Firenze Architettura 2007-2

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luoghi

FIRENZE

architettura

firenze architettura

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ISSN 1826-0772

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Periodico semestrale Anno XI n.2 Euro 7 Spedizione in abbonamento postale 70% Firenze 30-11-2007, 9:44

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In copertina: Pino Castagna Cascade de Beynost 1992-2005, Alpinia foto Maria Grazia Eccheli

Periodico semestrale* del Dipartimento di Progettazione dell’Architettura viale Gramsci, 42 Firenze tel. 055/20007222 fax. 055/20007236 Anno XI n. 2 - 2° semestre 2007 Autorizzazione del Tribunale di Firenze n. 4725 del 25.09.1997 ISSN 1826-0772 Direttore - Maria Grazia Eccheli Direttore responsabile - Ulisse Tramonti Comitato scientifico - Maria Teresa Bartoli, Roberto Berardi, Giancarlo Cataldi, Loris Macci, Adolfo Natalini, Paolo Zermani Capo redattore - Fabrizio Rossi Prodi Redazione - Fabrizio Arrigoni, Valerio Barberis, Fabio Capanni, Francesco Collotti, Fabio Fabbrizzi, Francesca Mugnai, Giorgio Verdiani, Andrea Volpe, Claudio Zanirato Info-grafica e Dtp - Massimo Battista Segretaria di redazione e amministrazione - Gioi Gonnella tel. 055/20007222 E-mail: progeditor@prog.arch.unifi.it. Proprietà Università degli Studi di Firenze Progetto Grafico e Realizzazione - Massimo Battista - Centro di Editoria Dipartimento di Progettazione dell’Architettura Fotolito Saffe, Calenzano (FI) Finito di stampare dicembre 2007 *consultabile su Internet http://www.unifi.it/dpprar/CMpro-v-p-34.html

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architettura FIRENZE

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editoriale

Il luogo quando ha luogo Luciano Semerani

percorsi

Pino Castagna Il silenzio delle forme Renzo Zorzi I luoghi della scultura – dialogo con Pino Castagna Michelangelo Pivetta

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Fabio Capanni Piazza tra le colline fiesolane Fabio Capanni

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Laura Andreini - Archea Associati Piazza come duna sul mare Laura Andreini

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Alberto Breschi Metamorfosi di un luogo Alberto Breschi

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Fabrizio Rossi Prodi Il fronte - la loggia - la grande copertura Nicola Spagni

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Alberto Baratelli Martyrs’ Square and Grand Axis - Luoghi centrali della città di Beirut Alberto Baratelli

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Gianni Cavallina Davvero una piazza Ulisse Tramonti

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Francesco Cellini Riqualificazione del Mausoleo e della piazza di Augusto Imperatore Francesco Cellini

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Anselmi & Associati Una deliberata volontà urbana Michael Chen

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eredità del passato

Settant’anni dopo: arrivi e partenze Francesca Privitera

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eventi

Concorso di idee per il recupero di Piazza Brunelleschi a Firenze Ulisse Tramonti

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letture a cura di:

MGE, Fabio Fabbrizzi, Giacomo Pirazzoli, Valentina Rossi, Francesca Mugnai, Francesco Collotti

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progetti e architetture

luoghi

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Il luogo quando ha luogo Luciano Semerani

Al Florian, al Quadri, in tutta Piazza San Marco, di quelli che conosciamo, non ci va più nessuno. Neanche di Carnevale. Anche all’Harris Bar i fantasmi di Hemingway, e degli altri grandi ubriaconi hollywoodiani, attirano solo vecchi sgonfiati e/o seducenti giovani arrampicatrici, e/o cretini riconosciuti tali a livello internazionale. Anche curiosi con zainetto e inseparabile bottiglina d’acqua minerale che vengono subito fermati sulla porta. Peccato perché i Pierini e i Bellini sono ancora molto buoni. I “luoghi” si spostano nel corpo della città. A Venezia, oggi, il “luogo” è Campo Santa Margherita. Non mi è possibile uscire o rientrare in casa senza scontrarmi con qualcuno. Anche se sono fuori ruolo. Sette caffè, tre gelaterie, tre osterie, tre pizzerie, tre trattorie, una pasticceriacioccolateria di altissimo livello, due buoni kebab. Dalle due della notte alle sette della mattina si riesce anche a dormire nel StGermain veneziano, dove varia è la presenza delle generazioni, dei sessi, degli interessi, dei consumi, delle esibizioni, dei modelli comportamentali. Alla fine nella sua ampia promiscuità di latin lovers stagionati e madri quarantenni ed ansiose, di cani alla caccia, di Erasmus sprofondati nell’ozio perenne, di pescivendoli e di intellettuali, di vedove al cavalletto col loro primo ed ultimo Italien-Reise, l’ambiente è riposante. Ci sono le panchine dove non si paga, sotto i grandi platani, la fontanella che pesca l’acqua di vena dal sottosuolo sabbioso, che interessa soprattutto i barboni e i drogati, ma che in generale è

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Piazza Mercato Villanova di Camposampiero (PD) progetto di Luciano Semerani, Antonella Gallo e Luigi Semerani

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comoda per chi si è sporcato o ha sete d’estate. Il pennone è alto sul basamento in pietra, per l’alza-bandiera nei giorni di festa e, dall’altra parte, al di là dell’unica casa isolata, che i bambini chiamano La Casa del Boia, c’è il pozzo, di base ottagonale, su ogni lato un bassorilievo, serrato da una lastra di ferro, bombata. Ovviamente tutte le case intorno stanno l’una sopra all’altra, accostate a far facciata, separate da strette calli secondarie o dai sotoporteghi che portano a piccole corti o ai canali. La così detta Casa del Boia mostra iscrizioni normative e regolamentari, sulla grandezza minima dei pesci ammessi al mercato. È per la presenza della “Norma” che, probabilmente, il pensiero è andato al “Supplizio”. Una grande serenità e senso di partecipazione alla vita del luogo viene, anche all’agnostico, dalle campane che dalla Chiesa della Madonna del Carmine, ed oltre il ponte da San Pantalon, annunciano non solo l’alba e il tramonto, e l’elevazione, durante la celebrazione religiosa, ma anche le grandi feste, i matrimoni, l’acqua alta, il fuoco, la morte. Ci dicono con le variazioni di ritmo, di nota, con la cadenza e potenza del suono i fatti della vita, il trascorrere del tempo. “The Bell-tower”. Santa Margherita è un campo, ovvero non è una piazza, o una strada. In quanto a pianta e spazialità, in quanto a rapporti tra altezze e distanze, solo l’affaccio di isole compatte sulle curve disegnate dal corso dei canali poteva produrre quei grandi vuoti urbani che sono il Campo veneziano. L’avrebbe potuto disegnare Hans Scharoun, non un altro urbanista, ma in realtà è stato disegnato dal corso dell’acqua. Riassumo ora i requisiti indispensabili del “luogo dell’incontro”. Essi sono, in ordine decrescente per importanza: a) un grande azzurro, non un fazzoletto di cielo, il cielo del Tiepolo; b) il fresco degli alberi; c) il rumore dell’acqua della fontana; d) il caldo del sole; e) i volti delle case che ti comprendono senza opprimerti; f) sedere senza pagare; g) “spritz”, caffè, tramezzino, brioche fatti a regola d’arte; h) “incontrare” solo chi e quando ti và. Come “optional” si può aggiungere l’architetto.

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Pino Castagna

Il silenzio delle forme

Tra i maggiori artisti italiani operanti in questi anni iniziali del ventunesimo secolo Pino Castagna è quello che più di ogni altro ha mostrato di avere l’intuizione del rapporto tra un’opera d’arte – si esita a chiamare sculture le sue strutture spesso gigantesche concepite usando ogni qualità di materiali e creando forme sempre compatibili con valenze del loro specifico linguaggio – e lo spazio che essa deve animare, mutandone la configurazione e realizzandone le potenzialità: da questo punto di vista è certamente un creatore di opere monumentali, riprende e rinnova una tradizione, di arredo pubblico e di luoghi di memoria, che si era perduta e a cui egli dà nuova legittimità e ragione di esistenza. Ognuna di quelle grandi strutture che ha avuto la possibilità di realizzare e collocare in spazi urbani, o anche in paesaggi liberi dove la natura era la sola presenza visibile, ha impresso in essi altro significato e identità, grazie sia ai valori plastici e alla suggestione simbolica delle sue forme, sia ad un occhio sempre più infallibile nel cogliere le dimensioni a confronto: quante volte non si sono viste creazioni anche di artisti nobili e di grande pregio espressivo, mancate proprio per una sproporzione di rapporti, per un difetto di percezione dello spazio, per errori di prospettiva e incertezze di collocazione! In Castagna ciò non avviene mi pare mai, e questo è il suo più chiaro risultato degli ultimi due decenni di attività, subito compreso dai molti committenti che ne hanno richiesto l’intervento. Ma questo non esaurisce il campo delle sue realizzazioni. Ciò che fin dalle origini ha contraddistinto il suo lavoro di artista è stata infatti la raffinatezza

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del mestiere, la conoscenza approfondita delle materie investite, la sicurezza degli interventi su di esse, la continua sperimentazione condotta sui materiali per estrarne e mettere in luce ogni latente possibilità espressiva, l’audacia ma anche il rigore delle commistioni, una vocazione permanente alla ricerca. Si veda per esempio la nuova ricchezza da lui conferita al vetro, impiegato in una vasta gamma di applicazioni, la novità dei suoi mosaici, la morbidezza data alle paste di cemento, questo materiale da molti ritenuto inerte, inespressivo e sordo di tanta architettura contemporanea, la forza splendente di quegli acciai, le ghise svettanti come fiori, le quasi infinite utilizzazioni dell’immacolata ceramica, portata a dimensioni spesso sorprendenti, a forme che ne esaltano la cedevolezza, la preziosità dei colori, i riflessi, le grane, da farne in questa disciplina, così, all’apparenza, difficile e aristocratica, un maestro dal prestigio sempre più internazionale, di cui anche scuole di antica tradizione ed eccellenza accettano gli insegnamenti e studiano le performances. E a un altro carattere dell’arte di Castagna vorrei dare evidenza, la sua venezianità, la profonda adesione a ciò che è specifico di questa tradizione di cui l’acqua e il colore sono l’esistenza, la vibrazione fondamentale e quasi la sostanza viva, sempre reattiva rispetto agli altri elementi naturali, la mobilità gloriosa, notturna, solare, creatrice di movimento, di luce, di trasparenza, di permanente mutazione. Castagna vi aggiunge la solidità, il peso delle sue forme, la compenetrazione con la specificità delle materie, il legno in cui ha costruito forme di eccezionale

1 “Il grande Segno”, Chiesa all’aperto Zermeghedo, Vicenza, 1988-1994 foto Antonio Castagna Pagine successive: 2 “Il Muro”, Mostra personale a Palazzo Te, Mantova, 1983-1984 foto Tokio Ito


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potenza, i metalli, dai più preziosi ai più grevi, il marmo, soprattutto quello candido ma vivo di Carrara, da cui ha tratto essenzialità di forme e nobiltà di valori, il bronzo. Né va dimenticata l’applicazione al disegno, grande spia della sensibilità artistica di tutti i tempi, nei cui fogli egli ha spesso fatto emergere la purezza e gli abbandoni di una mano ispirata e libera, ma su cui ha anche espresso l’impronta delle sue opere maggiori. Oggi, a settantaquattro anni, questo artista è nel colmo della sua creatività e presenta una qualità di risultati in cui la personalità dello stile si unisce, senza forzature ma senza cedimenti, al pieno dominio della materia, alla comprensione dei valori ambientali, a un’intenzione morale oltre che estetica che ogni sua opera rivela. E basterà guardare alla sua ultima grande impresa, La Cascata di Beynost, a cui intendiamo dedicare qualche parola, per rendersene pienamente

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conto. L’opera è una di quelle strutture maggiori che dominano un ambiente e fanno sì da trasformarlo radicalmente. Complesso imponente di sedici grandi blocchi di cemento strutturato dentro casse di acciaio, che ne sagomano le forme audaci e le paste morbide del calcestruzzo, ognuna diversa dall’altra e disposte disallineate secondo un ritmo convergente verso il centro su una superficie di trentatré metri di lunghezza per sette di altezza e nove di profondità, esso sorge su una piattaforma pure di acciaio e cemento sulla quale sono fissate su sostegni che ne permettono un impercettibile sollevamento in modo da farne meglio percepire i volumi e ottenere maggiore individualità e slancio. L’opera era già stata eseguita una prima volta nel 1992, ma è stata ora ricostruita, identica nella concezione e nella volumetria ma con altri criteri tecnici e uso di materiali. Collocata nell’area di pedaggio presso Lione, dell’autostrada A 42, Paris–Rhin–Rhône, è

stata spostata rispetto alla costruzione originaria, per liberare l’impatto, prima sacrificato dalla struttura di ingresso al pedaggio autostradale, darle una più libera e ampia visualizzazione spaziale con nuovi materiali in modo da farle acquistare una perennità di durata e di significato espressivo. Essa ha quindi potuto trovare la sua vera misura e autonoma presenza, e tutto il suo valore di manufatto di concreta potenza e di suggestione simbolica. Concreta perché appare in tutta la forza della sua mole materica, nella individualità dei suoi singoli elementi insieme indipendenti ma profondamente collegati, variato ognuno nella forma ma unificati ed omogenei nell’uniformità dei materiali che imprimono all’intero complesso uno slancio di emozionante vigore espressivo e coerenza di linguaggio; simbolica per i significati impliciti che suggerisce ed esprime, presenza viva e quasi ingresso al paesaggio alpino che costituisce l’ambiente contiguo a cui


prepara e di cui annuncia e suggerisce il carattere, lo scenario alpino che domina il territorio e ad esso immette, infine per l’intuizione di quella precipitante cascata d’acqua di cui è insieme supporto e memorabile contrapposizione la mobilità e inafferrabilità pulviscolare e scrosciante, cioè viva, dell’elemento acqueo, sgorgante da una struttura così immobile e silenziosa, sotto un cielo costantemente percorso dalle nuvole fuggitive dei paesaggi alpestri. E si immagina che cosa diventa questo paesaggio e questo monumento, nel cielo buio delle ore notturne, questi elementi illuminati come fantasmi immobili e questa cascata luminosa che va a raccogliersi dentro il suo alveo splendente di luci rifrante. È stato scritto, in varie occasioni, e anche qui sopra, per una presenza di Pino Castagna in ormai numerosi luoghi, piazze ed ambienti esterni, della sua vocazione al monumentale, al memorial, del suo così preciso istinto ad un

confronto diretto, drammatico, emotivo fra le sue strutture e l’ambiente, lo spazio che crea con esse un dialogo forte, ininterrotto, variato secondo le ore del giorno e l’intensità o la riposante quiete della luce diffusa, animata dall’apparire della presenza umana, della solitudine sospesa di certi momenti di misteriosa assenza, di vuoto circostante, fin dalla apparizione della ormai lontana, sua prima apparizione nelle Mura di Gerico, prima rivelazione di questo tipo di interventi nello spazio classico della mostra di Palazzo Te a Mantova. Ma forse mai come in questa Cascata di Beynost la qualità del risultato e quasi l’ineluttabilità ontologica di questa presenza era apparsa così evidente, implosiva, definitivamente esplicita. Essa è un’opera destinata a durare e perpetuarsi nel tempo, a costituire un punto fermo, a nobilitare un luogo e un ambiente, e a farne in una parola uno spazio di meditazione, di ispirazione e di fede nelle possibilità sempre nuove e vitali di una

creatività che nella natura, nella materia e nella stessa tecnica trova, come è sempre stato, le ragioni del proprio esprimersi e di un’arte che affermi in ogni sua opera, l’umanità della bellezza, la sua necessità e il suo bisogno di durata, anche in un tempo che sembra negarli, condannato all’effimero, al provvisorio e al consueto, di cui sembra ormai esser fatta la vita, e anche per questo non si può non ammirare l’intelligenza attiva e la volontà sensibile di una committenza che ha saputo cogliere l’originalità di questo progetto, guidarlo alla sua realizzazione, e volerlo offrire allo sguardo e all’emozione dei milioni che percorrono per altri scopi e con diversa consapevolezza, il nastro quasi sempre uniforme e anonimo di un’autostrada… Renzo Zorzi “Nuove opere”, dal catalogo della mostra Il colore del Sacro, dell’Anima, della tecnologia, Centro Ricerche Tassullo SpA, Tassullo (TN), 2006

