a cura di
giuseppe lotti francesca tosi
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La ricerca di design nelle tesi di dottorato dell’Università di Firenze
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saggi | architettura design territorio
we have a remarkably varied vailable to us from design these are responses that ca of what is happening to the offer us ways of making the that they offer. design for every generation about different things, but about our values, about the and about how we make possi
and rich set of responses and designers. n help us make sense world, and that also most of the possibilities might seem to be at heart it isstill choices that we make ble their realisation. Deyan Sudjic, 2016
La ricerca di design nelle tesi di dottorato dell’Università di Firenze
a cura di giuseppe lotti francesca tosi contributi di ramona aiello, francesco armato, ilaria bedeschi, alessia brischetto, irene bruni, daniele busciantella ricci, stefano follesa, marco mancini, marco marseglia, francesco parrilla, alessandra rinaldi introduzione di vincenzo legnante giuseppe lotti e francesca tosi
Il volume raccoglie le tesi di ricerca condotte nell’ambito del Dottorato in Architettura — curriculum Design — del Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Firenze. Collegio dei docenti: Gianpiero Alfarano, Elisabetta Benelli, Elisabetta Cianfanelli, Laura Giraldi, Vincenzo Legnante, Saverio Mecca, Francesca Tosi; coordinatore del curriculum: Giuseppe Lotti. La pubblicazione è stata oggetto di una procedura di accettazione e valutazione qualitativa basata sul giudizio tra pari affidata dal Comitato Scientifico del Dipartimento DIDA con il sistema di blind review. Tutte le pubblicazioni del Dipartimento di Architettura DIDA sono open access sul web, favorendo una valutazione effettiva aperta a tutta la comunità scientifica internazionale.
progetto grafico Laboratorio Comunicazione
Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze
Susanna Cerri Gaia Lavoratti
Stampato su carta Fedrigoni Arcoset e Symbol Freelife
didapress Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze via della Mattonaia, 8 Firenze 50121 © 2017 ISBN 978-88-9608-091-7
indice
Nos esse quasi nanos gigantium humeris insidentes L’esperienza del dottorato Vincenzo Legnante
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Design, Territorio, Società. La ricerca della Scuola Fiorentina di Design Giuseppe Lotti, Francesca Tosi
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Design e territorio. Strategie, metodi, strumenti, attori per la competitività dei sistemi territoriali di imprese Ilaria Bedeschi Pocket Park, spazi tra gli edifici Francesco Armato A tempo e a luogo. Conoscenze, pratiche, direzioni per un design identitario Stefano Follesa L’inclusione sociale nel settore delle Learning Technologies: l’approccio Universal Design Alessia Brischetto Fattori di innovazione per il design. Individuazione dei Grip Factors Marco Mancini
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Design dello spazio pubblico nei centri storici minori. Tre casi studio Francesco Parrilla Design innovazione e tecnologie Smart per il benessere e la salute. Il contributo del design per l’invecchiamento attivo Alessandra Rinaldi
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Design e tecnologie digitali. La connettività come risorsa per il progetto Irene Bruni
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Sostenibilità e progetto: metodi e strumenti per la progettazione di prodotti e/o servizi Marco Marseglia
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Pensato e fatto in Italia. Verso un nuovo paradigma di eccellenza artigianale Ramona Aiello Design per l’inclusione sociale: un tool di analisi per i servizi basati sulla condivisione Daniele Busciantella Ricci BIOGRAFIE DEGLI AUTORI
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La ricerca di design nelle tesi di dottorato dell’Università di Firenze a cura di giuseppe lotti francesca tosi
ogni dottorando è un investimento importante del paese e della comunità accademica in particolare.
Vincenzo Legnante
nos esse quasi nanos gigantium humeris insidentes l’esperienza del dottorato
Il dottorato è il livello più alto della formazione accademica e prelude a esperienze più qualificate, più estese e con più alte probabilità di applicazione. I dottorandi, che sono gli attori di questa particolare condizione accademica, sono un gruppo selezionato tra i laureati magistrali che hanno l’opportunità di una condizione di particolare favore: tre anni interamente dedicati a studiare e approfondire le metodologie della ricerca e un tema scientifico di loro interesse, guidati ciascuno da un docente con funzione di tutor dedicato alla loro formazione, di metodo e di merito; da un collegio dei docenti formato da professori esperti e attenti a ogni loro esigenza; e, infine, dall’amministrazione universitaria che dedica risorse e strumenti perché questa condizione possa generare buoni risultati. Un triennio davvero speciale che si raggiunge con la piena maturità personale, ma soprattutto con l’orientamento del proprio percorso di studio verso ambiti di indagine che possano essere generatori di nuova conoscenza e di elaborazione più avanzata. Si comprende facilmente che ogni dottorando è un investimento importante del paese e della comunità accademica in particolare. Come docente di collegiali di dottorato, fin dalla istituzione nel sistema universitario italiano, porto sulla coscienza i risultati di questo investimento, nel bene e nel male. L’ho sempre sentito come un mandato tra i più importanti e delicati, una
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vincenzo legnante
forma di sintesi compiuta tra le due missioni convenzionali dell’università: la didattica e la ricerca. Insegnare a fare ricerca è la sintesi perfetta di questo nostro meraviglioso lavoro. Nel nostro caso, poi, visto l’ambito di studi che spesso privilegia anche un’importante quota di applicazione dei risultati verso il sistema sociale ed economico di riferimento, anche la terza missione dell’università, cioè il trasferimento di conoscenze, si realizza in piena coerenza nella triplice natura dell’accademia. Per questo motivo considero un privilegio la possibilità di partecipare a queste esperienze ed esplorare percorsi di conoscenza con questa categoria di ricercatori. Abbastanza giovani per esprimere la naturale energia delle idee nuove e tuttavia consapevoli del peso scientifico di ciascuna parola di ogni frase inserita in un testo da presentare alla comunità scientifica. Una tale responsabilità si affronta con il coraggio e l’umiltà dello studio approfondito e mai superficiale, dottorale, appunto, come sinonimo di esteso e profondo, completo nel suo settore e con i riferimenti appropriati. Consapevoli che prima di noi ci sono stati altri che hanno esplorato lo stesso settore di studi e ne hanno approfondito moltissimi aspetti, questi hanno lasciato a chi è venuto dopo il compito di estendere quelle conoscenze. Bernardo di Chartres coniò nel XI secolo l’aforisma Nani sulle spalle di giganti, particolarmente appropriato alla nostra condizione di ricercatori che hanno avuto in consegna già tutto quel che è stato pensato, detto e fatto. A noi compete ampliare e approfondire quella riserva di conoscenze. Questa frase può essere applicata in ogni epoca ai contemporanei, che sono visti come coloro che, rispetto agli antichi, possono vedere più
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lontano perché possono sollevarsi oltre la loro altezza, in quanto seduti sulle spalle dei giganti (nos esse quasi nanos gigantium humeris insidentes). Può essere interpretato come dichiarazione di umiltà nei confronti di chi ci ha preceduto nella storia del pensiero e degli altri studiosi che hanno costruito conoscenza prima di noi. Il curriculum in Design fa parte del Dottorato di Architettura, dove sono rappresentati otto ambiti scientifici distinti che condividono la dimensione caratterizzante dell’architettura come disciplina matrice del progetto. Nel Dottorato in Architettura gli studi sono relazionati agli specialismi dei diversi ambiti disciplinari: la scala degli oggetti, di cui il design è l’espressione più esplicita, le discipline del territorio e dell’ambiente, le problematiche più specifiche delle strutture, dell’indagine storica e della tecnologia. In ciascun ambito di studi il ruolo del dottorato è il medesimo: approfondire ed estendere i confini del proprio ambito di studi per aggiungere un’ulteriore quota di conoscenza a quella che è già disponibile in quel campo scientifico. La scelta del tema di indagine, l’ipotesi di lavoro, a cui seguono le incertezze delle prime fasi di acquisizione del sapere disponibile, le ricognizioni tematiche più dettagliate che verificano non solo quel che è già stato detto e fatto ma anche quello che si sta facendo da qualche altra parte del mondo su quello stesso ambito di studi, le analisi e il dubbio sistematico di ogni processo scientifico sono ogni volta una sorpresa. Un’opportunità che richiede, allo stesso tempo, elasticità mentale e rigore metodologico e che genera un’architettura del pensiero dove le parti sono coerenti all’insieme. L’elaborazione compiuta di un tema di dottorato è uno dei modi migliori per
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vincenzo legnante
esercitare la attitudini personali al pensiero strutturato e ne misura la capacità di comunicarlo attraverso la tesi. Questa raccolta di 11 tesi di dottorato in area design è una tappa importante non solo per i dottori di ricerca, che hanno avuto modo di comunicare la sintesi del loro lavoro, ma per tutta la comunità che si riconosce nella Scuola Fiorentina di design e che opera all’interno del Design Campus dell’Ateneo. Rappresentano ciascuna un avanzamento di un particolare settore di studi che ha potuto giovarsi di approfondimenti tematici o applicazioni originali. Questo gruppo di elaborati rappresenta ambiti di ricerca consolidati all’interno del sistema DIDALABS, dove le tematiche sviluppate nelle tesi sono parte di un flusso più composito di elaborazioni e ricerche sostenute dai docenti e dagli altri ricercatori non dottorandi. Le tesi trattano prevalentemente tre tematiche portanti della nostra scuola: la tematica ambientale, i processi di innovazione e il ruolo del design nei contesti storicizzati. Nel primo tema trova collocazione la ricerca di Marco Marseglia, che propone uno studio molto puntuale sull’operabilità del parametro ambientale in fase di progetto e sulle applicazioni di strumenti funzionali alle decisioni. Le problematiche dei processi di innovazione sono trattate dalle tesi di Alessandra Rinaldi e di Marco Mancini, rispettivamente per le interazioni più avanzate del progetto di design rapportato alle tecnologie dell’informazione e la struttura del processo di innovazione per misurarne alcuni parametri significativi, definiti i Grip Factors del progetto. Le due tesi, una di Francesco Armato e l’altra di Francesco Parrilla, indagano il tema più generale del design urbano in due sue articolazioni: la ricerca di Armato si rivolge
nos esse quasi nanos gigantium humeris insidentes
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al recupero degli spazi interstiziali della città, con particolare attenzione ai pocket park, mentre la tesi di Parrilla si occupa di qualificare l’approccio della cultura del design nel rapporto con i contesti storici più delicati e, in particolare, la valenza significante dell’arredo urbano nei centri storici minori. La tesi di Stefano Follesa raccoglie anni di esperienze e riflessioni sui temi dell’artigianato e dell’identità dei luoghi. Quella di Ramona Aiello si interroga sulle nuove prospettive del saper fare. Entrambe propongono importanti avanzamenti culturali sull’originaria contraddizione tra design, artigianato e identità locale e culturale; mentre Ilaria Bedeschi si interroga sui metodi e sugli strumenti del design per i sistemi territoriali d’impresa. Altre tre tesi, quelle di Alessia Brischetto, Irene Bruni e Daniele Busciantella Ricci, sviluppano con originalità i temi più recenti della ricerca ergonomica, recuperando studi sul tema delle interazioni tra persone, quelle tra persone e cose, e quelle tra le cose, con particolare attenzione all’Internet of Things (IOT). Temi ampiamente emergenti nello scenario contemporaneo che richiedono processi di elaborazione perlomeno aggiornati con l’inarrestabile evoluzione delle tecnologie dell’informazione. Per noi, membri del collegio di dottorato, oltre che docenti e ricercatori, è motivo di orgoglio presentare questa sintesi della ricerca dottorale. Ci ripromettiamo di dare continuità a questa iniziativa e rendere partecipe periodicamente la comunità scientifica della ricerca che viene svolta nel Dottorato in Design a Firenze.
le ricerche presentate in questo libro ci parlano anche di alcune peculiarità della scuola fiorentina di design, da sempre orientata alle tematiche sociali, da una parte, e, dall’altra, alla ricerca per l’innovazione e alla sperimentazione condotta in stretto rapporto con il sistema produttivo.
Giuseppe Lotti, Francesca Tosi
design, territorio, società. la ricerca della scuola fiorentina di design
Le tesi di dottorato presentate in questo libro ci parlano della specificità della ricerca di design. Una ricerca, così come efficacemente descritta nella ricerca Design Research Maps: • al centro di più domini disciplinari — l’arte, le humanities, l’ingegneria, l’economia (distinguendosi in ciò dall’approccio anglosassone — volontà di emulare le scienze — e francofono — design come arte); • che si esprime nella mediazione e catalisi di conoscenze tacite e codificate, garantendo un aggiornamento delle prime che è fondamentale per la competitività del sistema a livello globale; • in grado di rendere immediatamente applicabili e spendibili innovazioni tecnologiche prodotte in altri campi e da altre discipline; • assolutamente non referenziale, ma in stretto rapporto con i bisogni della società (smentendo così qualche stereotipo negativo sul ruolo dell’Università ancora radicato); • capace di intervenire su più tematiche — “Nuovo Made in Italy e scenari dell’internazionalizzazione / Identità, territorio e produzioni locali / Valorizzazione dei
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giuseppe lotti, francesca tosi
beni culturali e ambientali / Qualità urbana e sicurezza / Inclusione sociale e servizi per la salute e la qualità della vita / Innovazione, industria e sviluppo high-tech / Energia, mobilità e ambiente / Educazione, processi formativi e della ricerca scientifica e tecnologica”; • spesso di natura applicata/progettuale, cioè finalizzata all’acquisizione di conoscenza sui diversi campi di intervento; strumentale, ossia rivolta a mettere a punto metodi e strumenti di progetto, e, meno frequentemente, teorica, ossia indirizzata ad acquisire conoscenza sulle teoria della disciplina1. Ma le ricerche presentate in questo libro ci parlano anche di alcune peculiarità della Scuola Fiorentina di Design, da sempre orientata alle tematiche sociali, da una parte, e, dall’altra, alla ricerca per l’innovazione e alla sperimentazione condotta in stretto rapporto con il sistema produttivo, sia a livello regionale che nazionale. Al centro dell’attenzione è il progetto, inteso come capacità di proporre e costruire l’innovazione attraverso una attività di ricerca che muovendo dalla teoria diviene applicata. I progetti di Pier Luigi Spadolini, dai televisori e giradischi per Radiomarelli e Lesa al sistema MAPI Modulo abitativo di pronto intervento, alle imbarcazioni a vela e a motore; quelli di Giovanni K. Koenig e Roberto Segoni per le Ferrovie dello Stato, di Segoni per GAI e ATM, per citare solo alcune tra le esperienze più note, nelle quali si concretizza pienamente la sintesi tra innovazione e tecnologica e formale e rapporto con il sistema produttivo. Cfr. Bertola P., Maffei S. (a cura di) 2009, Design Research Maps. Prospettive della ricerca universitaria in design in Italia, Maggioli, Santarcangelo di Romagna (RN).
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Ancora, la scuola di storia e critica del design sviluppata nei suoi diversi temi e orientamenti da Giovanni Klaus Koenig2 ed Egidio Mucci3, e proseguita negli anni successivi da Giuseppe Chigiotti e Cristina Tonelli. A Firenze l’insegnamento del Design si sviluppa negli anni in stretta connessione con le attività progettuali e di ricerca, al principio nei corsi di Progettazione artistica per l’industria, tenuti da Pier Luigi Spadolini, prima, e, poi, da Paolo Felli e Roberto Segoni, sino all’apertura della Scuola di Specializzazione in Disegno industriale negli anni ’90, nella quale si formano alcuni tra migliori designer italiani oggi attivi sia in campo professionale che accademico4. È sulla base di queste esperienze che nel 2001 viene fondato da Roberto Segoni e Massimo Ruffilli il primo Corso di Laurea in Disegno industriale dell’Università di Firenze con sede, fin dall’inizio, nel Comune di Calenzano; negli anni successivi si sviluppa con l’attivazione del Corso di Laurea Magistrale in Design, nel 2008, e in Design del sistema moda, nel 2015. Nel 2012 l’apertura del nuovo Design Campus di Calenzano segna il definitivo consolidamento e, allo stesso tempo, un nuovo inizio per la Scuola del Design fiorentino. Nella nuova sede vengono infatti finalmente riunite le attività di didattica e di ricerca di Design, sono attivati i Ma2 Cfr. soprattutto Koenig G.K. 1991, Il design è un pipistrello 1/2 topo e 1/2 uccello, Ponte alle grazie, Firenze. 3 Cfr., tra gli altri, Mucci E., Tazzi P. (a cura di) 1984, il potere degli impotenti, Dedalo, Bari; Mucci E., Rizzoli P. (a cura di) 1991, L’immaginario tecnologico metropolitano, Franco Angeli, Milano. 4 Cfr. Segoni R. 1993, Se dici design. 16 tesi di disegno industriale a Firenze, Ponte alle grazie, Firenze.
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ster Universitari e i Corsi di specializzazione e, nel 2013, viene attivato il Sistema dei laboratori, che oggi offre servizi agli studenti e alle aziende. Ed è proprio con l’attivazione del percorso di Dottorato in Design, avvenuto quasi in contemporanea con l’apertura della nuova sede di Design Campus, che si compie la crescita e la maturazione dell’offerta formativa in Design dell’Università di Firenze. Il percorso di Dottorato in Design viene attivato a Firenze nel 2011 come indirizzo del nuovo Dottorato di ricerca in Architettura, nato dall’accorpamento dei precedenti Corsi della Facoltà di Architettura e reso necessario dalla contrazione delle risorse assegnate ai Dottorati di ricerca italiani. Il Dottorato in Design nasce quindi in un periodo di grave se non di drammatica difficoltà dell’Università italiana che ha portato, tra le altre conseguenze, alla forte contrazione dell’offerta di terzo livello e, più in generale, alla riduzione dei fondi pubblici destinati alla ricerca. Un avvio, dunque, in netta controtendenza, che completa, anche se in forma ancora contenuta, il lungo percorso di crescita e di maturazione della Scuola del Design fiorentino, grazie all’attenzione e al sostegno della Facoltà di Architettura, oggi Dipartimento di Architettura, e al contributo dei tanti docenti di altre aree disciplinari da sempre attivamente coinvolti nella sua storia. Va ricordato che, prima dell’avvio dell’indirizzo in Design del nuovo dottorato in Architettura, alcune tesi in Design sono state sviluppate all’interno del Dottorato in Tecnologie dell’architettura e Design attivo fino al 2011. In questo volume sono presentate 11 tesi che testimonia-
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no i risultati dei primi tre cicli del percorso di Dottorato di ricerca in Design attivato nel 2011 (XXVII, XXVIII e XXIX ciclo), a cui si aggiungono tesi sviluppate negli anni precedenti nell’ambito del Dottorato di Tecnologia dell’architettura e Design (XXVI ciclo). A livello di organizzazione della didattica il Dottorato è organizzato con un mix tra il modello by coursework — con corsi condivisi con gli altri curricula e specifici per il settore, con un taglio fortemente disciplinare, e il modello tutorship, con un apprendimento basato sulla relazione tra dottorando e docente di riferimento (tutor). Fin dal suo avvio, il percorso di dottorato si inserisce nel solco della tradizione culturale della Scuola Fiorentina, cogliendone e sviluppandone sia i temi di ricerca portanti e consolidati, sia l’attenzione per i temi legati all’innovazione tecnologica e formale e alle più recenti tendenze e sperimentazioni del dibattito e della ricerca sul Design a livello internazionale. Tra i temi più consolidati il dottorato di ricerca affronta il Design per la sostenibilità ambientale e sociale e il rapporto tra Design, territorio e sistema produttivo. A questi si legano temi di ricerca più marcatamente orientati al rapporto tra Design e innovazione tecnologica e sociale, e, in particolare, alle tendenze più innovative nell’approccio Human-Centred Design e User experience. Infine, il collegamento e l’ibridazione con altre discipline del progetto nei temi orientati al rapporto tra design e contesto storicizzato.
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In dettaglio, l’attenzione agli aspetti di natura sociale e, in particolare, le tematiche della sostenibilità ambientale, sociale e culturale si concretizza nella tesi di Marco Marseglia, che si interroga sui metodi e gli strumenti di supporto a una progettazione ambientalmente responsabile, evidenziando i limiti di indicatori puramente quantitativi. Il rapporto tra progetto e territorio emerge chiaramente nella tesi di Stefano Follesa rivolta a far luce sul rapporto tra territori, identità e progetto, nella consapevolezza che anche in questo mix può essere ricercata la competitività delle produzioni. Ed è approfondita nella ricerca di Ilaria Bedeschi, con una specifica attenzione al design per i sistemi territoriali d’impresa. Una tematica, quella del rapporto tra design e territorio, da sempre presente nella ricerca progettuale fiorentina, sia in relazione all’architettura, sia per quanto concerne più strettamente il design — dalle sperimentazioni di Giovanni Michelucci nel recupero dei mobili della tradizione contadina5 alle ricerche del Superstudio negli anni ’70 sulla cultura materiale extraurbana6. Nella tesi di Ramona Aiello emerge l’attenzione verso le tematiche proprie dell’artigianato e dell’eccellenza del Made in Italy nei suoi contributi più contemporanei: le opportunità offerte dall’innovazione tecnologica per la comunicazione d’impresa e la costruzione di piattaforme digitali per la diffusione e la vendita del Made in Italy.
Si guardi alla produzione per Gruppo Falegnameria Fantacci Design, ma anche al libro Liscia Bemporad D. 1999, Giovanni Michelucci. Il mobilio degli anni giovanili, SPES, Firenze. 6 Natalini A., Netti L., Poli A., Toraldo di Francia C. 1983, Cultura materiale extraurbana, Alinea, Firenze. 5
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E non può essere altrimenti viste le specificità produttive del territorio e l’attenzione dedicata, da sempre, a questa tematica. Si pensi, solo per fare qualche esempio, alla Mostra Internazionale dell’Artigianato che, soprattutto in alcuni momenti, ha rappresentato l’occasione di fare il punto sul tema — da Dov’è l’artigiano?, curata da Enzo Mari7, al più recente Artigianato Design Innovazione. Le nuove prospettive del saper fare, a cura di Francesca Tosi, Giuseppe Lotti, Alessandra Rinaldi, Stefano Follesa,8 o le ricerche promosse da Elisabetta Cianfanelli finalizzate, tra l’altro, a verificare le potenzialità dell’attualizzazione del classico e delle contaminazione con le tematiche proprie dello scenario Industria 4.0. Il rapporto tra Design e sistema produttivo viene indagato anche con lo sguardo rivolto verso un’interdisciplinarietà più ampia — alla base dell’attività formativa propria del curriculum, con contributi propri dell’estetica, delle scienze sociali (sociologia, antropologia, psicologia cognitiva), dell’economia, dell’ingegneria, nelle sue diverse declinazioni, proprio della tesi di Marco Mancini, che si interroga sui fattori di successo di un prodotto spingendosi fino a definire una griglia di riferimento per azioni progettuali e didattiche9, ma presente anche nel già ricordato lavoro di Ilaria Bedeschi che risente, in maniera esplicita, delle ricerche di economisti come Giacomo BecattiCfr. il catalogo Mari E. 1981, Dov’è l’artigiano, Electa, Firenze. Cfr. il catalogo Tosi F., Lotti G., Rinaldi A., Follesa S. (a cura di) 2015, Artigianato Design Innovazione. Le nuove prospettive del saper fare, DIDA Press, Firenze. 9 Anche come espressione di un lavoro sui fondamenti propri della disciplina promosso da Vincenzo Legnante nell’ambito del corso di Progettazione I. 7 8
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ni e Marco Bellandi10 — a partire dalle specificità del modello produttivo italiano: piccole imprese e distretti come luoghi11. Il rapporto tra Design e innovazione tecnologica, e le opportunità offerte dalle tecnologie digitali sia in ambito produttivo che, a più ampio spettro, nel campo dell’innovazione sociale rappresenta il terzo tema, in parte trasversale ai precedenti. Campi di ricerca e di sperimentazione sono le molteplici forme della connessione digitale applicata nel campo del Design di prodotti e servizi nei settori della salute e del benessere, nel settore dell’apprendimento e, più in generale, dell’inclusione sociale. Alessandra Rinaldi affronta il tema del contributo del design e delle tecnologie smart per il benessere e la salute, con una particolare attenzione per l’invecchiamento attivo, tema portante di Horizon 2020 e obiettivo centrale delle politiche di sviluppo sia a livello europeo che italiano orientate alla sostenibilità sociale dell’invecchiamento della popolazione. Alessia Brischetto affronta invece i più recenti orientamenti dell’approccio Human-Centred Design per l’inclusione sociale, con particolare attenzione al progetto di strategie e strumenti per l’apprendimento basati sull’impiego di tecnologie digitali. Sempre in questo ambito si muovono la tesi di Irene Bruni, dedicata ai più recenti sviluppi delle tecnologie digitaDi Marco Bellandi, si confronti, tra l’altro Bellandi M. 2003, Mercati, industrie e luoghi di piccola e grande impresa, Il mulino, Bologna. 11 La ricerca è presentata in Legnante V.A., Lotti G., Bedeschi I. 2013, Dinamici equilibri. Design e imprese, Franco Angeli, Milano. 10
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li e dell’Internet delle Cose (IOT, Internet of Things), e alle sue ripercussioni sui modi di vita e le opportunità offerte in termini di condivisione e inclusione sociale, e quella di Daniele Busciantella, finalizzata alla definizione di metodi e strumenti per la condivisione sociale, sviluppati in collaborazione con il Design College di Shanghai e collocati nel quadro del dibattito internazionale sui temi e le applicazioni dell’approccio Human-Centred Design e User experience. L’attenzione verso le tematiche del progetto come strumento di intervento nel sociale è sempre stata propria della Scuola Fiorentina — dal Design e società scritto da Pierluigi Spadolini12 al Design per la comunità, il progetto degli oggetti che l’uomo usa ma non compra, proposto da Giovanni Klaus Koenig e Roberto Segoni — che si concretizza principalmente nella progettazione dei mezzi di trasporto pubblico e dell’arredo urbano13, fino anche alle esperienze dell’Architettura Radicale e del Controdesign che sfociano nel concetto della ‘creatività di massa’, proposta dalla Global Tools14. Ancora, il design dei servizi15 — che vede nel pensiero di Pierluigi Spadolini un antesignano con il concetto di circuito e terminale di circuito. In altri contributi emerge chiaramente il legame tra il design e le altre discipline del progetto. Un rapporto quasi inevitabile considerando le specificità della disciplina — deSpadolini P. 1969, Design e società, Le Monnier, Firenze. Cfr., soprattutto, Design for the community, «la Casabella». 14 Per un racconto critico dell’esperienza della Global tools, si legga Branzi A. 1984, La casa calda. esperienze del nuovo design italiano, ideabooks, Milano. 15 Con un approccio oggi proprio dello Human-Centred Design, del Design for All e del Life cycle design. 12 13
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sign come mediatore e catalizzatore di contributi altri — e che il Dottorato in Design è un curriculum all’interno di un Dottorato in Architettura, attualmente strutturato in otto percorsi. Pensiamo ai contributi di Francesco Armato e Francesco Parrilla che esplorano i confini tra il design e le discipline rivolte alla progettazione dell’urbano e del paesaggio, individuando ed esaltando comunque la particolarità del contributo — il lavorare sugli spazi minimi e marginali, l’attenzione verso le componenti simbolico-comunicative. Un approccio tipico del contributo fiorentino alla disciplina anche guardando alle esperienze storiche — Firenze come culla del Controdesign e dell’Architettura Radicale — che ci raccontano proficui sconfinamenti e contaminazioni tra discipline (dall’urbanistica all’arte contemporanea)16. È essenziale in questi anni il rapporto del percorso di Dottorato con le attività di ricerca condotte dall’attuale Scuola del Design fiorentino. Lo stretto collegamento tra le tematiche della sostenibilità e dello Human-Centred Design si ritrova infatti anche in recenti progetti di ricerca — TRIACA, HIGH-CHEST, MIAMI, coordinate da Vincenzo Legnante, Francesca Tosi, Giuseppe Lotti, ma anche la collaborazione con il Consorzio Comieco sviluppata da Elisabetta Cianfanelli — in cui l’attenzione è rivolta principalmente alle problematiche ambientali e del design for all; ma anche ai progetti di ricerca nei Sud del mondo come Tempus 3D 16 Basti pensare a Superstudio, Monumento continuo e Le dodici città ideali e, soprattutto, a Archizoom, No-stop city, in cui si prefigura un design in grado di progettare la scala urbana come somma di prodotti.
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— Design pour le développement durable des productiones artisanales locales in cui la sostenibilità è declinata principalmente in chiave sociale e culturale fino ad assumere una valenza quasi politica. Ancora la Scuola Fiorentina si è interrogata sulle nuove prospettive dell’artigianato e del saper fare e la loro valorizzazione attraverso una comunicazione innovativa o la definizione di un piano integrato di formazione dedicato a specifici sistemi territoriali di imprese, il ruolo del design come possibile mediatore all’interno della società interculturale17 o dedicato a particolari utenze — kids design18. Infine, il tema dell’innovazione tecnologica e formale viene sviluppata in questi ultimi anni sia nell’ambito di progetti europei, tra i quali il progetto Intermodal Bike (7° programma quadro), coordinato per l’Università di Firenze da Francesca Tosi, sia in progetti di ricerca finanziati da aziende di eccellenza come Luisa Via Roma (responsabilità scientifica di Elisabetta Cianfanelli) e Brunello Cucinelli e Salvatore Ferragamo (Francesca Tosi). Nella complessità delle tematiche sviluppate una disciplina che, pur negli inevitabili limiti della ricerca e della professione, ha l’ambizione di contribuire alla trasformazione del mondo che ci circonda.
Cfr. le ricerche condotte da Giuseppe Lotti ed il suo gruppo di lavoro e presentate, tra l’altro, in Lotti G. 2015, Design interculturale. Progetti dal mare di mezzo, DIDA Press, Firenze. 18 Si guardi al lavoro di Giraldi L. 2014, KIDesign. Concept per bambini da 3 a 6 anni, Altralinea, Firenze, ma anche alla prima edizione di COSè. Noi e le cose, il festival, dedicato all’educazione alle cose (curatori Giuseppe Lotti e Laurea Giraldi). 17
è opportuno interrogarsi sul contributo del disegno industriale a un sistema produttivo locale ed è legittimo attendersi risposte plausibili e scenari praticabili. a ben vedere, le possibilità di successo di chi si ponga simili obiettivi dipendono dalla capacità di armonizzare gli interventi di tipo competitivo […] con quelli di tipo precompetitivo.
M. Chiapponi, 2005
Ilaria Bedeschi ciclo XXI
Tutor Vincenzo Legnante
Co-tutor Giuseppe Lotti
design e territorio. strategie, metodi, strumenti, attori per la competitività dei sistemi territoriali di imprese
Abstract La ricerca si interroga sul ruolo del design come attore della competitività dei sistemi territoriali d’impresa, come raggruppamenti di filiera che operano in uno specifico contesto geografico; nella consapevolezza che tale modello produttivo presenta una specificità per il nostro paese — dai distretti ai sistemi territoriali aperti.. Vengono individuati gli attori di riferimento, delineato il ruolo specifico della disciplina e relativo sistema di relazioni, definiti i metodi e gli strumenti di intervento. Tali considerazioni vengono verificate attraverso l’analisi di casi studio — praticati da chi scrive — a livello di progetti di ricerca per il sistemi territoriali d’impresa — dal settore del mobile a quello della nautica, dal lapideo al florovivaismo — toscano, sviluppati su finanziamento a livello di Unione Europea, nazionale e regionale. Base di partenza scientifica nazionale o internazionale Necessità di innovazione, ma quale? L’attuale situazione socio-economica dei paesi occidentali, ed in particolar modo del nostro, evidenzia una crescente difficoltà ad affrontare la crisi degli equilibri della
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produzione e del consumo mondiale, in conseguenza dei mutamenti strutturali in atto nell’economia globale che aumentano la pressione verso il cambiamento e intervengono sulla competitività di paesi e imprese. Il diminuito costo dell’informazione, l’aumento del numero dei mercati e degli agenti concorrenti, la liberalizzazione di mercati, prodotti e lavoro, l’aumento del costo della produzione stanno determinando la progressiva caduta delle tradizionali fonti di differenziazione competitiva. L’accelerazione e l’intensificazione del ritmo di introduzione delle innovazioni e la conseguente diminuzione del tempo di sfruttamento dei vantaggi competitivi da esse create sono alcune delle caratteristiche della cosiddetta era della conoscenza. Dunque, come evidenzia Riccardo Varaldo, la più evidente conseguenza di questo mutante sistema è che la capacità di innovare processi, prodotti e business models appare chiaramente come un criterio di competitività determinante1
comportando di fatto che quelle competenze che fino ad oggi aumentavano le possibilità di raggiungere posizioni competitive (need-to-win capabilities), con l’accelerazione della dinamica competitiva, diventano capabilites ineludibili (needed-to-play), rendendo necessario un aggiornamento continuo di quelle competenze che spesso perdono il loro reale valore differenziante2. 1 Relativamente all’innovazione nel panorama della nuova economia della conoscenza è particolarmente interessante il documento di Varaldo R. 2003, L’innovazione nell’era della conoscenza e della globalizzazione, Fondazione Lucchini, Brescia. 2 Cfr. Lipparini A. 2002, La gestione strategica del capitale intellettuale e del capitale sociale, Il Mulino, Bologna.
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Inoltre tali dinamiche inducono anche alla necessità di continue trasformazioni strutturali e organizzative spostando il valore aggiunto verso la gestione manageriale a monte (processi e tecnologie) e a valle (servizi e clientela). Dunque cambiano i paradigmi dell’innovazione. Da fenomeno prevalentemente o esclusivamente tecnologico, coincidente o quasi con l’allocazione di risorse in attività di R&S in house, l’innovazione sta diventando un fenomeno multidimensionale, mentre cambiano anche le sue fonti. […] Sempre più si riconosce che la capacità innovativa delle imprese non si sviluppa in isolamento l’una dall’altra e che è influenzata dal fatto di operare in un ambiente più o meno innovativo. Di fatto la produzione della conoscenza oggi assume un carattere sempre più collettivo e interattivo. La nuova innovazione non investe più solo il sistema tecnologico, ma il capitale cognitivo e l’intera organizzazione delle imprese, con rilevanti implicazione sul ruolo, sulla qualità e sulle competenze del capitale umano (Varaldo, 2003).
In particolare il concetto di economia della conoscenza indica una nuova fase in cui la conoscenza scientifica e le risorse umane rappresentano fattori di crescita strategici e in cui esiste uno stretto legame tra apprendimento, innovazione e competitività economica3. Un’industria da resource-intensive a knowledge-intensive based Dunque il baricentro dell’innovazione si sposta verso la produzione di conoscenza — knowledge-based economy — e verso le modalità e i tempi con cui questa si trasforma 3 Cfr. Cappellin R. 2003, Le reti di conoscenza e innovazione e il knowledge management territoriale, in G. Pace (a cura di), Innovazione, sviluppo e apprendimento nelle regioni dell’Europa mediterranea, Franco Angeli, Milano.
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in valore e dunque competitività per il sistema industriale. Oggi l’innovazione è divenuta ‘di sistema’ per indicare una trasformazione che avviene nel novero della catena del valore delle merci, ma travalicando la forma del processo di produzione specifico e finendo per coinvolgere il comportamento di produzione, scambio e consumo di un intero sistema complesso (Celaschi, 2007).
Ai fini della capacità innovativa diventa perciò rilevante non solo ciò che si produce in fatto di prodotti e servizi (specializzazione produttiva), ma anche come concretamente si produce e con quali imprese (competenze e strategie delle imprese). Cambiando beni e prodotti scambiati sul mercato, sempre meno tangibili e maggiormente legati a componenti di valore, si modificano i processi di comunicazione, di distribuzione, di interfaccia, di assistenza, di servizio, mutando il rapporto tra chi fa cosa, cambiando di conseguenza l’assetto strutturale, l’organizzazione e la qualità della manodopera delle imprese, introducendo nuovi attori e nuove esternalizzazione di funzioni e servizi. Questi fenomeni sono ben visibile se si pensa che già nel 2002 il 48, 5% del PIL della UE era rappresentato dalla produzione di servizi alle imprese, come sottolinea Celaschi: Se provassimo a calcolare il rapporto tra primo costo industriale di produzione della merce contemporanea e investimenti diretti ed indiretti nei processi di mediazione, ci renderemmo conto della progressiva marginalizzazione del primo insieme (Celaschi, 2007).
Diversi sono dunque i fattori che stanno sostanziando il passaggio da un’economia industriale a un’economia knowledge-based.
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Questo mutamento è stato evidenziato a più riprese dall’OECD4 ed è oggetto di svariate trattazioni economiche5. Anche in virtù di tale riconoscimento l’Unione Europea ne ha fatto il centro delle politiche per lo sviluppo comunitario nella Strategia di Lisbona del 2002 per rendere quella europea la più dinamica e competitiva knowledge-based economy al mondo: Research, innovation and education are the heart of the knowledge-based economy. The promotion of European competitiveness in the knowledge-driven economy through research, innovation and investment in human resources is a cornerstone of European research policies6.
E in questo contesto si muove il VII Programma Quadro per la ricerca, lo sviluppo tecnologico e le attività dimostrative 2007-2013, che, in modo chiaro, nei bandi di finanziamento oggi aperti evidenzia che per aumentare la competitività dell’industria europea è necessario generare conoscenza che ne assicuri la trasformazione da resource-intensive a knowledge-intensive based, per affrontare le sfide imposte dalla nuova rivoluzione industriale e dalla competizione a livello globale, così come le sfide ambientali. Tale trasformazione è essenziale al fine di produrre, in modo sostenibile, prodotti ad alto valore aggiunto. […] La competitività della maggior parte delle imprese mature è largamente dipendente dalla loro capacità OECD 1998, University Research in transition, Paris. Sull’Economia della conoscenza la bibliografia è ampia. Relativamente alla definizione ristretta (Ricerca, impatto sulla crescita apprendimento e comptenze): Foray D. 2000, L’économie de la connaissance, La Découverte, Paris (trad. it. L’economia della conoscenza, Il Mulino, Bologna, 2006); Foray D., Lundvall B.A. (a cura di), Employment and Growth in the Knowledge-based Economy, Paris, OECD; Rullani E. 1995, Distretti industriali ed economia della conoscenza, «Oltre il ponte». 6 Commision of European Communities, The Lisbon Strategy — Making Change Happening, 2000. 4 5
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di integrare conoscenza e nuove tecnologie, creando progressivi cambiamenti attraverso la ricerca e le nuove applicazioni in territori di incrocio tra le diverse discipline7.
Così come individua nell’ICT il “very core of the knowledge-based society”, in grado di “stimolare e guidare la creatività e l’innovazione di prodotti, servizi e processi”8. Il Sistema Italia. Limiti e possibilità Nell’ottica di un tale quadro internazionale in fase di progressivo mutamento e di necessità di un cambiamento strutturale di metodi e strumenti di innovazione, il Sistema Italia, da sempre legato a settori che hanno tratto competitività in primo luogo dall’eccellenza formale dei prodotti e da un’abilità produttiva quasi artigianale, basata su innovazioni di tipo essenzialmente incrementale, necessita di un complessivo e strutturale ripensamento. L’Italia, a fronte di una già sfavorevole congiuntura economica mondiale, ampliatasi con la crisi globale economico-finanziaria degli ultimi mesi, evidenzia le debolezze di una politica di innovazione con scarse prospettive strategiche e minimi investimenti in ricerca. Tanto più necessaria vista la scarsa capacità delle piccole e medie imprese italiane a confrontarsi con l’innovazione in genere, ed in particolare con quella tecnologica. Un’opportunità per fronteggiare questo scenario pareva costituita dal disegno di legge sulla nuova politica Work Programm del bando “Nanosciences, nanotechnologies, materials and new production tecnologie — NMP”, Theme 4 — COOOPERATION, European Commission C(2008)6827, 17/11/ 2008. 8 Work Programm del bando “ICT — Information and Communication Technologies”, Theme 3 — COOOPERATION, European Commission C(2008)6827, 17/11/ 2008. 7
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industriale varato dal governo italiano il 22 settembre 2006 — denominato Piano Industria 2015 — che stabilisce le linee strategiche per lo sviluppo e la competitività del sistema produttivo italiano del futuro, fondato su un concetto di industria esteso alle nuove filiere produttive che integrano manifattura, servizi avanzati e nuove tecnologie, attraverso l’elaborazione di Progetti di Innovazione Industriale (PII). In particolare il PII Nuove tecnologie per il Made in Italy individua obiettivi di innovazione attuabili attraverso la trasformazione verso un’industria knowledge-based: • innovare i prodotti, sviluppando nuove sinergie con i produttori di nanotecnologie, biotecnologie, nuovi materiali, meccatronica ecc.; • innovare i processi, incentivando nuovi modelli di cooperazione produttiva tra le imprese presenti sui mercati internazionali e la subfornitura; • innovare il sistema della commercializzazione sia in Italia che all’estero, rendendo efficiente il comparto della logistica, sviluppando reti distributive specializzate e potenziando i canali di vendita di natura telematica9.
Oggi purtroppo sappiamo che tale piano, per una pluralità di cause, non si è concretizzato in reali interventi. Da distretto tradizionale a sistema territoriale aperto Ma come può il sistema produttivo italiano, costituito per oltre il 90% da piccole e medie imprese organizzate in distretti, che fino ad oggi hanno rappresentato l’ossatura dell’economia nazionale, confrontarsi con la necessità 9 Piantoni A., Piano del Progetto di Innovazione Industriale. Nuove Tecnologie per il ‘Made in Italy’, IPI Istituto per la Promozione Industriale, presentato al Ministero dello Sviluppo Economico il 7 febbraio 2008.
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di un mutamento strutturale dei rapporti produttivi e con l’apertura verso reti globali di conoscenze che sembrano confliggere con una vocazionalità produttiva fortemente radicata sul territorio? Muovendo da tale domanda si è articolato un dibattito sulla possibilità e sui modi con cui i distretti, come forma organizzativa, sono in grado di inserirsi nel quadro attuale, di sostenere processi innovativi, di modificarsi per affrontare la sfida della conoscenza. Proprio il territorio può rappresentare la base di partenza per nuovi distretti intesi come sistemi territoriali aperti, contesti cioè in grado di moltiplicare le occasioni di scambio generativo, le possibilità di condividere standard di produzione, regole progettuali e investimenti sulle risorse umane (Gurisatti, 2006).
Il contributo di Enzo Rullani risulta fondamentale: è importante che l’Italia scopra, all’interno dell’economia della conoscenza dei nostri giorni, la sua originalità, che non è solo arretratezza, ma anche invenzione, costruzione. […] L’esperienza italiana suggerisce di costruire l’economia della conoscenza in chiave di filiera cognitiva, piuttosto che di particolari settori o di singole imprese. […]. Servono conoscenze inter-culturali e transnazionali. […]. In questo continuo rimando tra dimensione locale e dimensione globale è in gioco uno dei nodi cruciali dell’evoluzione del sistema distrettuale, quello rappresentato dal rapporto tra sapere tacito, che viene dall’esperienza diretta di imprenditori e lavoratori, e sapere codificato, quello che consente di accedere alle reti globali e di utilizzarne i linguaggi. […] La combinazione dei due saperi è ciò che permette di generare valore economico (Rullani, 2004).
Il rapporto con il territorio può rappresentare inoltre al di là del sistema organizzativo-produttivo, ma, proprio in
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quanto valore intrinseco delle merci, uno strumento di competizione sui mercati globalizzati, acquistando una valenza crescente soprattutto nel caso di contesti che nell’immaginario collettivo occupano un ruolo significativo. La globalizzazione, mentre accresce la mobilità delle imprese, contribuisce a creare nuove opportunità per lo sviluppo locale. Indebolendo la capacità regolativa degli Stati nazionali e aumentando la concorrenza tra territori, spinge i governi locali e regionali a mobilitarsi per svolgere un ruolo attivo nei percorsi di sviluppo. (Triglia)
Il ruolo del design L’importanza del ruolo del design nel generare innovazione e nel rilanciare la competitività della piccola e media impresa sono argomenti sostenuti da tempo a livello internazionale, come mostra il lavoro condotto dalla ricerca nazionale SDI — Sistema Design Italia, che ha sviluppato un’articolata ricognizione sulla natura sistemica del design italiano, il ruolo svolto nel sistema produttivo e nelle sue dinamiche evolutive, in particolare nei testi di Maffei e Simonelli10. Relativamente al contributo del design più specificatamente verso i sistemi territoriali di impresa Medardo Chiapponi: È opportuno interrogarsi sul contributo del disegno industriale a un sistema produttivo locale ed è legittimo attendersi risposte plausibili e scenari praticabili. A ben vedere, le possibilità di successo di chi si ponga simili obiettivi
Maffei S., Simonelli G. 2000, Territoro Design. Il design per i distretti industriali. Ed. POLI. Design, Milano; Zurlo F., Cagliano R., Simonelli G., Verganti R. 2002, Innovare con il design. Il caso del settore dell’illuminazione in Italia, «Il Sole 24 ore», Milano.
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dipendono dalla capacità di armonizzare gli interventi di tipo competitivo, e pertanto effettuati a favore di singole imprese, con quelli di tipo precompetitivo, finalizzati a far crescere il sistema produttivo locale nel suo insieme (Chiapponi, 2005).
Diventa prioritario perciò indagare quali metodi e strumenti si possono definire a supporto del ruolo che il design può svolgere in questo contesto, e in che misura e con quali modalità la ricerca e la pratica nell’ambito del design possono contribuire ad attivare modelli virtuosi di sviluppo dell’innovazione per i sistemi di impresa nei territori produttivi. Un interessante contributo in merito è fornito dalla pubblicazione di Celaschi e Deserti11, seppur mirante a individuare pratiche per le ricerca applicata del design e non a individuare modelli metodologici di intervento. Obiettivi generali e specifici della ricerca Obiettivo generale La ricerca si propone di creare un quadro di metodi e di strumenti attraverso cui il design può divenire motore di innovazione competitiva per i sistemi territoriali di impresa con capacità di incidere a diversi livelli sulla trasformazione della conoscenza in valore. Tale tematica risulta in sé innovativa poiché tradizionalmente il design ha costituito strumento di innovazione per la singola impresa, con un apporto in genere non condivisibile, anzi parte integrante del patrimonio di conoscenze strategiche dell’impresa stessa. L’obiettivo di tale lavoro consiste nel Cfr. Celaschi F., Deserti A. 2007, Design e innovazione. Strumenti per la ricerca applicata, Carocci, Roma.
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delineare come il disegno industriale possa contribuire a un’innovazione precompetitiva di un sistema produttivo. Ciò attraverso l’analisi di sei casi studio individuati tra attività/interventi realizzati in ambito regionale negli ultimi tre anni e definendo, come criterio di selezione, le tipologie di innovazione perseguita. In particolare, analizzando e inquadrando lo stato di correlazione esistente e le possibilità di sviluppo in fieri e future tra il design e il sistema toscano di piccole e medie imprese, verificando, da un lato, esigenze, aspettative, capacità di assorbimento del tessuto produttivo locale, dall’altro, potenzialità, capacità e metodologie di intervento, verificando inoltre quale risulti essere il contributo di strutture intermedie di servizio e di promozione dell’innovazione formale e tecnologica. Obiettivi specifici 1. Fornire un quadro degli attuali significati e ruoli della disciplina del disegno industriale in una società design-oriented e la possibilità di allargamento dei confini della disciplina e degli ambiti di intervento nella produzione di innovazione, anche attraverso la definizione del significato di innovazione nel panorama competitivo contemporaneo, intesa come continua e sistemica, dunque non solo formale, ma tecnologica, organizzativa, comunicativa, valoriale. 2. Individuare attraverso quali strutture, e con quali modalità di azioni, attività e strumenti avviene a livello europeo la promozione del design come strumento di competitività per le piccole e medie imprese (design support). 3. Definire il sistema di relazioni esistenti tra il design
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come strumento di creazione e promozione di innovazione e il sistema di PMI del territorio toscano del settore manifatturiero (in particolare nei settori mobile e complemento, tradizionalmente più legati ad un’innovazione di tipo incrementale, ma anche in settori non tradizionalmente design-oriented) mediante un’analisi di tipo quantitativo e qualitativo che rilevi il grado di penetrazione del design e i benefici indotti, quali gli ambiti di applicazione più praticati (strategia, ideazione, prodotto, processo, comunicazione, vendita, servizio, ecc.), quali le modalità di rapporto tra impresa e designer, quale la percezione del valore aggiunto da parte dell’impresa, quali gli investimenti futuri, quali i contributi del sistema formativo universitario. 4. Selezionare sei casi studio tra gli interventi realizzati negli ultimi tre anni per i sistemi territoriali di impresa a livello regionale toscano, in cui il design interviene come soggetto attivo nella produzione di innovazione (di scenario, di sistema/prodotto, formale, tecnologica, valoriale/comunicativa, di integrazione tra filiere). 5. Definire una serie di parametri attraverso i quali analizzare i casi studio individuati e valutare i punti di forza e di debolezza degli interventi in relazione alle variabili in oggetto. 6. Creare un quadro di strategie, metodi e strumenti attraverso cui il design può divenire strumento di innovazione competitiva per i sistemi territoriali di impresa, definendo elementi e condizioni di replicabilità in altri contesti produttivi.
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Metodologia e strumenti Relativamente alla definizione dell’obiettivo specifico, questi si esprime ne: 1. La definizione del quadro di indagine ovvero il significato di innovazione complessa e il ruolo e i confini della disciplina del disegno industriale. • Sono state condotte ricerche bibliografiche negli ambiti di pertinenza dei temi, in particolare le ricerche PRIN Nuovi modelli concettuali e nuovi strumenti per l’innovazione, condotta dal Politecnico di Milano e dall’Università Bocconi, e Cross fertilization per l’innovazione: nuovi strumenti e strategie progettuali a sostegno della competitività del Sistema Moda Italia, condotta dal Politecnico di Milano e dall’Università di Firenze. Ulteriori contatti sono stati avviati con ricercatori di altre sedi che si occupano di tematiche inerenti al contributo del design nei processi di innovazione e nello sviluppo delle politiche per la competitività del territorio: Flaviano Celaschi (Torino) Mario Buono (Napoli). • Hanno fornito un’occasione di incremento di conoscenza e di scambio con esperti il ciclo di incontri Programma Internazionale di sviluppo delle competenze economiche e manageriali, organizzato dal Centro di formazione manageriale e gestione d’impresa della CCIAA di Bologna; le giornate di studi Il design e la ricerca nelle università italiane, organizzate dalla Conferenza dei Dottorati in Design; il seminario di presentazioni I territori della ricerca in design; il Convegno internazionale Changing the Change. 2. L’Individuazione a livello europeo di strutture, attività e strumenti di design support.
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• È stata condotta un’analisi dello stato dell’arte di paesi europei che, pur presentando un tessuto produttivo simile a quello italiano, hanno da tempo iniziato a offrire supporto alla cultura del design, favorendone la diffusione e incoraggiandone l’uso da parte delle imprese attraverso la creazione di agenzie o di organizzazioni governative volte a supportare il design per le PMI, offrendo servizi e consulenze; • Sono stati avviati, tramite il Centro Sperimentale del Mobile, struttura di servizio alle imprese responsabile per la Regione Toscana delle politiche di innovazione del settore arredo-complemento, rapporti di collaborazione e incontri con Design Center Europei nell’ambito di un Progetto Interreg. finanziato dall’Unione Europea SEEdesign — Sharing Experiences on Design Support, che ha visto la partecipazione dei maggiori centri di design a livello europeo (Design Wales, University of Manchester, Centre du Design du Rhone Alpes, Design Zentrum Praha, Dansk Design Centre, e anche di una realtà molto più piccola e limitata regionalmente come appunto il Centro Sperimentale del Mobile e dell’Arredamento) finalizzato allo scambio di best practices di supporto alla diffusione del design e all’innovazione attraverso il design. Ciò ha consentito la partecipazione alle attività del progetto SEEdesign e agli International Workshop on Design Support di Firenze, Bruxelles e Praga. 3. La definizione del sistema di relazioni esistenti tra il design come strumento di creazione e promozione di innovazione e il sistema di PMI del territorio toscano del settore manifatturiero. È stata svolta un’analisi sperimentale
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socio-tecnica diffusa sul territorio toscano che ha previsto un doppio livello: • un’indagine finalizzata a verificare gli esiti, in termini di ricadute sul sistema produttivo, ma anche di capacità di incidere sul sistema occupazionale e del grado di assorbimento del territorio di competenze nell’ambito del design, del primo quinquennio di percorso formativo univeristario in disegno industriale presente in Toscana attraverso un questionario follow-up tra un campione di 150 laureati; • un’indagine finalizzata a indagare le relazioni esistenti tra design e sistema delle PMI toscane nel settore manifatturiero (anche non design-oriented), a livello di grado di penetrazione e benefici indotti, ambiti di applicazione (dalla strategia al servizio), modalità di rapporto impresa-designer, percezione dellimportanza da parte dell’impresa, rapporto con la formazione e la ricerca, il ruolo delle strutture di servizio, la previsione di investimenti. La messa a punto delle schede di indagine è stata condotta in collaborazione con la prof.ssa Annick Magnier, sociologa dell’Università di Firenze, che ha contribuito a delineare il questionario relativamente agli obiettivi di interesse e a fornire chiavi di lettura interpretativa dei dati rilevati. La prima fase di indagine, relativa al sistema formativo, è stata condotta secondo le seguenti fasi: preparazione della scheda, invio questionario a un campione di 150 laureati attraverso la mailing list del servizio orientamento allo stage del Corso di Laurea in Disegno Industriale, ricezione dei questionari compilati (110 su 150 inviati), elaborazione dei dati.
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La seconda fase di indagine, relativa alle imprese, è stata condotta con le seguenti modalità: preparazione della scheda e definizione del target di PMI in collaborazione con Centro Sperimentale del Mobile, invio del questionario a un campione di 80 aziende attraverso una mailing list, ricezione dei questionari compilati (50 su 80 inviati), elaborazione dei dati. Durante l’elaborazione di questa fase della ricerca è emerso come il contesto territoriale assuma un ruolo rilevante e come questo risulti, socialmente, produttivamente ed economicamente, un elemento imprescindibile, in particolar modo se si analizza non la singola impresa, ma il sistema produttivo allargato. Si è poi dedicata attenzione ai tre obiettivi specifici che sono perseguiti nella fase propositiva della ricerca: “Selezione dei casi studio tra gli interventi realizzati per i sistemi territoriali di impresa a livello regionale toscano”; “Definizione dei parametri di analisi e valutazione dei casi studio”; “Reazione di un quadro di metodi e strumenti”. La fase di selezione dei casi da analizzare e valutare ha richiesto un approfondimento della teoria sulla metodologia di indagine per casi studio, per definirne tipologia e criteri di scelta. Tali casi-studio sono stati selezionati tra alcuni interventi realizzati dal gruppo di ricerca di disegno industriale del Dipartimento TAD12 — oggi DIDA — nell’ambito di Progetti Comunitari, regionali o locali, condotti nella loro intera realizzazione o comunque terminati nell’arco Il gruppo di ricerca è composto da Vincenzo Legnante, Giuseppe Lotti, Ilaria Bedeschi, e per alcuni progetti anche da Francesca Tosi, Valentina Gatti.
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degli ultimi tre anni parallelamente all’attività di ricerca. La selezione operata ha mantenuto un criterio di costanza: tutti gli interventi hanno come beneficiari i sistemi territoriali di imprese, e un criterio di variazione: ogni intervento propone un tipo di innovazione di diverso ordine (di scenario, di sistema/prodotto, formale, tecnologica, valoriale/comunicativa, di integrazione di filiere). • Il Progetto Regionale Misura 1.7.1 “Trasferimento dell’innovazione alle PMI. Reti per il trasferimento tecnologico” TI. POT — Tecnologia ed innovazione per le pietre ornamentali toscane, settore travertino, presentato dal Consorzio delle Pietre Ornamentali, che ha portato alla definizione di un’analisi SWOT del settore del travertino di Rapolano e alla successiva definizione di scenari di innovazione (innovazione di scenario). • Il seminario Forma viva, sviluppato all’interno del Master “Design Innovazione” e finanziato dal Comune di Quarrata, che ha portato alla definizione di una serie di progetti per il sistema del florovivaismo pistoiese, dal concept di prodotto al progetto del servizio, dell’immagine coordinata, della comunicazione, degli eventi culturali (innovazione di sistema / prodotto). • Il Progetto Interreg IIIC EDDT — DESTER, che nell’ambito del Progetto complessivo EDDT per lo Sviluppo dei Territori, ha realizzato un’azione specifica per il settore del travertino di Rapolano finalizzata alla definizione di concept di progetto per il riutilizzo degli scarti di cava. Una ricerca che ha coinvolto, oltre al Dipartimento TAD, anche l’Ecole des Beaux Arts di Marsiglia e l’Instituto Politecnico di Tomar (innovazione formale).
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• Il Progetto Regionale Misura 1.8 Ricerca e sperimentazione su metodi ottimali per la sigillatura dei giunti tra gli elementi strutturali del camper presentato da Trigano, azienda leader europea nel settore della camperistica che ha coinvolto un team di ricerca multidisciplinare composto, oltre che dal Dipartimento TAD, dal Dipartimento di Scienze Ambientali Forestali della Facoltà di Agraria di Firenze, dal Polo Chimico di Colle dell’Università di Siena e da Ingegneria dei Materiali del Consorzio Polo Tecnologico Magona dell’Università di Pisa. Una ricerca che ha sviluppato proposte relative a soluzioni tecnologiche innovative per la realizzazione dei giunti dei pannelli strutturali dei veicoli. Il progetto, sebbene non rivolto a un gruppo di aziende ma ad un’unica impresa, è stato ideato per costituire un’esperienza pilota da estendere in una fase di sviluppo successivo all’intera filiera della camperistica (Progetto Regionale Misura 1.7.1 REICA) e perciò considerato rivolto all’accrescimento della competitività del sistema locale (innovazione tecnologica). • Il Progetto The Shape of Values, finanziato nell’ambito del Piano Promozionale delle Regione Toscana, che ha lavorato alla definizione di una serie interventi volti alla promozione del sistema produttivo toscano del settore del mobile e complemento. Ciò attraverso la creazione di un sistema di riferimento di valori rappresentativi della Toscana poi espressi nella realizzazione di prodotti/manifesto ed esposti in una serie di mostre internazionali accompagnati da video rappresentativi del legame produzione-territorio (innovazione valoriale / comunicativa).
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Ricerca bibliografica
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Partecipazione a convegni e seminari
Ciclo di incontri “Programma internazionale di sviluppo competenze economiche e manageriali”, Bologna 2006
ruolo del design rapporto design e territorio
Ricerca bibliografica
Seminario “I territori della ricerca in design”, Milano 2007
Partecipazione a convegni e seminari
Giornate di studi “Il design e la ricerca nelle Università italiane”, Conferenza dottorati in design, Napoli 2007
promozione europea del design
Partecipazione a progetto interreg IIC Seedesign
innovazione complessa
relazione design/pmi nei sistemi territoriali toscani
Analisi socio-tecnica sistema formativo Indagine a questionario su 100 neolaureati in DI Analisi socio-tecnica sistema PMI Indagine a questionario su 80 PMI toscane
Partecipazione a progetti per innovazione sui sistemi produttivi toscani
selezione casi studio e definizione parametri
Applicazione metodologia dei casi studio Analisi delle variabili e dei processi degli interventi
Convegno “Changing the cange”, Torino 2008 International workshop on design support, Firenze/Bruxelles/Praga 2006-2007
Collaborazione con Yannick Magnier Dipartimento di Sociologia UNIFI Collaborazione con Centro Sperimentale del mobile e dell’arredamento
Collaborazione con Flaviano Celaschi Politecnico di Torino
Elaborazione questionario di indagine Definizione target di invio Valutazione risultati
Partecipazione a Latin network develop design process in latin countries
definizione quadro attività metodi e strumenti replicabili
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• Il Progetto Regionale Misura 1.7.1 “Trasferimento dell’innovazione alle PMI. Reti per il trasferimento tecnologico” T.I.MO.N.A. Trasferimento e Innovazione dei settori del MObile, della Nautica e dell’Artigianato Artistico, di cui il Dipartimento TAD è capofila e che ha visto il coinvolgimento, oltre che di due comuni e di tre centri di servizio alle imprese che hanno avuto funzione di tramite con il tessuto produttivo, anche di sette aziende del settore del mobile e dell’artigianato artistico, con l’obiettivo di verificare e di sperimentare integrazioni di filiera tra questi settori e il settore della nautica toscana, mediante l’attivazione di azioni di trasferimento tecnologico di materiali e tecnologie innovativi (innovazione di integrazione di filiere). La definizione dei criteri di analisi e valutazione dei casi studio è stata definita anche attraverso la condivisione delle esperienze del Latin Network, una rete di strutture (presentata nell’ambito del convegno Changing the Change) che lavora allo sviluppo dei processi del design e al metaprogetto, inteso come studio e progetto del processo di progettazione nei paesi di origine latina. Attività di ricerca Fase istruttoria La fase istruttoria è stata volta a creare una larga base di conoscenza trasversale in grado di rilevare alcune questioni scientifiche in corso di dibattito nella comunità del disegno industriale. Da qui una prima definizione dell’ambito di interesse di ricerca: le prospettive future di intervento del design nel mondo della produzione e quali le metodologie e gli strumenti applicabili nei diversi settori.
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Nella fase di elaborazione di uno strutturato programma di ricerca, si è evidenziato poi come potesse risultare un tema di stretta attualità il contributo che la ricerca nell’ambito della cultura del progetto è in grado di offrire a quella che la letteratura economica chiama ‘catena del valore’, sia in termini di contribuzione puntuale all’interno di processi governanti da altre conoscenze, sia in termini di regia del processo. Pertanto il programma di ricerca si è delineato in tre marco-fasi: 1. istruttoria (definizione dell’area di studio e articolazione dei settori di analisi), 2. di analisi (analisi ricognitiva e analisi diretta sperimentale socio-tecnica), 3. propositiva (sperimentazione diretta di metodologie di ricerca applicata e elaborazione di un quadro di interventi). La definizione dell’area di studio ha individuato una prima necessaria trattazione delle tematiche inerenti al concetto di innovazione nel panorama socio-economico contemporaneo e le strette interrelazioni di causa/effetto con la competitività del sistema produttivo. Si è dunque cercato di indagare in che modo oggi stanno cambiando i paradigmi dell’innovazione e si è rilevato come il baricentro dell’innovazione stessa si sposti verso la produzione di conoscenza — knowledge-based economy (Foray; Rullani) — e verso le modalità e i tempi con cui questa si trasforma in valore e dunque competitività per il sistema produttivo (Varaldo, 2003), delineando un processo sistemico, anziché lineare, caratterizzato dall’interazione tra diversi attori (Boroni Grazioli, 2002). Ciò ha portato a indagare anche le problematiche che questi cambiamenti determinano in un sistema
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produttivo come quello italiano costituito da piccole-medie imprese con particolari aggregazioni in distretti produttivi e tradizionalmente legati a settori con innovazioni di tipo incrementale (Becattini, 1998), che per struttura difficilmente riescono ad affrontare le nuove sfide in corso (Onida, 2004). Partendo da questo contesto è sembrato importante condurre una ricognizione su quali siano le politiche che sostengono l’innovazione per le imprese sia a livello europeo che nazionale, focalizzando l’attenzione su alcuni programmi che maggiormente sono rivolti a stimolare e finanziare la competitività delle PMI. In Europa in particolare CIP — Competitiveness and Innovation Framework Programme, che supporta attività di innovazione nel business e nei servizi, incoraggiando lo sviluppo nell’uso delle ICT e promuovendo l’uso di energie rinnovabili e il VIIPQ della ricerca che nell’area del programma Capacities prevede azioni volte al trasferimento delle conoscenze dalle aree di ricerca ad alta tecnologia verso le imprese. In Italia il Piano Industria 2015 che stabilisce le linee strategiche per lo sviluppo e la competitività del sistema produttivo italiano del futuro, fondato su un concetto di industria esteso alle nuove filiere produttive che integrano manifattura, servizi avanzati e nuove tecnologie, attraverso l’elaborazione di Progetti di Innovazione Industriale (PII). La definizione dell’area di studio è poi stata ampliata successivamente durante la fase di analisi del sistema produttivo toscano da cui è emerso come il rapporto con il territorio di appartenenza produttiva possa e debba avere un ruolo fondamentale nella capacità di produzione di conoscenza e innovazione dei distretti (Rullani), investendo
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sulla formazione di figure professionali e nuove aggregazioni disciplinari in grado di favorire quelle relazioni dinamiche fondate su legami più deboli che forti necessari alla creazione di un sistema aperto ma distanti dalla coesione sociale del distretto tradizionale (Onida, 2004). L’articolazione dei settori di analisi ha contribuito a delineare come il design, inteso nella sua ampia accezione di cultura del progetto, sia in grado di portare un contributo sostanziale alle azioni multidisciplinari che caratterizzano i processi di innovazione. Ciò non solo in senso tradizionalmente verticale, ovvero intervenendo sulla forma del bene, bensì influendo in modo esplicito a livello strategico nella governance del processo di innovazione attraverso la capacità dialogica di integrazione e di sintesi tra conoscenze specialistiche (Celaschi, 2007). E inoltre costituendo un ponte tra saperi, taciti ed espliciti, in grado sia di tradurre la conoscenza generata nel circuito internazionale rendendola condivisibile all’interno del sistema produttivo, sia di codificare e astrarre le conoscenze locali tacite per valorizzarle nel circuito dell’innovazione (Di Lucchio, 2005). Da qui la sfida che il design può cogliere nel costruire nuove comunità e reti professionali a presidio di un insieme di competenze e conoscenze vicine al mondo della creatività e della comunicazione diverse da quelle tradizionalmente legate ai processi manifatturieri e oggi non più sufficienti a garantire competitività (Bettiol, Micelli, 2005). In questo senso è opportuno interrogarsi sul contributo del disegno industriale a un sistema produttivo locale e quali le metodologie utilizzabili in interventi di tipo precompetitivo (Chiapponi, 1999).
