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dobbiamo innanzitutto considerare
la chiesa di Santa Maria in Croce nel borgo di San Quirico in Osenna (oggi San Quirico d’Orcia, distante 42 chilometri in linea d’aria) in diocesi di Arezzo, ricordata nella bolla di Eugenio III ma relativamente alla quale ci rimangono anche alcune pergamene degli anni 1092 e 1142-43: da esse emerge un preciso interesse del nostro monastero a curare la proprietà in questa area e anzi possibilmente ampliarla acquisendo il controllo di metà della chiesa di San Donato nel piviere di Pava, nei pressi di San Giovanni d’Asso (Tacchetti, 1975-76, pp. 36-43 e 58-62). Anche San Quirico d’Orcia è da sempre centro di pertinenza fiscale e nel XII secolo sede di funzionari imperiali tedeschi (Schneider, 1975, pp. 278-279; Cammarosano, Passeri, 1976). E ugualmente lontano dall’abbazia è il terreno a San Vito in Verzuris, al quale vanno logicamente collegati, trovandosi nella medesima zona, l’ospedale di Cuna, di cui la bolla papale del 1152 è l’attestazione più antica (Cammarosano, Passeri, 1976), l’ospedale di Monteroni e la chiesa di Taverne d’Arbia menzionati invece nella bolla di papa Innocenzo IV: anche questo insieme di possedimenti dunque dovrebbe aver fatto parte della dotazione originaria. Al contrario, quasi tutte le restanti possessioni menzionate nel privilegio papale del 1252 dovrebbero essere acquisizioni più recenti, trattandosi di località fino ai primi del Duecento profondamente inserite nel dominio ardenghesco: Orgia, Rosia, Stigliano, Brenna, Montecapraia, Recenza, Cerreto Merse, Frontignano, Anterigoli, Mallecchi. Considerazioni analoghe valgono per la curtis di Campagnatico in Maremma, antica pertinenza degli Aldobrandeschi (Collavini, 1998, p. 80). Restano fuori da questo quadro i beni a Tonni, piccola località affacciata sul corso del torrente Rosia a pochi chilometri da Torri, che quindi possiamo considerare facenti parte della dotazione originaria.
Se la nostra ricostruzione è corretta possiamo dire, riassumendo, che il patrimonio abbaziale nell’XI secolo era composto da consistenti porzioni di terre fiscali in prossimità del monastero (il padule d’Orgia, la sorgente del Busso, il poggio di Montacuto) e da ospedali e chiese dislocati su alcune delle più importanti arterie stradali del comitato senese: la via Francigena (Cuna, Monteroni, San Quirico) e la direttrice successivamente nota come Lauretana (Taverne, San Vito in Verzuris) che puntava sulla Val di Chiana e la zona umbra. Sarà un caso, ma le uniche attestazioni documentarie sul patrimonio monastico nell’XI secolo sono legate alla grande viabilità senese: quale centro di potere, intorno all’anno Mille, può aver avuto l’interesse e la capacità di fondare un cenobio a Torri dotandolo nel modo descritto? Non una stirpe aristocratica zonale, troppo vasto essendo l’orizzonte tracciato dalla nostra pur scarsa documentazione per famiglie che si affacciavano allora sul grande palcoscenico della storia, compresse fino a quel momento nelle loro aspirazioni da un potere marchionale ancora forte (Wickham, 1996). Di più, gli Ardengheschi, la consorteria più vicina alla nostra zona per interessi patrimoniali, proprio nella prima metà dell’XI secolo stava affrontando un processo di territorializzazione, nel senso che i diversi gruppi parentali stavano concentrando ognuno i propri beni in aree ristrette e liberandosi di quelli più periferici (Angelucci, 2000, pp. 45-46), quindi è difficile pensare ad essi come protagonisti di una operazione quale abbiamo cercato di definire. Non rimane quindi che suggerire per questo ruolo, sia pure con tutte le cautele del caso, proprio il potere marchionale che nella seconda metà del X secolo si appoggiò decisamente alle istituzioni cenobitiche del territorio, già esistenti o di nuova fondazione, assegnando loro ampie porzioni di terre fiscali, oltre che allodiali, per cercare di proteggerle dalla cupidigia delle nuove famiglie aristocratiche in ascesa (Manarini, 2016, p. 174). Campione