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I luoghi della scultura – dialogo con Pino Castagna

3-4 “Cascade de Beynost”, Alpinia, 1992-2005 foto APRR (Autoroutes Paris-Rhin-Rhône) Pagine successive: 5 “Cascade de Beynost”, Alpinia, 1992-2005 foto APRR (Autoroutes Paris-Rhin-Rhône) 6-7 “Cascade de Beynost”, Alpinia, 1992-2005 foto APRR (Autoroutes Paris-Rhin-Rhône) 8 “Cascade de Beynost”, Alpinia, 1992-2005 foto Mario Toselli

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Scendendo la strada tortuosa e panoramica che costeggia l’abitato di Costermano verso lo scenario di Garda -quel piccolo paese di pescatori incastrato tra ripidi pendii che col tempo si è trovato a dare il nome al Lago Benaco- non si può far a meno di notare tra gli ulivi un edificio basso, sormontato da incompiute travi in calcestruzzo e sorvegliato ieraticamente da gruppi di figure artistiche di vari materiali e forme. Il legno, l’acciaio e la pietra acquisiscono, attraverso la percezione di una scala dimensionale non umana, materialità inattese sia per il luogo che per la percezione del paesaggio circostante. Lo studio del maestro si dischiude alla vista dei visitatori per compartimenti stagni. La scoperta dell’insieme avviene per gradi, una lenta rivelazione tra stanze, corridoi e ripide scale. Il luogo degli incontri, della lettura e dello studio sembra essere lo scrigno emotivo e irrazionale dove tutte le idee hanno origine. I bozzetti, i modelli in scala, i riferimenti materiali ed immaginari si sovrappongono e si accatastano per sedimentazione fino a divenire parte integrante di un arredo praticamente inesistente. I testi depositati nella grande libreria dimostrano l’attenzione del maestro per le arti come fatto intellettuale. Le mensole ripiene di oggetti, studi e prove in scala testimoniano la concretezza di un lavoro fatto di continui miglioramenti e perfezionamenti. Fuori, una grande terrazza ed un campo accolgono più di una decina di opere di diversa scala e materia; un vero e proprio parco delle scul-


ture carico di inconsuete suggestioni. Pino Castagna appartiene a quella “categoria” di artisti che ancora dà prova di come l’arte non sia fatta di salotti intellettuali e provocanti performance, o per lo meno non solo di quello. Il maestro ama ancora, dopo più di quarant’anni di successi in ogni parte del mondo, mettere le mani nella creta, modellare al freddo del laboratorio tanto quanto abbozzare idee con carta e pennarelli nello studio. L’idea che traspare è quella di una scuola antica, naturale e innata; un’arte espressa con gesti potenti ma allo stesso tempo sensibile alle più piccole variazioni del tempo, dello spazio e, perché no, della società di cui essa nelle sue più articolate forme è il linguaggio. Un’intervista vera e propria con l’artista appare da subito impossibile. Castagna è uomo d’iniziativa e difficilmente lascia che una domanda lo conduca verso luoghi che non predilige. Il dialogo e il confronto al contrario lo interessano, anzi ne infiammano lo spirito proprio perché, per lui, parlare d’arte è come farla. La conversazione evoca ricordi, emozioni e rimandi tali da poterne plasmare il percorso e gli obiettivi come fossero i materiali di una delle sue straordinarie opere. MP. Maestro, tutte queste sculture hanno una storia. Hanno anche un luogo? PC. Ogni scultura ha un luogo. Nessuna nasce come atto alieno rispetto al luogo in cui esse sono state pensate. Il riferimento è importantissimo, essenziale, il più immediato

come il più lontano. MP. Ad esempio? PC. “La Cascata di Beynost”, per esempio, è il frutto di una serie di riflessioni nate dal dialogo con alcuni amici intellettuali francesi sul luogo e sul paesaggio in cui quest’opera sarebbe stata realizzata; sul “genius loci”. Le Alpi francesi, anzi tutta la catena alpina è rappresentata nell’opera. L’immagine e la grandezza storica di questa catena montuosa hanno sempre avuto su di me un’influenza profonda. Poi l’acqua è ciò che ne sgorga. La scultura sarebbe stata realizzata in un luogo in cui Rodano e Saona scorrono molto vicini. L’acqua è vita e quella di questi due fiumi sgorga dalle Alpi. Allo stesso modo potrei descrivere la genesi di tutte le mie opere. MP. Lo spazio quindi riveste grandissima importanza per il suo lavoro. PC. L’arte non ha mai abbandonato veramente il concetto di scala. Da quando l’arte ha trovato anche una strada “non religiosa” il rapporto è cambiato. Non è più solo l’uomo il riferimento scalare ma la Natura. L’albero, ad esempio, è la dimensione alla quale io, ma non solo io ovviamente, mi riferisco in molte opere. Nelle “Bricole”, ad esempio, ho superato addirittura questo concetto. Le bricole (sono quei pali conficcati nella laguna veneziana a vario scopo) non dimostrano mai la loro vera dimensione. Questa dipende dalla marea e per questo è sempre diversa. L’importanza di

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definire una sorta di “infinito della dimensione” mi ha sempre interessato. Un’opera è così ma potrebbe essere anche molto più grande. MP. Al di là dello spazio architettonico ad esempio. PC. Anche, ma sempre in contiguità con esso. Una scultura deve poter “resistere allo spazio” in modo che entrambi, architettura e scultura, trovino una specie di reciproco contributo. Un significato tale che l’una non possa fare a meno dell’altra. Le mie sculture nei giardini di Palazzo Tè sono state un esempio di questo; scelsi sculture già realizzate per altri luoghi in modo che, nonostante questo, potessero far emergere il proprio valore ed esaltassero i fondali architettonici di Giulio Romano. Già dalle foto della mostra questo traspare e l’esperienza fisica del vederle racchiuse in quei giardini e corti fu una cosa perfetta. Lo stesso posso dire della mostra a Castelvecchio; anche se gli spazi di Scarpa, sostanzialmente diversi, pretesero soluzioni altrettanto differenti. Idem per Lucca, Salisburgo, Rimini e tutte le altre. MP. Il tempo e le tensioni della società cambiano. Come appare il panorama artistico internazionale oggi?

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PC. L’arte in realtà pur parlando lingue diverse esprime idee sempre uguali. Non vedo diversità sostanziali tra i concetti espressi da Paolo Uccello o da Andy Warhol; entrambi hanno tentato con successo di descrivere, o denunciare criticamente, il mondo che li circondava. L’uno narrando l’epicità tragica delle guerre medievali attraverso la pittura delle tumultuose battaglie cariche di uomini in armi, l’altro l’altrettanto tragico incastro mediatico esprimibile moltiplicando l’immagine di Marilyn Monroe e del celebre barattolo Campbells. Mi pare che qualcuno abbia detto che anche l’architettura dovrebbe essere l’espressione del tempo… MP. Quindi se la lingua può cambiare, cosa rimane sempre uguale? Quali i fondamenti? PC. Quelli che in parte ho già detto. Per esempio, per quanto mi riguarda, ho sempre mantenuto un rapporto strettissimo tra le arti; letteratura pittura e musica innanzitutto. La musica dodecafonica ha avuto un’intima influenza in molte mie opere; essa rappresenta, forse più di ogni altra, la corretta percezione del disciplinato caos della natura. La letteratura ermetica per la radicale capacità di sintesi


espressa attraverso una profondità di campo unica. Questo, in realtà è un processo a ritroso che ho scoperto grazie ad un celebre letterato tedesco che, cercando di descrivere la sua impressione nell’osservare una mia opera, mi disse che la propria sensazione fu paragonabile al “mi illumino d’immenso”; aveva ragione, era quello cercavo anche io. Infine penso che sia impossibile fare arte, come del resto architettura, senza rispettare i suggerimenti dell’organo eletto per ammirare le cose che ci circondano; l’occhio. Il controllo delle proporzioni, della distribuzione delle masse e dell’equilibrio -o del voluto contrario- sono operazioni soggette al giudizio degli occhi. Questi sono naturalmente predisposti al valutare l’armonia, perché sono abituatati a percepire i perfetti equilibri della natura. MP. Forse per questo, nel mondo dell’architettura, le forme della natura stanno sempre più spesso sostituendo quelle dell’uomo. PC. L’architettura che assomiglia alla scultura rischia di diventare qualcos’altro; qualcosa a metà strada. Credo invece che i principi di Vitruvio e Palladio contengano gli spunti ne-

cessari per mantenere l’architettura un’arte indipendente e innovativa, vedi Le Corbusier ad esempio. In definitiva penso che architettura e scultura siano, nell’espressione, due arti molto vicine, anzi vicinissime, ma invariabilmente divise. MP. Stesse note con registri diversi. PC. Si, potremmo dire di si. Anche se voglio sottolineare il fatto che nella scultura il rapporto con il riferimento storico o storicista rimane molto più semplice che in architettura. Nuovo e vecchio si fondono perfettamente. Non posso immaginare di scolpire fianchi di donna senza ritornare con la mente, anche vagamente, alle terrecotte o alle sculture preistoriche che rappresentavano la natura e la fertilità; ma il risultato sarà inevitabilmente diverso. Come hanno già avuto modo di scrivere sul mio lavoro “…non gli interessa tanto da dove viene ma dove va…”, anche se uno scultore o pittore astratto mantiene sempre un “occhio” sull’uomo. Intervista di Michelangelo Pivetta Costermano, novembre 2007

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Fabio Capanni

Piazza tra le colline fiesolane Fabio Capanni

La riattivazione della vecchia linea ferroviaria faentina è l’evento che ha generato questa occasione progettuale. Rimasta in silenzio per alcuni decenni fino ad essere riassorbita quasi completamente dalla vegetazione spontanea, la scia di ferro delle rotaie, una volta ripristinata la sua originaria funzionalità, è tornata a separare le due parti del centro abitato: quello di fondo valle e quello adagiato sulla collina. Se da un lato questa trasformazione ha violato il piccolo aggregato di Pian di Mugnone creando una frattura profonda, dall’altro ha offerto la possibilità di generare uno spazio pubblico fino ad ora assente. Il luogo deputato, immerso in una condizione anomala caratterizzata da margini incerti, si configura come una frangia dove città e campagna si fondono lungo un limite sfuggente: difficile individuarne il senso nel suo arrampicarsi sulla collina, ancor più arduo rappresentarlo in un segno di ordine riconoscibile. Ma proprio la labilità dello spazio e la sua disponibilità ad accogliere piuttosto che ad escludere, ha permesso agli elementi e alle figure che sostengono la trama resistente di quel frammento di paesaggio collinare, di entrarvi con naturalezza, di appropriarsene definitivamente, di avocarne a sé la propria natura. La scala e il muro, elementi atti ad addomesticare l’instancabile variabilità dei pendii collinari al contorno, sono prestati al progetto che, ancora una volta, fa leva sulla geometria per tracciare segni e misure. Innanzi tutto la grande scalinata, tramite la quale, da valle, il centro abitato si protende su per la collina sfruttando il più antico dei sistemi per raccordare le differenze di quota generate dall’an-

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damento naturale del terreno: i gradini, passati al vaglio di un processo di riduzione, mutano di dimensione fino a divenire una leggera vibrazione petrosa che si estende fino ad assumere la misura di uno spazio urbano. Così come accade per la sagoma circolare del vicino teatro romano di Fiesole, la progressione degli archi concentrici si pone come segno ordinatore di un’articolazione compositiva più ampia stabilendo una nuova relazione fra gli unici due edifici pubblici dell’agglomerato urbano: la chiesa ed il centro giovani. Da monte, i muri a retta che organizzano i terrazzamenti dei coltivi e disegnano il lento digradare delle campagne, discendono ad incontrare l’abitato fino ad essere interrotti e piegati a creare nuovi orizzonti solcati da una permeabilità di percorsi che ne ingentiliscono la severa asprezza, donando un carattere urbano alle loro superfici brusche e scabrose. Murati in bozze di pietra locale con tecnica “a secco”, in stretta continuità con il paesaggio collinare circostante, definiscono l’area verde di un piccolo giardino pubblico inteso quale mediazione spaziale tra la nuova stazione ed il resto del centro abitato. Il nuovo spazio pubblico, ottenuto dalla giustapposizione di aree pavimentate ed aree verdi, si va ad incastonare in un disegno urbano fino ad ora intermittente e privo di un segno riconoscibile, formando una trama di relazioni inedite volte a creare una nuova centralità significativa che è sezione di quel paesaggio, continuamente oscillante fra la regola stringente della geometria delle figure architettoniche che lo compongono e la sua necessaria deformazione.

