Memorie retiche | Monaci, Palermo

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elisa monaci luisa palermo

Memorie Retiche



tesi | architettura design territorio




Il presente volume è la sintesi della tesi di laurea a cui è stata attribuita la dignità di pubblicazione. “Per il particolare contributo dato alla narrazione del rapporto tra vino e architettura, tra uomo e natura”. Commissione: Proff. V. Alecci, S. Bertocci, A. Bove, E. Cecconi, M.G. Eccheli, M. Pivetta, A. Volpe

Ringraziamenti “Così io ti saluto, o Dioniso, che doni grappoli abbondanti; concedimi di tornare in letizia al ripetersi della stagione, e, di stagione in stagione, per molti anni ancora.” Al maestro Fornaser e al suo Amarone.

in copertina Statua di Bacco. Palazzo Massimo alle Terme. Roma

progetto grafico Laboratorio Comunicazione e Immagine Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze Susanna Cerri Gaia Lavoratti

© 2017 DIDAPRESS Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze via della Mattonaia, 14 Firenze 50121 ISBN 9788896080757

Stampato su carta di pura cellulosa Fedrigoni X-Per


elisa monaci luisa palermo

Com’è vero che nel vino c’è la verità Ti dirò tutto, senza segreti. (W. Shakespeare)

Memorie Retiche



Di vite e di pietra

Bacco è noto per esser un dio insidioso. I riti a lui dedicati per qualcuno, solitamente, non finivano bene. Un dio di bellezza anomala, fuorviante, le cui origini fisiologiche lo pongono al confine anche della mitologia, generato dalla madre fu cresciuto in una coscia di suo padre, Giove. Una traslazione chirurgica del grembo che può impressionare ma anche far meditare sulla singolare attualità di questo antichissimo racconto che già propone soluzioni degne di una novella di William Gibson. Attribuito ai riti di questo dio è stato ritrovato qualche anno fa nella piana di Lucca, perfettamente conservato, un tempio ligneo di epoca etrusca. Sorgeva circondato da un vitigno, del quale sono emersi tralci e foglie, su un’isolotto dell’antica palude. Al suo interno solo una panca, a evocare, ancora oggi, la sacralità del rito del simposio contenuto in un’architettura dell’assenza. Cosa direbbe oggi questo dio, dal capo avvolto da pampini, della mercificazione del suo nettare, della svendita della sua alchimia, attraverso architetture della comunicazione e non della sostanza. Le dinamiche proprie della terra a est di Verona, compressa tra le Prealpi e il Garda, intagliata dalla cesura dell’Adige, comunicano una sana resistenza del contadino ad aprire le porte di quercia della propria cantina e divulgare i segreti del suo lavoro. Non perché abbia nulla da nascondere ma perché il vino che essi producono è frutto della loro terra, del loro lavoro, dell’antica saggezza delle loro famiglie. Vi è un acuto senso di proprietà legata al senso di radici tra coloro che vinificano per passione prima che per lavoro. Nella Valpolicella le cantine hanno centinaia d’anni e sono il caveau (il francese c’azzecca sempre) in cui è raccolta la parte più pura del loro legame con la terra e la pietra che le ha costruite; la sostanza del tutto. Questi aspetti hanno trovato il modo di incanalarsi in un pensiero critico divenendo le basi per questo progetto di Architettura. La cantina qui esposta è frutto di un lavoro di cui il progetto è solo l’ultima propaggine, essa riassume un’ideale posizione dell’Architettura nel suo ampio confronto con i temi dell’industria e del territorio, dell’insediamento e del paesaggio, del lavoro agricolo e della sua orgogliosa manifestazione. La cantina, la parte produttiva, è escamotage per parlare d’altro, per mettere in mostra non solo se stessa come troppo spesso accade. Il progetto vuole essere lo strumento attraverso il quale raccontare millenni di cultura del vino e di escavazione della pietra, modificazione del paesaggio naturale in paesaggio agricolo, lavoro dell’uomo su di un contesto che delle tracce agricole e delle cave che hanno costruito l’Arena ha fatto vere archeologie. Ciò che emerge alla fine è solo un altro muro, un altro tra infinti altri, fatto della stessa pietra cavata da sempre ma costruito secondo nuove regole della tecnica. Prossimo, per necessità, al discorso della non forma. Questo muro non è sostruzione di terreni come i suoi progenitori ma, come il tempio lucchese, contenitore; tempio dell’arte peculiare dell’appassimento degli acini. Un transito funzionale come per la gestazione di Bacco, dal grembo di Semele alla gamba di Giove, dalla terra della vite alla pietra dell’edificio. L’Architettura ha bisogno di esprimere se stessa attraverso occasioni di dialogo con gli elementi che ne determinano i confini, di qualsiasi natura essi siano, perché solo così ha modo di raccontare, come in questo caso, vere e grandi storie. Michelangelo Pivetta Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze

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Paesaggio dell’uomo

a sinistra Planivolumetrico di progetto

Esistono delle verità che da sempre hanno interessato l’esistenza dell’uomo sulla Terra. Rapporti primi, reali, che l’essere umano ha intessuto, custodito con cura e dedizione. Legami con il suo territorio, legami con i suoi frutti, i suoi prodotti. Con il passare del tempo, ciò che si estingueva in un mero atto di sopravvivenza, il costruire, il coltivare, si è evoluto in nobile arte. Una tecnica raffinata che sublima l’uomo, il suo operato e che lo lega indissolubilmente al luogo. Quello dell’essere umano non è un semplice “stare”, è un dialogo incessante con il paesaggio e la sua poesia, è uno scambio continuo, fecondo. Arare la terra e raccogliere i frutti, dare e ricevere. In Valpolicella la natura pare dominare sovrana. Le colline accolgono il ventaglio di piccole valli. Il verde esplode riscaldato dal tepore del sole. Le vigne si rincorrono e svaniscono all’orizzonte. Il Garda si estende tranquillo e silenzioso nella sua cavità, riflette nelle acque il paesaggio attorno. La natura si appropria di questa terra, la conquista. Questo, a una prima impressione. Uno sguardo accorto invece riconosce nel territorio secoli di processi intellettuali e di meticolosa pianificazione. L’uomo si insedia in queste terre e dà vita ad una lenta metamorfosi, impri-

me il suo passaggio, lascia un segno indelebile. Ferisce ripetutamente il territorio andando a riscriverlo totalmente e poi, quasi d’improvviso, abbandonandolo. Sono più le cave lasciate allo stato di rovina che quelle ancora in attività. Arriva un momento in cui si ritiene che quel suolo abbia dato a sufficienza, che non sia più necessario sfruttarlo, come se la pietra che se ne ricava non sia più la stessa, e così questi luoghi vengono restituiti alla natura. Le cave sono le sculture non finite, incompiute, della Valpolicella. Sono un’estesa gipsoteca contaminata dalla vegetazione. Accanto a questi gesti incompiuti corrono dritti e decisi i filari di vigneti. Essi disegnano geometricamente i versanti, portano in sé l’esperienza di secoli di coltivazioni e di tradizione, si mescolano con i grandi giganti di pietra e, per una piccola parte dell’anno, colorano il paesaggio di vinaccia. A disegnare con loro in orizzontale e verticale il territorio ci sono infine i terrazzamenti, le marogne, che sostentano i vigneti, eretti con la stessa pietra levata alla terra. Essi rimaneggiano il terreno rendendolo spigoloso, addomesticato. Sono loro che compiono il primo atto di architettura.

L’azione umana, vera padrona, si inserisce nel contesto come parte integrante di esso, stabilisce un nuovo contatto. E allora il luogo si trasforma, non sarà più lo stesso. Potenza naturale e intelletto, paesaggio e uomo. Il terroir si può definire come la metamorfosi del luogo in vino. Esso è l’interazione tra il terreno e la vigna, tra il sole e il vento, tra la coltivazione e l’attesa. È un concetto che è più della somma delle singole parti perché coinvolge la cultura, la tradizione e la passione. Il vino è un prodotto della terra, l’estrazione della pietra dalle cave marmoree ne è un altro. Il terroir esemplifica il concetto di genius loci, fondandosi sul presupposto che non c’è un posto adatto a priori, un luogo che ha più potenzialità di altri, ma esiste solo la dedizione dell’uomo e la perseveranza della natura, che eseguono una musica in cui ogni strumento esprime il suo massimo potenziale e concorre così alla creazione di un’opera d’arte ogni volta unica e irripetibile. Guardando queste colline silenziose, il terroir è vite e pietra, è il sudore del lavoro nei campi e il chirurgico assaggio del vino, è l’arte dei Reti. È la dedizione di un lavoro perseverante che si fonda su solide tradizioni, elevate a stili di vita, e non solo un modus operandi.

Progettare in questo luogo significa ricordare. Far riecheggiare antiche empatie, riscoprire l’intrinseco valore del rapporto secolare tra uomo e natura, uomo e vino. L’architettura contemporanea si confronta con la memoria che affiora da ogni pietra, ogni campo, ogni borgo e che costituisce la linea guida per la progettualità, la chiave per la poesia.

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sotto Paesaggi della Valpolicella


“Vallis Polis Cellae”

Dunque i Reti si estendono sulla parte dell’Italia che sta sopra Verona e Como; e il vino retico, che ha fama di non essere inferiore a quelli rinomati nelle terre italiche, nasce sulle falde dei loro monti. (Strabone, Geografia, IV, 6.8) Il territorio dell’odierna Valpolicella ha rivelato, nel corso dei secoli, preziose tracce e testimonianze dell’esistenza di popolazioni che l’hanno abitato fin da epoche remote. Le zone dell’alta Valpolicella e dei Monti Lessini pullulano di caverne e ripari rocciosi, di impronte che raccontano usi e costumi delle antiche genti e che sin dalla seconda metà del XIX secolo hanno destato l’interesse di studiosi e scienziati. Durante l’età del Ferro, aree come quella di San Giorgio, Gargagnago e Sant’Ambrogio conoscono una significativa presenza insediativa: una serie di “case retiche” affiorano dagli scavi. Sono piccole abitazioni seminterrate, con pareti in pietra e alzati in legno di impianto solitamente quadrangolare. Queste modeste capanne in muratura, risalenti al V e IV secolo a.C., costituiscono una delle prime forme di comunità della valle.