di questa politica fu Ugo di Tuscia, fedele esecutore della volontà imperiale, al quale si riconoscono per l’area senese decisi interventi a favore di San Michele di Marturi e di San Salvatore al Monte Amiata entrambe collocate sulla via Francigena (Kurze 1989, pp. 306-310; Manarini, 2016, pp. 103104). Proseguendo in questo ragionamento si potrebbe addirittura individuare il decennio successivo al 986 nel quale Ugo resse anche il ducato di Spoleto e Camerino il periodo entro il quale collocare l’epoca della fondazione di Torri, dal momento che allora egli “ottenne, oltre ai territori del ducato, anche una più netta influenza sulle città toscane da sempre legate al ducato spoletino, quali Arezzo, Siena e Chiusi” (Manarini, 2016, p. 101): la cosiddetta via Lauretana sulla quale erano collocati diversi possedimenti del monastero andava per l’appunto in quella direzione. Essendo Torri posizionata lungo il percorso fra Marturi e Monte Amiata, l’abbazia avrebbe potuto inserirsi a controllo dello snodo rappresentato dalla città di Siena in funzione di una viabilità trasversale che dalla Toscana centrale portava in Umbria. D’altra parte non è necessario pensare ad una iniziativa di fondazione puntualmente pianificata e diretta dall’alto: come mostra il caso di San Michele di Marturi, creazioni spontanee di comunità religiose da parte di persone profondamente devote in quell’epoca non erano infrequenti, iniziative che si stabilivano su terra fiscale trovando una sponda nella benevolenza marchionale che magari interveniva successivamente, nel caso il cenobio avesse avuto successo, con donazioni mirate (Kurze, 1989, pp. 165-179; Tomei, 2016).
Queste considerazioni rafforzano l’ipotesi di una origine marchionale, cioè ‘pubblica’ e non familiare, del nostro monastero. Naturalmente siamo nel campo delle ipotesi, è bene ribadirlo, suggerite semplicemente in prospettiva di studi più approfonditi; ipotesi cui si arriva più che altro per esclusione, essendo estremamente labili le attestazioni certe in nostro possesso. Tuttavia esse vanno esplicitate poiché il quadro restituito appare coerente, anche in relazione a certi avvenimenti successivi. Prendiamo ad esempio il famoso intervento di Beatrice di Lorena presso il papa del 1070 per porre sotto la protezione apostolica il monastero e svincolarlo da ogni potere laico locale, considerato il documento più antico relativo a Torri prima della scoperta di quello del 1033: esso appare pienamente coerente con l’atteggiamento generale tenuto dalla marchesa nei confronti degli istituti monastici, nessuno dei quali venne da lei fondato in Toscana ma ai quali dedicò numerose attenzioni tese a proteggerli dalle usurpazioni laicali dopo la morte di Goffredo il Barbuto nel 1069 (Bertolini, 1970). Più nello specifico, Beatrice si interessò a San Michele di Marturi e a San Salvatore del Monte Amiata (Ceccarelli Lemut, 1994, p. 153), proprio i due monasteri sulla via Francigena sui quali già era intervenuto Ugo di Tuscia. In altri termini, il privilegio sollecitato al papa da Beatrice nel 1070 avrebbe rinsaldato un rapporto già esistente fra il vertice del marchesato e questa realtà cenobitica, piccola ma dotata di un ruolo preciso, del quale evidentemente la cancelleria marchionale, o comunque il suo entourage, aveva conservato memoria.
Altra osservazione che cozza con l’idea di una origine da Eigenkloster, la forma di gran lunga preferita dalle consorterie comitali (D’Acunto 2006, pp. 292-293): nel corso delle vicende belliche che Siena dovette affrontare per sottomettere definitivamente gli Ardengheschi furono messe a ferro e fuoco dall’esercito comunale Rosia e Orgia, ma venne risparmiato proprio Torri che pure si trova nel mezzo fra le due, essendo il monastero evidentemente schierato con il comune cittadino (Balestracci, 1988).
Per concludere questa parte bisogna precisare che l’abbazia entrò a far parte dell’ordine vallombrosano soltanto nel 1153, secondo quanto attestato in una bolla di papa Anastasio IV (Vasaturo, 1962, p. 475).
