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Le cose degli altri Racconti migranti attraverso gli oggetti
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Le cose degli altri Racconti migranti attraverso gli oggetti
a cura di Giuseppe Lotti e Debora Giorgi
Le cose degli altri Racconti migranti attraverso gli oggetti
stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus
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Le cose degli altri Racconti migranti attraverso gli oggetti
la rosa primigenia esiste solo nel nome, possediamo soltanto nudi nomi Umberto Eco, 1980
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Mostra Le cose degli altri. Racconti migranti attraverso gli oggetti Ritratti fotografici di richiedenti asilo con gli oggetti che per loro fanno casa
Grazie a:
A cura di Giuseppe Lotti, Debora Giorgi, Paolo Costa DIDA — Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze Foto Flavia Veronesi, Stefano Visconti (ITACAfreelance) Illustrazioni Alessandra Marianelli
progetto grafico
didacommunicationlab Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze
didapress Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze via della Mattonaia, 8 Firenze 50121 © 2017 ISBN 978-88-9608-074-0
con Caritas Firenze Grazie a: Il direttore: Alessandro Martini Il direttore dell’area richiedenti asilo: Marzio Mori Gli operatori: Ras Batapola Rasika, Lorenzo Benvenuti, Ilaria Boni, Ruggero Cama, Caterina Carelli, Matteo Cinelli, Claudio Fedi, Paolo Grassi, Lisa Marinai, Adou Moussa, Caterina Nannelli, Marco Papucci, Giaffer Saiti, Monica Tentoni
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I Protagonisti Rofikul, 17 anni, Bangladesh; Abubakerr, 26 anni, Sierra Leone; Samsul, 20 anni, Bangladesh; Monir, 21 anni, Bangladesh; Fouseni, 27 anni, Togo; Onochie, 26 anni, Nigeria; Sanwar, 20 anni, Bangladesh; Ibrahim, 19 anni, Afghanistan; Munawar, 50 anni, Pakistan; Yunkuba, 19 anni, Gambia; Mohammed, 21 anni, Mali; Monir, 21 anni, Bangladesh; Ismail, 21 anni, Mali; Jaher, 27 anni, Bangladesh; Mustapha, 22 anni, Gambia; Musa, 18 anni, Gambia; Ahmadzai, 30 anni, Afghanistan; Alfred, 31 anni, Nigeria; Alia, 40 anni, Bangladesh; Sohag/Mohammad, 29 anni, Bangladesh; Hablaye, 21 anni, Senegal; Madio, 21 anni, Senegal; Mahabub, 19 anni, Bangladesh; Ataum, 19 anni, Bangladesh; Muzammal, 28 anni, Pakistan; Shakurta, 29 anni, Pakistan; Shahid, 23 anni, Pakistan; Luoman, 31 anni, Pakistan; Wakara, 31 anni, Pakistan; Khurram, 26 anni, Pakistan; Quoudi, 40 anni, Senegal; Moussiliou, 30 anni, Togo; Muhammad, 35 anni, Afghanistan; Ensahuiiah, 28 anni, Afghanistan; Daniel, 29 anni, Nigeria; Mamadou, 17 anni, Senegal; Jennet, 24 anni, Ghana; Iduozee, 28 anni, Nigeria; Mildred, 24 anni, Nigeria; Jennifer, 21 anni, Nigeria; Francis, 21 anni, Nigeria
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INDICE
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Le cose degli altri, una mostra
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Racconti di cose
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Giuseppe Lotti
Debora Giorgi
Cose dal Sud del mondo Paolo Costa
Cose dal Mare di Mezzo Irene Fiesoli e Giulio Carlo Vecchini
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Fotografando gli altri, con le cose
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Le cose, noi e gli altri
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Flavia Veronesi, Stefano Visconti
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Alessandra Marianelli
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La mostra
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Cose nomadi Stefano Follesa
Cosa è la felicità Valentina Frosini
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Le cose che ci accompagnano Francesco Armato
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Le cose degli altri Racconti migranti attraverso gli oggetti
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Le cose degli altri, una mostra Giuseppe Lotti
Le disparità crescenti tra Nord e Sud del mondo, le conseguenze dei cambiamenti climatici — innalzamento della temperatura, desertificazione, siccità, carestie — la diffusione di conflitti hanno portato ad un incremento dei flussi migratori. Immediata conseguenza di quanto sopra è l’affermarsi di società plurali in cui individui provenienti da diverse parti del mondo convivono, si confrontano, si mischiano. Il fenomeno è stato, nel tempo, variamente interpretato dagli analisti sociali. Inizialmente si è parlato di integrazione intesa come necessità da parte dei nuovi venuti di adeguarsi alle regole culturali della società di arrivo. Successivamente si è visto nel multiculturalismo e dunque nel mantenimento dei modelli di partenza e nella convivenza tra diversità la soluzione democratica dei conflitti. Ciò ha portato però alla creazione di quartieri monoculturali che talvolta sono divenuti dei veri e propri ghetti. L’opzione attuale è quella della scelta interculturale in cui si afferma che è necessario che da entrambe le parti — quella di chi arriva ma anche quella del residente — si faccia un passo avanti e che, al tempo stesso, devono esistere regole condivise basate sui principi universali — uguaglianza tra i sessi, parità sul lavoro, tutela dell’infanzia. Il confronto con l’Altro fa sì che ci conosciamo meglio e, inevitabilmente, un po’ ci cambia.
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Lo scambio si manifesta a più livelli. La cucina, innanzitutto, che, da sempre, è espressione di scambio culturale. E poi la musica, la letteratura, il cinema. Ed ancora gli oggetti. Le cose degli altri assumono diversi aspetti. Ci sono i pochi oggetti che i migranti portano con sé, quelli che vendono in mercati ambulanti e negozi etnici — spesso banalizzazioni di ben altre produzioni —, ma anche le nostre case sono sempre più piene di prodotti che ci parlano di altre parti del mondo. Anche il design si è confrontato con il tema attraverso progetti di cooperazione nei Sud del mondo e nel lavoro di aziende che, sempre più spesso, recuperano savoir faires, tecniche e materiali di paesi altri. In tale scenario l’Italia occupa un ruolo particolare. Per una vocazione naturale allo scambio: gli italiani sono per storia e tradizione popolo di migranti. Ma anche per la posizione che il nostro paese occupa dal punto di vista geografico, come diaframma tra Nord e Sud del mondo. Tre anni fa con un gruppo di colleghi abbiamo cominciato ad interrogarci su questo tema che ci appariva estremamente contemporaneo e ci coinvolgeva fortemente anche sul piano emotivo. Un mondo, quello delle cose degli altri (anche chi ci è particolarmente vicino), che non conosciamo. Operiamo, a più titolo, sulle cose che
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ci circondano ma con i nostri progetti ci rivolgiamo ad una piccola parte del mercato — il 10% del mondo individuato nella mostra Design for the other 90%1. Un tema in parte toccato in mostre e pubblicazioni2, ma mai con lo sguardo di chi lavora sulle discipline del progetto. Così abbiamo cominciato a strutturare il concept di un’esposizione. Poi il tema è diventato ancor più drammaticamente attuale. Con i mass media che ogni giorno ci raccontano il dramma di bambini, donne e uomini che cercano di attraversare il Mediterraneo con esiti spesso tragici. E, parallelamente, una cronaca che, insieme alle tante storia di integrazione, ci descrive anche l’assurdità di alcuni italiani che, nel negare l’accoglienza, si dimenticano che anche noi un tempo, non così lontano, siamo stati migranti. L’occasione della prima edizione di COSè, noi e le cose il festival —una manifestazione di quattro giorni, per più di 50 eventi dedicati a bambini, ragazzi ed adulti — è stata lo spunto per dare concretezza al progetto. Così la scelta della partnership con l’individuazione della Caritas, nei
Smithsonian Institution 2007, Design for the other 90%, Cooper-Hewitt, National Design Museum, New York. 2 Munapé K. (a cura di) 2012, (S)oggetti migranti. Dietro le cose le persone, Espera, Roma. 1
suoi centri accoglienza di Calenzano, Sesto Fiorentino e Campi Bisenzio, come motore dell’iniziativa. E la necessità di un allargamento del gruppo di lavoro a competenze indispensabili ad affrontare la complessità del tema — il lavoro di Paolo Costa, sociologo dell’Università di Firenze, che attraverso la costruzione delle schede e la guida nelle interviste ai richiedenti asilo, ha dato al progetto metodo e rigore scientifico. E al momento in cui è cominciato il lavoro — nessuno di noi dimenticherà l’iniziale diffidenza dei richiedenti asilo che poi si è trasformata in un partecipato backstage fotografico —, la scoperta che queste cose degli altri nella maggior parte dei casi non c’erano più, perse nei sogni del paese di origine e, spesso, nei drammatici ricordi del durissimo viaggio. Da qui l’idea di ridisegnarle, attraverso il lavoro di una giovane illustratrice, Alessandra Marianelli, a rievocare il passato, una presenza-assenza, quasi onirica e, al tempo stesso, con la freschezza dell’illustrazione, a sdrammatizzarne il significato. Disegni che sono andati a completare le foto di ITACA freelance, in bianco nero, con l’unica nota di colore per la storia delle 5 donne migranti, quasi a raccontarne l’energia contagiosa. Ci siamo infine interrogati sulla location e ci è sembrato giusto presentare l’esposizione a i Gigli, un grande centro commerciale, che nei tre giorni di durata dell’esposizione ci avrebbe garantito quasi 500.000 visitatori — nella consape-
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02 volezza che il nostro obiettivo era proprio quello di una sensibilizzazione il più possibile allargata. Poi la cronaca dell’esposizione con l’arrivo, prima spaesato e poi fortemente coinvolto, dei richiedenti asilo e la fruizione nei quattro giorni del festival in cui la normale presenza dei tanti migranti a i Gigli si è confusa con le foto a creare un mix di cui è difficile intuire le ricadute. La mostra e il catalogo Le cose degli altri sono la dimostrazione di come dalle discipline del progetto — in questo caso design, fotografia d’autore, illustrazione, mentre altrove ci siamo soffermati su altre direzioni di lavoro3 — può venire un contributo, inevitabilmente parziale, ma comunque importante, su uno dei temi più difficili della contemporaneità, nella diffusione di un modello di società realmente interculturale.
