costruire con poco
architettura firenze
firenze architettura
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ISSN 1826-0772
FIRENZE
costruire con poco
UNIVERSITY
PRESS Periodico semestrale Anno XIX n.1 Spedizione in abbonamento postale 70% Firenze
In copertina: Pier Paolo Pasolini a Torre di Chia, 1974 Foto di Gideon Bachmann © Archivio CinemazeroImages (Pordenone)
DIDA
DIPARTIMENTO DI ARCHITETTURA
architettura firenze
via della Mattonaia, 14 - 50121 Firenze - tel. 055/2755419 fax. 055/2755355 Periodico semestrale* Anno XIX n. 1 - 2015 ISSN 1826-0772 - ISSN 2035-4444 on line Autorizzazione del Tribunale di Firenze n. 4725 del 25.09.1997 Direttore responsabile - Saverio Mecca Direttore - Maria Grazia Eccheli Comitato scientifico - Alberto Campo Baeza, Maria Teresa Bartoli, Fabio Capanni, João Luís Carrilho da Graça, Francesco Cellini, Maria Grazia Eccheli, Adolfo Natalini, Ulisse Tramonti, Chris Younes, Paolo Zermani Redazione - Fabrizio Arrigoni, Valerio Barberis, Riccardo Butini, Francesco Collotti, Fabio Fabbrizzi, Francesca Mugnai, Alberto Pireddu, Michelangelo Pivetta, Andrea Volpe, Claudio Zanirato Collaboratori - Simone Barbi, Gabriele Bartocci, Caterina Lisini, Francesca Privitera Info-Grafica e Dtp - Massimo Battista Segretaria di redazione e amministrazione - Grazia Poli e-mail: firenzearchitettura@gmail.com La presente opera, salvo specifica indicazione contraria, è rilasciata nei termini della licenza Creative Commons Attribution-ShareAlike 4.0 International (CC BY-SA 4.0: https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0/legalcode) CC 2015 Firenze University Press Università degli Studi di Firenze Firenze University Press Borgo Albizi, 28, 50122 Firenze Italy www.fupress.com Printed in Italy Firenze Architettura on-line: www.fupress.net/fa Gli scritti sono sottoposti alla valutazione del Comitato Scientifico e a lettori esterni con il criterio del Blind-Review L’Editore è a disposizione di tutti gli eventuali proprietari di diritti sulle immagini riprodotte nel caso non si fosse riusciti a recuperarli per chiedere debita autorizzazione The Publisher is available to all owners of any images reproduced rights in case had not been able to recover it to ask for proper authorization chiuso in redazione luglio 2015 - stampa Bandecchi & Vivaldi s.r.l., Pontedera (PI) *consultabile su Internet http://www.dida.unifi.it/vp-308-firenze-architettura.html
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editoriale
Alcune domande sulla “spazzatura” Luciano Semerani
percorsi
Pier Paolo Pasolini Ritorno a Chia - Nico Naldini L’infinito abita a Chia. La casa/castello di Pier Paolo Pasolini - Maria Grazia Eccheli Cronaca di un’emozione. In viaggio verso l’eremo di Pasolini - Andrea Volpe
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Toshiko Mori Thread - The Sinthian Center: the Albers Cultural Center and Artists’ Residency Michelangelo Pivetta
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Aires Mateus Quando il costruire povero diventa lusso Maria Grazia Eccheli
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Maria Giuseppina Grasso Cannizzo La casa sognata Alberto Pireddu
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Elemental Da Quinta Monroy a Conjunto abitacional Violeta Parra Francesca Privitera
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Volpe + Sakasegawa Sotto il vulcano - Una casa italiana nel sud del Giappone Andrea Volpe
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Arrigoni Architetti Bamiy ¯ an ¯ Cultural Centre - Afghanist ¯ an ¯ Fabrizio Arrigoni
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Aris Kostantinidis e la casa ad Anávyssos. Un’offerta al paesaggio Fabio Fabbrizzi
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Un eremo borghese. Le case ad Arzachena di Marco Zanuso Francesca Mugnai
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Poetici spazi a perdere. La Scuola di Balletto a L’Avana di Vittorio Garatti Caterina Lisini
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Pensiero alto, fatto con poco. Il quartiere Ponti di Franco Albini a Milano Francesco Collotti
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atlante dida
eredità del passato
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La chiesa della Madonna dei Poveri a Milano di Figini e Pollini e l’asilo a Collegno di Giorgio Rajneri: “monumenti prefabbricati” Gabriele Bartocci
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Un ideale “riparo” per bambini. Scuola materna a Poggibonsi (Siena), 1955-1964 Riccardo Butini
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Un testamento di modestia e carità. La chiesetta di San Giuseppe Artigiano a Montebeni Simone Barbi
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Un tempio senza colonne - La sauna Muuratsalo Chiara De Felice
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Bernard Rudofsky, Tino Nivola: Costruire con pochi mattoni, qualche blocco di cemento e alcuni pali. Casa-Giardino Nivola, Long Island, NY (1950) Ugo Rossi
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Answering the Challenge: Rural Studio’s 20K House Rusty Smith
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Lina Bo Bardi: due “Site Specific Museums” tra Brasile e Africa. Costruire povero e complesso Giacomo Pirazzoli
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design
Enzo Mari, o del progetto critico Giuseppe Lotti
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eventi
Firenze Palazzo Medici Riccardi, site specific per i luoghi e le storie di Firenze in guerra Firenze in Guerra, 1940-1944 Giacomo Pirazzoli e Francesco Collotti Roma, Tempietto del Bramante Luciano Matus - de tiempo luz de luz tiempo Maria Grazia Eccheli Forlì, Musei San Domenico Boldini - Lo spettacolo della Modernità Fabio Fabbrizzi
ricerche
letture a cura di: english text
Eliana Martinelli, Riccardo Renzi, Fabrizio Arrigoni, Stefano Suriano, Ugo Rossi, Mattia Di Bennardo, Federico Cadeddu, Francesca Mugnai, Andrea volpe
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Firenze Architettura (1, 2015), pp. 3-5 ISSN 1826-0772 (print) ISSN 2035-4444 (online) CC BY-SA 4.0 Firenze University Press www.fupress.com/fa/
Alcune domande sulla “spazzatura” Luciano Semerani
Uno si chiede, quando visita l’ultima Mostra d’Arte della Biennale di Venezia, dopo aver constato che finalmente sono spariti un bel po’ di televisori e di filmati ma anche che le avanguardie di cento anni sono ormai giustamente confinate nelle iniziative delle istituzioni turisticoculturali, uno si chiede perché l’arte contemporanea, pur essendo nelle intenzioni drammatica, cupa, necrofila, ossessionata da una sessualità disperata, pur con tutto questo apparente impegno espressivo non dia emozioni. L’assurdo surrealista, il paradosso intellettualistico dada, il pugno nello stomaco anti-borghese e persino il trionfalismo totalitario creavano stati d’animo, che erano tra loro diversi, reazioni di disgusto o di coinvolgimento, lasciavano tracce indelebili nella nostra memoria. Tutto questo è scomparso, perché perlomeno nelle opere messe sul mercato dalle gallerie d’arte scelte dal Commissario, resta solo la traccia, forse, di un intellettualismo non altissimo sostituito da un impegno operoso, artigianale, senza idee e quindi disperato ma tecnicamente estremamente costruito, raffinato a volte nel recupero del folklore, paranoico per una abilità che deriva da un sottofondo maniacale, un copioso, noioso, estremamente difficile e lungo raccogliere, saldare, ridipingere e smaterializzare la spazzatura. La questione interessa gli architetti perché essa riguarda anche il riuso, il riciclo, il recupero dei manufatti, dei fabbricati, dei territori obsoleti che noi facciamo con l’architettura. Nelle opere esposte alla Mostra di Venezia non è che manchi l’interesse per le forme. La morfologia. Erbari preziosi, chilometriche bacheche
di libri, infinite distese di oggetti sono a Venezia un inno alla morfologia. La morfologia è una classificazione degli oggetti (piante, animali) secondo quelle che sono le loro proprietà formali. Ma quali sono le proprietà formali che interessano in un’opera d’arte, ed anche in un progetto di architettura? Le proprietà evocative in primo luogo, secondo me, quelle che prefigurano un futuro dell’oggetto. Nella dimensione tragica, che inevitabilmente nel secolo in cui io sono vissuto ha caratterizzato la nostra espressione artistica, spesso si è trattato di un giudizio critico su un “futuro mancato”, su un “fallimento ideale”, su un “amore perduto”. La ragione, a volte, si è perduta nel sogno perché il potenziale narrativo prevaleva sugli altri ordini semantici. Il bosco, il fiume, la casa, il monte dei dipinti di Cézanne, Kandinskij, Rousseau non erano solo elementi di un “immaginario collettivo” ma grazie ogni volta ad uno “specifico morfologico” erano quel bosco, quel fiume, quella casa, quel monte e quindi nella loro struttura specifica assumevano una identità. Ma questo è stato proprio l’opposto di ogni pratica morfologica classificatoria, massificante. Un’opposizione alla dimensione didattica della conoscenza scientifica, un privilegiare l’identità. Ma questo concetto, l’“identità” è un “potenziale immanente all’oggetto”? Io penso che sì, penso che riconoscere questo “potenziale di energia latente” depositato in un paesaggio, in un frammento, in un rudere, in un manufatto obsoleto sia mettere in campo un “desiderio di futuro” latente nel paesaggio o nel frammento o nel rudere o nel relitto industriale. Un “desiderio di futuro”, cioè di vita,
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che è proprio dell’intenzionalità artistica voler rivelare. Questo è stato il successo della così detta “arte povera”. Ed anche de “l’objet trouvé”. Il “progetto” è disvelamento di ciò che è essenziale nell’oggetto trovato, è l’essenziale e non tutto il reale dell’oggetto che diventa oggetto del progetto, non soltanto per quanto attiene alla forma dell’oggetto ma per tutto quanto riguarda la capacità che esso ha di essere “topos” nella comunicazione tra l’artista e il pubblico, in quanto segno caricabile di un portato emotivo, di uno stato d’animo oltre che di un sostegno logico. Che la nozione di “progetto”, con i meccanismi del “progetto astratto” caratteristici della nostra specie nell’attuale fase evolutiva, sia associata alla nozione di “architettura” è un dato comunemente acquisito. Le risposte sono però diverse quando ci si interroga sugli obiettivi del progetto di architettura. “Progetto di che cosa?” L’interpretazione, ripresa dagli scritti di Le Corbusier, che il progetto di architettura sia il progetto di un “outil”, progetto di uno strumento necessario per realizzare altri strumenti (abitazioni, ospedali, carceri), non accontentava nemmeno Le Corbusier che, più avanti nella vita, paragonava l’atto compositivo alla “fusione alchemica delle Nozze”, ad un incontro amoroso, di fatto riconoscendo la dimensione irrazionale che l’empatia, l’attrazione reciproca dei segni, il potenziale ermetico delle icone hanno nel procedimento concezionale del progetto. Non c’è un solo orientamento intelligente e responsabile in fatto di penitenza, salute, formazione scolastica che possa dettare le proprietà fisiche e spaziali di un carcere, di un ospedale, di una scuola senza diventare una “prefigurazione del futuro” e una “rimemorazione del passato” ben più ampia, come orizzonte ideale, del fatto che si viene concretando attraverso quel progetto. La “presenza” della vita nel luogo e nelle cose, non una “preesistenza” al progetto ma una “coesistenza”, nei segni dell’architettura, della “coscienza di ciò che è memorabile e di ciò che futuribile nella vita dell’uomo”. In “quel” luogo ed “ora”. A partire da questa intenzione la capacità analitica di riconoscere le parti che costituiscono l’oggetto esistente, la natura delle relazioni intrinseche ed estrinseche che dette parti hanno tra loro, in altre parole la “morfologia”, diventa esercizio di sperimentazione dei trapianti, dei
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montaggi, dei collages e delle metamorfosi possibili con i materiali assunti come meritevoli di una vita futura. L’intenzionalità del progetto è in fondo principalmente quella di costruire, attraverso l’emozione, il desiderio, e con l’entusiasmo, di baudeleiriana memoria, travolgere la dimensione oggettiva delle “tracce” trovate, portandole nel futuro, in un orizzonte di senso intuito, sperato, voluto che il linguaggio mostra. Cosa hanno trovato di attraente Lina Bo Bardi, John Hejduk, Guido Canella, Aldo Rossi nei gasometri, nelle vecchie officine cadenti di tanto importante da influire sul loro linguaggio? Se essi hanno trovato significativi timpani grossolani, capriate metalliche, residuati vari e diversi di una “commedia sociale” già finita o morente, tanto nella periferia di San Paolo che in quella di Milano, certamente questo non si è dato perché essi erano stati attratti dal gusto del “bric a brac”, certamente essi non erano stati mossi dall’imperativo didattico dell’archeologia industriale. Piuttosto, io credo, trovavano commovente, in quel mondo “popolare – operaio” l’assenza di luccichii, la banalità del quotidiano, la materialità dell’esistenza, e un “bisogno di libertà”, che suscita l’invenzione nell’intellettuale-architetto. I “molti sogni” della gente, delle masse che dal “progresso” erano state chiamate in città, ancorché svaniti, costituiscono l’humus comune a quei luoghi che sono i “retrobottega” della metropoli contemporanea, alle periferie in cui sono depositati i rifiuti obsoleti del progresso tecnologico insieme ad “un certo tipo di umanità”. Chi ha letto il capitolo “La cantina” ne l’“Autobiografia” di Thomas Bernhard capisce bene quanto sto dicendo. Il non-luogo “Scherzhauserfeld”, amato dal giovane Bernhard per il suo stato autentico di perdizione, è una categoria dello spirito, è “il luogo dell’umanità” presente nelle pieghe e nelle piaghe del corpo della città. Probabilmente dobbiamo dar spazio nel futuro dell’architettura e della metropoli ad una visione delle contraddizioni che sia inclusiva e non esclusiva, che sia racconto e non rifiuto. Si tratta di viverli dentro di noi, non di risolverli questi problemi. Non è questione di tecnica ma di linguaggio. L’essenza, come sempre, è il linguaggio.
Luciano Semerani Toro del Corno, 2007
Lina Bo Bardi Sedia da bordo di strada, 1967
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Firenze Architettura (1, 2015), pp. 6-11 ISSN 1826-0772 (print) ISSN 2035-4444 (online) CC BY-SA 4.0 Firenze University Press www.fupress.com/fa/
Pier Paolo Pasolini
Ritorno a Chia Nico Naldini
Dei nostri paesi amavamo tutto: la campagna frazionata secondo la varietà delle coltivazioni, i contadini che anche negli abiti della festa avevano l’odore della stalla connaturato con la loro stessa esistenza. Ogni paese aveva una roggia o più di una che si incrociavano congiungendo con dei ponticelli i cortili con gli orti e nel loro corso rivelavano gli angoli più segreti delle case. Le anatre se ne stavano immobili nel centro della corrente con le zampe che remigavano sott’acqua; sulle sponde i tacchini erano portati al pascolo dalle donne più giovani che già si guardavano intorno per capire il mondo. I ragazzi tra il lavoro dei campi e della stalla, avevano poco tempo, ma infine arrivava la domenica che ai loro abiti aggiungeva il profumo dell’incenso delle funzioni religiose. Si andava in bicicletta da un paese all’altro lungo un’unica strada di polvere e sassi. Le automobili erano rare e quando ne passava una bisognava scendere in un fosso per lasciar passare la nuvola di polvere. Amavamo i nostri paesi e la vita ci sembrava una eterna gioventù con un futuro senza variazioni se non quelle delle stagioni che irrompevano nella nostra vita cambiando orari e abitudini. A interrompere l’appassionata contemplazione della natura interveniva una volta all’anno il programma di un viaggio a Roma. Pronunciare la parola Roma allo sportello della stazione ferroviaria, era una nota trionfale. Il treno era il Roma– Vienna che per qualche minuto si fermava anche a Casarsa ma già alla prima curva dei binari sentivamo la nostalgia delle nostre case che si stavano allontanando. Si viaggiava di notte e l’alba sorgeva su Orte che dominava dall’alto. Gli etruschi sorridenti sui loro sepolcri ci davano il benvenuto e l’inno alla vita di
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campagna riprendeva qui con le note dell’alma tellus virgiliana. Quando nostro cugino Pier Paolo si trasferì a Roma aveva ventisette anni. Segnato da uno scandalo recente sognava evasioni più radicali puntando su un Oriente immaginario per ricadere nell’umiliazione di sentirsi un “Rimbaud senza genio”. Senza lavoro, mantenuto da un parente in una camera d’affitto poteva contare solo sulla libertà degli spiantati. Sia pure con qualche disperazione ne approfittò come di una vacanza perché la sua stanza dava sul Tevere e di lì passavano torme di ragazzi romani allegri e disponibili. Un giorno dopo l’altro era necessario assimilarlo questo mondo, non solo conoscerlo dall’esterno. Il giovane letterato tutto introspezione e dialettica interiore fu travolto dal vento della realtà popolare che lo spogliò dei suoi drappeggi. Con frenesia di spostamenti penetrò nel mondo dell’umiltà popolare. E quando gli elementi reali si connessero sul piano del sogno, cominciò a descriverlo questo mondo popolare con le vibrazioni di un’antica allegria. Scherno, derisione, ironia che discendevano da un grande irraggiungibile Belli. Pier Paolo arrivato sulla riva del Tevere era un giovane puro che viveva della straordinarietà delle sue percezioni. Ma il Tevere aveva il suo re, il poeta Sandro Penna che da anni aveva come unico scopo della vita di passeggiare sui Lungotevere, contornato da ragazzi con i quali si confondeva. Naturalmente furono presto amici: “Tu sei Penna.” “E tu sei Pasolini”. Aiutato dagli amici coi quali si era via via legato a Roma, Giorgio Bassani sopra gli altri, Pier Paolo cominciò a lavorare nel cinema romano ai più bassi livelli come la
Questo articolo è stato realizzato in collaborazione con Associazione Culturale Cinemazero, Pordenone Fondo Gideon Bachmann Pier Paolo Pasolini a Torre di Chia,1974 Foto di Gideon Bachmann © Archivio CinemazeroImages (Pordenone)
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revisione di sceneggiature. Collaborò anche con Fellini che gli regalò un’automobile Seicento usata con la quale cominciò ad allargare il raggio delle sue battute fino alle borgate più ignote dove i ragazzi si affollano numerosi al solito criminal bar, pronti allo scherno per il nuovo arrivato ma subito disposti a fare amicizia. L’attrazione dell’ignoto faceva volare la Seicento in cui di giorno in giorno si condensava il lezzo dei piedi dei ragazzi che Pasolini sembrava gradire come l’oppio per De Quincey. Proseguiva anche la carriera letteraria e quella cinematografica, in una strana, inedita osmosi, nel parallelo di storie romanesche tra Ragazzi di vita e Accattone. Ma qual è la storia più bella raccontata nei secoli all’umanità? La risposta non si fa attendere nell’animo del miscredente Pasolini: Il Vangelo. La lavorazione di un film prevede: un progetto, un soggetto, una sceneggiatura, la scelta degli attori e dei luoghi dove verrà rappresentato. Per gli attori nessun problema; Pasolini li ha sempre avuti sotto gli occhi; sono i “ragazzi di vita”, dai fratelli Citti, Sergio e Franco a Balilla (che morirà sulla croce nel film La ricotta) e tanti altri.
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I luoghi sono quelli che ha freneticamente frequentato in automobile e a piedi. Fa anche un lungo sopralluogo in Israele, ma la modernità del nuovo stato non gli piace e non vi trova tracce di antico. Ritorna in Italia e quello che aveva cercato nei luoghi originari di Cristo, lo trova nel Meridione italiano, in particolare a Matera. Una scena da cui tutto il film verrà illuminato è il battesimo di Cristo, l’acqua che scende dalle mani di San Giovanni. Pasolini non usa megafoni, non dà ordini perentori, non si abbandona a scene di isterismo per il minimo incaglio. Forse ricorda un’antica sentenza del mondo classico che riassume l’energia di ogni atto vitale: “Equitare, arcum tendere, veritatem dicere”. È sempre calmo, silenzioso, concentrato e pensa come uno stratega prima di dare le disposizioni essenziali. Il battesimo di Cristo. Orte ha una forma speciale, perfetta, con intorno la campagna romana rimasta intatta. Pier Paolo l’ha percorsa attratto da un’alta torre che sembra alzarsi solitaria. Avvicinandosi la scopre far parte di un’antica cinta muraria che racchiude un vasto spazio interno con numerosi ruderi. L’insieme è denominato Torre di
Chia. A lambire le mura c’è un torrente con degli sprofondi primordiali e disseminati grandi massi rotolati da antiche ere geologiche. La loro lunga esistenza di pietra ha disegnato il mondo prima dell’uomo e la sua sacralità ha deciso di farne il luogo del battesimo di Cristo. Non ricordo bene ma credo che il desiderio di acquistare questo luogo si sia realizzato come una passione improvvisa con quelle torri e cinte murarie che ricollocano la vita nel senso della sicurezza. Mentre la torre più alta e lo spazio attorno ad essa sarebbero rimasti intatti, il rudere, forse un antico corpo di guardia avrebbe avuto due aggiunte con modernissime enormi vetrate. Due ali che avrebbero racchiuso uno spazio più segreto che Pasolini aveva destinato al seppellimento del suo corpo e accanto a lui Ninetto. In un’ala la camera studio, nell’altra un salotto con divani di pelle e un caminetto. Felicità infantile di costruire castelli sulla sabbia. Ma per il suo futuro lavoro di scrittore c’è la necessità di un luogo ancora più appartato, un vasto padiglione di legno verde per mescolarsi con la vegetazione
Pier Paolo Pasolini a Torre di Chia,1974 Foto di Gideon Bachmann Š Archivio CinemazeroImages (Pordenone)
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che lo circonda; all’interno due divani e un tavolo e accanto un tavolo di inusitate proporzioni. Tavolo di lavoro, lo definisce, ma quale lavoro? Forse una mescolanza di pagine scritte, graffiti, foto di cui rimarranno solo le pagine scritte, circa seicento fogli dattiloscritti che verranno pubblicati alcun anni dopo la morte di Pasolini sotto il titolo Petrolio. Felicità del Capodanno 1974 intorno al tavolo del salotto con il caminetto acceso e poi un pranzo nella trattoria vicina e poi altri brindisi nel salotto dalle ampie vetrate che danno sul torrente e sui suoi massi erratici. Durante la serata Pier Paolo ha notato alcuni segnali negativi. Riempiendosi i bicchieri nessuno vuole fargli caso, eppure si sa delle sue superstizioni coltivate assieme a quel salbanello di Sergio Citti. Pier Paolo è impensierito, ma a noi è nota la scena di Elsa Morante che allungando due dita sulla sua fronte gli preleva il malumore come un insetto da far volare via. Pier Paolo pronuncia le parole ascoltate dagli ospiti: “Il prossimo anno sarà di carestia”. Argomento un po’ troppo biblico per le nostre menti un po’ annebbiate.
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Ma per una carambole del caso, il perfetto isolamento di Chia non è perfetto, c’è una piccola magagna. Da un angolo delle mura la vista spazia su un terreno altrui. Non si sa chi sia il proprietario ma c’è la minaccia che lì come in tanti altri luoghi vicini sorga un capannone industriale che rovinerebbe l’isolamento attentamente studiato. Quel sospetto è un’insidia. Grande sollievo di Pier Paolo quando io mi offro di cercare il proprietario del terreno e di fargli un’offerta di acquisto per nessuna altra ragione se non per mantenere intatto lo sfondo naturale. Felicità e molti complimenti all’arrivo dei primi ospiti. Mimì e Guido Piovene, Moravia, considerato di casa, Guido Davico Bonino che sta per concludere il passaggio delle opere di Pier Paolo alla Einaudi. Dal paese vicino viene assunto un custode, Troccoli, che ha un figlio adolescente amato da Pasolini che apparirà in varie scene del film Salò. Pier Paolo passava molto tempo a Chia ma la sera tornava a casa da sua madre che viveva senza sospensione della sua presenza e della sua assenza.
Pier Paolo Pasolini a Torre di Chia,1974 Foto di Gideon Bachmann Š Archivio CinemazeroImages (Pordenone)
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Firenze Architettura (1, 2015), pp. 12-15 ISSN 1826-0772 (print) ISSN 2035-4444 (online) CC BY-SA 4.0 Firenze University Press www.fupress.com/fa/
L’infinito abita a Chia La casa/castello di Pier Paolo Pasolini Maria Grazia Eccheli
Dai profondi solchi boschivi del Fosso del Rio e del Fosso di Fontana Vecchia, due orridi botri civilizzati da mano etrusca, s’innalza un brano di terra di forma triangolare il cui vertice, al confluire dei due rivi, è il virtuale centro dei due semicerchi che tracciano le geometrie difensive del medioevale castello di Colle Casale. Inarcati tra ciglio e ciglio delle convalli, i due murali allineano al loro centro due torri pentagonali - altissima la prima (42 metri), mozzata la seconda – a segnare l’ideale percorso. Un pertugio, a lato della prima torre, mette in comunicazione il fitto bosco trattenuto dal primo muro con l’ampio prato, una spianata, dove i due apparati difensivi s’affrontano e, come in un campo di torneo, sono visibili. Emergente da un fossato – dalla quota inferiore a cui si trova rispetto all’orizzonte – la torre mozza è l’ingresso all’ultimo e segreto hortus conclusus: una corte sospesa sul precipizio. Il mistero è nello sguardo, in quel traguardare sui ruderi vicini, sul lontano paesaggio visto nella luce piena del mezzogiorno, trascelto, si direbbe, dallo stesso arcuarsi delle mura: Bomarzo, Mugnano, le terre della Val Tiberina… Una Tuscia costrutta di strade, di sentieri, di grotte etrusche e di enigmatici “altari piramidali”. Un luogo alto sulle profonde convalli dove la Mola scorre, improvvisando cascate… come quella di Fosso (o del Castello) che l’immaginifica trasposizione/osmosi di PPP delle leggendarie topografie palestinesi in paesaggi italiani, trasforma in scena fissa per il Battesimo di Gesù nel Il Vangelo secondo Matteo. La capacità di vedere il mito in luoghi diversi, quasi che il genius loci di un sito possa migrare in luoghi impensati, è for-
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se alla base dell’idea di PPP di trasporre un CASTELLO – un edificio senza interni e tutto rappreso nella sua muta essenza militare da ridursi quasi a mero simbolo araldico, immodificabile a prima vista - in un’ABITAZIONE… Leggendarie del resto le “visite” dell’allievo di Longhi al mondo di Piero in Arezzo…1. Per questo la CORTE/STANZA - il prato come pavimento e per tetto le fronde degli alberi - diviene l’impluvium di una casa immaginata. Al murale di pietra senza interni, s’aggiunge una semplice addizione in legno (larghezza meno di quattro metri e tre di altezza) a raddoppiarne l’andamento falcato nel mentre riceve misure e forma dalla torre centrale che lo divide e unisce ad un tempo. L’abitare si svolge così in due ali (costruite in tempi diversi negli anni settanta). L’accesso diretto dalla corte dona il senso di stanze passanti, l’una dentro l’altra, a retaggio di un vivere antico, forse rurale e contadino. Uno sbrigativo ponte in legno con andamento a baionetta - limite tra la spianata e il privato del poeta - permette di entrare nel parallelepipedo in pietra posto alla base della torre mozza. Lì, come nelle fiabe, s’aprono, quattro porte: due individuano l’asse del castello e della casa - l’interno e l’esterno delle mura: il nord e il sud - le altre due porte contrapposte, sono al centro dello svolgersi dell’abitare: a est, la camera, il bagno e lo studio; a ovest, la camera della madre Susanna che un bagno e un cucinotto dividono dall’ampio soggiorno. Rispetto a quell’addossarsi al tracciato di pietra, il soggiorno presenta un improvviso scarto: approfittando di una breccia esistente, si allontana dal sedime delle mura per inventarsi padiglione senza pareti, tra corte e alberi, lo spazio è do-
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1 Veduta aerea del castello di Colle del Casale. Foto della collezione di Silvio Cappelli, per gentile concessione dell’autore e di Vecchiarelli Editore 2 Torre di Chia, Catasto Terreni, Comune di Soriano nel Cimino, foglio n.70 3 Disegno del prospetto nord della casa con la sola ala ovest, progetto di variante a seguito delle osservazioni della Soprintendenza ai Monumenti del Lazio. Il progetto originale, firmato dall’architetto Ninfo Burruano, fu presentato al Comune di Soriano del Cimino il 25 Marzo 1971 Pagine successive: 4 Planimetrie catastali della casa
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minato da un grande camino che, quasi a carattere eponimo, lo redime da ogni corriva filiazione. Le stanze poggiano su un basamento in sasso che accoglie i dislivelli naturali del luogo; negli interni scorre la narrazione delle pareti in pietra ritmate da strette fenditure a catturare il sole del sud. Verso la luce atona del nord, invece, le pareti a struttura di legno sono scandite da grandi vetrate che dilatano lo spazio verso l’infinito. Il CASTELLO/CASA è una sorta di teorema della luce: annidata nella eterna ombra originata dalla concavità murata, assume il ruolo di lucreziano spettatore rivolto alla piena luce della scena di paesaggi lontani, quando il “[il primo raggio di mero sole] distribuisce… agli edificî… le apparenze di abitato involucro, ch’essi sono, del gesto e della vita”2.
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La “casa come me” da PPP voluta, perseguita, “disegnata” insieme a un giovanissimo Dante Ferretti, realizzata dalle stesse maestranze che approntavano le esigenti scenografie dei suoi film, è di una modernità senza tempo. Nelle stanze amate dal p(r)o(f)eta si respira ancora il silenzio di sguardi lontani, di letture e parole scritte in laboriosa quiete; di abili pennellate su mille bianchi fogli, di presenze e assenze... Il viso assorto, le mani a correggere una risma di testi battuti con la lettera 22, il corpo indifeso in stanze di essenzialità francescana: soggetti immortalati, nella seconda settimana d’ottobre 1975, dagli scatti di Dino Pedriali …3. Nella stanza/studio, verso l’infinito, PPP aveva disposto un tavolo in legno, il Valmarana di Scarpa, e una comoda poltrona in pelle, “…vicino al camino, su un sasso squadrato reso piano da un vetro, Pier Paolo raggruppava dei libri, quelli necessari, perché - racconta Graziella Chiarcossi Cerami - portava da Roma solamente quelli che gli servivano per scrivere…”4. 1 “in settembre, con Bassani al volante della sua automobile, fa un delizioso viaggio nell’Italia Centrale, spostandosi a tappe sulle orme di Giotto e di Piero della Francesca: Firenze, Arezzo, Perugia, Todi, Spoleto…” in Nico Naldini, Pasolini, una vita, Tamellini edizioni, Albaredo d’Adige (VR), aprile 2014 [Einaudi, Torino, 1989], p.208. 2 Roberto Longhi, Piero della Francesca, 1923 3 Le fotografie di Dino Pedriali sono pubblicate in: Pier Paolo Pasolini, Fotografie di Dino Pedriali, John&Levi ed, 2011 4 Un frammento dei racconti di Graziella Chiarcossi Cerami durante il viaggio Roma-Chia. A Lei un infinito grazie per averci regalato l’emozione di percorrere le stanze amate dal cugino PIER PAOLO e per averci permesso di consultare preziosi documenti.
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Firenze Architettura (1, 2015), pp. 16-25 ISSN 1826-0772 (print) ISSN 2035-4444 (online) CC BY-SA 4.0 Firenze University Press www.fupress.com/fa/
Cronaca di un’emozione In viaggio verso l’eremo di Pier Paolo Pasolini Andrea Volpe
L’appuntamento è in Piazza Mazzini, ore 10.30. Taxi in ritardo, brevi convenevoli, un caldo già africano in una Roma di inizio maggio. “Prendi tu l’auto, guidala tu …”. Graziella sorridente ma perentoria mi porge le chiavi mentre simulo disinvoltura1. Dentro invece mi sento esplodere, di emozione, di responsabilità. Partenza. Direzione Chia. Ma bisogna prima uscire da Roma: il Foro Italico e Ponte Milvio, poi il Ponte Flaminio di Armando Brasini; quello su cui Nanni Moretti in un episodio di Caro Diario deve patologicamente passare in vespa almeno due volte al giorno. Scena che precede di pochi minuti l’altra deriva, accompagnata dalle note di Keith Jarrett, verso “il posto dove è stato ammazzato Pasolini”. Forse l’omaggio più bello: asciutto, straziante, non retorico e che con ingenuo spirito di emulazione ho compiuto anch’io, ovviamente in vespa, ai tempi del mio anno vissuto a Roma. A questo penso mentre seguo le indicazioni di Graziella per prendere l’Autostrada del Sole. Un altro pellegrinaggio dunque e frammenti sparsi di memorie e turbamento; ma al contempo la coscienza di dover rimanere laicamente lucido: dopotutto non stiamo andando a Lourdes. Cos’è dunque questa infantile emotività che a stento domino? Un inconscio desiderio di un miracolo? L’aspettativa di qualche rivelazione o profezia? Il lunotto anteriore ci rivela intanto l’intaccato profilo di Orte, uno dei set de “La forma della città”2. Il condominio incongruo che allora tanto turbava Pasolini si è inevitabilmente moltiplicato e trasformato in quartieri finto-rustici di villette dotate di tavernette d’ordinanza, in schiere di capannoni industriali prefabbricati che aggrediscono la collina e
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la piana sottostante. Eppure è ancora la Tuscia più arcaica e remota quella che ci accoglie. Nonostante i troppi sfregi edilizi, quel paesaggio è per noi -ipersensibili viandanti autostradali- ancora quello descritto nel finale del poema-confessione Poeta delle Ceneri3. Il fiume Giordano ed il Medio Oriente del Vangelo secondo Matteo si trovano difatti lì a pochi chilometri di strada, in località Torre di Chia: l’antica fortificazione altomedievale acquistata da Pasolini nel 1970 per farne eremo di scrittura del suo romanzo definitivo. Penso fra me e me che effettivamente sia un po’ difficile non pretendere da questa escursione un’esperienza sacra o come minimo un altro rito battesimale. Dopotutto ci stiamo dirigendo verso la Palestina di Viterbo, conosciuta grazie a quel film ed alla relativa mitologia con la quale siamo cresciuti4. Ma prima una sosta in autogrill, con un po’ di tensione nell’aria. Non si riescono a trovare le chiavi di casa, conseguentemente la paura di un viaggio a vuoto che svanisce solo all’arrivo, una volta oltrepassato il cancello che separa il bosco dal vasto spiazzo interno al giro di mura. Una compagnia teatrale vi prova musiche e canti. Provengono dal padiglione in legno prossimo al nucleo medievale ristrutturato da Pasolini assieme al giovane Dante Ferretti5. In quel padiglione il poeta disegnava. Il sole è alto, l’aria rovente, la luce è troppo forte e le ombre troppo scure; sicuramente la più sfavorevole delle ore per fare fotografie. Ma queste considerazioni adesso sono inutili. Il problema è un altro. Come documentare ragionevolmente l’essere lì? Come poter pensare di scattare altre fotografie dopo quelle di
Il ponticello d’ingresso scarta per salvare una quercia esistente
Gideon Bachmann, Deborah Beer e Dino Pedriali, ultimo testimone dell’intimità del focolare di Chia6? E poi le presenze, così forti nell’assenza: quarant’anni sono passati dalla morte di Pasolini, pochissimi da quella di Vincenzo Cerami. La casa è ancora chiusa, celata dal grande muro della rovina che la protegge. Inaccessibile nonostante un ponte in legno dal sorprendente carattere giapponese la colleghi, superando il vallo antistante, al pianoro dove ora rimaniamo in silenzio. E poi lo stretto varco di ingresso. Ricordi precisi di fotografie in bianco e nero attentamente studiate per comprendere quel luogo: Pasolini in posa davanti alle mura, davanti all’alta torre di Chia, in attesa davanti alla porta d’ingresso come un ospite enigmatico che ancora ci accoglie benevolente; genius loci che abiterà per sempre quella soglia. Trasfigurato nella sua casa e nel paesaggio che essa traguarda, incornicia, protegge. Tornano in mente alcuni suoi ultimi versi in dialetto tratti da La nuova gioventù; quelli dove la nostalgia della civiltà contadina friulana, la sua umile bellezza è tramutata con sapienza cinematografica nel profilo dei monti di Chia. Inquadrati dalla sequenza di finestre che, al pari di fotogrammi di un lungo piano sequenza, si volgono a Nord seguendo la traccia delle antiche mura, quasi abbracciando il lontano appennino. “I) Il soreli a indora Chia cui so roris rosa, e i Apenins a san di sabia cialda ch’al torna vuel sinq di Mars dal 1974 ta un dì di fiesta […] V) Contandìns di Chia! Zà sentenàrs di àins o zà un moment, jo i eri in vu. Ma vuei che la ciera a è bandunada dai timp, vu i no séìs in me.”7 Ecco, la porta si è finalmente aperta. Negato, desiderato, si compie infine il miracolo di oltrepassare la soglia di questa casa che è al contempo una poesia e un racconto filmico fatto di spazio, di luce, di ombra. Dunque un puro fatto architettonico. Pensato da P.P.P. quale dimostrazione apodittica della possibilità di costruzione del nuovo in virtù del profondo dialogo con la tradizione. Un’architettura che si appoggia letteralmente all’antico, alla forza del passato. È tempo di partire: ci allontaniamo da una casa il cui carattere “più moderno di ogni moderno”8 in ultima analisi è, per noi architetti troppo inclini all’entusiasmo, uno dei più autentici autoritratti di Pasolini. 1 Queste brevi note cercano di descrivere l’atmosfera del viaggio compiuto a Torre di Chia lo scorso 9 Maggio, reso possibile grazie alla gentile disponibilità della cugina di Pier Paolo Pasolini, Graziella Chiarcossi Cerami.
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2 Ci riferiamo a “Pasolini e … la forma della città”, breve cortometraggio girato da Paolo Brunatto nell’autunno 1973 per la rubrica Rai Io e … curata da Anna Zanoli, già allieva di Roberto Longhi. In merito all’attribuzione di questo piccolo film anche allo stesso Pasolini si confronti Roberto Chiesi, Lo sguardo di Pasolini la forma della città, un film di Pier Paolo Pasolini e Paolo Brunatto in www.parol.it/articles/ pasolini.htm, dove sostanzialmente si sposa la tesi sostenuta da Naldini, Contini e dal Laurencin della concreta possibilità di inclusione nella filmografia ufficiale di P.P.P. dell’episodio della rubrica Rai che aveva in Brunatto il suo stabile regista. 3 “Ebbene ti confiderò prima di lasciarti che io vorrei essere scrittore di musica, vivere con degli strumenti dentro la torre di Viterbo che non riesco a comprare, nel paesaggio più bello del mondo, dove l’Ariosto sarebbe impazzito di gioia nel vedersi ricreato con tanta innocenza di querce, colli, acque e botri, e lì comporre musica l’unica azione espressiva forse, alta, e indefinibile come le azioni della realtà” Pier Paolo Pasolini, Poeta delle Ceneri, Archinto editore, Milano, 2010 (edizione riveduta e corretta sull’originale dattiloscritto). 4 “Le riprese di ‘Medea’, che inizialmente si intitolava ‘Le visioni della Medea’, iniziarono alle ore nove del 1 giugno 1969 a Ųchisar, in Cappadocia […] il 27, la troupe, ritornata in Italia, effettuò le riprese presso il fiume di Chia, non lontano da Viterbo, sottostante un’antica torre medievale …” Roberto Chiesi, Dossier Pasolini 1969-1972, I. Le visioni barbare di Medea, in Pasolini sconosciuto, a cura di Fabio Francione, Edizioni Falsopiano, Alessandria, 2008, p. 243 5 “Ho aiutato Pasolini a costruire una casa di cristallo perfettamente trasparente e col tetto in erba, in località Chia in provincia di Viterbo: non si sa che fine abbia fatto …” in “Intervista a Dante Ferretti – Scatti corsari nel paese svelato da Pasolini”, Laura Laurenzi, Il Venerdì di Repubblica, 21 Ottobre 2011. Per altre notizie circa l’intenso rapporto che legò Pasolini alla Tuscia si confronti l’agile ed appassionato libro di Silvio Cappelli, Pier Paolo Pasolini: dalla torre di Chia all’Università di Viterbo, Vecchiarelli Editore, Manziana (Roma), 2004. 6 Per un’esaustiva presentazione/interpretazione delle foto scattate da Pedriali su richiesta di Pasolini si legga di Elio Grazioli e Marco Bazzocchi “Pasolini ritratto da Dino Pedriali” http://www.doppiozero.com/ materiali/recensioni/pasolini-ritratto-da-dino-pedriali 7 “I) Il sole indora Chia con le sue querce rosa e gli appennini sanno di sabbia calda. Io sono un morto di qui, che torna oggi 5 marzo 1974, in un giorno di festa. […] V) Contadini di Chia! Centinaia di anni o un momento fa io ero in voi. Ma oggi che la terra è abbandonata dal tempo, voi non siete in me …”, da Ciants di un muàrt dalla raccolta La nuova gioventù, Einaudi, Torino, 1975. 8 Cfr. Pier Paolo Pasolini, Poesia in forma di rosa, in Garzanti, Milano, 1964. Questi versi, letti da Orson Welles doppiato da Giorgio Bassani, compaiono nel celebre episodio La ricotta del film collettivo RoGoPaG poi Laviamoci il cervello, 1963.
Il primo livello della torre mozzata, fulcro del nucleo più interno del complesso
Il varco di accesso alla corte del Castello e l’attacco fra la torre e l’ala est della casa
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La corte del Castello e l’ala ovest della casa
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Lo studio di Pasolini nell’ala est ed il soggiorno nell’ala ovest Foto di Andrea Volpe
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Firenze Architettura (1, 2015), pp. 26-33 ISSN 1826-0772 (print) ISSN 2035-4444 (online) CC BY-SA 4.0 Firenze University Press www.fupress.com/fa/
Toshiko Mori Thread The Sinthian Center: the Albers Cultural Center and Artists’ Residency Michelangelo Pivetta
Il filo di Arianna “Mille passi cominciano sempre da uno.” Proverbio dell’antico popolo San.
L’Africa racchiude il segreto dell’uomo, celando, almeno nella sua parte più originale, tutto ciò che l’umanità rappresenta, ogni bellezza e ogni tragedia. Chiunque abbia avuto modo di accedere alla conoscenza di questo segreto non potrà mai dirsi uguale a prima. L’Architettura, che ovunque è la forma di espressione più evidente e virale dell’uomo, in Africa non lo è; lì l’Architettura, quella originale, perde qualsiasi valore iconico per ridursi magnificamente al solo carattere di necessità. Essa lascia il ruolo ordinatore al caso e quello di funzione allo svolgimento di problemi minimi: ripararsi dalla pioggia o difendersi da altri uomini o animali. Eppure la storia africana ci ha consegnato memorie di imperi antichi e immensi e la conoscenza delle loro architetture eroiche, ma l’evoluzione involutiva imposta negli ultimi trecento anni dall’uomo bianco ha sbarrato la strada al naturale percorso di crescita di centinaia di milioni di persone. Nell’ambito di una specie di pietoso - nel senso della pìetas - percorso di ricucitura e riavvicinamento tra civiltà bianca e nera si inseriscono alcune preziose collaborazioni. Necessaria per lo svolgere di queste è la realizzazione di altrettante architetture in grado di contenerle. Talvolta queste architetture, soprattutto nei tempi più recenti, investite di ruoli che travalicano la semplice funzionalità, riescono a divenire parametri di una rinascita culturale e sociale, accompagnata dalla sincronica presa di coscienza del valore univoco della propria autonoma identità. Il Senegal tra tanti paesi dell’Africa subsahariana può essere ritenuto tra i fortu-
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nati sostenitori di un equilibrio miracoloso sospeso tra tensioni tribali e dinamiche geopolitiche internazionali e ora anche religiose. A questo ha certamente contribuito lo spesso substrato di intellettuali e artisti che il paese ha, nel tempo, coltivato e incentivato. L’Ecole de Dakar, il Festival Mondial des Arts Nègres, la Biennale di Dakar sono i nodi attorno ai quali fin dagli anni Sessanta si concretizzano esperienze collettive di espressione, condivisione e divulgazione trans-tribale e transreligiosa, alimentando una particolare e sostanziale coscienza di se in quanto libertà e comunione di popolo. Nell’ambito di questa capitalizzazione socio-culturale sul territorio si inserisce Thread. Opera che ha come principale obbiettivo quello di accogliere, per potenziarle, comunità di artisti locali altrimenti disperse sul vasto e difficile territorio del paese africano. Toshiko Mori, dopo l’intensa attività che l’ha vista impegnata in realizzazioni immerse nei melliflui paesaggi della East Coast americana, si è dedicata a questo inedito impegno progettuale con una rinnovata capacità propulsiva. Certamente questo incarico ha potuto rendere concreto l’impegno da sempre profuso, come membro del World Economic Forum Council, nell’ambito della teoria che l’Architettura sia ovunque una delle risposte più adeguate alla soluzione dei problemi sociali. La realizzazione in una zona rurale del Senegal di un centro culturale per le arti e gli artisti appare come uno dei temi ai quali ogni architetto dovrebbe ambire. Ideare un’architettura funzionale allo svolgimento di attività legate alle arti in un luogo disagiato per un popolo assetato di cultura e bisognoso di luoghi dai quali evangelizzarla, racchiude in se
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Thread - The Sinthian Center: the Albers Cultural Center and Artists’ Residency Sinthian, Senegal 2014 Progetto: Toshiko Mori Architect, New York Foto: © Iwan Baan Photography B.V., Amsterdam
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ogni ingrediente fondamentale dell’idea intima del fare Architettura. L’architetto newyorkese ha svolto il tema sagacemente, sfruttando ogni problematica a proprio vantaggio e introducendo nel complesso progetto un’impostazione in equilibrio tra memoria, tradizione, innovazione, semplicità di realizzazione con tecnologie locali e condivisione delle inedite matericità che il palinsesto del costruire africano ha messo a disposizione. Una grande copertura realizzata utilizzando il tipico thatch africano - tetto costruito intrecciando steli di quello che noi, nella sua declinazione africana, chiameremmo falasco - assolve alla funzione di oggetto architettonico principale, ma anche a quella di raccolta dell’acqua, rifornendo circa la metà del fabbisogno idrico dell’intero villaggio. Questo velo abbraccia, proteggendoli dal sole e dalla pioggia, gli spazi sottostanti che si articolano secondo un apparentemente casuale susseguirsi di pieni e vuoti attorno a volumi aperti e spazi chiusi, concettualizzati non solo per una precisa funzione ma anche secondo una aspirazione di indefinita utilità. Al pari delle geometrie di interazione tra le abitazioni di un qualsiasi agglomerato rurale dell’Africa sub-sahariana, anche
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qui le relazioni avvengono in maggioranza all’aperto, in quegli spazi interstiziali che la saggezza endemica di un’urbanistica spontanea antica di millenni riesce a farli divenire luoghi prediletti della socializzazione e della vita delle comunità tribali. Allo stesso modo le regole dell’edificio seguono lo svilupparsi delle tensioni compositive ideate da Toshiko Mori un una dinamica morbida, aritmica ma volutamente persuasiva, accompagnando per mano l’uomo senza alcuna esitazione. Scarto compositivo fondamentale è la proposta planimetrica nella quale l’architetto giapponese gioca con le forme del costruito tradizionale. Scambia infatti le gerarchie usuali, svuotando e scoprendo gli spazi circolari che normalmente identificano un pieno e copre gli spazi interstiziali che al contrario di solito sono il connettivo interstiziale all’aperto. Efficaci i riferimenti utilizzati per realizzare la struttura del tetto e le porzioni di parete destinate alla microventilazione, dove l’architetto utilizza espedienti mnemonici destinati a suggerire l’origine di scelte tecniche dichiarate come necessarie. Questa prassi, comune nei grandi progetti, definisce la possibilità di lettura di un progetto attraverso più stratificazioni a
seconda della scala di interazione scelta dall’osservatore. Il primo di questi espedienti riguarda la struttura del tetto che, accennando alle origini nipponiche del suo ideatore, è realizzata attraverso la legatura di pali di bambù secondo una tecnica simile a quella dei Gassho¯ tipici delle Minka del Giappone rurale. Un atto non trattenuto di firma, quasi non rintracciabile, ma evidente e imperituro. Il secondo riguarda il disegno delle pareti ventilanti che partecipa, assieme alla geometria del grande tetto, alla falsa immagine di precarietà che la struttura vuole in alcuni punti comunicare. Ma non solo, vuole contestualizzare la memoria del committente, o per meglio dire promotore, attraverso la riproduzione ideale di una delle sue grafiche Op-art. Infatti è grazie all’impegno economico ed organizzativo della Josef & Anni Albers Foundation che tutto ciò è stato reso possibile. Roberto Filippetti ha recentemente ben esplicato con il termine di modernità ibrida il senso di certa parte di architettura africana contemporanea. Qui sembra perfettamente calzabile invece il concetto di una ibridazione protesa verso la necessità di esistere e fiera portatrice di
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quel senso di sana povertà originato da un’architettura essenziale ma al contempo declinata in modo perfetto. Nella generazione di progetti come Thread ciò che importa anche è l’aspetto collaborativo della costruzione, la sua crescita all’interno di un gruppo sociale o di un luogo geografico, il suo uso per ciò che sarà in grado straordinariamente di fare, determinando, ancora una volta, come l’Architettura sia ineguagliabile strumento per creare civiltà. Thread significa filo, ma non solo, anche nel nome la profondità di lettura può essere altra. Un filo può essere elemento unitario in grado di generare organismi infinitamente più complessi. Un filo ha la capacità di legare, tessere, connettere. Thread è un Filo di Arianna in grado di intrecciare le comunità utilizzando il significato dell’arte per accrescerne la coscienza e la cultura; un vettore capace di condurre fuori dalle tenebre di un labirinto di povertà e radicalismo rinsaldando il rapporto con la propria identità attraverso il saggio linguaggio di un’architettura legata al contesto in cui si radica. Questo è l’inizio di un lungo percorso del quale Thread è il primo indispensabile passo.