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In particolare, attraverso l’analisi di alcune ricerche in corso, si è evidenziato come sia identificabile costantemente una forte integrazione sinergica tra aree disciplinari quali il marketing, la tecnologia e il design, proponendo dunque un nuovo approccio teorico-metodologico: la definizione di modelli concettuali e strumenti (gestionali, informatici) per l’innovazione, l’introduzione di nuove tecnologie (prototipazione virtuale, l’ICT come strumento per lo sviluppo di nuovi prodotti), il trasferimento tecnologico per l’innovazione dei materiali (nanotecnologie, nuovi compositi, wireless), la sperimentazione di strategie a sostegno della competitività (cross-fertilization, interazione trasversale tra sistemi e trasferimento di conoscenze). Fase di analisi L’analisi delle modalità con cui avviene il supporto alla cultura del design a livello internazionale (creazione di strutture o agenzie pubbliche o private volte a promuovere il design nelle pmi, sistemi di finanziamento, strumenti e metodologie applicate per il design support), condotta attraverso la partecipazione diretta alle attività del Progetto Interreg Seedesign — Sharing experiences on design support, finalizzato alla condivisione di metodologie e buone prassi in materia, ha permesso la costruzione di un quadro da cui emerge come tutti i paesi europei abbiano sviluppato nell’ultimo ventennio (a parte il Design Council fondato 60 anni fa e oggi rilanciato dalla politica economica inglese) agenzie per la promozione e lo sviluppo del design nelle imprese finanziate direttamente dai governi nazionali o regionali e che sviluppano piani di attività triennali. Tali strutture hanno in alcuni casi dimensioni
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rilevanti (fino 55 addetti come il Dansk Design Center) e assommano svariate funzioni (promozione, innovazione, comunicazione, mangement…) in relazione alla vocazionalità produttiva dei territori (Seedesign Bullettin). È interessante rilevare come la politica e la pianificazione di queste strutture rifletta in modo chiaro la politica economica e di innovazione del paese. Dall’analisi degli ambiti di intervento e degli strumenti di design support utilizzati e/o promossi emerge forte il ruolo del design come attivatore di innovazione, in particolare evidenziandone una funzione che travalica il progetto del prodotto e interviene a largo spettro: aprire nuovi mercati, migliorare i servizi, ottimizzare i processi strategici, rafforzare il branding e la comunicazione (Cox). Da rilevare l’importanza assunta dal design management a livello di processo di intervento e di formazione del designer (Acha, 2005). Si riscontra dunque un gap strutturale tra Italia e i Paesi Europei avanzati e la difficoltà a confrontare le attività per la mancanza di riferimenti similari poiché le attività di pertinenza dei design center europei in Italia vengono divise tra Università (Facoltà di Design) e centri di servizi alle imprese con una capacità complessiva di rapportarsi e di incidere sul sistema produttivo di minore incisività. La definizione del sistema di correlazione esistente tra design e crescita economica delle PMI a livello regionale è stata affrontata in particolare attraverso un’analisi diretta sperimentale socio-tecnica condotta su un doppio livello: 1. nel sistema delle PMI toscane, delineando qual è il grado di penetrazione del design e i benefici indotti, quali gli ambiti di applicazione più percorsi (strategia,
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ideazione, prodotto, processo, comunicazione, vendita, servizio…), quali le modalità di rapporto tra impresa e designer, quale la percezione del valore aggiunto da parte dell’impresa, quali i contatti con il mondo della formazione regionale di settore e con le ricerca, quali gli investimenti futuri; 2. nel sistema formativo regionale, analizzando gli esiti del primo quinquennio del Corso di Laurea in Disegno Industriale e verificando il livello di inserimento nel tessuto produttivo locale. Tale fase si è sviluppata attraverso le seguenti attività: a. analisi di metodologie di indagine sistematizzate da strutture che hanno condotto ricerche di tipo similare (Dansk Design Center — Copenagen, Centre for design innovation — Nord Irlanda, Design Flanders — Bruxelles, Design Council — Londra); b. definizione di una scheda di rilevazione tipo per l’indagine rivolta al settore formativo condotta su un campione di 150 laureati (con il supporto scientifico della sociologa Annick Magnier); c. definizione del target campione utilizzando le mailing list del servizio orientamento allo stage del CdL in DI; d. definizione di una scheda di rilevazione tipo per l’indagine rivolta alle PMI del settore manifatturiero (con il supporto scientifico di Magnier); e. definizione del target di aziende campione da sottoporre all’indagine diretta (con il supporto scientifico di Annick Magnier e di Giuseppe Bianchi, direttore Consorzio Casa Toscana, centro regionale di servizi alle imprese); f. effettuazione della rilevazione tramite invio di e-mail;
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g. elaborazione dei dati emersi dai questionari compilati ricevuti (110 su 150 per il questionario formativo, 50 su 80 per il questionario imprese); h. elaborazione dei dati rilevati. La rilevazione del settore formativo ha indagato, tra gli altri, su: • livello di continuazione degli studi; • livello di impiego post-laurea; • tipologia di impiego; • tempo intercorso tra laurea e primo impiego; • corrispondenza tra impiego e tirocinio pre-laurea; • remunerazione annua. La rilevazione delle imprese ha definito uno strumento di indagine suddiviso in 5 sezioni tematiche: 1. quadro aziendale (informazioni generali su dimensioni, fatturato, export…); 2. business (domanda di prodotto nell’ultimo anno, agli obiettivi di business, definizione scala di fattori di successo, motivazione all’acquisto della clientela, collocazione dei prodotti su una scala di innovazione); 3. rapporto con l’Innovazione (tipo di innovazione, influenza del design per tipo di attività, funzione del design nell’impresa, tipo di competenze utilizzate per il design, livello di percezione dei benefici indotti dal design e dai designers); 4. vitalità dell’azienda (investimenti programmati, investimenti in design, uso di finanziamenti pubblici, rapporti e collaborazioni con i centri di ricerca, rapporti con i centri di servizio);
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5. stage e tirocini (attivazione di tirocini pre o post laurea, in quali settori disciplinari, quali mansioni attribuite, grado di soddisfazione, rilevazione di mancanze). Fase propositiva Dalla creazione del quadro di indagine e dall’analisi dello stato dell’arte, dalla successiva fase di analisi rivolta specificatamente a scendere di scala e a definire un quadro relativo alle relazioni tra la disciplina del design e il sistema produttivo locale toscano è stato chiaramente definito il tema del seguente lavoro di ricerca. Il sistema produttivo toscano costituito da piccole e medie imprese, da sempre legato ad innovazioni di tipo incrementale, è strutturalmente impreparato ad affrontare innovazioni complesse che tengano conto di una pluralità di fattori sempre più legati ad uno strutturale incremento di conoscenza. A livello regionale le politiche di sviluppo dell’innovazione si orientano in larga parte a interventi di sostegno che prevedano il coinvolgimento di gruppi di imprese rappresentative di settori e filiere produttive. In quest’ottica sono stati condotti negli ultimi anni diversi progetti di stimolo all’innovazione rivolti non alla singola unità produttiva, bensì a gruppi di imprese o a sistemi territoriali con l’obiettivo di stimolare l’avanzamento del settore nel suo complesso e in modo diffuso, anche con l’intento di indurre all’emulazione da parte di altri soggetti. Tali interventi, progettati e strutturati di volta in volta secondo le specifiche necessità legate al tema e al caso contingente (finalità specifiche, tipo di finanziamento,
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partenariato, tempi di realizzazione) costituiscono un insieme di prassi non codificate. Da ciò quindi la necessità di analizzare una selezione tipo di interventi realizzati, di definirne le variabili e le costanti, la strutturazione stessa e le metodologie utilizzate, in relazione al tipo di attori coinvolti e ai risultati raggiunti, evidenziando punti di forza e di debolezza dei vari elementi, la loro potenziale trasferibilità. Ciò per costruire un quadro di prassi, di metodi e strumenti a cui attingere nella progettazione e definizione di altri interventi rivolti ai sistemi territoriali. La fase di selezione dei casi da analizzare e valutare è stata condotta secondo le prassi della metodologia dei casi studio con il fine di fornire “una sorta di mappatura di fenomeni complessi non adeguatamente analizzati dalle teorie esistenti” (Theory discovery, Keating), e utilizzando un criterio di scelta di Maximum variation sampling, finalizzato a descrivere il tema in oggetto (interventi di innovazione design-driven sui sistemi territoriali di impresa) attraverso casi molti variati tra loro (diverse tipologie di innovazione stimolata) in cui si vanno a ricercare permanenze e variazioni programmate (Patton, 1990). Dunque la selezione operata ha mantenuto un criterio di costanza: tutti gli interventi hanno come beneficiari i sistemi territoriali di imprese; e un criterio di variazione: ogni intervento propone un tipo di innovazione di diverso ordine (di scenario, di sistema/prodotto, formale, tecnologica, valoriale/comunicativa, di integrazione di filiere). Tali casi-studio sono stati scelti tra alcuni interventi realizzati dal gruppo di ricerca di disegno industriale del
committente/ destinatario
Tipo di produzione | Dimensione imprese | Organizzazione aziendale e produttiva
contesto e quadro problematico
Settore di riferimento | Target e mercato | Distribuzione | Competitor
obiettivi del progetto di intervento
Innovazione di scenario | di sistema-prodotto | formale | tecnologica | valoriale-comunicativa
partenariato
Università | imprese o sistema di imprese | altri centri di ricerca | strutture di servizio | amministrazioni locali
gruppo di lavoro
Ricercatori di settore | ricercatori transdisciplinari team di ricercatori transdisciplinare | studenti | progettisti esterni
• Gruppo di ricerca • Gruppo di progetto
processo di intervento/ Analisi contestuale | Analisi dell’impresa o del sistema produttivo | Analisi del mercato | Analisi fasi di lavoro
della concorrenza | Ricerca di segnali provenienti da altri settori | Ricerca di trasferimenti possibili da altri settori | Costruzione di scenari | Sviluppo di concept | Sviluppo di progetti-prodotti
strumenti di intervento Ricerca desk e field | Analisi SWOT | Benchmark • Per la definizione del contesto • Per la generazione del brief • Per l’elaborazione progettuale
Analisi Blue Sky | Brainstorming | Metodologia EASW Sessioni di progettazione transdiciplinare | Workshop di studenti | Abbinamento progettisti-imprese
tempistica di realizzazione dell’intervento
Tempistica di elaborazione del progetto di intervento Tempistica complessiva dell’intervento Tempistica di realizzazione delle attività specifiche
tipologia di finanziamento a supporto
Finanziamento provinciale | regionale | nazionale | europeo / convenzione con imprese
risultati raggiunti
Analisi dei punti di forza e di debolezza dell’intervento
Dipartimento TAD nell’ambito di progetti comunitari, regionali o locali, condotti nella loro intera realizzazione o comunque terminati nell’arco degli ultimi tre anni. Il criterio di selezionare i casi-studio tra interventi ideati, elaborati e compiuti dal gruppo di ricerca e non casi esterni ha due motivazioni di fondo: la necessità di esaminare interventi mirati ai sistemi territoriali produttivi toscani (e non quindi rivolti a imprese singole o fuori dal territorio regionale) e la possibilità di conoscere gli elementi di interesse per le riflessioni sviluppate nella tesi che riguardano motivazioni, metodologie e scelte operate durante la
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costruzione stessa degli interventi, conferendo dunque al ricercatore/osservatore un ruolo intrinseco nel processo di studio e interpretazione, essendo personalmente coinvolto nel caso (Stake). L’analisi dei casi studio sopracitati ha condotto alla definizione di fattori rilevati costanti in ogni intervento e per ognuno dei quali sono stati individuati, analizzati e valutati metodi e strumenti impiegati: L’ultimo passaggio, a livello propositivo, è stato la definizione dei 10 fattori: 1. individuazione del destinatario; 2. valutazione del contesto; 3. determinazione dell’obiettivo dell’intervento; 4. creazione del parternariato; 5. formazione del gruppo di ricerca; 6. formazione del gruppo di progetto; 7. progettazione delle fasi di lavoro; 8. definizione degli strumenti; 9. definizione della tempistica; 10. individuazione del finanziamento. Per ognuno dei quali è stato elaborato un quadro di indicazioni specifiche da considerare nella definizione di progetti di intervento rivolti ad aumentare la competitività dei sistemi territoriali di impresa. Verifiche La verifica dei risultati della ricerca può essere individuata nell’applicazione del quadro di indicazioni emerso alla strutturazione di un progetto di intervento integrato per i settori produttivi toscani di camperistica, nautica da diporto e arredo.
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La costruzione del progetto è partita dall’individuazione di un bando di finanziamento su cui è stato ideato l’intervento: Il Piano di Innovazione Industriale del Ministero dello Sviluppo Economico Nuove tecnologie per il Made in Italy, rivolto a gruppi di imprese, che prevede lo sviluppo di programmi per l’innovazione dei settori trainanti del sistema produttivo manifatturiero italiano con l’obiettivo di intervenire sull’intera filiera produttiva e favorendo lo scambio trasversale tra le filiere. Nell’ottica delle sollecitazioni del bando la caratterizzazione del contesto di intervento ha portato all’idea, partendo dal sistema casa/arredo, di definire i settori arredo, camper e nautica, come strettamente collegati, sia perché presentano elementi comuni legati all’ambiente abitativo interno, sia perché a livello produttivo spesso presentano fornitori di filiera comuni (lo stesso settore arredo in realtà può costituire sub-fornitura per gli altri due). Da qui la costruzione fin dall’inizio del progetto su un doppio livello: la formazione del gruppo di ricerca (disegno industriale, ingegneria dei materiali, tecnologia del legno, chimica dei materiali, elettronica e telecomunicazioni) e la creazione del partenariato (aziende e strutture di servizio), per consentire di valutare contemporaneamente sia le competenze tecniche e lo stato di innovazione sperimentabile e/o trasferibile, sia le criticità su cui intervenire attraverso il coinvolgimento diretto nella definizione del tema delle aziende stesse. La fase di definizione del progetto di intervento si è conclusa con la presentazione della domanda al Ministero dello Sviluppo Economico.
formazione del gruppo di progetto figure di operatori di progetto Generalmente le tipologie di progettisti a cui si fa ricorso nelle fasi operative degli interventi sono: team di ricercatori (di settore o transdisclipinare), gruppi di studenti (laureandi o master), progettisti esterni (architetti o designer italiani o internazionali). Tali figure possono entrare nel processo occupandosi o di una singola fase di progetto o essere variamente combinate ed interloquire tra loro.
grado di progettualità La scelta del gruppo di progetto, ovvero della tipologia di operatore per lo sviluppo dell’azione progettuale, o della combinazione di più operatori tra loro, è strettamente dipendente dal grado di progettualità richiesta dall’ intervento. Nel caso in cui sia previsto di arrivare alla definizione di scenari di intervento si è rilevato che i workshop di studenti guidati da un progettista esterno non docente portano ai risultati più interessanti, anche in casi di settori non design-oriented (es. scenari per il settore florovivaistico). Se il livello di progetto finale prevede l’elaborazione di concept, ovvero di idee di progetto, livello peraltro molto frequente negli interventi per i sistemi territoriali (come sviluppato nel punto definizione degli strumenti), tale attività risulta essere quella che maggiormente si adatta alla diverse tipologie di figure progettuali. Dal workshop progettuale in genere emerge un range molto ampio di proposte di concept che ben si adatta alla pluralità di soggetti a cui l’intervento è rivolto e che possono selezionare poi le idee maggiormente rispondenti alla loro realtà produttiva e svilupparle successivamente (es. forme innovative per l’imbottito tradizionale). Nel caso in cui l’intervento richieda lo sviluppo di progetti esecutivi ed eventualmente la realizzazione di prototipi, la prassi più percorsa e rilevata come maggiormente efficace è l’abbinamento tra progettisti e imprese. Ciò sia perché il progettista esterno professionista ha una maggiore esperienza nella relazione con il mondo delle imprese, sia perché l’azienda ha la percezione di potere arrivare a maggiori possibilità di prototipazione ed ingegnerizzazione e dunque alla possibilità di immissione del prodotto sul mercato.
tipologia di innovazione perseguita La tipologia di innovazione perseguita nell’intervento diventa un elemento cardine per la composizione del gruppo di progetto poiché intrinsecamente stabilisce il livello di complessità di progetto e il grado di transdisciplinarità necessaria. Se l’innovazione è di tipo tecnologico, ovvero richiede l’intervento anche di più competenze disciplinari per l’elaborazione di una soluzione in genere specifica e mirata (es. la presenza di condensa nella struttura del camper dovuta alla mancanza di tenuta dei giunti; la formazione di polveri sottili nella fase di utilizzo di una macchina foratrice per il legno, …), il gruppo di progetto sarà un team di ricercatori transdisciplinari, in grado di coniugare le competenze necessarie ad analizzare e valutare il problema e ad intervenire progettualmente attraverso una verifica continua delle soluzioni elaborate (es. tecnologi del legno, fisici-tecnici, ingegneri, …). Se l’innovazione è di tipo valoriale/comunicativo, ovvero l’obiettivo è la progettazione di un prodotto con una forte valenza di immagine e capacità comunicativa la scelta si orienta più credibilmente verso progettisti esterni, in genere di fama, in grado anche di costituire, già con il loro intervento, al di là del progetto stesso, un valore aggiunto per la spendibilità del prodotto.
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Risultati: rilevanza scientifica, innovazione, utilità La rilevanza scientifica attribuibile al lavoro presentato è da ricercarsi in primo luogo nell’innovatività del tema in oggetto. Allargare il campo d’azione della disciplina del design e renderlo strumento di intervento per la competitività dei sistemi produttivi locali parrebbe una contraddizioni in termini. Da sempre il disegno industriale, proprio in quanto attività che concorre direttamente a determinare caratteristiche formali, funzionali, prestazionali, tecnologiche e commerciali dei prodotti realizzati da un’impresa manifatturiera, appare essere come uno dei fattori meno condivisibili a livello di sistema e meno territorialmente delimitato, spesso protetto da brevetti perché costituente la parte integrante del patrimonio di conoscenze strategiche di un’impresa. Verificare la possibilità che il disegno industriale intervenga efficacemente a livello di un intero sistema produttivo territoriale e soprattutto indagare le modalità di tale intervento appare rilevante proprio in un panorama produttivo quale quello italiano costituito da unità produttive che per strutturazione e tipologia hanno reali difficoltà sia a intravedere i benefici che possono derivare da un’innovazione non meramente di prodotto, sia a intraprendere un percorso di innovazione più complessa, tecnologica, organizzativa, commerciale. Dunque definire il contributo che la disciplina del disegno industriale, inteso come strumento di analisi e valutazione delle esigenze, di progettazione del processo, di catalizzazione di competenze transdisclipinari, è in grado di fornire a livello dei sistemi produttivi locali può aiutare ad affrontare un’innovazione precompetitiva diffusa capace
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di innalzare la coscienza/conoscenza dell’intero sistema e creare le condizioni per successivi interventi capillari. La creazione di un quadro di indicazioni in merito vuole costituire un primo passo verso la formalizzazione di strumenti e modalità di tali interventi in un campo di applicazione della disciplina fino a oggi percorso per tentativi e sperimentazioni. Nella consapevolezza che la variabilità dei dieci fattori in gioco, soprattutto del contesto e degli attori, e l’esperienze pregresse e capitalizzate, determinano pur sempre condizioni di intervento diversificate e dunque necessità di variazione, di affinamento o di individuazione di nuove soluzioni percorribili. Destinatari privilegiati e spendibilità della ricerca Essendo il risultato ultimo del lavoro di ricerca un piano integrato di metodologie di intervento per azioni in favore della competitività dei sistemi territoriali di impresa, trasferibili o replicabili a diversi contesti produttivi attraverso una classificazione per settori, target, finalità e livelli di intervento, tipologia di attività, partnership di ricerca, possibilità di finanziamenti pubblici, i destinatari sono ipotizzabili a un doppio livello: • centri di servizi, consorzi di imprese, poli tecnologici regionali, ovvero quelle strutture intermedie che spesso costituiscono il tramite di contatto tra mondo della ricerca e del progetto e il sistema produttivo delle PMI e che risultano spesso parte attiva nei progetti di intervento per la promozione dell’innovazione e del trasferimento tecnologico;
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• le imprese che vorranno approcciare a progetti di innovazione strutturata per settori verificando casi studio riconoscibili come simili alle proprie esigenze e valutandone i benefici indotti. A livello generale poi anche il settore politico interessato alla promozione delle politiche per l’innovazione e allo sviluppo delle attività produttive potrebbe avere interesse a una tale ricognizione che illustra lo stato di penetrazione del design come strumento di innovazione competitiva a livello regionale, esperienze realizzate, metodologie di intervento applicate, valutazioni in merito a punti di forza e debolezza.
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soprattutto, se lâ&#x20AC;&#x2122;ambiente fosse visibilmente organizzato e precisamente organizzato e precisamente definito, il cittadino potrebbe impregnarlo di associazioni e significati. esso diverrebbe allora veramente un â&#x20AC;&#x2DC;postoâ&#x20AC;&#x2122; rimarchevole e inconfondibile.
K. Lynch, 1996
Francesco Armato ciclo XXV
Tutor Vincenzo Legnante
Co-tutor Giuseppe Lotti
pocket park, spazi tra gli edifici
Abstract Il lavoro di ricerca ha posto l’attenzione sugli spazi aperti della città, in particolare piccoli spazi, aree ‘incastonate’ tra gli edifici, ritagli di spazi senza nessuna connotazione qualitativa che si trovano all’interno del tessuto urbano. Questi vuoti, dopo un adeguato intervento di rivalorizzazione, vengono definiti e sono conosciuti in tutto il mondo come Pocket Park. Particolare attenzione è stata riservata ai rapporti che l’individuo crea con lo spazio urbano e di conseguenza al benessere che egli riceve da un determinato luogo o dagli spazi urbani che hanno dimensioni contenute. I Pocket Park possono diventare un’occasione unica di integrazione tra i diversi gruppi etnici che nel tempo libero si incontrano e accrescono l’integrazione culturale e sociale, conservando l’identità dei luoghi. L’intenzione è di sensibilizzare tramite la ricerca tutti coloro che si occupano o fanno parte della cultura dell’Urban Design: amministratori locali, progettisti e associazioni per lo sviluppo e per il miglioramento della vita in città. Il principale obiettivo è quello di dare una nuova funzione e una nuova immagine a spazi ‘minuti’ fruibili da
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tutti, spazi che ‘vivono’ una situazione di grande precarietà funzionale, luoghi senza identità e senza riconoscibilità, ‘nonluoghi’ (Augé, 1992). Si tratta di restituire a questi luoghi una identità e una ‘vita’, un luogo a servizio del quartiere, un punto di incontro per non sentirsi estranei dove si abita. Introduzione I Pocket Park possono sopperire al vuoto, all’abbandono e alla non funzione di alcuni spazi disseminati all’interno dei tessuti urbani delle nostre città, innescare processi di rigenerazione urbana attraverso la riscoperta di una nuova identità e di una nuova potenzialità di accogliere; ciò al fine di realizzare e percepire un diverso immaginario urbano. È interessante quanto scrive Georges Perec sulla specie degli spazi e in particolare di quella sugli spazi aperti; egli afferma che nella città contemporanea può proliferare la diversità di vivere gli spazi outdoor, che ci sono specie di strade, specie di spazi pedonali e specie di spazi di risulta o slarghi (Perec, 1989). La diversità, le diverse tipologie di spazi faciliteranno l’accoglienza e nello stesso tempo daranno luogo a più relazioni vitali. Non tutti i luoghi hanno la capacità di trasmettere serenità e accogliere le pratiche e le relazioni umane che si sviluppano quotidianamente; per fare in modo che questo accada, occorre che gli spazi siano concepiti insieme a coloro che vivono o che gravitano in quella porzione di territorio. La tesi ha come obiettivo evidenziare le soluzioni e le risposte possibili del vivere bene in città attraverso l’utilizzo degli spazi aperti che stimolano la voglia di uscire di casa:
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oltrepassare la soglia, raggiungere lo spazio tra gli edifici, il grande cortile collettivo, il luogo dell’incontro e dello stare insieme. Oggi più che mai è necessario ripensare e disegnare gli spazi che fanno da collettore tra i volumi, soprattutto le aree di media e piccola dimensione, in quanto sono le aree più compromesse, di solito facilmente utilizzati come spazi destinati a parcheggi non regolamentati e non organizzati. Le aree situate nel centro storico non erano state concepite come spazi a parcheggio, ma nel tempo sono state destinate a questa nuova funzione solamente per comodità e per una logistica dettata dal fabbisogno di usufruire di uno spazio-parcheggio prossimo alla propria abitazione. Lo spazio non solo perde la sua vera identità, la sua vera natura e la vera origine occupandone un’altra che non gli appartiene, ma nello stesso tempo non svolge nessuna funzione in maniera ottimale, né come spazio di aggregazione, né come spazio di parcheggio in quanto non ha le caratteristiche fisiche formali per poter assorbire una funzione che non gli è consona. Questi spazi erano e devono nuovamente diventare luoghi di accoglienza, dove incontrarsi, riposare, giocare, trascorre momenti di relax, in modo che il fruitore possa riconquistare quell’equilibrio spaziale che nel tempo ha perso e ha dimenticato. Questo è uno dei motivi che mi ha spinto a fare un lavoro di ricerca basato sullo studio delle aree residuali o delle aree che non svolgono la funzione che le era stata assegnata in origine, quella destinazione nata quando la città iniziava a prendere forma.
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Obiettivo della ricerca Lo scopo della ricerca è di rivelare ciò che già esiste come entità fisica: gli spazi, i vuoti che fanno da ‘cuscinetto’ all’interno delle nostre città. Mettere in evidenza le possibilità urbane degli spazi che hanno delle grandi potenzialità aggregative, ma che spesso non vengono né considerati, né apprezzati o addirittura non visti, ‘luoghi in-visibili’ (Armato e Galli, 1996). Spazi aperti che spesso hanno solo la funzione di attraversamento, spazi che vengono utilizzati come conduttori di altri spazi aperti per spostarsi da un punto all’altro della città, spazi che fungono da contenitori medio piccoli per depositare automobili e cose in modo temporaneo, i cosiddetti parcheggi di comodo. L’intento è quello di sensibilizzare tutti coloro che si occupano o fanno parte della cultura dell’Urban Design verso i luoghi minuti, non meno importanti dei grandi spazi come le piazze, i viali o i grandi parchi; spesso questi ritagli di spazi non vengono presi in considerazione perché la loro dimensione e la loro ubicazione non li rende ‘affascinanti’ e neppure appariscenti. Questi spazi fanno parte del tessuto della città, nascono, si sviluppano e con il tempo si modellano insieme a tutti gli altri elementi che strutturano il paesaggio urbano per adattarsi alle esigenze delle persone per migliorare la vita e il quotidiano all’interno della città. Analizzare gli spazi urbani per ripensare la città partendo dalle realtà più minute, dalle superfici ridotte e conducibili a poche centinaia di metri quadri, studiare nuove forme di aggregazione, entità relazionali, sociali e spaziali, attraverso interventi puntuali. Cercare nuove connessioni relazionali utili ed efficaci per rivitalizzare il tessuto delle
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città, non nuovi spazi, ma luoghi già esistenti e senza ‘vita’. Contribuire a far crescere la consapevolezza urbana partendo dalle piccole cose, raggiungere obiettivi di qualità urbana con l’utilizzo di parole chiave, come: small, smart, life, socialize, green. Lo scopo della ricerca è di costruire una casistica, cioè presentare una raccolta ragionata di progetti e di realizzazioni, ossia un elenco di casi e di esperienze progettuali per contribuire ad arricchire la conoscenza di come si può intervenire negli spazi di piccole dimensioni: i Pocket Park. L’intento non è di formulare regole o linee guida per poi utilizzarle come norme o verità assolute, ma di trasferire conoscenza di quello che si è scoperto: individuazione, analisi, progettazione e rivalorizzazione degli spazi ‘interstiziali’, di tutti quei ritagli di superfici situate all’interno del tessuto urbano di ogni città. In altri termini: una casistica idiografica non fornisce regole, ma una base d’appoggio per il giudizio del ricercatore1.
L’obiettivo è di far emergere le differenze dei casi presi in esame, confrontarli, per capire quali ‘meccanismi’ progettuali sono stati utilizzati per produrre un determinato spazio di aggregazione. L’area di lavoro: piccole trasformazione urbane L’area di lavoro è la città con i suoi sviluppi futuri, che iniziano e si diffondono da ‘cellule’ che contagiano il sistema strutturale urbano; rivitalizzare i punti critici; liberare i flussi energetici, gli spazi di connessione, gli slarghi o 1 Chris Ryan, Direttore Victorian EcoInnovation Lab, esperto dei cambiamenti climatici e di Eco-Innovazione.
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solamente gli spazi abbandonati alla loro sorte, il degrado. Le persone che utilizzano e modellano l’ambiente urbano cercano di adattarlo alle proprie necessità, migliorando il loro modo di vivere il quotidiano. L’aspetto sostenibile è ‘ingrediente’ fondamentale e non ultimo: consumare meno energia, evitare di promuovere spostamenti non necessari, quando quello che stai cercando è a due passi da casa, dalla propria abitazione. La ricerca indaga lo spazio aperto libero che si trova tra gli edifici. Si tratta di spazi che hanno forme e caratteristiche diverse una dall’altra; quello che li accomuna è di essere luoghi non definiti nelle loro funzioni, spesso utilizzati come superfici di comodo e utilizzati all’occorrenza (se poi queste aree sono di facile accesso per i veicoli vengono utilizzate come parcheggi). Nel tessuto urbano questi piccoli spazi occupano un quantità di superficie irrisoria, quasi invisibile, se pensiamo al rapporto di scala che esiste tra lo spazio oggetto di studio e la città. Occuparsi di queste aree di risulta con interventi mirati significa rendere queste aree propositive, attive, funzionali; questi luoghi minuti propagano un’enorme energia vitale, sia a livello sociale che a livello fisico spaziale. Importante è la contaminazione che queste superfici hanno sugli spazi confinanti o limitrofi. Jaime Lerner2, architetto e sindaco della città di Curitiba, spiega: come sia più efficace pensare le città come ‘organismi viventi’ con micro target e funzioni da ottimizzare per Jaime Lerner, laureato in ingegneria, architetto urbanista per vocazione, è stato per molti anni sindaco della città di Curitiba ed è autore del libro Acupuncture Urbaine (Harmattan, Lyon 2007).
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rendere più efficiente il sistema nel suo complesso proprio come la visione dell’agopuntura nei confronti del corpo umano3.
Le ricerche della Veil, con Chris Ryan4 tra i maggiori studiosi, si rifanno al pensiero di Jaime Lerner, Agopuntura Urbana, aggiungendo una nuova componente: l’ecologia. Parole chiave Le parole chiave scelte sono servite a dare un vero aiuto nella fase di programmazione e di ricerca; sono state importanti per circoscrivere e puntualizzare un concetto, concetto che si trasformava in un’immagine; hanno agevolato la ricerca in tutti i vari aspetti. Le parole scelte hanno delimitato l’ambito di ricerca, ma nello stesso tempo hanno dato la possibilità di indagare ambiti affini. La scelta è stata dettata prendendo in esame la città nel suo insieme: la fisicità con la sua composizione volumetrica, i suoi spazi di connessione e la gente che la abita. Città | Identità | Riconoscibilità | Connessione | Urban Design | Trasformazione | Rivitalizzare lo spazio urbano | Interventi minuziosi | Incontro | Accoglienza | Migrazioni. Struttura della ricerca La ricerca è stata divisa in tre parti per sviluppare in modo graduale i vari passaggi: l’analisi diretta e indiretta, la conoscenza e gli approfondimenti del tema proposto e, Jaime Lerner, architetto e sindaco della città di Curitiba. VEIL Victorian Eco-Innovation Lab, Università di Melbourne, direttore prof. Chris Ryan. 3 4
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infine, la parte propositiva. Lo sviluppo dell’intera struttura è stata concepita in modo che, in tutte le tre parti, l’argomento scelto restasse sempre in primo piano, come argomento circoscritto e non sviluppato su temi affini, per non perdere mai di ‘vista’ il tema scelto. La struttura ha seguito una outline iniziale con varianti che si sono succedute man mano che il lavoro prendeva forma, questo è servito a distinguere le varie fasi, ma soprattutto a creare lungo il percorso di ricerca dei punti fermi, degli episodi di riflessione. La prima parte della ricerca si interessa non solo alle geometrie e alle conformazioni proporzionali dello spazio, ma indaga l’aspetto sociologico, si occupa della gente e di chi lo spazio lo vive, di come nasce e si sviluppa la condivisione all’interno della città cercando di affrontare il piccolo vuoto che si insinua tra l’edificato: la nascita dei Pocket Park ad Harlem e le varie esperienze in Europa, dall’importazione dell’idea di Pocket Park in Francia e, più precisamente, a Lione negli anni Novanta con i Jardin de Poche, fino ad arrivare alla città di Copenaghen, che nel 2015 è stata proclamata la prima città al mondo eco-compatibile, all’interno del programma di sviluppo sostenibile e con la realizzazione di 14 lomme-park, dove lomme sta per tasca. La seconda parte approfondisce la fisicità dello spazio urbano, la pianificazione e il recupero delle aree per dare una nuova dimensione di spazio, una nuova vita, rivalorizzare e rivitalizzare. Le superfici all’aria aperta viste sotto il profilo delle funzioni, spazi che si suddividono in microaree e si intersecano tra di loro per soddisfare i bisogni e le necessità, lo spazio che si assume la responsabilità, tramite
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la funzione data, di svolgere un determinato compito. Il benessere collettivo, un benessere tratto dallo stare insieme condividendo un interesse comune: l’incontro, spazi deputati all’accoglienza e alla conoscenza del proprio luogo, del proprio quartiere, il Pocket Park come una grande corte collettiva, pertinenza del proprio guscio casa. La terza parte è la fase che conclude il lavoro di ricerca, o per lo meno cerca di dare delle risposte attraverso una raccolta di progetti e realizzazioni in diverse parti del mondo: lo studio e la rivalorizzazione degli interventi minuti urbani, in particolare i lavori di Jaime Lerner e le ricerche di Chris Ryan. Questa fase è la parte propositiva, rivolta a mettere in pratica sia il lavoro svolto al programma Eco-acupuncuture Firenze 2012-2035, che le interviste fatte ad esperti dello spazio urbano: sociologi, designer, architetti, ingegneri e urbanisti. La raccolta e la scelta di alcuni progetti compongono le ‘schede di osservazione’, un campionario di idee e di soluzioni dove si evincono forme e materiali al servizio delle funzioni da praticare in uno spazio aperto; la scelta è stata improntata sulle funzioni — ambientali, sociali e spaziali — e sui requisiti funzionali che un Pocket Park deve soddisfare (in tal senso è interessante notare come le diverse culture affrontano il tema dell’accoglienza e dello stare insieme). Schede di osservazioni per la valutazione dei progetti Le schede di osservazione sono un metodo e uno strumento di analisi pensato e utilizzato in un altro ambito disciplinare — il piano educativo adottato dagli insegnanti per gli studenti diversamente abili. Nel campo didattico
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hanno lo scopo di permettere agli educatori e agli specialisti del settore, tramite l’osservazione, di individuare i punti di forza e di debolezza dello studente nell’apprendimento e nel socializzare con il gruppo con cui divide un lavoro e uno spazio. Questo metodo è stato utile ed efficace per analizzare i 19 Pocket Parks presi come casi studio, Pocket parks collocati in quattro continenti: Europa, America settentrionale, Australia, Asia. Le schede vengono strutturate con una griglia divisa per settori e per aree funzionali. Analizzare attraverso l’osservazione diretta e indiretta le parti che compongono un Pocket Park serve a studiare e a raccogliere materiale per rappresentare lo stato dell’arte e per descrivere in modo analitico come le cose stanno insieme, capirne le peculiarità, le deficienze, le potenzialità. Ogni Pocket Park preso in esame è stato analizzato utilizzando tre schede (figg. 1, 2, 3) che sono state strutturate con l’obiettivo di fornire strumenti di lettura per descrivere le componenti funzionali: quelle ambientali, sociali e spaziali riferite allo spazio oggetto di studio. Infine, le schede sono state configurate e strutturate seguendo i metodi utilizzati in diverse ricerche che sono state sviluppate in ambiti disciplinari affini al mio lavoro, come ad esempio il progetto di ricerca RUROS e il progetto UrbSpace; ricerche finalizzate ad aumentare il benessere negli spazi urbani, studiando sia gli aspetti ambientali, come il territorio urbano e le caratteristiche fisiche e spaziali della struttura urbana, sia gli aspetti sociali e la vita quotidiana della gente negli spazi aperti.
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Fig. 1. Paley Park. East 53rd Street, just east of Fifth Avenue Manhattan New York. Progettista: Robert Zion — Breene Associates Il Vest Pocket Park è stato completato nel 1967, è situato nel distretto culturale di Midtown al centro di Manhattan ed è circondato da grattacieli. Il Paley Park si affaccia direttamente sulla strada, un luogo di grande aggregazione ed accessibile a tutti. Le pareti che circondano lo spazio relax sono coperte da una fitta edera verde, una cascata fa da sfondo e il suono della cascata attutisce il rumore che proviene dai veicoli. I tavolini e le sedie mobili permettono alle persone di collocarsi con grande libertà in qualsiasi posizione.
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funzioni
requisiti funzionali ambientali • Biodiversità
I requisiti ambientali presenti garantiscono protezione dai rumori, dal vento e dal sole. La vegetazione composta da alberi, cespugli e piante rampicanti assicura una sufficiente biodiversità.
• • • •
Fattore clima Ciclo idrogeologico Sostenibilità Protezione rumori
sociali
• • • • •
Svago e relax Incontro Attività fisiche Attività culturali-commerciali Sostenibilità
Lo spazio possiede le caratteristiche per essere definito uno spazio per tutti; sono escluse le attività fisiche perché è un’area molto contenuta.
spaziali
• • • • •
Identità Aree funzionali Accessibilità Arredo-accessori Eredità culturale
L’area ha una forma raccolta e intima come se fosse un grande cortile; è chiusa su tre lati, si affaccia e si apre sulla strada. L’arredo mobile offre libertà di movimento.
Fig. 2. Paley Park — East 53rd Street, just east of Fifth Avenue Manhattan New York.
Pocket Parks Spazi tra gli edifici La ricerca studia e analizza dunque lo spazio di contatto, lo spazio delle piccole dimensioni e delle percezioni misurate, l’essere lì, vivere nello spazio che ti circonda sia in movimento, sia quando si fa una pausa, una sosta; un luogo intimo situato tra gli edifici, il Pocket Park, un piccolo polmone verde e non solo, uno spazio di appartenenza, dove potersi sentire parte integrante del proprio quartiere. Concettualmente, questa tipologia di spazio rispecchia la vecchia piazza, il luogo per antonomasia dedicato allo stare insieme in uno spazio a cielo aperto; Rob Krier parla dello spazio urbano come un luogo che si può assimilare allo spazio interno pubblico e allo stesso tempo intimo, soprattutto quando si riferisce alla piazza: lo spazio definito dalle facciate delle case e misurabile per le dimensioni date,
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Fig. 3. Paley Park. East 53rd Street, just east of Fifth Avenue Manhattan New York. Le pareti che circondano lo spazio relax sono coperte da una fitta edera verde, una cascata fa da sfondo e il suono della cascata attutisce il rumore che proviene dai veicoli. I tavolini e le sedie mobili permettono alle persone di collocarsi con grande libertĂ in qualsiasi posto.
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Nell’ambito della sfera privata, la piazza trova corrispondenza nel cortile interno o atrio. (Krier, 1982, p. 23)
Un luogo che possiede tutte quelle qualità che lo rendono unico, quindi riconoscibile e confortevole; e quando un luogo è riconoscibile è più facile orientarsi e sentirsi meno soli, senza provare la sensazione di smarrimento. I Pocket Parks, oltre a rivalorizzare delle aree degradate, abbandonate o, semplicemente, senza una propria identità, diventano spazi personalizzati, spazi capaci di rispecchiare le caratteristiche del quartiere e quindi facili da riconoscere, diventando un punto di riferimento in città. Gli studi di Kevin Lynch si basano sull’antropologia e sulle caratteristiche morfologiche dello spazio urbano e le tipologie che ne fanno parte, con il vuoto che altro non è che il risultato ottenuto dalle fisicità. Gli edifici e i monumenti nel tempo hanno occupato porzioni di spazio dando origine al tessuto urbano (Lynch, 1996). Pure, vi sono alcune funzioni fondamentali, di cui la forma della città può essere l’espressione: la circolazione, le principali utilizzazioni del suolo, i punti focali chiave. I piaceri e le aspirazioni comuni, il senso stesso della comunità possono venire realizzati. Soprattutto, se l’ambiente fosse visibilmente organizzato e precisamente organizzato e precisamente definito, il cittadino potrebbe impregnarlo di associazioni e significati. Esso diverrebbe allora veramente un ‘posto’ rimarchevole e inconfondibile. (Lynch, 1996, p. 103)
Gli spazi, i vuoti: strade, marciapiedi, slarghi, piazze, insieme alle architetture e ai monumenti incarnano l’identità, I percorsi e le piazze urbane sono definiti da edifici che incorporano i significati radunati della città, questa funzione dipende dal come gli edifici poggiano, si elevano e si aprono. (Norberg-Schulz, 1992, p. 177)
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Ed è propria l’identità che fa sì che ogni nucleo abitativo, compreso lo spazio aperto, di ogni città, possieda una individualità, un carattere e una fisionomia, rendendolo unico e prezioso. Lo studio affronta i vuoti, gli spazi che da sempre hanno rappresentato il ‘collante’ tra i vari volumi che compongono la struttura urbana e che assorbono funzioni diverse come il collegare, sostare, incontrare, ecc.; collettori che animano lo spazio aperto di ogni città. Gli spazi di incontro sono i parchi, grandi superfici collocate all’interno della città. Con l’idea del grande parco si perde il concetto di spazio come luogo di socializzazione e condivisione. Il parco è un’area pensata e progettata per far vivere l’intera cittadinanza all’aria aperta, per svolgere attività fisiche e per creare momenti di aggregazione per grandi eventi, il parco non è il luogo contenuto e ‘misurato’ per l’uomo, è situato all’interno della città e non è al servizio del singolo quartiere. A differenza del parco o del grande giardino il Pocket Park è uno spazio dove poter svolgere le pratiche quotidiane più semplici: fissare un appuntamento all’aria aperta, realizzare un piccolo evento per bambini o per grandi, lasciare i bambini correre sotto casa tra la natura mentre la mamma legge un libro seduta all’ombra del suo albero preferito; uno spazio vicino alla propria abitazione nel quartiere. Il quartiere dove la comunità riconosce lo spazio-incontro e le persone si riconoscono sviluppando il senso di appartenenza al luogo. Gli spazi della città cambiano e si modificano per motivi legati sia agli aspetti economici sia agli aspetti sociali,
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l’individuo si evolve e con lui anche la città. Spesso si dimentica che l’evoluzione legata all’economia non sempre porta benefici sociali. Un sistema basato sull’efficienza degli spazi relativi alla mobilità e alla tecnologia come mezzo di espressione collettiva ha causato l’isolamento degli individui che non riconoscono più lo spazio aperto come luogo dello stare insieme, basando il loro modo di comunicare e di incontro solamente a un livello virtuale. Jean Tricart (1985) mette in luce l’importanza del ‘contenuto sociale’, attraverso il quale si può capire e avere una lettura chiara del vero significato dell’evoluzione urbana in modo concreto. Per Pierre Lavedan la ricerca si potrebbe estendere alla ‘struttura materiale’ formata da strade, monumenti, piazze…, una struttura fatta di forme, dove ogni forma esprime dei contenuti sociali. Ricercare come sono state costruite le città nel passato è uno degli oggetti della storia dell’architettura, la città non è solamente un insieme di edifici pubblici e privati. Questi sono connessi da spazi liberi: strade, piazze, giardini pubblici. La suddivisione e l’ordinamento di questi spazi liberi, tale è l’oggetto di ciò che chiamiamo arte urbana. (Lavedan, 1926)
Attraverso la fisicità possiamo capire i confini e i limiti, prendere consapevolezza della forma delle aree che compongono la città. I due concetti, ‘contenuto sociale e struttura materiale’, si fondono per generare il luogo delle manifestazioni umane all’interno del tessuto abitato, il fine è la creazione di un ambiente più adatto e confortevole per l’uomo.
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La nascita del fenomeno, Harlem, New York Vest Pocket Parks significa, tradotto letteralmente, ‘parchi da tasca di giubbotto’. Il nome dato a questa tipologia di parco dà l’idea di potersi portare in tasca il parco e all’occorrenza tirarlo fuori, oppure ci ricorda qualcosa di molto fragile da tenere con cura, sicuramente qualcosa di prezioso. Questa nuova tipologia di spazio urbano pubblico aperto è un modello insolito nella storia delle città; nessuna disciplina fino a pochi decenni fa si era interessata ad indagare e a studiare i Pocket Park, in modo da poter mettere in atto soluzioni simili a quelli di Harlem. Con il nome ‘vest-pocket’ si definiscono i piccoli parchi che per la loro caratteristica tipologica sono ‘incastonati’ dentro un lotto urbano chiuso su tre lati, come la tasca di un giubbotto. I primi tre interventi realizzati ad Harlem, non superavano i 200 metri quadrati; Whintney North Seymour Jr., parla di: uno spazio di verde pubblico che viene infilato a posteriori all’interno di un blocco urbano, le cui dimensioni sono quelle di un lotto edificabile, generalmente delimitato su due o tre lati dai muri ciechi o dai cortili degli edifici confinanti, e direttamente affacciato sul ‘nastro’ del marciapiede. (Whitney, 1969)
Whintney North Seymour Jr., presidente della New York Park Association, è stato uno dei primi a descrivere e raccontare l’origine e l’evoluzione di questa nuova tipologia di spazio di incontro e di accoglienza. Al momento della loro comparsa non costituivano soluzioni innovative, ma generavano molti dubbi, in quanto sembrava impensabile che un piccolo spazio potesse
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raggruppare persone di diverse culture per trascorrere momenti di semplice felicità. Tre sono stati i Pocket Park realizzati a New York fra 1964 e 1965 ad Harlem, due esistono ancora oggi e svolgono la loro funzione di luogo d’incontro; tra il 1994 e il 1996 ne sono stati realizzati altri tre e sono stati inseriti nel comparto della 128th Street di Harlem; i tre spazi sono collegati con un marciapiede che si sviluppa lungo tutto il perimetro dell’isolato. La decisione di costruire questi piccoli giardini ad Harlem non fu per niente casuale, essendo giardini di quantità spaziale molto ridotta e grandi quanto tre unità abitative, non sono stati realizzati per motivi estetici, ossia per rendere più bello il quartiere, ma per ragioni sociali: l’obiettivo era di creare spazi dove la gente potesse incontrarsi, conoscersi e soprattutto comunicare, in modo da creare ‘feeling’ e fiducia reciproca. I Pocket Park, ‘giardini tascabili’, approdano in Europa, a Lione, nel 1997 e da quel momento inizia un nuovo loro percorso e una nuova giovinezza. Oggi le autorità di Copenhagen stanno studiando le giuste soluzioni per attualizzare e applicare il concetto di Pocket Park nella propria città con la realizzazione di cinquantaquattro Lommepark (tasca parco) per riqualificare il proprio tessuto urbano e conquistare il primato di città eco-metropoli in Europa. Quando i Pocket Parks nascono lo scopo era far partecipare la comunità agli interventi da realizzare in città e sulle scelte prese dall’amministrazione locale e inserire gruppi di volontari per realizzarli; questo è il modo più giusto per far ‘amare’ lo spazio fisico realizzato e averne cura, e ciò
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accade perché il cittadino sviluppa il senso di appartenenza ad un luogo. Il caso New York, highway-parkway-exspressway Negli anni ’60 molte città americane vivevano una situazione di controversie sociali tra bianchi e afrocubani, questi ultimi rivendicavano i propri diritti. Le lotte erano continue e vivere il quotidiano per le strade e per gli spazi pubblici aperti dei quartieri americani era molto difficile, gli scontri avvenivano soprattutto tra gli afrocubani e le forze di polizia. Dagli anni ’30 al 1965 la città di New York è ‘impegnata’ in un nuovo assetto urbanistico molto importante, uno degli artefici di quegli anni impegnato al rinnovamento 5 viario è Robert Moses ; quest’ultimo è incaricato dall’amministrazione locale a contribuire alla modernizzazione della città attraverso la realizzazione di grandi strutture: autostrade, ponti e vie di comunicazione: Highway, Parkway, Exspressway, opere che attraversano la City e lo stato di New York. Robert Moses è stato uno dei primi avversari della filosofia dei piccoli giardini urbani (di lui si dice amasse più le automobili che la gente), il suo obiettivo era realizzare grandi strutture urbane, sosteneva che i piccoli parchi non avevano nessuna funzione importante se non quella di abbellire i quartieri residenziali, connotandosi dunque come spazi accessori; inoltre con le sue idee, forse un 5 Robert Moses, imprenditore, il principale protagonista della modernizzazione di New York. Cfr. La città di New York nel 900, indagini sui cento anni di storia, Università di Reggio Calabria, Facoltà di Architettura, Docente Paolino Francesca, studente Perri Margherita, a. a. 2010-2011.
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po’ troppo rivoluzionarie, aveva causato diverse situazioni esplosive in vari quartieri di New York. Queste opere gigantesche attraversavano aree densamente edificate di molti quartieri della inner city, quartieri dove vivevano soprattutto afrocubani. Molti di questi quartieri furono sventrati e altri completamente distrutti, altri ancora si trovarono inclusi all’intero delle opere stesse (spesso bastava aprire la finestra di casa per trovarsi di fronte, a pochi metri, un viadotto o un’autostrada). Tutto questo generò un forte sconforto in Moses, perché si rese conto di aver preso decisioni a volte drastiche, ma soprattutto di non aver cinsiderato i residenti, chi viveva da anni quei luoghi. Il risultato è stato il degrado e di conseguenza l’abbandono di interi quartieri da parte della middle class (neri e bianchi), che si spostarono dal centro della città verso i quartieri residenziali, fuori dalla inner city, con migliaia di persone che migrarono verso aree suburbane. Moses aveva raggiunto il suo obiettivo, aveva modernizzato la città di New York attraverso grandi opere infrastrutturali, ma con questa mossa aveva ‘cacciato’ le persone che da sempre abitavano nei quartieri che Moses stesso con le sue idee aveva sventrato. Di conseguenza la gente si era spostata in periferia per il degrado che si era creato, ma quelle stesse persone utilizzavano autostrade, superstrade e viali per raggiungere il posto di lavoro o per andare a fare shopping. Vest-Pocket Parks In quegli stessi anni, nei quartieri degradati, erano molte le associazioni religiose e filantropiche che si dedicavano ad aiutare il prossimo tramite la carità, il sostegno morale
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e le donazioni, stimolando l’integrazione sociale e l’accoglienza, in modo da riscattarli socialmente e far vedere loro che un altro modo, un’altra possibilità esiste. Due sono state le associazioni, la Rev. Linnette Williamson della Christ La Community Church di Harlem e la Park Association, che nel 1964 si impegnarono ad aiutare moralmente ed economicamente le diverse comunità che dimoravano nei quartieri devastati dalla politica di Moses; ed è proprio in quegli anni che decisero di realizzare degli spazi di aggregazione per il tempo libero, perché pensavano che l’isolamento non migliorava quella condizione di disagio che si era creata all’interno dei quartieri; quindi decisero di realizzare i primi pocket park nell’isolato urbano in cui era posta la chiesa e di cui la parrocchia ne era proprietaria, 128th West Street, Harlem, New York. Julian Peterson, progettista dei Vest-Pocket Parks in Harlem, racconta la sua esperienza: uno per i bambini più piccoli, il tot park oggi non più esistente, uno per i teenager e uno per gli adulti. Tutti e tre i parchi avevano la dimensione di un tipico lotto edificabile: sei metri di fronte sul marciapiede per una profondità di circa trenta metri. (Peterson, 2010, p. 10)
È interessante capire con quanta cura e quanto amore verso il sociale siano stati pensati questi spazi, progettati per poter soddisfare le esigenze e i bisogni della comunità intera: bambini, teenager, adulti. Ogni fascia di età ha esigenze e bisogni diversi quando vive uno spazio pubblico aperto, lo scopo era quello di dare ad ognuno di loro un luogo di appartenenza, dove confrontarsi e comunicare le proprie esperienze ‘all’aria aperta’, tramite il gioco, il dialogo, lo scambio e l’accoglienza.
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L’operazione non è stata per niente facile, come racconta Julian Peterson: comprese le difficoltà burocratiche, ogni abitante ha cercato di mettere del suo sapere e di ritagliare del tempo per metterlo a disposizione per la comunità, via via che i lavori procedevano emergevano dei problemi, come ad esempio le pratiche per la realizzazione e per la manutenzione, ma la voglia di costruire uno spazio che servisse a tutti superava le difficoltà, così riuscirono a risolverli anche con grande semplicità. I volontari del comitato presieduto da Mr. Seymour, insieme all’impegno della Rev. Linette Williamson, della Cristy Community Church di Harlem, hanno fatto in modo che tutto accadesse e funzionasse. È stato studiato ogni piano operativo per ogni lot-size park, come quello della manutenzione, che sembrava il più complesso: ogni cittadino lasciava il proprio nome e cognome per dare la sua disponibilità alla cura e alla manutenzione del proprio parco-tasca, se ne occupavano come se fosse il giardino di pertinenza della propria abitazione. 6
Così, accanto all’architetto Robert Zion che pochi anni dopo avrebbe progettato Paley Park, nel centro di Manhattan, c’è Tony Lawrence con la sua band, c’è lo studente Jack Ink che si offre per supervisionare i disegni murali realizzati dai ragazzi del quartiere, ci sono i membri della chiesa che mettono alberi, arbusti e fiori in vecchi barili di legno, e non abbiamo difficoltà a immaginare altre forme di partecipazione della comunità locale. (Peterson, 2010)
Elemento importante è la manutenzione e la pulizia delle aree che compongono il Pocket Park; affinché tutto sia 6 Robert Zion, architetto paesaggista (1923-1995), ha progettato il primo pocket park di Harlem, New York.
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in ordine e accogliente occorre riparare o sostituire immediatamente le attrezzature o le strutture di arredo che nel tempo si deteriorano, questo tipo di intervento viene svolto dalla comunità e dai volontari che, oltre a occuparsi personalmente della riparazione o della sostituzione, creano dei fondi economici per affrontare le spese che di volta in volta si presentano. Uno spazio per essere frequentato e ‘amato’ deve essere pulito e in perfetto ordine, se questo requisito non viene soddisfatto nasce il senso dell’abbandono, lo spazio viene dimenticato, creando sacche di emarginazione. Detto questo, gli argomenti trattati nella ricerca: la città, la formazione, le gerarchie e le identità degli spazi urbani hanno consentito una visione più ampia sull’argomento, in quanto i Pocket Park sono spazi che appartengono al contenitore città e non sono entità isolate, così come a volte si manifestano camminando per le vie cittadine. Il procedere per tappe e a volte per tentativi ha consentito di assorbire e di sedimentare le conoscenze acquisite e di raggiungere gli obiettivi prefissati: trovare un metodo e un sistema di relazioni che potesse chiarire e, allo stesso tempo, definire la ricerca. L’obiettivo di questo lavoro è stato quello di rivalorizzare tutti gli spazi che non svolgono funzioni ben precise, spazi privi di significato, assenti, che appaiono senza nessuna identità e inutili, di superare la difficoltà di dare a questi spazi una funzione, un’esistenza fisica, materiale e spaziale all’interno del contenuto delle cose che potrebbero appartenerci. A questo proposito è interessante la riflessione di Georges Perec sull’inutilità dello spazio:
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Più di una volta ho provato a pensare a un appartamento nel quale ci fosse una stanza inutile, assolutamente e deliberatamente inutile. Non sarebbe stato un ripostiglio, non sarebbe stata una camera da letto supplementare, né un corridoio, né uno sgabuzzino, né un angolino. Sarebbe stato uno spazio senza funzione. Non sarebbe servito a nulla, non avrebbe rinviato a nulla. (Perec, 1989, p.42)
È il luogo, vuoto o pieno, che esprime fisicità plasmate dall’uomo per l’uomo, costruite, ‘depositate’ nello spazio, contenitori aperti o chiusi per accogliere le necessità di chi li ha pensati, per soddisfare i desideri della gente, in modo da frenare il deterioramento dei luoghi deputati all’incontro. Pensiamo ai conflitti nell’uso degli spazi pubblici, al declino degli spazi di aggregazione e di prossimità, al costituirsi e proliferare di spazi interstiziali di marginalità ed esclusione (‘abitati’ da migranti, homeless…), all’ostilità o inaccessibilità di spazi e strutture per certe categorie di cittadini (anziani, bambini, disabili…), alla riduzione delle possibilità di movimento o di espressione (la mobilità lenta o certe forme di creatività giovanili), alla percezione di insicurezza diffusa, al disagio e ai problemi di salute indotti dal degrado dell’ambiente urbano. (Bellaviti, 2011)
Oggi pensare che esistano entità spaziali senza una precisa definizione e anche insicure può sembrare non vero, eppure questi spazi sono presenze che occupano quantità di aree a volte importanti all’interno delle nostre città, quantità che vivono spesso un degrado avanzato e al margine di sistemi edificati o infilati tra i fabbricati. Il Pocket Park, piccolo spazio all’aperto, area circondata da edifici con destinazione commerciale o abitativa, il più delle volte si trova in zone urbane centrali. Il giardino da ‘tasca’ è un luogo dove stare insieme agli altri per rilassarsi o per godersi la vita all’area aperta.
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Conclusioni Con questo lavoro si è cercato di trovare risposte e soluzioni. Attraverso interventi mirati per restituire allo spazio una presenza fisica dignitosa che trasmetta il senso di efficienza all’interno del quartiere e della città, contribuendo a migliorare il benessere e a rafforzare i rapporti di vicinato. Un luogo utile per tutti. Gli argomenti trattati nella parte iniziale della ricerca — la città, la formazione, le gerarchie e le identità degli spazi urbani — hanno consentito una visione più ampia sul tema, in quanto i Pocket Parks sono spazi che appartengono al contenitore città e non sono entità isolate, così come a volte si manifestano camminando per le vie cittadine. Il procedere per tappe e a volte per tentativi ha consentito di assorbire e di sedimentare le conoscenze acquisite e di raggiungere gli obiettivi prefissati: trovare un metodo e un sistema di relazioni che potesse chiarire e, allo stesso tempo, definire il tema. Le schede completano il lavoro di ricerca; sui progetti selezionati si è effettuato uno studio critico ragionato basato su tabelle a struttura chiusa, basata sulle funzioni ambientali, sociali e spaziali. Per la formulazione della scheda tipo e della tabella delle funzioni si sono studiate e seguite le indicazioni delle ricerche che sono state sviluppate sia dal progetto RUROS coordinato da Marialena Nikoloulou7 che la ricerca Manuale dello spazio urbano curata da Richard Stiles, ricerca che fa parte del progetto UrbSpace. Le schede di osservazione hanno il compito di verifi7 Marialena Nikoloulou, Università di Cambridge. I suoi studi sono incentrati sulle prestazioni ambientali, comfort termico e comportamento umano nello spazio urbano.
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care la qualità degli interventi riferita alle funzioni applicate, far emergere le buone soluzioni progettuali, ma evidenziare anche le mancanze, gli approcci non efficaci e le problematiche non risolte. La ricerca è indirizzata agli enti locali, professionisti specializzati nello studio e negli interventi urbani e alle varie associazioni che si occupano di spazi della città. In ultimo, non meno importante, l’obiettivo è stato quello di ottenere un materiale scientifico che possa servire da stimolo per ricerche future con lo scopo di trovare nuovi metodi e nuovi sistemi progettuali per la città e i suoi spazi. Il contributo di questa tesi per lo sviluppo delle città è che si può progettare e realizzare uno spazio urbano di piccole dimensioni accessibile a tutti, il Pocket Park o giardino da tasca come tipologia di spazio utile per poter condividere i luoghi aperti della città. Il Pocket Park, dunque, è uno spazio che arricchisce la gente che lo frequenta attraverso la conoscenza e il confronto e crea equilibri nel tessuto urbano tra spazi costruiti e spazi vuoti. Bisogna guardare gli spazi urbani di una città, grandi o piccoli che siano, partendo sempre dal sociale, dalle esigenze di chi realmente vive questi luoghi. Fattore molto importante è che tutti gli addetti al miglioramento della qualità del vivere in città, si occupino, non solo di grandi progetti, ma anche del recupero dei piccoli spazi dimenticati.