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Nuova Piazza in Pian di Mugnone Fiesole, Firenze Progetto: Fabio Capanni e Mauro Latini 2000 - 2004



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Pagine precedenti: 1 Planivolumetrico 2 Veduta della piazza da via Faentina 3 La sequenza dei muri a retta visti dal parco pubblico 4 Il parco pubblico con il percorso pedonale

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5-6-7 I muri a retta in pietra con i collegamenti fra il parco e le aree sottostanti 8 Particolare dell’articolazione planimetrica dei muri a retta

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Laura Andreini - Archea Associati

Piazza come duna sul mare Laura Andreini

L’intervento per un nuovo polo museale sul territorio sardo reagisce a differenti scale con il paesaggio circostante, definendo un luogo fisico caratterizzato da forme e segni che modificano il contesto in cui si inserisce il progetto, e, allo stesso tempo costruisce un sistema a-scalare di relazioni tra luoghi differenti e lontani geograficamente tra loro, i quali hanno, come caratteristica comune, quella di insistere sulla stesso ambito geografico e culturale. L’ intervento costituisce un nodo strategico, capace di organizzare altri nodi ed altre terminazioni che saranno i centri urbani di rilievo toccati dalla rete culturale della Sardegna, i musei, le aree archeologiche o di rilievo paesaggistico, le località turistiche. Non esistono funzioni specifiche che conferiscono valore identitario a questo nuovo complesso, bensì è la conformazione del luogo, gli spazi che questo progetto suggerisce che offrono infinite possibilità di occupazione ed uso: non è riconoscibile un edificio museo, né un edificio laboratorio, né un centro informativo regionale; è il sistema nel suo complesso a funzionare come medium isotropo capace di modificarsi suggerendo modalità alternative di fruizione. Insediarsi in un contesto “marginale” dal punto di vista urbano, quanto ricchissimo di segni contrastanti e modalità di occupazione del suolo diversificate, dallo stadio sportivo alle residenze sociali, al porto canale dedicato alla pesca, significa affrontare una scelta di radicale selezione del territorio stesso. Il museo incarna ed amplifica questa doppia valenza di apertura e chiusura

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verso il paesaggio, di permeabilità ed opacità, continuità con le sequenze urbane ed intimità di luoghi raccolti e riflessivi, insediandosi a cavallo della linea di costa e dilatandosi o contraendosi verso il mare o verso l’interno a seconda delle esigenze di gestione e di fruizione dell’edificio stesso. Quello che appare come un oggetto monolitico sospeso a pochi centimetri dal suolo, adagiato su una duna che declina verso il mare, si riscopre come grande cavea aperta sul mare, una sorta di piazza coperta passante, completamente fruibile, in continuità con la passeggiata lungomare, quasi a rappresentare una sosta, un luogo notevole sotteso lungo la linea di demarcazione tra terra e mare che disegna il profilo dell’isola sarda. In questo senso il nuovo museo segna un punto di rilievo nella geografia territoriale costiera ed allo stesso tempo definisce un vuoto multiplo, tridimensionale perché sviluppato su più livelli, all’interno del quale trovano significato oltre alle funzioni legate al museo stesso, possibilità di aggregazione collettiva che trascendono l’edificio stesso per mettersi a sistema con gli altri luoghi e spazi di relazione presenti all’intorno. Non si disegna un singolo edificiomuseo, quanto piuttosto si modella un museo diffuso, i cui confini sono i margini di un territorio articolato che modifica il disegno del suolo naturale, definendo un luogo fisico quanto immateriale, le cui sale sono spazi all’aperto come volumi chiusi, i cui corridoi sono i percorsi che servono simultaneamente le funzioni espositive che i flussi di pas-

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Concorso internazionale di progettazione Museo Regionale d’Arte Nuragica e d’Arte Contemporanea del Mediterraneo Gruppo di progettazione: Archea Associati Laura Andreini Marco Casamonti-capogruppo Giovanni Polazzi Silvia Fabi Massimiliano Giberti Gianna Parisse con: Franz Prati MDU Valerio Barberis Marcello Marchesini Alessandro Corradini


1 Ingresso al Museo 2 Planimetria generale Pagine successive: 3-4 La cavea sul mare 5 Piante Piano Terra e Piano Tipo 6 La piazza coperta 7 Sezioni Longitudinale e Trasversale 8-9 Viste dell’interno

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saggio ed attraversamento. L’idea generale è che i percorsi di attraversamento del territorio, i percorsi nel museo e i percorsi espositivi si possano sovrapporre e scambiare, in modo da suggerire al visitatore frettoloso e distratto la possibilità di fruire anche velocemente del sistema museale. L’edificio è concepito per garantire una continuità nella sequenza di tre categorie di percorsi principali: i percorsi espositivi propri del museo, i percorsi pubblici indipendenti dal museo ed i percorsi di servizio. L’edificio ha quindi la capacità di intercettare i flussi pedonali che attraversano il lungomare, anche non diretti al museo, per offrire ai “non fruitori” del museo un luogo di sosta capace di essere riconfigurato per ospitare attività pubbliche come manifestazioni all’aperto, concerti e spettacoli, che si svolgano anche indipendentemente dall’attività del museo stesso e, allo stesso tempo, capace di espandere verso l’esterno quelli che sono gli eventi prodotti dal museo per catturare l’attenzione dei passanti.

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Alberto Breschi

Metamorfosi di un luogo Alberto Breschi

Concept di progetto Nel rapporto con i cortili dell’ex Convento di Santa Verdiana si individua il ruolo strategico della nuova architettura (blocco di nuovi uffici), che lungi da essere un tamponamento di un’area rimasta vuota, è il vero portale di una cittadella, baricentro delle nuove “mura”, comunicazione fra il vuoto della piazza e quello dei cortili interni (collegamento con la vita di quartiere, zona mostre, ecc.). La piazza Ghiberti, come qualsiasi piazza, a Firenze come altrove, non vive da sola: essa necessita di essere “formata” da uno o più fondali prospettici, anche diversi ma unitari, che costituiscano il vero sistema generatore dello spazio aperto. In questo caso si tratta di coniugare la piazza a episodi apparentemente separati, come il sistema dei chiostri dell’ex convento di Santa Verdiana, che costituiscono una struttura forte di caratterizzazione architettonica e urbanistica. Qui risiede il motivo per cui il progetto dà valore ad un’importante cerniera della struttura urbana, creando uno spazio bivalente sospeso fra università e rione, e quindi a servizio non solo degli studenti ma di strati e livelli di utenza più vasti e complessi: in questa prospettiva è proprio la piazza, che oggi è uno spazio “vuoto” e inutile, che può diventare invece il luogo di qualificazione dell’intreccio di funzioni plurime, da segnalare e rafforzare da precisi indicatori di contesto. Una grande vela a portico, sporgente sulla piazza e originata dalla struttura urbanistica dell’ex convento fornisce il primo segnale forte di questa concezione dello spazio, rendendo efficace e ricca la possibilità di percorrenza e d’uso degli spazi collettivi, con particolare riguardo a quelli previsti sul solaio di

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copertura del nuovo complesso edilizio, ricchi di suggestioni e di stimoli. In sintesi il progetto si fa carico di esprimere il nuovo ruolo dei contenitori edilizi e la loro importanza relativa nei confronti della città e del quartiere La pensilina proposta è quinti solo la conferma dell’esistenza e dell’importanza del portale. La sua rotazione rispetto alla piazza (una cerniera e uno snodo della metamorfosi in atto) vuole esprimere la continuità sopraordinata dell’impianto urbanistico storico, che peraltro è lo stesso di quello del Mercato, della Nazione, della stessa ex Aula bunker. La pensilina svolge una funzione di filtro, di guida direttrice, di segnale luminoso durante la notte e sporge in modo simmetrico sui due lati. Sul fronte opposto l’idea guida è quella di amplificare ad effetto urbano i due padiglioni esistenti progettati dall’Arch. Natalini per l’accesso al parcheggio, in modo da ospitare la quota del mercatino antiquario da allocare in fondi permanenti trasformati con materiali diversi (metallo, vetro e pietra serena). Questa soluzione non collide con lo skyline delle terrazze e dei tetti delle abitazioni retrostanti, perché tende a costituire un filtro fra residenza, strada e piazza attrezzata, ulteriormente rafforzato da un filare di alberi di media grandezza. I mini-negozi antiquari non annullano l’identità del vuoto urbano centrale della piazza (come è accaduto a piazza dei Ciompi), ma la rendono un filtro dinamico di vita e di interessi. Una “strada interna” alla piazza può essere formata attraverso l’impiego di edicole esterne di appoggio della mercanzia, chiudibili ad armadio durante le ore notturne. Si noti l’importanza dei 4 lati che formano la piazza:

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Concorso Nuova sistemazione di Piazza Ghiberti a Firenze 1° classificato Progetto: Alberto Breschi Guido Ferrara Nicola Ferrara Barbara Lami Eva Parigi Giovanni Todesca Matteo Zetti 2007 Consulenti: Giacomo Tempesta (strutture) A.C.T. Studio - Adolfo F. L. Baratta Tommaso Chiti, Claudio Pifferi (sicurezza) Studio Tecnico dueGI - P. I. Giovanni Ghini (impianti)


1 Il nuovo ingresso della Facoltà di Architettura 2 Planimetria dell’intervento Pagine successive: 3 Veduta notturna 4 Prospetto su Piazza Ghiberti e pianta del piano terra blocco uffici 5 Sezione longitudinale e pianta piano del primo livello blocco uffici 6 Vista diurna 7-8 Vedute sulla piazza dalla terrazza del nuovo ingresso alla Facoltà 9 Prospetto Sud e pianta dei mini negozi del Mercato delle Pulci

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· la ex Nazione non è più il retro della tipografia di un giornale quotidiano, ma un edificio di alto interesse civico; · l’ex carcere non è un luogo di segregazione, ma diventa spazio prioritario di vita collettiva e porta “verso il futuro”; · il “mercato delle pulci” forma lo sfondo del lato nord, in una mini urbanistica vivace, propria di un suk del 21° secolo; · l’ultimo lato verso il mercato di Sant’Ambrogio attende il ripensamento degli spazi, compresi quelli sprecati in un banale parcheggio, probabilmente più adatti a completare l’offerta del mercatino antiquario.

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Un’architettura significante Il bando di concorso richiede la presenza di un edificio a uffici sul lato sud della piazza, la cui dimensione planimetrica tuttavia non riesce ad assolvere il ruolo di cerniera espressiva fra vecchio e nuovo, fra pieni e vuoti. La soluzione progettuale proposta adotta alcuni criteri che vanno ad integrare quello dominante della pensilina a vela, ovvero: · l’edificio coincide con il ponte funzionale a terra fra i vuoti dei cortili storici e la nuova piazza e quindi assolve e consolida il ruolo di porta di tutto il lato sud; · il cortile vuoto della Facoltà di Architettura viene sostanzialmente coperto

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dalla pensilina, assumendo il ruolo di una galleria urbana, per quanto ventilata e luminosa; · l’architettura esprime un volume aggettante in parte sulla piazza, ruotato secondo l’allineamento del tessuto urbano storico e/o della pensilina, in modo da interrompere il banale allineamento a filo degli edifici esistenti e da mettere opportunamente in valore l’importanza dei nuovi uffici direzionali; · non si tratta peraltro solo di un banale contenitore edilizio, dato che sul tetto praticabile esso diventa luogo di percorrenza, raggiungibile dal pubblico con ascensori e rampe di scale, amplificando in tre dimensioni l’effetto città e le prestazioni urbane: in sostanza piazza Ghiberti si sdoppia in pianta e si triplica in elevazione, aprendosi a prospettive attualmente inesplorate; · una duplice cortina tipo brise soleil della rispettabile dimensione di circa 30 metri per lato costituisce un prospetto continuo di grande significato unitario, con la conseguente schermatura delle rampe di accesso al parcheggio sotterraneo. Questa soluzione permette di consolidare in via definitiva tutto il prospetto del lato sud, che in questo modo, oltre alla pensilina/portale diviene una architettura simbolo della metamorfosi compiuta, del luogo significante del quartiere.

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Fabrizio Rossi Prodi

Il fronte - la loggia - la grande copertura Nicola Spagni

Piazza Ghiberti si presenta come un grande vuoto urbano in prossimità della vecchia cerchia di mura, fra l’ex palazzo della Nazione e l’ex convento di Santa Verdiana (divenuta sede della Facoltà di Architettura), ed è stata oggetto di una riqualifica su progetto di Adolfo Natalini che aveva creato una grande piazza pavimentata con due piccoli padiglioni per l’accesso al parcheggio interrato. La piazza fa parte di un più ampio sistema di spazi pubblici e intrattiene con queste aree forti relazioni assicurate da percorsi pedonali e ciclabili che, attraversando il quartiere, accompagnano il visitatore, come il cittadino, in una realtà fatta di artigianato, attività commerciali, spazi verdi e attrattive monumentali. Il generale riassetto dei percorsi carrabili, in cui i nuovi parcheggi di Piazza Ghiberti e Piazza Beccaria rivestono un ruolo centrale, insieme alla realizzazione del nuovo asse pedonale di Via de’ Macci, assicurano una maggiore vivibilità al quartiere La proposta del gruppo guidato da Fabrizio Rossi Prodi parte dalla consapevolezza che Piazza Ghiberti occupi una posizione baricentrica rispetto al nuovo sistema di relazioni e si possa considerare come una nuova porta della città dove sia possibile, arrivando in auto, parcheggiare e sostare, o procedere verso il centro storico. Il progetto cerca di creare un luogo che si configuri come una nuova icona dello spazio pubblico urbano attraverso tre elementi chiari e decisi che contraddistinguano il carattere della piazza: il fronte, la loggia e la grande copertura, tutti elementi di riflessione legati alle prerogative del vivere quotidiano. In particolare col suggerimento di adot-

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tare la grande copertura si esprime la volontà di rompere l’attuale senso di smarrimento del grande vuoto contemporaneo, attraverso un gesto deciso, capace di mettere in relazione le parti e di coinvolgere la spazialità circostante. La grande copertura altro non è che la ricerca di un segno nel quale la popolazione del quartiere possa identificarsi, attraverso la quotidianità dell’oggetto stesso, capace di offrirsi generosamente e in maniera sempre diversa ai cambiamenti della città, come tenda o stuoia, come quei teli stesi sopra i banchi degli antichi mercati. Cavi metallici sono ancorati alle estremità ai due fabbricati, mentre pannelli lignei sul lato inferiore e pannelli metallici sul lato verso il cielo vengono montati in successione per creare il “tessuto” che definisce la copertura. Il nuovo edificio in aderenza col complesso universitario (di cui sarà anche nuovo ingresso), funge da filtro fra la vita universitaria e quella cittadina e attraverso un carattere di spiccata riconoscibilità diventa l’opportuno luogo di incontro delle diversità. La loggia poi, memore di spazialità antiche e consolidate, racchiude il mercato dell’antiquariato rispondendo alle indispensabili regole della flessibilità attraverso una configurazione elastica e variabile. Il progetto si completa con un sistema mobile di elementi naturali che rendono piacevole la sosta contribuendo al parziale controllo microclimatico all’interno di una zona che è completamente edificata. Il nuovo verde svolge un ruolo essenzialmente di decoro, con una capacità di potersi adattare a funzioni variabili nel corso dell’anno.