I rapporti con Siena
Già il Canestrelli (2015, p. 8) aveva notato gli stretti legami che univano l’abbazia al comune di Siena, legami concretizzatisi in tutta una serie di collaborazioni sia sul piano politico che in quello economico. Abbiamo menzionato la cessione al governo cittadino del poggio di Montacuto nel 1156: essa va posta in relazione ad altre iniziative prese in quegli anni dal comune senese per affermare la propria autorità sul territorio, in particolare su quello ancora egemonizzato dalla potente consorteria degli Ardengheschi (Cammarosano, 1991, pp. 43-45). Il poggio di Montacuto, sul quale sorgeva da tempo immemorabile un castelliere (all’epoca ancora frequentato, come ha mostrato nel 2004 una ricognizione archeologica di superficie) era in una posizione troppo strategicamente importante per lasciarlo in mano a dei religiosi indifesi, in un’area sostanzialmente controllata dagli Aldobrandeschi: di qui l’accordo fra le parti. Ai nostri occhi il documento è importante anche perché per la prima volta il monastero affianca nella sua intitolazione santa Mustiola alla santissima Trinità, fino a quel momento unica titolare del cenobio, e l’abate ottiene in cambio dai consoli senesi l’omaggio di un cero da tre libbre il giorno della festa della novella patrona. E sarebbe interessante poter approfondire le motivazioni di questo cambiamento, di questo accostamento fra la suprema divinità cristiana e una santa certamente conosciuta a livello popolare in tutta l’area toscana meridionale, ma che aveva avuto il momento di massima diffusione del suo culto in epoca longobarda (Licciardello, 2009): i primi indiziati come responsabili dell’operazione sono naturalmente i Vallombrosani, considerando la coincidenza temporale tra l’inserimento di Torri fra le file dell’Ordine gualbertino e la prima menzione della santa a fianco della Trinità in un documento ufficiale, ma bisognerebbe chiarirne il contesto e le motivazioni.
La solidarietà fra il nostro cenobio e l’ancora giovane comune cittadino doveva toccare un momento di particolare intensità qualche anno dopo in occasione dello scontro che oppose il papa Alessandro III al Barbarossa e vide Siena schierarsi con l’imperatore e l’antipapa Callisto, nonostante il pontefice fosse di famiglia senese: il vescovo Ranieri lanciò l’interdetto sulla città e si ritirò in volontario esilio, ma il monastero di Torri restò fedele alle istituzioni cittadine nonostante la disposizione impartita a Vallombrosa dalla curia romana di deporre l’abate Rolando (Pellegrini, 2004, pp. 38-44). Quest’ultimo, forte dell’appoggio dei suoi monaci, proseguì per la sua strada non curandosi neanche di essere in forte minoranza all’interno dell’ordine vallombrosano (Piazzoni, 1999, pp. 384-385).
In ambito economico la collaborazione si concretizzò nel XIII secolo nella bonifica del padule d’Orgia e nella costruzione lungo il Merse di un imponente sistema di mulini da grano. Già da tempo, fin dal XII secolo, il monastero aveva edificato due mulini per proprio conto derivando l’acqua dal Merse con una gora (Cortese, 1997, pp. 100 e 115), ma la grossa operazione prese corpo soltanto a partire dal 1241 quando venne costituita fra il comune di Siena e l’abbazia una società per la bonifica e quindi un Consorzio fra tutti i possessori di terreni circostanti, cittadini e comitatini (Gelli, 2014). Venne realizzato un accorto sistema di canali di drenaggio che impediva il ristagno delle acque e ne favoriva il deflusso, in modo da liberare progressivamente sempre nuove porzioni di terreno coltivabile. Il Consorzio avrebbe dovuto tenere aggiornato un registro di tutti i proprietari con l’estensione dei rispettivi terreni, e costoro sarebbero stati obbligati a partecipare alle spese di pulizia e mantenimento delle fosse e dei canali di scolo. Nel 1245 poi fu avviata la costruzione dei mulini sul Merse, suddivisi in due grandi edifici, uno a Brenna e uno a Serravalle, ognuno da quattro palmenti. La gora realizzata per alimentarli era costituita
“da un canale lungo complessivamente oltre 6 Km, sostenuto in parte da argini di terra e in parte scavato nella roccia, talvolta con l’apertura di gallerie artificiali, dotate di sostegni in muratura, attraverso speroni di calcare che ostruivano il percorso. Il canale di Brenna viene mantenuto in quota, lungo il fianco dell’altura di Montestigliano, ad un dislivello di oltre 15 metri rispetto al fiume sottostante, in modo da ottenere una pendenza costante e controllata su tutto il percorso a partire dalla presa fino all’ultimo opificio alimentato” (Cortese, 1997, p. 77).