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Pagine precedenti: 1 L’edifico nel paesaggio subtropicale del Senegal 2 Inquadramento planimetrico dell’area di intervento 3-4 I grandi vuoti coperti predispongono alle attività ricreative e artistiche all’aperto 5 Pianta: il disegno dei vuoti genera le necessarie geometrie anche per la raccolta dell’acqua piovana 6 - 7 - 10 I grandi spazi coperti ripropongono moltiplicandole le caratteristiche della cultura architettonica dei villaggi africani 8 Mock-up delle pareti in laterizio la cui tessitura richiama geometrie Op-Art 9 Prospetti: La grande copertura continua si contorce come un unico oggetto generatore di spazi
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Firenze Architettura (1, 2015), pp. 34-43 ISSN 1826-0772 (print) ISSN 2035-4444 (online) CC BY-SA 4.0 Firenze University Press www.fupress.com/fa/
Aires Mateus 1
Quando costruire povero diventa lusso Maria Grazia Eccheli
Nella spiaggia degli Alberoni, al Lido di Venezia - lontano dai sovraccarichi saloni dell’Hotel des Bains - Luchino Visconti disegna una corte di sabbia disponendo ad U semplici cabine di legno; con tende a righe bianche e grigio/azzurre sorrette da esili sostegni, amplifica poi quell’ombra necessaria a incanalare la brezza del mare nelle afose ore di ozio. Nel film più proustiano di Visconti, dove si consuma il desiderio di Gustav “von” Aschenbach per l’efebo Tadzio, la corte di sabbia è abitata da semplici sdraio e midollini, dai fruscii dei bianchi vestiti di donne riparate da ampli cappelli, dall’incedere di una elegantissima quanto pallida e silenziosa Silvana Mangano… . L’atmosfera dello “scendere a mare”, declinata da scarni utensili sulla sabbia, la leggerezza che proviene da un rigoroso lavoro, dalla memoria, da saper fare con poco e bene, sembrano migrare - in una stagione dominata dal fare troppo, dal fare male - dalla laguna di Venezia nell’Alentejo. Incanto e disincanto in un lembo di terra incuneato tra l’estuario del Rio Sado e l’oceano, un parco naturale dove pare non siano ammesse nuove costruzioni… Quattro capanni di pescatori dal caratteristico tetto di paglia - due costruiti in muratura e due con struttura in legno e canne - divengono le “CASAS” di COMPORTA, nel restauro-trasformazione dei Mateus. L’idea di progetto, il dialettico criterio dei temi attinenti al ri-uso, è già nell’interpretazione dei quattro edifici: disposti a semicerchio a formare una corte di sabbia aperta sul mare, sono pensati come le diverse stanze di un’unica abitazione [di un abitare l’estate].
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La loro divisione/distinzione, causa forse dell’analitica attribuzione di destinazioni - tre di essi, infatti, divengono camere - viene esibita ma contemporaneamente ricomposta da passerelle in legno che scorrono loro tangenti sopra la sabbia rovente, quasi a ribadire l’unificante morfologia della corte. Tutte le aperture rivolte al cortile si trasformano in porte, a esprimerne il ruolo di impluvium quasi definito da un virtuale portico inesistente. Se il restauro delle due case in muratura - un letto e un bagno in ciascuna - consiste in un adeguamento termico mediante il raddoppio della muratura, trasfigurate dall’impagabile intonaco bianco a restituire la luce oceanica, l’adeguamento delle due case in legno, per complessità, sembra essere all’origine dell’idea stessa del progetto. Le due case/stanze in legno sono state smontate e rimontate secondo un’attenta interpretazione di antiche tecniche costruttive del luogo, col risultato che la nuova struttura lignea, identica all’interno come all’esterno, diviene spazio e decorazione allo stesso tempo. Le canne, alternate e sorrette da correnti di legno orizzontali, caratterizzano l’elegante (semperiana?) texture di tutte le pareti. Ma la nuova interpretazione del luogo ha il suo vertice nella casa/stanza dove ci si incontra: dell’ultimo capanno, è la sabbia a “costruire”, proseguendo nell’interno, la pavimentazione. Così il camminare a piedi nudi sulla spiaggia continua dentro dove sprofondano divani coperti da bianchi teli. Forse per la forma archetipica degli edifici, un che di ancestrale e attuale al tempo stesso - assieme ad evocazioni di teoremi illuministi sulla capanna
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Casa na Areia Comporta, Portugal 2010 Architects: Aires Mateus Coordinator: Maria Rebelo Pinto Collaborator: Humberto Fonseca Client: João Rodrigues Photographs: © Nelson Garrido
Cabanas no Rio Comporta, Portugal 2013 Architects: Aires Mateus Coordination: Maria Rebelo Pinto Collaborators: Luz Jiménez, David Carceller Photographs: © Nelson Garrido
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Pagine precedenti: 1 Il luogo 2 Le case col tetto di paglia 3-4 Piante, prospetti e sezioni 5-6 Dettagli costruttivi e texture della facciata 7 La sabbia entra nella stanza
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come modello originario - s’aggira attorno ai quattro edifici, donando loro una sorprendente profondità... . Poco lontano i Mateus nel costruire due cabanas, sembrano voler continuare il prezioso paesaggio della Reserva Natural do Estuário do Sado. Un paesaggio di acqua e palafitte: una laguna/estuario che le maree dell’oceano mutano incessantemente, alternando allo splendore degli azzurri di cielo e acqua il grigio
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sabbioso dei fondali di intricati ed invisibili canali da cui fuoriesce un bosco di palafitte. Un mondo di legno per camminare sull’acqua, per l’attracco di piccole barche e abitato da capanni e pescatori. Due piccoli parallelepipedi costruiti con assi di legno di recupero disposti in verticale. I due volumi acquistano sicurezza nel paesaggio declinando la propria individualità attraverso quasi invisibili gesti: un disassamento tra le due giaciture che contemporaneamente mette in risalto
l’affinità e diversità della geometria dei tetti dettata da inclinazioni necessarie per lo smaltimento dell’acqua piovana. Anche qui si tratta di una endiadi funzionale: le due piccole stanze - di circa 10 mq ciascuna – sono infatti complementari, un capanno contiene il letto e i servizi che, sorprendentemente, ne costituiscono anche l’ingresso e sono apribili verso il pieno paesaggio; il secondo è dedicato alla zona giorno... delle assi poste sulla spiaggia uniscono i tempi - il
giorno e la notte – mentre un percorso in legno porta a un vecchio pontile, il vero confine tra terra e acqua. L’unità di materiale (il legno antico), la modalità della sua messa in opera - la sincerità della struttura caratterizza interno ed esterno - dona al tutto una unità cromatica che sorprendentemente si compone con l’orizzonte quasi invisibile.
diceva LC del suo conosciutissimo Cabanon, prefabbricato in Corsica e trasportato in nave a Cap Martin, non lontano dalla casa degli amici Eileen Gray e Jean Badovici,... A Roquebrune, in un percorso che arriva quasi al mare tutto era piccolo: la porta, la scala e l’accesso alla cabina tra vigneti. Solamente grande il sito: una splendida baia con ripide scogliere.
Ho costruito sul mare un castello, di 3,66 x 3,66 metri, per mia moglie,
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Pagine precedenti: 8 Schizzo di progetto 9 - 11 - 12 Il paesaggio: Estuรกrio do Sado e cabanas 10 Pianta
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13 - 14 - 15 -16 Fuori e dentro assi di legno di recupero
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Firenze Architettura (1, 2015), pp. 44-51 ISSN 1826-0772 (print) ISSN 2035-4444 (online) CC BY-SA 4.0 Firenze University Press www.fupress.com/fa/
Maria Giuseppina Grasso Cannizzo La casa sognata Alberto Pireddu
Nel 1942, Ernesto Nathan Rogers affidava alle Confessioni di un anonimo sulle pagine di “Domus” la descrizione della sua casa sognata, una casa bellissima, “tiepida” e degna dimora della vita dell’uomo: Questa è la mia casa ideale: lontano dalla tua, quanto basti per cantare stonato e da te non udito, eppure così prossima ch’io ti possa salutare agitando le mani e tu mi risponda. Cresce dal suolo come una pianta ed è tuttavia sovrana della natura, prepotente orma dell’uomo. Un pezzo di terra in basso e in alto un pezzo di cielo: tra gli infiniti fiori, qualcuno profuma solo per me e, nella notte, un quadrato di stelle – tra le infinite – per me s’accende. Muta volto la mia casa al volgere delle stagioni; muta le fronde rinnovellandosi ad ogni primavera; d’estate ha la frescura dei boschi; colorata d’autunno, si lascia ammantare d’inverno dalla neve e sotto germina la mia famiglia in attesa del sole. Le pareti siano limiti al mondo esterno, non ostacoli: s’aprano tutte al di fuori, si chiudano, si socchiudano: occhi con palpebre e ciglia o, forse, pori che l’universo respirino e gli umori nocivi trasudino. La mia casa è un corpo, come il mio corpo, custodia ai dolori e alle gioie, accanto al tuo confine. In compenetrabili corpi1.
Il sogno di Rogers pare materializzarsi a poca distanza da Noto, in Sicilia, in una piccola casa di vacanza progettata da Maria Giuseppina Grasso Cannizzo2. Qui, tra i mandorli e gli ulivi di un dolce declivio verso il mare, due volumi funzionalmente e formalmente distinti si compenetrano sotto lo stesso tetto: la “casa padronale”, con la sua solida struttura di calcestruzzo armato, e il corpo di ferro della “residenza per gli ospiti”. Quest’ultima, dotata di un meccanismo
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che ne determina il movimento su binari metallici, anima la vita della casa, proteggendola durante l’inverno e consentendole di schiudersi all’arrivo della bella stagione quando, col primo sole, le pareti finalmente si aprono a illuminare gli interni. Sulla loggia dalle dimensioni mutevoli, il grande soggiorno e la stanza da letto padronale incontrano l’enfilade delle pertinenze degli ospiti. La loggia è uno spazio dall’atmosfera rarefatta, una stanza rivolta verso il mare e sospesa su una griglia metallica. L’edificio, infatti – ricercando una continuità di quote con alcune preesistenze e nel tentativo di traguardare l’orizzonte marino, oltre le chiome degli alberi – non tocca la terra, ma si eleva su travi di calcestruzzo saldamente ancorate alla collina, mentre un supporto d’acciaio sostiene le carpenterie metalliche di scorrimento del volume mobile e la relativa scala di accesso. Eppure la casa ha “radici proprie”3, racchiude un mondo privato sottratto a sguardi indiscreti, perché nessuno possa carpirne il segreto. Il progetto riassume alcuni punti chiave della poetica di Maria Giuseppina Grasso Cannizzo. Tra essi, la messa in discussione della firmitas vitruviana attraverso lo spostamento, la contrazione e l’espansione del corpo dell’architettura e l’idea che questa non sia per sempre, ma dotata di una di “una propria vita, che ad un certo punto si spegne”4, una convinzione che pare trovare eco nelle parole di Rogers “Non eterna chiedo che sia la mia casa, ma come un abbraccio, chiusa”5. Gli stessi materiali utilizzati denunciano l’accettazione di una impossibile eternità – il calcestruzzo, che ormai è prodotto in funzione della vita utile prevista per un
FCN.2009 Noto 2009-2011 Progetto: M. Giuseppina Grasso Cannizzo Progetto esecutivo: M. Giuseppina Grasso Cannizzo S. Ingrao Strutture e impianti: Icp srl, Pro.ge.co. s.r.l., G.M.G. s.r.l. Foto: © Armin Linke, 2012
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Pagine precedenti: 1 Il ‘guscio’ chiuso della casa foto © Armin Linke, 2012 2 La casa e la collina, sezione schematica 3-4 Lo schiudersi della casa attraverso lo scorrimento del corpo mobile foto © Armin Linke, 2012 5 Posa in opera del corpo mobile della casa foto Studio M. Giuseppina Grasso Cannizzo 6 Pianta della casa (aperta) nel suo rapporto con l’orografia della collina
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Pagine precedenti: 7 - 8 - 9 - 10 Posa in opera delle travi di sostegno e delle pareti di calcestruzzo armato del volume principale della casa; posa in opera delle carpenterie metalliche di sostegno/scorrimento e della struttura metallica del corpo mobile della casa foto Studio M. Giuseppina Grasso Cannizzo 11 Pianta e prospetto a valle della casa, studio delle carpenterie metalliche e dei pannelli di calcestruzzo armato 12 Piante e sezioni trasversali della casa, studio degli impianti 13 Il corpo mobile della casa, studio dei pannelli esterni di rivestimento e delle aperture 14 Il corpo mobile della casa, sezione esecutiva trasversale 15 - 16 La loggia e il grande soggiorno aperti verso il paesaggio foto © Armin Linke, 2012
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edificio, il gasbeton dei tramezzi, l’okumè delle pareti ventilate – come pure gli apparati meccanici destinati a una inevitabile obsolescenza tecnologica. Materiali ‘poveri’, o quantomeno ‘ordinari’, facilmente reperibili in commercio e talvolta memori di un mondo industriale, che l’architetto sperimenta in numerose occasioni, accostandoli poeticamente. Accade, per esempio: nella Torre di controllo a Marina di Ragusa6, nella quale una scatola di vetro è sospesa su due volumi opachi esternamente definiti da un rivestimento di assi di legno e pannelli di zincotitanio; nella Casa per vacanza a Scoglitti7 il cui corpo di calcestruzzo armato confonde le proprie imperfezioni con quelle delle stratificazioni del paesaggio abusivo circostante mentre porzioni di armature non incluse nel getto sostengono i contenitori dei letti sospesi; nella Casa unifamiliare a Ragusa8, dove la scelta dell’acciaio per la pensilina e le scale esterne palesa
la volontà di rendere riconoscibili le parti aggiunte rispetto al lavoro di sottrazione sul volume principale e al reimpiego dei cumuli di macerie per creare un nuovo, diretto, rapporto con il giardino. Poi, la profonda attenzione per la vita dell’uomo e le trasformazioni che essa produce sull’architettura che, in un continuo mutare delle regole del gioco, non può raggiungere un assetto definitivo. È questa, in fondo, la grande idea che sottende il progetto editoriale del libro Loose Ends, recentemente pubblicato, con la sua trama scomponibile all’infinito e i suoi fogli impossibili da ordinare, in una totale abolizione di ogni struttura codificata. Il volume è esso stesso un’architettura di “misure, norme, appunti, desideri, richieste....”9, un castello di carte, bianche o già scritte, mai uguale a se stesso. Del resto, per citare Gaston Bachelard, la casa sognata non può essere definitiva,
perché se così fosse, in essa l’anima non potrebbe “trovare la sua vasta vita”10: Forse è bene conservare una riserva di sogni nei confronti di una casa che abiteremo più tardi, sempre più tardi, tanto più tardi che non avremo il tempo di realizzarla11. 1 Ernesto Nathan Rogers, Confessioni di un anonimo del XX secolo. 9° La casa dell’Anonimo, in “Domus” n. 176, agosto 1942, p. 333. 2 Maria Giuseppina Grasso Cannizzo, Loose Ends, Lars Müller Publishers, 2014, FCN.2009. 3 Ernesto Nathan Rogers, op. cit. 4 Maria Giuseppina Grasso Cannizzo, Sulla lingua, in donn’Architettura, a cura di Maria Grazia Eccheli, Mina Tamborrino, Milano, FrancoAngeli, 2014, p. 269. 5 Ernesto Nathan Rogers, op. cit. 6 Maria Giuseppina Grasso Cannizzo, Loose Ends, cit., PMR2.2008. 7 Maria Giuseppina Grasso Cannizzo, Loose Ends, cit., GNS.2002. 8 Maria Giuseppina Grasso Cannizzo, Loose Ends, cit., SPR.2001. 9 Maria Giuseppina Grasso Cannizzo, Sul processo, in Id., Loose Ends, cit. 10 Gaston Bachelard, La poetica dello spazio, Bari, Edizioni Dedalo, 2006, pp. 87-88. 11 Ibid.
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Firenze Architettura (1, 2015), pp. 52-59 ISSN 1826-0772 (print) ISSN 2035-4444 (online) CC BY-SA 4.0 Firenze University Press www.fupress.com/fa/
Elemental Da Quinta Monroy a Conjunto abitacional Violeta Parra Francesca Privitera
Quinta Monroy è il nome dell’agglomerato abusivo, composto da 97 famiglie, che si sviluppò a partire dagli anni ’60 nel centro di Iquique, una città nel deserto di Atacama nel nord del Cile. Alla fine del 2001 il governo incarica Elemental, guidato dall’architetto Alejandro Aravena, di pianificare un insediamento destinato alle famiglie della Quinta Monroy. Il progetto è sviluppato nell’ambito del programma Vivienda Social Dinámica sin Deuda, destinato alle fasce più povere della popolazione. Il programma prevede una spesa di 7500 dollari per unità abitativa compresi l’acquisto del terreno e le opere di urbanizzazione primaria. Tale cifra permette di realizzare circa 30 mq. per abitazione in terreni con valore di mercato quasi nullo. La conseguenza è l’allontanamento delle residenze sociali dai centri cittadini, l’affollamento, l’abbassamento della qualità architettonica e urbana il degrado fisico e sociale degli insediamenti. La proposta di Aravena si basa sull’inversione di tali presupposti. Le famiglie sono re-insediate sullo stesso terreno occupato illegalmente per circa trent’anni. Il disegno urbano è composto da isolati residenziali sviluppati intorno a corti aperte comuni. È previsto il coinvolgimento attivo dei futuri abitanti attraverso laboratori di progettazione partecipata e interventi in autocostruzione. Le abitazioni di circa 36 mq. sono concepite come mezza casa da completare successivamente. Nel 2004 sono consegnate agli abitanti della Quinta Monroy le chiavi delle loro abitazioni. L’insediamento, nel giorno dell’inaugurazione, appare in costruzione. La struttura realizzata non è la
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soluzione finale, è un’opera aperta, promessa di spazio e di vita, sospesa tra presente e futuro, tra la sostanza del costruito e l’incertezza di quello che verrà. La parte “consegnata” alle famiglie, dalla composizione elementare, nel senso etimologico del termine, realizzata con il supporto della prefabbricazione, costituisce il palinsesto sul quale avverrà l’accrescimento del complesso insediativo. Essa determina l’orientamento per i futuri sviluppi delle abitazioni realizzati dagli abitanti in autocostruzione. La standardizzazione integrata con forme urbane spontanee e con i laboratori partecipativi di progettazione darà origine ad una forma urbana condivisa dalla comunità, non sovrimposta a priori ma frutto dell’integrazione feconda tra iniziativa pubblica e cittadini. L’omologazione degli elementi industriali rigenerati dall’azione creativa umana dell’autocostruzione, invece che generare monotonia e straniamento costituiranno, come nelle sperimentazioni americane di Walter Gropius sulle case in serie aumentabili1, il presupposto di un’etica comunitaria e di una possibile dimensione umana dell’industria. L’utilizzo della prefabbricazione nel progetto per la Quinta Monroy non determina rigidi schemi abitativi ma costituisce la regola necessaria sulla quale innescare la vitale trasgressione dell’autocostruzione, dando origine ad un modello di accrescimento esemplare per le successive sperimentazioni che prevedono l’integrazione di interventi abitativi informali. Gli ampliamenti, che riflettono le esigenze individuali delle famiglie, colmano i vuoti di un edificio poroso2 incidendo sia sull’immagine architettonica delle singole residenze sia su quella spaziale
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Quinta Monroy Iquique Chile 2003-2004 Progetto: ELEMENTAL Alejandro Aravena Andrés Iacobelli Alfonso Montero Tomas Cortese Emilio de la Cerda Committente: Chile Barrio program, Chilean Ministry of Housing and Urban Development Foto: © Tadeuz Jalocha © Takuto Sando © Cristobal Palma
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Pagine precedenti: 1 Dicembre 2004. Vista del complesso residenziale “consegnato” agli abitanti. L’ossatura sulla quale avverranno gli ampliamenti autonomi da parte di ogni famiglia foto © Tadeuz Jalocha 2 Pianta del primo piano. La configurazione di insieme con isolati aperti su corti comuni garantisce il miglior utilizzo del suolo coniugando flessibilità e regolarità 3 Giugno 2006. Vista delle residenze dopo gli interventi di autocostruzione foto © Cristobal Palma 4-5 Modello assonometrico. La struttura realizzata garantisce al suo interno gli ampliamenti delle abitazioni da 36 mq. fino a 72 mq. coniugando ordine e variazione
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6 Dicembre 2004. Lo spazio delle corti comuni foto © Tadeuz Jalocha 7 Giugno 2006. Gli interventi di autocostruzione definiscono in modo sinergico l’immagine architettonica di ogni singola residenza e quella spaziale delle corti foto © Takuto Sando 8 Vista dell’accampamento abusivo Quinta Monroy al centro della città di Iquique 9 Vista del complesso residenziale Quinta Monroy re-insediato sullo stesso terreno. Le corti di forma circa quadrata non sono solo spazio di circolazione bensì spazio pubblico e di relazione
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10 Dicembre 2004. Con il finanziamento pubblico sono realizzate tutte le parti che difficilmente le famiglie avrebbero potuto realizzare da sole foto Š Tadeuz Jalocha 11 Giugno 2006. L’interno di una residenza completata in autonomia dai suoi abitanti foto Š Cristobal Palma
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delle corti comuni, luoghi d’interazione tra dimensione individuale e collettiva. Le variabili di flessibilità, come le chiama Gregory Bateson3, previste all’interno dell’insediamento di Iquique sono tali da permettere, come in un organismo biologico sano, la crescita del sistema evitandone il collasso, a differenza di quanto succede nelle altre periferie sudamericane, nelle quali l’autocostruzione provoca un accrescimento urbano patologico tendente alla saturazione dello spazio. Al contrario a Iquique, la costruzione individuale diventa costruzione collettiva di una riscattata identità urbana e sociale,
lo spazio che ne deriva rispecchia senza mistificazione la società che lo realizza richiamando alla memoria quel principio etico di lealtà dell’architettura invocato da Ruskin oggi spesso dimenticato. Il progetto di Elemental non è solo la risposta immediata ad un problema abitativo, il suo DNA è urbano, è costruzione di valori condivisi, libertà, uguaglianza, democrazia. Dalla radice della Quinta Monroy, in un tempo contratto tra oggi e domani germina il senso della città, sigillato dalla dedica del complesso residenziale all’intellettuale e artista che ha dato voce ai diritti del popolo cileno e
che ne ha ricostruito l’identità attraverso la ricerca delle radici più profonde. Da questo momento la Quinta Monroy sarà conosciuta come Conjunto habitacional Violeta Parra. 1 Cfr. G. C. Argan, L’architettura di Gropius in Inghilterra e in America, in Walter Gropius e la Bauhaus, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 1988. 2 Cfr. A. Aravena, A. Iacobelli, Elemental: manual de vivienda incremental y diseño participativo, Hatje Cantz, Ostfildern, 2012 3 Cfr. G. Bateson, Ecology and Flexibility in Urban Civilization, in Steps to an Ecology of Mind, Chandler Publishing Company, 1972
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Firenze Architettura (1, 2015), pp. 60-67 ISSN 1826-0772 (print) ISSN 2035-4444 (online) CC BY-SA 4.0 Firenze University Press www.fupress.com/fa/
Volpe + Sakasegawa
Sotto il vulcano Una casa italiana nel sud del Giappone Andrea Volpe
“E così, contro la volontà del capitano della nave e dei marinai, fu giocoforza venire in Giappone. In tal modo né il demonio né i suoi ministri poterono impedire la nostra venuta, e così Dio ci guidò in queste terre, dove tanto desideravamo giungere, il giorno di Nostra Signora d’Agosto dell’anno 1549. E senza poter approdare in un altro porto del Giappone, arrivammo a Kagoshima, che è la patria di Paolo di Santa Fé, e dove tutti ci ricevettero con molto amore, tanto i suoi parenti come coloro che non lo erano.”1 San Francesco Saverio sbarca in una delle più importanti città del sud del Giappone sette anni dopo la “scoperta”2 del paese del Sol Levante da parte di alcuni mercanti portoghesi fortunosamente approdati nella vicina Tanegashima, una delle principali fra le isole O¯sumi. L’area di Kagoshima diviene dunque alla metà del XVI secolo la porta principale per l’accesso al misterioso paese di Zipangu, la cui esistenza fu resa nota all’occidente dalle pagine de Il Milione di Marco Polo. È in questa regione del Kyushu, la più meridionale delle quattro isole maggiori che compongono l’arcipelago nipponico, che per la prima volta si introducono nell’Impero del Tenno¯ sia gli archibugi portoghesi che il proselitismo militante della Compagnia di Gesù. Da Kagoshima proviene infatti anche Bernardo. Discepolo di Francesco Saverio, egli è considerato il primo gesuita giapponese a giungere a Roma nella seconda metà del XVI secolo3. Dominata dall’imponente profilo di uno dei vulcani più attivi del Giappone, il Sakurajima, che frequentemente la ricopre di nera polvere lavica, affacciata sulla grande e profonda baia di Kinko, l’antica
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capitale del dominio di Satsuma ha ritrovato quegli antichi legami mediterranei divenendo fin dal 1960 la prima città giapponese gemellata con una città italiana. Ambedue meridionali, ambedue con simili caratteristiche paesaggistiche e geografiche, Kagoshima condivide con Napoli non solo la presenza del profilo di un vulcano e l’affaccio su un golfo ma anche la medesima spontaneità di costumi e di carattere degli abitanti, così lontani dalla sofisticata e fredda eleganza degli abitanti di Tokyo e Kyoto. Una disponibilità al confronto con gli altri ed un culto dell’ospitalità tipici di un porto di mare del sud, o meglio, di tutti i sud del mondo. È qui, ad una sola ora di shinkansen4 dal Palazzo costruito da Aldo Rossi a Fukuoka, che il caso ha regalato l’occasione per costruire questa piccola architettura. Prossima alla nuova stazione ferroviaria dei treni ad alta velocità, vicinissima a Napoli-Dori, la Via Napoli5, il boulevard principale della città e posta in un lotto di alto valore immobiliare in virtù della sua posizione centrale, la casa doveva costituire per la committenza un preciso esercizio di identità architettonica italiana. Cosa non facile, dovendo impiegare la tradizionale tecnologia del legno che offre spessori murari di appena 10 centimetri e non potendo nemmeno prevedere una corte od un patio, dato il costo del terreno e le non rare piogge di cenere. Si è dunque scelto di lavorare per opposizione dialettica. Inserita in un tessuto edilizio di poca qualità, costituito dalle consuete abitazioni nipponiche che mai possono condividere fra loro muri o strutture per le note esigenze sismiche e di sicurezza contro gli incendi; parzialmente circondata da alti palazzi residenziali che impediscono
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Casa nel Kyushu Kagoshima, Japan 2011-2014 Progetto: Andrea Innocenzo Volpe Yoichi Sakasegawa Collaboratrice: Uema Ayaka Committente: Sanyo House Company Ltd Foto: Andrea Volpe
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Pagine precedenti: 1 Il cantiere della casa durato solamente sei mesi (foto Š Ryuji Kiguchi) 2 Dettaglio del paramento ligneo della facciata 3 La casa ed il tessuto edilizio prossimo alla linea ferroviaria che collega Kagoshima con Ibusuki 4 Esploso assonometrico 5 La sala a doppia altezza e la tatami room 6-7 Gli affacci interni e il doppio volume della sala 8 Lo specchio orientabile che riflette gli alberi del parco nella camera matrimoniale 9 Le chiome degli alberi inquadrati dalla grande finestra aperta sul doppio volume della sala 10 Piante del piano terreno e del primo piano
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ogni veduta della baia e del vulcano, essa si presenta come un primo possibile nucleo di una tipologia a schiera in cui due semplici volumi accostati ospitano, l’uno gli elementi distributivi e di servizio, l’altro gli spazi principali. Compresa la tatami room, la stanza in stile giapponese canonicamente dotata di pavimento in paglia di riso e tokonoma6. Rivestita in legno scuro, come le tradizionali dimore di campagna o come le kurofune, le nere navi dei mercanti portoghesi, la casa interpreta il tema dell’oscurità delle antiche magioni descritte da Jun’ichiro¯ Tanizaki nel Libro d’ombra, rovesciandola all’esterno; a guisa di scura concrezione lavica perforata dalla grande finestra aperta sul doppio volume. Occhio da cui traguardare gli unici alberi presenti nel vicino parco; l’ultimo brandello di paesaggio qui sopravvissuto al sempre mutevole scenario edilizio della città. Una laconica verde presenza, inquadra-
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ta e riflessa in una sorta di mirino fotografico posto nella camera da letto matrimoniale -vera e propria camera ottica- grazie al vecchio trucco dello specchio mobile che
L.C. usò nel Cabanon. Un altro paesaggio è invece evocato all’interno dell’abitazione: l’immagine di un bianco villaggio mediterraneo, dove perfino l’alta sala, sagomata in negativo come una casa dentro alla casa, può diventare una piccola piazza e le pareti interne facciate di case, da cui si affacciano balconi e si ritagliano finestre. Aperte verso altre intimità o verso l’azzurro del cielo. 1
Da “Ai compagni residenti in Goa (Kagoshima, 5 novembre 1549)”, prima lettera di San Francesco Saverio ai Fratelli Gesuiti del Collegio di Santa Fé di Goa, India; traduzione dallo spagnolo secondo la trascrizione dell’originale avvenuta in Malacca nel 1550, in Francesco Saverio, Dalle terre dove sorge il sole. Lettere e documenti dall’oriente, introduzione e cura del volume di Adriana Carboni, Roma, Città Nuova Editore, 2002, p. 323.
2 Difficile parlare di “scoperta” del Giappone. Secolari difatti i rapporti, culturali, commerciali e gli inevitabili conflitti che legarono ben prima dello sbarco dei portoghesi la terra del Sol Levante a Cina e Corea. 3 Bernardo da Kagoshima è uno dei primi convertiti al cristianesimo al di fuori del nucleo familiare di Paolo di Santa Fè, il laico sodale di Francesco Saverio noto come Hanjiro¯. Ex- samurai, annoverato come il primo giapponese a raggiungere l’India, Hanjirô entrò nella missione gesuita del Collegio di Goa dove conobbe Francisco Xavier divenendone successivamente uomo di fiducia e suo interprete personale una volta raggiunto il Giappone. Bernardo da Kagoshima, anch’esso un samurai, accompagnerà invece sulla via del ritorno in India Francisco Xavier e da qui proseguirà per Lisbona dove sbarcherà nel Settembre 1552. A Roma arriverà invece nel Gennaio 1555, rimanendovi fino all’Ottobre del medesimo anno incontrandovi Ignazio di Loyola. Sempre dal Kyushu, ed esattamente dal porto di Nagasaki, partirono invece nel 1582 i quattro giovani ambasciatori che raggiunsero l’Europa in un epico viaggio che li riportò in Giappone dopo ben otto anni. Sbarcati a Lisbona nel 1584, i quattro legati raggiunsero Livorno il primo marzo 1585 proseguendo poi per Pisa, Firenze, Siena, Roma (dove parteciparono alla cerimonia di elezione al soglio pontificio di Sisto V) e poi per Assisi, Bologna, Ferrara, Venezia, Padova, Milano e Genova da dove salparono in direzione di Barcellona sulla via del ritorno per Lisbona. Il passaggio da Vicenza e la loro visita al Teatro Olimpico di Palladio inaugurato quello
stesso anno è ivi ricordato da un affresco monocromo del Maganza del 1596. Per un’esaustiva ricostruzione storica dell’impresa si veda Michael Cooper, The Japanese mission to Europe 1582-1590 The journey of four samuray boys through Portugal, Spain and Italy, Global Oriental, United Kingdom, 2005. 4 L’apertura della linea ad alta velocità (la traduzione letterale di shinkansen è nuovo tronco ferroviario ma il termine indica oramai per estensione i convogli super espressi della Japanese Railway, la cosiddetta JR) che collega Hakata-Fukuoka con Kagoshima dal 2011 ha di fatto rilanciato la città, in passato tagliata fuori dallo sviluppo economico del Kyushu, trasformandola in meta privilegiata per il crescente turismo interno. 5 Parimenti a Napoli, come omaggio a quel patto di gemellaggio stipulato 55 anni fa, troviamo nell’elegante quartiere del Vomero una Via Kagoshima. 6 Il tokonoma è la nicchia ricavata nella washitsu, la stanza in stile tradizionale in cui si conservano generalmente un’iscrizione calligrafica ornamentale, il kakemono, e un ikebana, una raffinata composizione floreale.
11 - 12 Le finestre interne e la libreria integrata in uno dei due parapetti 13 Il quartiere di Take e la tatami room dall’osservatorio interno 14 La camera matrimoniale come come camera ottica
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Firenze Architettura (1, 2015), pp. 68-73 ISSN 1826-0772 (print) ISSN 2035-4444 (online) CC BY-SA 4.0 Firenze University Press www.fupress.com/fa/
Arrigoni Architetti
Bamiy ¯ an ¯ Cultural Centre - Afghanist ¯ an ¯ Fabrizio Arrigoni
Laggiù The silence, it was all, it was everything Philip Levine, Yakov
Laggiù è l’ultima propaggine dell’altopiano iranico od anche l’estremo possedimento del subcontinente indiano od anche la periferia meridionale delle vaste steppe dell’Eurasia; Laggiù è la perduta regione detta a¯vaga¯na nella radice etnica presente nei testi sanscriti e che qualcuno ha fatto corrispondere allo Ap’o-chien di Hsüan-tsang. Laggiù fu contrada di inizi, di lenti cominciamenti: Bactra per Erodoto - o Balkh o Wazirabad - nel nord, a ridosso dell’Oxus, primo rifugio del profeta Zoroastro nell’Età del ferro, città «Madre di tutte le città» per i cartografi arabi, ed ora anello di mura e torri, Ba¯la¯ Hisa¯r, a protezione di sabbia, vento e avanzi di colonne scanalate di un tempio di stampo ellenistico. Solo a meridione i possenti bastioni ancora resistono; altrove a fatica si distinguono dalla terra da cui sono sorti. «Was ist eigentlich Aura? Ein sonderbares Gespinst von Raum und Zeit: einmalige Erscheinung einer Ferne, so nah sie sein mag. An einem Sommermittag ruhend einem Gebirgszug am Horizont oder einem Zweig folgen, der seinen Schatten auf den Betrachter wirft, bis der Augenblick oder die Stunde Teil an ihrer Er - scheinung hat - das heißt die Aura dieser Berge, dieses Zweiges atmen»1. Cos’è dunque l’aura se non una commistione, una combinazione singolare di spazio e di tempo. E poi il sentimento, potremmo anche dire la percezione elementare e diretta di una distanza, di una fuga lungo l’ascisse geografica e l’ordinata storica difficile da colmare. Prima ancora che penetrazione nella trama dei
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dati oggettivi - topografia, grandezze, programmi - il progetto è rapporto con tale condizione auratica e con il movimento di allontanamento, di graduale sfocatura e dissolvimento che le inerisce. Provincia di Ba¯miya¯n nel distretto centro orientale dell’Haza¯rajat. Una stretta striscia pianeggiante si allunga per oltre venti chilometri attorno ad un affluente del Qundu¯z, da cui trae il nome; a chiudere l’orizzonte il profilo luminoso dei nevai perenni del Kuh-i Ba¯ba¯, un annuncio della catena dell’Hindu¯ Ku¯sh. Numerosi sono i luoghi che serbano traccia delle dominazioni trascorse - Fu¯lu¯di, Kakrak, Shahr-I Ghulghula, Shahr-I Zuhak - ma la meraviglia di queste contrade sono i quasi mille e ottocento metri di balza fittamente traforata che cinge la valle a settentrione: 750 grotte variamente decorate secondo l’amalgama di motivi persiani, indiani e del Gandha¯ra. Sono il fossile di un viha¯ra e del soggiorno durato quattro secoli di una comunità di fedeli-termiti2. Il complesso monastico, favorito dall’impero turco occidentale, era poi come condensato attorno a maestose sculture, le cui fogge richiamavano quelle scavate nella viva roccia a partire dal V secolo a Yungang nei pressi della capitale Tatung, sotto la Dinastia Wei Settentrionale3. Il Buddha Vairocana, «che è simile al sole», alto 55 metri e, a circa un chilometro di distanza, il Buddha S´a¯kyamuni, alto 38 metri; tra i due uno di scala inferiore nella posizione seduta, forse risalente al III secolo. Il celebre pellegrino cinese Hsüan-tsang quando giunse nel 630 riferì che le sfavillanti dorature degli stucchi che completavano i rilievi abbagliavano l’occhio del visitatore e che in un vicino tempio era possibile ammirare un Buddha Parinirva¯n.a la cui lunghezza
UNESCO - Islamic Republic of Afghanist ¯ an ¯ Bamiy¯ ¯ an Cultural Centre Design Competition 2015 Progetto: Marco Arrigoni Fabrizio Arrigoni Damiano Dinelli Landscape design: Marinella Spagnoli Gruppo di progettazione: Valerio Cerri Valentina Satti Giovanni Tanini Pietro Torricini
Pagine precedenti: 1 Vista del centro culturale dalla grotta di un eremo 2-3-4-5 Studi, dai quaderni neri 6 Vista del centro culturale da valle Pagine successive: 7 Sala delle esposizioni 8 Vista esplosa: logica della costruzione
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superava i 30 metri4. Il 26 febbraio 2001 mulla¯ Mohammed Omar, guida religiosa dei cosiddetti t. a¯leba¯n, ingiunse la cancellazione di ogni immagine pre-islamica all’interno dei territori controllati dalla milizia; dal 2 al 26 marzo la campagna iconoclasta investì anche i giganti della collina, dissolvendoli in una nube cinerea di polvere e detriti5. La collina Chawni sorge a ridosso del rivo Foladi. La sommità è un pianoro spoglio spezzato da un brusco ribasso di circa dieci metri: una sorta di proscenio spalancato sulla rupe che ospitava i Buddha. La nuova costruzione giace sul margine settentrionale del lotto, al filo dello strapiombo. Nella precisione geometrica dei suoi lineamenta e nel dominio dell’asse orizzontale è analoga ai qala, i diffusi
insediamenti rurali. La disposizione planimetrica distingue con chiarezza una stecca di servizio - stanze per lo studio, laboratori, magazzini - dalle aree a vocazione collettiva: sala delle esposizioni, auditorio, aule per la didattica, sala del tè; l’ala ad occidente è interamente occupata dai locali dell’amministrazione. L’edificio è organizzato su un unico livello e la tipologia delle strutture è doppia al pari di quella distributiva. A pareti possenti pakhsa - si affianca una teoria di 35 setti ad arco. I setti ruotano tra loro di 40° al fine di guidare lo sguardo verso i due grandi anfratti, arrestandosi sul fronte in modo da ritmarne la sintassi. La ragione costruttiva fa sì che per le murature portanti siano stati scelti i mattoni cotti khesht-i-pukhta mentre per le tampona-
ture i khesht-i-kham essiccati al sole. Le ampie vetrate sono scandite da infissi in cedro secondo un disegno attinto dalla tradizione e schermate da ruvidi tendaggi di cotone chiaro. Le quattro aule sono ambienti circolari coperti a cupola - una traslitterazione della gunbad domestica. La volta, forata al suo apice, è finita con il kahgil, una mescola di fango e paglia; le rimanenti parti presentano coperture piane sorrette da strutture lignee. La scarsa disponibilità di energia elettrica ha comportato una grande cura nelle morfologie delle aperture. A meridione l’intera fabbrica è protetta da una filigrana in pietra - jaali - che custodisce un giardino di rose damascene e rampicanti: un filtro naturale per garantire trasparenze, ombra, ventilazione. Il sostanziale monocromatismo
dell’insieme è interrotto solo da pochi inserti vegetali ed in prossimità degli ingressi da inserzioni lignee patinate con pigmento di lapislazzuli. Nel tessere in comune ordito saperi locali e culture allogene, resistenti arcaicità e contraddizioni contemporanee la composizione si offre in guisa di processo, prassi soggetta a indefinito perfezionamento: Kunst ist, mit andern Worten, vollendende Mimesis6. 1
Walter Benjamin, Kleine Geschichte der Photographie (1931) in Gesammelte Schriften II, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1977; p. 378. 2 «Since leaving the Oxus plain we had risen about 6000 feet, and the colours of this extraordinary valley with its cliffs of rhubarb red, its indigo peaks roofed in glittering snow and its new-sprung corn of harsh electric green, shone doubly brilliant in the clear mountain air. Up the side-valleys we caught sight of ruins and caves. The cliffs paled. And there suddenly, like an enormous wasps’ nest, hung the myriad caves of the Buddhist monks, clustered about the two giant
Buddhas.» Robert Byron, The Road to Oxiana (1937), Penguin Classics, London, 2007; p. 314. 3 Warwick Ball, The Monuments of Afghanistan. History, Archaelogy and Architecture, I. B. Tauris, London - New York, 2008; p. 85 e segg. 4 «golden hues sparkle on every side and its precious ornaments dazzle the eye with their brightness (...)», Si-Yu-Ki, Buddhist Records of The Western World. Translated from the Chinese of Hiuen Tsiang (A.D. 629) by Samuel Beal, Book I, London, 1884; p. 51. Del favoloso Buddha sdraiato non si ha, ad oggi, alcun riscontro archeologico. 5 Per un’acuta lettura di quegli avvenimenti cfr. Jamal J. Elias, The Taliban, Bamiyan, and Revisionist Iconoclasm, sta in: Striking Images, Iconoclasms Past and Present a cura di S. Boldrick, L. Brubaker, R. Clay, Ashgate Publishing Limited, Farnham, 2013; pp. 145-165. 6 Walter Benjamin, Varia zum “Kunstwerk”, Archiv Ms 399, in Gesammelte Schriften I, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1974; p. 1047.
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Firenze Architettura (1, 2015), pp. 74-81 ISSN 1826-0772 (print) ISSN 2035-4444 (online) CC BY-SA 4.0 Firenze University Press www.fupress.com/fa/
Aris Kostantinidis e la casa ad Anávyssos Un’offerta al paesaggio Fabio Fabbrizzi
Nel 1962 Aris Konstantinidis riceve l’incarico di progettare una piccola casa per il fine settimana da costruirsi ad Anávyssos, al quarantottesimo chilometro della strada costiera che collega Atene con il promontorio di Capo Sunio. A quel tempo la condizione paesaggistica di quel tratto costiero, incarnava nel rapporto tra l’essenzialità della natura e la semplicità dei pochi volumi dell’architettura, quella caratteristica di autenticità che Konstantinidis rincorrerà come obiettivo principale della sua ricerca progettuale fin dal suo rientro in Grecia dopo il giovanile periodo tedesco di formazione. Una ricerca percorsa attraverso strade diverse nelle quali la fotografia e il disegno costituiscono gli strumenti privilegiati di una lettura analitica volta a mettere in luce i caratteri della natura e dell’architettura spontanea del paesaggio greco in modo da orientare lo sguardo e la comprensione verso quella forza insita nei luoghi che solo la dimensione mitologica riesce a cogliere e a tramandare. Il terreno prescelto da Papapanayotou, committente della casa di Anávyssos, si trova a una decina di chilometri dal tempio di Poseidone i cui resti si ergono sulla scogliera di Capo Sunio a dominare il mare che il mito vuole che prenda il nome da Egeo, re di Atene che proprio in quel punto si gettò tra le onde a causa della presunta morte del figlio Teseo. Il luogo dell’intervento -una lingua di roccia a pelo sull’acqua, sospesa tra terra e cielo, nel mezzo di un paesaggio incontaminato- non è solo un luogo di straordinaria bellezza, ma anche un luogo denso di aspettative, portatore cioè, di una latenza figurale e paradigmatica di immensa forza, stemperata oggi dall’offesa della moltitudine di villette e
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di attrezzature ricettive che ne alterano irreversibilmente il senso primordiale, ma che più di cinquanta anni or sono, doveva apparire a Konstantinidis in tutta la sua sfavillante e primitiva latenza. Ci piace, così, immaginarlo allora -come lui stesso amava raccontare1- seduto su una pietra a respirare il luogo, a sentirsi parte di quell’insieme di cui la luce, la terra, l’acqua e l’aria ne sono solo una piccola parte, sentendosi appartenente a quel grande disegno “non umano” che l’ha reso possibile, come se quel luogo, come qualunque altro luogo, altro non fosse che il respiro del mondo voluto da un dio benevolo solo per essere colto nell’attimo stesso della sua consapevolezza. E mentre questa consapevolezza si deposita, immaginarlo tracciare contro il cielo luminoso, i segni chiari di una possibile geometria, capace di organizzare il senso di un ritmo arcano, di una misura elementare ma nello stesso tempo assoluta, fatta di nulla ma capace di accogliere il tutto dentro di sé. Una volta progettato mentalmente l’edificio direttamente sul posto, al tavolo da disegno rimane, allora, solo il tempo di fissare la concretezza di una forma che è “nata con il suolo”. È nata con il suolo ma è anche nata da quel patrimonio in costante formazione che Konstantinidis arricchisce, fotografia dopo fotografia, schizzo dopo schizzo, osservazione dopo osservazione e basato sul serbatoio spontaneo dei riferimenti dell’architettura cosiddetta popolare, che fa si che la sua progettualità possa porsi oltre il tempo in autentica assonanza con le cose, in vibrante comunione con schemi, figure, temi e tipi che si mantengono inalterati nelle diverse epoche. Solo così è possibile parlare di tradizione, di regionalismo e finanche di critica alla
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1 Il paesaggio visto dal loggiato Pagine successive: 2 La casa subito dopo la realizzazione 3-4 Vedute esterne 5 Interno: lo spazio soggiorno verso il camino 6 Pianta 7 Vista laterale 8 La casa oggi foto Marianna Giannatou
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modernità nell’opera di Konstandinis, ovvero come sensibile interpretazione di una possibile “struttura” che altro non è che una sorta di ideale che ne precede e anticipa la forma, la cui declinazione linguistica è in fondo meno importante della forza che la determina. Durante il 1964, sulla lingua di roccia protesa nel mare di Anávyssos, Konstantinidis radica un piano rettangolare di scisto grigio di 18,50m x 9,50m posato a lastre di grandi dimensioni disuguali tra loro, quasi uno stilobate affiorante dal terreno, le cui fondazioni sono formate dalla stessa pietra scavata sul posto. Su di esso, erge un volume che svela l’essenza del mégaron miceneo, ovvero un’aula rettangolare individuata da quattro colonne angolari con il focolare posto al centro, attorno al quale si sviluppa l’articolazione dei vari ambiti. La geometria della casa si offre fin dal primo sguardo in tutta la sua nudità, basando le misure del suo perimetro generale in un disegno che contiene un vo-
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lume parallelepipedo di 14,50m x 6,00m e un rimanente portico ad “L” che ne abbraccia due lati. Il volume delle stanze è impostato su una griglia di 2,00m x 5,00m a cui si aggiungono gli spessori delle murature, mentre il porticato è impostato su una griglia di 3,00m x 4,00m, segnato da possenti porzioni murarie di 2,00m e 4,00m di lunghezza che si alternano ad aperture di uguali dimensioni. Tutta la muratura esterna è realizzata con grandi conci di pietra montati a filari irregolari con la particolarità di utilizzare, secondo la tradizione costruttiva rurale, i pezzi migliori sugli angoli in modo da avere delle porzioni di muratura maggiormente definite e nitide nei propri andamenti verticali. Una lastra di calcestruzzo a travi rovesce in spessore, alta 50 cm e realizzata a filo esterno con le murature, conclude in alto l’edificio i cui locali interni risentono dello schiacciamento simbolico di questa superficie, essendo alti solo 2,40m. Quindi, lo spazio compresso dell’interno, ulterior-
mente dilatato nella direzione orizzontale dall’incombente superficie scabra del calcestruzzo in vista dell’intradosso della copertura, lascia sfuggire con facilità lo sguardo verso le grandi aperture protette da pannelli scorrevoli di legno tinto di verde oliva, a vedere la forma discontinua delle colline rocciose da un lato e la linea continua di connessione tra il cielo e il mare, dall’altro. La distribuzione interna ruota attorno alla presenza di un camino centrale che divide il soggiorno dal pranzo, mentre una cucina si affaccia su una piccola loggia autonoma e una camera con letti a castello comunica con un piccolo bagno. La dimensione essenziale della casa, pensata come buen retiro per un militare di professione, suggerisce la sensazione del rifugio, la figura del riparo, la protezione dalla luce abbagliante e dal vento incessante, la comunione con la materia dell’intorno, tanto che la casa appena finita, vista nelle foto d’epoca, appare quasi come una concrezione naturale
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della roccia, corrosa dal vento e dalla salsedine. Tutto questo, dando tuttavia la possibilità di vivere all’aperto la maggior parte della giornata, utilizzando lo spazio intermedio del portico, inteso quale luogo di mediazione tra l’intimo raccoglimento dell’interno e la vastità dell’esterno. Sobrietà, dignità, semplicità, eppure al contempo assolutezza, astrazione, simbolo, paiono essere i vari estremi dell’ampio campo di definizione all’interno del quale oscilla la lettura interpretativa di questa piccola opera, nella quale prima di tutto il resto, conta l’impeccabile sovrapposizione tra la dimensione formale e quella della sua costruttività, dove la tecnica è pura forma e la forma è pura tecnica, in un reciproco rimandarsi che è figura e che è sostanza e che ne costituisce il nucleo più prezioso, quello cioè che si impone sopra tutte le altre possibili sovrastrutture interpretative. Nella sapiente semplicità della casa, pare convergere la forza dell’archetipo, il senso originario dell’avere un tetto
sotto cui ripararsi e allo stesso tempo, l’espressione di una delle declinazioni più asciutte che quel particolare segmento temporale individuato immediatamente dopo l’assertività del Moderno abbia potuto manifestare nell’incontrarsi con il senso arcaico di un luogo carico di tutta la propria carica ancestrale. Va da sé che per Konstantinidis fare architettura è un processo corale, nel quale attraverso l’opera, affermare una propria visione del mondo. Un mondo autentico, fatto di quotidianità e di obblighi e divieti, di regole certe e di consuetudini che altro non sono che l’affinarsi di una sensibilità che allea l’uomo alla terra e in questa alleanza, “la vera architettura deve essere comoda, come lo è una scarpa, avere il sapore del pane bene impastato e deve crescere sulla terra come gli alberi, gli arbusti e i fiori.(…) L’architettura a differenza della dura e crudele scientificità, possiede una dimensione artigianale e manuale, attraverso la quale riesce a esprimere e dare forma agli insegnamenti di vita, per
come questi si formano a contatto con le vie tortuose e sconosciute del destino”2. Quindi una visione fatalista la sua, assolutamente in linea con lo spirito e l’animo greco, dove il senso dell’umano è quindi anche quello dell’architettura considerata come una delle sue più alte espressioni, appare sempre da cogliersi in relazione ad una dimensione altra. Ma guardando l’itinerario progettuale e teorico di Kostantinidis, non si registra nessun provincialismo, nessuna tipicità legata alla dimensione folkloristica di una serie di caratteri appartenenti alla specifica identità greca, quanto piuttosto, un respiro ampio che va ben oltre il ristretto confine di una terra e che fa apparire questo itinerario straordinariamente in sintonia con la migliore lezione progettuale europea del secondo dopoguerra. In particolare quella italiana, nella quale la riscoperta della verità, della realtà, dell’autenticità e della semplicità diventano i nodi concettuali e operativi attraverso i quali si indica la via di una
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progettualità maggiormente rispettosa delle molte voci che le diversità dei luoghi hanno da indicare al comporre a chi possiede l’umiltà di saperle ascoltare. “In un bel progetto, il disegno complessivo dell’edificio e i suoi dettagli fanno parte di una composizione armonica, come se tutte le sue parti fossero intrecciate con il medesimo punto di vista; il dettaglio si identifica con il disegno generale e quest’ultimo, a sua volta, accetta nel suo grembo il dettaglio senza paura, come se fosse parte di se stesso. Una architettura con una statura e una forma che ha raggiunto una compiutezza compositiva e con tutti gli elementi che formano un organismo ben ordinato, si colloca nel paesaggio come se si trovasse in quel sito da sempre, come se si fondessero in un momento, vecchio e nuovo, contemporaneo e passato, come se si identificasse l’opera di oggi con quello che verrà costruito nel futuro”3. Tra lo sciabordio della risacca, il frinire della cicala, l’odore del mirto e la luce a picco sui muri petrosi, la poesia di questo approccio progettuale si è manifestata nelle nitide geometrie di questa casa costruita da un architetto come una vera
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e propria “offerta al luogo”. Offerta subito disattesa, in quanto solo due anni dopo la sua realizzazione, in seguito anche alle molte critiche negative dell’entourage del proprietario che giudicava la sua architettura troppo banale e non visibile nel paesaggio, la casa viene venduta ad una famiglia di armatori che la trasformano nel capanno degli attrezzi della villa volgare ed esuberante che immediatamente le costruiscono accanto.
