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Qual è il tuo fashion statement?l
Il piacere di aderire alla rappresentazione ideale del sé non è altro che l’accurata progettazione di una comunicazione, di un messaggio che dal nostro essere vogliamo far arrivare agli astanti. La metafora con cui il sociologo canadese Erving Goffman (1959) affianca il quotidiano al teatro riecheggia con grande forza nelle logiche della moda. Ogni individuo interpreta una parte nel grande gioco della vita, indossando abiti e accessori perchè materializzino quel preciso ruolo agli occhi di tutti. La moda rende efficace una comunicazione tanto potente quanto silenziosa, una comunicazione che non nasconde, ma, al contrario, rivela e veicola un messaggio accuratamente pensato per raggiungere tutti. Questa prospettiva permette di approcciare le dinamiche attraverso le quali la moda interagisce con il concetto di identità materiale, un’identità che si realizza in quella che può definirsi la “funzione sociale” dell’abbigliamento: in altre parole vestiti, scarpe, foulards e molto altro traducono in segni estetici le istanze culturali di un tempo. L’aisthesis, il regno dell’esperienza sensoriale, è la dimensione chiave per com-
prendere come idee, credenze, usi e costumi, speranze e timori passino dal loro stato gassoso e turbinoso a quello liquido e mutevole di stoffe e ricami. Indossare oggetti di moda vale a dire selezionare simboli e mettere a punto codici con i quali esprimere una dichiarazione, un fashion statement, su di sé e sul mondo. La carica espressiva della moda e dei suoi infiniti oggetti permette di commentare la contemporaneità, fungendo al tempo stesso da lente straordinariamente potente con la quale leggere ed interpretare il presente, senza distogliere mai lo sguardo dal futuro. Dall’assenso conformista al dissenso ribelle, una minigonna o un paio di scarpe rosse partecipano con grande forza ad una quieta negoziazione tra le turbolenze del mondo interiore e le agitazioni del mondo esteriore. Questa tensione è pressoché inarrestabile, poichè attinge dalla dimensione più intima e intrinseca dell’homo communicans, quell’interpretazione dell’umano che lo vede l’unico soggetto in natura intento a produrre e utilizzare sistemi di simboli che, partendo dall’individuo, si riversano nella società, teatro di confronti e commenti. Lo studio della moda come comunicazione si presenta quasi sempre come una specie di inseguimento ad un oggetto mutevole, anfibio, al tempo stesso trasparente e opaco, ostinatamente sfuggente alle definizioni ma per questo baluardo della libertà espressiva. Le società sotto regimi totalitari raccontano una storia in cui l’omologazione del popolo è promossa anche attraverso l’imposizione dell’uniforme, verso la riduzione dei linguaggi estetici a pochi codici espli-
citi e validi per tutti. La giacca maoista è uno dei simboli più potenti di questo appiattimento espressivo: la Rivoluzione culturale cinese promuoveva sobrietà e semplicità, conducendo ad un vestire utilitario e funzionalistico, scevro da qualsiasi ornamento ed orpello. Eppure episodi di personalizzazione del capo tramite l’applicazione di spille e patches aggiuntive - specialmente da parte delle donne - testimoniano come il desiderio di esprimere e raccontare se stessi attraverso l’abito fosse troppo forte per le regole di un regime che nega diritti e libertà. Lo stesso può dirsi per i popoli del blocco sovietico nella seconda metà dell’Ottocento, quando abiti e accessori ad uso domestico venivano personalizzati con motivi decorativi asciutti e astratti per affermare nella quiete del quotidiano che qualcosa da lì in avanti, a partire dall’identità nazionale dei grandi imperi, sarebbe andata presto in declino.