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è importante che l’italia scopra, all’interno dell’economia della conoscenza dei nostri giorni, la sua originalità che non è solo arretratezza, ma anche invenzione, costruzione E. Rullani, 2004
Stefano Follesa ciclo XXV
Tutor Francesca Tosi
Co-tutor Giuseppe Lotti
a tempo e a luogo. conoscenze, pratiche, direzioni per un design identitario
Abstract La ricerca affronta un tema ricorrente nella cultura del progetto, quello del rapporto con l’identità territoriale. Lo fa con uno sguardo specifico sul mondo degli oggetti e muovendosi all’interno di una disciplina, il design, che ha recentemente messo in discussione la sua tradizionale identificazione col processo industriale aprendo lo sguardo verso l’intero sistema dei processi produttivi compresi quelli artigianali. Le ipotesi formulate trovano ispirazione da nascenti movimenti culturali che promuovono un ritorno alla cultura del fare come possibile strumento di una nuova economia territoriale, sostenibile e concreta, in opposizione all’economia della sovrapproduzione e del consumo. Parallelamente la ricerca guarda all’economia digitale quale strumento di una nuova rivoluzione industriale che renderà, un domani, accessibile a chiunque la diffusione delle merci, favorendo la nascita e lo sviluppo di una nuova economia dal basso. Il testo racconta quindi dell’incontro possibile del mondo dei bit col mondo reale delle cose e dei luoghi. Gli obiettivi del lavoro sono prevalentemente due: da un
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lato promuovere e codificare un approccio identitario al progetto di design che tenga conto del rapporto con le risorse materiali e immateriali dei luoghi (alimentando in tal modo una diversità culturale), dall’altro favorire il rilancio delle micro-imprese locali attraverso nuove filiere organizzative dei prodotti (cataloghi tematici) che utilizzino le potenzialità offerte dal sistema delle connessioni. Introduzione Le trasformazioni socio-economiche più recenti hanno mostrato, sia in ambito di sviluppo globale sia in ambito di economia nazionale, la crisi degli equilibri produttivi e messo in discussione i modelli di sviluppo che hanno definito e guidato la produzione degli ultimi quarant’anni. Gli elementi costitutivi del processo di sviluppo della società globale, la liberalizzazione di mercati, prodotti e lavoro, l’interdipendenza dalle nuove tecnologie della comunicazione e dell’informazione, l’intensificarsi delle innovazioni sono intervenuti come fattori devastanti nelle economie di molti paesi riducendone progressivamente il grado di competitività. Quello che è avvenuto, in Europa come in molti altri paesi, è un progressivo arretramento delle produzioni nazionali di interi settori, dall’abbigliamento all’elettronica, dalle auto agli arredi, in funzione di una migrazione delle fabbriche, oggi nei paesi asiatici, un domani in altre possibili aree a basso costo del lavoro. Ma ogni paese, per poter sostenere il proprio sviluppo, deve poter alimentare una sua produzione se non vuole vedere ridotta la propria economia al solo transito e scambio di merci e persone. La crisi economica e sociale pone quindi l’attenzione sulla necessità di individuare nuovi
Fig. 1. Alfredo Quaranta. Foto: ItacaFree Lance.
modelli di sviluppo che tengano conto della profonda interdipendenza oramai attiva fra le economie, delle potenzialità espresse dallo sviluppo delle comunicazioni, ma anche e soprattutto delle specificità di ogni paese che implicano una visione particolare del progresso. Da più parti le risposte a tali necessità sembrano passare attraverso un ritorno al locale, una nuova economia dal basso, sostenibile e rispettosa della diversità dei territori che per il nostro paese potrebbe davvero delineare una visione strategica del futuro produttivo. Il ruolo del design In questa evoluzione economico-sociale il design riveste un ruolo primario, sia per le responsabilità che gli vengono unanimamente attribuite nello sviluppo esponenziale delle dinamiche di consumo che hanno accompagnato il procedere della globalizzazione, sia per il suo essere disciplina importante nello sviluppo dei sistemi produttivi e quindi centrale al definirsi di nuovi possibili scenari economici alternativi. E il design, oggi, mostra una necessità di riflessione, un’esigenza di ripensare al senso stesso della
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disciplina, al suo ruolo, alle sue pratiche, ai suoi confini, ai suoi sviluppi. In tale riorganizzazione disciplinare appare sempre più nodale il dibattito sui rapporti industria/artigianato e quindi le riflessioni sulla consolidata identificazione col processo industriale. Emerge da più parti la richiesta che la disciplina riversi le stesse energie sin qui profuse nei processi industriali nello sviluppo dei territori attingendo a quegli elementi di specificità ancora presenti da cui può partire una nuova fase di sviluppo. Come disciplina razionale e scienza dell’artificiale il design è nato tendendo all’ottimizzazione della produzione, in un’ottica in cui progetto, processo e prodotto erano del tutto slegati dal luogo e dal contesto, proprio perché replicabili, virtualmente in un numero infinito di volte, su scala industriale. Nel contesto di produzione e consumo contemporaneo invece il design, confrontandosi con le dinamiche di globalizzazione e smaterializzazione dei beni, con l’emergenza del locale e la necessità di generare valore in un regime di ‘distinzione’, coglie la dimensione territoriale come opportunità e responsabilità di progetto. (Lupo, 2008)
In più fasi e con diverse modalità il design ha usato le imprese artigiane quali strumenti di una sperimentazione formale spesso estranea ai processi produttivi, quasi sempre, e con poche eccezioni, finalizzata alla promozione del ‘segno’ del progettista rispetto alla reali esigenze dell’artigianato. Ciò, in parte, per una mancata conoscenza delle differenti modalità di approccio tra artigianato e industria, dei differenti linguaggi necessari nel confronto con le due espressioni del fare. C’è la necessità di un nuovo sguardo, di una nuova stagione del design che sappia guardare ai due processi con uguale dignità e pari interesse. Ciò che di nuovo sta avvenendo è che la crisi mondiale
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Fig. 2. Luca Scacchetti, Blow design.
ha generato, come risposta ai problemi posti dallâ&#x20AC;&#x2122;incedere della globalizzazione, una rinascita di interesse verso la cultura del fare, un avvicinamento tra progetto e realizzazione che in questa fase investe il design come una nuova primavera. Preceduto dalle analisi teoriche di ricercatori e critici in diversi paesi1, il nuovo fenomeno si presenta 1 Tra i testi che hanno determinato e accompagnato il recente sviluppo del fenomeno mondiale del Craft e il movimento parallelo dei Makers, oltre al testo del sociologo americano Richard Sennett, The Craftsman, Yale University Press 2008 (trad. italiana Lâ&#x20AC;&#x2122;uomo artigiano, Feltrinelli 2008) che nel nostro paese ha avuto una diffusione sopratutto tra i cultori del design, vanno citati i meno noti On Craftsmanship, toward a new Bauhaus di Cristopher Frayling, Oberon Books, London 2011, Makers, The new industrial revolution, di Chris Anderson, Crown Publishing Group, New York 2012 (traduz. italiana Makers, Il ritorno dei produttori. Per una nuova rivoluzione industriale, Rizzoli Etas 2013), The culture of craft di Peter Dormer, Manchester United Press 2010 e NeoCraft: Moder-
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Fig. 3. Riccardo Dalisi, Caffettiera Napoletana. Foto: Archivio Alessi.
come una rivoluzione culturale destinata a modificare profondamente il nostro rapporto con le merci, coniugando il valore sociale del fare alle potenzialità espresse dalle nuove tecnologie digitali, restituendo valore alle specificità locali e nuovi significati al rapporto con gli oggetti. Le persone in varie parti del pianeta stanno riscoprendo il valore del fare manuale e utilizzando il web per veicolare le proprie produzioni. Si delinea un futuro dove sempre più cose potranno essere fabbricate su richiesta […] è possibile individuare l’opportunità di una economia industriale meno trainata dagli interessi commerciali e più da quelli sociali, come già accade per i software open-source. (Anderson, 2013) nity and the Crafts di Sandra Alfondy, Press of the Nova Scotia College of Art & Design, 2007.
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Una rivoluzione che sta comportando la nascita o la ri-definizione di dipartimenti di craft-design nelle scuole di progetto europee (mentre in Italia si chiudono le scuole tecniche) e parallelamente rivitalizzando importanti rassegne espositive legate alla produzione artigianale nelle diverse città2. Craftsmanship has again became fashionable in high places, just has it did during the last few recessions. In the boom times of the early 2000s, the public talk was of design; now it is more of craft, a shift which mirrors the parallel move from ‘the creative industries’ to ‘productive industry’ and manufacturing. Government ministers extol ‘the joy of technical accomplishment, the beauty of craft skills (in schools)’ and stress the need for a new, updated Arts and Crafts movement to re-energise good old British inventiveness. (Frayling, 2011)
La situazione italiana Se la rivitalizzazione del tessuto artigianale è una nuova sfida per molti paesi che stanno ri-scoprendo una cultura del fare, lo è certamente ancor più per il nostro dove ancora permane una rete definita di competenze artigianali e una diversità tra i territori che è segnale di una cultura ancora ricca e vitale. Il sistema produttivo italiano, costituito per oltre il 90% da piccole e medie imprese organizzate in distretti territoriali, rappresenta una specificità che mal si adatta alle macro-reti di distribuzione globali. Per il nostro paese è impellente la necessità di definire nuovi scenari di In italia Artò a Torino, Artigiano in Fiera a Milano, Nuovo Artigiano a Vicenza, Più Design a Firenze in Germania Internationale Handwerksmesse a Monaco, Art Cologne a Colonia, in Francia Maison &Objets a Parigi, in Inghilterra 100% Design e Made a Londra.
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Fig. 4. Patricia Urquiola, Crinoline.
produzione, comunicazione e distribuzione che muovano dalla ricchezza culturale dei territori, è importante che l’Italia scopra, all’interno dell’economia della conoscenza dei nostri giorni, la sua originalità che non è solo arretratezza, ma anche invenzione, costruzione […]. In questo continuo rimando tra dimensione locale e dimensione globale è in gioco uno dei nodi cruciali dell’evoluzione del sistema distrettuale, quello rappresentato dal rapporto tra sapere tacito, che viene dall’esperienza diretta di imprenditori e lavoratori, e sapere codificato, quello che consente di accedere alle reti globali e di utilizzarne i linguaggi. (Rullani, 2004)
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Individuare nuovi metodi di sviluppo che all’interno dei fenomeni globali possano tener conto della specificità del nostro sistema produttivo diventa una priorità. Per tale sfida si chiede al mondo della ricerca un contributo di idee e sperimentazioni che possano alimentare il sistema produttivo. Un’esigenza che emerge chiara dalla lettura della Proposta di un metodo nuovo, il documento in cui nel 2014 venivano tracciate le priorità e le strategie della ricerca italiana degli anni a seguire. Il documento rappresenta la declinazione del documento programmatico Horizon 2020, che definisce le linee di ricerca dell’Unione Europea per il settennio 2014-2020. Un metodo nuovo per definire priorità nazionali e territoriali, per caratterizzare gli attori della ricerca e dell’innovazione, per valutare progressi e progetti. Un metodo che vuole combattere la crisi economica puntando su ricerca e innovazione, e che ha come scopo quello di ridurre la frammentazione e la duplicazione di cui soffre il sistema Europa3.
La ricerca in design è chiamata a delineare un ruolo di primo piano nella definizione di una innovazione di sistema sulla base delle competenze multidisciplinari che caratterizzano la formazione del designer. Il campo di indagine Le tematiche relative all’identità e al rapporto con le risorse locali sono alla base di progetti, studi e azioni in diversi settori del disegno industriale e in particolar
3 Fulvio Esposito, discorso di presentazione del documento La proposta di un metodo nuovo. Horizon 2020 Italia, tratto da Italia Valley, La rete degli innovatori italiani, http: //italianvalley. wired. it/
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modo nell’ambito del design applicato ai sistemi territoriali d’impresa. Tali progetti si collocano all’interno del settore disciplinare Icar/13 in una sezione specifica di ricerca denominata, nell’ambito di uno studio effettuato sugli sviluppi della ricerca in design in Italia4, Identità, territorio e produzioni locali. Costituiscono una base certa di riferimento alcuni progetti sviluppati in ambito universitario nel corso degli ultimi dieci anni. Tra queste la ricerca Me-Design, condotta nel 2002/03 dalla rete Sistema Design Italia, e la ricerca Euromedsys Interreg III Medoc, coordinata negli stessi anni dalla Regione Toscana. A tali ricerche appartengono i progetti promossi dai dipartimenti di design di Palermo (V. Trapani, Design & Sicily/Materia e Memoria; M. Ferrara, Design WeeK 2006-07), Torino (C. De Giorgi, C. Celant, Manufatto, Artigianato/ Comunità/Design) e Napoli (M. Buono, A. De Marco, EuroMedSys). All’interno del dipartimento TAeD dell’Università degli Studi di Firenze, oggi DIDA, il gruppo di ricerca guidato da Vincenzo Legnante e Giuseppe Lotti ha sviluppato numerosi progetti sul rapporto col locale, sia nell’ambito dei sistemi territoriali di impresa (Dester per il travertino toscano, FormaViva per il vivaismo pistoiese, 27x27 per la tradizione dell’imbottito a Quarrata nel Pistoiese), sia di identità mediterranea (HabitatMed, Elles Peuvent), sia in un ambito nuovo quale quello del ‘Design per i Sud del Mondo’. Tali ricerche hanno aperto direzioni che questo lavoro in parte ripercorre. 4
DRM DEsign Research Maps.
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Obiettivi A monte delle riflessioni sin qui esposte il lavoro di ricerca affronta, sotto la lente dell’identità, il tema dei rapporti tra design e artigianato e delle diverse modalità con cui la disciplina design si deve porre nei confronti di una produzione non-industriale. Lo fa con l’obiettivo di sviluppare nuovi strumenti e nuove pratiche, sia progettuali sia di processo, che tengano conto del differente approccio necessario nel rapporto con una produzione artigianale, ma anche della necessità di sviluppare nuovi linguaggi che esulino dalla semplificazione industriale per poter inglobare una ricca base di conoscenze, segni, tecniche che appartengono ai diversi territori produttivi. Ma ancora col fine di promuovere e codificare un approccio identitario al progetto quale base per la costruzione di nuove diversità culturali e come motore dello sviluppo dei territori. Nello specifico la ricerca indaga ‘l’identità’ degli oggetti e le differenti modalità con cui questa si costruisce nel rapporto con il ‘contesto territoriale’ e con le sue risorse materiali e immateriali. Il contesto territoriale e produttivo è definito dall’insieme di competenze ed esperienze sedimentate nel tempo, dall’insieme di saperi produttivi consolidati a livello individuale, familiare e di gruppo e, inoltre, dai legami, anch’essi consolidati tra aziende e persone. (Tosi, 2010)
Tale rapporto tra oggetti e luoghi ha sempre giocato nella storia dell’umanità un ruolo fondamentale nella formazione della diversità tra i popoli, nella costruzione del patrimonio di conoscenze, gesti, tecniche e simboli che qualifica ogni specifica cultura e che trova applicazione nel patrimonio orale e materiale. L’assunto di partenza
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Fig. 5. Gianni Veneziano, The Walking Men.
della ricerca è che tra oggetti e luoghi vi sia sempre stata una corrispondenza e che tale corrispondenza si sia interrotta con l’avvento della società delle macchine e con la sostituzione di un sapere codificato ad un sapere pratico. Questo passaggio, che coincide con la prima rivoluzione industriale, rafforza nel processo di realizzazione degli oggetti il momento preliminare del progettare che era operazione quasi assente nei sistemi tecnici pre-macchinistici in cui si sa quello che si sa fare, anche se non se ne sa comunicare il sapere in un discorso codificato. (Angioni, 2007)
L’atto progettuale definisce una separazione tra la fase dell’ideazione e la fase realizzativa, interrompendo una continuità storica di unità tra le due componenti del processo realizzativo. Al contempo la pratica industriale comporta
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una ulteriore ‘parcellizzazione’ del processo e una divisione in fasi che possono anche non interagire tra loro. La difficoltà nello sviluppare una progettualità che esprima il radicamento ai luoghi, al di là delle considerazioni necessarie sulle dinamiche economico-sociali e data per valida la persistenza negli stessi di un patrimonio di diversità, è data soprattutto da una ‘mancata conoscenza’ da parte del progettista sia degli elementi di diversità di ogni territorio (storia, culture materiali, stilemi, tecniche), sia degli strumenti e delle tecniche necessarie a una progettazione di carattere identitario. Partendo dalle premesse di una vocazione consolidata della cultura fiorentina sul tema del rapporto con i luoghi, la tesi entra nello specifico dei legami tra territori e oggetti interrogandosi sul ruolo del progetto nello sviluppo dell’identità. Il fine in tal senso è quello di dare concretezza a un rapporto sufficientemente approfondito in ambito antropologico, sociologico ed economico, ma ancora vago e non codificato sul piano specificamente progettuale. Henry Thoreau, poeta e scrittore della seconda metà dell’Ottocento, scriveva: “Un uomo è ricco in proporzione al numero di cose delle quali può fare a meno” e lo stesso Enzo Mari, tra i più importanti designer italiani, parla di un ruolo quasi criminale del design nel suo essere strumento di proliferazione di nuove merci in un mondo già sommerso dalle stesse. Il concetto di decrescita e il recupero del rapporto simbolico e affettivo con gli oggetti sono tematiche che aleggiano nel dibattito sui territori e nelle pagine di questo testo. Può sembrare paradossale e antistorico che una disciplina da sempre considerata come la base dello sviluppo
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Fig. 6. Marco Magni, Ovaria.
produttivo possa occuparsi di decrescita, ma ci sono a mio parere almeno cinque buoni motivi perchè ciò avvenga: 1. la necessità di una riflessione sul ruolo sociale del design e sugli sviluppi futuri della disciplina; 2. la considerazione che il nostro sistema produttivo e distributivo sia certamente più funzionale alla realizzazione di pochi oggetti di alta manifattura piuttosto che a quella di molti oggetti seriali (questo è d’altronde l’Italian Style e a ciò è legata l’immagine dell’Italia nel mondo); 3. il valore del patrimonio storico-culturale del nostro paese che può davvero rappresentare l’elemento strategico di diversità se imparassimo a rapportarci a esso; 4. l’esigenza di recuperare all’interno del progetto di design elementi strategici spesso disconosciuti quali il
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Fig. 7. Marco Magni, Vacula Conetnitore.
valore di tecniche e conoscenze tacite, la preziosità dei materiali, la ricchezza del patrimonio iconografico di riferimento di alcune comunità locali; 5. la necessità, sempre più impellente in termini di sostenibilità ambientale, di sviluppare filiere corte di produzione (il recupero del rapporto con i luoghi ha anche questa funzione). Queste ed altre motivazioni hanno guidato una ricerca multidisciplinare sul concetto di identità verificando quanto, per molte espressioni del vivere, questo termine abbia ancora un significato e un ruolo, e col preciso obiettivo di capire le forme e i modi in cui l’identità si sviluppa nella società contemporanea.
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Fig. 8. Marco Magni, Scultura Domestica.
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Obiettivo Generale La ricerca si propone di creare un quadro di strumenti e metodi attraverso i quali il design possa sviluppare nuova competitività nei sistemi territoritoriali di impresa partendo dagli elementi di identità e diversità che ogni territorio esprime. Tale obiettivo si inserisce in un quadro ampio di ricerche sul ruolo del design nei sistemi produttivi locali e di conseguenza sull’intero settore manifatturiero (industria e artigianato) e in una riflessione sulla necessità di definire un ruolo dei territori nella costruzione di nuovi modelli di sviluppo. Il carattere di innovazione della ricerca risiede nel suo sguardo trasversale alle diverse componenti, materiali e immateriali, dell’identità di un luogo e di conseguenza in un approccio multidisciplinare al tema. Gli strumenti individuati intervengono sia nel processo progettuale sia nella fase di comunicazione e commercializzazione del prodotto. Tra questi va consideratala definizione di un quadro di regole per la progettazione in ambito identitario partendo dal rapporto con le risorse e le conoscenze dei territori e lo sviluppo di nuovi strumenti di comunicazione del prodotto, elaborati con le conoscenze specifiche della disciplina, che possano favorire la conoscenza e la distribuzione delle produzioni locali. Obiettivi Specifici Gli obiettivi specifici sono: • Favorire la conoscenza delle culture materiali e dei territori (storia, cultura, materiali, tradizioni) attraverso uno strumento multimediale di semplice consultazione (Archivio delle Conoscenze Territoriali) che a livelli progressivi di conoscenza possa costituire un ausilio per
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un approccio culturale al territorio e quindi uno strumento per il processo progettuale e per la didattica. • Promuovere lo sviluppo di una ‘progettualità consapevole’ e di conseguenza favorire la nascita di nuovi linguaggi progettuali che, rispetto alla semplificazione richiesta dal processo industriale, sappiano partire dalla complessità delle risorse materiali e culturali di un luogo. Tale obiettivo è strategico ai fini di una continuità storica delle identità territoriali che necessitano di nuove pratiche che possano alimentarne la diversità culturale. • Recuperare e rinnovare, attraverso nuovi processi, alcune delle peculiarità del prodotto manifatturiero italiano quali: la preziosità dei materiali e delle lavorazioni, la forza del patrimonio artistico di riferimento, l’originalità del repertorio iconografico, il ‘saper fare’ dell’artigiano. • Costruire nuovi strumenti per la diffusione e commercializzazione dei prodotti (cataloghi tematici). Tale obbiettivo è strategico in un’ottica di differenziazione dei sistemi di comunicazione e diffusione dei prodotti troppo sbilanciati in favore di produzioni industriali di serie e poco funzionali al sistema delle piccole e medie imprese. Metodologia e strumenti Le tecniche di ricerca utilizzate partono da una ricerca bibliografica su testi nazionali e internazionali (limitatamente ai testi in lingua inglese) con un percorso interdisciplinare dal generale (macro-tematiche) al particolare, accompagnata da un uso mirato del web volto soprattutto a bilanciare la difficoltà di un confronto con altre realtà di ricerca in ambito europeo. Ciò tuttavia con la specifica
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che, essendo la ricerca finalizzata a una sua applicabilità nell’ambito del sistema culturale nazionale, era importante studiarne le peculiarità, limitando l’indagine sovranazionale ai temi generali. A seguire l’analisi dei casi studio si è svolta con differenti modalità (dialoghi con esperti, schede di analisi dei progetti svolti in ambito universitario e privato, schede fotografiche di lettura degli oggetti, analisi delle buone pratiche aziendali) al fine di consentire una lettura quanto più ampia e al contempo più trasversale possibile. Il programma di ricerca si è sviluppato canonicamente in tre fasi: fase istruttoria, fase di analisi, fase propositiva. Come premessa alla ricerca, un capitolo iniziale introduce il tema dell’identità, rivendicandone una specificità tematica all’interno della cultura fiorentina. La fase istruttoria è volta a creare o rafforzare una base di conoscenze trasversali necessarie a definire, da un lato, i concetti chiave alla base della ricerca, dall’altro, una specificità di lettura di un tema ampiamente affrontato dai differenti ambiti della cultura, ma quasi sempre con finalità e metodi lontani dalla ricerca in design. Le indagini svolte in tale fase hanno riguardato: • ricerca Desk sui concetti generali legati all’identità e ai modi in cui l’identità si definisce nei diversi campi della cultura e nel sistema degli oggetti. La ricerca parte con un’indagine sulle parole-chiave che hanno il compito di individuare gli ambiti e i confini della ricerca. In tale fase si definisce cos’è l’identità e qual è stato storicamente il suo ruolo all’interno delle pratiche progettuali e realizzative, analizzandone sia gli ambiti (le pratiche che sviluppano) sia le
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Fig. 9. Angelo Figus e Maria Rosaria Pinna, poltroncina Gedda, Biennale dell’Artigianato Sardo.
componenti (gli elementi che determinano identità). Pur essendo la ricerca finalizzata al mondo degli oggetti, l’analisi si estende a tutte le espressioni materiali e immateriali della cultura, per comprendere le differenti modalità con cui l’identità si costruisce e si sviluppa. Ambiti e componenti sono visti in questo capitolo
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nel loro definirsi, mentre nel procedere della ricerca verranno trattati sotto l’aspetto del loro rapporto con la contemporaneità. • ricerca Desk sul rapporto oggetti/persone e oggetti/luoghi e sul ruolo del design nella definizione degli oggetti contemporanei. Definiti i temi generali, in questa parte della ricerca si restringe il campo di osservazione al sistema degli oggetti. L’obiettivo è quello di capire che rapporto intercorre tra gli oggetti e l’identità e in che modo le cose siano realmente espressione di un tempo e di un luogo. Il percorso parte da una analisi dei rapporti che intercorrono tra uomini e oggetti visti sia dal punto di vista degli uomini (la nostra conoscenza delle cose, il modo in cui le usiamo, il ruolo che attribuiamo loro, le modalità di possesso e scambio) sia dal punto di vista delle cose (il loro ruolo nella evoluzione della società, il rapporto delle cose con i luoghi, le diverse tipologie di oggetti che caratterizzano alcuni aspetti del nostro vivere). In queste analisi ancora non compare il ruolo del design. • ricerca Desk sugli aspetti produttivi e sugli aspetti economici e organizzativi dei sistemi territoriali. Nelle due fasi precedenti emerge il ruolo determinante dei sistemi di produzione nella definizione delle caratteristiche identitarie degli oggetti. L’analisi evidenzia come la scomparsa di una definizione identitaria degli oggetti coincida con il passaggio dalle tecniche produttive manuali a quelle strumentali. Questa parte della ricerca si occupa della produzione cercando appunto di capire il ruolo dei sistemi di produzione nella definizione del rapporto tra gli oggetti e i luoghi. Lo fa attraverso
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una prima indagine volta a evidenziare per ogni fase storica le implicazioni dei mutamenti produttivi e delle innovazioni tecnologiche sui territori e successivamente attraverso un approfondimento sui sistemi produttivi attuali e quindi sulle diverse modalità di realizzazione degli oggetti interrogandosi sui modi in cui esse interferiscano sulla identità e sulla diversità. La fase di analisi rappresenta la parte in cui la ricerca si sposta dagli ambiti teorici a quelli applicativi per costruire i materiali di riferimento della fase propositiva. Prima di entrare nello specifico dei temi di interesse disciplinare questa fase si apre con un’indagine sulle diverse modalità in cui l’identità è ancora presente nella società. Tale indagine si esplicita in un approfondimento sui singoli ambiti e in una serie di interviste a interpreti della cultura contemporanea per i quali il tema dell’identità ha rappresentato un riferimento del proprio percorso disciplinare o professionale. Lo scopo è da un lato quello di evidenziare quanto il rapporto con i luoghi sia ancora determinante per alcuni aspetti del nostro vivere (ciò, ad esempio, è esplicito nella cultura agroalimentare), dall’altro quello di capire con quali modalità l’identità permane e si sviluppa nella cultura contemporanea. La comprensione degli strumenti e dei metodi con cui nella musica, nell’architettura, nel progetto del paesaggio, nella moda si inseriscono elementi di identità all’interno di linguaggi contemporanei, fornisce ulteriori elementi di valutazione per la definizione di un approccio identitario al progetto degli oggetti. A seguire, l’analisi si finalizza al tema specifico della ricerca e cioè all’individuazione del rapporto che intercorre tra
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Fig. 10. Roberta Morittu, Cesto in vimini con decorazione in tessuto. Foto: Daniela Zedda.
design e identità e lo fa sotto due punti di vista strettamente connessi; quello progettuale e quello produttivo/distributivo. In particolare: • schedatura e analisi di progetti di ricerca sviluppati sui temi dell’identità in un campione temporale limitato; • schedatura e analisi di esempi significativi di progetti di designer contemporanei che lavorino sul tema dell’identità e del rapporto con i luoghi; • schedatura e analisi di realtà produttive il cui successo sia legato al rapporto col territorio quale elemento determinante nella individuazione delle strategie. Come ampiamente evidenziato nella fase istruttoria, un’apertura disciplinare verso l’intero ambito dei sistemi
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produttivi (la caduta delle barriere che hanno sinora separato il design dall’artigianato) giustifica e consente un possibile ritorno ad un ‘design dei luoghi’ e quindi dà significato e ruolo alla ricerca. La fase propositiva rappresenta la parte centrale della ricerca. Le analisi svolte nelle precedenti fasi mostrano con sufficiente chiarezza quanto gli elementi di criticità siano individuabili sia nella fase progettuale che nella fase produttivo-distributiva. Per il processo progettuale emerge la non applicabilità delle pratiche in uso in ambito industriale e quindi la necessità di individuare modalità proprie del progetto identitario in considerazione delle diverse finalità, strumenti e metodi. Per quanto riguarda il processo produttivo è fondamentale partire dall’evoluzione dei mercati per definire nuove pratiche di distribuzione e diffusione dei prodotti. Con la consapevolezza di quanto lo sconfinamento nei territori dell’economia implichi conoscenze che esulano dalle competenze disciplinari e un grado di approfondimento ben superiore a quello sviluppabile in un capitolo di tesi, è stato tuttavia ritenuto necessario lavorare su una ipotesi nella quale progetto, produzione e distribuzione sono interdipendenti e per lo sviluppo della quale il ruolo e le competenze del design possono essere strategici. Da tali riflessioni deriva un sistema di regole perseguibili per la progettazione in ambito identitario e una ipotesi di nuovi strumenti per favorire lo sviluppo commerciale delle realtà produttive che operano all’interno dei territori.
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Risultati Le proposte individuate si suddividono in tre differenti ambiti applicativi: conoscenze-pratiche-direzioni. Conoscenze La costruzione di nuove pratiche per il progetto identitario passa necessariamente attraverso una fase preliminare di acquisizione di quel bagaglio di informazioni che il rapporto con il luogo impone. Alla base di qualsiasi azione praticabile vi è un processo di appropriazione che consiste nel rilevare, interpretare e tracciare le caratteristiche del territorio per poi concepire l’idea di intervento. Sulla base di esperienze portate avanti in altre sedi, la ricerca ipotizza un utilizzo attivo dei sistemi di schedatura delle culture materiali come base conoscitiva per il processo progettuale, definendo un sistema che coincide con un archivio digitale consultabile da chiunque in qualsiasi luogo. La proposta elaborata è quella di un Archivio delle Conoscenze Territoriali, uno strumento digitale di consultazione per i progettisti, e di riferimento per una didattica, che includa un approfondimento locale delle conoscenze. L’ipotesi di un differente sistema di schedatura delle culture materiali parte dalla considerazione che le schedature in uso abbiano prevalentemente una funzione documentale che mal si adatta alle esigenze del progettista. Ai fini di questa ricerca l’utilizzo possibile delle schede è quello di raccogliere dati e informazioni che possano guidare la pratica progettuale. L’ipotesi è quella di creare uno strumento capace di fornire al progettista che intende
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Fig. 11. Ottorino Berselli e Cecilia Cassina, SaPanca design. Artintaglio Mastro Mimmiu per la Biennale dell’Artigianato Sardo.
operare in un determinato territorio tutte le informazioni necessarie per lo sviluppo dei propri progetti in chiave di continuità identitaria. L’Archivio delle Conoscenze Territoriali si integra con un sistema di buone pratiche per il progetto e con un secondo strumento digitale rappresentato dai Cataloghi Tematici Territoriali il cui scopo è quello di sviluppare strumenti alternativi di commercializzazione e diffusione dei prodotti. Pratiche Questa parte della ricerca intende fornire gli strumenti per passare da una lettura delle specificità al loro utilizzo attivo all’interno del processo progettuale. Viene esaminato il ruolo delle diverse componenti dell’identità e le modalità con cui il progetto può rapportarsi a ogni singola componente. Lo scopo è di costruire un sistema di buone pratiche che il progettista possa adottare nello sviluppo del progetto identitario. I dialoghi contenuti negli apparati alla ricerca e i progetti
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degli autori che nel tempo hanno intrapreso un simile percorso rivelano quanto il confronto tra storia e modernità implichi precise scelte di campo che rappresentano i confini all’interno dei quali il progetto si svolge. Tali confini sono allo stesso tempo un vincolo e una ricchezza per il progetto. Nel progetto identitario l’idea non parte da un foglio bianco, ma da un sistema di preesistenze che devono trovare continuità nel rapporto con il contemporaneo. Tali preesistenze, che rappresentano l’attaccamento al luogo, possono riguardare i materiali, le tecniche, le forme e le tipologie, il linguaggio, l’apparato simbolico e decorativo. Partendo dalla premessa che il progetto per i territori è spesso un progetto per l’artigianato, il secondo aspetto che caratterizza il progetto identitario è il differente processo che il rapporto con l’artigiano implica rispetto all’industria. Mentre nell’industria la conoscenza delle tecniche di realizzazione (e quindi dei macchinari) fa parte (o dovrebbe) delle competenze del progettista, e quindi il progetto parte dalla rappresentazione grafica per poi approdare alla tecnica, nell’artigianato il confronto con chi realizza è operazione preliminare al progetto. L’artigiano è il tramite tra il disegno e la macchina, ma poiché l’abilità del suo fare costituisce una ‘lettura’ del progetto è necessario che il designer faccia partire dall’artigiano il suo percorso progettuale. Ogni artigiano esprime diverse conoscenze, diverse abilità, talvolta un modo differente di fare le stesse cose. Tant’è che le schede di lettura degli oggetti negli apparati e i dialoghi con gli autori rivelano una diversità del progetto identitario nell’attribuzione della paternità del progetto in egual misura al designer e all’artigiano.
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Infine questa sezione la ricerca pone alcune riflessioni teoriche sul progetto e sul rapporto preesistenze/contemporaneità come contributo all’atto progettuale al fine di esplicitare i dubbi e le riflessioni che un progettista si pone nell’affrontare il rapporto col passato come base per un confronto con la contemporaneità. Direzioni La terza fase delle proposte di intervento riguarda l’individuazione di nuovi strumenti per la comunicazione e la commercializzazione di prodotti con un forte carattere identitario. Tale esigenza è dovuta, da un lato, alle particolari caratteristiche del prodotto (che necessita per esempio di un adeguato supporto di comunicazione per poter essere apprezzato e valorizzato), dall’altro, dall’inefficacia per le piccole aziende dei modelli commerciali e distributivi attuali. Quest’ambito della ricerca, se pure possa apparire come uno sconfinamento disciplinare, si pone come naturale approdo del processo progettuale e ad esso fortemente connesso. La proposta è di creare dei Cataloghi Tematici come nuovi strumenti per la penetrazione nei mercati delle piccole imprese attraverso filiere orizzontali su tematiche specifiche guidate dalle competenze del designer. Al fine di sviluppare un adeguato modello di commercializzazione in rete sono infatti necessarie competenze di graphic-design, una buona conoscenza delle information technologies e una competenza specifica sul prodotto; tutte specificità che appartengono alla disciplina design. L’obiettivo dei cataloghi tematici è quello di stimolare l’innovazione nel sistema di commercializzazione attraverso la creazione
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Fig. 12. Ugo La Pietra, Vaso in ceramica di Vietri.
di una offerta ragionata di prodotti, raggruppati per settori specifici di mercato, da proporre in rete in un catalogo unico di e-commerce e con un sistema informatizzato di gestione degli ordini che consenta a ogni azienda partecipante di inserire le commesse all’interno della propria organizzazione produttiva. Una tale gestione eluderebbe la tradizionale vocazione all’isolamento delle piccole imprese non intaccandone la specificità identitaria, ma consentendo l’individuazione e lo sviluppo di nuovi territori di espansione senza necessariamente modificarne il processo produttivo primario. La creazione e gestione di uno più cataloghi tematici può essere delegata dall’ente
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promotore (amministrazione provinciale o regionale), alle strutture di servizio, alle imprese o ai consorzi tra i produttori. La costruzione di un catalogo tematico può rappresentare la premessa alla costruzione di vere e proprie filiere tematiche e all’internazionalizzazione dell’offerta attraverso la partecipazione a rassegne commerciali o l’attivazione di una rete di negozi in franchising (si pensi ad esempio a come una filiera sul Tuscan way of Life nell’arredamento possa generare interesse sui mercati internazionali) e ancora l’organizzazione di un’equipe di progettisti, trasversale alle varie aziende, che possano generare nuova progettualità sulle identità territoriali. Conclusioni Rileggere il disegno industriale come disciplina di scenario in grado di favorire la competitività e lo sviluppo dei territori, allargarne gli ambiti all’intera gamma dei processi produttivi, utilizzarne gli strumenti per ricucire o rivitalizzare gli elementi di diversità rappresentano obiettivi funzionali sia al dibattito interno alla disciplina sia alle esigenze di sviluppo del sistema manifatturiero. In ciò risiede l’utilità della ricerca che ambisce a fornire un contributo in termini di elaborazioni teoriche e di applicazioni realmente applicabili alla filiera produttiva degli oggetti. Il progetto, stimolando una rivalutazione delle culture locali, può portare a ricadute in ambito economico legate sia alla proposta per i mercati globali di precisi prodotti che esprimano diversità culturale, sia allo sviluppo nei territori delle attività legate al turismo grazie al rafforzamento dell’identità dei luoghi.
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In tal senso gli interlocutori privilegiati sono i progettisti, le micro-imprese o sistemi territoriali di imprese e gli enti locali. Il legame con il territorio di appartenenza può rappresentare un valore aggiunto a livello di mercato in quanto risponde a un interesse crescente dei consumatori verso prodotti non omogenei, ma espressione di particolari contesti. Le potenzialità e i bassi costi di gestione di una veicolazione di tali prodotti attraverso cataloghi tematici consultabili via web possono rappresentare un’alternativa applicabile alle piccole e medie imprese. La contaminazione tra ambiti produttivi diversi, sperimentabile in tali cataloghi, può poi costituire un plus distintivo in alcuni settori produttivi. Rappresentano ulteriori risultati raggiungibili: • utilizzare gli Archivi delle Conoscenze Territoriali quali strumenti didattici per favorire la conoscenza dei territori e delle culture materiali e sviluppare una nuova progettualità per le produzioni artigianali; • costruire attorno ai Cataloghi Tematici filiere produttive identitarie che raccolgano risorse provenienti dal territorio (aziende di differenti settori riunite in consorzi per una offerta globale sul mercato) in un’unica proposta produttiva; • definire nuove metodologie operative per favorire l’inserimento di elementi di cultura produttiva artigianale all’interno del processo industriale.
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l’handicap è una condizione nella quale ci troviamo e noi uomini siamo tutti in una condizione. allora l’uomo a confronto con un uccello sarebbe un handicappato? in effetti l’uccello vola e l’uomo no. invece, più semplicemente, l’uomo è nella sua condizione di uomo. io non ci vedo, sono nella condizione di non vedere. più che avere un handicap io sono una condizione.
A. Zanotti
Alessia Brischetto ciclo XXVII
Tutor Francesca Tosi
l’inclusione sociale nel settore delle learning technologies: l’approccio universal design
Abstract Il lavoro di ricerca si colloca nell’ambito delle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (ICT) per l’apprendimento ed è inteso ad analizzare, attraverso il contributo derivante dal settore dell’Ergonomia per il Design, gli aspetti che possono entrare in gioco per lo sviluppo di piattaforme di apprendimento inclusive. A oggi, accanto alle ICT per l’apprendimento, le tecnologie assistive vengono solitamente impiegate per permettere a chiunque di lavorare in modo sano, efficacemente e con parità di accesso alla tecnologia, indipendentemente da qualsiasi menomazione o disabilità. Tuttavia, non sempre le persone riescono facilmente a svolgere attività e compiti predeterminati, in quanto si sono riscontrate difficoltà di accessibilità all’informazione. Per superare tale difficoltà è necessario realizzare sistemi informatici che seguono regole di accesso universale, così da mettere in condizione tutte le persone, indipendentemente dalle loro caratteristiche fisiche o cognitive e dagli strumenti hardware e software che utilizzano, di accedere all’informazione. In altre parole è necessario progettare per l’accessibilità. In questo contesto, il lavoro tratta gli aspetti progettuali e
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normativi che interessano il settore dell’Educational Technology, evidenziando le affinità tra l’Universal Design for Learning, l’apprendimento collaborativo e gli standard di accessibilità in materia di apprendimento inclusivo. Introduzione In una società basata sulla conoscenza, la tecnologia, dai personal devices alla rete, è sempre più il mezzo per trasmettere, conservare e produrre informazioni. Ne consegue che l’accessibilità alle tecnologie diviene un requisito fondamentale nel modo di vivere, di lavorare e di apprendere. Nonostante ciò, in più occasioni è stato osservato che se da una parte le Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (ICT) rendono possibile l’accesso a quanto finora inaccessibile, offrendo considerevoli opportunità, dall’altra possono contemporaneamente generare problemi di esclusione sociale per le categorie deboli come per esempio anziani, disabili e stranieri. Assistiamo da tempo a leggi di libero mercato che orientano i prodotti a gruppi di utenti appartenenti alla categoria di ‘normodotati’, escludendo di conseguenza tutti quei soggetti che hanno bisogni speciali e che difficilmente riescono ad adattarsi alla tecnologia. Di fronte allo sviluppo delle cosiddette autostrade digitali bisogna inoltre evitare che la diffusione delle tecnologie sia dettata da logiche puramente economiche, questo non solo per motivi di equità sociale, ma anche per non ritrovarsi in un futuro lontano a dovere pagare costi sociali ed economici elevati per consentire l’accesso alle categorie deboli (Kozma, 2005; Mishra et al., 2015). Emerge quindi la necessità di attuare specifiche politiche
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basate su un forte senso di responsabilità sociale e civile mirate soprattutto a garantire alle persone con disabilità di vivere in maniera indipendente e di partecipare pienamente a tutti gli aspetti della vita. In questo senso, la Comunità Europea, attraverso l’iniziativa Horizon 2020 correlata alla strategia di Lisbona, è intervenuta attivamente nella la realizzazione di uno spazio unico dell’informazione. In particolare, sono stati previsti investimenti nella ricerca e nello sviluppo del settore dell’ICT al fine di elaborare proposte specifiche per realizzare una società europea dell’informazione basata sull’inclusione: e-inclusion, e-accessibility, piano di azione europeo, politiche di diffusione delle ICT (Berleur & Galand, 2005; Jarke, 2015). All’interno di questo quadro complesso, se garantita l’accessibilità e la fruizione alle informazioni, le ICT possono andare anche oltre, poiché possono rivelarsi un valido strumento per la valorizzazione delle capacità residue dei disabili e per sopperire a delle ‘mancanze’ (Seale & Cooper, 2010). È per questi motivi che, all’interno del settore didattico-educativo, le ICT sono da tempo viste come una risorsa. A oggi, le pratiche condivise per agevolare la fruizione e l’accesso dei disabili contemplano come risorsa primaria l’impiego delle tecnologie assistive come ausili, monitor, dispositivi hardware e software. Nonostante ciò, la Convenzione della Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità rivela l’importanza di intraprendere o promuovere la ricerca, lo sviluppo e l’uso di nuove tecnologie, beni, servizi e apparecchiature in una più ampia prospettiva di progettazione universale,
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superando i limiti imposti dalle cosiddette protesi funzionali o meglio definite tecnologie assistive (Lazzari, 2012). La progettazione universale diviene quindi elemento indispensabile mediante il quale, in maniera sistematica e proattiva, è possibile sviluppare soluzioni accessibili per tutti i cittadini in una prospettiva, dunque, inclusiva. In questo scenario, la tesi si propone come obiettivo principale quello di analizzare il potenziale inclusivo delle odierne ICT nei contesti adibiti all’apprendimento e allo stesso tempo valutare quale può essere il contributo del design adottando un approccio progettuale universale. Considerata la multidisciplinarità del tema affrontato, si è ritenuto utile nella fase iniziale del lavoro un approfondimento sulle teorie cognitive e i modelli di apprendimento che si sono sviluppati in relazione all’evoluzione delle cosiddette ‘macchine per l’apprendimento’ (interazione uomo-macchina) e che oggi appartengono al settore dell’Educational Technology. Successivamente, il lavoro è stato indirizzato a valutare il potenziale dell’approccio Universal Design (UD) e Universal Design For Learning (UDL) in l’ambito educativo, e come quest’ultimo possa contribuire alla progettazione di percorsi formativi inclusivi. Nella fase finale del lavoro si è ritenuto utile il coinvolgimento di pedagogisti, psicologi ed esperti del settore educativo. In particolare, grazie alla collaborazione con il CRED Ausilioteca1 (Centro Risorse Educative
1 CRED Ausilioteca — centro di consulenza e documentazione di ausili e sussidi didattici specifici, che si rivolge al mondo della scuola per favorire processi di integrazione e apprendimento di alunni diversamente abili o in condizioni di svantaggio. Gli esperti che hanno fornito il contibuto in qesta fase sono la dott. ssa Claudia Durso e al dott. Enrico Rialti.
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Didattiche) di Firenze è stato possibile effettuare una valutazione esplorativa sull’impiego delle ICT in contesti educativi e allo stesso tempo verificare punti di contatto e potenzialità applicative dell’approccio combinato UD-UDL analizzato. Approccio metodologico Sulla base degli obiettivi prefissati la ricerca è stata incentrata nella prima fase nell’esaminare il ruolo che il settore dell’ICT occupa nella società contemporanea attraverso un’analisi delle principali strategie politiche europee e nazionali rivolte allo sviluppo e all’integrazione di pratiche di apprendimento inclusive. Per avere un quadro completo delle politiche europee si è fatto riferimento alla banca dati Eurydice, dove sono riportate le raccomandazioni/suggerimenti riguardanti l’uso delle ICT per promuovere l’equità in contesti didattico-educativi (Annett & Duncan, 1967). Per la comprensione degli aspetti psicologico-cognitivi coinvolti nell’interazione uomo-macchina e delle relative pratiche di apprendimento mediate dalle tecnologie, sono state analizzate le teorie del comportamentismo, del cognitivismo e del costruttivismo e i rispettivi modelli di apprendimento (transmission model, learner centred model, participative model). Sulla base di tali modelli sono inoltre riportate, attraverso degli esempi applicativi, le tipologie di tecnologie fino a oggi sviluppate nel settore di riferimento (Simens, 2012). Gli aspetti relativi all’efficacia e al potenziale inclusivo di queste tecnologie sono stati successivamente indagati per valutare il contributo di un approccio combinato UD-UDL e come e quando devono
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essere impiegate le tecnologie assistive (AT). Allo stesso tempo, sono stati analizzati gli standard esistenti in materia di accessibilità del web (WCAG) e gli standard ISO2 e valutate le possibili integrazioni con approccio UD-UDL. Nella fase finale del lavoro, a valle di una ricerca su teorie e modelli di apprendimento mediati dalle odierne tecnologie, si è ritenuto utile per poter definire una strategia di sviluppo per attività future, il coinvolgimento di pedagogisti, psicologi ed esperti del settore educativo. In tale direzione è stata avviata una collaborazione con il CRED Ausilioteca (Centro Risorse Educative Didattiche) di Firenze, un centro di consulenza e documentazione di ausili e sussidi didattici specifici che si rivolge al mondo della scuola per favorire i processi di integrazione. Fra gli scopi primari del CRED Ausilioteca vi è proprio quello di offrire strumenti, materiali e ausili per facilitare l’acquisizione dei prerequisiti e degli apprendimenti necessari. Risultati e discussioni ICT e apprendimento inclusivo Dall’analisi del quadro di riferimento emergono dati interessanti sulle prospettive riguardanti l’impiego delle ICT, specialmente in contesti didattico-educativi. I numerosi progetti e iniziative, tra questi Scuola 2 La ISO 9241-171: 2008 fornisce una guida per la progettazione di software accessibili. Copre le questioni connesse con la progettazione di software accessibile per le persone con la più ampia gamma di capacità fisiche, sensoriali e cognitive, compresi coloro che sono temporaneamente disabili, e gli anziani (vedi anche ISO 9241-110, ISO 9241-11 a ISO 9241-17, ISO 14915 e ISO 13407). Per quanto riguarda le AT: ISO/IEC TR 13066-3: 2012 Information technology — Interoperability with assistive technology (AT) — Part 3: accessibility application programming interface (API).
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Digitale — Cl@ssi 2.0 e Nuove Tecnologie e Disabilità (NTD), indetto dal MIUR a livello italiano e a livello europeo Piano d’Azione e-Learning, sono stati e sono tutt’ora attivi nella sperimentazione e applicazione delle nuove tecnologie all’interno di Scuole, Università e Istituti pubblici e privati che operano nel settore formativo. Tra questi sono degni di nota l’Associazione Italiana di Dislessia (AID) e i vari centri di consulenza sugli ausili informatici e le tecnologie assistive come i Centri Territoriali di Supporto. Ad esempio, gli aspetti favorevoli relative all’adozione delle ICT in contesti formativi riguardano: • la possibilità di creare materiali didattici personalizzati anche per alunni in situazione di disabilità grave; • l’aumento dell’autostima; • la risposta al bisogno di strumenti flessibili e condivisi; • la personalizzazione dei contenuti per facilitare l’apprendimento; • la facilitazione delle attività didattiche che necessitano la lettura e la scrittura di un testo; • la riflessione pedagogica su nuove tecnologie ed esperienza didattica nell’ambito di progetti di ricerca-azione; • il lavoro condiviso tra docenti ed esperti del mondo della scuola e quelli del mondo universitario. Tra gli aspetti problematici: • il non sempre facile reperimento di programmi open-source adattabili; • l’addestramento all’uso che richiede preparazione da parte dei soggetti coinvolti; • un lavoro costante anche a casa e un contesto favorevole; • le difficoltà dei docenti a realizzare contenuti adeguati;
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• la carenza di competenze di base per la produzione di materiali multimediali dei docenti e degli operatori del settore. Accanto alle grandi potenzialità applicative delle ICT, il superamento delle criticità sopra esposte richiede ulteriori sforzi per l’attivazione di strategie di sviluppo sociale ed economico che interessano il mondo pubblico e privato e i produttori di servizi, i quali dovranno sviluppare soluzioni centrate sull’utente in un’ottica inclusiva. Come si evince da quanto riportato nella Convenzione della Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, la progettazione universale svolge un ruolo determinante nel superamento delle barriere imposte dal solo utilizzo delle tecnologie assistive. Dunque, la progettazione universale, intesa come uno sforzo sistematico e proattivo alla progettazione, svolge un ruolo determinante nello sviluppo di soluzioni accessibili e inclusive per tutti i cittadini, senza bisogno di ricorrere a soluzioni adattive. Inoltre, attraverso la Rete è possibile promuovere nuove forme di socialità. In particolare, il Web 2. 0 può tramutarsi in una protesi relazionale e una tecnologia inclusiva che consente di incrementare il proprio capitale sociale a costi accessibili. Tuttavia, dai numerosi dibattiti internazionali riguardo al digital divide (soprattutto se in presenza di deficit), ovvero la possibilità che un uso non intelligente delle ICT possa generare divario sociale, emerge che le cause di esclusione possono risiedere nell’accesso, nell’utilizzo delle tecnologie, nelle competenze e nelle motivazioni. Diventa quindi necessario promuovere contestualmente strategie educative in modo da poter diffondere la cultura informatica fra le persone con disabilità e non.
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Teorie cognitive, modelli di apprendimento e tecnologie associate In questa fase si è ritenuto di fondamentale importanza un approfondimento sulle pratiche di apprendimento mediate dalle tecnologie in rapporto all’interazione uomo-macchina. Per questo è stata esaminata l’evoluzione dei modelli di apprendimento e la relativa nascita delle cosiddette Educational Technology. Nello specifico è emerso che le teorie del comportamentismo, del cognitivismo e del costruttivismo, spostando l’attenzione dall’insegnamento all’apprendimento, hanno permesso di sviluppare nuovi modelli didattici e di adottare nuove pratiche di insegnamento-apprendimento. Questi modelli, anche se teorizzati nella seconda metà del XX secolo, sono ancor oggi al centro del dibattito internazionale e continuano a essere adottati nella progettazione di soluzioni tecnologicamente avanzate. I modelli afferenti a queste teorie, come riportato nella sezione 2, sono il transmission model, learner centred model e il participatory model, per ognuno dei essi sono riconducibili specifiche tecnologie hardware e software (LOGO-MicroWorlds, V2: E-learning platform for primary schools, Vle Platform, Tabula Fabula ecc.). Al primo si riferiscono i sistemi informatici CAI (Computer Assisted Instruction) e CBT (Computer Based Training); al secondo, gli ICAI (Intelligent Computer Assisted Instruction), ITS (Intelligent Tutoring Sistem), MCL (Multimedia Computer Assisted Learning) e CACT (Computer Assisted Cognitive Training) che sono Programmi Intelligenti che sfruttano la capacità dei sistemi di formulare ipotesi e proporre percorsi; al terzo, gli
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ambienti CSCL (Computer Supported Collaborative Learning) e i cosiddetti strumenti del web 2.0, tra cui l’e-learning e il mobile-learning. È proprio a questi ultimi sistemi, basati sul partecipatory model, che viene attribuita la capacità di generare forme di apprendimento di tipo collaborativo che sono al tempo stesso in grado di ridurre il divario spazio-temporale (Siemens, 2012). Possiedono inoltre il potenziale di fornire un valore aggiunto rispetto all’apprendimento sviluppato in modo individuale, specialmente per i soggetti disabili, che proprio nelle pratiche individuali di apprendimento risultano spesso svantaggiati e quindi esclusi (Seale & Cooper, 2010; Vygotskij, 2010; Siemens, 2012). Tradizionalmente, infatti, sulla base della disabilità, all’interno dei contesti scolastici vengono impiegate tecnologie di tipo compensativo e dispensativo che risultano solo in parte efficaci poiché generano condizioni di disuguaglianza con il resto della classe (Benigno & Tavella, 2011). In questo senso, la formazione in rete è considerata un mezzo eccellente per l’adozione di pratiche collaborative, poiché facilita l’interazione tra studenti, docenti o tutor che dispongono di mezzi di comunicazione sincroni (chat, lavagne condivise, video conferenze) e asincroni (e-mail, forum) per imparare e crescere in una dimensione sociale. A titolo di esempio la rete e, nello specifico, l’e-learning offrono i seguenti vantaggi: • favorire l’interazione tra studenti e insegnanti; • permettere l’applicazione di differenti stili d’interazione (Multiple Intelligence Theory); • permettere di stabilire il ritmo d’apprendimento; • apprendimento anytime, anyplace;
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• riduzione dei costi; • materiale personalizzato sul proprio livello di conoscenze; • presenza di help on-line; • migliora la conoscenza degli elaboratori e di Internet, permettendo agli studenti di reperire autonomamente le informazioni attraverso il Web; • gli studenti sono responsabili della propria istruzione: ciò può far aumentare l’autostima e la maturità nell’affrontare un compito; • attraverso le risorse multimediali si possono fornire dei validi supporti all’apprendimento tradizionale. Si è valutato inoltre il contributo del mobile learning (estensione dell’e-learning), che sfrutta la portabilità dei dispositivi di terza generazione, come gli smartphone e i tablet, ormai largamente diffusi, per la definizione di nuove prospettive di apprendimento (tecnocentrica, e-learning-oriented, integrativa rispetto all’educazione formale e centrata sullo studente). In particolare, studi recenti stanno esplorando la nozione di apprendimento nell’era mobile per sviluppare una teoria fondata sull’Activity Theory di Engeström e sul Conversational Framework di Laurillard, settori di ricerca afferenti al campo della Human-computer-interaction. Dalle ricerche effettuate sono emerse considerevoli potenzialità applicative nell’impiego di strumenti mobile learning, soprattutto perché sono in grado di favorire condizioni di apprendimento collaborativo e poi perché, essendo portatili, costituiscono una risorsa per il supporto allo studio individuale e collaborativo anche al di fuori dei contesti formali. Inoltre, spesso il limite attribuito alle nuove tecnologie risiede proprio
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nella possibilità di possesso della tecnologia stessa, oggi più che mai superato con smartphone, tablet e connessione a banda larga. Un ulteriore fattore riguardante queste tipologie di tecnologie è che ben si mimetizzano, vista la loro larga diffusione, all’interno dei contesti come la scuola e l’università, quindi non generano quelle condizioni di disparità largamente riconosciute alle tecnologie assistive. Il contributo degli approcci UD e UDL per la progettazione di percorsi inclusivi Tenendo in considerazione le prospettive individuate nella Convenzione delle Nazioni Unite in merito ai soggetti svantaggiati e vista negli strumenti web 2.0 basati sul partecipative model, tra cui l’e-learning e il mobile-learning, una valida soluzione per lo sviluppo di ambienti di apprendimento inclusivi, sono ora riportate le valutazioni sul potenziale dell’approccio UD-UDL in ambito educativo, sottolineando come soprattutto quest’ultimo possa contribuire alla progettazione di percorsi formativi inclusivi. In breve, la filosofia dell’Universal Design3 si basa sull’idea di una progettazione di qualità con un target di fondo di utenza allargata, si riferisce quindi allo sforzo cosciente e consapevole di considerare la gamma più ampia possibile dei requisiti dell’utente finale durante l’intero ciclo di sviluppo di un prodotto o di un servizio (Preiser, 2001). L’approccio UDL4, unendo i principi di progettazione Il termine Universal Design, viene coniato nel 1985 dall’architetto Ronald L. Mace, fondatore del Center for Universal Design della North Carolina State University che lo definisce come: “la progettazione di prodotti e ambienti utilizzabili da tutti, nella maggior estensione possibile, senza necessità di adattamenti o ausili speciali”. 4 L’UDL nasce negli Stati Uniti intorno agli anni duemila all’interno de3
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inclusiva dell’UD e le ricerche afferenti alle neuroscienze sulle differenti modalità di apprendimento, formula i suoi principi, che sono così organizzati: • supportare modelli di riconoscimento dell’apprendimento (recognition learning), fornire metodi multipli e flessibili di presentazione dei contenuti; • supportare l’apprendimento strategico (strategic learning) con metodi flessibili di espressione e di tirocinio; • supportare l’apprendimento affettivo (affective learning); • fornire opzioni multiple e flessibili per stimolare l’impegno. In relazione alla presentazione dei contenuti, flexible curriculum indica come la progettazione universale inclusiva preveda l’accessibilità e la flessibilità dei percorsi. Consentirne una fruizione efficace dei contenuti, in linea con gli stili di apprendimento di ciascun discendente, significa servirsi di strumenti (Multiple Means of Presentation) in grado di supportare linguaggi e modalità comunicative
gli ambienti del Center for Applied Special Technology — CAST, un centro di ricerca e sviluppo che dal 1984 opera nel settore delle tecnologie assistive per l’apprendimento. Fin da subito l’attenzione dei ricercatori del CAST si è focalizzata sull’accessibilità dei libri di testo e dei supporti di lettura, intuendo in anticipo sui tempi che gli strumenti messi a disposizione dalle aziende informatiche (interfaccia grafica sistemi text-to-speech, gestione dei contenuti multimediali), sarebbero stati utili a rendere trasversale l’utilizzo dei materiali didattici. Da questa esperienza sul campo viene dimostrato che le tecnologie possono rispondere ai bisogni di tutti, allontanandosi dall’approccio speciale orientato agli alunni con disabilità (le difficoltà dei singoli verranno lette come barriere di accesso all’apprendimento). Ne consegue inoltre un cambio di rotta nelle sperimentazioni portate avanti dal CAST, in quanto viene dedicata maggiore attenzione agli interventi di contesto piuttosto che alle situazioni individuali. UDL Guidelines <fonte: (http: //www. udlcenter. org/aboutudl/ udlguidelines>.
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differenti (Simple and Intuitive Instruction). Questi principi hanno l’obiettivo di abbattere le barriere di accesso all’apprendimento attraverso l’impiego di strategie di insegnamento diversificate e flessibili. Non si tratta di offrire soluzioni educative speciali, ma di pratiche di insegnamento che impiegano modalità e supporti diversificati per rappresentare i contenuti, in modo da renderli accessibili e fruibili a tutti gli studenti. Le caratteristiche che le tecnologie possiedono (grazie alla codifica binaria), e che più si prestano all’applicazione dei principi dell’UDL, sono la variabilità, la transcodifica, la convergenza, la multimedialità e l’ipertestualità. Tali proprietà in breve possono essere sintetizzate come segue: • variabilità: le informazioni sui supporti digitali sono trattate in modo da non presentarsi mai come definitive, sono modificabili nel tempo. A livello didattico, consentono la personalizzazione delle modalità di presentazione e fruizione dei materiali; • transcodifica: possibilità di convertire un formato in un altro, (per es. tradurre l’analogico in digitale), ciò vuol dire avere poter gestire e trasmettere le informazioni attraverso codici diversificati; • convergenza: il digitale consente di trasferire su un unico supporto informazioni prima appartenenti a media diversi. Per noi far convergere più media significa avere a disposizione linguaggi differenti, integrati in modo da coinvolgere il maggior numero di destinatari; • multimedialità: sfruttando canali e media differenti può favorire gli apprendimenti (per esempio la Teoria di Mayer) e diversificare le modalità di trasmissione dei contenuti;
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• ipertestualità: oltre a offrire esperienze di lettura non sequenziale, permette di organizzare i contenuti per livelli di approfondimento e, quindi, di difficoltà. Le sperimentazioni nel campo UDL hanno lavorato molto su ambienti e strumenti per rendere, per esempio, accessibile a tutti la lettura dei libri di testo, sfruttando il web. In tal senso sono state proposte modalità alternative di accesso alle informazioni, come supporti video per la lettura, l’ascolto con screen reader, link che organizzano il contenuto per livelli di approfondimento e schemi/ mappe concettuali, annotazioni in formato testo e audio per la produzione di materiale didattico. Come dimostrato dalle neuroscienze cognitive, fra questi ambienti e strumenti assumono un ruolo strategico i media digitali. Essi possono essere alla base dei modelli di riconoscimento (recognition learning), dell’apprendimento strategico (strategic learning) e affettivo (affective learning) e possono quindi essere in grado di rispondere alle differenze di ogni soggetto interessato. In definitiva, l’UDL fornisce delle indicazioni che si articolano, sulla base di tre principi (representation, expression ed engagement), in Guidelines e Checkpoints operativi. Questi forniscono un’interessante prospettiva e una solida base che ci consente di poter affermare che è possibile passare dal concetto di ‘adattamento speciale’, incentrato sulla disabilità, al design universale, valorizzando le differenze dell’individuo e sfruttando il potenziale inclusivo delle tecnologie. Da menzionare inoltre che, nella filosofia UDL, le Tecnologie Assistive (AT) non vengono sostituite, ma sfruttate come strumenti per ridurre le barriere di apprendimento. Per esprimere le modalità di coesistenza tra UDL e AT
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Fig. 1. L’approccio piramide adell’UDL
è stata progettata una struttura piramidale alla base della quale si individuano interventi di UDL, che coinvolgono un maggior numero di soggetti, al centro prevede interventi di UDL con il supporto delle AT, quando necessario, mentre al livello più alto si collocano interventi che prevedono un uso esclusivo delle AT (Basham et. al, 2010). Affinità tra standard di accessibilità e linee guida WCAG 2. 0 e UDL In questa fase è stata indagata la possibilità di integrazione tra le linee guida WCAG che mirano a sviluppare ambienti e contenuti web accessibili in modo che le informazioni siano fruibili indipendentemente dalle tecnologie e dalle preferenze sensoriali e comunicative e quelle del UDL orientate principalmente all’abbattimento delle barriere di accesso all’apprendimento in prospettiva universale attraverso l’uso di strategie e tecnologie flessibili. Individuate nelle UDL una valida base operativa per la definizione delle strategie di pianificazione e strutturazione dell’apprendimento, è necessario a questo punto definire gli strumenti operativi e normativi che possono supportare la costruzione di un ambiente di apprendimento accessibile. Nella tabella 1 vengono riportate le affinità
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e le possibili sinergie tra l’approccio UDL, WCAG 2.0, le Quality Attributes of Usability (ISO 9241-11). Riassumendo, le WCAG e le UDL hanno in comune l’attenzione per la personalizzazione delle modalità di visualizzazione delle informazioni, la disponibilità di alternative ai contenuti sonori e visivi attraverso l’uso di media diversi (anche a supporto della comprensione), la leggibilità e la comprensibilità dei testi a livello di forma e contenuto e la compatibilità con le tecnologie assistive. Le linee guida WAI non sono esenti da critiche, soprattutto in merito alla loro applicabilità operativa. Le cause risiedono nella difficoltà di comprenderle e interpretarle univocamente, nell’eccessivo livello teorico rispetto alle situazioni reali e nel conflitto tra accessibilità e usabilità. Molti studiosi concordano sulla necessità di adottare un punto di vista più ampio e considerare le linee guida come un punto di partenza e non un punto di arrivo. Analisi casi studio piattaforme UDL In questa sezione sono stati riportati degli esempi significativi di piattaforme web (piattaforme UDL Editions, Learning Landscape e Udio: The Universal Literacy Network) che adottano i principi dell’UDL per la definizione dei presupposti progettuali e procedurali utili per lo sviluppo di soluzioni inclusive. La valutazione di tali piattaforme ha permesso di individuare le seguenti peculiarità: • organizzazione per gradi di sostegno alla lettura (maximum, moderate, minimal) selezionabili e modificabili in qualsiasi momento da parte dell’utente; • agenti pedagogici capaci di supportare i lettori nella comprensione del testo attraverso spiegazioni
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quality attributes of usability*
udl principles***
wcag 2.0****
Effective
Multiple means of presentation
Perceivable
Multiple means of presentation Efficiency
Flexible curriculum
Understandable
Satisfaction
Equitable curriculum
Robust
Appropriate level of student effort Learnability
Simple and intuitive instruction
Memorability
Simple and intuitive instruction
Errors
Success oriented curriculum Operable
Tab. 1. Comparazione tra standard di accessibilità, le linee guida UDL e le Quality Attributes of Usability. Fonti: * Usability.gov. Usability basics. Accessible on-line: <http://www. usability.gov/basics/index.html> ** ISO 9241-11: Ergonomic requirements for office work with visual display terminals (VDTs) — Part 11 Guidance on usability *** CAST — UDL Guidelines. Accessibile on-line: <http://www. udlcenter.org/aboutudl/udlguidelines> **** W3C provides “Web Content Accessibility Guideline 2.0”. Accessibile on-line: <http://www.w3.org/TR/WCAG>
contestualizzate, suggerimenti operativi e domande guidate; • presenza di tecnologia text-to-speech. È possibile attivare a richiesta la traduzione di parole dall’inglese allo spagnolo, di cui fornisce in formato audio anche la corretta pronuncia; consente approfondimenti di parole e frasi con ricerche dirette sul motore Google; • disponibilità di supporti alla lettura come riassunti, mappe e immagini; • feedback (riscontro sulle pratiche operative, per favorire l’autocorrezione e per incentivare il problem solving);
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• manipolazione dei contenuti (prevedere la possibilità di porsi domande, visualizzare e riepilogare i contenuti); • collegamenti esterni per l’approfondimento; • strumenti di supporto alla comprensione integrati (per esempio un glossario multimediale linkabile direttamente dal testo per i termini più difficili); • aggiunta di risorse multimediali per rendere più accessibili i contenuti; • soluzioni che favoriscano l’attivazione delle conoscenze pregresse; • strutturazione dei contenuti (attività diversificate: per esempio produzione scritta, produzione orale, espressione artistica, ricerca sul web); • favorire la collaborazione e il confronto con gli altri (questa condizione può essere aiutata predisponendo la piattaforma di una sezione che preveda lo scambio e la raccolta dei materiali elaborati, piuttosto che il dialogo attraverso la chat). Successivamente a questa fase sono state pianificate delle interviste di tipo semi-strutturato ad un ristretto gruppo di esperti per verificare la validità degli aspetti prima esposti all’interno di reali contesti di apprendimento. Il contributo degli esperti Sulla base delle interviste effettuate al CRED Ausilioteca, dove sono stati coinvolti esperti, pedagogisti e psicologi, è stato possibile raccogliere utili informazioni relativamente alle procedure riabilitative e di supporto adottate per il trattamento di soggetti con Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA). Le principali hanno riguardato i punti di seguito elencati:
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• modalità attraverso le quali le tecnologie favoriscono il supporto e l’acquisizione della conoscenza — Identificazione delle tipologie di strumenti/ausili per i DSA; • identificazione delle tipologie di strumenti/ausili per i DSA nella scuola; • identificazione delle tipologie di strumenti/ausili per i DSA nei contesti familiari; • vantaggi e svantaggi rispettivamente dei punti 2-3-4; • procedure, modelli per l’individuazione dello strumento di supporto; • raccolta delle testimonianze derivanti dalle pratiche professionali degli specialisti. Gli esperti affermano che le tecnologie per la loro flessibilità sono un valido supporto sia per le pratiche riabilitative di potenziamento sia per l’accrescimento dell’autostima. Gli strumenti o le misure prevalentemente impiegati sono di due tipologie: compensativi5 e dispensativi6. Per i bambini dislessici di età compresa tra i 4 e i 10 anni vengono adottati tutti quegli strumenti che in generale supportano la costruzione dei processi meta-cognitivi 5 Per strumenti compensativi si intendono l’insieme di strumenti il cui utilizzo sostituisce la difficoltà dell’alunno in una certa prestazione, per esempio la scrittura o la lettura. In ambito tecnologico, lo strumento compensativo più noto è la sintesi vocale, che trasforma un compito di lettura in un compito di ascolto. Altri strumenti compensativi sono le tabelle, i formulari e anche il tutor che svolge alcune funzioni per conto dell’alunno con DSA, come per esempio prendere appunti. Si tratta pertanto di strumenti diversi rispetto a quelli metodologici e didattici tradizionali. 6 Per strumenti dispensativi si intendono tutta una serie di misure che hanno l’obiettivo di dispensare l’alunno con DSA dallo svolgimento di alcune prestazioni davanti ai compagni di classe in modo da evitare esperienze umilianti. Questi misure interessano quindi essenzialmente gli aspetti emotivi e affettivi dell’alunno e mirano ad evitare di rendere la scuola come il luogo in cui l’alunno con DSA è costantemente sottoposto a prestazioni che ne mettono in luce le difficoltà.