1 Cfr. Konstantinidis A., “Alcune parole ancora”, in: Cofano P., Aris Konstantinidis la figura e l’opera, Libraccio Editore, Milano, 2012, pp. 97-103. 2 Cfr. Konstantinidis A., Op. Cit. 3 Cfr. Konstantinidis A., Op. Cit.
L’autore desidera ringraziare Marianna Giannatou, per la preziosa collaborazione nel reperimento del materiale originario, per avere fotografato la villa nella condizione attuale e per avere tradotto alcuni dei principali scritti teorici di Aris Konstantinidis, indispensabili per meglio comprendere il suo pensiero e la sua opera. Tutte le immagini d’epoca sono tratte dall’articolo: Κωνσταντινίδης, Αρης, (1971), Κατοικία για διακοπές στην Ανάβυσσο / Summer house near Sounion, ΘΕΜΑΤΑ ΕΣΩΤΕΡΙΚΟΥ ΧΩΡΟΥ ετήσια επιθεώρηση/ DESIGN IN GREECE annual review, 2, pp. 34-38 per il quale si ringrazia il EIA (Hellenic Institute of Architecture - Istituto Ellenico dell’Architettura) che ha rilasciato l’autorizzazione alla pubblicazione delle suddette immagini.
Firenze Architettura (1, 2015), pp. 82-89 ISSN 1826-0772 (print) ISSN 2035-4444 (online) CC BY-SA 4.0 Firenze University Press www.fupress.com/fa/
Un eremo borghese Le case ad Arzachena di Marco Zanuso Francesca Mugnai
“Monti di Mola” è ormai solo il titolo di una canzone di Fabrizio de Andrè, che narra di una terra selvatica dove sboccia un amore difficile tra un bel giovane e un’asina bianca. Quando Marco Zanuso viene incaricato nel 1962 di costruire una coppia di case per vacanze ad Arzachena, la colonizzazione turistica della Sardegna è appena iniziata e quella parte di territorio conserva ancora il nome originario, Monti di Mola (“sassi da macina” in dialetto gallurese). Le poche famiglie che abitano le campagne si disfano volentieri dei terreni costieri, malarici e improduttivi, fino a poco prima considerati gli scarti del patrimonio familiare. Gli stessi committenti di Zanuso, tra cui il fratello dell’architetto, partiti da Milano alla ricerca di un luogo per costruirvi la casa al mare, fanno conoscenza, già sulla nave, col proprietario che venderà loro i terreni1. Ma l’edificazione del litorale è destinata ad assumere in breve tempo altre dimensioni e altre connotazioni. Negli stessi anni è istituito il Consorzio Costa Smeralda, che cambierà per sempre nome e carattere di quella terra vergine, aspra e indomabile, prescelta da un principe orientale per farne impunito mercimonio. Antonio Cederna subirà un processo per diffamazione per aver denunciato il disastro e le colpe: “È in atto il tipico sfruttamento turistico di rapina: l’urbanizzazione cervellotica della costa, la sua trasformazione in un ininterrotto nastro edilizio che alterna nuclei di gran lusso a lager balneari di infima qualità, che stronca ogni continuità tra litorale e entroterra, che privatizza quanto dovrebbe essere accessibile a tutti, che chiude il mare in gabbia e degrada irrimediabilmente il prestigio
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naturale dei luoghi, cioè la stessa materia prima del turismo”2. Se gli scempi “in stile” dell’occupazione smeraldina hanno l’obiettivo programmatico di cancellare l’originale selvatichezza della costa per offrire la garanzia di una domesticità falsa e opulenta, il progetto di Zanuso, al contrario, accoglie e rielabora tutta la rusticità della terra sarda, per offrire all’Ulisse moderno un riparo temporaneo (giusto la durata di una vacanza) dagli agi e gli obblighi della vita borghese, in una comunione con l’elemento naturale che ricorda il talamo di Penelope costruito dal suo sposo sul ceppo di ulivo. Le due case gemelle sorgono a poca distanza l’una dall’altra con differente orientamento per seguire la linea della costa. La pianta è un recinto quadrato di 15 metri di lato, suddiviso in nove ulteriori quadrati, di cui solo i quattro angolari sono stanze, mentre uno intermedio è parzialmente occupato dai servizi igienici e dal forno3. La parte che rimane libera forma una corte atipica, cruciforme, dove lo spazio centrale è rimarcato da una grande pergola di legno e stuoie, stesa come un velario da un muro all’altro. Qui è il fulcro della casa, il focolare domestico, dove infatti sono simbolicamente collocati il forno e il tavolo rotondo, che ha per piano una macina di granito. Apparentemente introversa, la casa in realtà si apre all’esterno proprio per mediazione della corte, che guarda il mare e il profilo lontano della costa attraverso la cornice di un grande portale. La corte come elemento di “carattere” dell’abitazione è quasi una cifra zanusiana (si pensi, ad esempio, alle ville coeve di Arenzano), ma qui il ricorso alla tipologia è ambiguo. L’impianto planimetrico è
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Tutte le immagini sono conservate presso: Mendrisio, Archivio del Moderno fondo Marco Zanuso 1 Vista d’insieme dal mare (A, FOT 002-4) 2 Schizzo planimetrico (A, FOT 061-41A) Pagine successive: 3 Veduta di una delle due case (A, FOT 002-5) 4 Il paesaggio dalla corte (A, FOT 002-2) 5 Pianta (A, FOT 002, 1D, Ln 21-1) 6 La corte con la pergola (A, FOT 002-3)
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infatti una costruzione geometrica astratta, non riconducibile ad alcun modello e tuttavia ispirato ai tipi abitativi mediterranei (la casa greca, romana, islamica) nel duplice rapporto che hanno gli spazi di vita con l’esterno: diretto con l’esterno domestico, mediato con quello pubblico. Tale ambiguità è ribadita dall’ampliamento successivo di una delle case, affidato a due volumi con pianta circolare che evocano l’immagine del nuraghe, ma si innestano sull’esistente secondo una sintassi non ascrivibile alle regole del tipo. Nelle stanze l’arredamento è ridotto all’essenziale, com’è nello spirito del progetto, e formato da elementi fissi che si integrano alla struttura della casa. Letti e sedute, per esempio, sono realizzati in muratura e tavole di legno, mentre le ante delle porte sono alloggiate, quando aperte, dentro un’impronta scavata nel
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muro. Così tutto concorre alla costruzione di questo moderno eremo laico che “ridefinisce e reinventa l’idea contemporanea di mediterraneità”4, come ha osservato Francesco Cellini. L’immagine dei volumi tozzi in riva al mare, coi muri spessi di granito e l’unica grande porta (più di rocca che di casa), evoca un mondo arcaico e favoloso di greggi e di pastori, di maghe e di naufraghi: il mito omerico del Mediterraneo, appunto, che il paesaggio disegnato da Zanuso ripropone con la potenza disorientante del deja-vu (inteso proprio come fenomeno psichico). Nella sintesi operata nelle case di Arzachena siamo cioè in grado di riconoscere un’ immagine che in realtà non abbiamo mai visto, né in Sardegna né altrove, ma che ci appare familiare perché capace di riassumere, e soprattutto trasmettere con linguaggio
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moderno, secoli e strati di nostra Storia. All’inizio nelle case, ancorché concluse, si usano lampade a petrolio per illuminare, acqua di cisterna per lavarsi e gas da campeggio per cucinare: non c’è alternativa nella Sardegna di quegli anni, ma anche questo fa parte del progetto, dell’idea di dimora ancestrale che Zanuso insegue su richiesta dei committenti. Non è più tempo di sfide contro le forze della natura, come quella ingaggiata da Villa Malaparte, che guarda il mare dall’alto e ridisegna il profilo della roccia: trent’anni dopo, certo del dominio sul mondo, l’uomo borghese sfida se stesso, concedendosi il lusso paradossale di rimanere nudo, per provare la propria capacità di resistere alla privazione del “benessere” e del “comfort”, ricorrendo però ancora alla natura come parametro delle sue forze. Il percorso qui seguito da Zanuso pre-
senta affinità con i programmi dell’allora nascente Arte Povera, che scava alle radici storico-antropologiche della cultura mediterranea alla ricerca di un antidoto contro l’omologazione, e oppone alla pletora di oggetti imposta dalla civiltà dei consumi l’“uso povero del necessario”5. Come le opere “poveriste”, le case di Arzachena, per quanto rustiche e primitive, in realtà sono destinate a chi vive immerso consapevolmente nella cultura cittadina. Lo stesso Zanuso, designer al servizio dell’industria per la produzione di oggetti che del consumismo sono il simbolo, nel 1972 costruirà per sé una piccola casa in Grecia, a Paxos, ispirata agli stessi principi di austerità. Forse una sua personale “Itaca” che incarna l’aspirazione, di uomo e di architetto, a non perdere di vista l’essenza delle cose, inclusa la verità degli oggetti: “Il vizio vero è la
tecnologia dimezzata”, afferma Zanuso in una intervista del 1988, “la tecnologia, cioè, non portata alle sue conseguenze finali, che sono poi quelle liberatorie, di ritorno alla natura e all’umanità”6. 1 Notizie sulla genesi della casa si trovano in M. J. Zanuso, Casa ad Arzachena, Marco Zanuso, in “Lotus International” n. 119, 2003. 2 A. Cederna, Hanno messo il mare in gabbia, in “L’Espresso”, 10 settembre 1966. 3 Per un’analisi approfondita della costruzione geometrica della pianta cfr. A. Calgarotto, Il cielo nella stanza. Marco Zanuso, Case per vacanza, in E. Mantese, House and Site, FUP, Firenze 2014. 4 F. Cellini, Introduzione, in E. Mantese, op. cit. 5 Espressione di fra’ Ubertino da Casale ripresa da G. Lista in un bel saggio sull’Arte Povera all’interno di G. Lista, Arte Povera, Abscondita, Milano 2011. 6 V. Magnago Lampugnani (colloquio con Marco Zanuso), Marco Zanuso: portare l’artificio alle sue conseguenza estreme, in “Domus”, n. 690, 1988.
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Firenze Architettura (1, 2015), pp. 90-97 ISSN 1826-0772 (print) ISSN 2035-4444 (online) CC BY-SA 4.0 Firenze University Press www.fupress.com/fa/
Poetici spazi a perdere La Scuola di Balletto a L’Avana di Vittorio Garatti Caterina Lisini
El campo huele a lluvia reciente. Una cabeza negra y una cabeza rubia juntas van por el mismo camino, coronadas por un mismo fraterno laurel. El aire es verde. Canta el sinsonte en el Turquino… Buenos días, Fidel Nicolás Guillén1
«Se la cultura cubana – in qualsiasi manifestazione – aspira a riflettere la Rivoluzione, credo debba farlo con piena coscienza di un certo eccesso: volontariamente indiscreta ed esorbitante»2. Così Hugo Consuegra racconta l’‘eresia’ delle cinque Scuole d’Arte dell’Avana, progettate da Ricardo Porro, Vittorio Garatti e Roberto Gottardi: architetture fiabesche, «magniloquenti»3, spettacolari, naturalmente eccessive, eppure straordinariamente capaci di riassumere in forme incantate e gioiose l’intera coscienza della rivoluzione cubana, l’immanità della sfida e l’utopia della speranza. Siamo nel 1965 e la vicenda della costruzione delle scuole è all’epilogo. Sorte d’impeto, nei primi mesi del 1961, per iniziativa dello stesso Fidel Castro e progettate nel maestoso e lussureggiante sito dell’esclusivo Country Club, le cinque scuole (Arte Drammatica, Arti Plastiche, Balletto, Danza Moderna, Musica) nel breve volgere di pochi anni, vengono dapprima esaltate, poi duramente criticate, infine delegittimate, abbandonate e presto dimenticate4. Non è difficile oggi intravedere in queste forme inaspettate il segno poetico di un ‘altro’ moderno, dove sull’astrazione della razionalità e della sistematicità prevale la poesia del luogo, l’accumulo delle sensazioni, lo svolgersi di una narrazione fatta di spazi, forme e situazioni sempre diverse e sorprendenti, in una ricchezza verbale che sembra rimandare ad una ir-
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riverente e virtuosa «garrulità»5 tropicale. «Cuba, per fortuna – scrive Alejo Carpentier –, fu meticcia, come il Messico o l’alto Perù. E poiché ogni meticciato, per simbiosi, miscela, addizione, genera un barocchismo, il barocchismo cubano consistette nell’accumulare, collezionare, moltiplicare (…)»6. La scuola di Balletto di Vittorio Garatti si adagia in una piccola valle, a ridosso di un’ansa del torrente Quibù avvolgendosi con le sue forme plastiche, come un albero frondoso, alle morbide variazioni del pendio. Il programma funzionale prevede un grande teatro di coreografia, tre padiglioni per le esercitazioni di ballo, una serie di aule teoriche, una biblioteca e uffici amministrativi. La realizzazione è affidata a semplici tecniche di antica tradizione, elementari e ‘povere’: un unico materiale, il mattone o la piastrella in cotto, connota tutti gli spazi, assemblato nei raffinati dettagli dei muri, piegato nelle volte ondulate secondo la tecnica della bòveda tabicada catalana, composto in aeree e imponenti cupole. «Arco e cupole erano fuori dall’ordinario – ricorda Roberto Gottardi– ma non avevamo altro e noi le usammo con molta tranquillità»7. Rari sono gli inserti in cemento armato, sempre limitati a pochi cordoli strutturali, come nelle cupole, data la scarsità di acciaio e calcestruzzo nella Cuba dei primi anni dalla Rivoluzione. Alla economicità tecnica della costruzione fa da contrappeso un ricchissimo inventario di forme connotate da una profonda intenzionalità figurativa. La struttura compositiva –una lunga galleria sinuosa che connette a diverse quote i vari padiglioni funzionali– sembra rispondere, più che ad una partitura organicistica di ascendenza wrightiana, ad una giocosa alle-
Scuole Nazionali d’Arte a Cubanacán, L’Avana, Cuba Vittorio Garatti (progettista), Scuola di Balletto, 1961-65 1 Vittorio Garatti schizzo di studio della pianta sulla riproduzione di Terzo Mondo di Wifredo Lam (1966) Studio Vittorio Garatti Pagine successive: 2 Pianta, 1961-63 Studio Vittorio Garatti 3 Veduta dall’alto foto Vittorio Garatti 4 Ingresso principale foto Christian Zecchin 5 Interno del paséo arquitettonico foto Christian Zecchin 6 Cupola di un padiglione per le esercitazioni di ballo con la ventana a medio punto foto Lorenzo Carmellini 7 Paesaggio della copertura verso il teatro di coreografia foto Studio Vittorio Garatti
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gria, quasi un’avidità infantile che guida l’integrazione delle forme architettoniche alle pieghe del sito. Come in una sinfonia musicale, le masse incurvate dei muri nascono «spuntando dal bosco attorno alla piccola valle: escono dal torrente, avvolgono i padiglioni, abbandonano i padiglioni e si immergono nuovamente nel verde»8. Ciascuno spazio è dettato dalla funzione, come sottolinea più volte Garatti, ma i principi razionali quasi scompaiono per lasciare posto alla percezione, alla sensazione, perfino all’umore, che svolgono una parte preminente nella conformazione dell’architettura. È il caso dei padiglioni per le esercitazioni di ballo, dove i muri di contorno, convessi, evocano il movimento della danza e le cupole leggere si gonfiano, accogliendo i volteggi aerei dei ballerini; oppure è il caso del percorso di collegamento, vero e proprio paseo arquitectónico, che muta volta volta sezione e proporzioni,
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assecondando gli scorci prospettici e intonando la luminosità ad ogni mutevole variazione di svolta o di sosta. Il progetto è anche un esercizio di memoria, dove ogni linea di matita, ogni impronta si riempie di segni e di vissuti, e dove la lezione appresa dall’insegnamento milanese di Rogers, la peculiare attenzione ai luoghi e alla storia, ai retaggi della tradizione e dei maestri, è sempre presente a orientare la navigazione come un faro sicuro. «Ho sempre pensato al progetto come a un viaggio, e all’attenzione che si pone nel preparare il bagaglio. Nella mia valigia per le Scuole di Balletto e di Musica c’erano dischi di Joan Sebastian Bach, di Igor Stravinskij, di Béla Bartók, alcuni dipinti di Wifredo Lam, libri di Lezama Lima e Alejo Carpentier, e naturalmente la Rivoluzione, scintilla del mio processo creativo per tutti i lavori a cui ho partecipato in quattordici anni di professione a Cuba»9.
Al tempo stesso è l’intero mondo della tradizione cubana a riflettersi nelle forme seducenti della scuola. L’Avana vieja è «città d’ombra, fatta per sfruttare l’ombra –ombra lei stessa»10, così come la qualità dell’ombra, più ancora della modulazione della luce sembra costruire la sequenza degli spazi nell’architettura di Garatti. Il paseo è una forma volontariamente cava, propiziatrice d’ombra, dove la luce penetra a tratti, obliqua, dalle fessure tra le intersezioni sfalsate delle volte: lo spazio in prossimità del suolo è denso, materico, mentre sembra fluttuare nei tagli accesi di luce. Lo stesso ingresso al complesso della scuola è una soglia d’ombra, a cui si accede discendendo da una lunga serpentina di scale, mentre proprio sul limite tra interno ed esterno le volte si rarefanno e l’oscurità sembra progressivamente sbriciolarsi. L’alternanza di ombre e luce enfatizza il dinamismo della circolazione creando una «passeggiata
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architettonica musicale, ubriacante ed avvolgente: senza dubbio danzante»11. All’opposto i padiglioni sono spazi concentrati, raccolti, monofunzionali, tramati o inondati di luce grazie al dispositivo del medio punto, ingegnoso dissuasore del riverbero solare della tradizione creola. Ma nella architettura di Garatti nulla cede al folclore, al pittoresco naturalistico. Anche quando ricorre a citazioni quasi letterali, come nelle ventanas a medio punto delle cupole, il lavoro sul dettaglio e l’invenzione spaziale riescono a trasfigurarle, rendendole fondali quasi mitologici delle promenades di copertura, dove i grandi serramenti a raggiera e lo scorrere dell’acqua nei condotti a cielo aperto costruiscono un paesaggio quasi magico, un segno poetico in simbiosi con la natura circostante. Niente è mai o completamente quello che sembra, come i muri in mattoni, in continua metamorfosi tra pareti di
contenimento, quinte sceniche, fondali naturalistici, persino canali-acquedotto per l’acqua che attraversa l’intera architettura. Gli episodi, le sequenze architettoniche, gli accadimenti si intrecciano e si confondono dando vita a sfuggenti forme mutevoli, immerse nel paesaggio. La stessa scuola sembra trasformarsi in una piccola città e nella piccola città di Garatti il paseo è anche la strada cubana, chiassosa e indiscreta, mentre i padiglioni ricordano l’intimità delle case private, riservate e introverse. Proprio sulle abitazioni tradizionali scrive ancora Carpentier: «Queste case erano davvero funzionali. Il patio, sempre all’ombra, dotava la dimora di quella che potremo chiamare una ‘vita interiore’. Nelle stanze dai soffitti alti circolava sempre aria. Quelle case non avevano la pretesa di machine à vivre di Le Corbusier, ed erano invece piene di ‘spazi a perdere’»12. Anche l’architettura di Garatti è un susseguirsi multiforme di
‘spazi a perdere’, sempre diversi, appropriati, straordinariamente felici. 1 «La campagna odora di pioggia/ recente. Una testa negra e una testa bionda,/ unite vanno per lo stesso cammino,/ incoronate dallo stesso fraterno alloro./ L’aria è verde. Canta il sinsonte sul Turquino…/ Buongiorno, Fidel!» Nicolás Guillén, Canta el sinsonte en el Turquino, da Elegie e canti cubani 19301968, a cura di Dario Puccini, Milano, 1971. 2 Hugo Consuegra, Las escuelas nacionales de arte, in “Arquitectura Cuba”, n.334, 1965. 3 Ibidem 4 Per le vicende delle Scuole Nazionali d’Arte (ENA) a Cuba cfr., tra gli altri: John Loomis, Revolution of forms: Cuba’s forgotten art schools, New York 1999; Esther Giani, Il riscatto del progetto. Vittorino Garatti e l’Ena dell’Avana, Roma, 2007. 5 Della ‘garrulità’ come virtù degli scrittori latinoamericani parla Mario Vargas Llosa nella sua postfazione al volume: José Lezama Lima, Paradiso, Torino, 1995. 6 Alejo Carpentier, La città delle colonne, in Id., L’Avana, amore mio, Milano, 1998. 7 Roberto Gottardi, La mia storia della scuola d’Arte Drammatica, in Esther Giani, op. cit. 8 Vittorio Garatti, La costruzione delle Scuole di Balletto e di Musica, in Giorgio Fiorese, Architettura e istruzione a Cuba, Milano, 1980. 9 Vittorio Garatti, Memorie, in Esther Giani, op. cit. 10 Alejo Carpentier, op. cit. 11 Hugo Consuegra, op. cit. 12 Alejo Carpentier, Le case di una volta, in Id., L’Avana, amore mio, Milano, 1998.
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Firenze Architettura (1, 2015), pp. 98-105 ISSN 1826-0772 (print) ISSN 2035-4444 (online) CC BY-SA 4.0 Firenze University Press www.fupress.com/fa/
Pensiero alto, fatto con poco. Il quartiere Ponti di Franco Albini a Milano Francesco Collotti
Il tram arancione, come usa qui, infila diritto le vie dal centro verso la periferia, terminando con un gran carosello la sua corsa dopo aver tagliato per il lungo tutto il quartiere cresciuto fuori da Porta Vittoria. A Franco Albini lo IFACP assegna un lotto sghimbescio, parallelogrammo un po’ coricato in direzione di quello che sarà, anni dopo, l’ortomercato. Ancora una volta, da parte di Franco Albini, un esercizio di raffinata resistenza ai capricci del Piano e dei ritagliatori di lotti, che usavan la terra quasi fosse pasta per ravioli. E se Broglio, già architetto delle Amministrazioni socialiste, lavora nel Piano e con il Piano al punto più avanzato che gli è permesso, raggiungendo una elevata qualità e proponendo isolati definiti intorno alla domestica e collaudata misura del cortile milanese (non lontano dalla maniera dei migliori Höfe della Vienna Rossa1), Albini cerca invece di buttarsi oltre l’ostacolo, dando luogo a una particolarissima illuminata forma di garbato contrasto al Piano2. Aveva già affrontato il tema in modo esemplare nel quartiere Fabio Filzi in viale Argonne (1936) successivo alle prime sperimentazioni di S. Siro, che son del 19323. Albini cerca qui – nel quartiere Ponti – ancora una volta di far l’isolato senza il blocco chiuso (1939)4. Uno schema semplice e raffinato al contempo, composizione per una nota sola accoppiata e ripetuta per leggeri scostamenti e ricercate combinazioni. Pensiero alto, fatto con poco. Dentro le questioni che questo numero di Firenze Architettura intende sviluppare intorno a un costruire povero, che nel quartiere Ponti eppure si fa nobilissimo cimento capace di evocare – per questi spazi che
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si inframmezzano tra le case - la qualità di piccole strade e piazze, realizzate pure in questa, che sarà città per i poveri. Eran tre le piccole corti/piazze che si susseguivano in sequenza, còlte traguardando la enfilade centrale che taglia il lotto per undici schiere di case da erigersi secondo l’originario schema di Albini, tracciato con Renato Camus e Giancarlo Palanti. Nove furon costruite e oggi ne restan sette, che due schiere per complessivi quattro corpi di fabbrica furon abbattute. Sette, come quelle famose di Norimberga5, le file di case che sono oggi da vedere, a tre per tre intorno a due corti quadrate (col resto di una, posta in testata verso la città). Poco importa che oggi le recinzioni egoiste cerchino di fare a pezzi un’idea bella; essa resiste intelligente, più forte della stupidità piegata al particulare. Da dentro a fuori, come anche per le case si dovrebbe sempre fare. Le corti interne, da fuori inaspettate, sono una sospensione del ritmo rigoroso delle schiere parallele. Albini rispetta i fili stradali, ma non asseconda le testate al Piano, come al solito gira gli isolati, libera l’orientamento dei corpi dalla maglia stradale, in alcuni dei suoi quartieri rigorosamente rispettando l’asse eliotermico. I frontespizi divengon le facciate dell’insediamento e arrivano alle strade contermini portando con sè la regola interna del complesso, non adeguandosi agli allineamenti imposti: ecco la città alternativa, una città più avanti che mostra un ordine convincente. Case essenziali, intransigenti, laconiche, appena segnate da un risalto che identifica tipologicamente le scale, un chiaroscuro che dice di una loggia o di un marcapiano, uno sporto profondo a segnar l’ombra su un prospetto altrimenti troppo piatto, la par-
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1 Testata laterale di una delle schiere verso la strada interna (Foto F. Collotti) 2 Disegno di studio per la sequenza delle testate (S. Acciai, 2009 Pagine successive: 3 Immagine d’epoca del quartiere Ponti prima dell’edificazione dei lotti vicini 4 Schizzi ricostruttivi del principio di insediamento (F. Collotti 2010)
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titura di un serramento che coinvolgendo il cassonetto degli avvolgibili si fa corpo di una proporzione classica. Un grado minimo di decoro che cerca di costruire luoghi riconoscibili, comunque qualcosa che si potesse chiamar casa al ritorno da lavoro, ancorché in uno stupefacente grado zero della forma. Gli appartamenti del resto sono minimali, a un solo affaccio con due stanze di cui una predisposta per due/tre figli e una camera da letto matrimoniale contigua, l’angolo di cottura affiancato alla loggia. Una dignità e un rispetto per il tema della casa (una voglia di architettura comunque), che la città successiva pare aver perso. Ecco la capacità di resistenza sotto traccia di Albini, fatta di garbatissimi gesti. Precisi, capaci di mostrare un principio quasi mettendone in opera il suo stesso esibirsi, leggeri cioè, non mai grevi dunque eleganti malgrado il costruirsi povero, e mai tuttavia arroganti. Per questa abilità tecnica passa la messa in opera di un’idea di grado minimo di decoro (come in alcune case milanesi del resto: che cos’era il decoro, quando ba-
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stava uno stucco marmorizzato ad evocare sulle scale un rivestimento in pietra che non ci si poteva permettere?). E se nel quartiere Fabio Filzi di viale Argonne, le logge sono appena arretrate in corrispondenza delle cucine e uno sfondato in chiaroscuro mostra con un’ombra la zona giorno che vorrebbe farsi spazio all’aperto, nel quartiere Ettore Ponti a ridosso delle vie Maspero, Monte Cimone e del Turchino, il chiaroscuro incornicia il partito di facciata con una palpebra che appena sporge a livello della copertura e ricompone il volume, contenendolo. Bastano a volte pochi centimetri a conformare uno spazio. È stata questa città, negli anni a seguire, in grado di produrre progetto? Forse solo per chi si sia posto in ascolto a cogliere tiepidi, ancorché periferici centri, nonostante tutto.
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Tra tutti il quartiere Mazzini, ex Regina Elena 1925-1932 (Ufficio Tecnico ICP – G. Broglio), lungo Via dei Cinquecento, colta in modo esemplare nella poesia di Antonia Pozzi. 2 F. Collotti S. Acciai, Fare l’isolato senza il blocco: oltre Broglio, Albini? Relazione al convegno La parabo-
la del quartiere a Milano nell’architettura di Giovanni Broglio, tenuto il 10 dicembre 2009 presso la Facoltà di Architettura Civile del Politecnico di Milano. 3 Nella vasta bibliografia sui quartieri di edilizia residenziale di Franco Albini si assumono a riferimento: il numero monografico su Franco Albini di Edilizia Popolare n.237, anno XLII gennaio-febbraio 1995; il piccolo e prezioso catalogo curato tra l’altro da alcuni dei suoi allievi Franco Albini Architettura e design 1930-1970, Milano, 1978 con il ridisegno degli interventi di edilizia residenziale; il volume monografico di A. Piva e V. Prina Franco Albini 1905-1977, Milano, 1998; e l’altra monografia di poco precedente di F. Rossi Prodi, Franco Albini, Roma, 1996. 4 È nella primavera del 1936 che Piero Bottoni collabora alla Mostra urbanisitca che avrebbe dovuto essere parte della VI Triennale e che poi nel 1938 pubblica il volume-manifesto Urbanistica. Dopo aver definito l’urbanistica “materia nuova e vecchissima ch’è l’organizzazione della vita dell’uomo, in funzione delle possibilità tecniche e delle forme artistiche che corrispondono ed esprimono la sua epoca, Bottoni introduce una piccola mostra dedicata ad un tema particolare: il lottizzamento del quartiere cittadino. Il Pittore Munari che già aveva collaborato alla composizione del grande montaggio «Urbanistica» studiò per questa sezione la presentazione dei cartelli «elementi della lottizzazione».” 5 F. Collotti, Sette file di case. Il quartiere razionalista in Federica Visconti, (a cura di), Il Razionalismo italiano, Storia, città, ragione, Roma, 2013.
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5-6 Immagini d’epoca del quartiere Ponti 7-8 Pianta e Prospetto Pagine successive: 9 Le testate del quartiere Ponti lungo il fronte nord (Foto S. Acciai) 10 Vista dal basso della “palpebra” a cornice del fronte sud (Foto F. Collotti)
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Firenze Architettura (1, 2015), pp. 106-113 ISSN 1826-0772 (print) ISSN 2035-4444 (online) CC BY-SA 4.0 Firenze University Press www.fupress.com/fa/
La chiesa della Madonna dei Poveri a Milano di Figini e Pollini e l’asilo a Collegno di Giorgio Rajneri: “monumenti prefabbricati” Gabriele Bartocci
La ripresa economica italiana del secondo dopoguerra porta alla diffusione del sistema prefabbricato, che è impiegato principalmente per realizzare l’icona dell’edilizia industriale, il “capannone”, in tutte le sue declinazioni tipologiche. Alla base dell’architettura prefabbricata vi è il basso costo di costruzione, dovuto alla semplicità degli elementi costruttivi prodotti in stabilimento come pezzi di una macchina, alla facilità del loro assemblaggio che porta a una drastica riduzione dei tempi di esecuzione e della manodopera, al facile trasporto delle componenti, alla rapida organizzazione del cantiere e alla scarsa manutenzione di cui necessitano le strutture. In questo contesto la costruzione come prodotto industriale, nella maggior parte dei casi, non instaura alcuna relazione con il territorio, considerato come semplice piano di posa, se non quella di tipo speculativo. L’organismo architettonico, come una macchina, si appoggia al suolo senza radicarsi. Ne consegue l’omologazione e l’alterazione del paesaggio italiano, compromesso in maniera irreversibile. In controtendenza rispetto al processo delineato, in alcune rare occasioni, si manifesta, da parte della ricerca architettonica, il tentativo di inserirsi nel sistema produttivo e di volgerne gli elementi a un fine compatibile. Tra questi, le vicende della chiesa della Madonna dei Poveri a Milano Baggio di Luigi Figini e Gino Pollini (1954) e quella dell’asilo di Collegno, realizzato da Giorgio Rajneri nella periferia torinese (1977), dichiarano la responsabilità del progetto nei confronti del paesaggio e della tradizione architettonica, nell’am-
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bito complessivo di formazione delle periferie italiane, ribaltando, con una progettazione competente, gli esiti distruttivi dell’edilizia industriale a basso costo. Gli architetti assumono gli elementi costitutivi del vocabolario dell’architettura prefabbricata, li rileggono e li interpretano attraverso un metodo compositivo che ne sfrutta pienamente le potenzialità espressive. L’architettura manifesta così una riflessione sul concetto di tipo edilizio, per sua natura riproducibile, trattato però come un modello, per sua natura invece deformabile e adattabile al luogo in cui viene a trovarsi. La chiesa di Figini e Pollini fa parte del programma di ricostruzione postbellica della città di Milano. L’edificio sembra esprimere un processo architettonico in itinere, dove la “città storica” convive con quella contemporanea e l’innovazione si sovrappone alla tradizione senza cancellarne o confonderne tracce e identità. La chiesa ha la volumetria e l’aspetto di un edificio industriale, un parallelepipedo apparentemente sordo e indifferente al contesto. La facciata, inquadrata in una cornice che la isola, amplificandone la forza d’immagine, sembra aver subito le sorti di molte facciate storiche di chiese italiane, interrotte e rimaste inconcluse. Una prima struttura, come uno strato epidermico superficiale costituito da pannelli prefabbricati e cordoli che ne rivelano le fasi del montaggio, si sovrappone a una pelle, più “morbida” solo apparentemente, più antica, in laterizio, il materiale di cui è costituito il complesso del Sant’Ambrogio milanese, che, con velatezza, affiora come in filigrana, ricomponendo
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1 Asilo a Collegno Particolare del sistema costruttivo trave Yvolta SAP Pagine successive: 2 Pianta del primo livello 3 L’asilo nella periferia torinese; in primo piano la stecca dei servizi 4 Uno degli ingressi laterali 5 I blocchi delle aule affacciate sul paesaggio Le immagini sono state gentilmente concesse da Luigi Rajneri (foto Paolo Mussat Sartor)
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il disegno del prospetto di una evocata cattedrale e della sua simmetria. La grande specchiatura orizzontale in mattoni nella quale sono ricavati quattro tagli verticali, appare come l’interpretazione di una finestra a nastro, che, anziché costituirsi come apertura, qui si mostra quale superficie tamponata, che prosegue nel fronte laterale trasformandosi in loggia. I cordoli prefabbricati appaiono, a loro volta, come l’astrazione delle fasce strutturali in acciaio che cingono i ruderi da preservare, proteggere, restaurare. Le fasce orizzontali interrompono, tagliandole, le lesene e le due aperture “tamponate”. L’apertura d’ingresso è fuori-scala rispetto alle altre; si entra in chiesa attraverso una grande ombra, in quanto
l’infisso è arretrato, nel punto in cui l’edificio perde un frammento di muratura. Il prospetto laterale è contraddistinto da una sequenza di pilastri esili, in cemento armato, dalla sezione ridotta, che ingabbiano l’edificio come tubolari di un ponteggio. Gli architetti, inserendo all’interno la struttura portante principale, costituita da un sistema di quattro coppie di pilastri con travature di dimensione doppia di quella delle lesene, riescono a ridurre al minimo lo spessore dell’involucro esterno, che acquista la leggerezza di un grande pannello prefabbricato. La loggia, quale matroneo affacciato all’esterno, svela la sezione dell’edificio e quella sottile del suo involucro nonché l’esistenza delle navate laterali. Evitando lo sporto di gronda (le canalet-
te di raccolta dell’acqua sono alloggiate dietro le cimase delle pareti) la composizione del prospetto appare come non conclusa. Una torre individua il presbiterio e porta la luce sull’altare; concepita e trattata come una preesistenza sembra sprovvista di una copertura: il tetto è piano e ribassato rispetto alla quota delle scossaline dei muri. Il disegno impresso sull’intonaco della torre interpreta le linee di forza delle travi reticolari; ogni elemento ribadisce la doppiezza costituita da storia e contemporaneità. L’abside è ricavato piegando verso l’esterno la parete di fondo del parallelepipedo: qui, le aperture, di diverse dimensioni, non sono simmetriche come nella facciata principale e si trovano po-
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steriormente a un doppio ordine di lesene che si sovrappone al prospetto. All’interno, oltre che sui fuochi liturgici, l’attenzione si concentra sull’intelaiatura delle travi strutturali che delimitano lo spazio del presbiterio. Le travi, quale interpretazione delle catene utilizzate per i consolidamenti statici delle navate delle chiese, sono messe in risalto dalla luce che, scendendo sull’altare in maniera quasi tombale, ne mette in evidenza la trama. In un analogo contesto urbano, a distanza di poco più di vent’anni, anche l’asilo di Collegno realizzato da Giorgio
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Rajneri dimostra che esiste una possibilità di riscatto delle periferie italiane. L’edificio, riflesso poetico del paesaggio industriale che lo circonda, ha l’asse di simmetria sulla bisettrice del lotto triangolare in cui è inserito. Perno della composizione è la corte, anch’essa triangolare, posta sull’asse centrale e accessibile da un vestibolo coperto ma freddo. Lo spazio esterno, senza soluzione di continuità, confluisce nella corte attraversando l’edificio. Dietro a un volume che ospita i servizi (l’amministrazione, la presidenza, le segre-
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terie e gli spazi per gli insegnanti) si snodano le aule che guardano il paesaggio. I due accessi, posti a una quota rialzata, sono posizionati agli estremi del parallelepipedo, nei punti in cui il volume si innesta nei blocchi degli ambienti didattici. Le aule sono coperte dalle volte coniche e hanno le testate disallineate tra loro. Il fronte che ne consegue è il frutto di un’aggregazione di elementi che sembrano essersi sviluppati in tempi diversi. Le finestre a nastro, ricavate al piano terra, non occupano l’intero fronte, come avviene per le aperture del primo livello, ma s’interrompono nel punto in cui il terreno sale e cambia quota venendo meno così l’allineamento in verticale con le finestre superiori: l’architettura aderisce al lotto e alla sua topografia. Il sistema costruttivo costituito da trave Y e volta S.A.P. detta le regole compositive dei prospetti, diventando elemento caratterizzante dell’architettura. Posti a sbalzo oltre le testate dei volumi, gli elementi strutturali determinano una linea d’ombra sulle lunette dei sopraluce che conferisce leggerezza alla copertura e la fa assomigliare alle pagine di un libro aperto. L’architettura, frutto della moltiplicazione di elementi tutti uguali e aggregabili all’infinito è in realtà un sistema chiuso, integro, unico e non riproducibile. A proposito della scuola di Collegno, Roberto Gabetti, in una lettera indirizzata a Giorgio Rajneri pubblicata sul n.3 di “Controspazio” del 1979, scriveva: “Tu sai che fra le opere qui presenti quella che io preferisco è certamente quell’asilo di Collegno, dove le finestre sono tagliate con la competenza del costruttore, senza indulgenza per la moda corrente. Lì la tua ricerca è così aderente all’ideazione del prodotto edilizio, da parere, ai limiti, scontata. C’è assieme, quella tipografia dove tuo fratello Beppe ha messo a posto sheds di grande luce, usando ancora modi edili correnti […]. La nostra osservazione non tendeva tanto, allora, all’evidenza, ma alla adesione concreta ai modi di produrre. Forse tutti questi sono soltanto lontani ricordi: ora però smetto sul serio: tutti hanno fretta: tuo Roberto Gabetti”.
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6 Chiesa della Madonna dei Poveri Interno 7 Esterno; in primo piano la loggia 8 Pianta 9 Facciata
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Firenze Architettura (1, 2015), pp. 114-119 ISSN 1826-0772 (print) ISSN 2035-4444 (online) CC BY-SA 4.0 Firenze University Press www.fupress.com/fa/
Un ideale “riparo” per bambini Scuola materna a Poggibonsi (Siena), 1955-1964 Riccardo Butini
Nel 1954 l’amministrazione di Poggibonsi delibera la costruzione di un asilo ai margini di un quartiere popolare, prima struttura scolastica realizzata nel paese toscano dopo la guerra. L’anno successivo, grazie ad un “autorevole competente suggerimento”1, viene affidato l’incarico a Mario Ridolfi che lavorerà insieme a Wolfang Frankl e Domenico Malagricci con i quali sta progettando anche l’asilo Olivetti a Canton Vesco. I due progetti, sebbene presentino riconoscibili tratti comuni, soprattutto nello schema distributivo delle unità didattiche, mostrano evidenti differenze nelle soluzioni adottate, se pure ascrivibili alla ricerca ridolfiana di quegli anni. Tra le cause che potrebbero aver determinano la distanza rilevabile tra le due opere sono probabilmente da considerare le condizioni economiche e “ambientali”, ben diverse, con le quali l’architetto deve confrontarsi2. Le fotografie scattate durante le fasi di cantiere e immediatamente dopo la realizzazione, mostrano un’ampia area libera stretta tra le palazzine multipiano, segno del “moderno urbano” del paese, e il torrente Staggia, oltre il quale il paesaggio conserva ancora la trama complessa, ma ordinatamente geometrica, delle sistemazioni agricole. Ridolfi aderisce al luogo abbracciandolo con la consueta sensibilità, interessato, questa volta, ad un possibile aggiornamento dei caratteri dell’architettura rurale, testimonianza tangibile della cultura materiale con la quale è chiamato a confrontarsi. L’asilo è concepito come un piccolo complesso agricolo, costituitosi poco alla volta secondo un’aggregazione apparentemente spontanea, che sfuggendo alla dimensione degli imponenti
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edifici residenziali, si propone, piuttosto, come ideale “riparo” a misura di bambino, architettura essenziale e sincera che mostra, senza particolari mediazioni, le soluzioni tecnologiche adottate. I singoli padiglioni, realizzati in muratura incerta di pietra locale con mazzette in mattoni e cantonali in travertino, sono coperti da tetti a quattro falde con il manto alla romana. Lungo il fianco rivolto al torrente le aule sono protette da ‘tettoie’ sostenute da puntoni grezzi di legno poggiati su pilastri in mattoni. Le unità didattiche, formate da due aule a pianta quadrata aggregate ad un padiglione di servizi, sono disposte, insieme agli altri nuclei funzionali (oltre alle due sezioni erano previsti i servizi igienici, gli uffici della direzione e dell’amministrazione, la cucina, la lavanderia, il refettorio e l’abitazione del custode) attorno al grande spazio quadrato del refettorio. Per questo ambiente, vero e proprio cuore del progetto, destinato nel primo stralcio a “cortile provvisorio”, l’architetto disegnerà una sorprendente copertura a capriate lignee, ruotate rispetto alla pianta e sorrette da quattro pilastri in mattoni e blocchi squadrati di travertino sormontati da un capitello dorico stilizzato, appoggio prezioso, ma privo di ogni velleità decorativa. Una serie di finestre comprese nella doppia imposta delle strutture portanti della copertura, svuotano quasi completamente i muri perimetrali e consentono alla luce di conquistare lo spazio, fino a pervaderlo completamente. La copertura sembra sospesa sulla grande sala, pensata come principale luogo di relazione, che si mostra così con carattere di uno spazio aperto. Ma se da una parte Ridolfi è impegnato a riflettere sul possibile dialogo con
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1 Il refettorio, vista interna foto Maria Brunetti 2 Mario Ridolfi (con V. Frankl) Scuola materna a Poggibonsi (Siena), 1955-1964 Planimetrie, 15 dicembre 1955, 1:1000 - 1:200 (75,5 x 50; china su lucido) Courtesy Accademia Nazionale di San Luca, Roma Archivio del Moderno e del Contemporaneo. Fondo Ridolfi-Frankl-Malagricci Pagine successive: 3 Il complesso scolastico durante la realizzazione Foto Archivio Frankl, Terni 4 Mario Ridolfi (con V. Frankl) Scuola materna a Poggibonsi (Siena), 1955-1964 Assonometria, 15 dicembre 1955, 1:100 (75 x 50; china su lucido) Courtesy Accademia Nazionale di San Luca, Roma Archivio del Moderno e del Contemporaneo. Fondo Ridolfi-Frankl-Malagricci
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l’architettura tradizionale, dall’altra deve confrontarsi con le richieste della “saccente psicopedagogia”3 orientata verso la “destrutturazione dell’organismo architettonico e dell’ambiente come valore didattico”4, in contrapposizione con alla chiarezza compositiva e la semplicità della strutturazione spaziale cui si affida l’architetto. Così, sebbene nella relazione di progetto si legga che la «sezione delle aule, vero nucleo della scuola, è stata progettata secondo le più recenti esperienze in materia»5, Ridolfi dovrà fare i conti con i giudizi che criticano l’eccessiva altezza delle aule che «mancano di soffittatura e raggiungono al centro altezza di metri 5,50 (…) per cui occorrerà prevedere soffittature a non oltre 4,00 metri di altezza dal pavimento »6, e la rigidità del salone centrale, «scelta…quasi rinascimentale, statica, di ambiente per ambiente, di corrispondenza tra disegno del soffitto e disegno del pavimento…Lì cosa fanno i ragazzi sen non il girotondo?»7. Se necessario, allora, Ridolfi trasgredisce alle assurde richieste delle com-
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missioni tecniche e si impegna attivamente a difendere il progetto, studiato con attenzione in ogni piccolo dettaglio, dalla luce naturale, alle partizioni interne, agli arredi fissi progettati su misura e integrati alle strutture murarie, per inseguire ogni volta la soluzione più adatta a soddisfare i bisogni dei futuri “piccoli” abitanti. Oltre alle tavole che illustrano la disposizione degli elementi di arredo, l’architetto disegna i particolari esecutivi, fino ad arrivare alla scala 1:1, come nel caso dei lettini ribaltabili. Le finestre delle aule, come grandi lavagne traslucide, inquadrano, attraverso il reticolo dell’infisso in legno, il paesaggio adiacente, consentendo la lettura delle relazioni che intercorrono tra mondo esterno e mondo interno, due dimensioni entro le quali si compie idealmente l’esperienza della conoscenza e dell’apprendimento. In un conteso fortemente compromesso dalle pesanti trasformazioni urbane degli ultimi cinquant’anni l’asilo vive una evidente condizione di accerchiamento, che lo rende sempre meno leggibile.
Tuttavia, grazie anche alla presenza giocosa e spensierata dei bambini, è possibile, ancora oggi, apprezzare la “lezione” di Ridolfi, che realizza un’opera capace di resistere alle distorsioni linguistiche e tipologiche introdotte dal contemporaneo, testimonianza concreta del possibile rapporto tra tempo, vita quotidiana e architettura. 1 Con queste parole il Sindaco, nella lettera d’incarico del 20 Settembre 1955, comunica, con esemplare franchezza, a Mario Ridolfi che il suo nome era stato suggerito direttamente dal Ministero. 2 Il programma edilizio prevedeva due sezioni (quattro aule da 36 mq) oltre a servizi igienici, uffici della direzione e amministrazione, cucina, lavanderia, refettorio e abitazione del custode: tutto in un volume massimo di 2000 mc e un costo presunto di 21 milioni di lire. Ridolfi fa presente da subito al Sindaco che la cifra stanziata è insufficiente e prevede due stralci funzionali, impegnandosi in prima persona per sensibilizzare il Ministero. 3 F. Cellini e C. D’Amato, Le architetture di Ridolfi e Frankl, Electa, Milano, 2005, p.99. 4 Idem. 5 Estratto della relazione di progetto. 6 Giudizio espresso dalla Commissione Edilizia. 7 P. Signori, La scuola materna di Poggibonsi e l’arretratezza dell’edilizia scolastica italiana negli anni cinquanta, in F. Brunetti, a cura di, Mario Ridolfi: 1984, Lalli, Poggibonsi, 1988, p.29.
