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tipi architettonici del palinsesto rurale toscano:

Evoluzione E Interpretazione

Eliana Martinelli DICA Università degli Studi di Perugia

Campagna e urbanità

Le ricerche documentate nel presente volume hanno come ambito di progetto l’antico borgo di Torri, in provincia di Siena. Il toponimo Torri, molto diffuso in epoca medievale, è un chiaro richiamo al carattere difensivo del borgo. Certe architetture di tipo turrito sono ricorrenti anche negli insediamenti rurali, del Senese e non solo, per i forti legami sociali ed economici che si sono mantenuti, nei secoli, tra campagna e città. Fino all’inizio del Novecento,

“la campagna toscana, specie nell’edilizia, venne sempre influenzata dalla città che vi esercitava una sua egemonia amministrativa, economica, morale. Lo prova l’architettura contadina che se può essere definita ‘spontanea’, per la relativa semplicità strutturale, resta tuttavia legata ai canoni prevalenti nei vicini centri urbani. […] La casa campagnola altro non era che un edificio cittadino, simile a quelli abitati dal popolo minuto, dagli artigiani, con quei mutamenti imposti dalla funzionalità agricola: la torre colombaia, la stalla inserita nell’edificio, o costruita nella corte, di là dall’aia, il forno attiguo alla cucina o esterno […]” (Benedetti, 1966, pp. 7-8).

Il processo di formazione della casa rurale toscana ha inizio nell’alto medioevo. Con la nascita e lo sviluppo del feudalesimo e il progressivo svuotamento delle città, il contado comincia a essere ordito da una trama di strade, sentieri e casolari, posti in funzione della rocca o del castello signorile: l’agricoltura non è più soltanto un’attività produttiva, ma si tramuta via via in una forma di ‘colonizzazione’ della campagna (Ferrara, 1966). Dopo il Mille, la popolazione rurale si emancipa, passando da servitù della gleba a libero colonato. Nasce così la casa mezzadrile, la cui principale caratteristica è l’isolamento, poiché il contratto di mezzadria presuppone la residenza stabile del mezzadro con la famiglia sul fondo (Fondi, 1979). La famiglia diventa dunque l’unità di misura del contesto agrario, che viene disseminato di insediamenti sparsi, mentre il podere e la casa divengono espressione di uno stabile rapporto sociale tra campagna e città. La sussistenza del colono è

Il castello di Montarrenti nei pressi di Rosia Foto: G. Biffoli, n. 83 (Biffoli, Ferrara, 1966) • Tav. XXV Podere detto di Salvadonica Da un cabreo di fattoria dell’Archivio del Principe Tommaso Corsini, 1816 (Edizioni Cassa di Risparmio di Firenze, 1967) garantita dalla policoltura, altro elemento comune ai poderi mezzadrili, che ne determina anche la varietà tipologica. In Toscana, diversamente da altre regioni italiane, la crescita della città e del potere comunale non confligge con la campagna, che diviene invece estensione di detto potere. Il tipo edilizio è espressione diretta di questa relazione, poiché trae la sua origine formale proprio dai castelli fortificati. Bisogna ricordare che, prima del sorgere degli insediamenti sparsi, i contadini vivevano e svolgevano le loro attività nelle città, più precisamente nelle aree racchiuse tra i bastioni e il centro urbano, dove la casa doveva svilupparsi in altezza. Le prime abitazioni sul podere sono casetorri, tipi trasposti dai borghi, che nel successivo sviluppo diventano palombare per allevamento dei colombi. Anche la casa del signore è strettamente legata al tipo della casatorre cittadina, tanto che a volte sembra confondersi con il cassero dei castelli. Nel ‘400 la casa colonica è a tutti gli effetti una realtà tipologica, descritta perfino nel De re aedificatoria da Leon Battista Alberti, che non dà però regole di forma né di costruzione, affermando che nella realizzazione bisogna affidarsi alla “industria e alla diligenza del lavoratore”. La sicurezza collettiva aumenta progressivamente, e con essa si sviluppa sempre più la mezzadria. Diversi castelli medievali finiscono per

Articolo di G. Michelucci per Domus.