Altre clausole prevedevano che l’abbazia si sarebbe accollata tutte le spese di impianto e perciò avrebbe incassato tutti gli utili per i primi cinque anni di esercizio, successivamente le spettanze sarebbero state divise a mezzo con il comune di Siena. Il materiale edilizio e tutto quanto il necessario alla manutenzione sarebbe stato reperito nei vasti boschi di proprietà monastica. Operazione grandiosa per capacità ideativa e impegno economico. È stato scritto che il nostro monastero
“è uno dei primi e principali innovatori nel campo delle tecnologie idrauliche per la zona indagata: l’abbazia non acquistò mulini, ma fu tra i primi a costruirne, e si tratta delle più imponenti strutture tra tutte quelle individuate, in grado di raggiungere altissimi livelli produttivi. La gora che i monaci scavarono per alimentare questi opifici era una realizzazione di alta ingegneria idraulica, che comportò il superamento di notevoli difficoltà tecniche e l’impiego di una grande forza-lavoro, ma che una volta ultimata era in grado di garantire la macinazione in più impianti per tutto l’arco dell’anno” (Cortese,1997, p. 116).
E questi comunque non erano i soli impianti molitori progettati e posseduti da Torri, nel XIII secolo il monastero ne aveva anche altri per proprio conto nella zona di Orgia. Nella seconda metà del Duecento però quote via via crescenti dei mulini furono rilevate dal monastero cistercense di San Galgano, acquistate sia dal comune senese che da Torri (Cortese, 1997, pp. 107-109).
Un altro settore economico che vide i nostri monaci fortemente impegnati fu quello della produzione della lana, per il quale essi misero in piedi sempre lungo il corso del Merse altre strutture azionate da energia idraulica, delle gualchiere, macchine per follare i panni che facevano risparmiare tempo e manodopera al lungo processo di lavorazione (Malanima, 1988). E anche questa impresa fu realizzata in joint-venture con il comune di Siena. Purtroppo la cronica scarsezza di documentazione ci costringe ad essere imprecisi: il progetto appare definito nel Costituto del 1262, ma già alla metà del Duecento era attiva una gualchiera a Brenna presso il cosiddetto Mulino del Pero, in comproprietà fra Torri e il comune di Siena (Giacchetto, 2019-20, pp. 359-360). Gli impianti più grossi furono però costruiti più a monte nella zona di Mallecchi e costituirono per oltre due secoli il punto di riferimento obbligato per tutti i lanaioli senesi: possiamo figurarci i convogli di muli carichi di balle di lana da follare che si muovono quotidianamente dalla città in direzione del Merse, attraversando il padule bonificato per la cosiddetta ‘via dritta’ che conduce a Stigliano, per poi ritornare con i panni infeltriti. Secondo il catasto del 1320 le gualchiere di Mallecchi erano collocate all’interno di una grossa tenuta di 375 ettari quasi tutti boscosi del valore complessivo di oltre 2.700 lire, mentre gli impianti veri e propri erano stimati 283 lire. La proprietà era divisa a mezzo fra l’abbazia e l’Arte della Lana di Siena, che era subentrata al comune cittadino negli anni ‘90 del Duecento. Sorge spontaneo l’interrogativo su fino a che punto il nostro monastero, una volta realizzati gli impianti, fosse coinvolto nel processo produttivo vero e proprio, in altre parole se partecipasse attivamente alla confezione dei pannilana, settore di punta dell’economia medievale: i documenti rimasti ci dicono che Torri vestiva semplicemente il ruolo di proprietario delle gualchiere, limitandosi a riscuotere dall’Arte della Lana o dagli occasionali appaltatori un affitto annuale in denaro (Giacchetto, 2019-20, pp. 121-123). I monaci però erano grandi fornitori della materia prima, la lana che ottenevano dai greggi di pecore allevate: un raro documento del 1237 ci parla di una aggressione subita a Frosini da Guido pecorarius mentre conduceva un gregge di ben 600 pecore di proprietà del monastero e di due carnifices cittadini5. Dalle scarne note del procedimento giudiziario possiamo dedurre che l’abbazia utilizzasse le sue possessioni a Campagnatico, attestate nel catasto del 13206, come base per effettuare già a questa epoca l’allevamento transumante di grossi greggi di pecore in Maremma, associandosi a imprenditori senesi. Il ricavo era costituito da carne, formaggi e lana grezza da collocare sul mercato cittadino: ancora una volta la comunità monastica faceva riferimento alla grande e vicina realtà urbana.
Un altro settore economico che vide i nostri monaci profondamente coinvolti fu quello della produzione di laterizi, dei quali si sviluppò una grande domanda in Siena a partire dalla metà del Duecento e poi per tutto il Trecento, laterizi che venivano cotti in una fornace da essi costruita nei pressi dell’abbazia (Balestracci, Piccinni, 1977).