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Debora Giorgi
Scrive Marc Augé: Coloro che fuggono davanti alla miseria, alla fame o alla tirannia, alle violenze della natura e della Storia, e che si gettano a volte in mare mettendo in pericolo la propria stessa vita, vivono in una logica del tutto o del niente, del “si salvi chi può”, e tagliano ogni legame con il luogo d’origine, anche se agiscono nella speranza di poter aiutare in seguito quelli che hanno lasciato a casa. È il momento della fuga insensata. L’esercito disordinato dei sopravvissuti sbarca sulle spiagge dell’esilio già ingombre dei cadaveri che il mare ha rigettato: strano paradiso, quello che in genere, molto rapidamente, prende la forma di campi di internamento. L’altro mondo, quello al quale vorrebbero accedere e che continua a sfuggirgli, non riescono mai a raggiungerlo. Resta un miraggio, anche per chi riesce a penetrarvi clandestinamente. Non c’è niente di più tragico del destino di questi individui presi in trappola tra due negazioni: quella dell’origine e quella del presente, ma condannati a sperare, tuttavia, o piuttosto a ripetere, per sfuggire al nonsenso totale (Augé, 2010)1.
È in questo limbo spazio-temporale che si trovano migliaia di persone approdate nel nostro paese e che noi tendiamo a immaginare solo come una massa priva di individualità: queste sono le immagini che ci trasmettono la televisione e i media. L’identità individuale scompare nella percezione generale. Allora ci sono “gli immigrati”, “i Augé M. 2010, I nuovi confini dei non luoghi — In aeroporti, stazioni, supermercati: miseria e abbondanza, turismo e migrazione, «Corriere della Sera», 12 luglio 2010.
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Cfr. Lotti G. 2012, Progettare con l’altro. Necessità opportunità, Ets, Pisa; Lotti G. 2015, Design interculturale. Progetti dal mare di mezzo, DIDApress, Firenze.
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Racconti di cose
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rifugiati”, “i richiedenti asilo”, in una parola “gli altri”. Queste categorie — spesso usate in maniera indiscriminata e sovrapponibile — tendono ad annullare le differenze, l’unicità della persona, in un processo di de-costruzione dell’identità personale: l’altro diventa semplicemente un “non identità”. La rapidità e l’importanza del fenomeno migratorio, anche in termini numerici, mette in crisi le certezze nazionali e le identità locali. L’arrivo in un territorio di un numero crescente di persone portatrici di “diversità” mette in evidenza le debolezze e le fragilità della comunità che accoglie che, in qualche modo, si sente minacciata dal proprio confronto con la diversità. Per questo si crea una un’immagine stereotipata dei migranti, dei rifugiati, di tutte quelle persone che arrivano da un altrove, che contribuisce a semplificare la realtà rendendo più accettabile e comprensibile la complessità dell’altro. La presenza dello straniero mette in dubbio l’integrità e il controllo del gruppo autoctono (controllo del territorio, delle tradizioni, della cultura); così in questo stereotipo dello straniero si riflettono proprio le tensioni interne della società ospitante2. Gli stereotipi assumono valenze negative, cosicché si crea una frattura: noi e loro.
Ancora di più, se è vero che l’identità del sé si definisce proprio a partire dalla relazione con l’altro da sé, questo processo si trasforma in una doppia negazione, la rappresentazione dell’altro come diverso e che incarna tutta la negatività e il rifiuto, che si trasforma in affermazione di un’identità in apparenza forte, ma che ne maschera tutta la debolezza e incertezza. Identità personale ed identità culturale sono il nucleo del valore di un individuo e di una società. La negazione dell’identità può condurre sul piano psichico a devianze comportamentali gravi e ad una sofferenza infinita. Ma, ancora di più, la negazione o la distruzione dell’identità culturale di un gruppo sociale o di un popolo conduce inevitabilmente al sottosviluppo sociale ed economico, ad una società schizofrenica che non si riconosce in alcun valore. Come afferma Serge Latouche: Le sous-développement résulte de la destruction de la cohérence culturelle des sociétés3. Al di là della consapevolezza di sé, l’identità individuale ha bisogno del riconoscimento dell’altro. Proviamo ad immaginare come ci si possa sentire essendo invisibili. Nessuno ci vede, ci ascolta, è interessato a ciò che siamo e facciamo. In più ci troviamo in un luo-
Parati G. 1998, Lo sguardo dell’altro, in A. Ramberti, R. Sangiorgi (a cura di), Destini sospesi di volti in cammino, Fara editore, Rimini.
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Latouche S. 1984, Déculturation ou sous-développement, «Tiers-Monde» Anno 1984, vol. 25, n. 97.