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Fig. 2. Sintesi del processo dei requisiti di una piattaforma UDL.
che entrano in gioco durante la fase di lettura (comprensione del significato delle singole frasi e del testo, riconoscimento dei simboli grafici, riconoscimento delle sequenze di suoni che corrispondono alle parole). Il centro CRED Ausilioteca impiega a supporto di tali pratiche di apprendimento tecnologie di tipo software (preferibilmente programmi open source come Facilit Office 2.0, Omnia page, Attenzione e Concentrazione, Ivana) che integrano funzioni di aiuto per l’autocorrezione del testo e per la sintesi vocale. Questi strumenti, mediante un processo di metacognizione, inducono nel soggetto con DSA il riconoscimento dell’errore, ovvero semplicemente “il soggetto capisce perché sbaglia”. In presenza di disabilità grave, le strumentazioni hardware più utilizzate dal centro sono le tastiere speciali e i sensori tattili come il Makey Makey, un sistema di puntamento che consente di utilizzare il computer in modi non convenzionali e creativi, il Mouse Mover, dispositivo che consente di
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utilizzare joystick o sensori al posto del mouse al fine di gestire i movimenti e le funzioni del puntatore sullo schermo. Per soggetti di età maggiore, indicativamente dagli 11 anni in poi, vengono utilizzate strategie orientate prevalentemente a funzioni specifiche come, per esempio, le difficoltà nell’esposizione orale, nel metodo di studio e nella risoluzione logica dei problemi. A tal proposito, gli strumenti impiegati comprendono quelli che favoriscono processi di attività spontanea nel problem solving, mettendo in condizioni il soggetto di decidere autonomamente quali strategie impiegare. Così facendo, mediante la flessibilità e modificabilità dei contenuti su supporto digitale, il soggetto può sviluppare anche attraverso gli altri una capacità di analisi critica dei propri errori, risultato considerato positivo dal punto di vista pedagogico. In questo senso le tecnologie di riferimento adottate sono i software per la creazione di mappe concettuali che permettono di rielaborare i concetti rafforzando le nozioni chiave (per esempio Freemaind, Super mappe, ecc.), i riproduttori vocali e gli strumenti per l’organizzazione e la strutturazione dei contenuti (per esempio Evernote). Questi programmi essendo supportati dai personal devices (smartphone e tablet, ecc.) sono impiegati durante tutto l’arco della carriera scolastica dell’alunno e anche all’interno dei contesti quotidiani, familiari e non. In tale modo le pratiche di studio e apprendimento vengono significativamente stimolate e, allo stesso tempo, la scuola non viene più vissuta come il luogo in cui si è costantemente sottoposti a prestazioni che ne mettono in luce le difficoltà. La diffusione e l’utilizzo di device anche al di fuori dei contesti scolastici favorisce inoltre la collaborazione tra
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pari, lo sviluppo di competenze informatiche e soprattutto la socializzazione attraverso il canale dei social-network e dei blog. La rete, più in generale, permette anche il reperimento di contenuti audio, video (per esempio Youtube) e informativi (per esempio OVO) in formato multimediale all’interno dei quali è possibile lo scambio e la condivisione di informazioni, anche in remoto, tra tutor e allievo per la correzione del materiale didattico. In sintesi, dal punto di vista della funzionalità tecnica questi strumenti/ausili devono avere le seguenti carattestiche: • l’autocorrezione; • la possibilità di modificare e correggere gli elaborati; • il controllo e la percezione di ciò che si sta facendo (cognizione visiva, i dislessici prediligono il canale visivo); • la possibilità di organizzare il grado di impegno; • la compatibilità con i formati alternativi (multimediali); • la compatibilità (se possibile) con strumenti di supporto (ausili); • la gestione degli impegni e delle scadenze. Esempi significativi in questo senso sono rappresentati dagli audio libri e dai libri digitali, che anche se sono purtroppo ancora poco diffusi, favoriscono l’innesco di processi di apprendimento metacognitivi. Per esempio la presenza di testi strutturati in sezioni facilita il controllo e le pratiche di acquisizione dei contenuti. Infatti, i libri digitali spesso presentano all’inizio e/o in fondo al testo dei nodi strutturali interrogabili (domante di verifica, parole chiave, sintesi, ecc.) che agevolano la comprensione del testo e talvolta l’approfondimento dei contenuti. Per i soggetti con DSA, in particolare i dislessici, gli strumenti di supporto alla lettura, come parole chiave e domande di
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verifica o, ancor meglio, immagini e mappe concettuali sono risultati particolarmente efficaci perché permettono al soggetto di operare uno screening iniziale del testo, di orientarsi e di entrare in confidenza con i contenuti. Se tali supporti/ausili non sono di aiuto, attraverso la ricerca di parole chiave, è sempre possibile riprendere il controllo della situazione ed eventualmente avviare una ricerca alternativa su altri canali (Wiki, glossario, video on line, ecc.). Tali strumenti sono in linea con le soluzioni UDL sviluppate dal CAST, come UDL editor e UDIO, dove all’interno dello stesso ambiente di apprendimento sono presenti funzioni di supporto come il riproduttore vocale, collegamenti a link esterni per l’approfondimento dei contenuti, glossario e mappe concettuali. Emerge quindi dall’analisi effettuata la necessità di passare dal concetto di strumento a quello di un unico ambiente di apprendimento all’interno del quale si generano quelle condizioni di autocontrollo e autonomia necessarie in ogni fase del processo di apprendimento. Gli strumenti per interagire attivamente con i contenuti diventano in quest’ottica una soluzione, che oltre a favorire le categorie deboli, favorirebbero l’apprendimento di tutti indistintamente. Si osserva inoltre che alcuni strumenti hardware, come la tastiera del personal computer, sono utilizzati con più difficoltà rispetto ai dispositivi touch come smartphone e tablet; questa considerazione apre un’interessante questione su come le modalità di interazione uomo-macchina si stiano gradualmente modificando. In definitiva, le tecnologie favoriscono le relazioni e la condivisione della conoscenza ma anche degli errori, il valore aggiunto risiede proprio nel
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raggiungimento dell’autostima per il soggetto. Allo stesso tempo, anche le immagini risultano uno strumento di supporto fondamentale nei processi di apprendimento che al contrario, se non opportunamente organizzate e selezionate inducono affollamento cognitivo. Gli strumenti di tipo compensativo sono risultati scarsamente efficaci in situazioni in cui alla base non vi sia un uso consapevole. La criticità riscontrata è che durante la fase di training devono essere sfavorite le pratiche di automazione. Lo strumento è adeguato solo se assume la forma astratta di ponte comunicativo, costruito in modo consapevole. Come affermato in precedenza, i sistemi di autocorrezione software favoriscono la metacognizione (l’utente non ama essere corretto da un adulto o dall’insegnante) inducendo il soggetto a capire perché sbaglia e amplificando di conseguenza la consapevolezza di ciò che si sta facendo (apprendimento significativo). Tale processo pone l’individuo in una condizione di apprendimento favorevole ed è proprio in questa fase che l’uso consapevole e non automatico dello strumento permette di generare strategie all’insegna dell’autonomia. Il soggetto ha il controllo di quello che fa e sperimenta modalità di apprendimento fino all’individuazione della pratica prediletta. Per quanto riguarda gli aspetti relativi agli ambienti di apprendimento (contesto: scuola, ambito familiare e tempo libero) e le figure che orbitano attorno all’utente noto (insegnanti, tutor, famiglia), il primo dato emerso ha interessato lo scarso coinvolgimento e supporto dei genitori a livello scolastico sulle modalità e sulle strategie dirette ai loro figli. Si è riscontrata nella maggior parte dei casi una condizione di smarrimento e impotenza dettata dal fatto
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che non avendo indicazioni e supporto adeguati non sanno come supportare i loro figli. Di fatto si assiste a una scarsa attuazione di pratiche congiunte, tranne in alcuni casi isolati all’interno dei quali sono state intraprese iniziative istituzionali con le associazioni del settore7 (AID — Società Italiana Dislessia, Anastasis, ecc.). Le pratiche collaborative tra scuola, famiglia e specialisti vengono individuate come un elemento strategico e, in questo senso, la testimonianza del CRED Ausilioteca ha fornito un prezioso contributo in merito. In particolare si riporta un’esperienza significativa riguardante una classe delle scuole elementari dove erano presenti due alunni dislessici. In tale situazione erano stati introdotti sin dal primo anno scolastico strumenti digitali e cartacei per il supporto alla lettura a tutta la classe. L’aspetto positivo da evidenziare in questa pratica risiede nel non favorire quelle condizioni di imbarazzo che notoriamente investono chi utilizza strumenti di supporto perché identificato come diverso. Così facendo è stata inoltre riconosciuta a tali supporti la capacità di favorire tutti i soggetti indipendentemente dalla loro condizione cognitivo-funzionale. Di fatto, l’adozione di simili misure permette il potenziamento delle pratiche di supporto alla didattica dal punto di vista metodologico, ma allo stesso tempo prevede una stretta collaborazione tra scuola-famiglia-specialisti e lo sviluppo delle competenze tecniche che favoriscano l’utilizzo ad ampio spettro delle tecnologie adottate.
7 Per approfondimenti: MIUR, Nuove tecnologie e disabilità. Studio di fattibilità: <http://archivio.pubblica.istruzione.it>.
l’approccio universal design
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Conclusioni Sulla base del quadro di riferimento analizzato, l’uso delle tecnologie e lo sviluppo delle competenze digitali è alla base degli obiettivi generali delle strategie europee. Nei contesti formativi si ritiene che una dispensazione comune delle tecnologie didattiche possa produrre forme e ambienti di apprendimento inclusive (aule virtuali, e-learning e mobile-learning). La progettazione universale e, nello specifico, le soluzioni UDL potrebbero favorire il superamento delle pratiche tradizionali ovvero “ti metto a disposizione uno strumento per recuperare lo scarto”, per andare verso una pratica più inclusiva dove la diversità è recepita come una fonte di ricchezza. Gli strumenti del web 2.0 sono ambienti di apprendimento favorevoli per la sperimentazione della progettazione universale. L’approccio UD declinato in prospettiva UDL favorisce quanto appena riportato poiché, attraverso il ricorso puntuale e strategico alle risorse tecnologiche, interviene sui temi dell’accessibilità rendendo fruibili al maggior numero di studenti i contenuti didattici. Tale approccio alla progettazione, di tipo proattivo, risulta quindi particolarmente efficace per l’abbattimento delle barriere di apprendimento. Allo stesso tempo, le linee guida WCAG 2.0 e l’UDL hanno in comune l’attenzione per la personalizzazione delle modalità di visualizzazione delle informazioni, la disponibilità di alternative ai contenuti sonori e visivi, attraverso l’uso di media diversi (anche a supporto della comprensione), la leggibilità e la comprensibilità dei testi a livello di forma e contenuto e la compatibilità con le tecnologie assistive. Queste affinità potrebbero in un futuro prossimo favorire lo sviluppo di standard
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alessia brischetto
di progettazione più efficaci e inclusivi su larga scala. La collaborazione con gli esperti del CRED Ausilioteca ha rafforzato le considerazioni emerse dalla ricerca e, di conseguenza, è apparso che le ICT e, in generale, le tecnologie possono rappresentare la via preferenziale per il raggiungimento degli obiettivi di accessibilità e di flessibilità dei percorsi di apprendimento in quanto consentono di presentare i contenuti didattici in formati e media diversi, di proporre attività adeguate alle modalità preferenziali di espressione di ciascun alunno e, infine, perché giocano sulla motivazione ad apprendere adeguando i linguaggi ai vari stili e livelli cognitivi. Si tratta di fatto di passare dal concetto di strumento a quello di unico ambiente di apprendimento all’interno del quale si generano quelle condizioni di autocontrollo e autostima necessarie in ogni fase del processo di apprendimento. Il settore disciplinare del design e le conoscenze ad esso connesse risultano quindi poter contribuire allo sviluppo di soluzioni efficaci sotto i profili dell’usabilità, dell’efficacia e della soddisfazione. Inoltre, in un’ottica multidisciplinare, il design può svolgere il ruolo di connettore tra diversi settori aprendo così nuovi scenari di ricerca e sviluppo. Riferimenti bibliografici Annett J., Duncan K.D. 1967, Task analysis and training design, «Occupational Psychology» n. 41(July), pp. 211-221. Basham J.D. et al. 2010, A comprehensive approach to RTI: Embedding universal design for learning and technology, «Learning Disability Quarterly» n. 33(4), pp. 243-255. Benigno V., Tavella M. 2011, Inclusive learning plans using ict: the Aessedi project, «TD Tecnologie Didattiche» n. 19(1), pp. 12-18. Berleur J., Galand J.M. 2005, ICT policies of the European Union: From an information society to eEurope. Trends and visions, in Perspectives and policies on ICT in society, Springer, pp. 37-66. Boscolo P. 2006, Psicologia dell’apprendimento scolastico: Aspetti cognitivi e motivazionali, UTET, Torino.
l’approccio universal design
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lâ&#x20AC;&#x2122;innovazione intrinsecamente possiede una dimensione applicativa, che la sola invenzione non necessariamente apporta sul mercato.
J.A. Schumpeter, 1912
Marco Mancini ciclo XXVII
Tutor Vincenzo Legnante
fattori di innovazione per il design. individuazione dei grip factors
Abstract “Perché di innovazione parlano soprattutto gli economisti?” La necessità di trovare risposte non scontate a questa domanda ha generato un lavoro di ricerca che ha cercato di esplorare i possibili punti di vista del concetto innovazione connessi al mondo del design. La prima parte della ricerca, fondata su una conferma di tipo quantitativo in merito alle aree di competenza degli autori di testi su innovazione, prosegue con l’approfondimento di alcuni concetti primari quali creatività, sintesi, intuizione… e si conclude con una proposta di classificazione delle forme di innovazione pensata, in analogia con le prerogative del design, in maniera multidisciplinare. La seconda parte approfondisce lo scenario contemporaneo quale fattore stesso di generazione di attese in tema di innovazione, analizzando ad esempio il rapporto tra Psiche e Tekne, il tema della complessità della società, la maniera in cui l’uomo si approccia all’innovazione… Nella terza parte del lavoro viene proposta l’introduzione del parametro di resistenza di un prodotto all’interno della teoria dell’innovazione, individuando alcuni fattori di
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marco mancini
Grip (tecnologici, formali, valoriali, economici, produttivi, ambientali, sociali…) che permettono di soddisfare i requisiti richiesti dallo scenario contemporaneo. L’intento è proporre anche agli studenti di design un approccio all’innovazione modulato sulle prerogative della nostra disciplina, quindi soprattutto con una ‘modalità’ di tipo umanistico piuttosto che con la finalità di rincorrere performance di risultato. Perché di innovazione parlano (soprattutto) gli economisti? Questa domanda, originata da una riflessione iniziale poi confermata da dati numerici, ha guidato il lavoro di ricerca alla base della tesi di dottorato. I designer studiano e divulgano innovazione attingendo in prevalenza da testi, teorie, metodologie, interpretazioni, definizioni, strategie elaborate da economisti. La prima risposta, ovvia, è che una innovazione spesso genera valore e, quindi, denaro. Però è altrettanto ovvio che coloro i quali sono chiamati a fare innovazione, o perlomeno concretizzare idee in prodotti innovativi, sono sempre più spesso i designer. Mostre, documenti, report, articoli, pubblicazioni, convegni, lezioni, rivelano che Design&Innovazione sono diventati un binomio che proprio in quanto tale trova forza, e che viene di fatto considerato all’origine di processi portatori di una qualche forma di progresso, di tipo economico, ma anche politico e sociale. Capire perché il design non abbia ancora trovato una strada propria, autonoma e peculiare per definire l’innovazione è stata una delle spinte motivazionali alla stesura del lavoro.
fattori di innovazione per il design
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Nove parole significative La prima parte del lavoro è incentrata su un approfondimento etimologico di alcuni termini ricorrenti in ciascun processo che genera Innovazione: Creatività, Disegno, Design, Progetto, Sintesi, Invenzione, Intuizione, Novità. Tramite la ricerca di significati su vocabolari, dizionari ed enciclopedie viene stimolata una riflessione a tutto tondo su ciascun termine, con lo scopo sia di definirne ambiti e interpretazioni, sia di comprenderne le reciproche interazioni; infine il termine Innovazione, oltre che come da vocabolario, viene definito quale connessione tra i termini analizzati in precedenza. Tra Design e Innovazione Superando il significato originario di Disegno Industriale, andando oltre il progetto di forma, funzione, materiali e senso, arriviamo a conferire al design il valore profondissimo di idea. Al momento in cui si concretizza in un prodotto (o servizio, o processo, ecc.) e quindi diventa tangibile e fruibile per l’utente, l’idea rivela la propria potenza in quanto condivisa. La condivisione richiede però due transizioni: dall’accettare il nuovo al ritenerlo utile, cioè migliorativo di una condizione preesistente; si tratta della condizione sine-qua-non potrebbe essere prodotta innovazione e generato un pezzetto di futuro. Proprio il futuro è la caratteristica peculiare della nostra disciplina: il designer infatti ha sviluppato un approccio che abitualmente vive il futuro come unica possibile dimensione temporale, perché egli considera come reale ciò che esiste soltanto nel futuro, a differenza dello scienziato che opera in un tempo reale ‘fisico’, dell’artista che opera in un mondo
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reale ‘simbolico’, del matematico che opera in maniera astratta e indifferente al parametro temporale (Jones, 1992). Anche l’innovazione in ambito sociologico viene definita come un passo nel futuro a portata della mente collettivamente organizzata. (Cerroni, 2012)
Un ulteriore elemento per delineare il concetto di innovazione è il suo essere sempre migliorativa: attraverso l’introduzione di un elemento di novità si ottiene un miglioramento in un ordinamento politico o sociale, in un metodo di produzione, in una tecnica… L’innovazione intrinsecamente possiede una dimensione applicativa, che la sola invenzione non necessariamente apporta sul mercato. (Schumpeter, 1912)
Da qui possiamo capire perché gli economisti parlano di innovazione: l’innovazione si rivela fattore chiave in grado di stimolare la crescita, anche economica, attraverso la produzione e/o il rinnovamento di servizi, prodotti, processi… costituendo una spinta al consumo e quindi alla domanda di beni. Se esistessero metodi sicuri per fare innovazione probabilmente questo termine non susciterebbe così tanto interesse; la sua dimensione applicativa è infatti strettamente collegata al rischio che si corre tentando una strada nuova: molte delle parole spese dagli studiosi sono proprio finalizzate ad alleggerire, prevedere o controllare tale rischio. Da un punto di vista sociologico, questa dimensione di incertezza inevitabilmente porta con sé anche un certo grado di fascino e di attrazione verso l’elemento non ancora conosciuto, capace di migliorare un aspetto della nostra esistenza. Il miglioramento associato all’innovazione
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è lo scopo centrale del corposo documento UE Design for Growth and Prosperity (AAVV, 2012), nel quale si pone al centro della politica europea la crescita e la prosperità, ed il cui motore sarebbe proprio il design, in tutti i suoi aspetti, non ultimo per importanza quello metodologico. Proposta di classificazione dell’innovazione Il concetto di innovazione è un concetto posizionale: un’innovazione è tale per il contesto in cui si realizza e lo diventa quando entra a far parte stabilmente del sistema di azione in cui si inserisce. (Luciano, 2010)
È fondamentale fare riferimento a questa definizione ogni qualvolta si tenti di costruire un paradigma delle differenti forme di innovazione. Essa è in continua evoluzione e sempre da considerarsi in maniera relativa, tanto è vero che alcuni tipi di innovazione sono tra loro contrastanti, basti pensare all’innovazione competence enhancing opposta alla competence destroying. Anche all’interno della stessa azienda ogni nuovo prodotto migliora i precedenti, di poco o di molto, in maniera incrementale oppure radicale, dal punto di vista dello stile o dell’usabilità… Una innovazione può anche essere radicale per una determinata azienda e allo stesso tempo può non rappresentare affatto innovazione per un’azienda diversa. La relatività del termine innovazione sta dunque non tanto nel suo significato etimologico quanto in quello che gli viene attribuito. Con queste premesse è stata proposta una tassonomia delle varie forme di innovazione finalizzata a una trattazione sull’argomento contemporanea e aggiornata per i designer, il cui indice è schematizzato in fig. 1. Per la redazione di questa parte della ricerca sono stati utilizzati
1. approccio all'innovazione Strutturato Non strutturato
Jugaad
2. motivazione all'innovazione Accadimenti inattesi Incongruenze Cambiamento condizioni preesistenti
Di mercato | Demografiche
Nuove conoscenze
3. fonte dell'innovazione Singolo individuo Gruppo di ricerca
Autonomo | Aziendale | Universitario | Ibrido
4. spinta all'innovazione Autonoma
Supply Push | Disruption
Esterna
Demand pull | Pop
Sistemica
Lean | Open
5. natura dell'innovazione Input principali
Technology driven Market driven Forma | Modo d'uso | Tecnologia Opportunistica | Per analogia/Trasferimento | Prestazionale | Smart | Multi-dimensionale Design driven
Di prodotto Matrici ulteriori Output
Tipologica | D'uso | Di senso | Estetica
Di processo
Tecnologico | Amministrativo
Di mercato
Reverse Innovation
Organizzativa
6. intensitĂ /ampiezza dell'innovazione Incrementali Radicali
Rivoluzione tecnologica
7. ambito di destinazione Architetturali | Modulari
8. effetti principali Competence enhancing | Competence destroying
Fig. 1. Proposta di classificazione dellâ&#x20AC;&#x2122;innovazione.
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riferimenti di ambito economico (Schilling, 2009) e progettuale (Rampino, 2012) con estensioni anche ad altri ambiti, tra cui quello sociologico; inoltre è stata inserita una parte originale sulle matrici del progetto (innovazione di prodotto) direttamente derivata da esperienze didattiche e ricerche. Sono state individuate alcune macro-categorie riguardanti l’innovazione: il tipo di approccio, strutturato e non, la motivazione (il perché fare innovazione), le fonti (chi produce innovazione), le spinte a innovare (interne, esterne, sistemiche), la natura dell’innovazione (di processo, di prodotto, di mercato, organizzativa) con un corposo focus sull’innovazione di prodotto, più vicina al mondo del design, ulteriormente suddivisa in fattori in input, matrici progettuali e fattori in output; segue un approfondimento sugli aspetti duali dell’innovazione: in base all’intensità (incrementale/radicale), all’ambito di destinazione (architetturale/modulare), agli effetti sulle competenze aziendali (enhancing/destroying). È interessante notare come il fervore intorno a questo argomento generi nuove definizioni teoriche: dalla Open Innovation (Chesbrough, 2003) si passa ai concetti di Disruption (McQuivey, 2013), Jugaad Innovation (Radjou et al., 2014), Reverse Innovation (Govindarajan et al., 2013), fino a esplorare le suggestive ipotesi di connessione tra scienza e immaginario collettivo proposte da Innovazione Pop (Magaudda, 2013). Per completezza di informazione sono stati anche riportati cenni relativi a studi e teorie legate alla misurazione (impegno, performance, diffusione e cicli tecnologici) e alla valutazione dell’innovazione (European Scoreboard, Porter, SWAT, …).
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Alcuni dati In quali settori disciplinari è maggiormente diffuso e utilizzato il termine innovazione? Quali tipi di professionalità sono maggiormente coinvolti sull’argomento? La ricerca si è svolta in tre fasi. Nella prima sono state ricercate le pubblicazioni contenenti nel titolo la parola ‘Innovazione’ (librerie on-line); questo ha prodotto tra l’altro il grafico riportato in fig. 2, in cui vengono evidenziati i settori disciplinari maggiormente coinvolti: in questa fase chi parla di innovazione si rivolge a un pubblico eterogeneo ma interessato, capace di spendere del denaro per acquistare un testo in materia. Il dato saliente, preziosa conferma all’ipotesi generatrice del lavoro di tesi, è che la maggior parte delle pubblicazioni appartengono all’ambito disciplinare dell’economia, con prevalenza, al proprio interno, degli argomenti di Marketing e Management: d’altronde No advanced economy can maintain high wages and living standards, and hold its own in global markets, by producing standard products using standard methods. (Porter at al., 1999)
Il secondo settore maggiormente coinvolto è quello sociologico (didattica, sociologia, scienze dell’educazione), mentre il nostro settore disciplinare, Architettura e Design, si trova al terzo posto per numero di pubblicazioni, e questo solo se nel dato numerico viene incluso anche l’importante contributo degli altri ambiti tecnologici, compresi i vari rami dell’ingegneria. La seconda fase è stata una ricerca fra le tesi di dottorato: in questo caso chi parla di innovazione si rivolge a un pubblico specialistico; la parola innovazione viene associata a tematiche specifiche, non è mai argomento generico, ma
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Fig. 2. Pubblicazioni con keyword ‘Innovazione’ all’interno del titolo, reperibili in librerie on-line, suddivisi per ambito disciplinare.
accompagna sempre un campo di ricerca, valorizzandolo e misurandone le potenzialità. La terza fase è stata una ricerca di portali web dedicati al tema dell’innovazione; il portale è un medium facilmente accessibile a tutti, sia specialisti che curiosi, e spesso è concepito per catturare l’attenzione in pochi istanti con parole a effetto per poi consentire, in un secondo momento, di approfondire alcune tematiche: all’interno di questi portali si fa largo uso di termini in inglese (Start-Up, Joint Venture, Open Government, Digital Divide, Techno Park, ecc.), ricorrendo a una strategia comunicativa per cui prima di tutto è il termine ‘nuovo’ che ci incuriosisce, mentre il vero contributo all’innovazione, se esiste, viene eventualmente esposto in un secondo momento. Si evince una tendenza a confondere i termini innovazione e novità: spesso tra le innovazioni vengono riportate scoperte scientifiche ancora tutte da verificare oppure prodotti ancora allo stato di concept.
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Analisi di scenario Le molte implicazioni del tema ‘innovazione’, trasversale a più discipline, possono essere approfondite in maniera più completa se contestualmente viene analizzato lo scenario sociale contemporaneo soprattutto laddove si incontrano diversi punti di vista sul tema. Complessità Il concetto di complessità della società contemporanea può essere meglio compreso se suddiviso in ulteriori fattori caratteristici (Radjou et al., 2014): la scarsità che coinvolge le risorse naturali, le disponibilità economiche pubbliche (governi) e quelle private (cittadini); la diversità, ossia la coesistenza di generazioni diverse in ambito lavorativo e sociale in ruoli attivi di lavoratori e consumatori complice il prolungamento della vita media e l’aumento dell’età pensionabile: questo accelera e rende palese il confronto generazionale; l’interconnessione: le nuove strade comunicative consentono, ad esempio, di connettere istantaneamente tra loro sia i dipendenti che i clienti di un’azienda, cambiando anche la tipologia e la capacità di relazione tra individui; la velocità di cambiamento per cui nuovi prodotti e nuove aspettative (anche sociali) nascono ancor prima che quelli esistenti siano invecchiati; la globalizzazione: la connessione di individui, saperi, mercati, prodotti (Rullani, 2008) che si verifica da secoli ma che oggi grazie anche alla velocità dei trasporti e delle comunicazioni è davvero ‘tangibile’.
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Come affrontare l’innovazione È interessante comprendere la modalità con la quale l’individuo affronta una innovazione. Petrarca (Familiarum rerum) sostenne che temiamo le cose nuove e disprezziamo le comuni […]: quanto alle prime, la mente, impreparata, si turba al loro improvviso apparire; quanto alle seconde, essa, con frequenti meditazioni, si è fabbricata come uno scudo, che cerca di opporre a tutte le difficoltà.
Freud (1924) specifica che in determinate circostanze, di natura non più primaria, si può riscontrare anche il comportamento opposto, ossia una veemente attrazione per tutto ciò che è nuovo, motivata precisamente dal fatto che è così;
per comprendere l’innovazione dobbiamo inquadrarla letteralmente come […] manifestazione della nostra capacità di produrre futuro, […] questione, a un tempo, di individui, società, cultura. L’innovazione richiede un rinnovamento nel pensarla […] essa è un passo nel futuro a portata della mente collettivamente organizzata
ed, in altri termini (Jedlowski), essa è anche una sfida al senso comune e all’atteggiamento quotidiano. (Cerroni, 2012)
Il mito di Ulisse ci ricorda che questo concetto era già chiaro ai Greci molti secoli fa. Siamo veramente liberi di scegliere se innovare? La società e la tecnologia tendono ‘naturalmente’ all’innovazione, dovuta al continuo rigenerarsi di stereotipi e di senso comune (la prima) e al progredire dello stato
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della scienza e della tecnica (la seconda), in un costante miglioramento che non può aver fine. Non sono quindi soltanto scelte politiche, strategie economiche, scoperte scientifiche, mode o trend sociali, crisi attuali o aspettative future: è la nostra stessa natura (di esseri imperfetti con tecnologie imperfette) che ci spinge all’evoluzione e all’innovazione, in una continua forma di tensione verso la compiutezza. Tecnologia e Società: una questione aperta La tecnica non tende a uno scopo, non svela verità, la tecnica funziona (Galimberti, 2000)
e, a proposito del rapporto millenario tra Psiche e Tekne, la questione di come interagiscono tecnologia e società è cruciale in una trattazione sull’innovazione. Al di là di teorie ‘di parte’ quali il determinismo tecnologico, per cui la chiave del progresso della società sarebbe la tecnologia stessa (Innis, 2001) e, all’opposto, il determinismo sociale (Breton, 1995), per cui sarebbero soltanto i bisogni umani a determinare l’emergere di nuove tecnologie, probabilmente è più realistico parlare di ‘co-produzione’, ovvero un approccio integrato tra tecnologia e società, in cui tecnologie e sistemi di valori evolvono insieme, in continuo scambio tra loro (Jasanoff et al., 2013). Un’innovazione tecnologica riesce a dispiegare il suo potenziale di trasformazione solo se il contesto socioculturale è in grado di accoglierla. (Campanelli)
La ricerca prosegue con alcuni argomenti che entrano in gioco parlando di innovazione: il crowdsourcing, ossia acquisizione di idee e suggerimenti direttamente dalla folla,
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grazie alle nuove tecnologie e social network; il concetto di obsolescenza programmata che, superata la tattica del decadimento prestazionale e funzionale, si manifesta attualmente con un decadimento del significato che viene attribuito ai prodotti, in virtù della loro rapida sostituzione; il tema delle esternalità, cioè effetti non richiesti o preventivati nei confronti di un soggetto che possono manifestarsi sia con benefici (Randon, 2002) che con danni; la questione dei brevetti con una riflessione sull’opportunità di definire l’indice di innovazione in base al numero delle domande di brevetto presentate. La proposta Una riflessione sulla ricerca svolta ha evidenziato che gran parte dell’attenzione rivolta all’innovazione è incentrata sulla definizione dei suoi effetti e parallelamente sulla previsione volta al futuro di un prodotto, processo… In questo si può leggere un atteggiamento proprio dell’approccio scientifico su cui si basa, come abbiamo visto precedentemente, la gran parte della letteratura di settore. Se invece proviamo a ragionare sull’innovazione dal punto di vista del designer, è possibile sfruttare una prerogativa propria della nostra disciplina, cioè quella dell’approccio di tipo fenomenologico, il quale: mette in luce sì la capacità di produrre conoscenza, ma attraverso modi propri che non riproducono necessariamente quelli scientifici in senso positivista. La ricerca di design assume quindi un’ottica fenomenologica, ovvero di osservazione della realtà del progetto per trarne regole generali e principi. (Bertola et al., 2006)
La proposta è quella di pensare l’innovazione osservando
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attentamente quali sono state le caratteristiche che hanno permesso ad alcuni prodotti di sopravvivere alle sfide che sono state loro lanciate dal mercato, da mutamenti generazionali e valoriali, da nuove tecnologie, da differenti necessità ma che rispondono anche, inevitabilmente, alle esigenze richieste dalla contemporaneità. Ho chiamato Grip Factors, cioè fattori ‘di aderenza’, i requisiti che influenzano la resistenza di un oggetto e che gli permettono di continuare a essere venduto sostanzialmente invariato; ho proposto una loro definizione, analizzando poi sperimentalmente una serie di oggetti per testare l’efficacia della proposta. Archetipo tipologico e modello dominante Nel corso di molteplici letture critiche e revisioni di progetti degli studenti, emerge che esistono oggetti più difficili di altri da innovare: il progettista/innovatore in alcuni casi è spiazzato e l’unica forma di innovazione possibile consiste in migliorie di tipo incrementale. Vi sono infatti oggetti, prodotti, artefatti che esistono da generazioni, stratificati e consolidati talmente tanto nei loro significati, nelle loro funzioni, nel loro senso, nelle aspettative, che generano, nei materiali di cui sono composti, nei processi produttivi, persino talvolta nei prezzi, da essere paragonabili, in una sorta di metafora, a scogli in mezzo al mare del mercato e dell’innovazione, che quest’ultimo leviga a poco a poco, plasmandoli nel corso di decenni o millenni. Questi ‘solidi’ da studiare per evidenziarne i Grip Factors sono prevalentemente archetipi. Un archetipo trova ragione di esistere se correlato alla
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precisa risposta a una domanda oppure se è il risultato di una certa inerzia derivata dalla diffusione di un disegno dominante; in ambito filosofico sono due i suoi aspetti di forza: la ritualizzazione (gesti che si ripetono nell’utilizzo) e la conseguente ri-attualizzazione del gesto e del mito, rendendolo così in qualche modo contemporaneo (Eliade, 1949). Le radici di una forma archetipica sono dunque profonde all’interno di una cultura e di conseguenza molto difficili da innovare, perché presuppongono un’accettazione prima di un cambiamento anche di tipo culturale. I Grip Factors L’aderenza che possiedono archetipi e oggetti dominanti a una serie di valori tecnologici, formali, ambientali, ergonomici, funzionali, materici… può essere utilizzata come parametro di valutazione della possibilità di successo di una innovazione. Per avviare una serie di riflessioni su un oggetto sostanzialmente ‘immutato’ nel corso dei secoli viene utilizzato l’esempio del violino. Come mai ad oggi questo prodotto è praticamente identico a quello fabbricato nel XVII secolo e, tuttavia, perfettamente funzionale? Nel rispondere emergono molte caratteristiche chiave tra cui la compiutezza di forma e funzione, la bellezza, il valore comunicativo, l’univocità del significato e del senso, la valenza multiculturale, la diffusione globale del prodotto, l’ottimizzazione nell’uso dei materiali, le caratteristiche ergonomiche, l’assenza di dubbi etici relativi all’oggetto… La ricerca è proseguita con l’analisi di altri oggetti archetipici divenuti parte integrante delle nostre abitudini.
Fig. 3. La piramide dei bisogni di Maslow (1954)
Verso una definizione I Grip Factors individuati, sinteticamente riportati di seguito, sono suddivisi nelle aree Interpretazione, Valori formali, Tecnologia, Ergonomia, Plus, Sostenibilità, Scenario. I | Interpretazione Chiarezza di significato | Il Grip aumenta se il significato (senso, contenuto, messaggio, valore, affordance) dell’oggetto è chiaro e non può generare dubbi. Esempio: il martello. Laddove questa condizione di ‘univocità’ non è risolta, è possibile evidenziare margini di innovazione: un oggetto come la molletta da bucato non ha una funzione univoca e il suo ‘pinzare’ può essere utilizzato per il bucato, ma anche per fogli di carta o altri usi… Specificità della risposta | Il Grip aumenta se, a una domanda specifica, l’oggetto fornisce una risposta specifica. Per esempio: il trolley che permette di trasportare valigie più facilmente ma solo in piano. L’aver individuato una domanda precisa dell’utente è già una parziale risposta a un problema.
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Soddisfacimento (Natura dei bisogni) | Il Grip cresce al soddisfacimento ottimale dei bisogni che sono più vicini alla base della piramide di Maslow (fig. 3). Tutti gli oggetti soddisfano una necessità oppure un bisogno: l’ipotesi è quella di un aumento della forza di un prodotto man mano che i bisogni da esso soddisfatti si avvicinano alla sfera dei primari: su certe sfere intime e personali alcune tipologie di innovazione hanno scarsa probabilità di successo anche perché più si entra nella sfera privata, più l’aspetto simbolico tende a ridursi. (Rampino, 2012)
Al contrario, gli oggetti che soddisfano bisogni più lontani dalla base della piramide, che hanno la capacità di conferirci uno status sociale, vengono esibiti e mostrati (gioielli, auto, vestiti) e spesso cambiati e aggiornati. Compiutezza | Il Grip aumenta all’aumentare della ‘compiutezza’, cioè della risoluzione equilibrata del rapporto tra forma e funzione: ciò che è vero è anche bello, indipendentemente dal gusto, dalla preziosità dell’oggetto, dalla raffinatezza formale (Michelucci, 1997)
Il violino ne è un esempio. Un oggetto che risulta compiuto genera anche comprensione da parte dell’utente e così riesce a essere percepito come ottimale. Bellezza | Il Grip aumenta se aumenta l’oggettiva bellezza del prodotto: a parità di significato, funzione, soddisfacimento, materiali, un prodotto con un maggior grado di appeal ha più chance di successo nelle vendite, indipendentemente dal settore merceologico.
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III | Tecnologia Producibilità industriale | Il Grip aumenta quando è possibile industrializzare la produzione dell’oggetto, poiché questo è già un indice dell’interesse verso di esso: qualcuno ha avuto il desiderio, la motivazione, la forza, le competenze e la determinazione necessaria a produrlo su scala industriale, e se continua a produrlo significa che quel prodotto è capace di generare valore. Ottimizzazione dei materiali | Il Grip aumenta se i materiali vengono utilizzati in maniera ottimale, al limite delle loro possibilità: maggiore è lo sfruttamento delle potenzialità del materiale, minore sarà lo spreco dello stesso materiale, con implicazioni che riguardano aspetti economici, di sostenibilità e anche di ‘verità’ dell’oggetto. Per esempio la canoa, in cui centrale è il tema della leggerezza. Complementarietà dei materiali | Il Grip aumenta quando i materiali vengono utilizzati in maniera collaborativa e complementare: se i materiali utilizzati sono molteplici (e già ottimizzati), essi si integrano tra loro e in alcuni casi forniscono prestazioni che non sarebbero consentite con l’utilizzo di un materiale solo. Un banale vasetto da yogurt è un esempio di uso ottimizzato di materiali complementari, così come un arco per frecce, una botte, una sdraio: senza l’utilizzo in simbiosi di materiali diversi tali prodotti non potrebbero esistere. Assestamento della tecnologia | Il Grip aumenta se le tecnologie utilizzate per la produzione sono consolidate: il ciclo di vita di una tecnologia, una volta cessato il
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fermento iniziale, si assesta su un modello di ‘disegno dominante’: in questa fase è possibile trovare risposte già ottimizzate, per esempio nella scelta dei materiali. Gli oggetti legati a tecnologie ‘nuove’, come gli smartphones, stanno subendo un’innovazione continua anche perché la tecnologia da cui derivano non si è assestata in un disegno dominante, ma si sta evolvendo insieme all’oggetto stesso. IV | Ergonomia Manovrabilità | Il Grip aumenta se aumenta la facilità di manovra o impugnatura del prodotto: se ciò riguarda banalmente prodotti legati allo sport quali racchette da tennis, sci, pinne da sub… diventa fattore, anche inaspettato, di innovazione in altri. Leggerezza, correttezza di impugnatura, facilità di manovra possono per esempio migliorare il modo in cui si effettua il trasporto e il montaggio di mobilio, oppure lo spostamento di merci all’interno di un magazzino di stoccaggio. Sicurezza | Il Grip aumenta se il prodotto non provoca traumi o problemi di tipo posturale: l’uso del mouse è stato rilanciato anche grazie a modelli che hanno risolto i problemi di dolore ai polsi e contratture; l’idea di uno sportello laterale per accedere alla vasca da bagno ha permesso la generazione di un nuovo prodotto, più sicuro per persone con difficoltà motorie. V | Plus Cambio nei comportamenti | Il Grip aumenta se l’esigenza di utilizzare il prodotto genera nuovi comportamenti: il telecomando ha fatto nascere nuovi filoni di
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prodotto e cambiato il modo di utilizzo di cancelli, garage, televisori, mobili per televisori; il mattone ha cambiato, millenni fa, il modo di costruire in edilizia; il sistema ABS ha imposto un nuovo modo di operare la frenata sul pedale dell’auto. Gradiente di necessità (Non necessario vs. Non ritorno) | Come conseguenza del punto precedente, il Grip aumenta se il prodotto segna un punto di non ritorno rispetto a una condizione pristina: potremmo immaginare un ritorno al televisore a pulsanti? Oppure a una racchetta da tennis in legno massello? Oppure a un mondo senza telefono? All’opposto vi sono anche oggetti che inevitabilmente sono destinati a scomparire. Progetto della seconda vita | Il Grip aumenta se la seconda vita dell’oggetto è pensata, o addirittura progettata, rispondendo alla domanda: “come e dove riporre l’oggetto quando non è in uso?” L’aver pensato come ripiegare un asse da stiro delinea un punto di forza per quella categoria di prodotti. In alcuni casi la possibilità di ridurre l’ingombro costituisce motivo per comprare alcuni oggetti: se così non fosse i tapis roulant o le cyclette pieghevoli difficilmente sarebbero potuti entrare in ambito domestico. VI | Sostenibilità Prevedibilità delle conseguenze | Il Grip aumenta se sono assenti le esternalità negative (al momento prevedibili) legate alla diffusione di un prodotto: un oggetto consolidato nell’uso, nella forma, nei materiali ha molto probabilmente manifestato già le proprie esternalità e, se
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ancora è prodotto dopo molto tempo, ciò significa che nel bilancio totale i ‘pro’ hanno prevalso sui ‘contro’. Viceversa un prodotto che rischi di generare esternalità (materiali ancora non testati in maniera esaustiva, valutazioni incomplete sul ciclo di vita, possibile implicazione negativa sul piano sociale, ecc.) offrirà una scarsa aderenza e, non appena possibile, si tenderà a risolvere il problema cambiando materiale, o tecnologia, o distribuzione… Valore etico | Il Grip aumenta se non emergono dubbi di natura ‘etica’: sfruttamento di manodopera sottopagata o minorile, esaurimento di risorse naturali, effetti dannosi a lungo termine per le generazioni future… un oggetto che non generi dubbi di tipo etico ha più chance di essere accettato favorevolmente dalla società. Sostenibilità | Il Grip aumenta se il prodotto è sostenibile: la sostenibilità dovrebbe essere considerata una prerogativa ormai inscindibile dall’oggetto, un parametro da rispettare, e infatti gli oggetti con alti valori di Grip sono quasi sempre sostenibili, nei materiali, nel loro ciclo di vita, nella possibilità di riciclaggio… Probabilmente la stessa durata nel tempo di certi oggetti archetipici è una forma di sostenibilità. VII | Scenario Valenza comunicativa | Il Grip aumenta se l’oggetto favorisce la comunicazione tra individui; in generale le tecnologie ICT stanno subendo un grande impulso anche perchè facilitano la possibilità di comunicare, condividere, seguendo la tendenza innata dell’uomo che, a partire
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dai piccioni viaggiatori, è arrivata fino agli attuali social network in cui condividere è spesso una forma di comunicazione fine a se stessa, indipendentemente dal contenuto del post. Recentemente Coca-Cola ha proposto una nuova etichetta con nomi propri sulle bottiglie: lo scopo è creare un pretesto per ‘connettere’ gli utenti, amici o familiari, generare un’atmosfera di scherzo e di convivio da associare positivamente al brand. Condivisione multiculturale | Il Grip aumenta se l’oggetto non possiede caratterizzazioni culturali specifiche: un fuoco d’artificio è tale da secoli e ha lo stesso significato in qualsiasi parte del mondo, poiché accettato e condiviso da tutti. Allo stesso modo altri prodotti largamente utilizzati non hanno caratterizzazioni culturali specifiche: una spilla da balia, una cannuccia, un imbuto. Facilità di reperimento | Il Grip aumenta se il prodotto può essere acquistato facilmente presso punti di vendita reali, ma anche via web, e risponde in parte al requisito della velocità richiesto dallo scenario globale. Utilità multi-generazionale | Il Grip aumenta se vengono coinvolte fasce generazionali diverse e risponde al requisito della diversità di un ambiente complesso. Lo slogan “per grandi e per piccini” conferma la propria validità anche in un contesto sociale come quello attuale, in cui proprio la facilità di condivisione esalta anche i punti di ‘contatto’ e di interesse trans-generazionali: i baby boomers (un 60enne) e i nativi digitali (un 15enne), anche con una effettiva differenza di età di quasi 50 anni, sono
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concordi nell’attribuire grande valore relazionale al cibo e al relativo indotto, al sesso, ai social network; essi trovano lo stesso tipo di risposta fruitiva in oggetti come il carrello della spesa, il bicchiere… e li utilizzano allo stesso modo in qualsiasi parte del mondo. Auto-innovazione | Verifica di norme di prodotto: molto spesso l’esistenza di norme UNI, EN, che definiscono ambiti di applicazione del prodotto, ingombri, materiali, caratteristiche specifiche… di fatto limita la possibilità di intervento per il progettista, ma non appena si verifica un cambiamento normativo la categoria interessata subisce una auto-innovazione repentina. Per questo l’esistenza o la variazione di norme specifiche è un parametro che condiziona molti aspetti del progetto. Grip Factor Evaluation Una volta individuati i principali Grip Factors per l’innovazione, il passo successivo è stato quello di proporre uno strumento per la valutazione dei medesimi, rivolto prevalentemente all’ambito Product: la Grip Factors Evaluation è un Tool finalizzato a migliorare la fase di valutazione di un prodotto, sulla base dei fattori di aderenza precedentemente esposti: attraverso uno schema grafico è possibile attribuire un punteggio a ciascun grip factor, e un report analitico fornisce ulteriori annotazioni o indicazioni. Si tratta di una valutazione discrezionale, che tiene conto del giudizio e dell’esperienza del compilatore: in tal senso questo strumento non fornisce una metodologia oggettiva, perché questo non è probabilmente possibile, ma tenta di rendere sistematico e più strutturato il
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Fig. 4. Grip Factor Evaluation applicata ad una sedia a sdraio
momento della valutazione del prodotto, ottimizzando la raccolta ed il confronto dei dati. Questo tool può anche essere utilizzato come una sorta di reminder che aiuta a ricordare gli aspetti più importanti per lo sviluppo di un prodotto. Nel corso della ricerca di tesi è stato anche utilizzato il metodo Delphi per avere un parere composto da una somma di giudizi ‘esperti’ ed aumentare l’oggettività delle risposte.
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factors factors totale modalità assegnazione rating factors per valore gradiente di per punteggio assoluto innovazione* punteggio
punti 5 punti 4 punti 3 punti 2 punti 1
13 4 7 -
Totale assoluto
65 16 21 -
Prevalenza di 5= A Prevalenza di 4= B Prevalenza di 3= C Prevalenza di 2= D Prevalenza di 1= E
102
Rating A
120= A+ da 110 a 120= A da 96 a 109= B da 72 a 95= C da 48 a 71= D da 24 a 47= E B -7/+13
* Rappresenta il gradiente di innovazione che può generare il prodotto. Si considera ottimale un valore di almeno 4 in ciascun Grip Factor, ed eccellente il valore di 5. Il valore espresso è indicato con 2 cifre: la prima rappresenta la somma dei punti mancanti per raggiungere il valore 4 su ciascun GF, la seconda indica il numero di GF con punteggio 5. Giudizio sintetico La Grip Factors Evaluation (GFE) evidenzia come la pervasività di questo prodotto sia dovuta essenzialmente alla efficace soluzione di utilizzo di materiali che ne consente una facile realizzazione e una conseguente diffusione a larga scala, complice un utilizzo possibile a livello multi-generazionale. Margini di intervento innovativo potrebbero nascondersi su valori formali, su manovrabilità e sicurezza specie nella movimentazione che potrebbero ampliarne anche significati di necessità, estendendone cioè i campi di utilizzo ad altri settori, diversi dalla spiaggia e dallo svago, come ad esempio quello domestico.
Obiettivi Questo strumento può essere impiegato in molteplici ambiti. Nella didattica la Grip Factors Evaluation (GFE) può rivelarsi una utile risorsa dove andare a individuare canali preferenziali nei quali concentrare maggiormente le proposte di innovazione: ad esempio uno studente di Design che si trovi assegnato il compito di ri-progettare un rubinetto può applicare lo strumento GFE e valutare i punti di maggiore debolezza dei prodotti benchmark esistenti per poi conseguentemente proporre interventi mirati.
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In campo aziendale può essere utilizzato a fini comparativi: un’azienda può applicare la GFE a un prodotto esistente e a un concept di prodotto per valutarne i margini di miglioramento; in un’altra ipotesi la GFE potrebbe servire come ausilio in fase di benchmarking, preliminarmente al progetto per individuare punti di debolezza o di forza nei prodotti dei competitor. In generale si può rivelare utile strumento sintetico di valutazione e verifica intermedia prima di intraprendere strategie di marketing o analisi di mercato. Casi studio Nel corso della ricerca sono stati esaminati alcuni casi studio, applicando la scheda di valutazione dei Grip Factors di cui si riporta un esempio in Fig. 4, riferito a una sedia sdraio generica. Considerazioni finali Fin dall’inizio della sua stesura, la ricerca si è posta l’obiettivo di esplorare ed analizzare le possibili connessioni dell’innovazione con il design: le fonti etimologiche, la classificazione, la natura sociale e tecnologica, le implicazioni, fino a proporre uno strumento per la valutazione dei fattori di innovazione; durante questo percorso ho cercato quanto più possibile di utilizzare il punto di vista del design. La politica, l’economia, la società assegnano ruoli determinanti alla nostra disciplina perché hanno capito il ruolo di sintesi e di anticipazione del futuro che, in uno scenario così complesso, essa può fornire. Credo che questa grande attenzione alla corsa per inseguire risultati e performance debba sempre mantenere una certa
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aderenza ai contenuti “d’onestà progettuale” (Mari): il designer, quando da filosofo/creatore passa a riproduttore di gusti e tendenze, può anche correre il rischio di perdere la propria identità. La proposta dei Grip Factors può contribuire a ricordarci che spesso oggetti resistenti, nei secoli e nelle generazioni, sono stati realizzati senza l’intervento di un designer: se quindi il variegato scenario contemporaneo si affida a un designer non è semplicemente per ‘fare’ un prodotto, ma è per farlo ‘meglio’.
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ritenendo lâ&#x20AC;&#x2122;insediamento nei piccoli comuni una garanzia e risorsa di presidio del territorio soprattutto riguardo le attivitĂ di piccola e diffusa manutenzione e di tutela dei beni comuni e del territorio e quindi come tale di interesse nazionale.
Camera dei Deputati, Bollettino delle Giunte
Francesco Parrilla ciclo XXVII
Tutor Vincenzo Legnante
design dello spazio pubblico nei centri storici minori
Abstract Lo studio in oggetto è individuato mediante un approccio deduttivo e multidisciplinare che partendo da un’analisi a carattere generale sui centri storici restringe gradualmente il campo d’indagine sui centri storici ‘minori’ e tra questi quelli di ‘eccellenza’ per approdare al nodo centrale della ricerca: il design dello spazio pubblico nel comparto storico in tre casi studio, Morano Calabro, Santo Stefano di Sessanio, Colletta di Castelbianco. Il design dei complementi d’arredo è affrontato con metodologie alternative, più consone alla complessità geometrica e all’essenza dei luoghi e più distanti dal progetto a ‘catalogo’ che sembra caratterizzare la scelta corrente. La trattazione pone l’attenzione sulla complessità del tema e sulle implicazioni che questo intesse con le discipline e le problematiche correlate, avvalendosi del contributo specifico, del territorialismo, della sociologia, della biofilia, della biourbanistica, dei codici antichi e della ‘paesologia’. In coerenza con il metodo deduttivo seguito, affronta gli aspetti legislativi a carattere nazionale e regionale, rilevandone positività e carenze. I concetti di sviluppo locale, autosostenibilità produttiva,
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filiera corta, abilità e manualità artigiane, sono solo alcuni dei temi trattati. Rispetto al profilo della sostenibilità e dell’innovazione tecnologica, l’argomento viene indagato attraverso la conoscenza della Blu Economy del Design Sistemico, delle Smart City, dell’open source, dell’Information and Communication Technologies, della realtà aumentata. La scelta di studiare il tema del design dello spazio pubblico nei centri storici minori nasce dalla rilevante seppur frammentata diffusione del fenomeno e dalla parallela esiguità di studi sistematici condotti sull’argomento. Pur esistendo analisi monografiche sui centri storici minori, manca, per ciò che riguarda il design dello spazio pubblico, un’indagine a più ampio respiro che esamini le molteplici forme in cui si presenta il fenomeno e che metta in luce le valutazioni complesse, necessarie a una più attenta e sistematica valutazione teorico-pratica. L’ambito su cui insiste la ricerca è caratterizzato da un orizzonte territoriale di area vasta e pone una riflessione al livello locale sui significati del costruito, promuovendo ragioni e modalità di indagine sullo spazio pubblico, sulla cultura locale, sulle orografie, sui luoghi, sulle stratificazioni urbane nelle emergenze architettoniche ma anche nei singoli edifici, spesso realizzati con tecniche semplici e povertà di materiali. Lo studio si fonda su un approccio deduttivo che partendo da un’analisi a carattere generale sui centri storici restringe gradualmente il campo di indagine sui centri storici minori e tra questi quelli di eccellenza per approdare al nodo centrale della ricerca: il design dello spazio pubblico nel comparto storico.
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Fig. 1. Centro storico di Matera — Patrimonio dell’UNESCO.
La prima parte denominata ‘Definizioni’ tratta brevemente l’evoluzione del concetto di centro storico nella letteratura specialistica, nel dettato legislativo e da quanto esplicitato sul tema in Carte, Documenti e Convenzioni di rilevanza nazionale e internazionale. Nel definire i centri storici minori e in particolare quelli di eccellenza, per evitare i rischi insiti in una rigida schematicità, non si è scelta una definizione unica, ma si è proceduto evidenziando le caratteristiche che con maggiore obiettività contribuiscono a definirne i campi di identificazione. È emerso che l’individuazione di un centro minore può avvenire attraverso coordinate qualitative — secondo le quali il termine minore è riferito ad ambiti economici, socio-culturali e funzionali — o quantitative, riferite a precisi caratteri dimensionali. Le seconde, prescelte nel caso applicativo e di più immediata lettura, pongono un problema di scelta di soglia numerica, che, può essere molto variabile.
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Fig. 2. Centro storico di Siracusa — Patrimonio dell’UNESCO.
Individuare una definizione univoca di centro storico è un esercizio linguistico difficile, poiché essa dovrebbe contenere la sintesi, anche parziale, di tutti gli aspetti vari e complessi di natura storica, tipologica, geologica, geografica. Tali aspetti inoltre, mutando di volta in volta in relazione al contesto quantitativo e qualitativo del singolo aggregato storico, moltiplicano il grado di complessità, determinando di fatto l’impossibilità di formulare una sintesi oggettiva esportabile in contesti analoghi (figg. 1-2). L’impossibilità di enunciare una definizione sta quindi nel fatto che non si può identificare e comporre una categoria concettuale unitaria […] in cui far rientrare i vari tipi di agglomerati urbani di antica edificazione e/o di elementi interni di essi, dei quali il nostro paese presenta una fenomenologia particolarmente ricca. (D’Alessio, 1983, p. 6)
Le definizioni, quando possibili, sono varie e molteplici, lo scopo della trattazione quindi non è tanto quello di
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individuare i principi costituenti, un’unitaria seppur imperfetta sintesi definitoria, quanto piuttosto analizzarne alcune delle tipologie possibili, per porre l’attenzione sulla complessità del tema e sulle implicazioni che questo intesse con le discipline e le problematiche correlate all’indagine e imprescindibili per una corretta e completa trattazione sull’argomento1. La seconda parte in coerenza con il metodo deduttivo, seguito nel processo definitorio, affronta gli aspetti legislativi a carattere nazionale e regionale, rilevandone positività e carenze. Particolare risalto si è dato alla proposta di legge nazionale sui piccoli comuni che, qualora fosse approvata, rappresenterebbe l’unico riferimento normativo al riguardo (figg. 3-4). Il testo unificato, suddiviso in 23 articoli, affronta la complessa problematica delle aree marginali e dei centri minori, individuando puntualmente i vari aspetti a essa collegati, secondo risposte concrete sia sul piano attuativo che finanziario. La proposta, se, come auspicabile, diverrà legge, rappresenta un notevole passo avanti nella legislazione sui centri minori. Nel medesimo testo, all’Articolo 1 ‘finalità’ si enuncia quanto segue: La legge ha lo scopo di promuovere e di sostenere lo sviluppo economico, sociale, ambientale e culturale dei piccoli comuni, di garantire l’equilibrio demografico del Paese, favorendo la residenza in tali comuni e contrastandone lo spopolamento, nonché di tutelarne e di valorizzarne 1 Chi si è occupato della questione ha preferito l’individuazione di diverse tipologie ad una definizione unitaria.
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Fig. 3. Centri storici minori: Todi.
il patrimonio naturale, rurale, storico-culturale e architettonico. La presente legge favorisce altresì l’adozione di misure in favore dei cittadini residenti nei piccoli comuni e delle attività produttive ivi insediate, con particolare riferimento al sistema dei servizi territoriali, in modo da incentivare e favorire anche l’afflusso turistico, ritenendo l’insediamento nei piccoli comuni una garanzia e risorsa di presidio del territorio soprattutto riguardo le attività di piccola e diffusa manutenzione e di tutela dei beni comuni e del territorio e quindi come tale di interesse nazionale. (Camera dei Deputati, XVII Legislatura, Bollettino delle Giunte)
Particolarmente interessante ai fini dello studio in oggetto, gli Artt. 20 (Recupero e riqualificazione dei centri storici) e 21 (Fondo nazionale per il recupero, la tutela e la valorizzazione dei centri storici). Nell’Articolo 1 al comma 3 si fa esplicito riferimento al miglioramento e l’adeguamento […] dei servizi […] quali l’illuminazione, l’arredo urbano, la pulizia delle strade, i parcheggi, l’apertura e la gestione di siti di rilevanza storica, artistica e culturale.
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Nel secondo si indicano le coperture finanziarie e le ripartizioni nonché le procedure di erogazione e controllo. Agli Articoli 8 e 13 si prevedono incentivi per la diffusione delle attività artigianali, produttive e ricettive, con la possibilità di sviluppo di forme di accoglienza come l’albergo diffuso. L’Articolo 23 è finalizzato alla valorizzazione e al recupero della rete degli itinerari storici di collegamento tra i borghi con l’obiettivo di promuovere forme di mobilità e di turismo a basso impatto ambientale, quali, per esempio, il trekking e il cicloturismo. Molte le misure previste: la promozione della cablatura e della banda larga, l’incentivazione della residenza, garantire la presenza e la qualità di servizi indispensabili come sanità, trasporti, istruzione, servizi postali, risparmio, il recupero dei centri storici e la tutela del patrimonio ambientale. I comuni potranno poi promuovere i prodotti tipici locali e indicare anche nella cartellonistica stradale le produzioni tipiche, si prevede di facilitare le procedure di cessione di beni immobiliari demaniali a favore di attività e organizzazioni del mondo del non profit. E grazie all’istituzione di un Registro Nazionale dei serbatoi di carbonio agroforestali, (i piccoli comuni) potranno certificare la gestione sostenibile delle foreste, dei suoli agricoli e delle attività di rivegetazione, anche in vista del raggiungimento degli obiettivi del Protocollo di Kyoto. La legge, insomma, nasce con l’intento esplicito di difendere l’identità delle nostre comunità, ovviamente razionalizzando e mettendo in comune i servizi, ad esempio con l’uso dello strumento delle unioni dei comuni2.
La complessità del tema ha richiesto approfondimenti al contorno in campo sociologico, antropologico, paesaggistico, urbanistico, economico e legislativo, condotti nella 2 Cfr. La Stampa Tuttogreen, Piccoli comuni, Realacci riprova con la legge di sostegno, http: //www. lastampa. it.