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5 Mario Ridolfi (con V. Frankl) Scuola materna a Poggibonsi (Siena), 1955-1964 Pianta del piano terreno, 15 dicembre 1955, 1:100 (75 x 50; china su lucido) Courtesy Accademia Nazionale di San Luca, Roma Archivio del Moderno e del Contemporaneo. Fondo Ridolfi-Frankl-Malagricci 6 Mario Ridolfi (con V. Frankl) Scuola materna a Poggibonsi (Siena), 1955-1964 Prospetti. Dettagli facciate. Dettagli zoccolo, 15 dicembre 1955, 1:100 - 1:50 - 1:20 (75 x 50; china su lucido) Courtesy Accademia Nazionale di San Luca, Roma Archivio del Moderno e del Contemporaneo. Fondo Ridolfi-Frankl-Malagricci 7 Il fianco di una delle unitĂ didattiche foto Maria Brunetti
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Firenze Architettura (1, 2015), pp. 120-127 ISSN 1826-0772 (print) ISSN 2035-4444 (online) CC BY-SA 4.0 Firenze University Press www.fupress.com/fa/
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Un testamento di modestia e carità La chiesetta di San Giuseppe Artigiano a Montebeni Simone Barbi
La sorpresa per chi avesse una qualche dimestichezza con la produzione architettonica di Raffaello Fagnoni, artefice di questa piccola chiesa, sta nel trovarsi di fronte un manufatto che, ad un primo sguardo, poco ne ricorda la ricerca progettuale precedente1. Nell’iter di progetto di quest’opera, costruita tra il luglio del ’65 e il maggio del ’66 tra le colline sopra Firenze, la mano dell’autore ben si ravvisa negli studi iniziali, mentre è del tutto nuova nell’edificio costruito; inaspettata tappa finale2, ma per nulla conclusiva, di un’appassionata ricerca sul progetto dello spazio sacro intrapresa da tempo, sia attraverso gli incarichi arrivati a partire dalla ricostruzione della chiesa di San Domenico a Cagliari nel ’493, sia mediante il frequente dialogo col cardinale Giacomo Lercaro4, ispiratore e figura cardine del gruppo di intellettuali bolognesi impegnati, con la rivista Chiesa e Quartiere5, nel dibattito nazionale e internazionale sull’architettura e l’arte religiosa moderna. Consultando gli archivi emergono infatti due ambiziosi progetti preliminari redatti tra il ’63 e il ’65 – in linea con la ricerca di Fagnoni per ricchezza di dettagli, complessità realizzativa ed espressività strutturale - difficilmente realizzabili a causa delle limitate risorse a disposizione della diocesi committente. […] nel giugno 1965 il progetto definitivo nasce come nascono tutte le case d’arte, così, come un fiore dello spirito, che emerge improvvisamente chiaro dall’indistinto6 in cui, parafrasando la massima e più mi giova dove più mi nuoce7, il vincolo di “povertà” imposto dalla committenza viene riscattato attraverso semplici ed efficaci scelte di natura compositiva e costruttiva, focalizzate sulla nuda costruzione dello
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spazio, ridotto ai minimi termini e fatto, secondo un’espressione di Fagnoni, di buona esecuzione, di oculata economia, che si esplicita perfettamente, tra le altre, nella soluzione che l’architetto fiorentino sceglie per l’intradosso della copertura di cui, eliminando il “velo” di finitura, mette in scena gli elementi, trasformandone il montaggio in dispositivo decorativo. I materiali - cemento a vista, mattoni semplici di produzione industriale, vetri autoportanti e opalescenti tipo “U-Glass” usati generalmente negli edifici produttivi - vengono nobilitati attraverso due dispositivi: il controllo degli effetti della luce naturale sulle superfici, verificato a priori attraverso l’uso del modello in scala, e la grande attenzione, richiesta alle maestranze nelle fasi di cantiere, sulla lavorazione della materia e sulla posa in opera degli elementi. Fagnoni per la prima volta abbandona la massa compatta con cui ha sempre caratterizzato i propri edifici e, rompendo il volume, costruisce lo spazio dell’aula come composizione di piani tenuti insieme da controllati “giunti di luce”. Luce pensata per dialogare con la plasticità di sculture e arredi liturgici che l’architetto dispone nello spazio, collaborando come in moltissime altre occasioni8 con importanti artisti formatisi nelle scuole e botteghe fiorentine. Luce progettata per esaltare le qualità tattili della materia, le lavorazioni del cemento fortemente inciso dai casseri non rifiniti, la tessitura “a rilievo” dei paramenti in mattoni, la nudità dell’intradosso di copertura in laterizi di produzione industriale lasciati al grezzo e listati da travetti in calcestruzzo lavorati a scalpello. Una delle mosse più interessanti del progetto di Fagnoni è quella effettuata
1 Chiesina di San Giuseppe Artigiano, Montebeni Fronte ovest 2 Il committente Don Pesci e Raffaello Fagnoni ai piedi del cantiere su via Tre pini (ASFi, Fondo Raffaello Fagnoni, Serie I, filza 30) Pagine successive: 3 Area presbiteriale 4 Controfacciata 5 Sezione longitudinale (ACF, Licenzia edilizia n°89/1965) 6 Pianta (ACF, Licenzia edilizia n°89/1965) 7 Planimetria e schizzo prospettico (ASFi, Fondo Raffaello Fagnoni, Serie I, filza 32) 8 Battistero 9 Dettaglio della trave di compluvio 10 Dettaglio dell’intradosso di copertura in laterizio armato 11 Sezione trasversale (ACF, Licenzia edilizia n°89/1965) Foto Andrea Morelli, 2015
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sull’abside rivolto a sud che, spezzandosi, lascia entrare la luce da est, e gonfiando la “vela” in mattoni rischiara il presbiterio, ristabilendo, almeno percettivamente, il tradizionale orientamento degli edifici per il culto cristiano. Questo dettaglio dimostra come una semplice scelta compositiva “in pianta” possa dar risposta a necessità simboliche modificando completamente la lettura dello spazio, vincendo, in questo caso, le difficoltà che l’orientamento del lotto poneva. Un portale in bronzo, posto a conclusione delle scale e della rampa in cemento con cui si supera il dislivello rispetto alla strada, accoglie i fedeli all’interno dell’aula. Il sacello del battistero, che avvolge il monolite del fonte battesimale inondato dall’alto dalla luce naturale, offre un luminosissimo accesso secondario. La torre campanaria, presente in varie versioni anche in tutte le proposte precedenti, è l’elemento che dichiara la presenza della chiesetta nel paesaggio. Due setti in cemento armato contengono
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tre campane, strette tra mensole utili ad irrigidire la struttura lasciata a vista. Non c’è una vera facciata; piuttosto un fronte arretrato rispetto alla strada, composto da elementi fortemente plastici tenuti insieme dal profilo della copertura a falde rovesce dell’aula. Francesco Gurrieri, a dieci anni dalla sua realizzazione, definirà quest’opera come la meno vistosa e più artigianalmente immaginata9 tra quelle che nel 1966 riceveranno il premio dall’IN/ARCH, evocando una suggestiva rispondenza con la dedicazione a San Giuseppe “artigiano” ed evidenziando come, nella produzione di Fagnoni, l’orgogliosa modestia dell’insieme, la lezione compositiva incentrata sulle possibilità espressive della costruzione, e la capacità di mettere all’interno dell’opera lo spessore umano della componente artigianale10, trovino ancora e per l’ultima volta solida testimonianza. 1 Basti citare la Accademia Aeronautica Militare (Firenze, 1937), la Chiesa di Santa Maria Assunta (Montecatini Terme 1953-’58), la Chiesa del Gesù
Divino Lavoratore (Roma, 1954-’60), “La Rotonda” di Settignano (Firenze, 1961). 2 Questa sarà l’ultima opera realizzata da Fagnoni che morirà nella sua casa di Firenze il 4 maggio del 1966, tre giorni dopo l’inaugurazione della chiesa. 3 Cfr. F. Mugnai, Un muso d’aereo precipitato su Cagliari, Raffaello Fagnoni e la Chiesa di San Domenico, 1949-1954 in “Firenze Architettura” 2/2012, pp. 114-119. 4 Si veda l’importante conferenza, tenuta nel 1957 su invito della Facoltà di Architettura di Firenze, pubblicata in G. Lercaro, Posizione attuale dell’architetto di fronte al tema sacro, Le Monnier, Firenze, 1964. 5 Cfr. G. Gresleri, M.B. Bettazzi, G. Gresleri, Chiesa e Quartiere. Storia di una rivista e di un movimento per l’architettura a Bologna, Compositori, Bologna, 2004. 6 AA.VV, Montebeni un popolo e una chiesa, Siena, 1976, p. 29. 7 Michelangelo, Rime, Mondadori, Milano, 1998, p. 99. 8 Cfr. G. Salvagnini, Un architetto e i suoi scultori. Nel trentennale della morte di Raffaello Fagnoni. in “Libero. Ricerche sulla scultura e le arti applicate del primo novecento” 7/1996, pp. 1-9. 9 F. Gurrieri, Un’opera di architettura, in AA.VV, Montebeni un popolo e una chiesa, cit., p. 49. 10 F. Gurrieri, op. cit. p 49. L’autore desidera ringraziare la Dott.ssa Cecilia Ghelli e il Dott. Roberto Fuda dell’Archivio di Stato di Firenze (ASFi) e Lucia Nadetti archivista dell’Archivio Comunale di Fiesole (ACF).
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Firenze Architettura (1, 2015), pp. 128-133 ISSN 1826-0772 (print) ISSN 2035-4444 (online) CC BY-SA 4.0 Firenze University Press www.fupress.com/fa/
Un tempio senza colonne La sauna Muuratsalo Chiara De Felice
[…] So let’s build a sauna there! Not the usual semicivilized travesty of the old Finnish sauna (as all our saunas are today) but a cultural sauna, a national monument, the first of its kind in the budding Finnish civilitaztion […] Visitors enter through a hall supported by four columns. The walls are clad in ceramics, and directly in front of the entrance stands a stove with crackling fire of choice logs. […]1
Così nel 1925 Alvar Aalto scrive sul “Keskisuomalainen”, il quotidiano locale della città di Jyväskylä, proponendo un progetto ideale per il completamento di un’area della città, la Saunatemppelli (sauna tempio). In questo breve scritto Aalto assegna alla sauna la funzione di manifesto dei principi della nascente civitas finlandese, sottolineando però la necessità di abbandonare i toni vernacolari a vantaggio dei più aulici canoni classici, i soli in grado di promuovere l’umile edificio tradizionale alla pari di un Tempio sull’Acropoli. L’articolo sembra avere il valore di una precisa dichiarazione di intenti: Aalto espone in maniera quasi propagandistica quelli che sono i cardini della sua ricerca compositiva di quel momento. Alcuni schizzi, di poco precedenti la stesura del pezzo, esprimono, meglio di tante parole, il desiderio dell’architetto di dar forma al “sogno nordico di Pompei”, di cui scriverà più avanti nello stesso articolo. Le dichiarazioni del 1925 appaiono chiare se contestualizzate nel periodo che segue il rientro a Jyväskylä dopo il primo viaggio in Italia di Aalto; a quella fase, infatti, è ascrivibile una ricca, quanto naïf, collezione di proposte “in stile italiano”, su cui l’architetto intende impostare l’ambizioso programma di rifondazione della fiorente cultura della Finlandia indipendente. Ma, osservando la produzione aaltiana, sia
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precedente che successiva all’articolo, si nota come, proprio nel caso delle saune, l’onda di tale entusiasmo classicista incontri una resistenza che appare insormontabile: ogni qual volta l’architetto è chiamato a confrontarsi concretamente con questa tipologia, non si svincola mai dai rudimenti del modello tradizionale, rifiutando di fatto ogni riferimento aulico. Dunque, se è vero che i modelli delle architetture visitate durante il soggiorno italiano costituiscono l’ossatura di una parte della produzione aaltiana, allo stesso modo risultano inservibili nel caso specifico della sauna. Per questa ragione, si può dire che la proposta per la Saunatemppelli rimarrà un episodio unico nel suo genere, circoscritto alla fase sorgiva della poetica aaltiana, connotata da considerazioni progettuali tanto entusiastiche quanto acerbe. Questa contraddizione tra dichiarazioni di intenti e esiti formali è però ben lontana dal rappresentare una rinuncia in termini progettuali; la riluttanza di Aalto a ricorrere al codice classico dimostrata in queste costruzioni caratteristiche, deve piuttosto essere considerata alla luce di ciò che la sauna simboleggia nella cultura finlandese. Infatti questo edificio non è paragonabile a un comune spazio per la cura del corpo: per la sua particolare natura, esso non si può confrontare con gli edifici termali di tradizione greco-romana, ma come avrà occasione di chiarire lo stesso Aalto, la sauna è “materiale finlandese”. Nella sauna vive l’archetipo della casa del nord e il suo aspetto scabro è legato alla severità della natura nordica. Aalto coglie in questi edifici rudimentali un sentimento ancestrale di necessità che rende inadeguato ogni formalismo. Nello spazio spoglio della sauna, casa primigenia, si com-
1 Alvar Aalto davanti alla sauna © Alvar Aalto Foundation Pagine successive: 2 Schizzi © Alvar Aalto Foundation 3 La sauna sul lago di Päijänne vista dal bosco di betulle © Alvar Aalto Foundation 4 Sezione © Alvar Aalto Foundation 5 Piante © Alvar Aalto Foundation 6 Dettaglio del camino foto di Jari Jetsonen 7 Dettaglio della porta di ingresso foto di trevor.patt, www.flickr.com
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piono i riti atavici dell’abitare: qui si danno alla luce i figli, qui gli sposi si purificano alla vigilia delle nozze, qui si assistono i malati e ci si accommiata dai morenti. La ritrosia a stravolgere la tipologia primitiva si riconferma in ognuno dei numerosi progetti di sauna e in nessun caso Aalto disegnerà qualcosa di avulso da ciò che la tradizione ha consolidato come modello: una scarna capanna di tronchi giustapposti. Anche per le saune pensate a corredo di alcuni dei progetti più moderni del Maestro, quand’anche introduca alcune innovazioni, queste si riducono a variazioni sul tema, che non disattendono l’ingenita essenza di queste architetture. Un esempio di questo contatto “istintuale” con la tipologia è espresso magistralmente nella casa estiva di Muuratsalo e, in special modo, nella sauna dove Aalto raggiunge un equilibrio esemplare tra intuizione e ragionamento progettuale. I principi fondativi di questo progetto sono imputabili al profondo cambiamento, sia personale che professionale, che interessa l’architetto già negli anni precedenti alla redazione del progetto della Casa sperimentale e, in particolare, successivamente alla precoce scomparsa della moglie Aino nel 1949. La poetica aaltiana presenta uno slittamento dai modelli lirici del Classico verso quelli medievali (tanto della tradizione aulica, quanto di quella spontanea), più idonei ad esprimere l’inclinazione “domestica” della rinnovata architettura di Aalto. Anche il progetto per Koetalo (Experimental house) è attuazione di un principio raffinato di semplicità domestica. Nella sua elaborazione Aalto resta estraneo agli stereotipi borghesi e bohémien che vedono in questo genere di abitazione il raggiungimento di un ambìto status sociale o la seduzione romantica del luogo ameno di contemplazione e individua in questa dimora un luogo di rifugio dove riconciliarsi con un modo di vivere più modesto, fatta propria la ristrettezza peculiare del mökki, la casa estiva, non si discosta da tanta laconicità. L’organismo essenziale è imperniato attorno alla tradizionale tupa, la stanza del focolare, reiterata all’esterno nel tipico atrium aaltiano; tutti gli altri ambienti della casa, realizzati negli anni successivi, restano mere subordinate del nucleo generativo centrale. È con questo nuovo senso di umanesimo, con “uno spirito francescano, uno spirito del Cantico dei cantici, per questa profonda fraternità con tutte le cose del mondo, della natura e della vita”2, come chioserà Ragghianti parlando del Maestro finlandese, che nel
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1953 Aalto decide di completare Koetalo realizzando la sauna, un’ulteriore riduzione, in termini sia di scala che di spirito, della casa stessa: un accampamento primordiale. Il cabanon aaltiano, situato poco distante dalla casa, è impostato su alcuni grossi massi che, raccordandosi con gli scalini di legno grezzo, permettono l’accesso al ristrettissimo spogliatoio, anticamera della sauna vera e propria. Una volta entrati nel sacello, dove è custodito il braciere, finalmente si è avvolti dal vapore (löyly), che è spirito vitale. I grossi tronchi delle pareti sono impostati orizzontalmente in maniera tradizionale e ammorsati con la tecnica dell’intaglio. La copertura, un piano lievemente inclinato e ricoperto di vegetazione, aggetta su tutti e quattro i lati del capanno, costituendo, insieme alle teste dei tronchi, una cornice che corona tutte le facciate. L’edificio, il cui ingresso è rivolto verso il lago, si ricollega ad esso attraverso un percorso di esili pontili di legno che si perdono sul filo dell’acqua. La sauna di Muuratsalo è un tempio di autentica povertà nordica e solo alcuni dettagli rivelano la raffinatezza del suo disegno: le proporzioni tra volume e copertura, la trama geometrica dei listelli della porta, la maniglia di legno di betulla, simile a quella che, riprodotta in bronzo, l’architetto finlandese aveva apposto alla porta della sfarzosa Villa Mairea. L’esigua capanna sulle rive del lago Päijänne potrebbe apparire, a un primo sguardo, come un anonimo edificio tradizionale ma, ancora una volta, una così radicata aderenza al modello non ha a che fare con “le forme del folclore”, perché la composizione del Maestro rappresenta una scelta di contenuti più che di forme. Con questa piccola costruzione Alvar Aalto consacra il suo personale tempio, un santuario spoglio, nudo, com’è nudo l’uomo che vi entra; lasciando, con gesti quasi liturgici, gli abiti (habitus) fuori di essa, egli compie un atto di liberazione dai toni francescani. 1 […] Dunque costruiamo là una sauna! Non la solita caricatura semicivilizzata della vecchia sauna finlandese (come sono tutte le nostre saune oggigiorno) ma una sauna culturale, un monumento nazionale, la prima del suo genere nella fiorente civiltà finlandese. […] Gli ospiti passano per una hall sorretta da quattro colonne. Le pareti sono rivestite di ceramiche, e proprio di fronte all’ingresso si trova un braciere su cui arde un fuoco crepitante di ceppi scelti.[…]. Alvar Aalto, Saunatemppelli, Temple baths on Jyväskylä Ridge, “Keskisuomalainen”, 22-1-1925, pubblicata successivamente in G. Schildt, 1997, Alvar Aalto. In his own words, Keuruu, Otawa. (traduzione dell’autrice.) 2 Ragghianti parla di Alvar Aalto e della sua personalità, servizio nella serie L’Approdo, dicembre 1965, RAI, Videoteca Centrale Roma.
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Firenze Architettura (1, 2015), pp. 134-139 ISSN 1826-0772 (print) ISSN 2035-4444 (online) CC BY-SA 4.0 Firenze University Press www.fupress.com/fa/
Bernard Rudofsky, Tino Nivola: Costruire con pochi mattoni, qualche blocco di cemento e alcuni pali. Casa-Giardino Nivola, Long Island, NY (1950) Ugo Rossi
Con l’acquisto di una vecchia fattoria negli Hamptons a Long Island, l’artista Costantino Nivola (1911-1988) e l’architetto Bernard Rudofsky (1905-1988) si trovano insieme a lavorare per la sistemazione del giardino. Come Ruth Nivola testimonia, nei giorni in cui Tino e Bernard lavorano insieme: “è stato come vedere dei bambini che giocano in giardino”1. I due amici, senza disegni esecutivi e di progetto, “con pochi mattoni, qualche blocco di cemento e alcuni pali”2 costruiscono una casa. Come ricorda Rudofsky: Alcuni anni fa, un mio amico ed io […], abbiamo costruito quello che io chiamo un Wohngarten, letteralmente, una casagiardino. Si trattava di una pergola, un solarium e un ampio camino - una vera cucina all’aperto […] Il punto è che tutto è costato soltanto 80 dollari3.
La piacevole esperienza di questa costruzione coincide con una delle tante aspirazioni di Rudofsky quella che la professione torni ad essere gioco e divertimento, non soltanto lavoro4. Nelle lezioni universitarie alla Royal Academy of Fine Arts di Copenhagen, dichiara l’importanza dell’esperienza e auspica l’ausilio di un laboratorio: Se qualcuno mi chiede come ampliare, o migliorare, la formazione dello studente di architettura, come offrirgli un’esperienza più diretta di quella che avviene a scuola, suggerirei di dotarlo di un cantiere sperimentale - un Bauhof - un posto al coperto, ma anche all’aperto, dove poter costruire modelli architettonici, non in scala 1: 100, o 1:50, o 1:20, ma 1:15.
Rudofsky desidera stimolare le facoltà dei futuri architetti praticando la progettazione, sperimentando, giocando, divertendosi, piuttosto che indicare loro come fare e cita come esempio, l’esperienza di gio-
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co, di laboratorio sperimentale, compiuto con Nivola nella casa di Long Island. Il progetto di sistemazione del giardino della casa-atelier Nivola a Long Island è definito dalla presenza di un solarium, un barbeque, alcune panche, un pergolato, alcuni tralicci e dei muri, che i due amici, costruirono tra la primavera e l’estate del 19506. Questa esperienza rappresenta l’opportunità per Rudofsky di mettere in atto, negli Stati Uniti, alcune delle idee coltivate da tempo sulla casa come giardino. Quella che egli definisce The Conditioned outdoor room7, la Wohngarten o la corte, era già stata in precedenza affrontata nelle ville costruite in Brasile nel 1939-41 e, prima ancora, in una serie di disegni della seconda metà degli anni Trenta, di cui uno è utilizzato sia per l’editoriale di Domus8 che in seguito, come copertina di Interiors9. Questo disegno mostra come l’essenza della casa consista in una stanza all’aperto. Per Rudofsky l’idea stessa di casa coincide con il Paradiso, parola che, come tiene a sottolineare, deriva da un termine persiano che significa “giardino del piacere recintato da mura”10 e pensa gli spazi esterni come luoghi adatti per l’abitazione e oggetto di utilizzo quotidiano: “Nel giardino di una casa superbamente progettata, si dovrebbe essere in grado di lavorare e dormire, cucinare e mangiare, giocare e rilassarsi”11. La peculiarità del progetto di sistemazione del giardino di casa Nivola permette la declinazione dei temi del suo vocabolario in un risultato emblematico. Il tema è la sistemazione del giardino della casa-atelier dell’artista, ma il progetto coincide con l’estremizzazione della concezione della casa all’aperto: il giardino si trasforma, grazie agli elementi compositivi e alla con-
1 1 L’albero di mele che perfora il muro Domus, n. 272 luglio-agosto 1952, p. 1 Archivio Nivola, East Hampton, NY 2 Casa-giardino Nivola, Planivolumetrico The Bernard Rudofsky Estate, Vienna © Bernard Rudofsky by SIAE 2015 Pagine successive: 3 Copertina di The Architectural Review, CXI, April 1952 4 Il solarium Harperís Bazaar, LXXXV, February 1951, p. 163 5 Casa-giardino Nivola, Planimetria Disegno Ugo Rossi 6 L’albero di mele che perfora il muro The Architectural Review, CXI, April 1952, p. 269 Fondazione Costantino Nivola, Orani, Nuoro 7 Casa-giardino Nivola, Assonometria stanza del focolare Disegno Ugo Rossi 8 Immagine di un raduno intorno al focolare Archivio Nivola, East Hampton, NY 9 Il Pergolato Domus, n. 272. luglio-agosto 1952, p. 7 Fondazione Costantino Nivola, Orani, Nuoro
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cezione architettonica di Rudofsky, inevitabilmente in una casa, che, come dice Rudofsky, è costata soltanto 80 dollari. Rudofsky definisce i punti salienti del progetto negli articoli The Bread of Architecture e Giardino, stanza all’aperto12, e il progetto viene pubblicato anche su Architectural Review13. Negli scritti descrive la necessità di una casa in relazione con il giardino, se non addirittura la sua coincidenza, contrariamente a quanto dice Le Corbusier che pensa il giardino come spazio da osservare dall’interno. La casa con grandi vetrate, inoltre, era la rappresentazione dell’architettura modernista americana, diffusa soprattutto a Los Angeles grazie alle case costruite nel contesto del programma Case Study House, promosso dalla rivista Arts & Architecture di John Entenza e testimoniato dai bellissimi e spettacolari servizi fotografici di Julius Schulman, diventati icone della modernità Americana nel Mondo14. Rudofsky, ironicamente, osserva invece che “La finestra panoramica raramente offre una visione di qualcosa di più pittoresco che quella del vicino”15 e scrive come nelle case di Pompei i giardini facessero parte integrante della casa, erano vere stanze all’aperto e senza tetto, inoltre, per apprezzare pienamente i giuochi cangianti della luce, le forme delle nuvole, bisogna
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contemplare il cielo fra quattro mura, per costituire una cornice altrettanto definita di quella di un quadro: “Il muro è il pane dell’architettura”16. Il progetto si articola con gli strumenti della composizione del suo vocabolario: un muro, attraversato dai rami di un albero di mele preesistente, come già nei disegni degli anni Trenta, per i Bungalows ad Antibes progettati insieme a Gio Ponti17. Rudofsky spiega: In un giardino, un muro assume un carattere di scultura. Inoltre, se è di estrema precisione e di un bianco brillante, si scontra, come dovrebbe, con le forme naturali della vegetazione e genera uno spettacolo in continua evoluzione di ombre e riflessi. E a parte che funge da schermo di proiezione per le piante circostanti, il muro crea un senso di ordine […] Un vecchio albero di mele trafigge uno dei muri e gli conferisce, mi sembra, una qualità peculiare monumentale18.
Il muro è il pane dell’architettura. Il recinto con l’albero, una casa. È la presenza dell’albero, che fornisce ombra e ripara dalla pioggia, che rende possibile l’abitare. Per Rudofsky non solo l’albero rappresenta la casa, come accade in culture e paesi diversi, ma coincide con la fondazione dello spazio sacro. L’albero, la casa e il tempio coincidono: “Quanto chiamiamo tempio, è in realtà l’astrazione di un boschetto; il folto delle colonne richiama un folto d’alberi”19.
Poco distante dal muro e dall’albero di mele c’è il solarium una stanza senza tetto, accessibile da una scala esterna, con il pavimento in parte in mattoni rossi, in parte a prato in cui la temperatura è tale da consentire di prendere il sole nudi anche in inverno. L’origine di questo solarium è testimoniata dalle fotografie dei viaggi di Rudofsky: un edificio vernacolare incontrato nell’isola di Pantelleria, chiamato per l’appunto Giardino, che egli inserisce nel suo The Prodigious Builder, descrivendolo come una “fortezza in miniatura sparsa tra i vigneti, costituita da un solido muro”20. Altri elementi del progetto sono i traliccipergola, realizzati con sottili pali di legno dipinti di bianco, che definiscono idealmente i limiti spaziali di stanze cubiche. La pergola è ridotta a elemento quasi lineare che misura lo spazio21. Questi tralicci, sono simili alle pergole dei giardini di Pompei, alle strutture effimere dei giardini medievali della Hypnerotomachia Poliphili che Rudofsky ben conosceva22 o alle serre per la coltivazione dei limoni nel Gargano, inserite nel catalogo della mostra Architecture without Architects, inaugurata al MoMA nel 1964. L’ultima stanza all’aperto, arredata con panche, è costituita da un pergolato che definisce alcuni cubi perfetti e dal barbeque, che ne dichiara il significato domestico e conviviale, il cuore che ani-
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ma nei weekend le discussioni dei molti amici invitati. La cucina e il camino hanno un ruolo fondamentale: [la cucina] era, e talvolta è ancora, il centro della vita della casa. In un lontano passato il focolare era sia altare che pietra sacrificale. La preghiera e il sacrificio degli animali erano strettamente collegati e l’invocazione degli dei è associato ad un barbecue di famiglia[…]23. Essa può, quindi tornare allo status nobiliare in cui era tenuta nel passato, un santuario e un altare senza dubbio vivificante24.
L’architettura di questa costruzione è modellata come una coreografia delle azioni e del modo di vivere, è nelle immagini di Tino, Ruth, i figli, dei parties con gli amici, che siedono sulle panche. Come testimonia Ruth, la casa giardino divenne ben presto un centro di socializzazione25. Oltre ai Rudofsky, molti altri erano abituali frequentatori della casa: Jackson Pollock e Lee Krasner che abitano lungo la strada, Willem de Kooning, Mark Rothko, Franz Kline, James Brooks, Hans Namuth, Dorothy Norman, Saul Steinberg e sua moglie Heda Sterne, che abitano di fronte, Peter Blake, Frederick Kiesler che affitta una casa poco distante, Paul Lester, Paul Tishman e infine Le Corbusier26. A Long Island anche i Rudofsky pensarono di costruire una casa ma, come i disegni di progetto testimoniano, rimase soltanto un sogno27. Bernard e Berta dovettero aspet-
tare prima di trovare il luogo adatto per costruire una propria casa. La costruiranno venti anni più tardi a Frigiliana, un paese tra Malaga e Nerja, a tre chilometri dalle coste spagnole del Mare Mediterraneo. Una casa in una collina immersa in un uliveto, aperta al paesaggio, interamente pensata per una vita all’aperto28. 1 Intervista di Gordon Alstair a Ruth Nivola, East Hampton, 17 September 1999, Cit. in Gordon Alastair, Weekend Utopia Modern Living in the Hamptons, Princeton University Press, NY 2001, p. 53. 2 Bernard Rudofsky, Lectures Tallahassee, Rudofsky Papers, Getty, p. 7. 3 Bernard Rudofsky, Lectures Tallahassee, ibid. 4 Bernard Rudofsky, “When architecture was all play and no work”, The prodigious builders, Hacourt Brace, NY - London 1977, pp. 84-127. 5 Bernard Rudofsky, Lectures Copenhagen (Back to kinderkarten), 8th April 1975, Rudofsky Papers, Getty, p. 5. 6 Vedi: Giuliana Altea, “Nel giardino di Springs”, Costantino Nivola, Ilisso Edizioni, Nuoro 2005, pp. 52-54; Giuliana Altea, “La stanza verde, Bernard Rudofsky e il giardino di Nivola”, in Nivola, L’investigazione dello spazio, a cura di Carlo Pirovano, Ilisso Edizioni, Nuoro 2010, pp. 25-37 e Alessandra Como, Riflessioni Sull’abitare. la Casa-giardino a Long Island 1949-50 di Tino Nivola e Bernard Rudofsky, Aracne, Roma 2010. 7 Bernard Rudofsky, “The Conditioned Outdoor Room”, Behind the Picture Window, New York, Oxford University Press, 1955, pp. 150-167. 8 Bernard Rudofsky, “Problema”, Domus n. 122, febbraio 1937, p. XXXIV. 9 Copertina Interiors, May 1946. 10 Bernard Rudofsky, “Die Wohltemperierte Wohnhof”, Umriss 10, 1/1986, p. 5. 11 Bernard Rudofsky, Behind the Picture Window, Op. cit., p. 157. 12 Bernard Rudofsky, “Giardino, stanza all’aperto: A proposito della ‘casa giardino a Long Island’ N.Y.”, Domus, n. 272. luglio-agosto 1952, pp. 1-5+70-71; “The bread of architecture”. Arts and Architecture, LXIX, October 1952, pp. 27-29+45 13 Queste pubblicazioni saranno causa di dissidio tra i
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due amici. Vedi Giuliana Altea, “La stanza verde, Bernard Rudofsky e il giardino di Nivola”, Op. cit. pp. 33-35. 14 Il Case Study House è un esperimento nato per far fronte all’emergenza abitativa causata dal ritorno dei reduci della guerra dal 1945 al 1966. Progettisti coinvolti sono Charles e Ray Eams, Richard Neutra, Pierre König, Eero Saarinen, Craig Ellwood, William Wurster e altri. Vedi: Esther Mc Coy, Case Study House, 19451962, Hennessey & Ingalls, 1977; Elizabeth A. T. Smith, Case Study House, Taschen, Köln 2009. 15 Bernard Rudofsky, Behind the Picture Window, Op. cit., p. 195. 16 Bernard Rudofsky, “Giardino, stanza all’aperto”, Op. cit., pp. 70-71. 17 Gio Ponti, “Hotel du Cap, progetto per bungalows per Eden Roc ad Antibes” (1939), Lo Stile nella casa e nell’arredamento, agosto 1941, n. 8, pp. 21-22. Vedi inoltre: Ugo Rossi, “Questo albergo è una casa. Gio Ponti, Bernard Rudofsky: albergo San Michele a Capri, 1938”, in Abitare con, a cura di Eleonora Mantese, Canova, Treviso 2010, pp. 65-81. 18 Bernard Rudofsky, “The bread of architecture”, Arts and Architecture, LXIX, October 1952, pp. 27- 29 + 45. 19 Bernard Rudofsky, The Prodigious Builder, Op. cit., p. 53, 20 Bernard Rudofsky, The Prodigious Builder, Op. cit., fig 210, 21 Bernard Rudofsky, “The bread of architecture”, Op. cit. 22 Bernard Rudofsky, Behind the Picture Window, Op. cit., p. 161. 23 Bernard Rudofsky, Behind the Picture Window, Op. cit., p. 10. 24 Bernard Rudofsky, Behind the Picture Window, Op. cit., p. 32. 25 Intervista di Gordon Alstair a Ruth Nivola, East Hampton, 17th September 1999, Gordon Alastair, Weekend Utopia, Op. cit., p.55 26 Gordon Alastair, Weekend Utopia Op. cit., pp. 54-55. 27 Disegni appartenenti al Bernard Rudofsky Estate di Vienna. 28 Vedi Ugo Rossi, “Das Haus Rudofsky in Frigiliana (Spanien) - Bauen ohne zu zerstören”, Denkma[i]l, n. 16, Jänner-April, Vienna 2014, pp. 30-31; Mar Loren, “La casa en Frigiliana. Manifesto rudofskiano de la domesticidad contemporánea”, in Bernard Rudofsky: Desobediencia crítica a la Modernidad, a cura di Mar Loren e Yolanda Romero, Granada, 2014, pp. 30-51.
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Firenze Architettura (1, 2015), pp. 140-143 ISSN 1826-0772 (print) ISSN 2035-4444 (online) CC BY-SA 4.0 Firenze University Press www.fupress.com/fa/
Answering the Challenge: Rural Studio’s 20K House Rusty Smith
In 1968 civil right activist Whitney M. Young, Jr. publicly challenged both the professional and academic institutions of architecture to take responsibility for our role in the linkage he saw between poverty, opportunity, and the built environment. He posited that safe, dignified, and affordable housing was a basic human right, and that as individual practitioners we were both morally and ethically bound to act. But perhaps more profoundly Young went on to say that beyond the responsibility we bore as individuals, as a discipline we have a professional obligation to take a leadership role in addressing the failures in our ability to tackle the systemic problems in our country that contribute to the poverty and lack of opportunity afforded to the American poor.1 Decades later, while working to redefine the field of Environmental Equality in the very same inner-city New York neighborhoods that Young cited as examples in his challenge, the visionary founder of ‘Sustainable South Bronx” Majora Carter stated: “Economic degradation begets environmental degradation. And environmental degradation begets social degradation. The linkage is absolute. No exceptions. It is not a menu. You can’t pick and choose which one of those three you’d like to address. You’ve got to address them all.”2
Echoing Carter’s sentiment, we must all agree that in this day and age it is strange that as a discipline we continue to bifurcate the issues of Environmental Stewardship, Social Justice, Building Performance, and Community Engagement into areas of sub-specialization within the field of architectural practice. As an alternative, Auburn University’s
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Rural Studio seeks to synthetically and holistically address every aspect of a sustainable world including: nature, the economy, societal conditions, individual health, and wellbeing. Rural Studio is a design-build program that represents a unique partnership between Auburn University and the rural communities of Alabama’s Black Belt region. Founded in 1993 Rural Studio’s work is grounded in the core philosophy that all people, regardless of economic status, should benefit from thoughtful and responsible design. The Studio is involved in the local architecture, landscape, politics, arts, crafts, music, food and the very rhythms of everyday life. As an academic initiative, Rural Studio empowers and encourages students to do the same, putting their educational values to work as both citizens and neighbors in our community. In our total immersion program, students live, eat, design and build in the community they serve. They come to appreciate local culture, build meaningful relationships, and experience the substantive impact of architecture firsthand. Students are taught to safeguard, preserve and enhance connections between the natural landscape, the built environment, and even one another. Rural Studio is engaged in many types of public and private projects, including designing and building homes. In our ongoing project we refer to as the “20K House,” our students are faced with the challenge of designing a mass-market house that can be built by a contractor in a market-rate economy for less than $20,000. The 20K House began in 2005 as an ongoing Rural Studio research project to address the need for affordable housing in Hale County while simulta-
20K House Product Line, Rural Studio Rural Studio: undergraduate program of the School of Architecture, Planning and Landscape Architecture at Auburn University (since 1993) Rural Studio is a registered trademark of Auburn University Faculty ANDREW FREEAR Director | Wiatt Professor | Newbern RUSTY SMITH Associate Director | Associate Professor | Auburn ELENA BARTHEL 3rd Year Assistant Professor| Newbern XAVIER VENDRELL 3rd Year Visiting Instructor | Newbern & Chicago DICK HUDGENS Seminar in History and Theory Instructor | Newbern STEVE LONG Woodshop Instructor | Newbern ALEX HENDERSON 3rd Year Instructor | Newbern
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neously creating an industry of small, local home building. The initial experiments all consisted of single bedroom homes, but most recently Rural Studio has expanded the program to include models that have two bedrooms. To date, Rural Studio has designed and built seventeen prototypes for the 20K House. After intense scrutiny and testing of these prototypes, Rural Studio has developed the foundation for what we refer to as the “20K House Product line.” The Initial product line includes three (3) one-bedroom houses named for their owners: Dave’s House (2009), MacArthur’s House (2010) and Joanne’s House (2011). Future additions to the 20k House Product Line will include multiple bedroom options such as: Bobby’s House (2014), Michelle’s House (2014) and Sylvia’s House (2014) as well as homes with integrated accessibility and storm sheltering features such as: Turners House (2012) and Eddie’s House (2013). In taking the 20K House from “Project to Product,” Rural Studio has engaged with outside consultants to aid in aligning the 20K House documents with the current International Residential Code as well as Federal Housing Authority (FHA) and United States Department of Housing
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and Urban Development (HUD) guidelines. To date, two model homes have been built in Hale County, with the third to be built in the fall of 2015. These public models will be used for showing the homes to potential clients, as well as for environmental performance testing and other interests of Rural Studio. As a next step Rural Studio has most recently partnered with several external developers to “field test” the constructability and performance of the 20k House Product Line outside of the Studio’s direct oversight and control. Once these field tests have been deemed successful it is the ultimate goal to develop a set of construction documents and specifications complete enough for construction in a climate similar to central Alabama, and easily adjusted to meet the building requirements of other areas beyond our region. In total since 1993, Rural Studio has completed over 160 projects, and educated over 900 “citizen architects.” But perhaps more importantly, Rural Studio produces ideas and methods that can be useful not only to the communities of rural West Alabama, but our lessonslearned and best practices may also be transferred to other academic endeavors around the world. While we obviously
have a long way yet to go and there is much, much heavy lifting still to be done, In some small way it is the hope of Rural Studio that Whitney M. Young Jr. would see our ongoing work as a humble yet sustained response to his call for action almost half a century ago. 1 Whitney M. Young, Jr., “Keynote Address” (American Institute of Architects Annual Meeting, Portland, Oregon, June 25, 1968) 2 Majora Carter, as quoted by Ray C. Anderson, Confessions of a Radical Industrialist: Profits, People, Purpose – Doing Business by Respecting the Earth, St. Martin Press, NY, NY 2009, p. 257
Nota redazionale Rural studio è un Laboratorio di progettazione e costruzione congiunto di docenti e allievi nell’ambito di uno dei corsi di laurea della Scuola di Architettura, Pianificazione e Architettura del Paesaggio della Facoltà di Auburn in Alabama ed è attivo dal 1993. Il Laboratorio è diretto dal Professor Andrew Freear, affiancato nella Direzione dal Professor Rusty Smith, che ha accolto la richiesta di Firenze Architettura di presentare in questo numero della nostra rivista la ricerca e gli esiti del Laboratorio. L’esperienza muove da un forte coinvolgimento della Facoltà col territorio e le sue maggiori criticità come per esempio una mai risolta condizione di povertà. L’impegno tecnico e professionale si è così saldato a quello degli attivisti più impegnati sul fronte dei diritti civili e umani. Alla Redazione di Firenze Architettura è parso opportuno pubblicare direttamente nella lingua in cui è stato scritto questo articolo, in presa diretta con le condizioni reali del territorio in cui la Scuola di Auburn opera. La risposta alla sfida di cui si parla nel titolo è costituita dalla serie di case da 20.000 dollari che son state progettate da professori e studenti per destinatari particolarmente indigenti individuati dalle comunità rurali locali.
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Pagine precedenti: 1-2-3 Michelle’s House (2014) 4-5 Turners House (2012) 6-7 Eddie’s House (2013) 5
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foto Rural Studio
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Firenze Architettura (1, 2015), pp. 144-149 ISSN 1826-0772 (print) ISSN 2035-4444 (online) CC BY-SA 4.0 Firenze University Press www.fupress.com/fa/
Lina Bo Bardi: due “Site Specific Museums” tra Brasile e Africa. Costruire povero e complesso. Giacomo Pirazzoli
“Il Brasile non è Oriente né Occidente. Il Brasile è Africa”
Con questa illuminante frase di Lina Bo Bardi, l’autorevole collega Zeuler R.M. De A. Lima – al quale si deve la monografia più recente ed importante dedicata all’architetta, edita da Yale University Press nel 2013 – apre la serie di interviste che compongono il progetto “Lina e Pierre – Vite parallele: due musei tra Africa e Brasile” supportato da ToscanaInContemporanea/Regione Toscana, prodotto da questo Dipartimento di Architettura/ DiDA e diretto dal sottoscritto. A sua volta tale progetto è il documentario previsto nell’ambito della trilogia di cui alla ricerca interdisciplinare PRIN “Site Specific Museums” www.sismus.org, cominciata nel 2008 con il supporto del Ministero Università e Ricerca, come da pubblicazione del 2011. Ora, ricercare nell’opera ricca ed inusuale di Lina Bo Bardi il “costruire povero” significa proprio fare i conti con quello che diviene una sorta di “terzo paesaggio” non direttamente agito nella vita dell’architetta: dopo l’Italia ed il Brasile, ecco l’Africa. Perciò questo doppio progetto è un punto di interesse; anche perché ad oggi solo uno dei due “musei” destinati ad arricchire di pratiche contemporanee le terre che erano state punto di partenza e di arrivo degli schiavi dall’Africa è realizzato per intero, l’altro invece – del quale restano alcuni schizzi in archivio – in modo parziale. Eppure essi sono stati concepiti come programma unitario, un fatto che non ha trovato spazio in occasione delle numerose e pur qualificate iniziative di esposizione e di ricerca organizzate a livello internazionale durante questo centenario della nascita di Lina.
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L’architetta Lina Bo Bardi (Roma 1914-San Paolo 1992), la più importante architetto donna del ‘900, dopo la formazione accademica romana si trasferisce a Milano per lavorare da/con Gio Ponti (Domus etc.) ove pure aderisce – secondo autobiografica quanto discussa nota – al Partito Comunista e alla guerra di liberazione. Nel 1946 sposa Pietro Maria Bardi, gallerista ed intellettuale già organico al regime fascista; con Bardi, Lina viaggia verso il Brasile – sorta di emigranti di lusso. Dal 1951 l’architetta assume cittadinanza brasiliana, abitando a San Paolo e costruendo la famosa e bellissima Casa de Vidro che oggi è sede dell’Instituto Lina Bo e Pietro Maria Bardi. Dal 1959 al 1964 trascorre lunghi periodi – chiamata dal Governatore dello Stato a dirigere il costruendo Museo d’Arte Moderna – a Salvador da Bahia, il cuore Afro del Brasile. Lì entra peraltro in contatto con i numerosi intellettuali ed artisti oriundi o locals (tra i quali lo scenografo Martin Gonçalves, il compositore Koellreutter, il giovane regista Glauber Rocha, l’etnografo e fotografo francese Pierre Verger invece che Jorge Amado...) riuniti da Edgar Santos – il formidabile rettore dell’Università in carica fino al 1961 – con l’obiettivo politico e civile di formare una classe dirigente in grado di indirizzare adeguatamente le risorse derivate dal petrolio che si andava scoprendo in zona. Il lavoro di quel manipolo di personaggi non-convenzionali, che Antonio Riseiro presenterà nell’omonimo libro come la Avanguardia a Bahia, riemergerà nel corso del tempo. Fino al 1964 – quando la dittatura militare assesterà un pesante colpo di spugna su questi anni di incontri e sperimentazioni – Lina allestisce a Salvador un centinaio di mostre incrociando
1 Lina Bo Bardi e Pierre Verger - Vite parallele: due musei tra Africa e Brasile progetto: Università di Firenze-Dipartimento di Architettura DiDA con il supporto di ToscanaInContemporanea-Regione Toscana partner: Festival dei Popoli, Firenze Image-Firenze, Marco Brizzi con Lo Schermo dell’Arte, Firenze direzione: Giacomo Pirazzoli (Università di Firenze, DiDA-CrossingLab) consulente antropologo: Filippo Lenzi Grillini (Università di Siena), ricerca e grafica: Giada Cerri (IMT-Lucca) montaggio: Veronica Citi, ricerca: Eric Medri trattamento materiali: Susanna Cerri e Letizia Di Pasquale (Università di Firenze, DiDA) amministrazione: Gioi Gonnella e Stefano Franci (Università di Firenze, DiDA) service riprese: Zebra X Film-Alberto Jannuzzi e Fernanda Nascimento, Salvador da Bahia Conferenze per i workshop: Zeuler R.M. De A. Lima (Washington University in Saint Louis) Vera Simone Bader (Architekturmuseum TU-München) Ana Araujo (Architectural Association, London) Si ringrazia in particolare: Ana Carolina Bierrenbach, Carla Zoellinger, Federico Calabrese, UFBA, Salvador da Bahia Maureen Bisilliat, Instituto Moreira-Salles, Rio de Janeiro Anna Carboncini e Renato Anelli, Instituto Lina Bo e Pietro Maria Bardi, Sao Paulo Mauricio Chagas, UFBA, Salvador da Bahia Marcio Correia Campos, UFBA, Salvador da Bahia Marcelo Carvalho Ferraz, Sao Paulo Silvia Davoli, Strawberry Hills, London Isa Grinspum Ferraz, Sao Paulo Gilberto Gil, Rio de Janeiro Giancarlo Latorraca e Felipe Bezerra, Museu da Casa Brasileira, Sao Paulo Angela Luhning, Fundaçao Pierre Verger, Salvador da Bahia Adriano Pedrosa, MASP-Museo de Arte de Sao Paulo Marcelo Rezende, MAM-Museu de Arte Moderna da Bahia Alberto Salvadori, Museo Marino Marini, Firenze Livio Sansone, UFBA, Salvador da Bahia Il progetto ha piattaforma collaborativa fb: LinaProject
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soprattutto temi legati alla cultura materiale e popolare. Una mossa indubbiamente alternativa alla via brasiliana al Moderno di derivazione europea, che Lina stessa aveva praticato a San Paolo – e che era diventato nel frattempo il vessillo del Brasile in costruzione, dal talento di Oscar Niemeyer a quello di Roberto Burle Marx – sorta di eco lunghissima dell’incursione sudamericana di Le Corbusier del 19291. Interessante notare come tali allestimenti avvengono nel foyer del Teatro Castro Alves, uno spazio “semplice” compresso tra pavimento e solaio, con vetrata perimetrale. Uno spazio che – come giustamente fa notare nella intervista che ci ha rilasciato il collega Mauricio Chagas, collaboratore di Lina per le opere realizzate a Salvador dopo la caduta della dittatura – “ricorda moltissimo lo spazio finale del MASP-Museo de Arte de Sao Paulo” (1951-1968), forse l’opera più iconica e nota di Lina. L’etnografo Pierre “Fatumbi” Verger (Paris 1902-Salvador da Bahia 1996), prima fotografo e poi etnografo, prende casa a Salvador da Bahia alla fine degli anni ’50 vivendo
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comunque sempre alternativamente tra Africa e Brasile appunto per studiare i riti ed i costumi portati in Brasile dagli schiavi che provenivano dalle coste africane. Purtroppo, per ragioni di spazio, non è possibile qui ospitare la ricerca elaborata dal consulente antropologo Filippo Lenzi Grillini – il quale verso la realizzazione del documentario ha fornito supporto essenziale anche per rintracciare il lavoro svolto da Verger per la formazione del Museo Afro-Brasiliano di Salvador da Bahia, alla fine degli anni ’50, quando appunto egli incontrò Lina per la prima volta grazie al già ricordato rettore Edgar Santos. Nella sua testimonianza documentaria Angela Luhning, musicologa e direttrice della Fondaçao Verger, parla di Pierre come “ricercatore, scienziato e viaggiatore con una straordinaria capacità di connettere mondi e creare reti”. Il committente Gilberto Gil (Salvador da Bahia 1943), fondatore del Tropicalismo nonché importante uomo politico, per ragioni anagrafiche non interagisce direttamente con il gruppo di intellettuali ed artisti oriundi
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raccolti a Salvador attorno al rettore Santos. Imprigionato ed esiliato dal 1968 al 1972 insieme a Caetano Veloso, dopo la caduta del regime militare, nel 1988, assume la carica di Presidente della Fondazione Gregorio de Mattos a Salvador, quindi incarica Lina Bo Bardi insieme a Pierre Verger di realizzare due “musei” tra Africa e Brasile, per raccontare la storia della tratta degli schiavi ed “irritare deliberatamente le priorità eurocentriche della classe artistico-intellettuale brasiliana”. Nell’intervista che ci ha rilasciato per il documentario, e ancor più nella testimonianza a microfono spento, Gil sostiene di aver scelto Lina e Pierre in quanto due intellettuali di radici europee e radicamento brasiliano che già “stavano nella fase di coronamento per quanto riguarda il contributo nelle rispettive discipline”. Altre note Per quanto riguarda la migrazione identitaria ovvero in particolare la triangolazione interculturale tra Africa, Brasile e Occidente, dopo il 1959, anno in cui Marcel Camus vince Cannes con il film Orfeo negro mentre in Brasile fiorisce il Cinéma
Nôvo, è utile ricordare almeno la pubblicazione del Viceré di Ouidah (1980) di Bruce Chatwin, poi divenuto base della sceneggiatura del film Cobra Verde (1987) di Werner Herzog. À la Recherche d’Orfeu Negro (2005) è il documentario francese che tenta a suo modo di serrare il cerchio tra Africa e Brasile. Dialogo interculturale, costruire povero, innovazione Esaminando l’esito della “Casa do Benin” si evidenzia la cospicua corruzione dell’aurorale (ed Occidentale) idea di “museo”; del resto già nei primi anni ’60, lavorando al MAMB-Museu de Arte Moderna da Bahia concepito insieme al MAP-Museu de Arte Popular al Solar de Unhao, sempre a Salvador, Lina annota con decisione che il Museo propriamente conserva, ma nel caso, non esistendo una collezione da conservare, questo avrebbe piuttosto dovuto chiamarsi Centro, Movimento, Scuola etc.2. Mantenuti i muri perimetrali del grande edificio esistente, all’interno si evidenzia una struttura in cemento armato con una scala sul lato lungo verso il giardino; an-
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corché staccata dal muro esistente e fatta interstizio rispetto alle colonne che corrono lungo il muro rivestite di foglie di palma intrecciate, essa individua una struttura di tipo misto con travi ricalate. Tessili colorati sono commento spaziale di un volume lasciato cavo in altezza: un parallelepipedo di vuoto che attraversa tutti i livelli. L’allestimento – in effetti di superficie espositiva esigua – consta di teche quadrate in legno su disegno, chiuse con vetro orizzontale ovvero in alzato, a formare una sorta di cubo. Il lato corto del complesso, che anche in questo caso mantiene la facciata esistente lato strada, ha invece la parete portante verso il giardino realizzata con componenti prefabbricati completati con getto in opera; si tratta di un sistema disegnato da Joao Filgueiras Lima (Lelé), architetto al quale si devono opere complesse quali ospedali
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etc. di grande interesse e costo contenuto3; con Lelé Lina collabora nello stesso periodo anche per altre realizzazioni. In tutto l’edificio le tubazioni di scarico rosse, come i cavidotti gialli e blu, sono sempre lasciati in vista, ciò facendo parte di un modo povero ma moderno (ed Europeo); un modo che qui si amplifica per contrasto con i materiali naturali quali il legno in grandi tavole dei pavimenti. Nel giardino si trova il principale elemento di congiunzione culturale, dedicato al cibo che del resto riveste grade importanza per i riti del Candomblé: il ristorante ellittico, disegnato sull’archetipo della capanna – omologo a quello presente nella Maison du Brésil di Ouidah. Al suo interno un bellissimo tavolo cavo al centro che segue la pianta, realizzato su disegno, assieme alla sedia a tre gambe “giraffa”.