L’arte della casa n. 56, 1932, pp. 160-161

Pagine dal catalogo della VI Triennale di Milano

Architettura rurale italiana (Pagano, Daniel, 1936, pp. 54-55)

Alcune foto sono di P. N. Berardi essere adattati a fattorie o dimore rurali, come avviene, per esempio, al ‘Palazzaccio’ e al ‘Palazzone’, nei pressi di Sovicille, o ancora al castello di Montarrenti vicino a Rosia (Ferrara, 1966). Nonostante la conversione a residenza rurale, gli edifici hanno preservato il loro carattere fortilizio, a dimostrazione dello stretto legame formale tra architettura militare e contadina. Durante il XV e XVI secolo avviene il declino dell’agricoltura toscana, dovuto allo sviluppo del commercio. Tuttavia, dal punto di vista architettonico, nasce un nuovo interesse, da parte delle classi dominanti, per le case di campagna, ritenute luoghi dove godere del paesaggio rurale. Nasce così un nuovo tipo edilizio, la villa-fattoria, spesso costruita con i proventi commerciali di mercanti e banchieri. In questo periodo vengono introdotti nuovi elementi tipologici, come la loggia aperta, che ritroviamo nelle case coloniche dalla fine del XV secolo. Nel Settecento, la cultura urbana arriva in campagna attraverso il filtro dell’illuminismo, espresso nelle simmetrie e nella razionalità. Si cerca dunque di valorizzare le campagne e dare regola alla costruzione delle case contadine1. L’esempio più celebre è dato dal granduca Leopoldo, che, dopo ingenti opere di bonifica, costruisce in Val di Chiana le case coloniche per i suoi poderi, andando a codificare il tipo della casa

Leopoldina, caratterizzata da una loggia in facciata, in posizione centrale, e dalla tipica colombaia, ottenuta dall’estrusione di un volume centrale.

A

Inattualità del tipo

Come abbiamo visto, la mezzadria ha determinato la formazione di specifici tipi edilizi, generalmente costituiti da abitazione e rustico (stalla e fienile), senza altri alloggi né corte. Uno dei primi ad aver analizzato la casa rurale toscana, dal punto di vista etnografico, è stato Renato Biasutti (1938), attraverso gli inventari dei beni rustici appartenenti all’Ospedale fiorentino di Santa Maria Nuova. Biasutti individua due categorie maggiormente diffuse, generate dalla relazione planimetrica tra residenza e rustico. La prima categoria, in cui le abitazioni sono sovrapposte al rustico, è suddivisa nei tipi a scala esterna, a scala interna e di pendio (in questo caso l’accesso è garantito dalla pendenza naturale del terreno); la seconda, nella quale le abitazioni sono allo stesso piano del rustico, è suddivisa nei tipi di pianura, sub-collinare e di montagna. Nel corso del Novecento, l’architettura rurale è stata oggetto di grande attenzione anche da parte dei progettisti, interessati da un lato alle questioni di abitabilità del patrimonio rurale dal punto di vista igienico e sociale2, dall’altro alla ricerca di una via mediterranea al razionalismo. In particolare, Giovanni Michelucci pubblica su Domus alcune composizioni volumetriche basate sulle fotografie di due case coloniche toscane “a dimostrare come ‘nuovissime’ forme, quelle che il pubblico poco attento definisce nordiche o, per essere più precisi ‘tedesche’, hanno pure radici da noi, nella chiara serena nostrana tradizione […]”

(1932, p. 160). L’anno seguente, Michelucci e il Gruppo Toscano sceglieranno di esporre nella nuova stazione di Santa Maria Novella le case coloniche fotografate da Pier Niccolò Berardi.

