, è giusto. Per potervi accedere, dovevo attendere che tutti loro fossero morti, e non solo da poco tempo. Non sarò probabilmente obiettivo, ma non me ne sentirò in colpa. I ricordi che si associano agli odori e che da uno in particolare prendono forma, quale assunto di obiettività potrebbero mai pretendere? La sola cosa di cui posso essere certo è che di loro mi restano solo segmenti scheggiati e scheggiati ricordi di me stesso fra di loro. E, sicuramente, queste fragili emergenze, in un silente lavorio inconsapevole, hanno fatto di me quel che sono, per come posso io immaginare di essere, senza avere alcuna certezza di ciò che in verità io sia. Ma della verità non so cosa farmene. Mi ha sempre inquietato doverla intendere come una rivelazione, e non come un vago svelamento che, in un cielo tempestoso, sia in grado di strappare al grigio, per un colpo di vento, un frammento di azzurro, sapendo pure che, per la natura delle correnti, non sarà mai definitivo. Un frammento oltre l’oblio, per il tempo che durerà, rubato alla nube celante.



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Isotta e Aurelio Cortesi

Residenze in Piazzale Fedro, Parma

Il margine sud-orientale della città di Parma si sfrangia dalla fitta compagine di unità residenziali di iniziativa pubblica per volgersi verso i nuovi quartieri di un’edilizia privata ad alta densità, caratterizzati da volumetrie cadute dall’alto e da una maglia viaria a scorrimento veloce. Il nostro progetto si colloca lì dove il mutamento accade: misura la distanza tra la città periferica compatta e la nuova periferia dispersa. Si tratta di un’area di completamento ove si è costruito il caposaldo terminale già di un intervento edilizio progettato già negli anni Sessanta. Questo progetto, in questo luogo, ci ha offerto il pretesto per affrontare un tema irrisolto tra case alte medie o basse per fissare i termini di una rappresentatività necessaria, ma occasionale: si è sperimentato il rapporto, di contiguità e di contrasto, tra il sistema pilastrato e la superficie muraria. Si è trattato anche della traslazione dell’immagine ricorrente e, per noi, decisiva del sistema dei contrafforti, costruiti a consolidare il muro del Guazzatoio nello spazio pubblico della Pilotta a Parma. Il sistema dei pilastri disegna il perimetro della costruzione, ed afferma, quale norma, la reiterazione del medesimo modulo che muta raddoppiandosi in prossimità dell’angolo del fabbricato. La regola della struttura verticale resiste perentoria, scandendo l’ordine delle campiture sempre uguali, mentre il muro di tamponamento tra le strutture persegue un’omogeneità materica sugli angoli- con i pilastri, ma al contrario -sulle facciate- da questi si allontana, per alternare piani sfalsati. La

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contrapposizione tra la ripetuta struttura pilastrata, rivestita in laterizio scuro e l’apparato murario arretrato, dai colori compositi, che nel dispiegarsi disegna logge fra i bastioni, vuole affermare la relazione tra la severa misura geometrica, continuamente replicata e la fragilità di quella parte interna, e celata, di una costruzione frammentata, dai tratti squillanti. Infine il cornicione, una linea orizzontale di un lucido verde acqua diviene la misura di questa variazione: alcuni pilastri si interrompono lì dove l’arretramento murario li ha resi ormai distanti dai tamponamenti e quindi distaccati dal sistema costruttivo originario. Il permanere dell’allineamento della facciata -e quindi del sedime dei pilastriviene osservato nel confronto con le sottrazioni volumetriche che inducono al “levare” delle parti alte degli angoli contrapposti della fabbrica. Si modula una sequenza di arretramenti estesi sino alla copertura che, alleggerita, rivela contro i cielo, il disegno frammentato della propria struttura metallica.

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Progetto: Isotta e Aurelio Cortesi 2003-2006 con: Anacleto Capasso Direttore lavori: Nicola Schiaretti Committente: Impresa Costruzioni Arnaldo Schiaretti SpA


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Pagine precedenti: 1 Veduta dell’angolo del fabbricato in corrispondenza dell’ingresso 2 Piante di tutti i piani 3-4 I dettagli mostrano i chiaroscuri della cassa muraria su cui spicca la programmatica iterazione della pilastrata 5 Fortunato schizzo di previsione dell’esito del progetto

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6-7 Le viste d’assieme mettono in evidenza le superfici, intonacate con cromatismi compositi, arretrate rispetto alla trama dei pilastri 8-9 Gli schizzi prospettici contrapposti rivelano la condizione emisimmetrica del progetto

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10 Particolare dell’eufemistica contrapposizione tra la regola geometrica del comporre e l’ornato della parete 11 - 12 Dettagli della partitura decorata degli sfondati fra le pilastrate in cotto

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Paolo Zermani

Completamento e restauro del Monastero di San Salvatore a Camaldoli, detto Casa della finestra, piazza Tasso, Firenze,

La ristrutturazione per uso abitativo del lembo esterno del convento di San Salvatore di Camaldoli e del suo chiostro propongono un tema funzionale vincolato dagli aspetti tipologici distributivi interni esistenti e un tema formale ispirato a un ragionevole completamento del frammento di fabbrica rivolta verso piazza Tasso e aderente alle Mura della città, attualmente rimasto incompiuto. È infatti necessario garantire una autonoma funzionalità agli alloggi previsti al diversi piani, ma anche al chiostro, disciplinando altresì gli sbalzi di rapporto della fabbrica con le Mura e con piazza Tasso, per decenni rimasti negletti, e le accessibilità contemporanee agli alloggi ed agli spazi di relazione a uso pubblico collettivo che hanno principio nel grande caseggiato all’ultimo piano di questa ala della fabbrica. Dove era la barriera di Bellosguardo, sul tracciato delle mura di Firenze, il progetto è pensato come un progetto di “vista”. Confine della città antica, piazza Tasso trovava nella chiesa e convento di San Salvatore di Camaldoli e nella Postierla i monumenti estremi prima della salita verso Siena. Dalla collina, luogo d’osservazione della città per eccellenza, l’occhio individuava in quel punto la strada per entrare in Firenze. L’addizione al complesso dell’antico convento, poi Scuola delle Leopoldine, nel punto più prossimo alle mura feconda l’idea di salita e raggiunge la dimensione, in sommità, della veduta. Il paramento basamentale posticcio - che istituisce una falsa unitarietà dell’edificio proprio a partire dalla parte demolita viene rimosso dal piano di facciata,

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per restituire leggibilità alle parti preesistenti della fabbrica, anche in rapporto al nuovo intervento di completamento. In tal senso l’inopportuna prosecuzione del medesimo paramento, la cartella in elevazione, che chiude l’antico pomerio sulle mura, viene demolita anche per riaprire la vista verso le scale e l’albero esistenti all’interno, lungo il pomerio. Un corpo parzialmente chiuso all’esterno, si assesta sulle tracce delle antiche fortificazioni di Cosimo, in passato parzialmente demolite, e le reinterpreta disponendosi attraverso due setti murari sfalsati, complessivamente rispettando la sagoma stradale esistente. L’ingresso alla salita avviene attraverso il taglio verticale che deriva dallo sfalsamento. A partire dall’impianto planimetrico dell’antico bastione vengono rimessi in evidenza gli imponenti spessori murali e l’orditura da costruzione, come pure, verso il pomerio, la scarpa esterna del muro, liberato dalla cartella posticcia. Si traspone sul piano di facciata lo scarto esistente in planimetria tra la giacitura muraria dei muri di spina della fortificazione - profittando per creare, in quell’interstizio, il vano ascensore - e il muro perimetrale che chiude il corpo di fabbrica lungo la via Camaldoli. Un lieve avanzamento rispetto al filo stradale contribuisce a rendere leggibile il diverso orientamento del muro di facciata rispetto a quello, più arretrato, che annuncia l’orditura del bastione. Le scale interne, che guidano la salita, incontrano diverse soste dello sguardo: verso la Cupola, verso palazzo Pitti, verso Bel-

Progetto: Paolo Zermani (Capogruppo) Laura Landi Paolo Osti 1999-2004 con: Fabio Capanni Giacomo Pirazzoli Fabrizio Rossi Prodi Collaboratori: Giovanna Maini Pasquale Mastrullo Strutture e Direzione lavori: Paolo Osti Impianti elettrici: Walter Menicacci Impianti idrotermosanitari: Sergio Comper Impresa costruttrice: Impresa Manzo, Napoli Committente: Comune di Firenze Foto: Mauro Davoli



losguardo, fino a giungere alla grande loggia che si sviluppa su entrambi i lati esterni. Da lì il panorama e l’accesso alla loggia esistente, che può introdurre un percorso in quota tra altre logge e altane. La loggia è l’unico elemento architettonico in grado di coniugare, con estrema sintesi, il rapporto di scala tra la fabrica costruita sui resti del bastione e il territorio circostante, in particolare quello extra moenia, ed affonda la propria ratio nella significativa eredità progettuale di Baccio d’Agnolo e della finestra crociata da questi realizzata in palazzo BartoliniSalimbeni. Il tema viene sviluppato con un risvolto dietro il piano di facciata, rendendolo in tal modo elemento compiutamente tridimensionale e contribuendo a svuotare l’angolo dell’edificio nuovo. Così un cortile, un albero e una torre di testata con una grande finestra crociata che conclude la fabbrica verso la piazza sono gli elementi del quadro e inducono un solo fine: osservare Firenze.

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Pagine precedenti: 1 La facciata su piazza Tasso 2 Piante e sezioni: gli allogggi e gli spazi collettivi 3 La facciata su piazza Tasso Pagine seguenti: 4 L’interno della loggia 5 Vista dai tetti 6 Vista dalla piazza

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Maria Grazia Eccheli e Riccardo Campagnola

Casa con loggia al Vescovado, Verona Francesco Collotti

Un buon progetto di architettura deve essere innanzitutto una risposta formale a un problema tecnico. Cioè a dire che il nostro compito resta sempre e comunque quello di perseguire l’unità tecnica ed estetica della costruzione, e laddove si perda uno dei due termini si corre il rischio di cadere per un verso nell’esibizionismo tecnologico fine a se stesso, o – d’altro verso - nel mero formalismo svincolato dalla necessità. Il progetto di Maria Grazia Eccheli e Riccardo Campagnola per la sistemazione di una casa di abitazione a ridosso del Vescovado in Verona insiste sulla trasformazione della parte sommitale di un anonimo condominio in elemento di architettura capace di farsi riconoscere per la sua appartenenza alla città nel tempo: una loggia in mattoni che circonda il grande spazio comune al livello superiore dell’appartamento e che corona gli ultimi due piani del palazzo. La rigenerazione dell’edificio a partire dal livello del tetto è qui perseguita attraverso il congiungimento degli ultimi due piani e in particolare della zona più collettiva dell’abitazione. Gli spazi distributivi e il grande soggiorno sono configurati in modo tale da costituire un fulcro attorno al quale si organizzano in maniera subordinata le parti più private della casa. Alla maniera di un percorso interno che alterna gerarchie di spazi di stare e luoghi di passare (si ritrova in alcune case di Josef Frank e nei suoi scritti un’idea di casa come strada e piazza) si aprono sguardi mirati verso il fascinoso paesaggio urbano veronese a ridosso dell’abside del Duomo. Salendo si conquistano nuove viste fino ad arrivare a scorgere – in

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una sequenza di altre logge vicine e di altane – lo straordinario teatro romano costruito sul fianco della collina oltre l’ampia ansa dell’Adige. La macchina-invenzione strutturale cui è affidato il raccordo dei livelli della casa è una coclea metallica sospesa ad una struttura in forma di stella che si appoggia sullo spigolo solido del palazzo sottostante. Dall’esterno si colgono le due falde del tetto raccordate e culminanti con una torricina in mattoni che ospita la scala e su cui va a concludersi il corpo di fabbrica posto a contenere la parte superiore dell’appartamento. Ancora dunque una adeguata risposta formale ad una questione strutturale complessa, declinata cercando di riconoscere autorevolezza e al contempo esibire fedeltà alla traccia dei muri del sottostante edificio. Una ricerca progettuale che nei limiti del possibile cerca conferme nell’esistente e che persegue nella direzione del portare avanti – chiarendole, metttendole in file, riconoscendole nei loro elementi individuabili - le ragioni costruttive dei muri che giungono fino al piano del tetto ancorché appartenenti a un immobile anonimo e di scarso valore architettonico. Anche all’interno dell’ampio soggiorno le ragioni costruttive non sono celate, ma garbatamente utilizzate per dar forma al plafone segnando con oppurtuni tagli e riprese la presenza delle travi orizzontali che collegano il muro perimetrale al torsolo murario strutturale costruito intorno al piccolo cortile interno. Per questa via il soffitto, da elemento apparentemente decorativo, diviene strutturalmente motivato nel suo andamento.

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Progetto: Maria Grazia Eccheli Riccardo Campagnola 2003-2006 con: Michelangelo Pivetta Collaboratori: Camilla Toffali Strutture: Antonio Pivetta


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1-2 La casa prima e dopo la ristrutturazione 3 La loggia vista dal Teatro Romano

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Pochi segni assoluti – alcuni setti spessi e opportuni risvolti di muro che tolgono ai tramezzi del giorno d’oggi quella loro patetica aria di fogli di carta velina – scandiscono lo spazio interno con gesto da architetto e non da arredatore. Lo stesso accorgimento di realizzare portefinestre a scorrere entro il paramento murario perimetrale, consente di unire la loggia e la grande sala comune quasi si trattasse di un unico spazio dove viene rimesso in discussione il confine netto tra interno ed esterno, di fatto lasciando appartenere l’intero livello superiore della casa al colpo d’occhio delle altane e dei tetti d’intorno. Verrebbe quasi da dire che il riscatto o – se vogliamo – la redenzione della città senza qualità passa non solo e non tanto attraverso la riqualificazione tout court (per la quale a esser schietti basterebbero forse intonaci nuovi e vasi di gerani), ma abbisogna dell’indagine e della ricerca verso quelle particolarissime tecniche compositive proprie del nostro mestiere, capaci di far ritrovare le ragioni profonde e quella maniera sicura che per secoli hanno presieduto alla costruzione della città secondo tempi e modi poco propensi ai bruschi cambiamenti. Il risultato è un frammento di ordine coerente che – caparbio e orgoglioso - si afferma accostandosi al profilo di altri tipi simili, logge altane torrette, che per secoli hanno anche saputo fare città. E ancora stiamo lì a guardarli non incantati per il loro fascino pittoresco, ma ammirati per il loro essere risposta convincente ed elemento collettivo della città alternativo all’autismo indivdualista degli abbaini e delle capuccine. Osservando la loggia dalla posizione del teatro romano – e confrontandola con alcune immagini riprese dallo stesso punto di vista in epoca precedente all’intervento - si coglie non solo questo senso di restituita fedeltà a un ritrovato principio costruttivo, ma anche il significato a scala urbana dell’intervento, rivolto appunto a un risarcimento rispetto all’identità perduta del centro storico, un gesto generoso di architettura della città versus la corta memoria di tante egoiste e impresentabili speculazioni da sottotetto. A margine di questo progetto verrebbe voglia di riflettere su quella cultura prescrittiva e limitativa che dagli anni ’70 in poi – in maniera molto realistica e per certi versi politicamente condivisibile – ha sicuramente salvaguardato con piglio questurino i centri storici dalla spe-

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4 Piante: terzo e quarto livello 5 Sezione della scala che collega il terzo e quarto piano al terrazzo 6 La loggia vista da via Accoliti 7 Schizzi di studio

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8-9 La loggia verso il Teatro Romano e il Vescovado 10 - 11 - 12 Il percorso nella loggia

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culazione, ma che oggi sembra mostrare il fiato corto di fatto derubricando a opere eseguibili senza permesso complesse trasformazioni in grado – nel loro essere messe in sistema – di stravolgere l’identità dei centri storici. Diversi anni prima e in tempi non sospetti, Ernesto Nathan Rogers (tra gli altri con Gardella, Samonà, Albini) aveva sostenuto le ragioni di una metodologia caso per caso relativamente all’intervento in realtà caratterizzate da dense preesistenze ambientali. Occorre che la cultura architrettonica ritorni autorevolmente a considerare il problema, mettendo a segno – come in questo caso – progetti che mostrino una via praticabile.

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13 La loggia vista dal Teatro Romano 14 - 15 La scala e la struttura a stella

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Adolfo Natalini

Tra acque e cielo: Ijsselkade, Doesburg (NL) Fabrizio Arrigoni

(Tre uomini in cammino verso la città; vengono da lontano, da oltre il fiume e i campi. Sono in cima alla scalinata e per chi giunge dal fiume appaiono sulla linea dell’orizzonte e tra di loro c’è la guglia della chiesa. Uno sembra vicinissimo, un altro più lontano, lontanissimo il terzo. Eppure vanno affiancati come ieri, oggi e domani. Non sono qui per rispondere alle solite domande ”Chi siamo? Donde veniamo? Dove andiamo?”; sono qui per interrogarti: “Chi sei? Dove abiti? Quanta vita è con te?”. Hanno i corpi rossi del tramonto e i volti dorati dell’alba. Nel loro continuo andare nel sole attraverseranno la strada, varcheranno il ponte, passeranno tra le strade ed i giardini. Tra le strade della città antica porteranno racconti di altri paesi e città poi diranno questa nel mondo. Andranno con passi regolari, né lunghi, né corti. Misureranno la terra col compasso delle gambe portando negli occhi visioni d’oro.)1 Doesburg è un piccolo centro a ridosso del fiume Ijssel. Con Zwolle, Kampen, Deventer, Hattem, Zutphen faceva parte della Lega Anseatica ma, a differenza delle consorelle, il rapporto con il corso d’acqua non fu mai tema dei suoi lineamenti urbani, rimanendo i terreni prossimi ad esso prima campi disponibili per le fortificazioni e successivamente aree destinate ad usi specialistici. La necessità di un adeguamento della morfologia degli argini per motivi di salvaguardia (Dio ha creato il mondo, gli olandesi l’Olanda…) è stata la causa di un piano-guida redatto da Teun Koolhaas orientato a cucire un legame tra l’ Ijssel e la città. Nell’estate del 1998 è bandito un concor-

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so ad inviti per stabilire il piano particolareggiato; nel settembre dell’anno successivo l’atelier Natalini presenta il progetto preliminare ed il 22 aprile 2003 il sindaco batte il primo palo di fondazione; il 3 marzo 2006 il nuovo quartiere viene inaugurato.2 Dobbiamo interpretare questo insediamento come un’ ulteriore pagina di quella ricerca del Nostro che, con riferimento alla terminologia di Hans Stimmann, potremmo riassumere nella concisa formula della ricostruzione critica dell’urbs: “cerco di ricostruire paesaggi urbani, analoghi alle città. Cerco di ricostruire il tessuto di strade e piazze, la gerarchia di edifici pubblici e privati, case con pareti, porte finestre e tetti… paesaggi che non si preoccupano di essere moderni né contemporanei. Perché (in un paesaggio) un fiume o un albero non sono contemporanei…”.3 L’addizione risulta generata dal mutuo incrocio di tre regole elementari: una prima riconducibile alla volontà di mantenere l’allineamento dei nuovi corpi di fabbrica paralleli alla curvatura gentile del fiume; una seconda costituita dalla ricerca di una continuità percettiva e dei percorsi con le direttrici provenienti dal centro storico; infine, l’impiego di un vocabolario spaziale come accettazione-manipolazione di un lessico familiare consolidato, proprio della città europea. Fissati questi estremi il disegno precisa il tracciato di un isolato di profondità variabile fratturato da una piazza trapezoidale di medie dimensioni ortogonale all’Ijssel. Il margine di questo vuoto è serrato ad oriente da una gradinata che raccorda il piano di calpestio alla quota del lungofiume e da un edificio a torre pensato come riconoscibile

Progetto: Natalini Architetti 1999-2006 con: Architectenburo C. Schrauwen, Amsterdam Committente: Johan Maser Projectonwikkeling b.v. Hilversum Ijsselkade, Doesburg


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landmark e fuoco prospettico dell’intorno, la cui altezza resta comunque inferiore alla guglia antica della vicina chiesa. I fianchi longitudinali della piazza alloggeranno laboratori e negozi confermandone la destinazione pubblica. Rispetto al masterplan ed alla maquette di studio il costruito manca di un ultimo blocco a nord destinato, nelle intenzioni, a chiudere con maggiore proprietà lo slargo, circoscrivendone i limiti sino all’ampio viale sopra la diga.4 Osservando ed attraversando i molteplici luoghi del complesso (qui siamo infatti sempre “in un posto”…) si palesa una sottile tensione tra caratteri generali e soluzioni specifiche, tra ricorsività delle scelte e loro effrazione: discontinuità che – oltre a rammentare e/o commentare le intermittenze di ogni centro abitato – consentono di rispondere ai suggerimenti che il sito stesso produce o che la sintassi di aggregazione genera (il bordo, l’angolo, il portale, etc.).5 È così possibile riconoscere il

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tono quieto e regolare del filare di case col tetto a punta, affacciato sul nuovo canale che borda il tessuto preesistente, quale contrappunto all’assetto compatto e mistilineo del fronte sull’Ijssel, preoccupato di saldare l’idea dell’edificazione di un esplicito confine urbano alla straordinaria opportunità di scorci e vedute che la parte possiede come sua dote invidiabile.6 Una articolazione dei motivi propiziata dalla stessa sezione dell’argine che ospitando i parcheggi di servizio ha determinato esiti imprevedibili nel disegno di suolo della grande corte. Quest’ultima appare come una sorta di intaglio, un solco tra mura dove l’erba è stata capace di rubare spicchi di terreno all’acqua7 e scandita, ma non interrotta, dai ponti che garantiscono l’attraversamento dell’insula. Logge, terrazzamenti e serre marcano l’atmosfera domestica di questo interno a cielo, “scenario per la rappresentazione della vita di ogni giorno”. Ijsselkade non è opera di sperimenta-

zione su tipologie residenziali e tanto meno verifica di un prototipo di alloggio idoneo a “nuove forme di vita”;8 piuttosto è tentativo caparbio di ricondurre l’evento dell’abitare (esistenziale, insulare, dominio dell’Innenraum) nelle maglie del fenomeno urbano (politico, collettivo, proprio dell’Außenwelt): ed è su questa soglia che occorre rintracciarne la cifra. Delle architetture olandesi di Natalini è stato detto e scritto che sono passatiste (dai futuristi), rassicuranti (dalla gente), supertradizionali (da “Lotus”), romantiche (da V. Van Rossen), unmodern (da Hans Ibelings), tradizionali (dall’autore stesso).9 Senza cedere alle seduzioni della tassonomia sorprende come nessuno abbia ancora ravvisato quella deriva fantastica ispirata, avrebbe forse siglato Savinio che le attraversa; una diglossia tra gergo popolare e lingua colta, tra reminescenza e straniamento, tra consuetudine che riposa e desiderio che muove, comune - mi viene da pensare - a certi


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Pagine precedenti: 1 Roberto Barni Passi d’oro

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2 Ijsselkade, acquarello 3 Veduta aerea stato di fatto 4 Veduta aerea del complesso

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legni dipinti della scultura medievale, anch’essi in bilico tra realtà quotidiana ed immaginazione eroica e surriscaldata. Ànemos, vento che percorre le sciarade, i disegni e le scritture, gli acquarelli ed i progetti, e che la costruzione trattiene a stento sotto i suoi solidi e familiari profili. (In un paese lontano sul fiume vanno tre viandanti coi volti d’oro. Hanno figure rosse nel tramonto e trascinano le genti con loro. Vengono d’oltre il fiume, di là dai campi; hanno il passo dei grandi camminatori e nelle mani aperte e dentro gli occhi portano la vita degli abitatori.)10

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Adolfo Natalini, Per Passi d’Oro di Roberto Barni, 4 marzo 2006. 2 L’opera è finalista al premio Architectuur in de Achterhoek ed è stata valutata da Hans Ibelings come la miglior prova dell’ufficio fiorentino in Olanda. 3 Adolfo Natalini, Quaderni olandesi, a cura di V. Santoianni, Aión Edizioni, Firenze 2005, p. 93. Su questi temi cfr. F. Arrigoni, (Ri)composizione urbana: Adolfo Natalini a Zwolle, in “Firenze Architettura”, Il frammento, n. 1, Firenze 2006; pp. 32-39. 4 L’area in questione avrebbe ospitato un hotel, un ristorante ed altri servizi secondo una morfologia dei volumi fortemente variegata; tale ipotesi di modificazione è stata affidata ad altro professionista. Una ulteriore modifica riguarda la non edificazione del lato ad est dell’isolato settentrionale che ha determinato una sorta di area pubblico-privata in luogo del cortile chiuso previsto in origine. 5 “Architetture diverse ma riconoscibili, quasi come di una stessa famiglia…” da Per Zwolle (e altre città), 17 marzo 1998. Ora in Quaderni …, op. cit. p. 75. 6 “Saliamo in un appartamento al terzo e quarto piano sul fiume (la casa è bella con grandi tappeti folti e grigi e mobili di design). La vista è bellissima: tutto il fiume (che ora il sole basso ha trasformato in una lastra dorata) e aldilà una campagna verde-dorata dove il sole schiacciato sull’orizzonte s’insinua tra nebbioline basse.” A. N., dalle pagine di diario, 03, 03, 06. 7 Il progetto di sistemazione paesaggistica si deve all’atelier olandese di Okra. L’opera è stata insignita nel 2004 del “Premio del design olandese per spazî pubblici”. 8 Non è proprio possibile istituire una corrispondenza, per fare un solo esempio, tra le sorridenti signore in bicicletta che sovente compaiono nei reportage fotografici e gli sportsmen ossessionati dall’igiene che Siegfried Kracauer indicava come i naturali prossimi abitatori delle candide Siedlungen del neues Bauen. Riguardo a rivoluzioni e déjà-vu valga uno stralcio da un resoconto in occasione dell’Esposizione Universale (Parigi, 1900): “Questa casetta, che è fatta in stile gotico, si erge letteralmente a rovescio; il tetto, cioè, si dispiega al suolo con i camini e le torrette, mentre le fondamenta sporgono verso il cielo. Naturalmente, conformemente a ciò, anche finestre, porte, balconi, logge, cornicioni, fregi ed epigrafi sono messi a rovescio…” Le manoir à l’envers, Die Pariser Weltausstellung, in “Wort und Bild”. 9 Traggo parte del singolare elenco da un appunto nataliniano del 1998. 10 Adolfo Natalini, Per Passi… op. cit. La collaborazione tra l’architetto e l’artista in terra d’Olanda risale alla ricostruzione della Waagstraat a Groningen nel 1991. La recente mostra “Adolfo Natalini en Roberto Barni de Ijsselkade en andere projecten in Nederland” presso il Raadskelder, Stadhuis Doesburg ha fornito l’occasione per un primo bilancio critico. Su questo vedi il catalogo a cura di Werner van den Belt: Van Berlage tot Barni. Kunst en architectuur in de buitenruimte.

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5 Scorcio sulla torre 6 Veduta lungo il nuovo canale 7 Veduta della corte interna 8 Veduta sull’Ijssel

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9 Margine meridionale del complesso 10 Planivolumetrico

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Antonio Capestro

Nel cuore del Salento

Porto Cesareo, provincia di Lecce: l’intervento di un fabbricato ad uso residenziale si colloca in questa località balneare nel cuore del Salento. Il mare, il paesaggio sono esemplari, la costa è punteggiata da una successione di torri, volute da Carlo V nel XVI secolo, per presidiare l’entroterra dalle incursioni turche. Queste dominano, solenni, uno skyline purtroppo deturpato da una sedimentata azione di abusivismo edilizio che ha alterato l’assetto del borgo marinaro contraddistinto da una architettura che, seppure spontanea, traeva il suo fascino dalla articolazione dei volumi puri intonacati a calce che, bianchi, si ridefinivano nei colori intensi del mare, del cielo, della terra rossa e della vegetazione. L’intervento si inserisce all’interno di una delle tante lottizzazioni che si snodano lungo un percorso perpendicolare al mare e caratterizzato da un contesto edilizio disomogeneo. Un ritaglio di terreno trapezoidale ereditato con un forma incurante delle viste notevoli e su cui era già presente una struttura di laterocemento da cui è partita la composizione architettonica ponendosi i seguenti temi progettuali: - la reinterpretazione del tema del volume e dell’involucro che lo ridefinisce come elemento materico, diaframmato e trasparente; - il tema del mare attraverso la metafora della barca che, mobile, definisce il paesaggio urbano di Porto Cesareo rendendolo cangiante con la sua matericità e con i suoi spostamenti; - il tema della luce che, fortissima nel contesto, ridisegna continuamente l’architettura attraverso luci e ombre.

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Il fabbricato si sviluppa su tre livelli fuori terra. È predisposto per tre unità immobiliari dotate di giardino o terrazzi panoramici. In particolare non potendo riproporre nuove volumetrie rispetto a quelle date l’intervento si è focalizzato sulla riprogettazione dell’assetto distributivo interno e degli involucri esterni dei volumi in modo da allestire, da dentro a fuori, una sequenza di scenari che potessero captare i tratti salienti del contesto precedentemente negati nell’impostazione strutturale. La fruizione dello spazio interno ed esterno si basa sulla mobilità del sistema dei serramenti che privilegiano un uso flessibile dello spazio, della luce, delle visuali. Il sistema dei serramenti, composito, infatti si caratterizza con un tema di elementi dogati bianchi, nelle persiane e nei parapetti, e come infissi scorrevoli trasparenti che si alternano ad un paramento murario bianco. Questo rapporto pieno/vuoto propone una interpretazione del guscio architettonico come membrana interattiva tra interno ed esterno che, sensibile al contesto, restituisce immagini ed atmosfere dell’architettura tra densità e rarefazione di volumi, luci, e viste. L’involucro da contenitore diventa contenuto, spazio che permette relazioni ed esperienze tra uomo e ambiente. Al piano terra una pavimentazione in pietra piasentina si prolunga sul prospetto principale fungendo da sfondo al tema diaframmato costituito dai serramenti dogati; questo livello è perimetrato da un lato con un tema di verde geometrizzato, dall’altro con una parete bianca a cui si appoggia una

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Progetto: Antonio Capestro e Cinzia Palumbo 2005-2006 Progetto strutture e impianti: Dante Dimastrogiovanni



armadiatura di servizio con pannelli scorrevoli dogati che ridefinisce l’attacco a terra del muro. Al primo piano lo spazio-giorno si apre al contesto attraverso ampie vetrate scorrevoli modulate da persiane che filtrano visuali e luce. Sullo sfondo il tema del camino e della cappa, rispettivamente di pietra piasentina come la pavimentazione e d’intonaco, che allestiscono lo spazio del soggiorno e della cucina comunicanti attraverso una parete mobile in legno e acciaio satinato. Il secondo piano è corredato di terrazzi panoramici su due livelli che inquadrano a 360 gradi il paesaggio dall’entroterra al mare.

Pagine precedenti: 1 Planimetria generale 2 Vista del ballatoio 3 Frangisole degli spazi giorno 4 Notturno del frangisole 5 Piante dei vari livelli Pagine successive: 6-7 Il ballatoio sulla campagna 8-9 Il terrazzo sul mare

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Alberto Breschi e Flaviano Maria Lorusso

Témenos Valerio Barberis

“... ci sono momenti in cui l’onnipresente e logica rete delle sequenze casuali si arrende, colta di sorpresa dalla vita, e scende in platea, mescolandosi tra il pubblico, per lasciare che sul palco, sotto le luci di una libertà vertiginosa e improvvisa, una mano invisibile peschi nell’infinito grembo del possibile e tra milioni di cose, una sola ne lasci accadere.”1 Il luogo: una cava di argilla abbandonata localizzata nella periferia di Cagliari. Il programma: progettare un brano di città ed un parco urbano. Il luogo è un esempio di paesaggio di scarto, un residuo abbandonato dalle logiche di sfruttamento del territorio tipiche del XX secolo – ancora oggi molto in auge - ispirate da “una modernità che si è alimentata di energie di trasformazione estreme e di processi produttivi irreversibili, frutto del pensiero e del gesto proprio dell’era della tecnologia della meccanica”.2 Il progetto parte da questa condizione, non semplicemente accettandola come un dato di fatto, ma interpretandola come un momento nella continua opera di trasformazione del territorio antropica e naturale: il progetto, all’interno di una dimensione temporale dilatata, è un’ulteriore fase di questo processo in divenire. Progettare in questo senso è interpretare la realtà, le sue sfaccettature nascoste, tentare di osservarla da angolazioni diverse in modo da far emergere l’inaspettato, la magia del reale. Il primo atto del progetto è, dunque, lo sguardo che si posa sulla realtà, che la osserva, che la fora con gli occhi della fantasia: nell’accezione fornita da Calvino la visibilità è concepita come strumento di immaginazione: “da

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dove “piovono” le immagini nella fantasia? […] Si tratta di processi che […] esorbitano dalle nostre intenzioni, assumendo rispetto all’individuo una forma di trascendenza”.3 Il progetto per il Parco delle Cave è prima di tutto questo, il riconoscimento della dimensione temporale dell’architettura ed il tentativo di svelare o meglio di portare alla luce aspetti nascosti di questo paesaggio. La cava abbandonata viene, infatti, osservata da occhi in grado di far emergere l’estetica della trasformazione operata sul territorio, di cristallizzarne l’essenza nel suo essere già parco e luogo da abitare prima ancora di qualsiasi intervento progettuale. Questa è la stessa operazione concettuale che porta Burri a vedere nei sacchi di juta dei quadri: gli scarti si trasformano in luoghi potenziali per nuove estetiche e nuove modalità insediative ed abitative. La cava abbandonata diviene, così, il cuore pulsante di un “grande racconto urbano, in grado di riaffermare la concreta necessità vitale ed il senso simbolico-rappresentativo, così naturali nella memoria storica delle città, di delineare una innovativa figura conforme per il paesaggio urbano-architettonico contemporaneo”.4 Il progetto propone una urbanità fondata su di un rinnovato equilibrio tra natura e artificio sia in termini concettuali che figurativi: una contemporanea “città di fondazione” che si delinea attraverso una serie di figure architettoniche antiche anche nella terminologia – le mura, i bastioni, il parco –, che si concretizzano indifferentemente in costruito e vegetazione e che aspira a proporsi come modello insediativo innovativo per nuove forme

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Gruppo di lavoro: Alberto Breschi Flaviano Maria Lorusso Lorenzo Vallerini Luigi Gavini Alberto Loche Pierpaolo Perra Maria Franca Perra Sandro Roggio Francesco Deriu Vania Erby Ivan Corellas Anna Paola Iacuzzi Antonio Vinci 2005


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di convivenza civile. La definizione dei margini dell’area avviene tramite la formazione di un recinto urbano composto dagli edifici della residenza con sottostante funzione commerciale ed il palmeto: si delinea, così, un sistema integrato natura-edificato, le mura del nuovo insediamento, che assolve ad una funzione di filtro nei confronti dell’intorno urbano. L’architettura delle residenze si compone di una serie di blocchi disposti secondo una sequenza apparentemente casuale e guidata da una semplice logica additiva, che evoca nell’insieme l’immagine di una cava di pietre in attesa di una destinazione. I blocchi risultano fondamentalmente chiusi verso l’esterno, mentre grandi scavi-logge aprono gli appartamenti verso il panorama del parco interno, introducendo, così, la relazione con la natura nella vita quotidiana degli abitanti, che si riverbera nell’architettura tramite la continuità che sussiste tra gli edifici ed i segni a terra che definiscono le diverse pavimentazioni e piantumazioni. La costruzione dei margini è conclusa da una serie di edifici a destinazione pubblica, i bastioni, che assolvono al ruolo di “porte-scambiatori e di condensatori sociali posti a cerniera tra il nuovo comparto e la struttura sociale ed urbanistica circostante, al fine d’una imprescindibile strategia di scambio e di riequilibrio della qualità urbana complessiva”.5 Il parco deriva in prima analisi, come si è visto, da un’operazione di riconcettualizzazione dell’esistente e, dunque, la conformazione del terreno ed alcune porzioni esistenti vengono lasciate assolutamente intatte. È composto da una sequenza di paesaggi che, partendo dai laghi posti nelle depressioni più accentuate esistenti nel terreno, si muove, procedendo verso i margini, in una sempre maggiore articolazione delle piantumazioni e del sistema delle acque. Il parco non è concepito esclusivamente come spazio di rigenerazione fisica, ma anche come luogo di godimento mentale nel quale la natura è posta in scena e lasciata libera di evolvere liberamente: il progetto individua un principio genetico, fornisce l’imput iniziale per far progredire l’appropriazione del luogo da parte della natura nella forma di un giardino in divenire, una preziosa riserva di naturalità6 della quale alcune porzioni (i laghi e l’oasi) vengono lasciate intatte a testimoniare la condizione attuale dell’area. Il pro-

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getto del Parco delle Cave di Cagliari si muove sul difficile crinale che vede da una parte l’affermazione di una volontà progettuale e dall’altra l’estasi che si prova nell’osservare la natura che si ri-appropria di un paesaggio abbandonato dall’uomo. Ma il parco è anche un paesaggio didattico che si pone come modello avanzato di recupero energetico, trattamento delle acque, sistemi innovativi di sostenibilità ambientale ed un paesaggio culturale che sviluppa al suo interno un percorso di arte ambientale nella forma di un parco-Museo a cielo aperto. Il progetto dunque propone un modello insediativo nel quale il vuoto e la vegetazione che lo occupa diventano il nuovo tessuto di una connettività viva, multiforme, sempre mutevole, teso alla definizione di un paesaggio urbano contemporaneo improntato ad una rinnovata relazione tra uomo e natura. Vivere in simbiosi con la natura immersi in un parco: il progetta declina in questo senso il tema dell’abitare contemporaneo, introducendo innovazioni tipologiche che affondano le radici nella

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tradizione della cultura mediterranea. Gli edifici per le abitazioni, infatti, sono concepiti come una sequenza di monoliti separati che, in sezione, racchiudono patii con alberature sui quali si affacciano gli alloggi, mentre la porzione inferiore del complesso è concepita come un basamento sovrastato da un giardino pensile condominiale dal quale si apre il panorama del parco sottostante: la natura entra all’interno dell’architettura, la contamina appropriandosene metaforicamente e fisicamente... il parco è una grande metafora delle realtà contemporanea e può essere identificato come la chiave di lettura del progetto: il progetto di un luogo abbandonato al suo divenire ed alla natura.