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Vd.: Barry Bergdoll, Carlos Eduardo Comas, Jorge Francisco Liernur, and Patricio del Real (editors), Latin America in Construction: Architecture 1955–1980, New York, 2015. 2 Vd.: http://mambahia.com/forte-como-papel-dainicio-ao-projeto-este-nosso-nao-e-um-museu/ 3 Max Risselada, Giancarlo Latorraca (ed.), A arquitetura de Lelé: fabrica e invenção, São Paulo, 2010. Tra le iniziative legate al centenario di Lina Bo Bardi Libri: Lima 2013: Zeuler R.M. De A. Lima, Lina Bo Bardi, Yale University Press Grinover, Rubino 2015: Marina Grinover, Silvana Rubino, Lina Bo Bardi por escrito: Textos escogidos 1943-1991, Mexico Sanchez Llorens 2015, Mara Sanchez Llorens, Lina Bo Bardi. Objetos y acciones colectivas, Madrid Mostre: A Arquitetura Politica de Lina Bo Bardi, a cura di André Vainer e Marcelo Ferraz, SESC Pompeia, Sao Paulo (con catalogo) Lina gráfica a cura di João Bandeira e Ana Avelar, SESC Pompeia, Sao Paulo Maneiras de Expor: Arquitetura expositiva de Lina Bo Bardi, a cura di Giancarlo Latorraca, Museu da Casa Brasileira, Sao Paulo (con catalogo) Lina em Casa: Percursos, a cura di Renato Anelli e Anna Carboncini, Instituto Lina Bo e Pietro Maria Bardi, Casa de Vidro, Sao Paulo 3 Sites – Lina Bo Bardi, Johan Jacobs Museum, Zurigo
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Lina Bo Bardi 100-Brazil’s Alternative Path To Modernism, a cura di Vera Simone Bader, Architekturmuseum TU-München (con catalogo) Lina Bo Bardi in Italia, a cura di Margherita Guccione con Sarah Catalano ed Ernesta Gaviola, MAXXI, Roma Lina Bo Bardi: Together mostra itinerante a cura di Noemi Blager Lina BA/58-64, a cura di Carla Zollinger, MAM-BA Salvador da Bahia Corrupting Lina, a cura di Federico Calabrese, MAM-BA Salvador da Bahia Convegni: Lina Bo Bardi (1914-2014) Una architetta romana in Brasile, a cura di Francesca R. Castelli e Alessandra Criconia Centenario Lina Bo Bardi, a cura di Ana Carolina Bierrenbach, Salvador da Bahia Documentario: Precise Poetry/Lina Bo Bardi’s Architecture (https://vimeo.com/84629153) di Belinda Rukschcio Risorse web: piattaforma collaborativa fb del progetto “Lina e Pierre – Vite parallele”: LinaProject https://www. facebook.com/groups/313274435505120/
Pagine precedenti: 1-2-3 Lina Bo Bardi, MAM Solar du Unhão, Salvador da Bahia 1959-1963, (immagini: Gilberto Gil, dal girato di “Lina e Pierre: Vite parallele”) 4-5-7-8 Lina Bo Bardi, Casa do Benin, Salvador da Bahia 1989, (collezione GP) 6 Lina Bo Bardi, ristorante della Casa do Benin, Salvador da Bahia 1989, (immagine: Gilberto Gil, dal girato di “Lina e Pierre: Vite parallele”)
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Firenze Architettura (1, 2015), pp. 150-157 ISSN 1826-0772 (print) ISSN 2035-4444 (online) CC BY-SA 4.0 Firenze University Press www.fupress.com/fa/
Enzo Mari, o del progetto critico Giuseppe Lotti
Enzo Mari ha attraversato 60 anni del design italiano. Con estrema coerenza. La sua attività di progettista, poetica e teorica è stata sempre mossa dalla volontà di forzare i limiti della professione in nome di un’esplicita tensione morale - “Io credo che se dal proprio ‘fare’ non nasce una consapevolezza, uno scarto, tutto è inutile …”1, “l’etica è l’obiettivo di ogni progetto”2; “per me progetto vuol dire cambiare il mondo”3. Una tensione, frutto di profonda onestà intellettuale, che ritroviamo nel suo pensiero che emerge, complesso, talvolta difficile, e nella lenta, sempre ripensata attività progettuale che, comunque, non ha impedito a Mari di essere uno fra autori più prolifici del design contemporaneo. Progetto come atto critico, quindi, che, sul piano formale, quasi inevitabilmente, si traduce in un linguaggio essenziale, minimale talvolta scarno. Le motivazioni di tale scelta, nel tempo, appaiono diverse, ma sempre coerenti. Programmare l’Arte Nei primi anni di attività Mari opera nell’ambito dell’Arte Programmata, insieme a figure quali Munari, Studio MID di Milano e al Gruppo N di Padova, sviluppando una riflessione sulla presenza, sempre più diffusa a livello collettivo, dei risultati delle conquiste scientifiche e tecnologiche4. Il nostro obiettivo, rileva Mari in questi anni, è quello di verificare sistematicamente, con procedimenti analoghi a quelli della ricerca scientifica i fenomeni artistici; di demistificare tutto l’apparato delle convenzioni di carattere estetico che ancora oggi continuano ad essere lo strumento e lo sfogo di una cultura borghese che non cerca la conoscenza ma soltanto il
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suo patentamento5. L’arte è stata finora considerata come un puro fatto estetico completamente distaccato dalle cose scientifiche e tecniche e spesso è rimasta solo un privilegio di pochi. Bisogna invece che i nuovi strumenti della scienza e della tecnica entrino a far parte della pratica artistica. L’esperienza estetica deve abbandonare quello spontaneismo che finora l’ha caratterizzata per dotarsi di tutta una serie di modelli logici che permettano di arrivare ad una programmazione quasi scientifica del funzionamento dell’opera. La ricerca e la sperimentazione assumono una grande importanza e sempre più stretto si fa il rapporto tra arte e scienze esatte come la matematica, la psicologia gestaltica, la linguistica strutturale. Occorre poi che l’arte diventi realmente alla portata di tutto. Il primo passo è quello di adottare un linguaggio che possa essere facilmente inteso. Quando un pittore del Rinascimento faceva un certo discorso usava dei mezzi comprensibili a tutti: quando un pittore della nostra epoca fa il suo discorso usa dei mezzi comprensibili a se stesso soltanto6, scrive Mari. Inoltre l’artista non deve più dedicare la sua attenzione al pezzo singolo ma a prodotti che, per la loro ripetibilità e il basso costo, siano alla portata di tutti. Mari, come Munari, arriva quindi al design in maniera quasi naturale. Scrive Munari: “Si rende oggi necessaria un’opera di demolizione del mito dell’artista-divo che produce soltanto capolavori per le persone più intelligenti … . È necessario, in una civiltà che sta diventando di massa, che l’artista scenda dal suo piedistallo e si degni di progettare l’insegna del macellaio … . Il designer ristabilisce il contatto, da tempo perduto, tra arte e pubblico … non più il quadro per il salotto ma l’elettrodo-
1 Enzo Mari, Casa in affitto, 1954 (tempera su carta 70x100 cm) Pagine successive: 2 Enzo Mari, in “questo non è uno scolapasta”, Editrice Compositori, Bologna, 2006 p. 89 3 Enzo Mari, Progetto 744, 1964 (alluminio, ottone, acciaio 70x70x27 cm) 4 Enzo Mari, Progetto 554L, 1960 (marmo edizione Danese) 5 Enzo Mari, 9 Progetti per produzione Danese, 1960-68
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mestico per la cucina. Non ci deve essere un’arte staccata dalla vita: cose belle da guardare e cose brutte da usare”7. In Mari la scientificità del fare artistico si concretizza in una continua ricerca di semplicità. Così nei vasi in marmo Paros (1964), un nome ovviamente non casuale, l’armonia razionale è rotta da tagli decisi; in Java (1988), contenitore da tavola, un piccolo oggetto si fa quasi architettura; e, più in generale, con Nove oggetti per la produzione Danese (1960-69) i pezzi ripetuti nella presentazione esprimono quasi una classica serialità. Semplicità comunque concettualmente ‘complessa’ come in 16 animali e 16 pesci (1960), puzzle e al tempo stesso gioco di costruzioni, un incastro perfetto, frutto di infiniti disegni. Un gioco dai due anni, che funziona anche quando i bambini crescono, che lascia grande spazio all’interpretazione, stimolando la capacità creativa al di là di qualsiasi imposizione e interpretazione didattica, che, per Mari, è sempre di tipo repressivo. Il tutto senza alcun compiacimento; basta pensare a Putrella (1958), trave a doppia “T” in ferro piegata agli estremi, con saldature esibite, che si trasforma in un oggetto che allude alle funzionalità di un vassoio, in cui la semplicità diventa addirittura scarna. La socializzazione del design Negli anni ’70 il pensiero di Mari si carica di una più forte connotazione politica che rimarrà una costante di tutta la sua attività. Secondo Mari la crisi del disegno industriale può essere superata a patto che la stessa progettazione assuma una carica politica. Egli rileva come le possibilità operative dell’artista siano tristemente limitate. Se un tempo esisteva uno stretto rapporto tra società ed artista che, al di là della soggezione verso chi deteneva il potere, realizzava pur sempre oggetti utili alla comunità, oggi la situazione è molto cambiata. Tra artista e società si è inserito un intermediario, la classe borghese, che richiede all’arte solo prodotti capaci di testimoniare il proprio status sociale. In questa nuova ottica è l’arte stessa che muta il significato: scompare la ricerca disinteressata ed autonoma e la progettazione è vista solo in funzione del mercato. La strumentalizzazione è ancora maggiore nel lavoro del designer che risulta “subordinato, funzionalizzato e integrato all’organizzazione produttiva”. “Chi progetta, spiega Mari, è il capitale, e sempre più il ciclo della progettazione coincide senza residui con le ragioni della produzione capitalista”8. Quali sono dunque, in una tale situazione,
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le possibilità operative di un designer che non voglia essere solo uno strumento nelle mani dell’industria? Per Mari la consapevolezza della impossibilità di sfuggire al condizionamento del potere deve essere accompagnata da una esplicita denuncia delle attuali contraddizioni. È necessario che la progettazione assuma un chiaro significato politico come verifica degli attuali rapporti di produzione e come sfida alle leggi capitalistiche di organizzazione del lavoro che portano alla alienazione ed alla cattiva coscienza. Si tratta di progettare oggetti la cui produzione permetta di ottenere un concreto miglioramento delle condizioni lavorative e salariali, ma, soprattutto, si tratta di rendere consapevole la classe operaia delle proprie capacità creative. Solo così si potrà raggiungere una completa uguaglianza tra gli uomini. L’obiettivo, dice Mari, con uno slancio che non può apparire nobilmente utopico, è dunque “la socializzazione del progetto”. In questo contesto assumono una importanza fondamentale la scuola, i sindacati, i comitati di base, i consigli di quartiere. Come conseguenza della radicalizzazione del pensiero l’estetica minimale si esprime in prodotti quasi poveri. Così in Proposta per un’autoprogettazione9 (1974) - “Un progetto per la realizzazione di mobili con semplici assemblaggi di tavole grezze e chiodi da parte di chi lo utilizzerà. Una tecnica elementare perché ognuno possa porsi di fronte alla produzione attuale con capacità critica. (Chiunque, ad esclusione di industrie e commercianti, potrà utilizzare questi disegni per realizzarli da sé) L’autore spera che questa operazione possa rimanere in divenire; e chiede a quanti costruiranno questi mobili ed in particolare loro varianti, di inviare le foto presso il suo studio, in piazzale Baracca, 10 – 20123 Milano)”10. Con Giulio Carlo Argan: “Mari ha ragione, tutti devono progettare: in fondo è il modo migliore per evitare di essere progettati”11. Un percorso caratterizzato da forte slancio utopico che, inevitabilmente, si scontra con le regole del reale. “La proposta ... che le persone fossero sollecitate dagli esempi proposti a realizzare ciò di cui avevano bisogno, anche altre tipologie oltre a quelle proposte, ed a realizzarle liberamente assumendo l’esempio suggerito solo come sollecitazione e non come modello da ripetere ... ha avuto molto successo e mi sono pervenute migliaia di richieste.” Ma nel 99 per cento dei casi non è capita in nome di un mercato che, in quegli anni, richiedeva oggetti poveri, ingenui, di ritorno alla na-
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tura (anche come soluzione a problemi di giovani studenti) o per arredare la seconda casa di campagna, in stile rustico … In altri lavori, non si arriva all’autoprogettazione, ma il designer sembra comunque fare un passo indietro chiamando altri ad una coprogettazione: così per Proposta per la lavorazione a mano della porcellana (1973) in cui i prodotti richiedono necessariamente il lavoro manuale di un artigiano che, inevitabilmente, partecipa al progetto. Semplicità come progetto La semplicità di Mari che non è mai formalismo - neppure quando, negli anni ’90 la scelta minimale appare vincente sul mercato - ma dettata da motivazioni di carattere morale - “il progetto consiste nel decantare, nell’eliminare tutto ciò che è inutile e falso”12; “Io lavoro per distruzione … In una società ridondante, come quella di oggi, posso lavorare solo cercando di ridurre tale ridondanza, quindi come negazione e distruzione”13. Ed ancora: “una forma è giusta se è (non ha alternative) non è giusta se sembra (le alternative sono infinite) ... la forma è l’unica materializzazione possibile dei significati etici”14. Una semplicità che è frutto di una ricerca dell’archetipo - “In tutta la storia dell’arte possiamo ravvisare un centinaio di capolavori, o poco più. Da questi sono discese tutte le altre opere, da quelle scadenti ad altre non di ‘maniera’ ma di integrazione come, ad esempio, il Manierismo napoletano del Seicento. Ma per l’appunto, sono state realizzate dialetticamente agli archetipi. Se non fossero esistite le centinaia di archetipi non esisterebbe il milione di opere d’arte di una qualche decenza e i miliardi di pasticci indecenti. Non ci sarebbero scuole d’arte, non ci sarebbero scuole di design, non ci sarebbe nulla! I maestri sono dunque quelli ed è inutile raccontare storie. È solo dalla confidenza con loro che possiamo imparare”15. Scelta minimale, ma non minimalista, dunque, senza alcuna concessione stilistica: “Per esempio, negli ultimi anni vengono da me perché alcune cose che ho fatto in passato sembrano assomigliare a quel karaoke del design minimale …”16. Sono gli anni della collaborazione con Magis, con la seggiolina per bambini Pop (2004), di disegno infantile; Mariolina (2002), una reinterpretazione della sedia da cucina degli anni ‘50, anch’essa quasi un archetipo; ed il lavoro di Mari per Muji, azienda giapponese, che della semplicità formale ha fatto la propria mission - tre serie di tavoli e sedie, rimasti nella fase di prototipo.
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Una poetica che apre scenari, non espliciti, ma evidenti anche in ottica di sostenibilità. Con Per forza di levare. Vaso Rotto, in cui nel 1994 anticipa motivi propri di tanto design contemporaneo - difetto come valore; e in Ecolo (1995) - solo un libretto d’istruzioni per realizzare da sé un vaso di fiori a partire da bottiglie usate, con un etichetta rigida con il nome dell’editore e dell’ideatore da applicare, se si vuole, al vaso realizzato, quasi a dire che “Oggi nel design, ciò che si acquista non è un prodotto ma solo un’etichetta” e un modo per far capire a tutti che il vaso è secondario rispetto alla composizione floreale - in cui il designer quasi scompare richiamando, ancora una volta, tutti a un’autoprogettazione. L’ennesima denuncia di Mari, “inquisitore progettuale che lancia ecumenici appelli che arrivano nel fondo della coscienza dei designer”17 e di tutti noi. 1 Enzo Mari, La valigia senza manico. Arte, design e karaoke. Conversazione con Francesca Alfano Miglietti, Bollati Boringhieri, Torino, 2004, p.26. 2 Enzo Mari, in Marco Minuz con Alessio Bozzer e Beatrice Mascellani, questo non è uno scolapasta, Editrice Compositori, Bologna, 2006, p.89. 3 Enzo Mari, Progetto e Passione, ideamagazine. net, 2001. 4 Cfr. Alfonso Grassi, Anty Pansera, L’Italia del design. Trent’anni di dibattito, Marietti, Casale Monferrato, 1986. 5 Cfr., Enzo Mari, “Nuova tendenza: Etica o Poetica?”, prefazione per il catalogo della quarta manifestazione “Nuova Tendenza”, 1966, in Funzione della ricerca estetica, Edizioni di Comunità, Milano, 1970. 6 Cfr., Enzo Mari, intervento al dibattito “La ricerca estetica di gruppo”, in ivi. 7 Bruno Munari, Arte come mestiere, Laterza, Bari, 1966, p.19. 8 Cfr., Enzo Mari, Funzione della ricerca estetica, cit. 9 Quarant’anni dopo il marchio finlandese Artek in occasione del suo settantacinquennale ha scelto di realizzare alcuni pezzi della collezione Autoprogettazione. 10 Enzo Mari, autoprogettazione?, Edizioni Corraini, Mantova, 2002, p.1. 11 Giulio Carlo Argan, Valutazione critico-artistica, “L’Espresso” 5 maggio 1974, in ivi, p.34. 12 Enzo Mari, in Marco Minuz con Alessio Bozzer e Beatrice Mascellani, cit., p.86. 13 ivi, pp.75-76. 14 ivi, pp.90-91. 15 Enzo Mari, Progetto e Passione, cit. 16 Enzo Mari, La valigia senza manico. Arte, design e karaoke. Conversazione con Francesca Alfano Miglietti, cit, p.26. 17 Alessandro Mendini, in Marco Minuz con Alessio Bozzer e Beatrice Mascellani, op. cit. p.29.
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Firenze Architettura (1, 2015), pp. 158-163 ISSN 1826-0772 (print) ISSN 2035-4444 (online) CC BY-SA 4.0 Firenze University Press www.fupress.com/fa/
eventi
Ricerca storica e curatela: Enzo Collotti, Valeria Galimi, Francesca Cavarocchi Istituto Storico della Resistenza in Toscana Allestimento: Giacomo Pirazzoli e Francesco Collotti con Cristiano Balestri collaboratori: Natalia Bertuccelli Gubin/CrossingLab (Università di Firenze-DiDA) e Giada Cerri (IMT Lucca) Giorgio Barrera (fotografie). Postazione Memory Sharing, filmati ed interattività: Filippo Macelloni e Lorenzo Garzella Acquario della Memoria /NANOF con MICC-Università di Firenze, direttore Alberto Del Bimbo. Col patrocinio e il contributo di Regione Toscana, Provincia di Firenze, Comune di Firenze. In collaborazione con Archivio Foto Locchi, Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico e Etnoamtropologico e per il Polo Museale della Città di Firenze, Controradio, Net7, Neotech
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Firenze Palazzo Medici Riccardi, site specific per i luoghi e le storie di Firenze in guerra Firenze in Guerra, 1940-1944 Dalla Grande Guerra – per i musei e le sistemazioni di paesaggio fatti in Trentino, cominciati nel 1995 e tuttora in corso1 – alla Shoah – per la mostra allestita al Vittoriano nel 2004, prima volta in Italia per affrontare tale argomento2 – alla Seconda Guerra Mondiale con la liberazione di Firenze, in questa occasione: finalmente, anche un pezzo del nostro impegno civile, professionale e di ricerca verso uno dei momenti delicatissimi per la storia del luogo più intenso dove ci è dato lavorare. Va sottolineato in questo caso che il tema generale è tuttora indefinito, dato che nell’Italia di oggi non esiste una posizione univoca rispetto all’eredità del Fascismo – se non in un passo sempre meno praticato della Costituzione. Per cui, a differenza che in Germania, ove con mostre, musei ed eventi si continua a spiegare l’orrore del Nazismo, in Italia ogni tanto un bischero può far suonare di nuovo il disco (rotto) del Fascismo buono etc. Su questo terrain vague abbiamo lavorato per trasformare le sale dell’Istituto Storico della Resistenza Toscana in Palazzo Medici Riccardi per preciso intento museografico site-specific3, così da farne frammento di paesaggio urbano dentro la città attuale, operato per trasposizione di senso. A ciò va aggiunto Palazzo Pitti per la vicenda dei quasi 5000 sfollati che ospitò, documentati con le foto del giovane talento del gruppo michelucciano degli architetti della Stazione di Firenze, Nello Baroni. Una sfida che, come altre volte, non sarebbe stata possibile se non a ranghi serrati insieme alla compagine curatoriale ed istituzionale4; con risorse per cui – nel resto d’Europa – nostri stimati colleghi avrebbero realizzato non più di un terzo della superficie espositiva di qua. Rispetto a ciò, va chiarito, abbiamo operato anche
scelte dure con un furibondo esercizio di equilibrio tra budget totalmente inadeguato e questione espressiva legata al tema. L’allestimento di questa mostra è anche un tributo al cinema, in Italia - come nessun’altra arte - entrato in guerra dialetto di propaganda fascista, uscito Neorealismo ad incantare il mondo. Si entra così nella Firenze di fine anni ’30, circondati dal Wall-Patchwork – come pellicola di film esplosa in mille fotogrammi restati appiccicati al muro e trasformati in sguardi sulla città in bianco e nero. Spina dorsale dell’allestimento, il Wall-Patchwork segue la cronologia della mostra arricchendola delle immagini della città com’era; nelle sale farà emergere anche la linea narrativa d’una serie di racconti visivi e sonori che provvederanno poi di alcuni piccoli “sfondati” in video la parete stessa. Sempre nella sala d’ingresso, al centro d’un pavimento tra i più brutti del mondo, è un grande tavolo ibrido – con documenti in originale e con storie e testimonianze interattive per quanto possibile – che ha funzione anche di punto di accoglienza. Nella prima sala è “La città della guerra” dove i visitatori s’incontrano e si mescolano con dieci sagome di donne uomini e bambini – immersione emozionale, corpo a corpo in pari scala; sul lato tergale ognuna di queste sagome descrive e documenta, proiettandosi verso la parete di immagini dei luoghi, infine scontro tra la natura umana e cruda fisicità degli spazi urbani. Alle pareti filmati su grande scala, la città com’era, la campagna di protezione dei monumenti etc. Nella sala successiva è “La città dell’occupazione”, con dieci sagome ancora bifronte e quattro intervistati alle pareti – col gioco delle teste alla stessa altezza etc. Di
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qui si accede al cuore educational, la sala Memory Sharing realizzata da Filippo Macelloni e Lorenzo Garzella: uno strumento che – in network con History Pin – serve anche a riattraversare la storia come mezzo di dialogo intergenazionale. In questa sala un tavolo con mappa di Firenze ed un grande schermo consentono di visualizzare in tempo reale quanto va nel sito web dedicato; è qui che nipoti nativi digitali inseriscono in rete materiali e testimonianze restituiti dal ricordo dei nonni; è qui che dal ricordo individuale alla memoria collettiva, la mostra finalmente dichiara la sua natura di laboratorio in fieri. Ultima sala “La città della liberazione”, con dieci pannelli bifronte ancora da camminarci nel mezzo leggendo, con due interviste nuove in video, ed un film che prosegue il racconto su un altro piano, proiettato sulla parete opposta a quella della città di immagini. Leggendo il catalogo della mostra, che è fatto di ricerche di lunga lena, è ora tempo finalmente di uscire all’aperto per attraversare l’anima di Firenze ed il suo fiume già linea di confine per le distruzioni delle mine. Eccoci dunque in Pitti ove, avendo riciclato legni dell’appena conclusa mo-
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stra di Jacopo Ligozzi, con una parete più lunga inclinata ed una piccolina rivestite del ricordo del diario di Baroni, sfidiamo l’impresentabile vestibolo del Rondò di Bacco per esporvi lo slide show con le foto di Baroni medesimo, anticamera ad un misterioso film sonoro di Macelloni e Garzella. Così anche ci è sembrato di poter contribuire a condividere una riflessione sulla vicenda umana degli sfollati che in quel vasto lacerto di rinascimento che è Palazzo Pitti vissero la guerra, follia di sangue di tragedia di popoli vincitori e vinti. Giacomo Pirazzoli e Francesco Collotti 1
Progetti pubblicati, tra l’altro, in Firenze architettura n.2.2006, n.1.2009, in Casabella 795, 11.2010 e da ultimo in AA.VV., Il recupero dei Forti austroungarici trentini, edito da Provincia Autonoma di Trento Soprintendenza per i Beni culturali Ufficio Tutela e Conservazione dei Beni architettonici, Trento, 2014. 2 Progetto pubblicato in F. Collotti, G. Pirazzoli, Ricordare, mettere in opera, mostrare in Firenze architettura n.1.2006. Si veda anche il catalogo della mostra al Vittoriano degli Italiani (ottobre 2004/gennaio 2005) AA.VV. Dalle leggi antiebraiche alla Shoah, Sette anni di storia italiana 1938-1945, Skira, Ginevra-Milano, 2004. 3 Cfr. G. Pirazzoli e www.sismus.org, Site Specific museum_ONE, Pistoia, 2012. 4 F. Cavarocchi, V. Galimi (a cura di), Firenze in guerra 1940-1944, Catalogo della mostra storico-documentaria (Palazzo Medici Riccardi, ottobre 2014-gennaio 2015), Firenze University Press, Firenze, 2014.
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Firenze Architettura (1, 2015), pp. 164-167 ISSN 1826-0772 (print) ISSN 2035-4444 (online) CC BY-SA 4.0 Firenze University Press www.fupress.com/fa/
Roma, Tempietto del Bramante Luciano Matus - de tiempo luz de luz tiempo Solo la luce può abitare la perfezione Sono frequentissimi i viaggi in Italia dell’artista messicano Luciano Matus: lunghi soggiorni a Firenze, a Milano... a Roma dentro il Pantheon a incontrare quella luce che, con la forma della cosmica apertura, lentamente si muove, a scandire i tempi dei giorni e delle stagioni, sulla eterna convessità della virtuale sfera dello spazio interno. È il 2003 quando il giovanissimo architetto - primo latino-americano a conseguire la borsa di studio della Reale Accademia di Spagna a Roma – incontra “lo spagnolo” tempietto del Bramante sul colle del Gianicolo, vis-à-vis con le cupole della città eterna. È del maggio 2015 l’occasione per una sua installazione proprio in quel sacello rinserrato nel convento di San Pietro in Montorio, “modello” di tempio periptero rotondo, paradigma della centralità reale e simbolica ad un tempo: tholos la cui cupola e tamburo, inscrivendosi in un cerchio, evocano le stesse proporzioni del Pantheon. Luciano Matus, artista/architetto, è consapevole che il gianicolense simbolo di PERFEZIONE non ammette addizione alcuna... fossero anche le sue famose e effimere ragnatele: geometrie realizzate con lunghissimi cavi di nickel e la cui continuità è sostituita dall’invisibile attrazione di magneti sospesi nello spazio a disegnare tracce e assenze e a completare rovine.
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In quel MARTYRIUM tutto è muta eloquenza: la CRIPTA a rappresentare la profondità terrestre; il SACELLO - di solo 4,50 metri di diametro - invaso dall’alta-
re, segno del punto dove era conficcata la croce di Pietro; la volta celeste della CUPOLA a riassumere l’insistita circolarità presente - e assente (il mai costruito cortile rotondo) - nel volume simbolico della resurrezione. Quell’inabitabile tempio, simbolo di armonie geometriche, privato dalle sue stesse misure di ogni pratica funzione, può essere abitato solamente dalla LUCE. L’artista/architetto - con mezzi poverissimi: un palloncino latteo, un led e un ventilatore - fora il buio della notte perenne del tempietto con la vibratile sfera luminosa... di-svelando e ricreando geometrie con mobili ombre. Al finire del magico tramonto del sole sulla città di Roma, nascoste affinità elettive si intrecciano: l’epifania dell’architettura e della luce nella Pala di San Bernardino di Piero della Francesca; la forza e il carattere evocativo dell’architettura del Bramante a fronte dei suoi stessi modelli, il PANTHEON sovra-tutti. L’uovo cosmico di Piero si stacca, per Matus, dalla conchiglia urbinate per fluttuare in cavità bramantesche: tra memoria e contemporaneità, permanenza e variazione, ricchezza e povertà. Maria Grazia Eccheli
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Pagine precedenti: 1 Il Tempietto del Bramante, schizzo di Luciano Matus 2 La sfera di luce volteggia a mezz’aria sotto lo sguardo di San Pietro 3-4 Ad un piÚ attento sguardo le geometrie dei cerchi che regolano le proporzioni del Tempietto si riverberano all’interno della sfera di luce 5 La mobile eclissi nel cielo della cupola bramantesca Foto di Andrea Volpe
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Firenze Architettura (1, 2015), pp. 168-171 ISSN 1826-0772 (print) ISSN 2035-4444 (online) CC BY-SA 4.0 Firenze University Press www.fupress.com/fa/
Forlì, Musei San Domenico Boldini - Lo spettacolo della Modernità
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Ritratto come spirito del tempo Si è appena conclusa negli splendidi spazi dei Musei San Domenico a Forlì (1 Febbraio – 14 Giugno 2015), la mostra sulla pittura di Giovanni Boldini che aggiunge un doveroso tassello alla comprensione dell’arte italiana a cavallo tra Ottocento e Novecento, dopo che nelle medesime sale negli anni precedenti si sono avvicendate le mostre su Adolfo Wildt, quella sul Novecento e quella sul Liberty. Con questa mostra sul lavoro di Boldini, si precisa ulteriormente il complesso orizzonte della modernità italiana, che poteva apparire incompleto senza il tentativo di avventurarsi nei molti risvolti dell’itinerario artistico del pittore universalmente noto per le sue femmesfleures, espressione seducente di una femminilità elegante e sensuale, che pare lasciarsi alle spalle i luoghi comuni della Belle Époque per cominciare ad intravedere dentro di se il segno tangibile delle inquietudini e delle nevrosi che caratterizzeranno la modernità. Nato a Ferrara nel 1842, fu allievo di Stefano Ussi all’Accademia di Belle Arti di Firenze entrando così fin da giovanissimo, in contatto con il mondo artistico di quella che al tempo era la capitale del Regno d’Italia. Introdotto da Michele Gordigiani alle turbolenti riunioni che si tengono al Caffè Michelangelo di via Larga, Boldini stringendo amicizia con Telemaco Signorini, Giovanni Fattori e con Cristiano Banti, trova la strada per accedere a quel mondo aristocratico ed alto borghese che gli avrebbe garantito il successo. Anche quando nel 1871 si trasferisce da Firenze a Parigi, entra subito in contatto con Goupil, il più importante mercante d’arte della città che introducendolo nell’ambiente internazio-
nale della capitale, diverrà il ritrattista più richiesto per più di quaranta anni. In questa lunga parabola, Boldini ritrae le donne del bel mondo secondo il medesimo canone di una flessuosità dominante, nella quale i corpi emergono nella loro diafana carnalità da abiti che sono una profusione di sete, un trionfo di piume, un baluginare di pietre preziose e in pose improbabili e audaci che lasciano immaginare l’intimità. Di queste donne, Boldini migliora tutti gli elementi che ne determinano la bellezza; con pennellate eleganti, le allunga braccia e mani, insiste sulle bocche sempre rosse e dischiuse, indugia sulla pelle, ora di perla ora di alabastro, a cogliere il fremito -dietro una femminilità fragile e ingannatoria- di un palpito di vita reso eterno dalla complicità di un’espressione; insomma, non ritrae solo corpi ma forze, condizioni, equilibri, esperienze, possibilità che quei corpi racchiudono e desiderano tramandare al futuro. La pittura di Boldini, quindi, veicola la fugacità della vita e allo stesso tempo, indica la permanenza del medesimo desiderio di futuro che gli anni a cavallo tra i due secoli hanno manifestato in tutte e loro espressioni. Non a caso quindi, il sottotitolo di questa mostra: Lo spettacolo della Modernità, ad indicare la totalità spettacolare e inedita del cambiamento attraverso il quale la società del tempo assiste. Nella pittura di Boldini si celano tutti i temi preparatori della modernità, istituendo intersezioni e tangenze che non smettono di stupire. I tagli delle inquadrature che escludono parti del soggetto alla ricerca di una immediatezza di tipo fotografico, così come l’uso di una prospettiva insolita fatta di fuochi multipli capaci di dare movimento alla scena,
1 Ulisse Tramonti all’inaugurazione della Mostra 2 Allestimento sale espositive Pagine successive: 3-4 Allestimento sale espositive foto Giorgio Sabatini
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l’uso di una sorta di schematizzazione formale e cromatica che prelude al dinamismo futurista ottenuta con brusche stilettate di colore, sono alcuni tra gli elementi di una poetica che pare disvelare il ritmo frenetico di una società in cerca di una propria nuova e totale consapevolezza. In questa ricerca generale, gli estremi della personale ricerca pittorica di Boldini, sono segnati a ben vedere dall’incontro con due importanti capitali dell’epoca: Firenze e Parigi. I curatori della mostra sono Fernando Mazzocca e Francesca Dini, che si avvalgono del coordinamento di Gianfranco Brunelli e il coinvolgimento per i diversi temi affrontati di un gruppo di autorevoli esperti, fra i quali figura Ulisse Tramonti, curatore della sezione dedicata al rapporto che Boldini costruisce con le due capitali. In questa sezione, Tramonti ripercorre la storia di Firenze, ovvero la sua modernità interrotta e mancata, nei pochi anni del suo ruolo di capitale del neonato Regno d’Italia, conducendoci nell’affascinante mondo culturale fiorentino di quel periodo e soffermandosi sulle diverse tappe architettoniche attraverso le quali la città assume un volto più mo-
derno. Di contro, la capitale francese, non abortisce il suo destino, rimanendo per molti decenni la punta di diamante della modernità urbana, architettonica, artistica e mondana. Dall’incontro con la Ville Lumière, Boldini coglie il senso di una società antica che si rivolge al futuro e non magma inconsistente nel quale sia facile perdersi fisicamente e moralmente. Le sue visioni pittoriche sono piene di concrete e potenziali relazioni umane che si tessono nei flussi brulicanti del passeggio sui nuovi boulevard, che si compiono nello spazio geometrico dei nuovi parchi urbani, così come nella dimensione sociale dei caffè alla moda e in quella più privata e intimista dei boudoir nei quali la donna è libera di mostrarsi nelle sue molte e contraddittorie anime. Con forza, la mostra sgombra il campo da ogni possibile dubbio sul valore dell’opera di Boldini, in passato oscurato da una critica che lo vuole intrigante esponente di un meccanismo economico legato al bel mondo, capace di moltiplicare a dismisura la sua arte pur di accontentare con i sui ritratti la Café Society internazionale, soprattutto americana. Questa mostra, al contrario, ha il merito di sfatare
una volta per tutti questi aspetti, rinquadrando l’opera di Boldini all’interno di una lettura che privilegia, nel mettere in luce il suo virtuosismo prodigioso, tutti i legami e le tangenze con le molte facce di quella forza nel domani che hanno manifestato gli anni a cavallo tra i due secoli. Per sottolineare questa forza, Tramonti allestisce all’interno della mostra, una galleria con bellissime gigantografie d’epoca di una Parigi assetata di modernità. In queste immagini, poste a sottolineare i ritmi architettonici delle aperture presenti nella galleria, i riti e i miti di una nascente modernità urbana vengono colti dall’occhio vigile di anonimi fotografi a costituire una sorta di patrimonio visivo e morale che di fatto costituisce la vera filigrana contro la quale si ritaglia l’intero lavoro del pittore ferrarese. Un lavoro che non è solamente genio e istinto, ma al contrario, anche lavoro paziente, affinamento costante, revisione critica, ovvero sensibile interpretazione di quello spirito del tempo che Boldini, sa cogliere e narrare con indubbia maestria nelle inconfondibili pennellate della sua pittura. Fabio Fabbrizzi
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Firenze Architettura (1, 2015), pp. 172-175 ISSN 1826-0772 (print) ISSN 2035-4444 (online) CC BY-SA 4.0 Firenze University Press www.fupress.com/fa/
letture
House and Site. Rudofsky, Lewerentz, Zanuso, Sert, Rainer Eleonora Mantese, (a cura di) Firenze University Press, Firenze, 2014 ISBN: 978-88-6655-579-7 La lettura di questi saggi ci porta lontano dai sentieri battuti di alcuni paradigmi del moderno, per approdare invece ad altre idee di Casa, che si svincolano dalla personalità ingombrante di un committente e, in misura variabile, anche da quella dell’architetto, cercando invece di stabilire un legame quasi primigenio con il luogo. Se C. Norberg-Schulz scriveva che l’atto del costruire rappresenta il principale strumento di comprensione dell’ambiente naturale, F. Cellini, nella prefazione al volume, arriva a ipotizzare che il luogo stia nel progetto, e non viceversa, poiché è nel progetto che trova la sua definizione, il suo carattere. Sotto questo punto di vista ci appare molto più che una provocazione, quella di Neutra, che all’inizio di Mystery and realities of the site (una delle Tre letture anni cinquanta di E. Mantese) si domanda se l’architetto che costruirà sulla Luna riuscirà a disvelarne i valori intrinseci. Con queste premesse scopriamo il Mediterraneo non idealizzato di Rudofsky, dove la relazione tra architettura e luogo passa attraverso la ricerca costante di stili di vita autentici, esperita tramite il viaggio e ispirata alla Lebensreform. Un altro mare, quello di Lewerentz, ben diverso dal Mediterraneo, entra a far parte in maniera attiva della composizione, a tal punto da modificare il carattere inizialmente astratto del progetto, ancorandolo come una piccola nave sulle rive dell’Öresund. Ritroviamo il tema del patio come elemento generatore del progetto, un catalizzatore sempre aperto sul paesaggio marino nelle architetture insulari di Zanuso; e invece chiuso, si fa principio di città nelle introverse opere americane di Sert, fino a diventare palcoscenico di una scenografia, racchiuso da un recinto di muri, nella costruzione “anonima” di Rainer, nei pressi di una cava del Burgenland. Una scelta accurata e ben commentata di progetti “minori”, in gran parte tralasciati dalla storiografia, ma che sono in realtà grandi architetture. Il comune denominatore di esperienze così variegate sta nel trascendere la questione dello stile e la ricerca della contemporaneità ad ogni costo, per ritrovare invece nel luogo una costante atemporale da disvelare. Eliana Martinelli
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Francesca Privitera Leonardo Savioli. Manierismi Edizione on-line Lulu.com, 2014 ISBN 9781326014056 Il libro raccoglie una nuova ed interessante riflessione sulla metodologia progettuale di Leonardo Savioli fino ad adesso rimasta marginalmente accennata e mai approfondita. Un viaggio nelle radici della nostra scuola che può leggersi nella sua accezione più intimista, più umana ed emotiva, espressa nelle riflessioni compiute da una meravigliosa serie di ricognizioni savioliane riguardanti le opere fiorentine e romane del Cinquecento. La tesi proposta dall’autrice affianca le letture, analiticamente disegnate dal maestro fiorentino sui grandi architetti manieristi, ad una implicita ricaduta di sostanza, capace di influenzare i progetti redatti dal periodo del dopoguerra in poi. La passione di Savioli per i movimenti artistici del Cinquecento emerge da un’attenta analisi del suo personale patrimonio librario, oggi fondo gestito dalla Regione Toscana, in cui emergono monografie di artisti ancor prima che di architetti, contribuendo a fornire una visione completa della formazione dell’architetto che giunge dopo un periodo intenso, e forzato, dedicato alla pittura. Nella figura di Savioli lo studio attento e la prassi compositiva si compenetrano rivelandosi in una fitta trama di dialoghi posti a mediare le relazioni tra l’uomo ed il costruito; espressione sempre raffinata attraverso l’imperativo strumento del disegno quale segno generatore di forma-spazio, per citare la sua prima biografa Lara Vinca Masini, che ne descrive la metodologia di lavoro come costante nel tempo. Su questo intrigante tema Francesca Privitera ricostruisce un percorso progettuale la cui chiave di lettura risulta suggerire un’appartentenza ideale al manierismo italiano filtrato attraverso la lente del tempo, che si riflette in molti gesti ed in alcune riflessioni del maestro, tanto da poter individuare elementi e costanti che ne corroborano una implicita e forte adesione culturale piuttosto che linguistica o formale. Il ruolo di Savioli all’interno del percorso fiorentino, ma soprattutto italiano, nel panorama architettonico del secondo dopoguerra, è segnato da una prassi compositiva fortemente indipendente e, a tratti, autoreferenziale. Fatta di segni, di accenti, di contrasti, di amplificazioni urbane e di evocazioni creative estremamente intimistiche, fatta ancora di scontri, di riflessioni sui limiti operativi tra grafica, pittura, scultura ed architettura, essa risulta sempre vibrante di una passione e di una dedizione al progresso sociale, umano e collettivo, capace di trovare nel gesto progettuale una implicita connessione tra edificio e città, tra architetto e uomo. Riccardo Renzi
Francesco Collotti, Tony van Raat, Nicolò Campanini Building Social Housing Vol. 1- Europe Firenze-Auckland-Hong Kong, 2014 ISBN 9788896080122
Georges Didi-Huberman Scorze Nottetempo, Roma, 2014 ISBN 978-88-7452-467-9
Il volume, che introduce il tema attraverso tre riflessioni degli autori, raccoglie, cataloga e racconta attraverso quarantadue schede di analisi, una sezione del panorama europeo contemporaneo legato all’abitare sociale, tema attuale, se non attualissimo, nel dibattito architettonico recente sui ruoli e sulle figure che compongono la città. Il vasto lavoro di ricerca di cui il libro diviene espressione, anche con evidenti e compiute ricadute didattiche, si inserisce in una generale ripresa del tema sociale quale determinante coerente a supporto di visioni tese al superamento della gerarchia centro-periferia. L’assunto totalizzante e diffuso nella cultura recente, per cui il patrimonio abitativo sociale risulti componente negativa all’interno del costruito urbano, emerso in Italia a partire dalle misure correttive del secondo settennio ina-casa (1956-63) e proseguito con il cambio di scala delle gestioni successive, viene superato dall’impostazione della ricerca che presenta come argomento fondamentale l’aspetto collettivo del tema abitare. Tutti e tre i testi introduttivi affrontano la questione sociale come aspetto qualificante della tipologia insediativa presa in esame, supportati da un’ampia presentazione di progetti schedati, italiani ed europei, che dimostrano quanto l’attualità del tema non si esaurisca con una riflessione solamente compositiva o estetica. Le schede di analisi presentano infatti un ampio panorama di interventi ben descritti da dati quantitativi e da un testo di accompagnamento, individuati inoltre da uno schema grafico intuitivo che ne classifica le principali afferenze a gruppi di rispondenza di progetto. Di estremo rilevo risulta inoltre, in un volume quale questo dal taglio squisitamente operativo e contemporaneo, la raccolta dedicata ad una selezione dei lavori progettati da Maestri italiani del novecento. Franco Albini, Adalberto Libera, Aldo Rossi e Mario Fiorentino offrono nelle prime pagine della raccolta, una sequenza continua ed eterogenea fatta di linguaggi, di chiaroscuri e di letture del paesaggio italiano capaci di emozionare il lettore e di prepararlo allo studio del contemporaneo avvertendolo che conoscere è il primo passo del progettare. Riccardo Renzi
Écorces è un piccolo libro edito dallo storico dell’arte francese nel 2011 per Les Éditions de Minuit e di recente tradotto in italiano da Anna Tronchi per Nottetempo. In poche decine di pagine sono numerosi i sentieri e le diramazioni di senso che la riflessione suggerisce ma alla loro origine risiede una comune, elementare azione: interpretare un luogo dopo cauti attraversamenti, fulminee intuizioni, lente rimuginazioni. Un esercizio di attenzione e disvelamento dunque - il beckettiano l’œil qui cherche qui in esergo - ed una prova degli infiniti concatenamenti che l’occhio addestrato, lo sguardo non mutilato dall’abitudine, è capace di tessere stando sulla faglia tra visibile ed invisibile, tra apparizione e lacuna. Nella cassetta degli attrezzi due sono gli strumenti selezionati: la narrazione e la fotografia in una combustione che per i lettori di W. G. Sebald risulterà in una qualche misura familiare - ma noi rammentiamo che un autore più volte indagato dal Nostro, Walter Benjamin, aveva profetizzato il connubio tra immagine e didascalia come possibile scrittura futura («Wird die Beschriftung nicht zum wesentlichsten Bestandteil der Aufnahme werden?»). Le scorze sono tre pezzi di corteccia di betulla disposte su di un foglio bianco in guisa di geroglifico, emblema, lingua cifrata: «Dans le mot Birkenau, la terminaison au désigne exactement la prairie où poussent les bouleaux, c’est donc un mot pour le lieu en tant que tel». Abbandonate e misteriose sono la traccia di un soggiorno, «au cours d’une belle journée de juin», a Brzezinka nel campo voluto dai dirigenti di Auschwitz/Oswięcim ´ come dispositivo per l’annientamento, Vernichtungslager. Didi-Huberman aveva già individuato in queste eterotopie della ferocia l’intervallo dove sferzare lo statuto epistemico delle immagini (ricerche poi raccolte in Images malgré tout, Parigi 2003), ma in questa occasione la critica visiva si spoglia delle protezioni intellettuali-conoscitive offerte dalla forma saggistica, per consegnarsi alla registrazione dei passaggi di pensiero e dei trapassi di sentimento proprie dell’inflessione memoriale e diaristica. Un anello composto da 19 riprese e da 19 parole-guida: scorze, betulle, cartello, negozio, filo spinato, muri, pavimenti, torretta di guardia, orizzonte, porta, strada, foresta, stele, rami, soglia, fiori, lago, camera, scorze. Sono i segnavia di una ricognizione nella forza e nelle aporie della memoria ma massimamente nella resilienza tenace delle cose, nella sommersa energia dei residui: fondi/ Ursachen ancora sussurranti malgrado le banalizzazioni o le fittizie sistemazioni di comodo. Fabrizio Arrigoni
Fritz Neumeyer Cos’è una facciata? Imparare da Alberti ISBN 978-88-7043-187-2 Paul Kahlfeldt La colonna. L’amore infelice degli architetti ISBN 978-88-7043-188-9 Hans Stimman La Townhouse berlinese. Un esperimento tipologico ISBN 978-88-7043-189-6 Sulle tracce dell’architettura La collana “Tracce” – prima collana di architettura di Raffaello Cortina Editore – diretta da Silvia Malcovati e Michele Caja, già nel nome – un omaggio alla filosofia per frammenti e alle narrazioni fulminee di Ernst Bloch – esprime un preciso punto di vista sul rapporto tra architettura e storia. L’idea di raccogliere scritti e progetti inediti nasce da un’adesione critica alla complessa eredità formale e culturale della città storica e dai modi in cui tale eredità si possa consegnare alla contemporaneità, rintracciando nei temi e negli elementi chiave della composizione architettonica i capisaldi della trasmissibilità e della condivisione di un metodo. Il filo rosso che unisce le prime tre pubblicazioni è, da una parte, la controversa identificazione della storia con il moderno e, dall’altra, il ritrovato interesse per il classico, non soltanto come strumento didattico ma come principio operante per un possibile intervento nella città d’oggi. Se ne La colonna, quindi, un elemento costitutivo dell’architettura, può essere letto nell’esperienza contemporanea come strumento di ricostruzione critica, nella riflessione di Fritz Neumeyer “imparare da Alberti” è un modo per riconoscere i limiti della città del XX secolo, in cui la facciata perde il ruolo di elemento di definizione dello spazio pubblico passando dalla “partecipazione alla costruzione dello spazio” alla “auto-rappresentazione iconica”. La ricerca tipologica sulla townhouse berlinese indagata da Hans Stimmann è invece allo stesso tempo reazione e ri-costruzione proprio di quell’idea di città perduta. Per il rigore dei temi affrontati in rapporto all’attuale crisi della ricerca, i volumi – in doppia lingua italiano/inglese e con sezioni dedicate agli apparati iconografici – costituiscono un originale riferimento disciplinare per una teoria della progettazione contemporanea e sono espressione di una tradizione di pensiero che non separa la conoscenza dal progetto, mostrando come la dimensione archetipica dell’architettura non sia in contrasto con i dettami della contemporaneità. Stefano Suriano
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Bernard Rudofsky Desobediencia crítica a la modernidad, Arquitectura sin Arquitectos, 50 años después Mar Loren e Yolanda Romero (a cura di) Publicaciones de Diputación Provincial de Granada, 2014 (spagnolo/inglese) ISBN 978-84-7807-538-6 Il libro raccoglie gli esiti del Seminario Internacional, Bernard Rudofsky: desobediencia crítica a la modernidad, che si è svolto nell’ottobre del 2013 a Granada, con gli scritti di Mar Loren, Yolanda Romero, Andrea Bocco Guarneri, Felicity Scott, Alberto Ferlenga, Marcel Vellinga, Antonio Pizza, Giancarlo Cosenza, Iñaki Bergera e Lauro Cavalcanti, ed è anche il catalogo della mostra omonima, allestita, da aprile a giugno 2014, presso il Centro José Guerrero. L’intera operazione culturale contribuisce a divulgare l’opera di Rudofsky e con la consapevolezza dell’esiguità delle opere costruite, una parte importante è dedicata alla casa che Rudofsky costruì nel 1969 a Frigiliana, una delle rare occasioni di sperimentare le sue teorie sulla vita domestica e una lezione magistrale di architettura povera. Una casa manifesto dove nella quotidianità Bernard e Berta Rudofsky sperimentano un modo di vivere arcaico, al riparo dal mondo, in una casa come un giardino. È una pubblicazione importante per chi studia l’opera di Rudofsky, con un ricco apparato iconografico, costituito per la maggior parte da materiali, disegni e fotografie, inediti, ma ciò che emerge sono i diversi punti di vista, le diverse storie che ogni studioso ha contribuito a ricostruire e raccontare, fornendo un quadro di insieme su relazioni prima sconosciute. Si narra una storia di Rudofsky nel suo complesso inedita. Una ricerca arricchita da fatti che si intrecciano e relazionano per la prima volta, grazie a testimonianze che provengono da ambiti e interessi di ricerca diversi. Questo libro contribuisce ad infittire le maglie larghe della storia dell’architettura che ha sempre ignorato Rudofsky architetto. Forse questo è il primo passo per uno studio comparato che con sguardo più ampio collochi nel complesso contesto della storia dell’architettura del XX secolo anche Bernard Rudofsky. Sicuramente ancora molti aspetti della sua opera sono in attesa di essere scoperti o approfonditi, ma altrettanto certo è che altre storie sono invece solo da raccontare, ci si augura magistralmente come in questa occasione. Ugo Rossi
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Ryuji Fujimura Prototyping: Many Models and Remarks Lixil, Tokyo, 2014 ISBN 9784864800136
Klaus Dömer, Hans Drexler, Joachim Schultz-Granberg Affordable Living: Housing for Everyone Jovis Verlag Gmbh, Berlin, 2014 ISBN 978-3-86859-324-2
Il libro in questione, pubblicato solo in lingua giapponese e tradotto in inglese, è il primo del giovane architetto laureato alla Tokyo Institute of Technology ed ora insegnante alla Tokyo University, che raccoglie i suoi primi progetti realizzati, presentati secondo il metodo con il quale sono stati concepiti, piuttosto che attraverso una dettagliata descrizione dell’architettura. È quindi questo metodo o processo che, con la sua evoluzione nel tempo, diventa subito il soggetto principale del libro. Sperimentato per la prima volta una decina di anni fa con la realizzazione del primo progetto, un piccolo negozio di articoli per la tavola, con il nome di “super linear design process”, si sviluppa attraverso la comparazione di più modelli, realizzati dai suoi studenti e dal suo staff, che comparati con i precedenti consentono a Ryuji Fujimura di fornire piccoli suggerimenti con i quali costruire velocemente il modello successivo. Tale metodo segue appunto un andamento lineare fino al raggiungimento di una forma che soddisfi il contesto, il cliente e le varie esigenze. Non esiste quindi una forma prediletta nell’architettura di Ryuji Fujimura, perché è il suo stesso metodo che consente di produrre forme che contengono nuove idee e che sono adeguabili a diversi contesti. Ci si trova quindi immersi fra progetti commerciali e residenziali, corredati da fotografie di vari modelli conservati e numerati dai quali notare i piccoli step che li distinguono l’un l’altro; fotografie di cantiere dalle quali è anche possibile notare il carattere ingegneristico dell’architetto, e fotografie del progetto: il risultato finale sembra quasi un modello in scala reale. Una particolare interpretazione del costruire povero, ma con grande profondità di pensiero? L’ordine cronologico, con cui vengono posti i progetti, consente di osservare una crescita evolutiva del metodo utilizzato dall’architetto che sfocia, almeno fino a questo momento, nel bisogno di un’architettura più sociale. Realizzata con più menti e sperimentata con gli studenti nella costruzione di un complesso per gli studi ecologici, questa idea di architetture applica lo stesso metodo più volte e compara progetti diversi per ottenerne infine uno solo. Una ricerca che perseguirebbe, secondo Fujimura, un’idea più democratica di fare Architettura. Mattia Di Bennardo
“It was fun, till the money run out” (New York Times, 2008). Così i progetti di coscienza sociale sono tornati ad essere presenti sul programma. Non solo come inevitabile conseguenza della recessione, della sovrappopolazione e della centralizzazione delle conurbazioni, ma anche come spontanea risposta all’eterno ritorno della questione dell’abitare. Il libro, frutto di una serie di workshop e conferenze sul tema dell’housing, organizzati dalla Munster School of Architecture (MSA), propone un analisi delle sfide correnti che l’architettura a basso costo sta affrontando nelle diverse parti del globo, dove bisogni primari sono ancora insoddisfatti o inadeguati. Può il ruolo dell’architettura emergere da un problema politico ed economico, senza perdersi tra speculazioni, emergenze fondi, affitti fissi, modelli finanziari e di ammortizzazione? Risposta positiva se, i contemporanei condensatori sociali ad alta densità abbattono i costi del terreno, riducendo il consumo di energia e traffico, mentre la prefabbricazione comincia a mettere in mostra il suo ormai tangibile potenziale nel fornire un habitat di alta qualità (Lacaton & Vassal - Mulhouse France). Risposta positiva se, indagando lo spazio minimo, l’abitante torna ad essere misura dell’unità abitativa e il progetto si discosta da prodotto di numeri e fattori economici per poi concretizzarsi in una standardizzazione “partecipata” non più associabile a termini di anonimità e segregazione (Haerle Hubacher Architekten - Balance Uster). La casa ha abbandonato ormai il ruolo attribuitole dalla civiltà moderna: separare l’abitante dalla natura e dall’ambiente che lo circonda, invitandoci a riflettere su come invece sia possibile ricollegare l’uno con l’altra, non mantenendo esclusivamente lo stesso clima interno, ma lanciandosi nella sfida di raggiungere un compromesso tra costo e qualità di vita nel rispetto dei differenti parametri locali e preferenze culturali. Formato atlas vengono presentate ed esplorate case incomplete, occupate, interattive, banlieu con vista, alte, condivise, flessibili e componibili tanto che nel millennio in cui le città hanno perso i propri confini è diventata la casa la nuova “chose humaine par excellence”. Federico Cadeddu
Luciano Semerani, Antonella Gallo Lina Bo Bardi Il diritto al brutto e il SESC-fàbrica da Pompéia CLEAN, Napoli, 2012 ISBN 9788884972873 La ricerca di Luciano Semerani e Antonella Gallo sull’opera di Lina Bo Bardi prende avvio con la mostra a lei dedicata nell’ambito della Biennale del 2004, e successivamente ripensata per il MASP di San Paolo in Brasile nel 2006. In questo piccolo e sapido libro, costituito da un nucleo centrale dedicato alla mostra nelle versioni veneziana e paulista, e dai saggi di Semerani e di Gallo che aprono e chiudono rispettivamente il volume, sono presentati alcuni aspetti del loro originalissimo scavo intorno ad una delle figure più intriganti dell’architettura del Novecento, che ha intrapreso un singolare percorso lontano dall’Italia e prestato la sua intelligenza alla “mano del popolo brasiliano”. Un’intelligenza eterodossa unita a una visione non convenzionale, descrivono gli autori, capace di penetrare senza preconcetti nella cultura di un paese straniero, accoglierne i misteri, le contraddizioni, finanche gli aspetti orridi, e fecondarli con l’eredità dell’Avanguardia europea. Lina Bo Bardi partecipa in prima linea alla rifondazione culturale del Brasile, facendo del suo lavoro uno strumento di riscatto per il popolo, che viene così legittimato nel groviglio inestricabile delle proprie tradizioni. Le invenzioni surreali del mondo religioso e favolistico brasiliano, il modo di vivere della gente, la condizione “urgente”, di necessità, nella quale è prodotta la cultura materiale, sono oggetto di un’attenta osservazione antropologica da parte di Lina, che si appropria di tutto questo per elaborare un linguaggio anticlassico, disarmonico quanto espressivo, autentico. Scrive Semerani: “La ricerca dell’autentico incontra il ‘brutto’ quando attraversa il mondo ‘volgare’. Il ‘volgare’ tanto nella scelta della lingua quanto nella scelta degli argomenti”. Questa è la chiave di lettura del “diritto al brutto”, la programmatica espressione coniata da Bo Bardi e nel libro scandagliata da Luciano Semerani nel suo significato estetico-filosofico; come lo è del provocatorio SESC-fàbrica da Pompéia nell’analisi di Antonella Gallo, che ne rileva la potenza rigeneratrice per la sua capacità di “mostrare ciò che la città del presente potrebbe, nonostante tutto, nonostante le sue contraddizioni, ancora diventare”. A ben vedere, il diritto al brutto equivale al diritto di tutti a godere dell’arte e nell’arte a riconoscersi. La ricerca di Lina Bo Bardi e questo libro che la propone sono importanti, dunque, perché suggeriscono una strada rigorosa, che niente ha a che fare col Kitsch, per coprire quella lunga distanza che oggi separa l’Architettura dalla gente e spesso vanifica il nostro impegno. Francesca Mugnai