Numerose iscrizioni e lapidi attestano che in epoca preromana e romana la valle era abitata dagli Arusnati, una popolazione di discendenza retica che si era insediata nel fertile territorio intorno al V secolo a.C. Proprio dai Reti dunque gli Arusnates avevano appreso l’arte del fare vino. Lo producevano e commerciavano assieme alla pietra da costruzione, cavata in loco. Le due attività che hanno costituito per secoli il vanto ed il prestigio della valle hanno quindi origini antichissime. Il “pagus Arusnatium” doveva seza dubbio appartenere a Verona e qui avevano abitazioni e possedimenti le più illustri famiglie della colonia veronese. Il suggestivo borgo di San Giorgio, arroccato in una delle più belle posizioni della Valpolicella, era il centro religioso del pago e vi si trovava il tempio per il culto di Udisna, di Cuslano e delle altre divinità che risultano essere state venerate in nessun altro luogo e dai soli Arusnati. La fermezza con la quale questo popolo mantenne intatte le proprie usanze religiose ed i propri istituti sociali anche in avanzata età romana, dimostra che essi godevano di una certa autonomia e reputazione. Erano una popolazione avanzata e civile, composta da famiglie nobili e latifondiste che prati-

cavano l’agricoltura e la viticoltura, attività considerate estremamente nobili dai Romani, i quali amavano villeggiare in queste terre. Oltre ad essere una zona preziosa per le sue qualità agricole, la Valpolicella, fin dall’epoca romana, ha rivestito una particolare importanza strategica legata alla sua posizione: vicinissima a Verona, dotata di alture dalle quali esercitare un controllo diretto sulla Chiusa e sull’Adige. Le invasioni delle sue terre si sono pertanto succedute assiduamente. San Giorgio nei secoli non perse mai la sua centralità religiosa: un’iscrizione sulle colonnine della pieve fa risalire la sua costruzione al VII secolo, mentre il ciborio appartiene al tempo del re longobardo Liutprando, salito al trono nel 712. La comparsa in un documento ufficiale del nome “Val Polesèla”, in volgare, appartiene alla prima metà del 1100. L’etimologia è incerta: potrebbe provenire dalla lingua greca, “valle dai molti frutti” oppure “valle molto splendida”, o ancora si suppone una duplice derivazione, greca e latina, da cui “valle dalle molte cantine”.

Le Architetture Le colline della Valpolicella sono un fortino naturale, custodite da difese spontanee che da secoli le rendono un luogo di pace e tranquillità: l’Adige le cinge con il suo corso, la Chiusa fortificata ottocentesca protegge il valico dall’alto ed i Monti Lessini si innalzano a Nord come massicci baluardi. La valle è ricca di cave, tracce, disegni nella terra, che offrono materia prima “in loco” abbondante e poco costosa. La pietra domina il paesaggio: le lastre gialle e rosate diventano muri, case, pievi. Altre volte vengono abbandonate, in prossimità di uno scavo o lungo un sentiero e si trasformano in sculture, come memorie della concreta essenza del luogo. È attraverso l’uso raffinato della pietra che si realizzano le più belle architetture della Valpolicella. La pietra risplende sulla facciata della pieve romanica di San Giorgio Ingannapoltron, borgo incastonato nel cuore roccioso delle colline. Di pietra sono gli archi, che si susseguono leggeri nei portici, nelle logge delle ville rinascimentali e nelle costruzioni minori, che conferiscono loro elegante armonia. Dalla stessa pietra nascono i forti austriaci, solide barriere che controllano il territorio.

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a sinistra Il campanile della Pieve romanica di San Giorgio Ingannapoltron

La Pieve di San Giorgio Ingannapoltron San Giorgio è da secoli il nucleo religioso della valle: abitato dagli Arusnati che in questo luogo costruiscono i loro templi, in precedenza dai Reti, loro antenati, e nel Medioevo, elevato al rango di pieve, una grande parrocchia in cui il clero faceva vita comune. Il paese è il gioiello della Valpolicella. Arroccato su una collina, San Giorgio si erge sulle valli, ben visibile da ogni luogo, apparentemente vicino. La strada si snoda arrampicandosi fino alla sommità dell’altura e sfida i visitatori più pigri che sono costretti ad intraprendere una passeggiata lunga e faticosa per raggiungere la fortezza naturale. Da qui l’appellativo “Ingannapoltron”, che illude i “poltroni”, ma derivante anche dall’antico termine longobardo “ganna”, letteralmente “pietrame”, che indica un versante scosceso e pietroso. L’abitato infatti prende vita da un denso e compatto gruppo di edifici costruiti in lastre di calcare cavato in zona, che sembrano emergere direttamente dalla roccia. Tra essi spicca la pieve, luminosa nella sua pietra bianca, elegante e nuda di ornamenti, cuore religioso dell’insediamento.

Caratteristico del tempio è l’impianto a doppia abside che si ipotizza testimoniare le due diverse, principali fasi edilizie. Il primo abside esposto ad ovest e gran parte dell’apparato murario appartengono alla chiesa altomedievale fatta risalire all’epoca del re Liutprando, come attestano le iscrizioni scalfite sulle colonne del ciborio longobardo che troneggia sull’altare maggiore. La zona orientale con l’abside tripartito, anch’essa austera ed imponente, appartiene al periodo romanico, innalzata con ogni probabilità dopo la catastrofe del terremoto abbattutosi sulla valle intorno al 1117. L’opera è conclusa dal grandioso campanile coevo alla rifabbrica romanica e dal delicato chiostro a cui si accede tramite una piccola porta aperta sul fianco meridionale della chiesa. Una semplice fila di colonne sormontate da archi a tutto sesto si ripete sui tre lati superstiti, completate da capitelli con decorazioni eleganti e svariate, frutto dell’opera di maestranze locali esperte nell’arte della lavorazione della pietra. Una modesta zona archeologica trova posto sul retro delle absidi e custodisce preziosi ritrovamenti risalenti alle età del Ferro e romana.

Villa della Torre Su Villa della Torre a Fumane, realizzata intorno al 1557, incombe una sorta di mistero che riguarda la paternità artistica dell’opera: alcuni la attribuiscono al Sanmicheli, architetto della Serenissima, altri invece le riconoscono i caratteri tipici dello stile di Giulio Romano. “El palasso”, così chiamata dagli abitanti di Fumane, resta comunque un capolavoro del Rinascimento italiano, una ricca tenuta in cui i Della Torre, insigne famiglia patrizia veronese di convinti umanisti, potevano godere dei piaceri della campagna, dedicandosi alla pace del corpo e dell’anima. Oltre alla villa, giardini, orti e fontane ornano il possedimento, natura ed architettura si compenetrano piacevolmente e dialogano tra loro in armonia. Attorno al peristilio rettangolare, cinto da pilastri in bugnato grezzo e decorato con busti e statue di imperatori romani, si sviluppano sui lati più lunghi i due corpi di fabbrica, su quelli minori invece si aprono ampi portali ad arco che definiscono l’uno l’ingresso alla villa, l’altro l’accesso al fastoso giardino. La centralità del cortile, la perfetta simmetria dell’impianto sono chiari riferimenti ad un linguaggio classico al quale l’autore si ispira. Questa lettura è affiancata da una particolare concezione metaforica, secondo la quale il percorso all’interno della villa sia in realtà un viaggio di ascesa e purificazione. La sequenza architettonica grotta e giardino, peristilio, camini e infine tempietto suggerisce la metafora, rivela la chiave di lettura simbolica del complesso. La grotta zoomorfa dalla pianta ad ottagono irregolare è incastonata alla base della villa ed ha le sembianze di un orco dalle fauci spalancate che pare uscire dalle viscere della terra. Il giardino che la ospita non è un “locus amoenus”, bensì un luogo di perdizione che

allude alla distorsione demoniaca. Proseguendo, il peristilio, simulacro della Roma antica, nega tuttavia alcune regole del codice architettonico classico. La trabeazione priva di fregio e sostenuta da aspri pilastri “non finiti” è immagine di disordine ed instabilità, del multiforme e del peccaminoso. I quattro camini monumentali a mascherone all’interno della villa celano anch’essi significati biblici e precedono la tappa finale del viaggio mistico: il tempietto cristiano, punto di arrivo, ascesa divina. Racconta Giorgio Vasari: Fece Michele ai signori conti della Torre veronesi una bellissima cappella a uso di un tempio tondo con altare in mezzo, nella loro villa di Fumane. (Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri, 1568, parte terza, secondo volume) Un viale rettilineo in lieve salita conduce al piccolo luogo sacro, attribuito con molta probabilità al Sanmicheli, come scrive il Vasari. Di fronte all’entrata principale della tenuta, situato in un angolo a Nord, esso trova la sua posizione nel punto più alto e lontano dalla grotta. La pianta centrale con impianto ottagonale è preceduta da un pronao biabsidato e sormontata da una cupola. L’opposizione inferno e cielo celata dall’andamento ascendente dell’impianto e la schietta eleganza architettonica sottolineano l’originalità del prezioso edificio, voluto da un grande umanista ed intellettuale come fu Giulio della Torre. La villa, attualmente Allegrini, è oggi immersa tra i vigneti più pregiati della Valpolicella, gioiello rinascimentale che si perde nel verde delle foglie di vite, fino a costituire un unico paesaggio con esse.

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a destra Il cortile di Villa della Torre, Fumane

Villa Serego A Santa Sofia, luogo vicino a Verona cinque miglia, è la seguente fabbrica del signor conte Marc’Antonio Serego, posta in un bellissimo sito, cioè sopra un colle in ascesa facilissima, che discopre parte della città ed è tra due vallette: tutti i colli intorno sono amenissimi e copiosi di buonissime acque; onde questa fabbrica è ornata di giardini e fontane meravigliose. (I quattro libri dell’architettura, Venezia, 1570, libro II, p. 64) Così scrive Andrea Palladio, autore dell’opera. Iniziata nel 1560 nella località di Pedemonte, su commissione di Marcantonio Serego, rappresenta un “unicum” della sua produzione sia per la colloca-

zione sulla sommità della collina che per il disegno rustico. I disegni originali illustrano un progetto grandioso: un primo vasto cortile aperto a portici, fiancheggiato dalle scuderie e dalle abitazioni rustiche costituisce l’ingresso alla villa; attraverso un ampio passaggio centrale si accede all’interno della seconda corte porticata, avvolta dalla casa padronale ed infine, un’esedra semicircolare corona la pianta, appendice ornamentale posteriore che si apre verso la campagna. Il progetto fu realizzato solo in parte, si pensa a causa di sopraggiunte difficoltà economiche della famiglia. Palladio adagia la sua opera su preesistenze murarie trecentesche e la articola attorno al peristilio, prendendo a modello le proprie ricostruzioni della villa ro-

mana antica. Blocchi di pietra calcarea appena sbozzati provenienti dalle cave vicine, si sovrappongono in pile irregolari e diventano il fusto delle colonne ioniche che delimitano il grande vuoto centrale, cuore dell’intero complesso. La pietra grezza e la dimensione dei lastroni utilizzati suggeriscono una sensazione di maestosità e potenza architettonica mai raggiunta prima. Contrariamente alle abitudini architettoniche del maestro vicentino, il fronte presenta la stessa altezza del corpo di fabbrica principale e ripete in modulo e proporzioni le colonne del cortile. Ai lati, si addossano le barchesse con il loro sviluppo longitudinale e le loro facciate porticate.Più bassi secondo i principi palladiani contenuti ne “I Quattro Libri dell’Architettura”, i due corpi di fabbrica

non ostacolano la vista degli ambienti padronali ed ospitano servizi ed ambienti di lavoro riservati ai contadini. La villa racchiude il tesoro di antiche cantine che da secoli custodiscono il segreto di alcuni tra i vini più pregiati della Valpolicella. Nel 1300 d.C. i frati di San Bernardino, risiedenti nella Chiesa di Santa Sofia, appena fuori le mura perimetrali del complesso, costruirono una cantina con la stessa pietra con cui Palladio realizzò due secoli più tardi la sua opera. Al di sotto della villa si trovano le cantine coeve, adibite già allora alla conservazione del vino. La memoria produttiva ed agricola della tenuta si conserva dunque fino ad oggi, ed il vino, essenza di queste terre e di questi luoghi, diventa il simbolo di questa architettura.