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Fig. 4. Centri storici minori: Furore.
consapevolezza che l’intervento del design nel contesto specifico richiede l’apporto di figure tecniche con competenze multidisciplinari. Il terzo capitolo, operando una selezione tra queste discipline che, a vario titolo e con pari rilevanza, sono di ausilio all’argomento, approfondisce la trattazione avvalendosi del contributo specifico del territorialismo e della sociologia. In questa sezione, in particolare, vengono in soccorso a una più approfondita lettura scientifica due discipline, afferenti alle scienze umane e all’assetto del territorio, che da angolature diverse, ma complementari, affrontano la questione con gli strumenti propri della storia e dell’antropologia3. 3 Cfr Carle L. 2013, Dinamiche identitarie. Antropologia storica e territorio, Firenze University press, Firenze. Così Lucia Carle a p. 35, scrive a proposito: “L’antropologia storica è oggi una pratica disciplinare diffusa, applicata alla ricerca scientifica e attiva come insegnamento in molti paesi, compresa l’Italia. […] Nel 1997, all’EHESS (Ecole des Hautes Etu-
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La multidisciplinarietà cioè la collaborazione di diverse discipline intorno ad uno stesso soggetto o con una stessa metodologia per rispondere ad un interrogativo o ad una tematica comuni
è un metodo di lavoro che consiste nell’affrontare un problema con diversi contributi disciplinari, che restano tuttavia ben distinti in quanto tali. (Carle, 1997)
L’approccio multidisciplinare consente, infatti, di affrontare la trattazione da più prospettive, di svelare le interrelazioni, di decodificare e sistematizzare le componenti della complessità spostando il fuoco dell’interpretazione su un piano più ampio e variegato della conoscenza. Proseguendo con lo stesso criterio dell’apporto multidisciplinare, la trattazione si avvale del contributo breve di altre discipline come la biofilia, la biourbanistica, i codici antichi e la paesologia. Lo scopo in questo caso non è diretto solo all’approfondimento scientifico (che esula per la quantità e la complessità dell’argomento dalla trattazione in oggetto), quanto, piuttosto, all’indicazione metodologica di alcune teorie basate sul modo di interpretare la città come habitat umano, sulle dinamiche interpretative del costruito storico, sulle forme biofiliche dello spazio, sulla filosofia open source e ICT. des en Sciences Sociales), l’antropologia storica costituiva un raggruppamento disciplinare a se stante comprendente diciannove insegnamenti”; l’autrice proseguendo a p. 36 individua le due principali metodologie scientifiche della disciplina, pluridisciplinarietà e lunga durata: “pluridisciplinarietà e lunga durata non sono principi teorici ma acquisizioni dense di conseguenze concrete nel concepire il territorio e nell’operare su di esso”.
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La biourbanistica4 concepisce la città come un sistema ipercomplesso e multilivello agente secondo processi non lineari, ne analizza le dinamiche interne e quelle del territorio circostante, nonché le relazioni tra esse. L’approccio olistico accomuna la disciplina alle scienze della vita e, più in generale, a quelle che si occupano di sistemi integrati, come l’ecologia, la biologia (morfogenesi)5, le scienze cognitive, la sociologia, da qui il prefisso bio, nel senso di studio della città come habitat della specie umana. Uno degli elementi fondanti della biourbanistica è il pear to pear urbanism (P2PU), che teorizza forme di progettazione partecipate mediante filosofie open source e ICT (Information and Communication Technology)6. Molte La definizione della disciplina biourbanistica è stata redatta nel 2010 dal gruppo di lavoro della neonata Società Internazionale di Biourbanistica, formato da Antonio Caperna (architetto, Università di Roma Tre), Alessia Cerqua (architetto, Ministero Ambiente), Alessandro Giuliani (biostatistico, primo ricercatore Istituto Superiore di Sanità), Nikos A. Salìngaros (matematico, University of Texas at San Antonio), Stefano Serafini (filosofo e psicologo, ISB). 5 Cfr D’Arcy Thompson, On Gtrowth and Form (trad. it. Crescita e forma, Boringhieri, Torino). In biologia, la morfogenesi è legata alla materia animata che interagisce con processi sia casuali, sia intenzionali, come lo sviluppo di una cellula o l’evoluzione di un organismo. 6 Così Antonio Caperna in Rassegna di Biourbanistica (2011) scrive: “Il P2PUrbanism (P2PU) si innesta come uno degli elementi fondanti della biourbanistica, rappresentando un cambio innovativo e radicale del modo in cui si concepisce, si progetta e si rinnova la città fondato essenzialmente sui principi base appresso elencati (riadattato da Caperna, Mehaffy, Mehta, Mena-Quintero, Rizzo, Salìngaros, Serafini, Strano, 2011): 1. gli esseri umani hanno il diritto di scegliersi l’ambiente in cui vivere. Le scelte individuate dagli abitanti selezionano naturalmente quelle che meglio hanno affinità con le esigenze della comunità e di ogni essere umano; 2. l’urbanistica Peer-to-Peer deve generare e diffondere conoscenza, teorie, principi, tecniche e pratiche costruttive per generare ambienti urbani che rispettino le reali esigenze dell’uomo. Ciò dovrà avvenire in coerenza con i principi della filosofia open source, ovvero in maniera libera ed accessibile a tutti in modo tale da favorirne l’utilizzo e la revisione critica attraverso azioni di feedback; 3. diritto di accesso alle in4
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delle teorie qui enunciate sono inerenti allo studio dello spazio pubblico nei centri storici minori, essendo esso il frutto della realizzazione fisica degli stessi principi ai quali la biourbanistica si ispira7. Nella visione integrata della città storica, il singolo edificio, il quartiere, l’intero comparto, il territorio che lo contiene rappresentano un nodo animato da interazioni morfogenetiche; così Besim S. Hakim, urbanista, architetto, storico urbano, nella conferenza internazionale tenutasi nell’Università del Bahrain, scrive: formazioni ambientali e trasparenza del processo decisionale. Ciò sarà attivamente supportato dalla Information and Communication Technology (ICT); 4. gli abitanti sono portatori di conoscenze, capacità e pratiche che si sono stratificate nel corso dei secoli. Pertanto essi devono essere soggetto attivo tanto nelle fasi preliminari che in quelle attuative dei processi decisionali. Ogni intervento, pubblico o privato, che tende a trasformare il territorio richiede il consenso e la partecipazione degli abitanti; 5. il processo progettuale deve avere un carattere maieutico che deve coniugarsi con le secolari conoscenze degli abitanti. Tale atteggiamento permette una crescita civile e culturale della società, una maggiore consapevolezza degli abitanti e una migliore interazione tra questi ed i tecnici; 6. in alcuni casi, dovrebbe essere riconosciuto agli abitanti il diritto all’autocostruzione per ridisegnare o modificare porzioni di territorio, di quartiere o l’abitazione in cui essi vivono”. 7 Serafini S., Liberazione partecipata dello spazio dall’iperreale. L’Italia come esperimento biourbanistico, XIV Conferenza SIU: Abitare l’Italia. Territori, economie, diseguaglianze Torino 24-26 marzo 2011; Serafini nel suo intervento alla conferenza SIU, fa esplicito riferimento alla civiltà dei comuni italiani: “Fu in Italia che nell’XI sec. il feudalesimo venne sconfitto dal fenomeno politico della civiltà comunale. Durante una grande transizione economica e culturale, uomini in fuga […] delle campagne feudali, costruirono le condizioni di una vita civile elevando mura di difesa, case del popolo, calli del pensiero, piazze della discussione, torri della libertà. Il carattere fiero, la straordinaria armonia, l’intenzionalità vivente dell’urbanistica medioevale nascono dal basso, come corpo vivo di una Città celeste. Case e vicoli in pietra non si svilupparono secondo un’estetica astratta, né un piano regolatore generale, imposto agli uomini e al territorio, ma organicamente dall’esigenza concreta (da qui la sua ecologia geomorfica), nella polifonia comunitaria, con un processo morfogenetico che definiamo biourbanistico: l’urbanistica vivente della politica e dello spazio reali, che aiuta la vita a dispiegarsi per come essa è”.
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le città dovrebbero essere inserite all’interno dei vincoli e delle opportunità fornite loro dalla geografia, dall’ecologia, dalla storia, dalla società e dell’ambiente costruito. In questo modo le città evolvono ecologicamente, attingendo per la loro crescita alla saggezza del patrimonio locale o di altre località nel mondo con cui condividere attinenze culturali, economiche, ecologiche, climatiche e tecnologiche8.
L’indagine dello spazio urbano non si ferma agli aspetti geometrico-dimensionali del costruito, ma riconosce le forme ottimali attraverso l’apporto conoscitivo multidisciplinare. Nei tessuti storici dei centri minori è ancora ben visibile il sistema delle forme ottimali intese come sintesi virtuose, di composizione dello spazio pubblico e relazionale. Questo equilibrio intrinseco percepito in modo armonico non è il risultato di una realizzazione vernacolare o occasionale, ma il frutto di antichi codici transnazionali, chiaramente strutturati. L’altra disciplina che permette di ampliare la visuale interpretativa è la biofilia: l’innata tendenza degli esseri umani a farsi attrarre dalle Heritage, Globalization and the Built Environment An International Conference Sponsored by Ministry of Municipality and Agricultural Affairs, Bahrain Society of Engineers, and the University of Bahrain Kingdom of Bahrain, 6-8 December 2004 Keynote presentation summary Professor Besim S. Hakim, Town Planner, Architect, Urban Historian Ecocities Embedded Locally: Learning from Tradition and Innovating Now. Testo in inglese: “which emphasizes that cities should be embedded within the constraints and opportunities provided by their geography, ecology, history, and the heritage of its society and built environment. By doing so any city evolves to be ecologically embedded in its locality, and during the processes of its growth and change it can draw upon the wisdom of its local heritage and of other localities in the world that were and continue to share similar cultural and local conditions related to ecology, economics, climate and technology”.
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diverse forme di vita e in alcuni casi ad affiliarvisi emotivamente9. Gli esseri umani sono predisposti biologicamente a cercare il contatto con le forme naturali10.
Secondo Edward Wilson (1984) non si può vivere una vita sana e completa lontano dalla natura. Perciò, abbiamo bisogno del contatto diretto con le forme di vita e con la complessa geometria delle forme naturali. (De Matteis, Serafini, 2010)
Per meglio inquadrare l’indagine, si è resa necessaria l’analisi a scala nazionale del contesto territoriale e demografico dei centri minori con popolazione inferiore a 9 Cfr Barbiero G. 2014, Biofilia e Gaia: due ipotesi per una Ecologia Affettiva, ISB International society of biourbanism. Tratto dall’articolo di Giuseppe Barbato sul sito ISB “Secondo Edward O. Wilson, la biofilia la nostra innata tendenza a concentrare la nostra attenzione sulle forme di vita e su tutto ciò che le ricorda e, in alcune circostanze, ad affiliarvisi emotivamente (Wilson, 2002, p. 134). L’umanità, nel corso della sua evoluzione, avrebbe sviluppato un complesso di regole di apprendimento filogeneticamente adattative che tuttora informano i nostri rapporti con l’ambiente naturale (Wilson, 1993). Se l’ipotesi è corretta, l’istinto biofilico troverebbe espressione nell’attenzione, cioè la capacità di lasciarsi affascinare dagli stimoli naturali, e nell’empatia, cioè la capacità di affiliarsi emotivamente alle diverse forme di vita o, come più precisamente suggerisce Silvia Bonino, di partecipare in maniera differenziata alla loro condizione. Attenzione ed empatia costituirebbero quindi i due costrutti centrali della biofilia e contemporaneamente le due facoltà mentali che caratterizzano l’istinto umano di amore e cura per la Natura, facoltà che andrebbero quindi adeguatamente coltivate”. 10 “Il sentimento di affiliazione che ci lega alla Natura, il sentirsi figli della Madre Terra, di Gaia, è un istinto e come tale è presente in tutte le culture umane, comprese quelle più tecnologicamente avanzate, dove si sta sviluppando una consapevolezza scientifica sempre più profonda della natura vivente del pianeta (Gaia Hypothesis). Tuttavia, nelle nostre società artificiali ormai molto lontane dal mondo naturale, c’è il rischio concreto che l’istinto biofilico non riceva più stimoli adeguati per fiorire nell’intelligenza naturalistica, definita come l’abilità di entrare in connessione profonda con il mondo vivente e di apprezzare l’effetto che questa relazione ha su di noi e sull’ambiente stesso (Multiple Intelligences Theory)”, in ibid.
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5.000 abitanti. Lo scopo principale del tema, affrontato nella quarta parte, è dimostrare quanto siano rilevanti le potenzialità di questi territori che coprono il 54, 1% del territorio nazionale e rappresentano il 70% dei comuni italiani. I dati tracciati mostrano un universo di Piccoli Comuni, in continua evoluzione, in cui gli italiani si ritrovano, si riconoscono e a cui fanno riferimento per rafforzare il senso di appartenenza. Il proprio Piccolo Comune rappresenta da un lato il luogo privilegiato in cui il cittadino svolge la propria attività quotidiana, fatta di lavoro, cultura, famiglia, divertimento e socialità, dall’altro, anche il soggetto istituzionale cui ci si rivolge per avere una risposta ai propri bisogni, difficoltà, voglia di partecipazione. In essi prevale il sentimento di appartenenza a un insieme di valori e a una storia collettiva. Così come più forte è il desiderio di una visione comune del proprio futuro. È quella che si usa chiamare l’identità locale. L’arte, l’agricoltura e la cucina sono parte essenziale di queste identità. I dati analizzati ci parlano di una qualità della vita in questi piccoli centri molto elevata, capace di innescare circoli virtuosi, di rendere attrattivo il territorio, di creare i presupposti per limitare l’esodo della popolazione verso contesti urbani di maggiore dimensione, di permettere al Paese di crescere sulla base delle sue risorse così intrinsecamente uniche e preziose, ovvero le sue comunità locali. L’indagine si è estesa alle strategie di valorizzazione e di sviluppo culturale, turistico, commerciale, e di rigenerazione sociale messe in atto da amministrazioni, enti, associazioni, marchi di qualità, sia in Italia che all’estero. In questa sezione si è accennato brevemente ad alcune strategie di valorizzazione dei centri storici minori già in atto in
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singole realtà locali e in via di realizzazione in altre: Social Housing, City Mall, Albergo Diffuso e Marchi di Qualità. Un efficacie strumento — ampiamente sperimentato in Europa — di rigenerazione sociale e riqualificazione dei tessuti storici è considerato il cosiddetto social housing11, una forma di edilizia destinata a chi non può acquistare la prima casa o non riesce a sostenere il costo di un affitto a libero mercato ma, nello stesso tempo, non possiede tutti i requisiti necessari per accedere alle graduatorie per l’assegnazione dell’edilizia residenziale pubblica (ERP). Si tratta di nuclei familiari a basso reddito, anziani in condizioni socio-economiche svantaggiate, lavoratori in mobilità, giovani coppie, studenti fuori sede. Il social housing12 si colloca a metà tra l’edilizia popolare 11 L’alloggio sociale è definito dal DM 22 aprile 2008 come “l’unità immobiliare adibita ad uso residenziale in locazione permanente che svolge la funzione di interesse generale, nella salvaguardia della coesione sociale, di ridurre il disagio abitativo di individui e nuclei familiari svantaggiati, che non sono in grado di accedere alla locazione di alloggi nel libero mercato” (art. 1 comma 2). Nella definizione rientrano anche gli alloggi realizzati o recuperati da operatori pubblici o privati con il ricorso a contributi e agevolazioni pubbliche destinate alla locazione temporanea (almeno otto anni) ed alla proprietà (art. 1 comma 3). L’edilizia sociale a canone moderato (housing sociale), realizzata con il concorso di promotori privati, con contributi pubblici parziali e/o in natura (premialità urbanistiche e/o aree gratuite), sviluppata attraverso interventi integrati sia sul piano dell’utenza (mix sociale) che sul piano delle destinazioni. Lo strumento finanziario principale utilizzato, oltre al normale accesso al credito, sono i fondi immobiliari con partecipazione dello Stato attraverso la Cassa DDPP. Obiettivo di questo nuovo tipo di intervento è l’aumento dello stock in affitto per rispondere alla domanda del ceto medio che non riesce più ad accedere al mercato, sia a causa della crisi generale che a causa dell’eccessiva contrazione dell’offerta. 12 Il Comitato Europeo per la promozione al diritto alla casa definisce il social housing come: l’insieme delle attività atte a fornire alloggi adeguati, attraverso regole certe di assegnazione, a famiglie che hanno difficoltà nel trovare un alloggio alle condizioni di mercato perché incapaci di ottenere credito o perché colpite da problematiche particolari.
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e le proprietà private vendute o affittate a prezzo di mercato. L’obbiettivo principale è fornire alloggi con ottimi livelli di qualità, a canone calmierato, che non superi il 2530% dello stipendio; questo genere di edilizia sociale è caratterizzata da interventi realizzati con lo scopo di generare il senso della comunità e facilitare l’integrazione. Il programma applicato ai centri storici minori può dare risposte adeguate ad alcune delle problematiche ad essi associate. L’insediamento delle categorie sopra enunciate rappresenta una prima, seppur parziale, soluzione al fenomeno dello spopolamento (diffuso in gran parte dei centri storici minori) ed è capace di promuovere nuove forme di rigenerazione sociale, specialmente se affiancato a sistemi recettivo-turistici quali l’albergo diffuso o i centri commerciali naturali. Per contribuire con iniziative concrete alla riqualificazione e alla rivitalizzazione dei centri storici, sono sorti e stanno sorgendo inoltre vari Centri Commerciali Naturali, moderne forme di aggregazione e cooperazione di tutti gli operatori economici del centro urbano (commercio, pubblici esercizi, artigianato, turismo, servizi, attività professionali) finalizzate a realizzare politiche comuni di marketing e comunicazione. (Paparelli, Del Duca, 2012)
Il paese che per primo in Europa ha implementato questo tipo di ‘aggregazioni’ è la Gran Bretagna13; i Cfr. Zanderighi L. 2004, Commercio urbano e nuovi strumenti di governance — linee guida per lo sviluppo del Town Centre Management in Italia, INDICOD-ECR «Il Sole 24 ore», Milano, pp. 39-40. “A partire dagli anni Sessanta numerose sono state le iniziative di gestione coordinata del centro storico[…], in modo particolare negli Stati Uniti e in Canada. Differenti sono, […], le modalità attraverso le quali nei diversi paesi — Stati Uniti, Germania, Gran Bretagna, Svezia, Norvegia, Sudafrica, Austra-
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Fig. 5. Social housing nei centri storici minori.
criteri che stanno alla base del Town Centre Management inglese sono: salvaguardare i centri storici nella loro complessità di luoghi commerciali, di svago, turistici, di servizio alla popolazione, di aggregazione sociale; coinvolgere tutti gli attori presenti in un progetto guidato da un’autorità esterna che abbia funzioni di coordinamento, organizzazione e decisione. In Italia i centri commerciali naturali sono sorti in varie città14, in molti casi sono sostenuti da incentivi pubblici; nel contesto dei centri storici minori l’iniziativa più interessante si è realizzata in Umbria15. lia, Portogallo, Spagna, Austria, Francia, Nuova Zelanda solo per citare i principali — si sono sviluppate nei decenni scorsi percorsi innovativi per la gestione coordinata del commercio urbano[…], per lo più accomunati dagli stessi obiettivi di fondo […] e di denominazioni diverse: basti pensare, ad esempio, al Business Improvement District (Bid) negli Stati Uniti, alla Business Improvement Area (Bia) in Canada, al City Improvement District (Cid) in Sudafrica, al Town centre Management (Tcm) in Gran Bretagna, alla Town Management Organization (Tmo) in Giappone alla Cellule de gestion des centre-villes in Belgio”. 14 Firenze, Napoli, Roma, Bologna etc. 15 Cfr. <http://www.umbrialeft.it/node/1858> “Rivitalizzare i centri sto-
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Fig. 6. City mall e albergo Diffuso.
Al social housing e al Town Centre Management si affianca una terza strategia di rivitalizzazione dei centri storici minori: l’albergo diffuso16, ossia un sistema rici e i piccoli borghi pensandoli ed organizzandoli come centri commerciali naturali, con servizi per i cittadini, precisi target, parchi giochi per bambini, spettacoli teatrali: è quanto propone un progetto ideato dalla Confcommercio della provincia di Perugia, già in parte avviato. Si tratta […], di due progetti — City Mall e Urban. com[…]L’iniziativa ha come destinatarie circa 200 imprese localizzate nei centri storici di Gubbio, Perugia, Nocera Umbra, Todi, Spoleto, Gualdo Tadino, Torgiano, Deruta ed Umbertide”. 16 Il termine albergo diffuso è utilizzato per la prima volta in Carnia, dopo il terremoto del 1976, dalla necessità di destinare a scopi turistici le case e i borghi disabitati e recuperati a fini abitativi. L’esperienza si realizza nel 1982 all’interno del progetto pilota del Comeglians si tratta dell’offerta di case e appartamenti in borghi in gran parte disabitati e abbandonati in seguito al sisma; essa si configura più come un residence diffuso, trattandosi di case sparse da affittare, piuttosto che un albergo diffuso, non sono, infatti, previsti né una gestione alberghiera degli immobili, né i normali servizi alberghieri per gli ospiti. Il primo progetto di albergo diffuso concepito come una struttura ricettiva unitaria, inserita in un contesto urbano di pregio, a contatto con i residenti, usufruendo però dei normali servizi alberghieri, si ha nel 1989 nel comune di San Leo, all’interno del più ge-
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turistico-ricettivo originale, teorizzato da Giancarlo D’Allara, destinato prioritariamente ai centri storici minori e definito dallo stesso D’Allara come: un’impresa ricettiva alberghiera situata in un unico centro abitato, formata da più stabili vicini fra loro, con gestione unitaria e in grado di fornire servizi di standard alberghiero a tutti gli ospiti17. Esso rappresenta per il sistema di offerta turistica, nazionale e internazionale, un innovativo modello di ospitalità tutto made in Italy[…], fortemente radicato nel territorio. […], caratterizzato non solo dalla diffusione orizzontale delle unità ospitali ma anche e soprattutto dalla esaltazione delle risorse paesaggistiche, umane e storico-artistiche di attrattività del luogo18.
L’albergo diffuso si rivolge a quella generazione di turisti nerale Progetto Turismo. Seguono poi altre esperienze di albergo diffuso negli anni Novanta, a partire da quella di Bosa in Sardegna, seguita dalla prima normativa in Italia al riguardo. Oggi l’albergo diffuso è diventato una realtà turistica consolidata, seppur di nicchia, e gode di grande visibilità in Italia e all’estero. Tra i più raffinati esempi di albergo diffuso quello di Santo Stefano di Sessanio (uno dei tre casi studio della ricerca) è senza dubbio il più interessante. 17 Giancarlo D’Allara descrive l’Albergo diffuso così: “Un modello di albergo orizzontale, sostenibile, un attrattore per i centri storici e i borghi del nostro paese. […] che non offriva solo posti letto, ma la possibilità di vivere lo stile di vita di un borgo, alloggiando in case che si trovano in mezzo a quelle dei residenti. Per poter definire albergo una forma di ospitalità fatta di case messe in rete tra loro, bisognava pensare alle case come a delle camere, e ad una di esse come alla reception di un albergo, al luogo di accoglienza dove fosse possibile creare gli spazi comuni e fornire agli ospiti tutti gli altri servizi alberghieri. Pensare ad una gestione alberghiera imponeva di cercare case non lontane tra di loro, la lontananza infatti le avrebbe rese ingestibili. Rispettando queste condizioni si sarebbe dato vita ad una gestione alberghiera in un contesto però del tutto originale, quello autentico di un albergo che non si costruisce” (D’Allara, 2010, p.7). 18 Cfr. Marco Valeri, Innovazione e cooperazione per la competitività delle imprese ricettive: tra agriturismi ed alberghi diffusi, Tutor Paola Paniccia, Coordinatore Cosetta Pepe, Università degli Studi di Roma Tor Vergata Facoltà di Economia, Tesi di Dottorato di Ricerca in Economia e Organizzazione delle Imprese, XXI ciclo, Anno Accademico 2007-2008.
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che cercano lo spirito dei luoghi, che amano le relazioni con i residenti; si tratta di persone che preferiscono auto-organizzarsi, che si ritagliano vacanze su misura, e che possono prediligere sia proposte di grande qualità ed eccellenza che vacanze basate sulla semplicità. Le fasce di età sono tutte rappresentate, e il fenomeno riguarda tutti i mercati di provenienza. (D’Allara, 2010, pp. 15-16)
A monte delle strategie enunciate, esiste un efficace sistema di messa a rete19 dei borghi italiani che negli ultimi anni ha visto un incremento di associazioni e marchi di qualità nati per promuovere e incentivare le eccellenze territoriali. A questo punto della trattazione, si è passati ad affrontare il nodo della ricerca, indagando la relazione tra lo spazio fisico del comparto storico e gli elementi del design dell’arredo urbano. La quinta parte descrive l’approccio tradizionale al progetto dell’arredo urbano nei centri storici e propone una lettura alternativa del contesto indagato, introducendo i concetti di complessità e coerenza urbana mutuati dalle teorie dei sistemi complessi (Alexander, Salingaros, Jacobs, Whyte). Rimandando a opportuni approfondimenti si evidenzia che il design dello spazio pubblico nei centri storici minori può essere affrontato con metodologie alternative più consone alla complessità geometrica e all’essenza dei
Cfr. Berardi S., Boccioli A. 2011, Centro Studi Superiori Sul Turismo (CST), Il turismo nei Borghi e nei Centri storici Umbri, Assisi, p. 21. “Le aggregazioni di Borghi basate su caratteri e requisiti comuni, possono assumere la forma di associazione, di club di prodotto o di rete a livello nazionale; oppure possono essere dei network a carattere locale, che raggruppano borghi di ambiti circoscritti (ad esempio, di livello regionale); o inoltre possono essere associazioni basate su tematismi specifici, sui quali i borghi intendo puntare per la propria valorizzazione e promozione”.
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luoghi e più distanti dal progetto a catalogo che sembra caratterizzare la scelta corrente20. I concetti di sviluppo locale, autosostenibilità produttiva, filiera corta, abilità e manualità artigiane sono solo alcuni dei temi trattati nelle sezioni precedenti al sesto capitolo; in esso si evidenzia la relazione tra design, innovazione e tradizione artigianale. Dare forma all’identità attraverso il design dello spazio pubblico significa, infatti, affondare le radici più antiche e profonde del linguaggio identitario, lo sconfinato repertorio di corredo urbano storicamente stratificato e quanto di esso possa informare e ispirare produzioni contemporanee coerenti, processi creativi di manipolazione della forma, uso dei materiali, tecniche di realizzazione artigianale. Gli argomenti trattati rilevano che l’artigianato locale è un formidabile strumento di innovazione per il design e può svolgere un ruolo strategico per la produzione di complementi d’arredo dei centri storici minori. La nuova produzione artigianale, piuttosto che contrapposta a quella industriale, è portatrice di innovazione e si prefigura come un laboratorio creativo in grado di apportare linfa vitale al repertorio compositivo dell’attuale industrial design, spesso appiattito su modelli reiterati di produzione seriale. Va ricordato inoltre che la distanza tra i due sistemi produttivi è fortemente erosa dagli apparati tecnologici, che hanno rimescolato le carte della prototipazione della piccola e grande serie, dell’ibridazione tra tecnica manuale e controllo numerico.
Nel capitolo sei, si affronta il tema dell’artigianato locale come possibile alternativa alla fornitura di prodotti seriali.
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Nella stessa sezione si affronta l’argomento design rispetto al profilo della sostenibilità attraverso la conoscenza della Blu Economy e il cosiddetto Design Sistemico. I sistemi aperti, emulativi degli ecosistemi naturali, sono alla base del Design Sistemico. La metodologia qui indagata, universalmente applicabile nel contesto specifico di sviluppo locale, sembra interpretare al meglio il corretto approccio alla produzione nella filiera del complemento d’arredo. Il capitolo a seguire descrive sinteticamente l’apporto delle tecnologie digitali e sposta la trattazione sul piano applicativo e tira le somme su come e quanto i temi affrontati influiscano concretamente sul design dello spazio pubblico nei centri storici minori. Smart City, open source, ICT (Information and Communication Technology)21, realtà aumentata sono solo alcune delle locuzioni che animano il dibattito sui temi dell’innovazione tecnologica. L’ubiquità dell’informazione contemporanea azzera le distanze, la piazza virtuale dei network concede un ribaltamento dei termini e produce un fenomeno multiplo di costruzione e ricostruzione dello spazio pubblico che dal virtuale ricade sul reale e viceversa22. Le applicazioni ICT consentono l’interazione tra luoghi e utenti in tempo reale, sia attraverso sistemi di riconoscimento e localizzazione istantanei per l’accesso a sistemi evoluti di informazione che di applicazioni di realtà aumentata, che sono uno straordinario mezzo di interazione in modalità friendly del visitatore. 22 <http://www.treccani.it/enciclopedia/vita-nella-smart-city_(Il_Libro_ dell’Anno)/>. Così Carlo Ratti scrive a proposito di spazio reale e virtuale: “Nei territori urbanizzati si assiste a un fenomeno nuovo: i bit della Rete si fondono con gli atomi del mondo materiale. Le città, coperte di sensori e di reti elettroniche, si stanno trasformando in computer all’aria aperta. Si può dire che Internet stia invadendo lo spazio fisico, un fenomeno che spesso passa sotto il nome di smart city”. 21
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La flessibilità open source prospetta scenari inediti, dove i flussi di interscambio delle informazioni assumono aspetti imprevedibili, aperti come sono alla trasformazione continua, apportata dagli stessi fruitori del sistema, chiamati a partecipare direttamente al progetto del cambiamento. Il progetto è chiamato a dare risposte concrete al concetto di complessità che pervade la contemporaneità e rappresenta il substrato della ricerca. Attraverso una breve sintesi degli argomenti trattati in questa parte si individua il filo conduttore che sottende al progetto finale e che descrive tra le righe un ipotetico intervento di mobilità sostenibile in una rete di piccoli comuni da realizzare con un sistema ciclabile di bike sharing. Partendo dal presupposto che la complessità è uno dei principi pervasivi della contemporaneità, il design, interpretandone l’essenza più intima, è chiamato a dare risposte concrete all’assunto23. Nel passato, progettare nel contesto e per il contesto era una consuetudine quasi inconsapevole in chi era chiamato a trasformare lo spazio della città storica, oggi progettare in tali contesti presuppone consapevolezza e conoscenza Cfr. Mattei M.G. (a cura di) 2014, Donald A. Norman, Design della complessità, Egea, Milano. “Secondo la visione corrente e accreditata la complessità è una complicazione, un sinonimo di disordine. Norman è invece convinto che la complessità sia insita nel mondo, sociale e naturale. Come tale deve dunque essere considerata una caratteristica fondante e ineliminabile della modernità, una necessità e non una componete negativa. Che il mondo ci appaia comprensibile e ordinato oppure confuso e disordinato dipende allora dal modo in cui la nostra mente si relaziona con la complessità. Alle prese con le tecnologie e il loro impatto, dobbiamo trovare un modo per muoverci e interagire con l’ambiente e non lasciarci sopraffare. Ragionando attorno al rapporto dell’uomo con gli oggetti, Norman li racconta come parte del rapporto generale dell’uomo con il mondo”.
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necessarie per recuperare la perdita di memoria storica conseguente alla frattura operata nel corso del Novecento. Il designer è chiamato alla conoscenza storica del luogo, all’interpretazione sensibile dei dati analizzati e alla formulazione coerente del micro-intervento. Fin qui niente di nuovo rispetto alla normale prassi di progettazione, ma progettare l’arredo dello spazio nei centri minori non significa solo operare scelte formali o funzionali, limitate al complemento d’arredo, vuol dire anche conoscere le implicazioni più ampie di natura antropologica e territoriale, i mutamenti sociopolitici in atto nelle realtà locali e come queste si confrontano con quelle globali. Ciò implica la trasformazione delle funzioni dello spazio pubblico, sia esso interno al singolo comune che al territorio interessato da reti di comuni. Le strategie di rigenerazione dei centri storici minori sono molteplici, esse tentano di arginare il fenomeno dello spopolamento, che rappresenta la maggiore criticità, soprattutto in alcune aree del paese, con l’introduzione di alloggi sociali, con strategie commerciali associative e strutture recettive particolari. Tali strategie comportano la nascita di nuove funzioni e la trasformazione di quelle esistenti. I processi produttivi locali rappresentano una grande opportunità di sviluppo per le aree interne; l’artigianato, ritenuto a torto un retaggio del passato, è in realtà una risorsa straordinaria, se frutto di un’osmosi tecnica e tecnologica capace di combinare le abilità artigianali con le competenze industriali, le capacità dei tecnologi e dei manager con quelle, straordinarie, dei tecnici e degli artigiani e può divenire un vero e proprio acceleratore di innovazione. Ribadendo il concetto: ci si deve abituare alla complessità
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e soprattutto alla sistematicità del contesto in cui si vive, si produce e si agisce, ed è necessario imparare a pensare in modo sistemico: cioè in termini di interrelazioni, contesti e processi. Il design sistemico, progetta le relazioni tra le persone, le attività e le risorse di un territorio, al fine di valorizzare la cultura e l’identità locali e produrre sviluppo e benessere collettivo. Un’altra formidabile arma di controllo della complessità è la tecnologia smart, il design contemporaneo è uno degli attori principali in questo processo di ibridazione tra reale e virtuale, l’osmosi tra forma dell’involucro e anima digitale getta le basi per un nuovo modello di progetto interconnesso, aperto e modificabile dal basso. Il primo effetto che si rileva è la smaterializzazione degli apparati funzionali, caratteristica assai utile in un delicato contesto storico. In conclusione, l’ottava parte descrive i tre casi studio, che rappresentano tre tipologie di intervento: il Contratto di Valorizzazione Urbana del comune di Morano Calabro, progetto di riqualificazione urbana e rigenerazione sociale del comparto storico che contempla, tra l’altro, un sistema di accessibilità sostenibile in bike sharing. Morano ha promosso un articolato progetto di Riqualificazione Urbana e Rigenerazione Sociale del Centro Storico che si è tradotto in un Contratto di Valorizzazione Urbana24, candidato in seguito al finanziamento per il Piano Nazionale per le Città25. I contenuti del progetto sommano gran parte dei temi trattati nella ricerca e costituiscono 24 25
D. L. 22 giugno 2012 n. 83 art. 12. D. L. 22 giugno 2012, n. 83.
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un interessante banco di prova per l’applicazione concreta della teoria. Il Progetto di Riqualificazione Urbana e Rigenerazione Sociale del Centro Storico di Morano è stato selezionato dalla Biennale dello Spazio Pubblico di Roma: l’evento ha prodotto un interessante laboratorio26, svoltosi a Morano dal 19 al 21 aprile 2013, propedeutico alla partecipazione alla Biennale, che si è poi tenuta nel maggio dello stesso anno nella capitale. Il workshop coordinato dal comune di Morano e dagli organizzatori della Biennale ha visto la partecipazione di sette comuni — Artena (RM), Coreno Ausonio (FR), Maiori (SA), Civita (CS), Fiumefreddo (CS), San Lucido (CS), Falerna (CZ) —, che hanno esposto ai vari tavoli di discussione le esperienze realizzate. Il dato più interessante si è registrato con la partecipazione di un pubblico specializzato (docenti, tecnici, amministratori), ma soprattutto di cittadini, accorsi numerosi alle presentazioni pubbliche e ai tavoli di discussione (si è assistito, nei tre giorni, a una vera e propria progettazione partecipata che ha poi visto il recepimento di molte delle richieste avanzate).
26 <http://www.comunemoranocalabro.it/Biennale/documenti/Bando-laboratorio-Identita-Morano.pdf>. Viaggio nei comuni delle buone pratiche, Laboratorio Identità: lo spazio pubblico nei centri storici minori-19, 20, 21 aprile Morano Calabro. Il laboratorio sviluppa il tema generale del rapporto tra rigenerazione sociale, riqualificazione urbana e valorizzazione degli spazi pubblici, che presentino un carattere identitario o valore economico e sociale. Il tema si inserisce in un più ampio programma di Riqualificazione Urbana e Rigenerazione sociale del centro storico di Morano Calabro. Tre i tavoli di confronto: i luoghi identitari dell’aggregazione sociale; la rete degli spazi verdi e degli orti urbani; gli spazi dello scambio commerciale e culturale.
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L’albergo diffuso a Santo Stefano di Sessanio, tra i primi comuni a realizzare il sistema ricettivo diffuso, modello innovativo di ospitalità, tutto made in Italy, fortemente radicato nel territorio è il secondo caso di studio. L’intervento che si realizza nel piccolo borgo di Santo Stefano di Sessanio è molto diverso da quello di Morano, e si basa su una filosofia del recupero radicale dei manufatti e delle tradizioni locali con l’intento di ricreare la dimensione autentica del mondo ancestrale dei luoghi27, rinunciando all’apporto tecnologico del progetto urbano, sia pure sostenibile come nel caso di Morano. Gli interventi, alle diverse scale, hanno seguito il principio guida di non tradire l’anima profonda di questi luoghi, dialogando con la loro identità, attraverso azioni di forte conservazione, riproposizione di elementi storicamente esistenti e introduzioni di elementi nuovi ma dialoganti, solo dove inevitabile. Nelle abitazioni si sono effettuati interventi che portassero alla luce la forma originaria, cancellando e rimuovendo le tracce della modernità degli anni sessanta e settanta, che in questi centri storici minori ha portato alla scomparsa del valore unitario e dell’insieme territoriale verso la prospettiva del seriale. Un altro aspetto rilevante messo in atto nel borgo è il recupero della filiera dell’artigianato locale; l’analisi storica 27 <http://www.sextantio.it/wp-content/uploads/2012/12/20110311-Vita. pdf>. Cosi afferma Kihlgren a proposito di autenticità dei luoghi: “La cosa da non fare è Chiantishirizzare questi posti. Trasformarli in cartoline per inglesi che vengono in vacanza, con i ristoranti con il menù in tre lingue e i negozi — finti — di prodotti tipici. È sbagliato anche commercialmente. Devi essere onesto, autentico tu per primo quando intervieni su questi borghi, e devi farlo rispettandone l’identità. La nostra grande strategia è che ce ne siamo fregati totalmente di quello che voleva il mercato. Abbiamo puntato su un progetto serio, e poi il mercato è arrivato”.
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e filologica hanno permesso infatti di riportare alla luce la cultura materiale dei luoghi. Nel recuperare la memoria storica si sono riaperte le botteghe storiche nelle ubicazioni originarie riproponendo l’aspetto originario e per quanto possibile le antiche attrezzature di lavoro. Ciò ha consentito il ritorno di manufatti in ceramica, legno, tessuti pregiati, affiancati ai prodotti tipici derivati dal territorio, anch’esso oggetto di recupero delle antiche coltivazioni. Oggi Santo Stefano si presenta come un piccolo paese senza età, con un impianto tardo-medioevale e proto-rinascimentale articolato in patii, vicoli e paesaggi; il punto di forza del borgo è la completa fusione di esso con l’ambiente circostante. Il Primo borgo telematico italiano: Colletta di Castelbianco, il terzo caso studio, informa sulle tecnologie smart e su quali scenari si aprono nei centri storici minori. Anche se i tre casi studio presentano tangenze metodologiche all’interno delle rispettive strategie, quest’ultimo rappresenta una tipologia di recupero diversa rispetto a Morano e Santo Stefano. Il piccolo borgo di Colletta, una delle quattro frazioni di Castelbianco, deve la sua rinascita all’investimento di un gruppo privato che, avvalendosi della consulenza del noto architetto Giancarlo De Carlo, dà origine al completo recupero dell’insediamento. La rivitalizzazione del borgo in abbandono è stata perseguita attraverso la sperimentazione della tecnologica avanzata, reinventando integralmente il suo ruolo e proponendolo come sede di studi telematici, oggi frequentata
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in prevalenza da scrittori e da docenti italiani e stranieri che ivi elaborano le loro ricerche. Il centro, con il suo ambiente reso artificialmente introverso e con un legame totalmente nuovo con la popolazione ed il territorio, è riuscito a diventare a livello mediatico il simbolo dellâ&#x20AC;&#x2122;era digitale.
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la ricerca attraverso il design è la ricerca effettuata con gli strumenti del design e, soprattutto, con la sua piÚ originale e specifica caratteristica: il progetto.
A. Findeli, 2001
Alessandra Rinaldi ciclo XXVII
Tutor Francesca Tosi
design, innovazione e tecnologie smart per il benessere e la salute. il contributo del design per l’invecchiamento attivo
Abstract Le innovazioni tecnologiche offrono molte opportunità di design nell’ambito dei wearable computers, degli smart objects e delle loro potenzialità d’interazione con l’uomo e i sistemi di computing ubiqui e pervasivi. Queste tecnologie possono essere utilizzate per realizzare nuovi prodotti, servizi e interazioni pensati per raccogliere, aumentare e condividere informazioni, conoscenze, emozioni, esperienze attraverso piattaforme che supportano l’aumento della consapevolezza sociale. Se applicate poi al settore del wellness esse potranno interagire tra loro, con la rete e con l’uomo, per spingere, aiutare e assistere le persone verso una vita attiva, dinamica e sportiva, e potranno diventare un mezzo per monitorare lo stato di benessere e di salute dell’utente, in un’ottica di prevenzione e di diagnosi precoce, e uno strumento importante per studiare e comprendere l’attività del corpo su larga scala. La ricerca si propone di individuare plausibili scenari design orienting e possibili soluzioni innovative che riescano a coinvolgere l’uomo in una vita sempre più fisicamente attiva e sana — attraverso il wellness, la prevenzione e un servizio sanitario smart— come impegno verso se
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stesso e come responsabilità sociale, attraverso un utilizzo collettivo delle tecnologie smart — il computing ubiquo e pervasivo, il wearable computing, gli indumenti e i tessuti smart, gli smart objects — e un’interazione smart degli stakeholders. Introduzione ai contenuti della ricerca Delimitazione del problema scientifico Il design è un fattore strategico d’innovazione al servizio dell’uomo e della società che consente di individuare possibili scenari e soluzioni innovative in ogni ambito di applicazione. Il design va di pari passo con l’idea di cambiamento, senza design non esiste progresso, non esiste innovazione. (Antonelli, 2014) Il valore del design come motore d’innovazione orientata alle esigenze dell’utilizzatore è riconosciuto anche dal European Design Leadership Board, che definisce ventuno raccomandazioni per valorizzare il contributo a lungo termine del design per una crescita intelligente, sostenibile, capace di rafforzare la competitività e perseguire una migliore qualità della vita per tutti i cittadini europei. Le raccomandazioni elaborate sono volte a rafforzare il ruolo del design nella politica europea dell’innovazione a livello nazionale, regionale o locale e a sviluppare una visione, definire priorità e misure comuni per favorire l’interazione del design nella politica dell’innovazione dell’Unione Europea. (Thomson et al., 2012) Come scrive Donald Norman, il design è la modellazione deliberata dell’ambiente per venire incontro ai bisogni dell’individuo e delle società trasversale a tutte le
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discipline: nelle arti come nelle scienze, nelle discipline umanistiche come nell’ingegneria, nella legge come nella gestione aziendale. (Norman, 2008) In questo contesto il ruolo del designer è in espansione, passando da quello di problem solver, chiamato per ottimizzare i processi di produzione e migliorare i prodotti dal punto di vista funzionale ed estetico, a quello di problem finder, cioè di colui che pone domande su ciò che le persone vogliono o non vogliono, offrendo visioni di futuri possibili e plausibili. Le nuove proiezioni sulla popolazione europea, parallelamente, hanno recentemente sottolineato che il numero delle persone anziane crescerà velocemente. L’impatto economico dell’invecchiamento sarà sostanziale in tutti i paesi dell’Unione Europea attraverso due canali principali: le pensioni e l’assistenza sanitaria a lungo termine. L’invecchiamento della popolazione costituisce quindi un tema molto delicato in termini di costi per l’Unione Europea, e riguarda l’intera collettività. L’Active & Healthy Ageing, ovvero il favorire l’invecchiamento attivo e la vita indipendente dei cittadini, attraverso un’educazione a uno stile di vita sano e dinamico, attraverso la prevenzione e la diagnosi precoce, nonché attraverso l’assistenza e la cura, è uno degli obiettivi del programma quadro per la ricerca e l’innovazione, Horizon 2020, che mira ad aggiungere due anni di vita attiva alla popolazione entro il 2020. In questo contesto scientifico, le domande di ricerca che ci siamo posti sono: 1. Come può il design contribuire a indirizzare e aiutare le persone verso una vita sempre più attiva e sana
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(attraverso l’attività fisica e lo sport, la prevenzione, la diagnosi precoce), come impegno verso se stesse e come responsabilità sociale? 2. È possibile utilizzare le tecnologie smart e il computing ubiquo e diffuso nelle città, attraverso un’attività di sensing e actuating — ovvero è possibile raccogliere dati e informazioni sulla persona e sulla collettività e rispondere a questi dati con strategie di intervento — per rendere le persone smart e attive, per creare dinamiche nuove, per costruire una consapevolezza personale e sociale che porti a cambiare lo stile di vita delle persone? 3. Oggi come stanno cambiando il ruolo e le competenze del designer, in generale, e in questo scenario progettuale, in particolare? Quali sono le teorie e le nuove aree di studio che collegano l’innovazione, la competitività e il design? Obiettivo generale La ricerca si propone di utilizzare le strategie e i metodi d’innovazione dello Human Centred Design per individuare plausibili scenari prossimi futuri e possibili soluzioni innovative che riescano a coinvolgere l’uomo in una vita sempre più fisicamente attiva e sana attraverso un impiego delle smart technologies — computing ubiquo e pervasivo, wearable computing, indumenti e i tessuti smart, smart objects — e un’interazione smart degli stakeholders. L’obiettivo generale è produrre uno scenario DOS (Design Orienting Scenario) caratterizzato da un’organizzazione flessibile, a rete, aperta a una varietà di potenziali partner di progetto, che si addice alla scelta iniziale di creare
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un sistema/prodotto basato sull’interazione di tecnologie intelligenti e processi di computing ubiquo da applicare al tema dell’invecchiamento attivo. Parallelamente, questa ricerca intende interrogarsi sull’evoluzione della disciplina del design in questo contesto sociale e a fronte dello sviluppo delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, e verificare operativamente il ruolo del designer e del ricercatore di design nel panorama progettuale attuale. La ricerca attraverso il design non deve necessariamente realizzare un progetto di design, ma utilizzarlo come un terreno di ricerca. L’idea principale è di impostare la ricerca del design in pratica, dove la pratica è considerata come intermediario di studio informato da e che informa una teoria appropriata. La pratica è collegata con la teoria ed esiste all’interno di un quadro teorico di sviluppo basato anch’esso sulla pratica del design rinforzato dalla consapevolezza degli sviluppi attuali e di contesto.(Van Schaik, 2003). Ambito di ricerca La ricerca indaga principalmente su tre ambiti di studio. Il primo è il mondo delle tecnologie smart e del wearable computing: il computing ubiquo, l’uso pervasivo di sensori e di tecnologie di comunicazione, la grossa mole di dati che ne scaturisce — Big Data — e le possibilità del loro utilizzo per creare servizi innovativi e personalizzati; i wearable computers — dai dispositivi indossabili agli e-textiles e indumenti smart — e gli smart objects e la loro interazione con i sistemi di computing ubiqui — internet of things; l’interazione uomo/macchina/rete.
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Fig. 1. Il Digital Wellness Hub: scenario di un sistema prodotto per il wellness e la salute: i wearable inviano dati sulla persona al DWH.
Partendo dall’individuazione dei bisogni dell’uomo e di ciò che la qualità della vita rappresenta nell’immaginario collettivo, la ricerca indaga su che cosa la tecnologia è in grado di generare come risposta e su come lo sviluppo tecnologico e la miriade di computer, ormai invisibili alla coscienza comune, che le persone utilizzano inconsciamente per svolgere le attività quotidiane, possono essere indirizzati verso il conseguimento di una qualità di vita sostenibile. Ambito di indagine è anche la connettività dell’uomo e degli oggetti e di come sia possibile utilizzare le energie generate dalla loro interazione per un risultato sinergico positivo. Il secondo ambito d’indagine sono gli strumenti del
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design e dell’innovazione: le strategie di innovazione design oriented che collegano l’innovazione, la competitività e il design, in particolare il Design Thinking, lo Human Centred Design e l’Experience Driven Design; lo strumento strategico operativo del Design Orienting Scenario; il cambiamento del ruolo del designer da creativo a strategico-creativo; l’applicazione di queste strategie al tema della ricerca. La grossa mole di dati che scaturisce dall’uso pervasivo della tecnologia contiene in sé già tutte le risposte, ma non ha alcun valore, se non viene interrogata con le domande giuste. Come dice McLuhan, quando tutte le risposte sono a portata di mano, è solo la domanda che conta. La ricerca indaga il design come strumento fondamentale per soddisfare i nostri bisogni e i desideri legati all’habitat e alla qualità del vivere, e il ruolo del designer, in particolare del ricercatore di design, come interprete critico, problem finder, colui che pone domande, con l’obiettivo di aprire una discussione su ciò che le persone vogliono o non vogliono, su che tipo di futuro proporre. Il terzo ambito di ricerca interessa il settore del wellness e delle tecnologie smart per la salute e l’attività fisica. Al centro c’è l’indagine sul concetto di wellness come ‘filosofia’ di vita che propone comportamenti virtuosi nelle attività motorie, nell’alimentazione e nel mantenimento del proprio stato emotivo. Il concetto di wellness mette, infatti, il benessere della persona al centro dell’attenzione, suggerendo attività fisica regolare, pratiche di rigenerazione e di mental training, che, unite a una sana alimentazione e a un approccio mentale positivo, favoriscono uno stato di benessere e di equilibrio psicofisico.
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A seguire l’indagine si rivolge alle motivazioni che spingono le persone a praticare l’esercizio fisico, alle strategie per spingere l’utente verso una vita attiva, al ruolo dell’attività fisica come fattore di prevenzione per la salute, di coesione sociale e di condivisione di emozioni, esperienze, informazioni e dati, in grado di aumentare le capacità sociali. L’interpretazione dei trend, dei nuovi profili di utenti, dei loro bisogni e aspettative, e le tecnologie applicate a oggi in questo ambito costituiscono la parte conclusiva della fase di analisi. La ricerca intende quindi studiare quali sono le opportunità di design e di innovazione nell’ambito dei personal/ collective wearable computers, degli smart objects e delle loro potenzialità d’interazione con l’uomo e i sistemi di computing ubiqui e pervasivi offerte dalle evoluzioni tecnologiche in atto; come queste tecnologie possono essere utilizzate per generare innovazione attraverso nuovi prodotti, servizi e interazioni pensati per raccogliere, aumentare e condividere informazioni, conoscenze, emozioni, esperienze, attraverso piattaforme che supportano l’aumento della consapevolezza sociale. Se applicate poi al settore del wellness, esse potrebbero interagire tra loro, con la rete e con l’uomo, per spingere, aiutare e assistere le persone, incluse le fasce deboli, verso una vita attiva, dinamica e sportiva, e potranno diventare un mezzo per monitorare lo stato di benessere e di salute dell’utente, in un’ottica di prevenzione e di diagnosi precoce, e uno strumento importante per studiare e comprendere l’attività del corpo su larga scala.
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Approccio scientifico e metodologico Obiettivi specifici Questa ricerca vuole essere un contributo al dibattito internazionale sulle possibilità di cambiamento derivanti dall’impatto che il crescente sviluppo di sensori diffusi in maniera ubiqua e pervasiva e di elettronica indossabile in questi ultimi anni sta avendo sulla società e sui comportamenti e gli stili di vita dell’uomo, indirizzandoli verso l’invecchiamento attivo dei cittadini. In particolare vuole studiare le possibilità che il design può offrire per la creazione di un sistema/prodotto mirato al coinvolgimento (engagement) e all’avvicinamento dell’uomo alla cultura del wellness, intesa come un insieme di attività fisica, tecniche di mental training e sana alimentazione, e alla prevenzione e alla diagnosi precoce. Per questo percorso sono stati formulati i seguenti obiettivi specifici: • individuare lo stato dell’arte della ricerca sulle tecnologie smart che possono essere utilizzate nel nostro ambito di progetto: wearable devices (inclusi e-textiles e indumenti smart), collective wearables, smart objects; • individuare lo stato dell’arte della ricerca sul computing ubiquo e valutare come i dati raccolti (Big Data) possano essere utilizzati per aumentare la conoscenza globale riguardo l’uomo, la sua attività, il suo ambiente di vita, i suoi comportamenti; • studiare i trend di evoluzione dei sistemi di interazione uomo/macchina/rete; • definire i nuovi bisogni, i valori e le aspettative dell’uomo, i fattori incentivanti per stimolare gli utenti verso
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una vita attiva e sana e per migliorare la user experience in questa direzione; • focalizzare il ruolo del design nel raggiungimento dell’obiettivo generale e nella progettazione di un sistema di prodotti e servizi pensati per condividere conoscenze, emozioni e esperienze, attraverso piattaforme sociali che supportano l’aumento delle collaborazioni sociali; • delineare i plausibili scenari Design Orienting e d’innovazione del sistema, utilizzando le strategie design oriented e gli strumenti strategici operativi per l’innovazione. Fasi di sviluppo Per individuare le modalità di sviluppo della ricerca, piuttosto che definire in anticipo un percorso preciso, è sembrato più adatto un approccio di tipo interpretativo della complessa rete d’interazioni; è stato così adottato un metodo euristico per guidare il percorso di conoscenza e valutare le strategie d’intervento migliori. In generale è stato adottato un approccio di Action-Research, che ha coinvolto aziende, professionisti e ricercatori a livello internazionale. La mancanza di specifici riferimenti in letteratura sull’argomento trattato ha portato allo sviluppo di alcune attività empiriche. Il programma di ricerca si è sviluppato in tre fasi: fase di raccolta dei dati e delle informazioni, fase di analisi, fase propositiva. La fase cognitiva e di raccolta di informazioni è stata rivolta a creare e a rafforzare la base di conoscenze trasversali necessarie a delimitare i concetti chiave del tema affrontato e a definire la specificità di lettura del tema, già
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Fig. 2. Il Digital Wellness Hub: scenario di un sistema prodotto per il wellness e la salute: il sistema interagisce con il contesto di vita.
affrontato in diversi ambiti culturali, ma quasi sempre lontano dalla disciplina del design. L’indagine svolta ha riguardato: • l’esplorazione sul campo attraverso colloqui preliminari con aziende, professionisti ed esperti nel settore delle tecnologie smart, dei wearable computers e del wellness; • l’esplorazione sul campo della ricerca internazionale avanzata in tema di computing ubiquo, di smart objects, di wearable computing, di sistemi di interazione uomo/macchina/rete, attraverso la partecipazione a conferenze e simposi internazionali; • l’indagine sugli strumenti del Design come driver di innovazione e di competitività e sull’evoluzione del ruolo del designer da creativo a strategico-creativo;
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• l’indagine sul concetto di wellness, sugli aspetti motivazionali che spingono le persone a praticare attività fisica e sulle strategie di coinvolgimento dell’utente; • l’inquadramento dei trend e dei nuovi profili di utenti, dei bisogni e delle aspettative. La fase operativa si sposta dall’ambito più teorico a quello applicativo per costruire il materiale base che è servito come riferimento per lo sviluppo della fase propositiva. Questa fase ha riguardato: • l’individuazione dei possibili ambiti di intervento e di innovazione applicabili al settore della ricerca, basandosi sulle metodologie dello Human Centred Design, con un approccio di tipo progettuale Design Thinking, partendo da una ricerca etnografica, basata sull’osservazione delle persone durante lo svolgimento di attività fisica e attraverso il lancio di un questionario online; • l’organizzazione e la partecipazione a eventi internazionali mirati al confronto con aziende e ricercatori sul tema, quali workshop con ricercatori, aziende e professionisti esperti, un hackathon internazionale con ricercatori in settori diversi, sviluppatori di software, ingegneri elettronici, esperti di computer science e designers; • l’analisi, la schematizzazione e la sintesi dei risultati derivati dalle attività precedenti. Le fasi sopra descritte hanno permesso di acquisire nuove conoscenze e competenze specifiche riguardanti i macro-trend tecnologici in atto — il computing ubiquo, le città smart, l’internet delle cose, il wearable computing, gli e-textiles e gli indumenti intelligenti — le opportunità socio-economiche connesse, le esigenze e i modelli di
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comportamento, emergenti alla luce delle possibilità offerte dalla rapida evoluzione delle tecnologie disponibili. Queste competenze hanno via via contribuito alla formazione della visione progettuale scaturita dal processo cognitivo seguito, dall’intuizione e anche dal caso che ha regolato gli incontri e le relazioni emerse durante la ricerca di informazioni. Tutto questo processo, ovvero la ‘strategia euristica’, o dell’apprendimento, insieme alle conoscenze pregresse, che costituiscono la formazione del sapere del ricercatore, e alla base culturale delle informazioni già acquisite sull’argomento attraverso precedenti esperienze, seppur finalizzate a ambiti diversi, hanno portato alla fase propositiva. La fase propositiva, anche detta di output, è stata concentrata principalmente nella definizione di una nostra visione strategica in merito alla possibilità di sviluppo di un sistema-prodotto mirato a indirizzare e aiutare le persone verso uno stile di vita sempre più attivo e sano capace di portare a lungo termine a un invecchiamento attivo dei cittadini e quindi a un incremento del benessere psico-fisico dell’individuo e a una diminuzione dei costi sostenuti dall’intera comunità. La definizione e sintesi di uno Scenario Design Orienting; lo scenario che abbiamo sviluppato è quindi il nostro strumento per stimolare e orientare le imprese e le politiche sociali verso nuovi modelli e per concepire nuove idee di benessere e nuovi servizi-prodotti, rispondenti alle aspettative dell’Uomo e dell’Ambiente.
Fig. 3. La palestra diffusa on the go: le Wellness Capsule sono diffuse nella città, nei parchi, vicino ai luoghi di lavoro. Non sono più io che mi devo spostare, ma sono le capsule che mi vengono ‘incontro’.
A livello di conclusioni, è importante sottolineare che mentre alcuni fattori che hanno influenzato i risultati raggiunti sono quantificabili, altri, invece, dipendono dal bagaglio culturale del ricercatore e del professionista che operano nell’ambito del design e dell’innovazione, dalle sue esperienze pregresse, dall’idea di partenza, dal processo cognitivo seguito, da intuizioni e relazioni che sono nate nel percorso, che hanno costituito l’insieme delle informazioni necessarie per il progetto e influenzato la visione e le scelte intraprese, il linguaggio utilizzato per descriverle e per comunicarle. Un altro ricercatore avrebbe potuto seguire un percorso molto diverso, e arrivare a risultati assolutamente distinti.
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Innovatività e rilevanza scientifica La ricerca coinvolge vari ambiti della produzione e del progetto, dai dispositivi indossabili ai tessuti, indumenti e accessori smart, dai sistemi di sensing e actuating ubiqui e pervasivi ai sistemi di controllo in real time sul corpo e sull’attività del singolo utente e dell’uomo in generale, fino ai servizi, per rendere le persone smart e attive, per creare dinamiche nuove, per costruire una condivisione delle informazioni e una consapevolezza, che porta verso uno stile di vita attivo e sportivo, e per facilitare la prevenzione della salute e la diagnostica base. Tanto per dare un’idea del mercato di riferimento, secondo le ultime ricerche di IDC (International Data Corporation), si stima che il solo settore dei wearable computer, è in grande crescita e aumenterà in media in Italia del 75% ogni anno. Perché i wearable devices abbiano successo sul mercato saranno importanti sia l’estetica che la funzionalità. Gli annunci fatti negli ultimi giorni dai principali produttori hanno dimostrato un’attenzione particolare alla ‘good looking technology’. Le applicazioni health e fitness nel breve-medio termine saranno le più diffuse, ma saranno affiancate da quelle per la localizzazione e la navigazione e da quelle che riusciranno a unire ‘context awareness’ e ‘social’. Nonostante la recente notizia che Google, per lo sviluppo dei suoi Google Glass, si è rivolta a una nota azienda italiana che opera nel settore del design di occhiali, nessuno dei wearable devices, al momento presenti sul mercato, è prodotto o disegnato in Italia. Riteniamo quindi opportuno indagare come quest’ambito
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di ricerca possa offrire al sistema produttivo europeo e in particolare italiano, tra i più avanzati a livello mondiale nel settore dei tessuti, della moda e degli accessori, nonché nel settore delle macchine per lo sport e la riabilitazione, ampie possibilità di fare innovazione e di proporre una visione italiana originale sull’argomento. Destinatari La ricerca investe diversi settori trasversali: tessuti/indumenti/accessori smart, smart objects, sistemi di sensing e actuating ubiqui, real time system control sul corpo e sull’attività del singolo utente e dell’uomo in generale, il mondo dei servizi per il fitness e la sanità, il settore della comunicazione. I servizi sono intesi sia come social network sia come piattaforme per rendere le persone smart e attive, per creare dinamiche nuove, per costruire una condivisione delle informazioni e una consapevolezza che possa spingere verso uno stile di vita attivo/sportivo, e per facilitare la prevenzione della salute e la diagnostica base. La molteplicità dei settori coinvolti coincide con il numero di attori ai quali si rivolge e che possiamo dividere in diversi gruppi. Il primo gruppo è costituito dal mondo delle aziende manifatturiere: dai produttori di tessuti intelligenti e di capi d’abbigliamento per lo sport/attività fisica e per la salute, ai produttori di macchine per il wellness e la riabilitazione, fino ad aziende che operano nel settore della moda e del design degli accessori. La ricerca potrebbe coinvolgere anche il mondo della produzione di dispositivi medici e, in un’ulteriore fase di sviluppo, i produttori di
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arredamenti e di elettrodomestici per la casa e per l’ufficio. Un secondo gruppo riguarda invece gli operatori privati del settore del wellness e del fitness: palestre e trainer. Anche il settore pubblico viene interessato dalla ricerca: la città, la pubblica amministrazione e il settore sanitario possono essere coinvolti, non solo per la creazione di un progetto pilota, ma anche per le informazioni che la ricerca potrebbe fornire loro, riguardo l’ambiente e gli stili di vita dei cittadini, utili per creare delle strategie e delle politiche di miglioramento della qualità del contesto e della vita. Infine, i destinatari della ricerca sono altri centri di ricerca che operano nel campo dell’ingegneria elettronica e del computer interaction, aziende delle telecomunicazioni, come ad esempio Telecom, e service internet providers. Come già accennato, la ricerca offre molti spunti e molte possibilità di innovazione al sistema produttivo europeo, in generale, e a quello italiano, in particolare, che pur essendo tra i più avanzati a livello mondiale nel settore dei tessuti, della moda, degli accessori e delle macchine per il fitness, con un buon background nella produzione di microelettronica, non è tuttavia abbastanza affermato per quanto riguarda lo sviluppo di wearables, delle possibilità offerte dalla connettività ubiqua e dei servizi che ne possono derivare. Molti sono in Italia i professionisti e i ricercatori che operano a livelli alti in quest’ambito di ricerca, ma pochi sono i progetti che arrivano sul mercato. Inoltre, molti ricercatori italiani risiedono all’estero, dove trovano centri di ricerca e per finanziatori che li accolgono per poter sviluppare le loro idee.
Fig. 4. La macchina per l’allenamento mi riconosce, scarica i dati che mi riguardano dal Digital Wellness Hub, la piattaforma che attraverso il cloud computing gestisce i dati che arrivano dai dispositivi che fanno parte del network.
Metodologia di lavoro La ricerca attraverso il design è la ricerca effettuata con gli strumenti del design, e, soprattutto, con la sua più originale e specifica caratteristica: il progetto. (Findeli, 1999) L’obiettivo principale della ricerca attraverso il design non è realizzare un progetto di design, ma usarlo come un terreno di ricerca. L’idea principale è quella di impostare la ricerca del design in pratica, dove la pratica è considerata come intermediario di studio informato da e che informa una teoria appropriata. (Van Schaik, 2003) Secondo gli autori, la pratica è legata alla teoria e si sviluppa all’interno di un quadro legato alla pratica condizionato dal contesto e dagli scenari specifici.