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Concorso Nuova sistemazione di Piazza Ghiberti a Firenze Progettista Capogruppo: Fabrizio Rossi Prodi Gruppo di progettazione: Paolo Spinelli, Pietro Carmagnini Benedetto Selleri, Marco Zucconi Emiliano Romagnoli Simone Pietro Giovanni Abbado 2007 Collaboratori: Jacopo Venerosi Pesciolini Nicola Spagni, Elia Odoguardi Alessandro Alletto, Fabiano Micocci Jacopo Maria Giagnoni


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Pagine precedenti: 1 Il nuovo ingresso della Facoltà di Architettura 2 Schema compositivo dell’intervento 3 Veduta da Ovest del nuovo assetto della piazza 4 Planivolumetria 5 Pianta piano terra

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Alberto Baratelli

Martyrs’ Square and Grand Axis Luoghi centrali della città di Beirut Alberto Baratelli

La storia di Beirut è la storia di una città continuamente occupata, più volte distrutta e ricostruita, è una realtà dalle identità sfocate, in perenne divenire e mai finita; preda di un’aritmia congenita non riesce a portare fino in fondo i suoi progetti. Soffocata da forti pressioni demografiche e politiche e dall’addensarsi in spazi contigui di diverse etnie e confessioni religiose, mai fuse in una unità territoriale omogenea né in una identità culturale preminente, “non è riuscita a sperimentare l’urbanità per un periodo sufficientemente lungo da far apprezzare l’urbanità” (S. Khalaf). Urbanisticamente è il risultato di profonde lacerazioni, di sostituzioni radicali e violente, di continue rifondazioni, che ne hanno contraddistinto la dinamica del processo evolutivo, dal tracciato fondativo della città fenicia e romana, al “tabula rasa” conseguente al mandato francese, dove il nucleo più antico e centrale diventa il laboratorio di sperimentazione delle moderne teorie urbanistiche. Ciò che si impone alla cultura locale è un programma di modernizzazione e occidentalizzazione attuato attraverso ibridazioni architettoniche e un pittoresco diffuso che rasentano il kitsch, nell’intento di adeguare all’importanza del ruolo strategico rivestito nel bacino del Mediterraneo una città che già ai primi del secolo scorso doveva sembrare (almeno nelle sue aree centrali) totalmente destrutturata, con profonde lacerazioni e priva di identità, in sostanza non molto dissimile da come attualmente ci appare. Scrive Paola Somma: “Oggi saremmo in difficoltà a qualificare Beirut e rilevare un’identità specifica, uno stereotipo preciso, che

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riassuma la complessità della città. Parigi d’oriente, Stalingrado dei Palestinesi, Hong Kong della Siria, città-stato, città cosmopolita, città divisa, città distrutta, città rinata.” La Beirut odierna è la tipica città postbellica, distrutta dall’interminabile guerra civile che ha cancellato l’ottanta per cento del suo tessuto centrale restituendoci il simulacro di quel miraggio mediorientale (un po’ Svizzera e un po’ Las Vegas) fatto di alberghi di lusso, banche, case da gioco, nigth clubs, di grandi piazze e viali alberati, meta preferita di affaristi, avventurieri ed esponenti della mondanità internazionale. Ricostruire è stata la maggior preoccupazione durante i diciassette anni di guerra civile, al punto che ad ogni tregua seguiva un piano di ricostruzione: è così nel 1977 con l’Atelier Parisien d’Urbanisme ARUP, nel 1982 con la società dei Lavori Pubblici OGER, nel 1986 col Piano per la Grande Beirut dell’Institute d’Amenagement et d’Urbanisme de l’Ile de France IAURIF, fino alla costituzione nel 1991 della Solidaire. Ristabilita una pace precaria, perché costantemente minata da turbolenze interne e forti pressioni ai confini, sulla città si riaccendono i meccanismi della ricostruzione della nuova Beirut, di fatto emblematicamente identificabile nel distretto centrale degli affari B.C.D. - un quadrilatero di centotrenta ettari compresi tra il ring e la Corniche lungomare, luogo delle più importanti memorie storiche civili e religiose e delle principali istituzioni, anche se dopo la guerra civile diverse funzioni pubbliche e private si sono allontanate dal centro, ridotto a desolanti spianate a seguito delle ultime demolizioni effettuate dalla So-

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Martyrs’ Square and Grand Axis Beirut 2005 Progetto selezionato tra i cinque gruppi ammessi al secondo grado del concorso internazionale Progetto: Alberto Baratelli con: Leonardo Checcaglini Jean Pierre El Asmar Giuseppe Rinaldi Paola Somma Collaboratori: Antonio Cantatore Chiara Di Nardo Matteo Lauriola Nicola Lombardi Giovanni Rosi Gabriele Sestini



lidarie proprietaria dell’intero distretto che, stravolgendo l’effimero equilibrio delle classi emergenti, col monopolio assoluto della ricostruzione, deciderà le sorti del futuro assetto. In effetti i vari piani per la ricostruzione, elaborati dalla Solidarie a partire dai primi anni ’90, impostati al massimo sfruttamento del B.C.D. e avulsi da un qualsiasi disegno di relazioni più generale, in una situazione urbana assolutamente squililibrata, sanciscono di fatto la definitiva scissione tra il centro oggetto della massima attenzione e il resto della città, un’anonima conurbazione divisa tra le varie etnie, disordinata e caotica con estesi sobborghi periferici fatti di quartieri abusivi e campi profughi, ridotta a terra di nessuno per l’assenza di un piano di ricostruzione generale e di ogni possibile integrazione con le aree centrali. Non molto dissimile l’ottica con cui viene concepito il concorso per la progettazione di Piazza dei Martiri e del cosiddetto Grand’Asse, conclusione verso il mare dell’antica via per Damasco, con Place de l’Etoile, uno dei luoghi simbolo della città. Al momento attuale infatti non solo il B.C.D. non è adeguatamente connesso con la Grande Beirut, della quale vorrebbe rappresentare il fulcro, ma la sconnessione di cui soffre tutta l’area metropolitana è accentuata da tale isolamento ed ha un impatto negativo sull’immagine e sulle modalità di fruizione di Piazza Dei Martiri. Tale sconnessione, fisicamente percepibile, è il segnale di una divisione più profonda e radicata che oppone cristiani a musulmani e che ha trovato proprio in Piazza dei Martiri, durante i

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diciassette anni di guerra civile, la propria linea di demarcazione. Obiettivo principale del progetto è stato far sì che il Distretto Centrale, che storicamente si è andato sviluppando volgendo le spalle alla città in una sorta di fuga verso il mare, entrasse in relazione dialettica con quanto lo circonda. Considerando Piazza dei Martiri nel contesto dell’asse compreso tra il ring e la Corniche, essa diviene – in sintonia con la sua dimensione e situazione strategica – fulcro di una complessa organizzazione che integra e pone in relazione funzioni pubbliche e private di diversa natura, generatrici a loro volta di nuove polarità, coi gangli di un più articolato sistema della mobilità urbana e dei mezzi di trasporto pubblico, ivi compresi collegamenti via mare con punti nodali della città, trattando unitariamente, anche se con livelli diversi di intensità il B.C.D. e le aree esterne. È certamente irrealistico ipotizzare che si possa verificare un immediato processo di osmosi tra il B.C.D. e l’intorno, ma la ferita provocata dal ring viene in parte suturata attraverso nuove connessioni con la viabilità urbana e la creazione di nodi di interscambio a nord e a sud di Piazza dei Martiri, attualmente penalizzata dalla presenza di due arterie di scorrimento che ne percorrono i lati lunghi, isolando la parte centrale dall’edificato circostante. Servita da shuttles di superficie e interessata unicamente da una viabilità di servizio e accesso ai parcheggi interrati, la piazza è concepita su due differenti quote poste in relazione attraverso una spaccatura nella zona mediana, una faglia di grandi dimensioni, che sviluppata per tutta la lun-

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Pagine precedenti: 1-2 Schizzi preliminari della piazza e dell’accesso al Giardino del Perdono 3 Schizzo di studio dell’impianto generale 4 Landscape 5 Veduta generale da terra, l’inizio del Grad’Asse da via di Damasco 6 Veduta generale dal mare, la conclusione del Grand’Asse e la water court 7 Il Distretto Centrale e il grande vuoto di Piazza dei Martiri Pagine successive: 8 Sezione longitudinale Ovest 9 Sezione longitudinale Est 10 Sezione trasversale Nord 11 Il ridisegno dei suoli, particolare del Parco del Tel e del viadotto sulla Corniche

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ghezza, consente il massimo rapporto visivo tra il livello terreno e l’interrato, un luogo adeguatamente ampio, senza però rinunciare ad una forte leggibilità dell’insieme, in grado di ospitare ogni forma di libera espressione e di partecipazione sociale. Il progetto vuole accentuare il significato civico (di “public participation”) e nazionale del luogo (l’attuale rinnovato e diffuso sentimento nazionale), di conseguenza la spaccatura viene ad acquistare anche una forte valenza simbolica; i libanesi sanno che la pace non è mai un fatto acquisito per sempre, sanno che qui il territorio si è drammaticamente fratturato e lungo questa faglia leggono tutte le tremende forze che hanno sconvolto Beirut ed i suoi abitanti. Piazza Dei Martiri dovrebbe ispirare contemporaneamente un senso di equilibrio e di instabilità, di conseguenza il progetto non vuole annullare o

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coprire le tracce, non vuole nemmeno ricrearle artificialmente, ma suggerisce di usare la frattura come elemento strutturante un nuovo assetto urbano. Il progetto della piazza nasce come riscrittura di un brano mancante, la tessitura di una nuova organizzazione che pur non prescindendo dai caratteri e dai modi di vita dei luoghi, interpreta e usa le tracce del passato sia come diagrammi materializzati della storia che come matrici delle trasformazioni future, confrontandosi con la modernità del vivere contemporaneo. Le funzioni commerciali presenti sulla piazza – centro del terziario e dello shopping - trovano la loro naturale continuazione a livello ipogeo dove attività più minute e di mercato si alternano in un tessuto vario e articolato tipico del souk che organizza e dà seguito alla viabilità pedonale urbana riallacciandola alla quota dell’area archeologica del Giardino del Perdono e del Parco del Tel. Il percorso

che si snoda lungo le tracce di molte civiltà del passato è un sorta di “museo dei musei” che intercetta e incorpora anche manufatti contemporanei. A vari livelli i camminamenti e le passerelle entrano in contatto con attività della vita quotidiana – dal commercio allo spettacolo – e con diversificate opportunità culturali, come l’ICMO Istituto di Cultura del Mediterraneo Orientale, localizzato sulla parte basamentale delle torri e affacciato su spazi pubblici connessi con il sistema pedonale dell’area archeologica, o il Museo dell’Antichità, che con la sua trasparenza anticipa e prepara la conclusione del Grande Asse; oltre questo limite lungo la water court il Palazzo del Mid East Film Festival, la Biblioteca Nazionale e il Salone del Libro Mediorientale.


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Gianni Cavallina

Davvero una piazza Ulisse Tramonti

“Davvero una piazza” è il titolo tautologico caratterizzante il concorso di idee finalizzato a qualificare a Lastra a Signa un vuoto su cui prospettano retri di modesti edifici e sostano le auto; a lato una importante preesistenza, il quattrocentesco Spedale di Sant’Antonio, attribuito a Filippo Brunelleschi, risalente al periodo in cui il grande architetto riorganizzava le fortificazioni esterne. Si tratta quindi di un vuoto urbano all’interno di un borgo storico, ben definito dai margini murati, pronto per essere ordinato da una logica progettuale che gli architetti concorrenti tracciano sulla base delle misure, sulla base dei segni, sulla base della costruzione di un significato, di una unione di pezzi esistenti e da inventare. Ma il luogo, la Città, le mura, le case, gli orti, sembrano espellere con sfrontata naturalezza le geometrie concepite sulla base del “metro”, la misura globale, la misura astronomica. Ai progettisti viene evidente, spontaneo, naturale, rimisurare tutto, e farlo secondo la regola del “braccio a panno fiorentino”, grosso modo equivalente a sessanta centimetri; così la griglia metaprogettuale, i rapporti, la metrica dell’invenzione spaziale, il concetto dimensionale, supportati da questo sussidio, diventano “riunione di frammenti”. Il Giardino a ridosso delle mura, la fontana, il filare di pioppi, il percorso che entra negli orti e nelle case per voltare sulla piazza, è “dominio” nel dominio delle mura trecentesche. E, per la piazza vera e propria, la piazza del titolo del bando, il “braccio a panno” riporta alla ripetizione del modulo antico fino a fissare le dimensioni del

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grande quadrato, il lato, trentatre braccia, fondamentale simbolo numerologico medioevale, ricorrente spesso, nel ricordo del periodo di vita del Cristo. Ed è ancora un quadrato, antico per misura, ma attuale per frammenti: le panchine, la “trabeazione degli eventi”, gli steli dell’illuminazione, il piccolo manufatto in ferro e vetro, la “nuova bottega”, il muro in pietra forte, la vasca d’acqua, inquadrante il percorso per le mura e per il giardino, passante attraverso le case, strada nuova ed antica, riscoperta di angolazioni sommesse, dimenticate nel succedersi dei manufatti. Sono frammenti che cercano un loro ordine a fronte della casualità dei retri delle case e della “ruralità” (quasi una citazione del mondo contadino esterno alle mura) del fianco meno nobile dello Spedale brunelleschiano; e i frammenti continuano con il tentativo di riappropriarsi dell’antico, di entrare nello Spedale: interruzione del muro, la scala interna del vecchio edificio, l’affaccio a ballatoio sulla nuova piazza, forse una ricerca di unione visiva dei pezzi, un cercare di riacquisire una “dispositio” che riordini pezzi vecchi e nuovi. I progettisti hanno cercato, sempre seguendo, quasi con timore e rispetto, l’antico metro del “braccio fiorentino”, di dare un senso, un ordine, o meglio, di ritrovare quest’ordine, tra le pietre, i mattoni, le tegole del borgo. Frammenti, segni, significato e misura. Ancora un tentativo, tra gli altri, di ricreare, oggi, al di là dell’autoreferenzialità di moda, l’immagine di una città nuova che carpisca al “Vetus Genius Loci” i caratteri della misura e dell’“Ordo”.