Pier Paolo Pasolini Fotografie di Dino Pedriali Johan and Levi Editore, 2011 ISBN 978-88-6010-056-6 Ottobre 1975, mancano poche settimane al tragico due novembre. Dino Pedriali, giovane fotografo di molto talento che ha ritratto Man Ray e altri grandi artisti, è incaricato di fotografare Pasolini. La prima serie di scatti viene effettuata la seconda settimana del mese. I due si dirigono a Sabaudia. Qui nel 1973 P.P.P. ha registrato il finale di una rubrica televisiva Rai. Pasolini e ... la forma della città è divenuto col tempo una sorta di manifesto: “Quanto abbiamo riso noi intellettuali, sull’architettura del regime, sulle città come Sabaudia! Eppure osservando questa città proviamo una sensazione assolutamente inaspettata: la sua architettura non ha niente di irreale, di ridicolo.” Pedriali, dopo aver fotografato Pasolini al lavoro nella casa che divide con Moravia, lo ritrae mentre cammina da solo nella città ordinata dal regime. Sullo sfondo forme e figure nitide di architetture che ora, di fronte al crollo dei valori ed al trionfo del nuovo fascismo della società dei consumi, sembrano parlare, rivelando un carattere che il regime ha provato a fare suo ma che appartiene alla realtà rustica, umile, antica dell’Italia. Perduta per sempre? Cambio di scena: una settimana dopo, quasi ripercorrendo al contrario le sequenze del documentario Rai, Pedriali ritrae Pasolini nel suo rifugio di Chia, vicino alla città di Orte la cui forma pura è intaccata da incongrue costruzioni. È qui che il poeta rivela al fotografo l’idea di inserire le foto nel romanzo esplosivo che sta scrivendo. Con questa serie straordinaria Pedriali si rivela interprete ideale di questa intenzione: Pasolini che scrive sul tavolo disegnato da Scarpa nel suo studio. Pasolini che legge le bozze dentro al paesaggio che la casa da lui pensata, inquadra. E poi la sequenza in cui, sceneggiando di essere spiato dall’esterno, si fa fotografare nudo. Le foto di Pedriali custodiscono, custodiranno per sempre il corpo del poeta. Ma al di là dell’intenzione originale, volta a suscitare scandalo, cosa ci racconta oggi questo reportage? Forse la sostanziale coincidenza fra l’immagine dell’uomo Pasolini e quella di una moderna architettura di legno, cristallo ed erba abbracciata al rudere medievale. Le foto di Dino Pedriali ci suggeriscono in ultima analisi l’ethos dell’architettura italiana; già intuito, scritto e costruito da Pasolini quarant’anni fa. Andrea Volpe
Nico Naldini Pasolini, una vita Edizione riveduta e ampliata con documenti inediti Tamellini Edizioni, 2014 ISBN 978-8-890690-58-7 “D’estate e d’inverno le biciclette si spostano da un paese all’altro e, se manca la luna, i loro fanali fiochi e intermittenti formano piccole costellazioni in movimento, qualche volta zigzagando per effetto delle bevute smisurate.” Se c’è un’immagine che riassume la bellezza della biografia di Pasolini scritta da Nico Naldini forse è proprio questa. Naldini non solo ha titolo per ripercorrere con dovizia di particolari e aneddoti la vita del più importante intellettuale italiano del ’900, suo cugino di primo grado, ma essendo lui stesso fine scrittore e poeta ci regala continui momenti di assoluta grazia come quello appena riportato. Tremolante fotogramma di un film dove si narra la formazione del giovane “Rimbaud senza genio” e dei suoi amici, Nico fra questi, nel dopoguerra friulano. L’umile arcadia contadina dove germogliano le illuminazioni poetiche e politiche di P.P.P. e che, nonostante lo scandalo e la conseguente espulsione dal P.C.I., rimarrà comunque il suo mondo di riferimento. Poi riconosciuto nelle diverse masse sottoproletarie; in quelle delle lontane borgate capitoline, raggiunte con avventurose esplorazioni diurne e notturne; in quelle delle altre periferie del mondo occidentale: in Africa, in Medio Oriente. Si pensi alla contrapposizione, a guisa di montaggio cinematografico, della foto della piazza della Chiesa a Casarsa con quella di un paesaggio africano abitato dai giovani di uno sperduto villaggio che domina la postuma Divina Mimesis. È infatti la figura della costellazione, ovvero di una luminosa composizione-montaggio di affettuosi ricordi familiari in pulsante ed oscillante movimento, sospesi -per così dire- nel limpido cielo di una rigorosa analisi filologica e cronologica, quella che sottende questo libro. Tanto più evidente in questa edizione arricchita da documenti e disegni inediti, rispetto a quella Einaudi del 1989. Naldini, testimone diretto della breve vita del poeta, organizza in capitoli agili la storia della vicenda umana di Pasolini testimoniandone la maturazione stilistica della poetica, della narrativa, della saggistica, del suo cinema. Sempre con affetto, sempre con inesorabile precisione documentale. Una lettura preziosa che ci consegna, a quarant’anni dalla morte, l’urgenza di rileggerne l’opera nonostante l’avvenuta omologazione. Forse non è troppo tardi Andrea Volpe
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Firenze Architettura (1, 2015), pp. 176-192 ISSN 1826-0772 (print) - ISSN 2035-4444 (online) CC BY-SA 4.0 Firenze University Press www.fupress.com/fa/
Some questions regarding “junk” by Luciano Semerani (page 3)
One asks oneself, when visiting the last Art Exhibition at the Venice Biennale, after ascertaining that quite a few televisions sets and films have finally disappeared, but also that the hundred year old avant-gardes are now justly confined to the initiatives of touristic-artistic institutions, one asks oneself, I repeat, why contemporary art, although being in essence dramatic, dark, necrophiliac and obsessed by a desperate sexuality, why despite all this apparent expressive commitment it is void of emotions. Surrealism’s absurd, Dada’s intellectual paradox, the anti-bourgeois punch in the stomach, and even totalitarian triumphalism sought to create a diversity of moods,reactionsofdisgustorappealwhichlefteverlastingtracesinourmemory. All of this is gone, because at least in the pieces placed on the market by the art galleries chosen by the Commissary, there is only the trace, maybe, of a not very high-brow intellectualism that is substituted by an industrious artisan effort lacking in ideas, and therefore hopeless, yet technically very elaborate, sometimes refined in its recovery of folklore, and paranoid regarding an ability that derives from an obsessive backdrop, a profuse, boring, extremely long and difficult process of collecting, welding, repainting and dematerialising junk. The question interests architects because it concerns as well the reutilisation, recycling, and recovery of artifacts, buildings, and obsolete territories which we undertake in architecture. There is no lack of interest for form in the pieces exhibited at the Venice Exhibition. Morphology. Precious herbari, endless displays of books, infinite expanses of objects are Venice’s hymn to morphology. Morphology is the classification of objects (plants, animals) according to their formal properties. But what are the formal properties that concern a work of art, or an architectural project? First of all, in my opinion, the evocative properties, those that prefigure a future for the object. Regarding the tragic dimension, which characterised our artistic expression in the century that I lived in, it was often the case of a critical judgment on a “missed future”, on an “ideal failure”, on a “lost love”. Reason was often lost in dreams because the narrative potential prevailed over the other semantic elements. The woods, the river, the house and the mountain in the paintings by Cézanne, Kandinsky and Rousseau were not only elements of a “collective imaginary” but werealso,thankstoa“morphologicalspecificity”,thatwood,thatriver,thathouse, that mountain, and thus in their specific structure they each assumed an identity. But this is exactly the opposite of a morphological classifying practice, which is also a process of massification. Favouring identity is in opposition to the didactic dimension of scientific knowledge. Is this concept of “identity” a “potential that is immanent to the object”? I believe it is, I think that recognising this “potential of latent energy” that is deposited in a landscape, in a fragment, a ruin, in an obsolete building, is to put into consideration a “desire of a future” that is latent in the landscape, the fragment, the ruin, or the abandoned industrial structure. The “desire for a future”, that is for life, which artistic intentionality tends to reveal. This is what stands behind the success of the so called “arte povera”. And also of “l’objet trouvé”. The “project” is the unveiling of what is essential in the object, the essential elements and not the whole reality of the object which becomes the object of the project, not only regarding the form of the object, but also because of its capacity to be a “topos” in the communication between the artist and the public, as a chargeable sign of an emotional tension, of a mood as well as of a logical support. It is well known that the notion of “project”, with the mechanisms of the “abstract project” which characterises our species in its current evolutionary phase, is associated with the notion of “architecture”. Yet the answers to the questions regarding the aims of the architectural project are different. “Project of what?” The interpretation, taken from Le Corbusier’s writings, which considers the architectural project as the project of an “outil”, project in other words of a necessary instrument for the carrying out of other instruments (dwellings, hospitals, prisons), did not satisfy Le Corbusier himself, who later in life compared the compositional act to the “alchemical fusion of Marriage”, to an amorous encounter, therefore recognising the irrational dimension of empathy, the reciprocal attraction of signs, the hermetic potential that icons have in the conceptual process of the project. There is no single intelligent and responsible way when it comes to ret-
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ribution, health or education which can dictate the physical and spatial properties of a prison, a hospital or a school, without becoming a vaster “prefiguring of the future” and “remembrance of the past”, as ideal horizon of the fact that is realised through the project in question. The “presence” of life both in the place and in the things, not as “preexistence” to the project, but as “coexistence”, in the signs of the architecture, of the “consciousness of what is memorable and of what is a part of a possible future in the life of mankind”. In “that” place and “now”. It is from this intention that stems the analytic capacity to recognise the parts that form the existing object, the nature of the intrinsic and extrinsic relations that the said parts have with each other, in other words “morphology” becomes an exercise of experimentation of the transplants, montages, collages and metamorphoses possible with the materials accepted as worthy of a future life. The intentionality of the project is thus mainly that of building desire through emotions, and through enthusiasm, of Baudelairean memory, overcoming the objective dimension of the “traces” found, carrying them into the future, in a horizon of intuited sense, hoped for and desired, that language reveals. What did Lina Bo Bardi, John Hejduk, Guido Canella and Aldo Rossi find so attractive in gasometers, in old crumbling factories, that is so important as to influence their language? If they found vulgar gables, metallic trusses, the various and varied residues of a “social comedy” that is gone or dying, as significant, both in the suburbs of Sao Paolo and of Milan, it is certainly not because they had developed a taste for the “bric-à-brac”, nor were they moved by the didactic imperative of industrial archaeology. Instead, I believe that they were moved, in that “popular working-class” world, by the absence of glitter, of the banality of every-day life, of the material nature of existence, and by the “need for freedom” that invention generates in the intellectual-architect. The “many dreams” of the people, of the masses that were brought to the cities by “progress”, although now vanished, constitute the humus of those places that are the “back shops” of the contemporary metropolis, on the periphery of which is deposited the obsolete refuse of technological progress together with “a certain type of humanity”. Whoever has read the chapter “The cellar” in Thomas Bernhard’s Autobiography understands what I am saying. “Scherzhauserfeld”, the nonplace that was so loved by the young Bernhard because of its authentic state of perdition, is a category of the spirit, it is “the place of humanity” that is present in the folds and the sores on the body of the city. We probably need to make space in the future of architecture and of the metropolis to a vision of the contradictions that is inclusive and not exclusive, that is narrative and not refuse. It means living with these problems, not resolving them. It is not a question of technology but of language. The essence, as always, is language. Translation by Luis Gatt
Pier Paolo Pasolini
Return to Chia by Nico Naldini (page 6)
We adored everything about our villages: the countryside with all its different crops and the peasants in their Sunday best, with the lingering smell of the stables as an inherent part of their very existence. Every village had its irrigation channel, or more than one, all intersecting, with little bridges connecting the courtyards and the kitchen gardens, flowing by the most secret recesses of the houses. The ducks would float motionlessly where the current was strongest, their feet paddling away underwater. On the banks, the turkeys were taken out to pasture by the younger women, whose eyes were already seeking to understand the world. What with their work in the fields and stables, boys had little time, but Sunday would eventually come round and the smell of incense from the Mass would cling to their clothes. We used to cycle from one village to another along a single dusty, stony track. There were few cars in those days, and when one went by we would get down into the ditch to let the cloud of dust waft past. We loved our villages and life appeared to be one of eternal youth, with a future without variation other than that of the seasons, which would burst into our lives and change our timetables and habits. The only interruption of our impassioned contemplation of nature came once a year, with a journey to Rome. The word ‘Rome’ was always pronounced triumphantly at the railway ticket office. We took the Vienna-Rome train,
which stopped for a few minutes at Casarsa, but as soon as we were at the first bend, we already felt homesick for what we were leaving behind. We travelled through the night and dawn broke at Orte, which dominated from on high. The smiling Etruscans on their sepulchres welcomed us and the ode to country life started up again to the notes of Virgil’s alma tellus. Our cousin Pier Paolo was twenty-seven when he moved to Rome. Pursued by a recent scandal, he dreamt of a more radical escape, setting his sights on an imaginary East, only to slide back into the humiliation of hearing himself called a ‘Rimbaud without talent’. Out of work and maintained by a relative in a rented room, all he had going for him was the freedom of the penniless. Even though with some desperate moments, he took advantage of this and treated it like a holiday, for his room gave onto the Tiber, where crowds of cheerful, open-minded young Romans would pass by. The days went by and he wanted to take that world in, rather than just watch it from the outside. The young man of letters, all introspection and inner dialectic, was swept away by the real world of the people, which tore the drapes off him. Rushing wildly about, he penetrated the world of popular humility and when reality came together in a universe of dreams, he began to describe this world of the people with the echoes of its age-old gaiety. Mockery, derision and irony poured down from the great, unattainable Belli. The Pier Paolo who came to the banks of the Tiber was a pure young man who lived through the extraordinary nature of his perceptions. But the Tiber had a king of its own, the poet Sandro Penna, whose only aim in life had for years been that of walking along the Lungotevere, surrounded by the young people with whom he mingled. They naturally soon became friends: ‘You’re Penna.’ ‘And you’re Pasolini.’ With the assistance of his new friends in Rome, and especially of Giorgio Bassani, Pier Paolo began working on the very bottom rungs of local cinema as a script editor. He also worked with Fellini, who gave him a second-hand Fiat Seicento, with which he began to expand his range of action as far as the outer suburbs, where the kids packed into the same old criminal bar, ready to mock any new arrival but also to strike up immediate friendships. The lure of the unknown gave wings to the Seicento, in which the stench of the kids’ feet condensed from one day to the next and which Pasolini seemed to appreciate as much as De Quincey did his opium. He also continued his literary and cinematographic career, in a strange, unprecedented osmotic form, in a parallel of Roman stories between Ragazzi di vita and Accattone. But what is the finest story ever told over the millennia? The answer came instantly to the soul of Pasolini the unbeliever: The Gospel According to St. Matthew. Making a film requires a project, a subject, a screenplay, and a selection of actors and of places where it is to be shot. There was no problem for the actors, for Pasolini had always had them right before his eyes: they were hustlers, from the Citti brothers, Sergio and Franco, to Balilla (who would die on the cross in the film La ricotta) and countless others. The locations were those he had wildly frequented in his car and on foot. He also went to Israel on reconnaissance, but he did not like the modernity of the new state and he came across no traces of the ancient world in it. He found what he was seeking not where Christ had lived but in Italy, and he found it in the South, and in Matera in particular. One scene that sets the whole film alight is that of the baptism of Christ, with the water pouring from the hands of Saint John the Baptist. Pasolini used no megaphone and gave no peremptory orders, nor did he let himself go to hysterical scenes at the slightest hitch. Maybe he recalled an ancient maxim of the classical world, which encapsulates the energy of any crucial act: ‘Equitare, arcum tendere, veritatem dicere’. He was always calm and quiet, always concentrated, and he thought like a strategist before giving even the simplest instruction. The baptism of Christ. Orte was perfect, with its special conformation and pristine Roman countryside all around. Pier Paolo went through it, attracted by a tall tower that appeared to rise up on its own. As he approached, he found it was part of an ancient defensive wall enclosing a vast space with many ruins – the complex known as the Torre di Chia. Up against the walls is a brook with primeval sink holes and massive boulders that rolled down in distant geological eras. These ancient stones had been part of the world long before man arrived, and their sacredness convinced him to make this the setting for the baptism of Christ. I may not remember well but I believe a passionate desire to purchase this place simply swept over him, with those towers and ancient walls symbolising a safe haven for life. While the highest tower and the area around it were to remain intact, the ruin, possibly an old guardhouse, was to have two modern extensions, with vast, extremely modern windows. These two wings were to enclose an even more secret place, where Pasolini would have his body buried, with Ninetto beside him. A studio bedroom in one wing and a sitting room with leather sofas and a fireplace in the other. The childish joy of building sandcastles. For his future work as a writer, however, he needed an even more secluded place – a vast wooden pavilion painted green, blending in with the nature around it, with two sofas, a table and, next to the table another one of unusual proportions. A work table, he called it, but what work would that be? Possibly a mix of written pages, graffiti and photos, of which only the written pages would survive – about six hundred typewritten sheets that would be published some years after Pasolini’s death, under the title Petrolio.
The happiness of New Year of 1974 around the sitting-room table, with the fire crackling in the hearth and then lunch at the nearby trattoria, followed by more glasses raised in the sitting room with its huge windows giving onto the brook and its erratic boulders. Pier Paolo perceived some negative signs that evening. Nobody wanted to notice, but simply filled their glasses, and yet his superstitions, which he cultivated with that sprite, Sergio Citti, were well known. Pier Paolo was worried, but we knew how Elsa Morante had extended two fingers across his forehead and banished his gloom the way one shoos away an insect. Pier Paolo announced to his guests: ‘Next year will be one of famine.’ A rather too Biblical comment for our then rather blurred minds. But by a quirk of fate, the perfect isolation of Chia was not that perfect after all, for it had a slight flaw. From one corner of the walls, the view stretches out over another person’s land. We did not know who the owner might be but, like in so many other places, there was always the threat that some industrial shed might rise up and ruin the carefully studied isolation forever. Suspicion can be a snare. So Pier Paolo was much relieved when I offered to go a find the owner of that plot and make him an offer for it, for no other reason than to keep that natural backdrop intact. There were warm greetings and much joy when the first guests arrived. Mimì and Guido Piovene, Moravia, who was at home here, and Guido Davico Bonino, who was about to conclude the move of Pier Paolo’s works to Einaudi. A caretaker, Troccoli, was hired from the nearby village and Pasolini took to his teenage son, who appeared in a number of scenes in the film Salò. Pier Paolo spent much of his time in Chia but in the evenings he would return to the home of his mother, whose life was for him both in his presence and in his absence. Translation by Simon Turner
The infinite inhabits Chia. Pier Paolo Pasolini’s house/castle by Maria Grazia Eccheli
(page 12)
From the deep wooded furrows of Fosso del Rio and Fosso di Fontana Vecchia, two ravines civilised by the Etruscans, rises a triangular piece of land whose vertex, at the meeting of two river banks, is the virtual centre of two semi-circles that trace the defensive geometries of the Medieval castle of Colle di Casale. Arched between the margins of the vales, the two walls hold two aligned pentagonal towers – one very high (42 meters), the second one broken – which signal the ideal itinerary. An opening next to the first tower communicates the dense woods, which are held by the first wall, with a wide lawn, a spianata, where the two defensive structures face and, as in a tournament field, are visible to each other. Emerging from a moat - from its position below the horizon –, the broken tower is the entrance to the last and secret hortus conclusus: a courtyard suspended over the cliff. The mystery is in the view, in that overlook on neighbouring ruins, on the faraway landscape seen in the full light of noon, chosen, one would say, by the very curving of the walls: Bomarzo, Mugnano and the lands of the Tiberian Valley. A Tuscia with streets, pathways, Etruscan grottoes and enigmatic “pyramidal altars”. A place high above the deep dales where the Mola flows, improvising waterfalls, such as the one known as di Fosso (or del Castello) which in the fecund imaginary transpositions/osmoses of the legendary Palestinian topographies into Italian landscapes that PPP undertakes, becomes the backdrop for the scene of the Baptism of Jesus in The Gospel according to St. Matthew. His capacity to see myth in different places, almost as though the genius loci of a place could migrate to unexpected locations, is perhaps at the bottom of PPP’s idea of transposing a CASTLE - a building without interiors and congealed within its muted military essence, almost to the point of becoming a mere heraldic symbol, apparently inalterable – into a DWELLING. Then again, the “visits” of Longhi’s pupil to Piero della Francesca’s world in Arezzo were legendary1. Thus the COURTYARD/ROOM – the lawn as floor, and for a roof the leafy branches of the trees - becomes the impluvium of an imagined house. A simple wooden structure (less than four meters long and three meters high) is added to the stone walls, which have no interiors, in order to double the width of the scythe-shaped layout, and obtains volumes and form from the central tower that both divides and unites it. Dwelling thus takes place in
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two wings (build at different moments during the Seventies). Direct access from the courtyard gives the sense of rooms of passage, one within the other, recalling an ancient, perhaps rural or peasant way of life. A cursory wooden bridge with bayonet railings – boundary between the flatland and the private space of the poet – serves as entry into the stone parallelepiped at the base of the broken tower. There, as in fairy-tales, are four doors: two placed at the axis of the castle and the house – the spaces at the interior and exterior of the walls: north and south – the two other opposite doors are at the centre of the dwelling spaces: to the east the bedroom, the bathroom and the studio; to the west his mother Susanna’s bedroom, divided from the spacious living-room by a bathroom and a kitchenette. In contrast to the rest of the structure, which is placed against the wall, the living-room presents a sudden break: taking advantage of an existing breach, it distances itself from the base of the wall to invent itself as a wall-less pavillion, between the courtyard and the trees, in which the space is dominated by a large fireplace. The rooms stand on a stone base which accommodates the uneven nature of the ground; in the interior spaces the flow of the narrative of the stone walls is punctuated by narrow gaps which allow the sunlight from the south, whereas towards the languid northern light the wooden walls are characterised by large windowpanes which dilate space towards infinity. The CASTLE/HOUSE is a sort of theorem of light: nested within the eternal shadow which originates in the walled concavity, it assumes the role of the Lucretian spectator faced towards the full light of faraway landscapes, when “[the first ray of mere sun] distributes... to the buildings... the appearances of inhabited shells, which they are, of gesture and of life”2. The “house like myself” which PPP wanted, pursued, that he “designed” together with a very young Dante Ferretti, and realised with the same mastery with which they dealt with the demanding set designs for his films, is characterised by a timeless modernity. In the rooms that the prophet loved one can still breathe the silence of faraway gazes, of readings and words written in industrious quiet; of skillful brush strokes on a thousand white sheets of paper, of presences and absences. His visage absorbed, the hands busy correcting a ream of texts typewritten with letter 22, the body defenseless in rooms of Franciscan simplicity: subjects immortalised, in the second week of October, 1975, by the camera of Dino Pedriali3. In his room/studio, facing infinity, PPP had placed a wooden table, Scarpa’s Valmarana, and a comfortable leather armchair, “(...) next to the fireplace, on an uneven stone made flat by a glass pane, Pier Paolo would gather some books, those necessary, because – Graziella Chiarcossi Cerami recounts – he would bring from Rome only those that he needed for writing”4. Translation by Luis Gatt 1
“in September, with Bassani at the wheel of his automobile, he went on a wonderful trip around Central Italy, following the footsteps of Giotto and Piero della Francesca: Florence, Arezzo, Perugia, Todi, Spoleto…” in Nico Naldini, Pasolini, una vita, Tamellini edizioni, Albaredo d’Adige (VR), April 2014 [Einaudi, Torino, 1989], p.208. 2 Roberto Longhi, Piero della Francesca, 1923 3 Dino Pedriali’s photos are published in: Pier Paolo Pasolini, Fotografie di Dino Pedriali, John&Levi ed, 2011. 4 A fragment of Graziella Chiarcossi Cerami’s stories during our journey from Rome to Chia. A heartfelt thank you to her for giving us the opportunity of visiting the rooms that her cousin PIER PAOLO loved, and for allowing us to consult precious documents.
A story of emotion. Travelling towards Pier Paolo Pasolini’s hermitage in Chia by Andrea Volpe (page 16)
The appointment was in Piazza Mazzini at 10.30. The taxi was late, brief pleasantries were exchanged. It was early May in Rome and there was already hot African weather. “You get the car, you drive it ...”. Graziella smiled but decisively handed me the keys while I feigned nonchalantly1. Inside however I felt like exploding, from emotion, from the responsibility. We departed. Direction Chia. But first we had to get out of Rome’s Foro Italico, and Ponte Milvio, then the notorious Ponte Flaminio designed by Armando Brasini; the bridge on which Nanni Moretti in an episode of Caro Diario must pathologically pass over on his Vespa scooter at least twice a day. It’s a scene that precedes a few minutes before another scene, which is accompanied by the music of Keith Jarrett’s Köln Concert. As Nanni Moretti says in this scene, it is a journey towards “the place where Pasolini was killed”. Perhaps it’s the most beautiful homage to Pasolini: dry, heart-breaking,
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without rhetoric and in jealous naivety I even did it myself, obviously on a Vespa, during those days of my life in Rome. I was thinking about this while I followed Graziella’s directions for the Autostrada del Sole. And so another pilgrimage with scattered fragments of memories and disorder but at the same time there was a conscious effort of having to stay morally clean. After all we were not going to Lourdes. Why then was this childish emotion trying to dominate me? Was there an unconscious desire for a miracle? Was I expecting some revelation or prophecy? In the meantime, the windshield revealed the damaged skyline of Orte, one of the set on “La forma della città”2. The incongruous condo that troubled Pasolini so much was inevitably multiplied and turned into faux-rustic neighbourhoods with neat rows of industrial prefabricated buildings, which assaulted the hill and plains below. Yet it is still the most ancient and remote Tuscia that welcomed us. Despite the building of so many scars, that landscape for us hypersensitive motorway travellers is still the one described in the finale of Pasolini’s confessional poem Poeta delle Ceneri3. Indeed, at the River Jordan and the Middle East’s Gospel according to St. Matthew one can find a few kilometres from the road at Torre di Chia the ancient early medieval fortification bought by Pasolini in 1970 where he wrote his final novel as a hermit. I thought to myself that it was actually a bit difficult not to expect a sacred experience from this tour, or at least another baptismal rite. After all, we were heading towards the Palestine of Viterbo, renowned thanks to the movie and the mythology on which we grew up on4. First though, with a little of tension in the air we stopped at a motorway service. Graziella couldn’t find the keys to the house, which consequently lead us to the fear of a wasted trip. However, once past the gate that separated the forest from the large open space inside the ring of walls the feeling disappeared. A theatre company warmed up on music and songs. They came out of the wooden pavilion next to the medieval castle restored by Pasolini along with the young Dante Ferretti5. The poet used to drew in the pavilion. The sun was up, the air hot, the light was too strong and the shadows were too dark, surely the worst time to take photos. But these issues were now irrelevant. The problem laid elsewhere. How could you reasonably record being there? How could you think of taking more photographs after those shot by Gideon Bachmann, Deborah Beer and Dino Pedriali, the last witness to the intimacy of the home of Chia6? And then there was a presence, an absence so strong. Forty years have passed since the death of Pasolini and very few from that of Vincenzo Cerami. The house is still closed, hidden by the great wall that protected the ruins. It was inaccessible despite a wooden bridge with surprisingly Japanese characters, past the front rampart, on the plateau where we silently stood. And then there was the passageway to a narrow entrance. To understand the place we carefully studied detailed records of black and white photographs: Pasolini posing before the walls, before the high tower of Chia, waiting at the front door as an enigmatic guest that still benevolently welcomed us. His spirit will live forever over that threshold. Transfigured in his home between the landscape, he is framed, protective looking. Some of his last verses in dialect from La nuova gioventù (The New Youth) came to my mind. They illustrate nostalgia for rural culture in Friuli, where a similar humble beauty was turned into cinematic experience in the style of Chia Mountains. Caught in a sequence of windows, like frames of a long sequence shot, they turn north following the trail of ancient walls as if to embrace the distant Apennines. “I) The sun gilds Chia with its pink oaks and the Apennines know of hot sand. I am a dead man here, who returns today in a day of celebration March 5, 1974. [...] V) Peasants of Chia! Hundreds of years or a moment ago I was in you. But now, from the time the land is abandoned you are not in me ...”7 The door was finally opened here. Feelings of denial, desire, were fulfilled by the miracle of crossing the threshold of this house, which is both a poem and a narrative film made of space, light and shadow. It was therefore a pure architectural fact. P.P.P. believed it to be an apodictic demonstration of the possibility of construction of the new by virtue of the profound dialogue with tradition. It was architecture literally supporting the old, to the strength of the past. It was time to go. We moved away from a house whose character “more modern than any modern” house8 was ultimately for us architects, too prone to enthusiasm, one of the most authentic selfportrait of Pasolini. translation by Michael Phillips 1 These brief notes seek to describe the atmosphere of the journey made to Torre di Chia last May 9, made possible thanks to the kind availability of Pier Paolo Pasolini’s nephew Graziella Chiarcossi Cerami. 2 This refers to “Pasolini e...la forma della città”, a short film directed by Paul Brunatto in the autumn of 1973 for Rai, an episode of I and .... tv show, curated by Anna Zanoli, a former student of Roberto Longhi. Roberto Chiesi includes this short film in Pasolini’s body of work, Lo sguardo di Pasolini la forma della città, un film di Pier Paolo Pasolini e Paolo Brunatto in www.parol.it/articles/pasolini.htm, where he essentially puts together the suggestion by Naldini, Contini and Laurencin of the real possibility of inclusion in PPP’s official filmography of Rai’s episode which employed Brunatto as their established director. 3 “Ebbene ti confiderò prima di lasciarti che io vorrei essere scrittore di musica, vivere con degli strumenti dentro la torre di Viterbo che non riesco a comprare, nel paesaggio più bello del mondo, dove l’Ariosto sarebbe impazzito di gioia nel vedersi ricreato con tanta innocenza di querce, colli, acque e botri, e lì comporre musica l’unica azione espressiva forse, alta, e indefinibile come le azioni della realtà” Pier Paolo Pasolini, Poeta delle Ceneri, Archinto editore, Milano, 2010 (revised edition based on the typewritten original document).
4 “Le riprese di ‘Medea’, che inizialmente si intitolava ‘Le visioni della Medea’, iniziarono alle ore nove del 1 giugno 1969 a Ųchisar, in Cappadocia […] il 27, la troupe, ritornata in Italia, effettuò le riprese presso il fiume di Chia, non lontano da Viterbo, sottostante un’antica torre medievale...” in Roberto Chiesi, Dossier Pasolini 1969-1972, I. Le visioni barbare di Medea, in Pasolini sconosciuto, curated by Fabio Francione, Falsopiano Edition, Alessandria, 2008, p. 243 5 “Ho aiutato Pasolini a costruire una casa di cristallo perfettamente trasparente e col tetto in erba, in località Chia in provincia di Viterbo: non si sa che fine abbia fatto...” in “Intervista a Dante Ferretti – Scatti corsari nel paese svelato da Pasolini”, Laura Laurenzi, Il Venerdì di Repubblica, 21 Ottobre 2011. Others interesting news concerning Pasolini’s intense relationships with the Tuscia region are reported in Silvio Cappelli, Pier Paolo Pasolini: dalla Torre di Chia all’Università di Viterbo, Vecchiarelli Editore, Manziana (Roma), 2004. 6 For a comprehensive presentation / interpretation of photos taken by Pedriali at the request of Pasolini and read by Elio Grazioli and Marco Bazzocchi “Pasolini ritratto da Dino Pedriali” http:// www.doppiozero.com/materiali/recensioni/pasolini-ritratto-da-dino-pedriali 7 From Ciants di un muàrt in La nuova gioventù, Einaudi, Torino, 1975. 8 Pier Paolo Pasolini, Poesia in forma di rosa,Garzanti, Milano, 1964. This verse read by Orson Welles and voiced by Giorgio Bassani, appear in the famous episode La ricotta in RoGoPaG later known as Laviamoci il cervello, 1963.
Toshiko Mori
Thread - The Sinthian Center: the Albers Cultural Center and Artists’ Residency by Michelangelo Pivetta. (page 26)
The Ariadne’s thread “Thousand steps always start by one.” San old tribe proverb. Africa holds the secret of man, hiding, at least in its most original part, everything that humanity is, every beauty and every tragedy. Anyone who had access to the knowledge of this secret will never be the same as before. Architecture, which everywhere is the most obvious and viral of man expression, it is not in Africa; there Architecture, the original one, loses any iconic value to magnificently reduce itself just into a necessity. It leaves the role of regulator at the case and the role of function to solve minimum problems: to protect from the rain or defend against other men or animals. The African history gave us memories of ancient and vast empires and the knowledge of their heroic architecture but, the regressive evolution imposed, in the last three hundred years, by the white man blocked the road to the hundreds of millions of people natural growth path. As part of a kind of pitiful - in the sense of the latin piety concept - path of mending and rapprochement between white and black civilizations some valuable collaborations occur. The realization of many architectures capable to contain these operations is necessary. Sometimes these architectures, especially recently with roles that are beyond the simple functionality, become parameters of a cultural and social renaissance, accompanied in the same time by a synchronous awareness of their unique self-identity value. Senegal between many countries in sub-Sahara Africa can be considered among lucky supporters of a miraculous balance, suspended between tribal tensions and geopolitical - and now religious - dynamics. The thick intellectuals and artists substrate that this country has over time cultivated and encouraged, certainly helped to reach and maintain this positive situation. The Ecole de Dakar, the Festival Mondial des Arts Nègres, the Biennale de Dakar are some fulcrums around which, since the sixties, collective experiences of expression materialized, allowing the trans-tribal and trans-religious sharing, plumping a particular and substantial consciousness of freedom and people communion. Thread fits as a part of this social and cultural capitalization. The main goal of this work is to welcome and to strengthen the local artists community that otherwise would be dispersed over the vast and difficult territory of the African country. Toshiko Mori, after a intense activity during which she has been involved in a lot of realizations immersed in the mellifluous landscapes of the USA East Coast, has dedicated itself to that project with an unprecedented design effort with a renewed and propulsive ability. Certainly this assignment could make a concrete commitment from always made, as a member of the World Economic Forum Council, under the theory that the architecture is, everywhere, one of the most appropriate responses to solve the social problems. The realization of a Cultural Centre for the arts and artist in a rural area in Senegal appears as one of the themes to which every architect should aspire. To devise a functional architecture for the activities related to the arts in an inconvenient place for a community thirsting for culture and in need of places from which to evangelize it, it seems to enclose each key of the intimate idea of making Architecture.
The newyorker architect shrewdly developed the theme, exploiting every problem to her advantage and introducing in the project an approach that is in balance between tradition and innovation, simplicity of implementation with indigenous technology and sharing of unusual material that the African way of building made available. A great canopy made using the typical African thatch - a roof built by weaving stalks of what we, in its African declination, would call sedge - performs the task of the main architectural object, but also is a water collector that supplies about half water need of the entire village. This cover embraces, protecting from the sun and rain, the spaces below that are divided in a seemingly random succession of solid and empty volumes around open and closed spaces, conceptualized not only according to a specific function but also according with an aspiration of indefinite utility. Such as the geometry of interaction between the houses of any rural settlement in sub-Saharan Africa, even here, relations take place mostly outdoors, in those interstitial spaces that a thousands years old endemic wisdom of spontaneous urban planning can make the favorite places of socialization and life of tribal communities. The building rules designed by Toshiko Mori follow a dynamic but soft, arrhythmic but deliberately persuasive tensions progress that accompanying hand by hand the man without any hesitation. The composition critical runout is the planimetric proposal in which the Japanese architect plays with the traditional forms. She swaps usual hierarchies, emptying and discovering the circular spaces that usually identify a full and covering the interstitial spaces that are normally opposed to the interstitial connective outdoors. The references, used to create the roof structure and the wall portions for microventilation, are mnemonic resources intended to suggest the origin of technical choices declared as necessary. This practice, common in best architecture projects, defines the possibility of reading a project through multiple layers depending by the scale of interaction that could be chosen by the observer. The first of these resources it is the structure of the roof that, in reference to the Japanese origins of its creator, is achieved through the bamboo binding according to something like the Gassho¯ of the Minka typical houses in the rural Japan. An act not withheld signing, almost undetectable, but clear and imperishable. The second resource concerns the design of the ventilating walls that participates, together with the geometry of the large roof, the false image of precariousness that the structure seems to communicate. Not only that, it wants to expose the memory of the client, or rather the promoter, through the ideal reproduction of one of his Op-art graphics. Roberto Filippetti recently well explicate the terms of modern hybrid sense about some part of contemporary African architecture. Here it seems perfectly able to be fitted instead the concept of a hybridization leaning towards the need to exist and proud bearer of that sense of pure poverty originated by an essential, but at the same time perfectly declined, architecture. What is also important in projects such as Thread it is the collaborative aspect of the building, its growth within a social group or a geographic location, its use for that it will be able to do extraordinarily determining, once again, as the architecture is unique tool to create civilization. Threadmeanswire,butnotonly.Athreadcouldbetheunitaryelementcapableto generatemorecomplexweaving.Athreadhastheabilitytobind,weave,connect. Thread is like an Ariadne’s Therad, it is able to weave the community using the significance of art in order to increase the awareness and culture. It could be a vectorcapabletoleadoutfromthedarknessofapovertyandradicalismlabyrinth, reinforcing the relationship by the identity through the architecture language. This is the beginning of a long journey where Thread is the first essential step.
Aires Mateus
When building INEXPENSIVELY becomes a LUXURY by Maria Grazia Eccheli (page 34)
On Alberoni Beach, in Venice’s Lido – far from the overcrowded salons of the Hotel des Bains – Luchino Visconti designed a sandy courtyard, with simple wooden cabins set as a U; with white and grey/blue striped curtains supported by a slender structure he then amplifies the necessary shade for channeling the sea breeze in the sultry hours of idleness. In Visconti’s most Proustian film, where Gustav von Aschenbach’s desire for young Tadzio is worn out, the sandy courtyard is inhabited by simple beach chairs and reeds, by the rustling of the white dresses of women protected by wide hats, by the solemn gait of an elegant, pale and silent Silvana Mangano.
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The atmosphere of the “descent to the sea”, with its spare assortment of utensils on the sand, the lightness which derives from rigorous work, from memory, from knowing how to do well with little resources, seems to migrate – in an era characterised by doing too much, and badly – from Venice’s Lagoon to the Alentejo. Enchantment and disenchantment on a strip of land wedged between the estuary of river Sado and the ocean, a natural park where new constructions are apparently not allowed. Four fishermen’s cabins with the traditional straw roofs – two built with bricks and two with wood and reeds – become the “CASAS” of COMPORTA, through the restoration-transformation by the Mateus brothers. The idea of the project, the dialectic criteria of the issues pertinent to re-usage, is already a part of the interpretation of the four buildings: disposed in a semicircle in such a way as to form a sandy courtyard open on the sea, they are intended as the various rooms of a single dwelling [for inhabiting the summer]. Their division/distinction, caused perhaps by the analytic attribution of destinations – three of them, in fact, become rooms – is exhibited yet at the same time recomposed by wooden boardwalks which spread over the scorching sand, almost as if stressing the unifying morphology of the courtyard. All the openings that face the courtyard become doors, expressing the role of IMPLUVIUM, which is defined by a virtual inexistent portico. If the restoration of the two brick houses – a bed and a bathroom in each – consists in a thermal adjustment through the doubling of the walls, transfigured by the priceless white plaster which gives back the oceanic light, the adaptation of the two wooden houses, a more complex endeavour, seems to be at the origin of the idea of the project itself. The two wooden houses/rooms were disassembled and reassembled following a careful interpretation of old local construction techniques, which result in a wooden structure that is the same both on the interior and the exterior, thus becoming space and decoration at the same time. The reeds, which are placed alternately and supported by horizontal wooden strips, characterise the elegant texture of all the walls. But the new interpretation of the place has its vertex in the house/room of the last cabin: it is the sand, which continued in the interior, constitutes the flooring. Thus walking barefoot on the beach continues inside the cabin, on the sand which also houses comfortable sofas draped in white cloths. Maybe it is the archetypal form of the buildings, an air both ancestral and contemporary at the same time – together with evocations of illuminist theorems on the cabin as originary model – that gives the four structures such a surprising depth. In building two CABANAS not far from there, the Mateus’ seem to want to continue the precious landscape of the Reserva Natural do Estuário do Sado. A landscape of water and stilts: a lagoon/estuary that the ocean tides constantly mutate, alternating to the splendour of the blues of sky and water the sandy grey of the sea-beds of intricate and invisible canals from which rises a forest of stilts. A world of wood for walking on water, for mooring small vessels and inhabited by cabins and fishermen. Two small parallelepipeds built with recycled wooden planks disposed vertically. The two structures acquire sureness in the landscape declining their own individuality through almost invisible gestures: a misalignment between the two which at the same time underlines the affinity and diversity of the geometry of the roofs, determined by the necessary inclinations for the disposal of rain water. It is once again the case of a functional hendiadys: the two small rooms – measuring around 10 sqm each – are in fact complementary, a cabin contains the bed and the services which, surprisingly, also constitute the entrance and can be opened towards the landscape; the second cabin is devoted to the day activities. Wooden planks placed on the beach unite the temporal dimensions – day and night – while a boardwalk communicates it with an old jetty, the true border between land and water. The material unity (old wood) and the modality of its realisation – the sincerity of the structure characterises both the interior and exterior spaces – gives the whole a chromatic unity which surprisingly blends in with the almost invisible horizon. I have build a castle on the sea, of 3,66 x 3,66 meters, for my wife, said LC about his well-known Cabanon, pre-fabricated in Corsica and carried by ship to Cap Martin, not far from the house of his friends Eileen Gray and Jean Badovici. In Roquebrune, on a path that almost reached the sea where everything was small: the door, the stairway and the access to the cabin through the vineyards. Only the site was grand: a splendid bay with steep cliffs. Translation by Luis Gatt
Maria Giuseppina Grasso Cannizzo Dream house by Alberto Pireddu (page 44)
In 1942, Ernesto Nathan Rogers relies on Confessions of an anonymous among the pages of “Domus” the description of his dream house, a beautiful house, “warm” and worthy dwelling place of human life: This is my ideal home: away from you, enough for singing out of tune and being not heard, yet so close so I can greet you by waving hands and you could answer me. It grows from the ground like a plant and is yet sovereign of the nature, assertive man trace. A piece of land at the bottom and a piece of sky at the top: among countless flowers, someone perfumes just for me and, in the night, a square of stars – among the infinite – lights up only for me. My house changes face at the turn of the seasons; changes fronds rejuvenating itself every spring, in summer it has the coolness of the woods; colored in autumn, wrapped by the winter snow, underneath, my family germinates waiting for the sun. Let the walls be limits to the outside world, not obstacles: may they open all outside, may they close, half-close: eyes with eyelids and eyelashes or, perhaps, pores that could breathe the universe and bleed harmful moods. My house is a body, as my body, holder of sorrows and joys, next to your border. In penetrable bodies1. Rogers seems to materialize his dream not far from Noto, Sicily, in a small holiday house designed by Maria Giuseppina Grasso Cannizzo2. Here, among the almond and olive trees in a gentle slope towards the sea, two volumes functionally and formally distinct, interpenetrate under the same roof: the “manor house”, with its solid structure of reinforced concrete, and the iron body of the “guest’s residence”. Equipped with a mechanism that determines movement on metal rails, animates the life of the house, protecting it during the winter and allowing it to unfold for the arrival of spring when, with the first sun, the walls finally open to illuminate the interior. In the changing size loggia, the large living room and the manor bedroom meet the enfilade of the guest’s accoutrements. The lodge is a rarefied space, a room facing the sea, suspended on a metal grid. The building, in fact - by seeking a continuity of quotas with some existing buildings and trying to reach the sea horizon, over the treetops - does not touch the ground, but stands on concrete beams firmly anchored to the hill, while a steel structure supports the metal cage of the sliding volume and its relative staircase. And yet the house has “its own roots”3, encloses a private world taken away from indiscreet glances, so that no one can reveal the secret. The project summarizes some key points of the poetry of Maria Giuseppina Grasso Cannizzo. Among them, it calls into question the Vitruvian firmitas through movement, the contraction and expansion of the architectural body and the idea that this may not last forever, but endowed with an “own life, that at a certain point turns off”4, a belief that seems to find echo in the words of Rogers “I do not ask my house to be eternal, but enclosed like an embrace”5. The same materials used denounce the acceptance of an impossible eternity – the concrete, which is now produced depending on the expected lifetime for a building, gas concrete of the partitions, the okumè of the ventilated walls – as well as the mechanical apparatus intended for an inevitable technological obsolescence. ‘Poor’ or at least ‘ordinary’ materials, commercially available and sometimes reminiscent of an industrial world, which architect experiments on numerous occasions, by placing them together poetically. It happens, for example, in the control tower in Marina di Ragusa6, in which a glass box is suspended on two opaque volumes externally defined by a coating of wooden planks and zinc-titanium panels; in the Scoglitti holiday house7 whose body of reinforced concrete confuses its own imperfections with those of the surrounding abusive landscape while portions of reinforcement not included in the cast support containers of the suspended beds; in the family house in Ragusa8, where selecting the steel for the platform and outside stairs reveals the wish to make addition parts recognizable compared to the work of removal on the main volume and reuse of the ruins to create a new, direct, relationship with the garden. Then, the deep care for human life and transformations that it produces in architecture that, in a continuous changing of rules, cannot reach a final arrangement. This is, after all, the big idea behind the editorial project of the book Loose Ends, recently published, with its endlessly decomposable storyline and his papers impossible to be ordered, in a total abolition of all code structure. The book itself is an architecture of “measures, rules, notes, wishes, requests ...”9, a house of cards, blank or pre-written, never equal to itself. Moreover, while quoting Gaston Bachelard, the dream house may not be definitive, because if it were so, the soul could not “find his vast life”10: Perhaps it is good to keep a reserve of dreams towards a house that we will live later, later and later, so much later that we will not have time to realize it11. Translation by Arba Baxhaku 1 Ernesto Nathan Rogers, Confessioni di un anonimo del XX secolo. 9° La casa dell’Anonimo, in “Domus” n. 176, agosto 1942, p. 333. 2 Maria Giuseppina Grasso Cannizzo, Loose Ends, Lars Müller Publishers, 2014, FCN.2009. 3 Ernesto Nathan Rogers, cit. 4 Maria Giuseppina Grasso Cannizzo, Sulla lingua, in donn’Architettura, by Maria Grazia Eccheli, Mina Tamborrino, Milano, FrancoAngeli 2014, p. 269. 5 Ernesto Nathan Rogers, cit.