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Hummels e Overbeeke (2000) propongono una ricerca ‘contesto-dipendente’ attraverso il design, passando dalla creazione di prodotti alla definizione di un quadro per l’esperienza, con un importante focus sulla forma di interazione. La ricerca attraverso il design rimane un approccio relativamente nuovo; il quadro metodologico è ancora emergente e da consolidare. Per lo sviluppo di questo progetto di ricerca è stata utilizzata una metodologia Human Centred, incentrata sull’utente e sul contesto, e sulla loro interazione con il prodotto, e utilizzata in sinergia con un approccio Design Thinking, passando dal progetto di prodotto alla definizione dell’esperienza. Il ‘Designerly Thinking’ richiede l’esplorazione di problemi, situazioni, scenari e l’interrogazione riguardo avvenimenti, persone, prodotti e contesto d’uso. (Cross, 2011) Secondo Tim Brown1 l’innovazione è potenziata da una conoscenza approfondita attraverso l’osservazione diretta di quello che le persone vogliono o di cui hanno bisogno nelle loro vite e di quello che piace o non piace loro. Il Design Thinking nella visione di Brown è un’attività human-centred che usa la sensibilità, quindi la capacità di essere empatici, e i metodi propri dei designer col fine di unire i bisogni delle persone con ciò che è tecnologicamente fattibile e ciò che una strategia di business percorribile può convertire in valore per il cliente e opportunità di mercato. Oggigiorno anziché chiedere ai designer di
1 Tim Brown è il CEO di IDEO, famosa azienda di Design, con sede principale a Palo Alto, California, USA
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rendere più attrattiva un’idea già sviluppata, molte aziende chiedono di sviluppare delle idee che meglio incontrino i bisogni e i desideri delle persone; il ruolo del designer pertanto diventa strategico e guida verso una nuova forma di valore, se si considera, inoltre, che il terreno dell’innovazione si sta espandendo dai prodotti fisici a nuove forme di processi e servizi, modi di comunicare e interagire (Brown, 2008). I metodi di valutazione dei bisogni degli utenti propri dello Human-Centred Design e l’approccio Design Thinking, mirato all’ottimizzazione della User Experience, sono stati utilizzati sia come strumenti strategici per la costruzione di Scenari Design Orienting (DOS) di prodotti e servizi innovativi, capaci di rispondere alla esigenze degli utenti, sia come metodi di intervento in grado di coordinare le diverse competenze coinvolte nel progetto. La ricerca ha svolto un percorso partito dalla pratica per sviluppare una teoria, la quale, a sua volta, ha informato la pratica. Il ricercatore in questo contesto ha svolto un ruolo di traduttore critico del processo di progettazione e della sua relazione con gli ambienti umani sia naturali che artificiali finalizzato alla definizione di possibili e plausibili scenari futuri. Attraverso lo Human-Centred Design e l’Experience Driven Design è stato messo al centro del progetto l’uomo e i suoi bisogni, la sua esperienza nell’uso di un sistema di prodotto/servizio, e sono state individuate nuove esigenze e nuovi modelli di comportamento emergenti alla luce delle possibilità offerte dalla rapida evoluzione delle tecnologie disponibili.
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Come spiega Manzini la tecnica moderna è cresciuta in un mondo in cui la razionalità era ritenuta unica, l’informazione completa e l’ottimo assoluto un risultato raggiungibile. La prassi di progetto, con queste premesse, corrisponde alla strategia funzionale e prevede che il progettista sia onnisciente, dotato, quando inizia il lavoro, di tutta l’informazione potenzialmente disponibile per orientare le sue scelte e per arrivare razionalmente alla soluzione migliore in assoluto. Nella pratica, però, le cose non vanno così: alla partenza il progettista possiede una parte dell’informazione, che trae dalla sua base culturale e dall’accumulo delle sue precedenti esperienze; su di essa si forma un’idea, abbozza una prima struttura concettuale del tema, a partire dalla quale intraprende una ricognizione che lo porterà via via ad acquisire nuova informazione. Il progetto finale dipende non dalla ricerca dell’ottimo sulla base di tutta l’informazione teoricamente disponibile, ma dalla ricerca del soddisfacente, che verrà raggiunto quando il progettista avrà accumulato una quantità di informazione giudicata sufficiente in base a un suo bilancio costi / benefici. Le caratteristiche di questa soluzione soddisfacente, saranno strettamente dipendenti da fattori assai poco formalizzabili e prevedibili, come la qualità dell’idea di partenza, e dalle capacità del processo cognitivo seguito, che dipendono a loro volta dall’impostazione di partenza, dall’intuizione, e anche dal caso che regola gli incontri del progettista durante la ricerca di informazioni. Tutto questo processo, che viene definito come ‘strategia euristica’, o dell’apprendimento, rappresenta una descrizione della prassi di progetto abbastanza prossima alla realtà di sempre: nella definizione dei percorsi cognitivi del progettista entrano sempre e comunque il caso, l’intuito soggettivo, la variabilità del sistema di relazioni che definiscono gli esiti dell’iter progettuale. Anche il patchwork di conoscenze specialistiche che costituisce la formazione tradizionale del sapere tecnico del progettista in buona misura non costruisce
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nel segno di una razionalità formalizzabile e trasparente. Raramente la strategia che consente di recepire gli stimoli per la creatività o di raccogliere e organizzare informazioni per sviluppare il progetto viene determinata da un preciso programma, in cui ogni fase sia chiaramente motivabile sulla base di una razionalità del tutto esplicita che potremmo chiamare ‘ragione dimostrativa’. La guida principale su questo percorso è un intreccio di intuizione, buon senso, casualità, che possiamo indicare con l’espressione ‘razionalità astuta’… il progettista procede definendo aspetti e condizioni relativi a certi sottosistemi, e da questi deduce razionalmente e linearmente alcune conseguenze. Ma queste componenti di ragione dimostrativa sono integrate e completate da un tessuto di ragione astuta che fa da guida ogni volta che la carenza di informazione, la necessità di trovare una scorciatoia la rendono l’unica strada percorribile. Che esista più di una razionalità, che il progetto sia un gioco a informazione incompleta e che il risultato sia uno tra i possibili risultati, può essere vissuto come una perdita: perdita di certezze, di trasparenza, di forza della ragione; ma su questa stessa consapevolezza, si può costruire un modo più aperto di vedere il proprio rapporto con la tecnica e con gli altri attori del processo progettuale: sulla base di queste premesse la componente di razionalità astuta nella prassi del progettista non è più necessariamente negata e nascosta dietro una facciata senza crepe di ragione dimostrativa, ma può essere valorizzata e difesa esplicitamente come utile (se non l’unico) criterio per affrontare la complessità dei sistemi su cui si opera. (Manzini, 1986)
Questo progetto di ricerca ha seguito un metodo euristico ed è stato basato sulla raccolta e sull’analisi delle informazioni ottenute attraverso eventi, incontri e dialoghi con vari attori del mondo della ricerca internazionale, della produzione, dei servizi e del progetto e utenti, nel campo di indagine delineato.
Fig. 5. Anche la città è coinvolta nel servizio, attraverso sensori che rilevano la presenza delle persone, chip con i quali possiamo scambiare informazioni. La macchina per l’allenamento e la città stessa, mi informano di eventuali eventi sportivi collettivi all’aperto e mi spingono a partecipare.
Per la costruzione di Scenari Design Orienting (DOS) sono state utilizzate differenti metodologie di approccio progettuale: • l’Ergonomia per il design, che orienta il progetto rispetto alle esigenze e alle aspettative dell’utenza a partire dai metodi di indagine dello Human-Centred Design e dell’Experience Driven Design, entrambi miranti a mettere al centro del progetto l’uomo e i suoi bisogni, la sua esperienza nell’uso di un sistema prodotto/servizio, e a individuare nuove esigenze e nuovi modelli di comportamento emergenti alla luce delle possibilità offerte dalla rapida evoluzione delle tecnologie smart disponibili;
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• il Concept Design e il Design Thinking, basati principalmente sulle informazioni e gli spunti ottenuti attraverso incontri, dialoghi ed eventi di co-design, quali workshop e hackathon, con attori provenienti da diverse aree, principalmente designer, ricercatori, scienziati del computing, informatici, psicologi cognitivi e ingegneri elettronici. Conclusioni L’idea di massima, scaturita dall’attività di ricerca svolta sul tema del contributo del design per il benessere e la salute e per l’invecchiamento attivo dei cittadini, attraverso l’uso di tecnologie smart, è di coinvolgere un gruppo di attori in un processo di progettazione e di sviluppo di un sistema-prodotto mirato a stimolare e spingere le persone verso uno stile di vita attivo, dinamico e sano. Il sistema-prodotto ipotizzato è composto da macchine intelligenti per l’attività fisica, indoor e outdoor, capaci di stimolare l’utente e di dialogare con esso, di ricevere e inviare i dati riguardanti l’utente e la collettività, dal/al Digital Wellness Hub, la piattaforma online che attraverso il cloud computing gestisce i dati che arrivano dagli indumenti e dagli accessori indossabili intelligenti delle persone che fanno parte del suo network. Questa interazione tra uomo/macchina/rete permette di aiutare l’utente nella sua attività sportiva a misurare i segnali biologici riguardanti sia gli aspetti fisici che emozionali, di monitorare da remoto la persona e di individuare eventuali anomalie sullo stato di salute o peggioramenti della resa o quant’altro possa aiutare a prevenire o a diagnosticare velocemente l’insorgere di problemi e malattie.
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Il sistema-prodotto prevede delle possibili aree di sperimentazione, come fornitori di benessere (palestre e club sportivi) e strutture sanitarie, e lo sviluppo di servizi che includono l’aspetto della condivisione, per cui le informazioni dell’utente entrano in un sistema open source mirato ad aumentare la conoscenza e la consapevolezza su se stessi e il proprio corpo. Attraverso i wearable devices il Digital Wellness Hub può ricevere informazioni sulla persona anche quando non è in palestra, sul suo stile di vita, sulla qualità dell’ambiente in cui vive e lavora, dialogando con la casa, il letto, il frigo e gli elettrodomestici smart, con l’automobile, l’ufficio, la città e inviando i dati al medico di base e alla cartella sanitaria smart. Parallelamente il Digital Wellness Hub raccoglie dati generali sugli stili di vita delle persone, sul loro stato di salute e persino sulla città grazie ai sensori che le persone hanno nei loro dispositivi indossabili e che poi scaricano non a casa propria, sul proprio smartphone o computer, ma nel cloud. I dati raccolti possono essere utilizzati per obiettivi che interessano la collettività e l’individuo, per cambiare le politiche e i servizi sulla città, per esempio per misurare la qualità dell’aria o adottare strategie che portino a modificare gli stili di vita nella direzione del benessere e della salute. Inoltre, estendendo il concetto di Wellness Experience sempre e ovunque e di Wellness on the Go sarà la palestra a seguire le persone anziché le persone a cercare le palestre. Wellness’s Capsule mobili si trovano sparse nei parchi così come nelle piazze della città; appendici del servizio di
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Digital Wellness Hub dove organizzare eventi mirati all’educazione all’attività sportiva e dove le persone possono andare con i loro badge per fare esercizio fisico nei momenti di pausa o nei tempi morti di attesa, connettersi al digital personal trainer, scaricare i propri dati, senza dover andare nella propria palestra, fare valutazioni funzionali per verificare il proprio stato fisico e sportivo (valutazioni antropometriche, composizione corporea sul rapporto tra massa magra/grassa, valutazioni energetiche, cardiorespiratorie e quant’altro). Le Wellness’s Capsule possono diventare anche delle digital cave dove sperimentare nuove attività fisiche in realtà aumentata, condividere con altri l’esperienza e l’emozione legata all’esercizio fisico. La palestra diventa diffusa nella città, si avvicina alle persone e promuove uno stile di vita corretto, attivo e in salute alla portata di tutti. L’innovatività della ricerca consiste nell’idea che i wearable computers (inclusi gli e-textile e gli indumenti smart) e gli smart objects non solo possono essere utilizzati per fornire informazioni e dati sull’attività e lo stile di vita del singolo, ma, grazie alla loro interazione con i sistemi di computing ubiqui e pervasivi, possono inviare al Digital Wellness Hub informazioni anche sul contesto di vita delle persone e diventare una sorta di collective wearables, ovvero dispositivi capaci di raccogliere dati sull’intera collettività e di rispondere a questi dati con delle strategie di intervento. Tali strategie saranno mirate a rendere le persone smart e attive, a creare dinamiche nuove, a costruire una consapevolezza personale e sociale sul singolo, sulla collettività e sul contesto
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capace di portare a cambiare lo stile di vita delle persone. Il sistema-prodotto sviluppato interessa, inoltre, un insieme ampio di prodotti e servizi: tessuti, indumenti e accessori smart, smart objects, sistemi di sensing e actuating ubiqui e pervasivi, sistemi di controllo del corpo e dell’attività del singolo utente e dell’uomo in real time, servizi per rendere le persone smart e attive, per creare dinamiche nuove, per costruire una condivisione delle informazioni e una consapevolezza capace di portare verso uno stile di vita attivo e sportivo, e per facilitare la prevenzione della salute e la diagnostica base. Tanto per dare un’idea del mercato di riferimento, si stima che il solo settore dei wearable computer sia in grande crescita e che aumenterà in media del 75% ogni anno, arrivando nel 2018 a superare i 450 milioni di euro. Secondo le ultime ricerche dell’IDC (International Data Corporation) a livello mondiale, i wearable device che i consumatori preferirebbero acquistare, e perciò indossare, sono i braccialetti e soprattutto gli orologi (gli smartwatch), con oltre il 40% delle preferenze, seguiti a breve distanza dagli occhiali. Dispositivi specifici, come i capi di abbigliamento e le scarpe, sono il 25%. Perché i wearable device abbiano successo sul mercato saranno importanti sia l’estetica che la funzionalità. Gli annunci fatti recentemente dai principali produttori hanno dimostrato un’attenzione particolare alla good looking technology. Come è già successo nel mercato degli smartphone, i device su cui è più evidente l’effetto moda potranno beneficiare di un premium price. Le applicazioni health/fitness nel breve-medio termine saranno le più diffuse, ma
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saranno affiancate da quelle per la localizzazione/navigazione e da quelle che riusciranno a unire context awareness e social. Come rilevato, non esistono sul mercato wearable devices di produzione italiana. Occorre invece lavorare in questa direzione per garantire competitività alle imprese anche definendo specificità per il nostro paese. La ricerca affronta in parallelo il tema del ruolo del Design come driver di innovazione e competitività, cercando di delineare un quadro dell’evoluzione in atto di questa disciplina e del significato e delle metodologie del progetto.
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many people think that technology is a problem in that it dehumanizes people. and, instead, i think itâ&#x20AC;&#x2122;s a great thing because it humanizes objects.
P. Antonelli, 2011
Irene Bruni
ciclo XXVIII
Tutor Francesca Tosi
design e tecnologie digitali. la connettività come risorsa per il progetto
Abstract La ricerca affronta il tema del rapporto tra design e tecnologie digitali, in particolare le tecnologie della connettività, considerandole una risorsa per l’attività progettuale. Negli ultimi anni, e in maniera sempre più rapida e costante, abbiamo assistito a un avanzamento tecnologico tale che ci porta a riflettere sulle implicazioni che questo ha sul design all’interno delle dinamiche di sviluppo di artefatti e sistemi. Il tema della connettività è strettamente legato alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Internet, diffusosi a scala globale sul finire degli anni ’90, è diventato la colonna vertebrale dei maggiori canali di comunicazione e adesso — tramite la diffusione di tecnologie RFID e NFC, di sensori e attuatori di vario genere, in seguito al progresso nel campo dell’intelligenza artificiale e quindi allo sviluppo di artefatti ‘pensanti’ e consapevoli del contesto nel quale si trovano — ci sono le opportunità affinché il mondo intangibile della rete, quindi di contenuti, servizi e significati, trovi punti di contatto con quello fisico degli oggetti. Focalizzando l’attenzione sull’ambito dell’ambiente domestico e personale, la ricerca indaga il ruolo e gli
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strumenti del designer per lo sviluppo di artefatti e sistemi connessi che siano significativi e sostenibili per le persone. Introduzione La profonda penetrazione delle Information and Communication Technology all’interno della nostra società ha consentito un massivo accesso all’informazione e alla comunicazione e, allo stesso tempo, ha contribuito a rendere meno netti i confini delle dinamiche che la animano. In questa società il mondo fisico e quello virtuale si uniscono in uno spazio dove gli incontri fisici sono perfettamente integrati con quelli virtuali sui social network. Nuovi strumenti ci offrono la possibilità di lavorare in maniera flessibile, in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo, così che il limite tra la nostra vita lavorativa e quella privata diventa più labile. Le imprese sono abilitate a una produzione decentrata e snella, nonché a fornire servizi flessibili e prodotti su misura che soddisfano le specifiche esigenze del cliente. Talvolta i consumatori divengono loro stessi i produttori e acquisiscono l’appellativo di prosumer. Una tale realtà, necessariamente, porta con sé sia opportunità che sfide. All’interno del programma di ricerca europeo Horizon 2020, le ICT sono presenti in maniera trasversale e nel caso del pillar ‘Societal Challenge’ rappresentano un’importante risorsa strumentale per le sfide sociali che la comunità si trova ad affrontare. Il contributo proposto da questo lavoro si posiziona nell’ambito di ricerca che Horizon 2020 identifica come ‘Internet del futuro’, concentrandosi sull’Internet of
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Things (IOT) ossia su ciò che riguarda gli oggetti intelligenti connessi. Internet of Things è una infrastruttura di rete globale dinamica con funzionalità di auto-configurazione basata su protocolli di comunicazione standard e interoperabili in cui le ‘cose’ fisiche e virtuali hanno identità, attributi fisici e personalità virtuali, utilizzano interfacce intelligenti e sono perfettamente integrati nella rete di informazioni1. Gli scenari di potenziale applicazione dell’IOT sono gli spazi pubblici, i contesti produttivi, quelli commerciali e gli ambienti domestici. La ricerca, attraverso la lente del design, focalizza l’attenzione sull’ultimo di questi ambiti, prendendo in considerazione aspetti che riguardano, soprattutto, l’esperienza della persona — il benessere fisico, i legami affettivi, il legame con ‘l’esterno’, la gestione delle proprie risorse, ecc. — in relazione a un ambiente domestico fortemente caratterizzato dalla presenza della rete. Il forte incremento della componente digitale e immateriale, dovuto alla diffusione delle ICT, fa sì che si registri una maggiore complessità nella definizione dei contenuti e dell’output di un processo progettuale. I confini tra prodotti tangibili e servizi diventano sempre più labili, così appare necessario indagare quegli ambiti nei quali questa realtà si manifesta, tentare di comprendere in quale modo può essere affrontata e coglierne le potenzialità per offrirne i benefici all’individuo e alla comunità. I cambiamenti verificatisi a livello socio-tecnico hanno un impatto molto forte sulle discipline del design e sulla
1 Traduzione della definizione di Internet of Things data dall’IERC — European Research Cluster on the Internet of Things.
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ricerca a esso correlata. Sanders (2013) afferma che ci troviamo chiaramente nel mezzo di una trasformazione. I campi tradizionali dell’educazione alla progettazione sono caratterizzati dal tipo di output che i progettisti imparano a sviluppare, così l’output del lavoro di un industrial designer, ad esempio, è un prodotto, quello di un architetto, è un edificio, e così via. Sanders sottolinea che il design si sta muovendo, sempre più, dalla preoccupazione di fare cose al fare qualcosa per le persone nel contesto delle loro vite. Così i domini emergenti del design sono sempre più focalizzati sullo scopo dell’attività progettuale — si pensi al design per l’esperienza, design per la sostenibilità, design per l’innovazione — e solo successivamente sull’oggetto. Il design ha allargato molto la propria area di attività, di studio e di influenza, basti pensare che recentemente il dipartimento di Architettura e Design del MoMa di New York ha acquisito e inserito nella sua collezione entità biologiche sotto forma di modelli 3D (Synthetic PhiX174 Bacteriophage) e un sensore wireless che consente di raccogliere dati sul mondo circostante e visualizzarli in tempo reale sul tablet (PocketLab). Se le precedenti manifestazioni di design riguardavano prevalentemente il dominio fisico, pare che le nuove opportunità d’innovazione riguardino soprattutto quello immateriale (contenuti, sevizi, significati, ecc.) e il digitale rappresenta una chiara opportunità in questo senso. In un quadro che appare sempre più segnato dalla complessità, il processo progettuale è alimentato da input e stimoli variegati, quindi difficilmente potrà seguire una logica lineare. L’importanza crescente che il mondo immateriale sta acquisendo richiede al design di ridefinire il proprio ruolo e
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di porsi non solo come risolutore di problemi, bensì come esploratore di possibilità. Struttura della ricerca Ipotesi e research questions La ricerca muove dall’assunto che le tecnologie della connettività, unite alla possibilità di arricchire gli oggetti con componenti elettronici sempre più piccoli e sofisticati, possano aumentare le potenzialità degli artefatti e, di conseguenza, anche quelle dei contesti ambientali nei quali essi sono inseriti. L’idea che non solo i tradizionali dispositivi elettronici possano ‘parlare’, ma anche gli oggetti comuni che troviamo nei nostri ambienti domestici quali, arredi, prodotti di consumo, giocattoli e così via, ci ha portato a formulare alcune domande di ricerca: • Questo assunto può stimolare nuove dinamiche di progetto? • È possibile definire un quadro di riferimento che aiuti il designer nell’ambito del progetto di artefatti o sistemi supportati dalle tecnologie della connettività? • Quali elementi devono essere presi in considerazione affinché la progettazione sia orientata alla persona e allo sviluppo di soluzioni significative e sostenibili? • In riferimento al nostro ambito specifico di indagine, ossia l’ambiente domestico: si piò affermare che le tecnologie della connettività contribuiscono ad amplificare il ruolo degli artefatti che popolano i nostri ambienti domestici? • Queste tecnologie possono contribuire a migliorare alcuni aspetti del contesto abitativo e degli stili di vita degli abitanti e promuovere esperienze significative?
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Obiettivo generale, metodologia e approccio alla ricerca La ricerca intende pertanto indagare il tema di come la diffusione di tecnologie digitali avanzate, in particolare le tecnologie della connettività, condizioni il progetto di artefatti e sistemi e, allo stesso tempo, come questo influisca sul il lavoro del progettista. Considerando il design come fattore strategico per l’innovazione, l’obiettivo generale è di comprendere in che modo sia possibile approfittare delle opportunità offerte da queste tecnologie allo scopo di informare il progettista e di offrire possibili stimoli alle aziende che operano nei settori relativi alla casa. La ricerca si articola secondo vari contenuti riconducibili a tre fasi di lavoro principali: la fase teorica, la fase teorico/ operativa e la fase operativa/di sintesi. Ogni fase è stata sviluppata mediante attività di natura diversa — ricerca desk, dialogo con esperti di ambiti multidisciplinari, ricerca sul campo mediante coinvolgimento degli utenti — condotte prevalentemente secondo un metodo di lavoro di tipo euristico. Data la complessità delle dinamiche che condizionano il progetto relativo agli artefatti e ai sistemi connessi, durante la prima fase di lavoro si è reso necessario adottare un’approccio multidisciplinare alla selezione dei riferimenti teorici. I temi trattati sono relativi all’interazione uomo-macchina, all’ambito sociale e antropologico, in relazione al tema del rapporto tra la persona e il suo ambiente domestico, e all’elettronica, in relazione al tema della smart home. La fase definita teorico/operativa è stata finalizzata all’approfondimento del tema dell’IOT in relazione all’ambito dell’ambiente domestico e personale. Successivamente,
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in riferimento alla letteratura e mediante l’approfondimento di casi studio rappresentativi e al dialogo con esperti2, sono stati definiti spunti operativi che abbiamo convogliato in un Framework. La terza fase della ricerca, definita operativa/di sintesi, muove dai presupposti affrontati nelle fasi precedenti. Qui viene documentato il lavoro, condotto sul campo, ossia l’attività progettuale svolta nell’ambito dell’home appliances, progetto High Chest, e l’indagine quanti-qualitativa Design e tecnologie della connettivita, volta a sondare l’esperienza e la percezione delle persone in riferimento alle tecnologie della connettività; la parte conclusiva è dedicata alla definizione di uno scenario metaprogettuale. In linea con la mappa di Sanders (2013, p. 19) relativa agli approcci e ai metodi della design research, il nostro lavoro è stato condotto secondo una mentalità ‘esperta’ e un approccio prevalentemente ‘design-led’. Riteniamo sia possibile collocare la nostra ricerca in un’area della mappa che si sovrappone per la maggior parte a quella dello Human-Centred Design e che tiene in considerazione anche le aree del Critical Design e del Design and Emotion, quali approcci che ne arricchiscono il punto di vista. Siamo stati guidati da una visione del designer/ricercatore come ‘provocatore’, ‘mediatore’, capace di leggere situazioni e identificare opportunità. Allo stesso tempo abbiamo considerato il Design Thinking e l’approccio 2 Allo scopo di indagare e sistematizzare conoscenze proprie di altri campi di studio, nel corso del lavoro, abbiamo ritenuto opportuno confrontarci con alcuni esperti, tra i quali il Prof. Sebastiano Bagnara, la Dott. ssa Linda Gobbi di Future Concept Lab, il team di Zerynth, i quali ci hanno offerto letture differenti del fenomeno dell’IoT e della figura del designer, in rapporto a questo nuovo ambito del progetto.
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human-centred — del quale, nella fase operativa/di sintesi, abbiamo sperimentato alcuni metodi — come punti di partenza per comprendere la persona, individuare aspettative e bisogni, e immaginare desideri, focalizzando l’attenzione non solo sugli aspetti legati all’utilità e all’usabilità, ma anche su quelli relativi all’esperienza e all’emozione. Fase teorica e fase operativa Durante la prima fase della ricerca abbiamo studiato i fenomeni relativi al rapporto tra l’uomo e le tecnologie digitali alla luce del paradigma dell’informatica ubiqua e pervasiva (Weiser, 1991) e alla connettività. Abbiamo affrontato questo tema secondo tre prospettive: quella dell’interazione uomo-macchina, quella del design dell’interazione e quella relativa al concetto di ‘mediazione tecnologica’ (Verbeek, 2006), di derivazione filosofica, allo scopo di cogliere i tratti salienti. Le tecnologie della connettività offrono l’opportunità di ridefinire il modo in cui interagiamo con gli artefatti digitali e allo stesso tempo possono essere supportate da diversi tipi di interfacce, le quali veicolano input/output sia espliciti che impliciti. Tali interfacce sono implementabili in maniera singola o multipla, a seconda del tipo e della complessità del sistema del quale fanno parte, così da definire interazioni di tipo multimodale3. In questo contesto diventa centrale il concetto di ‘esperienza d’uso’. Nell’ambito della HCI, della usability engineering e degli human factors c’è una sensibilità maggiore verso aspetti di tipo
3 Interazione multimodale, in quanto caratterizzata da interfacce che veicolano input e output sia espliciti che impliciti.
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strumentale e tecnico; il design dell’interazione, invece, in quanto attività dall’approccio ‘designerly’ (Cross, 2001) pone l’attenzione anche su altri elementi, come ad esempio le qualità estetiche ed etiche del progetto e tiene in considerazione non solo la fase di utilizzo di artefatti e sistemi, ma anche quelle che la precedono e che la seguono in un’ottica, appunto, di esperienza d’uso complessiva. Il concetto di rete, che caratterizza ormai da qualche anno le dinamiche della nostra società, insieme alla diffusione e all’adozione delle ICT contribuiscono a condizionare il nostro rapporto con gli artefatti digitali, ma anche quello con gli spazi che abitiamo, così la casa e la nostra sfera personale acquisiscono nuove forme. De Kerchove (2015), a questo proposito, afferma che ormai abitiamo tre tipi di spazio: lo spazio fisico, lo spazio mentale e lo spazio digitale. Uno studio di Miller (2014), invece, mette in evidenza come l’adozione della webcam, associata all’uso di piattaforme on-line per la comunicazione, abbia contribuito a creare nelle persone la sensazione di poter vivere insieme in uno spazio non fisico. La casa, pertanto, oltre alla sua dimensione materiale, si è arricchita di una dimensione digitale. Anche il collettivo di design e ricerca Space Caviar (2014) si interroga sulla nozione di domesticità nel contesto dell’economia dell’informazione attraverso la ricerca dal titolo SQM: The home does not exist. Sebbene non sia possibile dare una lettura esaustiva del fenomeno, tantomeno ipotizzare possibili risvolti a lungo termine, la ricerca dimostra chiaramente un cambiamento di prospettiva dell’approccio tradizionale alla domesticità, soprattutto per quanto riguarda il dualismo privato-pubblico.
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In relazione al concetto di casa ‘intelligente’, mediante la revisione della letteratura, è stato possibile leggere una sorta di evoluzione di pensiero e di paradigma che ha contribuito a porre la connettività al centro del dibattito sulla smart home o, meglio, sullo ‘smart living’ (Solaimani et al., 2013). Il quadro teorico definito, infatti, intende enfatizzare l’idea di smart home, non tanto come espressione di tecnologie per l’automazione, bensì come ambiente ‘informativo’, al centro del quale c’è la persona. L’ambiente domestico è visto come una sorta di snodo attraverso il quale ‘oggetti rilevanti’ (Marzano, 2009) e servizi sono sempre più legati a ciò che si trova all’esterno e contribuiscono ad accrescere la consapevolezza e, possibilmente, le esperienze personali e sociali degli individui che lo abitano. Si delinea, quindi, un ambiente domestico ‘aumentato’ attraverso le ICT, che pervadono dispositivi, arredi e oggetti. La casa è collegata con l’esterno in maniera più pervasiva, per mezzo dell’ecosistema di elementi che contiene. Questo è reso possibile dal paradigma del computing ubiquo e pervasivo, nel quale lo sfruttamento delle capacità di comunicazione e data capture consentono a oggetti fisici e virtuali di creare un network globale. Mediante specifiche soluzioni tecnologiche è possibile identificare oggetti o ambienti, raccogliere, immagazzinare, processare e trasferire dati4 verso altri oggetti o utenti della rete; 4 I dati possono essere: relativi al mondo fisico (come i valori di una determinata sostanza presente nell’aria o i movimenti che si registrano in una stanza); riguardanti la posizione o lo stato (come la localizzazione spaziale di una persona o un oggetto, se una luce è accesa o spenta e la quantità di energia che sta consumando, se una persona è seduta sul divano e da quanto tempo); biometrici (come la frequenza cardiaca, l’intensità della respirazione, la sudorazione); oppure legati al comportamento di una
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si tratta di quello che viene definito Internet of Things. McEwan e Cassimally (2014) spiegano in maniera molto semplice cosa significhi connettere un oggetto a Internet. Un oggetto fisico è presente nel mondo reale, in una casa, in un luogo di lavoro, oppure è indossato da una persona; in questo modo può ricevere input dall’ambiente circostante e trasformare i segnali in dati da inviare a Internet, affinché siano memorizzati ed elaborati. Una sedia, per esempio, può raccogliere informazioni relative a quante volte e per quanto tempo ci si è stati seduti, mentre una macchina per cucire può riportare la quantità di filo rimasta e il numero dei punti che sono stati cuciti. La connessione a Internet e le generiche funzioni di elaborazione dati non influiscono necessariamente sull’aspetto e sulle tradizionali funzioni dell’oggetto. Quindi, che tipo di oggetti popolano l’IOT? In riferimento alla mostra Talk to me, Antonelli (2011) afferma: Many people think that technology is a problem in that it dehumanizes people. And, instead, I think it’s a great thing because it humanizes objects. (Antonelli, 2011)
Secondo Rijsdijk e Hultink (2009), l’intelligenza di un prodotto è determinata dalla misura in cui esso possiede, in misura maggiore o minore, una o più delle seguenti caratteristiche: autonomia, adattabilità, reattività, multifunzionalità, capacità di cooperare con altri dispositivi, capacità di interazione human-like e personalità. Possiamo riconoscere alcune di queste caratteristiche negli oggetti
persona (come il livello di attività fisica o cosa questa sta facendo con un sistema, ad esempio, accendere il forno, oppure fare la lavatrice in determinati momenti della giornata).
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che popolano l’IOT. La combinazione di componenti elettronici e materiali avanzati con la capacità offerta da Internet e dalle tecnologie per la comunicazione wireless (per esempio NFC, Bluetooth, Wi-Fi, Zigbee), consente di accrescere ulteriormente le potenzialità degli artefatti di uso quotidiano, rendendoli un po’ più simili agli esseri viventi. La ricerca mette in luce come l’IOT sia caratterizzato da artefatti nei quali possiamo riscontrare un carattere ‘animista’. Secondo un’ampia definizione del termine, infatti, l’animismo è la convinzione che gli oggetti possiedano volontà, intelligenza e memoria, che siano in grado di interagire con noi e di condizionare le nostre vite in maniera consapevole. La dispersione e la distribuzione ubiqua della tecnologia fanno sì che diventi ulteriormente complicato riuscire a spiegare certi comportamenti da un punto di vista puramente funzionale; soprattutto quando gli ambienti ci riconoscono e si ricordano di noi, così come quando certi oggetti captano informazioni e reagiscono alla nostra presenza. In assenza di un buon modello funzionale al quale fare riferimento, quindi, come afferma Kuniavsky (2010), le persone tendono ad antropomorfizzare gli artefatti e ad attribuire loro capacità tipiche degli esseri viventi. Come designer dobbiamo certamente prendere in considerazione il punto di vista delle persone per soddisfare le loro necessità e aspettative; tuttavia, in un ecosistema composto da artefatti intelligenti, connessi tra loro e alla rete, dovremo cominciare a prendere in considerazione anche il punto di vista degli oggetti. Interrogandosi su che tipo di caratteristiche debba possedere un artefatto ‘rilavante’ per incontrare l’interesse delle persone e chiedendosi se sia possibile fare riferimento
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ad alcuni loro specifici comportamenti e desideri, Rose (2014) inquadra sei driver: ‘Omniscience’, ‘Telepathy’, ‘Safekeeping’, ‘Immortality’, ‘Teleportation’, ‘Expression’. Alcuni driver, a nostro avviso, appaiono particolarmente indicati per organizzare, proprio in base al desiderio che soddisfano, prodotti e sistemi abilitati dalle tecnologie dell’IOT. Posto il concetto di casa intelligente, intesa come ecologia di cose, eventi e relazioni connesse con l’esterno, e affrontati i principi che dovrebbero guidare il progetto, abbiamo ritenuto utile procedere all’approfondimento di alcuni casi studio rappresentativi di IOT, relativi all’ambito dell’ambiente domestico e personale. L’obiettivo è di verificare quale tipo di artefatti e sistemi connessi vengono proposti, quindi delineare i tratti che ne contraddistinguono il progetto e, sebbene non sia possibile sintetizzare o esaurire dinamiche complesse e tracciare dei confini netti, isolare i più significativi per costituire un framework di riferimento. Per la lettura dei casi studio, come criteri principali, abbiamo considerato alcuni aspetti motivazionali individuati da Rose5 e le finalità degli artefatti e dei sistemi stessi; inoltre, abbiamo deciso di non concentrarci su una tipologia specifica di artefatti, piuttosto, di dare una lettura generale del fenomeno, per poter cogliere Gli aspetti motivazionali degli abitanti individuati da Rose, che abbiamo considerato, sono: ‘Omniscience’, onniscienza, ossia, il desiderio di possedere una grande conoscenza riguardo fatti e informazioni; ‘Telepathy’, telepatia, ossia, il desiderio di connetterci ai pensieri e alle sensazioni degli altri, il desiderio di comunicare con facilità, ricchezza e trasparenza; ‘Safekeeping’, protezione, cioè il desiderio di sentire noi stessi e i nostri cari protetti, sicuri e distanti da potenziali pericoli; ‘Immortality’, immortalità, ossia il desiderio di essere sani, forti e al massimo delle nostre capacità il più a lungo possibile.
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e organizzare elementi comuni e ricorrenti. Si sono colte tre possibili chiavi di lettura che caratterizzano l’IOT: • Quantificare la casa. L’attenzione alla gestione delle risorse domestiche, ai consumi idrici, energetici e alimentari e ai dati sulla qualità ambientale (aria, temperatura, illuminazione, ecc.) sono oggetto di studio ormai da diversi anni, tuttavia, la connettività ne offre nuove possibilità di interpretazione. • Quantificare gli abitanti. L’emancipazione del cosiddetto movimento del ‘Quantified Self’ ha contribuito alla diffusione di strumenti per misurare il nostro corpo dal punto di vista fisiologico, le nostre performance sportive e le nostre abitudini alimentari. L’idea è che tale conoscenza ci renda più consapevoli di noi stessi, ci faccia riflettere sulle nostre decisioni e agire in maniera più ponderata per il nostro benessere. • Promuovere forme di connessione con l’esterno. Le persone sono caratterizzate non solo dal proprio modo di pensare o dalle loro conquiste, ma anche da una qualche forma di giocosità: la curiosità, la divagazione, l’esplorazione, l’inventiva e la meraviglia (Gaver et al., 2007). La connettività, attraverso artefatti che supportano un coinvolgimento ludico, emozionale, affettivo o poetico, a partire dai nostri ambienti domestici, ci permettono di stabilire nuove forme di relazione con l’esterno. Abbiamo, così, definito un framework di riferimento che possa rivelarsi strumento utile alla progettazione. L’obiettivo della strutturazione del framework è di promuovere lo sviluppo di una progettualità ‘consapevole’ che tenga presenti le peculiarità di questo ambito di lavoro, al fine di sviluppare soluzioni significative, le quali, a loro volta,
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potranno rendere più consapevoli le persone che vi interagiranno. Risultati Sviluppo di un framework progettuale Lo sviluppo muove dell’idea di cogliere elementi relativi all’interazione e all’esperienza d’uso con sistemi che approfittano delle tecnologie della connettività. Come emerge dai casi studio approfonditi, questa tipologia di progetto ci porta a confrontarci con un insieme articolato di conoscenze, le quali fanno sì che il mondo fisico del design di prodotto, quello del digitale e dell’immateriale convergano e debbano essere considerati in maniera organica. Emerge che in questo dominio il concetto di ‘ecosistema’ è molto forte, così come anche quello di ‘servizio’, in rapporto a uno o più artefatti tangibili. Il progetto nell’ambito dell’IOT, quindi, dovrà essere sviluppato secondo ecosistemi; il progettista dovrà abbandonare l’idea di creare un prodotto isolato e indipendente e cominciare a innovare in un contesto più ampio. Ci saranno ecosistemi di servizi e non servizi isolati, elargiti tramite una sola applicazione per prodotto e parallelamente si svilupperanno anche ecosistemi di esperienze: le esperienze abilitate da prodotti connessi saranno innescate da imprese diverse e ognuna, probabilmente, si sovrapporrà alle altre (Ellis, 2014). Di fatto, l’esperienza d’uso sarà frammentata tra più elementi e, affinché questa risulti positiva, il rapporto tra gli elementi dovrà essere ottimale. Per godere in maniera organica delle funzionalità che un artefatto o sistema connesso offre, di frequente si interagisce con esso attraverso interfacce fisiche, non
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necessariamente GUI, con applicazioni per dispositivi mobili e con applicazioni per browser Web. Tale articolazione fa sì che, per la persona, la comprensione del sistema nella sua interezza possa diventare più complessa, così è importante tenere in considerazione due elementi: il ‘modello concettuale’ (Norman, 2014)6 e l’‘inter-usabilità’ (Wäljas et al., 2010) oltre, naturalmente, al contesto d’uso. Riteniamo che il nostro framework sia in linea con il modello ‘Smart PSS’ sviluppato da Valencia et al. (2015) e che possa integrarlo. Individuiamo una particolare vicinanza con le caratteristiche ‘consumer empowerment’, ‘individualization of services’ e ‘individual/shared experience’. Nel primo caso, condividiamo l’idea di aiutare le persone a essere più consapevoli, dando loro gli strumenti necessari per prendere decisioni o intraprendere azioni, a seconda di specifiche condizioni. A questo proposito, attraverso il nostro framework, approfondiamo il tema dei feedback, sia dal punto di vista della tipologia che del contenuto. Soprattutto nel caso dei sistemi relativi alla tendenza del ‘Quantified Self’ condividiamo l’idea che l’individualizzazione dei servizi, tramite soluzioni più 6 Il modello concettuale è uno strumento molto efficace che permette al designer di sintetizzare in maniera descrittiva il funzionamento, il comportamento e il modo in cui l’artefatto o il sistema che si sta sviluppando, dovrebbe presentarsi alle persone. Quando le persone si trovano a interagire con nuovi ecosistemi di elementi connessi, è importante che l’immagine di sistema (l’aspetto di ogni elemento, le conoscenze pregresse, la comunicazione, il libretto delle istruzioni, ecc.) che esse percepiscono sia adeguata, completa e non contraddittoria. Una chiara comprensione dell’ecosistema, del rapporto tra gli elementi, delle possibili implicazioni dovute alla connessione a Internet e delle variabili di contesto, può favorire l’adozione dell’ecosistema e favorire, nel complesso, una esperienza positiva durante la fase d’uso.
Fig. 1. Rappresentazione grafica dei concetti di ecosistema e di oggetto come ‘avatar’. Kuniavsky (2010) afferma che un prodotto rappresenta solo la punta dell’iceberg del sistema al quale appartiene. Esso è la raffigurazione materiale dei servizi che, tramite la connessione a Internet, potenzialmente può offrire.
personalizzate che soddisfano specifiche esigenze e coinvolgono l’utilizzatore, contribuisca a rafforzare il rapporto tra la persona e il sistema. Infine, anche nel nostro framework facciamo riferimento alle opportunità di condivisione offerte dalle ICT; a seconda dei sistemi connessi, il grado di condivisione può variare e, potenzialmente, in alcuni casi potrebbe portare beneficio alla collettività. Gli elementi del framework sono stati ricondotti a due ordini principali, ossia, ‘intento’ e ‘strutturazione’ dell’ipotetico sistema da progettare. Come mostrato in figura, mediante diverse sfumature degli esagoni, lo schema evidenzia la frequenza con la quale ogni elemento ricorre all’interno dei casi studio, così, a questo proposito, distinguiamo tra due macro-categorie, quella degli elementi ‘trasversali’ e quella degli elementi ‘collaterali’. Gli elementi trasversali sono:
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• gli elementi appartengono a un ecosistema; • l’esperienza d’uso ‘frammentata’ su più elementi; • il linguaggio progettuale unitario; • l’oggetto / gli oggetti come rappresentazione fisica di un servizio; • la raccolta di grandi quantità di dati, potenzialmente, utile alla collettività; • l’invito al cambiamento di comportamenti. Gli elementi collaterali sono: • pochissimi controlli o feedback sull’oggetto fisico e funzionalità più complesse attraverso app per smartphone e tablet; • l’esempio di tecnologia calma; • il tentativo di ‘umanizzare’ le tecnologie emergenti; • il legame fortemente personale/personalizzato tra l’utilizzatore e il provider del servizio; • l’oggetto è un medium di connessione con l’esterno; • la forte componente emozionale; • l’approccio ludico alla raccolta/presentazione di dati. In fase di applicazione del framework per un nuovo processo progettuale, gli elementi trasversali richiedono una maggiore attenzione e considerazione, tuttavia precisiamo che non necessariamente gli elementi legati da una relazione diretta devono essere presi in considerazione congiuntamente. Ogni elemento può essere utilizzato dal designer indipendentemente dagli altri — fatta eccezione per gli elementi A e B, per i quali la relazione del secondo nei confronti del primo è di dipendenza — come driver per lo sviluppo del processo progettuale.
Fig. 2. Rappresentazione grafica del Framework emerso nella fase teorico/operativa della ricerca.
La ricerca sul campo Allo scopo di verificare i concetti raccolti nelle fasi iniziale e intermedia, e sperimentare il framework elaborato, la terza fase del lavoro è relativa allâ&#x20AC;&#x2122;esperienza di ricerca condotta sul campo. Lâ&#x20AC;&#x2122;esperienza diretta e sviluppata
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secondo l’approccio human-centred ha previsto due momenti: l’attività progettuale svolta nel settore dell’home appliances (nello specifico il progetto dipartimentale High Chest) considerando specifiche necessità e mirando verso obiettivi ben definiti e lo sviluppo di una indagine quanti-qualitativa condotta mediante la diffusione del questionario on-line “Design e tecnologie della connettività”. Il lavoro condotto nell’ambito del progetto High Chest ha permesso di restringere il campo d’indagine e di verificare in maniera pratica i temi precedentemente affrontati a livello teorico. Durante lo sviluppo del concept del chest freezer è stato possibile sperimentare alcuni degli elementi del nostro framework, in particolare gli elementi che appartengono a un ecosistema; l’esperienza d’uso ‘frammentata’ su più elementi; il linguaggio progettuale unitario. L’idea di concepire il progetto di artefatti connessi in maniera sistemica fa sì che l’interazione possa avvenire attraverso i vari elementi del sistema stesso. Si è considerata, ad esempio, l’ipotesi di frazionare l’interazione tra la parte fisica e quella digitale; gli utenti potrebbero beneficiare di tutte le funzionalità attraverso applicazioni per dispositivi mobili e, allo stesso tempo, il prodotto fisico, mediante un minimo grado di controllo, consentirebbe di svolgere le funzioni basilari e fornire feedback generali sullo stato del sistema e sulla presenza di eventuali anomalie. L’interfaccia fisica del chest consente di svolgere le operazioni essenziali, mentre la gestione delle funzioni più specifiche è demandata a un’interfaccia GUI per dispositivi mobili. Osservando l’interfaccia fisica, da sinistra a destra troviamo: gli elementi legati all’attività di inserimento prodotto (una volta scansionato il codice a
Fig. 3. Ipotesi di interfaccia fisica del chest freezer sviluppato per il progetto High Chest.
barre il LED dei livelli si illumina del colore relativo al livello nel quale va inserito il prodotto); il tasto di attivazione/disattivazione della funzione congelamento rapido; i tasti di remind (all’apertura del chest, qualora ci si accorga della mancanza di un prodotto specifico, premendo il tasto si invia un remind al sistema, che, tramite app, ci ricorda di inserirlo nella lista della spesa); il LED di stato generale del chest (bianco, quando è tutto regolare, rosso, quando vengono rilevate anomalie). Dall’altra parte, l’indagine quanti-qualitativa, Design e tecnologie della connettività, è stata elaborata in accordo col quadro teorico di riferimento iniziale e con quanto emerso nella fase intermedia, relativamente ai concetti di ‘visione sistemica’, ‘ esperienza complessiva’ e ‘intelligenza collettiva’. L’obiettivo di questa attività è riconducibile a tre elementi principali: raccogliere informazioni relative all’esperienza attuale delle persone nel loro contesto domestico; non solo individuare preferenze ma, anche,
Fig. 4. Rappresentazione grafica di alcuni risultati del questionario online Design e tecnologie della connettività. I risultati delle domande aperte sono stati organizzati mediante il metodo dei diagrammi di affinità.
stimolare il campione per sondare le possibili reazioni al tema della connettività; recepire possibili input, da utilizzare, successivamente, come ispirazione per l’attività meta-progettuale. L’indagine è stata strutturata attraverso domande a scelta multipla, domande che richiedevano la disposizione di affermazioni secondo l’ordine di importanza
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e due domande aperte. La natura ibrida di tale schema nasce principalmente dalla necessità di sondare le tematiche d’interesse e comprendere il punto di vista delle persone, piuttosto che trovare risposte a problemi già definiti. Dall’indagine è emerso, ad esempio, che il concetto di casa intelligente è ancora prevalentemente legato all’idea dell’automazione e associato ad applicazioni che si sostituiscono alla persona. È emerso che un oggetto connesso per soddisfare le aspettative dei partecipanti all’indagine dovrebbe essere principalmente legato a uno o più servizi che essi ritengono significativi; inoltre, è apparso il desiderio dei partecipanti di possedere oggetti connessi ‘capaci di esprimere’ chiaramente la propria intelligenza, per rendere più consapevole l’utilizzatore. Infine, è risultato che gli ambiti applicativi giudicati più interessanti sono quello dell’alimentazione, della cura della persona e dell’intrattenimento. Lo scenario meta-progettuale Linked-home La parte conclusiva del lavoro è stata finalizzata alla definizione dello scenario meta-progettuale Linked-Home, uno scenario DOS (Manzini e Jégou, 2006, p. 205), caratterizzato da visione, motivazione e alcune proposte. Le proposte presentate, che danno consistenza allo scenario, sono state declinate secondo le tre chiavi di lettura individuate precedentemente, ossia, quantificare la casa, quantificare gli abitanti e promuovere forme di connessione con l’esterno. Si è cercato, inoltre, di sintetizzare gli input derivanti dall’esperienza di ricerca sul campo e di utilizzare come riferimento il framework elaborato, impiegando come driver quanti più elementi possibile. Mediante
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la definizione dello scenario vorremmo evidenziare la figura strategica del designer all’interno del processo d’innovazione. Egli, grazie alla sua propensione a sintetizzare input e leggere opportunità, dovrebbe essere sia incline a trovare risposte e soluzioni a necessità manifeste, ma anche capace di porre domande e di interrogarsi su possibili futuri. La visione che caratterizza il nostro scenario si basa su alcune ipotesi, ad esempio: se l’ambiente domestico fosse concepito come un contenitore di oggetti e sistemi ‘arricchiti’ di intelligenza, capaci di comunicare tra di loro e con l’esterno, veicolando e amplificando la capacità comunicativa delle persone; se tali oggetti fossero concepiti più come degli assistenti, secondo una visione animista, piuttosto che come degli strumenti; se anche alcuni oggetti tradizionalmente non elettronici fossero degli ‘avatar’, concepiti secondo il concetto dell’ecosistema, a che tipo di sperimentazioni potrebbero condurre? Quale tipo di servizi si potrebbero ipotizzare e sviluppare? Le proposte — delle quali riportiamo qui un breve estratto —, che sono orientate allo sviluppo di nuovi artefatti e sistemi dal carattere sia utilitaristico che emozionale, si riferiscono a quattro ambiti principali: 1. favorire l’interazione con i sistemi connettivi. Intendendo il designer come un ‘traduttore’ della complessità; 2. l’intelligenza domestica come connettore con il territorio; 3. se gli oggetti della casa fossero ‘collegati’ tra loro e con l’esterno, cosa potremmo aggiungere all’esperienza domestica?
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4. un nuovo approccio alla gestione delle risorse alimentari per il benessere del singolo e della collettività. L’alimentazione rappresenta uno degli elementi centrali che concorrono a definire il benessere di una persona. La promozione di pratiche e sistemi che favoriscano il benessere e la salute, tramite lo sfruttamento delle tecnologie della connettività, può essere affrontato secondo varie prospettive. Oltre a prendere in considerazione lo sviluppo di dispositivi a sé stanti che agiscono a valle, è auspicabile ricercare spunti nel contesto, nelle azioni relative al consumo di cibo all’interno dell’ambito domestico (e non solo) e negli elementi coinvolti, facendo proprio il concetto di ecosistema, con l’obiettivo di mirare verso soluzioni globali. Considerando come driver il concetto di ecosistema del nostro framework, immaginiamo che: il congelatore, il frigo e la dispensa di una casa, arricchiti di sensori e di connettività, potrebbero costituire una piccola rete di ‘assistenti all’alimentazione’ e quindi fornire dati sui comportamenti e le abitudini alimentari di una famiglia. Nel lungo periodo la raccolta di dati sulle abitudini alimentari — quali cibi consumati con più frequenza, acquistati ma non consumati, marche preferite, ecc. — potrebbe essere utile alla famiglia per auto-monitorarsi e, allo stesso tempo, essere utile all’implementazione di una ‘mappa’, più o meno ampia, sull’alimentazione di una comunità (una residenza collettiva, una via, un quartiere, una città, ecc.). Ciò potrebbe funzionare a più livelli: a livello specifico potrebbe aiutare il medico di base a comprendere il contesto ambientale nel quale il membro (o i membri)
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Fig. 5. Rappresentazione grafica di una delle proposte che danno consistenza allo scenario Linked-Home. Un ecosistema di oggetti connessi può fungere da mezzo per il benessere dell’individuo e della famiglia.
della famiglia che ha in cura è inserito; a livello globale — in questo caso il driver estrapolato dal nostro framework è la raccolta di grandi quantità di dati è potenzialmente utile alla collettività — potrebbe restituire un quadro esaustivo sulle abitudini alimentari dei cittadini, secondo vari parametri come, ad esempio, l’area geografica d’appartenenza, la quantità e la tipologia dei membri che compongono la famiglia, ecc. I dati raccolti relativi alle quantità
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consumate (anche in base al numero dei familiari), e processati in base a parametri nutrizionali medi, potrebbero essere restituiti alle famiglie e servire da termine di paragone per valutare se stessi e le proprie abitudini ed, eventualmente, essere motivati a variarle oppure gratificati, se già sulla buona strada. Conclusioni “Il design è una disciplina, qualche volta un lavoro, mai una scienza”7. L’affermazione di Trabucco è emblematica, in quanto sottolinea la difficoltà nel circoscrivere metodi universalmente validi, tracciare linee guida perfettamente definite e nel ricondurre il design e la sua pratica a qualcosa che segue un’impostazione sistematica e perfettamente quantificabile. La ricerca presentata si propone di contribuire alla diffusione di conoscenza relativa all’ambito d’indagine e di evidenziare il ruolo del designer, nonché di definire alcuni strumenti per lo sviluppo di artefatti e sistemi che approfittino delle opportunità offerte dalle tecnologie della connettività. Nel complesso, riteniamo che la rilevanza scientifica del lavoro sia da ricercarsi nella volontà di offrire un contributo a una tematica attuale e relativamente ‘giovane’ pertinente all’attività progettuale. Il design ha allargato molto la propria area di attività, di studio e di influenza, così, siamo convinti che, soprattutto nel caso del design di prodotto, i contenuti proposti possono stimolare designer e ricercatori a una riflessione sull’identità stessa 7 Si tratta di un’affermazione che il Prof. Francesco Trabucco ha fatto durante un suo intervento al forum Design Matters, il primo forum italiano dei dottorati di ricerca in design, tenutosi a Treviso nel 2013.
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di questo ambito della disciplina, la quale si sta arricchendo di nuovi significati, dovuti alla convergenza tra mondo fisico e digitale, al rapporto con l’elettronica, ai contenuti immateriali, all’importanza del servizio. In qualità di designer non ci troviamo più soltanto a progettare il nuovo aspetto materiale di un artefatto, bensì a ipotizzarne comportamenti e possibili relazioni; relazioni tra artefatti e individui, tra individui e gruppi di individui dove gli artefatti fungono da mediatori, relazioni tra artefatti e reti di artefatti. Se da un lato l’innovatività dei temi affrontati, ha rappresentato un’opportunità, dall’altro si è rivelata un limite allo sviluppo di una ricerca che avremmo voluto fosse più pratica. È stato, infatti, necessario dedicare maggiori risorse all’organizzazione delle fasi teorica e teorico/ operativa, piuttosto che a quella applicativa, allo scopo di indagare e sistematizzare conoscenze, molto spesso proprie di altri ambiti disciplinari.
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siamo abituati ad associare allâ&#x20AC;&#x2122;ordine significati positivi e al disordine significati negativi. siamo abituati a pensare al limite come a una zona rischiosa, possibilmente da evitare. il limite è una zona rischiosa, ma inevitabilmente da ricercare. A.F. De Toni, 2013
Marco Marseglia ciclo XXVIII
Tutor Giuseppe Lotti
sostenibilità e progetto: metodi e strumenti per la progettazione di prodotti e/o servizi
Abstract I termini Design e Sostenibilità sono stati troppo spesso associati al mero re-design di un prodotto, applicando l’approccio progettuale relativo al cambio di materiale, lasciandone inalterate funzionalità e significato. Con questo, in alcuni casi, si è pensato che l’applicazione di determinati metodi e strumenti di natura analitica, come il Life Cycle Design e il Life Cycle Assessment, potessero essere strumenti guida per la progettazione di prodotti sostenibili. Questo ha portato a definire con il termine ecodesign prodotti ideati con materiali ritenuti sostenibili sminuendo contemporaneamente il concetto stesso di design inteso come flusso di progetto e modo di pensare. La complessità del progetto e delle questioni legate alla sostenibilità (ambientale, culturale, sociale) non possono essere risolte attraverso riduzionismi e approcci lineari, per questo vi è la necessità di adottare, soprattutto nelle prime fasi di progetto, metodi e strumenti che permettono al progettista di avere una visione allargata su tutti i domini di progetto mantenendo una tipologia di pensiero abduttiva e divergente. La ricerca individua una serie di metodi e strumenti da
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applicare nell’ambito della sostenibilità tenendo in considerazione tutto il flusso progettuale, dall’ideazione del concept al progetto finale. Introduzione Nell’Antropocene1 (Crutzen, Stoermer, 2000) l’umanità tutta si trova ad affrontare l’oramai difficile situazione di convivenza con il pianeta stesso, dettata dal modello di consumo di tipo capitalistico che poco tiene conto dei limiti del grande ecosistema di cui essa stessa è parte, che versa in uno stato di progressivo peggioramento. I limiti delle risorse del Pianeta (Meadows et al., 2004) e dell’attuale modello di consumo ci portano a ridefinire e mettere in discussione molte delle pratiche finora attuate. L’impegno della comunità scientifica nell’individuare delle possibili alternative e strade percorribili per il miglioramento dello stato di fatto e lo sforzo da parte dei governi di inserire politiche che vadano ad accelerare i processi di adozione e metabolizzazione di pratiche sostenibili da parte di aziende, società, istituzioni e cittadini, sono degli importanti indicatori circa la volontà di cambiamento e sviluppo qualitativo della collettività. Le dinamiche della crescita quantitativa a cui si è approcciato il modello di consumo dominante, hanno portato l’umanità a drammatiche conseguenze non solo dal punto di vista ambientale, ma anche da quello sociale, culturale ed economico. La vita però si caratterizza soprattutto I due scienziati definiscono con il termine Antropocene lo spazio temporale che va dalla metà del XVIII sec. fino ai giorni nostri; ovvero il periodo in cui gli effetti globali delle attività umane sono diventati chiaramente evidenti.
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per dimensioni che sono difficilmente misurabili come i valori, i bisogni, gli stili di vita, il tempo libero, la famiglia e in questi termini deve quindi mutare il nostro attuale modello culturale che ci vede incastrati in dinamiche strettamente connesse al modello di consumo dominante. Numerosi critici dell’attuale sistema capitalistico propongono alternative alla crescita di tipo materiale, attraverso l’applicazione di concetti come quello di decrescita (Latouche, 2007), di dopo-sviluppo, di crescita qualitativa2 (Capra, 2013), di crescita felice (Morace, 2015) e di economia della felicità (Kahneman, 2005), dove l’approccio quantitativo si sposta verso concetti di tipo qualitativo. I nuovi indicatori di benessere (Stieglitz et al., 2009) tentano strade che vanno al di là degli aspetti strettamente monetari, cercando di concepire il benessere come l’unione e l’equilibrio del capitale sociale, ambientale ed economico; in parallelo si tenta di sviluppare indicatori di tipo prettamente qualitativo con la finalità di indagare il benessere degli individui e della collettività. Allo stesso tempo le politiche europee (European Commission, 2010) propongono per il 2020 concetti come quello di crescita intelligente, inclusiva e sostenibile — promuovendo e sviluppando un’economia basata sulla conoscenza e sull’innovazione, più efficiente sotto il profilo delle risorse e ad
L’autore fa riferimento alla concezione sistemica delle vita emersa negli ultimi decenni; mettendo a confronto la scienza di Leonardo Da Vinci con quella di Galileo. Entrambe si concentravano sull’osservazione sistemica della natura, sul ragionamento e sulla matematica, ma, la prima era una scienza di forme organiche, di qualità, di modelli di organizzazione e di processi di trasformazione, la seconda si basava essenzialmente su aspetti meccanicistici. Con il concetto di crescita proposto dall’autore riprendono valenza gli aspetti soggettivi e di natura qualitativa.
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alto tasso di occupazione che al contempo favorisca sia la coesione sociale che territoriale. Dal punto di vista del consumo materiale la commissione europea si sta impegnando nell’uniformare le modalità di calcolo per le principali certificazioni ambientali (European Commission, 2013) al fine di rendere il consumatore più consapevole e responsabile nella fase di acquisto. Altre tipologie di etichette tentano di integrare gli aspetti di tipo sociale attraverso il riconoscimento dei diritti umani (Fairtrade International) e la mappatura di tutta la filiera produttiva (Social Footprint), compresi i lavoratori. Nuove economie, come la Circular Economy (European Commission, 2014), la Blue Economy (Pauli, 2009), si stanno sviluppando per favorire il miglioramento della condizione ambientale attuale e in ottica di una prospettiva futura che si distacca dai modelli produttivi dannosi per l’ecosistema. Prendono forza anche movimenti dal basso come quelli messi in atto dal Commons collaborativo (Rifkin, 2014), dall’economia distribuita e dalle comunità creative (Florida, 2006), che, attraverso il concetto di rete e interdipendenza, definiscono nuovi modelli di consumo che vanno oltre il mero possesso a favore dello scambio e del servizio. Parallelamente agli approcci del design orientato alla sostenibilità, che nella sua evoluzione agisce dal rimedio del danno al design strategico per la sostenibilità (Manzini, Vezzoli, 2001), emergono numerose altre strade promettenti per il progetto a loro volta legate alle dinamiche economiche, sociali e ambientali. In questo scenario in forte trasformazione l’attenzione del progetto non risiede più sugli aspetti materiali, ma sugli
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aspetti legati alla forma delle relazioni (Capra in Bistagnino, 2008). Se l’atto del progetto per sua natura è una dinamica complessa e non definibile in modo razionale (Simon, 1969; Schön, 1983; Buchanan, 1992), dal momento che l’orizzonte del progetto si sposta dall’oggetto materiale a tutte le interrelazioni tra gli attori, anche nella progettazione orientata alla sostenibiltà il flusso progettuale assume dinamiche ancora più complesse e difficilmente definibili. Quando ci si riferisce al design per la sostenibilità non è abbastanza chiaro quale sia il suo ruolo e soprattutto quali siano i suoi metodi ed i suoi strumenti. Se da un lato i metodi e gli strumenti progettuali come il Life Cycle Design3 (LCD) (Vezzoli, Manzini, 2007, p. 66) ed il Life Cycle Assessment4 (LCA) (Baldo et al., 2009, p. 61), che non nasce in ambito disciplinare, favoriscono un processo di tipo analitico, dall’altro nascondono la natura stessa del design che si dota di pensieri di tipo divergente (Lawson, 1980) e abduttivo (Buchanan, 1992). L’approccio al progetto nella complessità dei sistemi deve permettere una visione allargata su tutti i domini di progetto, senza rendere dominante (o unico) il pensiero di tipo razionale e analitico (Nelson, Stolterman, 2003). Progettare la sostenibilità necessita di un approccio sistemico 3 L’approccio progettuale denominato Life Cycle Design (LCD) si fonda sui seguenti principi: la minimizzazione delle risorse, la scelta di risorse e processi a ridotto impatto ambientale, la scelta di risorse non tossiche e nocive, l’ottimizzazione della vita dei prodotti, l’estensione della vita dei materiali, la facilitazione del disassemblaggio. 4 Il Life cycle Assessment viene definito dagli autori come un procedimento oggettivo di valutazione dei carichi energetici e ambientali relativi ad un processo o un’attività, effettuato attraverso l’identificazione dell’energia e dei materiali usati e dei rifiuti rilasciati nell’ambiente.