Le medesime fotografie entreranno a far parte della mostra Architettura rurale italiana alla VI Triennale di Milano, nella quale Giuseppe Pagano e Guarniero Daniel indagheranno il rapporto tra tipo e forma della casa contadina, “con lo scopo di dimostrare il valore estetico della sua funzionalità” (1936, p. 6). Lo schema teorico di interpretazione intende essere provocatorio nei confronti dell’architettura ufficiale, presentando la casa rurale come pura e astilistica, vicinissima alla contemporaneità. Scrivono a questo proposito: “la casa rurale, quindi, come ogni prodotto dello spirito umano, rimane una cosa vivente. Essa si forma e si trasforma obbedendo a quella legge eterna che, lo premettiamo, viene determinata dalle relazioni che esistono tra lo scopo utilitario e forma relativa” (Pagano, Daniel, 1936, p. 26).

Le variazioni tipologiche non avvengono in modo così immediato da cancellare nella fase successiva il ricordo della fase precedente, poiché “l’inerzia dell’uomo (che si chiama tradizione o eredità) tende effettivamente a conservare la forma anche quando lo scopo utilitario e primario ha cessato di esistere” (Pagano, Daniel, 1936, p. 27). Il loro studio tenta di rivelare le cause utilitarie che hanno portato a forme talvolta apparentemente fantasiose.

Le forme sono determinate da tre concause: il materiale, il clima e l’economia agricola. La casa rurale, infatti, è un tipo di edilizia strettamente legata alle condizioni economiche in cui sorge, vale a dire alle spontanee abitudini dei contadini di provvedere per loro stessi, utilizzando pietre, tufi, mattoni o legno in base alla reperibilità del materiale in loco. La materia costruttiva è data dal suolo su cui sorge l’edificio; sussiste pertanto una reciprocità strettissima tra architettura e terreno, tra architettura e paesaggio. Proprio nell’inerzia delle forme si esprime l’inattualità del tipo, intesa come capacità di non rispondere direttamente ai valori dominanti di una data epoca, e per questo, di essere propedeutica alla costruzione di un nuovo futuro. Ancora oggi, il senso, per noi progettisti, è ritrovare nel patrimonio edilizio rurale un modus vivendi legato alla cura dei luoghi e delle comunità. Ludovico Quaroni (1957) osserva che l’architettura spontanea si è sviluppata attraverso una forma di “tradizione statica”, propria del tramandare da padri a figli. Una tipizzazione lenta, dunque, non compresa dagli stessi artefici, in cui il fatto razionale è quasi coincidente con l’istinto. In tale ripetizione risiede un modo di pensare e di vivere comune, ben diverso dalla riproduzione in serie di un oggetto industriale, sempre uguale a se stesso.

Bibliografia

Alberti L. B. 1833, De architectura, seu de re aedificatoria libri X, trad. Bartoli C., Milano.

Benedetti A. 1966, La società, in Biffoli G., Ferrara G., La casa colonica in Toscana, Vallecchi Editore, Firenze, pp. 5-14.

Biasutti R. 1938, La casa rurale nella Toscana, Zanichelli, Bologna.

Fanelli G., Mazza B. 1999, La casa colonica in Toscana. Le fotografie di Pier Niccolò Berardi alla Triennale del 1936, Octavo, Firenze.

Ferrara G. 1966, La storia e l’architettura, in Biffoli G., Ferrara G., La casa colonica in Toscana, Vallecchi Editore, Firenze, pp. 35-80.

Fondi M. 1979, La casa della mezzadria, in AA.VV., Case contadine, Touring Club Italiano, Milano, pp. 106-131.

Michelucci G. 1932, Fonti della moderna architettura italiana, «Domus. L’arte della casa» n. 56, pp. 160-161.

Morozzi F. 1967, Delle case de’ contadini e Tavole da un cabreo di fattoria, Edizioni Cassa di Risparmio di Firenze, Firenze.

Pagano G., Daniel G. 1936, Architettura rurale italiana, Quaderni della Triennale, Ulrico Hoepli Editore, Milano.

Quaroni L. 1957, Tipizzazione, unificazione e industrializzazione dell’urbanistica, «La Casa» n. 4, pp. 88-109.

Sereni E. 1961, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Bari.