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go sconosciuto, non abbiamo riferimenti spaziali, sociali, formali. Non abbiamo uno status politico né sociale. Tutto ciò che ci era familiare è lontano e praticamente irraggiungibile. In breve, non esistiamo. Proviamo ad immaginare e per un momento a trasferirci al posto degli ALTRI. Lo straniamento, lo spaesamento di trovarsi in un luogo altro, sconosciuto, di cui non capiamo la lingua, i codici comunicativi. La lontananza, la perdita di una propria identità, il senso di non appartenenza. A volte si lascia qualcuno, gli affetti più grandi, ed allora lo straniamento diventa lacerazione. A volte si fugge da qualcosa di opprimente, di violento, di difficile, ed il potere essere finalmente altrove ci dà un senso di libertà, di poter infine respirare. Ma questa libertà non può essere a prezzo di recidere tutti i legami; esiste sempre una parte di noi che affonda le sue radici nel terreno delle nostre origini, con cui abbiamo bisogno di identificarci, di ritrovarci. I suoni, i colori, gli odori, i sapori, le forme, gli spazi, le voci, che popolano i nostri sogni. Quando l’euforia del trovarsi in un nuovo mondo, l’adrenalina necessaria ad affrontare una situazione completamente nuova, si esauriscono, ecco il bisogno di ritrovare il nucleo profondo del nostro essere, di sapere che apparteniamo a qualcosa o a qual-
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cuno altro da quello che ci circonda e in cui non riusciamo proprio a riconoscerci. Così abbiamo provato a pensare, nel modo in cui siamo capaci, a come rendere visibili alcuni di questi individui. Noi ricercatori di design, ci occupiamo di cose, le studiamo, le progettiamo, le comunichiamo, ma ci occupiamo anche delle persone che hanno o avranno a che fare con queste cose. Le cose, almeno per noi, sono importanti, non solo per il loro valore economico, estetico o formale, ma soprattutto per quello che rappresentano e che riescono ad evocare. Le cose possono raccontare altre cose. Ci sono poche cose che i migranti possono portare con sé quando intraprendono il loro viaggio, nel caso dei rifugiati questi oggetti non ci sono proprio. Per questo li abbiamo immaginati e disegnati fra le loro mani, provando a rendere visibili le loro storie, ma anche per stimolare chi guarda a immaginare cosa sta dietro, a provare ad identificarsi con chi sta dall’altra parte. Ci sono gli oggetti dell’Affezione, perché gli oggetti fanno casa, ci aiutano a ricreare uno spazio nostro, un modo di riconoscersi. Una consolazione quando intorno tutto si fa freddo e buio. Come l’anello di Mohamed del Mali, che la madre gli ha regalato prima di partire ma che gli è stato rubato nei lunghi mesi passati in Libia, in attesa di trovare un passaggio verso l’Italia; o la moto-
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cicletta che è stata regalata a Mahabub, del Bangladesh, da suo padre, quando ancora era un ragazzino e che non ha potuto portare con sé, ma è felice nel ricordarla perché sa che ora è suo fratello ad usarla. Poi ci sono gli oggetti che si usano e che a volte rappresentano qualcosa di altro. Un modo di fare le cose, di mangiare, di cucinare, di vestire, tutte quelle azioni quotidiane che racchiudono la nostra cultura e ci identificano. Come racconta Hablaye del Senegal, la cosa che gli manca di più è il mangiare a tavola tutti insieme, dallo stesso piatto: mangiare significa condividere e la consapevolezza di essere al sicuro in una famiglia. Mangiato in quel modo il cibo ha un altro sapore, il sapore di casa. E niente è più consolatorio di un sapore familiare. O la maglietta con il logo della ditta per cui lavora il fratello di Shakurta, in Pakistan, che gli ha regalato quando è partito, e che in realtà non usa perché gli è troppo preziosa, così la custodisce gelosamente nel suo zaino, avvolta in un sacchetto di plastica per proteggerla. Poi, fare le cose: farle in un modo o in un altro esprime un modo di essere, abitudini, tradizioni, in una parola la propria cultura. Quanto della nostra cultura originaria, del nostro modo di fare le cose, trasferiamo sugli oggetti? Un telo di tessuto non è un telo, ma l’abito senegalese della madre di Maido, verde brillante ed allegro, che indossava il giorno in cui è partito per il suo lungo viaggio. Oppure l’aratro di Monir trainato dai buoi, che è passato da suo nonno a suo padre e poi a lui, e
che lui passerà a suo figlio, perché al suo paese, il Bangladesh, la terra si lavora così. E ancora la valigetta per il trucco di Mildred della Nigeria, estetista e truccatrice, o l’ago e il filo di Yankuba del Gambia, sarto, che in pochi minuti ha tagliato davanti ai nostri occhi un cartamodello, la cazzuola di Ismail del Mali, muratore, che gli ricorda che al suo paese aveva un lavoro e che oggi non ce l’ha. Oggetti che rappresentano il loro mestiere, di cui parlano con orgoglio, con nostalgia e anche con rassegnazione, avendo intuito che, nella nuova vita, non lo faranno più quel mestiere, che forse dovranno abbandonare anche questo. Sono cose, quelle di cui parlano i ragazzi in attesa di asilo incontrati nei centri di accoglienza della Caritas tra Firenze, Calenzano e Campi Bisenzio, che non hanno niente di esotico, che non sono affatto altri. Sono oggetti comuni per lo più, senza alcun valore economico nella maggioranza dei casi, ma resi preziosi dai ricordi, dai sentimenti, dalle emozioni, che raccontano. Sono cose che raccontano delle storie, e attraverso queste storie, alla fine, scopriamo che le cose degli altri sono le NOSTRE cose.
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Cose dal Sud del mondo Un progetto di ricerca-azione su rifugiati e spazi di cittadinanza Paolo Costa
La rapidità del nostro tempo ci spinge spesso a considerare come fortemente contingenti fenomeni che si rivelano in una luce totalmente diversa se analizzati in una prospettiva di lungo periodo. I movimenti migratori non sfuggono a questa distorsione. Sino dalla sua origine la specie umana ha sempre migrato. Sebbene le motivazioni che ci hanno spinto a spostarci siano molteplici, gli effetti che questi movimenti hanno prodotto sono stati benefici da molti punti di vista, anche in termini meramente evolutivi1. Adottando un’ottica storica e geografica più vicina a noi, il Mediterraneo è stato da sempre attraversato da flussi di uomini, che hanno prodotto trasformazioni profonde nei popoli che ne sono stati protagonisti2. In un tempo di forti emergenze socio-politiche, di guerre e di cambiamenti climatici, che si innestano a loro volta in un quadro generale di squilibrio crescente nella distribuzione delle risorse, tuttavia, questi movimenti sono sempre meno il frutto di scelte di libertà e sem-
Questa è, ad esempio, la tesi avanzata in Calzolaio V., Pievani T. 2016, Libertà di migrare. Perché ci spostiamo da sempre ed è bene così, Einaudi, Torino. 2 Esemplari sono le ricostruzione della storia del Mediterraneo offerte da Fernand Braudel, ad esempio in Braudel F. 1998, Les Mémoires de la Méditerranée, De Fallois, Paris. 1
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pre più di necessità impellenti, spesso legate alla sopravvivenza3. Questo genera flussi di uomini e donne che forzatamente si trovano a fuggire da condizioni spesso disumane, alla ricerca di spazi di vita e di umanità che si aspettano di trovare nelle società verso le quali si dirigono4. Negli ultimissimi anni questa tendenza è stata particolarmente pronunciata. Solo nel 2015, coloro che hanno attraversato il Mediterraneo per raggiungere le coste dei paesi dell’Europa del sud — prevalentemente l’Italia, la Grecia e, in misura minore, la Spagna — sono stati oltre un milione, una cifra molte volte superiore rispetto al passato5.
Sulla crescita delle disuguaglianze si veda, ad esempio, il rapporto 2014 di Oxfam, in cui si afferma che il 70% della popolazione mondiale vive in paesi in cui la disuguaglianza è più pronunciata di quanto non fosse trent’anni fa. Oxfam (2014), Even It Up: Time to end extreme inequality, Oxfam, London. 4 Secondo il rapporto dello United Nation Development Program, l’80% della popolazione mondiale non ha possibilità di accesso a una protezione sociale adeguata. In particolare, è nell’Africa sub-sahariana che si ha il più alto livello di diseguaglianza nel mondo. Vedi, United Nation Development Program 2015, Human Development Report 2015. Work for Human Development, UNDP, New York. 5 Secondo i dati diffusi con cadenza quasi quotidiana dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (www.unhcr.org), dal 2008 al 2013 gli arrivi avevano sempre oscillato tra i quasi 10.000 nel 2010 e i circa 70.000 del 2011. Il picco del 2015 è invece stato parzialmente anticipato dai circa 200.000 arrivi del 2014. 3
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Sebbene a livello europeo i dati parziali relativi al 2016 mostrino una diminuzione degli arrivi rispetto all’anno precedente, l’Italia presenta una situazione in controtendenza6. Questa crescita, purtroppo, riguarda anche i numeri di coloro che perdono la vita nel tentativo di attraversare il Mediterraneo (non solo verso l’Italia): se nel 2014 i decessi erano stati stimati in 3.500, nel 2015 sono stati 3.771, e in poco più di dieci mesi del 2016 sono già arrivati a 4.655. Siamo senza dubbio di fronte ad una delle più gravi crisi migratorie che hanno interessato il Mediterraneo negli ultimi decenni. La gran parte dei circa quaranta uomini e donne che hanno partecipato al progetto Le cose degli altri sono arrivati sulle coste del nostro paese proprio nel culmine di questa crisi, nell’estate del 2015. Quando, pochi mesi dopo, li abbiamo incontrati per la prima volta, per molti di loro erano ancora vivi i ricordi di un distacco e di un viaggio travagliato, durato a lungo, talvolta oltre due anni: in molti casi questo aveva significato attraversare gran parte dell’Africa, con i mezzi più diversi, anche a piedi. Indipendentemente dalla loro provenienza, tutti erano
6 In Italia, gli arrivi nel 2015 sono stati oltre 150.000; nel 2016 i dati aggiornati al 20 novembre raccontano di oltre 168.000 sbarchi, con un nuovo picco assoluto proprio nel mese di ottobre 2016. Vedi www.unhcr.org
accomunati dalla sosta in Libia, nell’attesa del momento giusto per la traversata verso le coste siciliane. Da alcuni mesi il loro viaggio si era però fermato, sospeso, presso tre centri della Caritas, a Campi Bisenzio, Calenzano e Sesto Fiorentino, nella piana tra Firenze e Prato. Questi centri ospitano prevalentemente uomini, con una presenza preponderante di ventenni e trentenni. Si tratta di rifugiati in attesa di un giudizio sulla loro richiesta di asilo, che provengono perlopiù da paesi occidentali dell’Africa subsahariana (Senegal, Gambia, Togo, Nigeria, Guinea, Sierra Leone e Mali) e da alcuni paesi asiatici (Bangladesh, Pakistan e Afghanistan), tra le origini più frequenti per coloro che giungono in Italia7. I tre centri sono molto vicini sia alla sede del Design Campus dell’Università di Firenze, luogo per noi di didattica e ricerca quotidiana, ma anche a i Gigli, il primo centro commerciale realizzato in Italia, due luoghi nei quali nel maggio 2016 avevamo organizzato le diverse attività di COSè festival. Questo festival, mirato a rendere espliciti alcuni dei processi socio-culturali, progettuali e produttivi che sottostanno al rapporto articolato che noi intessiamo con le cose, ci è parsa un’opportunità da non perdere per dare visibilità ai veri protagonisti del-
7 Il sito del Ministero dell’Interno riporta dati aggiornati mensilmente sui richiedenti asilo. Vedi www.interno.gov.it
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la crisi migratoria per rompere quella situazione di distacco dal resto della popolazione che spesso ne ignorava la presenza. Sono proprio le cose, l’oggetto del festival, ad aver offerto il pretesto per ricreare questo rapporto. Il progetto, infatti, è partito chiedendo agli ospiti dei tre centri di raccontare quali fossero le cose a cui essi sono più legati, quelle che dal loro punto di vista sono maggiormente in grado di raccontare loro stessi e la loro vita nei loro paesi di origine. Indagare questo tema richiede una particolare sensibilità, per non trascurare le inevitabili differenze di concettualizzazione proprie di culture diverse ma anche per superare le evidenti barriere linguistiche che ostacolano la comunicazione. Queste difficoltà hanno fatto propendere per l’adozione di uno strumento di indagine molto semplice, una scheda in tre lingue (italiano, inglese e francese) che, sebbene contenesse alcune brevi domande, era primariamente concepita in modo da stimolare una situazione di interazione, una relazione tra ricercatori e rifugiati8. L’interazione era resa meno difficoltosa dalla possibilità, sempre sfruttata, di disegnare, di fare uno schizzo degli oggetti e delle cose scelte dai rifugiati. Questa scheda è spesso stata un pretesto per generare un gioco collettivo, in cui più rifugia-