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A. Baricco, Oceano Mare, Rizzoli, Milano, 1993. A. Branzi, Prime note per un Master-Plan, in Lotus 107, Elemond, Milano, 2000, pp. 111-116 3 I. Calvino, Lezioni Americane, Mondadori, Milano, 1993, p. 97 4 Dalla relazione del progetto di concorso 5 ibidem 6 Si veda G. Clément, Manifesto del Terzo Paesaggio, Quodlibet, Macerata 2006

Pagine precedenti: 1 Schizzo di studio della soluzione planimetrica 2 Vista aerea con fotomontaggio dell’intervento 3 Sviluppo della soluzione planivolumetrica: stato di fatto del sito - stato modificato planivolumetria finale

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4 Le “Mura” del sistema residenziale di cintura al Parco: prospetto interno sul parco - prospetto esterno sulla viabilità di accesso 5 Studi tipologici di residenze integrate: sezioni e piante tipo


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Loris Macci Ugo Baldassarri, Marco Casamonti, Giovanni Polazzi

Contemporanee sin-estesie. Residenze e servizi a Kiel Fabio Fabbrizzi

All’interno del percorso che l’idea della residenza collettiva compie dalla seconda metà del XX secolo, si possono rintracciare dei momenti che hanno segnato profondamente questa evoluzione. All’idea di un modello residenziale supportato da una più generale visione di piano, nel quale la dimensione del quartiere e del vicinato paiono l’immediata risoluzione ai molti dei problemi generati dal secondo conflitto mondiale, si affianca la rigenerata possibilità di usare il verde come elemento di connettivo e quindi di progetto, nella più generale applicazione di un ricercato valore di comunità e di integrazione. Presto questi valori sfociano nella generosa utopia della residenza collettiva dotata di strutture al suo servizio, intesa come un pezzo autonomo di città e anche l’architettura si fa interprete di questa reciprocità, mimandone nelle sue funzioni, i temi principali. Per un momento, anche questa dimensione sembra essere insufficiente e nasce quindi l’ipotesi della relazione con l’intero territorio, nella previsione di organismi che con esso ricercano con la forza di segni urbanistici, un legame che sia prima concettuale che reale, mentre all’idea di forma prestabilita a priori, si sostituisce a poco a poco una formatività che esprime la sommatoria delle traduzioni delle infinite entità e relazioni che entrano come multidisciplinare apparato di riferimento, nello spessore del progetto. Poi sulla concezione urbanisticamente intesa di territorio, prevale quella di luogo paradigmaticamente e poeticamente inteso, divenendo con i propri genii, il referente privilegiato di ogni ricerca sul progetto. I suoi infiniti e diversi caratteri

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vengono sensibilmente interpretati nelle loro declinazioni, divenendo la base concreta per ogni ragionamento sulla materia, sulla forma sulla tecnologia e al contempo la base figurale di ogni possibile sviluppo linguistico. Nell’analogia tra architettura e linguaggio, pratica anch’essa innescata ed evoluta nella metà del XX secolo, il ricorso a figure retoriche aiuta lo sviluppo e la lettura della costruzione della forma. La più intuitiva e la più usata di esse, pare essere la metafora in quanto l’architettura nella sua filigrana, esprime da sempre valori e simboli ulteriori. Essa lavora sulla contemporanea addizione e soppressione di significati, generando nuove entità che contemporaneamente li contengono e li superano. Certe volte essa diviene metonimia, ovvero trasferimento semantico fondato sulla relazione di contiguità logica tra il senso letterale e il senso traslato, ma più raramente essa assume il carattere di vera e propria sinestesia, ovvero di associazione di termini appartenenti a sfere sensoriali diverse. Il progetto di Loris Macci, capogruppo di un team formato da Ugo Baldassarri, Marco Casamonti, Giovanni Polazzi e i loro collaboratori, redatto in occasione del Concorso ad inviti per la riqualificazione di un’area urbana di Kiel e classificato al secondo posto nella relativa graduatoria di giudizio, è uno di quei rari casi in cui si può parlare di approccio sinestetico allo sviluppo della forma. È chiaro che in architettura e nella sua critica, azzardare l’omologia tra forma e lingua e già di per se un traslato e parlare di sinestesia può apparire tautologico, in quanto tutta l’architettura in genere è per sua natura una ricognizione che

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Progetto: Loris Macci (capogruppo) Ugo Baldassarri Marco Casamonti Giovanni Polazzi 1996 Collaboratori: Antonella Dini Silvia Fabi Giuseppe Fioroni Federica Gargani Nicola Santini Consulenza bioclimatica: Annarita Ferrante


1 Veduta zenitale del plastico 2 Veduta del plastico 3 Planimetria generale

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innesca nella propria percezione, il simultaneo coinvolgimento di sfere sensoriali diverse. Raramente però, la tutto sommato comune capacità metaforica del progetto, riesce ad esprimere attraverso la forma, la simultaneità dei sensi che essa contiene, non limitandosi alla sua sola percezione, quanto proprio all’essenza della sua fase ideativa. Sinestesia quindi, come capacità preziosa di tenere vivi, nello spazio di un progetto o di una realizzazione, tutti i possibili inneschi che caratterizzano e vivificano la transitorietà dell’invenzione ideativa. Temi, tipi, figure, sensi, frammenti, tappe di un’evoluzione nota e schegge di personale poesia, si fondono in una narrazione che è il perfetto specchio di un collettivo tempo lacerato, reso instabile dalla caduta della rappresentazione unitaria, frutto di un pensiero forte e coeso. In questa chiave appare allora affascinante vedere nel progetto di Kiel, la stratificazione disciplinare attorno all’idea dell’abitare collettivo, letta non come solo insieme di suggestioni, ma come tracce di temi che proprio nella loro apparente inconciliabilità, trovano la loro forza e il loro valore più alto. Quindi la sinestesia è leggibile sul piano della percezione, intravedendo una complessità di spazi che rimandano ad una bontà dell’architettura e dell’abitare, ma anche e soprattutto alla compo-

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sizione dei diversi “tempi” e momenti del progetto. La storia per esempio, è resa simultanea presenza nella contemporaneità delle scelte. Essa traspare come valore di fondazione, rispettando nella geometria di riferimento, allineamenti e misure della città preesistente. Nei destini urbani, il triangolo compreso tra il terrapieno ferroviario, la Eckerstrasse e la Gunthstrasse, diviene la “porta” ideale di accesso al cuore della città e nella proposta, la Eckerstrasse si allinea prospetticamente con la Galleria Urbana che costituisce il tema strutturante del nuovo sistema edificato, mentre tutto l’insieme si configura come una sorta di “isolato aperto” in seguito all’esigenza di conservare come da programma, il limitrofo edificio del Land. Sulla Galleria prospettano i due edifici principali, ovvero quello a sviluppo arcuato lungo la Eckerstrasse, e quello a cuneo ad esso parallelo. L’edificio interamente vetrato e curvilineo, sottolinea le proprie teste con due piazze di accesso, contenendo in esse, rispettivamente a sud gli accessi pedonali al sistema e a nord gli accessi meccanizzati al parcheggio interrato. L’altro edificio si configura invece come una sorta di lungo cuneo, che nel prolungare i suoi vertici a sud, segna espressivamente la prospettiva d’ingresso alla piazza e alla Galleria, nonché l’allinea-

mento sulla Gunthstrasse. Entrambi questi edifici sono organizzati all’interno come open space, in modo da consentire un’estrema flessibilità per ogni tipo di esigenze. Per accentuare tale libertà, nell’edificio arcuato i gruppi scala e ascensori sono stati organizzati fuori dal perimetro dello stesso edificio, tramite un ritmo di corpi verticali che scandiscono il fronte e collegati con passaggi vetrati a ponte sulla Galleria. Galleria abitata a terra da spazi commerciali e dotata di ampie visuali sugli ambiti verdi posti all’interno del pettine residenziale. L’edificio a cuneo ospita oltre a spazi dedicati agli uffici, anche una serie di residenze temporanee dedicate a studenti, insieme a residenze permanenti dedicate ai single e alle giovani coppie. Ortogonalmente al sistema dei due edifici longitudinali e della Galleria centrale, si colloca una serie di quattro edifici paralleli tra loro, dedicati alle residenze tradizionali. Essi, dotati di alloggi di varie dimensioni, vengono serviti da una distribuzione longitudinale ortogonale alla Galleria, che su di essa presenta gli accessi. I diversi appartamenti sono collocati nei vari piani -non più di quattro compreso il piano terra in modo da ben inserirsi nella densità urbana esistente- ad eccezione dei piani terra direttamente aperti sugli spazi verdi e occupati da servizi minimi a ca-


4 Prospetto - sezione longitudinale di un edificio 5 Pianta e sezione trasversale di un edificio 6 Piante e sezione Pagine successive: 7-8 Vedute del plastico 9 Veduta prospettica 10 Schizzo prospettico dello spazio interno 11 Veduta del plastico 12 - 13 - 14 Vedute prospettiche

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rattere collettivo, come sale gioco, Kinderheim, sale condominiali e parcheggi per le biciclette. La simultanea adesione al senso della contemporaneità e alla tradizione, si registra anche nell’impiego della materia, immaginando un sistema costruttivo in mattoni faccia a vista in armonia con le tessiture murarie della città, mentre sul piano figurale, l’edificio lavora sull’equilibrio tra dimensione corrente e dimensione monumentale, mixando etimi dell’una o dell’altra narrazione. Come non vedere infatti, nelle splendide prefigurazioni grafiche di questo lavoro, l’appartenenza ad una continuità linguistica tipica del mondo tedesco, che con sapienza ha saputo fondere le locuzioni di una corrente pratica edilizia a quella di una vocazione espressionista, rintracciabile per esempio nell’interpretazione della puntuta volumetria della Chilehaus di Franz Höger nella vicina città di Amburgo? La modernità insita nella concezione spaziale degli edifici a carattere non residenziale, si relaziona con una impostazione che nulla ha che vedere con il

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monofunzionalismo del Moderno, impostando di fatto una mixité di funzioni, temi e aspettative, che si pone come critica e revisione di quello stesso segmento al quale pare affiliarsi. L’intero insieme è infatti un edificio-città, ma non allestisce nelle proprie forme e proporzioni, l’idea collettiva della macrostruttura, quanto piuttosto un’organizzazione maggiormente stemperata nel luogo. L’architettura del progetto rincorre un’idea di totalità, ma non si traduce nel gesto imperativo di un segno indelebile sul contesto, quanto piuttosto nella somma di singolarità che non rinunciando ad essere “sistema”, formano unità ed elementi riconoscibili e variabilmente articolati tra loro da regole di appropriatezza. In questo sistema integrato di residenze e servizi, le tappe di una possibile storia urbana della dimensione abitativa, convivono senza cedere a priorità e gerarchizzazioni. Esse si sovrappongono e confondono, dando luogo ad un itinerario prezioso quanto intellettualmente denso di significati. L’immagine vetrata dell’edificio arcuato


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ottenuta con la grande serra ad accumulo passivo, appare forte nella propria cristallina definizione, duplicata e riflessa dalla vasca d’acqua per la fitodepurazione posta al suo piede. Questo elemento, che forse appare a prima vista inconciliabile con la misura più umana della residenza, grazie alla ricchezza sinestetica del progetto, affianca alla forza straniante della sua forma, l’astrazione dei fronti residenziali, che tramite un tema di griglie di acciaio e vetro con persianature scorrevoli di legno, vengono resi estremamente vibratili e maggiormente domestici, senza per questo scadere in temi di localismo. Stessa lettura sovrapposta anche per i temi di natura, affrontati in questo progetto sul doppio valore di connettivo e di risorsa, ovvero come elementi di una comune strutturazione urbana, motivo di aggregazione sociale e motivo di risparmio energetico. Non sempre la complessità e la ricchezza dei riferimenti può essere un valore positivo A volte essa può generare rumore, accumulo, tensione e non sempre è possibile percorrere itinerari che fanno di questa complessità il loro nucleo principale. Viceversa, quando un tema per certi aspetti così corrente come la residenza collettiva, riesce come in questo caso a farsi portatore di tale capacità, si scopre la potente attitudine del progetto nel tenere uniti i fili di molte implicazioni, ricordando, oltre allo stupore di constatare ancora una volta la grande forza posseduta dall’ideazione, che la capacità di unire e di comporre, più che omologare e ridurre, conduce nella maggioranza dei casi, ad esaltare reciprocità e differenze.

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Massimo Carmassi e Gabriella Ioli Carmassi Residenze e servizi del Campus Universitario di Parma

Nonostante il campus universitario sia stato costruito in una campagna vergine ai margini estremi della periferia della città, molto oltre la tangenziale, senza condizionamenti di preesistenze ingombranti, non si può dire che la sua immagine risulti particolarmente accattivante. Pur essendo immerso nel verde ed essendo costruito da edifici non speculativi, non sembra offrire la qualità che siamo abituati a riconoscere nelle nostre città storiche. Penso che ciò sia dovuto al fatto che questo complesso è stato costruito sulla base di una lottizzazione standard secondo un processo spontaneo soggetto solo a vincoli di superficie, di volume e di destinazione d’uso e senza alcuna ambizione di ottenere un luogo con caratteristiche definite che non siano una certa larghezza della maglia stradale rispetto agli edifici, una bassa densità edilizia e una vaga somiglianza con i campus americani. Poiché il terreno disponibile per la costruzione delle attrezzature studentesche era piuttosto esteso ed in una posizione interessante rispetto al campus, abbiamo cercato di realizzare un complesso dotato di una forte riconoscibilità urbana. L’esistenza di molti vincoli ambientali come l’area di rispetto di un elettrodotto che l’attraversava diagonalmente, della tangenziale e del torrente che rendevano molto limitate le aree libere per la costruzione di edifici ci ha costretto a concentrare l’edificazione nelle parti marginali ma nello stesso tempo ha consentito di economizzare al massimo il terreno libero disponibile, così da valorizzarlo come parco verde.

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Anche la destinazione principale del nuovo complesso, piccoli appartamenti per studenti, è risultata perfettamente in sintonia con questa scelta distributiva ed ambientale. È stato realizzato infatti un lungo e sottile edificio, di altezza costante che, si sviluppa secondo una linea lievemente curva lungo il confine nord-est del terreno, ad una distanza variabile dalla tangenziale, come protezione e forte segnale verso l’esterno. Il lato sud del terreno, l’unico aperto verso la strada che collega la città al campus, è occupato da un edificio a pianta quadrata, a due piani, di forma elementare all’esterno ma assai ricco e complesso all’interno, che ospita un supermercato, alcuni negozi e le funzioni necessarie per garantire momenti di aggregazione e di svago per gli studenti. Di fatto questo edificio, dotato di logge, piazza e terrazze, è destinato a diventare la cerniera di accesso dall’esterno, fruibile anche dai non residenti. Sul lato sud-ovest dell’area cinque edifici a cinque piani di forma elementare disposti liberamente sul piano di campagna ospitano gli appartamenti per i professori. Il lungo edificio curvo e sottile, di 346 metri che si contrappone alla tangenziale è caratterizzato da un sistema distributivo tanto essenziale quanto economico. Un corridoio di larghezza costante che corre lungo il lato nord-est disimpegna le cellule residenziali disposte su cinque piani che si affacciano verso il parco a sud ovest. L’architettura di questo lungo edificio è caratterizzata dalle due murature di mattoni pieni che delimitano lo spazio interno. Verso nord-est sono segnate

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Progetto: Massimo Carmassi e Gabriella Ioli Carmassi 1996-2001 inizio lavori 2001 previsione fine lavori 2006 con: Guido Leoni Collaboratori: Christopher Evans Strutture: Ivano Biacchi


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Pagina precedente: 1 Le torri d’abitazione per i professori 2 Le torri d’abitazione per i professori e l’edificio dei servizi ricreativi e commerciali 3 Planimetria generale

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4 Scala interna 5-6 Il loggiato dell’edificio dei servizi ricreativi e commerciali

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da una serie di strette e rade aperture a tutta altezza che illuminano i ballatoi, e da altre più larghe che funzionano da ingresso a piano terra e affaccio verso l’esterno dei corpi scale agli altri piani. Verso sud-est la sequenza di aperture più ampie a tutta altezza accoglie rispettivamente le porte-finestre delle camere degli appartamenti oppure protegge i balconi arretrati rispetto alla muratura su cui si affacciano i soggiorni, mentre varchi di varia larghezza guarniti di colonne cilindriche interrompono la cortina muraria in corrispondenza dei pozzi scale e delle corti. Sul lato opposto dell’area di fronte al campus cinque edifici parallelepipedi in mattoni a pianta quadrata disposti liberamente sul piano, sono traforati su ogni lato da una griglia di 25 aperture identiche, alcune delle quali nascondono balconi e corti interne. Naturalmente un’architettura così essenziale e per questo economica, pretenderebbe una qualità esecutiva in grado di riscattarne la semplicità formale e la povertà materiale. Purtroppo la complessità dei meccanismi politico-amministrativi che accompagnano la programmazione e la redazione dei progetti richiede così tante energie e tanto tempo, sia agli imprenditori che ai progettisti, che alla fine lo spazio dedicato all’approfondimento tecnologico delle opere e alla concertazione dei dettagli rischia di passare in secondo ordine in un contesto di limitate disponibilità economiche. Nello stesso tempo questo problema è reso ancora più grave dalla distanza tra la cultura comune media dell’abitare, piuttosto bassa, ed una cultura capace di produrre architettura e abitazioni di buona qualità, che non consente purtroppo di interpretare le aspettative degli utenti a meno di non cadere nel cattivo gusto.

7 Torri, dettaglio della facciata 8-9 Abitazioni per i professori, pianta piano terra e piano interrato 10 Torri, veduta d’insieme

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11 Abitazioni per gli studenti, pianta piano terra e piano tipo dei livelli 1, 2, 3, 4 12 Abitazioni per gli studenti, la lunga facciata curvilinea rivolta a mezzogiorno 13 Vista prospettica d’insieme


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Cino Zucchi

Piano Particolareggiato di iniziativa pubblica “S. Rocco”

Un piano di espansione residenziale redatto dal Settore Territorio del Comune di Faenza prescriveva un tessuto denso e basso che simulasse la complessità spaziale della città storica. Lo sviluppo architettonico amplifica le aspettative “organiche” del master plan, unificando le corti interne in un piccolo “canyon” dove terrazzi di forma arcuata creano un diaframma di privacy per le singole unità abitative. Il progetto riguarda un comparto residenziale all’interno del “Piano particolareggiato di iniziativa pubblica S. Rocco” redatto dal Settore Territorio del Comune di Faenza. Il piano interessa un’area di espansione di proprietà pubblica situata circa 1 km a nord del centro storico di Faenza e delimitata a est dalla Ferrovia FeanzaGranarolo-Russi e a ovest da via Ravegnana. Il Piano, oltre a esplicitare una serie di specifiche entro le quali operare le scelte relative ai materiali e a indicare una serie di possibili strategie legate al risparmio energetico, prevedeva la riproposizione in quest’area di modelli insediativi tipici del centro storico e caratterizzati da altezze variabili, compattezza edilizia, densità abitativa e dalla presenza di lotti stretti e allungati. Il progetto prevede un piano interrato destinato a box e due edifici paralleli fuori terra disposti secondo un orientamento nord-sud che si sviluppano seguendo longitudinalmente la particolare conformazione del comparto. Tra i corpi edilizi trovano spazio due corti allungate, destinate principalmente a giardini privati, su cui affac-

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ciano una serie di balconi dall’andamento curvilineo. Le corti sono separate da un volume di forma trapezoidale caratterizzato dalla presenza di un ballatoio esagonale che consente la vista di un sottostante portico pubblico pensato per mettere in comunicazione la strada con gli spazi pubblici previsti a piano città. Le diverse altezze dei corpi di fabbrica presenti nel progetto sono ricomprese all’interno di un’unica architettura del tetto che determina il profilo dei prospetti. I fronti edilizi hanno trattamenti diversi in rapporto alla loro localizzazione: il prospetto su strada presenta un paramento in mattoni faccia a vista a bande verticali di diverso colore; i prospetti che affacciano sulle corti interne sono in intonaco e presentano scuri in legno di diversi colori e balconi curvi con parapetti in bacchette di legno; il prospetto verso lo spazio pubblico interno è anch’esso in intonaco e si caratterizza per la presenza di logge a doppia/tripla altezza connotate da colori primari.

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Piano Particolareggiato di iniziativa pubblica “S. Rocco” Comparto residenziale N° 9 Comune di Faenza - Settore Territorio Capo settore: Ennio Nonni Dirigente: Silvia Laghi Capo servizio programmazione e casa: Mauro Benericetti Capo servizio gestione edilizia: Lucio Angelini Progetto: Cino Zucchi Architetti - CZA Cino Zucchi Pietro Bagnoli Francesco Cazzola Maria Chiara D’Amico Filippo Facchinetto Linda Larice Modello: Filippo Carcano Impianti: Studio associato ENERGIA Ariatta Ingegneria dei sistemi srl Consulenza tecnica: Zucchi&Partners Nicola Bianchi Andrea Vigano


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Pagine precedenti: 1 Veduta del modello 2 Modello di studio 3 Planimetria generale 4 Modello 5-6 Piante del piano primo e del piano terra

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7 Prospetti 8 Vista corte 9 Sezione longitudinale 10 Sezione trasversale

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11 Schizzo prospetto 12 Vista scala 13 Vista generale

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Aimaro Isola

Ritorno a casa

Mi sarò ammalato di “empatia”, ma – chiuso tra parentesi il teorico, il critico o l’esegeta che si nasconde in ognuno di noi – vorrei, per una volta, cambiare il punto di vista dal quale vediamo e raccontiamo, di solito, i nostri lavori recenti, per mettermi nella pelle di chi, in qualche modo, vive, gode, abita, passeggia dentro queste nostre architetture. Se è vero che il posto dell’artista è presso l’opera e non è mai presso il critico o lo spettatore, è anche vero che, come io spero, quando progettiamo, qualche sforzo per abitare con il pensiero i nostri edifici lo facciamo tutti: possiamo e forse dobbiamo, qualche volta, raccontarci nell’atto stesso in cui progettiamo. Non sono molto convinto che l’architettura, come si dice oggi, sia “narrazione” (perché penso che le architetture abbiano a che fare con l’irriducibile durezza della realtà) credo però che le letterature, le filosofie, e le storie, vere o immaginate, che raccontano quegli stessi mondi, grandi o piccoli, che noi disegniamo, siano in qualche modo “utili indizi”, “congetture”, necessarie per capire gli altri in vista del nostro prossimo operare. Purtroppo le figurine ed i personaggi che di solito pongo in pose magniloquenti e bizzarre nei miei acquerelli sono, per adesso, silenziose, senza il fumetto, e quelle che abitano i nostri rendering sono, data l’origine, molto ignoranti ed assolutamente apatiche rispetto alle virtù ed ai vizi dei luoghi. Non mi resta che mettermi alcune maschere e, davanti allo specchio, intervistare me stesso, contento di far dire ad

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altri le mie piccole bugie che sono, come tutte le favole, quelle verità che più vorremmo possedere. Valdocco, “Le Isole nel Parco” Credo che così abbiano chiamato questi isolati perché, benché simili a tutti quelli torinesi, qui sono costruiti su dei frammenti, su delle zolle verdi che sembrano quasi staccate e scese dalla collina. Anziché nel mare o sul Po galleggiano al di sopra delle onde, degli odori e dei rumori del traffico urbano. Ritorno a casa dopo essere andato a correre nel prato del Parco Dora o dopo aver comprato qualche cosa nei negozi disposti sulla strada o dopo aver visto qui vicino un bel film. Percorro dei pontili porticati che sovrappassano le strade ed uniscono tra loro gli isolati. Alle volte mi siedo, qui, su una panchina sotto un albero della “rambla” centrale e mi diverto, a guardare da lontano il mio alloggio ed a riconoscerlo per i colori delle facciate, per il movimento delle coperture, e da tanti segni che lo distinguono da ogni altro. Attraverso una delle Quattro Porte angolari; entro nella grande corte che, mi pare, faccia di questa isola, un atollo: infatti qui le onde dei rumori si sono smorzate; qui, qualche bambino sta ancora giocando tranquillo e sicuro prima che venga buio. Percorro il portico anulare che lambisce il piano terreno, saluto gli amici incontrati sul percorso, arrivo all’ascensore, che in giù porta alle autorimesse sistemate nello zoccolo delle isole; salgo all’alloggio dove appena arrivato vado ad affacciarmi ed a controllare le mie coltivazioni sul balcone.

Tutti questi balconi si affacciano verso l’interno della corte, sono grandissimi ma, ben piantati a terra, un po’ spropositati nelle dimensioni, hanno colori diversi. Dai piani alti si vedono le torri ed i campanili del Centro Storico. La vitevergine, il glicine, il gelsomino si arrampicano sui montanti. Questi balconi, quando sarà buio, saranno tutti abitati, illuminati con luci e candeline; qui tutti in questa stagione mangiano all’aperto, scambiano parole e bicchieri di vino; le voci si smorzano nel silenzio della sera. L’atollo diventa quasi una “istallazione”, una scenografia sempre diversa. Qui si svolge la mia vita quotidiana che è, non solo, ma anche, “nuda vita”; è intreccio di percorsi e di spazi articolati, ma anche distinti, isola ed arcipelago; continuità e distinzione con il centro, con le chiese, la scuola, ed il palazzo dove lavoro; è una cornice in cui sono iscritte le vicende quotidiane di ogni famiglia. Qui niente è straordinario, tutto sembrerebbe inapparente, ma qui anche si possono cogliere e godere quegli istanti in cui l’eccezione singolare si ricongiunge con i gesti ed i pensieri quotidiani. Da questi balconi che mi uniscono, in qualche modo, con il mondo (c’è ancora?) mi sembra di vedere, laggiù, un io che si confronta con un me stesso diverso, che qui è disteso. È forse l’inizio di un’arte del vivere il quotidiano? Qui il mondo esterno si accalca da ogni parte all’interno o come interno tra prossimità e distanza. Eraclito, dicono, invitava i visitatori ad entrare nella propria cucina perché ivi, diceva, abitano gli dei. Io li inviterò sul


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1 “Le isole nel verde” Sestri Levante (Genova) 1996-2005 Foto B. Cattani 2 “Le isole nel verde” Sestri Levante (Genova) 1996-2005 Acquarello

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mio terrazzo a bere un bicchiere e, se non verranno, lo berrò alla loro memoria. Sestri, “Le Isole nel Verde” Quando si torna in porto, dopo una giornata in mare a pescare – qui in Liguria dicono “mare senza pesci, donne senza onore” – ci si sente, comunque sia andata, sempre reduci dall’avventura: da quella dell’Ulisse di Omero o di Joyce. A casa arrivo, quasi senza interruzione, dal vecchio carruggio (sosta per la focaccia) a questi carruggi nuovi, anche loro freschi e già in ombra. Se ritorno da Genova, dove insegno, faccio un giro nella nuova piazzetta a “cappello da prete” dove ci sono i negozi, oppure faccio un po’ di nuoto nella piscina che è parte di questo nuovo quartiere. Per queste strade ci sono passato tante volte, le conosco bene, ma oggi mi sembrano un piccolo labirinto a lieto fine e senza Minotauro; labirinto che ci porta sempre a casa attraverso un intrigo di palazzine a dado, più alte, e casette lunghe e basse, tra vie e viuzze che si incontrano in piazzette sghembe tra gli oleandri, i lecci, ed i pitosfori che si affacciano dietro ai muri e ricordano i giardini che ci accompagnano nella salita della Mandrella. Qui gli architetti volevano, forse, prendersi gioco di noi, o farci giocare, o forse ancora volevano dire che le nostre strade sono come i nostri pensieri o, come il nostro mondo: anche quando sembrano facili e sicure nascondono l’avventura; come le reti da pesca sono fatte di fili che si intrecciano, che sovente si sfilacciano si aggrovigliano, si uniscono, si allontanano. Ora, arrivato a casa, vedo il paesaggio che dal mare sale alla cresta della Punta Manara e di lì scende giù per i boschi nel nuovo parco, arriva sotto casa per arrampicarsi fin su sul mio balcone. (È per avere questa continuità verde e azzurra che hanno spostato la via Aurelia lungo la ferrovia?). La prima volta che sono venuto qui, c’era ancora il cantiere. Sono rimasto un po’ scandalizzato da queste improbabili logge che salgono, a fatica, lungo le fronti degli edifici colorate di rosa – ocra – giallo – rosso e bianco come usano da queste parti. Ora sto quassù a godermi il fresco tra gelsomini, buganvillee, plumbago che virtuosamente stanno salendo

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per contornare, anche loro, le fronti delle case. Qui su questo balcone mi piace rilassarmi. Questo luogo, questi luoghi quando li tocco con le mani o con gli occhi li sento in qualche modo come prolungamento del mio corpo o meglio sento il mio corpo continuare il paesaggio e connettersi, nella memoria, con altri luoghi, con altri paesaggi: ma è solo, forse, in questo spazio in cui si accalcano mondi e cose diverse che mi è più facile ritrovare la mia “differenza”, la mia casa, cioè il mio posto tra la prossimità delle cose e la mia distanza da esse. Peccato! (nel senso letterale). I paesaggi stanno sparendo e quindi anche gli dei sembrano essersi allontanati da noi, ma qui forse hanno lasciato le loro “vestigia” cioè le tracce della loro assenza.

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Ho sulle ginocchia i miei libri preferiti ed i giornali di oggi. È l’éstia, la casa, il fuoco, il quotidiano che avevano radicato la casa al suolo e, ancorandola, la facevano comunicare, al tempo stesso, con il cielo. Ma éstia si confronta spesso con Ermes che vive nell’agorà, nella polis, nei giornali, nelle televisioni. Il problema della politica, quello dell’architettura e quindi anche il nostro, è dunque nuotare in mezzo a queste contraddizioni. Ma anche qui, oggi, tra questi luoghi, sento di sentirmi vivere e non so se sia poco o sia tutto. Reggio Emilia, “Parco Ottavi” Sono sull’alto di questa collina artificiale che ora chiamano Agorà e che sembra la tolda di una nave, ma è un belvedere sul quale hanno sistemato i ristoranti, gli uffici, locali per le mostre e che, sotto, nella sua pancia, contiene la fermata della metropolitana ed i parcheggi. Alla base della collina la scuola, la palestra, l’asilo. Ora, dalla prua, guardando in giù il grande e lungo parco, ne riesco finalmente a leggere la forma allungata come quella di una foglia di castagno. Questa geometria mi sfuggiva quando la mattina, in qualche modo, la percorro e la ridisegno, correndo, o in bici, tra i campi, i frutteti, ed i boschetti che stanno crescendo e quando mi fermo a riposare sulle sponde del lago. In questo parco non sembra di essere tra le case di una città, ma un po’ lontani nel tempo e nello spazio, in un pezzo di quella campagna che era al di fuori delle mura di Reggio. Ma forse questa non è solo nostalgia di ciò che non c’è più ma anche e soprattutto è esperienza di ciò che potrebbe essere un frammento di futuro. Qui tutto

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sembra in bilico tra il passato ed il futuro: tentativo di una nuova cooperazione tra persone, alleanza con i luoghi e con le cose, ricerca di sensazioni e di senso. Di qui, laggiù in basso, anche se lontano, distinguo il mio balcone. In bici ora scendo dalla collina, attraverso il parco e quelle vallette verdi che, quasi tentacoli, prolungano bizzarramente la geometria della “foglia” per insinuarsi e lambire le case. Così, arrivando, mi pare di portare con me il parco e le sue suggestioni fin dentro il soggiorno. Vado subito sul balcone quasi a riprendere un discorso appena interrotto. Non so bene perché mi piace attraversare, guardare, vivere queste schegge di “natura”. (È perché poi mettiamo sempre natura tra virgolette? per tenerla stretta quando sempre ci sfugge? ne abbiamo ancora paura?) che ci portiamo nel ricordo o nel desiderio. Certo, oggi siamo gente di città, questa mia è sempre una casa di Reggio, queste strade e piazze continuano le strade e le piazze del centro. Ma qui le strade diventano corti allungate dove i bambini, vicino ai vecchi giocano tranquilli. Posso vederli se mi allontano dalla finestra che dà sul verde e mi affaccio verso l’interno di questo “fiordo”. Sto quindi tra due nature, quella vegetale che in qualche modo mi arriva dal grande parco e quella minerale, dei selciati, della pietra, dei mattoni, delle luci che portano fin qui la città. Abito l’incrocio tra due mondi che si toccano, si osservano senza fondersi, si mescolano solo nei miei pensieri. Ma forse questo luogo è una rete di illusioni, una trappola nella quale mi sono infilato, ma nella quale stasera mi piace distendermi - addormentarmi nel dolce rumore della vita -. Livorno, “Il Porto Mediceo” Quando mi hanno detto che il nostro alloggio era sistemato sopra ai negozi, ai ristoranti, agli uffici, sopra ai porticati non ero affatto contenta. Speravo in un giardino tutto mio, con nessuno sotto ai piedi o sulla testa. Ora però mi distendo su questo spazio verde alto sopra il mare, come su di uno scoglio, ma che è invece il giardino sul quale si affacciano il nostro salotto e la cucina.

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Alle volte qui credo di essere sulle mura, su bastioni sicuri che tengano lontana e mi difendono dalla folla brulicante, che, al di sotto, ci circonda e si muove, come formiche, tra il mare, i fossati, la terra. Ora mi alzo per affacciarmi giù dallo spalto e guardo il canale tra i due mari – segno nuovo di antiche “vestigia”, tracce ritrovate – poi la banchina con i dehors che prolungano i portici verso il canale: un po’ Venezia ed un po’ quella Venezia che attraversa Livorno. Poi ancora i lunghi muri di mattoni ocra, rossi, terra bruciata, i grandi arconi dei porticati segnati dal marmo bianco. Quando avrò finito di fantasticare, quando il nemico – come per fortuna sempre accade, diventerà amico – scenderò giù sulla via, richiamata da chi mi sta già facendo segno di raggiungerlo. Lo farò aspettare. Mi fermerò ancora, un po’, quassù ad ascoltare la brezza della sera che tocca il mio corpo, lo riconosce e lo unisce a questo prato di ginestre, di cisti, di oleandri che sovrasta gli spalti e incontra l’azzurro del mare e quello del cielo. Quei velieri laggiù, all’orizzonte, non sono più quelli dei miei antenati - che da queste parti erano pirati, esploratori, marinai, pescatori – ma forse sono già quelli dei miei amici lontani che vorrei, questa sera, facessero ritorno da me. Ora mi consolo pensando di abitare una città, un porto munito e disteso lungo la costa, ma anche disteso nella memoria o proteso nel desiderio di un improbabile viaggio: viaggio con biglietto di andata e ritorno ad Itaca/Livorno, viaggio di sola andata di chi passa fra le bellissime gambe di Ercole? Così non so più se la mia casa stia ruotando nel cerchio dell’eterno viaggiare, dove si arriva per subito ripartire (per riprodurre se stessi e gli altri) o se sia l’origine o la méta mai raggiunta. O ancora: stare a casa è mettere per qualche istante, il divenire e, nel quotidiano, ristare, essere? Allora in questa casa, in questo “immobile” nel tempo e nello spazio, sembrano precipitare, come in un imbuto, i tempi della Storia, quelli delle mie tante “storie”, insieme a quelli delle memorie dei luoghi che qui si conservano: quelle dei valorosissimi cantieri Orlando, dei bacini di carenaggio dell’immensa grù, delle

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Pagine precedenti: 3 “Le Isole del Parco” Valdocco sud, Torino 1999 - 2005 Prospetto 4 Parco degli Ottavi Reggio Emilia 2001 in corso, con CCDP Srl Plastico 5-6 Parco degli Ottavi Reggio Emilia 2001 in corso, con CCDP Srl Acquarello e assonometria 7-8 Porto Mediceo e Porta sud Livorno 2003 in corso, con S. Cobolli Gigli, R. Monico e D. Caldara Prospettiva e planimetria

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Pagine successive: 9 - 10 - 11 Bocca d’Arno Marina di Pisa (Pisa) 2004-in corso con Capolei Cavalli Acquarello, prospetto, planimetria

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mura e delle porte, di un passato ricco di bellezza di lavoro e di forza, ma anche denso di violenze, di guerre, di fame. Forse questo passato di bellezze e di violenze traluce, inatteso, in questi luoghi e ne disegna la fascinazione di futuri possibili: è forse riposando nelle nostre case, guardando queste stanze, questo armadio, la cucina, o la mia biblioteca che potremmo, al di là della violenza, decidere come e dove vorremmo vivere. Così questi alloggi duplex queste, nostre case possono, insieme, nello spazio della città diventare una nostra antica ma moderna fortezza. Ma ora scendo, gli amici mi stanno di nuovo chiamando; stasera spero di divertirmi. Marina di Pisa, “Bocca d’Arno” Da dove, da quali lontananze siamo approdati in questo luogo? Chissà se i nostri antenati sono usciti dai boschi, o, come diceva Calvino, sono emersi dal mare, o se sono discesi con le acque da questo fiume – che una volta era mare, fiume, porto, palude – oppure, ancora, sono stati portati su queste spiagge dal vento di libeccio? Forse invece è stato il piccolo Big Bang, quello del motore a scoppio che ha dato spazio ai motoscafi ed alle auto, che ci ha guidati qui dal mare o dalle autostrade (ma ci sono anche le vele e le bici). Quindi, più probabilmente, arriviamo qui cacciati dagli ingorghi della città, dagli uffici e dai lavori stressanti, in cerca di altri ritmi, di altri spazi. Come che sia, mi trovo in questo luogo, nel mezzo dei tanti segni e dei sistemi che qui si incrociano e che da questo incontro acquistano nuovi sensi: qui quasi si toccano i Parchi di Migliarino, San Rossore, Tombolo, l’Arno, il Tirreno, le strade. Il nuovo porto si apre al mare ridisegnando la costa riprendendone un antico segno. Qui è difficile dire dove finisce la casa, e dove comincia la città, il giardino, il parco, le piazze. Essere a casa non è soltanto muoversi tra il soggiorno ed il terrazzo; ci sentiamo già a casa quando passiamo tra le nuove e vecchie case di Marina di Pisa, quando, senza quasi accorgerci, seguiamo le antiche strade, Via Maiorca, Via della Foce, che conti-

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nuano nelle nuove e che disegnano gli isolati e quel reticolo urbano il quale via via che si allontana dal centro, va sfilacciandosi e riarticolandosi nell’incontro con i boschetti di lecci, di tamerici (o Gabriele, qui sei stato, poeta!) e pitosfori; vie, sentieri al fondo dei quali traluce l’azzurro del mare. Abito qui quasi tutto l’anno e qui distendo la mia vita, ormai lunga (et in Arcadia ego?). La mia faccia è un po’ come le fronti delle palazzine che prospettano sulle vie, un po’ quinta sbiancata dal tempo, dalla salsedine – svaniscono i corpi in un fluire di tinte -: maschera che, alla sera, sembra far conversazione con quelle più vecchiette e valorose di Marina. Un po’ ci si ascolta e un po’ – da veri pisani – ci si canzona con affetto, senza troppo aprirsi alla confidenza, ma incrociando amicizie, ricordi, desideri.

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Quando, però, mi ritiro nel mio giardino – arrivo alla mia casa dall’interno dell’isolato, quindi da un porto nel porto – ritrovo il mio carattere ed i miei vizi quotidiani: mi sento persona, lascio fluire ricordi attendendo il vento del tramonto. In questo incavo in questa corte giardino si accalcano all’interno, o come interno, altri mondi tra prossimità – colori, trame, riflessi, pieghe, superfici - e distanza – che i nostri sensi decidono, separazioni tra le cose, tra i frammenti tra i desideri e tra le immagini -. In questi paesaggi ci accorgiamo che le cose, le case, le stanze, i mobili non stanno, non occupano più i luoghi, ma sono esse stesse il luogo. Così anche il bosco, il fiume, il mare e le strade connettono e dividono tra loro le isole di questo arcipelago urbano ridisegnando uno spazio comune, tra appartenenza ed estraneità: spazio che una volta era del sacro, del mito, ma anche della violenza e delle catastrofi. Spazio che oggi vorremmo della norma e della convivenza, cioè che vorremmo paesaggio non solo estetico, ma etico, unione di sguardi di chi vuole, nella pace, abitare la terre des hommes.1

1 In questi racconti si trovano, mescolate, osservazioni vere, altre immaginate, altre false. Anche le citazioni “colte” sono frutto di cattiva memoria più che di filologie attente. Ho quindi preferito lasciare il tutto nella nebbia dell’anonimato i lavori citati sono dello studio Isolarchitetti.

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Le origini della casa popolare a Firenze fra iniziativa pubblica e filantropia privata. Una rilettura. Grazia Gobbi Sica

La questione dell’abitazione popolare in Italia, com’è noto, prende consistenza nelle maggiori città intorno al 1880, ancor prima del manifestarsi di quel rapporto organico fra urbanesimo e industrializzazione che finirà per porre in primo piano, fra i fattori di organizzazione della città moderna, il problema dell’alloggio operaio. Accanto alle circostanze di ordine generale, quali la crescita della popolazione urbana, le operazioni imprenditoriali all’interno delle città, la competizione per le localizzazioni centrali, l’aumento di valore delle aree fabbricabili e l’aumento dei fitti, si individuano, come specifico fattore dell’acutizzarsi del problema abitativo dei ceti più poveri, le operazioni di rinnovamento urbano attuate dalle municipalità che portano alla luce e incrementano le fasce sociali dell’indigenza. Pauperismo, mendicità, conseguenze o elementi collaterali della mancanza di abitazioni disponibili, sono le prime forme in cui la questione sociale si pone di fronte agli occhi della borghesia urbana. La politica dell’alloggio appare, più o meno lucidamente, alle classi dominanti uno strumento capace di superare qualitativamente le forme tradizionali di sussidio e di carità pubblica o religiosa, e l’unico in grado di stemperare nello spazio e cancellare dalla scena urbana le spinte potenzialmente più aggressive del bisogno sociale. Espressione tra le più rilevanti della città ottocentesca, la casa popolare è anche parametro fondamentale del suo funzionamento; con la riflessione sull’habitat destinato ai ceti poveri si apre la strada allo studio e alla sperimentazione tipologica che troverà campo di applicazione tra i più significativi nella città moderna.