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Maria Giuseppina Grasso Cannizzo, Loose Ends, cit., PMR2.2008. Maria Giuseppina Grasso Cannizzo, Loose Ends, cit., GNS.2002. 8 Maria Giuseppina Grasso Cannizzo, Loose Ends, cit., SPR.2001. 9 Maria Giuseppina Grasso Cannizzo, Sul processo, in Id., Loose Ends, cit. 10 Gaston Bachelard, La poetica dello spazio, Bari, Edizioni Dedalo 2006, pp. 87-88. 11 Ibid. 7
ELEMENTAL
From Quinta Monroy to Conjunto habitacional Violeta Parra
voice to the rights of the people of Chile and who helped to understand their identity through a quest for their deepest roots. From then on, Quinta Monroy will be known as Conjunto habitacional Violeta Parra. 1 Cfr. G. C. Argan, «L’architettura di Gropius in Inghilterra e in America», in Walter Gropius e la Bauhaus, Piccola Biblioteca Einaudi, Turin, 1988. 2 Cfr. A. Aravena, A. Iacobelli, Elemental: manual de vivienda incremental y diseño prticipativo, Hatje Cantz, Ostfildern, 2012 3 Cfr. G. Bateson, «Ecology and Flexibility in Urban Civilization», in Steps to an Ecology of Mind, Chandler Publishing Company, 1972.
by Francesca Privitera
(page 52)
Volpe+Sakasegawa
Under the volcano. An Italian house in Southern Japan by Andrea Volpe (page 60)
Quinta Monroy is the name of an unauthorised settlement by 97 families, which grew up in the 1960s in the centre of Iquique, a town in the desert of Atacama in northern Chile. In late 2001 the government tasked the practice Elemental, led by the architect Alejandro Aravena, with planning a settlement for the families of Quinta Monroy. This project was developed in the context of the programme Vivienda Social Dinámica sin Deuda, addressed to the poorest sectors of the population. The programme calls for spending 7500 US dollars for each residential unit, including purchase of land and basic infrastructures. An amount sufficient for setting up about 30 square metres per dwelling on land having near-zero market value. This has brought about the flight of social residence from town centres, overcrowding, lowering of architectural and urban quality and physical and social degradation of settlements. Aravena’s proposal is based on reversing these premises. Families are relocated onto the same land they have been illegally occupying for some thirty years. The layout consists of residential blocks set up around common, open courts. Future inhabitants are supposed to be actively involved through shared planning workshops and self-building. The dwellings, measuring about 36 square metres each, are intended to be half-houses, awaiting future completion. In 2004, residents of Quinta Monroy received the keys to their homes. On the day it was inaugurated, the settlement was still under construction. The structure was not a finished solution, but an open worksite, a promise of space and life, suspended between the present and the future, between the substance of what had been built and uncertainty about what was to come. The part handed over to the families, of an elementary – in an etymological sense – composition, made using prefabrication, was the palimpsest upon which the settlement was to grow. It established the orientation for future developments of homes self-built by their inhabitants. Standardisation integrated with spontaneous urban forms and with participated planning workshops will give rise to an urban form shared by the community, not imposed from above but the outcome of fertile integration between public initiative and citizens. Standardisation of industrial elements regenerated by the creative human element of self-building, instead of generating monotony and alienation will lay – as in Walter Gropius’ American experimentation with serial incremental houses1 - the foundations for community ethics and a possible human dimension to industry. Use of prefabrication in the Quinta Monroy project does not set down strict residential patterns, but provides the necessary rules on which to graft the vital transgression of self-building, giving rise to a model for expansion which will set the example for later experimentation calling for integration of informal residential interventions. Extensions, which reflect the individual needs of families, fill in the gaps of a porous building2 and affect both the architectural image of each residence and the spatial image of shared courts, areas of interaction between the individual and the collective dimension. As in a healthy biological organism, flexibility variables - as Gregory Bateson calls them3 - provided for within the settlement of Iquique allow growth of the system, preventing it from collapsing, unlike what happens in other South American outskirts, where self-building brings about a pathological urban growth which tends to saturate available space. On the contrary, in Iquique, individual building becomes collective construction of a redeemed urban and social identity, and the space arising from it mirrors the society which makes it and avoids any mystification, bringing back to mind the ethical principle of *obedience, invoked by Ruskin and so often forgotten today. The project of Elemental is not just the immediate answer to a housing problem. Its DNA is urban, it is the construction of shared values, liberty, equality, democracy. From the root of Quinta Monroy, in a time negotiated between today and tomorrow, there springs forth the sense of the city, sealed by the dedication of the residential complex to the intellectual and artist who gave
“Then, against the will of the captain and of his sailors, we reached Japan. Neither the devil nor his ministers could have stopped us. Finally Almighty God led us to these lands which we desperately wanted to reach on the day of the Assumption of the Virgin Mary in August 1549. Without any possibility to enter any other port, we went ashore in Kagoshima: the homeland of Paulo de Santa Fé, where we were welcomed, as much by his relatives as by everyone else, with great love and affection.”1 Thus, Saint Francis Xavier came ashore in one of the most important cities of southern Japan, seven years after the “discovery” of the Land of the Rising Sun reported by Portuguese adventurers who had fortuitously reached ¯ Tanegashima, the main island in the Osumi archipelago. From that moment, Kagoshima became the main entry-point for any westerner willing to explore the mysterious land of Zipangu, the mythical country whose existence was first introduced to Europeans by Marco Polo’s well known travel chronicle. Consequently this region of Kyushu, the southernmost of the four primary islands forming the Tenno’s ¯ empire, saw for almost a century both the militant proselytism of the Society of Jesus and the growing profit of the Portuguese arquebus trade. It was from Kagoshima, too, where Bernardo, the Japanese disciple of Francis Xavier, came. Historians believe Bernardo to be the first Japanese to set foot in Europe, in 1553 on his way to Rome, where he arrived two years later to meet Ignatius of Loyola and supposedly Pope Marcellus II. 2 Kagoshima, facing the broad, deep bay of Kinko, is dominated by the imposing profile of one of Japan’s most active volcanoes, Sakurajima, which frequently covered the city with its black dust. The ancient capital of the Satsuma Domain has recovered only recently its historical links with the Mediterranean, having become the first Japanese city to forge a cultural relationship with an Italian city since 1960. The bay and the hyperactive volcano, endlessly spreading black powders over the city, are the strongest features of Kagoshima’s landscape and link it to Naples, its sister city. Both are southern towns, both possessing a similar morphology, these two cities seem to share also the temper of their inhabitants. Kagoshima people are flamboyant indeed and quite different from the cold elegance of Tokyo’s or Kyoto’s sophisticated residents. There exists a sort of Kyushu version of southern hospitality one can find in other Japanese port towns like Nagasaki or Fukuoka, for example, or maybe it would be better to say, which one can find in every other southern place in the world. Located just one hour away by bullet train from Fukuoka, the city where Aldo Rossi built his notorious Palazzo, Kagoshima offered us the chance to build a small architectural exercise in Take. In this fast-developing central neighborhood property prices are constantly rising because of its proximity to both the new Shinkansen railway station and to the main avenue of the town (named Napoli-dori). As such, Sanyo House Company asked us to design a model house especially tailored for this burgeoning area and conceived like a sort of manifesto of the Italian architectural identity. This was no easy task, though, since the technology we were obliged to use was local and had to be standardized and cheap, matching the kinds generally used by the contractor themselves; namely, a traditional anti-seismic wood structure walled with wood sandwich panels, a combination offering a thickness of only ten centimeters. Moreover no Mediterranean spatial typologies like patios or courtyards could be included in the design layout, in order to maximise the high value of the ground. Last but not least a pitched roof was considered mandatory so that the volcanic black rain could be easily washed away. To solve this conundrum, we therefore chose a dialectical approach, in an at-
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tempt to merge both the technical constraints and the conceptual possibilities. Despite being surrounded by anonymous single-family detached houses which cannot share party walls in order to respect the strict Japanese seismic and fire-protection codes, and being partly overshadowed by high apartment buildings which hide any view of the bay and the volcano, this house introduces to the Take neighborhood an interpretation of a well-known architectural typology. Two built spaces are placed one beside the other, sharing a wall and forming a possible first nucleus for a design for a row house development: the smaller space contains the hallways, the staircase, the the toilets and bathroom; the bigger one hosts the main rooms including the tatami room (or Japanese-style room) with the usual straw mat floor and the traditional tokonoma (a built-in recessed space in which pictorial scrolls -kakemono- or artistic arrangements of flowers -ikebana- are usually displayed). Conceptually blurring the uncertain territory where Japanese and European identities meet, the house and its blackened-timber facade could be read on one hand like an homage to the traditional Japanese art of preserving wood by charring it, called shou sugi ban or yakisugi; on the other hand as an enigmatic reminder of the arrival of the Kurofune, the black vessels used by the first Portuguese merchants. But there is another inevitable reference for such blackness. It is the precious obscurity kept in the traditional Japanese houses, as described by Jun’ichiro¯ Tanizaki’s in his In praise of shadows. We chose to overturn that deep interior obscurity, using it to form the exteriors of the house, now transformed in a sort of lava rock pierced by the big window of the double-height living room; a squared oculus which frames a view of the trees in the nearby park. The sole green fragment of the landscape surviving in Take, placed between the Ibusuki railway line and the Nakasu Dori bridge, generates another moment in the house. The old trick Le Corbusier conceived for the cabanon is directly quoted in the mirrored shutter of the master bedroom interior window which works like a life-size viewfinder of a livable camera obscura pointed toward the trees. We brought the darkness of traditional Japanese houses outside and placed it on the house facades. This move allowed us to work with other powerful analogies in the interiors: the memories of the whitewashed houses of the Mediterranean villages and their little piazzas. Images that form a reversed landscape can be found especially in the living room, an house-like negative space theatrically surrounded by counter-facades with balconies and windows. These open onto secret intimacies, or “the blue of the sky”.3 Translation by Justin P. Walsh 1 From “Ai compagni residenti in Goa (Kagoshima, 5 novembre 1549)” (“To the members resident in Goa (Kagoshima, 5 November 1549)”), the first letter written by Saint Francis Xavier to his Jesuit brothers living in the monastery of Santa Fé in Goa, India. Translated from Spanish according to the original version composed in Malacca in 1550. In Francis Xavier, Dalle terre dove sorge il sole. Lettere e documenti dall’oriente, foreword and editing by Adriana Carboni, Nuova Città Editore, Rome, 2002, p. 323. 2 Bernardo the Japanese was one of the very first Christian converts in Kagoshima who had no genetic relationship with the clan of Paulo de Santa Fé, the official translator of Francis Xavier (considered the first Japanese to set foot in India). Formerly known as Hanjiro, ¯ Paulo, like Bernardo, was a samurai. Bernardo would join Francis Xavier in his journey back to India. From Goa he would then reach Lisbon in September 1522. He would not arrive in Rome until January 1555, remaining there until October of the same year, and meeting Ignatius of Loyola. Thirty years later, four young ambassadors from Nagasaki would also leave for Europe. This epic journey to Portugal, Spain and Italy, managed by Alessando Valignano, the successor of Francis Xavier in Japan, has been reconstructed in the terrific book written by Michael Cooper, The Japanese mission to Europe 1582-1590 The journey of four samurai boys through Portugal, Spain and Italy, Global Oriental, United Kingdom, 2005. 3 One of the Aldo Rossi’s most iconic competition projects was entered under the title ‘the blue of the sky’. This was a direct homage to Georges Bataille’s book, Le Blue du Ciel. Immodestly, this house lies under the Kyushu sky, pretending to imitate Aldo Rossi’s Palazzo in Fukuoka. Both buildings call out a miraculous analogy, the Mediterranean blue hour.
Arrigoni Architetti
Ba¯miya¯n Cultural Centre - Afghanistan by Fabrizio Arrigoni (page 68)
The starting concept of the project has been to generate form and orientation of the building from the surrounding landscape itself; hence, the fundamental orthogonal footprint aligns to the course of the Foladi river while getting a slight deviation to focus on the perspective of the western Buddha. While the southern part of the building remains committed to this pattern, the side overlooking the valley unfolds like a fan to embrace the whole length
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of the cliffs, reaching to the opposite landmark of the eastern Buddha. In this way the horizontal layout integrates the different views, transforming them in architectural elements: whereas the complete panorama of the cliffs can be enjoyed from the outside promenade unrolling in front of the new cultural centre, a sequence of arches on the inside accompanies and guides the visitor in the dynamic perception of partial views, stimulating a deeper, individual experience and suggesting different levels of confrontation between human scale and monumental dimension. On the other way, the building aims at encouraging a reflection on its cultural mission through the architectural medium: the southern front welcomes the visitor with the familiar and recognizable image of a walled compound, like the dwelling form of the Qala, typical of rural Afghanistan; at the same time the presence of decorative features like interlaced geometric fretwork and a lapis lazuli coloured wooden screen denies the traditional defensive character of the Qala, reminding of the singularity of the building and the public spirit of its function. Surprisingly, once stepped beyond the wall, instead of finding us in a withdrawn space, we discover the unexpected, unique character of the cultural centre, opening itself to the surrounding landscape. It is easy then to catch the message that the cultural centre wishes to share with its guests: although we can feel the contentment granted by accustomed forms and materials as we stroll through the public parts of the building, their disposition does induce us to literally see beyond, showing up different perspectives and symbolically inviting us to greet them not as a threat but as a peaceful chance. Yet, should we look for more privacy, that’s possible, too: we can find retreat in more secluded spaces, like in the smaller ones on the south, facing the quiet linear garden beyond the wall, or in the library, with its own secret courtyard, or even enjoy the almost meditative atmosphere of the round domed, light-flooded schoolrooms. The northern front displays an array of oblique transversal walls in an ever-changing sequence of light and shadow, mirroring the alternation of glimmering rock surfaces and darkish caves on the other side of the valley. As the building stretches out onto the slope, its short transversal façade takes the form of a monumentally powerful architectural statement, gathering different volumes both horizontally and vertically and thus formally corresponding to the complex commitment of achieving harmony between different peoples and cultures. Consequently, this is the where the expected expansion will be found: instead of weakening the purity of the building with the addition of further constructions the area is going to be carved underneath the cultural centre itself, reproducing the coexistence of addictive and subtractive architecture typical of nearby cave dwellings (in this regard a partial reinforced concrete structure beneath the centre can be arranged beforehand by the first construction phase). Materials and techniques The goal is to keep a low profile, taking advantage of local resources in terms of knowledge and materials. Wide use of bricks, provided in their full range of variations depending on their role: from khesht-i-kham, sun-dried bricks, to the stronger, baked khesht-i-pukhta, suitable for arches and higher loadbearing walls (a concealed, reinforced concrete inner structure might be provided). Furthermore mud cladding, like in the classrooms domes (gunbad), and pakhsa can increase diversity and general quality: the idea underneath is to establish a fruitful interchange with local enterprises and determine together single formal and technical aspects. Although the structure is mainly based on simple flat-roof construction, some more challenging elements (like domes and wide-spanning arches) are present: one is not supposed to underestimate the capabilities of the afghan constructors, so astoundingly showed in many monumental buildings of the past (among others the Qalae-Bost arch…). Precious particulars, on the entrance side and in indoor details, can underline the prestige of the building: we think about the use of lapis lazuli, to be found in the nearby mountains, to stain wood and glaze tiles, the latter ones hidden like a treasure in the linear garden beyond the wall. Landscaping In order to achieve a non-artificial, site-oriented appearance and make maintenance easier, the arrangement of external garden-like areas is reduced to clearly marked beds, slightly rising from the soil to serve as perimeter benches. The rest is deliberately left as untilled flat terrain, which represents the natural surroundings of most afghan architectures. The botanical choice implies a selection of species according to aesthetical and practical principles; they all provide the benefits of lower water needs and, what’s more, have been traditionally grown for centuries and acquired over the years a symbolic value, too. Five beds of Damask rose (Rosa damascena) greet the visitor with their soul-stirring fragrance. On the lower eastern level again a flowerbed, this time filled with ornamental Nigella damascena and valuable saffron (Crocus sativus); beyond that a small shady plantation of pomegranate (Punica granatum) offers shelter for relaxation and walks. Sustainability Known construction methods applied to traditional materials, albeit focusing on constructive challenges and sensible experimentations, assure consistency and feasibility of the project. Integration means involvement of local workers in the project development, rejection of formal fashionable gestures artificially superimposed to the context, revitalization of an available technical knowledge that should not get lost. We can take advantage of traditional indoor climate controlling solutions (like thickness and composition of walls) integrating them with contemporary systems like solar panels and borehole thermal energy storage. In addition to that a rainwater reservoir is placed under the building.
Last but not least the above-mentioned landscaping project involving useful plants can represent an additional income (pomegranate fruits, rose essence, dried saffron stigmas) as well as the real, continuative integration of local population, avoiding to create an extraneous enclave.
Aris Konstantinidis and the house in Anávyssos an offer to the landscape by Fabio Fabbrizzi (page 74)
In 1962, Aris Konstantinidis got the assignment to design a small house for the weekend in Anávyssos, at the 48th kilometre on the coast road that runs from Athens Cape Sunio promontory. At that time, landscape appearance of that segment of coastline embodied in the quintessence of nature and in the simplicity of a little number of architecture volumes, that characteristic of authenticity that Konstantinidis would have pursued in his design research since he went back to Greece after the German training period. He did his research principally thanks to photography and drawings, the main instruments that Konstantinidis adopted to analyze and highlight the qualities of nature and Greek authentic architecture, in order to understand the inner-power of sites that only mythological dimension can recount and preserve. The building site, selected by Papapanayotou, the Anávyssos house client, is situated ten kilometres far away from Poseidon’s temple, which ruins rise on the top of Cape Sunio cliff in a dominant position above the Aegean sea, which name originates from the king of Athens who threw himself among the waves as long as he presumed his son Teseo’s death. The construction site – a rock strip that floats on the sea, suspended between earth and sky, in the middle of a pure landscape – moreover than extraordinary beautiful, it’s really full of hopes, with an innate strong figurative and paradigmatic latency, made dull nowadays by the various little villas and hotels which changed hopelessly the primordial sense of place, so brilliant and primitive to Konstantinidis’ eyes more than fifty years ago. We can imagine him – as sometimes he loved to remember – sitting on a stone, breathing the site, feeling himself as part of that compound in which the light, the earth, the water and the air are only a small part of a bigger non-human creation, as if that place, like anyone else, would be an earth’s breath, wanted by a benevolent god just to be understood in the exact moment of its comprehension. And while the comprehension sediments, we can imagine him, tracing against a bright sky, some clear lines of a possible geometry that can organize the sense of an archaic rhythm, an elementary and absolute measure, made of nothing but still able to gather everything inside itself. Once the design project is mentally created on the site, the drawing table represents only the required time that is necessary to fix a concrete shape that born from the earth. It’s born from the earth, but also from a constant developing heritage that Konstantinidis feeds, snapshot after snapshot, sketch after sketch, observation after observation, thanks to that spontaneous source made up of vernacular architecture, that allows his design capability to be placed out of time, in a true harmony with things, schemes, figures, themes and types that are still the same through the different ages. In the sensitive interpretation of a possible structure that idealizes and discloses the shape – which linguistic result in the end is less important than the power that determines it – we can find tradition, regionalism and also a critic to modernity inside Konstantinidis’ works. During 1964, on the rock strip promontory of Anávyssos, Konstantinidis inserts a rectangular plane of 18,50 m x 9,50 m made up of grey schist plates of several big dimensions, almost an emerging stylobate that comes from the earth, which foundations are obtained from the same dug stone. On the plane, a raised volume reminds the essence of Mycenaean mégaron, a rectangular room identified by four corner columns with the fireplace in the middle, around which all other rooms are distributed. The pure house geometry is completely understandable at first sight, with its perimeter containing a parallelepiped of 14,50 m x 6,00 m and an L-shape porch which surrounds two sides of the volume. The internal rooms are setdown on a 2,00 m x 5,00 m grid, to which the thickness of the walls must be added-on. The porch is set-down on a 3,00 m x 4,00 m grid, characterized by powerful wall-sections of 2,00 m and 4,00 m length which are alternated to breaches of the same dimensions. All the external stone walls are realized in big pieces assembled in irregular rows; the best pieces are used to define the angles, in order to obtain
sections of a more defined stonework, clear in their vertical raising as the traditional rural construction technique requires. A 50 cm concrete slab, realized flush with the external stonework, closes the upper part of the building and gives to the internal rooms a symbolic sense of pressure, as long as they are 2,40 m high. So, the compressed internal space, further expanded in the horizontal direction thanks to the rough concrete surface of the ceiling intrados, lets the view run out the house in landscape direction, through the big breaches shielded by sliding green painted wood panels, towards the irregular rock hills profile on a side and the continuous dividing line between sky and sea on the other side. The internal distribution is arranged around a central fireplace which divides the living room from the dining room, while the kitchen looks out in a small independent loggia and a room with a bunk bed communicates with a small bathroom. The essential dimension of the house, designed for a professional soldier as a buen retiro, suggests the sense of shelter, of refuge, protection against the dazzling light and the incessant wind, harmony with the material of the surrounding context, till the point that the house, just finished, in some vintage snapshots, seems to be a natural stone concretion, eroded by wind and salt. The intermediate space under the porch, intended to be the mediation site between the inside reflection and the outside vastness, gives the possibilities to live the most part of the day in open air condition. Sobriety, dignity, simplicity, but at the same time absolute, abstraction, symbol, seem to be the extremities of the vast definition field inside which it’s possible to give an interpretative reading of this little masterpiece; first of all, in the overlay of formal and building dimensions, where the technique is pure shape and the shape is pure technique, in a constant sending back between figure and substance, we can find the most precious core, the one that imposes itself over the other possible interpretative superstructures. In the wise simplicity of this house, we can read the power of archetype, the primordial need of a roof protection and at the same time, the expression of one of the most concise example, immediately after the assertiveness of Modernism, of a certain design tendency originated from the encounter with the archaic sense of site, charged of its whole ancestral tension. Architecture for Konstantinidis is a collective process, in which the architect can express his own world vision through his works. An authentic world, made of everyday life, of duties and prohibitions, of definite rules and habits that are the improvement of the sensitivity that unites man to earth, and in this alliance, “the real architecture must be comfortable, as a shoe is, it must have the flavour of well-kneaded bread and grow up on the earth like trees, bushes and flowers do. (…) Architecture, far away from the harsh and cruel scientific method, owns an artisan and handmade dimension, thanks to which it can express and give shape to life teaching, as these take place on the contorted and unknown destiny’s paths”1. Konstantinidis’ vision is a fatalist one, absolutely aligned with the spirit and Greek soul, where the sense of humanity consists also of architecture as one of its most high expression, always in relationship with a higher dimension. But looking to Konstantinidis’ design and theoretical approach, no provincialism can be recorded, neither typicality due to the folkloristic dimension of several characteristics of Greek identity; instead, we can find a large-scale effort that goes over the strict boundaries of a single nation and makes this itinerary appear extraordinary aligned to the best European design lesson of the second post-war period. In particular, the Italian one, in which the rediscovery of truth, reality, authenticity and simplicity, becomes the conceptual and operative nodes that reveal the way for a more respectful design approach, taking care about the several voices that sites have to suggest to those ones that are humble enough to understand them. “In a good architectural project, building general design and its details are all part of an harmonic composition, as if all its parts would be interlaced with the same point of view; detail is identified with the general design and this one, on its own, includes the detail without any fear, as if it would be a part of its own. An architecture with a stature and a shape that has reached perfection in composition, with all the parts that create a well-organized organism, shows itself in the surrounding landscape as if it would be there continuously, as if they would melt together in a moment, ancient and new, contemporary and past, as if we could identify in the present work the construction of tomorrow”2. Between the undertow lapping, or the cicada’s chirping, between the smell of myrtle and the light that hits directly the stone walls, the poetry of this design approach is showed in the clear geometry of this house, designed by an architect as a real “site offer”. An offer immediately neglected, only two years after, when the owner, because of the several criticism of his entourage that judged the architecture too banal and invisible in the landscape, sold it to a ship-owners family that reduced it to a tools cabin in service of the vulgar and exuberant villa that immediately was built beside. Translation by Paolo Oliveri 1
Cfr. Konstantinidis A., Alcune parole ancora, in Cofano P., Aris Konstantinidis la figura e l’opera, Libraccio editore, Milano, 2012, pp.97-103. 2 Cfr., Konstantinidis A., Op. Cit. The author would like to thanks Marianna Giannatou for her precious collaboration in finding the original material, for the snapshot campaign of the actual condition of the villa and for the translation of some of the principal Aris Konstantinidis’ theoretical writings, essential for the comprehension of his thought and his work.
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All the vintage pictures are taken from the article: Κωνσταντινίδης,Αρης, (1971), Κατοικία για διακοπές στην Ανάβυσσο/Summer house near Sounion, ΘΕΜΑΤΑ ΕΣΩΤΕΡΙΚΟΥ ΧΩΡΟΥ ετήσια επιθεώρηση/DESIGN IN GREECE annual review, 2, pp.34-38 for which one the author would like to thank EIA (Hellenic Institute of Architecture) which released the authorization to these images publication.
A bourgeois retreat. The houses at Arzachena by Marco Zanuso by Francesca Mugnai (page 82)
“Monti di Mola” is now just the title of a song by singer-songwriter Fabrizio De Andre which tells of a wild land where a troubled love blossomed between a handsome boy and a white jenny (female donkey). When Marco Zanuso is commissioned in 1962 to build two holiday houses in Arzachena (Olbia-Tempio, Sardinia, Italy), the tourist colonization of Sardinia is just beginning and, in that part of the region, the old name of “Monti di Mola” is still used. In the local dialect (gallurese) it means “stones for the millstone”. The few families that still live in the area gladly part with their coastal lands, which, malarial and infertile, are still considered wasteland. Even Zanuso’s commissioners, among them the architect’s brother, on their voyage from Milan to find a suitable site for their summerhouse, encounter a landowner who offers to sell his land to them1. However, the development of the shoreline is soon destined to assume another scale entirely and with different connotations. At this time, the Consorzio Costa Smeralda (literally: Emerald Coasts Consortium) is established. It will re-name and forever transform that virgin land, rugged and indomitable, abused by an oriental prince who will remains unpunished. Antonio Cederna, an Italian journalist and environmental activist, was charged with ‘defamation’ for having denounced the development as a disaster and the crimes as: “A typical robbery of tourist exploitation is underway: a wanton urbanization of the coast, its transformation into a continuum of building that alternates estates of great luxury with seaside concentration camps of the worst quality. Both break every connection between the shoreline and the interior. This privatises what should be accessible to all; it encloses the sea in a cage and degrades irremediably the natural prestige of these places, which is what really allows the development of tourism”2. If, on the one hand the mess perpetrated in Costa Smeralda “style” has as its main objective the elimination of the original wilderness of the coast in order to offer a fake and opulent domesticity, Zanuso’s project, on the other hand embraces and re-elaborates all the rusticity of Sardinian land, to offer to the modern Ulysses a temporary refuge (just a holiday) from the comforts and the obligations of the bourgeois life, in communion with the natural elements. This conjures up images Penelope’s bed (talamo, in italian) built by her husband from an olive tree stump. The twin houses arise near each other but with different orientations so as to follow the coastline. The floor-plan is a 15 metre square enclosure, further divided into 9 equal squares. Only the four corners are rooms, plus an intermediate space occupied by lavatories and an oven3. The remaining areas form an atypical cruciform court. A grand pergola made of wood and matting recapitulates the central space; a velarium hangs wall to wall. This is the centre of the house, the domestic hearth. Here, symbolically, are the oven and the round table, whose top is a granite grindstone. Though the house itself appears to be an introvert structure, it opens outwards through the mediation of the court which overlooks the sea towards the distant coastline through the frame of a large portal. The court as a pivotal element of the house is almost Zanuso’s signature (for example the coeval villas at Arenzano). Here, however, his resort to this typology is ambiguous. The planimetry is an abstract geometrical creation, which has no reference to any precise model and is still inspired by Mediterranean residences (the Greek, Roman and Islamic) in the dual relationship that the living space has with the exterior: direct with the domestic life outside and mediated with the public space. Such ambiguity is reaffirmed by a subsequent enlargement of one of the two houses, consisting of two buildings with a circular plan evoking the nuraghe, yet they integrate into the existing syntax according to rules that are not ascribable to the type. In the living quarters, the interior design is essential, in harmony with the spirit of the project. Fixed elements integrate with the structure of the house; beds and seating elements, for example, are built in stonework and woodwork, while the door shutters, when open, are recessed into the wall. Everything synchronizes to realize this modern laic refuge that “redefines and reinvents the contemporary idea of the Mediterranean identity”4, as architect Francesco Cellini observes.
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The image of the squat shapes on the seashore, the thick granite walls and the great gate - more like a fortress than a house - evokes an archaic and fabulous world of shepherds with their flocks, of sorceresses and shipwrecked sailors. With the explosive force of deja-vu (meant truly as psychological phenomenon), Zanuso’s landscape represents the Mediterranean Homeric myth. In this synthesis, built into the Arzachena’s houses, we can actually recognise an image that we have never seen, not in Sardinia, nor anywhere else. Nevertheless it appears familiar because it is able to encapsulate - in a modern way - centuries and layers of our History. Originally these newly-constructed houses are lit with oil lamps and have water tanks for washing and bottled gas for cooking: in Sardinia at that time there is no other technological alternative. It is this real austerity that also emphasizes the ancestral connotations of this house, meeting the clients’ wishes. It is not time to challenge the forces of the nature, like in Villa Malaparte, which dominates the sea from above and re-shapes the rock outline. Thirty years later, certain of its domination of the world, the bourgeois challenges itself: by indulging in the paradoxical luxury of remaining naked in order to experience its own ability to resist the deprivation of “wellbeing” and “comfort”, nevertheless still returning to nature to measure its own power. Zanuso’s intellectual itinerary presents some affinities with the early Arte Povera of the time, which explores the historical-anthropological roots of the Mediterranean culture, searching for an antidote to homogenization, and opposes the plethora of consumerist objects through “humble use of the bare necessities”5. Like the “poveriste” works, Arzachena’s houses, even if rustic and primitive, are intended for those who live consciously immersed in the civic culture. Although Zanuso had designed objects which are considered the very symbols of consumerism, in 1972 he built a small house for himself in Paxos (Greece) inspired by these same austere values. Perhaps this was his personal “Ithaca” able to embody his aspiration, as man and architect, not to lose sight of the essence of things, including the true nature of objects: “The true vice is incomplete technology”, he declares in an interview in 1988, “[which means] that technology which is unable to reach its ultimate conclusion: freedom, and a return to nature and humanity”6. Translation by Livia Dubon Bohlig 1 Information on the genesis of the house are to be found in M. J. Zanuso, Casa ad Arzachena, Marco Zanuso, in “Lotus International” n. 119, 2003. 2 A. Cederna, Hanno messo il mare in gabbia, in “L’Espresso”, 10 settembre 1966. 3 For a deepened analysis of the geometric construction of the plan cfr. A. Calgarotto, Il cielo nella stanza. Marco Zanuso, Case per vacanza, in E. Mantese, House and Site, FUP, Firenze 2014. 4 F. Cellini, Introduzione, in E. Mantese, op. cit. 5 An expression by fra’ Ubertino da Casale cited by G. Lista in a beautiful paper on Arte Povera in G. Lista, Arte Povera, Abscondita, Milano 2011. 6 V. Magnago Lampugnani (interview with Marco Zanuso), Marco Zanuso: portare l’artificio alle sue conseguenza estreme, in “Domus”, n. 690, 1988.
The Poetry of Lost Spaces. Vittorio Garatti’s Ballet School in Havana by Caterina Lisini (page 90)
El campo huele a lluvia reciente. Una cabeza negra y una cabeza rubia juntas van por el mismo camino, coronadas por un mismo fraterno laurel. El aire es verde. Canta el sinsonte en el Turquino…. Buenos días, Fidel.
Nicolás Guillén1 “If Cuban culture – in whichever expression – aspires to reflect the Revolution, I believe it must do so with a full consciousness of a certain excess: deliberately indiscreet and exorbitant”2. Thus Hugo Consuegra recounts the ‘heresy’ of the five Art Schools of Havana, designed by Ricardo Porro, Vittorio Garatti and Roberto Gottardi: architectures that are fable-like, “magniloquent”3, spectacular, naturally excessive and yet extraordinarily capable of summarizing in enchanted and joyous forms the entire consciousness of the Cuban revolution, the vastness of the challenge and the utopia of hope. The year is 1965 and the events concerning the construction of the schools are at their conclusion. Risen with impetus, in the first months of 1961, through an initiative of Fidel Castro himself, and built in the majestic and luxurious site of the exclusive Country Club, the five schools (Dramatic Arts, Plastic Arts, Ballet, Modern Dance, Music) would be, within a few years of
their construction, exalted, then harshly criticised, and eventually delegitimised, abandoned and soon even forgotten4. It is not difficult to glimpse today in these unexpected forms the poetical sign of ‘another’ modernity, where over the abstraction of rationality and orderliness the poetry of the place prevails, the accumulation of sensations, the unfolding of a narrative made of spaces, shapes and situations that are ever different and surprising, with a verbal abundance that seems to recall an irreverent and virtuous tropical “garrulity”5. “Cuba - writes Alejo Carpentier -, was fortunately mestiza like Mexico or Upper Peru. And since every mongrel culture, through a process of symbiosis, mixture and addition, generates a form of barroquism, Cuban barroquism consisted in accumulating, collecting, multiplying (...)”6. Vittorio Garatti’s Ballet School lies in a small valley, on a small cove of the Quibú river, unwinding its plasticity, like a leafy tree, on the soft variations of the slope. The structure envisages a choreography theatre, three dance practice pavillions, a series of theoretical classrooms, a library and administrative offices. The construction itself was carried out with the use of simple traditional techniques, elementary and ‘poor’: a single material, bricks or tiles, characterises all spaces, whether assembled in the refined details of the walls, curved in the undulating vaults following the technique of the bóveda tabicada catalana, or composed in majestic aerial cupolas. “The arch and cupolas were out of the ordinary – recalls Roberto Gottardi – but we had nothing else and we used them with great ease”7. The use of reinforced concrete was very rare, always limited to a few load-bearing beams, as in the cupolas, due to the scarcity of steel and concrete in Cuba in the first years after the Revolution. A rich inventory of forms characterised by a deep figurative intentionality serve as a counterpoint to the technical inexpensiveness of the construction. The composite structure – a long winding gallery which connects the various pavillions at several levels – seems to respond, more than to an organicist blueprint of Wrightian influence, to a joyous happiness, an almost childish enthusiasm which guides the integration of the architectural forms to the folds of the terrain. As in a musical symphony, the curved masses of the walls emerge “sprouting from the woods around the small valley: they rise from the river, encircle the pavillions, abandon the pavillions and once again submerge themselves into the greenery”8. Every space is determined by its function, as Garatti often underlines, but the rational principles almost disappear to make way for perception, sensation, even a sense of humour, which together play a preeminent role in the conformation of the architecture. This is the case of the dance practice pavillions, where the surrounding walls, which are convex, evoke the movement of the dance while the light cupolas swell, welcoming the aerial twirls of the dancers; or else of the connecting pathway, true paseo arquitectónico, which mutates section and proportions in correspondence to the changing perspectives, and harmonises the luminosity at every turn and rest. The project is also an exercise in memory, where every pencil line, every trace, carries signs and experiences, where the lessons learned from Rogers’ teachings in Milan, the particular attention to places and history, the legacy of tradition and the masters, is always present to guide the navigation like a trusted lighthouse. “I always thought of the project as a voyage, and to the attention that is placed in preparing the luggage. In my suitcase for the Schools of Ballet and Music there were records of Johann Sebastian Bach, Igor Stravinsky and Bela Bartok, some paintings by Wifredo Lam, books by Lezama Lima and Alejo Carpentier, and naturally the Revolution, the spark of my creative process for all the works in which I participated during my fourteen years in Cuba”9. At the same time it is the entire Cuban tradition that is reflected in the seductive forms of the school. La Habana Vieja is a “city of shadows, made to take advantage of the shade – shadow itself”10, just as the quality of the shade, even more so than the modulation of the light, is what seems to determine the sequence of spaces in Garatti’s architecture. The paseo is a deliberately hollow form which fosters the presence of shade, a place where light penetrates intermittently, obliquely, from the fissures that result from the overlapping intersections of the vaults: the space next to the ground is dense, material, and seems to fluctuate in the glowing slices of light. The entrance to the school complex itself is a threshold of shade, which is reached by descending a long serpentine stairway, and precisely at the limit between exterior and interior space the vaults rarefy and darkness seems to progressively fade away. This alternation of shadow and light emphasises the dynamic nature of circulation, thus creating a “musical architectural promenade, intoxicating and captivating: undoubtedly dance-like”11. In contrast, the pavillions are concentrated spaces, collected and mono-functional, weaved or flooded by light thanks to the medio punto technique, a crafty deterrent of solar reflection which comes from the Creole tradition. Yet Garatti’s architecture does not give in to folklore, or picturesque naturalism. Even when using almost literary quotations, as in the case of the ventanas a medio punto of the cupolas, the work on the details and the spatial invention manage to transfigure them, turning them into almost mythological backdrops for the promenades, where the fan-shaped structures and the flow of water in the open-air canals constitute an almost magical landscape, a poetic sing in symbiosis with the surrounding nature. Nothing is ever, or completely what it seems, like the brick walls, in continuous metamorphosis between retaining walls, stage wings, natural backdrops, even canals-aqueducts for the water that flows across the entire architectural structure. The architectural episodes, sequences and events intertwine and confound themselves, creating fleeting and changing
forms, immersed in the landscape. The school itself seems to transform into a small city, and in Garatti’s small city the paseo is also the Cuban street, noisy and indiscreet, while the pavillions recall the intimate nature of private homes, reserved and introverted. Precisely regarding traditional dwellings Carpentier writes: “These houses were truly functional. The patio, always in the shade, gave the dwelling what we could call an ‘interior life’. In the highceilinged rooms air was always flowing. Those houses had no pretensions of being Le Corbusier’s machine à vivre, and were instead rather full of ‘lost spaces’”12. Garatti’s architecture is also a series of multiform ‘lost spaces’, always different, fitting, and extraordinarily happy. Translation by Luis Gatt 1 “The countryside smells like recent/ rain. A black head and a blonde head,/ walk together down the same road,/ crowned by the same fraternal laurel./ The air is green. The sinsonte sings on the Turquino…/ Good morning, Fidel.” Nicolás Guillén, Canta el sinsonte en el Turquino, from Elegie e canti cubani 1930-1968, edited by Dario Puccini, Milan 1971. 2 Hugo Consuegra, Las escuelas nacionales de arte, in “Arquitectura Cuba”, n. 334, 1965. 3 Ibidem 4 Regarding the events related to the National Schools of Art (ENA) in Cuba see, amongst others: John Loomis, Revolution of forms: Cuba’s forgotten art schools, New York 1999; Esther Giani, Il riscatto del progetto. Vittorino Garatti e l’Ena dell’Avana, Rome 2007. 5 Mario Vargas Llosa speaks about ‘garrulity’ as a virtue of Latin American writers, in his afterword to: José Lezama Lima, Paradiso, Turin 1995. 6 Alejo Carpentier, La città delle colonne, in Id., L’Avana, amore mio, Milan 1998. 7 Roberto Gottardi, La mia storia della scuola d’Arte Drammatica, in Esther Giani, cit. 8 Vittorio Garatti, La costruzione delle Scuole di Balletto e di Musica, in Giorgio Fiorese, Architettura e istruzione a Cuba, Milan 1980. 9 Vittorio Garatti, Memorie, in Esther Giani, cit. 10 Alejo Carpentier, cit. 11 Hugo Consuegra, cit. 12 Alejo Carpentier, Le case di una volta, in Id., L’Avana, amore mio, Milan 1998.
High ideas facing low budget. The Ponti Quarter by Franco Albini in Milan by Francesco Collotti (page 98)
The typical for Milan orange tramway passes right through the city centre streets heading out towards the outskirts of town, ending its route with a grand carousel, after having crisscrossed the whole of the quarter which has grown up outside of Porta Vittoria. The IFACP assigned a crooked lot to Franco Albini, placed running parallel in the direction of what would later become the fruit and vegetable market. Once again, on Franco Albini’s part, an exercise of refined resistance to the whims of municipality’s masterplan and to the lots’ tailors, who used the land as if it where fabrics for clothes or pasta for ravioli. And if Broglio, already an architect for the Socialist Administration before Fascism, worked within the official urban masterplan, forcing it to the extreme point at which he was allowed, reaching a high level of quality and proposing defined blocks surrounding the domestic tested standard of the Milanese courtyard (close to the style of the Höfe of Red Vienna1), Albini was instead looking to go beyond the obstacle, reaching a particularly illuminated form of gentle contrast to the official urban planning proposal2. He had already taken on this theme in an exemplary way in the Fabio Filzi Quarter in Viale Argonne (1936) following his first experiments in San Siro - Milan, which were in 19323. Albini, here in the Ponti Quarter, was looking once again to create blocks without them being closed off (1939)4. A simple, yet at the same time, refined plan, a composition for single note coupled or repeated for light deviations and refined combinations. High thinking, low budget. This volume of Firenze Architettura review develops the idea of ‘costruire povero’ (low budget building but great ideas inside), which in the Ponti Quarter becomes a noble effort able to evoke the quality of the small streets and squares, built here. Here, were a city for the poor was growing just before WW2 breaking. Three courtyards (mall squares?) which follow one another in a sequence, aligned on to the central enfilade which splits the lot into eleven apartment blocks to be erected following Albini’s original plan, drawn up with Renato Camus and Giancarlo Palanti. Nine were built and today seven still remain, as two blocks composed by two buildings each were demolished.
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There are seven, like the famous Nuremberg seven, the lines of houses that can be seen today, lined up three on each side of two square courtyards with one at the top towards the city. Of little importance are the egotistical fences which currently are trying to destroy a beautiful idea. This place is resisting intelligently. It is much stronger than the stupidity which inflates the particulars. From the inside to the outside, the way houses should always be made. The internal courtyards, unexpected from the outside, are a total break from the rigorous rhythm of the parallel buildings. Albini respects the road lines, but does not pander to the headlines of the official masterplan, as usual he turns round the blocks, freeing the orientation of the buildings from the street grid, in some of his quarters rigorously respecting the heliothermic axis. The building heads become the facades of the quarter and arrive at the nearby roads taking with them the internal rule of the complex, not adjusting themselves to the imposed alignment. Here is the alternative city by Albini, a more intelligent town which demonstrates a convincing sense of order. Essential houses, intransigent, laconic, only just marked by the emphasis of a certain type of stairs, a chiaroscuro which hints at a loggia or, an overhanging roof giving a shade on an otherwise flat façade, the division of a window which uses the roller blinds’ casing to acquire a classic proportion. The minimal decor trying to build recognisable places, at least something that could be called HOME on returning from work, even if in some basic form. The apartments are after all minimal, only one side exposed, two bedrooms of which one is meant for two/three children and an annexed double bedroom, the kitchen area (a small corner) next to the loggia. A dignity and respect for the house and a WISH FOR ARCHITECTURE above all, which the town seems to have lost since. Here is the ability of Albini to resist, made up of extremely courteous gestures. Precise, able to demonstrate a principle almost by exhibiting its own lightness, never oppressive or heavy and always elegant despite the ‘costruirsi povero’, and never, above all, arrogant. Through this technical ability comes the construction of an idea of minimal decor (similar to some milanese houses of the early ’900). What was decoration when marble effect plaster was enough to evoke a stone stairway that you could never afford? If in the quarter of Fabio Filzi in Viale Argonne, the loggias are slightly withdrawn compared to the kitchens and the exaggerated chiaroscuro shows the living room in shade, seemingly wanting to reach out into the open, in the Ettore Ponti Quarter sheltered by Via Maspero, Via Monte Cimone and Via Turchino, the chiaroscuro frames the facade with an eyelid which protrudes above and gives it volume, containing it, protecting the home. Sometimes a few centimetres are enough to conform a space. Has this town been able to produce projects in the years following this? Maybe only for those who are looking for lukewarm (anyway tender) ultimately peripheral centres. 1 Above all quartiere Mazzini, ex Regina Elena 1925-1932 (Ufficio Tecnico ICP – G.Broglio), along Via dei Cinquecento, brilliantly described in the poetry of Antonia Pozzi. 2 F. Collotti, S. Acciai, Fare l’isolato senza il blocco: oltre Broglio, Albini? Speech at the convention La parabola del quartiere a Milano nell’architettura di Giovanni Broglio, 2009 Dec the 10th c/o Facoltà di Architettura Civile del Politecnico di Milano 3 In the wide bibliography of the residential buildings of Franco Albini: the monographic edition on Franco Albini from Edilizia Popolare n.237, anno XLII January-February 1995; the small and precious catalogue managed by some of his former students Franco Albini Architettura e design 1930-1970, Milan 1978 with the designs of the residential buildings; the monographic volume from A.Piva and V. Prina Franco Albini 1905-1977, Milan 1998; and the other previous monograph of F. Rossi Prodi, Franco Albini, Rome 1996 4 1936, spring: Piero Bottoni took part at the exhibition which should have been a section of the VI Triennale. !938 he publishes the manifesto-volume URBANISTICA. After defining urban planning as new and old tools in the organisation of the life of men, functioning on the technical possibility and artistic forms which correspond to and express the era, Bottoni introduces a small exhibition dedicated to a particular theme: the portioning up of the city. The painter Munari who had already collaborated on the composition of URBANISTICA worked at the posters on the ‘ways of urban settlement’
Figini and Pollini Our Lady of the Poors, Milan. Giorgio Rajneri kindergarten in Collegno. “Pre-fabricated buildings” by Gabriele Bartocci (page 106)
The second post-war Italy economic recovery brought to the diffusion of the pre-fabricated building system.
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This system was basically used to create the icon of the industrial building: a factory shed declined in its different evolutions. At the base of the prefabricated building choice lies the cheap price in producing and building. This was due to to the simplicity of its material and its assembly. Indeed the construction material was produced in factory as one piece of a whole machine and this brought to a drastic reduction in production time and working force, a better transport of its elements, a faster set of the building yard and a reduced maintenance its structures needed. In this context, construction as a factory product does not often establish a relationship with the territory, which is considered just as a setting base or even a speculative one. The building is set on the floor just like a body, without rooting in it. The consequence of this is the homologation and transformation of the Italian landscape, irreversibly compromised. Contrary to the defined process, in some rare occasions, the architecture research shows some interests in inserting into the production system and directing the elements to a compatible aim. Among these examples the vicissitudes behind the projects of Our Lady of the Poors church in Milan, Baggio, designed by Luigi Figini and Gino Pollini (1954) and that of a kindergarten in Collegno, designed by Giorgio Rajneri in the outskirts of Turin (1977) are proofs of that. These works sign the responsibility that a building project has of the landscape around and that the urban tradition to create suburbs area in Italy. They completely detach from the destructive results of a low cost industrial construction thanks to a high-level project design. Architects take the constitutive elements of pre-fabricate architecture vocabulary, they read it and interpret it through a composition method that fully takes advantage of its expressive potential. The architecture building represents a reflection on a constructive naturally re-producible concept that is being treated, as a replicable model easy to adapt at the environment the building is set. Figini and Pollini church is part of a of post-war reconstruction program of the city of Milan. The building seems to express a urban area process in progress where the historical city lives with the contemporary one, so innovation overlaps old tradition without erasing nor mistaken traces for identity. The church has the disposition of volumes and the external aspect of an factory building, a parallelepiped apparently indifferent to the context. By looking at the façade, on isolating it in a frame and amplifying its image potential, it seems as if it had suffered the same difficulties of many Italy’s churches façades, whose constructions works were interrupted once and remained un-finished. A first structure works just like a superficial skin that is constituted by prefabricated panels and stringcourses that reveal the different construction phases. This surface overlaps an apparently softer older skin in bricks, the same material that was used for the urban complex of Saint Ambrogio cathedral in Milan. Just like a veil it flourishes as in filigree, recomposing the prospect design of the recalled cathedral and its symmetry. The large horizontal bricks prospect that presents four vertical cuts appears as the interpretation of a tape window that here does not work as an opening access but it shows itself as a plugged surface that continue on the sides front, forming a loggia. The pre-fabricated stringcourses look as if they were the abstraction of the iron structure bands that surround the ruins they preserve, protect and restore. The horizontal bands interrupt the pilasters line and two plugged openings, cutting them. Comparing to the others, the access opening is out of scale; the church’s entrance is in the shadow, as the frame is set back, at the point where the building loses a piece of wall. The side prospect is distinct to the reduced section by a series of thin cement pilasters that close the building like a scuff-holding structure. Architects succeed in reducing to the minimum the thickness of the external cover that gains the lightness of a large pre-fabricated panel. In fact they insert inside the supporting structure, which is constituted by four couples of pilasters with trusses of a dimension that double the one of the pilasters. The loggia is a matroneo overlooking outdoors and it reveals the building section, that of its thin cover and the side aisles. By avoiding the gutter (the water collecting canals are set behind the top of the walls) the prospect composition looks unfinished. A tower shows the presbytery and brings light to the altar; it is thought and treated as a pre-existing one and looks coverless: the roof is flat and lower than the height of the walls. The drawing that is carved on the paint wall of the tower reproduces the force lines of the beams reticular; each element reaffirms the concept of double: history and contemporary. The apse is obtained from bending outside the back wall of the parallelepiped: here the openings of different dimensions are not as symmetric as the ones on the façade and they are set back of a double order of pilasters that overlaps the prospect. The focus inside is on the framing of the structural beams that delimit the presbytery space. The pilasters represent the interpretation of the chains used to enforce the churches’ naves and are illuminated by a light that comes to the altar as on a grave exalting the framework. In a similar Italian urban context, after 20 years the Collegno kindergarten designed by Giorgio Rajneri represents the possibility of rescuing Italy outskirts. The building is a poetic reflection of the industrial village that surrounds it. It has its symmetric axis on the bisector of the triangular lot in which it is inserted. The pivot of the composition is the triangular court that is set on the central axis and it is accessible from a covered but warm hall.