Chiara Simoncini

Giulia Gabriella Sagarriga Visconti DIDA Università degli Studi di Firenze

Ambrogio Lorenzetti, Gli effetti del Buon Governo, 1337, particolare della campagna, Siena, Palazzo Credits: Di Ambrogio LorenzettidJ3E935Z8-A at Google Cultural Institute maximum zoom level, Pubblico dominio, https:// commons.wikimedia.org/w/ index.php?curid=23689393

Terre dipinte

Nel più generale contesto della rappresentazione figurativa del territorio, il paesaggio, ed in particolar modo il paesaggio senese, venne sviluppato all’interno della tradizione figurativa secondo varie declinazioni nell’arco di età differenti, talvolta divenendo quasi assente o ridotto a pura simbologia (Berque, 1990).

La raffigurazione del paesaggio, nell’arte senese, prima delle innovazioni apportate da alcuni artisti divenuti tra i più noti esponenti della sua rappresentazione, come i fratelli Lorenzetti, ebbe quasi sempre un’importanza secondaria, quale sfondo subordinato al soggetto rappresentato. Seppur dunque il paesaggio senese si inserisca all’interno di una tradizione raffigurativa paesistica, a differenza del metodo simbolico giottesco, assunse una funzione pratica, divenendo fedele rappresentazione dell’azione umana sul territorio.

Non si trattava di una rappresentazione minuziosa e fedele del verde, come quella tipica del ‘secondo stile pompeiano’, in cui si andò definendo la nuova figura del paesaggista che, a Roma così come a Pompei, dipingeva i particolari dei giardini; o la rappresentazione trasfigurata, appartenente al primo medioevo, in cui, nel decadimento della nozione stessa di spazio, la natura diveniva oggetto di una semplificazione simbolica, ma di un nuovo e spiccato interesse per la bellezza naturale, piuttosto inusuale per il periodo, che non trovò riscontro neanche nel coevo filone pittorico fiorentino, e che così venne introdotto da Cennino Cennini 1 nel suo Trattato della Pittura:

“Se vuoi pigliare buona maniera di montagne, e che paino naturali, togli di pietre grandi che sieno scogliose e non polite; e ritra’ne del naturale, dando i lumi e scuro, secondo che la ragione t’acconsente.” (Cennini, 1821, cap. LXXXVIII)

* Il paragrafo Terre dipinte è stato scritto da Chiara Simoncini; Terre in sequenza è stato scritto da Giulia Gabriella Sagarriga Visconti.

1 Cennino di Andrea Cennini (Colle di Val d’Elsa, 1370 - Firenze, c. 1440) è stato un pittore italiano, noto soprattutto per aver scritto in volgare, all’inizio del XV secolo, un trattato sulla pittura organicamente monografico sulla produzione artistica, contenente informazioni su pigmenti e pennelli, sulle tecniche della pittura, dell’affresco e della miniatura, introducendo inoltre consigli e ‘trucchi’ del mestiere, L’opera è stata interpretata dagli studiosi come momento di passaggio fra l’arte medievale e quella rinascimentale;

Giotto, Francesco che dona il mantello ad un cavaliere, 1337, particolare delle rocce, Assisi, Basilica di San Francesco

Credits: https://it.wikipedia.org/wiki/San_Francesco_dona_il_mantello_a_un_povero#/media/

File:Giotto_di_Bondone_-_Legend_of_St_Francis_-_2._St_Francis_Giving_his_Mantle_to_a_Poor_ Man_-_WGA09119.jpg

In queste parole è racchiuso uno degli aspetti rivelatori delle intenzioni della pittura del Trecento, in particolare di quella montagna-sasso ideata da Giotto, che ritroviamo nelle Storie di San Francesco dipinte ad Assisi alcuni anni prima. È però necessario tenere a mente gli intenti illusionistici del realismo giottesco, che mirava ad un effetto di tangibilità delle cose, più che di fedeltà al reale, mantenendo dunque un carattere sostanzialmente simbolico ed araldico, ma in cui il paesaggio diventava per la prima volta elemento importante e protagonista della scena rappresentata, si trattava dunque di una ‘età nuova’, succeduta alla lunga parentesi medievale, seppure sarà necessario aspettare il secondo-terzo decennio del Quattrocento, con il rinnovamento rinascimentale di Masaccio e le osservazioni naturalistiche di Gentile da Fabriano, perché nella pittura italiana si diffonda una più vera concezione della rappresentazione paesistica.