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In questo settore, nonostante la sua dimensione provinciale e la sostanziale assenza di un vero e proprio “ceto operaio”, Firenze offre all’indagine alcuni spunti non privi di interesse. Le iniziative nel campo dell’abitazione popolare avevano avuto avvio a Firenze intorno alla metà dell’Ottocento; promosse da una lungimirante visione imprenditoriale cui non erano estranei moventi speculativi, si erano concretizzate nella fondazione della Società Anonima Edificatrice avvenuta nel 1848 per opera dell’ingegner Enrico Guidotti associato nell’impresa a Giovanni Sandrini e al marchese Carlo Torrigiani. Al Guidotti, solido professionista operante fra Firenze e Livorno, che sarà più tardi, a unità avvenuta, autore di numerosi edifici nella ricostruzione del centro e direttore, nel 1877, della Florence Land Company, non era sfuggito lo spazio operativo offerto da un settore, ancora poco esplorato, in una città in cui il fabbisogno abitativo non era legato alla presenza di una classe operaia numericamente rilevante. La Società Anonima Edificatrice aveva come finalità statutaria la costruzione di case per le classi popolari. Va detto, tuttavia, che il ceto al quale gli edifici realizzati si offrivano comprendeva categorie sociali non propriamente popolari ma piuttosto quel ceto artigianale abbastanza numeroso, in grado di pagare un affitto, sia pure modesto. L’ attività della Società si realizza in diverse parti della città, in molti casi anche attraverso la cessione dei terreni da parte del Comune, come nel quartiere della Mattonaia. L’ubicazione dei complessi edilizi era senz’altro pregevole, spesso prospiciente i nuovi viali o nelle aree limitrofe.1 Il proponimento di “rilanciare l’arte mu-

1 L’isolato della Società Anonima Edificatrice realizzato nel quartiere delle Cascine fra via Montebello, via Garibaldi, via Magenta in una veduta attuale (foto Enzo Crestini) Pagine successive: 2-3 Il fabbricato contenente varie botteghe e n.130 abitazioni eretto nel nuovo quartiere delle Cascine dalla Società Anonima Edificatrice su progetto dell’architetto Enrico Guidotti. In alto facciata e sezione dell’asilo infantile e facciata principale sulla via Montebello. In basso icnografia del piano terreno. La fabbrica, iniziata il 1° luglio 1862 fu interamente abitata il 1° maggio 1864 4 Fabbricato contenente vari magazzini e n. 101 abitazioni per la classe bisognosa, eretto in Firenze nel quartiere di Barbano (architetto Enrico Guidotti) 5 Fabbricato contenente varie botteghe e n. 50 abitazioni eretto in Firenze in via del Campuccio. In alto, la facciata su via del Campuccio, in basso, a sinistra icnografia del piano terreno, a destra del primo, secondo e terzo piano. La fabbrica, iniziata il I° novembre 1867 fu interamente abitata il 1° novembre 1868. Le illustrazioni sono conservate all’Archivio Storico del Comune di Firenze (Busta MED 154). La pubblicazione è stata gentilmente autorizzata dalla direzione dell’Archivio Storico del Comune di Firenze, che si ringrazia sentitamente insieme al personale che ha prestato la sua collaborazione



raria” a Firenze, attraverso modelli tipologici fino ad allora sconosciuti localmente, veniva al Guidotti dalla sua conoscenza delle realizzazioni straniere, belghe e francesi, e il primo “vasto fabbricato divisibile in sezioni, case, piani e quartieri di modiche pigioni” costruito nel quartiere di Barbano e destinato agli artigiani tessitori, introduce in città il tipo aggregativo in linea a blocco chiuso con cortili interni che viene a qualificarsi come un prototipo nel settore dell’edilizia popolare locale. Il fabbricato, situato tra viale Filippo Strozzi, via Dolfi, via di Barbano e via XXVII Aprile “contenente vari magazzini e n. 101 abitazioni per la classe bisognosa” è realizzato fra il 1849 e il ’51; originariamente di tre piani verrà sopraelevato di un piano nel 1868 per un totale di 132 alloggi. Il primo complesso viene seguito ben presto da un intervento localizzato nel nuovo quartiere delle Cascine posto fra via Montebello via Garibaldi e via Magenta: completato nel 1862, questo ripete la tipologia del precedente e al piano terra è in parte adibito ad uso scolastico. Negli anni successivi l’attività della Società si accelera: non va dimenticato che il trasferimento della capitale a Firenze aveva mosso una necessità di case improvvisamente assai più elevata. Il numero degli abitanti era passato dai 114.363 del 1861 ai 174.774 del 1866; la contrazione seguita con lo spostamento della capitale a Roma non aveva tuttavia ridimensionato il fabbisogno di alloggi reso più drammatico dalle demolizioni intraprese nel 1870 per la costruzione del mercato centrale delle vettovaglie. Ai primi due complessi realizzati nel quartiere di Barbano e in quello delle Cascine fa seguito un terzo blocco posto fra via Pier Capponi, viale Don Minzoni, via fra’ Bartolomeo e via Leonardo da Vinci, realizzato fra il 1865-66 e il 1867-68 comprendente 596 vani e anch’esso in parte adibito ad uso scolastico. Negli stessi anni –1865-66 –viene realizzato un altro complesso nel nuovo quartiere della Mattonaia, all’angolo tra via Niccolini e via della Mattonaia di 524 vani; mentre l’Oltrarno viene interessato da un edificio in via del Campuccio costruito fra il 1867 e il ’68 e da uno in via G. Paolo Orsini e via Baldovini che sarà demolito quasi un secolo più tardi a causa dei danni subiti nell’alluvione del 1966. Un altro blocco interessa l’Oltrarno, realizzato fra via Cavallotti e via Pisana nel 1869. Altri interventi saranno ubicati alla Piagentina, tra via Arnolfo, via Giovanni Angelico e via Cimabue, nel quartiere Savonarola e a Porta Pinti, tra Piazza

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Donatello, via La Farina e via dei Della Robbia: gli edifici “popolari” si mescolano con le nuove residenze della borghesia in fregio ai viali e nelle zone di espansione previste dal piano Poggi.2 I due edifici a San Jacopino e via del Ponte all’Asse costruiti nel 1869-70 saranno distrutti nel 1944 a causa degli eventi bellici. In totale gli edifici costruiti dalla Società Anonima Edificatrice alloggeranno 773 famiglie e oltre 3000 persone.3 L’attività della Società Anonima Edificatrice presenta due aspetti degni di interesse: quello urbanistico, in quanto va ad investire i nuovi quartieri programmati (Barbano, Cascine e in seguito Mattonaia) e le zone di espansione immediatamente esterne al centro che col piano Poggi diverranno preferenziali per la residenza borghese, e quello tipologico, nell’introduzione, come si è detto, di un modello assolutamente nuovo a Firenze: il blocco multipiano a cortile chiuso con corti interne, ripetuto nelle diverse situazioni e adattato ai differenti contesti. L’abbandono traumatico del ruolo di capitale, che, com’è noto, lascia nella città oltre all’amarezza della perdita, uno strascico considerevole di debiti, e una crisi politica che travalica i confini locali, allargandosi al governo del giovane stato unitario, non ha comunque ridimensionato il fabbisogno abitativo, improvvisamente aumentato dalla sconvolgente operazione di demolizione del Mercato Vecchio, che colpisce senza alternativa i quartieri più antichi e le fasce più povere della popolazione insediate nell’area. Intorno al 1880 prende consistenza la ridda di proposte riguardanti la zona del Mercato Vecchio e del Ghetto. Nonostante le numerose proteste che si levano contro l’ operazione, soprattutto fra le personalità emergenti della colonia di residenti stranieri,4 nel 1885 hanno inizio le demolizioni. Non appare dunque casuale il fatto che il 1885 segni anche l’avvio di due iniziative di tipo diverso orientate a fronteggiare la mancanza di case per i meno abbienti. Si tratta della proposta avanzata da due tecnici al municipio e della costituzione di una associazione caritatevole privata; se la prima è destinata a restare sulla carta, la seconda, viceversa, nell’arco di alcuni anni realizzerà un numero cospicuo di alloggi nelle diverse zone della periferia. La proposta presentata al Municipio di Firenze dall’architetto Piero Berti e dall’ingegner Gino Casini5 si configura come un tentativo di dare al problema abitativo una risposta in qualche modo

coordinata alle previsioni di espansione urbana, tale da coinvolgere l’ente pubblico nella gestione di una operazione globale di sviluppo. Questo appare l’aspetto più significativo del piano che tendenzialmente vede nell’alloggio popolare un elemento fondamentale fra i fattori di organizzazione della città “Il Comune potrà coordinare fra loro i due fattori (lato tecnico e lato economico) della trasformazione materiale di una parte della città, che sono l’uno all’altro così intimamente collegati; e potrà coordinare quelle nuove costruzioni al piano edilizio in rapporto al suo stato presente e in rapporto all’evenienza dei suoi futuri ingrandimenti”.6 Se ordine pubblico, morale sociale ed efficienza produttiva sono i punti di partenza dai quali muove il movimento riformista-conservatore nel campo dell’housing a livello europeo, la proposta presentata dai due tecnici fiorentini non si discosta troppo, in questo senso, dai termini su cui si articola il dibattito. La necessità di rialloggiare la popolazione allontanata dal vecchio centro “per ragioni di igiene, di moralità e di decoro” si propone al contempo l’obbiettivo di non riprodurre gli inconvenienti sociali di una concentrazione di classe simile a quella precedente, decentrando quindi opportunamente le aree da investire con questa iniziativa, senza tuttavia intaccare le zone privilegiate dalle classi abbienti. È evidente che non potendo rivolgersi alle zone migliori della città, le case economiche andranno ubicate in periferia e collocate addirittura al di fuori della cinta daziaria, nei casi in cui questa non sia troppo lontana dall’area edificata, un po’ ipocritamente “per far risparmiare alle classi povere il dazio d’ingresso dei generi di quotidiano consumo” e ai costruttori quello sui materiali da costruzione. L’esproprio per ragioni di pubblica utilità delle aree investite dall’operazione nell’ambito delle previsioni del piano regolatore è lo strumento che i tecnici suggeriscono, così come la cessione gratuita dei lotti per la costruzione delle case economiche e la vendita dei lotti per le costruzioni private, in modo da compensare le spese per l’esproprio e per l’urbanizzazione dei suoli. Le aree individuate come ottimali per l’ubicazione delle case economiche si localizzano in tre parti della città: fuori porta San Frediano, nel tratto compreso fra il viale da porta S. Frediano a porta Romana, via Pisana e Monte Oliveto; fuori della barriera S. Niccolò, nei terreni retrostanti il sobborgo della Colonna; nel


quartiere San Jacopino, fra la piazza omonima e la via del Ponte alle Mosse. Quest’ultima zona, per la vicinanza a quella che si può considerare l’area industriale di Firenze per la presenza dei Macelli, delle Officine ferroviarie, della Manifattura Tabacchi e dello scalo merci di Porta al Prato, si configura come la più idonea all’insediamento della classe lavoratrice. La zona alla Colonna, caratterizzata dalle buone condizioni igieniche rispetto agli altri suburbi, conferma una scelta già in atto di localizzazione della residenza operaia fuori dalla cinta daziaria che in questi anni segue il percorso dei canali (Macinante, Mugnone, Affrico) quali confini naturali, e del nuovo tracciato ferroviario previsto dal piano Poggi, mentre Oltrarno ripercorre press’a poco l’andamento delle antiche mura. La zona fuori porta San Frediano si presenta idonea allo spostamento della popolazione insediata fra via Guicciardini e via Maggio, oggetto negli stessi anni di un programma di demolizione.7 La proposta Berti-Casini prevede anche l’apertura di nuove strade: nel quartiere di San Jacopino il prolungamento della via Spontini e l’apertura di una nuova via da qui alla via del Ponte alle Mosse; nella zona della Colonna un tronco dalla via di Ripoli alla via di Villamagna; mentre “per la località nel sobborgo di San Frediano… una nuova strada che staccandosi dal viale Petrarca, esterno alle mura urbane, e dirigendosi secondo il prolungamento di quel tratto medesimo che va a Porta Romana, andrebbe a congiungersi alla via Pisana in corrispondenza dell’imbocco della via dei Navicellai, poco al di sotto dell’imbocco della via che conduce al Ponte Sospeso”.8 Quanto alla tipologia degli edifici previsti, la proposta Berti- Casini si orienta fra i modelli offerti dalle realizzazioni contemporanee dei paesi industrializzati,- l’isolato a forte densità e la casetta isolata,- su una scelta “di mezzo”: un tipo cioè “che tanto per il numero dei piani e dei quartieri, quanto per la forma complessiva e per la distribuzione interna, possa conciliare nel miglior modo i riguardi dell’economia con quelli indispensabili di igiene e di comodità” suggerendo il blocco multipiano in linea con 2 /3 alloggi per piano. “La casa economica tipo da noi progettata – recita la relazione dei due tecnici – occupa un’area rettangolare a contatto della nuova strada della lunghezza di circa m.40 e della profondità di m.10. A tergo del fabbricato un’area della stessa lunghezza, e che si estende altri m. 10 in

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profondità, contiene tanti orti cinti e divisi da muri quanti sono i quartieri al piano terreno… Si offre alle famiglie che abiteranno il piano terreno, una risorsa dell’economia domestica e il mezzo di godere un diletto igienico e di togliere i fanciulli alle attrattive della via. Anche l’intento di combattere certe abitudini poco civili dei futuri abitatori delle Case Economiche può avvantaggiarsi della presenza degli orti. L’uso per esempio di gettare sporcizie ed oggetti inutili dalla finestra, una volta reso più difficile dalla parte della via, non mancherebbe di praticarsi sul risedio tergale riducendolo un immondezzaio, se la presenza degli orti non obbligasse a speciali riguardi. Il fabbricato è doppio, cioè le stanze sono tutte o sul davanti o sul tergo. Questo sistema, che evita gli ambienti interni e permette una facile ventilazione, ha un’importanza essenziale dal lato igienico; e merita perciò una assoluta preferenza in costruzioni di questa specie. Quanto al numero di piani (quattro) noi lo abbiamo adottato perché crediamo che quel limite sia giusto e che permetta di raggiungere l’economia senza scapito dell’idoneità della costruzione, purché si curi convenientemente la disposizione interna della medesima. Infatti è chiaro, che sull’inconveniente della soverchia agglomerazione, più che il numero dei piani del fabbricato, influisce il numero dei quartieri aventi l’accesso in comune…. Due muri trasversali a L dividono il fabbricato in tre parti, delle quali quella centrale è più grande delle due laterali simmetriche fra loro. Ciascuna parte è provvista di un ingresso e di scale distinte, onde evitare la comunione dell’accesso fra molti quartieri; la scala di mezzo serve a nove quartieri; ciascuna delle altre due a otto. Nella parte centrale sono due quartieri di quattro stanze a ciascun piano, tranne che all’ultimo, per il quale è stata studiata una diversa disposizione, onde avere quartieri più piccoli, per sopperire al bisogno delle famiglie più povere, offrendo loro quartieri a bassissimo prezzo. Le parti laterali hanno a ciascun piano due quartieri di due stanze. Così l’intero fabbricato consta di 25 quartieri, dei quali 17 di due stanze, 6 di quattro stanze e 2 di 3 stanze, e in totale comprende 64 stanze”.9 La proposta Berti-Casini presenta un progetto studiato con grande cura in tutti i suoi dettagli costruttivi ed economici corredato di analisi e perizie; essa resterà sulla carta; tuttavia è importante sotto due punti di vista: perché insiste, come si è detto, sul coordinamento fra

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edilizia popolare e gestione del piano di sviluppo urbano e perché sollecita il Municipio ad assumere un ruolo non passivo su questo punto, ricordandogli la facoltà di esproprio per pubblica utilità e invitandolo a dare inizio a una “partita di giro” autofinanziata in cui la vendita dei lotti ai privati possa compensare le spese di urbanizzazione e la cessione gratuita dei suoli per la costruzione delle case economiche che è affidata all’iniziativa privata. Per questa il progetto Berti-Casini arriva a definire il frutto del capitale investito nel 3,85%; che se non è “bastante ad eccitare il concorso dei capitali destinati alla speculazione, è così poco al di sotto di quello medio d’impiego di molti altri capitali, da raggiungerlo in un prossimo avvenire”.10 In questo modo, l’intervento del capitale privato, con un investimento sufficientemente remunerativo, renderebbe possibile il programma “sociale” formulato da questa proposta, le cui scelte localizzative sono già indicative di un orientamento che guiderà in futuro la politica pubblica dell’abitazione a basso costo, intesa come strumento di decentramento delle classi popolari. Ma i tempi non sono maturi. Più di venti anni separano infatti la proposta BertiCasini dalla Inchiesta sulle abitazioni popolari del 1907 promossa dalla giunta democratica insediatasi l’anno precedente al Comune di Firenze. I dati emersi dall’inchiesta riveleranno le condizioni drammatiche di vita dovute alla insalubrità delle abitazioni, al sovraffollamento, alla diffusione epidemica di malattie infettive. Dalle statistiche mediche Firenze risulterà la seconda città italiana per tasso di mortalità dovuto alla tubercolosi. Le conclusioni dell’inchiesta sul “Tracoma nelle scuole municipali elementari nell’anno 1907-1908” riconoscono che “le condizioni igieniche nelle quali vivono i figli del popolo sono disgraziate davvero”. Da qui prenderà l’avvio la costituzione dell’Istituto autonomo Case Popolari di Firenze che ha la sua data di nascita nel 1909. Ma torniamo all’anno 1885 e alla seconda iniziativa: la costituzione del “Comitato per le case ad uso degli indigenti” da parte di un gruppo di notabili fiorentini che si prefigge lo scopo istituzionale di provvedere alla costruzione di “modeste e sane abitazioni per il popolo”, per alloggiare la popolazione residente nelle “miserabili case” del centro che di lì a poco verrà demolito.11 L’operazione speculativa del centro vedrà coinvolti anche alcuni personaggi che aderiscono al

comitato, tra questi l’architetto Buonamici che sarà il progettista, a titolo gratuito, dei primi complessi realizzati mentre nel frattempo acquista edifici da demolire, sulle cui aree è prevista la nuova edificazione, intorno alla piazza del mercato vecchio.12 Il 6 gennaio 1885 il nuovo comitato pubblica il Manifesto che invita i cittadini di Firenze a contribuire con offerte all’iniziativa: “Il risanamento del Centro e dei Camaldoli di S. Frediano è questione di decoro, di salute e di moralità. Voi lo sapete; in quei luoghi si agglomera una miseranda popolazione senza sole, senza aria, quasi senza luce morale. Da quei centri si diramano pericolose infezioni di varia natura. Pensateci; oggi che tutto ciò fu posto a nudo, Firenze come soggiorno desideroso e prediletto, va a scapitare non poco nelle attrattive, che natura e arte le prodigarono. Non indugiamo a liberarci da questa piaga obbrobriosa, che in vari modi ci contamina e nuoce”.13 Lo statuto viene approvato il 12 aprile 1885. Esso stabilisce la costruzione oltre che di case d’abitazione anche di “ricoveri e dormentori”, prevedendo che “La istituzione de’ dormentori, pei quali si possa, durante la notte, dare a chi sia privo di casa e di letto, ospitalità o temporaneamente gratuita o per un tenue corrispettivo, dovrà essere attuata, estesa, ridotta sospesa o anche soppressa, secondo che le condizioni della popolazione, cui i dormentori dovrebbero servire, e gli usi, e i bisogni della città lo comportano e lo richiedano”.14 Un primo dormentorio viene realizzato nel giugno 1885 prendendo in affitto in via dell’Ardiglione un ampio locale, ben arieggiato, dove vengono sistemati 52 letti. Un secondo dormentorio era previsto in un locale di via Alamanni acquistato nel gennaio 1890 da fratelli De Larderel, ma fin dal luglio 1890 viene deliberata la chiusura dei dormentori ritenendoli non più rispondenti allo scopo, in quanto frequentati solo da pregiudicati. L’attività del comitato si limiterà d’ora in poi alla sola costruzione di alloggi. Presidente del Comitato è il marchese Carlo Ginori; tra i componenti, numerosi gli esponenti della nobiltà locale, della imprenditorialità, e alcuni personaggi di spicco della comunità internazionale residente a Firenze come il principe Paolo Demidoff, assai noto per le sue iniziative filantropiche oltre che per le immense ricchezze, e Federigo Stibbert, anglo-fiorentino dedito, oltre che al collezionismo, ai viaggi e agli affari internazionali, anche alla promozione di iniziative civili e filantropiche, attraverso l’elargizione di consistenti aiu-


ti economici alla erigenda facciata di Santa Maria del Fiore e alla partecipazione al Comitato.15 Le motivazioni del Comitato sono di tipo moralistico assistenziale, in chiave con l’orientamento di analoghe iniziative assunte intorno alla metà del secolo da enti e associazioni private in altre città italiane, ma soprattutto in Inghilterra. Appare verosimile quindi, interpretare la presenza dello Stibbert nel comitato promotore come trait-d’union per l’introduzione delle esperienze internazionali in sede locale. La Metropolitan Association for Improving the Dwellings of the Industrious Classes, fondata a Londra nel 1841 sembra costituire modello di riferimento per le realizzazioni del Comitato. Ma, per quanto concerne la conoscenza dei modelli anglosassoni, non va dimenticato che Henry Roberts, uno dei principali teorici del movimento e autore, come architetto di tutti gli edifici progettati e realizzati dalla Metropolitan Association, abbandonando l’Inghilterra per motivi di salute, si era trasferito intorno al 1853 a Firenze, dove morirà nel 1876. L’azione condotta da Henry Roberts e in particolare la sua indagine sulla questione degli alloggi diviene punto di riferimento a livello europeo ponendo l’attenzione non solo sui modelli tipologici ma anche sull’organizzazione della città. Non siamo in grado al momento di documentare, in assenza di più approfondite ricerche, le relazioni dell’architetto inglese con la comunità locale. Non pare tuttavia improprio considerare la produzione edilizia del Comitato alla luce degli scambi che la vivace e numerosa comunità anglosassone intratteneva con la locale nobiltà: scambi che sicuramente la presenza di un personaggio come Frederick Stibbert, attivamente coinvolto nella vita cittadina e più in generale italiana, influenzerà con il sorgere e il consolidarsi della singolare istituzione. “È necessario per le famiglie da bene, gettate nella sventura in balia di miserie durissime e tentatrici, promuovere e procurare la costruzione di case modeste, nelle quali, riacceso il fuoco dei domestici affetti, riaperto l’animo alla speranza, alla fede, alla dignità, anche l’amore del risparmio sia leva potente con l’allettamento di far propria l’abitazione pagandone, in un corso di anni, il tenue costo insieme colla regolare corresponsione di miti pigioni. Case nelle quali, col soccorso della carità che educa, istruisce ed incoraggia, gli uomini siano onesti, laboriosi sobrii, le donne buone madri di famiglia, i figli rispettosi e

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disciplinati” Così recita il Manifesto chiaramente ispirato ai principi caritativi che in questo periodo improntano la problematica dell’housing.16 Gli interventi realizzati dal Comitato si modellano sugli esempi anglosassoni del tipo a caserma multipiano e sono dotati di servizi collettivi nel cortile. Un primo blocco di abitazioni viene costruito su un terreno acquistato nel marzo 1886 fuori porta San Frediano, in via Monte Oliveto. Il complesso è progettato dall’architetto Luigi Buonamici, già assistente del Guidotti in qualità di ingegnere capo dell’Ufficio Tecnico della società Inglese di Costruzioni, e membro del consiglio direttivo del Comitato. Il blocco di via Monte Oliveto comprende quaranta alloggi distribuiti su quattro piani. Gli alloggi, di taglio variabile da due a tre vani sono dotati di latrina e terrazza. Al piano terra i cortili alloggiano le attrezzature collettive consistenti in lavatoi per ogni gruppo di otto appartamenti. A questa prima realizzazione fa seguito, l’anno seguente, una seconda che utilizza lo stesso progetto del Buonamici: questa si localizza in via Ponte Sospeso al Pignone, su un terreno munificamente donato dal principe Piero Strozzi e comprende ventiquattro alloggi da due a quattro vani.17 Nel 1889, all’angolo tra via Pisana e via Monte Oliveto viene costruito un terzo blocco da sedici alloggi con le stesse caratteristiche dei precedenti. L’attività del Comitato prosegue ininterrotta e nel 1890 vengono eretti due nuovi complessi, in via Spontini e in via Arnolfo. I terreni su cui sorgono i nuovi edifici erano stati acquistati fin dal 1885 dalla Cassa di Risparmio: circa trentamila metri quadrati localizzati in via Spontini fuori porta al Prato, in via Arnolfo alla Piagentina e in via Cento Stelle presso la piazza d’Armi (attuale Campo di Marte). Un altro terreno verrà acquistato sempre dalla Cassa di Risparmio alla Barriera Settignanese, all’angolo di via Mannelli con via del Cenacolo. Tutte le localizzazioni, relazionate al contemporaneo sviluppo della città risultano in quegli anni estremamente periferiche. I nuovi complessi saranno progettati dall’architetto Corinto Corinti, figura professionale di spicco nella Firenze di fine secolo.18 Accanto all’attività di restauro a Firenze e in Toscana, si segnala la sua opera di progettista per l’edilizia popolare che oltre che a Firenze si svilupperà a Bologna. Qui il Corinti, divenuto direttore dell’Istituto autonomo Case Popolari nel 1912 “permise che fosse dall’istituto eseguito un suo pro-

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getto che aveva altrove incontrato approvazione e plauso”.19 I progetti del Corinti, che egli stesso pubblicherà nel 1890 in un album illustrato: “Fabbricato di piccoli quartieri da costruirsi in Firenze a cura del Comitato per le costruzioni necessarie a ricoverare le classi indigenti”, ci dicono della onesta qualità abitativa delle costruzioni realizzate dal Comitato, della loro possibilità di integrarsi facilmente con il tessuto edilizio suburbano: un paramento esterno neutro, senza lo spreco di una decorazione; un cortile interno ad ampi loggiati; una planimetria essenziale, capace di un certo grado di flessibilità nella aggregazione degli ambienti al nucleo cucina/servizi igienici. Non meraviglia che queste realizzazioni potessero essere indicate come esemplare modello da Pasquale Villari nelle pagine appassionate che egli dedica alla situazione di Napoli dopo gli interventi della Società per il Risanamento: “quando a Firenze venne demolito l’antico mercato, si presentò un problema analogo (a quello di Napoli) ma in proporzioni minime, e in condizioni infinitamente meno difficili. Sorse allora una benemerita società privata, che raccolse dalla pubblica carità circa 750.000 lire con le quali ha costruito 80 case per i poveri e ne sta costruendo altre 40. Il Municipio inoltre ha già promesso di mettere nel suo bilancio una prima rata di 250.000 lire da doversi per parecchi anni ripetere a fine di costruire altre case. Questo è il sol modo di risolvere davvero il problema. Il non aver preso a Napoli questa via, destinando cioè ai poveri “una parte dei cento milioni, a capitale perduto”, fu la prima origine dei mali che ora da tutti amaramente si deplorano…. Io le vidi (le case degli indigenti) dopo quelle di Napoli. Qual differenza! Ogni casa non ha mai più di 10 o 12 quartieri. Alcune ne hanno solo 5 o 6. Da una parte c’è la strada, dall’altra c’è l’aperta campagna. Quasi tutti i quartieri hanno lunghi e larghi balconi, o vere terrazze coperte…. V’è inoltre una corte assai larga, nella quale possono scendere a giocare tutti i bimbi del casamento. In essa non manca mai un lavatoio coperto da tettoia, ad uso comune delle varie famiglie. La cucina non ha lusso alcuno, ma tutte le cose necessarie al povero. C’è l’acquaio; c’è, sotto il focolare, non solo il luogo pel carbone, ma quello anche per la spazzatura; c’è la cappa del camino, con un condotto separato per ciascuna cucina. Invece di tre o quattro fornelli “alla francese”, ce n’è qualche volta uno

solo “paesano”, qualche volta due nei quartieri di più stanze. Né mai si è sentito il bisogno d’averne un numero maggiore da quei poveri, che pure sono in condizioni tanto migliori dei nostri. E con tutto ciò si paga solamente una lira la settimana per un quartiere d’una camera e cucina (le case costruite a Napoli dalla Società del Risanamento, nello stesso periodo, costano 15 lire al mese per alloggi di una stanza e cucina). Il marchese Gerini, che ebbe la cortesia di accompagnarmi a vedere quelle case, ed è uno dei benemeriti direttori della filantropica società, mi disse che, dopo lungo e maturo esame, avevano dovuto limitare il fitto a mezza lira la settimana per stanza, sebbene il prezzo di costruzione, senza tener conto del terreno, che fu donato dal principe Strozzi, fosse di lire 700 per stanza. E ciò perché si era accertato che il povero non poteva assolutamente pagare di più. Vedere come sono felici in quelle case, sentire le benedizioni che mandano alla Società, e pensare a ciò che avverrà a Napoli, fa davvero stringere il cuore”. Così lo storico napoletano, attento e partecipe studioso della questione meridionale esprimeva la sua ammirazione per le realizzazioni fiorentine.20 Se l’attività del Comitato ci mette di fronte ad una sequenza di operazioni disgiunte, nate ciascuna dall’occasione dell’acquisto o della donazione di un terreno edificabile ubicato in zone periferiche, va tuttavia preso atto della continuità con la quale la produzione di alloggi si realizza considerando che dal 1886 al 1916, vengono costruite 390 abitazioni che alloggiano un totale di 1911 persone. In queste realizzazioni è stata investita la somma di L. 1.164.774 raccolta da lasciti, sottoscrizioni, beneficenza cittadina e dai mutui concessi a condizioni di favore dalla locale Cassa di Risparmio. Alle soglie della prima guerra mondiale, l’iniziativa pubblica nel campo dell’housing è avviata, anche a Firenze, con la costituzione dell’Ente Autonomo Case Popolari, approvato dal Consiglio Comunale nell’aprile 1909. Le prime realizzazioni dell’Ente sono completate nel 1911 con i complessi di via Bronzino a San Frediano, via Rubieri al Campo di Marte e via Erbosa a Bagno a Ripoli. La localizzazione in aree periferiche, addirittura al di fuori del comune come nel caso di via Erbosa, risponde al criterio di dispersione in zone non appetibili dall’edilizia borghese. I progetti dell’ingegner Ugo Giovannozzi, che dirige l’ufficio tecnico dalla sua istituzione fino al 1928, sono largamente ispirati allo schema del


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Corinti per le case degli indigenti. L’Ente fiorentino, che al pari degli altri organismi a livello nazionale è previsto dalla legge come “filantropico nei fini ed economico nei mezzi” attua una politica discriminante all’interno delle stratificazioni sociali bisognose, demandando agli istituti di beneficenza privati il compito di risolvere, o attenuare, il problema dell’alloggio per i diseredati. Con questo obiettivo l’attività del Comitato proseguirà, dopo la lunga stasi postbellica dovuta alle difficoltà nel reperimento di finanziamenti, con la realizzazione di nuovi complessi che, alle soglie della seconda guerra mondiale, assommano a 511 nuovi alloggi per un totale di 1604 vani.21 Il Comitato per le case ad uso degli Indigenti, Opera pia trasformatosi recentemente in fondazione, sopravvive ancor oggi come istituzione che sovrintende e amministra l’ingente patrimonio immobiliare costruito negli anni.

1 U. Pesci, Firenze capitale. Firenze 1904 p.477, cfr. anche F. Carrara, A. Lorenzi, P. Sidoti, Firenze capitale e la speculazione tollerata in “Necropoli” n.4-5, 1969, p. 65, sg. 2 Il quartiere di Barbano intorno alla piazza Maria Antonia viene realizzato fra il 1844 e il 1855; occupa la zona a verde fra le antiche vie Guelfa e delle Ruote. Fra il 1850 e il 1855 viene realizzato il quartiere delle Cascine su progetto dell’ingegner Gatteschi. Negli anni 1862-64 segue il quartiere del Maglio, su progetto dell’ingegner Del Sarto; tra il ’64 e il ’66 il quartiere della Mattonaia, sui terreni dei poderi della villa Ginori, e il quartiere compreso fra la stazione, le mura e via della Scala. Nel 1867 si delibera la realizzazione del quartiere fuori porta alla Coce, fra la via Aretina e il fiume. Giuseppe Poggi inserisce nel piano di ampliamento della città i quartieri già previsti. 3 Nel fervore di iniziative che si accompagna al nuovo ruolo assunto dalla città divenuta, sia pure per breve tempo, capitale del nuovo regno, si costituiscono altre due società, una per la costruzione di case operaie presieduta dal cav. Giuseppe Servadio e l’altra per case, opifici e forni presieduta dal conte Carlo degli Alessandri. G. Fanelli Firenze architettura e città, Sansoni, Firenze 1970, p. 429. 4 Si veda a questo proposito D. Lamberini, “Herbert Horne, architetto restauratore e membro dell’Associazione per la difesa di Firenze antica” in Herbert Percy Horne e Firenze a cura di E. Nardinocchi, Firenze 2005, pp.49-85 5 Se dell’ingegner Gino Casini, oltre che della sua appartenenza alla società toscana degli Ingegneri e Architetti si hanno ben poche notizie, l’architetto Pietro Berti (1847-1904) è viceversa figura emergente nel panorama dei professionisti operanti a Firenze nella seconda metà del secolo, assai attivo sia nel campo dei restauri, della progettazione di edifici residenziali nella zona di espansione del piano Poggi e di interventi nel centro ricostruito intorno a piazza della Repubblica. Cfr. C. Cresti, L. Zangheri, Architetti e Ingegneri nella Toscana dell’Ottocento, Firenze 1978. 6 P. Berti, G. Casini, Progetto di case economiche per Firenze, Firenze 1885 p.9. 7 “Pensando che a riduzione finita il Vecchio Centro non darà più stanza alla quasi totalità della popola-

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zione, che oggi vi abita; e pensando che rimangono altri quartieri, come quello di San Frediano, quello di San Niccolò e quello compreso fra via Guicciardini e via Maggio, non dissimili per cattive condizioni di igiene e di decenza, e che in epoca non troppo futura dovranno essere migliorati in guisa da non poter e in gran parte servire di dimora gli abitanti attuali; noi crediamo che gli studi per la costruzione delle abitazioni economiche mancanti, debbano essere fin d’ora guidati dall’obiettivo del risultato ultimo di spostamento delle classi povere, al quale si dovrà pervenire, e non soltanto dal bisogno più limitato, che può aversene entro un certo periodo del lavoro del Centro” P. Berti, G. Casini, Progetto di case economiche per Firenze, Firenze 1885, p.8 8 Ivi p.13. 9 Ivi, pp.23-24. 10 Ivi, p. 38. 11 La promozione alla demolizione del mercato vecchio veniva sostenuta anche dai timori che l’epidemia di colera scatenatasi a Napoli nel 1884 potesse raggiungere Firenze e in particolare svilupparsi tra “quelle torme lacere, mal nutrite che si agglomerano ne’ sozzi vicoli del ghetto, del Mercato Vecchio, di San Frediano; a quegli abituri nefandi, dove, quasi animali immondi in fetide tane, s’accolgon centinaia di famiglie cui la miseria è fonte di disonestà e di lerciume; dove in uno stesso covile i padri e i figli giacciono sozzamente alla rinfusa” come recita l’appello inviato al sindaco il 23 settembre 1884 che sembra ispirato alla prosa apocalittica della Firenze sotterranea di Jarro. 12 S. Fei, Firenze 1881-1898: la grande operazione urbanistica, Roma 1977, p.145. Il Buonamici è anche autore dell’edificio del caffè Trianon sulla piazza Vittorio Emanuele, oggi occupato dalla Rinascente. 13 C. Freccia, N. Martelli, Comitato per le case ad uso degli indigenti di Firenze, Firenze 1928, p. 3. 14 “ Ogni letto in ferro era fornito di rete metallica, materasso di vegetale, coperta di lana e relativa biancheria” ivi, p. 13. 15 Oltre al presidente, marchese Carlo Ginori, deputato del Regno, i vicepresidenti sono il commendator Giovanni Meyer che tra l’84 e l’87 fa erigere l’ospedalino pediatrico intitolato alla moglie Anna Meyer, e l’avvocato Arturo Carpi, tesoriere il dottor Lamberto Loria, ragioniere Leone Donzelli, segretari, l’avvocato Clearco Freccia e l’avvocato Arnaldo Pozzolini; membri del comitato il prof. Rinaldo Barbetti, Gabbriello Berti, l’ingegner Luigi Buonamici, il cav. Antonio Civelli, il marchese Pier Francesco dei principi Corsini, il principe Paolo Demidoff, il prof. Luigi Frullini,, il marchese Antonio Gerini, Leonida Giovannetti, Emilio Landi, i deputati, avvocato Luciano Luciani, e avvocato Giuseppe Mantellini, l’ing. Ferruccio Mannini, il marchese Giorgio Niccolini, l’avvocato Niccolò Nobili, il prof. Cesare Paoli, Aroldo W. Pearsall, il deputato comm. Ubaldino Peruzzi, l’ingegner Edoardo Philipson, il marchese Carlo Ridolfi, il barone Giovanni Ricasoli Firidolfi, il commendator Ernesto Rossi, il Cavalier Federigo Stibbert, il professor Stefano Ussi. 16 Sta in C. Freccia, N. Martelli, Comitato per le case ad uso degli indigenti di Firenze, Firenze 1928 p. 4. Lo statuto prevede la nomina di una commissione di “signore Patronesse” aventi la funzione di sorveglianza “al buono e regolare andamento dei dormentori e dei ricoveri ed al modo col quale sono tenute le case dai locatari” e di promozione dell’”operosità degli inquilini e di eccitarli all’amore della famiglia, al lavoro e al risparmio” ivi. p.7. 17 Nel 1890 il banchiere Emanuele Orazio Fenzi che sedeva nei banchi del consiglio comunale, al fine di favorire la costruzione di salubri case operaie offriva gratuitamente un’area di mille metri quadrati in angolo tra le vie di Ripoli e del Larione. S. Fei, cit. p.159 18 Il Corinti era stato nominato direttore dell’Ufficio Tecnico preposto alle operazioni di rilevamento dell’antico centro in via di demolizione fra il 1890 e il ’95, accademico della Reale Accademia di Belle Arti, nei capillare lavoro di disegno dei monumenti del centro distrutto lascerà una testimonianza preziosa nella serie di cartoline con la ricostruzione archeologica della Firenze romana, redatte alcuni anni più tardi.

19 C. Cesari, G. Gresleri, Residenza operaia e città neo-conservatrice. Bologna caso esemplare, Roma 1976 p.126, 25. 20 P. Villari “Nuovi tormenti e nuovi tormentati” in Scritti sulla questione sociale, Firenze 1902 p.349-52. 21 Gli edifici realizzati dal Comitato nel decennio 1928-38 sono: in via Circondaria realizzato nel 1928 con 40 alloggi e 120 vani; via del Gelsomino nel 1929 (40 alloggi 124 vani) via Campo d’Arrigo nel 1929 (56 alloggi e 172 vani), via del Paradiso nel 1931-34 (76 alloggi 241 vani), via Benedetto Dei nel 1934 (142 alloggi 464 vani), via della Faggiola nel 1937 (54 alloggi 163 vani); via Franciabigio 1938 (103 alloggi 320 vani).