In contrasto con regimi e strategie totalitarie volte a dominare il tempo e lo spazio per confermare il centro del potere, le “fashion tactics” delle grandi guerre furono il dispositivo di difesa dei deboli e degli oppressi, un dispositivo di performance che permetteva alle donne e alle minoranze di tutto il mondo di negoziare le imposizioni dall’alto con la propria visione e denuncia del mondo così come era. Queste “fashion tactics”, azioni che colpiscono di sottecchi lo status quo, raccontano come attraverso la moda, la regina del dinamismo, possa raccontarsi una società altrettanto dinamica, perchè fondamentalmente libera. Se l’abito è in grado di porsi quale dispositivo in grado di destabiliz-
zare regole e gerarchie della rappresentazione sociale è grazie unicamente alla grande sfera di simboli e significazioni con i quali ricopriamo il nostro corpo (letteralmente “indossiamo”, nda) e ci presentiamo al mondo: attiviamo così un discorso su quanto ci accade intorno, sul futuro che vorremmo o sulle minacce che avvertiamo in prossimità. Il tema della negoziazione di significati si lega indissolubilmente al concetto di moda quale strumento comunicativo e di dibattito, in cui il corpo si fa diretto portavoce di un fashion statement. È infatti attraverso la negoziazione del significato tra mondi interni ed esterni e tra dimensioni individuali e collettive che la moda entra nella sfera pubblica, gioca con simboli e codici, interroga costumi e tradizioni, fino a irrompere nell’habitus dell’espressione pubblica. Lo spazio collettivo, il palcoscenico sociale, il teatro del quotidiano: tutti definiscono lo spazio dell’apparenza di simmeliana memoria, un luogo in cui si dispiega un gioco estetico che impatta, altera e trasforma percezioni e convinzioni nella vita di tutti i giorni. La moda, in un ciclo inesauribile di creazione e distruzione, ci permette di aprire infinite porte su narrazioni alternative dal respiro globale. Oggi la lotta alle diseguaglianze sociali ed economiche, la sensibilizzazione alla fluidità di genere, il riconoscimento delle politiche identitarie in funzione dell’appropriazione culturale e l’abbandono di una prospettiva coloniale globalizzante, trovano espressione in sottoculture che trovano nella costruzione di codici di abbigliamento un momento identitario che realizza al tempo stesso appartenenza e distin-
zione. Le “fashion fictions” amplificano la voce dei gruppi lontani dal mainstream, una dimensione rigida e lenta che oggi più che mai fatica a comprendere le istanze di un futuro plurale e democratico. La moda comunica, aiuta l’homo communicans a soddisfare il suo bisogno di narrazione, gioco e trasmissione culturale, tra le cui righe non è difficile intercettare il cuore del messaggio, un commento, un consenso o un dissenso: la moda parla e fa parlare, rappresenta e ci fa rappresentare gli uni con gli altri, imprimendo nella storia il marchio di un’epoca e della sua testimonianza o denuncia sociale.
Il fisciù come quadro pubblico
Renato Stasi
Penso che il concetto di spazio in funzione anatomica, si concretizzi incredibilmente bene in questo oggetto. Il fisciù spesso appare come un “quadro”, viene indossato in una forma completamente diversa da quella che rappresenta. Ci si avvicina a questo, leggero, morbido, luminoso oggetto, incuriositi dalla storia che racconta, spesso racchiusa in una cornice, attraverso una curiosità visiva, che ci avvolgerà senza trasmettere l’incanto iniziale che ci ha affascinato.
La composizione grafica che compone il foulard ha una sorta di grammatica formale, un assioma che tra composizioni di vuoti e di pieni, attraverso compensazioni, tratti, sequenze e colori, compone con rigorosa tecnica una spazialità mentale. Mi piace di pensare che la cornice sia concettualmente un contenitore e che il contenuto sia
un pensiero, un sogno, un racconto, nelle sue varie forme. Il tema della ricerca indagata dagli studenti del corso si è avvicinato a quanto più si possa esprimere in una complessità di mutamento delle informazioni socio-culturali di questo inizio secolo: “Cosa succede nel mondo, quali sono gli avvenimenti, qualunque essi siano, che ti hanno colpito?”. Nella pluralità dell’informazione mediatica, nell’insieme delle culture degli studenti, nel tangibile e nell’intangibile, si sono co-