Concorso nazionale di idee per la sistemazione e riqualificazione complessiva della Piazza Garibaldi a Lastra a Signa Progetto: Gianni Cavallina Massimo Gasperini Alessandro Pastorini Angelo Ruocco


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Pagine precedenti: 1 La nuova piazza Garibaldi da sud-ovest 2 Veduta zenitale del progetto 3 Veduta della piazza dal nuovo ballatoio , all’interno dello Spedale di Sant’Antonio 4 La piazza dal tabernacolo di Via del Larione, oltre lo Spedale brunelleschiano 5 Il “Giardino delle Mura” 6 La piazza dall’ingresso della Misericordia 7 La “Trabeazione degli Eventi”

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Francesco Cellini

Riqualificazione del Mausoleo e della piazza di Augusto Imperatore Francesco Cellini

L’atteggiamento culturale che ha presieduto agli interventi degli anni Trenta ha costituito un perfetto esempio di ‘uso pubblico della storia’, attuato secondo gli ideali di monumentalizzazione ottocentesca, sul modello dell’isolamento. Un isolamento invocato come liberazione dall’assedio edilizio moderno, considerato solo improprio e inquinante - non storico - e come rilancio di una pregressa, storica sacralità, intesa come un immobile offrirsi alla contemplazione… Oggi, per un monumento come l’Augusteo, depositario di una così prepotente immagine storica, nel rifiutare l’irrigidito effetto dell’isolamento, si può puntare all’obiettivo di un recupero del protagonismo, improntato a un linguaggio dignitoso ma datato, comunque dominante sull’augusto rudere, limitato dai crolli e dalla perdita del tumulo superiore a una altezza, quella del grande cilindro murario, che è parso improponibile elevare. Ma il protagonismo dell’immagine, inattuabile in termini metrici, è bensì conseguibile con un opportuno distacco iconico, affidato all’ampio parterre sgombro e verdeggiante e a un effettivo, limitato ma caratterizzante, rialzo dell’immagine volumetrica, realizzato con la corona di lecci svettante in forma di tumulo sopra la grande cerchia muraria. Una sistemazione architettonica del monumento, quindi, che ne propone un vincente confronto visivo e spaziale con il contesto urbano più prossimo e di cui si è voluto rispettare l’affascinante, sonora spazialità, evocativa di quella suggestiva assenza del sacello centrale che ne costituisce la ‘mancanza’ carica di senso. Si configurano così due diverse situazioni: nel centro, un vuoto; in-

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torno, una rete relazionale. Nell’intorno, all’isolamento ‘archeologico’ dovuto all’interruzione brutale del rapporto con la città e con la storia può essere sostituita una operante riattivazione dei nessi urbani promossa e catalizzata dalla formidabile tensione d’attesa che il monumento può esprimere. Questo, se investito da un corretto processo di ‘recupero del senso’, darà luogo a una rete relazionale a larghe maglie che avrà i suoi poli monumentali più prossimi nelle tre chiese e nel Museo dell’Ara Pacis, oltre ai grandi segni urbani del Tevere e della via del Corso. A scala urbana riassumerà rilevanza fino a sfumare nelle emergenze storiche, topologicamente più lontane ma intensamente interrelate, del Pantheon e di Castel Sant’Angelo, ma anche del Campidoglio, del Gianicolo e del Pincio. Mentre l’indifferente commento dell’edilizia urbana circostante non disturberà l’interlocuzione monumentale primaria, sostenuta e rilanciata dai misurati nessi spaziali creati dal nuovo disegno urbano, fondato su una dialettica essenziale tra verde e pietra. L’intervento esterno più impegnativo sarà rivolto a proporre una vasta gradonata, sì da evocare un’immagine di teatralità urbana, oggi scomparsa ma ben presente nella memoria storica collettiva -la settecentesca Scalinata di Ripetta- e una funzione anch’essa radicata da secoli nel luogo -quella dello spettacolo popolare. Un richiamo icastico e uno antropologico, ad accrescere la rete di nessi dialogici del monumento con il contesto. Mentre l’ampia cordonata rivolta ad ovest creerà un evidente invito verso l’antico porto fluviale e verso il Tevere, naturale genius loci.

Concorso internazionale per la riqualificazione del Mausoleo di Augusto e di Piazza Augusto Imperatore 2006 Progetto: Francesco Cellini (capogruppo) Mario Manieri Elia, Carlo Gasparrini Renato Nicolini, Giovanni Longobardi Andrea Mandara, Giovanni Manieri Elia Renzo Candidi, Alessandra Macchioni Vanessa Squadroni Maria Margarita Segarra Lagunes (restauro) Dieter Mertens (archeologia) Elisabeth Kieven (storia dell’arte) José Tito Rojo (paesaggio)


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Pagine precedenti: 1 Francesco Cellini, Interno dell’Augusteo 2 Lo spazio pubblico, lo spazio museale ad accesso controllato, il disegno del suolo 3 Schizzo prospettico 4 Il progetto e la città 5-6-7 Vedute del progetto

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Anselmi & Associati

Una deliberata volontà urbana Michael Chen

È assai difficile pensare ad uno spazio urbano vitale nella periferia della città europea; e questo ovviamente a causa della stessa natura del margine, per così dire disperso, discontinuo, svuotato di ogni distintivo tratto di carattere. Non è dunque una sorpresa che molti progetti inerenti alla riqualificazione degli spazi aperti nei paesaggi suburbani del vecchio continente non possano essere caratterizzati dalla varietà e dalla spontaneità delle soluzioni che caratterizzano la città sedimentata, ma al contrario cerchino di lavorare con le memorie ed i simboli mutuati dalla storia con l’evidente intento di redimere con la forza della loro assertività un territorio del tutto privo di misure. Una strategia certo non facile da perseguire e che frequentemente è svilita da approcci banali o peggio ancora ridotta a pastiche stilistico. In una città come New York, da dove scrivo, queste architetture costruite sul margine ed intessute di memorie del tessuto urbano consolidato, seppur declinate secondo differenti gradazioni di scala qualitativa, dimostrano comunque una vitalità non comune che va ben oltre il loro mero carattere commerciale, tanto che persino il New York Times ha recentemente dedicato un articolo alla rinascita del concetto di piazza come luogo dell’incontro, non più o non soltanto da concepire come plaza, come spazio vuoto fra i negozi. Un luogo da vivere nei caffè e nei bistrot che vi si affacciano ed impossibile da non apprezzare ma che, laddove il rapporto fra le diverse densità si indebolisce ulteriormente, laddove l’equilibrio fra fluidità del movimento ed occupazione dei suoli non può essere mantenuto, spesso si riduce alla sola rappresentazione emblematica del carattere urbano a scapito

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delle delicate qualità che fanno di uno spazio uno spazio vivo. Situazione analoga a quella che si presenta al visitatore del nuovo municipio di Fiumicino, ma che Alessandro Anselmi dimostra di poter risolvere con la forza della sua architettura, trasformando di fatto la laconicità di un vuoto nella consistenza di un frammento di un possibile ordine alternativo. La città stessa del resto, situata fra il Portus Traiani e quello di Ostia antica, ha mantenuto solo in parte l’originale tessuto ottocentesco. I bombardamenti subiti nel secondo conflitto mondiale prima e la poco attenta urbanizzazione che dagli anni cinquanta ha saturato ampi tratti della costa poi, hanno trasformato il volto ed il carattere di questo luogo. Posto ortogonalmente alla via Portuense, a pochi chilometri dalla periferia di Roma, il nuovo municipio non può appoggiarsi su altre strutture urbane che non siano il prolungamento dell’antica via romana ed il porto canale verso il quale si rivolge a meridione. Una situazione di isolamento che sembrerebbe dunque impedire l’inclusione nel suo programma di qualunque idea di spazio pubblico. Impedimento apparente, visto che l’edificio fa di questa paradossale situazione di sospensione il suo maggior elemento di espressività, dominato com’è da una materica superficie in terra cotta che diviene al medesimo tempo tetto, facciata, isolato urbano e piazza. E su cui si affacciano i due corpi dei livelli superiori degli uffici, altrimenti nascosti alla vista da questo astratto paesaggio inclinato. Uffici che sugli altri fronti rivelano il loro ruolo di sostegno dell’agora attraverso la paradossale leggerezza del trattamento delle facciate. Evocando l’immagine di una nuova centralità, Anselmi articola

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Nuovo Municipio di Fiumicino Progetto: Studio di Architettura di Anselmi & Associati Alessandro Anselmi con: M. Castelli, P. Pascalino, N. Russo committente: Municipalità di Fiumicino 1997 - 2004 dati tecnici: superficie coperta: 4321 mq cubatura complessiva: 27762 mq H massima: 19.23 ml programma: uffici amministrativi sala consiliare sale riunioni uffici gruppi politici comando centrale Vigili Urbani banca bar caffetteria autorimessa


1 Alessandro Anselmi Il Municipio di Fiumicino 2 La grande piazza copertura vista da Ovest Pagine successive: 3 Alessandro Anselmi L’aquilone 4 - 5 - 6 -7 Dettagli della copertura 8 Il luogo dell’incontro sulla via Portuense 9 Piante dei vari livelli

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questa significazione concettuale nel segno della continuità della superficie che collega la strada ai tetti, modellando in particolar modo la porzione che corrisponde alla copertura della sala consiliare. Trasformandola nella traccia di un anfiteatro o di una monumentale scalinata d’accesso al palazzo comunale di un tipico borgo italiano; riassunto per l’appunto a partire dal suo nucleo principale: la piazza dove -immancabile- una statua di bronzo rivolge lo sguardo verso Roma. Astratto cuore civico che sfida persino la leggerezza delle ali degli aerei del vicino aeroporto internazionale, dichiarando una decisa propensione al volo. Un ‘aquilone’ di terra cotta dove ogni contraddizione fra gravità e leggerezza è risolta nel raggiunto equilibrio fra tensioni futuriste e domesticità tradizionali. L’articolazione dello spazio del piano inclinato, apparentemente unitaria, è contraddistinta da un preciso gioco delle parti fra zone dedicate alla circolazione e luoghi pensati per una possibile sosta. Gioco risolto con poche mosse espressive che non impediscono comunque di leggere i diversi caratteri presenti nella piazza-palcoscenico. Luogo in potenza disponibile a diversi usi, non escluso quello di metafisico vuoto pieno di significati. Un approccio che può richiamare alla mente ad un architetto americano quale io sono, le tipiche qualità urbane di un altro progetto italiano, lo show room per l’Olivetti che i B.B.P.R. realizzarono a New York nel 1954. Un primo esempio di articolazione spaziale della superficie del suolo nella terza dimensione, anch’esso disponibile a relazionarsi a mo’ di piccola piazza sull’esterno della Fifth Avenue. Una modalità, quella di ambire all’allargamento dei significati dell’opera di architettura oltre l’area di progetto, tipicamente italiana. E che conferma e anticipa ciò che recentemente ha teorizzato Antony Vidler a proposito dell’intensificazione dello scambio di relazioni fra programma funzionale degli edifici ed ambiente. Dunque un’altra lezione quella di Anselmi. Un altro atto di affermazione e di protezione del raffinato sistema di misure che la cultura architettonica italiana continuamente esprime e custodisce. Un patrimonio prezioso per noi architetti d’oltreoceano. Un atto di deliberata volontà urbana che riflette una profonda fede nelle virtù e nelle potenzialità dello spazio pubblico come elemento cardine per l’architettura della città.

Traduzione Andrea Volpe

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Settant’anni dopo: arrivi e partenze Francesca Privitera

(…) Nella vita di un edificio il progetto rappresenta solo la sua preistoria, il suo prologo in cielo rispetto alle peripezie, gli eventi culturali le difficoltà tecniche che la sua esecuzione incontrerà, una prova del fuoco attraverso cui l’idea iniziale si trasforma, diventa in qualche modo opera collettiva, parte viva della città. Questo tipo di collaudo nel cantiere rappresenta anche all’altra storia dell’edificio, quella che inizieranno i suoi utenti, i protagonisti veri di uno spazio (…) 1. L’edificio, una volta completato, è consegnato alla città e ai suoi utenti, vissuto da generazioni di fruitori che si avvicenderanno nel tempo rinnovandone incessantemente il suo ruolo ovvero rigenerandone costantemente la vita. Forse, proprio perché sono gli uomini, ovvero i fruitori, secondo l’ideale Michelucciano, ad essere i veri artefici dello spazio architettonico, aldilà della sua costruzione fisica e delle sue forme, che la Stazione di Santa Maria Novella2 di Firenze - opera del “Gruppo toscano” guidato da Giovanni Michelucci - a circa settanta anni di distanza dalla sua costruzione, riesce ad essere ancora un elemento vitale all’interno della città, nonostante che le trasformazioni urbane ed il radicale cambiamento del modo di fruire un territorio dai confini sempre più estesi, attraverso un sistema infrastrutturale sempre più complesso, abbiano reso inadeguate le “storiche” stazioni ferroviarie sparse sul nostro territorio, sostituite da complessi nodi infrastrutturali, luoghi di intersezione e di scambio tra flussi globali e locali, tra alta velocità, aeroporti e metropolitane. Così, per molte storiche stazioni di

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testa, emblemi, fino a uno o due secoli fa, di modernità e industrializzazione, motori di intense e radicali trasformazioni urbane, oltre che preludio dell’immagine della città che avrebbe accolto i viaggiatori in arrivo, emerge ora il problema della riconversione e della ridefinizione di un loro ruolo non solo funzionale ma anche simbolico. Anche la stazione di Santa Maria Novella, inaugurata nel 1935, è oggi coinvolta in un ampio progetto di ridefinizione funzionale delle stazioni ferroviarie fiorentine, sia a livello urbano sia extraurbano, nell’ambito di un complesso programma che prevede la realizzazione di un’avveniristica stazione per l’Alta Velocità nei pressi dello storico nodo ferroviario fiorentino. Ma aldilà dell’assegnazione di una “programmata” ed inedita funzionalità a livello di piano per la stazione di Santa Maria Novella, questa sembra, quasi come se fosse un elemento della Città variabile, adattarsi naturalmente al mutare dei bisogni e delle necessità della città. La sua vitalità sembra risiedere non tanto nelle forme esteriori, misuratamente ambientate, emblematico esempio di un modo italiano di interpretare le nuove intuizioni moderniste, quanto in quel flusso di umanità che quotidianamente attraversa l’atrio del salone viaggiatori, quasi a ribadire il concetto che è proprio il cammino dell’uomo, la traccia lasciata dalle impronte dei suoi passi ad essere la radice della costruzione e quindi della città; l’attraversamento come quotidiana e autonoma rifondazione del significato e del ruolo dell’edificio della stazione all’interno della struttura urbana. La sua vitalità risiede allora nelle viscere

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1-2 La chiesa di Santa Maria Novella e la stazione ferroviaria foto Barsotti (Archivio Fondazione Michelucci) foto Massimo Battista Pagine successive: 3-4 L’ingresso alla stazione lato via Valfonda negli anni ’30 ed oggi foto n.d. (Archivio Fondazione Michelucci) foto Massimo Battista 5-6 La galleria arrivo treni foto Locchi (Archivio Fondazione Michelucci) foto Massimo Battista 7-8 Salone della biglietteria foto Barsotti (Archivio Fondazione Michelucci) foto Massimo Battista 9 - 10 L’uscita dalla galleria arrivo treni foto Barsotti (Archivio Fondazione Michelucci) foto Massimo Battista