Forti ottocenteschi Nel 1814 la valle è sotto il dominio dell’Impero austro-ungarico, potenza multinazionale ed eterogenea per cultura, lingua e tradizione. La necessità di proteggere il territorio conquistato porta gli austriaci alla realizzazione di un ampio progetto di fortificazione che comprende Verona ed i territori limitrofi. I quattro forti che dall’alto vigilano la Valpolicella, fanno parte della grandiosa opera difensiva. La loro posizione strategica offre un’ottima visuale sulla stretta dell’Adige e permette di creare una barriera protettiva verso la strada del Brennero, una delle principali vie di comunicazione tra Italia settentrionale ed Europa. Il Forte di Rivoli, quello di Ceraino, il Forte di Monte e quello di Chiusa, co-

struiti intorno agli anni Cinquanta del XIX secolo, poderosi e severi manieri, si innalzano sulle alture della valle e dominano le sommità rocciose, evocazioni di un passato segnato dal conflitto. Le rocche sono edifici massici, solidi, legati al luogo dall’uso della pietra. Le feritoie per l’artiglieria sono stretti e profondi tagli che lacerano il fronte di pietra, fessure che si aprono nei profondi muri, unico punto debole, il solo contatto permesso tra fortificazione e paesaggio. Le costruzioni militari si impongono ancora oggi sul territorio, risonanze belliche che fanno da vedetta e controllano la valle che si estende sotto di loro, verde e quieta.

Le Cave Io intendo scultura quella che si fa per forza di levare: quella che si fa per via di porre, è simile alla pittura. (Michelangelo Buonarroti, Lettera a Benedetto Varchi) La valle e l’area di Sant’Ambrogio in particolare è caratterizzata dalla presenza diffusa di cave che feriscono il territorio, aree estrattive associate al gravoso lavoro manuale e viste come luoghi degradati. Col passare del tempo esse mutano in siti abbandonati e invasi dalla vegetazione, resi invisibili, nascosti agli occhi delle persone. Le cave dismesse sono fortemente legate al lavoro e alla storia dell’uomo. Fin dall’antichità, l’attività estrattiva

ha dato vita a questi luoghi: la materia asportata origina il vuoto della cava. Questi spazi sono come delle architetture scavate nate dall’arte del “levare”, direbbe Michelangelo, forgiate per sottrazione di elementi in maniera unica e indelebile. L’uomo ha così alterato la topografia e l’estetica di questi spazi che diventano un’impronta del suo passaggio sul territorio. Nella zona della Valpolicella dunque le cave assumono un significato profondo, sono testimonianza, muta e suggestiva, impressa nello spazio: tramite questi luoghi si instaura un collegamento diretto tra l’uomo contemporaneo, il suo territorio e la sua storia, fortemente influenzata dall’estrazione della pietra.

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a destra Dettaglio della colonna d’angolo. Villa Serego a Santa Sofia di Pedemonte. Andrea Palladio

Paesaggi vermigli Io sono colui che conserva sulle labbra il sapore degli acini. Grappoli ammaccati. Morsi vermigli. (Pablo Neruda, 1904-1973) Percorrendo le sinuose strade che scalano i colli della Valpolicella, la leggera brezza meridionale dona sollievo e l’occhio è abbagliato dal verde dei vigneti. Il clima è temprato dall’influenza del lago e gode della protezione dei monti. Dolce e mite, rinfrescato regolarmente dal Peler, vento proveniente da nord-est, si avvicina molto a quello mediterraneo ed è perfetto per la crescita di un paesaggio agrario equilibrato ed armonioso, caratterizzato dalla coltivazione degli olivi e della vite. I filari, con la loro trama regolare e geometrica, si dispongono in linea retta,

uno dopo l’altro, cauti e misurati. Hanno una direzione, un orientamento. Disegnano il paesaggio, definiscono prospettive, come parti di un’opera di land art a scala territoriale. Durante la stagione estiva un’esplosione di vermiglio invade le valli: l’uva è matura e gli acini tinteggiano di rosso i colli, macchie di colore illuminate dal sole. Le vigne arrampicate sulle colline, si inerpicano sui gradini creati dai terrazzamenti. Le marogne, così sono chiamati nella valle, modellano i pendii e si impongono come tracce di una composizione coerente e rigorosa. Misure del ter-

ritorio. I muri a secco di antica tradizione sono creati dall’attenta sovrapposizione di pietre cavate. Il nome, che letteralmente significa “mucchio di sassi”, non svela dunque la precisa tecnica e l’accorta manodopera. I massi più grossi sono posti in basso per creare una solida base, elementi più piccoli e più grandi si alternano e si completano armoniosi, il coronamento invece conclude l’opera in modo rigoroso, come una cornice. Le marogne ed i vigneti sono frutti della valle, nascono dalla terra, essenza palpabile del sito. Sono testimonianze concrete del dialogo

tra uomo e paesaggio, di un rapporto secolare che lega indissolubilmente gli abitanti alla loro terra. L’azione umana si impone sul territorio, lo trasforma, lo domina, restando tuttavia fedele a quella che è la natura del luogo.




Fare Vino

a sinistra Bacco, Caravaggio Galleria degli Uffizi Firenze

Da dove potremmo dunque iniziare se non dalla vite, la cui supremazia è tanto incontestata in Italia, che si può avere l’impressione che essa abbia superato, con questa sola risorsa, i beni di tutte le popolazioni, persino di quelle che producono essenze, dal momento che in nessun luogo esiste fragranza maggiore del profumo delle viti in fiore? (Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, libro XIV) Sacra vitis Quando Noè scese dall’Arca dopo il diluvio universale, piantò una vite con il cui frutto produsse del vino che bevve fino a inebriarsi. Così fa la sua comparsa la pianta di vite nella Bibbia (Genesi 9,20-27) diventando poi nell’iconografia cristiana simbolo di vita eterna, di fertilità e della terra promessa; mentre la sua bevanda viene eletta a nettare divino, atta alle funzioni religiose, e alla connessione diretta con Dio. Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. (Vangelo secondo Giovanni, 15, 1-17)

La vite assume pieno significato quando si avvolge sulla colonna tortile, nell’Antico testamento e nei Vangeli segna l’ingresso nel regno di Dio e quindi il passaggio dal terreno al divino. La simbologia che la ritrae come mezzo di passaggio da una condizione umana ad una elevata ha sempre accompagnato questa pianta, qualsiasi fosse la religione, il culto o la zona geografica; facendone così il nettare divino, la bevanda più pregiata del mondo. La sua storia ha origini lontane, nasce in India quasi due milioni di anni fa e si diffonde in tutta l’Asia, la Mesopotamia e il Mediterraneo. La simbologia della vite si ritrova nella tradizione giudaico-cristiana con il Tempio di Salomone, il quale obbedendo alla volontà divina, costruisce il tempio di Gerusalemme utilizzando in pianta le stesse proporzioni dettate da Dio a Mosè per il Tabernacolo. Il Tempio, andato distrutto nel 70 d.C., è metafora di microcosmo architettonico, cosmologico e teologico, la sua scomparsa ha fatto sì che se ne creasse un mito, portando così alla mitizzazione anche dei suoi elementi compositivi, come le colonne. Il tempio viene descritto come ricoperto interamente d’oro e questa atmosfera dorata riecheggerà poi negli spazi paleocristiani e bizantini. Le colonne salomoniche saranno un elemento architetto-

nico molto utilizzato, primo tra tutti il Baldacchino bronzeo del Bernini che riprende la pergola costantiniana. In architettura, le colonne tortili o decorate a spirale, simbolo della vita, evocano appunto le colonne del Tempio di Salomone. Nei secoli si sono evoluti in varie declinazione del tema come le colonne con fusto decorato con tralci di vite, edera, putti e animali, e non ultime le colonne con fusto tortile. La vitis vinifera Il buon vino nasce dalla vite che il vignaiolo sceglie con accortezza e coltiva in un ben determinato contesto ambientale (Giacomo Tachis) La coltivazione della vite in Italia è molto praticata su tutto il territorio, anche se interessa soprattutto la fascia collinare, la migliore per la sua crescita. La produzione di vino rappresenta una componente importante dell’economia del paese e inoltre è uno dei fattori che permette la salvaguardia paesaggistica di molte aree. La vite è una pianta rampicante che necessita di elementi di appoggio per mantenersi eretta, la sua radice invece può raggiungere profondità anche molto elevate, che le permettono di trarre dal suolo molte delle caratteristiche che contraddistinguono il suo

frutto e il vino che si origina. In generale la vite è una pianta che si adatta a vari tipi di terreno, cosa che ne ha permesso lo sviluppo così ampio in tutte le altitudini e le zone. Un elemento molto importante nella coltivazione della vite è la sistemazione del terreno, questione che riguarda anche l’analisi paesaggistica del luogo e che va a incidere sull’immagine generale del terreno così coltivato. La scelta dipende soprattutto dal tipo di raccolto e di lavorazione, oltre che alla pendenza del terreno. In generale i vigneti vengono piantati seguendo le curve di livello, oppure perpendicolari al dislivello, si hanno invece ibridi tra queste due soluzioni se la pendenza aumenta oltre il venti per cento. Una grande spaccatura avvenuta alla fine dell’Ottocento delinea la storia della vigna dividendola tra l’antichità e la moderna viticoltura. La pianta, la sua conformazione, il frutto e non ultima la bevanda che ne deriva, assumono tratti e sapori completamente diversi da quelli decantati dagli antichi Romani e Greci. La causa è da ricercare in un parassita proveniente dall’America, la fillossera, che infestò e distrusse tutte le vigne europee e che si diffuse a partire dal 1825 tramite le barbatelle di vite. Il loro commercio aveva avuto molto successo in Francia e fu 19