Pagine precedenti: 6 Pianta di Firenze con l’ubicazione delle nuove case economiche e delle nuove strade previste, secondo il progetto presentato al Comune da Piero Berti e Gino Casini nel 1885 7 Prospetto principale e sezioni trasversali delle case economiche 8 Piante del piano terreno, primo e secondo 9 Veduta prospettica, sezioni trasversali e piante nel progetto dell’architetto Corinto Corinti per le case degli indigenti (dall’Album: Fabbricato di piccoli quartieri da costruirsi in Firenze a cura del Comitato per le costruzioni necessarie a ricoverare le classi indigenti, C. Corinti, Firenze 1890) 10 Sezioni del fabbricato progettato dall’architetto Corinto Corinti per le case degli indigenti



La casa toscana* Fabio Capanni

Nel 1936 Giuseppe Pagano, nel catalogo della mostra “Architettura rurale italiana” tenutasi in occasione della VI Triennale di Milano, rifletteva sulla permanenza delle forme oltre la trasformazione della funzione e sulla loro capacità di definire un orizzonte stabile tramite il quale misurare e conoscere il paesaggio italiano: “L’inerzia dell’uomo (che si chiama tradizione o eredità) tende effettivamente a conservare la forma anche quando lo scopo utilitario e primario ha cessato di esistere. La forma, ormai divenuta puramente estetica, rimane come un’aggiunta ornamentale che non ricorda spesso nemmeno lontanamente la sua origine primitiva.” Nel complesso mosaico dell’orizzonte nazionale, il paesaggio toscano si configura come un frammento di particolare eccezionalità nell’ambito del quale si invera quel processo di trasformazione che accompagna la vita delle architetture, così chiaramente delineato nella riflessione di Pagano che, se anche sviluppata intorno alla materia scabra dell’architettura residenziale rurale può, senza indugi, essere estesa anche all’architettura urbana, saldando in una unità inscindibile la componente naturale e la componente costruita di quel paesaggio. Paesaggio, sia esso urbano che rurale, sostenuto da una doppiezza depositata con lentezza nella matrice profonda del patrimonio culturale locale e inscritta energicamente nel carattere del luogo, perennemente oscillante fra l’eredità dell’Umanesimo e le variegate espressioni della tradizione minore popolare, fra l’ordine razionale e la complessità naturale, fra il rigore e l’alterità dell’architettura maggiore e la dimensione

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empirica dell’architettura spontanea. Una doppiezza in vero mutuata da una tradizione che già nell’architettura residenziale romana veniva esplicitata nei due modelli contrastanti di villa lucidamente riassunti da Ackerman: «la forma cubica e compatta e quella aperta e articolata. La villa di struttura cubica e forma compatta serve spesso a mettere in risalto l’ambiente naturale, mantenendosi isolata da quest’ultimo in una incontrovertibile opposizione, mentre la villa ad ampia struttura aperta ne diventa parte integrante, imitando le forme naturali nell’irregolarità della sua disposizione e del suo profilo, avvolgendo come in un abbraccio il terreno e rivestendosi di colori e trame naturali».1 È lo stesso Ackerman che porta ad esempio della prima categoria una delle architetture più significative del paesaggio collinare nei dintorni di Firenze: «la villa di Lorenzo de’ Medici a Poggio a Caiano presso Firenze è iscritta in un cubo e rivestita di intonaco bianco a sottolineare la totale estraneità dall’irrazionalità della vegetazione circostante e delle colline ondulate».2 Qualche decennio prima Rudolf Borchardt preannunciava il medesimo concetto espresso da Ackerman: “col paesaggio, la villa ha condiviso organicamente, come il bosco con la montagna, una continuità di destini attraverso le generazioni; ed è stata lei a dominarlo, a plasmarlo, anziché farsi da lui plasmare e modellare”.3 Per contro Lorenzo Gori Montanelli, uno dei maggiori studiosi dell’architettura rurale toscana, insisteva sul medesimo principio descrivendo la seconda categoria di abitazioni e disegnando così una sezione significativa del pae-


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saggio toscano: “più elementare è la costruzione e meglio essa si inserisce nel paesaggio circostante, diventandone componente quanto un gruppo di cipressi, un fienile, un terrazzamento o qualunque altro elemento che l’uomo abbia creato nella sua opera di trasformazione del paesaggio naturale. Si Avrà allora la caratteristica casa a blocchi di volumi semplici o complessi, chiusa tra muri in cui prevalgono i pieni e dove i vuoti si limitano a piccole finestre, coperta da un tetto che dà alla disposizione dei parallelepipedi di muratura il movimento delle angolazioni delle sue varie falde. È la casa divenuta naturale che hanno ritratto tutti i paesaggisti più sensibili agli aspetti elementari del paesaggio toscano, dal pre-romantico Beccafumi, ai macchiaioli Sernesi e Abbati, fino ai giorni nostri, a Raffaele de Grada e a quel grande poeta dell’architettura rurale che è stato Ottone Rosai”.4 Le due interpretazioni apparentemente contrastanti sono, in realtà, entrambe aderenti all’anima essenziale del paesaggio regionale inteso quale riflesso di una mirabile simbiosi fra uomo e natura: gli agglomerati urbani, le ville padronali, le case coloniche, i fienili, i muri a retta che addomesticano le differenze di livello del terreno, le coltivazioni di viti e ulivi, i filari di cipressi, i parchi disegnati con geometrica precisione, sono tutti elementi saldati in un’alleanza millenaria, oramai sedimentata in una struttura visibile. I caratteri dell’architettura toscana, pur nella frammentarietà delle differenti espressioni locali, attendono ad una sostanziale unitarietà che ne impagina la trama resistente e si configura come complemento costruito di una cornice naturale di straordinaria bellezza anch’essa manipolata e ordinata dall’opera dell’uomo: “per comprendere la bellezza armonica della campagna toscana, il senso di compiutezza che essa trasmette, bisogna inquadrarla in un’ottica tipica della civiltà di una regione che si è sempre sentita infastidita dalla spontaneità della natura, che ha saputo ribellarsi ogni qualvolta un contesto ambientale abbia derogato alle regole della geometria, o non si sia lasciato guidare dal pragmatismo scientifico o dal canone dell’armonia”.5 Se l’architettura della casa conforma il carattere del paesaggio toscano, sia quello urbano che quello rurale, le figure architettoniche che ne definisco-

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2 Casa colonica a “Le Fornaci”, sulla strada fra Poggio a Caiano e Artimino, Firenze. Loggia esterna con pilastri intonacati 3 Vista interna di loggia rurale foto Pier Niccolò Berardi 4 Casa colonica della lunigiana con tipica loggia a pilastri a tutta altezza 5 Vista interna di una loggia rurale foto Pier Niccolò Berardi 6 Michelozzo, palazzo Medici Riccardi, Firenze. Cortile interno con colonne, paraste e cornici in pietra serena che spiccano sull’intonaco bianco

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no l’immagine e l’essenza ne rappresentano i codici di identificazione. In tal senso, la finestra, il tetto, la scala, la loggia, lo sporto, la colombaia, sono state elevate a oggetto privilegiato di una ricerca sviluppata per conto del Dipartimento di Progettazione dell’architettura della Facoltà di Architettura di Firenze, volta a definire i tratti permanenti di queste figure e la loro disponibilità ad essere modificati in seno al processo edilizio contemporaneo. Se la ricerca architettonica pare aver abbandonato da più di un ventennio l’ambito specialistico dell’architettura residenziale, questa ricerca sulla casa toscana, in un momento storico nel quale la trasformazione delle città e più in generale del paesaggio nostrano è affidata all’architettura residenziale, tenta di stabilire una nuova soglia della qualità lungo la quale i caratteri storici della residenza locale possono essere riletti in una chiave evolutiva. Muovendo da questa condizione di incertezza è stato assunto come riferimento un senso della tradizione mai inteso in modo nostalgico e come possibile repertorio linguistico, ma bensì come precipitato di un sapere stratificato il quale, piuttosto che essere avvertito come limitazione della libertà inventiva, è vissuto

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come viatico per una straordinaria libertà inventiva fondata e mai gratuita. Seguendo questa traccia ispiratrice, stati presi in considerazione i due grandi ambiti ai quali può essere ricondotta l’analisi dei caratteri dell’architettura residenziale toscana: l’ambito urbano e quello rurale. La nascita e lo sviluppo delle strutture architettoniche ad essi connesse presuppone infatti dei vincoli, principalmente di carattere territoriale, assai diversi tra loro: il primo ambito ha vincoli di crescita urbana legati indissolubilmente al tessuto consolidato e alle attività produttive tipiche della città mentre, nel secondo ambito, il vincolo maggiore è identificabile prevalentemente con il territorio circostante ed eventualmente rintracciabile nel rapporto con i “nuclei sparsi”, nella morfologia del luogo, nelle colture, nell’allevamento. Nel primo gruppo si è distinta, in passato, l’architettura nobile del palazzo signorile dall’edilizia minore, sviluppatasi nelle sue tipologie ricorrenti, ossia la casa in linea, a schiera, a corte; nel secondo la villa dalla casa colonica nelle sue principali declinazioni, ovvero la casa concepita secondo un disegno unitario e quella spontanea, a crescita diacronica.


A saldare la continuità fra i due ambiti e le architetture che li identificano, è stato assunta l’ipotesi, postulata in prima istanza dal Montanelli, secondo la quale la dignità della casa rurale toscana sia connessa storicamente all’architettura colta urbana della tradizione italiana e che quindi ci sia una sorta di omogeneità fra i caratteri precipui delle architetture afferenti ai diversi ambiti, come d’altronde testimoniano le esperienze quattrocentesche di Buontalenti e Michelozzo. Muovendosi all’interno di questa esatta cornice, è stata svolta una prima fase di analisi critica dei caratteri formali di ogni singola figura architettonica, esaltando la spregiudicata coerenza funzionale e tecnica inscritta nel codice genetico di questi frammenti d’architettura, incardinati sulle specificità dei luoghi: la morfologia del sito, l’orientamento rispetto al ciclo del sole nelle varie stagioni, l’esposizione ai venti, le tecnologie costruttive derivate dai materiali disponibili in natura, la salubrità dei luoghi, sono stati intesi quali elementi generatori di quella epifania di segni e figure che oramai connotano così tanta parte dell’immagine dell’architettura della casa toscana. In un secondo momento, il precipitato

dell’analisi affrontata nella prima fase, è stato sfruttato come terreno fertile per tentare un’ipotesi progettuale: il rapporto intimo fra gli elementi naturali e l’opera dell’uomo, rilevato come tratto distintivo che ha accomunato le permanenze e le variazioni che nel corso dei secoli hanno scandito la vita di quelle figure architettoniche, è stato impiegato come elemento dinamico per formulare una potenzialità evolutiva delle figure stesse: non definizioni formali pronte all’uso, ma piuttosto una sequenza di stimoli mirati a definire un orizzonte all’interno del quale l’architetto possa muoversi riscoprendo quel legame con il senso dei luoghi e con le tradizioni costruttive ad essi connesse oramai disperso. A margine dell’analisi delle singole figure e del tentativo di proporne una interpretazione in chiave contemporanea, la ricerca ha accennato inoltre una rilevazione, ancorché frammentaria ed incompleta e perciò suscettibile di ulteriori approfondimenti, delle mutevoli relazioni fra le figure stesse che, nel corso del tempo, hanno caratterizzato l’architettura della casa toscana sostanziando ad esempio come “la forza espressiva del muro pieno è valore discriminante della via italiana al

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razionalismo rispetto all’orientamento programmatico dell’International Style, che opta per la leggerezza e la trasparenza dell’involucro consentite dalla struttura a telaio in calcestruzzo armato o metallo. Valore dell’architettura mediterranea, e peculiare della tradizione architettonica toscana”.6 L’equilibrio sbilanciato fra l’involucro murario e le bucature, siano esse logge o finestre, il suo variare a seconda dell’esposizione al sole o ai venti dominanti, il carattere severo delle costruzioni urbane che, per osmosi, si estende fin fuori le mura e si salda all’umore di quella campagna “un po’ aspra un po’ nera, ove senti lo scheletro di sasso sotto la buccia erbosa”,7 il contrappunto volumetrico fra verticalità ed orizzontalità degli elementi della composizione, il rapporto serrato fra i paramenti costruttivi verticali e le superfici di copertura, l’articolazione volumetrica dell’edilizia minore contrapposta alla silenziosa stereometria dell’architettura maggiore, sono stati individuati, nelle loro declinazioni locali, come valori imprescindibili dell’architettura residenziale toscana. Per concludere, se da un lato la ricerca ha formato una inedita ricostruzione dell’evoluzione delle figure architettoniche della residenza in toscana nei vari ambiti territoriali della regione, configurando una sorta di regesto informativo del patrimonio della tradizione locale, dall’altro, ha tentato di tracciare una altrettanto inedita possibilità di modificazione di quelle stesse figure e dei loro rapporti nell’ambito della composizione dell’edificio, fondata sullo stretto legame che da sempre serra la loro natura alle differenze dei luoghi e a quelle regole del buon costruire insite nel fare architettura, oramai rintracciabili solamente nella fuorviante nouvelle vague dell’architettura “amica dell’uomo e della natura”.

* Ricerca svolta dal Dipartimento di Progettazione dell’architettura della Facoltà di Architettura di Firenze Responsabile della ricerca: Fabio Capanni Gruppo di ricerca: Michela Bracardi, Riccardo Butini, Inge Iacoviello, Adelaide La Fauci, Claudio Marrocchi, Francesca Mugnai, Giovanni Voto 1 J. Ackerman, La Villa, Einaudi 1992 2 J. Ackerman, La Villa, Einaudi 1992 3 R. Borchardt, Villa in “Città italiane”, Adelphi 1989 4 L. Gori Montanelli, Architettura rurale in toscana, Editrice Edam 1964 5 A. Brilli, Lo spirito della campagna toscana, Silvana Editoriale 1992 6 G. Fanelli, B. Mazza, La casa colonica in Toscana, Le fotografie di Pier Niccolò Berardi alla Triennale del 1936, Octavo 1999 7 G. Papini, Un uomo finito, Vallecchi 1912

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Pagine precedenti: 7 Casa colonica detta “Torre Giulia” presso Troghi, Firenze 8 Casa colonica con colombaia centrale 9 Esempio di villa padronale con due torri, San Giustino, Arezzo, XVII sec. 10 Il Cennino, Castellina in Chianti, Siena



La casa nella ricostruzione di un tessuto edilizio del borgo di Virgoletta (MS) Claudio Barandoni

Evoluzione tipologica della casa Fin dalle origini la “casa” è intesa prima come semplice riparo dagli elementi atmosferici e, poi, come necessità di creare un ambiente coperto e chiuso cui poter avere un “microclima” diverso di quello esterno: i primi “tentativi” di costruire un riparo sono stati quelli finalizzati a riprodurre ciò che esisteva in natura: alberi e caverne. A seconda delle caratteristiche dei luoghi si riscontrano infatti differenti esempi di costruire i ripari: in aree ricche di vegetazione si evidenzia la volontà di ricreare con elementi puntuali in legno i ripari costituiti dagli alberi, in aree con terreni rocciosi si riscontrano invece assemblaggi continui di pietre che ricordano grotte e anfratti. La nascita delle prime “case” è riscontrabile quando oltre a creare un semplice riparo si è provveduto a chiudere lo spazio con elementi verticali perimetrali continui realizzando il primo ambiente “chiuso”, la prima cellula elementare: le prime cellule dotate di un’unica apertura, la porta di accesso, e di dimensioni prossime ai 6x6 mq rappresentano la prima abitazione intesa come ambiente controllabile climaticamente dove poter esplicare le proprie esigenze e necessità al coperto e al chiuso. Si assiste così, nel tempo, ad una modifica continua degli ambienti per meglio ottemperare alle funzioni che vi si svolgono e, conseguentemente, ad un aumento della superficie “chiusa”: alla cellula elementare 6x6 ad un solo piano segue il raddoppio in altezza, alzando l’imposta della copertura e creando una seconda cellula nel sottotetto. Nasce così il collegamento verticale che può essere esterno (a proferlo) quando

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non si vuole la comunicazione diretta delle due cellule o interna con la creazione di un muro divisorio interno. Con la creazione di due cellule distinte si assiste alla prima differenziazione degli ambienti in ragione delle funzioni: al piano terra attività commerciali o di ricovero al piano superiore l’abitazione vera e propria. Il passo successivo si può sintetizzare nel raddoppio della casa in profondità, sul retro, con la formazione di quattro cellule: al piano terra una per attività specialistiche, sul fronte e una per stoccaggio o ricovero degli animali sul retro, mentre al piano superiore, si arriva alla prima differenziazione degli ambienti della casa in ragione della loro utilizzazione con la cellula sul fronte adibita a “zona giorno” e quella sul retro in “zona notte”. L’ultimo “raddoppio” per di arrivare alla casa a schiera è quello in altezza che porta il numero delle cellule a sei: le due al piano terra restano ad uso commerciale, mentre in elevato si assiste ad un’ulteriore e più netta separazione delle funzioni con il primo piano adibito a “zona giorno” e il secondo a “zona notte”. Anche la ubicazione delle fonti aereoilluminanti segue una logica ben precisa in ragione della grandezza dei locali, del loro uso e del posizionamento del vano scala, quest’ultimo ubicato parallelo o ortogonale al fronte strada a seconda di localizzazioni tipologiche delle diverse aree geografiche e di ragioni di proprietà. Questa è in estrema sintesi l’evoluzione tipologica dell’edificio casa, che sicuramente avrà delle eccezioni e “dialettizzazioni” a seconda del contesto storico culturale di un territorio. L’esempio del-

l’evoluzione della “casa a schiera” è quello tipico dei borghi e dei tessuti edilizi, i quali, a seconda della morfologia del terreno possono mostrare un diverso disegno planimetrico, presentando tuttavia lunghe facciate continue sul fronte stradale, facciate secondarie sul retro prospicienti le rispettive aree di pertinenza e muri trasversali “di spina” portanti le strutture orizzontali. Cenni storici sul borgo di Virgoletta Virgoletta è un borgo situato nella media valle del Magra, nel territorio del comune di Villafranca Lunigiana (Massa). Di fondazione probabilmente alto medievale (le prime fonti documentate risalgono al XIII secolo) deve la sua formazione essenzialmente alla presenza di importanti percorsi di commercio e di transito attorno al crinale su cui sorgerà il borgo (fra i quali quelli che mettevano in comunicazione Villafranca, Filetto, Bagnone e Castiglione) e alla presenza di un torrione difensivo sulla cima del relativo promontorio. Dalle poche fonti storiche emerge che i primi “Signori” del borgo fossero i Corbellari,1 fino all’avvento dei Malaspina che a seguito della divisione del 1221 riassorbirono numerosi territori della Lunigiana, divenendo, di fatto, i Signori dell’intera Val di Magra. Nel 1355 Virgoletta fu annessa al feudo di Villafranca perdendo la sua parziale autonomia, in un periodo caratterizzato anche dalla perdita di prestigio e importanza da parte dei signori del luogo. Dopo le altanelanti vicende belliche fra i Malaspina e i Campofregoso, potente famiglia ligure, Virgoletta nel 1421 risulta essere, al pari del capoluogo, di Suvero e di Brugnato sotto la signoria dei Liguri.


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La ricerca e il progetto per il recupero del borgo di Virgoletta sono stati svolti sotto la direzione dei proff. Silvia Briccoli Bati, Gian Luigi Maffei e Ugo Tognetti 1 Vista delle rovine del tessuto del borgo di Virgoletta 2 Il progetto di recupero edilizio Pagine successive: 3 II fase formativa del tessuto edilizio 4 IV fase formativa del tessuto edilizio 5 VI fase formativa del tessuto edilizio 6 Inserimento del progetto di recupero nel contesto edilizio del borgo

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L’occupazione dei Campofregoso si protrasse pressoché per l’intero secolo XV, periodo in cui si svilupparono diversi intrighi nei quali erano coinvolti anche la repubblica fiorentina, il ducato di Milano e la repubblica di Genova. Nel 1474 fu stipulato un “amichevole” accordo che riportava Virgoletta sotto i Marchesi Malaspina di Villafranca. Alla fine del secolo, con la calata in Italia del re francese Carlo VIII, Tommaso e Fioramonte Malaspina, signori di Villafranca e Virgoletta, si schierarono attivamente con esso, aiutandone la venuta e partecipando alle rappresaglie che i francesi perpretarono a danno delle comunità di Bagnone, Castiglione, Fivizzano, etc, alleate dei fiorentini. Ciò darà luogo ad un marchio di infamia sui signori di Villafranca e Virgoletta che si perpetuerà per molto tempo. La seconda metà del XVI secolo vide un periodo di grande splendore per Virgoletta. La ripresa attiva dei traffici commerciali sulla direttrice del feudo, la predilezione di Federico, signore di Villafranca e Virgoletta portarono, per quest’ultima, ricchezza e benessere, testimoniati dallo sviluppo del castello, che da semplice struttura difensiva divenne una fiorente residenza signorile. Seguirono tempi tranquilli sotto la dominazione spagnola, ma nel 1705, durante la guerra di successione, un episodio minò questa pace: il marchese Giovanni Malaspina, essendo aderente alla parte imperiale, aveva rifiutato di riconoscere la sovranità di Filippo V di Spagna, al contrario della stessa comunità di Virgoletta, la quale cercò, senza riuscirvi, di assassinarlo. Fecero comunque atto di sottomissione agli Spagnoli guidati da Filippo V e parteciparono alle campagne militari contro coloro che non volevano riconoscerne l’autorità. L’odio fra la comunità del feudo e il marchese Giovanni non si attenuò nemmeno quando le truppe imperiali allontanarono i galloispani e questo dovette ricorrere all’aiuto dei marchesi di Podenzana per rientrare in possesso dei suoi territori. Si ebbero perciò numerosi e “pesanti” screzi fra il marchese e i ribelli per sedare i quali dovette intervenire il Granduca di Toscana. Nel proseguo la storia di questo borgo si fonde con quello dei feudi limitrofi. Con l’editto emanato dal generale Chabot nel 1796 per conto di Napoleone Buonaparte la superstite organizzazione feudale viene di fatto soppressa. Virgoletta entrerà poi, insieme a Villafranca, a far parte della repubblica Ci-

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salpina e del regno d’Italia. Fino al 1849 restò annessa il ducato di Modena sotto Francesco IV d’Este e poi, fino al 1859, data della unificazione nazionale, fece parte del ducato di Parma. Lettura storico evolutiva del borgo Le fasi di edificazione e crescita del borgo di Virgoletta sono sintetizzabili in sei tappe principali, cui può far seguito una settima rappresentata dalla ricostruzione del tessuto a seguito dei danni del terremoto che nel 1920 colpì la Lunigiana e la Garfagnana. Le prime quattro fasi fra il XII secolo e il XVI secolo identificano la nascita e la crescita planimetrica del borgo parallelamente alla trasformazione del castello in palazzo signorile. Nella prima fase nel XII erano infatti presente solo il torrione sul culmine del promontorio che sovrasta la rete di percorsi che collegano Filetto, Bagnone, Villafranca e Castiglione e forse due cappelline di cui una sul percorso di crinale, futuro asse del borgo. La seconda fase rappresenta quindi la formazione del I° aggregato edilizio ubicato lungo l’asse del borgo in prossimità della porta del castello, secondo la classica conformazione a “contrada”. Il tipo edilizio è la casa a schiera con due cellule in profondità e tre piani sopraterra; le dimensioni planimetriche sono di circa 5/6 ml di fronte e 10/12 ml in profondità. Le successive due fasi fra il XIV e il XVI secolo rappresentano gli sviluppi tipici dei tessuti di crinale, con l’espansione del borgo lungo l’asse principale, in direzione opposta al castello, fino ad arrivare allo sviluppo territoriale attuale. Il tipo edilizio non cambia, anche se mutano leggermente le dimensioni planoaltimetriche; anche la tecnica costruttiva resta ovviamente la stessa, mentre varia la qualità costruttiva degli edifici, più scadente man mano che ci si allontana dal nucleo di prima edificazione. Unica eccezione nello sviluppo lungo il percorso di crinale è la formazione della piazza antistante la chiesa che interrompe la continuità dei fronti principali. Il tipo edilizio presente al XVI secolo è quello della casa a schiera: piani superiori ad uso abitativo e piano terra di diversa utilizzazione. Proprio quest’ultimo presenta, in Virgoletta, delle particolarità dovute sia alla morfologia del terreno, sia alla principale attività lavorativa del borgo: la presenza dei due versanti con pendenze, in alcuni tratti, piuttosto pronunciate e l’attività di trasporto di prodotti dalla Lunigiana alla Emilia con

“mezzi animali” hanno spinto gli abitanti a munire il piano terra di passaggi inclinati che dalla strada principale conducono verso l’esterno del paese: i “solchetti”, piccole gallerie munite di gradini inclinati e realizzate in pietra che, disposte ogni due cellule, permettono di attraversare trasversalmente il paese senza dover necessariamente passare dalle porte principali. Una particolarità di questi cunicoli, come pure del piano terra, è la copertura realizzata con sistema voltato, solitamente a botte, di qualità altalenante e realizzato tramite centinatura, con la posa in opera di pillole di pietra e sovrastante getto di materiale coesivo. I piani superiori, come pure le coperture al contrario, presentano invece strutture lignee. Le evoluzioni e modifiche che si sono succedute fra il XVI e il XVII secolo sono consistite in accrescimenti delle singole unità abitative presenti verso i versanti con successive aggiunte di cellule in profondità, portando gli edifici ad avere anche cinque cellule disposte consecutivamente ortogonalmente al fronte stradale, con ovvi problemi di aereoilluminazione e salubrità degli ambienti. La morfologia del terreno ha portato alla creazione di cellule a quote più basse mano a mano che ci si allontanava dal percorso di crinale, creando, pertanto, sui percorsi di circonvallazione dei fronti di cinque – sei piani al contrario dei tre presenti sull’asse del borgo. Lettura tipologica della casa Analizzate brevemente le fasi di formazione del borgo di Virgoletta e definiti i tipi edilizi caratteristici, entriamo ora più nel dettaglio circa le loro peculiarità. Fattore essenziale e determinate le scelte tipologiche del tessuto, delle abitazioni e dei relativi ampliamenti e modificazioni è la particolare morfologia del territorio. Il percorso matrice di crinale con asse da S-O a N-E su cui si affacciano le case e i relativi pendii da una parte e dall’altra hanno “scelto di per sé” la tipologia abitativa più consona alla loro particolare conformazione, mentre i percorsi avvolgenti il pendio, più in basso, hanno completato la singolare disposizione del borgo. Altimetricamente il borgo presenta la porta posta a S-O ad una quota di circa 192 metri, la porta sul castello, a N-E, ad una quota di circa 202,00 metri; i percorsi perimetrali sono ondulati e si aggirano fra i 180 e i 185 metri sul livello del mare. La tipologia edilizia presente è quella di


casa a schiera a doppia cellula in profondità e tre piani sopra terra. A seguito degli accrescimenti le abitazioni presentano oggi 4 o anche 5 cellule in profondità e due o tre piani disposti, sul pendio, a una quota inferiore rispetto alla strada centrale. Come già precedentemente sottolineato le fasi di accrescimento si sono susseguite fra il XVI e il XVIII secolo attraverso la costruzione della terrazza-aia sul retro (e il relativo piano sottostante per poter arrivare ad una quota pari a quella della strada principale) la sua successiva chiusura, la costruzione di una nuova terrazza e così via, fino alla condizione tipologica attuale. Dall’esame tipologico sono inoltre emerse cinque tipologie di base, che si differenziano fra loro essenzialmente per la diversa collocazione del collegamento verticale e delle aperture sul prospetto principale sulla strada.2 Con gli ampliamenti e le trasformazioni delle schiere e la scomparsa delle stalle dal centro del paese il piano terra subì delle trasformazioni anche dal punto di vista funzionale. Le quattro/cinque cellule in profondità divennero: ingresso, cucina, camera/soggiorno e seconda camera, rendendo pressoché autonomo questo piano da quelli superiori. Infatti si assistette anche ad una differenziazione di proprietà fra il piano terra e i due superiori le cui funzioni erano rimaste pressoché immutate. Le scale di collegamento furono pertanto spostate e il vano d’ingresso, o parte di esso, fu reso comune alle due unità abitative. I prospetti principali sul fronte strada, a faccia vista, si differenziano a seconda dei tipi edilizi precedentemente definiti e presentano una differente mutua disposizione delle aperture e del solchetto di accesso ai vani sottostrada. Le aperture hanno dimensioni di 60/80 cm per larghezza e 120/150 cm per altezza, sono coronate da eleganti architravi in pietra o in mattoni, in alcuni casi (soprattutto nella parte più antica) gli stipiti sono pure in pietra, mentre gli infissi sono sempre in legno. Gli spessori murari sono compresi, a livello del piano strada, fra i 60 e gli 80 cm e, il più delle volte, presentano delle rastremazioni di circa 15 cm man mano che si sale ai piani superiori. I materiali impiegati per la realizzazione delle murature sono le pietre locali e in particolare la calcarea albarese e l’arenaria calcarea. I solai sono lignei con struttura realizzata in travi principali e travicelli. L’orditu-

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ra delle travi è, generalmente parallela al fronte stradale, ma in alcuni casi risulta alternata man mano che si sale di livello, realizzando così una migliore legatura delle murature perimetrali. I solai dei piani inferiori al livello strada presentano, invece, una struttura a volta, realizzata disponendo le pietre (non sempre ben tagliate e di dimensioni adeguate) su una centina di legno e completata con getto di legante (simile al calcestruzzo romano). Le coperture sono a capanna, con linea di gronda parallela al fronte stradale. La struttura è lignea con travi e travicelli, come per i solai sottostanti, mentre il manto di copertura era originariamente formato dalle “piagne”, lastre di ardesia di uso molto frequente nell’edilizia lunigianese. Oggi, purtroppo, a seguito della ricostruzione dopo il terremoto del 1920 i manti di copertura sono pressoché tutti con tegole e coppi in laterizio, giudicati più antisismici, anche se particolari studi a riguardo (esempio quello che il prof. A. Giuffrè realizzò per il paese di Minucciano in Garfagnana3 dove è frequente e tipico l’uso di lastre di pietra (lavagna) come manto di copertura) hanno portato a giudicare più che idonea questa tipologia di copertura, sia per gli aspetti antisismici, che “pratici” (idoneità a far scivolare l’acqua e ad evitare le infiltrazioni, è questo lo scopo principale del manto di copertura, anche se a volte sembra viene dimentica-

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to dagli addetti ai lavori). La metodologia di intervento L’ipotesi progettuale muove le sue ipotesi dalla convinzione di dover guardare al centro storico come ad un unico oggetto, al pari di un monumento (ma con una “vita sociale” molto più movimentata). Ciò significa far sì che il singolo edificio e il particolare brano di tessuto diventino, con le debite proporzioni e differenze, il singolo elemento o la singola porzione di un’opera, parte di un tutto. Facendo, per esempio, il paragone con una chiesa, potremmo associare al singolo edificio una volta e ad un brano di tessuto una campata. Mentre il singolo monumento ha in se stesso un preciso valore culturale, mostrando un definito periodo storico (quello in cui è stato creato) e ancora di più un artista, il tessuto di base, dovendo soddisfare le mutevoli esigenze abitative dell’uomo, non raffigura un preciso contesto storico, ma piuttosto il percorso culturale che una determinata società ha vissuto nella sua storia. Trattare quindi oggi il centro storico come un elemento statico al pari di un’opera d’arte da conservare così come è nato, può risultare forzato e fuori luogo. Difatti si “congelerebbe” la situazione creatasi con l’ultima tappa del processo storico evolutivo, la quale non corrisponde a l’impianto originale, né può soddisfare le necessità attuali.

Ecco perciò emergere chiaramente gli aspetti essenziali che dovrebbero guidare un progetto di recupero: l’adattamento del contesto edilizio esistente alle moderne esigenze funzionali ed igieniche, (cosa che una fedele ricostruzione non può garantire), il rispetto della realtà storico-costruttiva, (che una ricostruzione in falso o moderna non possono seguire) e ovviamente rispettare le norme tecniche in materia di sicurezza, soprattutto in zone sismiche. Il Progetto Dall’approccio sopra indicato è emersa subito chiaramente la “voglia” di riproporre, in chiave moderna, la stessa cultura costruttiva, quella muraria, in continuità con l’esistente e, per quanto possibile di ripercorrere i volumi originariamente presenti e rintracciabili, sia dal rilievo, che dalle indagini storiche. Questo aspetto andava ovviamente ad intersecarsi e a confrontarsi con le necessità di adeguamento funzionale e igienico-sanitario, oltre che di sicurezza, requisiti a cui un qualsiasi intervento di riqualificazione edilizia in chiave abitativa può prescindere. La ubicazione dei collegamenti verticali, come pure quello delle fonti areo-illuminati uniti alla necessità di creare tagli di appartamenti adeguati, sono risultate le difficoltà principali; alcuni appartamenti si trovavano infatti ad avere un solo affaccio per cui è emersa subito la neces-


sità di “creare” cavedi interni. Due sono risultate le possibilità: una “più semplice e speditiva” consisteva nell’ubicare un unico cavedio nella cellula centrale più interna, con la funzione anche di vano scala per l’accesso agli appartamenti superiori. Si andava così a creare una sorta di tipologia a “ballatoio” che però non era tipologicamente corretta risultando una anomalia rispetto al resto del borgo. L’altra soluzione era quella di riprendere i corpi scala presenti, adeguandoli alle nuove necessità. Questa seconda ipotesi è apparsa la più corretta e “stimolante” rispetto alle preesistenze. Nel dettaglio il progetto prevede la ricostruzione di cinque piani con alternanza di appartamenti ubicati su due livelli ai due piani più bassi e ai due in alto e altri disposti su un unico livello al piano intermedio, il tutto suddiviso in due complessi edilizi serviti da differenti accessi e collegamenti. La prima particolarità che si riscontra è quella dei due accessi agli edifici: questi sono infatti ricavati dai due solchetti esistenti (e ripristinati) che già collegavano la strada principale con i vani retrostanti e le relative pertinenze. Gli ingressi ai due complessi edilizi si trova pertanto non alla quota del piano terra rispetto al piano stradale, ma al livello più basso. Dai solchetti si accede pertanto agli ingressi dei tre appartamenti, di circa 110 mq, disposti nei due livelli sotto strada:

al piano superiore sono disposte le “zone notte” dotate di due o tre camere oltre ai servizi, mentre al piano inferiore, a livello delle retrostanti pertinenze, si aprono le” zone giorno” con cucine, pranzi, servizi, e sale da cui è possibile accedere ai giardini di proprietà. La scelta della distribuzione interna, per tutti i piani, è stata fortemente condizionata dall’unico affaccio in prossimità del quale si è cercato di ubicare i locali principali. Il III livello, coincidente con il piano stradale, si compone di tre unità abitative di superficie di 60 mq e 47 mq circa e composte da tre stanze oltre al bagno e al cucinotto. Gli ultimi due livelli presentano tre appartamenti disposti su due piani servite da ampie terrazze ricavate come coperture di alcuni locali sottostanti. L’appartamento posizionato a N-E, di planimetria molto allungata, è l’unico che presenta due affacci opposti arrivando fino al prospetto sul lato stradale. I due appartamenti laterali presentano una superficie di circa 100 mq con terrazze di 20 mq, mentre quello centrale, più piccolo, ha una superficie di circa 78 mq e una terrazza di 11 mq. Il prospetto che ne deriva risulta essere anche esso una fusione degli aspetti più funzionali di areo-illuminare adeguatamente gli spazi interni in ragione della loro utilizzazione con quelli di dialogo e interscambio con gli edifici limitrofi. Anche gli elementi di finitura, pietra a vi-

sta ai due piani più bassi ed intonaco per gli altri tre rispecchiano la realtà costruttiva dell’edificio: i piani più bassi, caratterizzati da spessori murari maggiori e da orizzontamenti voltati in pietra sono chiamati a sostenere i livelli più alti contraddistinti da murature più snelle e orizzontamenti più leggeri in struttura lignea. Il risultato ottenuto in termini sia di distribuzione che di linguaggio architettonico dimostra come sia possibile coniugare, in aree contraddistinte da forti vincoli storici e tipologici, esigenze di adeguamento e riqualificazione degli ambienti a quelle più restrittive di recupero e rispetto dei valori di un tessuto edilizio consolidato, migliorando, adeguando ed “evolvendo” i tipi edilizi tipici di quel particolare insediamento alle attuali standard abitativi e di sicurezza.

1 Nel documento di suddivisione del 1275 tra i Malaspina del ramo di Filattiera Virgoletta è chiamata “Verrucosa Corbellariorum, dal nome appunto della famiglia dei Corbellari che ne esercitarono la signoria fino al 1221. Per maggiori dettagli si veda: R. Piccioli (a cura di), Virgoletta storia di un borgo, Villafranca Lunigiana (MS), 1998. 2 Per una descrizione più esauriente si veda: D. Liccia, Il castello ed il borgo di Virgoletta (MS): analisi conoscitiva ed interventi di recupero tipologico di un nucleo urbano medievale della media val di Magra, Tesi di Laurea presso Università degli studi di Firenze, 1990-91 relatore prof. G. L. Maffei 3 A. Giuffrè, C. Carocci, Le tecniche costruttive originali e la conservazione: il caso Minacciano (LU), in “La protezione del patrimonio culturale e la questione sismica. Coordinatore R. Ballardini Contributi Preliminari (a cura di P. R. David e M. Gruccione), Roma, 1997

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La casa per tutti. L’edilizia popolare nel secondo dopoguerra. Antonio D’Auria

Il tema della casa popolare, pur indicando il punto di massima approssimazione delle ragioni della sociologia a quelle, universali, della antropologia, in quanto mito della Casa-in-sé, sta ad attestare, d’altra parte, con particolare flagranza, la sostanziale identità che esiste tra progettazione e storia della progettazione. Si vuoi dire che la storia e la geografia di questo tema configura un sistema di connessioni e implicature fra l’atto progettuale e la riflessione ideologica che precede o segue il progetto, in una misura ben maggiore del rapporto solitamente instaurato fra l’opera e il discorso sull’opera. Spesso grazie a scritti militanti come La casa popolare di Samonà del 1935, o alle messe a punto teoriche di Libera o di Ridolfi - entrambe realizzate nel silenzio di una forzata inerzia operativa, quasi lontano dall’urgenza di una insoddisfacente contemporaneità - quel tema o, se si vuole, quel “genere”, ha registrato una evoluzione di fatto, determinante quanto un progetto realizzato. Allo stesso modo, per continuare questo discorso solo apparentemente paradossale, i grandi rari eventi progettuali che hanno affrontato la sfida della “casa per tutti”, sono risultati momenti di tesa lettura ideologica e storica del presente. Lo storico e l’architetto in questo caso si scambiano continuamente il ruolo, e non sempre nella stessa persona, quasi a sanare una dicotomia talora dai funesti effetti e incarnando, per una volta, la complessa figura dell’Intellettuale. Del resto, il tema della casa popolare si connette intrinsecamente con l’immagine della Città e coinvolge in pieno il dibattito circa il modello urbano nelle

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società industriali. Difatti, “popolare” è, in sé, concetto urbano, da riferirsi, com’è ormai ben noto, da Marx in poi, al proletariato cittadino. Non a caso, attraverso le trattazioni del tema della casa popolare, al quale risultano legate, soprattutto in Italia, le sorti del razionalismo, per una curiosa identità posta surrettiziamente da Ojetti, fra funzionalità, economia di costi e “povertà” d’immagine, si possono controllare le linee di una ideologia antiurbana, vale a dire del ruralismo autoctono ed italico, esattamente complementare, al fine della identificazione nazionale, alle scelte monumentali della romanità piacentiniana. Il ruralismo percorse tutta la storia dell’architettura negli anni Trenta, sia perché rispondeva alle reali condizioni economiche e tecnologiche della nazione - e difatti il Manuale di Ridolfi darà un senso ed anche una forza alla piccola sapienza artigianale di cui disponeva l’Italia sia perché è chiamato a risarcire, secondo un movimento sin troppo evidente, la realtà vera, cioè lo sviluppo non razionale delle città. Non a caso, quello della “casa per tutti” è un tema che gli architetti italiani si posero in seguito, in un momento significativo della storia nazionale, quello degli anni del secondo conflitto mondiale, nella consapevolezza che una guerra è in ogni caso un termine a quo, dal punto di vista sia professionale che politico e che pertanto l’esaudimento del bisogno di case era o sarebbe diventato, a pace raggiunta, un dovere e una necessità sia culturale che morale. Da un punto di vista strettamente testuale, sarebbe anzi interessante fare la storia di questo sintagma, “casa per


1 Luigi Cosenza Nucleo edilizio INA Olivetti, Pozzuoli, 1953-63 2 Manifesto del film Il tetto regia di Vittorio De Sica, Soggetto e sceneggiatura di Cesare Zavattini, 1956 Pagine successive: 3 Veduta aerea del quartiere “La Loggetta�, Napoli. Progetto urbanistico di Giulio De Luca (coord.), 1956 4 Adalberto Libera Progetto urbanistico del Quartiere INA Ponticelli, Napoli, 1951-56

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tutti”, per registrare attraverso le varianti sincroniche o mutazioni diacroniche le variazioni ideologiche ad esso sottese. Lo slogan “una casa per tutti”, come forse tutti sanno, è da ritenersi la formula esplicita originata da una provocazione ad alta tensione intellettuale: quella Maison Citrohan, progettomanifesto di una casa fatta in serie come una automobile omonima, del 1922 di Le Corbusier (un architetto nella circostanza animato più che mai da una sorta di inguaribile, ma salutare, ottimismo tardo-illuminista). In quel caso, la destinazione “per tutti” stava ad indicare una astrazione, dove la collettività è anonima e neutra al pari della formula “machine à habiter”. In Italia, il sintagma icastico ed ortativo “casa a tutti” di Gio’ Ponti, che sulla copertina del n. 1 della rivista «Stile», nel 1945, accompagnò il disegno di una casa, campeggiante nel palmo aperto di una mano, possiede una forte valenza politica, poiché evoca le scritte murarie della protesta popolare (del tipo, appunto, “lavoro a tutti”). Significativa, sempre nel contesto italiano, la differenza tra la formula funzionalista “una casa per tutti”, presente in un editoriale di Pagano del 1943 (Presupposti per un programma di politica edilizia, «Casabella» n. 186), e quella elaborata da Banfi e Rogers nel 1945 (cfr. E. N. Rogers, Una casa a ciascuno, «Politecnico» n. 4), “una casa a ciascuno”, dove quel ciascuno la dice lunga sul sospetto che nella nostra cultura architettonica grava sul lessico - e figurarsi sulla pratica - del “popolare”. Il problema della casa-per-tutti affiora nel nostro paese in tutta la sua urgenza solo dopo la constatazione, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, di un deficit di quindici milioni di vani. Il tema della casa popolare contemplò un sistema di connessioni e implicazioni tra atto progettuale e riflessione ideologica sul progetto, che comportava tra l’altro momenti di tesa lettura della realtà, di quella presente e di quella che gli interventi edificatorî andavano determinando. Appariva ovvio ad ogni architetto, urbanista o amministratore che la soluzione del problema passava attraverso una preliminare scelta di un modello che fosse a un tempo urbano, sociologico, politico, in particolar modo in un momento di ricostruzione dello Stato, di determinazione dei suoi modelli di sviluppo economico e sociale, di assunzione di definiti modelli culturali.

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Prima Persico nel 1933 poi Quaroni nel 1940 avevano rispettivamente rilevato che i progetti di case popolare non avessero quella “garanzia di autonomia civile” o non fossero degni di entrare in una storia dell’architettura, com’era accaduto, ad esempio, per i progetti di case popolari tedesche. Eppure il tema della casa, della cellula residenziale, della tipizzazione dell’alloggio, erano stati i temi dominanti per gli architetti del Movimento moderno in Europa, in Russia come in Germania, in Francia come in Gran Bretagna. Temi ben noti anche in Italia: basterà citare il volume di Giuseppe Samonà, La casa popolare, pubblicato a Napoli nel 1935, contenente un’ampia ricognizione delle esperienze europee contemporanee. Nel giugno del 1943, Pagano pubblicò su “Casabella” quello che possiamo considerare il suo testamento spirituale, il citato Presupposti per un programma…, in cui si auspicava un mutamento culturale e morale che privilegiasse l’edilizia proletaria. Nello stesso anno Libera e Vaccaro pubblicarono su «Architettura italiana» (n. 5-6) il saggio Per un metodo nell’esame del problema della casa e, assieme a Ponti, su «Stile» (n. 30), Per la «Carta della casa». “L’esigenza della casa per tutti – scrivono i tre autori -, anzi della casa per ciascuno, come corregge giustamente Banfi, si fa presente con sempre maggiore evidenza […] La «casa di ciascuno» deve essere per ciascuno costruita su termini di uguale dignità”. Gli stessi tre autori pubblicarono a Milano, due anni dopo, il volume Verso la casa esatta. Contemporaneamente Bottoni, nel saggio La casa a chi lavora, preconizzava la costituzione di un «Istituto nazionale di assicurazione sociale per la casa». Nel 1948 Diotallevi e Marescotti diedero alle stampe a Milano Il problema sociale, costruttivo ed economico dell’abitazione, un libro che coronava una serie di sforzi teorici sul tema, pubblicati tra il 1940 e il ’41 su «Casabella», auspice Pagano, e nel volume Ordine e destino della casa popolare (Milano 1941). Il programma di una casa-per-tutti ebbe l’avvio con la ‘Legge Fanfani’ del 1949 e con la costituzione dell’InaCasa. Intanto si era acceso un dibattito sui temi generali della progettazione e sul ruolo stesso dell’operatività dell’architetto: a Milano vengono tradotti e pubblicati due libri di Wright, Architettura e democrazia, nel 1945, e Archi-

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tettura organica l’anno seguente. A Milano si era costituito il “Movimento studi per l’architettura” e a Roma, poco dopo la Liberazione, la “Associazione per l’architettura organica” animato da Bruno Zevi che nello stesso anno diede alle stampe Verso un’architettura organica. Va detto che sul tema della casa popolare si dovette registrare una cesura tra la ristrutturazione urbana e la creazione di tanti ‘quartieri’ di case popolari, alcuni assai riusciti, altri meno. Forse si era persa l’occasione di riconfigurare lo spazio delle città che furono lasciate crescere senza ordine; forse si era persa anche l’occasione di creare poli decentrati intorno alle grandi città e ridisegnare il territorio. Nel 1953 Comunità pubblicò il testo di Lewis Mumford La cultura della città, che costituì un lievito per l’interesse verso l’unità di vicinato e per le sperimentazioni svedesi di città-satellite. Le illusioni e le disillusioni generate dai vari tentativi-pilota - da Årsta ad Örebro, da Gröndal a Vällingby - ci attestano la storia della necessità ma anche della crescente inapplicabilità dello schema generoso ed idealistico della cittànon-città, vivificata ed insieme negata dall’esistenza in essa di molti “cuori”. La storia della casa popolare del secondo dopoguerra in Italia non è tutta da scrivere, ma è certamente ancora tutta da leggere, prima che per le città italiane il tempo sia del tutto scaduto.