Un tale complesso produttivo, cui si deve aggiungere l’attività siderurgica impiantata non distante a Monticiano, ha indotto a definire l’area geografica affacciata sul corso superiore del Merse la “zona industriale” di Siena nel Medioevo (Balestracci, 1988, p. 157), una zona alla cui realizzazione dettero un contributo fondamentale i monaci di Torri. Il paese
Non possiamo limitare la nostra analisi alla sola abbazia come fece il Canestrelli, anche la storia del paese sottostante è degna di attenzione. La solita mancanza di documentazione ci costringe pure in questo caso ad andare per congetture, per cui possiamo postulare in maniera molto semplice e intuitiva che all’origine dell’abitato ci siano state le diverse attività economiche messe in piedi dal monastero e i suoi bisogni. Un contributo decisivo per il decollo di una comunità di villaggio raccolta intorno all’abbazia deve essere venuto dalla cessione a Siena del poggio di Montacuto nel 1156, di cui abbiamo già parlato, dal momento che il castelliere posto sulla sommità è risultato abitato fino alla seconda metà del XII secolo e non oltre, come rilevato da una ricognizione archeologica di superficie nel 2004: per stornare il pericolo di un utilizzo ostile di quella posizione militarmente forte (i fianchi della collina sono molto ripidi soprattutto in direzione del piano) il comune cittadino deve aver imposto l’abbandono dell’insediamento sommitale, i cui abitanti con ogni probabilità si saranno spostati dabbasso a formare il paese di Torri. Non risponde a vero l’affermazione del Canestrelli (2015, p. 8) secondo la quale i consoli del comune rurale di Torri nel 1205 giurarono fedeltà a Siena: come è evidente anche ad una prima lettura della pergamena (che oltretutto andrebbe datata al 1206), si tratta di Torri di Maremma, castello soggetto ai signori di Gello e Montorsaio. Di sicuro comunque nel XIII secolo il paese cresce impetuosamente, come testimonia l’erezione della chiesa parrocchiale intitolata a san Gregorio menzionata nel documento papale del 1251 ma che evidentemente doveva esistere da tempo (Canestrelli, 2015, p. 4). Già agli inizi del secolo la comunità di Torri è in pieno sviluppo come mostra la ricognizione fiscale del 1208, la prima effettuata dal comune di Siena per cominciare ad inquadrare la capacità contributiva degli insediamenti del contado, nella quale al paese viene assegnata una tassazione di 100 lire, cifra media fra quelle attribuite alle varie comunità del territorio (Ascheri, 1993). Un particolare degno di nota è che Torri, insieme a Monticiano, è l’unico centro fra quelli della Montagnola e delle Colline Metallifere ad essere censito e quindi chiamato a contribuire, un ‘onore’ che certamente i suoi abitanti all’epoca avranno gradito poco ma che per noi rappresenta un dato prezioso perché ci indica un grado di sviluppo già notevole: i due insediamenti che delimitavano la ‘zona industriale’ di Siena erano in attività.
Più difficile è però attribuire volti e fisionomie precise ai personaggi coinvolti in queste attività che esulavano dalla semplice produzione agricola, almeno per Torri dal momento che Monticiano era centro specializzato nella produzione e lavorazione del ferro. Il rilievo di un’ascia scolpita su due pulvini delle colonne che ornano il chiostro dell’abbazia, databile alla prima metà del Duecento (Moretti, 1999, p. 491), simbolo generico dei lavoratori della pietra e del legno, ci indica tale settore produttivo, sviluppatosi anche grazie alla disponibilità di legname dai boschi e alla natura del sottosuolo. Ma purtroppo relativamente a Torri non è andato disperso solo l’archivio del monastero, abbiamo perso anche i registri degli atti dei notai che in quel periodo erano attivi in paese, strumento principale e a volte unico per penetrare nella carne viva delle comunità del contado. Il comune di Siena nella sua opera di amministrazione del territorio soggetto ha prodotto innumerevoli atti nei quali compaiono, riflessi, personaggi del contado alle prese