a destra Vigneto Costalunga della famiglia Fornaser Sant’Ambrogio

da qui che dal 1867 si sviluppò e venne rilevata per prima la grande epidemia. L’attacco della fillossera alle vigne avvenne nelle radici che marcendo portarono a una distruzione di tutto l’apparato radicale in quattro o cinque anni. L’insetto inoltre si comportò in maniera diversa sulle varie tipologie di vite e quindi fu ancora più difficile individuarne le fasi biologiche di sviluppo. Sulle viti americane il parassita formava galle nelle foglie e questo rendeva più facile la sua individuazione ed eliminazione, mentre sulla vite europea (o vitis vinifera) avveniva a livello delle radici e quindi era assolutamente non prevedibile. In questo modo in poche decine di anni l’insetto dalle barbatelle aveva aggredito tutte le vigne in molti paesi dell’Europa. Dopo lunghi studi la chiave di volta venne dalla scoperta dell’immunità radicale di alcune specie americane e quindi fu ideata una pianta bimembra, cioè con radice americana e apparato vegetativo europeo. La vite americana (vitis labrusca, vitis riparia, vitis rupestris) produceva grappoli piccoli non adatti alla vinificazione

e non all’altezza di produrre un buon vino, fatta eccezione per l’uva da mensa in alcuni casi; per questo essa non fu usata come semplice sostituto di quelle nostrane ma fu usata invece come portainnesti per le viti europee, con l’aprirsi di nuovi studi sull’affinità d’innesto tra le varie tipologie. Tutta la viticoltura del mondo antico scomparve per sempre per lasciare posto alla nuova viticoltura ibrida. Nacquero così gli “ibridi produttori diretti” tra viti di diverse specie, che avevano però il difetto di produrre una bevanda molto più scadente dal punto di vista organolettico e molto più alcolica rispetto alla vitis vinifera. Il ventesimo secolo vide però un’ulteriore evoluzione, infatti in Italia per esempio, ormai dal 1931 si vieta la vendita di vino prodotto da specie diverse dalla vitis vinifera, in generale la coltivazione di ibridi è stata sempre molto limitata e concentrata soprattutto in Veneto e Friuli Venezia Giulia. In Europa è permessa la produzione di bevande ottenute da uve di viti diverse dalla vitis vinifera, ma non le si può chiamare vino, mentre in Ita-

lia se ne interdice la commercializzazione, fatta eccezione per il fragolino. Il motivo scatenante di questa rigida normativa fu il dilagare di questi vitigni che producevano un vino scadente, di basso valore e snaturavano l’essenza stessa del prodotto. Così dalla vigna antenata di tutti i nettari divini, superando un secolo di crisi che la vide quasi scomparire e che ne mise in discussione la forza e il primato, si arriva alla coltivazione contemporanea che vede la vitis vinifera dettare legge indiscussa, supportata da una ricerca in campo biologico, chimico e ampelografico che affina passo dopo passo una pianta che non smette di articolarsi, stupire e ispirare poeti di tutte le discipline e ambiti, siano essi umanitari, scientifici o agricoli. Prima tra tutte, continua a ispirare l’architettura che ha memoria delle foglie verdi attorcigliate alle colonne del Tempio di Salomone, vestibolo del regno divino.


Declinazioni Grazie all’arte di coltivare e pigiare l’uva, gli uomini uscirono dallo stato di barbarie e divennero civili. (Thomas Mann) La vite si declina in centinaia di vitigni differenti che hanno la caratteristica di svilupparsi in un determinato luogo geografico da cui prendono le caratteristiche essenziali che poi comporranno il corredo organolettico del prodotto che genereranno. L’ingegnere Gio Battista Perez nel 1900 pubblicò una monografia sul panorama vinicolo del veronese, dove sono presenti i vitigni più importanti della zona della Valpolicella. Egli descrisse inoltre i vini che si originano mischiando i vari uvaggi che, a meno di piccole varianti, sono rimasti uguali oggi e che fanno di questa regione una delle più importanti per la produzione di vino in Italia. Le vigne autoctone delle colline veronesi sono il risultato di secoli di evoluzioni e di adattamenti, Plinio il Vecchio già nel primo secolo a. C. scriveva a proposito di queste viti: “ave-

vano un tale amore per la propria terra che, trapiantate in altri zone, perdevano tutta la loro fama e le loro qualità”. La Corvina: E’ il vitigno che dà origine soprattutto al Valpolicella e all’Amarone. Ha colore intenso, ricco di frutto, e tannico, è caratterizzato da una fioritura tardiva, tra la fine di settembre e ottobre, e ha una buona resistenza ai freddi invernali. Viene utilizzato per rosé, rossi corposi e vini da dessert. Si sviluppa sulle colline venete e dà origini a due D.O.C. molto importanti: il Bardolino e il Valpolicella. La Corvina è prodotta anche in purezza, ma è generalmente la protagonista nell’assemblaggio con altri vitigni quali la Rondinella e il Molinara per comporre i vini più famosi della zona. Il Corvinone: Ha la caratteristica di avere acini molto larghi che assorbono e trattengono l’acqua, questa caratteristica di per sé non è ottimale alla produzione di un buon vino, ma se piantato in collina in un terreno scarno e se la sua resa viene severamente controllata risulta perfetta per vini fruttati e vellutati. Questa varietà ha la buc-

cia spessa, un requisito essenziale in un’uva destinata all’appassimento. Il Rondinella: Il suo nome ha origine dal fatto che il colore scuro dei suoi chicchi richiama alla mente le piume della rondine. Il rondinella è un vitigno molto rustico adatto anche ai terreni più argillosi e meno esposti al sole. Si adatta bene all’appassimento, in particolare dai vigneti collinari più magri. Origina vini di colore rosso rubino intenso, con aroma gentile, fruttato, con sapore non tannico ma di buona struttura. Il Molinara: Il suo nome deriva dal vernacolo “mulinara” (mulino), dato dal fatto che gli acini di quest’uva sono abbondantemente pruinosi da sembrare quasi spolverati di farina. Il vino che si ottiene ha colore rosato, di profumo delicato, di medio corpo, è anch’esso come la rondinella, un ottimo compagno per i vini veneti. Lo splendore dei vigneti della Valpolicella subì una grande crisi dell’Ottocento a causa di un arretramento nelle tecniche di produzione e di una generale ignoranza che facevano sì che il prodotto fosse acido e torbido come l’ace-

to. Il solo commercio che fece sì che la produzione non si arrestasse del tutto fu verso la Toscana e il Lazio che usavano questa bevanda di poco pregio con i vini autoctoni. Le cause di questa problematica erano sostanzialmente una vendemmia troppo precoce che non permetteva la formazione adeguata di zuccheri nell’uva, dovuta alla paura di perdere il raccolto ritardandolo, e alla necessità di battere sui tempi le altre zone di produzione; il vino era inoltre torbido e aspro perché non subiva alcun tipo di trattamento di filtraggio o defecazione, non permettendo quindi neanche la giusta fermentazione del mosto, tanta era la fretta di smerciare il prodotto il prima possibile. Così concepito il vino dopo sei mesi era completamente inacidito e non più bevibile, ed in ultima analisi si aggiungeva la completa inaffidabilità dei produttori che di anno in anno variavano il loro vino in maniera aleatoria e basata solo sulla soggettività, senza nessun parametro di base o ricerca di costanza. Una crisi generale a livel- 21 lo enologico interessava tutta l’I-



a sinistra Arele per l’appassimento dell’uva Cantina Fornaser

talia, mentre in Europa primeggiavano la Francia e la Germania. Alla penisola mediterranea era imputato di avere un ottimo clima, una grande varietà di vitigni e terreni molto favorevoli, ma una scarsa o pressoché inesistente cultura agraria ed enologica che causava dei vini così primitivi e di poco interesse. Quando il Veneto fu annesso all’Italia furono fondati i Comizi Agrari nel 1866, tra cui primeggiava quello della Valpolicella, con sede a San Pietro di Cariano e con presidente Gaetano Pellegrini. Il Comizio della Valpolicella si diresse verso un insegnamento delle tecniche di coltivazione e vinificazione agli agricoltori della zona, Pellegrini puntò sul vino come elemento di specializzazione del territorio, convinto delle enormi possibilità che avevano i vini veronesi e del cambiamento che poteva generare l’aumento della cultura contadina in quel campo. Fu effettuata un’analisi della storia geologica e dalla natura del suolo dal punto di vista mineralogico e chimico, delle sostanze contenute nei mosti, delle loro proprietà e provenienza

e di tutte le caratteristiche che ciascuna avrebbe donato al vino. Inoltre furono revisionati i sistemi di coltivazione, di concimazione, di vendemmia e di conservazione dei vini, gli animali dannosi alla vite, le malattie dell’uva e le eventuali cure. Nella maggior parte dell’Italia e così anche in Veneto, i viticoltori lasciavano sviluppare le viti a festoni, poggianti su alberi. Questo sistema permetteva di raccogliere molti più grappoli, anche se di qualità inferiore, e alla vite di svilupparsi in tutta la sua potenzialità; mentre la coltivazione a basso ceppo, anche chiamata Guyot, oggi la più diffusa in tutto il mondo, comportava un intervento violento del coltivatore sulla pianta, piegata alle necessità di produrre molti meno grappoli ma certamente più ricchi di sostanze in grado di rendere dei vini eccellenti. Pellegrini chiarì che non vi fosse una tipologia migliore a priori ma che tutto dipendesse dal tipo di terreno e di clima: nei terreni argillosi della bassa pianura il metodo a festoni era preferibile, mentre nei terreni siliceo calcarei delle colline veronesi il si-

stema a basso ceppo risultava decisamente più idoneo. Fu così che dal 1870 le campagne della Valpolicella cominciarono a mutare aspetto: ai filari di alberi che sostenevano le viti si sostituirono interi campi coltivati a vigna bassa; si effettuava una maggiore selezione dei vitigni e fu così che la Corvina prese ampio spazio facendo da protagonista. I viticoltori prestavano ora molta più attenzione alla crescita e alla maturazione della vite, sensibilizzati all’importanza di una buona coltura della pianta e del frutto. Nacque una nuova enologia e un nuovo territorio, insieme ad un nuovo modo di pensare, non più basato solo su credenze a priori. I viticoltori e gli enologi veneti avevano aperto gli occhi sulla loro terra e sulle sue potenzialità, e da quel momento la storia cambiò. Per garantire un prodotto finale adeguato e corrispondente a determinate caratteristiche si è istituita la legge D.O.C. — Denominazione di Origine Controllata e, ancora più nello specifico, la D.O.C.G. — Denominazione di Ori-

gine Controllata e Garantita che rispetta parametri molto più restrittivi; queste permettono di controllare la provenienza delle uve raccolte e usate per produrre i vini, definisce i massimali di produzione al fine di mantenere uno standard qualitativo alto e controlla le tecniche di produzione industriali e artigianali. Alla luce di tutti questi fattori che rigidamente definiscono ogni fase della produzione, dall’uvaggio, alla vinificazione fino all’imbottigliamento, il prodotto che alla fine risponde a tutte le caratteristiche è davvero un prodotto di estremo pregio, unico come un’opera d’arte. La Valpolicella è stata però interessata da una controversia per quanto riguarda la denominazione di origine dei suoi vini, a causa di un regolamento del 1963 che allargava a zone molto più ampie di quelle originali la possibilità di attribuire ai loro vini il nome di “Valpolicella”. Ricorsi e proteste da parte dei produttori storici della zona non sono serviti a cambiare lo stato di fatto, ottenendo soltanto che la vera zona della Val23 policella, cioè i comuni di Negrar,


a sinistra Botti di rovere per l’invecchiamento del vino Tenuta di Novare a destra Appassimento delle uve sulle arele Cantina Fornaser

Marano, Fiumane, San Pietro in Cariano e Sant’Ambrogio siano denominati con il nome di “Valpolicella classica”. A questa piccola diversificazione corrisponde di fatto una grande differenza sia dal punto di vista territoriale: le zone storiche sono tutte collinari mentre le nuove per lo più pianeggianti; che di qualità della produzione, sia per quanto riguarda l’uva che i metodi di lavorazione che, non ultima, la filosofia di base, da una parte la speculazione economica, dall’altra l’amore per la propria terra.