I paesaggi senesi trecenteschi divennero così rappresentazione documentaria del territorio, come nel caso degli affreschi raffiguranti l’Allegoria del Buono e del Cattivo Governo (1338) che Ambrogio Lorenzetti dipinse nel Palazzo Pubblico di Siena, in cui ritroviamo le prime raffigurazioni della natura ‘governata’ dei colli senesi. Il Buon Governo non è soltanto una pietra miliare nella storia della rappresentazione artistica del paesaggio, ma anche una preziosa introduzione alla lettura del paesaggio culturale senese in cui è possibile cogliere il sistema di valori condiviso alle classi dirigenti cittadine impresso sulla città e sullo spazio rurale di sua pertinenza.

Le vedute della città e della campagna sono così attente alla vita industriosa e lavorativa degli uomini ed all’effetto che tale azione ha conferito alla natura circostante, da porsi come il punto più avanzato della ricerca figurativa sul paesaggio di tutto il Trecento europeo.

“Nessun altro documento figurativo è degno di fede quanto questo affresco nel descrivere l’aspetto stabile del paesaggio intorno alla città ben governata” (Romano, 1978, p. 32)

Ciò che ci importa rilevare qui è l’aspetto descrittivo e quasi ritrattistico con cui il paesaggio è reso, con un approccio assai diverso da quello dei fiorentini contemporanei, seguaci del metodo rappresentativo naturalistico giottesco che non era ancora un’idea di paesaggio, comunemente intesa, ma un modo per esternare in pittura la tridimensionalità. La verità paesistica raggiunta a Siena era difatti legata ad una pratica artistica propria e distintiva della città, quella di raffigurare fedelmente i castelli della Repubblica senese, non a caso rappresentati sulle pareti del Palazzo Pubblico, così da renderli immediatamente riconoscibili, come nel caso di Montemassi, arroccato sul versante del colle che guarda verso la Maremma, con una validità quasi di documentazione catastale. Il paesaggio senese, segnato dall’attività umana, veniva così indagato e rappresentato con una fedeltà che non ebbe riscontro altrove in questo periodo, divenendo un importante documento, sondato dagli storici dell’ultimo mezzo secolo per una completa comprensione del mondo rurale e della vita agreste appartenente al mondo del pieno medioevo.

Bibliografia

Berque A. 1990, Mediance: de milieux en paysages, Reclus – Documentation française, Montpellier

Brandi C., Barzanti R. (a cura di) 1987, Aria di Siena. I luoghi, gli artisti, i progetti, Editori Riuniti, Roma

Cennini C. 1821, Trattato della pittura, 1821

Cosgrove D., Daniels S. (a cura di) 1988, The iconography of Landscape, University Press, Cambridge

Pazzagli C. 1992, La terra delle città, Ponte alle Grazie, Firenze

Piccinni G. 1992, Il contratto di mezzadria nella Toscana medievale. III – Contado di Siena, 1349 – 1518, Olschki, Firenze

Romano G. 1978, Studi sul Paesaggio, Einaudi, Torino

Sereni E. 1961, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Bari

Turri E. 1997, Il paesaggio come teatro. Dal territorio vissuto al territorio rappresentato, Marsilio, Venezia

Terre in sequenza

Il ‘paesaggio agrario toscano’ con tutte le sue rappresentazioni, è lo scenario attraverso il quale è possibile comprendere quella che ad oggi è definita ‘cultura toscana’, nella quale l’immagine del ‘bel paesaggio’ è rintracciabile in tutti i campi delle arti, dal pittorico di Benozzo Gozzoli, al ‘bel paesaggio’ poetico di Boccaccio nel Ninfale Fiesolano. (Sereni, 2016)

Se l’immagine della società è in parte riflessa nella sua rappresentazione, è possibile indagare, dal punto di vista storiografico, un contesto studiando in maniera analitica le sue forme artistiche.