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dell’architettura, in quello spazioso e aperto ambiente interno, elemento necessario, oggi come allora, alla vita dei cittadini e quindi della città e per questo “resistente” anche agli attacchi della globalizzazione che tendono ad indebolirne il ruolo sia funzionale sia simbolico. Il salone viaggiatori della stazione di Firenze è concepito come una vera e propria strada urbana interna, elemento ambiguamente interno ed esterno, architettonico ed urbano; esso coniuga la scala dell’edificio con quella della città, anzi, la città entra dentro l’edificio, lo attraversa. La stazione, quasi una profetica anticipazione di un Elemento di città, è concepita come la prosecuzione di un percorso cittadino che collega le contrapposte via Valfonda e via Alamanni raccogliendo non solo i flussi dei viaggiatori in arrivo e in partenza ma anche quello di coloro che si spostano da una parte all’altra della città e che utilizzano la stazione come vera e propria strada urbana. L’edificio della stazione, allora, fa parte della città, non per sovrapposizione ma per spontanea estensione, per naturale evoluzione delle esigenze e delle necessità della città. Il suo progetto e la sua costruzione è quindi condotta nel solco della tradizione, intendendo per tradizione la sincera adesione al proprio tempo, come il misurato equilibrio tra modernismo e architettura toscana, al quale Michelucci conduce il Gruppo Toscano, sembra confermare. Così, la nuova costruzione, pur nella novità del linguaggio razionalista è stata assimilata dalla città ed entrata a far parte del sua immagine, intrattenendo un’incessante dialogo con i vicini monumenti, primo tra tutti l’abside duecentesca della chiesa di Santa Maria Novella. Il carattere fiorentino dell’architettura è assimilato in un sistema i cui termini sono il volume, la struttura e la materia, coinvolgendo la limpidezza della struttura in un sistema controllato dall’impiego di materiali autoctoni montati secondo soluzioni collaudate, (…) quel macigno fiorentino - scrive Piero Bargellini- pareva che dovesse imporre la sua misura nel muro a filaretti e nelle cornici di riquadro (…)3. Il costante contrappunto tra la geometrica massa esterna e la spazialità interna sembra comporre matrici spaziali classiche con una tradizione toscana tardo antica, della quale il Battistero di San Giovanni, dalla solida geometria esterna contrapposta allo scintillante interno, è sempre stato considerato il

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principale interprete. Così, alla orizzontale massa opaca in pietra forte dell’esterno del fabbricato viaggiatori fa da contrappunto la limpida geometria interna del salone della biglietteria: uno spazio a pianta quadrata, governato da una assoluta chiarezza strutturale che trova conforto nelle interpretazioni dell’architettura classica operate in ambiente fiorentino in epoca rinascimentale. Al salone della biglietteria, serenamente illuminato dall’alto, attraverso la cascata di vetro, come la definì Piero Bargellini, si accede dall’atrio, al quale è collegato tramite un elemento di raccordo più basso. L’intenso effetto spaziale di diffusa e serena luminosità per coloro che entrano nella sala della biglietteria provenendo dal salone viaggiatori è enfatizzato dal piccolo atrio, oscuro, secondo una sequenza spaziale che sembra essere memore, ancora una volta, di certe soluzioni dell’architettura classica. In sintesi, allora, la vitalità della Stazione di Firenze, risiede non nella novità del linguaggio ma nella (…) forza viva di una tradizione che per credere profondamente al proprio futuro deve mettere continuamente in discussione il proprio passato (…)4.

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1 G. Michelucci, La Stazione di Firenze cinquant’anni dopo, in M. Dezzi Bardeschi, Giovanni Michelucci il progetto continuo, Alinea, Firenze, 1992 2 Il progetto del “Gruppo Toscano”, Giovanni Michelucci, Nello Baroni, Pier Niccolò Berardi, Sarre Guarnieri, Italo Gamberini venne proclamato vincitore nel 1933 di un concorso nazionale del 1932 che richiedeva la progettazione di un edificio comprendente tutti i servizi per i viaggiatori in arrivo e in partenza. L’edificio venne inaugurato nel 1935 3 P. Bargellini, E. Freyrie, Nascita e vita dell’architettura moderna, Firenze, Arnaud, 1947, p.220, in A. Aleardi, C. Marcetti, (a cura di), Firenze, verso la città moderna, tipografia il Bandino, Firenze, 2005, p.32 4 Op. Cit. G. Michelucci, La Stazione ….

11 - 12 L’ingresso alla stazione lato biglietteria foto Locchi (Archivio Fondazione Michelucci) foto Massimo Battista


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Concorso di idee per il recupero di Piazza Brunelleschi a Firenze Ulisse Tramonti

Tra il 2004 e il 2005 è parso infrangersi quella consuetudine tutta fiorentina legata alla mancanza endemica di occasioni progettuali rappresentate dai concorsi di idee, attraverso l’inaspettata attivazione di una serie concreta di possibilità. Sul finire del 2004, viene infatti offerta dall’Università degli Studi di Firenze, dal Comune di Firenze, dalla Cassa di Risparmio di Firenze e dall’Azienda Sanitaria fiorentina, la bellissima occasione per una ridefinizione unitaria degli spazi della Piazza Filippo Brunelleschi, di concerto con l’ipotesi di riorganizzazione del Polo bibliotecario umanistico dell’Università. La posizione baricentrica tra l’Annunziata e il Duomo, la presenza di importanti edifici di un passato più o meno recente, come la Rotonda degli Angeli e la configurazioni frastagliate del retro della fabbrica di Santa Maria Nuova, insieme alla presenza dell’attuale Biblioteca a firma di Fagnoni e dell’edificio d’angolo con via del Castellaccio a firma di Michelucci, fanno dello spazio di Piazza Brunelleschi, attualmente utilizzato come parcheggio, una realtà strategicamente importante in una qualunque riflessione di recupero urbano. La giuria del concorso, formata da Paolo Avarello, Romano Del Nord, Andrea Branzi, Marco Geddes Da Filicaia, Armando Guardasoni, Massimo Guidi e Aurelio Fischetti, ha scelto tra le 123 proposte pervenute, quelle che a loro giudizio meglio esprimevano le indicazioni del bando che erano quelle, pur lasciando la massima libertà creativa, di individuare una gamma più vasta di relazioni tra lo stesso spazio della piazza e le diverse strutture che formano il

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suo tessuto circostante. Significativa appare la premiazione delle prime tre proposte, appartenenti rispettivamente in ordine di posizione ad Alberto Breschi, a Paolo Zermani e a Caterina Bini, tutti afferenti al nostro Dipartimento, i quali hanno saputo concretizzare le diverse anime che in esso coabitano. Il progetto del quale è capogruppo Alberto Breschi infatti si afferma per la sua connotazione marcatamente contemporanea, proponendo un edificio che si smaterializza diventando esso stesso soggetto-oggetto di comunicazione. Diversamente il progetto del quale è capogruppo Paolo Zermani interpreta il senso storico della piazza e delle sue architetture, proponendo un edificio le cui masse si pongono in continuità tra passato, presente e futuro. Il progetto di cui è capogruppo Caterina Bini invece, propone un tessuto di pieni e di vuoti nel quale spicca la massa severa della nuova biblioteca affacciata sulla piazza a filtrare la complessità delle relazioni con le diverse preesistenze. Il Dipartimento di Progettazione, vede un cospicuo numero di partecipanti fra i suoi afferenti, presentando un panorama interessante quanto per certi aspetti disomogeneo. Le tonalità linguistiche che vi si mostrano, appartengono a versanti anche molto distanti tra loro, segno delle diverse anime che abitano la progettualità che in esso si porta avanti, riconfermando il prezioso tratto di una compresenza di anime che formano una coralità felicemente individuabile. Pur nelle necessarie diversità linguistiche ed operative dei vari percorsi progettuali presentati, credo non si possa

tuttavia non registrare la presenza in tutti loro di una evidente caratteristica dominante. Una caratteristica che non viene vista come tentativo forzato di rilettura a posteriori di intenzionalità diverse, quanto la presenza di una radice felicemente comune alla progettualità italiana e a quella di matrice fiorentina in particolare, che ha fatto del rapporto dialogico con il luogo, la sua espressione al contempo più variabile ed esatta. Ovvero quell’uniformità operativa, che si induce quando ci si confronta con l’identità forte di una città come Firenze, grazie alla quale non si può fare a meno di lavorare sul senso ultimo ed essenziale dello spazio, allestendo percorsi che mai scadono sul solo piano estetico e formale, ma piuttosto muovendo le leve –ovviamente diverse in base alle diverse sensibilità personali- di una progettualità che antepone al racconto autobiografico, la complessità interpretativa di un preciso carattere urbano.


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Capogruppo: Alberto Breschi Gruppo di progettazione: Alberto Breschi, Edoardo Cesàro, Guido Ferrara, Nicola Ferrara Collaboratori: Alessio Gai, Claudia Giannoni Consulenti: Antonio Silvestri

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1° Classificato

Aganippe


Capogruppo: Paolo Zermani Progettisti: Paolo Zermani Con: Greta Croci Giovanna Maini Paolo Osti Roberto Panara Eugenio Tessoni

2° ClassiďŹ cato

La galleria dei libri 71


Capogruppo: Caterina Bini Progettisti: Caterina Bini, Lisa Ariani, Riccardo Sandias Collaboratori: Nicola Bini, Costanza Trotta, Carlo Battini Consulenti: Gabriella Orefice, Massimo Cionini, Maria Grazia Manzini, Josè Aljandro Viggiano, Luca Madera, Andrea Andreini

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3° Classificato

Fed 23


Capogruppo: Bianca Ballestrero Progettisti: Bianca Ballestrero Piero Paoli Anna Braschi Pietro Dani Collaboratori: Marco Paoli Consulenti: Silvia Briccoli Bati Maria Teresa Fancelli

Aleph 73


Capogruppo: Fabio Capanni Progettisti: Fabio Capanni Roberto Bologna Con: Michela Bracardi, Riccardo Butini, Claudio Marrocchi, Antonio Richelini, Lorenzo Zoli Collaboratori: Duilio Leonio, Alessandro Masoni, Tommaso Vergelli

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Gutemberg


Capogruppo: Riccardo Campagnola Progettisti: Riccardo Campagnola Maria Grazia Eccheli Con: Michelangelo Pivetta Luca Barontini Luca Venturini

Il canto degli angeli 75


Capogruppo: Marco Cardini Progettisti: Marco Cardini Manlio Marchetta PierďŹ lippo Checchi Maria Cristina Bianchi Ida Failli Francesco Fabiano Raffaele Moschillo Collaboratori: Chiara Masini

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Ibis


Capogruppo: Antonio Capestro Progettisti: Antonio Capestro Cinzia Palumbo Giuditta Niccoli Collaboratori: Nadia Migliorato Riccardo Monducci

4 di picche 77


Capogruppo: Gianni Cavallina Progettisti: Gianni Cavallina, Massimo Gasperini, Stefano Lambardi, Alessandro Pastorini, Angelo Ruocco Collaboratori: Giulia Caliri, Angelo De Napoli, Alessandro Fangacci, Clio Mazzi Consulenti: Roberto Peruzzi, Neri Nicolosi

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Dov’è Costante


Capogruppo: Pier Luigi Cervellati Progettisti: Pier Luigi Cervellati Benedetto Di Cristina Grazia Gobbi Sica Giovanni Maffei Cardellini Alberto Montemagni Daniele Pecchioli Collaboratori: Giorgio D’Albano

Il Chiostro e il giardino 79


Capogruppo: Fabio Fabbrizzi Progettisti: Fabio Fabbrizzi Collaboratori: Ferdinando Pugliese Claudio Settino

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Muro di libri


Capogruppo: Marino Moretti Progettisti: Marino Moretti Ranieri Picchi Filippo Rinaldi Michele Zanella Collaboratori: Marco Cavalli Roberto Vangeli Consulenti: Adriano Ferrara Eva Ratti

Ukyoe 81


Capogruppo: Fabrizio Rossi Prodi Progettisti: Fabrizio Rossi Prodi Stefano Bertocci Pietro Carmagnini Emiliano Romagnoli Marco Zucconi Simone Abbado Collaboratori: Fabiano Micocci Francesco Tarentini Jorgos Kapourniotis Nicola Spagni Consulenti: Jacopo Maria Giagnoni

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Disvelare 720


Capogruppo: Claudio Zanirato Progettisti: Claudio Zanirato Valentina Baroncini Carlo Antonelli Maria Rita Scappini Collaboratori: Maria Grazia Campisi Marco Benevelli Morena Bertolanii

Libri, pagine, segnalibri 83


letture

Roberto Berardi Saggi su città arabe del Mediterraneo Sud Orientale Alinea Editrice, Firenze, 2005 ISBN 88-8125-968-0 Il libro è composto da sette saggi, divisi in diversi capitoli. Il tema generale che li lega insieme è l’indagine sulla morfologia dello spazio costruito, in particolare dello spazio urbano e sui significati che esso ha assunto nella tradizione delle società che, nella storia, lo hanno ereditato o fondato e trasformato. Oggetto principale dell’indagine è l’insieme di città del mondo arabo-musulmano sparse lungo la costa nord africana (Fez, Tunisi, Sfax, ) o nelle oasi di steppa, come Kairouan, o le metropoli della Siria, Aleppo e Damasco. Strumenti di studio sono sia i Catasti Francesi, sia i rilievi di intere cittàcome per Tunisi, Kairouan, Sfax, sia rilievi parziali- come per Aleppo e Damasco. Attraverso l’uso ragionato e comparato di questi strumenti, l’Autore ha potuto indagare nella loro totalità le medine del Nord Africa e della Siria, quali esse ci erano pervenute alla fine dell’epoca coloniale, e descriverne le identità nell’organizzazione spaziale (dal singolo vano all’elaborazione di organismi, di tipologie e delle rispettive collocazioni nella città), ma anche le variazioni subite nei secoli e nei diversi paesi. Società e città appaiono legate dall’assegnazione allo spazio di norme che riflettono quelle consuetudinarie e quelle giuridiche e danno loro corpo nel corpo stesso dell’insediamento. Da queste ricerche l’autore desume la possibilità di attribuire una originalità specifica all’”architettura dello spazio” di queste città rispetto a quella delle città d’Occidente, ma anche la possibilità di confrontare le due tradizioni urbane tra loro, sulla base anche di opposizioni di categorie dello spazio, come interno, esterno, in diverso equilibrio tra loro nei due differenti modi di intendere e realizzare lo spazio della città, di ognuna delle sue componenti e la loro concatenazione. MGE

Loris G. Macci, Alberto Baratelli, Nicoletta Novelli Verso la città profonda A cura di Nicoletta Novelli Alinea Editrice, Firenze, 2006 ISBN88-8125-875-7 Il consueto rapporto tra leggerezza e pesantezza, ovvero l’ormai consolidato dialogo tra massa e diafanicità, sembra nelle ultime acquisizioni della ricerca architettonica contemporanea, caricarsi di un nuovo valore. Alla pesantezza pensata come riflesso del radicamento e come espressione di una costruttività che solidamente ancora a terra