Le cantine nella storia Le cantine si facciano possibilmente sotterranee, perché la temperatura si mantiene più equabile e perché i vasi vinari sono meno sottoposti alle scosse prodotte dai carichi che vi passano a presso. […] La lunghezza delle cantine deve essere molto maggiore della larghezza. […] Più che altro poi si deve avvertire che le cantine sieno fresche ed asciutte; quindi si facciano sempre a volta. (Marco Vitruvio Pollione, L’architettura di Vitruvio, volume 5-6) Tanto è antica la storia della pianta, del suo frutto e del nettare che ne deriva, altrettanto lo è quella della dimora in cui questa trasformazione avviene. Il luogo in cui accogliere e far fermentare l’uva ha ricoperto un ruolo essenziale fino dalla preistoria, fin dal 4000 a.C. quando grotte, cave e incavi naturali erano lo scenario di proto-vinificazioni più o meno studiate e volute. La cantina nasce quindi naturalmente come luogo atto solo a proteggere il prodot-

to dagli agenti atmosferici, successivamente, soprattutto con i Romani, si evolve in un luogo che deve rispondere ad alcune caratteristiche essenziali al fine di una buona riuscita del vino. Si deve a Plinio il Vecchio la prima grande letteratura dettagliata sul fare vino. Egli classifica le specie di vitigni presenti nella Roma imperiale, le tecniche di vinificazione in uso e infine fornisce indicazioni sulla conservazione e la lavorazione del vino. È in questa epoca che vengono scoperte le botti galliche come ottimi recipienti per l’invecchiamento: molto più maneggevoli e pratiche delle anfore in argilla. Le apoteche romane e cioè i luoghi interrati delle case, le cantine appunto, erano adibite a spazi per la conservazione delle cibarie e del vino, essendo luoghi protetti dal sole, dalle intemperie e ben umidificati. Parallelamente ai locali di conservazione del vino nascono le tabernae, le antenate delle osterie, dove si vendeva la bevanda all’ingrosso.

Ma è soltanto con il Rinascimento in Francia che si trovano i primi manufatti concepiti a monte per l’intero processo di lavorazione del vino. In particolare nello Château Haut-Brion, fu Jean de Pontac il primo viticoltore a commercializzare il suo prodotto associandolo al suo nome e alla zona di produzione, precorrendo i tempi su un aspetto che poi diventerà essenziale fino ai giorni nostri per la pubblicizzazione del vino e per la sua collocazione immediata in un certo contesto ambientale, a cui si associano caratteristiche e qualità. Questa tendenza si espanderà poi in tutta Europa e dal XVI secolo l’attività enologica si farà sempre più specializzata e specifica, con la nascita di manodopera istruita e più consapevole e di manualistica specializzata. Dall’Ottocento in poi si radicò l’idea che una buona cantina fosse sinonimo di un prodotto di buona qualità e che quindi gli spazi della produzione non potessero più essere scindibili da un buon modus operandi. Questa sensibilizzazione andò di pari passo con lo


sviluppo dell’industria vitivinicola che, grazie a una maggiore attenzione nella lavorazione, assicurava un prodotto di sempre maggiore pregio e quindi anche un commercio più costoso e ricercato. Sono molte le cantine storiche che ancora oggi producono vino, adeguando via via gli spazi alle nuove tecniche di produzione. In particolare si è riscoperta un’antica lavorazione del vino detta “a caduta” o “a gravità” che permette di evitare gli spostamenti meccanici o forzati del mosto, sfruttando invece il dislivello naturale degli spazi e procedendo quindi con le fasi lavorative dall’alto verso il basso. Questa soluzione riscontra grande successo dal punto di vista enologico perché così facendo il vino si stressa meno, ricevendo meno rimescolamenti e ossigenazioni che potrebbero compromettere la riuscita finale. E risulta soddisfacente anche dal punto di vista architettonico perché permette un grande risparmio energetico che si spenderebbe per l’utilizzo di macchinari e pompe, questo aspet-

to, unito alla necessità di lavorazione a basse temperature, ha fatto sì che le cantine si sviluppassero per la maggior parte in locali ipogei. Una cantina oggi è la sintesi fra tradizione storica e locale, ricerca enologica e qualitativa, un vero e proprio luogo di culto del nettare divino. Riflessioni Ogni nuova costruzione comporta un intervento in una determinata situazione storica. La qualità dell’intervento dipende dalla capacità di dotare il nuovo di proprietà in grado di instaurare un significativo rapporto di tensione con il preesistente. Giacché per trovare un suo posto, il nuovo dovrà anzitutto stimolarci a guardare l’esistente in modo inedito. Quando nell’acqua di uno stagno viene gettato un sasso, un vortice di sabbia si solleva e si rideposita; il sollevamento è indispensabile affinché il sasso trovi il suo posto. Ma lo stagno non è più lo stesso di prima. (Peter Zumthor, Pensare architettura)

Oggi una cantina vinicola non è semplicemente un edificio industriale in cui si produce in serie un prodotto standardizzato e massimizzato. Vi è stato un grande avanzamento dal punto di vista tecnologico ed enologico, che ha visto, soprattutto dagli anni Sessanta, una specializzazione nell’analisi chimico-biologica del terreno, della pianta e del frutto; oltre a una maggiore ricerca nelle tecniche di vinificazione. Nonostante questa modernizzazione della tecnica, che risulta tra l’altro molto differente da zona a zona e molto legata alla filosofia del produttore, la cantina rimane un elemento fortemente artigianale, legato alla tradizione e molto connotato. Si è evoluta invece la concezione dell’architettura verso una maggiore attenzione al territorio e all’ambiente, con un maggior studio del posizionamento nel contesto sia per agevolare le attività interne che per rispettare la crescita del vigneto e della vegetazione circostante.

Progettare una cantina non significa quindi progettare uno o più corpi di fabbrica isolati e autoreferenziali; significa invece ricercare una sintesi con l’intero contesto di produzione vinicola, come un organo complesso che trova la perfezione del prodotto finale solo quando ogni fase di lavorazione è ben studiata e funzionante. Un altro aspetto molto importante che si sta evolvendo negli ultimi quindici anni, e che ha visto come pionieri le aziende vinicole dell’America e soprattutto del Sudafrica, è quello della cantina non più come edificio esclusivamente produttivo ma come luogo dello stare. Fino ad oggi il prodotto finito veniva inscatolato e spedito in luoghi appositi alla vendita, come era sempre avvenuto fin dai tempi dei Romani. La nuova tendenza muove invece verso un’apertura delle cantine direttamente al pubblico. Il consumatore ha la possibilità di arrivare alla sorgente ed esplorare il dove e il come viene prodotto il nettare di cui poi può fare uso comprando- 25


a destra Dioniso. Copia romana da una rielaborazione della tarda età ellenistica (II sec. a.C.). Prassitele. Palazzo Massimo alle terme, Roma.

lo. La cantina si eleva così a museo, si espone come una mostra di opere d’arte, e il proprietario ha quindi la possibilità di mostrarsi, di far conoscere la sua filosofia la sua visione del fare vino, creando una rete di scambio che unisce l’origine di tutto alla sua degustazione finale. Nella progettazione si tiene quindi conto di una serie di nuovi spazi per l’accettazione, la visita e la degustazione del pubblico. Nuove problematiche si pongono per integrare il percorso di visita con gli spazi di produzione in modo che questi interagiscano senza compromettere le fasi lavorative. Questo diventa un nodo essenziale nella progettazione delle nuove cantine, mentre quelle già esistenti si adattano con più o meno successo per poter garantire una finestra sul loro mondo. Il nuovo modo di vivere la cantina si sta espandendo piano piano anche in Europa, dove l’interazione tra pubblico e produzione si mantiene però sempre controllata e troppo rapida. L’architetto diventa prima viticoltore e poi enologo e infine degu-

statore, per poter coniugare al meglio questi aspetti, facendo si che queste architetture siano il biglietto da visita e da pubblicità per invogliare il pubblico alla frequentazione. Questo aspetto è tanto interessante quanto pericoloso perché rischia di allontanare i nuovi progetti dalla genuinità di queste architetture, trasformando l’attività secolare e divina in un atto puramente commerciale e speculativo che invece di avvicinare l’uomo alla terra lo allontana e lo rende superficiale. Per evitare tutto ciò è importante non dimenticare mai il concetto di terroir che deve essere molto presente e predominante nella progettazione di una cantina vinicola perché lega indissolubilmente i tre aspetti essenziali di questa equazione: il fare vino del produttore in questione, la storia e la tradizione che originano quel fare vino, e infine il paesaggio.

Il vino Il vino è vino, come ognuno di noi, nasce, cresce e raggiunge la maturità. In quel momento ha un gusto fantastico. (Sideways, In viaggio con Jack, 2004) Fu Marco Tullio Cicerone nel I secolo a.C. ad attribuire il nome “vinum” alla bevanda. “Vir, vis”: uomo, forza. Così si era andato connotando il vino nell’antica Roma: come la bevanda con il potere di rallegrare gli animi, di dare forza, di alleviare le malattie. E così infatti veniva servita piramidalmente ad ogni fascia della società: ai legionari dell’esercito romano, al popolo nelle taverne di qualsiasi castro, agli imperatori, ai senatori e agli aristocratici durante i banchetti più lussuosi. Il simposiarca, il patrono del banchetto, sceglieva la diluizione della bevanda e il numero di brindisi da fare alla salute e al convivio; il vino era il vero protagonista di ogni festa o ricorrenza. Era elevato ad arte, ogni suo sorso doveva far parte di un’esperienza sensoriale e poetica.