5 Veduta aerea del Quartiere Tiburtino, Roma. Coordinatori Mario Ridolfi e Ludovico Quaroni, 1950-54 6 Erik &Tore Anlsen Progetto del centro della cittĂ -satellite di Ă…rsta, Stoccolma, 1943-44

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7 Carlo Cocchia (coord.) Progetto urbanistico del Quartiere “Secondigliano 1”, Napoli, 1956 8 Sven Markelius Città-satellite di Vällingby, Stoccolma, 1° piano particolareggiato, 1950 9 Gio Ponti Copertina, «Stile» n. 1, 1945

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La ringhiera a Milano. Tipo e funzione Lucia Bisi

“Mariuccia, prim tettin de la mia vita, malius surris, tra i lister de ringher…”, “Mariuccia, prime tettine della mia vita, malioso sorriso, tra le liste di ferro delle ringhiere…” Franco Loi1

Trascurate dalla storia dell’architettura e della città, le ringhiere milanesi o linghere sono invece molto visitate dalla poesia e dalla letteratura. Sono luoghi per eccellenza appartenenti a una certa Milano operaia, con una loro base arcaica e sentimentale nella vita dei borghi, dove classe operaia nuova e ceti popolari vecchi coabitavano, assimilati nella medesima vita e usanze di quartiere: i circoli cooperativistici, le osterie, le cascine, nelle cui vicinanze o affacci ancora fluiva l’acqua del naviglio interno, dove si allineavano i portici delle “sciostre”, i magazzini di sosta per le merci. Tutti elementi, questi, costitutivi della storia della città, di talvolta equivoca considerazione folcloristica o ambientale che, interpretando una generica nostalgia per un passato mitico della metropoli, hanno in buona misura impedito una corretta valutazione culturale, funzionale e tecnologica di strutture urbane in parte scomparse. Ma, a differenza di altre tipologie di cui non permane traccia, le caratteristiche ringhiere formano a tutt’oggi il tessuto edilizio più rilevante dal punto di vista quantitativo della residenza popolare, attualmente coinvolto in un processo di recupero e di riprogettazione dell’esistente, connesso al parziale e progressivo cambiamento delle funzioni. Significativamente definite dalle agenzie immobiliari “vecchia Milano”, tali

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strutture esprimono un modo di abitare tra l’interno e l’esterno, tra il privato e il pubblico che oggi ne arricchisce il fascino. La città contemporanea, dopo averle rimosse, ora le rivaluta, tanto più che la loro ubicazione è spesso nel centro storico (a Brera, in corso Garibaldi o a ripa di Porta Ticinese, per fare alcuni esempi di configurazioni pre-ottocentesche) o con il centro in immediato contatto (a Porta Volta, a Porta Genova o a Porta Vercellina), quartieri nei quali fino alla fine degli anni ’20 è perdurata un’edificazione di caseggiati certamente non borghesi, bensì “a ringhiera”. Com’è noto, la residenza a ballatoio (e la Milano proletaria) tende a localizzarsi, con poche eccezioni, nei quadranti nord e sud della periferia urbana (a nord, col baricentro approssimativo a Porta Volta; a sud ovest, imperniata grosso modo intorno alla Darsena), configurando fasce di edilizia mista di industria piccola e media, servita dagli scali ferroviari, innervata da quelle direttrici di traffico così peculiari della città lombarda che sono i vecchi assi di penetrazione a raggiera da tutto il territorio regionale. È evidente che il tema della casa di ringhiera è di notevole interesse per una città di impianto operaio come Milano e tuttavia non esistono studi specificamente riferiti al tipo più comune della casa d’affitto popolare il cui ordinamento in percorsi collettivi esterni, che consentono la percorribilità entro il perimetro dell’edificio, risponde appunto a criteri di massimo sfruttamento speculativo.2 Ad ogni modo, l’evoluzione dell’edificio a ringhiera non può essere vista come sviluppo graduale di un’unica tipologia

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1-2 Case di ringhiera a corti passanti o “casere” a Porta Ticinese: piante e vista Pagine successive: 3 Case di ringhiera nelle foto di Ugo Mulas 4-5 Case di ringhiera a Porta Venezia: tipi edilizi


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residenziale specifica, con caratteri adeguati solo a una determinata classe sociale. È al contrario un tipo edilizio che attraversa una lunga fase di transizione, non sufficientemente indagata, che si protrae all’incirca dalla seconda metà dell’ottocento agli anni trenta. Nell’Italia industriale del XIX secolo in genere la costruzione di insediamenti aziendali e di nuovi tipi di quartieri operai è molto rara e pertanto lo sfruttamento intensivo dell’edilizia storica, con indici di affollamento e condizioni igieniche disastrose, costituisce per un lungo arco temporale l’alternativa precaria, ma quantitativamente assai consistente, a nuovi tipi edilizi urbani la cui messa a punto è ancora in fase di abbozzo. Il grosso della popolazione lavoratrice si insedia nell’edilizia rurale o semi-rurale dei borghi esterni, nei corpi di fabbrica delle cascine a corte lombarda, che vengono frammentati in alloggi di uno o due vani disimpegnati da lunghi ballatoi esterni in legno, mentre all’interno del perimetro urbano le strutture della città

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mercantile manifatturiera (medievali-rinascimentali) sono intensamente sfruttate quando si prestino a suddivisioni in piccoli alloggi ugualmente minimali. Se in una prima fase la soluzione adottata per rendere possibile la permanenza della classe operaia nell’ambito urbano è quella di riadattare il patrimonio edilizio esistente, successivamente l’incessante incremento della popolazione porterà ad un’edificazione progressiva di ogni interstizio all’interno dello spazio urbano e delle aree libere all’esterno dei bastioni. I tipi edilizi storici ripresi nei tipi di transizione praticamente continueranno a mutuare il modello bracciantile o della “ringhiera”, sempre sui medesimi presupposti planimetrici basati sul sistema del ballatoio. La casa di ringhiera configura un tessuto edilizio compatto, di blocchi in serie continua a filo strada con altezze di 4-5 piani, con corti interne impaginate da lunghi ballatoi che smistano gli alloggi

composti per lo più da due vani comunicanti, privi di servizi, in cui possono abitare 5-6 persone. Di questa tipologia ultraeconomica e ultraspeculativa è caratteristica la densità di alloggi per edificio (la media è di 40-60) su una superficie in pianta non particolarmente estesa, e la scarsità dei servizi costituiti da latrine alla turca servite dal ballatoio in comune fra diversi alloggi (6-7 in media) e da fontanelle per l’acqua ad ogni piano, mancando perfino, in origine, l’impianto idrico nei singoli alloggi. L’unico altro servizio sempre presente, perché utile ai proprietari per il controllo degli inquilini, è la portineria. L’accesso alla scala, passante dall’immancabile portineria, è dal cortile, a sua volta collegato alla strada da un portone. I piani terra verso strada sono in genere occupati da piccoli negozi e botteghe artigiane, quelli su corte da laboratori e depositi. Nell’evoluzione di quello che appare ormai come un tipo architettonico è possibile individuare un’omogeneità mor-


fologica, conferita dall’uso ripetuto di un vero e proprio sistema di elementi costruttivi ricorrenti per tutta l’estensione dell’isolato, anche in edifici costruiti in anni diversi: il sistema “a mensola” in pietra, con lastra di calpestìo sempre lapidea e parapetto metallico (unitamente ad altri elementi come i serramenti, le gronde, ecc.). Gli elementi che presentano maggior mobilità attengono a soluzioni distributive, impiantistiche e uso di materiali, cui in genere conseguono una migliore abitabilità e una nuova utenza. La ringhiera può restringersi fino a diventare un pianerottolo semi-aperto; la rigidità dello schema di alloggi può lasciare il posto a variazioni nel numero di locali e della disposizione, servizi igienici sia pure rudimentali, imposti da nuovi regolamenti edilizi, possono venir incorporati nell’alloggio. Il disegno e la qualità edilizia della facciata continuano invece ad essere scollegati dall’organizzazione interna. La distribuzione dei locali non ha nulla in co-

mune con l’edilizia borghese, mentre l’architettura esterna tende a riprenderne gli schemi al punto da risultare, pur nella sua modestia, da questa difficilmente distinguibile. Generalizzando, si può affermare che nella varietà dei casi la tipologia a ringhiera milanese si insedia su lotti con affaccio verso strada di 25-30 metri e con profondità tra i 30 e i 50 metri. Dimensione e conformazione di questi tipi architettonici sono sempre comunque rapportabili al valore dell’area su cui sono edificati. Ancora nell’immediato dopoguerra risultano non poche a Milano le sopravvivenze di un’edilizia con disimpegno a ballatoio, brutalmente utilitaria, destinata ad una rapida obsolescenza in quanto costruita con materiale scadente. Abbiamo testimonianze degli anni ’50 che confermano il permanere di condizioni abitative infime, incapaci di evolvere in risposta alla “modernizzazione” e che indicano come in tutti i quartieri centrali,

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6 Case di ringhiera foto Mirella Longhega 7 Case di ringhiera, Milano foto Heinrich Helfenstein 8 Case di ringhiera a Corso San Gottardo 18 Elementi costruttivi del sistema distributivo “a ballatoio” Pagine seguenti: 9 - 10 Case di ringhiera sul Naviglio “sciostre” per lo stoccaggio delle merci 11 “Sciostre” a Porta Ticinese: la “Pusterla” vista da ovest incisione di G. Galliari, 1807, raccolta Bertarelli

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anche in quelli più marcatamente “borghesi”, la presenza proletaria raggiungesse punte estremamente elevate nelle vecchie case a ringhiera, contraddistinte da labirinti di anditi e balconate, descritti come luoghi da incubo: “Scendo davanti a una casa di corso Buenos Aires… Entro in un andito poi in un altro. Qui tutto è vecchio, corroso, con effetti allucinanti.(…) Una balconata cadente gira tutto intorno al primo piano, come un corridoio scoperto, e vi si affacciano alcune porte e finestre munite di sbarre, espressione di una rovina e di una solitudine che ha qualcosa di fiabesco”.3 Nelle case di ringhiera, con stratificazioni di alloggi minimali sui diversi piani e articolate talvolta in ampie corti passanti (le cosiddette “casere”) - dove la promiscuità raggiunge ancora oggi, in aree periferiche, punte intollerabili -, la

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vita associativa si esaurisce negli spazi e percorsi che permettono la mobilità: i ballatoi i cortili. Ma se da un lato tali spazi comuni sono integrati tra loro e realizzano una sostanziale continuità nell’uso collettivo del reticolo di connessioni e servizi che su di essi gravita, d’altro canto la logica di affastellamento che li informa difficilmente si traduce in disponibilità socializzante. Può fare di essi, piuttosto, teatri privilegiati o palchi all’aperto di azioni sceniche, con tanto di dimensione corale, come la seguente descritta da Gadda: “…l’uscio, irto di catenacci, catenelle, fermi e stanghette: dava sul ballatoio. (…) Zoraide aprì finalmente ed uscì lei sul terrazzino, decisa. Sui terrazzini, da lato e di fronte, nel sole tépido, c’erano già per qualche loro occorrenza altre diciassette donne, quale appoggiata alla ringhiera e quale in sulla porta

come per entrare od uscire, e quale con tra mano un rugginoso coltello dal defunto manico a rimestar dentro vasi o cassette di probabili rosmarini e garofani: intenzionata poi a dacquarli generosamente tutti, così per concludere. Erano certamente occupate ne’ fatti loro…”. “Ce n’è delle stupide a prendere il fresco!”, fa esclamare Gadda alla prima attrice dell’azione teatrale, nonché protagonista del racconto, al centro di tutta l’attenzione del coro ovvero vicine di ballatoio.4 Ancora, per altri aspetti, le donne che, scortate da “qualche triste canarino, o da qualche muccoso marmocchio”5 rimestano la terra nei vasi o cassette di rosmarini, sembrano interpretare un qualche remoto rituale evocativo dell’ispirazione rurale, da cui lo schema tipologico della ringhiera deriva.


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Rituale, questo delle coltivazioni sul ballatoio, spesso di erbe aromatiche ad uso di cucina, che non si è mai interrotto del tutto neanche oggi, compensando la ringhiera alla carenza generalizzata di spazi esterni. A partire dal dopoguerra si costruiscono case d’affitto o condominiali sempre con criteri di estrema economia ma non più a ballatoio, con uno sfruttamento massimo del blocco ottenuto raggruppando diversi alloggi attorno ad una scala. Le variazioni, più che da particolari esigenze della domanda, sono dettate dalla volumetria consentita e dalla nuova regolamentazione che impone materiali di costruzione durevoli e soprattutto servizi all’interno di ogni alloggio. Si realizza pertanto, con la privatizzazione degli spazi esterni, un prevalere, in termini architettonici, dei pieni sui

vuoti che, nel porre rimedio all’inadeguatezza delle condizioni igieniche, ingloba in volumetrie chiuse percorsi e servizi, precedentemente spazi di mediazione tra interno e esterno. “…e cadauno il suo proprio cesso, non in sulle scale o su’ ballatoi, buono per cento in comune; oh! gioiosa meraviglia d’una latrina secreta, e tutta sua, e non d’altri! Col “campanello”, con l’acqua! Evidentemente la città s’avviava a divenire metropoli”.6

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F. Loi, Strolegh, Einaudi, Torino 1975, p. 5. Limitata quantitativamente e frammentaria la pubblicistica in merito al tipo della casa di ringhiera. Tra i testi in parte riferiti alle ringhiere milanesi, possiamo citare i fondamentali: L. Diotallevi e F. Marescotti, Il problema sociale costruttivo ed economico dell’abitazione, Poligono, Milano 1948-1950 (rist. anastatica: 2

Officina, Roma 1984); Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano e Gruppo di ricerca diretto da Maurice Cerasi, Città e periferia. Condizioni e tipi della residenza delle classi subalterne nella città moderna, Clup, Milano 1973; M. Cerasi, G. Ferraresi, La residenza operaia a Milano, Officina, Roma 1974; Milano: S. Gottardo/Ticinese, Contributi didattici al recupero, a cura di R. Crespi, A. Mangiarotti, C. Molinari, G. Nardi, S. Piardi e G. Prevosti, Angeli, Milano 1977; Elementi per un progetto: la mobilità. Indagine sulla struttura locale dei trasporti, del traffico e della mobilità interna all’area di intervento: elementi per una ipotesi di progetto, a cura di A. Mangiarotti e C. Molinari, Angeli, Milano 1977; MZ5. Milano Zona cinque, a cura di M. Deimichei e G. Fiorese, Comune di Milano-Decentramento-ICI, Milano 1982; G. Motta e A. Pizzigoni, La casa e la città. Saggi di analisi urbana e studi applicati alla periferia, Clup, Milano 1991. Libri fotografici e/o di taglio giornalistico: G. A. Borgese, L. Vergani e T. Nicolini, Cortili di Milano, a cura di M. Somaré, Bestetti, Milano 1978; V. Carnisio e N. Lumbau, La ringhiera, Grafiche A. Nava, Milano s.d. (1975); L. Sarzi Amadè, Milano fuori di mano, Mursia, Milano 1987. 3 A. Ortese, Silenzio a Milano, 1958; La Tartaruga, 1998, p.82 4 C. E. Gadda, La meccanica, Milano, Garzanti, 1991, pp.12,17. 5 Ibid. 6 C. E. Gadda, cit., p.50.

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Monolitico versus scomponibile: le case sotto un tetto comune di Josef Ple cnik v

Antonella Gallo

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Case sotto un tetto comune è la denominazione che Josef Plecnik conia per una grande opera di “edilizia residenziale” cui lavora intorno al 1944, destinata a trovare una sua collocazione in un una delle insule del quartiere Krakovo, allora poco più che un sobborgo rurale ai margini di Lubiana, posto sulla riva sinistra della Gradascica, subito prima dello sbocco nella Ljubljanica, una vasta area che la terminologia urbanistica corrente non mancherebbe oggi di classificare come zona di espansione o di nuova lottizzazione. In termini assolutamente generali il problema che il progetto si propone di affrontare, nell’ambito delle previsioni di piano redatte dallo stesso Plecnik, è quello della costruzione, in un territorio ancora pressoché agricolo e pur tuttavia designato a diventare parte integrante della città, di un nuovo insediamento residenziale capace di proporsi come valida alternativa al sistema della casa unifamiliare, all’anarchia della casa singola, senza per questo precludere non solo ogni legittima pretesa di individualità architettonica, ma anche necessità molto pratiche connesse all’esigenza di contemplare in un organismo unitario abitazioni di taglio dimensionale diverso in ragione della consistenza del nucleo familiare e della grandezza del lotto di proprietà. Il compito della costruzione della città di massa,, l’incontro con il problema della sua espansione, offre a Ple cnik l’opportunità di sperimentare e mettere a punto una tecnica insediativa del tutto originale nella misura in cui, attraverso una ipotesi architettonica precisamente strutturata e definita, evidenzia modalità e principi utili a ricondurre il v

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tema dell’abitazione privata, individuale, ad assumere valenza di struttura urbana capace in sé di coniugare accidentalismo, molteplicità, unità. Il progetto, che nella concezione plecnikiana ha fra i suoi presupposti anche quello di offrirsi come una possibile soluzione al problema della casa per le famiglie numerose e meno abbienti, prevede che sia compito della municipalità farsi carico non solo della realizzazione dei principali servizi - acqua, corrente elettrica, rete fognaria- ma anche della costruzione e manutenzione di un lungo tetto al di sotto del quale, nel corso del tempo, ciascun proprietario potrà costruire su proprio progetto la propria casa unifamiliare con l’unico vincolo di rispettare un limite di altezza prestabilita, funzionale a preservare l’ampia intercapedine spaziale che si viene a creare tra il solaio della casa e il tetto, e a non oltrepassare, nella disposizione della giacitura dei muri perimetrali, il tracciato definito dai pilastri che sorreggono la copertura. Da qui la denominazione case sotto un tetto comunale poi contrattasi in case sotto un tetto comune. Per esemplificare meglio il concetto e le sue possibili modalità di articolazione Plecnik elabora due soli disegni in scala 1:200. In uno si vede la pianta del piano terra e l’alzato fronte strada di un primo segmento del sistema, lungo 124.5 metri, segmento che nel disegno successivo viene ulteriormente ampliato a 172 metri sino a delineare una sequenza di dodici abitazioni di differente dimensione, disposte a schiera, inframmezzate da camminamenti pedonali che collegano il fronte strada con la campagna coltivata verso cui si affaccia il fronte v

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retrostante dell’edificio. In entrambi i fogli compare una piccola planimetria dalla quale si deduce che l’isolato, seguendo la piega di 60° del sedime stradale, avrebbe - se necessario- potuto raggiungere una estensione complessiva in lunghezza di 245 metri. Quale sia l’invenzione base, il concetto spaziale e strutturale che sta a fondamento di questo progetto è spiegato dallo stesso Plecnik nel primo disegno, dove al di sopra del prospetto fa la sua comparsa, tra le molte che sarebbe stato possibile rappresentare del manufatto, una sola, paradigmatica sezione trasversale. La sezione, che riproduce lo spaccato corrispondente alla sesta unità, raffigura un tetto a capriata sostenuto da tre file di colonne. Le colonne, la cui altezza da ratta a ratta è approssimativamente di 9.30 metri e il tetto, il cui punto di colmo raggiunge quota 12.40 m., sono gli elementi che definiscono la prima grande struttura spaziale destinata a sormontare, cingere, incorporare nei suoi 12 metri di luce i volumi murari terrazzati di ogni singola abitazione. Chiarito il concetto base, pianta e prospetto si incaricano di mostrarne la possibile articolazione: la superficie muraria può essere distinta dalla colonna oppure inglobarla progressivamente per piani, senza però mai assimilarla integralmente in altezza perché questo significherebbe togliere forza al tetto come elemento unificante di coronamento. L’autonomia tra sistema trilitico e sistema murario riconvenziona il rapporto tra struttura portante e struttura formale: nel suo complesso la conformazione dell’intero organismo architettonico non è vincolata alla forma delle singole abitazioni né coincide con esse. La facciata anche se sembra essere un tutt’uno, in realtà nasce da una stratificazione di impaginati. Diversi piani, differenti tessiture pensate in ragione di una loro reciproca compenetrazione e composizione. v

Addizione e contrappunto sono i due principi a cui si uniforma qui l’intera fabbrica, un vero e proprio isolato, che deve la sua inedita configurazione alla contaminazione e alla compenetrazione dei due sistemi: quello ritmico, unitario, archetipico dello stoà, che unifica e delimita spazialmente ma anche temporalmente un secondo sistema, quello residenziale formato dalla schiera di edifici a due piani il cui ultimo solaio non supera quota 6.75. Un organismo

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nel suo insieme assai articolato, diversificato, non seriale, che Ple cnik immagina come uno scenario urbano fatto di case, cortili, passaggi, percorsi che si succedono in sequenza al di sotto di un’unica copertura. Un sistema che non rimanda a nessun tipo metastorico repertoriale ma allude, attraverso l’ampia varietà di figure addensate sulle facciate delle singole unità, alla complessità, alla ricchezza di un scenario urbano sedimentato. Una immagine, quest’ultima, a cui non è probabilmente estranea la suggestione che esercita in Plecnik la vista quotidiana della quinta edilizia medioevale formata dalle piccole case disposte in serie lungo il margine nord di Krakovo. Qui, però, questo modello della tradizione viene non solo rivisitato tipologicamente, ma anche ibridato, ampliato con l’idea di un tetto comune, elemento fortemente enfatizzato nel progetto. Dalla contaminazione dei modelli oggetto di trascrizione/ attualizzazione ha origine una struttura figurativa composita di grande modernità che ha un effetto deflagrante rispetto agli stereotipi del sistema. Oggetto di un radicale processo di adattamento e smembramento “ogni schema accademico è in effetti prima assunto e quindi successivamente negato”. Subordinando le regole del linguaggio accademico alle ragioni del progetto, l’elemento cardine del sistema trilitico può non solo per unità seriali variare in ritmo e altezza per adeguarsi rispettivamente al diverso taglio dei lotti e all’avanzare del muro, ma anche, progressivamente, diventare da principio compositivo, da regola di costruzione del partito architettonico murario nelle unità più estese, motivo contrappuntistico che governa gli scarti, i chiasmi, le asimmetrie bilanciate dei piani di facciata in quelle più piccole. L’inclusione e la sovrapposizione del principio additivo entro quello ritmico sottrae elementi e apparati decorativi alla gerarchia totalizzante di rapporti principiata dall’ordine: basamenti, portali, coronamenti possono anche assumere una valenza figurativa autonoma. Liberi dal vincolo dell’ordine i piani di facciata diventano disponibili a trasformarsi in superfici su cui incastrare, ritagliare pezzi di partiture, gruppi di finestre in unità seriale, configurazioni eterogenee che il grande tetto sollevato riporta all’unità, rendendo più incisivo il ruolo contrappuntistico dell’elemento trilitico. Per quanto estraneo ai processi di astrazione e riduzione formale che v

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Pagine precedenti: 1-2 Modello del progetto elaborato nell’ambito delle esercitazioni assegnate nel Corso di Teorie e Tecniche della Progettazione Architettonica tenuto da Antonella Gallo nell’AA 2000/2001 allo IUAV 3 Vista del modello 4 Josef Plecnik progetto di “Case sotto un tetto comunale” per il sobborgo di Krakovo a Lubiana, 1944, ipotesi con dodici unità residenziali v

Pagine successive: 5 Viste d’insieme del modello 6 Vista del modello 7 Josef Plecnik progetto di “Case sotto un tetto comunale” per il sobborgo di Krakovo a Lubiana, 1944, ipotesi con otto unità residenziali v


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contraddistinguono la modernità, nella concezione il sistema di convenzioni che regola l’uso del lessico plecnikiano si rivela decisamente moderno. In uno scritto che risale al 1983, “La coltivazione architettonica della terra”, analizzando l’opera del maestro sloveno, Luciano Semerani già poneva l’accento su quanto potesse essere fuorviante leggere distrattamente le manipolazioni plecnikiane unicamente come operazioni o capricci stilistici fine a se stessi: “sistematico è in Plecnik il montaggio di partiti architettonici eteronomi e di grandezze eterogenee. Colonne, ed altri elementi architettonici, edicole, tempietti, si sfilano l’uno dall’altro; come in un gioco di scatole cinesi. Intelaiature spaziali tra loro del tutto estranee si contrappongono o meglio vengono fra loro interpolate, alterando ogni fissità nel piano, sconvolgendo ogni possibile ricerca di un punto di quiete, ove riposare, come voleva Otto Wagner, lo sguardo”.1 È sempre in rapporto al testo urbano che gli scarti operati acquistano polisemia, connotatività, valore, mostrando di derivare da un’idea di luogo la propria ragion d’essere. Nella città medioevale il fronte strada deve la sua configurazione alla parcellizzazione delle lottizzazioni e quindi alla proprietà. Dalla contiguità e dall’allineamento delle singole particelle si forma la quinta urbana. L’uso di elementi e apparati decorativi codificati dalla consuetudine costruttiva contribuisce a dare organicità a questo insieme, ma l’assenza di un sistema unitario di norme che governi le relazioni tra gli elementi rimanda alla pratica e alla scelta individuale la configurazione delle sinv

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gole unità edilizie che compongono la serie. Da qui la varietà e in una certa misura casualità delle cortine edilizie medioevali. Plecnik, immune da facili quanto immediati contestualismi cui poteva portare l’occasione di rileggere una tradizione attraverso i suoi stilemi più scontati, replica qui la sua idea di medioevalità assimilando nell’impianto compositivo i suoi principi costitutivi, coniugando la consuetudine insediativa medioevale con la spazialità aulica dello stoà, figura preposta a dare misura e articolazione allo spazio urbano, durata e tempo alle sequenze, ma anche a mediare il rapporto tra edificio e paesaggio. In questo modo l’abitazione privata, come altri edifici pubblici, entra in stretto rapporto con la scala urbanistica, con la composizione urbana della città. Nell’idea urbana di Ple cnik il tema dell’abitazione individuale come i ponti, come gli obelischi e i monumenti può assumere un ruolo ordinatore nell’accidentalismo urbano. v

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1 L. Semerani, La coltivazione architettonica della terra, in Joze Plecnik. Il ritorno del mito, Edizioni CLUVA, Venezia 1983, pp. VI-VII

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A porte chiuse: le case di Chagall Cinzia Bigliosi Franck

“Dove siete, oggi?” M. Chagall.

Una delle costanti che disegnò destini e percorsi dell’arte e della cultura del XX secolo fu senza dubbio quella dello sradicamento dei suoi artisti. Decisiva fu l’esperienza dell’esilio che spesso segnò di ferite immedicabili non solo l’esistenza dei singoli, ma anche quella di intere culture ed etnie, giungendo, nella sua forma estrema, al loro quasi completo annientamento. Anche l’esistenza di Marc Chagall (1887-1985) ebbe come epicentro l’erranza. Infatti, nato a Vitebsk, Chagall si allontanò dalla terra russa seguendo il corso di peregrinazioni che lo videro abitare prima a Berlino, poi in America e a Parigi. Dimore occasionali predisposte del caso e offerte all’esiliato come luoghi di sosta temporanea. In ognuno di questi alloggi lo si vedeva sovente stazionare nelle soffitte che, come gli aveva insegnato il nonno, erano il punto di vista migliore sulle cose e sulla vita. Nel 1950 si trasferì a Saint-Paul-de-Vence, acquistando l’atelier ‘Les Collines’ che tempo prima tanto aveva ispirato la penna e i sensi di Paul Valéry. Finì per morire quasi centenario in quella Provenza che aveva affascinato le anime di Matisse, Picasso e Nicolas de Staël. Dopo il dramma esaltante ma anche tragico della Rivoluzione, Chagall aveva deciso di lasciare Mosca per sempre, ma prima di farlo, tra il 1921 e il 1922, scrisse le memorie di quella che era stata la propria esistenza fino a quel momento, usando uno stile quasi paratattico con il quale accatastò ricordi e persone, legando con i propri disegni i

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diversi capitoli dove affiorano le immagini di una vita - che, fino ad allora, se non proprio appagata, era stata almeno felice - con l’urgenza di chi sente la propria memoria svaporarsi nell’incombente partenza che lo spinge ad entrare inesorabilmente nel flusso della grande Storia di un popolo eternamente errante tra il deserto e la terra promessa. L’urgenza di chi sente che “il passato non sarebbe più tornato”. “Proprio nel momento della mia nascita, nei pressi di Vitebsk, in una casupola, vicino all’argine, dietro una prigione, scoppiò un grande incendio. La città bruciava, il quartiere dei poveri ebrei. Hanno trasportato il letto e il materasso, la mamma col piccolo ai suoi piedi in un luogo sicuro, all’estremità opposta della città”. Così scrive Chagall in apertura della sua autobiografia La mia vita. La sua venuta alla luce corrispose con un immediato trasloco verso un luogo più sicuro, un luogo diverso da quella che fu solamente per pochi istanti la ‘casa natale’: egli nacque e, pur restando all’interno dello shtetl, partì immediatamente per il suo primo altrove. Restò per anni, fino al ’22, dentro i confini di Vitebsk, uscendo solo sporadicamente dal piccolo villaggio di campagna all’interno del quale l’esistenza era scandita dalle regolari abitudini degli abitanti, per lo più ebrei. La giornata fluiva tra i lavori delle botteghe degli artigiani, il passaggio per strada della vacchetta verso il macello, il rabbino e le preghiere alla sinagoga, le attività domestiche della madre, il samovar da preparare per il tè, i rientri serali dal lavoro del padre, il tutto vissuto con la


1 Marc Chagall Vue de la fenétre à Vitebsk, 1908

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preghiera sulle labbra di non voler “essere uguale a tutti gli altri “ e di voler “vedere un mondo nuovo”. La necessità di partire e abbandonare per sempre lo shtetl fu soprattutto artistica, e spinse Chagall a trasferirsi con la sua arte nel tumulto sperimentale dell’Occidente. Come la furia sistematica del nazismo avrebbe dissolto per sempre l’organico microcosmo dei villaggi ebraici, cancellandone abitanti e abitudini, così l’abbandono di Vitebsk e della famiglia aveva posto il pittore di fronte al personale orrore della disgregazione di un’armonia che riverberò il punto più alto della propria bellezza nel momento stesso della minaccia della sua perdita. Mentre raccoglie le sue memorie, per Chagall si fa cocente la necessità del ricordo: egli vuole, egli deve ricordare i familiari ai quali non cessa di mormorare e promettere di non dimenticare mai. Ma successivamente l’opera maggiore di Chagall, la pittura, sarebbe stato quanto di meno intimistico si fosse mai visto. Una volta a Parigi, si installa nel cuore pulsante della mitica bohème artistica della Ruche, dove gli altri artisti lo chiamano “il poeta”. Visita giornalmente gallerie e musei, studia Delacroix, Géricault e Courbet, cena con Cendrars e Apollinaire che lo definisce uno Zeus dolce, mentre le sue tele si riempiono dei vivissimi colori e della vita animata della strada, ma non della funambolesca Parigi che lo sta accogliendo. Le immagini che riproduce Chagall sono infatti gravide del suo mondo lontano, dell’immaginario popolare russo nel quale era cresciuto e che aveva abbandonato. D’altronde, nella Mia vita lo aveva promesso: il popolo ebreo andava messo al sicuro, incastonandolo nelle tele. I protagonisti vivono nelle strade dello shtetl: sono suonatori di violino con le scarpe rotte, rabbini con la torah aperta in mano, contadini ingobbiti di fatica e vacche appese e sanguinanti, bambini e massaie che guardano quel che accade intorno a loro, enormi galline e coppie di amanti che volano abbracciati sopra il paese. Nei quadri di Chagall, anche la tristezza più intensa dei lutti della vita si intreccia ai suoni gioiosi di bande e processioni, in cui sposalizi e funerali vengono celebrati lungo la stessa via, nello stesso momento, abbracciati dall’uguale amore belante di agnelli divini che benedicono dal cielo la vita del paese. L’evocazione dello shtetl è costante, anche come sfondo e torna vivificato di blu e rossi intensi, laddove “la carne

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Pagine precedenti: 2 Marc Chagall La promenade, 1917-18 3 Marc Chagall Au-dessus de la ville, 1917-18 4 Marc Chagall Au-dessus de Vitebsk, 1922 5 Marc Chagall Le sabbat, 1910 6 Marc Chagall Souvenir, 1925 7 Marc Chagall Les maisonnettes rouges, 1925

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si trasformava in colori”. Il ragazzo partendo dal paesino di Vitebsk aveva promesso di non dimenticare la famiglia, di non fare passare nemmeno un giorno senza aver ravvivato il fuoco della memoria dei genitori, dei fratelli e della saggezza del nonno perché le “loro maschere” erano scavate nel suo cuore “come ceppi di legno” - coprì con un velo silente il focolare, dimenticando di ritrarlo. Gli affetti, tanto cari da dover essere ricordati con delle candele accese di notte, e che tornano come una nenia, pagina dopo pagina nell’autobiografia, sulle tele si perdono, svaniscono e cadono nell’oblio. Le tele di Chagall restano in un muto silenzio sugli affetti domestici, mentre scivolano davanti allo sguardo dell’estraneo spettatore infinite versioni di scene di vita nello shtetl, di paesi nei quali il pen-

nello ammassa case e casupole, finestre. Migliaia di tetti, e tanti, tanti camini che con refoli di fumo mostrano – ma rendendolo invisibile – il caldo cuore dell’intimità protetta. Essi parlano – ma solo in modo obliquo e indiretto - della famiglia, di una famiglia, dell’aroma della minestra sul fuoco, del calore delle case d’inverno, con l’odore del legno che ricorda quella Heimat che ognuno porta nel cuore, qualsiasi sia il suo vagare nel mondo. Varcando per sempre il confine di Vitebsk, Chagall aveva salutato la famiglia e si era chiuso la porta di casa alle spalle. Gettò la chiave, non prima di aver verificato che tutti i parenti fossero in casa. Le case che dipingerà dal giorno dell’addio non hanno porte, e le rare volte che sfuggono all’attenzione dello sguardo veggente del pittore, appaiono sulle pareti delle abi-


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tazioni come macchie nere. Non hanno maniglie, né vetri, né tende. Sono porte da cui non si entra, né si esce più. Macchie scure come paurosi trompe-l’oeil di una chiusura eterna, come le cicatrici che restano sulla pelle a testimoniare per sempre una violazione passata. Chagall riuscì, come aveva promesso, a salvare il suo passato più intimo. Aveva riempito di immagini, persone e suoni barocchi le tele che, con tanta ricchezza non potevano non abbagliare lo sguardo di chi ammirato sosta davanti alle sue feste, mentre era riuscito a nascondere ciò che più gli apparteneva nello scrigno segreto delle case dei suoi quadri: come la lettera rubata di Poe, il segreto intimo e doloroso di Chagall è sotto gli occhi di tutti, ma nessuno sguardo potrà mai violarlo.

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Adalberto Libera in Toscana Il quartiere residenziale Italsider a Piombino Mauro Alpini

Il tempo del bello è passato, e solo la necessità, solo il bisogno tirannico richiedono i nostri giorni Goethe

L’attività professionale di Libera si è sviluppata in due diverse situazioni della storia politica, economica e sociale italiana, nettamente separate fra loro dalla cesura della Seconda Guerra Mondiale. Al periodo dell’anteguerra risalgono le sue opere più note, caratterizzate da una marcata personalità architettonica e partecipi dei grandi movimenti artistici dei primi decenni del secolo. Gli anni della guerra, d’altra parte, seppur caratterizzati da una parentesi di relativa inattività, di riflessione, di autocritica, non hanno di certo costituito per l’architetto un intervallo inoperoso o confuso. Egli ha affrontato il problema delle distruzioni riformulando radicalmente l’universo delle relazioni che producono l’abitare, ripensando alla casa come luogo della famiglia, del riposo, del cibo. Così nel dopoguerra la ricerca metodica prende il sopravvento sulla soluzione formale. Si tratta di una scelta ampiamente meditata, collegata con l’individuazione di nuovi compiti per l’architettura e l’orientamento della ricerca verso i grandi temi della pianificazione urbanistica, dell’abitazione economica, dell’industrializzazione edilizia. Ciò nonostante Libera si preoccuperà sempre di riaffermare il concetto secondo il quale la tecnica non deve essere mai fine a se stessa, ma servire a risolvere i problemi reali della vita. Anche l’arte è un fatto secondario, un mezzo. Se l’architetto non deve essere soltanto un artista o un ingegnere, a maggior ragione non deve essere né un riformatore sociale né un rivoluzionario: il suo la-

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voro è un servizio sociale, deve insistere sul terreno concreto della realtà, non avventurarsi nell’utopia o nell’ideologia. Ma proprio gli anni della guerra, dal ’40 al ’43, sono fondamentali nella definizione di questa nuova stagione nella produzione dell’architetto trentino. Libera, con l’amico Vaccaro, porta avanti un insieme di studi sull’abitazione che nella fase postbellica costituiranno una vena profonda alla quale attingere per inquadrare con lucidità il progetto della residenza. Nello scritto “Per un metodo nell’esame del problema della casa”, del 1943, i due autori affermano: “Ma noi vogliamo parlare di un campo limitato e che pure ha grandissima influenza sulla vita dell’uomo: la casa. L’immediato dopo-guerra, come è già stato rilevato e anche calcolato approssimativamente da altri, porrà in Italia, urgente e formidabile, il problema dell’abitazione del popolo. La salvezza sta nel trovarsi preparati a risolverlo realizzando i massimi benefici qualitativi e quantitativi consentiti dalla maturità di studi raggiunta, dall’insegnamento delle esperienze fatte e da una perfetta organizzazione economica e industriale sotto l’alta guida dello Stato; la perdizione sta nell’essere travolti dall’onda dell’urgenza e degli interessi singoli, cadendo quindi inevitabilmente nell’anarchia. Questo sarebbe il fallimento”. E ancora: “La determinazione precisa delle forme funzionali, la normalizzazione di alcune dimensioni e anche la produzione di elementi in serie, non solo non impediscono a chi ha animo di artista di andare oltre con la propria invenzione ai problemi risolti e comporre e interpretare con senso d’arte, ma gli forniscono anzi una sorta di fondamento

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1 Seconda soluzione di progetto Archivio Libera, Centro Pompidou, Parigi 2 Modello dell’insediamento Archivio Libera, Centro Pompidou, Parigi Pagine successive: 3 Vista dell’area di progetto Archivio Libera, Centro Pompidou, Parigi 4 Sezione dell’insediamento lungo il pendio collinare foto Georges Meguerditchian Archivio Libera, Centro Pompidou, Parigi 5 Schizzo Archivio Libera, Centro Pompidou, Parigi



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canonico che può costituire una base di unità stilistica, atta a fecondare l’ispirazione; allo stesso modo i canoni dell’architettura classica coi loro moduli prestabiliti non hanno mai tarpato le ali ai grandi architetti del Rinascimento, compreso il teorico Vignola. Quello che noi auspichiamo è precisamente l’“ordine” architettonico del nostro tempo”.1 Sempre del periodo della guerra, 194346, sono gli studi per il libro “La tecnica funzionale e distributiva dell’alloggio”, che confluiranno anche nelle lezioni alla Facoltà di Architettura di Firenze. Nella copertina del dattiloscritto, prima della prefazione, sono riportate citazioni da Goethe, (una delle quali dà inizio a questo scritto) molto significative del momento storico che Libera stava vivendo: “…delicato empirismo che si identifica intimamente con l’oggetto, e diventa in tal modo la vera teoria”. E an-

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cora: “Nel particolare sta veramente la vita. I risultati possono essere apprezzabili, ma più che giovare, stupiscono”.2 Da una lettera del ’45 sappiamo che Libera aveva informato di questi studi il suo ex-docente Arnaldo Foschini il quale, appena nominato alla direzione del Piano Ina-Casa, lo chiama come responsabile per il piano architettonico d’intervento. Giova ricordare che nei 14 anni di attuazione il piano portò alla realizzazione di ben 355.000 alloggi, pari a circa il 10% di tutti quelli costruiti in Italia in quel periodo. Libera ricoprirà questo incarico per soli tre anni, ma con un ruolo molto importante per l’impostazione iniziale dello stesso, sia per la redazione della manualistica a cui tutti i progetti dovevano attenersi, sia per il lavoro di revisione dei progetti che venivano inviati all’INA-Casa per la necessaria approvazione.