Per lo studio del XX secolo abbiamo gli strumenti per prendere in considerazione forme d’arte come il cinema, di cui fino ad ora non vi era la possibilità di analizzare a pieno l’estensione. (Melanco, 2005)

La correlazione cinema-storia porta con sé molti dibattiti che nel corso degli anni ’70, vengono riassunti da Lino Miccichè nel suo volume Momenti di storia italiana del cinema (Miccichè, 1979). Miccichè individua due correnti: una corrente critica-censoria, dove gli storici appaiono più legati alla metodologia classica, ed una corrente teorica-operativa2, in cui si vuole dimostrare come la cinematografia possa essere fonte di storia. (Melanco, 2005)

Secondo Miccichè “il cinema, in quanto legato ad un hic et nunc storicamente determinato, è sempre documento di un determinato momento storico” (Miccichè, 1979, p. 7-12 ), questa constatazione3 viene anche sviluppata da Pierre Sorlin nella Sociologia del cinema in cui afferma come “il cinema non ci dà un’immagine della società, bensì quello che una società ritiene sia un’immagine, compresa una possibile immagine di sé stessa; non ne riproduce la realtà, ma la maniera di trattare il reale” (Sorlin, 1977, p. 32).

Il paesaggio porta con sé la cultura tradizionale del luogo; non consiste in un oggetto distaccato e autonomo, ma in un’esperienza: conoscerlo implica comprendere il modo in cui si costruisce lo spazio circostante ed i rapporti che con esso si innescano. Nel cinema esiste una relazione tra paesaggio, personaggio, cinepresa e pubblico osservatore traducibile in un rapporto complesso di sguardi disposti su piani diversi. È presente un personaggio, che è l’osservatore del paesaggio; una cinepresa che osserva l’osservatore ed infine lo sguardo del pubblico che traduce i precedenti in maniera differente poiché dipende dal soggetto spettatore stesso che li percepisce secondo i propri modelli culturali. (Melanco, 2005). Questo rapporto tra più livelli di sguardo rende l’atto del ‘guardare’ un atto conoscitivo; il cinema quindi può essere inteso come uno strumento utile non solo per mostrare il mondo,

2 Sorlin e Ferro;

3 In seguito Miccichè chiarisce come “lo schermo non dice mai come fu il passato, ma come voi vi potete immaginare che sia stato” considerando lo spettatore parte integrante dell’evento storico che non ne documenta le gesta ma le immagina;

Nostalghia, Tarkovskij, 1983

Credits: https:// w.1977magazine. com/wp-content/ uploads/2017/12/ nostalghia.jpg ma anche per intendere come l’uomo guardi il mondo. (Melanco, 2005)

Il contesto diventa ‘teatro’ della trama, esso permette di coglierne la cultura e le relazioni. Osservando l’ambientazione è possibile individuare le architetture, le differenti tipologie edilizie, che scandiscono gli spazi urbani dagli spazi rurali e che si traducono in differenti contesti e stili di vita. (Guardenti, 1999)

Nel panorama cinematografico, il paesaggio senese è personaggio di molti film4. Si comincia con Feu Mathias Pascal di Marcel L’Herbier (1926) e - a seguire - Palio di Alessandro Blasetti (1932) storia di amor tradito e offeso onore, Lorenzino de’ Medici di Guido Brignone (con un potente Alexander Moissi, amico di Adolf Loos - 1935). Dopo la guerra Il principe delle volpi di Henry King (1949) e Il Cristo proibito di Curzio Malaparte (1951) seguito da Giulietta e Romeo di Renato Castellani (1954), e la commedia leggera La ragazza del palio di Luigi Zampa (1957). È del 1964 La ragazza di Bube che Luigi Comencini trae da Cassola per arrivare a Franco Zeffirelli nel 1972 con Fratello Sole e sorella Luna. Ancora poi Il prato dei fratelli Taviani (1979) e finalmente Nostalghia di Andrej Tarkovskij (1983), seguito in ordine di tempo dal cast formidabile di Speriamo che sia femmina per la regia di Mario Monicelli (1986) che ritorna nel paesaggio toscano con