La parola sanscrita “vena” ha come radice il verbo “amare” a cui è stata collegata la derivazione di “Venus”, che conferisce una visione romantica dell’origine della parola “vino” che lo legherebbe indissolubilmente alla bellezza. Il nettare della vite è una sostanza nobile, divina, tanto elegante quanto inebriante; bella come Venere che fuoriesce dalle acque e fa innamorare con la sua sacralità tutti i popoli, tutti gli uomini. Fu Dioniso, divinità greca, giovane figlio di Zeus, la prima personificazione del vino, che i greci ritenevano appunto un dono degli dei. Da allora questa bevanda verrà adorata anche sotto il nome di Fufluns dagli Etruschi e sotto quello di Bacco dai Romani. La lavorazione vinicola non veniva considerata al pari delle altre attività agricole, la vendemmia in particolare era una festa, un momento di pausa dall’attività quotidiana perché era un momento in cui l’uomo entrava in contatto con il divino. Dioniso prendeva parte alla vendemmia accompagnato dai satiri e menadi, caricando di



a destra “La Torre di Barrique” Vista di progetto della sala degustazioni. Cantina vinicola Fornaser

misticità questa fase della lavorazione. Analogamente succedeva in Etruria, dove il vino era il protagonista di riti funebri e celebrazioni religiose, o riti segreti, durante i quali l’ebrezza provocata dalla bevanda metteva in comunicazione il terreno con il divino e assicurava una sorte felice nell’aldilà. Il vino prodotto dagli Etruschi era però di qualità molto più scarsa rispetto a quello greco. Questo perché gli Etruschi facevano crescere la vite attorcigliata ad altri arbusti non permettendo così una buona esposizione alla luce e al calore del sole, producendo un’uva aspra, e un vino infimo e scarso. I Greci invece avevano una produzione molto avanzata e ben studiata, dato che le fasi in linea di massima erano le stesse che vengono effettuate ancora oggi. Probabilmente avevano imparato bene la lezione dagli Egiziani che prestavano una grande attenzione alla vinificazione e alla conservazione del vino, che era un elemento molto importante nei corredi funebri dei faraoni. Vi si trovano dei contenitori che indicano addirittura la zona di produzione, l’anno e il nome del produttore, anticipando di

molti secoli la denominazione attuale. Ai Romani si deve invece il passaggio dalla vinificazione in anfore di argilla alla botte gallica, antenata della barrique. Questi contenitori in legno erano molto più maneggevoli e miglioravano la qualità del vino in fase di invecchiamento, cosa che invece non succedeva con le anfore che, essendo ricoperte di resine per l’impermeabilizzazione, erano causa di mal odori e fermentazioni incontrollate. Sono quattro le fasi principali del processo di vinificazione che, con non poche semplificazioni e riduzioni, interessano in linea di massima tutti i vini del mondo. Questa lavorazione così antica e complessa è stata nei secoli declinata in tantissimi modi a seconda delle zone geografiche, delle epoche storiche e delle tradizioni del luogo. Per un esame davvero efficace ed esaustivo dei processi vitivinicoli senza mancare di rispetto a nessuna fase della lavorazione, si dovrebbe indagare nel dettaglio ogni singola azienda vinicola, per far sì che non sfugga neanche un particolare di questa arte.

La nascita: l’uva attraversa tre fasi principali che la trasformano da frutto acerbo, con acini piccoli e verdi, a grappolo rigoglioso caratterizzato da acini grandi, colmi d’acqua, molto zuccherini e di sapore più gradevole. La fase finale di maturazione, che dura al massimo cinquanta giorni, è la parte più importante per la riuscita finale del vino. Infatti il frutto matura in maniera diversa a seconda della varietà a cui appartiene, sviluppando tannini, profumi e zuccheri diversi. È la fase da tenere più sotto controllo per decidere il giusto momento della vendemmia, un ritardo di anche solo un giorno potrebbe variare molto il risultato finale. Alla vendemmia si fanno precedere tutta una serie di studi sia di tipo visivo sullo stato dell’uva, sia di analisi chimica e biologica; nonché delle considerazioni sulla zona geografica, sul tipo di vigna e sull’andamento della stagione dal punto di vista climatico. La raccolta avviene intorno ai mesi di settembre e ottobre per quanto riguarda l’Italia e dipende fortemente dalla latitudine e dall’altitudine; viene concentrata in pochi giorni dell’anno in cui si lavora

a pieno ritmo, evitando le ore più calde della giornata. Essenziale è ridurre al massimo la distanza tra la raccolta in loco dell’uva e il luogo in cui passa alla pigiatura, questo per evitare un’ulteriore esposizione al sole e l’inizio di fermentazioni anomale. Da questo momento in poi ogni chicco diventa prezioso come un diamante. La maturazione: l’uva raccolta viene pigiata tramite macchinari di diverso tipo e specializzazione che hanno il compito di separare i componenti del grappolo tra acini, atti a diventare vino e i raspi, le bucce e i vinaccioli, invece da eliminare. La pigiatura dà origine al mosto, la miscela embrionale di quello che poi sarà il vino, e alla vinaccia. Questa è una fase molto importante e delicata, gli acini non vanno stressati troppo e infatti elemento molto importante è l’utilizzo il più possibile limitato delle pompe. Da questo momento in poi il mosto viene travasato in appositi tini, generalmente in acciaio in cui inizia la fermentazione. Questo passaggio è tra i più importanti della vinificazione perché è preferibile che avven-




a sinistra “Un nuovo paesaggio” Vista di progetto della loggia sul paesaggio. Cantina vinicola Fornaser

ga per gravità, sfruttando il dislivello dei locali, senza l’utilizzo di macchinari che pompino il liquido; se questa fase viene ben studiata nella progettazione sarà di grande aiuto per agevolare il passaggio da un recipiente all’altro e per diminuire il dispendio energetico. Dopo poche ore dalla pigiatura il mosto inizia a fermentare trasformando gli zuccheri in alcol etilico e anidride carbonica. La prima fermentazione, che dura in media dai cinque ai quindici giorni, si chiama fermentazione tumultuosa a causa di questa produzione di anidride carbonica che genera bollicine che fanno “fervere” appunto, cioè bollire il composto. A questa fase segue la fermentazione lenta, o malolattica, che è il momento in cui il liquido viene perfezionato e avviene generalmente anch’essa in tini di acciaio dove il vino viene periodicamente mescolato. Il processo di fermentazione causa un aumento di temperatura dovuto allo sprigionamento dell’anidride, è quindi fondamentale che questa avvenga in un locale ben coibentato e in cui la temperatura non superi 1518°C. Risulta inoltre molto importante lo studio dell’aerazione di questi locali dal momento che l’enorme quantitativo di anidride carbonica liberata può essere rischioso se inalata dall’uomo.

L’invecchiamento: una volta finita la fase di fermentazione, che può durare anche molti mesi, raggiunto il colore del mosto sufficientemente ricco, il liquido può essere definito propriamente “vino” e si procede quindi alla svinatura e al travaso in altri contenitori per il suo invecchiamento. Anche questa fase è preferibile che avvenga per gravità e senza l’uso di pompe artificiali, risulta comunque molto più facile da effettuare dato che per la maggior parte dei casi il liquido fuoriesce dalla bocca inferiore del tino per essere travasato in una botte o in una barrique di dimensioni più contenute. L’invecchiamento è il processo per eccellenza di affinamento del vino ed è la fase di maggiore fantasia e differenziazione; è in questa fase che ogni casa vinicola dimostra con le proprie etichette le abilità enologiche, spesso frutto di affinamenti e perfezioni che durano da decenni, confezionando così un prodotto unico e dalle caratteristiche fortemente connotate. Questa fase dura spesso alcuni anni ed è un processo naturale durante il quale il vino acquista caratteristiche organolettiche che vanno a comporre il suo “bouquet” e cioè il corredo di sensazioni olfattive e gustative. Sono varie le correnti di pensiero su quale sia il recipiente migliore per l’invecchiamento del vino e ovviamente la verità non

è una sola, in quanto dipende dal tipo di vino e dalla filosofia del produttore. Il miglior invecchiamento è ritenuto in linea di massima quello in barrique, o in botti di piccole dimensioni, specialmente in legno di rovere francese. L’ultima fase del processo è l’imbottigliamento in vetro ed è un momento molto delicato che deve essere effettuato in luoghi asettici, estremamente puliti e con macchinari adeguati per evitare che il contatto con l’aria porti alla creazione di malattie e alterazioni del vino. È inoltre necessario che la fermentazione sia del tutto conclusa e il vino sia quindi stabile. La bottiglia consente una buona conservazione dei vini, alcuni dei quali prevedono un periodo di invecchiamento anche in vetro prima di poter essere gustati, invecchiamento che dovrebbe avvenire in cantine poco luminose e con temperature sui quindici gradi e molto umide. La bottiglia è a questo punto pronta per essere etichettata, altro aspetto molto importante che riguarda l’immediata riconoscibilità del vino e la possibilità di associarlo subito ad un produttore in particolare, ad una zona di origine, o ad una corrente di pensiero sul fare vino.

La degustazione: l’ultimo esame di tipo sensoriale e organolettico a cui viene sottoposto il vino è la sua degustazione. Il luogo in cui avviene la degustazione deve essere luminoso ed esente da odori particolari, i vini vanno serviti alla debita temperatura che vari a seconda del tipo di vino: dai diciotto ai quindici gradi per i vini rossi più o meno invecchiati, a dodici gradi per quanto riguarda i vini bianchi. Questa attenzione alla temperatura della bottiglia serve per esaltare alcune qualità che altrimenti si andrebbero a perdere, come il dolce e l’aromatico o le sensazioni dovute all’alcol. Tutti e cinque i sensi vengono coinvolti nella degustazione, a partire dalla vista, che porta a fare alcune considerazioni sul colore e la fluidità del vino, che l’olfatto tramite cui si riconoscono gli aromi e i sapori della terra che ospitava questa bevanda. Finendo poi con il gusto che permette una totale fusione con il prodotto assaporato e tramite cui si può apprezzare il grande lavoro che l’ha preceduto.