8 Vedi, Tusini S. 2006, La ricerca come relazione. L’intervista nelle scienze sociali, FrancoAngeli, Milano.
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ti cercavano di aiutare i ricercatori a capire quali fossero gli oggetti e i motivi delle loro scelte9. Se le cose che ci appartengono rappresentano una delle opportunità per l’espressione della nostra identità, l’aver rimesso nelle mani delle donne e degli uomini ospitati dai centri le cose da loro scelte — seppur in foto e in forma immaginaria — è stato un tentativo per restituire loro un pezzo di identità umana, di quell’identità così fortemente messa alla prova dal distacco dai loro paesi e dai loro affetti, dalle difficoltà del viaggio, dall’invisibilità sociale e dal senso di sospensione che inevitabilmente caratterizza la vita quotidiana dei rifugiati, in attesa che qualcun altro decida del loro futuro10. Il fatto che questo sia avvenuto in un centro commerciale, il tempio per antonomasia del consumo e del rapporto effimero con gli oggetti, ha rappresentato un ulteriore canale attraverso cui ristabilire una relazione tra coloro che lo frequentano e i richiedenti asilo. La possibilità offerta dalla foto di incontrare virtualmente (ma talvol-
Per un’analisi degli oggetti scelti dai rifugiati, si rimanda al saggio di Debora Giorgi, in questa pubblicazione. 10 L’attesa di una decisione sull’esito delle richieste di asilo dura talvolta mesi. Si tenga presente che in circa il 65% dei casi la richiesta viene respinta. Quando a questo segue un ricorso, comincia un nuovo periodo di attesa dopo il quale un eventuale ulteriore rifiuto porta ad un ordine di rimpatrio, non sempre eseguito. 9
Le cose degli altri Racconti migranti attraverso gli oggetti
04 ta anche fisicamente) i rifugiati, di cogliere che il loro rapporto con le cose può essere molto diverso, ma talvolta anche incredibilmente simile al proprio, nasconde infatti un altro obiettivo a cui questo piccolo progetto di ricerca-azione può puntare: offrire spazi di cittadinanza in uno spazio di consumo. Se i gesti e gli affetti legati alle cose possono spingere a riflettere sui diritti di cittadinanza negati ai migranti nel loro paesi di origine, c’è forse spazio per chiedersi come questi possano goderne anche nei paesi dove arrivano.
Cose dal Mare di Mezzo Irene Fiesoli e Giulio Carlo Vecchini
In occasione dell’edizione 2016 del COSè Festival1 — evento annuale sulla tematica dell’educazione alle cose — si è svolto un incontro sul tema dei migranti, che ha visto la partecipazione di Marzio Mori per Caritas, Debora Giorgi e Paolo Costa per l’Università degli Studi di Firenze nell’ambito del progetto fotografico Le cose degli altri e di Giulio Carlo Vecchini per il progetto della chitarra Mare di Mezzo. Qualche anno fa Giulio Carlo Vecchini, giovane liutaio di Cortona, ha cominciato a sviluppare l’idea di uno strumento che con la sua voce raccontasse la storia dei migranti nel Mediterraneo ed ha deciso di realizzarla con frammenti di legno dei barconi arrivati a Lampedusa. Ha impiegato sei mesi, durante i quali si è scontrato con le difficoltà del legno, così diverso dai legni usati in liuteria, ricercando un suono che riman-
1 COSè è un festival ideato da Comune di Calenzano, Università degli Studi di Firenze, Dipartimento di Architettura — DIDA, Convoi onlus e LibLab — libreria laboratorio per ragazzi. L’idea del festival nasce da una riflessione sull’educazione alle cose, per creare un modello di sviluppo maggiormente sostenibile. In Italia, come in tutti gli altri territori del mondo si fanno cose. Nel nostro paese si producono oggetti particolari: l’Italia è famosa per oggetti belli, di qualità e dall’alto valore aggiunto. In particolare la Piana che da Firenze arriva al mare è un’ infinita zona in cui si producono cose. Il luogo delle cose, quindi. Cose che popolano le nostre case e che, talvolta, per il loro numero sempre crescente, quando diventano rifiuti, finiscono per assediarci. Le cose devono dunque essere ripensate: occorre ridare un senso più profondo agli oggetti, ricreare con questi nuovi rapporti affettivi e allungarne così la vita.
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dasse al viaggio compiuto dalle barche e dalle persone, cercando di richiamare le loro voci e quella del mare. Ha chiamato la chitarra Mare di Mezzo, traduzione di Bahr Alwasat, “Mediterraneo” in arabo, che UNHCR ha scelto come simbolo della Giornata Mondiale dei Rifugiati (World Refugee Day), facendola suonare al concerto del 20 Giugno 2015 a Firenze e destinando i proventi ai rifugiati. Giulio racconta così l’origine del suo progetto:
Ho costruito una chitarra per loro. Una chitarra che dia voce a chi voce non ne ha. Una chitarra che canti le storie di genti che sono scomparse nella profondità del mare.
Nonostante viva lontano. Nonostante viva nel centro, protetto. Nel centro di un’Italia assonnata. Al sicuro. Nel mio laboratorio, circondato da strumenti e legni che cantano e parlano ciascuno con la sua voce. Nonostante viva nel centro, nel centro di questo paese, al sicuro. Nonostante sia nato qui. In questa terra di naviganti ed esploratori. Di emigranti e viaggiatori. Nonostante sia nato qui, al sicuro, in tempi che consentono di vivere e lavorare sviluppando le mie passioni, i miei sogni. Nonostante questo. Accendo la televisione, guardo telegiornali. Vedo barche che solcano il nostro mare, cariche di speranze e sogni, le vedo affondare nell’indifferenza generale.Sento storie così simili a quelle dei miei antenati. Cosi simili a quelle dei nonni dei miei nonni, emigrati in America un secolo fa per cercare fortuna. Storie di eroi. Storie di persone che rischiano tutto per dare un futuro migliore a se stessi e sopra ogni cosa ai propri figli. Nonostante tutto. Li guardo. Li sento vicini come se fossero sotto casa, come se mi annegassero davanti all’uscio. I miei occhi si gonfiano. Mi arrabbio, mi sento impotente. Nonostante tutto. Nonostante non sia la mia di storia. Nonostante io possa permettermi una normalità che è un lusso per altri, altri come me. Ragazzi, giovani alla ricerca di un sogno. Nonostante tutto.