Fra la produzione manualistica di quegli anni bisogna ricordare la pubblicazione del 1952 “La scala del quartiere residenziale”3 sulla progettazione urbanistica e soprattutto i due fascicoli o “manualetti”, come li chiamava Libera, del 1950: “Suggerimenti, norme e schemi per la elaborazione e presentazione dei progetti”4 e “Suggerimenti, esempi e norme per la progettazione urbanistica; progetti tipo”,5 la cui parte centrale, intitolata “Raccomandazioni per la composizione urbanistica”, si articola in 21 punti, che elencano altrettante regole per la buona progettazione. Nel volumetto vengono proposti inoltre numerosi progetti e realizzazioni indicati come esempi da seguire (quelli dei paesi scandinavi, in primo luogo), o da evitare (quelli del razionalismo del Movimento Moderno). In particolare, quest’ultimo, contiene alcuni concetti che


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saranno puntualmente ripresi da Libera nella progettazione del quartiere residenziale Italsider a Piombino. Densità / Diradamento L’orientamento del piano “verso un’urbanistica estensiva” afferma la necessità di costruire allontanandosi dai modi tradizionali: l’isolato chiuso, l’allineamento lungo il filo stradale, l’addensamento dell’edificato attorno a pochi e ristretti spazi aperti. Le realizzazioni del piano invece dovranno proporre una bassa densità di popolazione, ed essere strutturate su “composizioni urbanistiche varie, mosse e articolate”. Razionalismo / Organicismo Nel fascicolo si raccomanda di non assumere a modello una certa idea di modernità, in particolare quella espressa dai quartieri razionalisti. Saranno le condizioni del terreno, il paesaggio, la vegetazione, l’ambiente preesistente, il senso del colore a suggerire la composizione planimetrica, indissolubilmente fusa con il luogo sul quale sorgono. Il quartiere, in sostanza, deve essere policentrico. Un centro principale e più centri secondari raggruppano diverse tipologie di servizi e attrezzature: religiose, scolastiche, commerciali, amministrative e finanziarie, di vigilanza, di assistenza sociale, sanitarie, ricreative, sportive, dei trasporti, delle aree libere, dei servizi tecnici di quartiere. Libera afferma che “tra la casa e il quartiere residenziale sta forse una nuova realtà che fino ad ora non abbiamo preso in sufficiente considerazione, e cioè l’unità d’abitazione”. “Unità”, per Libera, è un insieme di costruzioni che può essere aumentato o suddiviso, ma come un organismo ha “una sua propria indipendenza funzionale e una sua propria fisionomia architettonica”. L’unità d’abitazione è un corpo edilizio completo e al tempo stesso cellula di un organismo più grande. Astrazione / Contestualizzazione L’idea di modernità deve necessariamente radicarsi nella tradizione non solo italiana, ma anche locale. Nel manuale “si raccomanda” l’attenta considerazione del problema locale sotto ogni punto di vista (abitudini di vita, tradizioni locali, clima, latitudine e altitudine, materiali da costruzione locali, prodotti dell’artigianato, ecc…). L’ideazione dei nuovi complessi deve confrontarsi con l’ambiente, determinato dai nuclei storici, dal paesaggio, dalla tradizione dei tipi edilizi, dei colori,

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6 Modello dell’insediamento Archivio Libera, Centro Pompidou, Parigi 7-8-9 Studi sulle unità residenziali multipiano, Prospetti Archivio Libera, Centro Pompidou, Parigi 10 Studi sulle unità residenziali multipiano, Piante e gruppi-scala Archivio Libera, Centro Pompidou, Parigi 11 - 12 Studi tipologici e distributivi Archivio Libera, Centro Pompidou, Parigi Pagine successive: 13 Vista dell’area di progetto Archivio Libera, Centro Pompidou, Parigi 14 Planimetria quotata foto Georges Meguerditchian Archivio Libera, Centro Pompidou, Parigi 15 Schemi di combinazioni distributive camera/pranzo/soggiorno foto Georges Meguerditchian Archivio Libera, Centro Pompidou, Parigi 16 Progetto definitivo delle unità residenziali monopiano a schiera foto Georges Meguerditchian Archivio Libera, Centro Pompidou, Parigi 17 Progetto definitivo dei prospetti degli edifici multipiano Studi cromatici foto Georges Meguerditchian Archivio Libera, Centro Pompidou, Parigi 18 Dettaglio costruttivo dei cornicioni Archivio Libera, Centro Pompidou, Parigi 19 Modello di gruppo-scale prefabbricato Archivio Libera, Centro Pompidou, Parigi 20 Dettaglio costruttivo del gruppo-scale prefabbricato Archivio Libera, Centro Pompidou, Parigi 21 Modelli dei pannelli prefabbricati latero-cementizi Archivio Libera, Centro Pompidou, Parigi 22 Modello di un edificio multipiano Archivio Libera, Centro Pompidou, Parigi


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dei materiali, proposti come premesse alla progettazione dei quartieri, che dovranno calarsi cautamente nel contesto preesistente. Spazio costruito / Spazio aperto Più che un’opposizione, in questo caso si tratta di una necessaria integrazione. I nuovi quartieri e i principi insediativi che li modellano devono fondarsi sullo spazio aperto, sul suo disegno e la sua funzione. “Il carattere architettonico è inteso soprattutto come aspetto complessivo di spazi e volumi, di colore, di

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distanze e rapporti, deve intonarsi alle esigenze dei luoghi”. E ancora “Gli elementi edilizi dovrebbero essere disposti in modo da costituire ambienti architettonici raccolti e da creare scorci prospettici gradevoli componendoli col verde e con le linee del paesaggio”. Nel 1952, forse perché sia Libera che Foschini consideravano concluso il lavoro di “avviamento” del piano, l’architetto trentino lascia il suo incarico all’INA-Casa. Negli anni successivi realizzerà per lo stesso istituto numerosi

interventi, fra i quali quello nel quartiere Tuscolano a Roma, meglio noto come “Unità d’abitazione orizzontale”. La commissione per il Quartiere residenziale dell’Italsider giunge nel 1959 e riguarda il progetto di 2500 alloggi per i dipendenti dello stabilimento di Piombino, da realizzarsi nell’area di Salivoli. Piombino si trova nella Toscana meridionale, all’estremità di un promontorio che si erge a breve distanza dall’Isola d’Elba, noto per le attività siderurgiche qui allocatesi circa cento anni addietro per la favorevole vicinanza al minerale


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elbano. Verso la fine del secolo XIX, l’insediamento delle industrie siderurgiche al Portovecchio attira masse sempre crescenti di manodopera dalle zone vicine, per cui il numero degli abitanti e lo sviluppo topografico della città mutano profondamente. Non solo il vecchio centro, ma tutto il territorio circostante, che viene utilizzato in gran parte per favorire lo sviluppo dei grandi impianti siderurgici, subiscono profonde trasformazioni. Con l’insediamento dell’industria siderurgica la città acquista un nuovo volto, ed è questo l’evento che

segna l’inizio della storia contemporanea di Piombino. In conseguenza del notevole incremento dell’attività industriale, seguita alla seconda guerra mondiale, nei primi anni Cinquanta l’Italsider decide di costruire un vasto insediamento residenziale per i propri dipendenti nella zona di Salivoli. Il quartiere, che si distende dal lungomare dell’omonimo golfo verso l’interno fino a Monte Mazzano e verso ovest fino a Cala Moresca, costituisce in quel momento l’area cittadina di più recente sviluppo urbanistico, dato che le prime

costruzioni in forma di villini risalgono al 1952. Libera visita il luogo nel 1959 e le foto ante operam rivelano la profonda bellezza dell’ambiente e il significativo rapporto con il mare. Dai disegni emerge chiaramente il metodo progettuale seguito da Libera: quasi ogni foglio contiene allo stesso tempo un disegno, la sua verifica e la sua “definizione”: i dati di impostazione, le superfici, le densità, le ipotesi di “trama” (ossia di tessuto) per un determinato “punto” (ossia tipo edilizio). I moduli della trama sono poi ripetuti e

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combinati fino a soddisfare la domanda espressa dal rapporto “superficie-densità”. Contemporaneamente Libera svolge rapidi sondaggi sul dimensionamento dei tipi edilizi: quanti piani, quanti vani per metro lineare dello sviluppo di un corpo di fabbrica. Infine avviene la “posa in opera” degli schemi planimetrici sul rilievo aerofotogrammetrico e la costruzione del modello. Le verifiche prospettiche e assonometriche sono rarissime: ciò può essere interpretato come una grande fiducia nella funzionalità dell’impianto, che peraltro aderisce con precisione ai caratteri del luogo. La morfologia del paesaggio di Salivoli è così descritta dallo stesso Libera nella relazione di progetto: “l’area si presenta caratterizzata in due settori ben differenziati nei loro attributi orografici e paesistici, il primo a Sud-Sud Est rappresentato da un’ampia area pressoché pianeggiante, il secondo a Nord-Nord Ovest fortemente acclive, dal quale si gode la vista del mare e che con il suo andamento collinoso avvolge il primo settore a costituire un paesaggio di notevole interesse”.6 Dalla lettura di questo paesaggio, come lo stesso Libera afferma, “è scaturita la composizione del quartiere che si articola in due parti diversamente configurate in contrappunto fra loro, l’una con una trama urbanistica pianeggiante, l’altra urbanisticamente delineata in funzione diretta dell’andamento delle curve di livello, ad interpretare in senso unitario e coerente la natura dei luoghi”.7 La prima parte è una grande “isola” segnata da una trama urbanistica regolare, circondata da un anello stradale e percorsa al centro da una fascia di verde ai cui lati si attestano cinque “unità di quar-

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tiere” oltre al centro del quartiere con gli edifici pubblici al servizio di tutte e cinque le unità. Va precisato che Libera, per “unità di quartiere” intende una parte autosufficiente formata dalle abitazioni o “cellule residenziali” e dai servizi primari. La seconda parte del progetto, disposta sul fianco della collina aperto verso il mare e formata da quattro “unità di quartiere”, si organizza, per contrasto, in schiere modellate sulle curve di livello in ampi tratti di cerchio. I servizi pubblici e collettivi sono accuratamente rapportati al numero degli abitanti e si distinguono in: primari, comprendenti l’asilo, la scuola elementare e il nucleo negozi; secondari, comprendenti la scuola media, gli uffici, il mercato, la chiesa. I servizi primari hanno un raggio d’influenza commisurato ad una comoda e breve percorrenza a piedi, mentre i secondari sono dislocati nel centro civico principale in prossimità degli allacciamenti viari alla città e in posizione baricentrica. Un altro centro, secondario, con chiesa ed un ampio nucleo di negozi è ubicato in posizione di mezza costa nel settore acclive. Nel settore pianeggiante i servizi primari e secondari sono immersi nella fascia centrale, pedonale, che attraversando longitudinalmente il settore da Nord a Sud si spinge fino a raggiungere il campo sportivo e le attrezzature sportive ubicate nella zona bassa. Le zone verdi pubbliche, unitamente a quelle private, permeano tutto il quartiere a creare una continuità di verde inserito nella trama edilizia. La rete viaria, ricavata con andamenti differenziati a seconda delle due situazioni di giacitura, è organizzata in modo che il traffico pedonale risulti sempre indipendente dal traffico veicolare e ciò è ottenuto in due diversi modi

a seconda dell’orografia: nel settore pianeggiante l’anello della viabilità principale, innestata a pettine dalla viabilità a “cul de sac” di penetrazione ai lotti, permette che il traffico pedonale si svolga senza interferenze con il traffico veicolare e colleghi le residenze, le zone verdi e gli edifici pubblici; nel settore acclive è sfruttato il dislivello del terreno in modo che il traffico veicolare si svolga ad un livello diverso da quello del traffico pedonale. La tipologia edilizia deriva da una indagine statistico-sociale in merito ai desideri del personale e da una adeguata utilizzazione edilizia delle aree nel quadro delle previsioni del Piano Regolatore. È interessante verificare la ricchezza tipologica prevista da Libera, nonché l’invariante dei “pilotis”. Mediante la composizione dei diversi tipi edilizi, Libera fa in modo che il quartiere si presenti in modo prevalentemente disteso nel verde mentre alcuni edifici alti esaltano per contrasto il rapporto con il paesaggio suggerendo il perimetro di un’ideale cinta muraria turrita, culminante in un unico elemento a torre in acciaio. Tale edificio, secondo Libera, “dovrebbe significare il contributo dell’opera dell’uomo al progresso tecnico, in questo caso particolarmente significativo essendo l’iniziativa edilizia promossa da un’industria dell’acciaio”.8 Il ricorso ai materiali è certamente eterodosso in rapporto al linguaggio stereometrico del Movimento Moderno, ad esempio nell’uso dei pannelli murari prefabbricati in mattoni faccia a vista accostati e intervallati dai vuoti delle aperture. La nuova concezione strutturale non si contrappone alla costruzione muraria tradizionale ma ne costituisce una ver-


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sione evoluta. Il telaio in cemento armato non deve essere un’alternativa alla parete muraria, ma un nuovo dispositivo che della parete stessa consente di rinnovare i caratteri. La particolare plasticità di tale condizione della muratura sembra legarsi alla tradizione di forza e di plastico apparire dell’architettura toscana, composta di toni e volumi decisi e precisi. Le fasce orizzontali che attraversano il volume, contrappuntano la compattezza della sagoma primaria, mentre la coscienza dell’unità dell’organismo si applica anche alla riflessione sul tema del tetto, pensato per superare il tetto piano razionalista, arricchendolo con un cornicione che si traduce in valenza espressiva della facciata. D’altro canto l’interesse di Libera per la prefabbricazione è dimostrato anche in questo progetto dallo sviluppo di un modello unificato di gruppo-scala. La cura del dettaglio, come risoluzione plastica e materica di un fatto costruttivo, espunge gli assunti decorativi e rivela tutta la passione di un mestiere fatto di attenzione costruttiva, di severa sincerità. Libera non vedrà mai realizzato questo progetto (che sarà poi modificato da altri) ma ormai la “città di propaganda”, a cui si possono riferire tutti gli interventi di prima della guerra, è scomparsa dal suo orizzonte per lasciare il posto a un’altra città che non ha più la funzione di esaltare una comune appartenenza e civiltà, ma di rispettare ed agevolare la dimensione irriducibilmente privata dell’affettività familiare. La natura, in cui Libera immergeva totalmente, in coerenza con la lezione corbuseriana, le proprie immagini di città, è sostituita dalla “città storica” assunta come paesaggio di riferimento.

1 A. LIBERA, G. VACCARO, Per un metodo nell’esame del problema della casa, in “Architettura italiana”, n. 5-6, maggio-giugno 1943. 2 in AA.VV., Adalberto Libera. Opera Completa, Electa, Milano, 1989, pp. 174-175. 3 in AA.VV., ESPERIENZE urbanistiche in Italia, Istituto Nazionale di Urbanistica, Roma, 1952. 4 Ibid. 5 Ibid. 6 Centro Pompidou. Parigi. Archivio Libera. 7 Ibid. 8 Ibid.

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Dalla città reale alla città variabile L’Isolotto, S. Giusto e Sorgane nel dibattito dell’architettura residenziale pubblica in area fiorentina Fabio Fabbrizzi

Il risultato più certo che la fine del secondo conflitto mondiale ebbe sulla ripresa culturale italiana, fu quello di indurre gli italiani a schierarsi dopo un ventennio d’indotto sopore civile. Forse nel campo architettonico questo fervore si manifestò con maggior forza rispetto ad altri ambiti, dando nuovamente vigore a quell’intenso dibattito solo sopito dalla guerra- legato al problema della casa. La spinta generatrice di questo interesse fu subito soffocata dall’urgenza della ripresa economica, che si caratterizzò non solo come il necessario atto fisico di ricostruzione, quanto come una possibile soluzione alla disoccupazione e ai flussi migratori interni. Nell’urgenza del momento, non sfuggì tuttavia la questione legata al linguaggio della nuova architettura, ovvero al linguaggio da scegliere come espressione di rinnovamento, senza al contempo investire in innovazione tecnologica e in ricerca sperimentale. Non desti quindi stupore, la scelta italiana di attestarsi su un’architettura che rifiutava i modelli più innovativi e i miti della tecnologia, preferendo diventare l’espressione di una società alla ricerca di un proprio collettivo radicamento, nella quale la dimensione tradizionale viene usata per fugare qualunque tentativo di mimesi nei confronti sia della cifra classica, sia nei confronti della cifra razionalista, ed entrambe intese come inappropriate ad esprimere le ansie e i desideri della ricostruzione del Paese. In questa incertezza, si fa strada l’unica opzione possibile, l’unica via che pare onestamente rappresentare le diverse contraddizioni del momento, ovvero la via del realismo inteso come ricercata

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rappresentazione del reale e come accettazione indiscussa dell’esistente. Una via che proponendo un’espressività meno elitaria, più comprensibile e più vera, in altre parole maggiormente “parlata”, rendeva cifra collettiva quella che in alcune raffinate prove era rimasta all’interno della cultura architettonica italiana, come isolata sperimentazione. Dalle elaborazioni moderniste estratte dalla casa colonica toscana eseguite da Michelucci nel ’32, alla mostra di Pagano alla VI Triennale di Milano del ’36, alla casa a Porto S. Stefano del ’38 di Quaroni, insieme al Dispensario Antitubercolare di Alessandria del ’37 di Gardella, alla Casa del Viticoltore sempre di Gardella del ’46 e all’Albergo Pirovano a Cervinia di Albini del ’49, passando ancora per realizzazioni di Michelucci, Gamberini e Mollino, si segna l’affermazione in Italia di una serie di architetture in cui gli elementi della tradizione e della spontaneità si fondono al corpo del progetto. Il realismo che caratterizzerà l’edilizia pubblica, incrocia anche altre componenti, una delle quali è sicuramente quella delle relazioni con gli esempi esteri, come quelli legati alla cultura urbana di matrice anglosassone. Un messaggio spesso travisato da un provincialismo meravigliato della novità del tema della natura nella città e spesso incapace di utilizzare la carica di utopia che questo coinvolgimento poteva contenere da un punto di vista del nuovo modello sociale che ad esso poteva legarsi. La formulazione del Piano INA Casa, altrimenti individuato con il nome del suo legislatore Fanfani, costituirà di fatto l’elemento concreto della ripresa dell’attività edilizia italiana. L’urgenza dei

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tempi, non portò però a depotenziare il complesso problema dell’aggregazione, ovvero delle relazioni reciproche tra i vari edifici e tra questi e l’ambiente, tra edificio e città e tra edificio e modelli sociali. L’istituzione dell’INA Casa, scopre a poco a poco l’ideale della poetica di quartiere, intendendolo soprattutto nella forzatura dei propri valori sociali, come elemento di possibile propaganda: l’Isolotto, Canton Vesco, La Falchera, Borgo Panigale, il Tuscolano, il Tiburtino, Porto Marghera, Fuorigrotta e molti altri esempi ancora, consolidandosi attorno ad un ideale “comunitario” che ben incarnava i valori e le aspettative sociali della nuova classe politica. L’ideale del “quartiere”, sottendeva anche l’idea di una maggiore libertà nella realizzazione delle imposizioni del Piano Regolatore, così come c’era “nell’idea del quartiere organico, la convinzione che l’architettura moderna dovesse ormai abbandonare la strada dell’opera d’arte come espressione personale e realizzare col quartiere il tema principale di questo nostro tempo: uno standard elevato ma non personale e cioè un ottima prosa anziché una poesia mediocre”.1 L’Isolotto è stato il primo quartiere INA Casa ad essere realizzato a Firenze e come tale assume nel contesto urbano e in quello delle coeve esperienze italiane, un valore che potremo definire paradigmatico e al contempo anomalo. Paradigmatico perché le sue espressioni edilizie incarnano tutti quei presupposti che sono alla base del fenomeno realista, e anomalo perché di un realismo spurio si tratta. La zona interessata dall’intervento, collocata tra la linea di sviluppo della via Pisana e l’Arno di fronte alle Cascine, rientrava nelle aree di espansione periferica previste dal P.R.G. fiorentino. Il piano urbanistico di Pastorini, Pellegrini, Poggi e Tiezzi, denunciava la volontà di organizzare una sequenza gerarchica di elementi ad uso pubblico, mentre tutte le attrezzature e le residenze venivano pensate immerse in un connettivo verde, che avrebbe dovuto coprire una superficie tripla rispetto a quella destinata alla residenza, conferendo all’insieme un carattere di città-giardino. Tutto l’insediamento si sviluppa attorno ad una struttura pedonale concepita come una spina verde attrezzata, che attraversa tutta l’area parallelamente all’Arno. Questa spina, sottende delle unità più piccole denominate “prati” attorno alle quali si organizzano gli episo-

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di delle diverse residenze. Residenze che vengono costruite su progetti di Del Debbio, Di Castro, Pagano, Pastorini, Pellegrini, Poggi, Tiezzi, Vaccaro e ancora, Michelucci, Fagnoni e Gamberini, all’interno di un vastissimo campionario di tipologie edilizie, fra cui spiccano molti esempi con distribuzione a ballatoio, del tutto anomali rispetto alla tradizione costruttiva della città, che realizzano nel loro insieme e nelle loro diversità, un insediamento abitativo di tipo semintensivo. Le personalità dei molti progettisti, hanno dato luogo ad un’immagine molto eterogenea dell’insieme, realizzando un’immagine complessiva difficilmente riconoscibile come unitaria. Unitaria, appare invece la scala dei diversi episodi architettonici, tutti rigorosamente impostati sul rispetto della misura umana. Quindi edifici con pochi piani, verde privato che si fonde al verde pubblico, distanze possibili tra residenze e luoghi di aggregazione, insieme all’uso canonico e per certi versi straniante, di tutti gli etimi propri di quel linguaggio che ibrida l’organico al vernacolo. Le molte anomalie registrabili all’Isolotto, culminano nella generale mancanza di coesione populista di riferimento, che a Firenze assume tinte più forti e complesse che in molte altre realtà italiane, tale da non far scattare sul piano del linguaggio, immediati riferimenti strapaesani, come invece avviene nei ben più noti esempi romani. L’Isolotto non possiede la loro stessa unitaria disomogeneità, la sua figuratività non nasconde traslazioni semantiche e nemmeno il poetico desiderio di una comprensione immediata, casomai il debole tentativo di creare un’appartenenza e un radicamento, sviluppando un approccio forse più assistenzialista che non comunitario. Nella sua genesi e nella sua realizzazione, non c’è il mito dell’ideale rurale di riferimento (se si escludono le inaspettate tipologie di Gamberini) così come non c’è neanche l’ideale del paese e del borgo. Le influenze che s’incrociano all’Isolotto, appaiono di matrice europea e di respiro comunitario, senza però riuscire a compiere il passo successivo, cioè quello di un generale disegno delle diverse relazioni e dove l’unica intenzione in tal senso è rappresentata dalla presenza della spina attrezzata, che così com’è intesa, è ancora un fatto assolutista, legato più ad una poetica della “fondazione” che non a quella della “diversità”.

Il realismo fiorentino è come quasi tutte le espressioni architettoniche della città; un fenomeno mediato, che oltre ad essere legato per molti versi all’identità specifica della città, ne offre una visione più contenuta e meno scalpitante se confrontata con il suo omologo romano e sicuramente meno raffinata di quello di matrice milanese. Il quartiere dell’Isolotto, pare svilupparsi attorno a presupposti più rarefatti, celando dietro la sua realizzazione, l’aristocratica concezione della città-giardino, più che l’idea della borgata. Dietro il Tiburtino c’è Roma, dietro l’Isolotto non so se c’è Firenze, la sua idea, l’interpretazione della propria concezione di spazio. C’è invece l’adesione ad un mondo suburbano che viene inteso in maniera più aristocratica che rurale, producendo una sezione autonoma nel corpo della città. Il radicamento che sta alla base di ogni criterio realista, all’Isolotto conduce ad una autonomia dove il referente privilegiato non è il pittoresco dell’architettura, ma la presenza di quella natura, che nata come semplice connettivo, rappresenta ormai cresciuta, il valore principale nel bilancio dei pesi urbani. Il segmento realista italiano si assesta dalla metà degli anni ’50 in poi, in una sorta di corrente tipizzazione, concedendo alla “ottima prosa” solo alcuni interessanti e sporadici esempi tra i quali spicca l’episodio del quartiere di S. Giusto a Prato del gruppo Quaroni. Il S. Giusto, insieme ad altre opere come le case per gli impiegati della Borsalino ad Alessandria di Gardella e le Torri di Viale Etiopia a Roma di Ridolfi e Frankl, rappresenta un’architettura volutamente priva di qualunque elemento lezioso, un’architettura asciutta, per certi versi drammatica, la cui misura, sviluppata sul piano della materia e basata su un interno dialogo con la propria dimensione tettonica. I suoi risultati appaiono decisamente controcorrente, commentando con forza, prima della svolta epocale nella storia dell’Italia del dopoguerra sul modo di concepire il rapporto tra architettura e urbanistica, una condizione urbana popolare non più riscattabile attraverso un semplice disegno di integrazione. La grande svolta epocale avverrà pochi anni dopo con il progetto, sempre di Quaroni, del quartiere CEP alle Barene di S. Giuliano presso Mestre, dove l’edificato disponendosi in un disegno generale “a ruotismo d’orologio” come


si disse allora, coagulando lungo flessuose direttrici, le tensioni della terra e dell’acqua e della nuova espansione e della città, dilatava ormai inesorabilmente il raggio d’azione delle relazioni, non più calibrate sulla limitata scala dell’intorno, ma all’intero circondario urbano e territoriale. Nel quartiere di S. Giusto di Prato, il disegno generale dell’intervento è un’istantanea che “ferma” la propria formatività, solo un attimo prima dell’”esplosione”. Il suo disegno rappresenta lo stadio immediatamente precedente alla “liberazione” formale delle Barene. In esso le forme sono più rigide e chiuse in un tessuto di corti, dove le cesure, gli scatti, le suture e gli allineamenti, additano ad una ideologia relativa alla “poetica del quartiere” ormai dilatata ad una realtà territoriale. La realizzazione del S. Giusto di Quaroni, coordinatore generale di un gruppo che vedeva Edoardo Detti, Massimo Boschetti, Adolfo de Carlo, Luciano Giovannini e Aldo Livadiotti, è basato sull’articolazione di una serie di complessi a corte, la cui combinazione dà origine alla variata disposizione planimetrica dell’insediamento.2 Ogni tassello dell’articolazione è composto da 4 “torri” e 4 “bracci”, ognuno dei quali è il risultato della combinazione di alloggi unificati a forma di L, variabili solo in base al numero delle stanze. Ogni appartamento possiede una loggia collocata tra i due orientamenti del proprio sviluppo planimetrico, in modo da dilatare all’esterno lo spazio della zona giorno. A questa uguaglianza di impianto di ogni appartamento, si somma una serie di deroghe che “aggiustano” con piccole soluzioni formali differenti, le varie diversità. Diversi appaiono anche i nuclei delle salite verticali: negli edifici a braccio, la salita viene risolta con una rampa inclinata, in modo da conferire al sistema l’effetto di una passeggiata. Anche nelle torri invece i gradini vengono sostituiti dalle rampe di una cordonata inclinata, che adagiandosi sui quattro lati di ogni corte interna, ne disegnano i fronti. Una caratteristica dell’aggregazione generale è quella dello sfalsamento altimetrico; mentre infatti nelle torri i quattro appartamenti si trovano sfalsati tra loro di 80 cm, nei bracci lo sfalsamento è invece di 1,60m. Il linguaggio generale di questa complessità distributiva, viene reso molto efficace attraverso un impaginato dei fronti che segue un chiaro criterio sintattico. Ogni elemento è tradotto e trat-

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tato in autonomia, dando origine ad un’architettura di sommatoria, nella quale alla complessità volumetrica corrisponde un’altrettanto complessa definizione materica. Ogni edificio è radicato al suolo da un basamento in pietra su cui si imposta il corpo centrale dell’edificio. In esso si legge la struttura orizzontale in c.a. e i tamponamenti esterni che alternano alla prevalenza del mattone ampie superfici in intonaco, segnando trattamenti diversificati in base all’esposizione ai venti freddi particolarmente insidiosi nella zona. Le superfici in mattoni, oltre a lasciare in vista la struttura orizzontale, sono montate leggermente sporgenti dal filo strutturale in modo da rendere l’intera massa maggiormente contrastata dalle ombre, mentre la struttura verticale, appare affiorante attraverso l’accorgimento di “smagliare” la tessitura dei mattoni proprio in corrispondenza dei pilastri. Conclude verticalmente la composizione, dopo un cordolo a vista più alto degli altri, il generoso aggetto di coperture a padiglione. Fulcro dell’ideale comunitario era nelle intenzioni dei progettisti, il valore dello spazio della corte. Questo ha indotto a ridurre al minimo l’uso residenziale dei piani terra, quasi interamente dedicati ad attrezzature collettive, che insieme alla progettazione degli spazi aperti, progettati in fluidità con gli androni, con le corti e con i porticati, offriva il vero connettivo e il piano comunitario della vita del quartiere. Uno dei risultati più interessanti che l’immissione di “realtà” ebbe sul piano del progetto, è stato sicuramente il progressivo depotenziamento del valore della forma. Mentre i consueti sistemi compositivi, avevano da sempre assegnato al risultato conclusivo del processo formativo, simboli e significati ulteriori rispetto a quelli puramente geometrici, si assiste nella generale revisione al Moderno, di cui anche il segmento realista fa parte, al sovrapporsi progressivo di altre tematiche direttamente estratte da altri campi disciplinari. A poco a poco l’idea della forma diviene fatto secondario, risultato “trovato” successivamente e non adeguamento aprioristico ad un modello; come se la forma altro non fosse che la sommatoria delle solidificazioni dei diversi flussi, traffici, e pulsazioni che inevitabilmente condizionano le scelte formali, quindi sistema non fisso, ma variabile perché infinitamente variabili le

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relazioni che lo strutturano. Da un punto di vista squisitamente compositivo, la successiva esperienza di Sorgane è da inquadrare all’interno di questa ottica, mentre da un punto di vista urbanistico è da inquadrare nella non comune situazione cui versava la città negli anni della ricostruzione. La questione di Sorgane assunse lo spessore di un vero e proprio “caso” con l’immancabile dibattito polemico attorno alla realizzazione o meno dell’insediamento abitativo previsto a sud della città, concepito con le modalità e lo spirito di una vera e propria città-satellite, capace di inurbare 12000 abitanti. La proposta, redatta da un numero nutrito di progettisti,3 coordinati da Michelucci, si basava su un progetto caratterizzato da una grande integrazione fra tipologie edilizie, secondo il quale, le realizzazioni nello spazio collinare non venivano fuse e integrate in un organico disegno generale, ma al contrario rimanevano separate in due ambiti differenti, divisi da una fascia di verde. Nella vivace polemica su Sorgane, incentrata soprattutto sulla critica alla scelta dell’area ritenuta in contrasto con gli sviluppi naturali della città, si fecero molte volte interpreti del dibattito, proprio gli stessi progettisti e in particolare proprio Michelucci, il quale si fece portavoce delle diverse anime del gruppo. Le obbiezioni di Michelucci erano tutte imperniate, come era logico aspettarsi, sul piano umanitario, promuovendo fino allo stremo un rinnovamento della città perseguito attraverso una generale “coralità” di intenti, arrivando a prefigurare la “variabilità” contenuta nella utopia populista della “nuova città”, basata sull’integrazione e sulla relazione tra i suoi abitanti e tra di essi e il luogo, dove al centro di tutto e motore indiscusso del tutto, stava sempre e comunque l’uomo con le sue esigenze, le sue necessità e i suoi diritti. Un uomo socialmente integrato, riscattato da una condizione che impone differenze chiare tra i diversi modi dell’abitare.4 Sul problema della salvaguardia della bellezza della collina, nodo centrale di tutta la controversa questione, si esprime anche Savioli che si affianca a Michelucci nel rafforzare i pro del progetto, nella propria qualità di principale protagonista dell’intervento.5 Nel giugno del ’57 questa polemica culmina con il fatto ancora più eclatante del Convegno Nazionale “Firenze, Sorgane e il Piano Regolatore” organizzato da Ragghianti a Firenze, al quale parte-

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Pagine precedenti: 1 Quartiere S. Giusto a Prato particolare della “smagliatura” nel paramento in mattoni, foto Fabio Fabbrizzi 2 Fronte interno foto Fabio Fabbrizzi 3 Spazi di relazione all’interno delle corti foto Fabio Fabbrizzi 4-5 Quartiere dell’Isolotto a Firenze esempi di nuclei residenziali foto Carmelo Provenzani 6 Planimetria generale dell’Isolotto 7 Sorgane, Firenze un edificio del gruppo Savioli durante il cantiere, foto Bazzechi 8 Veduta attuale degli edifici del gruppo Ricci foto Giacomo Badiani



cipò -Michelucci grande assente- tutta la compagine architettonica e urbanistica italiana da Quaroni a Zevi, Pane, Papini, Astengo, Ridolfi, Samonà, Detti, e naturalmente Ricci e Savioli. Ricci addusse in difesa del progetto coordinato da Michelucci e nel quale anch’egli aveva il primario ruolo di capogruppo, la motivazione dei tracciati est-ovest. Secondo Ricci, la collocazione dell’intervento in quell’area, non avrebbe mai gravato sul centro storico, grazie alle trasversali che il nuovo P.R.G. avrebbe sicuramente previsto, chiarendo ulteriormente la questione del rapporto con l’ambiente circostante e con la collina.6 Il convegno ebbe la forza di coalizzare le energie affinché ogni decisione su Sorgane fosse subordinata alla redazione del Piano Regolatore Comunale e Intercomunale. Problema annoso a Firenze, se si pensa come anche tutta l’esperienza della Ricostruzione dei Lungarni e di Por S. Maria, svoltasi ormai molti anni addietro, si concludesse con le stesse considerazioni, cioè attorno alla mancanza di uno strumento generale di coordinamento. Nel 1962 si adotta il nuovo P.R.G. che parzialmente riutilizza e migliora le idee fondamentali di quello del ’58, mentre attraverso l’adozione di Piani di Zona, si realizzano studi planivolumetrici esecutivi delle zone destinate alle aree residenziali. È il caso della riconfigurazione del quartiere di Sorgane, che grazie a questo nuovo piano urbanistico, diverrà una realtà nei destini della città. Con il varo definitivo dell’iniziativa, il quartiere si riduce ad un insediamento per 400 abitanti, limitato alla sola zona pianeggiante che mette a tacere ogni polemica sull’uso della collina. Si insinuò così, quella che durante gli anni del dibattito, era stata definita “la nuova retorica delle colline”, la scelta cioè di non realizzare attraverso questo progetto una nuova tappa nell’espressione di quella necessaria coesione tra ambiente naturale e ambiente costruito, che da sempre a Firenze caratterizza l’identità dei propri margini. Mentre il primo progetto di Sorgane presentava un impianto più frammentato e composto da un tessuto minuto con un disegno organizzato in grappoli di edifici attorno ad una serie di direzioni che si proiettano sulla collina, il progetto definitivo avrà un impatto più forte, anche se più limitato. È un impianto generale in cui prevale l’idea della macrostruttura, l’utopia più fertile degli anni ’60 in cui grandi segni organizzano

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l’area in direttrici che evidenziano il rapporto con la collina, che diviene in questa nuova stesura, un rapporto puramente visivo. Nel progetto definitivo non compare più il coordinamento di Michelucci e la progettazione degli edifici, viene affidata a 3 gruppi diversi di architetti coordinati da Ferdinando Poggi, Leonardo Ricci, e Leonardo Savioli. Il complesso studiato dal gruppo coordinato da Savioli, si basa su una serie di logiche d’impianto che la realizzazione ha poi snaturato e in parte smarrito. Il fulcro di tutta la composizione doveva essere il nucleo dell’edificio a corte, nella quale si doveva svolgere la vita collettiva del quartiere e dalla quale, tramite sistemi di ballatoi e collegamenti in quota, si sarebbero dovuti collegare gli altri edifici lineari. In corso d’opera questa rete di collegamenti tra i vari edifici è saltata, con la conseguenza che questa visione di “circolazione” immaginata dal progetto è stata limitata ai singoli episodi architettonici, venendo meno quel generale obiettivo di socializzazione previsto. L’edificio a corte, che oggi non costituisce di fatto il nucleo sociale del quartiere, dato che non ospita come previsto, il mercato nel piazzale incassato nel terreno, ma un semplice spazio verde, risulta portatore di una interessante quanto ambigua caratteristica. Ovvero, la consueta “dualità” dello spazio fiorentino, legata ad un’immagine più austera della dimensione urbana pubblica, che si oppone ad una visione più articolata e maggiormente complessa annessa alla dimensione privata, in questo esempio viene interpretata ribaltando l’interno sull’esterno e viceversa. Questo aggiunge valore ed espressione alla ricercata soluzione architettonica dei fronti interni, percorsi da una filigranata modulazione e da una vibratile uniformità, mentre i relativi fronti esterni appaiono in tutta la loro complessità fatta di logge, terrazzi e affacci ricorrendo al consueto repertorio dei dispositivi compositivi tipici di tutta l’opera di Savioli. Le architetture di Savioli, sono in quasi tutti i casi, delle “infilate” di spazi che vengono vertebrati poi da un elemento unificatore, che in molti casi è un percorso o una copertura. Le sue articolazioni spaziali sono quasi sempre dei volumi formati da piani e ogni suo edificio è al contempo corpo e sezione; è una massa che è stata cesellata, da cesure, cerniere, estroflessioni, aggetti e incastri che ne determinano una vitalità e

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9 - 10 Leonardo Savioli schizzi di studio

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Pagine successive: 11 Plastico dell’edificio “A” gruppo Savioli foto Bazzechi 12 - 13 - 14 Prospetto e tipologie edifici del gruppo Savioli 15 Veduta attuale di un edificio del gruppo Ricci foto Giacomo Badiani 16 Veduta attuale dell’edificio “A” del gruppo Savioli, foto Giacomo Badiani 17 - 18 Vedute attuali dell’edificio denominato “La Nave” gruppo Ricci, foto Giacomo Badiani 19 Prospettiva dell’edificio “La Nave” gruppo Ricci, Archivio ATER Firenze 20 Gruppo Savioli rapporto tra edificio e paesaggio in una foto durante la fase di cantiere, foto Bazzechi

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una plasticità che è forma, struttura, segno e materia. Le architetture di Savioli sfuggono dalla rigidità di un controllo formale inteso come riduzione a forma prestabilita, per assestarsi su un generale e variabile processo di ricomposizione basato sulla gerarchizzazione e quindi sulla riconoscibilità dei vari elementi, siano essi formali, strutturali, figurali e tipologici. Non c’è infatti nessuna immagine precostituita alla quale fare aderire il progetto dell’edificio della macrostruttura lineare, il più interessante edificio fra quelli realizzati da Savioli a Sorgane. All’idea della macrostruttura, elemento riunificante e per questo forse totalitario, si oppone l’idea della variabilità degli spazi interni. Questo edificio comprende infatti otto tipi diversi di alloggio, ciascuno dei quali reso con diverse varianti. All’idea della relazionalità del complesso ottenuta attraverso ballatoi, percorsi e luoghi di sosta, che corrisponde ad una visione dilatata e in via di superamento di quelle idee sul vicinato che avevano caratterizzato l’intera “poetica del quartiere”, si oppone l’idea delle singole cellule abitative autonome e riconoscibili. All’asciuttezza dell’impostazione generale corrisponde la poesia del particolare, così come all’apparente sommarietà dell’uso della materia corrisponde un raffinato uso del dettaglio. Tutto l’edificio si solleva dal suolo su pilotis che insieme ai volumi delle cantine sono gli unici punti di contatto con la