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“Un maestro sa”

a sinistra La famiglia Fornaser

I veri intenditori non bevono vino: degustano segreti. (Salvador Dalì) La Valpolicella è una terra di piccole e medie proprietà nelle quali ogni produttore coltiva con orgoglio e con passione il suo vino, alla ricerca ogni anno della bottiglia perfetta. L’Adige scorre tortuoso e sicuro verso Verona scavandosi la via in mezzo alla pietra della gola di Ceraino. Nei secoli, lungo questa strettoia è passata tutta la storia del Veneto. Qui sono avvenute battaglie decisive, commerci e spedizioni verso Nord e Sud, ed era qui che la pietra appena cavata cominciava il suo viaggio fino a trasformarsi in abitazioni, palazzi nobili, edifici pubblici. Se dalla gola di Ceraino si volge lo sguardo in su si incrociano i territori della Valpolicella. Questa terra è rimasta per secoli come un luogo incantato, la vita qui è trascorsa tranquilla e modesta. I Reti producevano il vino e scavavano la terra per ricavarne la pietra per le loro abitazioni, e così hanno continuato a vivere gli abitanti di questi luoghi, non curanti degli avvenimenti che attraversavano la piana di Rivoli. Questa pacifica esistenza si legge nell’orografia delle colline, nelle architetture di San Giorgio, e nei sapori dell’amarone. La Valpolicella è un territorio di confine, incastonata tra le Alpi e l’inizio del

meridione, ai margini della Rezia e del clima mediterraneo; ed è la terra che produce forse il vino più pregiato di tutta la penisola, o per lo meno il più amato e sospirato. Qui le vigne danno spettacolo concependo la loro opera ultima, arrampicate tra terreni pendenti e terrazzamenti di pietra, al confine con il settentrione e il freddo, creano un nettare delicato e deciso, intriso di profumi e fragranze su cui sono incisi il sapore della terra e l’essenza del territorio. I vignaioli della zona sono consapevoli del tesoro di cui dispongono e lo curano, lo alimentano e lo coltivano con tutta l’attenzione necessaria a mantenerlo e a tramandarlo tale e quale, ogni fase viene eseguita attentamente come un’operazione chirurgica, il suolo viene curato come un figlio e la dedizione è massima ogni giorno dell’anno ed ogni ora del dì. Qui la viticoltura non è un lavoro, un atto economico e commerciale, qui fare vino è una scelta di vita, è la decisione di elogiare ed esaltare il luogo in cui si è nati, ripagando il debito di gratitudine verso la natura e verso le proprie origini tramite la creazione di un prodotto che pare davvero avere richiami divini.

Un maestro sa, conosce la sua terra, la insegna ai bambini che diventano adulti e la curano, insegna ai figli la lezione appresa da suo padre, trasmette la propria passione. I figli raccolgono il testimone della sua conoscenza e ne fanno una professione, trasformano la passione in arte, l’uva in vino. Il cerchio è completo, dall’alfa all’omega. (Cantina Fornaser) Tempo e tradizione sono le due componenti essenziali per produrre un buon vino e sono le due caratteristiche che hanno preservato e cristallizzato la Valpolicella nei secoli. Il tempo di aspettare che gli acini raggiungano il loro massimo potenziale, che il sole faccia i suoi mille giri e riscaldi la pietra dei terrazzamenti, il tempo giusto per invecchiare e per assaggiare. La tradizione, ma soprattutto il rispetto per essa, impreziosisce la lavorazione e carica di significato la quotidianità di questa attesa. Tempo e tradizione sono le caratteristiche del fare vino della famiglia Fornaser, vignaioli da tre generazioni e da sempre abitanti della Valpolicella, che con passione allevano la vite e producono i vini tradizionali del luogo. Giuseppe Fornaser coltivò la sua passione di maestro del vino parallelamente a quella di insegnante scolastico, colorendo entrambi gli impegni con

cultura, impegno sociale e amore per la terra. Già suo padre, Giuseppe Fornaser, prima di lui era stato premiato per le sue abilità vitivinicole alla Fiera Cavalli di Verona nel 1924, dando inizio a un percorso alla scoperta dei valori del proprio territorio che interesserà tre generazioni della famiglia. Giuseppe fu maestro di scuola, di vino e più in generale di vita, la sua eredità così preziosa è stata colta in tutta la sua essenza dai figli Paolo, Giorgio, Fabiano e Massimiliano, che con determinazione rivolgono adesso lo sguardo al futuro che si colora di toni vinaccia e ogni annata crea un ponte tra la storia della Valpolicella, le origini della loro famiglia e l’amore per il vino, che espandono in tutto il mondo. Fin dall’antichità, lo studio del terreno, elemento in grado di conferire proprietà organolettiche uniche ai vini e, successivamente, dell’esposizione al sole, ai venti e l’altitudine, erano una parte rilevante per assicurarsi una buona riuscita delle vigne. Questa importanza è andata aumentando e raffinandosi con il progresso degli studi scientifici ed enologi sul suolo e sulla pianta. La terra, da cui sorgono le vigne e grazie alla quale si sviluppano, è uno dei punti chiave della produzione della famiglia Fornaser, che descrive infatti i propri vigneti in funzione del 33 suolo che li ospita.


a sinistra Ritratto del maestro Fonaser

Il primo e più antico vigneto della famiglia è quello di Monte Faustino: è con questa vite che il maestro Fornaser creò la sua prima bottiglia di Amarone. Ancora oggi qui si produce il vino migliore della casa perché la vigna, essendo molto vecchia, presenta delle radici più strutturate e più adatte ad assorbire meglio l’acqua e i minerali che poi influenzano la natura dell’uva stessa. Il suolo dà un sapore di grafite all’uva, la terra è gialla, tufacea e conferisce alla vite delle sfumature minerali che poi vengono trasmesse al vino, la porosità del tufo trattiene l’acqua nella quantità giusta per poter alimentare e nutrire la vite. Le stesse caratteristiche si ritrovano nel vigneto Traversagna, adiacente a quello Monte Faustino, con terrazzamenti in terra gialla e buona esposizione al sole che durante il giorno scalda le pietre che poi a loro volta nella notte passano il calore alle radici della vite. Il terzo vigneto di famiglia è quello di Costalunga, il più recente della produzione, situato in collina sopra Sant’Ambrogio, subito sopra al corso dell’Adige che impregna l’uva come in nessun altro posto. Anche qui i terrazzamenti delineano il territorio caratterizzato da una grande estensione, da cui il nome, e un’ottima esposizione al sole verso sud-ovest. Il suolo è formato da terra rossa argillosa e ricca di scheletro che porta alla creazione

di un vino molto particolare e definito da sapori e tannini unici. La buona ventilazione del luogo permette di preservare le piante da malattie e le mantiene rigogliose. Amarone, amor mio L’étoile, il grande protagonista della Valpolicella è l’Amarone, un vino dal colore rosso intenso, con profumi svariati di frutta passita, di ciliegia, ribes, cioccolato e spezie; molto strutturato ma anche elegante ed equilibrato. Pungente, amaro, tinto da retrogusti fantasiosi che lasciano in bocca immagini forti e rianimano desideri sopiti o mai elaborati. I sapori e gli odori si mantengono tali e si affinano con l’invecchiamento in bottiglia arrivando ad essere apprezzabili anche dopo vent’anni. La sua storia comincia nel quarto secolo d.C. con Cassiodoro, ministro di Teodorico, che descrive in una lettera un vino ottenuto con una speciale tecnica d’appassimento delle uve, che appella Acinatico, prodotto nelle terre della Valpolicella. Si hanno così le prime tracce dell’antenato del Recioto e dell’Amarone. Un tempo in Valpolicella era prodotto solo il Recioto, un vino dolce, zuccherino; con il passare del tempo l’uva, lavorata nello stesso modo, originò un vino più secco rispetto all’originario, cosa che considerata un problema ed il vino

veniva giudicato malato, non più buono. Il racconto narra che, in alcune botti ormai dimenticate contententi Recioto ad invecchiare da anni si fosse originato un vino secco, spiegando così il motivo per cui L’Amarone viene a volte chiamato “Recioto scapà” cioè “scappato”. Questa storia poco nobile non mette tutti i produttori d’accordo, ma non influisce negativamente sulla fama di questo vino che fino dai primi del Novecento fu sempre più apprezzato fino a produrlo volutamente, prendendo il nome dalla sua caratteristica principale: il sapore amarognolo. Inizialmente imbottigliato con il nome di “Recioto amaro” con gli inizi degli anni Novanta fu decretato che il suo nome dovesse semplicemente essere “Amarone della Valpolicella” La lavorazione di questo vino non ha subito grandi cambiamenti rispetto alla descrizione che ne viene fatta da Cassiodoro; la vendemmia avviene tra settembre e ottobre, ponendo particolare attenzione allo stato degli acini che devono risultare completamente maturi e sani in modo che possano affrontare con successo la fase di appassimento invernale. L’uvaggio prevede la mescolanza di Corvina, Corvinone e Rondinella, con variazioni minime di percentuali e di altri uvaggi aggiuntivi. Le uve attentamente selezionate in vigna vengono raccolte e distese con cu-

ra formando un unico strato su graticci di canne di bambù, che prendono il nome dialettale di arele, oppure più recentemente, in cassette di legno. Le arele, patrimonio storico della valle, sono collocate in ampi fruttai ricavati sopra le cantine, perfettamente aerati e in grado di assicurare un’ideale conservazione ed appassimento dei grappoli. La pratica di “seccare” le uve è la fase più importante nel processo di lavorazione dei vini della Valpolicella, metodo unico e particolare, che contraddistingue questa zona da tutto il resto del mondo. L’uva sta nelle arele per tre o quattro mesi, costantemente visionate, girando gli acini, per eliminarne gli eventuali marciti o affetti da muffe dannose; il processo si esaurisce quando essi perdono almeno la metà del loro peso e con l’evaporazione dell’acqua si raggiunge la concentrazione degli zuccheri desiderata. Un tempo la tecnica dell’appassimento era effettuata anche appendendo ogni singolo grappolo d’uva con uncini e travi alla rovescia, permettendo una maggiore areazione tra i chicchi che quindi appassivano meglio. Perfino Cassiodoro racconta di questa usanza: “Scelta l’uva nell’autunno dalle domestiche pergole, sospendesi rivoltata”. Ultimato l’appassimento, si procede alla regolare vinificazione che vie-