Gente in viaggio, in movimento, in fuga da guerre e persecuzioni. Ci siamo quasi abituati a queste immagini e a sentir parlare dell’argomento migranti, così tanto da diventare insensibili e cinici verso queste persone. L’indifferenza generale in contrapposizione con la drammaticità dei fatti mi ha spinto a dire la mia su questo argomento, nell’unico modo che so fare. Costruire una chitarra.
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Una chitarra che canti i sogni di chi è riuscito a sbarcare. Una chitarra che dia speranza. Una chitarra che mi dia pace e mi faccia sentire che nel mio piccolo, come una goccia nell’oceano, ho fatto qualcosa, che non sono rimasto a guardare. I notiziari giornalmente ci propongono immagini di persone in fuga dal nord Africa e dal Medio Oriente.
Ho quindi cominciato a maturare l’idea di uno strumento che con la sua voce raccontasse la storia di queste persone ed ho deciso di realizzarla con i pezzi dei barconi arrivati a Lampedusa. Ho scelto questa particolare isola perché è la parte più a sud d’Italia e la più vicina all’Africa, solo 113 chilometri dalla costa tunisina. Un puntino in mezzo al mare. Reperire il materiale per la chitarra non è stato semplice. A Lampedusa c’è un enorme cimitero di barche arrivate dall’Africa ma è tutto materiale sequestrato e non è possibile accederci. L’associazione On The Move si è presa a cuore il progetto e, tramite la giornalista e scrittrice Flore Murard, abbiamo trovato il contatto di Francesco Tuccio, un falegname di Lampedusa che ha realizzato con i pezzi di barche la croce di Papa Francesco. Lui è l’unico in tutta
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l’isola che ha accesso a questo deposito e una volta spiegatogli il progetto ha acconsentito a spedirci a Cortona delle tavole. Il materiale preciso per costruire una chitarra, una sola. Non è avanzato niente. La conclusione del progetto avverrà quando la chitarra terminerà di suonare, acquistando valore e venendo battuta all’asta. I proventi finanzieranno un progetto di sensibilizzazione dell’opinione pubblica nei confronti dei movimenti migratori del Mediterraneo.
Nel suo viaggio, la chitarra Mare di Mezzo, è stata suonata da grandi musicisti come Carlos Santana, Jovanotti, Verdena, Luca Barbarossa, Zen Circus e Bandabardò, ha partecipato al Pistoia blues, al Live Rock Festival di Acquaviva fino ad approdare al COSè Festival, per raccontare attraverso la musica il dolore di persone in fuga dalla guerra e dai suoi orrori. L’accoglienza dei migranti passa anche attraverso una migliore comunicazione e il COSè Festival ha voluto dunque raccontare alcune storie di migrazione, per solidarietà con persone che hanno perso tutto, riuscendo quindi a svolgere un’ attività di socializzazione e inclusione, creando un’ opportunità di integrazione che dovrebbe diventare un punto di riferimento per ogni progetto. Aver fatto parte del team che si è occupato del progetto Le cose degli altri, guidato da Giuseppe Lotti, è stata un’ esperienza che mi ha arricchito culturalmente ed umanamente. È stato importante visitare i centri di accoglienza per capire i bisogni di queste persone che sono alla ricerca di un’opportunità di vita. Occhi che parlano più delle parole. Che ti la-
sciano immobile, come congelato, di fronte a chi ha dovuto affrontare e superare tanto, troppo, solo per avere la speranza di vivere una vita migliore, solo per poter avere un sogno. Occhi che osservandoli attentamente ti fanno capire che la lontananza che ci separa non è poi così grande come appare. Questa è stata la prima sensazione che ho avuto entrando nel centro di accoglienza di Calenzano, al quale hanno poi fatto seguito gli incontri nei centri di Sesto Fiorentino e Campi Bisenzio. Entri in questi luoghi così carichi di tensione, una tensione per alcuni aspetti positiva e per altri negativa, perché percepisci l’immobilità a cui queste persone sono costrette, obbligate per legge a non “poter far niente”, ad essere solo una categoria a cui la società non permette di esprimere alcun contributo, perché in “attesa di giudizio”. Così torni a casa e rifletti. Rifletti su quanto è semplice la tua vita, su quanto è bella, libera, su come per te sognare sia così facile e “possibile”. Non possiamo più aspettare, non possiamo più rimanere fermi a guardare un fenomeno che così prepotentemente si sta infrangendo su di noi, dobbiamo fare qualcosa adesso. Ho iniziato così a prendere coraggio e a cercare di immergermi nel mondo e nella vita di queste persone, per quanto fosse possibile in così poco tempo capire la difficoltà di un problema tanto complesso e profondo. Ho conosciuto Yankuba mentre cercavo di spiegargli quale fosse l’intento del nostro progetto e
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l’importanza che la mostra Le cose degli altri avrebbe avuto in termini di comunicazione all’interno del COSè Festival e più in generale nella società. Non è stato facile comunicare perché la differenza di lingua ci impediva una comunicazione fluida e le resistenze iniziali non hanno aiutato, però ci siamo riusciti, grazie soprattutto al lavoro svolto dal team che ha operato nel al progetto utilizzando conoscenze e approcci provenienti da diversi ambiti. Sembrerà banale ma nel preciso momento in cui Yankuba ha compreso quali fossero davvero i nostri intenti e la volontà assoluta di mostrare a tutti le loro storie, raccontate da loro, i suoi occhi sono cambiati. Si sono come accesi, di una luce nuova, quasi infantile. È corso nella sua stanza ed è ritornato dopo pochi istanti con dei pezzi di carta e delle forbici. Mi ha fatto cenno di osservarlo bene e, mentre lo guardavo, ha realizzato dei perfetti cartamodelli di una maglia e delle sue maniche. Aveva capito davvero. Aveva capito cosa stavamo cercando di fare nel nostro piccolo. Raccontare chi era e soprattutto chi è. Raccontare cosa lui potrebbe fare all’interno della nostra società, per non essere più un peso, ma una risorsa imprescindibile. Perché questo sarebbe il sogno di Yankuba, il sogno di ognuno degli uomini e delle donne che abbiamo incontrato per questo progetto. Sicuramente, Le cose degli altri è una piccola iniziativa nell’ottica di una risoluzione effettiva del problema dal punto di vista dell’inclusio-
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ne sociale dei rifugiati, ma sicuramente ha avuto grande impatto in termini sia di visitatori della mostra (allestita per una settimana nella corte centrale de I Gigli2) che di attenzione mediatica, permettendoci di capire concretamente che qualcosa può e deve essere fatto, da parte nostra e di tutti. Vi ho parlato dei loro occhi quando li ho incontrati per la prima volta, ma vi assicuro che rivederli mentre osservavano le loro foto esposte durante l’inaugurazione della mostra, oppure all’incontro nel quale tutto il progetto veniva raccontato, rimarrà una delle immagini più belle che abbia mai visto e, anche se in piccolissima parte, contribuito a realizzare.
Risulta di particolare interesse che un tema come quello dei rifugiati abbia riscosso l’interesse di un centro commerciale come I Gigli che nell’immaginario collettivo è molto più concentrato su tematiche “superficiali” legate all’acquisto. Invece la direzione de I Gigli ha sposato con entusiasmo questa idea, spiegandoci che la maggioranza dei clienti del centro commerciale provengano in larga percentuale da diverse parti del mondo. Inoltre questa location ha permesso una visibilità alla mostra di quasi 500.000 visitatori.
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Fotografando gli altri, con le cose Flavia Veronesi, Stefano Visconti
Interpretare e mostrare attraverso la fotografia un tema complesso come quello proposto dal progetto Le cose degli altri è senza dubbio una sfida interessante che nasconde molte insidie. Nell’approcciarsi alla diversità infatti, in particolar modo quando questa si manifesta sotto forma di persone che hanno vissuto un disagio sociale, un abbandono, una fuga, è molto facile ed assai frequente cadere nei classici cliché. Quando abbiamo deciso di accettare l’incarico che ci ha portato ad intraprendere questo progetto fotografico eravamo perciò molto spaventati e al tempo stesso fortemente motivati nel voler affrontare un argomento così attuale in modo da risultare originali, cosa oggi quasi impossibile. La prima volta che ci siamo recati in una delle strutture di accoglienza dove in seguito avremmo dovuto predisporre uno dei set fotografici, abbiamo compreso come non fosse possibile scattare un ritratto credibile che non risultasse banale, imponendo a queste persone il nostro punto di vista nel raccontare la loro vita e gli oggetti a loro cari. Nei tre centri visitati abbiamo fotografato uomini e donne di culture molto differenti che trovano un comune denominatore nell’essere fuggiti da situazioni difficilissime e nell’essersi lasciati alle spalle tutto ciò che possedevano.