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terra insieme ai tentacoli delle scale esterne che servono gli alloggi duplex collocati sopra il livello dei pilastri. Il fronte sulla strada interna, offre l’articolazione di volumi che aggettano sul filo del basamento. Le unità verticali scandite dai ritmi strutturali (memoria delle schiere della tradizione?), vengono perse nell’orizzontalità del corpo più alto dell’edificio dal quale a sua volta si enuclea la soletta di copertura. Nel corpo orizzontale in aggetto, la struttura affiora per parti dalla compattezza della massa, rendendo ancora leggibile questa trama invisibile, insieme alle classiche aperture care al linguaggio savioliano: le finestre scatolate, in questo caso binate, che si alternano a profonde logge. L’edificio ha una testa più solida, costruita verso l’asse principale del quartiere, costituita da un alto androne sotto il quale c’è la scala che raggiunge i ballatoi in quota e dialoga a livello di peso urbano con il dirimpettaio edificio a torre di Ricci. Sul prospetto di via Isonzo, i temi impostati sono diversi a secondo delle due porzioni dell’edificio prima e dopo la cerniera del cambio di direzione, risolto dal sistema delle scale e dalla torre dell’ascensore. Verso la coda dell’edificio, il basamento lascia il passo, dal doppio ordine entro il quale si definiscono i duplex, ad un percorso più basso sotto i pilotis, sui quali si imposta un tema di aggetti che altro non sono che i retri degli appartamenti su due livelli. Le stesse logiche compositive e le me-

desime dinamiche progettuali informano gli altri episodi architettonici realizzati dal gruppo Savioli, anche se con risultati e impegni sicuramente meno convincenti rispetto alla macrostruttura. In ogni esempio esiste il costante riferimento alla corbusiana idea della “unità di abitazione”, intesa ed interpretata però con una maggiore libertà nello sviluppo delle singole cellule, donando all’insieme il tono di una esperienza unica, nella quale “la dinamica elaborazione architettonica capace di fondere in un insieme coerente elementi in se diversi, in funzione della vita della casa intesa in senso comunitario, addita (...) una strada sufficientemente sganciata da posizioni tradizionali”.7 L’innovativa concezione dell’elemento singolo inserito all’interno di una struttura totale, ovvero la dualità di lettura tra parte privata e parte collettiva, risulta essere anche una delle caratteristiche principali degli edifici realizzati dal gruppo coordinato da Leonardo Ricci. Dissolta nei suoi elementi di caratterizzazione primaria l’idea del “quartiere”, prendono origine tutta una serie di esempi che segnano la via di un nuovo modo di abitare, nei quali, sicuramente al primo posto, come abbiamo visto anche per gli edifici del gruppo Savioli, per influenze e suggestioni è da collocare la realizzazione della Unità di Abitazione di Marsiglia del 1955 di Le Corbusier. Si va verso un ambito nel quale il riferimento per l’elaborazione di un eventuale mo-


dello, non è né il palazzo né il monumento né qualcos’altro, quanto proprio quella “maison de l’homme, tua mia, dei nostri simili (che) assurge a monumento celebrativo senza perdere in nessuna delle sue parti il rispetto per la misura individuale, fisica e spirituale”.8 La traduzione della quotidiana relazione umana legata all’abitare in un organismo architettonico inteso come sistema integrato alla città e inteso anche esso stesso come un “pezzo di città”. Anche Ricci a Sorgane, in particolar modo nell’edificio definito “la nave”, ha applicato questi criteri di dualità tra macrostruttura generale collettiva e microstrutture abitative. Infatti Ricci aveva concepito questo edificio, come un sistema nel quale la struttura rappresentava l’elemento fisso e inamovibile nel tempo, mentre i vari alloggi potevano essere variabilmente rinnovati e sostituiti. Questa differenziazione doveva avvenire grazie all’uso dei materiali differenti impiegati per la parte fissa e quella variabile, seguendo la suggestione di un mobile con l’intelaiatura fissa e tanti cassetti. Esigenze legate alla rapidità e praticità, hanno sospeso questa esperienza, ripiegando sulla uniformità del c.a. come unico materiale della realizzazione con “il risultato di snaturare tutto, perché lo stacco previsto non lo si avverte più e tutto si è impostato in un unico discorso linguistico indifferenziato e privo della necessaria duplice e differente qualificazione”,9 anche se a di-

stanza di molti anni dalla critica di Köenig, questo snaturamento linguistico non lo si avverte più. Le opere di Savioli a Sorgane sono più forti sul piano formale, mentre quelle di Ricci lo sono sul piano delle relazioni. Dice Ricci tempo dopo a proposito della complessa rete di relazioni che Sorgane è stata in grado di portare avanti: “nonostante tanti tagli e tanti errori sono felice di Sorgane, perché almeno si può constatare che la vita può essere diversa anche nei dormitori. I ragazzini corrono in bicicletta sulle strade pensili. Tutti si devono conoscere. Che uno nasca o muoia nell’appartamento x del piano z della scala y non resta un fatto sconosciuto. Per me è stata un’altra verifica di spazio nuovo per una società nuova, anche se limitato, condizionato, represso”.10 “La nave” si presenta come un’architettura a sviluppo lineare, mossa da un’incredibile tensione dinamica risolta per sezioni separate in cui spiccano episodi formali differenti. L’edificio presenta la tipica cifra organica di Ricci, prevedendo un basamento realizzato per setti in pietra grezza. A queste tracce di organicismo si affianca un generale linguaggio brutalista, all’interno del quale affiorano note di un raffinato espressionismo formale, dimostrato in virtuosistiche articolazioni spaziali e volumetriche. Sul basamento si imposta la strada pensile che distribuisce una prima serie di alloggi. I gruppi scala conducono ai livelli superiori dove la distribuzione av-

viene ancora una volta attraverso ballatoi e strade pensili. L’edificio presenta una brusca cesura verso la piazza sopraelevata, concludendosi con una lama in c.a. che conclude tutti i percorsi e contemporaneamente mima la sezione-tipo dell’edificio. Più interessante invece la conclusione verso la collina, ottenuta con un blocco nel quale vengono collocati gli alloggi duplex, risolti con la soluzione di una zona giorno a doppia altezza. Elemento di mediazione tra la longitudinalità della costruzione e i ritmi più ravvicinati del nucleo di testa, è la scala che con la sua forte plasticità collega il piano della strada sopraelevata a tutti gli altri livelli. Anche gli altri episodi architettonici realizzati dal gruppo coordinato da Ricci, presentano le medesime intenzioni formulate ne “la nave” senza sfociare però in un risultato ugualmente interessante sul piano della complessità comunicativa. Anche nel caso delle conformazioni architettoniche pensate da Ricci, così come è possibile registrare in quelle di Savioli, il tono dell’insediamento muta notevolmente nei confronti dell’avvicinamento alla collina. Nelle realizzazioni di Ricci il consueto registro e l’innovativo piglio della macrostruttura, cedono il passo ad un aggregato più minuto, legato ad una logica di paese. Un tessuto scandito da strade, da giardini e piazzette pensili, organizza questa parte, mettendo in luce una riuscita ricerca

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aggregativa risolta con la combinazione di diverse tipologie, che nell’insieme generale meglio si relazionano alla adiacente collina ricoperta di verde. L’esperienza di Sorgane, il suo essere frammento di una idea, che prima di essere architettonica è sicuramente sociale e urbana, apre e chiude a Firenze, l’utopia della macrostruttura. La chiude perché la consegna ad una visione più “quotidiana”, legata ad un controllo e ad un’articolazione della città, che avviene attraverso le riscoperte tematiche delle unità piuttosto che a quelle dell’edificio-città. Ma è una conclusione ed inevitabilmente anche un inizio, per-

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ché contemporaneamente quest’esperienza non solo incarna la mediazione riuscita tra la città e il quartiere, ma incarna soprattutto quella tendenza innescata fin dagli anni ’60, ma portata al suo valore più alto attraverso gli anni ’70, del superamento -ottenuto attraverso la realizzazione di organismi pensati per la scala urbana- di quella artificiosa e ormai superata separazione tra l’architettura e l’urbanistica, che rappresenterà di fatto, il nodo e l’essenza degli obiettivi del decennio successivo. L’autore desidera ringraziare l’Arch. Vincenzo Esposito, Amministratore Delegato di Casa S.p.a. per aver messo a

disposizione il prezioso materiale depositato presso l’Archivio dell’ATER.

1 Cfr. L. Quaroni, La politica del quartiere, in Urbanistica n°22/1955., pag. 7. 2 “Le grandi corti (…) non vanno quindi considerate sotto il profilo di un a riproposta unità di vicinato (…), ma vanno bensì interpretate come ricerca di una “misura” urbanistica di per se definita ma valida solo nell’indeterminata ripetizione nella sua capacità di dar luogo ad una trama edilizia continua.”, Cfr. M. Tafuri, Ludovico Quaroni, Milano, 1964, pag. 152. 3 I progettisti erano 37 coordinati da Michelucci e suddivisi in altri 8 sottogruppi: Vittorio Ballio Morpurgo, Francesco Berarducci, Alberto Betti, Michele Gargano, Rodolfo Rustichelli, Giorgio Santoro, Aurelio Cetica, Silvestro Bardazzi, Domenico Cardini, Rodolfo Raspollini, Giuseppe Gori, Emilio Brizzi, Emilio Isotta, Ernesto Nelli, Rolando Pagnini, Giovanni Michelucci,


Corinna Bartolini, Silvano Cappelli, Nereo de Majer, Ivo Tagliaventi, Francesco Tiezzi, Ferdinando Poggi, Marco Focacci, Sirio Pastorini, Bruno Pedotti, Primo Saccardi, Leonardo Ricci, Adriano Agostini, Alfredo Oberziner, Gianfranco Petrelli, Aldo Porta, Leonardo Savioli, Piero Melucci, Danilo Santi, Leonardo Spinelli, Giacomo Piccardi, Manlio Torsellini. 4 “Si è detto che Sorgane è lontana dai centri di lavoro; in secondo luogo che un nuovo villaggio rovinerebbe la bella zona paesistica (...). Il dire che Sorgane è lontana dalla zona industriale non significa nulla, in quanto a Sorgane andranno ad abitare anche maestri, impiegati, artigiani, venditori ambulanti, che non hanno alcuna ragione di raggiungere la zona industriale (...). Quanto al secondo argomento, alla distruzione cioè di una bella collina vi è da notare che non essendosi nessuno finora preoccupato del dilagare delle lottizzazioni o villini e palazzine in quella zona, risulta chiaro che quel che non si vuole sono le case per il popolo, che debbano andare a finire nelle zone depresse, dove non si vedranno, perché si confonderanno con le fab-

briche. Così la città aristocratica avrà riconquistato il diritto di differenziarsi dalle zone popolari. Anch’io sono convinto, come lo sono i miei 37 colleghi, che la località scelta è bella, ed è per questa ragione che siamo lieti di valorizzare quella bellezza per una popolazione che non può aspirare al villino privato”, e ancora: “urbanista è chi interpretando la vita e i valori della vita (sia esso filosofo o ingegnere o artigiano o operaio o poeta), mette in rapporto questi valori con la forma urbana ed è felice che questa divenga storia degli uomini del suo tempo con tutto ciò che di bene o di male essi portano con se.”. Cfr. G. Michelucci, Intervento su Il Giornale del Mattino, 24 Febbraio 1957. 5 “io credo che oggi non si possa negare la possibilità all’architetto ed all’urbanista di costruire liberamente e secondo le precise esigenze della vita moderna in un qualunque delicato paesaggio. Direi anzi che solo affermando coraggiosamente in un paesaggio una precisa strutturazione urbanistica ed edilizia corrispondente alle esigenze della vita attuale, solo cioè costruendo il paesaggio, si può fare

opera valida e veramente intonata con la natura.”, Cfr. L. Savioli, sta in AA.VV. Firenze: la polemica per Sorgane, in Urbanistica n°22, 1957. 6 “noi non siamo fra coloro che vogliono distruggere Firenze (...) ma se c’è una caratteristica a Firenze non è quella del paesaggio naturale, ma al contrario quella di un paesaggio umanizzato e costruito”, e ancora: “o si ha fiducia nell’architettura moderna e nei veri architetti moderni o non la si ha (...). Non ci sembra urbanisticamente giusto andare a costruire case d’abitazione in mezzo alle fabbriche (...). Noi vogliamo far si che la gente viva bene.” Cfr. L. Ricci, Cit. 7 Cfr. Relazione del Premio IN/ARCH DOMOSIC 1963. 8 Cfr. E. N. Rogers, Discussione sulla valutazione storica dell’architettura e sulla misura umana, in Casabella n°210/1956, pag. 7. 9 Cfr. G. K. Koenig, Architettura in Toscana 19311968, Eri Verona 1968, pag. 150. 10 Cfr. L. Ricci, Per un architettura senza nome, in Leonardo Ricci testi, opere, sette progetti recenti, Edizione Comune di Pistoia, 1982, pag. 31.

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Parsimonia estetica e intensità poetica nelle architetture di Edoardo Detti: alcuni edifici residenziali degli anni ’50* Caterina Lisini

La città come più completo organismo civile «La città, come più completo organismo civile, o le sue singole parti, van concepite armonicamente in funzione di tanti e tanti fattori ambientali, spirituali e di ordine, i quali poi impongono gli elementi che la costituiranno in perfetta fusione. Allorché uno di questi elementi è male realizzato, in rapporto alle esigenze che lo determinano, nasce una disfunzione che turba l’armonia e l’equilibrio organico dell’unità urbanistica stessa.» (Edoardo Detti, Fini dell’urbanistica moderna, in “Critica Fascista”, n.12, aprile 1942). Nel fermento civile e intellettuale del dopoguerra, a Firenze, come in altre realtà nazionali, si assiste al dispiegarsi di un nesso strettissimo tra impegno politico e vita culturale; che tuttavia qui, a differenza che altrove, dà vita a una cultura particolare, intrisa di umanesimo e storicismo, dove il sentito bisogno di rinnovamento non si identifica necessariamente, o esclusivamente, con una cesura drastica col passato. Di questa peculiarità toscana, per la quale, come osservato da Eugenio Garin, «il 1944 non fu periodizzante»,1 nel campo dell’architettura Edoardo Detti può essere considerato la personalità più emblematica. Di estrazione borghese, uomo di cultura ancor prima che architetto, uso per carattere e formazione a rifuggire forzature o proclami ideologici in un affascinante connubio tra understatement e intransigenza intellettuale, in tutta la sua attività Edoardo Detti coniuga discrezione pubblica e pervicacia nelle battaglie per il

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buon governo del territorio, e intreccia profondamente, nella pratica architettonica, indirizzo convintamente moderno, esplicita vocazione civile, coltivato colloquio con la tradizione e il contesto. Allievo prima, e poi giovane collaboratore di Michelucci, senz’altro sensibile all’attenzione per la città propugnata dal maestro toscano, ne declina una versione rigorosa, che all’interesse intuitivamente poetico per i comportamenti e la vita dell’uomo lega i valori della storia e del territorio come palinsesto stratificato di cultura e civiltà. Di questi caratteri della personalità artistica di Detti, le architetture residenziali realizzate nell’immediato dopoguerra, fino alla metà degli anni Cinquanta, sono prove ancora poco studiate, eppure assai eloquenti nella trasparente espressione delle propensioni poetiche del loro autore. Il Palazzetto Bini, 2 una delle opere d’esordio, realizzata a Prato nel 1946 in collaborazione con Danilo Santi, rivela precocemente un approccio progettuale dove la modellazione plastica, intenzionalmente trattenuta, sembra rispondere ad un ordine superiore, intimamente connesso alla struttura morfologica, ai rapporti volumetrici, alle condizioni storiche e ormai stabilizzate del contesto. Si tratta di un piccolo edificio su due piani, per uffici e residenza, inserito ad angolo nel minuto borgo preesistente di fronte al Castello dell’Imperatore, nello slargo compreso tra la sua massa edilizia e il tracciato dell’antico cassero. In tale contesto, denso di memoria storica, la scelta è quella di un volume semplice, che assume dal tessuto preesistente l’allineamento a filo strada, e affida la

La segnatura di archivio riportata per i documenti del Fondo Detti fa riferimento alla prima catalogazione generale operata sul Fondo quando era conservato presso la Biblioteca Comunale di Sesto Fiorentino, di cui si ringrazia il Direttore, Mario Nesti, per la cortesia e disponibilità. Attualmente il Fondo si trova presso l’Archivio di Stato di Firenze, dove è tuttora in corso di svolgimento l’inventario definitivo. 1 E. Detti, D. Santi, Palazzetto Bini a Prato, 1946 Vista generale dell’edificio con, a sinistra, il Castello dell’Imperatore. Fondo Detti, fotografia non inventariata 2 Disegno di progetto della finestra del primo piano. Fondo Detti, faldone n.24 3 Vista di dettaglio della “finestra inginocchiata” realizzata. Fondo Detti, fotografia non inventariata


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propria forza espressiva a stereometrie elementari, a un raffinato lavoro di ambientamento giocato soprattutto sull’impaginazione di facciata e lo studio di dettaglio. Sobrietà e intensità formale che si traducono nella predominanza di superfici piene, distesamente intonacate, appena movimentate dalla loggia d’angolo e dal gioco minimale delle modanature. Colpisce in particolare, per intensità espressiva e felicità di disegno, il dettaglio della finestra al primo piano, che traspone quasi in archetipo la figura rinascimentale della finestra inginocchiata dei palazzi fiorentini, in una reinterpretazione davvero dimostrativa, che risulta tanto più pregnante quanto più sintetica e scarnificata. Analoga levità di figurazione si può notare nell’inflessione della muratura alla base della finestra, che segna e addolcisce lo stacco d’ombra dal muro, oppure nel movimento impercettibile dell’intera cortina muraria d’angolo, sotto la loggia, che sottolinea, ancora con un’ombreggiatura, la grande apertura centrale. Nel complesso una composizione quasi purista, con sottili reminiscenze perretiane e loosiane – presenti anche, forse con più determinata consapevolezza, nel prospetto del coevo edificio Pironi Biondi3 sulla via Faentina, in collaborazione con Danilo Santi e Leonardo Savioli–, ancora oggi percepibile dal visitatore contemporaneo, trascrizione distillata di forme classiche e della tradizione, in cui l’apparente assenza di accentuazioni figurative si traduce in un saggio poetico di rappresa, elegante sensibilità. L’originalità non la si troverà mai in invenzioni formali strepitose «L’originalità di Michelucci non la si troverà mai in invenzioni formali strepitose, in slanci volumetrici e costruttivi difficili e complicati, in sovrapposizione tematiche sconcertanti. Le invenzioni di Michelucci sono sempre potenzialmente contenute nel linguaggio trasparente degli accordi, in uno svolgimento quasi musicale dove l’incisività sicura del ritmo delle partizioni, non fa parte a sé stante e preponderante del tutto, ma si complica e si distende nella leggera vibrazione del materiale ed in quella permanente ed allusiva presenza dell’uomo che si rivela nella misura.» (Edoardo Detti, Giovanni Michelucci, in “Comunità”, n.23, febbraio 1954). Nei primi anni Cinquanta, alla soglia dei quarant’anni, Detti ha acquisito piena maturità, possiede l’autorevo-

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lezza dell’intellettuale colto, impegnato, riconosciuto nella vita pubblica quanto in quella universitaria e politico-amministrativa. Le ville Vescovi Biondi4 e Benini,5 entrambe realizzate sul rilievo di San Domenico, alle pendici di Fiesole, rispettivamente negli anni 1952-56 e 1954-55, riflettono questa nuova stagione della personalità creativa del loro autore. Esempi principali di un più esteso complesso di progetti e realizzazioni rimasto pressoché sconosciuto per scelta probabilmente dello stesso architetto, queste ville, rispetto alle prove precedenti, costituiscono una più profonda riflessione sul tema della residenza, in particolare la casa borghese unifamiliare, a volte anche di lusso. In entrambe risalta un linguaggio decisamente moderno, che sembra sfruttare il declivio naturale del luogo per sperimentare variazioni, in pianta e volume, giocate tra rimandi wrightiani e articolazioni di impronta quasi neoplastica, con un atteggiamento al tempo stesso fecondato da suggestioni diverse, dalle esperienze con Michelucci della fine degli anni Quaranta, alle ascendenze loosiane delle giovanili trascrizioni novecentiste, alla profonda sensibilità dimostrata nelle penetranti letture storico-critiche del territorio toscano, condotte a termine proprio in quegli anni.6 L’articolazione in pianta e sezione, particolarmente accentuata negli ambienti di soggiorno e nel moltiplicarsi di aggetti e prominenze più o meno marcate, si prolunga nel disegno dei terrazzamenti, nella trasparenza di pergole e pensiline, nella plasticità delle scale all’aperto tagliate nel terreno, con una sensibilità per le visuali ed il rapporto con gli spazi esterni tesa quasi a fondere i manufatti nel paesaggio, rendendoli componenti ad esso insostituibili. Un’architettura che sembra stabilire con l’intorno relazioni essenziali e di costante equilibrio, e che sembra trarre dal mondo delle forme realizzate, siano esse costruite o naturali, le note della propria poetica, anche nell’attenzione materica, nel controllato succedersi di muraglie in pietra rustica, superfici intonacate, inserti in cemento a vista. In entrambe le opere lo studio della pianta assume particolare importanza, cercando di interpretare e quasi prefigurare, nella successione e modellazione dei singoli ambienti, i comportamenti quotidiani della vita familiare. Preminente, in tale atteggiamento, l’attenzione portata all’ambiente del sog-

4 E. Detti, Villa Benini a Firenze, 1954-55 Vista di dettaglio del fronte sud con la scala in pietra, la pensilina in cemento armato ed il sedile esterno. Fondo Detti, fotografia non inventariata 5 Sezione di studio sull’ambiente passante del soggiorno. Fondo Detti, rotolo n.530 Pagine successive: 6 Pianta del primo piano. Fondo Detti, rotolo n.530 7 Vista del modello. Fondo Detti, fotografia non inventariata 8 E. Detti, Villa Vescovi-Biondi a Firenze, 1952-56 Pianta del piano primo. Il soggiorno sviluppato su tre livelli, al piano primo assume andamento a “L”. Fondo Detti, rotolo n.531 9 Vista del modello. Fondo Detti, fotografia non inventariata


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giorno, vero cuore della composizione planimetrica e architettonica, sempre minuziosamente disegnato fino al dettaglio delle modanature e degli arredi fissi e mobili. Nella villa Benini, disposta su due livelli destinati a due componenti familiari autonome, il soggiorno dell’alloggio principale risulta articolato in piano, con andamento ad “L” a raccogliere in unitaria fluidità spaziale le zone distinte del pranzo, del soggiorno, dell’ambiente camino. Quest’ultimo, in particolare, è risolto in forme studiatamente raccolte, isolato e integrato al soggiorno da una lama di parete, ma al tempo stesso messo in comunicazione visiva con l’ingresso contro monte da una specifica soluzione d’arredo (una scaffalatura bassa di appoggio al divano con la mensola soprastante), così da offrire immediatamente a chi entra una vista prospettica continua, direttamente proiettata sul paesaggio esterno verso valle e la città, alla quale concorre anche la modanatura spezzata del controsoffitto. Articolato in tal modo all’interno, l’ambiente del soggiorno si prolunga all’esterno in un terrazzo profondo, fortemente aggettante sul paesaggio e attrezzato con seduta, fioriera e pensilina di copertura, che diventa l’elemento dominante di questo fronte, la figura plastica che definisce il carattere architettonico complessivo dell’edificio (non a caso, tra i molti e tutti affascinanti disegni di progetto, la sezione dedicata a questa parte sembra aver impegnato in modo particolare l’attenzione del progettista). Considerazioni simili, pur se in parte differenti, possono esprimersi anche per Villa Vescovi Biondi, dove per confermare il carattere del sito –un lotto ret-

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tangolo stretto ed allungato, fortemente scosceso– il progettista mette a punto un particolare sviluppo della casa su tre livelli, variamente articolati in volumi autonomi, ordinati sul lato nord da un muro longitudinale di spina, interamente cieco, posto sul confine. Ritagliato nell’intera parte a valle dell’edificio, l’ambiente del soggiorno appare altrettanto attentamente modellato in un ingegnoso intrecciarsi di ambienti: a quota di ingresso, lo spazio intimo e misurato attorno al camino; direttamente prospiciente su questo ma a un livello di poco superiore, tale da sollevarsi sul terreno circostante, l’area più ampia di conversazione e rappresentanza, sulla quale affaccia un ulteriore terzo livello, in soppalco, destinato verosimilmente al pranzo e collegato al braccio ortogonale che chiude ad “L” la sequenza degli spazi destinati alla vita diurna. Ampiamente aperti verso sud e affacciati sul giardino terrazzato ricavato dalla sapiente disposizione dell’edificio sul terreno, questi spazi si completano all’esterno in una stretta terrazza-camminamento, piegata ad angolo, proiettata a sbalzo sulla campagna circostante, rimarcata dal segno d’ombra di una lunga pensilina in cemento armato. È da sottolineare come il trattamento degli elementi strutturali degli aggetti e delle tettoie, che si rastremano nelle parti terminali in forme affusolate, aerodinamiche, non tettoniche, anzi con una propensione quasi decorativa, dimostri la sostanziale indifferenza di Detti verso le valenze formali della struttura, mai esplicitata nelle sue architetture come fatto autonomo, ma in genere piegata a privilegiare valori spaziali e volumetrici.


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Il risultato espressivo è affidato al ragionato controllo plastico degli incastri e delle scomposizioni per piani e volumi, dove si ritagliano aperture calibrate e sempre diverse, mai forzate in composizioni ad effetto, traducendo in un’originale ed efficace parsimonia linguistica la raffinatezza di un disegno alla cui modulazione giovano, con pari intensità, la leggerissima stratificazione dei prospetti intonacati, i setti in pietra rustica apparentemente liberi, gli inserti in cemento, le balaustre, le geometrie dei vetri. Nessuna “invenzione formale strepitosa”, dunque: Detti usa questa espressione parlando delle architetture di Michelucci dei primi anni del dopoguerra, ma forse non è improprio ritenere che svolgendo la sua analisi critica egli, come spesso accade, pensi in realtà anche ai caratteri di queste sue opere. Lontano da schematismi convenzionali «Lontano da schematismi convenzionali, [Scarpa] stabilisce sempre, nella programmazione razionale del progetto, un rapporto costante tra il dettaglio e, da una parte l’idea generale dell’opera, dall’altra lo spazio dove l’architettura è immaginata o vissuta nella sua creatività. Se si considera l’opera di Scarpa nel suo insieme, bisogna riconoscere che il rapporto tra architettura e funzione non è assolutamente, nei suoi contenuti, un esercizio formale.» (Edoardo Detti, Scarpa et la ville. La Banque Antoniana à Monselice, in “A.M.C. Architecture, mouvement, continuité”, n.50, dicembre 1979). La Villa Malagola,7 realizzata negli anni 1953-54 a Godo, nella campagna romagnola del ravennate, lontano dal

prediletto territorio toscano, è senz’altro l’opera più matura e conclusa di questa stagione dell’attività di Detti. Si tratta, a suo modo, di un restauro, un intervento di profonda ristrutturazione di una casa colonica destinata alla residenza, forse di campagna, del conte Giacomo Malagola degli Anziani, committente illuminato che sembra capace di condividere con l’architetto molte cose, compresi anche un’idea di casa e uno stile di vita. Un restauro anomalo, in quanto sul manufatto del rustico preesistente, piuttosto fatiscente come dimostrano le foto prima del cantiere, Detti dimostra ancora una volta grande sensibilità e maestria, espresse con una disinvoltura linguistica tanto misurata quanto spregiudicata: si notino a questo proposito le “falsificazioni” operate sul fronte principale, dove egli inserisce ex novo una serie di alte finestre tradizionali, con antoni in legno e davanzale in marmo, riprese quasi letteralmente dall’ala ortogonale contigua della colonica, dalla quale ricava pure la figura del marcapiano al di sopra, sporgente nel tenue chiaroscuro del doppio corso continuo di mattoni in aggetto. A tali elementi tradizionali, in realtà veri “falsi” rispetto al preesistente, vengono liberamente accostati bucature e serramenti dal taglio decisamente moderno –una finestra rettangolare in larghezza e la grande, bellissima apertura a doppia altezza del soggiorno aperto sul giardino e il parco retrostante– in una composizione di raffinata sapienza. Si manifestano qui, già con evidente chiarezza, la concezione architettonica e le caratteristiche originali delle opere di Detti più note e di maggior impegno

degli anni successivi, dove la “predilezione” per la forma è da intendersi non come prepotenza espressiva –quale si manifesterà nelle ricerche condotte, di lì a poco, da Ricci, Savioli e Michelucci, seppure con declinazioni diverse secondo le rispettive personalità–, ma nell’accezione di un primato formale libero da ogni ortodossia, da ogni osservanza convenzionale cui uniformarsi, tanto di segno avanguardista quanto di rispetto tradizionalista. A fronte di questo modo di intervenire sull’esterno del corpo edilizio, la ridistribuzione planimetrica si riduce a pochi adattamenti della struttura muraria, con controllate invenzioni di pareti oblique o a forma di diamante di vestiboli e servizi, mentre la caratterizzazione interna, eccezionalmente ricca e variata, è ottenuta attraverso uno studio minuzioso delle articolazioni spaziali e dei dettagli di arredo dei singoli ambienti, comprese le differenziate modanature dei soffitti studiate vano per vano. Emblematica, anche in questo caso, la conformazione del soggiorno, definita nei minimi particolari in una copiosa produzione di piante, sezioni, prospettive, apparentemente mai definitive, non ritrovandosene alcuna esattamente corrispondente alla realizzazione, ma elaborate quasi servissero al progettista per indagare le specifiche suscettibilità delle diverse configurazioni e varianti. Articolato su tre livelli e protratto per l’intera profondità del corpo di fabbrica, alla quota inferiore esso si configura come un semplice vano rettangolare, delimitato sul fondo da una zona camino appena ribassata e aperto sul lato opposto dall’uscita sul giardino attraverso un serramento quadripartito a

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tutta altezza, protetto da una robusta pensilina. Ma questo vano, apparentemente scarno ed essenziale, interamente cieco sul lato di testa e comunicante su quello di fronte con gli altri ambienti della casa, è dominato dall’invenzione spaziale del moltiplicarsi degli affacci alle diverse quote, connesse tra loro da una rampa di scale e da una rampa inclinata (rispettivamente dalla quota bassa a quella intermedia, e dalla intermedia alla superiore), addossate sulle pareti opposte del locale così da imprimere all’ambiente un respiro “centrale”, dove da ogni punto e ogni livello si è in presenza dell’intero paesaggio interno. Una specie di vero “teatro domestico”, alla cui vita interiore concorrono decisivamente le definizioni di dettaglio: dalla elementarità della coppia di lunghe panche che fiancheggiano l’accesso dal giardino, alla preziosità di disegno della zona camino, con le sedute in pelle distribuite su tre lati, la boisérie intorno alla cappa, la modellazione del soffitto; dalle balaustre lignee dei due soppalchi, prolungate in seduta secondo uno schema ricorrente in altri interni dettiani, al disegno delle librerie a parete su entrambi i lati dello studio al livello più alto, al ruolo della luce naturale, che penetrando abbondante dalle generose aperture anima e unifica l’intera articolazione spaziale. Un atteggiamento progettuale dove il disegno avvolgente degli arredi e del mobilio, di gusto tipicamente anni Cinquanta, non è mai ridotto a semplice compiacenza artigianale, o enfatizzato come sostitutivo della concezione architettonica complessiva, ma inteso costantemente come ricerca di unità dell’organismo architettonico, finalizzato a conformare, oltre che uno spazio, una dimensione dell’abitare, uno stile di vita umanistico e riflessivo. Lontani da ogni schematismo convenzionale e da ogni ortodossia funzionalista, questi progetti di Detti sembrano non esaurirsi entro confini esclusivamente disciplinari, ma rimandare costantemente a un’attitudine creativa più ampia, a una tensione, sempre operante, a declinare insieme etica e estetica: non si comprenderebbe infatti il profondo contenuto culturale, mai tecnicistico, del suo fare urbanistica senza le prove di sapienza progettuale delle sue contemporanee realizzazioni architettoniche; e viceversa, il controllo formale, la misura essenziale e distillata delle sue architetture non sarebbe tale senza la sua profonda coscienza

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10 E. Detti, Villa Vescovi-Biondi a Firenze, 1952-56 Disegno esecutivo del fronte sud. Fondo Detti, rotolo n.531 11 Sezione esecutiva sull’ambiente del soggiorno Fondo Detti, rotolo n.531 12 - 13 Vista esterna del soggiorno e vista dal giardino con i terrazzamenti in pietra. Fondo Detti, fotografie non inventariate

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urbanistica, la sua capacità di comprendere e rivivere le ragioni conoscitive e formali del territorio. *** Scriverà Michelucci in morte di Detti: «In qualche modo ha impersonato il tempo dell’autenticità. […] Una chiarezza cartesiana nel delineare fini e vocazioni della città, con un gusto per il particolare in architettura. Forse per questo le sue opere danno il senso di qualcosa che è nato nella storia della città, in un processo di affinamento continuo, come se il futuro avesse bisogno di discrezione e pacatezza per comprendere il passato».8

* L’espressione “parsimonia estetica” è desunta da Piero Calamandrei che la utilizza parlando della lingua toscana, cfr. P. CALAMANDREI, Parlare di Firenze, in “Il Ponte”, XII, fasc.10, 1957. 1 E. GARIN, La cultura dopo la Liberazione, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità ad oggi. La Toscana, Einaudi, Torino 1966. 2 Il materiale conservato presso l’Archivio Detti è costituito da: riproduzioni fotografiche di alcuni dei disegni di progetto consistenti in piante, prospetti, sezioni di parti dell’edificio o di dettagli, con impresso il timbro dello studio “architetti Detti-Santi” (Faldone 24); fotografie del cantiere e dell’intervento non inventariate. 3 Il materiale conservato presso l’Archivio Detti è costituito dai disegni originali di progetto, a china su lucido, con impresso il timbro dello studio “architetti Detti-Santi-Savioli”, rappresentanti le piante, il solo prospetto frontale, una sezione ed il dettaglio costruttivo del risalto centrale dell’edificio (Rotolo 525). 4 Il materiale conservato presso l’archivio Detti è costituito da: due versioni complete dei disegni di

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progetto (piante, sezioni, prospetti), non molto diverse tra di loro, a china su lucido, con alcuni disegni recanti la data del 1952, relativa all’autorizzazione comunale (Rotoli 515, 531); alcune foto del modello di studio non inventariate; alcune foto dell’edificio realizzato inventariate o meno (Faldone 24); documentazione varia e di corrispondenza (Cartella 36, nn.3171-3223). 5 Il materiale conservato presso l’Archivio Detti è costituito da: due versioni complete di disegni di progetto (piante, sezioni, prospetti), a china su lucido; una serie di prospetti ed una pianta relativi ad una possibile sopraelevazione; schizzi prospettici e dettagli di arredi interni, datati 1954-55 (Rotolo 530); alcune foto del modello di studio non inventariate; alcune foto di cantiere non inventariate. 6 Cfr. per esempio: le ricerche su gruppi di paesi toscani approntate per la partecipazione alla IX Triennale di Milano del 1951 e presentate sotto il titolo Architettura spontanea e casa rustica in Toscana; E. DETTI, Dilemma del futuro di Firenze in “Critica d’arte”, n.2, febbraio 1954; E. DETTI, Lo studio degli insediamenti minori. Alcune comunità della Lunigiana e della Versilia, in ”Urbanistica”, n. 22, luglio 1957; E. DETTI, Urbanistica medievale minore, in “Critica d’arte”, n. 24, novembre-dicembre 1957; E. DETTI, Urbanistica medievale minore, in “Critica d’arte”, n. 25-26, gennaio-aprile 1958. 7 Il materiale conservato presso l’Archivio Detti è costituito da: disegni di progetto relativi a diverse proposte per la risistemazione dell’abitazione, a china o a matita su lucido, con numerosi particolari esecutivi della versione realizzata, compresi disegni accurati degli arredi fissi (Rotoli 265, 389); disegni di alcuni dettagli di arredo non ordinati (Rotolo 138, miscellanea); alcune foto di cantiere non inventariate; numerose foto dell’edificio realizzato, soprattutto degli ambienti interni, non inventariate; alcune riproduzioni del materiale citato (Cartella 11, nn.1273-1278). 8 G. MICHELUCCI, Detti: un colloquio continuo tra urbanistica e architettura, dattiloscritto ritrovato in Archivio Detti inventariato alla Cartella 2, n.78. L’articolo è stato probabilmente scritto da Michelucci in occasione della mostra “Edoardo Detti 1913-84, architetto e urbanista. Dilemma del futuro di Firenze” (Firenze, Palazzo Medici Riccardi maggio-giugno 1993) e, per quanto risulta a chi scrive, è rimasto inedito.

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14 E. Detti, Villa Malagola a Godo (Ra), 1953-54 Vista del fronte sul giardino prima dell’intervento. Fondo Detti, fotografia non inventariata 15 Pianta del piano terreno. Fondo Detti, rotolo n.265 16 Vista del fronte sul giardino dopo l’intervento; in primo piano le aperture del soggiorno. Fondo Detti, fotografia non inventariata. 17 Vista interna del soggiorno. Fondo Detti, fotografia non inventariata 18 Sezione esecutiva sull’ambiente del soggiorno. Fondo Detti, rotolo n. 265


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IDENTITÀ DELL’ARCHITETTURA ITALIANA 4° Convegno - Firenze 29 - 30 giugno 2006 Comitato scientifico: Fabio Capanni, Francesco Collotti, Maria Grazia Eccheli, Giacomo Pirazzoli, Fabrizio Rossi Prodi, Paolo Zermani Redazione del catalogo: Francesca Mugnai, Francesca Privitera Cinemarchitettura: a cura di Ugo Di Tullio e Giacomo Pirazzoli Catalogo Edizioni Diabasis, 2006 ISBN 88 8103 446 8 Identità, la quarta volta La distruzione del paesaggio e la perdita di ogni regola nella costruzione della città sembrano far notizia solo quando qualche ecomostro viene demolito con l’esplosivo. E se è vero che questo è il Paese che ha consentito lo scempio di Punta Perotti, un risarcimento è tuttavia possibile. Non basta eliminare gli abusi con spettacolari gesti: occorre far crescere una consapevole cultura del progetto. E mentre alcuni elogiano la colonizzazione dell’ex BelPaese da parte di tante globalizzate archistar, vi è forse ancora spazio per riflettere secondo un tempo più lento capace di resistere alla progressiva dissoluzione di quel prezioso e gracile equilibrio tra bellezza del paesaggio da un lato e opera dell’uomo dall’altro. Paesaggi (e città) oltre la dinamite dunque? Su questi temi ha lavorato il Convegno IDENTITÀ DELL’ARCHITETTURA ITALIANA, giunto alla sua quarta edizione a Firenze e svoltosi nell’ultima settimana di giugno scorso, organizzato dal Dipartimento di Progettazione dell’Architettura dell’Università degli Studi di Firenze e con il patrocinio della Regione Toscana, della Provincia e del Comune di Firenze, della Rivista Casabella e con la collaborazione della Mediateca Regionale Toscana. Negli scorsi anni il Convegno aveva chiamato quali testimoni alcuni notissimi fotografi che hanno contribuito con i loro sguardi a mostrare e denunciare lo stato dei paesaggi - anche urbani - del nostro Paese. Quest’anno l’iniziativa ha deciso di interrogare il fecondo confine tra cinema e architettura, invitando tra gli altri Pupi Avati e Tullio Kezich. Come architetti ci interessano quelle inquadrature e quelle sequenze che hanno saputo cogliere il senso della trasformazione del paesaggio italiano annotando il variare dei luoghi a fronte dell’industrializzazione (come l’Antonioni citato da Paolo Zermani negli straordinari appunti “Per un film sul fiume Po”), oppure gli sguardi di chi - come Tarkowskij - ha vissuto nel paesaggio italiano l’ultimo quarto del secolo scorso e ne ha misurato le distanze trasformate e talvolta tradite, attribuendo all’inquadratura un ruolo fondamentale nella costruzione del racconto finale. Una feconda arte del montaggio, vera e propria tecnica progettuale che molto ha a che fare con la Composizione. Tra i partecipanti che hanno presentato i progetti e riflessioni Paolo Portoghesi, Renato Nicolini, Carmen Andriani, Claudio D’Amato, Franco Purini, Laura Thermes, Pasquale Culotta, Francesco Dal Co.

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Alla base della ricerca sull’identità non la nostalgia per il vernacolo o il pittoresco, ma una riflessione densa su come la cultura architettonica italiana si sia costituita nei secoli quale luogo di elaborazione di caratteri originali, riprodotti e trasmessi secondo un percorso dello spazio e della forma mantenutosi preciso e riconoscibile. Lo sguardo dei registi sul paesaggio italiano incontra i temi sui quali il Convegno nelle sue varie edizioni si è misurato e continua a riflettere. Quel paesaggio che può costituirsi, in forza della propria eccezionalità e ricchezza condivisa, come uno straordinario laboratorio di ricerca, rispetto al quale si possa fissare temporaneamente la soglia della qualità, in un indispensabile colloquio tra l’ininterrotto flusso delle misure della storia e la frammentata condizione della nostra modernità. Nell’ambito del Convegno nella sala affrescata di via San Gallo 25 si è svolta la rassegna CINEMARCHITETTURA per la cura di Mediateca Regionale Toscana. Cinque autorevoli personalità del cinema hanno indicato due titoli ciascuno per descrivere – quale partito preso – il rapporto cinema/architettura: nel mistero delle due discipline artistiche, il cinema che è movimento, l’architettura che sta ben salda.