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che tenga in considerazione l’uomo, l’ambiente e tutte le interrelazioni che vi intercorrono. In questo contesto i metodi e gli strumenti da tenere in considerazione dovranno essere estremamente eterogenei ma tutti orientati a produrre un unico effetto. Metodologia e struttura della ricerca La ricerca nella prima parte ha affrontato un’analisi della letteratura sia per quanto riguarda il concetto di sviluppo sostenibile sia per tutte quelle trasformazioni in atto che mirano a un cambiamento dell’attuale sistema: dalle nuove misurazioni del benessere (oltre il PIL), ai nuovi modelli produttivi (circolari e in sinergia con il capitale naturale), alle politiche europee che, con Horizon 2020, mettono il concetto di sostenibilità al centro (benessere, sicurezza alimentare, energia sicura, pulita ed efficiente, trasporti intelligenti, verdi ed integrati; efficienza delle risorse e delle materie prime; società inclusive e innovative; società sicure). Inoltre sono state trattate alcune trasformazioni in atto nei modelli sociali che attraverso il commons collaborativo e il concetto di reti distribuite tentano una transizione verso nuovi modelli di consumo. Dal punto di vista del design, oltre a indagare i suoi orientamenti metodologici (Simon, 1969; Bonsiepe, 1975; Schön, 1983; Buchanan, 1992; Cross, 1993), è stata affrontata l’evoluzione degli approcci orientati alla sostenibilità fino ad arrivare all’introduzione dei metodi ritenuti promettenti riportando alcuni casi studio. Nella seconda parte è stata affrontata un’analisi dei
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metodi e degli strumenti per il progetto orientato alla sostenibilità che ha permesso la definizione di un quadro teorico e la comprensione di come questi favoriscono la fecondazione del flusso progettuale. L’applicazione di alcuni metodi e strumenti in due progetti di ricerca (LCA semplificata, workshop ed altre tecniche di analisi dell’utente, svolte in sinergia con altri ricercatori), ha permesso una validazione pratica. Nell’ultima parte è stata svolta una riflessione teorica in relazione alle transizioni descritte nella prima parte e ai metodi e gli strumenti analizzati nella secoda parte. Obiettivi La volontà della ricerca in primo luogo è stata quella di comprendere come l’approccio pratico al progetto possa essere integrato agli strumenti del design orientato alla sostenibilità; in secondo luogo si è voluto analizzare gli strumenti relativi agli approcci ritenuti promettenti al fine di creare una mappatura; infine, si è voluto valutare una possibile integrazione di detti strumenti per fornire al gruppo di progetto un pacchetto adattabile per rendere il sistema complesso in cui opera intellegibile. In sintesi, si è trattato di: • comprendere quali sono le trasformazioni in atto (non solo dal punto di vista progettuale, ma anche sociale e culturale); • definire un quadro degli attuali metodi e strumenti per la progettazione orientata alla sostenibilità; • definire un quadro delle strategie promettenti per la sostenibilità;
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• valutare possibili integrazioni in un pacchetto di strumenti più ampio (anche sulla base dei risultati e del processo progettuale avvenuto durante i progetti di ricerca). Risultati L’analisi dei metodi e degli strumenti si è concentrata su: • Life Cycle Design • Life Cycle Assessment • Life Cycle Costing • Cradle to Cradle • Biomimicry • Product Service System • Design Thinking • Innovazione Sociale • Design Behaviour (Loughborough Design School) I metodi e gli strumenti individuati dalla ricerca sono stati collocati in un’ipotetica rappresentazione di un flusso progettuale (fig. 1) al fine di comprendere possibili integrazioni tra questi e individuarne quindi di nuovi. Sia per quanto riguarda la definizione metodologica del concetto di ‘design’ che per quanto riguarda i metodi e gli strumenti elencati sopra, è stata definita una suddivisione in macro-aree in rapporto all’utilizzo che ne viene generalmente fatto: • metodi e strumenti per pensare, vedere e pre-vedere (qualitativi); • metodi e strumenti per valutare (qualitativi); • metodi e strumenti per misurare (quantitativi); • metodi e strumenti per far vedere (qualitativi). La denominazione delle macro-aree trae spunto dai
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Fig. 1. Design Process Squiggle: rappresentazione grafica di un ipotetico flusso progettuale (Newman, 2008).
concetti espressi da Zurlo (2014) relativi alle capacità dei progettisti di ‘vedere’, ‘pre-vedere’ e ‘far-vedere’ proprie del design strategico. Secondo l’autore le capacità relative al ‘vedere’ si nutrono del concetto di zooming e permettono ai progettisti di allontarsi e avvicinarsi ai problemi; le capacità relative al ‘pre-vedere’ fanno riferimento all’attitudine di anticipazione critica relativa a futuri scenari possibili; e infine il concetto relativo al ‘far-vedere’ si riferisce alle capacità di sintesi del progettista che, attraverso un’immagine (dallo schizzo alla visualizzazione 2D e 3D), riesce a comunicare il senso del progetto. Queste capacità espresse dall’autore sono comunque alla base delle prime definizione metodologiche relative al design (Simon, 1969; Schön, 1983; Buchanan, 1992; Cross, 1993) e si riferiscono ad un atteggiamento mentale proprio dei progettisti. Per questo le categorie individuate che fanno riferimento a questi concetti (Metodi e strumenti per far vedere e metodi e Strumenti per pensare/vedere/pre-Vedere) comprendono metodi e strumenti pratici e propri
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della pratica progettuale già dalle sue prime definizioni metodologiche, come ad esempio il brainstorming (Jones, 1970), mentre le altre due categorie (Metodi e strumenti per valutare qualitativamente e Metodi e strumenti per misurare quantitativamente) comprendono metodi e strumenti di natura analitica e specifica su determinati ambiti disciplinari. Tuttavia questa distinzione viene proposta per capire come i vari metodi e strumenti vanno a integrarsi e vengono adottati in un ipotetico processo progettuale; è infatti possibile che alcuni di questi appartengano a più fasi di un processo e, per conseguenza, alle diverse macro-aree qui proposte andandosi a integrare in modo sinergico. Una tavola di moodboard ad esempio può essere usata in una fase iniziale del processo progettuale, al fine di ipotizzare uno scenario tra il gruppo di progetto, ma può anche essere utilizzata come efficace strumento per la comunicazione con gli utenti e in generale con gli stakeholders, anche in una fase di workshop (sia con studenti ma anche con altri attori). Quindi, di base, è uno strumento qualitativo per ‘far vedere’, essendo generalmente considerato come una tavola grafica cartacea o digitale, ed è usato come strumento per ‘pensare’ all’interno del gruppo di progetto, ma può altresì essere utilizzato per valutazioni qualitative in un processo di co-design, ad esempio andando ad osservare le reazioni degli attori coinvolti. Il coinvolgimento e l’osservazione di gruppi esterni al team di progetto possono aver luogo in tutte le fasi del processo progettuale (Zingale in Vezzoli et al., 2014); quindi, uno strumento come il moodboard e, in generale, i
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Visual Tool vanno a catalizzarsi con i metodi e gli strumenti di ricerca etnografica. Allo stesso modo le mappe per valutare un servizio o un sistema possono essere svolte in diverse fasi del processo progettuale e risultano quindi utili sia per ‘pensare’, ipotizzando un primo concept, così come per valutare qualitativamente, definendo le connessioni esistenti tra le parti (Morelli et al., 2006; Vezzoli et al., 2014; Zeithaml, Bittner in Zurlo, 2015) e quindi altri approcci e soluzioni alternative. Molti dei metodi e strumenti per pensare, vedere e pre-vedere possono alternarsi a metodi per valutare qualitativamente. Per esempio un workshop può essere impostato su una questione specifica, ma può anche essere libero, dove il gruppo progettuale tenta di ricevere più informazioni possibili dagli attori coinvolti, come nel caso dell’innovazione sociale. Le macro-categorie proposte, vista anche la fase di transizione in atto analizzata (sociale-culturale-economica-produttiva), possono contenere metodi e strumenti estremamente eterogenei e adattabili in base alla complessità e al contesto affrontato dal gruppo progettuale. Metodi e Strumenti per pensare/vedere/pre-vedere In questa categoria rientrano metodi, strumenti e tecniche utilizzate a supporto soprattutto delle prime fasi di progetto e di quelle intermedie come, per esempio, la definizione degli obiettivi, il brainstorming, i casi studio relativi alle buone pratiche, le linee guida, la ricerca in generale, su letteratura, riviste e web. In questa macro-area si collocano metodi e strumenti che
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favoriscono un pensiero di tipo abduttivo (‘cosa potrebbe essere? ’ o ‘come potremmo risolvere questo problema?’) e che vanno quindi a scardinare le logiche di pensiero induttivo e deduttivo (Martin, 2006); si fa riferimento, per esempio, a tutti quegli strumenti che favoriscono una progettazione partecipata e orizzontale (Manzini, 2015), come i focus group e, in generale, i workshop collaborativi dove si verificano co-creazione e/o co-design (Rizzo, 2009). Questi due termini come evidenziano Sanders et al. (2008) non vanno intesi allo stesso modo: con la co-creazione si intende un qualsiasi atto di creatività collettiva, mentre per co-design il coinvolgimento di utenti nel processo di progettazione. Nello scenario contemporaneo nell’ambito progettuale il designer, come evidenzia Manzini (2014), può lavorare per migliorare un processo già iniziato di co-creazione tra più attori, ma può anche mettersi alla pari degli stessi, coinvolgendoli, in un processo di co-design. In generale in questa area vi possono rientrare alcuni strumenti che si basano sul concetto di Life Cycle Thinking, soprattutto quelli pensati per le prime fasi della progettazione come le linee guida Okala 2014 o il Cambridge Sustainability Toolkit o, ancora, le tavole di eco-idee dell’ICS Toolkit (Vezzoli et al., 2009). Tuttavia, le tavole di eco-idee, rispetto agli altri due strumenti, mancando di esempi di riferimento, risultano meno applicabili in una fase iniziale, anche se potrebbero essere utilizzate in sinergia con altre tipologie di strumenti come i database di materiali consutabili su web o con metodi per generare idee come il brainstorming.
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Nelle fasi iniziali di un progetto sono di fondamentale importanza il confronto e la discussione di esempi analoghi che hanno già avuto applicazione, piuttosto che l’utilizzo di strumenti specifici sul prodotto esistente o strumenti che focalizzano sui principi del ciclo di vita e che potrebbero quindi portare ad una convergenza del progetto in una fase prematura; quindi in termini di Life Cycle Design possono essere applicati strumenti specifici ma in combinazione con altri che consentono al gruppo progettuale di visualizzare esempi già realizzati (Lofthouse, 2004 e 2006). I metodi e gli strumenti che rientrano in questa macro-area fanno riferimento a una fase esplorativa del progetto dove; come evidenzia il manuale IDEO 2015, è necessaria e imprescindibile la fase di ricerca che può aver luogo su testi, pubblicazioni e riviste e per cui è necessaria la capacità di ‘vedere’ e ‘pre-vedere’ (Zurlo, 2014) tipica dei progettisti, ovvero la capacità di riuscire a cogliere semi di possibili sviluppi presenti nella quotidianità di ognuno, a partire dall’osservazione critica e personale da parte di ogni singolo componente del team progettuale. In generale questi metodi e strumenti sono utili per eseguire una diagnosi preliminare del problema (Murray et al., 2013) e generare le prime idee. Metodi e strumenti per valutare qualitativamente In termini ambientali le valutazioni qualitative possono essere svolte con strumenti come la Strategy Wheel (Brezet et al., 1997) e le varie checklist e matrici che si basano sul ciclo di vita del prodotto. Altri strumenti di natura qualitativa analizzati sono i database dove è possibile scandagliare una serie di materiali
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Fig. 2. I metodi e gli strumenti per â&#x20AC;&#x153;Pensare, Vedere e Prevedereâ&#x20AC;? inseriti nellâ&#x20AC;&#x2122;ipotetico flusso progettuale.
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dotati di particolari caratteristiche. Prendendo in esame l’approccio Cradle to Cradle (Mc Donough, Braungart, 2002), che tra i vari principi prevede la considerazione degli aspetti sociali, l’utilizzo dei database potrebbe essere finalizzato alla ricerca di materiali provenienti da aziende certificate che garantiscono il rispetto dei diritti umani (SA8000 o Faire Trade), oppure, relazionandosi al contesto in cui si svolge l’attività di progettazione, si possono utilizzare i database al fine di individuare i fornitori sulla base della distanza di approvvigionamento con l’obiettivo di ridurre il chilometraggio e quindi i consumi derivanti dai trasporti. Anche se di tipo qualitativo i metodi e gli strumenti che rientrano in questa macro-categoria, a differenza della precedente (che prevedeva pensieri di tipo divergente, possono essere ritenuti di tipo analitico a supporto di fasi che fanno convergere il focus progettuale su determinate caratteristiche del sistema osservato. Questo, come evidenzia anche Lawson, diviene fondamentale in un processo di progetto dove si alternano spesso pensieri divergenti e convergenti (Lawson, 2005). In questa macro-categoria rientrano le ricerche etnografiche, le matrici di priorità (IDEO, 2015), la task analysis di sistema. Tuttavia, questi strumenti, se utilizzati in relazione con gli altri, possono favorire tipologie di pensiero anche divergente soprattutto nelle fasi iniziali. La ricerca etnografica in una fase iniziale può essere libera e mirata a comprendere le problematiche di un determinato contesto, ad esempio attraverso l’intervista libera (IDEO, 2015).
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Metodi e Strumenti per far Vedere In generale questi strumenti possono essere usati in molteplici fasi del processo progettuale: nelle fasi iniziali internamente al gruppo di progetto per fissare e valutare i primi concetti (primi schizzi progettuali o prototipi cartacei) o, esternamente, al fine di far interloquire gli stakeholders attraverso metodi di co-progettazione, come ad esempio i Visual Tools for Social Conversation (schizzi, bozze e modelli, video, storyboard) (Manzini, 2015). Nelle prime fasi, questa tipologia di strumenti lascia spazio all’interpretazione e al dibattito favorendo uno scambio di conoscenza tra i partecipanti al processo di co-progettazione; nelle fasi intermedie possono essere più specifici e fare direttamente riferimento al concept (ad esempio un modello tridimensionale o un rendering); nelle ultime fasi come nel Product Service System possono essere definitivi e usati nella fase di comunicazione del progetto (come ad esempio lo storyboard, il video o la mappa definitiva di sistema). Come evidenzia Morelli (2006), con riferimento alla progettazione di un servizio, la mappatura di una rete di attori dà un quadro complessivo dei vari componenti del sistema, l’attenzione si concentra sui ruoli, sul raggruppamento e sulle relazioni. In questo caso diventa fondamentale in fase progettuale disporre di metodi e strumenti che permettano al gruppo di visualizzare attraverso mappature le possibili interrelazioni tra gli attori. Una mappa di sistema, per esempio, può essere utilizzata in varie fasi di un processo progettuale, dal concept al dettaglio finale di tutte le relazioni degli attori; a differenza di un moodboard, che si distingue per
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caratteristiche compositive più libere — si fa riferimento ad immagini di ispirazione, a parole chiave e concetti —, la mappa di sistema, essendo comunque uno strumento visuale ma tecnico, diventa uno strumento di valutazione di tipo più analitico. Può comunque essere usata nei processi di condivisione con gli stakeholders in una fase di progetto avanzata e anche preliminare, ma in un’ottica di convergenza del pensiero sul sistema stesso. Uno strumento tipicamente utilizzato per ‘far vedere’, sia nelle fasi intermedie che in quelle finali, è per esempio il modello, o prototipo, del prodotto o servizio, che può essere utilizzato sia internamente al gruppo di progetto come nei metodi di coinvolgimento degli utenti. Nel caso di visualizzazione di un prodotto si può far riferimento alla modellazione tridimensionale (come nel caso 5 di Solidworks Sustainability , che fornisce anche un feedback immediato circa la valutazione ambientale del prodotto) o a un modello fisico reale, mentre per un servizio ci si può riferire, per esempio, allo storyboard definitivo di sistema. A vari stadi della progettazione si inseriscono anche metodi per la valutazione del progetto che si servono di strumenti di raccolta dei feedback da parte degli utenti, facendo ‘vedere’, quindi testare e valutare, le idee o il concept a un ampio ventaglio di utenza.
5 Solidworks Sustainability è un software di modellazione tridimensionale che permette di eseguire LCA semplificate durante le fasi di progettazione. Per approfondimenti: http: //www. solidworks. it/sustainability/ (ultima consultazione: 20/11/2015)
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Fig. 3. I metodi e gli strumenti per â&#x20AC;&#x153;valutare qualitativamenteâ&#x20AC;? inseriti nellâ&#x20AC;&#x2122;ipotetico flusso progettuale.
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Metodi e strumenti per misurare quantitativamente In questa categoria si collocano gli strumenti per eseguire Life Cycle Assessment (LCA), che tuttavia necessita comunque di una base definita distinta; quindi o il concept è già definito nelle sue parti (materiali, peso, tecniche produttive, ecc.) o l’azione progettuale che si sta definendo deve considerare come prima fase la valutazione di un prodotto esistente (da comparare in un secondo momento con il concept). In quest’ultimo caso la LCA può essere eseguita nella primissima fase al fine di valutare le fasi del ciclo di vita che causano gli impatti più significativi. Tuttavia, essendo una pratica basata sull’aspetto della funzione che il prodotto fornisce, può rendere difficile la comparazione fra due prodotti che hanno funzioni differenti, anche se questa differenza consiste solo in una o due specifiche del prodotto (Millet et al., 2005). Questo comporta, per esempio nell’ideazione di un nuovo concept, un vincolo funzionale, ovvero, partendo da una LCA per un nuovo prodotto si rischia che vengano omesse delle alternative, come una maggiore efficienza di comportamento dell’utente nella fase di uso o la fornitura di servizi aggiuntivi che l’azienda produttrice potrebbe fornire oltre il concetto di prodotto (Vezzoli et al., 2007). È per questo che nel flusso progettuale questa tipologia di strumenti si colloca in fasi determinate e circoscritte (Millet et al., 2005), poiché i risultati derivati dal loro utilizzo rispondono a questioni specifiche e non sono quindi di supporto all’ideazione o all’ispirazione e si caratterizzano per essere convergenti verso un unico pensiero progettuale divenendo di conseguenza dei fattori limitanti piuttosto che
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Fig. 4. I metodi e gli strumenti per â&#x20AC;&#x153;far vedereâ&#x20AC;? inseriti nellâ&#x20AC;&#x2122;ipotetico flusso progettuale.
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parte del processo di progettazione (Deutz et al., 2013). Altre tipologie di strumenti per valutare quantitavimente un progetto sono quelle che fanno riferimento alla definizione delle risorse economiche disponibili e future dove divengono importanti come la ricerca di finanziamenti, di incubatori di impresa, di investitori. Questo dimostra l’estrema eterogeneità dei metodi e degli strumenti analizzati dalla ricerca. Anche se non approfonditamente analizzato, è da inserire in questa tipologia di strumenti il Life Cycle Costing (LCC), che si occupa della stima monetaria di tutte le fasi della vita di un bene o servizio (Sala, Castellani, 2011). Ipotetico processo progettuale La ricerca, al fine di visulizzare i risultati, ha adottato la rappresentazione del processo progettuale ideata da Newman (2008) denominata design process squiggle (fig. 1). La design process squiggle è stata concepita dall’autore per far comprendere il processo di progettazione a un proprio cliente. Lo ‘scarabocchio’ viene accompagnato dalla descrizione delle diverse parti che lo compongono e si susseguono: ricerca, concept e prototipazione, progetto finale. Sostanzialmente questa suddivisione può essere associata al concetto di ‘macro-struttura’ teorizzato da Bonsiepe (1975), associando alla fase iniziale la strutturazione del problema (ricerca), alla fase intermedia, quella progettuale (concept e prototipazione) e, alla fase finale, quella della realizzazione del progetto (progetto finale). Nella parte superiore dell’illustrazione vengono associati degli attributi alle due macro-fasi del processo: la prima
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fase, descritta come fuzziness (fase nebulosa), è caratterizzata da incertezza, schemi, idee; la seconda, dove il processo si avvia verso la definizione del progetto, si distingue per chiarezza e definizione dei concetti. Questa tipologia di processo, caratterizzata da una prima fase nebulosa, vaga e non ben definibile, e dal passaggio convergente verso la soluzione finale, viene descritta anche da altri autori come Sanders (2008). L’autrice evidenzia la crescente enfasi che viene attribuita alla prima parte del processo di progetto, oggi definito front-end, precedentemente pre-design. In questa fase esplorativa, si svolgono numerose attività finalizzate a informare e ispirare il progetto attraverso domande di tipo aperto: “come possiamo migliorare la qualità della vita delle persone affette da malattie croniche?” o “qual è il prossimo grande passo da effettuare per migliorare la qualità del tempo libero nella famiglia?” (Sanders et al., 2008). Secondo Sanders, nella natura caotica della fase front-end spesso non è noto se il risultato finale del processo di progettazione sarà un prodotto, un servizio, un’interfaccia, un edificio. Come accennato precedentemente si caratterizza quindi per essere una fase di tipo divergente, contraddistinta dal fattore dell’incertezza e della complessità. Il processo del progetto è sempre indefinito e oscilla tra scelte giuste e sbagliate, dove spesso il sapere a cui si attinge esiste e nello stesso tempo si genera attraverso l’azione. Si tratta di un percorso ridondante in quanto il problema di design è spesso mal definito (Buchanan, 1992; Zurlo, 2014). Nel modello proposto da Senders successivamente alla fase di fuzziness segue la fase convergente, dove vengono individuate le prime idee e
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Fig. 5. I metodi e gli strumenti per “misurare quantitativamente” inseriti nell’ipotetico flusso progettuale.
il concept fino ad arrivare alla prototipazione e al progetto definitivo. Una rappresentazione similare relativa al processo progettuale è quella definita a doppio diamante dal Design Council (2005). Il modello a doppio diamante si distingue in quattro fasi: scoperta, definizione, sviluppo e
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esecuzione. Secondo questo modello la prima fase di scoperta caratterizza l’inizio del progetto ed comincia con un’idea o un’ispirazione data da una fase di scoperta e connotata dall’identificazione dei bisogni (include la ricerca di mercato, la ricerca sugli utenti, la gestione dell’informazione e i gruppi di ricerca in design). La seconda fase rappresenta uno stadio in cui si raggiunge l’allineamento tra bisogni e mercato (sviluppo, gestione e definizione del progetto). La terza fase definisce lo sviluppo delle soluzioni (lavoro multidisciplinare, metodi di sviluppo e test). L’ultima fase, quella esecutiva, si caratterizza per test finali, approvazioni e lancio del prodotto o servizio oltre alla raccolta dei successivi feedback per comprendere quanto il nuovo design venga apprezzato dagli utenti finali. Metodi e strumenti nel flusso progettuale Gli strumenti analizzati, inseriti in un flusso progettuale, rappresentano, in un certo senso, l’estrema complessità che un gruppo di progetto si trova a affrontare (figg. 2-5). Si vuole sottolineare che nel flusso sono stati inseriti la maggior parte degli strumenti analizzati e che questi, per alcuni degli approcci considerati, sono i medesimi. Il brainstorming, per esempio, è una fase che avviene nella maggior parte delle attività di design; già nel testo di Jones (1970) vengono riportati esempi di brainstorming per la risoluzione dei problemi progettuali attraverso analogie. Allo stesso modo lo storyboard è una tecnica che sulla base degli approcci analizzati viene utilizzata sia nel Product Service System (PSS), che in alcuni processi di innovazione sociale.
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Gli strumenti presi in analisi sono stati posizionati in delle macro-aree colorate che rappresentano le categorie sopra descritte e delimitano i loro ipotetici confini e i relativi punti di connessione con le altre macro-categorie. Metodi e strumenti applicati nei progetti di ricerca HIGH-CHEST e TRIACA Alcuni degli strumenti analizzato sono stati applicati in due progetti di ricerca promossi dal Dipartimento di Architettura — DIDA6 dell’Università degli Studi di Firenze. Per entrambi i progetti il gruppo ha lavorato su tre livelli: a) sostenibilità: valutazione esperta secondo i principi del Life Cycle Design, Life Cycle Assessment (semplificata) dell’esistente e del concept di prodotto innovativo (analisi comparativa); b) ergonomia: valutazione esperta e prove con utenti muovendo dalle basi teoriche e metodologiche dell’User-Centered Design; c) design di prodotto e dell’interfaccia, con particolare attenzione all’innovazione formale e all’usabilità in termini di risparmio dei consumi e di riduzione degli sprechi legati al cibo. Per entrambi i progetti di ricerca sono stati svolti workshop con studenti coordinati dai ricercatori e dai docenti applicando alcuni strumenti propri del Design Thinking (IDEO 2015) come il brainstorming e il moodboard.
6 Prof. Giuseppe Lotti (responsabile scientifico per High Chest), prof. Vincenzo Alessandro Legnante, prof.ssa Francesca Tosi (responsabile scientifico per TRIACA), dott.ssa Alessia Brischetto, dott.ssa Irene Bruni, dott. Daniele Busciantella Ricci (solo per High Chest), dott.ssa Daniela Ciampoli, dott. Marco Mancini e dott. Marco Marseglia.
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Fig. 6. Concept HIGH CHEST Whirlpool Europe. Congelatore orizzontale ad elevate prestazioni ambientali.
HIGH CHEST7 (Whirlpool Europe srl) Lo scopo del progetto POR CreO-FP7 HIGH-CHEST sviluppato con Whirlpool Europe era di sviluppare una nuova famiglia di congelatori orizzontali innovativi in termini di sostenibilità ambientale, efficienza energetica e sviluppo di comportamenti eco-efficienti. Sono stati apportati miglioramenti nella fase d’uso sia attraverso un miglioramento dell’accessibilità al prodotto, sia attraverso la progettazione di un’interfaccia che aiuta a gestire lo stoccaggio e il prelievo del cibo, oltre a stimolare 7 Soggetto capofila: Whirlpool Europe S. r. l. Partners: KW Apparecchi Scientifici S. r. l., Cassioli S. r. l., Zapet S. r. l. — Organismi di ricerca coinvolti: Consorzio Interuniversitario Nazionale per la Scienza e Tecnologia dei Materiali (INSTM), Consorzio Polo Tecnologico Magona, Dipartimento di Architettura (DIDA) — Università di Firenze, Dipartimento di Energetica “Sergio Stecco” (DIEF) — Università di Firenze, Istituto di BioRobotica — Scuola Superiore Sant’Anna.
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comportamenti ecoefficienti. Inoltre, è stato riprogettato il ciclo termidinamico al fine di permettere attraverso dei sensori l’autoregolazione dei compressori e quindi una riduzione dei consumi energetici. Per quanto riguarda i materiali e le fasi di approvigionamento e produzione, attraverso l’applicazione di una LCA semplificata è stato possibile andare a valutare e selezionare materiali meno impattanti come il materiale isolante (PUR da fonti rinnovabili) e tutte le materie plastiche (PET da riciclo). L’analisi comparativa condotta tra il vecchio modello prodotto dall’azienda ed il concept HIGH-CHEST ha permesso una riduzione degli impatti del 12% in termini di emissioni di KgCO2 eq e di consumi di Kwh. 8
TRIACA (Trigano Spa) Lo scopo del progetto POR CreO-FP7 TRIACA condotto con Trigano Spa era di sviluppare un nuovo camper con ridotti consumi ambientali nella fase di utilizzo e rispetto ai materiali impiegati. La tipologia di prodotto su cui si è focalizzata la ricerca ha riguardato un camper super compatto lungo meno di sei metri. Sono stati apportati dei miglioramenti: nella fase d’uso (attraverso la progettazione di un’interfaccia per monitorare i consumi e la gestione domotica delle funzionalità), nel peso del veicolo (alleggerendo la scocca grazie all’impiego della fibra di basalto, 8 Soggetto capofila Trigano Spa — Partners: Espansi Tecnici Srl, Dielectrick Srl — Organismi di ricerca coinvolti: Dipartimento di Architettura (DIDA), Università di Firenze, Consorzio Polo Tecnologico Magona, Dipartimento di Scienze Sociali Politiche e Cognitive — DISPOC dell’Università di Siena, CUBIT — Consortium Ubiquitos Technologies.
Fig. 7. Concept TRIACA Trigano Spa. Camper compatto a ridotti consumi ambientali.
in sostituzione alla fibra di vetro, e alla parziale eliminazione del legno nella scocca e nel pavimento), per i materiali impiegati (nello specifico resina naturale per la pavimentazione, imbottiti in schiuma a base di polioli da fonti rinnovabili e strutture in polimerci da riciclo in sostituzione del legno di abete). La progettazione dell’interfaccia permette all’utente un costante controllo dei consumi del veicolo inducendolo ad adottare comportamenti più sostenibili e quindi riducendo gli sprechi. Il concetto dell’open space permette una facile fruizione degli spazi anche in dimensioni contenute. Generalmente nei camper tradizionali la disposizione della dinette è situata come elemento di rottura tra l’area anteriore e l’area posteriore, occupando anche visivamente lo spazio. Inoltre sono state introdotte importanti innovazioni nell’area cucina inserendo piastre a induzione removibili per permettere, oltre a un migliore impiego degli spazi interni, anche la possibilità di cucinare all’aperto.
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Sulla base dei metodi e degli strumenti utilizzati durante i progetti di ricerca si riporta il flusso progettuale (fig. 8) sviluppato. Il flusso fa riferimento a entrambi i progetti, visto che i metodi e gli strumenti impiegati sono stati gli stessi. I risultati scaturiti dai progetti di ricerca derivano dal contributo e dalla necessaria interazione delle diverse discipline e dei relativi attori all’interno del flusso di progetto. Questa condizione di continuo scambio di saperi, informazioni, considerazioni, dati e risultati viene evidenziata nello schema dal sovrapporsi delle macroaree. Con la sola osservazione di queste, posizionate nelle relative fasi del progetto, si evince quindi quanto sia imprescindibile e allo stesso tempo auspicabile la relazione e la connessione tra i partecipanti al progetto. Le sovrapposizioni, in particolare, mostrano i metodi e gli strumenti per cui è risultato opportuno lo scambio di conoscenze e competenze tra gli attori che, a seconda dell’ambito disciplinare di appartenenza o, in generale, in base alla tipologia di apporto richiesto dal progetto, hanno fornito suggerimenti, informazioni, dati e risultati. I punti favoriscono l’individuazione dei metodi e degli strumenti in funzione del loro posizionamento all’interno della macro-area di appartenenza. La prima parte della squiggle si divide in due fasi, quella di ricerca e quella di ‘concept/prototipi’, entrambe caratterizzate da ‘incertezza/modelli/intuizioni’. È qui che è possibile osservare l’apporto più numeroso di contributi provenienti dai diversi attori e la notevole quantità di sovrapposizioni tra le macro-aree. La seconda parte della squiggle è descritta come fase di
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Fig. 8. I metodi e gli strumenti utilizzati nel progetto Triaca e High Chest.
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‘chiarezza/focus’, qui si definisce il progetto finale. Anche in questo caso le macro-aree si sovrappongono andando però a convergere verso il risultato ultimo (‘design’). L’elenco dei metodi e degli strumenti utilizzati in entrambi i progetti di ricerca viene riportato a seguire; attraverso le connessioni tra le varie voci e i punti dello schema è possibile vedere come i metodi e gli strumenti sono stati condivisi dagli attori del progetto. Di seguito si riporta una lettura dettagliata dello schema che fa riferimento nello specifico alle azioni compiute dal gruppo di ricerca del Dipartimento di Architettura — DIDA. Fase Ricerca (Prima parte) Nella fase di ricerca è stata effettuata la visita presso le aziende e gli stabilimenti produttivi; le osservazioni scaturite sono state elaborate e riportate durante una successiva riunione tra gli organismi di ricerca (dove sono state presentate inoltre le singole competenze); per supportare l’esposizione delle osservazioni dei partecipanti sono stati utilizzati strumenti di presentazione digitale (area puntinata-grigia). Sono state eseguite delle valutazioni esperte muovendo dalle basi dello UCD e analisi di benchmark, i cui risultati hanno fornito informazioni necessarie alla fase di ricerca così come la valutazione ambientale preliminare alla LCA dei prodotti esistenti eseguita attraverso una distinta base del prodotto (area tratteggiata). Nelle prime fasi è avvenuto internamente un primo brainstorming tra il gruppo di ricerca (docenti e ricercatori), dove sono state generalizzate alcune idee anche attraverso l’utilizzo di schizzi, sulla base delle considerazioni
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scaturite dalle analisi svolte precedentemente (area puntinata-grigia). In questa prima fase sono avvenuti più incontri tra gli organismi di ricerca e le aziende, dove ognuno ha apportato il proprio contribuito sulla base degli obiettivi stabiliti. Fase concept/prototipi (Prima parte) Al termine della prima fase di analisi delimitata nello squiggle dalla sovrapposizione delle aree tratteggiate, puntinate e grigie si è proceduto con l’organizzazione di un workshop con studenti (incrocio e passaggio tra le due aree puntinate e l’area tratteggiata) e parallelamente è stata condotta l’analisi LCA semplificata sul prodotto esistente (area quadrettata) e le prove con utenti (osservazione nel contesto d’uso del prodotto e interviste, area tratteggiata). Con gli studenti partecipanti al workshop sono stati utilizzati più metodi e strumenti come brainstorming, moodboard, schizzi, bozze e disegni, sistemi e software di visualizzazione 2D (Cad) e 3D (Rhinoceros e 3DS max), database di materiali (Matrec), con i quali si è lavorato dalla generazione di idee fino ai modelli tridimensionali finali. Al termine del workshop è stata fatta una presentazione all’azienda per valutare i concept più interessanti. Successivamente, il gruppo composto dai docenti e dai ricercatori, oltre che dagli studenti selezionati, ha eseguito una seconda fase di brainstorming, in questo caso di sintesi e convergenza, al fine di delineare e definire il concept finale (area puntinata). Si sono tenuti una serie di incontri con gli altri istituiti di ricerca per far convergere il concept definitivo con tutti gli altri contributi.
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Fase concept/prototipi (Seconda parte) Nella fase finale di ideazione e definizione del concept si è proceduto lavorando in sinergia con gli altri enti di ricerca e le aziende per definire la parte grafica e di funzionamento delle interfacce (nello specifico con Dielectrik per il camper e con l’Istituto di Robotica Sant’Anna per il congelatore) e la forma dei prodotti e dei materiali. In questa fase, il gruppo di lavoro si è dotato di software per la rappresentazione vettoriale, per il montaggio video (relativo all’interfaccia), per la rappresentazione tridimensionale (Rhinoceros e 3DS max). Parallelamente alla definizione del concept finale sono state fatte delle valutazioni antropometriche. Fase di design Definito il concept e i relativi materiali si è proceduto alla realizzazione del modello 3D e del rendering definitivo, che sono stati uccessivamente passati all’azienda la quale ha provveduto alla fase di ingegnerizzazione (nel caso del progetto TRIACA, lo studente selezionato dal workshop, Andrea Martelli, ha lavorato, attraverso una forma di stage retribuito, direttamente in azienda al fine di portare a termine il prototipo. Area puntinata-grigia — vedi grafico. Sulla base del LCA condotto sul modello precedente è stato eseguito un LCA al fine di comparare gli impatti tra il modello vecchio e quello nuovo (area quadrettata). Nella fase successiva alla realizzazione dei modelli, le aziende, in collaborazione con tutti gli enti di ricerca hanno organizzato eventi al fine di diffondere i risultati ottenuti. Nello specifico sono stati organizzati due convegni presso il Design Campus nell’ambito di Design Stories, e
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Trigano ha inoltre partecipato a fiere di settore (Parma e Düsseldorf, area grigia). Discussione Il posizionamento dei singoli strumenti lungo la squiggle non rappresenta una distinzione univoca; la possibilità di movimento e interazione tra metodi e strumenti è determinata dall’area campita e anche dalla tipologia di progetto che ci troviamo ad affrontare (prodotto/servizio/sistema). Se si considera il progetto come un artefatto cognitivo, complesso (Maffei, 2010) non prevedibile in modo razionale, sempre in costante mutazione e in scambio di informazione tra gli attori, lo stesso processo qui rappresentato e i relativi metodi e strumenti su esso situati potranno assumere una serie pressoché infinita di forme e modificazioni derivate dalla comunicazione tra gli elementi interni al processo (gruppo di progetto) e quelli esterni (coinvolgimento di altri attori). Una mappa di sistema (area grigia) può andare a stabilire interazioni con uno strumento di valutazione qualitativa per esempio lo SDO ICS Toolkit (area tratteggiata) e a sua volta con uno strumento di LCA (area quadrettata). Allo stesso modo una mappa di sistema può andare a interagire con i metodi e gli strumenti per pensare (area puntinata) come in un workshop in cui possono essere utilizzati altri metodi e strumenti come, fra gli altri, i principi del Cradle to Cradle o della Biomimicry. La stessa mappa di sistema può essere utilizzata come base per la strutturazione di una task analysis o per favorire un processo di brainstorming internamente o esternamente al gruppo di progetto. Quindi si può ritenere che ogni macro-area di azione
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influenza l’altra in un continuo scambio di interazioni e conoscenza e il processo del progetto assume quindi forme altamente complesse dove i confini delle singole aree non dividono i metodi e gli strumenti ma piuttosto li mettono in relazione gli uni agli altri generando una forma di organizzazione. Ogni frontiera, oltre che barriera […] è il luogo dello scambio e della comunicazione. È il luogo della dissociazione e dell’associazione, della separazione e dell’articolazione. È il filtro che insieme respinge e lascia passare. È ciò attraverso cui si stabiliscono le correnti osmotiche e che impedisce l’omogeneizzazione. (Morin, 1977)
In questo senso si possono definire le varie aree che si sovrappongono come dei punti di edge effect, ovvero quella tendenza riscontrata dai biologi in grandi varietà e densità di organismi che si ammassano lungo i confini tra comunità diverse (Thackara, 2005). Il concetto di edge effect è strettamente correlato al concetto di complessità e più nello specifico alla teoria degli edge of chaos9, che risiedono tra ordine e disordine. Siamo abituati a pensare all’ordine e siamo abituati a pensare al disordine. Ma non siamo abituati a pensare all’ordine e al disordine insieme. Siamo abituati ad associare all’ordine significati positivi e al disordine significati negativi. Siamo abituati a pensare al limite come a una zona rischiosa, possibilmente da evitare. Il limite è una zona rischiosa, ma inevitabilmente da ricercare. I sistemi naturali si trovano in una situazione di ordine dinamico, che non è né l’ordine immutabile e statico, né il disordine incontrollabile e potenzialmente pericoloso del caos. (De Toni, 2013) Il concetto degli edge of chaos è stato concepito da Chris Langton, fisico dell’Istituto di Santa Fe; per approfondimenti: De Toni, 2013.
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I sistemi naturali generano se stessi in un continuo scambio di relazioni tra i vari componenti del sistema mantenendolo in equilibrio (Capra in Pisani, 2007). Per analogia le aree rappresentate sui flussi progettuali permettono ai singoli strumenti di muoversi nei limiti dei confini, andando quindi a stabilire contatti con altri metodi e strumenti, generando e ri-generando, quindi, il flusso stesso del progetto. L’idea di caos […] si accompagna al ribollire, al fiammeggiare, alla turbolenza. Il caos è un’idea preesistente alla distinzione, alla separazione, all’opposizione, un’idea dunque di indistinzione, di confusione fra potenza distruttrice e potenza creatrice, fra ordine e disordine, fra disintegrazione e organizzazione, fra Hybris e Dike. Diventa allora manifesto che la cosmogenesi si effettua nel e tramite il caos. Caos è esattamente ciò che è inseparabile nel fenomeno bifronte tramite il quale l’Universo, contemporaneamente, si disintegra e si organizza, si disperde e si costituisce attorno a molti nuclei. […] Il caos è la disintegrazione organizzatrice. (Morin in De Toni, 2013)
Il progetto nella complessità dei sistemi e delle questioni che si trova ad affrontare (ambientali, sociali, culturali, economiche) è una dinamica che prospera ai margini del caos, nelle connessioni tra i vari ambiti disciplinari, nel dialogo tra i vari strumenti e gli stessi attori che partecipano al progetto. Conclusioni In un mondo dalle risorse limitate, diviene necessario concepire ed approcciarsi ad una tipologia di crescita diversa (non solo economica e quantitativa); l’obiettivo è quello di intendere le qualità del sistema complesso
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Fig. 9. Aree di relazione tra metodi e strumenti di diversa natura.
in cui viviamo non come semplice somma delle sue parti ma come un sistema di interrelazioni complesse, dove le qualità derivano dalle relazioni e interrelazioni tra i componenti del sistema stesso (Capra 2013). Si può ritenere quindi che la necessità è quella di andare a compiere un atto progettuale che vada a incidere in modo significativo sui modelli di consumo e sugli stili di vita. La complessità dei sistemi in cui viviamo e le relative problematiche dovute agli attuali modelli di consumo portano a una ridefinizione dell’atto progettuale stesso che necessita di una visione di tipo sistemico e quindi strategico, andando a interconnettere le varie aree disciplinari per poter progettare non solo prodotti ambientalmente preferibili, ma anche prodotti e sistemi socialmente e culturalmente sostenibili. La sfida della sostenibilità, e al contempo quella della complessità dei sistemi in cui ci troviamo a dover progettare, comporta la necessità di mantenere, soprattutto nelle fasi iniziali di progetto, una tipologia di pensiero divergente e abduttivo, al fine di andare a comprendere prima
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e interrelare poi, tutte le possibili connessioni tra le parti e gli attori della realtà che ci troviamo ad affrontare. Dalla ricerca emerge come non sia più possibile approcciarsi alla progettazione orientata alla sostenibilità attraverso la sola applicazione di strumenti per la riduzione del danno, come ad esempio il Life Cycle Design o il Life Cycle Assessment; a limite questi vanno interrelati con altre tipologie di strumenti. Con questo non si intende dire che nella progettazione orientata alla sostenibilità non vi debbano essere strumenti di valutazione analitica, bensì che questi non debbano andare ad assumere una posizione dominante e prevalere quindi sul pensiero di tipo abduttivo. La loro applicazione, di tipo analitico, è contraddittoria al concetto stesso di progetto che, soprattutto nelle fasi iniziali, deve dotarsi di un pensiero divergente volto all’individuazione e alla risoluzione dei cosiddetti wicked problem (Buchanan, 1992). Già dalle prime teorie relative al design, che tentavano di definire una base metodologica per la disciplina, venivano considerati metodi e tecniche non solo di tipo analitico, ma anche di tipo divergente e creativo come ad esempio il brainstorming (Jones, 1970). Anche Simon (1969), con il suo concetto di razionalità limitata, riteneva il progetto non come una semplice somma delle componenti, ma come un’aggregazione appropriata delle stesse. Con il più recente contributo di Schön (1993), relativo alla pratica ‘riflessiva’, il design assume un’ottica fenomenologica (Bertola, 2004), dove la teoria e la prassi si nutrono in modo reciproco. Il processo di design diviene quindi un artefatto cognitivo
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complesso (Maffei, 2010), dove il sapere a cui ci si riferisce in parte esiste e in parte si genera, in un continuo scambio di interrelazioni tra gli attori che partecipano al progetto e ai relativi strumenti usati e dallo stesso generati. Il progetto non è più un atto distintivo e univoco (Pizzocaro in Bertola et al., 2004), ma è appunto l’insieme di più attori che partecipano a un’attività orientata a uno scopo. Riprendendo la teoria di Simon, che paragonava il percorso del progettista a quello delle formiche, le quali per tornare a casa adattano il proprio percorso in base agli ostacoli che incontrano, nello scenario contemporaneo del progetto si può ritenere che queste formiche siano diventate molte e che quindi non solo si adattano agli ostacoli, ma, nell’adattarsi, si scambiano le informazioni andando a fecondare in modo continuo il flusso del progetto. In questo senso risulta particolarmente interessante andare a indagare l’integrazione e la relazione di metodi e strumenti di tipo quantitativo con metodi e strumenti di tipo qualitativo. Bisogna quindi riferirirsi più che ad un singolo strumento, che rischia di accecare le capacità visive e intuitive tipiche dei progettisti, a una serie di metodi e strumenti da usare in modo simultaneo per raggiungere lo stesso effetto, e, in particolare, a tutto il flusso progettuale in modo da poter mappare la realtà complessa in cui si cala l’atto di design. L’eclissi dell’oggetto (Findeli, 2005), come centro del progetto, sposta l’attenzione dalla materia ai processi, agli attori del sistema e alle loro interazioni e, conseguentemente, il progetto assume forme complesse dove i fattori da tenere in considerazione si moltiplicano. Nello specifico la ricerca individua una serie di metodi e
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strumenti da applicare nell’ambito della sostenibilità nella sua accezione più ampia e definisce un ipotetico flusso di progetto dove questi vanno ad integrarsi e a generare al contempo delle possibili aree di relazione, che, nella teoria della complessità, sono più specificatamente definite come edge of chaos (Langton in De Toni) o aree di confine. Nella teoria della complessità queste interazioni rappresentano i punti dove le diverse teorie e discipline non si respingono, ma si attraggono mutando dall’ordine al disordine, che, attraverso le interrelazioni, porta conseguentemente all’organizzazione (Morin, 1988). Queste aree di interazione tra elementi di diversa natura, secondo la teoria della complessità, sono le zone in cui anche nei sistemi biologici si genera il maggior grado di creatività (Capra in Pisani, 2007). Per questo la ricerca ritiene che vi sia la necessità di indagare più a fondo sulle interrelazioni tra questi strumenti e, con la speranza che la ricerca sia di utilità all’autore, ma anche ad altri ricercatori, per comprendere come potrebbero interrelarsi tipologie di strumenti estremamente eterogenei, si è proposta nel capitolo finale la discussione circa un ipotetico scenario di come potrebbero essere integrati strumenti di diversa natura (qualitativa/quantitativa) al fine di agevolare le interrelazioni tra gli attori (e i relativi strumenti) coinvolti nel flusso progettuale. La ricerca inoltre presenta due applicazioni pratiche, impiegate in progetti di ricerca, dove è stato possibile validare alcuni degli strumenti presi in esame e successivamente, con le stesse modalità di indagine, ne è stato ricreato il flusso di progetto. Nello specifico, dai due progetti di ricerca presentati emerge che, in termini di sostenibilità, il
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contributo di tutto il flusso del progetto risulta maggiore di ogni sua parte; dai risultati scaturiti si evince che l’interconnessione scientifica è di fondamentale importanza per il raggiungimento dell’innovazione così come la pratica riflessiva, che avviene durante l’atto di progetto. Si può ritenere il progetto stesso, composto dai suoi attori, dalle diversità disciplinari e dai relativi metodi e strumenti, immerso nell’estrema complessità dei sistemi ambientali, sociali, culturali ed economici, come un sistema a sua volta complesso che, attraverso l’interconnessione e gli scambi, genera e ri-genera continuamente se stesso attraverso le interrelazioni di elementi estremamente eterogenei. Il progetto è quindi una dinamica in continua ridefinizione che al suo termine genera un nuovo inizio perché il design nella sua pratica ‘riflessiva’ nutre la teoria e viceversa, in un continuo scambio di conoscenza.
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Ramona Aiello ciclo XXIX
Tutor Elisabetta Cianfanelli
Co-tutor Luca Toschi
pensato e fatto in italia. verso un nuovo paradigma di eccellenza artigianale
Abstract La tesi dal titolo Pensato e fatto in Italia. Verso un nuovo paradigma di eccellenza artigianale intende indagare, attraverso tre aspetti in cui la disciplina del Design è da sempre coinvolta (prodotto-produzione, comunicazione, promozione-vendita), il patrimonio culturale italiano del saper fare che risiede nel sistema socio-economico delle piccole e medie imprese. Dall’osservazione del nostro sistema produttivo ed economico la ricerca pone un focus sull’artigianato, definito come valore esponenziale, che si andrà a inserire in maniera trasversale alle 3A del Made in Italy (Arredo, Abbigliamento, Automobile, fatta esclusione di quest’ultima) già consolidate da molti economisti. La ricerca si propone di internazionalizzare il patrimonio culturale italiano del saper fare attraverso il prodotto artigianale. L’obiettivo generale è quello di contribuire alla diffusione della conoscenza tacita che risiede nelle persone — e, in questo caso, negli artigiani, nei luoghi, nella storia e nella società— come leva di competitività per il sistema economico del Paese; mettere in circolo quell’economia della conoscenza in grado di generare risorse materiali e immateriali a partire dalla qualità della vita delle
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persone e come conseguenza al sistema imprenditoriale. Mettere in circolo la conoscenza significa generare valore. Un tema che risale ai tempi più antichi, ma che oggi sta assumendo il profilo di approccio strategico a fronte del cambiamento sociale ed economico che stiamo vivendo. La conoscenza è una risorsa economica che non fa più solo parte dei catalizzatori della generazione di ricchezza; è essa stessa ricchezza, bene economico (Gilmore e Pine, 2000). Delimitazione del problema scientifico In questi ultimi anni abbiamo assistito a una crisi epocale iniziata con una crisi finanziaria trasformatasi in uno stallo dell’economia reale. Tutto ciò ha portato, da un lato, a una riprogettazione degli stili di vita e, come logica conseguenza, la richiesta di nuovi sistemi prodotto; dall’altro, gli stessi prodotti delle PMI risultano essere sconosciuti al mercato globale, a causa dei piccoli lotti di produzione o dell’esiguo numero di pezzi che raggiungono i mercati emergenti del BRICS1 e del Next 112, interessati al Made in Italy e, più in generale, ai prodotti esclusivi. L’attuale crisi globale, economica e finanziaria rende necessario ‘ripensare’ l’approccio al mercato dell’impresa, in generale, e delle PMI, in particolare. Non va sottovalutato che il vero tratto distintivo dell’Italia è quello di essere incentrata sull’industria manifatturiera (Becattini, 2015). 1 BRICS acronimo utilizzato in economia internazionale per identificare i seguenti Stati: Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa. 2 Gli undici Paesi, dopo i BRICS, tra le più grandi economie mondiali: Bangladesh, Egitto, Indonesia, Iran, Messico, Nigeria, Pakistan, Filippine, Turchia, Corea del Sud e Vietnam.
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Fig. 1. Le 3A del Pensato e fatto in Italia.
Nel mutato scenario di mercato la crisi può essere trasformata da minaccia in opportunità dall’azienda che sappia utilizzare il prezioso patrimonio informativo sulla sua clientela, applicando modelli manageriali capaci di rendere più efficace ed efficiente il suo processo decisionale e di assicurare all’impresa un vantaggio competitivo. Nelle Piccole e Medie Imprese italiane è carente — se non spesso assente — la cultura d’impresa, e allo stesso tempo non bisogna dimenticare che il prodotto Made in Italy risulta essere l’asse portante del sistema produttivo italiano e si concentra proprio nelle PMI, che rappresentano il 90% del numero totale delle unità produttive (De Luca, 2009). La caratteristica che contraddistingue la produzione italiana è l’essere, di fatto, il risultato della sinergia tra prodotto, territorio e società. Non si può parlare quindi di Made in Italy come fenomeno esclusivamente produttivo ed economico, ma bisogna considerarlo come un
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fenomeno culturale e sociale che l’Italia esporta in tutto il mondo. L’inconsistente posizione del Made in Italy sui mercati esteri pone un problema di riposizionamento del nostro apparato economico e produttivo, nonché di riflessione sul sistema italiano di valori e di tradizioni. Per reggere la concorrenza internazionale risulta fondamentale per le piccole medie imprese italiane sviluppare nuovi settori investendo in ricerca e innovazione (R&I) e in tutela della qualità delle produzioni artigianali. La realtà produttiva di piccola dimensione non sempre si adatta al concetto di mercato globalizzato e alle modalità di competizione che su questo si rilevano. La ridotta dimensione aziendale e produttiva, infatti, può costituire in molti casi un ostacolo alla capacità di innovare, non solo per la difficoltà finanziaria di acquistare e di fare ricerca, ma anche per la scarsa vision nell’acquisire un management in grado di saperla gestire, adattare o alimentare. Il problema dimensionale aziendale è collegato all’efficienza ed alla ‘cultura’ gestionale e quindi, oggigiorno, un aspetto fondamentale, della necessaria evoluzione di ogni PMI. (Cattini, 2006, p. 19)
Lo sviluppo dell’economia italiana a livello globale risente in qualche modo ancora dell’ardua conciliazione tra geografia nazionale e geografia della società, e per questo, quindi, anche in situazioni in cui dovrebbe emergere in modo coeso il sistema Italia, le diverse componenti non riescono a raccordarsi in maniera efficace con un unico progetto nazionale. È necessario dunque realizzare un percorso di riqualificazione e di rilancio che porti effettivamente alla creazione di un nuovo Made in Italy, non solo fatto di prodotti innovativi, ma anche e soprattutto
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connotato da un diverso modo di concepire l’azienda, il mercato e le relazioni. Se consideriamo il Made in Italy un brand, non è sufficiente che i prodotti siano italiani, ma è necessario riuscire a interagire con il modo di vivere della gente attraverso strategie design driven, affinché il brand faccia la differenza in un mondo in cui la produzione tende all’uniformità. Per vendere il Made in Italy come prodotto è necessario affermare il Made in Italy anche come filosofia e stile di vita. Lo stile di vita italiano è un plusvalore per le aziende in quanto la storia, la cultura, la creatività, ma anche la forte relazionalità, ne costituiscono i tratti distintivi. È opportuno dunque affermare che proprio il concetto di lusso (spesso associato ai prodotti italiani) affonda le sue radici nelle caratteristiche basilari del ‘modo di vivere all’italiana’: attenzione alla persona, alle sue esigenze, ad una modalità di vita che privilegia le relazioni umane, il tempo per se stessi, il comfort, il rapporto con la propria cultura e l’amore per le proprie tradizioni. Sono sempre di più, oggi, le realtà artigianali che chiudono o rischiano di essere assorbite da grandi imprese globalizzate che impongono una standardizzazione dei loro prodotti, causando la scomparsa di tutti quei valori materiali e immateriali intrinseci al prodotto manifatturiero. Chiudono perché non reggono il mercato, non investono nelle nuove tecnologie, non promuovono i loro prodotti all’estero, non investono nei giusti canali di comunicazione, perché hanno una cultura limitata di impresa (non esistono figure manageriali, sono gli stessi artigiani/ imprenditori che si ‘inventano’ manager), non hanno un sistema gestionale adeguato per reggere i tempi dettati dal
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mercato. Al giorno d’oggi non si può più essere autoreferenziali e soprattutto non si può più prescindere dall’utilizzo di nuovi strumenti tecnologici e di comunicazione, in quanto tutto ciò costituisce l’unica via per poter varcare la complessa soglia dell’immaginario collettivo, conquistando nuovi spazi di mercato e stimolando curiosità nelle generazioni più giovani, che creeranno nuovi prodotti e nuovi servizi. È necessario oggi passare sempre di più da ‘prodotti Made in Italy’ a ‘soluzioni Made in Italy’, ovvero da un’economia di cose a un’economia di esperienze, di cultura e di sapere italiano. Come avviene per il lancio di qualsiasi brand aziendale, anche per Made in Italy è fondamentale definire i due elementi caratterizzanti: l’immagine, che rimanda al concetto di percezione e quindi ciò che i consumatori pensano; l’identità, ovvero ciò che l’impresa vuole rappresentare all’interno di quella marca. In poche parole, affinché Made in Italy sia la marca rappresentativa e vincente dello stile e dei prodotti italiani, occorre crearne un’immagine e definirne il vantaggio e la personalità. Occorre partire dalla forza del saper fare italiano, conosciuto in tutto il mondo, che risiede nell’artigianato. Rivalutare la pazienza come qualità del ‘fare meglio di chiunque’ (Sennet, 2008). Riconoscere la centralità dell’eccellenza, considerandola la leva strategica principale per entrare nel mercato autentico della globalizzazione e imparando a comunicarla. Oggi si sente la necessità di riscoprire la figura dell’artigiano, ponendolo in relazione alle nuove tecnologie. Attualmente le aziende che producono il famoso prodotto artigianale italiano basano la loro comunicazione su due dizioni principali ovvero ‘hand made’ e Made in
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Italy. Qualcuna, nel tentativo di comunicare la storicità del prodotto, si spinge un po’ oltre con qualche immagine che raffigura la bottega storica, le mani di un artigiano o con una foto-cartolina con effetto retrò della città simbolo dell’azienda, il tutto in maniera discontinua. Ma questo può essere considerato sufficiente per far comprendere il valore immanente insito nel prodotto artigianale italiano tanto apprezzato dal cliente globale? I nostri artigiani hanno custodito gelosamente il proprio saper fare. Hanno fatto del segreto una vera e propria bandiera. Nella difficoltà di comunicazione si cela il timore di rivelare i ‘segreti del mestiere’. Oggi la situazione è cambiata, il racconto è parte integrante del valore di un bene. Senza una storia è difficile immaginare di differenziare un qualsiasi prodotto. Occorre una nuova cultura dell’internazionalizzazione. Per raccontare in maniera adeguata la qualità che contraddistingue il Made in Italy, abbiamo bisogno di una comunicazione dotata di una maggiore sensibilità umanistica e meno agganciata agli automatismi del marketing (Bettiol, 2015). L’evoluzione della rete rappresenta una grande opportunità perché abilita ad una comunicazione più interattiva e personalizzata. Altro problema riguarda l’errata interpretazione dei meccanismi di comunicazione. Per molte imprese la comunicazione avviene solo nel momento in cui il prodotto è pronto per essere proposto al mercato, quando la comunicazione si riduce a mero strumento di marketing e viene utilizzata come strumento di persuasione e vendita. Quanto conta il profilo culturale del cliente? Gli artigiani sono abituati a dialogare con un consumatore vicino non solo geograficamente ma anche culturalmente. Il
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consumatore italiano è sufficientemente esperto per sapere da solo che modifiche chiedere per avere un prodotto più in linea con i propri gusti. Non sempre però il consumatore internazionale ha questa conoscenza e per questo l’interazione diventa un fattore ancora più determinante per far apprezzare la qualità del prodotto e le possibilità di personalizzazione. In sostanza, c’è bisogno di maggiore ascolto ed empatia. Chi ha saputo gestire questa relazione in modo sistematico ha ottenuto grandi benefici per l’innovazione di prodotto, lanciando nuovi modelli e linee basate su richieste ‘non standard’, difficilmente anticipabili3. Le imprese manifatturiere sono oggi i principali ambasciatori del Sistema Italia attraverso una narrazione che consente di trasmettere al mercato la cultura e la qualità del Made in Italy. Nei mercati internazionali, le imprese manifatturiere italiane devono saper coniugare il saper fare e il ben fatto con la capacità di narrare le caratteristiche, la cultura e la qualità del Made in Italy. Il lavoro artigiano ha un gran bisogno di entrare a testa alta nella rete intesa come strumento capace di favorire una condivisione della conoscenza a tutti i livelli. Un altro problema riguarda il blocco generazionale nel settore manifatturiero, settore che vale il 16% del nostro Pil. Per molti il lavoro manuale oggi viene visto come un ripiego e non come una modalità di affermazione professionale. Con le moderne tecnologie le dinamiche del lavoro stanno cambiando e generano possibilità di affermazione professionale. Nei prossimi dieci anni si arriverà Tema approfondito in un post di Stefano Micelli su <www. www. firstdraft. it/2013/10/07/perche-artigiani-e-maker-fanno-fatica-a-parlarsi-e-che-fare-a-riguardo/>.
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all’età del ricambio. Nel passato tale ricambio è stato costituito da operai e tecnici che erano cresciuti nelle aziende e che ne erano usciti per farne delle altre. Oggi questo non avviene, e ciò comporta un rischio elevato. Per questo è importante riformare l’istruzione. In Italia la formazione tecnica, indispensabile per creare dei buoni tecnici e dei buoni artigiani (oltre che dei buoni imprenditori), sembra aver perso centralità. Lo sostengono in molti, in particolare Enrico Amadei, direttore Divisione Economica della Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della Piccola e Media Impresa. Domande di ricerca • RQ1 | In che modo le PMI artigianali italiane possono raggiungere i mercati internazionali evitando di chiudere o di essere assorbite da grandi imprese con la conseguente perdita d’identità? • RQ2 | In che modo il prodotto artigianale italiano può diventare un veicolo di conoscenza/esperienza per l’utente/cliente globale? • RQ3 | In che modo si deve intervenire per garantire il futuro dell’artigianato e quindi del patrimonio culturale del saper fare del Paese Italia? Scenario di riferimento Piano sblocca Italia Come sottolineato dal Ministero dello Sviluppo Economico, si tratta del più importante piano adottato da un Governo Italiano per promuovere l’internazionalizzazione del Paese e per supportare le imprese italiane in un momento in cui l’export costituisce la leva più importante e
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dinamica per la nostra economia e per la crescita del PIL4. Con il Piano5 per la promozione straordinaria del Made in Italy e l’attrazione degli investimenti in Italia sono stati stanziati 260 milioni di euro. Il decreto di attuazione è stato firmato dal Ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi e sono stati delineati i seguenti obiettivi: • valorizzare l’immagine del Made in Italy nel mondo; • ampliare il numero delle imprese, in particolare le PMI che operano sul mercato globale; • espandere le quote italiane del commercio internazionale che hanno visto la bilancia commerciale chiudersi nel 2014 con un avanzo record di 42, 9 miliardi di euro (il miglior risultato in Europa dopo la Germania); • sostenere le iniziative di attrazione degli investimenti esteri in Italia. Sempre all’interno del Piano vengono descritte le iniziative a supporto delle PMI, in particolare: • Punto 3. ‘Comunicazione’ intesa come strategia d’attacco per i mercati prioritari con una campagna intensiva di sensibilizzazione e di advertising utilizzando i media tradizionali e quelli più innovativi (social network e blog).
<www. horizon2020news. it/made-in-italy>. Il Piano è stato illustrato il 26 Febbraio 2015 — nel corso della Cabina di Regia sull’Internazionalizzazione svoltasi al Mise e co-presieduta dal Ministro Guidi e dal Ministro degli Affari Esteri Paolo Gentiloni — dal Vice Ministro Carlo Calenda. Hanno partecipato il Ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, il Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Maurizio Lupi, il Ministro delle Politiche Agricole Maurizio Martina e il Sottosegretario del Ministero dei Beni e delle Attività culturali Francesca Baracciu. Presenti anche i vertici di Ice, Cdp, Simest, Conferenza Regioni, Confindustria, Unioncamere, Rete Imprese Italia, Abi e Alleanza Cooperative.
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• Punto 9. Supporto all’e-commerce per favorire l’accesso alle piattaforme digitali e promuovere l’e-commerce quale nuovo canale di penetrazione commerciale. The Italian Way. I valori degli italiani e del Made in Italy Una ricerca di Gfk Eurisko (Gfk Eurisko, 2014), che da oltre 20 anni conduce indagini per verificare quale sia nei Paesi esteri l’attrattiva del nostro Paese e dei prodotti che esportiamo, consente fare un bilancio dei punti di forza e di debolezza dell’Italia e del Made in Italy nella percezione dei cittadini/consumatori stranieri, tenendo conto delle diverse componenti in cui si articola l’immagine nazionale. Si riconosce agli Italiani la passione di ‘fare bene il proprio lavoro’ e la qualità artigianale riconosciuta alle espressioni ‘eccellenti’ del Made in Italy (moda, design, agroalimentare). Dalla ricerca si delinea la sfida che l’Italia deve affrontare; da una parte, preservare e valorizzare le eccellenze italiane: le bellezze naturali, il patrimonio di arte e cultura, le tradizioni enogastronomiche, la qualità della vita diffusa; dall’altra, realizzare uno ‘scatto’ di qualità, creatività e innovazione sul piano della gestione e dell’organizzazione (capacità di accoglienza/ospitalità, infrastrutture, servizi). Occorre rafforzare la nostra ‘identità competitiva’ declinandola su versanti complementari alla nostra apprezzata qualità del vivere: qualità del produrre, qualità dell’accogliere, qualità del comunicare. All’origine della debolezza italiana viene evidenziato il rapporto con la cultura, ossia quei valori di esperienza, a fondamento della qualità e del sapere, che favoriscono l’unicità del nostro Paese. Dalla ricerca condotta emerge che la cultura è considerata una variabile privata,
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non sociale, non da condividere e sviluppare con gli altri, ma da consegnare agli altri. L’Italia risulta scarsamente consapevole delle articolazioni dei propri contenuti, da quelli materiali a quelli cosiddetti di patrimonio culturale. Gli aspetti che vengono affrontati per il rilancio del sistema del Made in Italy riguardano l’importanza dei prodotti e delle esperienze che nascono radicate nel territorio, ma anche la necessità che tali prodotti ed esperienze diventino cultura: paradigmi del fare, pratiche efficaci, efficienti e trasparenti che raccontino l’unicità, da coltivare in un sistema aperto. Occorre penetrare e svelare il genius loci e renderlo decodificabile per i contemporanei italiani e stranieri. Industria 4. 0 Nel quinto pilastro sul documento approvato dalla Commissione Permanente — “Attività produttive, commercio e turismo” — si delinea il modello da applicare alle imprese italiane sul quale fondare una via italiana all’industria 4.0. Si affronta il tema dell’open innovation orientato su standard aperti, sull’interoperabilità e su un sistema che favorisca il Made in Italy, sfruttando tutte le opportunità fornite dall’Internet of things. Il supporto a modelli open e a partnership strategiche, in tutti i settori d’eccellenza del Made in Italy, è necessario per definire una strategia italiana per l’Industria 4.06.
Emerge un quadro di riferimento per lo sviluppo 6 Commissione Permanente — Attività produttive, commercio e turismo. (30 giugno 2016). Indagine conoscitiva su ‘Industria 4. 0’: quale modello applicare al tessuto industriale italiano. Strumenti per favorire la digitalizzazione delle filiere industriali nazionali.