Nonostante la grande distanza culturale e linguistica tra loro e noi, sono bastati sorrisi e gesti amichevoli per abbattere la diffidenza iniziale e generare una curiosità creativa e propositiva, che ci ha permesso di realizzare i servizi, senza forzature, senza sovrastrutture, con entusiasmo e partecipazione attiva. Quello che ne è emerso è un progetto foto-grafico che non ha la pretesa di interrogare gli animi sul tema della guerra, della sofferenza o della mancanza, ma che si avvale della sincera bellezza e della dignità di queste persone, per riflettere sull’importanza di quegli oggetti che tanto si danno per scontati in una società dove normalità è diventato sinonimo di surplus e che rappresentano invece la speranza e l’identità di altri.
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Le cose, noi e gli altri Alessandra Marianelli
“Cosa”: vocabolo generico che sostituisce un termine proprio, concreto o astratto, ricevendo determinazione dal contesto1. Per Platone2 le cose sensibili sono copie delle idee, archetipi perfetti che si trovano nell’iperuranio. Hanno quindi una stretta correlazione, ed esistono l’una grazie all’altra. Significa quindi che una cosa, anche se non è concreta ma semplicemente astratta, non perde la sua importanza. Sono partita da così lontano per far capire che il concetto da trasmettere grazie a questa mostra ha radici profonde ed empiriche. Le cose non smettono di essere tali quando non sono presenti, hanno una loro identità. Secondo Walter Benjamin3 l’opera d’arte suscita nel fruitore una sensazione legata all’aura di quest’ultima, ma al giorno d’oggi, tramite la riproducibilità delle cose, questa sensazione sembra scemare. A questo punto subentra l’importanza che ogni individuo regala all’oggetto che diventa suo, al carico emotivo che spende sulla “cosa”, la quale non avrà insita il concetto di “aura”, ma susciterà nei sui confronti un nuovo tipo di sentimento, che sarà più longevo e vincolante perchè personale. Questo concetto è molto difficile da trasmettere: possiamo provare http://dizionari.corriere.it/dizionario_italiano/C/cosa.shtml Platone, La Repubblica, edizione 2006, Laterza, Bari. 3 Benjamin W. 2000, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino. 1
con le parole, ma non parliamo tutti la stessa lingua, possiamo provare con i gesti, i quali però non sono eterni e visibili. Con questo progetto abbiamo quindi provato ad utilizzare un altro linguaggio: la comunicazione visiva. Munari scrive al riguardo: Conoscere la comunicazione visiva è come imparare una lingua, una lingua fatta solo di immagini che hanno lo stesso significato per persone di qualunque nazione e quindi di qualunque lingua. La comunicazione visiva è la trasmissione di un messaggio tramite un’immagine, che rappresenta in maniera metaforica la realtà. La comunicazione per immagini permette di raggiungere il massimo effetto comunicativo nel più breve tempo possibile, grazie al suo forte potere di richiamo, alla sua spesso immediata comprensibilità e alla facilità di memorizzazione. (Munari, 1968)4
Cade quindi la torre di Babele, non ci sono più lingue che creano scudi tra le persone, ma solo immagini. Immagini che in questo caso vogliono ricordare le cose che tanto erano e sono care agli altri. Ma chi sono gli altri? Gli altri sono Samsul, Monir, Yunkuba, ma siamo anche noi e voi. Il lavoro che abbiamo svolto è stato quindi prima di conoscenza, ed in seguito di rappresentazione. Abbiamo capito che il nostro mondo di
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Munari B. 1968, Design e comunicazione visiva, Laterza, Bari.
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progetti e disegni poteva collimare con un tema di così ampio respiro e quindi, dopo aver ascoltato e capito le storie di coloro che prima per noi erano gli altri, abbiamo fatto due passaggi importanti: il primo da parte dei fotografi, che dovevano cogliere la persona ed il suo ricordo, ed il secondo da parte mia. Il compito di una illustratrice è quello di disegnare quello che vede e che non vede, la cosa e l’idea. Ho così cominciato a disegnare quello che non c’era addosso a qualcuno che invece era davanti a me, e che aveva voglia di rivivere l’emozione provata tramite quella cosa. Il risultato l’ho colto a pieno il giorno dell’inaugurazione, quando ho visto i ragazzi commuoversi davanti alle loro foto ed al loro ricordo. Non era più importante da dove venivano e dove stavano andando, c’era solo il hic et nunc, qui e adesso, il resto sarebbe venuto da sé. Il design è la manifestazione della capacità dello spirito umano di trascendere i propri limiti. (Nelson, 1957)5
Con questa mostra abbiamo provato a dimostrare che il design non è solo apparenza, ma anche contenuto, che può dividere, ma anche unire, e ci può rendere tutti uguali.
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Nelson G. 1957, The problem of design, Whithey Publications.
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La mostra
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L’anello che mi ha regalato mia madre. L’ho perso durante il viaggio in Libia.
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L’aratro. Io sono un contadino. Mio nonno l’ha dato a mio padre e lui a me e io lo darò a mio figlio.
Il cappello. Mi ricorda le piantagioni di riso dove lavoravo.
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La mazza da cricket. Me l’ha data mio padre quando ero piccolo e andavo a scuola.
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La macchina. Ăˆ il mio sogno poter guidare ancora la mia macchina.
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La maglietta. Me l’ha regalata mio fratello quando sono partito ed è quella della ditta per cui lavora.
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Secchio e cazzuola. Ho fatto spesso il muratore. Mi ricordano quando avevo un lavoro.
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La moto giocattolo. Ci giocavo fuori da casa. Me l’ha data mio padre quando avevo 10 anni e ora la usa il mio fratello più piccolo.
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Il portafoglio. Me lo ha regalato mia moglie prima di partire.
Il ceebu jen. Mi ricorda la mia famiglia, perchĂŠ si mangia tutti assieme da un unico grande piatto. (Ceebu Jen: piatto della tradizione senegalese a base di riso, pesce e verdure)
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Stoffa e forbici. Nel mio paese sono un sarto.
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Il vestito che portava mia madre quando mi ha salutato. Era tanto preoccupata e mi ricorda lei.
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La zappa. Mio nonno era contadino, mio padre era contadino, io sono contadino e mio figlio, che ha 12 anni, farĂ il contadino.
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La bicicletta. Me l’ha regalata mio padre quando avevo sei anni. Ce l’ho ancora, da tredici anni.
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Un quadro di rose. L’ha dipinto mio zio e mio padre me l’ha regalato; è ancora a casa mia.
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Il telefono. Me l’ha regalato mia moglie per chiamarla una volta arrivato in Italia: è un modo per ricordarmi di lei.
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L’occorrente per il make up. Truccavo e acconciavo le spose per i matrimoni.
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Le pettinature tradizionali del mio paese. Io sono un’acconciatrice
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Il microfono. Io sono una cantante e adoro cantare le canzoni cristiane in chiesa ed alle feste.
Le acconciature tradizionali. Ci vogliono anche 4 ore per farle!
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La casa. Mi piace tanto pulire e tenerla ordinata.
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Cose nomadi Stefano Follesa
All’inverso, i suoi doveri consisteranno nel vivere con la maggior leggerezza possibile, nel non avere l’ingombro di un bene fondiario, nell’accumulare soltanto idee, esperienze, sapere, relazioni, onde sottrarsi alla dittatura e alla schiavitù del denaro. Cesserà di temere la precarietà perché rinuncerà a credersi proprietario del mondo e della specie, e ammetterà di averne soltanto l’usufrutto. (Attali, 2006)1
Viviamo in un mondo di viaggiatori in continua migrazione, molti per necessità, alcuni per scelta, per cui il vivere non è più legato all’idea di proprietà né tantomeno a quella di stanzialità. Il nomade è a casa sua ovunque e si porta con sé quello di cui ha bisogno. Ma non ha il possesso della terra, ci passa sopra. Questo implica una visione della vita totalmente diversa. Nella società occidentale, possiamo dire che siamo tutti nomadi inseriti in un sistema stanziale e connesso2.
Sono i passi dei viaggiatori a tracciare le rotte. Alcune sono rotte di sofferenza e di fuga attraversate nell’incertezza del percorso e dell’arrivo, altre sono rotte di scoperta, anch’esse alla ricerca di una vita diversa. La stessa natura dell’uomo d’altronde è nomade e la contemporaneità ha favorito il ripresentarsi di una flessibilità del vivere che accompagna la continua mutabilità delle situazioni.