4 Tra cui documentari come: Art in 14th. Siena, Florence and Padua. The Palazzo Pubblico, Siena; Brigata Partigiana – Giuseppe Ferrara (1962); Mezzadria – Sergio Micheli

Cari fottutissimi amici, Mario Monicelli, 1994

Credits: https:// www.davinotti. com/forum/ locationverificate/carifottutissimiamici/50003245

Io ballo da sola, Bernardo Bertolucci, 1996

Credits: https:// www.wechianti. com/2017/04/23/ gaiole-chiantitre-giorni-eventiinstallazionifloreali-nelcasolare-del-filmballo-sola/

Cari fottutissimi amici (ancora Monicelli ma nel 1994). Del 1994 è Con gli occhi chiusi di Francesca Archibugi che trascrive un Tozzi drammatico del 1919, seguito da Io ballo da sola di Bernardo Bertolucci (1996) fino a chiudere (per ora) con Il paziente inglese di Antony Minghella (1996).

In particolare se prendiamo in analisi Nostalghia, uno dei film più ermetici di Tarkovsky, il paesaggio diviene qui il mezzo primario con il quale il protagonista da corpo alla nostalgia della propria terra. La piazza di San Gimignano, la vasca di Bagno Vignoni ed infine lo scheletro del monastero di San Galgano, dove il film si conclude con la morte del protagonista, si caricano di significati fortemente ritualizzanti fondamentali per la comprensione della pellicola.

Accezione completamente differente si percepisce invece nel film Io ballo da sola, dove il paesaggio diventa testimone del fenomeno di ‘colonizzazione’ da parte di stranieri alla ricerca del ‘bel paesaggio’ matrice della ‘cultura toscana’. In questo caso la cinepresa interpreta lo sguardo della giovane americana Lucy che ammira il paesaggio rurale toscano con una curiosità che coinvolge lo spettatore non conoscitore di queste terre.

A livello cinematografico quindi uno stesso luogo è raramente descritto nel medesimo modo, esiste una diversa intensità di percezione del territorio non sempre omogenea: in alcuni casi il paesaggio è protagonista indissolubile, in altri solo scenario, ma è sempre “il risultato del lento stratificarsi dell’azione intellettuale e delle attività messe in opera delle generazioni che quel territorio hanno vissuto, pensato idealizzato e trasformato”. (Guardenti, 1999, p. 123)

Bibliografia

Bernardi S., 2002, Il paesaggio nel cinema italiano, Marsilio Editori, Venezia.

Melanco M., 2005, Paesaggi, Passaggi e passioni. Come il cinema italiano ha raccontato le trasformazioni del paesaggio dal sonoro ad oggi, Liguori Editore, Napoli.

Miccichè L., La storia italiana del cinema, in “momenti di storia italiana del cinema”, a cura di Marisa di Lonardo di Amministrazione Provinciale di Siena, Quaderni dell’assessorato Istruzione e Cultura, n.5, 1979.

Sereni E., 2016, Storia del paesaggio agrario italiano, Editori Laterza, Bari.

Sorlin P., Sociologie du cinéma. Ouverture pour l’histoire de demain, Editions Aubier Montaigne, 1977 (tr it. Sociologia del Cinema, Garzanti, Milano, 1979 p.32).

Vecchio B., C. Capineri, 1999, Museo del paesaggio di Castelnuovo Berardenga, Protagon Editori Toscani, Siena. (Il senese nel cinema: la drammaturgia del paesaggio – Renzo Guardenti).