The external area flows into the court through the building with no solution of continuity. Behind a space that hosts the services (the administration, the director’s and secretary’s offices and the teachers’ spaces) are rooms that overlook at the landscape. The two entrances, set at a lifted height, are positioned at the extreme sides of the parallelepiped, at the points where the volume is in the blocks of the didactic rooms. Rooms are covered by conical vaults and have unaligned heads. The resulting consequence is an aggregation of elements that seems to have developed in different times. The tape windows obtained on the ground floor do not occupy the entire line contrary to the openings at the first level, but they interrupt at the point where the ground rises and changes height, modifying the vertical alignment to the superior windows: the building adheres to the lot and to its topography. The construction system constituted by a Y pillar and a S.A.P. vault establishes the composition rules of the prospects becoming a characterising element of the building. Embossed over the volumes’ heads, the structural elements determine a shadow line on the lights lunettes that give lightness to the cover and make it resembling the pages of an open book. The building is the result of the multiplication of the same elements infinitely aggregating and it is in fact a closed system, unique and complete, not replicable. Concerning with the school of Collegno, Roberto Gabetti in a letter to Giorgio Rajneri published on n.3 “Controspazio” in 1979 wrote: “You know that among the project designs here, the one I prefer is certainly the one of the kindergarten in Collegno, whose windows are cut, thanks to the builder competence, which does not indulge trends of that time. It’s there where your research is such faithful to the construction product that it would be taken for granted. Together with it there’s the typography that your brother Beppe fixed in great light sheds still using construction methods of that time. Our observation did not tend to the evidence, but to the concrete adherence to the ways of production. Maybe all of these are just old memories; I’ll seriously stop now: everyone is in a hurry. Your Roberto Gabetti”. Translation by Albertina Acerbi
An ideal shelter for children. Project of a kindergarten in Poggibonsi (Siena), 1955-’64 by Riccardo Butini (page 114)
In 1954 the local government of the town of Poggibonsi deliberated on the construction of a kindergarten at the edges of a residential area. It was the first school of the Tuscany town to be built after the war. Thanks to an influential “piece of advice”1 the next year Mario Ridolfi, Wolfgang Frankl and Domenico Malagricci will be the men in charged of designing the project of a kindergarten in Canton Vesco. There are some common points between the two different projects, especially for what concernsthe space distribution of the didactic areas. But there are differences in the adopted solutions and they are easily linkable to Ridolfi’s school of that time. Some of the causes that could have determined the relievable distance between the two works might be the different economic and environmental conditions the architects had to face2. The pictures were shot during the different construction phases of the building yard and immediately after. They show a large free space area between the multi-floors buildings, (signs of the modern urban set of the village) and the Staggia river beyond which the landscape still maintains the complex but clear geometric frame of the rural settings. Ridolfi is faithful to the former place setting. He embraces it with his usual sensitivity, this time interested in a possible updating of the characteristics of rural architecture that is witness of the material culture the architect had to deal with. The kindergarten building was thought as a small rural complex that was constructed little by little as a spontaneous aggregation. It resembles much of an ideal shelter children-tailored, that escapes the grandeur of the big residential buildings with a simple design, much essential and it shows its technical solutions completely shameless. Each pavilion is made of a local stone that presents some pieces of bricks and travertine corners. The pavilions are covered of a four-pitches roof that is made of a roman style mantle. Along the riverside area rooms are protected by canopies,which are sustained by rough wooden points beams. Beams are supported by pilasters,which are made of bricks.
The didactic unities are set around the large squared canteen room together with the other functional cores (as well as the two sections, the project foresees toilettes, the director and administration’s offices, one kitchen, a laundry, one canteen and the guardian’s house). They are formed of two rooms in square map aggregated to a services pavilion. For this space the architect will design a marvellous wooden truss cover rounded to the map and sustained by four bricks pilasters in bricks and squared travertine blocks that are covered by a stylised Doric capital as precious support that lacks in additional decorations. This is the real heart of the project that was first destined to be a temporary yard. A series of windows that are included in the double shutter of the bearing structure of the cover almost empties the perimeter walls and allows the light to gain space as to completely illuminate it. The cover seems to be hanging above the large hall that was thought as the main living place,which shows itself as an open space area. Ridolfi commits himself to think over a possible dialogue with the traditional architecture but he has to deal with the claims of a “know-it-all educational psychology”3 that is oriented to the “detachment of a building body and of space as a didactic value”4. This in contraposition to the constitutive clearness and simplicity of the space structure the architect works on. Although the presentation text of the project shows that “the rooms’ section, the actual core of the school, was designed according to the latest experiences on the subject”5. Ridolfi will have to deal with the critics on the excessive height of the rooms that “lack in a good ceiling design and reach the height of 5,50 metres in the middle (…) so it will be necessary to provide for good ceiling structures of no more than 4 m height from the floor”6. The rigidity of the central hall, “an almost Renaissance choice, static, from one room to another, a correspondence between the design of the ceiling and the one of the floor…what will the kids do there but playing the Ring a Ring o’ Rosie?”7 Ridolfi won’t be faithful to the absurd requests of the technic commission if necessary. He works hard to defend the project. It was carefully studied on every little detail, from natural light to internal partitions, fixed tailor-made furniture integrated into the walls structure as to find always the best solution to satisfy the needs of the future “little” inhabitants. Aswellastheboardsthatshowthefurnituredisposition,thearchitectdesignsthe executive details until reaching the 1:1 scale, as he did with the flip-open beds. The rooms’ windows set the adjacent landscape through the wooden made infix grid just like big transparent boards. They allow the view of the relations between indoors and outdoors: two different dimensions, which make the experience of learning and knowledge becoming true. In a context that is strongly modified by the great urban transformations of the last fifty years, the kindergarten is surrounded and this unfortunately makes it harder interpretable. Thanks to the joyful and cheerful presence of the children, however, it is still possible today to appreciate the lesson of Ridolfi. He created a work that can hold out the linguistic and typological distortions of the contemporary time, visual testimony of the possible relation through time, ordinary life and architecture. Translation by Albertina Acerbi 1 With these words the Mayor, in his charge letter of 20th September 1955 spoke frankly to Mario Ridolfi saying his name was advised directly from the Ministry. 2 The plan of construction foresees two sections (four rooms of about 36 square metres) as well as toilettes, director’s offices and the administration’s, one kitchen, a laundry, one canteen and the guardian house: all in a room of about 2000 square metres and at a presumable cost of about 21 millions of lira. Ridolfi communicates promptly to the mayor that the sum isn’t enough and foresees two functional pieces of papers to sensitize the Ministryas to commit himself to work hard for it. 3 F. Cellini, C. D’Amato, Le architetture di Ridolfi e Frankl, Electa. Milano, 2005, p. 99. 4 Ibidem 5 Extract taken from the project presentation. 6 From a comment by the Construction Committee. 7 P. Signori, La scuola materna di Poggibonsi e l’arretratezza dell’edilizia scolastica italiana negli anni cinquanta, in F. Brunetti, ed., Mario Ridolfi: 1984, Lalli, Poggibonsi, 1988, p.29.
A Testament to modesty and charity. Church of Saint Joseph Craftsman in Montebeni by Simone Barbi (page 120)
The surprise for those who are familiar with Raffaello Fagnoni’s architectural production, creator of this little church, lies in standing before an artifact that at first glance hardly reminds his previous designing research1.
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Built between July 1965 and May 1966 on a hill in the surroundings of Florence, while the author’s style is clearly expressed in the early stages of the designing procedure of the church, it becomes unrecognizable in the final product. This work represents an unexpected yet not conclusive final stage2 of his enthusiastic research on the theme of a sacred space that he had started a long time before then. In fact, he had carried on his exploration through many assignments received after the rebuilding of Saint Dominic’s Church in Cagliari in 19493, as well as through a constant dialogue with Cardinal Giacomo Lercaro4 the inspirer of a group of intellectuals from Bologna and their journal Chiesa e Quartiere5 who were very busy in the national and international debate on the relationship between architecture and modern religious art. Designed between 1963 and 1965 and consistent with Fagnoni’s research for richness of details, production complexity and structural expressiveness – by examining the archives, two ambitious preliminary projects come to light. However, they were likely deemed unfeasible due the limited resources of the committing diocese. […] In June 1965, the final project was born just like all the artsy things, like a flower of the soul that suddenly becomes clear emerging from the blurred6. Rephrasing the aphorism and it benefits me the most where it harms me the most7, the ‘poverty’ bond imposed by the patron is absolved through some simple but effective composition and construction choices focused on the bare building of the space. This latter is reduced to the minimum and accomplished – according to Fagnoni’s expression – through a cautiously economic and well-done realization, expressed among others by the covering intrados, which displays all the elements and turns the construction frame into an ornamental system without any finishing touch. Materials – concrete in view, industrial-produced bricks, self supporting and opalescent glass such as the ‘U-Glass’ usually used for manufacturing plants – are glorified through two mechanisms. First, control over the natural light effects on the surfaces, verified from the start by using a scale model. Second, thorough attention required from the workforce on site during the manufacturing and the laying of each element. For the first time, Fagnoni discards mass solidity, one of the key features of his work, and by breaking the volume he builds the hall as a composition of materic surfaces connected by measured ‘light joints’. The light is meant to deal with the sculpture plasticity and ceremonial furniture that the architect placed all over the space thanks to some important collaborations with many artists trained in Florentine workshops8. The light is designed to enhance several elements: first, the tactile features of the matter; second, the processing of the cement etched by unrefined formworks; third, the ‘in relief’ weaving of brick vestments; lastly, the bareness of the covering intrados in untreated industrial-produced clay-bricks mounted on concrete chiseled rafters. One of the most interesting characteristics of Fagnoni’s project is in the South facing apse. The opening gives light the way to enter the space from the East and to hit the brick curved wall. This way, it restores the traditional orientation of the Christian cult buildings – or at least its perception. However, such a detail demonstrates that a simple layout choice may address symbolic needs and completely remodel the space overcoming the obstacles enforced by the lot itself. Placed at the top of a staircase and at the end of a ramp connecting the site to the street level, a bronze gate welcomes devotees into a liturgical hall. The baptistery sacellum enveloping the monolithic baptismal font and perfused by direct natural light represents a very well lit secondary access. The bell tower, which was included in every previous submitted version, is the element that turns such a little church into a proper landmark. Two reinforced concrete partitions contain three bells, which are surrounded by ledges in order to stiffen the in-view structure. There is no actual facade but rather a rearward front, which is arranged with strongly plastic elements tied together by the edge of the inside-out pitched roof of the hall. After ten years from its completion, Francesco Guerrieri defined this work among those awarded the IN/ARCH prize in 1966 as the least flashy yet the most creative from a craftsmanship point of view9. It suggests a connection to the dedication to Saint Joseph ‘craftsman’, and it emphasizes how in Fagnoni’s production the overall proud modesty, as well as the ability to include the human depth of craftsmanship in the work10 may find again for the last time a strong interpretation. Translation by Giulia Sacchi 1
Suffice is to mention: Air force Military Academy (Florence, 1937), Church of the Assumption (Montecatini Terme 1953-’58), Gesù Divino Lavoratore Church (Rome, 1954-‘60), “La Rotunda” of Settignano (Florence, 1961). 2 This is Fagnoni last work, as he died in Florence three days after the official opening of the church on May 4, 1966. 3 See: Mugnai, F., Un Muso d’Aereo Precipitato su Cagliari, Raffaello Fagnoni e la Chiesa di San Domenico, 1949-1954 in “Firenze Architettura”, 2/2012, p. 114-119. 4 See: the 1957 conference at the Architecture Faculty of Florence, published in: Lercaro, G., 1964, Posizione Attuale dell’Architetto di Fronte al Tema Sacro, Le Monnier, Firenze. 5 See: Gresleri, G., Bettazzi, M., 2004, Chiesa e Quartiere. Storia di una Rivista e di un Movimento per l’Architettura a Bologna, Compositori, Bologna. 6 Various Authors, 1976, Montebeni un Popolo e una Chiesa, Siena, p.29. 7 Michelangelo, 1998, Rime, Mondadori, Milano, p.99. 8 See: Salvagnini, F., Un Architetto e i Suoi Scultori. Nel Trentennale della Morte di Raffaello Fagnoni,
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“Libero. Ricerche sulla scultura e le arti applicate del primo novecento” 7/1996, p. 1-9. 9
Guerrieri, F., Un’opera di Architettura, Montebeni un Popolo e una Chiesa, cit. p. 49. Guerrieri, F., cit. p. 49.
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A temple without columns by Chiara De Felice (page 128)
[…] So let’s build a sauna there! Not the usual semi-civilized travesty of the old Finnish sauna (as all our saunas are today) but a cultural sauna, a national monument, the first of its kind in the budding Finnish civilitaztion […] Visitors enter through a hall supported by four columns. The walls are clad in ceramics, and directly in front of the entrance stands a stove with crackling fire of choice logs. […]1 With these words in Jyväskylä’s local newspaper, the “Keskisuomalainen”, Alvar Aalto describes an idealistic project to be completed in the city: the Saunatemppelli (sauna temple). In this 1925 brief article, the Sauna, in Aalto’s conception, functions as the manifesto for the principles of the rising Finnish civitas (Latin for ‘social body of citizens’). Nevertheless he underlines the need to abandon the vernacular tones to embrace the more pure classic canons, which are the only ones capable of elevating this humble traditional building to equal Acropolis’s temple. The article seems to have the weight of a precise declaration of intent: Aalto explains, almost in a propagandistic way, the foundations of his creative research at that time. Early on, he expresses his desire to give form to a “northern dream of Pompeii”; the same desire clearly expressed in fewer words in several earlier sketches. The 1925 statements appear clearer if viewed in the context of Aalto’s return to Jyväskylä from his first trip to Italy. In fact it is to this phase that we can ascribe a rich, as well as naive, collection of proposals “in Italian style”, on which the architect intends to base an ambitious program for the re-foundation of the flourishing independent Finnish culture. However, in observing Aalto’s production, both before and after this article, we notice that, precisely in regard to the saunas, this wave of classicist enthusiasm meets a resistance that seems insurmountable: each time the architect is called upon to have a concrete confrontation with this typology, he is unable to free himself from the rudiments of the traditional model. On the contrary he actually refuses every classical reference. If the Italian architectural models he experienced during his visit are the basic structure for some of Aalto’s productions, they remain unworkable when it comes to the specific case of the sauna. This is why it is possible to say that the proposal for the Saunatemppelli will remain a unique episode of its kind, constrained to his early poetic, and characterized by design considerations simultaneously enthusiastic and immature. This contradiction between declarations of intent and formal results is nevertheless definitely far from representing the abandonment of his principles in project terms; the reluctance of Aalto to resort to the classic code, demonstrated by these characteristic constructions, must instead be considered in the light of what the sauna symbolises in Finnish culture. This building cannot be compared with a common space for the care of the body; for its particular nature, it is unreasonable to compare it with the thermal buildings of the Graeco-Roman tradition, but as Aalto clarifies, the sauna is “Finnish material”. In the sauna lives the archetype of the northern house and its plain aspect is tied to the severity of the northern nature. Aalto perceives, in these rudimentary buildings, an ancient sentiment of necessity that makes any formalism inadequate. In the bare space of the sauna, the primordial house, the atavistic dwelling rites are fulfilled: here children are born, here brides and grooms purify themselves on their wedding eve, here, again, we nurse the sick and bid farewell to our loved ones as they pass away. The reluctance to dramatically change the primitive typology is reconfirmed in each of the numerous sauna projects. Aalto will never design something alien to the Model as defined by Finnish tradition: a bare cabin of juxtaposed logs. Even if some innovations are introduced in those saunas designed as annexes to Aalto’s more modern buildings, these novelties are reduced to variations on the theme, and do not disregard the inherent essence of these architectures. An example of this ‘instinctive’ connection with the native typology is expressed masterfully in the summerhouse of Muuratsalo, especially in the sauna. Here Aalto reaches an exemplary balance between intuition and project thinking. The founding principles of this project are imputable to a profound change, both personal and professional. This had already affected the architect in the years preceding the project’s drafting of the experimental House (mentioned
above), especially after his wife, Aino, died prematurely in 1949. Aalto’s poetics slowly move from the classical lyric models to the medieval ones (including both classical tradition and the spontaneous model), better able to express the “domestic” inclination of Aalto’s renewed architecture. The Koetalo’s project (Experimental house) also realises these refined principles of domestic simplicity. In his elaboration Aalto avoids both bourgeois and bohemian stereotypes. For the bourgeois this kind of residence is seen as an attainment of a craved social status, for the bohemian it is more like a romantic place for contemplation. Instead, in Aalto’s conception this home is a shelter in which to reconcile oneself to a more modest living. By incorporating the roughness distinctive of the mökki, the summer-house, in his practice Aalto stay true to this concept of sobriety. The essential organism revolves around the traditional tupa, the room of the hearth, reiterated outdoors in the typical Aalto’s atrium; all the other areas of the house, which were realized in later years, are subordinated to the central original nucleus. It is with this new sense of humanism - with “a Franciscan spirit, a spirit of the Song of Songs, because of this profound solidarity with all the things of the world, of nature and of life”, as Ragghianti said of the Finnish Master - that Aalto decides to complete Koetalo in 1953, realising the sauna, a further reduction in scale and spirit of the house itself: a primordial camp. The Aalto’s cabanon, sited not too far from the house, is arranged on some big blocks. These meet the rough wooden steps, allowing access to the narrowest changing room- the antechamber to the actual sauna. Once we enter into the sacellum, where the brazier is kept, we are finally enveloped by the vapour (löyly), which is the spirit of life. The big logs of the walls are arranged horizontally in a traditional way and interlocked with notches. The roofing, a slightly inclined surface and covered with vegetation, extends beyond all four sides of the cabin, constituting, together with the ends of the logs, a frame that crowns each façade. The main building, the entrance to which faces the lake, connects to it through a path of delicate wooden pier that almost disappears into the water. The Muuratsalo’s sauna is a temple of authentic northern poverty only a few details reveal the refinement of its design: the proportions between volume and roofing, the geometric pattern of the door listels, the birch wood handle, similar to the bronze one mounted by the Finnish architect to the sumptuous door of Villa Mairea. The humble cabin on the seashore of lake Päijänne might appear, at first glance, like an anonymous traditional building but, once again, this deeprooted devotion to the model has nothing to do with “the forms of the folklore”. The composition of the Master is more a choice of contents than of forms. With this little construction Alvar Aalto consecrates his personal temple; an unadorned sanctuary, naked, like the man that enters. Almost as a liturgical gesture, mankind leaves its clothing outside (in latin habitus, has the double meaning of clothing and house) and, in doing so he performs an act of liberation, a Franciscan act. Translation by Livia Dubon Bohlig 1 Alvar Aalto, Saunatemppelli, Temple baths on Jyväskylä Ridge, “Keskisuomalainen”, 22-1-1925, published in G. Schildt, 1997, Alvar Aalto. In his own words, Keuruu, Otawa.
Bernard Rudofsky, Tino Nivola: Building with a few bricks, some blocks of concrete and a few poles. Nivola GardenHouse, Long Island, NY (1950) by Ugo Rossi (page 134)
With the purchase of an old farm-house in the Hamptons in Long Island, the artist Costantino Nivola (1911-1988) and the architect Bernard Rudofsky (1905-1988) find themselves together to work on the renovation of the garden. Like Ruth Nivola recalls, in the days in which Tino and Bernard worked together: “it was a little like children playing in the garden”1. The two friends, without planning and executive drawings, “with some bricks, some concrete blocks, and a few two-by-fours”2 build a house. As Rudofsky recalls: Some years ago, a friend of mine and I […], built what I call a Wohngarten, literally, a dwelling garden. It consisted of a pergola, a solarium and an ample fireplace - really an outdoor kitchen […] the point is that it cost all of 80 dollars3. That pleasant building experience coincides with one of the many Rudofsky’s aspirations, in particular with the one envisaging a profession that should go back to be play and fun and not only a work4. During the University lessons at the Royal Academy of Fine Arts in Copenhagen, he states the importance
of that experience and he advocates the helpful assistance of a workshop: If somebody would ask me how to enlarge, or to improve, the education of the student of architecture; how to offer him a more direct experience than the one he gets in school, I would suggest that he be provided with an experimental yard - a Bauhof – a place part indoor but no plus outdoor, where he could make architectural models, not 1:100, or 1:50, or 1:20, but full scale, one to one5. Rudofsky wishes to stimulate the faculties and senses of future architects through the practice of planning, experimenting, playing and having fun, rather than just showing them exactly how to do things. To such purposes he quotes as an example the playful experience of the experimental workshop enjoyed with Nivola in the Long Island’s house. The renovation plan for the garden of the Nivola’s atelier-house in Long Island is defined by the presence of a solarium, a barbecue, a number of benches, a balcony, a few trellis and walls that the two friends build between the spring and the summer in 19506. Such experience represents for Rudofsky the opportunity to implement, on American soil, some of the ideas cherished for so long on the garden-house. What he describes as The Conditioned outdoor room7, the Wohngarten or the yard, had previously been addressed in relation to the villas built in Brazil between 1939 and 1941 and, before that, in a series of drawings going back to the mid 1930’s. One of those drawings was then used for the Domus8 editorial first and on the cover of Interiors9 after. That same drawing shows like the essence of the house consists of an outdoor room. To Rudofsky the idea itself of the home coincides with the one of Paradise, a word that, as he likes to point out, derives from a Persian terms that means “garden of pleasure and fenced by a wall”10 and conjures up the idea of outdoor spaces as areas suitable for home living on a daily basis: “In a superbly laid-out house-garden, one ought to be able to work and sleep, cook and eat, play and loaf”11. The peculiarity of the Nivola’s house garden renovation plan allows for a number of variations on the themes of his own vocabulary with an emblematic result. The main theme is of course the renovation of the garden of the atelier-house of the artist. The plan though, does also coincides with the taking to an extreme of the outdoor house concept: the garden inevitability changes, thanks to the compositional elements and Rudofsky’s architectonic ideal, into a house that, as Rudofsky says, had only a cost of 80 dollars. Rudofsky defines the main points of the planning in the articles The Bread of Architecture and Giardino, stanza all’aperto12 and the design plan is published in Architectural Review13. In those writings he describes the need for a house to relate to the garden, almost even to a complete correspondence with it, contrary to what said by Le Corbusier who imagined the garden to be simply a space to be observed from the inside. The house with big windows, besides, was the actual representation of the modern American architecture, particularly popular in the Los Angeles area thanks to the houses build within the context of the Case Study House program promoted by the magazine Arts & Architecture, by John Entenza, and attested by the beautiful and spectacular photo shoots by Julius Schulman, which became icons of American modernity around the world14. Rudofsky, ironically, observes on the other hand that “The picture window seldom affords a view of anything more picturesque than the picture window of one’s neighbour”15. He writes about how in the houses in Pompei the gardens were an integral part of the house. They were proper outdoor rooms without a roof, as, to really appreciate the ever changing playfulness of the light, or of the clouds in the sky, it was necessary to contemplate the sky from within four walls, to have a frame as well defined as the one of a painting: “A wall is the bread of architecture”16. The plan is articulated on the compositional devices of his own vocabulary: the wall, pierced through by a pre-existing apple tree, just like before, in the 1930’s drawings of the bungalows in Antibes designed with Gio Ponti17. Rudofsky explains: In a garden, such a wall assumes the character of sculpture. Moreover, if it is of utmost precision and of a brilliant whiteness, it clashes - as it should - with the natural forms of the vegetation and engenders a gratuitous and continuously changing spectacle of shadows and reflections. And aside from serving as the projection screen for the surrounding plants, the wall creates a sense of order […] an old apple tree pierces one of the walls, lending it (methinks) a peculiar monumental quality18. The wall is the bread of architecture. The fenced area with a tree is the home. It is the actual presence of the tree providing shade from the sun and sheltering from the rain, which makes domestic living possible. To Rudofsky not only the tree represents the house, as it happens in different cultures and lands, but also it does coincide with the foundation of the sacred space. The tree, the house and the temple all come together into one “Thus what we call a temple is actually the abstraction of a grove; the thicket of columns recalls the thicket of tree”19. Not far from the wall and the apple tree is situated the solarium. A roofless room, accessible from an outer stair. The floor is partly tiled with red bricks and partly covered by a grassy carpet and the room temperature is as such to allow sunbathing even in the winter. The origin of the solarium is to be referred to the photos that Rudofsky took during his trips: precisely to a vernacular building that he came across on the island of Pantelleria, called Giardino, included in his book The Prodigious Builder, described like “a kind of miniature fortress, scattered about the vineyards. A massive ring wall”20. The other elements of the planning are the ‘trellis-pergola’, obtained by thin
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wooden poles painted white, which ideally delineate the spatial limits of cubic rooms. The ‘pergola’ is reduced to an almost linear element aimed to measure the space21. Those trellis, are similar to the ‘pergolas’ in the Pompeian gardens, to the ephemeral structures of the medieval gardens in the Hypnerotomachia Poliphili, which Rudofsky knew very well22, or to the hot houses for the cultivation of lemons in the Gargano region and included in the catalogue of the exhibition Architecture without Architects, which opened at MoMA in 1964. The last of the outdoor rooms, furnished with benches, is constituted by a ‘pergola’, which delineates a few perfect ‘cubes’, and by the barbecue, which defines its domestic and convivial significance, the core that, at weekends, animates the discussions of the many friends invited. The kitchen and the fireplace play a fundamental role: [The kitchen] it was, and sometimes still is, the life center of the house. In the distant past it doubled as a kind of chapel – the hearth was both altar and sacrificial stone. Prayer and animal sacrifice were intimate related and the invocation of the gods went well together with a family barbecue […] It may thus, in a roundabout way, revert to the noble status it held in earlier times – a sanctuary and an altar to life-giving force23. The architecture of such construction is shaped like the choreography of actions and ways of living and it is set up in the images of Tino, Ruth, the children, and the parties with friends sitting on the benches. As Ruth recalls, the garden-house soon became a centre for socialising24. Besides the Rudofskys, many others became regular ‘punters’ of the house: Jackson Pollock and Lee Krasner who lived down the road, Willem de Kooning, Mark Rothko, Franz Kline, James Brooks, Hans Namuth, Dorothy Norman, Saul Steinberg and his wife Heda Sterne, who lived opposite, Peter Blake, Frederick Kessler, who ended up renting a house not far from there, Paul Lester, Paul Tishman and last but not least Le Corbusier25. The Rudofskys too thought about building a house in Long Island but, as attested by the drawings for the plan, it remained only a dream26. Bernard and Berta had first to wait to find the proper place to build their own home/ house, 20 years later in Frigiliana, a village between Malaga and Nerja, three kilometres away from the Spanish coasts on the Mediterranean Sea. A house on top of a hill surrounded by an olive grove, completely open to the landscape and entirely thought for a life outdoor27. 1
Gordon Alistair’s interview to Ruth Nivola, East Hampton, 17th September 1999, quoted in Gordon Alastair, Weekend Utopia Modern Living in the Hamptons, Princeton University Press, NY 2001, p. 53. 2 Bernard Rudofsky, Lectures Tallahassee, Rudofsky Papers, Getty, p. 7. 3 Bernard Rudofsky, Lectures Tallahassee, ibid. 4 Bernard Rudofsky, “When architecture was all play and no work”, The prodigious builders, Hacourt Brace, NY - London 1977, pp. 84-127. 5 Bernard Rudofsky, Lectures Copenhagen (Back to kinderkarten), 8th April 1975, Rudofsky Papers, Getty, p. 5. 6 See: Giuliana Altea, “Nel giardino di Springs”, Costantino Nivola, Ilisso Edizioni, Nuoro 2005, pp. 52-54; Giuliana Altea, “La stanza verde, Bernard Rudofsky e il giardino di Nivola”, in Nivola, L’investigazione dello spazio, edited by Carlo Pirovano, Ilisso, Nuoro 2010, pp. 25-37 and Alessandra Como, Riflessioni Sull’abitare. la Casa-giardino a Long Island 1949-50 di Tino Nivola e Bernard Rudofsky, Aracne, Roma 2010. 7 Bernard Rudofsky, “The Conditioned Outdoor Room”, Behind the Picture Window, New York, Oxford University Press, 1955, pp. 150-167. 8 Bernard Rudofsky, “Problema”, Domus, n. 122, February 1937, p. XXXIV. 9 Interiors, May issue cover, 1946. 10 Bernard Rudofsky, “Die Wohltemperierte Wohnhof”, Umriss 10, 1/1986, p. 5. 11 Bernard Rudofsky, Behind the Picture Window, Ibid, p. 157. 12 Bernard Rudofsky, “Giardino, stanza all’aperto: A proposito della ‘casa giardino a Long Island’ N.Y.”, Domus, n. 272. July-August 1952, pp. 1-5+70-71; “The bread of architecture”, Arts and Architecture, LXIX, October 1952, pp. 27-29+45. 13 The publications in question will be the cause of disagreement between the two friends. See: Giuliana Altea, “La stanza verde, Bernard Rudofsky e il giardino di Nivola”, Ibid, pp. 33-35. 14 The Case Study House is an actual experiment born out of the need to deal with the housing crisis caused by the return home, from 1945 to 1956, of many soldiers at the end of WWII. The planners involved are Charles and Ray Eams, Richard Neutra, Pierre König, Eero Saarinen, Craig Ellwood, William Wurster and others. See: Esther Mc Coy, Case Study House, 1945-1962, Hennessey & Ingalls, 1977; Elizabeth A. T. Smith, Case Study House, Taschen, Köln 2009. 15 Bernard Rudofsky, Behind the Picture Window, Ibid, p. 195. 16 Bernard Rudofsky, “Giardino, stanza all’aperto”, Ibid, pp. 70-71. 17 Gio Ponti, “Hotel du Cap, progetto per bungalows per Eden Roc ad Antibes” (1939), Lo Stile nella casa e nell’arredamento, agosto 1941, n. 8, pp. 21-22. See also: Ugo Rossi, “Questo albergo è una casa. Gio Ponti, Bernard Rudofsky: albergo San Michele a Capri, 1938”, in Abitare con, a cura di Eleonora Mantese, Canova, Treviso 2010, pp. 65-81. 18 BernardRudofsky,“Thebreadofarchitecture”,ArtsandArchitecture,LXIX,October1952,pp.27-29+45. 19 Bernard Rudofsky, The Prodigious Builder, Ibid, p. 53. 20 Bernard Rudofsky, The Prodigious Builder, Ibid, ill. 210. 21 Bernard Rudofsky, “The bread of architecture”, Ibid. 22 Bernard Rudofsky, Behind the Picture Window, Ibid, p. 161. 23 Bernard Rudofsky, Behind the Picture Window, Ibid., p. 32. 24 Gordon Alistair’s interview to Ruth Nivola, East Hampton, 17th September 1999, Gordon Alastair, Weekend Utopia, Ibid., p. 55. 25 Gordon Alastair, Weekend Utopia, Ibid., pp. 54-55. 26 Drawings belonging to the Bernard Rudofsky Estate in Vienna. 27 See: Ugo Rossi, “Das Haus Rudofsky in Frigiliana (Spanien) - Bauen ohne zu zerstören”, Denkma[i]l, n. 16, Jänner-April, Vienna 2014, pp. 30-31; Mar Loren, “La casa en Frigiliana. Manifesto
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rudofskiano de la domesticidad contemporánea”, in Bernard Rudofsky: Desobediencia crítica a la Modernidad, edited by Mar Loren e Yolanda Romero, Granada, 2014, pp. 30-51.
Lina Bo Bardi two “Site-Specific Museums” between Brazil and Africa. Complex and inexpensive building by Giacomo Pirazzoli
(page 144 abstract)
In 1985 singer Gilberto Gil (who later served as the Minister of Culture in Brazilian Lula da Silva’s government) chaired the Gregorio de Mattos Foundation in Salvador Bahia (Brazil). In order to “expressly upset the Eurocentric priorities of the Brazilian artistic-intellectual class”, he asked architect Lina Bo Bardi and anthropologist Pierre “Fatumbi” Verger (both European rooted intellectuals who have become Brazilian by adoption) to collaborate in building two museums documenting how slaves were rounded up and celebrating Afro-Brazilian heritage. The results are the “Casa do Benin” (1989) in Salvador de Bahia and the “Maison du Bresil” project in Ouidah, Benin. The two locations represent respectively the points of departure and arrival of the slave ships, and are a now forgotten comment on a pre-globalized era. The certainly harsh and not so glam issues that these two museum experiments call into play are part of a sustainable and careful re-interpretation of the world and of its relationship with places and uprooting. Moreover Bruce Chatwin’s “The Viceroy of Ouidah” (1980), as well as Werner Herzog’s screenplay “Cobra Verde” (1987) which stemmed from Chatwin’s book – are relevant contributions to this path. A video documentary will narrate this peculiar “Elsewhere museum” story between Africa and Brasil. The first part of film archive research on Lina and Pierre was edited by Giacomo Pirazzoli for the cultural association Orlandolab and produced for the Festival of Creativity, held in Florence in October 2008. The present step, entirely produced by University of Florence-DiDA Department of Architecture has been granted by ToscanaInContemporanea - Regione Toscana. Actually directed by Giacomo Pirazzoli, it consists on several interviews after a documentary to be accomplished; project witnesses and/or Lina Bo Bardi’s collaborators help reflecting on a topic which remained substantially unexplored, despite Lina’s centenary. (see: http://www.sismus.org/engl/three)
Enzo Mari, or on critical design by Giuseppe Lotti (page 150)
Enzo Mari has navigated across 60 years of Italian design. With extreme coherence. His activities as designer, poet and theoretician were always motivated by a will to force the limits of the profession in the name of an explicit moral tension - “I believe that if from one’s own ‘doing’ does not rise an awareness, a shift, everything is useless (...)”1, “ethics is the objective of design”2; “for me design means changing the world”3. A tension that is the fruit of deep intellectual honesty, which emerges in his thought, complex, sometimes difficult, and in the slow, always carefully meditated design-related activities, which nonetheless, did not prevent Mari from being one of the most prolific authors in contemporary design. Design as critical act, therefore, that on the formal level almost inevitably is translated into an essential, minimal and sometimes bare language. The motivations of these choices appear to change through time, but they are always coherent. Programming Art In the first years of activity, Mari operated within the framework of Arte Programmata, together with figures such as Munari, Studio MID in Milan,
and Gruppo N from Padova, developing a “reflection on the presence, ever more common at the collective level, of the results of scientific and technological breakthroughs”4. Our aim, declares Mari in those years, is that of “systematically verifying, through procedures analogue to those used in scientific research and artistic phenomena (…) of demystifying the entire apparatus of aesthetic conventions that (…) continue today to be the instrument and vent of a bourgeois culture (…) which does not seek knowledge but only its certification”5. Art was considered until then as a purely aesthetic fact, completely detached from scientific and technical considerations and remained a privilege for the few. It is necessary on the contrary that the new instruments of science and technique become a part of the practice of art. The aesthetic experience must abandon that spontaneity that characterised it until today in order to embrace a series of logical models which permit an almost scientific programming of the function of the work. Research and experimentation assume a great importance and the relationship between art and exact sciences such as mathematics, gestalt psychology and structural linguistics becomes more tightly knit. It is necessary that art becomes related to everything. The first step is that of adopting a language that can be easily understood. “When a painter from the Renaissance put across a certain idea he used means that were understandable by all: when a painter from our age does the same he uses means that are understood only by himself”6, writes Mari. Furthermore, the artist does not need to dedicate his attention to the single object anymore, but to products that, because of their reproducibility and low cost, are available to all. Mari, like Munari, arrives to design almost naturally. As Munari says: “A demolition operation is necessary today of the myth of the artista-divo who produces only masterpieces for the most intelligent people (…) It is necessary, in a society that is becoming a mass civilisation, that the artist descend from his pedestal and deigns to design the butcher’s sign (…) The designer reestablishes the contact, long lost, between art and public (…) no longer the painting for the living-room but the appliance for the kitchen. Art should not be separated from life: beautiful things to see and ugly things to use”7. In Mari scientificity in artistic undertakings finds expression in a continuous search for simplicity. Thus in the marble vases known as Paros (1964), a name that is obviously not fortuitous, the rational harmony is broken by decisive cuts; in Java (1988), container for the table, a small object almost becomes architecture; and, more generally, with Nine objects for Danese productions (1960-69), the pieces repeated in the presentation express an almost classic seriality. A simplicity that is however conceptually ‘complex’, as in 16 animals and 16 fish (1960), which is at once a puzzle and a construction game, a perfect interplay of joints that is the product of infinite drawings. A game for ages two and up, which keeps on working when the children grow, since it leaves ample space for interpretation, stimulating the creative capacity beyond any didactic imposition or interpretation, which for Mari was always of a repressive nature. All of which without gratification; a good example is Putrella (1958), a double “T” iron beam bent at both ends, with apparent weldings, which transforms into an object that refers to the functionality of a tray, in which simplicity becomes bare. Socialisation of design In the Seventies, Mari’s thought acquires a more political connotation, which will remain a constant in his activities. According to Mari the crisis of industrial design may be overcome if design itself assumes a political charge. He pointed out how the operative possibilities of the artist are sadly limited. If once there existed a tight relationship between society and the artist who, despite the subjection before those in power, produced objects that were useful for society, the situation today is very different. An intermediary has come between the artist and society, the bourgeoisie, which requires from art only products which testify to its own social status. From this new point of view it is art itself that changes meaning: selfless and autonomous research disappears, and design is understood only in terms of the market. This manipulation is even more evident in the work of the designer who turns out to be “subordinated, functionalised and integrated to the productive organisation”. “Who designs”, explains Mari, “is Capital, and the cycle of design increasingly coincides, without residues, with the motives of capitalist production”8. What are then, in such a situation, the operative possibilities for a designer who does not want to be only a tool in the hands of the industry? For Mari the awareness of the impossibility to escape from the conditioning derived from power must be accompanied by an explicit condemnation of the present contradictions. It is necessary that design assume a clear political meaning as a check on the current production relations and as a challenge to the capitalist work organisation laws that are responsible for alienation and bad conscience. It is a question of designing objects which produce a tangible enhancement of both work and salary conditions, but especially of making the working class aware of its creative capacities. Only then can a complete equality amongst men be reached. The objective, says Mari, with an enthusiasm that cannot appear solely as nobly Utopian, is thus “the socialisation of design”. In this context schools, trade unions, rank committees and neighbourhood councils assume a fundamental importance. As a consequence of the radicalisation of ideas minimalist aesthetics is expressed in products that can almost be defined as poor. Thus in Proposal for self-design9 (1974) - “A project for the production of
furniture through the simple assembling of rough boards and nails by the person who will use them. An elementary technique so that every person may face contemporary production with a critical capacity (anybody, excepting the industry and merchants, may use these designs to produce them). The author hopes that this operation will remain in a state of becoming; and asks to those who will construct these objects, and especially their variations, to send photos to his studio, in Piazzale Baracca, 10 – 20123 Milan”10. Giulio Carlo Argan writes: “Mari is right, everybody should design: in the end it is the best way to avoid being designed”11. This is a path with a strong Utopian impetus which, inevitably, comes into contrast with the rules of reality. “The proposal (…) that people should be stimulated by the examples to make the objects they need, including typologies alternative to those proposed, and to liberally develop them using the suggested example only as a prompt and not as a model to be repeated (…) was very successful and I received thousands of requests.” But in 99 per cent of the cases it was not understood in the name of a market which in those years required inexpensive, unsophisticated objects which called for a return to nature (even as a solution for the problems of young students), or for furnishing the second house in the countryside in a rustic style. Other of his works do not go as far as self-design, but the designer seems however to take a step back inviting others to co-design: such as in Proposal for the manufacturing of porcelain (1973) where products require the manual work of an artisan who, inevitably, participates in the design. Simplicity as project Mari’s simplicity is never a type of formalism – not even when in the Nineties minimalism seems to be the trend in the market – but is based upon moral motivations - “design consists in decanting, in eliminating everything that is useless and false”12; “My work is a process of destruction (...) in a redundant society, such as ours today, I can work only by trying to reduce the said redundancy, thus as negation and destruction”13. He adds: “a form is just if it is (it has no alternatives) and is not just if it seems (alternatives are infinite) (…) the form is the only possible materialisation of ethical meanings”14. A simplicity that is the result of the search for an archetype - “In all of the history of art we can acknowledge one hundred or so masterpieces, or maybe a few more. From these stem all the other works of art, some poor, and some integrative, such as 17th century Neapolitan Mannerism. All of which were, however, created in a dialectical relationship to the archetypes. If those hundreds of archetypes had not been created the million of relatively decent works of art, and the zillion indecent ones, would not exist. There would be no schools of art, no schools of design, there would be nothing at all! Those are the masters and it is useless to deny it. It is only from our intimate understanding of them that we can learn”15. Minimal, yet not minimalist choice, without any stylistic concessions: “For example, over the years people have come to me because some of the things I have made in the past seem like a sort of karaoke of minimal design (...)”16 These are the years of collaboration with Magis, of the chair for kids called Pop (2004), of childish design; of Mariolina (2002), a reinterpretation of the kitchen chair of the Fifties, in itself an archetype; and of Mari’s work for Muji, the Japanese company, which turned formal simplicity into a mission – three series of tables and chairs which remained in the prototype stage. A poetics which opens possibilities which are not explicit, yet evident from the point of view of sustainability. With By subtracting. Broken vase (Per forza di levare. Vaso Rotto, 1994), he anticipates motivations that are a part of so much of contemporary design – defect as value; and with Ecolo (1995) – simply a handbook with instructions for creating oneself a flower vase from used bottles, with a label with the name of the editor and designer that if one wishes can be attached to the completed vase, almost as if saying: “In design today what you buy is not a product, but only a label”, and a way of making it clear to everybody that the vase is secondary with respect to the flower arrangement – in which the designer disappears while inviting everybody, once again, to self-design. Mari’s umpteenth condemnation, as the “inquisitor of design who hurls ecumenical appeals to the innermost depths of the designer’s consciousness”17, and of ours as well. Translation by Luis Gatt 1 Enzo Mari, La valigia senza manico. Arte, design e karaoke. Conversation with Francesca Alfano Miglietti, Bollati Boringhieri, Torino, 2004, 26. 2 Enzo Mari, in Marco Minuz with Alessio Bozzer and Beatrice Mascellani, questo non è uno scolapasta, Editrice Compositori, Bologna, 2006, p.89. 3 Enzo Mari, Progetto e Passione, “ideamagazione.net, 2001 n.. 4 Anty Pansera, Maurizio Vitta, Guida all’arte contemporanea, quoted in Alfonso Grassi, Anty Pansera, 5 Enzo Mari, “Nuova tendenza: Etica o Poetica?”, foreword for the catalogue of the fourth edition of “Nuova Tendenza”, 1966, in Funzione della ricerca estetica, Edizioni di Comunità, Milano, 1970, p.. 6 Enzo Mari, intervention in the debate regarding “La ricerca estetica di gruppo”, in ivi, p. 7 Bruno Munari, Arte come mestiere, Laterza, Bari, 1966, p. 8 Enzo Mari, Funzione della ricerca estetica, cit., p 9 Forty years later, on the occasion of its 75th anniversary, the Finnish brand Artek decided to make some of the pieces in the Autoprogettazione collection.
.
10 11
Enzo Mari, autoprogettazione?, Edizioni Corraini, Mantova, 2002, p.1. Giulio Carlo Argan, Valutazione critico-artistica, “L’Espresso” 5 May, 1974, in ivi, p.34.
12
Enzo Mari, in Marco Minuz with Alessio Bozzer and Beatrice Mascellani, cit., p.86. ivi, pp.75-76 14 ivi, pp.90-91 13
191
15
Enzo Mari, Progetto e Passione, cit.
16
Enzo Mari, La valigia senza manico. Arte, design e karaoke. Conversation with Francesca Alfano Miglietti, cit, p.26. 17 Alessandro Mendini, in Marco Minuz with Alessio Bozzer and Beatrice Mascellani, op. cit. p.29.
Roma, Tempietto del Bramante Luciano Matus - de tiempo luz de luz tiempo by Maria Grazia Eccheli (page 164)
Only LIGHT can inhabit PERFECTION The visits to Italy of the Mexican artist Luciano Matus are frequent: long stays in Florence, Milan or Rome where at the Pantheon he has encountered that light which, in the shape of a cosmic opening, slowly moves, marking the duration of days and seasons on the eternal convexity of the virtual sphere of internal space. In 2003 the young architect - first Latin-American to obtain a scholarship from the Royal Academy of Spain in Rome- encounters Bramante’s “Spanish” Tempietto on the Janiculum, opposite the cupolas of the eternal city.
In May 2015 he returns with an installation to that same chapel which, enclosed in the convent of San Pietro in Montorio, is a “model” of the round peripteral temple, a paradigm of centrality, both real and symbolic: a tholos whose cupola and tambour, set in a circle, evoke the same proportions as the Pantheon. Luciano Matus, artist/architect, is aware of the fact that the symbol of PERFECTION on the Janiculum does not admit any additions to it... not even of his famous and ephemeral spider webs: geometrical structures made of long nickel cables, the continuity of which is obtained by the invisible attraction of magnets that hang in space, drawing traces and absences and completing ruins. Everything is muted eloquence in that MARTYRIUM: the CRYPT represents the depth of the earth; the SACELLUM – only 4,50 meters in diameter – occupied by the altar, a sign of the place where Peter’s cross was stuck into the ground; and the celestial vault of the CUPOLA summing up the circularity that is present -and absent (the round courtyard which was never built)- in the symbolic volume of the resurrection. This uninhabitable temple, symbol of geometrical harmonies, deprived by its dimensions of any practical function, may be inhabited exclusively by LIGHT. With humble means: a milky balloon, a LED and a fan, the artist/architect pierces the darkness of the perennial night of the Tempietto with the vibratile luminous sphere... unveiling and recreating geometries with moving shadows. When the magical sunset over the city of Rome is over, hidden elective affinities appear and intertwine: the epiphany of architecture and light in the Altarpiece of San Bernardino by Piero della Francesca; the force and character of Bramante’s architecture vis-à-vis his own archetypes, especially the PANTHEON. Piero’s cosmic egg detaches itself, for Matus, from its Urbinian shell, and fluctuates in Bramante’s cavity: between memory and contemporaneity, permanence and variation, wealth and poverty. Translation by Luis Gatt
Università degli Studi di Firenze - DiDA Dipartimento di Architettura Direttore - Saverio Mecca - Professori ordinari - Maria Teresa Bartoli, Amedeo Belluzzi, Stefano Bertocci, Roberto Bologna, Cosimo Carlo Buccolieri, Fabio Capanni, Mario De Stefano, Romano Del Nord, Maria Grazia Eccheli, Ezio Godoli, Antonio Lauria, Vincenzo Alessandro Legnante, Saverio Mecca, Giancarlo Paba, Raffaele Paloscia, Fabrizio Rossi Prodi, Massimo Ruffilli, Marco Sala, Maria Chiara Torricelli, Francesca Tosi, Ulisse Tramonti, Paolo Zermani, Maria Concetta Zoppi - Professori associati - Fabrizio Franco Vittorio Arrigoni, Alberto Baratelli, Gianluca Belli, Mario Carlo Alberto Bevilacqua, Alberto Bove, Susanna Caccia Gherardini, Giuseppe Alberto Centauro, Elisabetta Cianfanelli, Francesco Collotti, Angelo D’Ambrisi, Giuseppe De Luca, Maria De Santis, Maurizio De Vita, Maria Antonietta Esposito, Enrico Falqui, Luca Giorgi, Pietro Basilio Giorgieri, Paolo Giovannini, Biagio Guccione, Flaviano Maria Giuseppe Lorusso, Giuseppe Lotti, Fabio Lucchesi, Alberto Manfredini, Carlo Natali, Raffaele Nudo, Riccardo Pacciani, Michele Paradiso, Giacomo Pirazzoli, Daniela Poli, Massimo Preite, Giuseppe Ridolfi, Alessandro Rinaldi, Giacomo Tempesta, Carlo Terpolilli, Ugo Tonietti, Silvio Van Riel, Corinna Vasic Vatovec, Alberto Ziparo - Ricercatori - Elisabetta Agostini, Francesco Alberti, Gianpiero Alfarano, Mauro Alpini, Laura Andreini, Giovanni Anzani, Barbara Aterini, Dimitra Babalis, Pasquale Bellia, Elisabetta Benelli, Marta Berni, Carlo Biagini, Riccardo Butini, Ferruccio Canali, Antonio Capestro, Stefano Carrer, Carmela Crescenzi, Alessandra Cucurnia, Alberto Di Cintio, Fabio Fabbrizzi, David Fanfani, Fauzia Farneti, Paola Gallo, Giulio Giovannoni, Laura Giraldi, Cecilia Maria Roberta Luschi, Pietro Matracchi, Alessandro Merlo, Francesca Mugnai, Gabriele Paolinelli, Camilla Perrone, Michelangelo Pivetta, Paola Puma, Andrea Ricci, Rossella Rossi, Tommaso Rotunno, Luisa Rovero, Roberto Sabelli, Claudio Saragosa, Marcello Scalzo, Marco Tanganelli, Lorenzo Vallerini, Giorgio Verdiani, Stefania Viti, Andrea Innocenzo Volpe, Leonardo Zaffi, Claudio Zanirato, Iacopo Zetti - Ricercatori a tempo determinato Michele Coppola, Valeria Lingua, Patrizia Mello, Francesca Privitera - Responsabile amministrativo - Stefano Franci - Personale tecnico/ amministrativo - Cinzia Baldi, Rossana Baldini, Lorenzo Bambi, Francesca Barontini, Massimo Battista, Marzia Benelli, Franca Giulia Branca, Tullio Calosci, Carlo Camarlinghi, Laura Cammilli, Daniela Ceccherelli, Gianna Celestini, Daniela Chesi, Giuseppe Ciappi, Donatella Cingottini, Elena Cintolesi, Stefano Cocci, Laura Cosci, Luigia Covotta, Annamaria Di Marco, Cabiria Fossati, Stefania Francini, Lucia Galantini, Gioi Gonnella, Marzia Messini, Rossana Naldini, Neda Para, Nicola Percacciante, Grazia Poli, Maria Cristina Righini, Donka Tatangelo
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