o con l’apparato giudiziario o con quello finanziario cittadino: facendo ricerca su queste fonti per tematiche diverse, ogni tanto capita di imbattersi in abitanti di Torri e quello che segue è il magro bottino incamerato finora da chi scrive. Possiamo dire innanzitutto che a Torri hanno lavorato diversi notai dei quali oggi resta soltanto il nome: Neri Dietavive e Ranieri Dietavive (forse fratelli?) attivi negli anni ‘70 del Duecento7, Bonsignore di Rodolfo (anno 1295)8, ser Sozzo Milanesi documentato fra il 1300 e il 13109, infine un certo ser Guccio fra il 1302 e il 131410. E questi sono solo i nominativi incontrati per caso, cercando altro: sarebbe bastato anche uno solo delle decine di registri di atti da costoro realizzati per farci un’idea più precisa della vita del paese. Conosciamo poi torrigiani esercitanti la professione artigiana, qualificati nella documentazione come magistri: Guiduccio Venture (anno 1302)11, Piero Loli e Ristoro Allegretti documentati nel catasto del 132012. Infine un certo Tino Guiducci soprannominato «batte bambagia», appellativo che evoca la lavorazione del cotone13. Ma la testimonianza più significativa di una diversificazione nelle professioni esercitate all’epoca nel paese è quella di un atto giudiziario del 1273 nel quale si condannano due individui per aver ucciso certos mercatantes de Turri14 : purtroppo non sappiamo altro, né il loro nome né in che cosa commerciassero, ma essendo il delitto avvenuto vicino a Siena sappiamo almeno che il loro raggio d’azione comprendeva la città. Piccole attestazioni che vanno tutte a tratteggiare un corpo sociale non livellato nei lavori agricoli ma differenziato per professioni: all’ombra delle iniziative monastiche e comunali erano cresciuti gruppi familiari dediti all’artigianato e al commercio le cui attività necessitavano dell’opera del professionista della scrittura, il notaio. Una delle acquisizioni più recenti della storiografia sulle campagne medievali è proprio la consapevolezza dell’esistenza di una società differenziata per mestieri e ricchezza, almeno fino alla crisi trecentesca, all’interno della quale si può scorgere un vertice che viene definito ‘borghesia di castello’ (Pinto, 2007): Torri non fa eccezione. Tale consapevolezza era anche nel governo senese che ai fini fiscali usava suddividere i contribuenti del contado in quattro classi, la prima denominata dei ‘comitatini potenti per denaro e averi’, titolari di un imponibile superiore alle 500 lire, la seconda dei cosiddetti ‘mezzani’, con un imponibile compreso fra le 100 e le 500 lire, la terza di coloro che avevano beni di valore inferiore alle 100 lire, infine la quarta dei nullatenenti, stimati intorno al 10% del totale (Barlucchi, 1997). Grazie alla Tavola delle Possessioni, il grande catasto particellare descrittivo realizzato dal comune di Siena per tutto il suo dominio fra il 1316 e il 1320 (Cherubini, 1974, pp. 231-311), possiamo toccare con mano la stratificazione sociale esistente anche a Torri: qui su 59 nuclei familiari censiti, 3 appartenevano alla classe dei ‘comitatini potenti per denaro e averi’ (5%), 22 alla classe mediana (37%), 35 a quella inferiore (58%), mentre ci mancano dati per i nullatenenti dal momento che il catasto inquadrava solo i beni immobili. Su una popolazione che possiamo stimare intorno alle 300 unità, il più ricco risultava essere proprio un artigiano, maestro Ristoro di Allegretto titolare di un patrimonio valutato quasi 1.400 lire15 ; purtroppo il catasto non fornisce dati all’infuori di quelli relativi agli immobili, quindi non siamo in grado per il momento di aggiungere altri particolari, ma ciò conferma il quadro complessivo del paese che abbiamo fin qui tracciato.
7 Archivio di Stato di Siena, Biccherna 709, c. 2r e Biccherna 725, c. 47r.
8 Archivio di Stato di Siena, Gabella dei contratti 34, c. 237r.
9Archivio di Stato di Siena, Gabella dei contratti 35, c. 81v, c. 150r e c. 175r; Gabella dei contratti 38, c. 84v e c. 100r; Gabella dei contratti 58, c. 95v.