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manifatturiero sempre più orientato a una maggiore qualità dei prodotti e dei processi produttivi, ma anche in grado di sviluppare al suo interno una filiera integrata beni-servizi che apra la strada allo sviluppo di nuovi mercati e alla crescita di nuove imprese industriali. Industria 4.0 (o Manifattura 4.0) risulta essere un’ampia e profonda trasformazione che non può prescindere da un’attenta analisi volta a comprendere gli effettivi impatti sulle relazioni tra capitale umano e impresa, tra uomo e macchina7. Obiettivi generali della ricerca In relazione allo scenario descritto, la ricerca si pone i seguenti obiettivi: 1. promuovere il binomio digitale/esportazione come strumento di ripresa per le PMI Italiane; 2. internazionalizzare il prodotto Made in Italy e con esso la cultura e la maestria artigianale italiana; 3. permettere al consumatore globale (utente-cliente) di conoscere il patrimonio culturale del saper fare italiano attraverso l’artigianato; 4. avvicinare le nuove generazioni al saper fare manuale partendo dalla formazione del designer in funzione delle innovazioni tecnologiche, proponendo una nuova cultura di impresa. Obiettivi specifici della ricerca A cosa porterà il progetto? 1. A fornire uno strumento per imparare a riconoscere e Camera dei Deputati, (30 giugno 2016). Indagine conoscitiva su ‘Industria 4. 0’: quale modello applicare al tessuto industriale italiano. Strumenti per favorire la digitalizzazione delle filiere industriali nazionali.
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selezionare il prodotto di eccellenza artigianale Pensato e fatto in Italia; 2. a fornire uno strumento dinamico per la comunicazione del prodotto Pensato e fatto in Italia che miri alla diffusione/condivisione del saper fare artigianale in grado di trasferire i valori taciti in espliciti; 3. a proporre una nuova figura per il mercato del lavoro in grado di garantire continuità al futuro dell’artigianato tenendo conto delle innovazioni tecnologiche; 4. a proporre una nuova cultura di impresa italiana in grado di unire il saper fare artigianale alle tecnologie digitali di produzione senza perdere l’anima del rituale manuale che contraddistingue la produzione italiana; 5. ad avvicinare le PMI a figure di designer specializzati in sistemi prodotto per la creazione di archivi digitali, applicando processi di reverse engineering; 6. a realizzare un glossario con il team strutturato per ridefinire il concetto di design/er nell’era dell’ICT e del Web 3. 0; 7. a strutturare un team multidisciplinare per definire un progetto di ricerca a favore delle PMI partendo dagli assunti sviluppati nella tesi e iscriverlo in un progetto di ricerca Horizon 2020. Risultati attesi 1. Proporre uno strumento volto alla selezione e certificazione del Pensato e fatto in Italia; 2. proporre uno strumento volto alla comunicazione del prodotto Pensato e fatto in Italia; 3. progettare un portale dell’esperienza del Pensato e fatto
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in Italia basato sulle relazioni tra i soggetti coinvolti con un approccio craft-centred che tenga conto di tutti i parametri identificati nel percorso di ricerca. Un portale interattivo con feedback del team strutturato di esperti e la voce degli artigiani; luogo di incontro, di condivisione, di conoscenza, di formazione, di comunicazione, di interazione e di esperienza; 4. proporre una nuova figura per il mercato del lavoro in grado di garantire il ricambio generazionale dell’artigianato e capace di coniugare i saperi pratici e i valori intangibili con le tecnologie digitali di produzione. Fasi di ricerca • Fase di analisi: definizione del problema scientifico e dello scenario di riferimento. • Fase cognitiva: attraverso una raccolta di informazioni inerenti alle tematiche identificate nella fase di analisi (desk research), si sono approfondite conoscenze traversali in grado di osservare l’oggetto del problema individuato dalla ricerca nella sua complessità. • Fase empirica: attraverso l’esperienza diretta presso l’azienda di Luisa Via Roma (field research), che ha visto un coinvolgimento attivo durato 24 mesi, è stato possibile osservare il sistema dell’artigianato sviluppando conoscenze specifiche sul saper fare manuale, ma anche una maggiore consapevolezza dei problemi individuati a partire dalla fase di analisi relativi all’organizzazione interna e la gestione dell’impresa. Questa fase ha inoltre sviluppato competenze riguardanti i sistemi di vendita e-commerce, la gestione dei mercati, e la
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comunicazione web da un punto di vista del marketing. • Fase di verifica: attraverso un’analisi SWOT sviluppata a partire da un confronto diretto con gli stakeholders e con la valutazione personale data dall’esperienza diretta, è stato possibile analizzare e valutare l’attività svolta nella fase empirica interpretando i problemi emersi come nuove linee di intervento da approfondire nella ricerca. • Fase progettuale: attraverso una deduzione sviluppata a partire dall’osservazione delle leggi per la certificazione del marchio Made in Italy, la ricerca ha individuato dei parametri di selezione al fine di proporre uno strumento per certificare il prodotto Pensato e fatto in Italia (tool 1). In seguito alla fase di verifica, dopo aver approfondito in maniera cognitiva e nel contempo empirica un problema emerso dalla fase empirica, riguardante un’errata gestione dei processi di comunicazione, la ricerca ha sviluppato un modello interpretativo per la comunicazione del Pensato e fatto in Italia (tool 2). Questo strumento è stato testato e verificato attraverso un’attività didattica con gli studenti di Design (action-research) che ha portato a sviluppare un modello per la formazione finalizzato alla comunicazione del Pensato e fatto in Italia. • Fase conclusiva: analizzando un mutato scenario dei sistemi di produzione favoriti dall’innovazione tecnologica e osservando le politiche di sviluppo attuate a partire dall’Unione Europea per favorire lo sviluppo nell’industria, la ricerca propone una visione di come il Design e il designer potranno contribuire a tali cambiamenti a favore dell’identità sociale ed economica del Paese.
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Sviluppo delle fasi di ricerca Osservando i mercati internazionali del prodotto Made in Italy e i cambiamenti dei comportamenti di acquisto, favoriti dalla diffusione di Internet e dall’implementazione di tecnologie digitali, la ricerca propone un progetto finalizzato alla promozione e alla vendita del prodotto di eccellenza artigianale italiana attraverso una piattaforma e-commerce di fama internazionale con un’esperienza decennale nel settore moda. La ricerca ha sviluppato un progetto collaborativo con un’azienda del territorio fiorentino — attraverso l’istituzione di un laboratorio congiunto Università\Impresa che ha visto coinvolti un laboratorio dell’Università di Firenze, denominato e. craft, e l’azienda partner provider del progetto, Luisa Via Roma Spa — per favorire l’accesso a una piattaforma e-commerce di fama internazionale a piccole realtà artigianali italiane, sconosciute al grande pubblico (field research). Questa fase della ricerca ha contributo allo sviluppo di nuove esigenze a partire da un diverso modo di definire il prodotto artigianale e la sua produzione, non più Made in Italy ma Pensato e fatto in Italia. Successivamente alla realizzazione della sezione web e al monitoraggio dell’attività online del primo anno del progetto, attraverso una fase di verifica sono stati identificati i principali problemi. Da una parte si è percepita una scorretta gestione della comunicazione interna tra le parti coinvolte nel progetto (azienda\artigiani — azienda\Università); dall’altra, diretta conseguenza, ne ha risentito la comunicazione esterna, in quanto gli operatori dell’azienda che dovevano contribuire alla promozione del Pensato e fatto in Italia, hanno considerato come ‘minacce’ quelli
Fig. 2. Vetrina web della sezione e. craft sul sito di <lusaviaroma. com>.
che di fatto rappresentano fattori di ‘opportunità’ a causa di una mancanza di conoscenza della materia trattata. Dall’altra parte, la maggiore visibilità di piccole realtà imprenditoriali, favorita dalla pervasività del Web in grado di abbattere tempi e spazi, ha fatto emergere il problema derivato da una ridotta dimensione aziendale e produttiva, da una scarsa cultura d’impresa e ancora dalla mancanza di un ricambio generazionale nel lavoro artigiano, espressione dell’identità del nostro Paese. Quest’analisi ha portato a riformulare in parte l’idea di partenza del progetto, ripartire sì dal saper fare italiano per promuoverlo nel mercato globale come strategia di ripresa economica, ma saper prima di tutto imparare a riconoscere e interiorizzare la conoscenza nel prodotto, nel contesto e nella persona che lo ha generato. Questa fase di analisi favorisce
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l’evoluzione dell’obiettivo generale, pertanto la ricerca si propone di rendere il prodotto artigianale italiano un veicolo di conoscenza/esperienza per l’utente/cliente globale. L’obiettivo ultimo è quello di condurre l’utente-cliente globale verso il punto d’origine del processo artigiano attivando un trasferimento di interiorizzazione, da esplicito a tacito, facendogli vivere un’esperienza memorabile. Questo porterà, da un lato, a una nuova economia per il settore manifatturiero italiano e, dall’altro, a un circolo virtuoso della conoscenza. La ricerca si è dunque interrogata su come poter risalire alla radice del problema individuando gli strumenti e le competenze necessarie da mettere in campo per migliorare il processo di comunicazione. Proprio per l’approccio transdisciplinare della ricerca sono stati approfonditi studi provenienti dal campo della sociologia della comunicazione da Luca Toschi (2011) del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Firenze direttore del Communication Strategies Lab. But I can see now, at the end of 1999, that there is a common ground, a new territory being formed by the reciprocal respect between designers and the social scientists. It is clear that social science still has much to offer design, just as design has much to offer the social sciences. (Sanders, 2002, pp. 1-8)
Da sempre le scienze sociali hanno avuto strette relazioni con il design. Nel participatory design approach Sanders (2002) descrive le esperienze partecipative in cui i ruoli del progettista e del ricercatore sfocano e l’utente diventa un componente fondamentale del processo. L’utente desidera esprimere se stesso e partecipare direttamente e
Fig. 3. Valori e conoscenze del Pensato e fatto in Italia.
attivamente nel processo di sviluppo del design. L’utente a cui si fa riferimento nella tesi sviluppata ha una duplice identità; è utente l’artigiano che si propone sul web ed è utente il cliente che si interfaccia con la vetrina dei prodotti e.craft. Il designer riconosce che molte delle attività di un’azienda nascono e si sviluppano in termini di servizio, come ad esempio la comunicazione, la performance produttiva, l’organizzazione delle risorse umane, la logistica, la distribuzione. Per confrontarsi in termini competitivi le aziende necessitano pertanto di un ampliamento delle proprie attività comunicative in relazione ai cambiamenti delle modalità di acquisto dei nuovi consumatori. Si assiste a
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un passaggio di paradigma: da comunicazione a relazione. La ricerca propone uno strumento sviluppato per soddisfare i seguenti obbiettivi: 1. veicolare la conoscenza del patrimonio di un territorio attraverso il prodotto artigianale; 2. permettere al consumate di conoscere e riconoscere il saper fare italiano; 3. mettere al centro di tutto il processo di comunicazione in maniera attiva l’artigiano e il consumatore; 4. promuovere un team di lavoro transdisciplinare; 5. mettere in relazione giovani designer e artigiani; 6. promuovere il Pensato e fatto in Italia come risultato olistico di territorio, saper fare, società, stile di vita e relazioni. Il ruolo centrale della comunicazione sta proprio nel porsi come relazione fattuale, come strumento di ricerca, di progettazione, di sviluppo, di realizzazione dell’interazione fra i due piani, fra il praticabile e ciò che crediamo di riuscire ad immaginare. (Toschi, 2011, p. 85)
Nella parte finale della ricerca si osserva un panorama d’impresa rinnovato dall’implementazione delle tecnologie digitali a partire dai processi di produzione. Si descrive quella che è stata definita come la nuova rivoluzione industriale che ha dato l’avvio a dei movimenti d’impresa dal basso che trovano un’identificazione nella figura del maker. Accanto a questo scenario si sviluppano, da una parte, delle politiche economiche a favore dell’innovazione tecnologica nell’industria, attivate dalla Commissione Europea e dal Governo Italiano; dall’altra, un rinnovato sistema di formazione a supporto di questo cambiamento. In questo scenario futuribile si vuole offrire un contributo
Fig. 4. Nello scenario per lo sviluppo economico per la via italiana della Fabbrica del Futuro si contempla il passaggio di paradigma da comunicazione a relazione e da transizione a relazione. L’esperienza diretta diviene centrale in tutto il processo, a partire dalla formazione. Il cliente, tramite l’esperienza virtuale, diviene più qualificato e desideroso di ricongiungersi al contesto originario mettendo in moto la circolarità della conoscenza. Il web torna ad essere un medium e non più una risposta finale. La circolarità è garantita sempre dalla cultura del progetto che riconosce nelle relazioni la radice dell’esperienza. Tale circolarità offre una visione globale della società della conoscenza attraverso il Pensato e fatto in Italia.
dal punto di vista del Design a partire da una formazione più ‘generativa’ possibile in grado di mettere in circolo quell’economia basata sulla conoscenza come risorsa moltiplicabile che non si consuma con l’uso. La ricerca prefigura una nuova figura per il mercato del lavoro, il craft designer e un rinnovato contesto di impresa in cui operare, la fabbrica diffusa. Con questo contributo si intende supportare il passaggio da logiche di competizione
Fig. 5. Lo scenario che si intende proporre contempla il passaggio di paradigma da logiche di competizione, orientate su accordi tra i diversi stakeholders, a logiche di collaborazione. Si osserva l’artigiano/ artigianato come modello sociale per il lavoro per cui Università e imprese collaboreranno proponendo una formazione life long learning, contribuendo al benessere a partire dall’individuo per la costruzione della società della conoscenza. La circolarità del processo è garantita dalla cultura del progetto. L’approccio transdisciplinare di tipo learning by doing riconosce l’esperienza diretta come mezzo per la costruzione della conoscenza.
a logiche di collaborazione fondamentale per lo sviluppo politico, sociale ed economico del Paese. Output della ricerca Grazie al rapporto sinergico delle diverse fasi di ricerca, favorite dalla cultura progettuale e del pensiero critico con cui il ricercatore in Design si pone di fronte all’oggetto d’indagine, è stato possibile definire gli output, ovvero
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i prodotti che la ricerca ha sviluppato, finalizzati a fornire la cassetta degli attrezzi per il designer, l’impresa e l’Università a favore dello sviluppo di un nuovo paradigma per l’eccellenza artigianale italiana. Nello specifico sono stati sviluppati degli strumenti a supporto sia del sistema di formazione sia del mondo dell’impresa capaci, in primo luogo, di riconoscere quel lavoro di eccellenza definito nella tesi come Pensato e fatto in Italia. La tesi propone pertanto uno strumento qualitativo per la selezione e la certificazione del prodotto Pensato e fatto in Italia e delle linee guida per la gestione delle immagini su un sito e-commerce sviluppato a partire dalla fase di ricerca empirica con la collaborazione dell’azienda Luisa Via Roma. Un secondo strumento, o modello interpretativo, per la gestione dei flussi del processo di comunicazione (interna ed esterna) e una conseguente struttura di un seminario didattico, che tiene conto dell’approccio transdisciplinare finalizzato alla comunicazione del prodotto Pensato e fatto in Italia. La ricerca, la cui volontà è di considerare la tecnologia come strumento e non come soluzione finale di un progetto, sviluppa un concept teorico di un ‘portale dell’esperienza’ in grado di mettere in circolo un trasferimento di conoscenza. Infine, la tesi offre una visione di uno scenario futuro che tiene conto delle innovazioni tecnologiche in grado di mettere in circolo un’economia della conoscenza come paradigma di sviluppo per le piccole e medie imprese italiane. Si prefigura il ruolo del design e del designer in un rinnovato scenario concepito come un movimento socio-economico in grado di fondere formazione e lavoro, tradizione e innovazione.
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Conclusioni generali Nel percorso di ricerca si evidenziano i presupposti su cui fare leva per una rinascita economica dell’artigianato a partire dalla figura dell’artigiano. Partendo dal presupposto che il ‘futuro’ dell’Italia è ‘artigiano’, si stabilisce un nuovo approccio nel concepire il patrimonio culturale del saper fare che mette al centro dello sviluppo economico l’internazionalizzazione non più del prodotto ma delle relazioni. La ricerca è mossa e articolata dalla tematica di fondo che la conoscenza e l’esperienza sono veri vettori su cui l’Italia dovrà fare i conti per un rinnovato paradigma di eccellenza artigianale in grado di generare benessere in primo luogo dell’individuo e, come logica conseguenza, della società (economica-politica-sociale). Il progetto di ricerca apre quindi a uno scenario di sviluppo in grado di creare innovazione sociale a partire dalle relazioni, iniziando dalla costruzione di tre assunti: • la società è sempre più attenta a soddisfare bisogni in grado di generare benessere; • le esperienze sono una nuova forma di offerta economica che crea conoscenza; • la conoscenza genera benessere all’individuo e all’economia. Leggere questi tre presupposti nello scenario dei problemi evidenziati dalla ricerca significa inevitabilmente ricondurre il sistema economico delle PMI italiane verso la fonte di conoscenza che lo ha generato. Il sistema di formazione e del lavoro devono stringere un rapporto transdisciplinare basato sulla creazione di conoscenza e, al tempo stesso, sul benessere dell’individuo, favorirne la circolarità per fare in modo che non si esaurisca nel percorso formativo,
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ma che sia un continuum con il lavoro, nella ‘fabbrica diffusa’. L’artigianato non va visto solamente come qualcosa da scoprire e raccontare, perché è quello che oggi il mercato vuole, non bisogna seguire un trend, occorre anche rafforzare le basi. L’artigianato del passato deve essere interpretato come un modello sociale per il futuro a partire da una dimensione ‘personale’ del lavoro. Solo in questo modo il prodotto artigianale italiano potrà uscire da quell’immaginario collettivo che lo relega al piacere del possederlo, per riconoscerlo, invece, come interprete della conoscenza di un intero patrimonio culturale. Significa valorizzare l’identità dell’Italia e progettare un modello ‘su misura’ di fabbrica del futuro. Instaurare relazioni vere e autentiche con i consumatori e renderli parte integrate della creazione del valore è fondamentale per riconoscere l’eccellenza, pertanto il cliente ha bisogno di essere sempre più qualificato. Infine, l’ondata d’innovazione tecnologica deve essere guidata insieme ai protagonisti dell’economia della conoscenza per evitare che la sua pervasività diventi incontrollata a discapito delle relazioni, dell’omologazione delle prestazioni, dei contenuti e del lavoro. Questo cambiamento inizia a partire dalla nuova generazione, che dovrà leggere il passato come una risorsa da rigenerare in termini di formazione e di lavoro. E il designer sarà sempre più presente nella società, lavorando con tutti gli attori per mettere in circolo la ‘buona economia’.
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scatta un senso del ‘noi’ che, almeno in parte e temporaneamente, dissolve gli ‘io’ e, insieme a essi, la circolazione degli oggetti e il possesso.
M. Aria, A. Favole, 2015
Daniele Busciantella Ricci ciclo XXIX
Tutor Francesca Tosi
Co-tutor Alessandra Rinaldi
design per l’inclusione sociale: un tool di analisi per i servizi basati sulla condivisione
Abstract La popolazione europea come quella mondiale secondo le proiezioni demografiche è destinata ad ‘invecchiare’. Questa condizione porterà a profondi cambiamenti sociali, evidenziando che l’invecchiamento della popolazione interessa tutte le fasce di età. L’active ageing rappresenta per questo una strategia che riguarda processi di ottimizzazione delle opportunità per la salute e dove, anche in questo caso, è necessario che siano coinvolte tutte le fasce di età. Secondo tali presupposti, questa ricerca formula l’ipotesi che contesti e attività delle persone basati sulla condivisione possono essere particolarmente adatti alla promozione della salute e quindi favorire in futuro la riduzione delle cure necessarie in fase di invecchiamento. Dati gli obiettivi e l’ipotesi, i principali argomenti che verranno trattati fanno riferimento alla promozione della salute, all’inclusione e all’esclusione sociale, nonché all’innovazione sociale come principali macro-argomenti. Verranno inoltre analizzati specifici strumenti e metodi soprattutto nell’ambito del service design e dell’approccio human-centred design e inclusive design fino ad un approfondimento sul concetto di condivisione, di consumo
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collaborativo e di servizi basati sulla condivisione. I principali risultati hanno condotto alla definizione di un tool di analisi per i servizi definiti come ‘sharing-based’ e che si reputano come potenzialmente favorevoli allo sviluppo di contesti inclusivi e abilitanti per la salute. Introduzione Argomenti e macro-aree Nell’inquadrare il problema dell’invecchiamento della popolazione mondiale, così come della popolazione europea, questa tesi fa proprio l’obiettivo dell’UE sull’invecchiamento attivo che rientra nella strategia Horizon 2020. Per raggiungere un così ampio traguardo, il progetto di ricerca si prefigge di individuare obiettivi specifici che ricadono nelle macro-aree tematiche della promozione della salute, dell’innovazione sociale e dell’inclusione sociale. Inoltre, focus specifici determineranno la formulazione dell’ipotesi e dei risultati attesi. Nello specifico: sull’alimentazione come possibile ambito di promozione della salute e prevenzione dei fattori di rischio; sui consumi collaborativi e quindi sul panorama dell’economia della condivisione, nonché sul concetto di ‘sharing’ come attività umana; su approcci antropocentrici del design (in particolare human-centred design e inclusive design); sul design dei servizi come disciplina strategica nell’ambito dell’innovazione sociale e come terreno fertile per l’inclusione sociale. Problema scientifico La popolazione mondiale è destinata a invecchiare. Secondo le proiezioni, entro il 2060 la popolazione di
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sessantenni e oltre raddoppierà, evidenziando, oltretutto, la situazione europea che risulterà il continente più ‘anziano’. Se da un lato l’allungamento della vita media delle persone rappresenta ovviamente un fattore positivo e da valorizzare, dall’altro numerosi studi dimostrano come questo fenomeno porterà a profondi cambiamenti sociali, evidenziando che l’invecchiamento della popolazione è un problema che riguarda tutte le fasce di età. Obiettivo L’obiettivo generale di questa tesi ricade nella strategia europea sull’invecchiamento attivo espressa anche con il programma strategico per la ricerca e l’innovazione Horizon 2020. L’active ageing rappresenta una strategia riconosciuta a livello mondiale e, così come l’invecchiamento della popolazione può essere considerato una tematica che riguarda tutte le fasce di età, l’invecchiamento attivo può essere pariteticamente considerato un obiettivo di tutte le età. Obiettivi specifici Gli obiettivi specifici sono così rintracciati: individuare il background di riferimento sia per quanto riguarda i principali argomenti quanto nell’ambito degli approcci del design; individuare casi studio significativi; definire la strategia di intervento; inquadrare fattori progettabili (modelli, strategie, strumenti); progettare uno strumento che, facilitando la comprensione dei servizi basati sulla condivisione, consenta di promuovere contesti abilitanti per la salute; prototipare e gli output relativi allo strumento; valutare lo strumento.
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Domande di ricerca Come è possibile promuovere la salute (secondo il modello bio-psico-sociale) concentrando l’attenzione sui principali fattori di rischio e sulla socializzazione tra individui? È possibile progettare con un approccio human-centred contesti inclusivi particolarmente adatti alla promozione della salute? È possibile promuovere la salute creando contesti inclusivi e basati sulla ‘condivisione’ dove possono essere diffuse buone pratiche per la promozione della salute? Fasi di ricerca, ipotesi ed operatività Le principali fasi di ricerca sono così organizzate: 1. strutturazione del problema: introduzione del problema, background scientifico; 2. formulazione dell’ipotesi e del modello di riferimento; 3. definizione strategica: individuazione e sviluppo delle strategie di ricerca; 4. fase analitica: analisi di casi studio in funzione dell’ipotesi; 5. fase induttiva: relazione ipotesi-casi studio; 6. fase costruttiva: definizione degli output: approccio, strumenti e proposta progettuale; 7. fase valutativa: prototipazione, valutazione e validazione degli output. Ipotesi In questa tesi si fa riferimento al modello bio-psico-sociale in relazione al concetto di salute e di benessere. Per
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questa ragione l’ipotesi che viene formulata considera la seguente affermazione: considerando l’aspetto sociale come particolarmente determinate nella salute degli individui, si ipotizza che contesti e attività delle persone basati sulla condivisione possano essere particolarmente adatti alla promozione della salute. In particolare, si suppone che contesti basati sulla condivisione di attività quotidiane e fondamentali per la vita dell’individuo (come anche il rapporto con l’alimentazione) possano favorire la relazione che esiste tra benessere e relazioni sociali, benessere e supporto sociale. L’ipotesi si basa dunque sull’affermazione che promuove la salute tramite buone pratiche, abitudini e stili di vita sani in contesti dove esiste una reale condivisione tra persone favorisca lo stato complessivo di salute dell’individuo con la possibilità di ridurre le cure necessarie in fase di invecchiamento in quanto possibile atto di prevenzione primaria. Metodi I principali approcci utilizzati per la ricerca in questa tesi: ricerca di base per la prima parte più legata alle fase di conoscenza; qualitativa per l’analisi e la valutazione dei casi studio e nelle attività ‘field’ in contesti specifici; ricerca applicata (action research) per la fase di analisi, sperimentazione e valutazione degli output. Nello specifico i metodi utilizzati: revisioni tematiche della letteratura per tre argomenti specifici (ricerca di base); analisi dei casi studio (ricerca qualitativa); interviste semi-strutturate (ricerca qualitativa); thinking aloud (ricerca qualitativa); netnografie per la preparazione dei
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dati relativi all’output e alla sua prima valutazione (ricerca qualitativa); design workshop e workshop teorici finalizzati alla valutazione degli output (action research-ricerca applicata). Background Cos’è il benessere Il concetto di benessere al quale si fa riferimento risiede innanzitutto nella definizione presente nella costituzione dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (World Health Organisation, 1948) e intesa come lo stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non solo l’assenza di malattia.
In particolare, il modello di riferimento è quello bio-psicosociale che a partire dagli anni ’70 ha rivoluzionato il modo di pensare e ‘progettare la salute’. Questo modello, basato sulla teoria dei sistemi, “ha introdotto un approccio più olistico per spiegare la salute” (Stephens, 2008, pp. 6) e consente di studiare la salute e i concetti in relazione con la salute come sistemi di elementi interconnessi che possono variare e cambiare nel tempo in modo continuo. (Roppolo et al., 2015, p. 134)
L’invecchiamento della popolazione e l’active ageing La popolazione mondiale di sessantenni e oltre raddoppierà dall’11% al 22% nell’arco di tempo tra il 2000 e il 2050. Da 900 milioni nel 2015 a 1.400 milioni nel 2030 fino a 2.100 milioni nel 2050 (World Health Organisation, 2015a). Le persone vivranno di più e l’aumento del numero di individui anziani avrà notevoli ripercussioni anche sul
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sistema sociale (Tinker, 2002) per ognuno di noi così come per la società dove viviamo (World Health Organization, 2015b, p. 3). Le maggiori conseguenze che si avranno (cfr. European Commission, 2015) sono: l’allungamento dell’età media di vita; il calo del numero di popolazione attiva nel lavoro (Tinker, 2002, p. 731); il mutamento e, nello specifico, la diminuzione del rapporto tra lavoratori-pensionati1; la differente distribuzione delle risorse e, in particolare, l’impatto sulla spesa pubblica principalmente nel settore sanitario, nelle cure a lungo termine, nel sistema educativo/ formativo e nel sistema pensionistico. L’invecchiamento della popolazione non può essere considerato come un processo che coinvolge solo gli anziani in quanto tali, ma, data la capacità di modellare le condizioni familiari, è un fenomeno che coinvolge tutte le età (European Commission, 2014). L’active ageing2 così come l’invecchiamento della popolazione è un fattore che riguarda tutte le fasce di età e non solo quelle che sono considerate anagraficamente anziane. Promozione della salute e sostenibilità Nella tesi si è ritenuto di considerare la promozione della salute come un fattore strategico a favore dell’invecchiamento attivo e quindi, secondo quanto affermato 1 Attualmente quattro lavoratori sostengono il livello pensionistico per ogni individuo compreso tra i 65 anni e oltre; secondo le proiezioni entro il 2060 si avranno due lavoratori per ogni sessantacinquenne e oltre. 2 L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito l’active ageing come il processo di ottimizzazione delle opportunità per la salute, la partecipazione e la sicurezza con l’obiettivo di migliorare la qualità della vita nella fase di invecchiamento (Cfr. World Health Organization, 2002, pp. 12).
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sopra, che coinvolga anche in questo caso tutte le età. Ricordando che la Carta di Ottawa (World Health Organisation, 1986) definisce la promozione della salute come il processo che consente alle persone di aumentare il controllo sulla salute e di migliorarla; in questa parte della ricerca si è tentato di rimarcare il contatto tra promozione della salute e sostenibilità evidenziando il loro rapporto di dualità, dove, come sottolinea Kjærgård (et al., 2013, p. 6) la salute crea le condizioni ed è condizionata dalla sostenibilità, intesa come sostenibilità economica, sociale e ambientale, mentre dall’altra parte la sostenibilità è soggetta ad essere condizionata dalla salute umana.
Innovazione e inclusione sociale Tali tematiche investono gran parte della popolazione e toccano in particolare l’ambito sociale; questa è la ragione per cui si è considerato fondamentale approfondire il concetto di innovazione sociale focalizzandone il rapporto con concetti altrettanto ambiziosi e ampi come quello di inclusione ed esclusione sociale. Si pensi a quanto scritto da Moulaert (et al., 2010b, p. 14), che definisce l’innovazione sociale come il trovare progressive soluzioni accettabili per il maggiore range di problemi di esclusione, deprivazione, alienazione, mancanza di benessere.
In questa definizione si racchiudono molti dei concetti trattati in questa tesi e riprendendo le definizioni di Murray (et al., 2010), Mulgan (et al., 2012, p. 8), Manzini (2015, p. 11), e Moulaert (2010b, p. 14), e cercando una sintesi, si potrebbe affermare che per innovazione sociale s’intendono nuove idee e/o (oppure sotto forma di) pro-
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gressive soluzioni che, incontrando i bisogni di natura sociale e creando contesti di collaborazione effettiva tra le parti, soddisfano tali bisogni risolvendo un vasto range di problematiche soprattutto a discapito dell’esclusione, della deprivazione, dell’alienazione e della mancanza di benessere. Ma cosa si intende per esclusione e inclusione sociale? Riprendendo una nota definizione, l’inclusione sociale rappresenta un obiettivo politico a livello europeo con lo scopo di combattere la discriminazione sociale, la marginalizzazione e il conflitto a causa dell’età, della disabilità, la povertà e l’origine etnica. (Clarkson et al., 2003, p. 598)
Tuttavia, secondo l’approccio qui proposto, s’interviene con più efficacia e si comprende maggiormente il valore del concetto di inclusione sociale se si apre la comprensione al significato di ‘esclusione sociale’. Infatti come sottolinea la Commissione Europea (European Commission, 2004, p. 10) l’inclusione sociale è un processo che assicura che le persone a rischio di povertà ed esclusione sociale raggiungano le opportunità e le risorse necessarie per partecipare pienamente alla vita economica, sociale e culturale e di godere di un tenore di vita e di benessere che viene considerato normale nella società in cui vivono. Assicura che essi abbiano una maggiore partecipazione ai processi decisionali che riguardano la loro vita e l’accesso ai loro diritti fondamentali.
L’esclusione sociale e le sue dimensioni La Commissione Europea (European Commission, 2004, p. 10), oltre al concetto di inclusione sociale, ha definito l’esclusione sociale come
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un processo in cui alcuni individui sono spinti al margine della società e impedita la piena partecipazione in virtù della loro povertà, o la mancanza di competenze di base e delle opportunità di apprendimento permanente, o come conseguenza di una discriminazione. Questo li allontana da lavoro, reddito e opportunità di istruzione, nonché reti e attività sociali e comunitarie. Essi hanno scarso accesso al potere e organi decisionali e quindi spesso si sentono impotenti e incapaci di prendere il controllo sulle decisioni che riguardano la loro vita quotidiana.
Quali fattori incidono dunque sull’esclusione degli individui? Mathieson (et al., 2008, p. 11-21) fa notare che in letteratura è presente un certo consenso su quattro aspetti che possono definire l’esclusione sociale come (Mathieson et al., 2008, p. 21): • multidimensionale, che comprende le dimensioni sociali, politiche, culturali ed economiche, e che operano a diversi livelli sociali; • dinamica, impattando in modo diverso a diversi livelli e a diversi livelli sociali nel corso del tempo; • relazionale, che, nello specifico, ha due dimensioni, da una parte, si concentra sull’esclusione, come la rottura dei rapporti tra le persone e la società con una conseguente mancanza di partecipazione sociale, protezione sociale, integrazione sociale e potere; dall’altra, indica l’esclusione come il prodotto di relazioni sociali diseguali caratterizzate da differenti poteri. Dunque, per comprendere quali fattori incidono sull’esclusione sociale può venire in aiuto il modello individuato dal Social Exclusion Knowledge Network che definisce l’esclusione come aspetto multidimensionale. Popay
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culturale
Fig. 1. Modello dell’esclusione sociale proposto del Social Exclusion Knowledge Network (SEKN). Rielaborato da Popay (et al., 2008, p. 38).
(et al., 2008) e colleghi infatti hanno costruito un concept di modello di esclusione sociale dove si percepiscono le quattro dimensioni dei rapporti di potere che costituiscono il continuum dall’inclusione all’esclusione. Il concept di modello nasce come dispositivo euristico per aiutare a comprendere i processi di esclusione. Anche se l’obiettivo in questo caso è legato alla comprensione dei processi di esclusione nell’ambito delle disuguaglianze sanitarie, tale modello si reputa utile per comprenderne le dimensioni sul quale considerare un concetto più ampio di esclusione. Le quattro dimensioni individuate nel modello sono infatti quella economica, politica, sociale e culturale (Popay et al., 2008, p. 37). Questo modello adottato nella ricerca come uno dei riferimenti teorici ha
Disuguaglianze sanitarie
economica
sociale
Zona di stratificazione sociale
ne io us ne cl io es us cl in
Determinanti Biologici es. età, sesso, predisposizione genetica
politica
Esposizione e vulnerabilità differenziale
Attori e processi
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ispirato una riflessione sulle dimensioni dell’esclusione in ambiti differenti. Approcci e strumenti del design In questa parte la ricerca si è concentrata sull’individuazione degli approcci, strumenti e metodi propriamente associati a varie discipline del design con lo scopo di sottolineare alcuni aspetti utili per lo sviluppo delle attività secondo l’ipotesi e gli obiettivi individuati. Nello specifico sono due gli approcci, intesi come filosofie progettuali che hanno trovato maggiore sviluppo all’interno della tesi: l’approccio human-centred design (HCD) e l’inclusive design. Il primo inteso principalmente come approccio alla progettazione a marcare il fatto che, riprendendo il pensiero di Buchanan (2001, p. 37), si tratta di una continua ricerca di ciò che può essere fatto per sostenere e rafforzare la dignità degli esseri umani dal momento in cui agiscono fuori della loro vita in circostanze sociali, economiche, politiche e culturali diverse.
Approccio che, oltre gli aspetti prettamente tecnici legati per esempio allo studio sull’usabilità, come ricorda lo stesso autore, rappresenta “fondamentalmente l’affermazione della dignità umana”. Dal punto di vista tecnico invece, con lo scopo di mettere in luce le risorse più rilevanti per il design, si sono analizzati i sei principi3 e 3 I sei principi come indicato al punto 4. 1 della norma ISO9241-210: 2010 sono: 1. il progetto si basa sulla comprensione esplicita degli utenti, delle attività e degli ambienti; 2. gli utenti sono coinvolti in tutte le fasi di progettazione e sviluppo; 3. il progetto è guidato e perfezionato dalla valutazione user-centred; 4. il processo è iterativo;
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l’interdipendenza della attività4 come indicato dalla norma ISO 9241: 210 del 2010 e una serie di metodi a supporto dell’HCD provenienti da diverse fonti5. Il secondo, l’inclusive design, opera nell’ambito degli approcci inerenti il design per l’inclusione; un approccio generale alla progettazione nel quale i designers assicurano che i prodotti e i servizi soddisfino le esigenze del numero più ampio possibile di pubblico indipendentemente dall’età o dalle capacità. (Design Council, in Clarkson, Coleman, 2015, p. 235)
Di questo approccio si sono evidenziati, in particolare: i principi6; uno dei processi progettuali più noti in letteratura, ossia quello che è stato definito “The Design Wheel”7 (Clarkson et al., 2011; Waller et al., 2015); i metodi 5. il progetto affronta l’intera esperienza utente; 6. il team di progettazione comprende competenze e prospettive multidisciplinari. 4 La norma specifica che dal momento in cui è stata identificata la necessità di sviluppare un sistema, prodotto o servizio, e dal momento in cui si è deciso di utilizzare uno sviluppo human-centred, “quattro attività legate all’approccio human-centred design avranno luogo durante la progettazione di qualsiasi sistema interattivo”. Tali attività sono: comprendere e specificare il contesto d’uso; specificare le richieste dell’utente; produrre soluzioni progettuali; valutare il progetto. 5 Si tratta di fonti che nonostante fanno riferimento allo stesso approccio alla progettazione HCD, individuano un proprio processo human-centred e per ogni ‘nodo’ del processo ne vengono indicati i metodi più adatti. Nello specifico, tra i più rilevanti, si è preso in esame: Maguire, (2001), Giacomin (2014), IDEO (2015) e un esempio dell’applicazione del processo HCD Das e Svanæs, (2013) come indicato dall’interdipendenza delle attività all’interno della norma ISO 9241-210: 2010. 6 L’inclusive design (cfr. Commission for Architecture and the Built Environment, 2006): mette le persone nel ‘cuore’ del processo progettuale; riconosce le diversità e le differenze; offre la scelta in cui una singola soluzione progettuale non può soddisfare tutti gli utenti; prevede flessibilità di utilizzo; offre edifici e ambienti che sono comodi e piacevoli da usare per tutti. 7 Questo processo si basa su quattro fasi: gestire, esplorare, creare, valuta-
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indicati in questo processo; alcuni strumenti noti come l’Inclusive Design Toolkit. Particolare attenzione è stata dedicata agli strumenti (ne è un esempio l’Exclusion calculator) che consentono di valutare e/o considerare l’esclusione come elemento determinante per la progettazione e, nello specifico, per individuare soluzioni progettuali valide per il maggior numero di persone possibile. Questi strumenti si basano infatti sull’individuazione di quelle che vengono chiamate ‘categorie di capacità’ (Waller et al., 2010, in Clarkson et al., 2015), che, in buona sostanza, si fondano su alcune capacità umane come la visione, l’udito, il pensiero (per esempio: la capacità di elaborare le informazioni, di memorizzare, ecc.), la destrezza (per esempio la capacità di utilizzare gli arti superiori), la mobilità. In questa parte e su tali aspetti infatti si giocano molte delle determinanti dell’inclusione. In questa parte della ricerca si mette anche in discussione quanto e come tali aspetti siano determinanti per valutare aspetti di ‘esclusione’ e ‘inclusione’ sociale nell’ambito dei servizi. Infatti gli approcci, i metodi e gli strumenti di cui sopra sono stati analizzati parallelamente alle metodologie inerenti al ‘service design’ e ‘design for service’8. Nella tesi il design dei servizi rappresenta la disciplina di re. Per ogni fase il processo indica quali sono i metodi e/o le attività necessarie (Cfr. Clarkson et al., 2011; Clarkson, Coleman, 2015; Clarkson et al., 2015; Waller et al., 2015). 8 Secondo l’opinione di chi scrive si tratta di una chiave di lettura interessante sul rapporto tra servizi, design e società fornita da una componente del design strategico. Il ‘design for services’ infatti è stato definito, a differenze della sola definizione di service design, come ‘l’applicazione di un approccio human-centred’ (Meroni, Sangiorgi, 2011, pp. 309). Per approfondire si veda Meroni, Sangiorgi, 2011.
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riferimento e, con l’obiettivo di rintracciare processi progettuali, strumenti e metodi rilevanti per l’ipotesi e gli obiettivi della tesi, si è preso in esame quello che è stato definito il service design thinking. Si tratta di un ‘modo di pensare’ il design design servizi (Stickdorn e Schneider, 2010), un approccio, ma anche una sistematizzazione degli strumenti e dei metodi utili per la progettazione di servizi determinato da specifici principi9. Condivisione e ‘sharing economy’ Secondo l’ipotesi di questa tesi, i contesti basati sulla condivisione di beni, spazi, valori e attività tra individui dovrebbero alimentare lo sviluppo di condizioni favorevoli alla promozione della salute. Per questo motivo in questa fase della ricerca si è concentrata l’attenzione sul concetto di condivisione e su ciò che recentemente determina quella che viene definita come ‘sharing economy’. La ‘condivisione’ in senso ampio indica “tutte quelle situazioni in cui si ‘fa’, si agisce, si sta insieme” dove scatta un senso del ‘noi’ che, almeno in parte e temporaneamente, dissolve gli ‘io’ e, insieme a essi, la circolazione degli oggetti e il possesso. (Aria, Favole, 2015, p. 34)
Mentre, nell’ambito del consumo e quindi in ciò che descriverebbe in modo più deciso il senso dell’economia della condivisione, non c’è ancora un consenso su quali attività siano comprese (Codagnone e Martens, 2016); si parla di consumo collaborativo (Botsman e Rogers, 2011, Stickdorn e Schneider (2010) individuano cinque principi del ‘service design thinking’ sottolineando che si tratta di un approccio per il service design con le seguenti caratteristiche: User-centred; Co-creative; Sequencing; Evidencing; Holistic.
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Codagnone e Martens, 2016), consumi basati sull’accesso (Bardhi, Eckhardt, 2012; Belk, 2014b, Codagnone, Martens, 2016), consumi connessi (Schor, 2014; Codagnone, Martens, 2016); ma comunque si parla di tipologie di consumo. In sostanza questi ambiti descrivono come avviene o come potrebbe avvenire il rapporto tra bene di consumo, accesso al consumo e consumatore. Nell’ottica della sostenibilità come valore intrinseco di questa tipologia di consumi, si evidenziano, in questa parte della tesi, anche specifici raggruppamenti come suggerito da Botsman e Rogers (2011), approfondendo quindi il significato e il valore di sistemi definiti ‘redistribution markets’, ‘collaborative lifestyle’ (Botsman e Rogers 2011, pp. 42-67), ma anche dei già noti Product-Service Systems (PSS) (Botsman e Rogers 2011, Goedkoop et al., 1999). Secondo questo quadro e con la volontà di inquadrare quali tipologie di servizi siano effettivamente implicati nella sharing economy i product-service systems (Goedkoop et. al., 1999; Mont, 2002; Vezzoli et al., 2014) e i collaborative services (Jégou, Manzini, 2008; Manzini, Coad, 2015) rappresentano due vie per poter inquadrare questa identificazione. Tuttavia un product-service system non è detto che sfoci obbligatoriamente in un contesto condiviso, mentre un servizio collaborativo richiede, come da definizione, che il fruitore del servizio sia anche il service co-designer e il co-producer; questione che non è detto che si verifichi sempre. L’obiettivo non è qui definire qualcosa di nuovo, ma cercare di comprendere in modo esemplificativo tutti quei servizi che contribuendo alla sostenibilità dei consumi fanno della condivisione un elemento cardine, una parte insostituibile della propria struttura.
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Alla luce di questa considerazione si è anche pienamente coscienti della differenza che esiste tra il vero concetto di condivisione e la differenza con ciò che è stata definita ‘pseudo-condivisione’ (Belk, 2014a; Cfr. Belk, 2007). Perciò si ipotizza di considerare i contesti dove si materializza un’attività di condivisione come ‘sharing-based context’ e i servizi che ne permettono la fruizione come ‘sharing-based services’. Per contesto condiviso s’intende uno spazio (principalmente fisico) dove l’accesso al bene privato o pubblico è facilitato, stimolato o promosso da attività di condivisione tra le persone. Inoltre, questa descrizione non esclude contesti e servizi dove il concetto di sharing non è effettivo ma solo percepito (come ad esempio il ‘renting’ che è comunemente inteso come ‘sharing’ — per esempio car-sharing, bike-sharing — anche se in effetti non lo è realmente). Non si escludono questa tipologia di servizi poiché l’obiettivo di questa ipotesi è quello di semplificare la comprensione di questa massa di servizi e trarne i maggiori benefici possibili in ambito di analisi. Perciò alla luce del fatto che anche quello che è percepito come ‘sharing’ è attualmente utilizzato da un numero elevato di persone si ritiene necessario includere anche questa tipologia in modo da rappresentare materiale di studio e di analisi. Dunque, si stima che creare un assetto progettuale il più inclusivo possibile nell’ambito dei servizi che si basano sulla condivisione possa rappresentare un punto strategico sia per l’attività di ricerca sia come strada rilevante perché l’ipotesi possa trovare una concreta realizzazione. Per approfondire questi aspetti e alimentare una parte critica della tesi si sono analizzati alcuni casi studio.
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Casi studio e sviluppo strategico Casi studio Kitchen 4. 0 | Il progetto Kitchen 4. 0 è un concept di servizio sviluppato all’interno del Laboratorio di Ergonomia & Design. Rappresenta a oggi un caso studio perché l’obiettivo principale del progetto è di affrontare la problematica generale del benessere degli individui cercando un framework d’innovazione e inclusione sociale. Inoltre, il progetto stesso si inquadra negli obiettivi di questa tesi rivolti ad azioni che favoriscano l’invecchiamento attivo inteso come opportunità che coinvolge persone di tutte le età. In aggiunta, il progetto fa leva sulla possibilità di creare le condizioni perché le persone possano incontrarsi in luoghi al di fuori della propria abitazione e, motivati da un comune quanto necessario bisogno come quello di nutrirsi, creare relazioni sociali e possibili contesti abilitanti per il benessere. Si tratta di un servizio di cucine condivise e disponibili sul territorio urbano che consentono di fruire di questi spazi condividendo un momento quotidiano fondamentale come quello della preparazione e del consumo dei cibi. Il progetto si rivolge al maggior numero di persone possibile e con questo obiettivo porta con sé diverse riflessioni e soluzioni il più possibile inclusive. L’analisi di questo caso studio, oltre a individuare un processo progettuale derivante dalla volontà di applicare un approccio progettuale inclusivo nei servizi, ha consentito una prima definizione di una possibile struttura dei servizi che si basano sulla condivisione.
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Abitare Solidale | Servizio nato all’interno dell’associazione di volontariato Auser di Firenze, si basa sul mutuo aiuto nell’ambito del co-housing e mira a trasformare il problema abitativo in opportunità. Questo servizio si rivolge principalmente alle persone anziane che rischiano di perdere la loro autosufficienza e di venire isolate dalla società; ai parenti delle persone anziane; alle persone svantaggiate e a rischio di povertà che hanno bisogno di alloggi dignitosi a prezzi accessibili. Abitare Solidale rappresenta una soluzione per far fronte al problema di isolamento e di esclusione sociale degli anziani; permette alle persone anziane di rimanere più a lungo nelle loro case aumentando la partecipazione attiva nella società; migliora le condizioni di vita indipendente; rappresenta una soluzione alla situazione dei ‘caregivers’ informali; offre una soluzione innovativa a nuove cause di povertà ed esclusione sociale, e un’alternativa all’isolamento e alla stigmatizzazione delle persone in difficoltà economiche o personali. L’analisi del caso studio ha consentito di rintracciare tre aspetti fondamentali: il processo progettuale che ha portato alla definizione del servizio; il modello di selezione e gestione delle famiglie che richiedono la fruizione del servizio; ulteriori aspetti riguardanti l’organizzazione di una struttura di servizio basato sulla condivisione. Per questo ultimo punto, dal caso studio Abitare Solidale emerge in particolare l’importanza della componente umana come costituente di nodi fondamentali della struttura del servizio.
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Tra inclusione e innovazione sociale Il periodo di studio come Visiting PhD Student all’Inclusive Design Research Center10 ha visto impegnato chi scrive per circa tre mesi in attività di ricerca presso lo stesso laboratorio, con l’obiettivo di approfondire le conoscenze sulle seguenti tematiche: Inclusive Design, approcci inclusivi e inclusione sociale; rapporto tra innovazione sociale e inclusione sociale; confronto tra approcci definiti human-centred e specificità progettuali degli approcci inclusivi. Il confronto all’interno del centro di ricerca ha consentito l’apertura di un dibattito sul concetto di inclusione nei servizi sharing-based. Lo sviluppo di materiale teorico e tool di analisi ha consentito l’organizzazione di tre design workshops su queste tematiche con l’obiettivo di valutare i principali outputs della ricerca. Risultati Il principale output di questa ricerca è rappresentato da un tool di analisi per il design dei servizi e in particolare per l’anali si di servizi sharing-based. Il tool è il frutto di un processo di progettazione che può essere descritto secondo le seguenti fasi: • individuazione di variabili e caratteristiche principali di servizi sharing-based; questa fase deriva da un’analisi induttiva basata sui casi studio e sull’analisi di altri servizi esistenti e diffusi iscrivibili nella tipologia sharing-based; L’Inclusive Design Research Center (IDRC) in Cina (Shanghai) è parte del College of Design & Innovation della Tongji University, ed è stato fondato dalla professoressa Hua Dong, supervisor in questi mesi delle attività svolte da chi scrive presso lo stesso laboratorio.
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• definizione teorica dei componenti della struttura di un servizio sharing-based secondo l’individuazione di ‘elementi principali’ e ‘sotto-categorie’ per ogni elemento; • progettazione di un tool come strumento di analisi per valutare la capacità di inclusione di un servizio sharing-based tramite la visualizzazione e la gestione della struttura; • prototipazione del tool e fasi iterative; ripetuti confronti sulle tematiche e sui componenti del tool con il team dell’Inclusive Design Research Center; • valutazione del tool attraverso tre design workshop organizzati in collaborazione con l’Inclusive Design Research Center. Il tool e i workshops di valutazione Come anticipato il tool rappresenta il principale output sperimentale di questa ricerca e consente di analizzare servizi sharing-based valutandone le potenzialità e la capacità di inclusione. Lo strumento in questione si compone di tre aree dominanti: una prima, per la comprensione degli elementi costituenti la struttura principale dei servizi sharing-based; una seconda area, per la visualizzazione e la gestione delle sotto-categorie per ogni elemento del servizio; e, infine, una terza area dedicata alla discussione e all’analisi delle problematiche e delle possibili soluzioni inclusive. Inoltre, per alimentare una discussione sul concetto di inclusione/esclusione nell’ambito dei servizi sharing-based e con l’obiettivo specifico di testare e valutare qualitativamente il tool, sono stati organizzati tre design workshop11. I primi due hanno avuto come obiettivo 11
Tutti i workshops si sono svolti in collaborazione con l’Inclusive Design
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specifico l’analisi di servizi sharing-based esistenti e/o di servizi sharing-based innovativi, e sono stati organizzati rispettivamente in occasione dell’International Symposium on Human Factors in Design12 e all’interno del corso magistrale User Research and Design Innovation (Postgraduate and International Course)13. Mentre il terzo workshop ha avuto come obiettivo la progettazione di un servizio basato sulla condivisione al fine di migliorare l’impatto del packaging derivante dai sistemi e-commerce. L’ultimo workshop14, a differenza dei primi due, ha consentito una valutazione del tool a confronto con altri metodi e strumenti per la progettazione allo scopo di testare le potenzialità del tool sia come strumento di analisi sia come strumento utile in fase di ideazione dato un determinato brief. L’analisi dei risultati dei design workshop hanno consentito di individuare vantaggi e svantaggi del tool, parametri di confronto con altri strumenti, potenzialità in relazione alle tematiche e alla principale disciplina coinvolta (design dei servizi). Infatti, secondo i principali risultati emerge che il tool in questione risulta essere uno strumento di facilitazione per la comprensione di aspetti altrimenti intangibili nell’analisi di servizi e in particolare per servizi Research Center e la supervisione della prof. Hua Dong esperta in Inclusive Design e all’interno del College of Design and Innovation — Tongji University — Shanghai, Cina. 12 Evento organizzato in collaborazione con ‘Chinese Ergonomics Society’ e ‘The 16th Academic Conference on Management Ergonomics’; presso il College of Design and Innovation, Tongji University, Shanghai, Cina. 13 Corso erogato presso il College of Design and Innovation (Tongji University), Shanghai, Cina. 14 Attività svolta all’interno dell’Inclusive Design Research Center con la partecipazione della maggior parte del team del centro di ricerca.
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basati sulla condivisione dove entrano in gioco interazioni e dinamiche diversi rispetto a tipologie ‘standard’ di servizi. Inoltre, il tool risulta essere di per sé un facilitatore in contesti di co-progettazione e anche in presenza di utenti non esperti in design. Infine, nonostante la capacità dello strumento di generare senso di iterazione e facilità di comprensione nella gestione degli elementi di progetto, non risulta per il momento essere uno strumento di ideazione per servizi innovativi; mentre appare più efficace per l’analisi di servizi esistenti e basati sulla condivisione, oppure particolarmente efficace se affiancato da altri strumenti e metodi noti per la progettazione e in particolare per la progettazione di servizi. Conclusioni Gran parte delle ultime attività di ricerca applicata sono state mosse dall’idea e dall’ipotesi che aprire un approfondimento sul tema dell’inclusione nell’ambito di nuove forme di collaborazione (e servizi) che stanno nascendo possa rappresentare una via per creare terreno feritile per la promozione della salute. Inoltre, si crede che lo strumento ideato e la semplificazione nella lettura del complesso mondo della ‘sharing economy’ con la definizione ‘Sharing-Based Services’ possa contribuire a migliorare la comprensione e quindi la progettazione di ambienti abilitanti per la salute. Inoltre, se da una parte il tool ideato è risultato stimolante tra i partecipanti ai diversi workshop, sia come strumento per l’analisi iscrivibile al mondo della progettazione, sia per le tematiche trattate, dall’altra questo strumento necessita ancora di fasi di valutazione in altri contesti, in ambiti per esempio fortemente
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caratterizzati dalla collaborazione su scala locale. Tuttavia, sia i workshop sia lo strumento in sé rappresentano una significativa apertura sul dibattito riguardante i concetti di esclusione e inclusione nell’ambito dei servizi che in qualche modo stanno determinando nuove forme e nuove possibilità di consumo.
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Ramona Aiello consegue la Laurea Magistrale in Design nel 2012 con una tesi rivolta ai sistemi e. commerce per la promozione dell’artigianato italiano. Prosegue la sua attività di ricerca approfondendo questa tematica in collaborazione con l’azienda Luisa Via Roma. Partecipa a progetti di ricerca all’interno del laboratorio REI_lab che si occupa di processi digitali per il rilievo dei componenti del prodotto finalizzati alla realizzazione di archivi digitali per il mantenimento delle conoscenze del patrimonio culturale. Dal 2015 sviluppa rapporti di ricerca con il Centro per la Comunicazione Generativa diretto da Luca Toschi. Co-founder dello spinoff universitario XY Project, si occupa di portare avanti la ricerca nell’ambito della comunicazione per le PMI manifatturiere. Nel 2017 consegue il Dottorato di Ricerca in Architettura, Curriculum Design. Francesco Armato, architetto e Designer, PhD in Tecnologia dell’Architettura e Design. È docente di laboratorio di progettazione (Interior) al Corso di Laurea in Disegno Industriale e al Master in Interior Design, all’Università degli Studi di Firenze. Collabora, dal 2013, con diverse Accademie e Università cinesi (Shanghai, Suzhou, Nantong) partecipando a convegni e seminari che riguardano il mondo dell’Interior Design. Le sue opere sono pubbli-
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cate su riviste nazionali ed internazionali, prendono parte a diverse mostre e selezioni editoriali: Refuse Arango, Design Foundation di Miami — Ri-usi, Triennale di Milano — The International Design Yearbook, Londra, a cura di Jean Nouvel. Ilaria Bedeschi è architetto e dottore di ricerca in disegno industriale. Dal 2001 segue presso il Centro Sperimentale del Mobile e dell’Arredamento i progetti di R&S, innovazione ed internazionalizzazione per singole imprese e sistemi di imprese dei settori casa, camper e nautica. Dal 2016 si occupa di trasferimento tecnologico per il Distretto Tecnologico Interni e Design della Regione Toscana. È autrice e curatrice di testi sul design. Alessia Brischetto consegue nel 2010 la Laurea Magistrale in Design presso la Facoltà di Architettura all’Università degli Studi di Firenze e, nel 2015, il titolo di dottore di Ricerca in Architettura con indirizzo Design all’Università di Firenze. Sviluppa la sua attività di ricerca nel campo dell’Ergonomia per il Design, dell’usabilità dei prodotti industriali e del Design for All. È componente del gruppo di ricerca del Laboratorio di Ergonomia e Design — LED del Dipartimento di Architettura DIDA dell’Università di Firenze. Dal 2010 ha collaborato a programmi di ricerca finanziati dalla UE, 7° Programma Quadro, da pubbliche amministrazioni e da aziende pubbliche e private. Irene Bruni si è laureata in Design presso la Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Firenze. È stata assistente alle attività didattiche del corso di Laboratorio di Ergonomia e Design e, a partire dal 2011, ha collabo-
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rato a progetti di ricerca svolti presso il Dipartimento DIDA della stessa università, affrontando temi relativi all’Usabilità, l’Interazione e lo Human-Centred Design. Nel 2016 ha conseguito il titolo di Dottore di Ricerca in Architettura con indirizzo Design. Come freelance collabora con aziende e studi professionali occupandosi di progetto nell’ambito del product e dell’interior design. Daniele Busciantella Ricci svolge attività di ricerca presso il Laboratorio di Ergonomia e Design ed è socio ordinario della Società Italiana di Ergonomia. Collabora a progetti di ricerca svolti presso il Dipartimento di Architettura DIDA e la sua attività di ricerca è inerente le tematiche dello human-centred design e del design per l’inclusione sociale. Laureato in Design presso la Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Firenze, nel 2017 consegue il Dottorato di Ricerca in Architettura, Curriculum Design. Come Visiting PhD Student ha svolto attività di ricerca presso l’Inclusive Design Research Center del College of Design & Innovation (Tongji University, Shanghai, Cina). Svolge inoltre attività di consulenza per diversi ambiti nel settore del design di prodotto, comunicazione e grafica. Stefano Follesa architetto e designer, è docente a contratto presso il Corso di Laurea in Disegno Industriale dell’Università di Firenze, presso la LABA, Libera Accademia di Belle Arti e coordinatore didattico e docente del Master in Interior Design UNIFI. Dottore di ricerca in design, nella sua attività professionale e di ricerca indaga i rapporti che intercorrono tra artigianato e design e tra oggetti e territo-
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ri ed è autore e curatore di mostre e libri sull’argomento. È visiting professor presso la NUAA University di Nanchino e mentor per la Tongji University di Shanghai, Cina. Vincenzo Legnante (1948), architetto, dal 1984 è docente di Tecnologia dell’Architettura e dal 2008 ordinario di Disegno Industriale nell’Università di Firenze. È stato Direttore del Dipartimento di Tecnologia dell’Architettura e Design “Pierluigi Spadolini” dal 2000 al 2006, Presidente del Corso di Laurea in Disegno Industriale (20082012), Presidente del Corso di Laurea Magistrale in Design (2012-2016) e Presidente della Scuola di Architettura dell’Università di Firenze dal 2013, confermato per il secondo mandato 2016-2019. Coordinatore del Master di primo livello in Interior Design dal 2013. Ha scritto libri, articoli e saggi di tecnologia e di design ed è titolare di numerosi brevetti e modelli. Giuseppe Lotti, professore ordinario, è docente al Corso di Laurea in Disegno Industriale e al Corso di Laurea Magistrale in Design dell’Università di Firenze. Dal 2010 ricopre la carica di direttore del Centro Studi Giovanni Klaus Koenig; è presidente del Corso di Laurea Magistrale in Design, coordinatore del curriculum in Design del Dottorato in Architettura, direttore scientifico dei Laboratori di Design per la Sostenibilità e Comunicazione e Immagine e direttore del Corso di perfezionamento in Design per lo sviluppo locale sostenibile (2013). È autore di pubblicazioni sul design, curatore di mostre in Italia e all’estero, responsabile scientifico di ricerche a livello internazionale e nazionale.
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Marco Mancini, laureato con lode in Architettura, si occupa di product design, edilizia e grafica, svolgendo sia attività professionale che di ricerca e docenza in ambito universitario, in Italia e all’estero, nelle discipline dellaTecnologia, Innovazione tecnica, Disegno industriale. Partecipa a progetti di ricerca dipartimentali e inter-universitari ed ha svolto incarichi di consulente qualificato per aziende ed enti. Su innovazione e progetti-pilota ha realizzato pubblicazioni e partecipato a conferenze. È contitolare di brevetti legati alla salvaguardia di oggetti d’arte in condizioni di emergenza. È pianista e compositore. Marco Marseglia, consegue nel 2012 la Laurea Magistrale in Design presso la Facoltà di Architettura all’Università degli Studi di Firenze con Lode e Dignità di Stampa e, nel 2016, il titolo di dottore di Ricerca in Architettura, Curriculum Design all’Università di Firenze. Sviluppa la sua attività di ricerca affrontando il rapporto tra il Progetto e la Sostenibilità per il Design. È componente del gruppo di ricerca del Laboratorio di Design per la Sostenibilità — LDS del Dipartimento di Architettura DIDA dell’Università di Firenze. Dal 2010 ha collaborato a programmi di ricerca finanziati dalla UE, 7° Programma Quadro, da pubbliche amministrazioni e da aziende pubbliche e private. Svolge attività professionale nel product, graphic e packaging design. Francesco Parrilla, architetto Ph. D. in Design, esperto in sistemi urbani complessi, è dal 1999 titolare dello studio Parrilla, che svolge attività di progettazione nel campo
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della conservazione dei beni culturali, del recupero dei centri storici minori, della riqualificazione edilizia ed urbanistica, con particolare attenzione alla progettazione partecipata, al miglioramento delle condizioni ambientali e all’uso consapevole delle risorse energetiche. Ha curato progetti di interior e retail design. Scrive articoli per riviste di settore e svolge attività di ricerca e didattica presso l’Università di Firenze. Alessandra Rinaldi, architetto e specialista in Disegno Industriale, consegue il titolo di Dottore di Ricerca in Architettura con indirizzo Design presso l’Università degli Studi di Firenze. Attualmente è Ricercatore tipo B, presso la stessa Università, Dipartimento di Architettura DIDA, e Responsabile del Coordinamento Scientifico del Laboratorio di Ergonomia e Design (LED), all’interno del quale lavora sui temi dell’innovazione Human-Centred, dell’Ergonomia per il Design, dell’Usabilità dei prodotti e del Design dell’Interazione. È professore di Interactive Design presso la Tongji University. Ha scritto numerosi saggi e libri e ha partecipato a convegni nazionali e internazionali. Come professionista e consulente per l’innovazione ha collaborato con molteplici brand tra cui: NEC Ltd., Piquadro Spa, Ariete Spa, Brother Industries Ltd., De Longhi Spa, BPT Spa, Tonbo Ltd., Effeti Indutrie Spa, Cima Lighting Ltd. Francesca Tosi, professore ordinario di Disegno Industriale, è Presidente del Corso di Laurea in Disegno Industriale dell’Università di Firenze, Direttore scientifico del Laboratorio di Ergonomia & Design, LED e, dal 2012
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al 2014, è stata Coordinatore del Master in Ergonomia dell’ambiente, dei prodotti e dell’organizzazione. Sviluppa la sua attività nel campo del design di prodotto e degli interni, dell’ergonomia per il design, del Design For All, in particolare nei settori del design dei prodotti d’uso quotidiano e del design per la sanità. Dal 2014 è Vice-presidente della CUID, Conferenza Universitaria Italiana del Design. Dal 2010 è Presidente nazionale della SIE, Società Italiana di Ergonomia e fattori umani.
Finito di stampare per conto di didapress Dipartimendo di Architettura UniversitĂ degli Studi di Firenze Novembre 2017
Le tesi di dottorato presentate in questo libro ci parlano della specificità della ricerca di design — al centro di più domini disciplinari; come mediazione e catalisi di conoscenze tacite e codificate; in grado di rendere immediatamente applicabili e spendibili le innovazioni tecnologiche; assolutamente non referenziale, ma in rapporto con i bisogni della società; capace di intervenire sulle sfide della contemporaneità; spesso di natura applicata/progettuale; strumentale, ossia rivolta a mettere a punto metodi e strumenti di progetto, e, meno frequentemente, teorica. Ma le ricerche presentate in questo libro ci parlano anche di alcune peculiarità della Scuola Fiorentina di Design, da sempre orientata alle tematiche sociali, da una parte, e, dall’altra, alla ricerca per l’innovazione e alla sperimentazione condotta in stretto rapporto con il sistema produttivo, sia a livello regionale che nazionale. Al centro dell’attenzione è il progetto, inteso come capacità di proporre e costruire l’innovazione.
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9 788896 080917