Il nomadismo starebbe invadendo tutte le forme della vita, fino a gettare l’insieme degli umani nel grande maelstrom della mondializzazione e a imporre loro di viaggiare incessantemente, per sofferenza o per piacere, in solitudine e in libertà3.
La vita nomade della contemporaneità è un principio di sradicamento dove la geografia prevale sulla storia. Il concetto di appartenenza ad un territorio è oggi un concetto sempre più debole, così come quello di residenza (in alcuni paesi è possibile ottenere la e-residency), e la scelta del luogo in cui vivere diventa non più una conseguenza ma un’adesione. Il rapporto che si sviluppa con i nuovi territori dell’abitare riporta ad alcune delle prerogative che avevano definito l’abitare dei migranti del novecento. Gli italiani emigrati portarono con sé le tradizioni, la lingua dialettale e il loro modo di vivere. Si adattarono con facilità alle nuove migliori condizioni di vita mantenendo alcuni aspetti delle loro tradizioni: la fede comune, le feste popolari con le espressioni dei loro luoghi di origine, i forti legami delle comunità ed alcuni modi di vivere la casa come, per esempio, la cucina cuore della vecchia e nuova famiglia4.
Attali J. 2003, op.cit. Lemme R. 2015, Gli elementi unificanti dell’Italia. I fattori fisici, sociali e linguistici, in Lemme R. (a cura di), Le Case Degli Italiani — La casa bene primario. L’evoluzione delle abitazioni popolari e borghesi, Gangemi Editore, Roma. 3
Aime M. 2014, Intervento alla manifestazione Dialoghi sull’uomo, Pistoia. 2 Attali J. 2003, L’homme nomade, (trad. it. Attali J. 2006), L’uomo nomade, Spirali, Milano. 1
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E così nelle diverse parti del mondo i migranti tentano di ricostruire nell’incontro un’identità smarrita nel viaggio. Il luogo di tale identità è oggi sempre meno un luogo fisico e sempre più un luogo mentale. Nel corso del viaggio sono le cose a rimandarci alla nostra identità. Le poche cose che abbiamo scelto di portare con noi e gli oggetti tecnologici che ci consentono di rimaner connessi al mondo degli affetti. Tra i due la stessa differenza che separa un libro da un film. I primi sono oggetti d’affezione legati alla memoria delle persone e dei luoghi. Con essi al vagare fisico si accompagna un vagare della mente che si alterna e si sostituisce al primo nelle pause del percorso. I secondi azzerano le distanze faticosamente compiute quasi ad alleviarci la fatica del viaggio. Non è l’oggetto a cui ci rapportiamo ma ciò che esso può veicolare: voce, immagini, suoni. Le cose sono veicoli di connessioni. Sono entrambi oggetti nomadi che condividono la nostra migrazione e ci accompagnano nel viaggio. Alle cose, e in genere agli elementi che accompagnano il suo vivere, l’uomo affida una funzione di memoria, di conservazione e stimolazione del suo ricordo personale o collettivo. (Fassin, 2004)5
Fassin I. 2004, La cultura materiale, in http://www.castellomasegra.org/ saggi/Fassin.pdf 5
Si può forse dire che siano le cose a definire la dignità del vivere. Con le parole di Primo Levi che ci racconta l’alienazione perpetuata dall’esercito nazista nella privazione delle cose: Ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo […] Nulla è più nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli […] Consideri ognuno quanto valore, quanto significato è racchiuso anche nelle più piccole nostre abitudini quotidiane, nei cento oggetti nostri […] Queste cose sono parte di noi, quasi come membra del nostro corpo […] Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengono tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti […] sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno […] poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso6.
Ed è proprio nelle funzioni evocative che si definisce la separazione tra gli oggetti e le cose. Per ‘cosa’ intenderò quel manufatto che implica la presenza di un legame affettivo o relazionale tra prodotto e soggetto, mentre il termine ‘oggetto’ sottintende tra le due parti in questione una dimensione di puro possesso7.
Col procedere della modernità, le cose sono diventate oggetti e gli oggetti si sono trasformati in merci.
6 Levi P., Se questo è un uomo, (edizione 1997 a cura di G. Tesio), collana Letteratura del Novecento, Einaudi scuola, Torino. 7 Piretto G.P. 2012, La vita privata degli oggetti sovietici, Sironi Editore, Milano.
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Il rapporto con le cose, al contrario, è sempre stato mediato da una componente simbolica che ce ne restituisce un valore personale che va al di là della sua costituzione: Non c’è oggetto che non porti con sé, oltre alla ovvia dimensione funzionale (quella specificamente considerata dalla ‘cultura Materiale’), anche elementi delle dimensioni sociale e simbolica, che ne rafforzano lo spessore evocativo. Così un semplice cucchiaio può rimandare anche a una funzione sociale (la convivialità, etc.) e a talora imprevedibili rilevanze simboliche (legate al materiale di cui è fatto, o alla forma particolare, alle decorazioni)8.
Cose quindi come strumenti della socializzazione. E sono infine le cose ad accoglierci alla conclusione di un viaggio. Le cose riconquistate, quelle che ci riconnettono al mondo delle situazioni e dei rituali che ci sono familiari: un pallone, un piatto, una forbice. Sono le cose che ci rimandano alla dimensione infantile quando ancora attribuiamo un’anima alle cose e la rendiamo visibile attraverso il gioco e la fantasia o le cose che ci restituiscono una dignità legata al nostro vivere prima del viaggio. È un tempo sospeso il nostro, sospeso nell’attesa di un’idea di futuro che ancora non riesce a definirsi.
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Fassin I. 2004, op.cit.
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Una pausa nel passaggio da una modernità che è stata cancellazione e ripartenza, ad una rinnovata visione dello sviluppo come recupero di un processo incrementale. È certamente tempo dell’attesa, di interruzione del mito di una crescita infinita, tempo della riflessione, dell’instabilità e dell’incertezza, ma anche, proprio a causa della sua indefinitezza, tempo ideale per lo sviluppo di nuovi percorsi, nuove pratiche e nuovi linguaggi.
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Cosa è la felicità Valentina Frosini
Quando siamo tristi, non c’è niente di meglio che comprare qualcosa di nuovo: sembra essere l’unico antidoto efficace per renderci nuovamente felici. Almeno per qualche attimo. Tutti noi almeno una volta abbiamo cercato di capire che relazione c’è fra quello che possediamo e la nostra felicità: e spesso non riusciamo a venirne a capo. La cosa che abbiamo desiderato per tanto tempo e che adesso possediamo, non ci dà la stessa soddisfazione che ci aspettavamo. Dunque la felicità non è legata al possesso? La questione non è assoluta: non è possibile dare una risposta netta alla domanda. Ognuno dà la propria definizione di felicità, e spesso dentro quella definizione c’è un elemento che accomuna tutte le altre. Parlando della felicità, Becattini elenca una serie di aspetti: la nostra compagnia di vita, la nostra compagnia di lavoro, la gradevolezza, materiale e morale, della sede di vita, la gradevolezza della sede di lavoro, il tipo di lavoro che svolgiamo, un compenso del lavoro, in moneta o in natura, tale da consentirci uno stile di vita pari al nostro vicino rappresentativo1.
Richard Sennet ci conferma che in luoghi diversi, popoli diversi scoprono modi diversi di perseguire la felicità, la più difficile delle imprese2.
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Becattini G. 2015, La coscienza dei luoghi, Roma, Donzelli. Sennet R. 2011, Lo straniero, Feltrinelli, Milano.
Ma che succede quando la globalizzazione ci porta maggiore conoscenza, e ci fa conoscere possibilità, capacità, che sono da noi molto lontane, ma non per questo meno appetibili? Il rapporto che abbiamo con le cose varia molto tra Nord e Sud del mondo. Nel mondo occidentale Marx lo ha definito “feticismo della merce”3, Baudelaire l’ha chiamato la “messa in scena dell’individuo”4, parlando in particolare della moda. Comunque lo si voglia definire, il benessere generato dal sistema capitalistico ci ha permesso in maniera crescente di sperimentare e vivere un rapporto con le cose in alcuni casi molto profondo, in altri casi alienante: l’oggetto è arrivato spesso a prevaricare il soggetto, in uno smarrimento che ancora oggi riguarda da vicino la società occidentale. Il consumismo ci ha addomesticati a tal punto che spesso siamo stati e spesso siamo ancora oggi “le nostre cose”. Ma è davvero tutto da ripensare da capo? Sen ci dice che è proprio grazie al raggiunto benessere dell’economia capitalista se oggi possiamo dedicarci a questioni talvolta anche molto lontane dal nostro contesto, nel tentativo di migliorare la qua-
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Mecacci A. 2012, Estetica e design, Il Mulino, Bologna. Ivi.