XI International Seminar forum UNESCO/University and Heritage Documentation for conservation and development New heritage strategy for the future Florence 11-15 september 2006 Nello scorso settembre la Facoltà di Architettura ha ospitato l’undicesimo Seminario del forum UNESCO dedicato ai Beni Culturali. Sotto il titolo “Documentation for Conservation and Development, New Heritage Strategies for the Future” si è riunito un numeroso ed articolato gruppo di studiosi ed operatori del Patrimonio dell’Umanità, provenienti da circa sessanta paesi diversi. La partecipazione, nella fase preparatoria, è stata ancora più estesa, con la presentazione di circa quattrocento abstract sulle principali tematiche dei Beni Culturali. Il comitato organizzatore, guidato dal prof. Marco Bini, ha pianificato e organizzato il convegno nell’arco dell’intero anno che ha preceduto l’inizio del seminario, che ha avuto la sua giornata inaugurale l’undici settembre, nel Salone dei Cinquecento, in Palazzo Vecchio. Le giornate successive hanno avuto come sede congressuale il plesso didattico di Santa Verdiana, che fino al quindici settembre è stato vivacizzato dall’eterogenea, multiculturale e multietnica folla dei partecipanti al seminario. Le aree tematiche affrontate hanno compreso dalle più abituali questioni architettoniche, urbanistiche e archeologiche alle complesse questioni legate alla documentazione e alla preservazione del patrimonio culturale sociale e intangibile; il tutto con un continuo riferimento alle tecnologie contemporanee di più felice ed opportuna applicazione, con un evidente ed apprezzabile connubio tra le soluzioni dell’Information Technology e le problematiche della gestione e fruizione dei Beni Culturali


Festival dell’Architettura 3-2006 La “rara bellezza” in Architettura Si è da poco conclusa la terza edizione del Festival dell’Architettura di Parma, che quest’anno ha coinvolto anche le sedi di Reggio Emilia e Modena. Tracciare un bilancio è un’operazione non sempre semplice specie per un’edizione dal tema, quello della “rara bellezza in architettura”, difficile quanto equivocato, sempre invocato perché obiettivo ultimo di ogni progettazione, ma spesso sfuggevole, forse impossibile da raggiungere. Una bellezza che prende le distanze dalle normali categorie storiche per farsi portatrice di conoscenza; poco estetica, ancor meno formalistica ma al contrario densa di contenuti e di responsabilità civile. Una bellezza interna, introspettiva, che risale il fiume del gusto corrente, invocando Lionello Venturi più che Galvano della Volpe, per farsi portatrice di significati altri. La bellezza in architettura è unica, sostiene Renato Nicolini, per cui la rarità sta nel contrapporsi ad una modellistica iconografica divenuta negli ultimi anni imperante nei mezzi di divulgazione, più limitati quelli professionali, più diffusi quelli di massa. Bellezza è ragione, bellezza è armonia, bellezza è ordine, bellezza è regola. Ma spesso bellezza è rovina, è incompiuto diacronico che trasale le ragioni del tempo come ci dimostrano le costruzioni mai portate a termine degli hotels del Sinai fotografati da Haubitz+Zoche o la Villa Adriana di Tivoli. Ma a volte la bellezza, anche in architettura, può essere percepibile meglio se comparata o rapportata al suo opposto. La bruttezza, ci suggerisce Remo Bodei, è qualcosa di assolutamente necessario per l’arte. L’evidenziazione di una differenza estrema, polo e antipolo, palesa ed esplicita una bellezza che, ci ricorda Adorno citato da Bodei, se commercializzata diventa il suo opposto. Al piacere estetico sostituiamo volentieri il piacere seduttivo, meno immediato, meno affidato alla sensazione finale provocata dal prodotto, ma più profondo, più liebnizianamente processuale. Una sorta di barthesiano “elogio del godimento” non immediato: un piacere che non è residuo ingenuo, che non dipende da una logica dell’intendimento e della sensazione, ma da una deriva in cui volutamente ci si abbandona e ci si perde nell’impossibilità di misu-

rarsi con il bello. Se per Bodei l’assenza di regole è responsabile delle odierne brutture urbane, e il pensiero corre alla mostra sulle Banlieue parigine, la qualità dello spazio urbano pubblico in occidente, secondo Perniola, non può essere semplicemente affrontato con gli strumenti dell’arredo urbano o dell’arte, ormai divenuta semplice pubblicità di se stessa degradandosi, annullando le mediazioni colte e, aggiungiamo noi architetti, mortificando la progettualità urbana. Dal punto di vista di chi ha operativamente partecipato alla costruzione delle tre edizioni finora trascorse l’aspetto di maggior rilevanza è forse la coerenza rispetto agli obiettivi di una manifestazione che si è posta, nell’articolarsi dei diversi temi, l’obiettivo di misurarsi con il mondo eteronomo delle altre discipline: dall’Arte alla Fotografia, dalla Letteratura al Cinema in un inscindibile e proficuo rapporto biunivoco. Come scrive Aldo Rossi l’architettura è la scena fissa della vita, ed in quanto tale partecipe di ogni momento; iniziale o conclusivo come esplicitato nella mostra sull’architettura dell’addio intesa in senso lato: dalle sale del commiato agli altri luoghi della ritualità del cordoglio. Quando lo spazio architettonico di un teatro particolare come quello del Farnese, Teatro dell’arte, e della guerra, diventa elemento scenografico fisso di un’installazione artistica di Claudio Parmiggiani la biunivocità raggiunge il suo apice. È servito un artista la cui caratura rimane imbrigliata nelle distinzioni tra le consuete categorie distintive: ne pittore, ne intellettuale, ne scultore, ne poeta. Oppure, se vogliamo, tutto ciò fuso in un’intelligenza colta capace di riportare in superficie, attraverso le sottili allusioni alle naumachie della costruzione labirintica vetrata, la memoria dello Spazio e del Tempo. Ma questa rimane una componente essenziale anche dell’architettura, soprattutto in una contemporaneità in cui questi valori sembrano essersi persi nei meandri del puro formalismo. Enrico Prandi

Il nuovo Padiglione Italiano alla X Mostra Biennale di Venezia Si è inaugurato quest’anno il nuovo Padiglione Italiano alla X Mostra Biennale di Venezia. Si tratta di un nuovo padiglione esclusivamente dedicato all’architettura italiana, o all’arte italiana, che per la prima volta ha uno spazio specificamente ad essa dedicato. Ospita la mostra “Italia – y- 2026. Invito a Vema” curata da Franco Purini, coadiuvato da Nicola Marzot, Margherita Petranzan e Livio Sacchi, e si colloca all’interno della definizione tematica “Città. Architettura e società” decisa dal curatore generale Richard Burdett. Il padiglione, come è consuetudine di Franco Purini, sollecita moltissimi aspetti della cultura architettonica contemporanea italiana in maniera diretta e chiara ponendo soprattutto questioni che risultano scottanti e positivamente problematiche per gli architetti e per la società. La mostra parte dalla realizzazione di una nuova città e si dirama at-

foto Alessandra Chemollo

Claudio Parmiggiani, Teatro dell’arte e della guerra Teatro Farnese 24 ottobre 2006 - 7 gennaio 2007

nella loro più ampia accezione. Il panorama offerto dal seminario è stato quanto mai vasto e ricco, con una partecipazione significativamente varia, non solo per provenienza nazionale, ma anche per età e per diversificazione delle soluzioni proposte. Il testo con la raccolta degli abstract presentati è edito da University Press, la pubblicazione finale degli atti del convegno è prevista per i primi mesi del 2007, il sito di riferimento per maggiori informazioni sulla undicesima edizione del Seminario del Forum UNESCO è www.fuupfirenze.net. Giorgio Verdiani

traverso di essa in tre linee principali o chiavi di lettura, così definibili: idealità e progetto, progetto e destino e infine attualità e progetto, che a loro volta si aprono e includono ulteriori ambiti e livelli, in cui l’Architettura è soggetto primo e insostituibile. Si tratta del progetto di una nuova città, Vema, idealmente pensata per il 2026 si colloca tra Verona e Mantova, all’incrocio dei due corridoi transeuropei. Franco Purini redige con la collaborazione di Francesco Menegatti –city manager- lo schema insediativo generale e assegna a venti giovani architetti il compito di progettare la città suddivisa in altrettante parti. I venti architetti, tutti di età inferiore ai quarant’anni, sono i protagonisti di questa straordinaria vicenda progettuale avendo il compito di progettare ognuno una parte funzionalmente definita, ma anche di elaborare proposte di residenze potendo immaginare e soprattutto prefigurare la città del futuro. Le proposte rappresentano un sistema di azioni progettuali mirate. Ovvero i progetti elaborati costituiscono non solo un’intenzione realizzativa concreta, ma, quel che è più significativo, presentano nel loro insieme una provocatoria evidenza rispetto alla costruzione e alla trasformazione dell’urbano. Il messaggio è chiaro, al di là di tante polemiche, sostenere la centralità del progetto è l’unica possibilità per la vita della città. Non è un caso che quasi la totalità dei progetti esprima particolare cura e attenzione per l’esterno urbano, per il fuori che è prima, e soprattutto, l’ambito del riconoscimento e dell’appartenenza. Ma la forza assertiva dell’operazione Vema contiene in sé anche il proprio antidoto: come a dire che dobbiamo ostinatamente sostenere la specificità del nostro agire, senza tuttavia dimenticarci che tale sostegno presuppone scarti successivi, continue messe a punto dei calibri, degli strumenti operativi, disposizione all’ascolto di tutti gli aspetti che la complessità del reale ci sottopone. Affiancano Vema, e idealmente la fronteggiano le città del Novecento, dalla Città nuova di Sant’Elia, attraverso le città pontine, fino a Dicaia di Paolo Portoghesi e la Città uguale di Franco Purini per arrivare alla città di Jiangwan di Vittorio Gregotti; città di fondazione che sono presentate come entità diagrammatiche disposte in successione cronologica tra loro. Quelle città su cui è possibile, e necessario, oggi compiere una riflessione, verificarne gli statuti, rivederne le ragioni. Ma anche storicizzarne l’esistenza attraverso la loro reimmissione diretta nell’attualità. Infine, un grande ovale è sfondo e contenitore della proiezione realizzata da Giorgio De Finis e Marta Francocci in cui l’architettura italiana è narrata come un grande romanzo popolare nel quale i volti e le voci dei più significativi architetti italiani scorrono alternandosi alle architetture in un vorticoso e avvincente spettacolo architettonico, accompagnato da un testo del curatore dal titolo Modernitalia, che trascrive straordinariamente l’esistenza dell’architettura del nostro Paese di questo secolo proiettandoci nuovamente in quella circolarità positivamente feconda del pensiero e dell’immaginazione. Dina Nencini

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letture

Le Corbusier Una piccola casa Edizione italiana a cura di Bruno Messina Traduzione di Genévieve Pesenti Biblioteca del Cenide, Reggio Calabria, 2004 ISBN 88-87669-32-5 In questa prima edizione italiana, curata nei dettagli e stampata nella stessa veste dell’originale francese del 1954 dalla Biblioteca del Cenide di Domenico Cogliandro, ritroviamo un’opera che ci da modo di riflettere sull’idea di grandezza e di misura; un pensiero che parte dal libro stesso che cela, dietro a una dimensione e un costo limitati, una lezione fondamentale di architettura. Grafica, testo e immagini concorrono a definire un’idea di spazio che è la stessa che anima la petite maison costruita nel 1923 per i genitori che Le Corbusier descrive come in un racconto. Quello che non può essere incluso nei segni spessi a mano libera con i quali traccia piante e sezioni è un pensiero non necessario, come il falso lusso degli oggetti o degli spazi accumulati senza un’idea, e il significato più importante è nel senso che può assumere il vuoto così come il bianco della pagina. Tutto apparentemente è minimo: il budget, la superficie totale, le dimensioni utili per lo svolgimento dei singoli gesti metodici legati alla vita quotidiana; la grandezza risiede altrove, nella chiarezza delle intenzioni, nell’ordine, nel senso dei rapporti tra le parti. La classificazione delle idee e la chiarezza dello scopo: che cos’è abitare? cos’è un luogo? cosa sono una porta, una finestra o un davanzale? L’apparente contraddizione di pensare la planimetria e il luogo prima di trovare il terreno sul quale costruirla: la casa dovrà affacciarsi sul lago Lemano, su una vista magnifica, frontale, a sud. L’architettura conferisce ordine ad un’idea di luogo, limita e rivela il paesaggio, in accordo con il percorso del sole e con la vita che dovrà svolgersi al suo interno, fino all’ironia (?) della pedana e della grata che permettono al cane di affacciarsi sulla strada all’altezza dei piedi dei passanti. La finestra di undici metri di lunghezza aperta su uno degli orizzonti più belli del mondo è l’attore principale, conferisce classe alla casa, ma come ogni protagonista non entra in scena immediatamente: appena varcata la soglia quello che colpisce, come nelle case visitate a Pompei, è la lunga prospettiva che si apre sul giardino murato, a sinistra, attraverso la quinta architettonica delle pareti dello studio e la porta a vetri. Con disegni, fotografie e poche incisive parole Le Corbusier ci conduce nella casa, soffermandosi sui dettagli più significativi e sui diversi sguardi sull’esterno che questa offre: la misura umana del foro quadrato nel muro del giardino, il panorama orizzontale della finestra, il lago visto dal tetto-giardino come dal parapetto di una nave. L’orizzontale del muro e la verticale della colonna – un tubo metallico di sei centimetri di diametro - stabiliscono un fatto rilevante, ribadiscono dal riparo del giardino le coordinate ortogonali del paesaggio: il lago e le montagne. La casa ha una storia, non è un oggetto chiuso al

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mondo, è al centro di un sistema di relazioni. Nei trenta anni che sono passati tra la sua costruzione e la pubblicazione del libro sono cambiate alcune cose, sono state necessarie alcune riparazioni, un nuovo rivestimento; come a sfatare il mito della superficie immacolata delle architetture puriste Le Corbusier parla delle tracce che si sono accumulate come di un valore aggiunto, della crepa dovuta alla “respirazione” del lago, del taglio degli alberi troppo invadenti, della bellezza dell’erba incolta sulla terrazza, accostando il ritratto affettuoso della madre novantunenne ai disegni che raccontano di questa dimora e della sua trasformazione nel tempo. Quale è lo spirito del confronto tra architettura e natura? Il delitto di lesa-natura imputato a questa piccola casa all’indomani della sua costruzione è la nota con la quale Le Corbusier chiude il testo e il punto di avvio delle interessanti riflessioni che il curatore dell’edizione italiana, Bruno Messina, ci consegna nella postfazione: quasi un invito a ripensare alla macchina per abitare come a un’idea che non ha paura di perdere ciò che non è fondamentale. Lisa Ariani

Heinrich Tessenow La costruzione della casa Titolo originale: Der Wohnhausbau 1ª edizione, Dresden, 1909 Edizione italiana a cura di Manuel García Roig Edizioni Unicopli, Milano, 1999 ISBN 88-400-0595-1 Di fronte ad uno scenario confuso ed incerto come quello dell’architettura contemporanea, fatto di sperimentazioni formali senza senso, rileggere un testo o rivedere un progetto di Tessenow è una specie di sollievo. Una dimostrazione concreta di umiltà e di sincerità, da cui ricominciare ad essere più sereni e fiduciosi nel proprio lavoro. Come questo libro, dedicato al tema della casa, in particolare all’abitazione unifamiliare isolata o a schiera, in cui Tessenow raccoglie nella forma di un piccolo manuale, insieme ad alcuni suoi progetti e disegni, una serie di considerazioni e suggerimenti utili a stabilire le condizioni e le ragioni pratiche del progetto di una casa. Tra i primi scritti di uno dei maestri della cultura architettonica moderna, Der Wohnhausbau, apparso la prima volta quasi un secolo fa e solo di recente pubblicato in traduzione italiana, costituisce ancora oggi un contributo di tipo analitico importante nel campo della ricerca progettuale sull’abitazione. La ragione va individuata nel modo chiaro e preciso con il quale l’autore si pone la questione della costruzione della casa, non in quanto problema solo formale, ma assumendo come punto di vista “la casa intesa come oggetto d’uso, la casa come utensìle” (Grassi), guardando con attenzione alla sua immagine più autenti-


ca, quella della tradizione del costruire artigianale e degli esempi della storia, in cui la forma della casa è il prodotto dei bisogni della vita quotidiana e delle attese di chi la andrà ad abitare. Da questa angolazione tecnico-pratica, Tessenow sfugge al rischio di una lettura nostalgica o formalistica del tema (ciò che invece avviene negli scritti e nei progetti di molti suoi contemporanei) ed affronta, consapevole delle condizioni reali del lavoro, l’analisi di quelle norme e criteri operativi che definiscono nel tempo l’abitazione come spazio appropriato alle aspettative, non solo funzionali, di ogni nucleo famigliare. A partire da concetti generali propri della tradizione come quelli di adeguatezza, di semplicità formale e di chiarezza costruttiva, Tessenow ordina e descrive meticolosamente gli elementi (la finestra, la porta, il muro, il tetto, ecc.) e gli spazi specifici (il soggiorno, la cucina, la camera da letto, il giardino, ecc.) che compongono la casa, insiste sui loro rapporti e le possibili relazioni fornendo ad esempio indicazioni riguardo la disposizione interna degli ambienti ed il legame tra questi e lo spazio libero del giardino, dando suggerimenti circa le eventuali articolazioni in pianta delle stanze, oppure offrendo consigli più specifici sulla posizione e la dimensione dei serramenti o sulla scelta e la combinazione dei materiali per i pavimenti e le pareti: tutto questo studiato sempre in rapporto all’uso quotidiano della casa e alla vita domestica che dovrà contenere. Ogni descrizione, anche quella che riguarda i dettagli più secondari, si avvale di numerose tavole disegnate dallo stesso Tessenow. Disegni apparentemente graziosi, ma in realtà tecnicamente perfetti, in quanto riproducono operativamente la linea già tracciata dalla pratica del costruire e mostrano minuziosamente, attraverso l’uso della prospettiva, la casa come funziona. Una casa senza abbellimenti e priva di soluzioni originali, dalla forma semplice ed elementare, che non è mai scelta stilistica ma espressione ricercata di un legame concreto con la vita. Un luogo ospitale, costruito, per dirla con le parole di Hermann Hesse, “per dare forma corretta con mezzi modesti al confortevole, al necessario”, perché laddove prevale la ragione autentica delle cose, l’ansia di costruire artisticamente è impossibile. Nicola Cimarosti

Fabio Fabbrizzi Itinerari di progetto urbano 11 ipotesi per Borgo San Lorenzo Alinea, Firenze, 2004 ISBN 88-8125-800-5 Può ancora l’architetto, armato di sola riga e compasso, come le raffigurazioni più antiche lo ritraggono, risolvere, attraverso il disegno, i problemi di crescita disordinata della città contemporanea? Fabio Fabbrizzi è convinto di sì e sceglie come

tema di ricerca e di studio per il suo corso di progettazione (AA 2001/2002) un’area di Borgo San Lorenzo, a campione di uno dei problemi più comuni nelle nostre città: la crescita casuale e caotica oltre le mura dell’impianto storico che ha generato vuoti irrisolti, senza identità di luogo e con una commistione non gestita di funzioni che hanno inserito in mezzo ai campi coltivati episodi sparsi di parcheggi, capannoni industriali, etc. Le risposte che dagli undici progetti emergono possono riassumersi nei seguenti punti: - la necessità di un disegno urbano di impianto che leghi il singolo oggetto architettonico ad una visione più ampia sul territorio, instaurando relazioni col luogo: nella progettazione è visibile la predominanza di elementi quali chiari tracciati, assi, filari, viali, percorsi, porticati, gallerie, argini, …come generatori di un ordine di riferimento per l’architettura (dunque intesa come architettura di relazione, non come oggetto di design né come figuratività mimetica); - la riscoperta di una geometria nella trama del tessuto agricolo in grado di farsi referente per i nuovi insediamenti o per il loro completamento; - una sottile influenza della land art, di un’architettura topografica che si fa paesaggio come possibile risposta alla città diffusa, dove il disegno ambientale si confonde con la spazialità costruita; - l’attenzione alla progettazione dei vuoti (piazze, logge….) e alle loro proporzioni rispetto ai pieni, nella ricerca di un equilibrio armonico e compositivo, capace di essere anche una risposta al bisogno di sostenibilità ambientale; - l’attenzione alla progettazione del verde, al tema di ricucitura con l’intorno, laddove il costruito si confronta con il disegno della campagna; - il ricorso ad impianti compositivi simmetrici ed all’iterazione seriale quali soluzioni condizionate dalla dispersione insediativi, anche se emergono con queste scelte figure urbane un poco straniate dai luoghi. La fiducia riposta nel disegno emerge anche da una rigorosa grafica bianco nero al tratto, che rafforza selettivamente i volumi con le ombre, la trama delle superfici, i tracciati. Claudio Zanirato

Fabio Capanni Architettura moderna a Fiesole Becocci Editore, Firenze, 2003 “Le ville padronali, le case coloniche, i fienili, i muri a retta che addomesticano le differenze di livello del terreno, le coltivazioni di viti ed ulivi, i filari di cipressi, sono tutti saldati in un alleanza millenaria, ormai sedimentata in una struttura resistente”. Con queste parole, Fabio Capanni, descrivendo il paesaggio fiesolano, fa emergere come la simbiosi tra uomo e natura sia uno dei caratteri del paesaggio toscano rintracciabile nelle opere prese in esa-

me in Architettura moderna a Fiesole: in un paesaggio consolidato e permanente trovano posto con continuità architetture del Novecento italiano. In questo libro l’autore, fiesolano, mette in luce la presenza significativa delle opere di alcuni degli architetti più prestigiosi della scena fiorentina degli anni fra il 1950 e il 1970. L’itinerario culturale proposto fa emergere una visione inedita di Fiesole, non solo come città archeologica impressa nell’immaginario collettivo, ma anche come luogo di concrete realizzazioni di architettura moderna. L’autore analizza alcune significative esperienze di architetti come Pagnini, Ricci, Savioli, Detti, Michelucci, Fagnoni, che si confrontano con un patrimonio culturale straordinario, in un momento in cui sono forti le istanze del Movimento Moderno. In un periodo storico caratterizzato dall’estrema varietà di contributi sia individuali che collettivi, l’autore fa comunque emergere una linea di lavoro che accomuna i diversi protagonisti, definita da una sensibile integrazione fra il repertorio tradizionale e quello che si andava evolvendo. L’abilità compositiva di alcuni architetti è complementare alla ricerca della perfezione qualitativa del manufatto architettonico, fatta di attenzione per i materiali, per le tecniche costruttive, per la cura del dettaglio. L’autore mette in evidenza come queste architetture siano “interpretazione squisitamente fiorentina del magico equilibrio fra razionalità ed organicità custodita nell’architettura spontanea toscana”, come viene sottolineato nella Villa Conenna di Rolando Pagnini, dove “la villa sembra radicata, incuneata, incastonata nel corpo della montagna, quasi fosse un reperto etrusco, e al tempo stesso, sembra librarsi, eterea e sfuggente, su di una superficie di terreno estremamente limitata…”. Gli elementi del paesaggio emergono anche nella Villa Fattirolli di Leonardo Ricci, “non più rilevabili nella loro condizione originaria ma, processati da un meccanismo che ne altera l’integrità, vengono manipolati in un atto di ricomposizione che avviene nell’ambito di una dimensione fantastica fondata sulla libertà espressiva così cara all’architetto”. Le opere analizzate sono soprattutto architetture residenziali, frutto di una committenza illuminata, ma trovano confronto con il paesaggio anche opere di diversa destinazione come il complesso scolastico di Edoardo Detti presso Villa La Torraccia e la chiesa di San Giuseppe Artigiano a Montebeni di Raffaello Fagnoni. Nella seconda parte del volume, curata da Mauro Latini e Riccardo Butini, vengono proposti quattro itinerari che rivelano la cospicua presenza sul territorio di architetture moderne firmate da numerosi architetti tra i quali Archizoom, Nello Baroni, Marco Dezzi Bardeschi, Giuseppe Giorgio Gori, Riccardo Gizdulich, Pietro Porcinai, Pierluigi Spadolini. Seguendo il doppio registro del testo e delle illustrazioni può sorgere la curiosità di incamminarsi nel territorio fiesolano confrontando e comprendendo dal vero le opere qui segnalate che non

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sono in genere immediatamente percepibili nemmeno dal visitatore più attento. Il testo è accompagnato da un ricco repertorio fotografico; è da segnalare inoltre la presenza di un cospicuo materiale grafico costituito dai disegni tecnici, molti tra questi inediti, provenienti dall’archivio dell’Ufficio Tecnico del Comune di Fiesole e dagli archivi personali degli autori citati. Claudio Marrocchi

Ferro 3 - La casa vuota Regia di Kim Ki-duk con Lee Seung-yun, Jae Hee “Letture” presenta normalmente recensione di libri, purtuttavia la particolarità dell’idea di casa e di spazi abitati (non i muri, ma gli spazi si abitano?) che il regista coreano propone ci ha invogliato a compiere una piccola invasione di campo provando a leggere il film come un contributo di significativo valore letterario sul tema. L’abitare nelle grandi metropoli contemporanee spesso toglie agli individui capacità di identificazione, riconoscibilità e potenzialità di affermazione; ma proprio per questo la città di grandi dimensioni ha anche il magico potere di rendere le persone invisibili, consentendo loro quasi un possibile eremitaggio (purtroppo a volte obbligandole a questo), pur in una vita vissuta in mezzo agli altri. Tae-Suc vive così, passando inosservato, senza lasciare al mondo alcuna traccia tangibile della sua esistenza, se non quelle, più profonde, impresse nella memoria e nell’immaginazione della persona amata, nella sua invisibile anima… Egli vive in case momentaneamente vuote, i cui proprietari sono scelti a rappresentare uno spaccato trasversale sulla società, divisa in classi, ma “democratizzata” dal vuoto che ne accomuna le abitazioni. Dalle case non ruba nulla, non trattiene oggetti, ma ricordi (di ognuna scatta una foto), e restituisce ad esse un suo ordine, aggiustando oggetti, lavando abiti, pulendo. Penso che il regista Kim Ki-Duk in questo film tenti di rappresentare l’immateriale; ma cos’è il silenzio se non l’assenza di suoni? La solitudine se non una mancata presenza? Possiamo percepire il negativo solo come contrapposizione al positivo, descrivere un vuoto solo in riferimento ad un pieno, secondo la famosa logica percettiva del rapporto figura/sfondo. Un’assenza non è il niente, ma una mancata presenza di qualcosa o qualcuno, un rimando. Per questo il vuoto, più che il pieno, riesce a descrivere l’immateriale, perché ha il potere immaginifico dell’evocazione; l’assenza è una realtà densa di infiniti rimandi mentali soggettivi affidati ai ricordi, al vissuto, al trascorso personale di ciascun individuo che la abita. Ognuno, vedendo questo film, ne vede uno del tutto

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personale, diverso. È più vera la nostra realtà privata (unica possibile esperienza che ci è dato di conoscere) o quella che intuiamo essere del resto del mondo e che possiamo, solo in analogia a noi, immaginare? Kim Ki-Duk descrive la realtà del mondo (il positivo) tramite assenze (forse in modo abbastanza familiare alla cultura orientale, da sempre virtuosa in un’estetica del vuoto che poco appartiene ancora a noi occidentali, tuttora vittime dell’horror vacui). Protagonisti del film sono, infatti, il silenzio (che svela un mistero indicibile alle parole), il vuoto delle case, simili a calchi che portano in negativo i segni dei loro abitanti, l’assenza di senso che c’è nell’imprevedibilità della vita e nell’esistere della violenza, l’invisibilità di Tae-Suk (che nella prima parte sembra esistere, ma senza essere mai visto da nessuno –tranne che da lei, Sun-hwa, che, come direbbe Saint Exupery, riesce a cogliere “l’invisibile agli occhi”- nella seconda diventa quasi spirito, immaginazione, esiste solo nei pensieri e nei gesti di lei). Infatti: Tae-Suk esiste davvero o è solo ciò che a Sun-hwa manca, la sua solitudine che si trasforma in sogno? Il film è un interessante processo verso l’astrazione (“less is more” per usare le famose parole di Mies van der Rohe) che arriva a creare ambigutà, riflessi, inganni, trasparenze che ricordano i paralleli tentativi di smaterializzazione (virtualità?) fatti da una recente architettura, da Jean Nouvel a Kengo Kuma –passando per Rem Koolhas- “Dove c’è il nulla tutto è possibile”-. E se Tae-Suk invece esiste, cosa gli fa scegliere di vivere pezzi di vita e luoghi di altri, di non possedere oggetti suoi “fissi” (l’unico da lui posseduto è la mobile motocicletta), di volere passare inosservato, lasciando solo timidi segni di un ordine ideale di cose aggiustate (a ricordarci la precarietà degli oggetti che inevitabilmente si rompono), case riordinate, alla ricerca di quello che può sembrare l’unica libertà: l’assenza di legami con gli altri, finché non incontra Sun-hwa; allora scopre che la salvezza dei singoli è nell’amore che trasfigura i corpi, cancellando i limiti fisici delle persone, la loro individualità, incomunicabilità, regalando a ciascuno un’improvvisa leggerezza, facendo espandere i corpi nello spazio che librandosi diventano spirito e sono ovunque? (-o invece il finale è la definitiva rinuncia a vivere la realtà e la decisione, dunque, di rifugiarsi nei sogni?-). Valentina Baroncini

Claudio Zanirato Paesaggi urbani. Pianoro nuova Alinea, Firenze, 2005 Fare architettura non significa inventare, bensì scoprire; è interpretazione sempre nuova di concetti noti, è vedere il mondo con occhi sempre diversi, viverlo in modo sempre nuovo, reinventarlo e animarlo

con contenuti inconsueti. Creare architettura significa anche colmare la realtà con un’idea, con un punto di vista mutato, diverso. Oswald Mathias Ungers Attraverso la lettura di questo libro, mi sono lasciato sorprendere, in modo forse un po’ ingenuo, da una frase che appare subito nel testo introduttivo e che a posteriori riesco a definire come sintetica dell’intero contenuto narrativo. …le città ci appartengono, fuggevolmente. Non è tanto l’intrinseca deduzione di questa che trovo significante e meritevole di nota, quanto il ragionamento che essa apre, e di riflesso legittima, sul rapporto tra l’uomo ed il proprio patrimonio insediativo; poiché se è vero che le città ci appartengono fuggevolmente per nostra stessa natura, di esseri mortali e quindi limitati nel tempo, è anche vero che questa fuggevolezza è dettata anche dalla natura dell’altro termine in questione, la città, che nel suo configurarsi nel tempo, appare come una continua stratificazione dinamica di eventi e fatti costruttivi, diversi tra loro e dall’esito sempre poco prevedibile. Forse anche quest’ultima considerazione potrebbe sembrare banale, ma in un paese come l’Italia, dove i centri abitati assomigliano sempre di più a dei corpi mummificati, e a quanto sembra intoccabili, l’affermazione a cui ci riferiamo risuona come un monito, una sorta di rapeller à l’ordre, con cui distaccarsi da una consueta, ed ormai consumata, lettura romantica della città. La forza di questa affermazione si amplifica poi, se alle parole, si accompagna una vera e propria esperienza progettuale, come quella illustrata nel libro, che seppur circoscritta in uno scenario singolare, come è quello di Pianoro, rende merito ed evidente la possibilità di un contributo realmente attuale ed operativamente radicale, all’interno del cuore stesso delle nostre città. Così quello che di primo acchito appare come un resoconto di un percorso progettuale, iniziato nel 2001 con l’aggiudicazione del concorso nazionale di idee e conclusosi nel 2003 con la redazione del P.R.U., ad una lettura più attenta diventa la proposizione di un metodo da parte dell’autore, che tende a suggerire non tanto una nuova strumentazione progettuale, bensì una posizione logica di ricerca, scevra da ogni preconcetto conoscitivo e che tenta di recuperare le proprie coordinate operative direttamente dalla fonte, dal territorio dove opera. Pianoro ha poco più di cinquant’anni, con i bombardamenti del 1944 e del 1945 è stata prima distrutta e poi ricostruita in modo integrale, su di un sito diverso dall’originario sedime che i primi contadini di queste terre conquistarono con duro lavoro. Il piano definitivo di questa nuova città venne approvato nel 1952; tra i suoi contenuti vi era dichiaratamente quello della piena concordanza alla logica funzionalista e di questa alla sua massima rappresentazione: la città ortogonale.


Questa avrebbe dovuto rassicurare sulla pianificazione aperta e logica del territorio, forte anche del richiamo a quella radice storica che la connette al castrum romano, ed invece, nel breve lasso di cinquant’anni, in cui la città ha potuto dilatarsi e per quanto possibile sedimentarsi, di quest’impostazione sono emersi soprattutto i limiti. In questo scenario la proposta progettuale di Zanirato, dettagliatamente esposta nel volume Paesaggi urbani, acquista un valore didascalico di notevole interesse in cui è lontana la logica della predominanza della forma a priori, dove invece l’operatività nasce e si sviluppa con l’acquisizione costante e scrupolosa di stimoli direttamente derivanti dal contesto cui si confronta. La ricerca della continuità fisica della città; il suo costituirsi e verificarsi con il sistema delle relazioni; l’apertura, e dove è necessaria la circoscrizione, dello spazio urbano; l’offerta di una tridimensionalità di questo; il costante dialogo tra l’ampio sistema territoriale ed il divenire della realtà urbana; sono tutti principi cui si struttura il progetto ed assieme sono caratteri imprescindibili di qualsiasi realtà urbana consolidata. La sintesi testuale e grafica che ci accompagna alla comprensione dell’esperienza qui raccolta è poi notevolmente chiara, tanto che la complessità delle proposte di volta in volta presentate si disvela, con notevole fluidità, nel susseguirsi degli elaborati e delle immagini prodotte. Carlo Antonelli

Gabi Scardi (a cura di) LESS Strategie alternative dell’abitare 5 Continents Editions srl, Milano 2006 ISBN 88-7439-331-8 Nella città degli stilisti e dei designer che lavorano tutto l’anno per il salone del mobile (città che fu da bere tanto che si bevve anche la sua anima sociale e solidale), pare che alcuni artisti - più che gli architetti - riescano a riflettere con le loro installazioni su una condizione di abitare in molti casi scissa dal costruire. La mostra dedicata alle strategie alternative dell’abitare si è tenuta al ricostruito PAC di Ignazio Gardella a Milano dal 5 aprile al 18 giugno 2006. Questo numero di Firenze architettura si sforza di cercare esempi in cui ABITARE e COSTRUIRE possano procedere parallelamente e – in alcune felici stagioni con pazienza e caparbietà volute – reciprocamente rispecchiarsi arricchendosi. Occorre tuttavia dar conto anche di quelle drammatiche realtà che, provenienti da altre culture dell’abitare, sono costrette da contesti solo in minima parte condivisibili a trasformare tale abitare in provvisorio, temporaneo, marginale, limitato, precario e rischioso. Per non andar lontano: a lato della città dal sistema ordinato e dalla piazza pulita,

proprio negli interstizi ferroviari e nelle pieghe autostradali della metropoli lombarda un’altra realtà sfrangiata si apre. Lamiere e teloni abitati da persone che da nessuna parte risultano e che pure vivono, cercano di lavorare o sono costrette a vendersi, negli occhi ricordano colori di terre lontane, si ammalano, scompaiono a costo zero. Con l’ironia e a tratti la causticità feroce di chi riesce a mostrar le cose anche a chi – con fastidio non le vuol vedere, le installazioni predisposte al PAC riflettono simile condizione sottolineando LESS nel senso di meno enfasi, meno effetti speciali, meno retorica, cioè meno orpelli, meno scarto e meno spreco; per scelta o per destino, per tornare a considerare esigenze fondamentali e forme essenziali (G.Scardi). E se abitare è possibile nella vitale serie di stanze fatte di cassette per l’acqua minerale e bandoni ondulati di riciclo, risulta o spazzatura che si trasformano - per accumulo, aggiunte e superfetazioni - a dar carattere permanente al rifugio di emergenza, è in realtà un piccolo tratto di balaustra stampata prefabbricata e una generosa antenna parabolica a dar l’idea di casa (Marjetica Potr_). Sul limite, e parafrasando l’illustre riflessione su casa come me, ritroviamo il filone di ricerca che lavora sull’abitare quale luogo fisico e mentale al contempo, necessario a sicurezza e protezione, espressione di identità in grado di rivelare il vivere e di riflettere l’inconscio, disvelando ambizioni desideri emergenze necessità e sogni: destinatari sono anche i nuovi barbari, manodopera migrante, rifugiati politici, immigrati clandestini, ma anche alcuni esiliati nella loro stessa città (la trasmutazione in critical vehicles dei carrelli sottratti al super di Krzysztof Wodiczko, le giacche a vento a due piazze che crescono divenendo serie di sacchi a pelo collegabili di Lucy Orta, i moduli formattati per la sopravvivenza e i gusci pelosi essenziali del Rotterdam Atelier van Lieshout, la My Yurt di Maria Papadimitriou, le tende a goccia destinate ad essere appese agli alberi di Dré Wapenaar, il rudere abbandonato dell’Israel American Medical Centre che – da fallimento della pianificazione urbana - diviene nel video di Keren Amiran una straordinaria sala da musica per violino solista). Interessa qui segnalare il volume che - per la cura di Gabi Scardi - accompagna la mostra e che si rivela ben di più di un catalogo divenendo una significativa riflessione appunto su quelle strategie che continuano a riflettere sulla casa e sull’abitare come condizioni fondamentali per la sopravvivenza fisica e riferimento primo dell’identificazione individuale e sociale. Un tempo la cultura architettonica era in grado di porsi delle domande e fornire delle risposte anche alle emergenze. Si pensi per esempio al ruolo svolto da Mario Ridolfi per la ricostruzione nel dopoguerra oppure alla capacità di architetti anche “borghesi” nel misurarsi con la questione delle abitazioni in condizioni di scarsità di risorse (Franco Albini e Piero Bottoni per esempio), impegnando profondità di riflessione e cultura del progetto in un tema non nobile né appariscente.

Ed è singolare come alcune delle domande sui limiti e sulle condizioni minimali per l’abitare che il catalogo della mostra milanese ci pone (per esempio nei luoghi e nelle figure ad alto valore simbolico dell’iraniano Siah Armajani) coincidano – a nostro modo di vedere - con alcune delle considerazioni condotte da Tessenow nei primi decenni del ‘900 a proposito delle condizioni necessarie per far sì che ci fosse casa.. una panca e un pergolo fuori dalla porta, un gradino per entrare, dentro uno spazio accogliente, capace di esibire normalità, un’atmosfera di bonomia tranquillizzante, senza eccessi, una scala per salire al piano di sopra da cui comunque provengono i passi sulle tavole del pavimento di una persona cara. Francesco Collotti

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI FIRENZE - DIPARTIMENTO DI PROGETTAZIONE DELL’ARCHITETTURA

Direttore - Ulisse Tramonti - Sezione Architettura e Città - Gian Carlo Leoncilli Massi, Loris Macci, Piero Paoli, Ulisse Tramonti, Alberto Baratelli, Antonella Cortesi, Andrea Del Bono, Paolo Galli, Maria Gabriella Pinagli, Mario Preti, Antonio Capestro, Enzo Crestini, Fabio Fabbrizzi, Renzo Marzocchi, Andrea Ricci, Claudio Zanirato - Sezione Architettura e Contesto - Adolfo Natalini, Giancarlo Cataldi, Pierfilippo Checchi, Stefano Chieffi, Benedetto Di Cristina, Gian Luigi Maffei, Guido Spezza, Virginia Stefanelli, Fabrizio Arrigoni, Gianni Cavallina, Piero Degl’Innocenti, Grazia Gobbi Sica, Carlo Mocenni, Paolo Puccetti - Sezione Architettura e Disegno - Maria Teresa Bartoli, Marco Bini, Roberto Corazzi, Emma Mandelli, Stefano Bertocci, Marco Cardini, Marco Jaff, Grazia Tucci, Barbara Aterini, Alessandro Bellini, Gilberto Campani, Carmela Crescenzi, Giovanni Pratesi, Enrico Puliti, Paola Puma, Marcello Scalzo, Marco Vannucchi, Giorgio Verdiani - Sezione Architettura e Innovazione - Roberto Berardi, Alberto Breschi, Antonio D’Auria, Marino Moretti, Laura Andreini, Flaviano Maria Lorusso, Vittorio Pannocchia, Marco Tamino - Sezione I luoghi dell’Architettura - Maria Grazia Eccheli, Fabrizio Rossi Prodi, Paolo Zermani, Fabio Capanni, Francesco Collotti, Alberto Manfredini, Giacomo Pirazzoli, Elisabetta Agostini, Mauro Alpini, Andrea Volpe - Laboratorio di rilievo - Mauro Giannini - Laboratorio fotografico - Edmondo Lisi Centro di editoria - Massimo Battista - Centro di documentazione - Laura Maria Velatta - Assistente Tecnico - Franco Bovo - Responsabile gestionale - Manola Lucchesi - Amministrazione contabile - Carletta Scano, Debora Cambi - Segreteria - Gioi Gonnella - Segreteria studenti - Grazia Poli


In copertina: Sorgane, il cantiere foto Bazzechi

Periodico semestrale* del Dipartimento di Progettazione dell’Architettura viale Gramsci, 42 Firenze tel. 055/20007222 fax. 055/20007236 Anno X n. 2 - 2° semestre 2006 Autorizzazione del Tribunale di Firenze n. 4725 del 25.09.1997 ISSN 1826-0772 Direttore - Maria Grazia Eccheli Direttore responsabile - Marco Bini Comitato scientifico - Maria Teresa Bartoli, Roberto Berardi, Giancarlo Cataldi, Loris Macci, Adolfo Natalini, Paolo Zermani Capo redattore - Fabrizio Rossi Prodi Redazione - Fabrizio Arrigoni, Valerio Barberis, Fabio Capanni, Francesco Collotti, Fabio Fabbrizzi, Francesca Mugnai, Giorgio Verdiani, Andrea Volpe, Claudio Zanirato Info-grafica e Dtp - Massimo Battista Segretaria di redazione e amministrazione - Gioi Gonnella tel. 055/20007222 E-mail: progeditor@prog.arch.unifi.it. Proprietà Università degli Studi di Firenze Progetto Grafico e Realizzazione - Massimo Battista - Centro di Editoria Dipartimento di Progettazione dell’Architettura Fotolito Saffe, Calenzano (FI) Finito di stampare dicembre 2006 *consultabile su Internet http://www.unifi.it/unifi/progarch/fa/fa-home.htm

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