Filmografia

Feu Mathias Pascal, Marcel L’Herbier, 1926

Palio, Alessandro Blasetti, 1932

Lorenzino de’ Medici, Guido Brignone, 1935

Il principe delle volpi, Henry King, 1949

Il Cristo proibito, Curzio Malaparte, 1951

Giulietta e Romeo, Renato Castellani, 1954

La ragazza del palio, Luigi Zampa, 1957

La ragazza di Bube, Luigi Comencini, 1964

Fratello Sole e sorella Luna, Franco Zeffirelli, 1972

Il prato, fratelli Taviani, 1979

Nostalghia, Andrej Tarkovskij, 1983

Speriamo che sia femmina, Mario Monicelli, 1986

Cari fottutissimi amici, Mario Monicelli, 1994

Con gli occhi chiusi, Francesca Archibugi, 1994

Io ballo da sola, Bernardo Bertolucci, 1996

Il paziente inglese, Antony Minghella, 1996

I progetti: ripensare l’antico abitato

Laboratorio di Progettazione dell’Architettura V a.a. 2021 2022 DIDA - Università degli studi di Firenze

Docente

Prof. Francesco Collotti

Collaboratori

Dott. Milo Agnorelli

Arch. PhD Giada Cerri

Arch. PhD Eliana Martinelli

Arch. Giulia Sagarriga Visconti

Arch. Chiara Simoncini

Studenti

Ludovica Caschetto, Marta Devesa

Garcìa, Alessia Fausto, Marco Frascarelli, Giulia Hu, Klejvi Mallunxa, Rebecca Masina, Iacopo Menegatti, Emanuele

Miseria, Lucia Nobilini, Samuele

Romeo, Sofia Rosati, Giacomo Rosselli, Francesco Spini, Alessio Solari, Claudia

Tognetti, Giacomo Tolaini

Marco Frascarelli Iacopo Menegatti

[...] Una descrizione di Zaira quale è oggi dovrebbe contenere tutto il passato di Zaira. Ma la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee d’una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale [...] (Calvino, 1972)

Con queste parole Italo Calvino in Città invisibili descrive una città difficile da identificare attraverso singoli elementi, simboli e forme, raccontando di vicende che definiscono la storia del luogo. Il borgo di Torri non è distante da questa suggestione, straordinaria fotografia di un passato modo di abitare il territorio. Assopito sul versante di collina, l’incastellamento di Torri domina sulla campagna misurata dalla mano dell’uomo. La vocazione agricola forte e identitaria si mostra nella vecchia macina del borgo, nel ex complesso della fattoria, nel forno che si apriva sulla piazza, oggi oramai in disuso, e nei capitelli fitomorfi del chiostro, tesoro nascosto del luogo. Le tradizioni si lasciano così scoprire ancora attraverso gli occhi di chi sa osservare, seppur l’evolversi del modo di abitare abbia privato il borgo della propria dinamicità. In un contesto, così complesso, una nuova architettura deve dunque saper leggere il passato, generando occasioni per far nuovamente vivere spazi oggi abbandonati, innestando nuove attività, riscoprendo luoghi e tempi dimenticati, eppur da sempre parte di quel complesso paesaggio arroccato trai colli senesi. La testimonianza storica di una delle attività più importanti del piccolo villaggio, legato al mondo del grano, ha suggerito la progettazione di un centro per la comunità articolato in tre elementi che avesse come fulcro il laboratorio destinato alla produzione del pane, con annesso un piccolo forno, attorno a cui la cittadinanza potesse ritrovarsi all’interno dello spazio polivalente di aggregazione e da dove fosse possibile, attraverso una torre panoramica, recuperare quello sguardo che dallo spazio definito del borgo sapesse perdersi nel paesaggio aperto e segnato dei campi. Una nuova architettura pensata all’interno di un sistema paesaggio così affermato non può che partire così dallo studio di ritmi, proporzioni e misure propri del territorio, che sappiano tornare a farsi progetto in una rielaborazione contemporanea, capace però di dialogare sempre armonicamente con le pre-esistenze del luogo, così da definire un percorso di crescita dell’intero sistema.

Elaborati grafici Schemi di progetto, piante, prospetti e sezioni significativi

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