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lità della vita anche a persone più svantaggiate di noi5. In più, la recente crisi finanziaria mondiale ha costretto la maggior parte di noi a riflettere sulla propria condizione e in generale sui grandi cambiamenti in corso: il potere di acquisto si è notevolmente ridotto, e di conseguenza anche l’inquinamento semantico degli oggetti è venuto meno, spogliando le cose del loro “carattere rappresentativo” e avvicinandole sempre di più a un “sistema” di valori, con un portato di significato e di nuova ricchezza. In che rapporto stanno dunque le cose e la felicità? Il senso del possesso ha avuto il suo “magistero” nei paesi occidentali: in certi casi è ancora in piena attività, ma in altri casi si sta lentamente esaurendo, rendendoci consapevoli che l’accumulo di cose non porta alla felicità. Quella vera, intesa come quel rumore di fondo della propria vita, in cui si è profondamente consapevoli di essere prossimi alla realizzazione delle propria natura, del più profondo “io”, scevro da pressioni sociali e condizionamenti di varia natura. Siamo sempre un po’ più consapevoli che la qualità delle nostre relazioni costituisce la trama che ci consente di abitare la felicità, quella vera. Che ruolo assumono dunque le cose in uno scenario di questo tipo? La nostra contemporaneità è sempre più caratterizzata da una cultu5
Sen A. 2011, La libertà individuale come impegno sociale, Editori Laterza, Bari.
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ra immateriale, caratterizzata più da esperienze estetiche che da oggetti: in certi casi si assiste proprio ad un superamento delle cose in favore della realtà virtuale, del mondo immateriale. Eppure siamo altrettanto consapevoli che “noi siamo anche le nostre cose”, che l’oggetto è portatore anche di relazione, oltre che di bellezza, e quindi di speranza. Uno scenario tanto ricco ci chiede probabilmente un cambio di paradigma: l’oggetto non è più ridotto al solo mondo materiale di cui è rappresentazione, ma porta con sé narrazione, esperienza che sta prima e dopo il mero acquisto: la “cosa” si eleva, diventa sistema complesso, ed entra sempre più a far parte di quelle scelte che caratterizzano, distinguono e costituiscono la personalità dell’individuo. Non più il feticismo di Marx dunque: io sono anche le mie cose. Ma le mie cose sono scelte sulla base del portato di valori che rappresentano. In quanto individuo ho la capacità di scegliere cosa voglio essere e attraverso quali oggetti voglio realizzarmi, consapevole che l’oggetto è un sistema complesso che posso contribuire ad alimentare o impoverire, nel caso esso sia il risultato di forme di sfruttamento o di forte impatto ambientale. Il pianeta ci chiama ad una nuova responsabilità: cessare il meccanismo perverso dell’accumulo, e caricare le cose di nuovi valori. È diven
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09 tato urgente e fondamentale interrompere la crescita incondizionata e perversa e avviare un processo di redistribuzione, dove ad un Nord debitore faccia seguito un Sud che possa vedere riconosciuta parzialmente una giustizia riparatrice. Il nostro sguardo occidentalista, spesso usurpatore di valori altrui, può in questo caso essere fondamentale nel contribuire, seppur lentamente e in piccola parte, a ribilanciare lo squilibrio da troppo tempo perpetrato nei confronti di una parte del pianeta. Si può essere felici con poco: gli oggetti devono tornare ad essere portatori di valori, simboli di significati profondi che stanno dietro le cose. Non povertà, né ricchezza: ma sobrietà. Questo è il legame fra noi e le cose che può aiutarci a tracciare la strada per fare di ogni individuo un uomo migliore e quindi una società più equa. Dunque più felice.
Le cose che ci accompagnano Francesco Armato
Gli oggetti sono i nostri compagni di viaggio, sono parte integrante della vita di tutti i giorni, alcuni di essi sono di grande ausilio perché ci danno una mano nello svolgere le pratiche quotidiane, altri sono fondamentali e non possiamo farne a meno, altri ancora non sviluppano nessuna funzione, ma trasmettono emozioni, ricordi e perché no, gioia di vivere. Gli oggetti ci osservano e ci ascoltano e qualche volta condizionano il nostro modo di vedere lo spazio e le cose stesse. Il rapporto con gli oggetti e con le cose inizia dal momento in cui decidiamo di portarli con noi. Gli oggetti prima di far parte del nostro quotidiano passano attraverso la nostra cultura e il nostro sapere. Le cose ci rimandano a storie passate, segnano il tempo trascorso, ci rimandano a episodi vissuti da altri, dandoci la possibilità di percorrere a ritroso il tempo e lo spazio per immaginare momenti ed emozioni di vita quotidiana diversa da quella di adesso. Ciascuno di noi costruisce mediante gli oggetti larghi tratti di storia personale: testimonianze concrete, frammenti o cimeli, documenti e reperti, segnati tutti da investimenti simbolici mutevoli nel tempo. Gli oggetti materiali, infatti, sono parte integrante della nostra vita psichica ed emo-
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Le cose degli altri Racconti migranti attraverso gli oggetti
tiva, contribuiscono a costruire la nostra personalità, partecipano alla formazione del nostro carattere, con diverse modalità a seconda dei periodi della vita. (Starace, 2013)1
Oggi nell’era della contemporaneità e dell’usa e getta questo processo di rapporto duraturo con le cose e con gli altri è diventato un concetto in fase di estinzione. Nella società attuale i rapporti con gli altri e con le cose raramente vengono instaurati sulla durata e sulla continuità, spesso hanno un tempo di vita molto breve, Bauman pensa che questa mancanza di “affetto” e di continuità sia dovuta al concetto di invecchiamento e di fuori moda, È la prospettiva dell’invecchiare ad essere ormai fuori moda, identificata con una diminuzione delle possibilità di scelta e con l’assenza di ‘novità’. Quella ‘novità’ che in una società di consumatori è stata elevata al più alto grado della gerarchia dei valori e considerata la chiave della felicità. Tendiamo a non tollerare la routine, perché fin dall’infanzia siamo stati abituati a rincorrere oggetti ‘usa e getta’, da rimpiazzare velocemente. Non conosciamo più la gioia delle cose durevoli, frutto dello sforzo e di un lavoro scrupoloso. (Bauman, 2008)2
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Starace G. 2013, Gli oggetti e la vita, Donzelli, Roma. Bauman Z. 2008, Vita liquida, (trad. M. Cuppellaro), Laterza, Roma-Bari.
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Bauman si riferisce ai rapporti duraturi che si creano tra le persone e soprattutto l’unione delle coppie e dello stare insieme, ma la sua riflessione sul concetto di vecchiaia e dell’usa e getta è molto appropriata anche alla fisicità degli oggetti e delle cose che ci accompagnano nella nostra vita e che adesso sarebbe giusto dire, in una parte breve della nostra vita. Esistono cose e oggetti che fanno un percorso diverso, forse non sviluppano funzioni molto importanti, ma esercitano su di noi un’influenza positiva nell’esercizio delle nostre pratiche giornaliere e nei momenti di relax. Per Branzi questo rapporto esiste ed è uguale a prima, credo che ancora oggi il nostro rapporto con gli oggetti domestici non sia cambiato; essi ci accompagnano e ci proteggono come folletti domestici, come fedeli e silenziosi servitori. Gli oggetti portano fortuna, allontanano i dardi del fato e recitano la loro parte nella commedia della vita, come credevano gli antichi. (Branzi, 2010)3
COSè. Noi e le cose, il festival, tenutosi a Design Campus e oltre, è stato un evento unico e innovativo. Affrontando il tema della cultura delle cose, ha rappresentato un momento importante per far conoscere e far riflettere ragazzi e bambini sul rapporto che si crea tra l’u-
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Branzi A. 2010, Epigrammi, Fuori salone, Milano.
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tente e gli oggetti che possiede, ma anche per comprendere la storia di ciò che utilizziamo, attraverso workshop, mostre e interventi. Il festival è stato un momento di incontri e di riflessioni per dare un senso sia alle cose che hanno un’utilità nel nostro quotidiano, che agli oggetti che hanno la funzione di ascoltarci e di osservarci. L’utilizzo? Essere lì per essere animati, acquistare un senso con la nostra immaginazione.
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Per visualizzare i video scan qr code: Le cose degli altri backstage
Mare di Mezzo
Il progetto è stato realizzato nell’ ambito di
noi e le cose
FE STI VAL
Le cose degli altri
ISBN 978-88-9608-074-0
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