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gli edifici e alla leggerezza come modalità dello stemperarsi delle volumetrie nel confronto con il cielo, si aggiunge la visione di un loro prezioso superamento. Molte sono le ragioni per le quali si interviene nella profondità del suolo urbano. A caratteri di ristrettezza degli spazi si sommano necessità economiche, necessità di relazione e di scambio, che prefigurano uno scenario nel quale lo spazio sotto la linea di terra, diviene il nuovo luogo dell’architettura. L’ingente investimento economico necessario per utilizzare queste parti della città, viene effettuato quando la posta in gioco è alta, quando cioè si vanno a progettare e a realizzare nuovi nodi di interscambio, ovvero i nodi di un nuovo sistema complesso, che usando il sottosuolo come spazio disponibile, crea inedite quanto necessarie relazioni. È quindi una direzione di leggerezza quella che si assegna al suolo in questa visione, dove la materia viene cavata e trasformata in spazi, possibilità, connessioni, reti, infrastrutture, vita. Il “sotto” affiora per sottrazione, in nuove topografie urbane, alleggerendo anche simbolicamente il consueto rapporto del radicamento. Sparisce l’idea di una quota di base sulla quale tradizionalmente hanno da sempre poggiato gli edifici, per trasformarsi in una complessità di piani di affioramento nel quale la sintassi tradizionale dei meccanismi costitutivi e di comprensione dello spazio, viene inesorabilmente superata dalle nuove dinamiche e possibilità che questo approccio offre. Sono proprio queste dinamiche e queste possibilità a costituire il tema principale di indagine della ricerca condotta da Loris Macci, Alberto Baratelli e Nicoletta Novelli, su gli effetti urbani indotti dal passaggio della linea ferroviaria AV nel tratto urbano della città di Firenze. Effetti e possibilità che vengono prefigurati attraverso molti esempi progettuali, raccolti nel bel libro curato da Nicoletta Novelli. Libro che è stato anche il catalogo dell’omonima mostra tenuta al SESV nella primavera del 2006. I progetti, ognuno inteso come momento “possibile” di un futuro quadro di riordino infrastrutturale del nodo fiorentino, offrono nella loro raffinata formatività, la contemporanea narrazione di un auspicabile quanto inedito rapporto con il luogo. Inedito perché la loro genesi e i loro risultati vanno a scardinare il tradizionale rapporto di figura-sfondo tra edificio e paesaggio urbano, andando a costituire nella maggioranza dei casi, una sorta di nuovo valore figurativo e progettuale che riassume in se -in una sorta di nuova quanto potente alleanza- il senso dell’architettura e quello del paesaggio. Sono architetture-città e architetture-paesaggio, che decretano il ruolo principe dell’ibridazione, categoria sempre più preponderante sulla scena delle filosofie e dei linguaggi odierni dell’architettura. Ma esse non sono solo riversabili sul puro campo dell’innovazione; al contrario, queste proposte


presentate ed elaborate dagli studenti del Laboratorio di Sintesi in Progettazione Urbana e poi ulteriormente approfondite in sede di Tesi di Laurea, pur nella loro squillante configurazione di possibili utopie, contengono il tratto raro di un nuovo valore assegnato al rapporto identitario con il luogo. Esse, pur nelle loro caleidoscopiche declinazioni linguistiche, non rinunciano all’interpretazione di una serie di sensi che paiono costituire il carattere e l’essenza della città di Firenze. Sono architetture che non rinunciano al valore propositivo della sperimentazione, della ricerca e dell’innovazione, ma riescono a contenere ancora, anche se sovrapposta e resa più incerta dalla presenza di stimoli più evidenti, l’intuizione di una forte, quanto necessaria, continuità con il passato. Fabio Fabbrizzi

La tradizione rinnovata Il Palazzo di Residenza della Cassa dei Risparmi di Forlì A cura di Ulisse Tramonti Menabò Editore, Forlì, 2006 È l’immagine di un’arnia villica, a costituire il fil rouge decorativo del Palazzo di Residenza della Cassa dei Risparmi di Forlì. Alla graziosità del soggetto, alla sua capacità di evocazione bucolica e romantica si somma la metafora etica del lavoro e della comunità. Essa appare nello stemma della Cassa, nelle decorazioni del soffitto della sala delle assemblee, nel velario del lucernario del salone di rappresentanza, nel cancello del caveau e nelle inferriate del sottoportico. L’immagine dell’arnia e dell’ape sono a suggerire un’operosità che ben si confà all’architettura di questo edificio, la cui storia, fatta di tracce e sovrapposizioni, e stata, con altrettanta operosità, ricostruita da Ulisse Tramonti, che coordinatore di un gruppo di studiosi, è riuscito a sistematizzare un importante capitolo della storia urbana forlivese. Il bel volume, costruito per la Cassa dei Risparmi di Forlì, si basa sulla ricerca dello stesso Tramonti che affronta la genesi dell’Istituzione e delle varie sedi che essa ha nel tempo occupato, oltre alla lettura di quella che egli definisce come una vera e propria “tradizione rinnovata”, ovvero una serie di impercettibili modificazioni che in seno ad una tradizione ben visibile, ne hanno di fatto alterato i codici. Permanenza nella modificazione e variazione nella consuetudine, sono infatti i termini entro cui lo sguardo di Tramonti, suggerisce di leggere la grande serie di interventi, progetti ed ipotesi che nel corso dei secoli si sono avvicendati per le trasformazioni del Palazzo di Residenza, adeguandolo ai ritmi e alle necessità dei tempi. Il volume raccoglie anche i contributi di Roberto

Balzani che ha elaborato un itinerario tra Cassa e Fondazione, ovvero dalla “beneficenza” allo sviluppo del territorio. Maria Giulia Benini e Michela Cesarini per il Laboratorio di Restauro di Ravenna, compiono una schedatura ragionata degli arredi del Palazzo di Residenza in un percorso che si snoda tra funzionalità, mecenatismo e collezionismo. Andrea Donati e Giordano Viroli affrontano il tema dell’arte, indagando e schedando criticamente, le collezioni della Cassa dei Risparmi di Forlì e quella della Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì, le quali annoverano tele dipinte dal 1460 al 1992. Luciana Prati tratta dei rinvenimenti archeologici avvenuti durante la costruzione del Palazzo della Residenza. Infine Roberto Gherardi tratta del nuovo auditorium della Cassa e dell’edificio del Monte di Pietà. Il libro, oltre all’evidente scopo celebrativo di questa istituzione bancaria, ha la capacità, di divenire vero testo scientifico, raccogliendo, e divulgando –anche attraverso una lettura fotografica molto sensibile e di altissimo livello-i vari aspetti che compongono la struttura architettonica e il patrimonio artistico della sua “casa”. Una “casa”, la cui importanza, oltre all’evidente valore intrinseco, è a sua volta patrimonio collettivo, perché importante elemento urbano del centro storico della città di Forlì e momento fondamentale per la comprensione della sua storia. Fabio Fabbrizzi

Giovanni Chiaramonte Come un enigma_Venezia a cura di M. Bugno e M. Trevisan, con un [eccellente] testo di F. Zanot Bugno Art Gallery, Venezia, 2006 ISBN 88-6007049-X Chiaramonte fotografa Venezia enigma per antonomasia. Impossibile immaginare Venezia (oggi più che mai) senza i suoi monumenti, quanto scrivere un romanzo senza mai usare la lettera “E” (la Disparition di Georges Perec)? Chiaramonte - pagina dopo pagina - fa dissolti il Ponte di Rialto e la Ca’d’Oro, la Basilica e la Piazza, il Redentore, la Salute etc. in effetti proprio i monumenti, non la storia, però. Superata così, con moderna inversione, l’impossibilità di rammemorare senza i monumenti ovvero i luoghi del ricordo – qui scena fissa del carsico vissuto personale, imprescindibile – rivela invece Chiaramonte una Venezia non minore, ma civile d’edilizia, forse vicina a quella delle sansoviniane Case Moro indagate da Tafuri nella sua straordinaria Ricerca del rinascimento. Con l’alata gioia dell’occhio all’infinito tutto rivela

Chiaramonte per una serie di tableaux contemporanei di frammenti composti, più che impaginati, a cominciare da quel “concetto spaziale” in copertina, graffitato qui ed orizzontale - trapassato dallo sguardo sul paesaggio prossimo - ricomposto a sua volta da una geometria di legni da cantiere (bella e materica Venezia-New York del Lucio Fontana, dello ieri col domani!); attento Chiaramonte al dettaglio alla materia dei muri alla muffa all’alga al riflesso al primo piano in falso nei trompe-l’oeil della Venezia restaurata ai turisti che or si dissolvono nella posa lunga della pellicola, or divengono quasi-ironiche presenze tergali. Fino alle nature morte o still-life o vanitas, alcune in interno incantate dell’immateriale dopo-la-musica, altre a cercar di catturare la difficile arte della decorazione o del riflesso: di nuovo vetri-vetrinespecchi ancora per ingannare lo sguardo e, dietro, la mente. Chiaramonte il correttore automatico di Gates lo scrive Chiaramente, e tant’è: Giovanni vien dalla filosofia, non è un tecnico della fotografia. Giacomo Pirazzoli

Renato Rizzi Il Daímon di Architettura. Theoría-eresia con interventi di Massimo Donà e Paolo Portoghesi Pitagora Editrice, Bologna, 2006 ISBN 88-371-1634-9 Ciò che da subito colpisce de Il Daímon di Architettura è la densità e la durezza della scrittura. Si tratta della densità e della durezza della teoria, ovvero della fatica e dello sforzo di fronte ad una delle relazioni più difficili: quella tra pensiero e prassi. Per essere precisi, però, sarebbe meglio dire che la fatica a cui ci costringe il testo è quella a cui ci costringe l’Architettura. Perché è l’Architettura, qui, ad essere in gioco, con il peso della sua concretezza e con gli enigmi della sua profondità. Ed è l’Architettura ad esigere da noi -se veramente vogliamo rispettare la sua nobiltà- uno sforzo del pensiero. Sforzo che, nel saggio di Rizzi, assume la forma di un rovesciamento dello sguardo: dallo sguardo della Teoria (il sapere calcolante, di natura tecnico-scientifica) allo sguardo della Theoría (il sapere contemplante, di natura ontologico-metafisica). Ma la questione non riguarda tanto la superficie di un banale cambiamento metodologico, quanto la profondità di una radicale inversione di rotta: dal paradigma nichilista (dominio della Tecnica) al paradigma classico (dominio dell’Estetica). Problema della vista, oltre che della mente, perché la linea che separa questi due grandi ambiti del pensiero (i due volti dell’Occidente) giace su di un piano –il piano dell’estetico– che noi abbiamo rimosso, ridicolizzandolo (annientandolo nel

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soggettivismo del gusto). Rimozione, questa, che ha innalzato tra noi e l’Architettura una barriera insormontabile. Così, lo sforzo essenziale della Theoría diventa lo sforzo di annientare questa barriera, riconvertendo lo sguardo all’estetico, all’intatta (universale) inviolabilità delle sue figure. Il che ci porterebbe a riaprire le distanze, riassestare le posizioni e riconvertire i rapporti: tra noi e l’Architettura, tra la sfera del soggettivo (dei creatori della Forma) e la sfera dell’oggettivo (dei servitori della Forma). Laddove riaprire le distanze vorrebbe dire riconoscere la vastità che ci separa dal piano degli universali, dalle potenze che lo abitano (Architettura è una di queste); riassestare le posizioni equivarrebbe a riconoscere l’inferiorità nostra, degli individuali, di fronte alla superiorità sua (di Architettura); riconvertire i rapporti significherebbe riconoscere che l’Architettura non è dominabile dalla nostra volontà ma che siamo noi, semmai, ad essere chiamati nel suo dominio, dove i nostri calcoli e i nostri arbitrii non hanno alcuna presa ma dove è la Forma a tenerci legati a sé, con la potenza della fascinazione e dell’incanto. Valentina Rossi

Riccardo Butini Giovanni Michelucci. Fotogrammi del museo, Edizioni Diabasis, Reggio Emilia, 2007 È stato detto che fu il genio del Rinascimento a liberare Firenze dall’assedio delle truppe tedesche nell’estate del ’44 quando il corridoio vasariano, tornando alla sua antica funzione di presidio della città, servì al C.T.L.N. per ristabilire i contatti con gli alleati che già si trovavano sulla riva sinistra dell’Arno. La desolazione di una Firenze semideserta, solo attraversata dai movimenti clandestini dei “resistenti”, e lo scenario sublime dei quartieri sventrati e della vita interrotta dei loro interni, suggeriscono a Giovanni Michelucci l’immagine seducente di una “città nascosta” contenuta all’interno della città nota, dove lo spazio, identificato col percorso, fluisce senza interruzione da un’architettura all’altra alimentando l’organismo urbano come linfa vitale. Il complesso museale degli Uffizi, del corridoio vasariano e di Palazzo Pitti rappresenta per il maestro pistoiese il paradigma di questa concezione architettonico-urbanistica. Insolito è il punto di vista proposto da Riccardo Butini sul pensiero e l’opera del maestro perché costituito dalla lettura di cinque filmati su Firenze (L’aerea via degli Uffizi 1 e 2, A misura d’uomo, Firenze: ipotesi per un itinerario, Corpus Magni Ingenii Viri Philippi Brunelleschi Fiorentini) che Michelucci realizza fra il 1971 e il 1978 insieme al regista di documentari Sergio Prati. Fra il raro

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materiale ancora poco noto del corpus michelucciano, in essi si delinea per frammenti il progetto del museo, da intendersi in una accezione ampia, astratta, tipologica e tuttavia non prescindibile dalla specificità architettonica fiorentina, i cui caratteri Michelucci traspone nella sua idea di museo come porzione di spazio urbano. Un “museo come strada […] che talvolta si lascia tracciare dallo stesso visitatore”, scrive l’autore, “libero di seguire l’itinerario che più interessa e che non può trovare una sintesi grafica in un segno netto, ma piuttosto nei filamenti ripetuti del disegno del maestro”. In questo senso gli Uffizi sono “il” museo e allo stesso tempo la città. Ma essi sono anche (e qui la compenetrazione è totale) il museo della città: “Per quanto ne scorgiamo attraverso i vetri, architettura e struttura urbana si aggiungono alle altre arti […], collaborando al crearsi di un’unica visione estetica” (dal testo decriptato de L’aerea via degli Uffizi 2). È scontato che tutto ciò non ha niente a che vedere con la museificazione di Firenze, sempre osteggiata da Michelucci come nemico mortale. Si tratta in realtà di una grande intuizione sulle intime connessioni che strutturano la città, ovvero di un generoso lascito teorico ricco di implicazioni progettuali. Il libro di Butini, che oltre al saggio critico sui film contiene l’analisi dei progetti per gli Uffizi e i testi decriptati dei documentari, ci consegna quella fertile immagine di Firenze, troppo spesso ignorata da architetti e politici impegnati nella sua trasformazione, che Michelucci traccia con parole appassionate cogliendo l’essenza profonda della realtà: “Chi afferra il significato di tale spazio, le misure ideali di tale paesaggio, avrà la chiave per penetrare in tutto ciò che qui è nato ed è l’espressione sensibile di questa dimensione” (dal testo decriptato de L’aerea via degli Uffizi 2). Francesca Mugnai