10 Archivio di Stato di Siena, Biccherna 116, c. 185v e Gabella 13, c. 253r.
11 Archivio di Stato di Siena, Biccherna 116, c. 176r.
12 Archivio di Stato di Siena, Estimo 52, c. 549v.
13 Archivio di Stato di Siena, Estimo 52, c. 510r.
14 Archivio di Stato di Siena, Biccherna 725, c. 94v.
La Tavola censisce anche il patrimonio dell’abbazia, che ammonta alla notevole cifra di 28.585 lire16 : uno studio dettagliato di esso esula dagli obiettivi del presente scritto, ma possiamo comunque dire che i monaci fondavano il loro patrimonio, oltre che su numerosi ed estesi appezzamenti nella zona di Torri e più in generale del padule d’Orgia, anche su una grossa proprietà nella curia di Campagnatico in Maremma costituita da una casa e un palatium al centro di due fondi di complessivi 47 ettari a lavorativo e vigna, valutati quasi 2.000 lire. Nel complesso i beni in mano ai nostri monaci appaiono consistenti ed equivalgono in valore a quelli dell’abbazia vallombrosana cittadina di San Donato, stimati 28.702 lire; altri enti religiosi senesi risultano ancora più ricchi, come la Casa della Misericordia che possiede immobili per oltre 66.000 lire, e il monastero di San Galgano il cui patrimonio si può stimare vicino alle 150.000 lire (Cherubini, 1974, pp. 251-252; Barlucchi, 1991, pp. 67-68); al contrario, i beni di San Lorenzo al Lanzo, in origine monastero di famiglia degli Ardengheschi, risultano di molto inferiori, ammontano a circa 15.000 lire e sono localizzati essenzialmente intorno al sito abbaziale
(Angelucci, 2000, p. 122).
Anche se priva del materiale preparatorio, le cosiddette ‘Tavolette’ che per certe ricerche legate all’assetto del territorio sarebbero più utili, la Tavola di Torri opportunamente elaborata può dirci qualcosa sull’aspetto architettonico e urbanistico del paese. Le differenze più macroscopiche che si avvertono rispetto ad oggi sono rappresentate dall’assenza del Borgo, che prenderà corpo soltanto a partire dal XVI secolo; dalla mancanza di separazione fra l’abbazia e il resto del paese, e connessa a questo dall’estensione molto più modesta della piazza centrale, occupata da una fila di abitazioni; due gli accessi all’abitato, uno in alto dove oggi è il giardino della villa padronale, uno verso il piano all’altezza di via delle Cantine; nella zona della piazza centrale si trovavano la chiesa parrocchiale di San Gregorio e uno spiazzo con un frantoio, mentre l’edificio del forno sembra collocato verso il fondo del paese. Pure in questo caso siamo di fronte ad una ricostruzione ipotetica, anche se molto probabile: se avessimo i dati delle abitazioni in possesso ai cittadini senesi potremmo essere più precisi. Da segnalare per gli storici dell’arte, in questo contesto, il fatto che all’interno dell’abbazia i chiostri risultano essere più di uno, dal momento che per designarli si usa il plurale plaustris17
Ma il Trecento rappresenta per le campagne, non solo quelle senesi, un momento critico di grosse trasformazioni, quasi tutte di segno negativo. Già gli anni ‘20 del secolo conoscono le prime carestie, un aumento della pressione fiscale sulle comunità del dominio e di conseguenza l’esodo di gran parte della ‘borghesia di castello’ dal contado in città in cerca di migliori condizioni e opportunità: ciò impoverisce di colpo il corpo sociale del territorio, privato dei suoi elementi più dinamici. Anche in questo fenomeno Torri non fa eccezione e il maestro Ristoro Allegretti prenderà la cittadinanza senese negli anni ‘20, così come il più ricco abitante della vicina Rosia, un fabbro, e i più ricchi monticianini, coinvolti nella produzione del ferro (Barlucchi, 2020, p. 249): i centri della ‘zona industriale’ senese si stanno ruralizzando, ma si tratta di un movimento avvertibile dappertutto e anche nel territorio soggetto a Firenze. Parallelamente a questo, l’investimento in terre e appezzamenti effettuato da cittadini, processo iniziato già nella seconda metà del Duecento, emarginava progressivamente la piccola proprietà locale al cui posto nasceva il podere compatto ceduto a mezzadria, indebolendo ulteriormente il tessuto sociale delle campagne (Cherubini, 1974, pp. 51-119).
Il nostro paese per giunta venne messo a ferro e fuoco nel gennaio del 1333 (non 1332, come vuole il Canestrelli) dalle truppe pisane comandate dal fuoriuscito ghibellino fiorentino
Ciupo degli Scolari, episodio da inquadrare nell’ambito del confronto fra Siena e Pisa per il controllo di Massa Marittima. L’esercito nemico accorso in aiuto di Massa risalì la valle dell’Ombrone e poi quella del Merse devastando e prendendo prigionieri, finché si fermò a Rosia inutilmente fronteggiato dalle truppe senesi, forti di 800 cavalieri e di un numero imprecisato di fanti, che si attestarono proprio a Torri: nonostante le provocazioni, i senesi comandati dal famoso Guido Riccio da Fogliano non ingaggiarono battaglia ma lasciarono che i pisani sfilassero per la Montagnola in direzione di Volterra (Ciucciovino, 2011, p. 360). Non sono noti con precisione i danni sofferti dal paese, ma certo la sanguinosa incursione non deve essere stata indolore e comunque di sicuro vennero semidistrutte le gualchiere di Mallecchi che furono impossibilitate a lavorare per alcuni anni (Giacchetto, 2019-20, p. 126).