Lotus international 131 – 2007 Milano Boom Editoriale Lotus, Milano, 2007 All’inizio un saggio di Pierluigi Nicolin dedicato a interrogarsi su cosa stia succedendo a Milano nel passaggio dall’etica della produzione all’estetica del consumo. In chiusura una corposa nota per la cura di Pietro Valle incentrata sull’analisi di quegli interni a scala urbana che definiscono la milanese ossessione dell’enclave con nostalgia del futuro. Così si apre e si chiude il recente numero monografico di Lotus international dedicato alla metropoli lombarda: senza alcun commento (se non brevi schede con piglio propagandistico quasi

fossero state redatte dagli operatori immobiliari anziché dai progettisti) la rivista presenta la serie di casi tipo che fotografano il fenomeno in atto. Identificando il modello della Bicocca governato dallo studio Gregotti come ultimo segno della città compatta e disciplinata, memore ancora dei tracciati razionali della fabbrica di cui ne eterna l’impronta a frenare la dispersione e il caos della speculazione edilizia volgare, l’introduzione di Nicolin registra l’attuale passaggio a un’idea di enclave di matrice anglosassone la quale, contro ogni unità linguistica, esalta il valore iconico dei singoli oggetti dominati dal voler offrire a tutti i costi un (improbabile) idillio verdolatrico. Parrebbe abbandonato il Piano come strumento atto a conferire valore ai luoghi, inteso come criterio tipo-morfologico capace di indicare un’idea di città e in grado di mostrare un tutto cui ogni singola parte era subordinata. Negli Anni Settanta era la città dei bisogni basata su una pretesa di equilibrio, mai peraltro raggiunto. Ma erano gli anni in cui Pirelli e Alfa Romeo assumevano chi si fosse presentato ai cancelli della fabbrica con un buon diploma. Oggi - al contrario - siamo nella città dei consumi, ansiosa di voler fare a meno di un principio d’ordine capace di tutto contenere. Esclusi i nobili casi di Bicocca e delle aree ex-Falck di Sesto San Giovanni (Renzo Piano) su Lotus si susseguono le enclave, isole di microcosmi autosufficienti, che costruiscono un’altra città fatta di luoghi che a ciascun consumatore di riferimento si fan credere esclusivi, ma non al punto da diventare totalmente intransitabili. È la città della cattura dei valori. Cioè a dire di quei luoghi ambìti da tutti coloro che ne sono appunto esclusi, ma che comunque devono avere come orizzonte la possibilità di accedervi. A Milano oggi nessuno è considerato se non costruisce almeno 140 metri in altezza. Città improvvisamente dedita al grattacielo come panacea rispetto alla mancanza di piano e di un progetto per lo sviluppo. Ed è come credere di poter curare il corpo della città per agopuntura. E allora – necessariamente - la città delle enclave puntuali deve essere accessibile, o per lo meno, lasciarsi immaginare come accessibile nell’arco di una vita. Non è il mondo nuovo, ma assomiglia molto alla messa in vetrina di un rinnovato scenario. Tutto ciò, compresa la vicenda delle illustri firme necessarie a vendere un prodotto, ha sicuramente a che vedere con la città dell’offerta. Sul piano della forma, questo passaggio segna il prevalere di oggetti a forte contenuto iconico in buona misura indifferenti alla planimetria della città e delle sue reliquate parti compiute, oggetti che ambiscono a essere indipendenti dalla pianta e considerati per il loro essere dunque puro involucro. Il tutto solo in funzione della comunicazione e volto al bucare l’immaginario schermo per il quale tali oggetti sarebbero stati simulati. Non più per parti compiute, ma per grappoli, cluster


che si fan coraggio tra loro. Pubblicizzati con la stessa enfasi con cui le compagnie telefoniche ti annunciano che sei stato ammesso nel Top Club oppure con l’ottimismo forzato degli istituti di credito che ti donano la card serie oro con cui puoi spendere di più! Senza aristocratico snobismo, né sdegnata sufficienza rispetto a tale fenomeno, vorremmo ancora restare convinti che il tutto sia più importante delle singole parti, sicuramente più bisognoso della nostra attenzione di quanto non meriti l’attuale dibattito tutto volto alle icone decorative capaci di evocare l’immaginario e l’understatement pseudoecologista insito nel far di alberi un grattacielo. Il mondo si capisce trasformandolo, si diceva un tempo. Volendo ancora condividere un principio secondo cui l’Architettura non deve essere cortigiana dell’attualità – guardando ad alcuni casi come quello di Milano – sembrerebbe tuttavia che l’Università stia dentro un mondo che non esiste più o che in buona parte non è più capace di raccontare. Ha senso porsi la questione in un numero di Firenze Architettura che, nato inizialmente per indagare la piazza e le sue svariate configurazioni nell’attualità, ha finito per registrare modi plurimi e diversi dei luoghi di stare, consumare, transitare. Inaspettati forse. Interessa allora ragionare su questi esempi in bell’ordine allineati da Lotus international per avere ancora voglia di capire come cambiano la città e il territorio in ragione dei nuovi valori. Che cosa è il tanto sbandierato vivere nel verde in un’architettura sostenibile? Come cambia di conseguenza la forma e la conformazione degli spazi pubblici? E come sono cambiate alcune città – oltre a Milano che si appresta all’Expo – utilizzando gli eventi come occasioni di riforma urbana (Genova, Torino, Barcelona, Siviglia, Valencia). Alla luce di tutto questo dove possiamo collocare la città italiana se analizzata in merito a velocità, competitività, bellezza, capacità di risarcimento urbano e ambientale? È la sicurezza tra le questioni scomode che rischiano di far cambiare forma e gerarchie nella città? Quale senso dare a una questione antica che però pare ancora capace di generare senso quale quella della dimension conforme: nessuno – forse neanche i geografi - sembra avere idee precise circa le differenze tra le aree metropolitane.. qual è la caratura della città europea? 4 milioni di abitanti? 7 milioni di abitanti? Si torna a parlare di bellezza, anzi la rendita fondiaria è in funzione della bellezza architettonica. Come lievitano i terreni intorno al Guggenheim di Bilbao? Anche l’immagine pubblicitaria è un valore? Francesco Collotti

Memoria Ascesi Rivoluzione - Studi sulla rappresentazione simbolica in architettura a cura di Luciano Semerani, Marsilio Editori / Università IUAV, Venezia, 2006 ISBN 88-317-9110 Apparentemente una indagine sulla dimensione simbolica dell’architettura a partire da alcuni casi studio. Primo caso-studio: alcune opere di Le Corbusier e - segnatamente – il Campidoglio di Chandigarh quale straordinaria costruzione di relazioni tra forme figure e significati (Giuseppina Scavuzzo). Secondo caso-studio: il memoriale di Kampor di Edvard Ravnikar e la sua grammatica della memoria, a commemorare le vittime del campo di concentramento che gli occupatori italiani realizzarono sull’isola di Rab, nell’attuale Croazia (Filippo Bricolo). Terzo caso-studio: la cubana utopia interrotta delle Escuelas Nacionales de Arte (Esther Giani). Ove – tra l’altro – si argomenta sull’impossibilità dei progetti utopici di realizzarsi compiutamente... se ciò accade devono rinunciare alla propria natura originaria. Accomuna i tre casi una diversificata articolazione del rapporto tra artifact e natura, anzi una accurata disamina sui vari gradi della capacità dell’architetto di descrivere l’infinito senza effetti speciali e di ridurlo – per rappresentarlo - con i pochi mezzi del finito: talvolta frenando il cielo nella semisfera della cupola, talaltra cercando di governare con una grande pianta un’intera cosmogonia. A Chandigarh i segni riferiti al cosmo, all’uomo, agli animali, alle piante che popolano gli arazzi, gli smalti, le sculture, i rilievi, solo apparentemente figure ornamentali, sono manifestazioni dell’idea di architettura come definizione di un rapporto tra l’uomo e il cosmo (Scavuzzo). Apparentemente il volume tratta di altri Moderni, testimoni di una continua oscillazione tra l’applicazione sperimentale di una conoscenza razionale posta alla base del fenomeno architettonico da un lato, e – d’altro lato – una sorta di magia figurativa che vede inverarsi un antico mito ogni volta ripercorso per mezzo di quel rito che è l’arte della costruzione. Nel caso del memoriale i muri che si fanno parola e convocano il paesaggio per un dialogo serrato tra la memoria e il silenzio..(…) figure astratte ma allo stesso tempo archetipe, fisionomie familiari riflesse in forme ancestrali di ruderi che si presentano come frammenti dalle origini remote e lontane ma non riconducibili con precisione alla vicenda e alla misura del tempo (Bricolo). Nel caso delle scuole cubane l’idea di perfezionamento nell’arte muove da un ingresso che è una grotta in discesa, accompagnata dall’acqua e sovrastata da volte che si sfogliano lasciando filtrare la luminosità dei tropici: tagli di luce a intensità variabile, ombre riportate e deformate da muri curvi (Giani). Operativamente le origini come materiale da co-

struzione: l’acqua, la terra, la luce. Apparentemente – ancora - Memoria Ascesi Rivoluzione è, all’inizio di un nuovo secolo, una laica riflessione che cerca di superare quella ideologica ansia conformata al vero-pulito-e-bianco-preciso-esatto che ha accompagnato buona parte dell’architettura del Novecento. Apparentemente cioè, per chi intenda leggere il volume curato da Semerani come approfondimento di riferimenti, taluni più noti come nel caso del lavoro di LC, talaltri decisamente poco studiati. Ma esiste una seconda lettura che a noi sta a cuore, capace di mettere al centro la costruzione dell’architettura come congegno di potenziamento ideale e spirituale. Riletti per questa via i tre casi-studio non sono semplici esempi possibili tra tanti, ma rappresentano quello che ci piacerebbe definire passaggio di stato per successivi gradi. Da un punto geometrico ad una posizione geodetica, passando per la trigonometria. Gli iniziati sanno che per rinascere uomini liberi hanno dovuto attraversare un simbolico rito di passaggio che è la propria morte e la resurrezione. Al lettore che volesse saperne di più gioverà la lettura di quanto scrive Lequeu a commento del proprio progetto per la grotta di Iside e per il Souterrain de la Maison Gothique (Nihil deest nisi clavis, si diceva un tempo). Dietro alla goethiana definizione di architettura quale seconda natura che opera a fini civili si cela forse la capacità degli archetipi di generare vita nuova senza perder memoria delle origini? È qui che l’indagine di Semerani, passando anche per i riti propiziatori degli antichi abitatori del Mediterraneo, sembra incontrare un altro grande iniziato come Ernesto Nathan Rogers. Per quale via infatti alcune figure archetipe costituiscono una sorta di energia vitale capace di far lievitare il progetto verso un suo perfezionamento consapevole delle proprie radici e del proprio inestricabile appartenere a una conoscenza tradizionale? E non nel senso del pittoresco, ma nel senso di tradizione intesa quale compresenza di tempi diversi, ovvero quale energia delle mutazioni necessaria - per maieutica - ad estrarre il progetto dalla terra. Ancora Chandigarh: Le Corbusier cerca di trarre dalle radici dell’antica cultura indiana la linfa per un diverso moderno (Scavuzzo). Per gli architetti questa è anche la capacità di interrogare l’antico per trasfigurarlo, riversandolo nel progetto. Sappiamo che per comporre dobbiamo smontare, ordinare, disporre. Ogni volta un apprendistato. Una straordinaria ars analogica è alla base del nostro lavoro capace di unire tipi (universali) e luoghi (specifici). Per l’alchimia, del resto, come per la composizione – che è il vero oggetto del prezioso contributo di Luciano Semerani – vale quanto affermato da Aristotele: …ciò che si oppone converge, e la più bella delle trame si forma dai divergenti, e tutte le cose sorgono secondo la contesa. Francesco Collotti

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Università degli Studi di Firenze - Dipartimento di Progettazione dell’Architettura Direttore - Ulisse Tramonti - Sezione Architettura e Città - Loris Macci, Piero Paoli, Ulisse Tramonti, Alberto Baratelli, Antonella Cortesi, Paolo Galli, Maria Gabriella Pinagli, Mario Preti, Antonio Capestro, Enzo Crestini, Fabio Fabbrizzi, Renzo Marzocchi, Andrea Ricci, Claudio Zanirato - Sezione Architettura e Contesto - Adolfo Natalini, Giancarlo Cataldi, Pierfilippo Checchi, Stefano Chieffi, Benedetto Di Cristina, Gian Luigi Maffei, Guido Spezza, Virginia Stefanelli, Fabrizio Arrigoni, Gianni Cavallina, Piero Degl’Innocenti, Carlo Mocenni, Paolo Puccetti - Sezione Architettura e Disegno - Maria Teresa Bartoli, Marco Bini, Roberto Corazzi, Emma Mandelli, Stefano Bertocci, Marco Cardini, Marco Jaff, Grazia Tucci, Barbara Aterini, Alessandro Bellini, Gilberto Campani, Carmela Crescenzi, Giovanni Pratesi, Enrico Puliti, Paola Puma, Marcello Scalzo, Marco Vannucchi, Giorgio Verdiani - Sezione Architettura e Innovazione - Roberto Berardi, Alberto Breschi, Antonio D’Auria, Marino Moretti, Laura Andreini, Flaviano Maria Lorusso, Vittorio Pannocchia, Marco Tamino - Sezione I luoghi dell’Architettura - Maria Grazia Eccheli, Fabrizio Rossi Prodi, Paolo Zermani, Fabio Capanni, Francesco Collotti, Alberto Manfredini, Giacomo Pirazzoli, Elisabetta Agostini, Mauro Alpini, Andrea Volpe - Laboratorio di rilievo - Mauro Giannini - Laboratorio fotografico - Edmondo Lisi - Centro di editoria - Massimo Battista - Centro di documentazione - Laura Maria Velatta - Assistente Tecnico - Franco Bovo - Responsabile gestionale - Manola Lucchesi - Amministrazione contabile - Debora Cambi, Cabiria Fossati - Segreteria - Gioi Gonnella - Segreteria studenti - Grazia Poli


In copertina: Pino Castagna Cascade de Beynost 1992-2005, Alpinia foto Maria Grazia Eccheli

Periodico semestrale* del Dipartimento di Progettazione dell’Architettura viale Gramsci, 42 Firenze tel. 055/20007222 fax. 055/20007236 Anno XI n. 2 - 2° semestre 2007 Autorizzazione del Tribunale di Firenze n. 4725 del 25.09.1997 ISSN 1826-0772 Direttore - Maria Grazia Eccheli Direttore responsabile - Ulisse Tramonti Comitato scientifico - Maria Teresa Bartoli, Roberto Berardi, Giancarlo Cataldi, Loris Macci, Adolfo Natalini, Paolo Zermani Capo redattore - Fabrizio Rossi Prodi Redazione - Fabrizio Arrigoni, Valerio Barberis, Fabio Capanni, Francesco Collotti, Fabio Fabbrizzi, Francesca Mugnai, Giorgio Verdiani, Andrea Volpe, Claudio Zanirato Info-grafica e Dtp - Massimo Battista Segretaria di redazione e amministrazione - Gioi Gonnella tel. 055/20007222 E-mail: progeditor@prog.arch.unifi.it. Proprietà Università degli Studi di Firenze Progetto Grafico e Realizzazione - Massimo Battista - Centro di Editoria Dipartimento di Progettazione dell’Architettura Fotolito Saffe, Calenzano (FI) Finito di stampare dicembre 2007 *consultabile su Internet http://www.unifi.it/dpprar/CMpro-v-p-34.html

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