Poco dopo fu la Peste Nera a svolgere il suo tragico compito: anche se ci mancano dati precisi, non abbiamo dubbi sul fatto che il paese abbia subito un colpo ulteriore. Eloquente è la chiusura della chiesa parrocchiale di San Gregorio e l’apertura al culto della chiesa abbaziale, ristrutturata a tale scopo nella seconda metà del Trecento (Canestrelli, 2015, p. 45).
Abbiamo poi attestazioni indirette sull’impoverimento di uomini e di ricchezze subito in quel periodo non solo da Torri ma da tutta la zona affacciata sulla valle del Merse: all’interno del Consorzio del padule d’Orgia si moltiplicarono infatti gli attriti fra i proprietari cittadini e i sempre più immiseriti e rarefatti numericamente proprietari comitatini, mentre le diminuite necessità alimentari della popolazione inducevano a convertire in pascolo per il bestiame terreni già bonificati (Gelli, 2014). Il Consorzio faceva sempre più fatica a riscuotere i denari necessari alla manutenzione delle fosse al punto che a partire dagli ultimi decenni del Trecento la palude cominciò a riguadagnare terreno sconvolgendo l’assetto di un’area che agli inizi del secolo era considerata tra le più fertili e fruttifere di tutto il contado.
Tale vasto processo storico, tutto sotto il segno dell’impoverimento della società abitante le campagne, registra per Torri un punto di arrivo e insieme di svolta ai primi del Quattrocento, quando il paese doveva essere quasi spopolato al punto da indurre i governanti cittadini a sollecitarne il ripopolamento con famiglie contadine immigrate dall’area fiorentina allettate da esenzioni fiscali. La situazione è spiegata bene dalla petizione in saporoso volgare presentata dagli abitanti del paese alle autorità senesi nel 1414:
"Dichiarano che dal tempo delle «taxe vechie» erano più di 50 uomini, «puoi per cagione di chi ha tenuto per li tempi passati la Badia di Torri et e’ cittadini v’anno auto a fare, tuti l’uomini v’erano si so’ partiti perché non v’avevano beni propri, anzi tutti stavano per mezaiuoli et siamo visuti a comuno rotto et con pocho ordine»; ora, dopo uno sgravio, sono soltanto 10 uomini, quasi tutti fiorentini, «venuti da I anno in qua ad abitarvi in deto castello "(Ginatempo, 1988, p. 239).
In poche righe i torrigiani dell’epoca sintetizzano un processo plurisecolare, stigmatizzando la grettezza dell’amministrazione abbaziale e dei senesi, proprietari di gran parte dei terreni, causa prima della trasformazione dei piccoli proprietari terrieri in affittuari di poderi a mezzadria; poi la fuga dei mezzadri quando le loro condizioni si sono fatte insostenibili e di conseguenza la fine della comunità come istituzione (il «comuno rotto»), infine l’immigrazione di questi fiorentini stranieri, relativamente ai quali possiamo solo immaginare gli attriti e gli episodi di ostilità.
Il Quattrocento segna anche la fine della presenza vallombrosana nel paese: ai primi del secolo l’abbazia è data in commenda e nel 1462 definitivamente soppressa da papa Pio II che nomina gli arcivescovi di Siena abati perpetui (Canestrelli, 2015, p. 22). Si apre quindi tutto un nuovo scenario per il paese che viene trasformato profondamente cominciando ad assumere il volto che ancora oggi porta: tutta da indagare è l’operazione urbanistica che conduce all’apertura del Borgo, alla separazione fra gli edifici abbaziali e il paese per mezzo di un’alta muraglia e all’apertura della piazza centrale, sproporzionata in relazione all’abitato. Si tratta di modifiche strutturali avvenute a partire dal XVI secolo, anche indotte dal saccheggio subito da Torri nel 1530 ad opera delle truppe di Ferrante Gonzaga che qui si acquartierarono (Canestrelli, 2015, p. 23): per questa epoca però chi scrive non ha competenze, è giunto quindi il momento di chiudere questo contributo e lasciare la parola agli storici dell’Età moderna.
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