Che quando per un motivo o per l’altro si nomina la Valpolicella, tutti pensano con desiderio a una di quelle bottiglie nere, impolverate e un po’ panciute, che suole comparire in tavola verso il finale di un allegro banchetto, attesa e salutata come la vera regina della festa. Può darsi che sia confezionata un po’ rozzamente quella bottiglia, che non abbai etichette multicolorate o luccichio metallico di capsule. Fidatevi lo stesso; anzi di più. […] Si tratta, del resto, di un prodotto molto illustre, di solida e antichissima nobiltà, perché è ormai accertato che nell’odierno “Valpolicella” è da indentificarsi quel vino “Retico” esaltato dagli scrittori latini e tanto apprezzato sulle mense imperiali di Roma. ne effettuata a temperature piuttosto basse visto che avviene in generale nei mesi di gennaio e febbraio. Il vino così prodotto ha bisogno di un lungo periodo di affinamento in barrique, generalmente tre anni, e poi in bottiglia, prima di poter essere bevuto. La denominazione d’origine controllata lo certificò ufficialmente solo nel 1968 quando iniziò la sua commercializzazione effettiva, anche se, essendo un prodotto che richiede una cura particolare, sia delle uve utilizzate che della lavorazione, la quantità di vino prodotta rimane ancora oggi ridotta rispetto al Valpolicella, Classico e Superiore, che rimangono i vini simbolo della zona. Recioto, nettare di memoria I vini della Valpolicella hanno avuto nei secoli la fama di essere bevande molto pregiate e molto amate prima di tutto dai Reti, poi nel periodo etrusco, ma soprattutto in epoca romana dove furono molto decantati da tanti scrittori e poeti. Fu Virgilio il primo a lodare il vino retico, antenato dell’attuale Recioto, che viene descritto come “un liquido carnoso o una bevanda da mangiare” e che era nettamente superiore ai vini coltivati nelle altre zone, tanto che l’imperatore Augusto, in generale astemio e restio al vizio del bere, si concedeva invece volentieri il vino retico. Catullo e Plinio il Vecchio furono tra

gli altri a cantare le lodi dei nettari della Valpolicella. Il Recioto è la memoria contemporanea della storia del Veneto e di tutta la penisola in generale. Il suo nome deriva dalla forma dialettale “recia” che significa “orecchia” perché dei grappoli d’uva venivano selezionati gli acini più esterni, più esposti al sole che avevano quindi una più alta concentrazione di zuccheri. “Recia” inoltre deriva dal latino “recis” che significa grappolo. Per creare questo vino si utilizzano gli stessi uvaggi dell’Amarone: la Corvina, la Rondinella e il Corvinone, ed anch’esse subiscono una fase di appassimento iniziale della durata di qualche mese. Ma l’erede del grande nettare romano ha subito non poche critiche e calunnie nei decenni da parte di enologi ed esperti, oltre a vari tentativi di falsificazione; il suo commercio è complicato al di là del confine regionale, eppure esso è ancora molto vivo nel popolo veneto che non rinuncia alla sua produzione e al piacere della sua degustazione. Quando un prodotto della terra si eleva in questo modo a opera d’arte non lo si può giudicare solo sotto parametri tecnici ed enogastronomici. Va assaporato con tutti i cinque sensi, ne va ascoltata la musica che riecheggia timida da millenni, va saputo coltivare e amare come fanno da sempre i produttori di questa zona.

Il segreto è nel Ripasso L’appassimento non è l’unica peculiarità nelle fasi di lavorazione della Valpolicella, procedimento che ormai viene effettuato su tutto il raccolto con durate differenti a seconda del tipo di uva e del vino a cui è destinata. Evoluzione del Recioto è il vino denominato “Ripasso”, nome tradizionale e familiare che viene sostituito con il nome di “Valpolicella Superiore” nella denominazione ufficiale. Il procedimento si differenzia leggermente per ogni azienda, ogni produttore ha la sua formula magica che compone filosofia, studi e tradizione familiare. In generale le vinacce fermentate, utilizzate per fare l’Amarone o il Recioto vengono ripassate, cioè mescolate in tini di fermentazione con il vino Valpolicella per circa dieci o quindici giorni, conferendo così l’intenso color rubino e il sapore forte e deciso. Le varianti nel processo riguardano: la scelta delle vinacce con cui ripassare, il tempo di contatto di queste, la percentuale di uva da sottoporre al procedimento e infine l’aggiunta o meno di un quantitativo di uva completamente appassita. Questo vino si origina da una lavorazione molto elaborata, ardita e strettamente personale, come una ricetta segreta di cucina; la sua fama va aumentando esponenzialmente ed è

motivo di orgoglio per i produttori della Valpolicella, essendo questa l’unica zona al mondo in cui le vinacce di un vino vanno a dialogare con il mosto di un altro per generarne un terzo che, in un’unione ben riuscita, esalta i pregi di entrambi i due.

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Paesaggio, pietra, memoria Nel ricercare l’anima vera e la tradizione delle terre della Valpolicella, il progetto della cantina e dei due padiglioni di Memorie Retiche si propone di donare nuovi sapori e un nuovo sguardo alla realtà, nella speranza così di ritrovare e rinnovare il dialogo tra l’uomo e la sua natura.


in basso La Galleria delle Arele


Memorie di Pietra

Sul lago di Garda, fin dalle prime ore del mattino, soffia una brezza leggera proveniente da settentrione, più precisamente da Nord-Nord-Est. “Peler” è il nome con cui viene chiamato questo canto di Eolo, equivalente a un canonico maestrale, che rinfresca le zone limitrofe al lago, arrivando fino in Valpolicella. Sui colli attorno a San Giorgio Ingannapoltron si incrociano due correnti principali di venti, il Peler mattutino che si muove verso Sud e che rinfresca abbassando le temperature, a cui si contrappone un vento caldo meridionale che durante il pomeriggio inverte il soffio e riscalda le colline. Questa danza di correnti è un fattore importante per la coltivazione delle vigne che vengono continuamente rinfrescate e areate contribuendo al loro benessere e ad evitare la diffusione di malattie. Apparentemente invisibile, il Peler è il protagonista di queste colline della Valpolicella, soffiando con decisione, manifesta i suoi effetti sulla Natura e sui suoi frutti; l’impianto generale del progetto segue quindi l’inclinazione di 22,5 gradi Nord-Est per onorarlo. La cantina è al servizio ogni anno di ciò che la Natura decide di produrre e di regalare all’uomo. La vigna è continuamente soggetta a intemperie e possibili calamità che possono danneggiar-

la e rendere vano in poco tempo il lavoro di tanti mesi. Questa è l’ultima dimora dell’uva, il suo cimitero, è qui che avviene la grande trasformazione, ed è per questo che essa “segue il vento”, si lascia scuotere da esso come le foglie di una quercia. Rimanendo ancorata solidamente alla terra che l’ha generata, si inclina al volere del Peler e lo chiama in causa, denuncia la sua presenza, lo rende materia solida. L’area di interesse vede il proprio suolo rimaneggiato e ferito da cinque cave abbandonate di varie dimensioni. Queste con gli anni sono state ricoperte dall’inesorabile lavoro della Natura che si è riappropriata di questi spazi, non riuscendo però a nascondere del tutto l’artificio. Sulla cava più grande del lotto prende vita il progetto della cantina che da esso si genera tramite l’utilizzo della stessa pietra scavata. Il dislivello artificiale, frutto di anni di scavi, culla il progetto che ne sfrutta le altezze per contenere gli spazi ipogei necessari alla lavorazione del vino. Su una piccola cava più a Nord con impianto circolare si va invece a installare il padiglione delle degustazioni estive che da essa riprende la forma e intende creare un nuovo rapporto con lo scavo e uno sguardo inedito sul paesaggio tutto attorno.

L’intervento si pone l’obiettivo di agire sul territorio in maniera delicata e rispettosa e, anzi, recupera gli scavi dell’uomo per farne materia di nuovo uso. A disegnare il vicino vigneto di famiglia sono le marogne in pietra locale che fanno da supporto alle vigne e ridefiniscono il territorio, proprio come per decenni hanno fatto le cave marmoree. Questi terrazzamenti, seguendo le curve di livello e portando alla luce la pietra del sottosuolo, ritmano i colli, diventando le geometrie, i segni dominanti della vallata. È grazie a questi due elementi che la pietra gialla tufacea del luogo si trasforma in architettura. Recupera la memoria che le è familiare, perché da qui era cavata per farne i migliori edifici, e si fa nuova costruzione. Essa va a formare un muro, un grande terrazzamento contemporaneo che diventa abitato, nobilita la pietra dandole nuovo dialogo con la costanza delle marogne e con l’irregolarità degli scavi.

Sono la linea, il punto e la superficie le geometrie che vanno a ridisegnare il luogo e a riscrivere la storia di questa terra, utilizzando solo la pietra, il paesaggio e la memoria. La cantina ed i padiglioni si osservano e confrontano reciprocamente. Sono elementi puntuali sparsi nel territorio che dialogano tra loro, indipendenti dal punto di vista architettonico ma intimamente connessi. Come accade nella maestosa Villa di Adriano a Tivoli, gli edifici dalle forme singolari sono accostati, ma per lo più non collegati. Essa prende le sembianze di un museo all’aperto che si estende per 800 metri nel quale l’imperatore, amatore d’arte e curioso esploratore, vuole collezionare con scrupolo e nostalgia i monumenti che ha apprezzato durante i suoi viaggi. Con la stessa sensibilità nostalgica le tre architetture si inseriscono nel territorio e vi si adagiano, come fossero sempre esistite, mimetizzandosi e richiamando elementi tipologici caratteristici del luogo.

La stessa pietra va a definire il padiglione abitativo nel promontorio più alto del lotto. Esso, solido e monumentale domina la tenuta, come un forte difensivo, e da qui si gode lo spettacolo del sole che muore nelle acque del Garda.

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in basso Pianta della Galleria delle Arele e degli spazi adibiti a vendemmia, laboratori enologici e amministrazione Piano 0 pagina precedente Prospetto Est della cantina e dei due padiglioni

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La Cantina

Ad una lettura a livello planivolumetrico del progetto si evidenziano due corpi di fabbrica dallo sviluppo longitudinale, che individuano le altrettante funzioni principali della cantina contemporanea: la produzione vinicola nell’elemento principale e le funzioni pubbliche e di accoglienza del corpo più piccolo dei due. La traslazione che avviene tra questi due elementi simboleggia il fatto che i due aspetti del fare vino debbano correre paralleli, interagendo e dialogando continuamente ma senza intersecarsi e confondersi. È importante che nessuno dei due corpi di fabbrica prevalga sull’altro: il visitatore qui ha modo di “spiare” e osservare la lavorazione entrando nel mondo dell’azienda senza mai intralciare le fasi lavorative che proseguono indisturbate ad un livello inferiore; si incontreranno faccia a faccia solo in un momento ben studiato del percorso di visita, unico punto di collegamento diretto tra i due elementi, che coincide con il momento in cui il visitatore finalmente scopre il paesaggio e si gode il vino.

a destra Esploso assonometrico della cantina

Il corpo di fabbrica principale, lungo 155 metri, che segue il Peler e si fa spazio nell’orografia del suolo, si compone per una parte superiore in pietra locale, mantenendo un’altezza costante di 6,20 metri e di un basamento solido in cemento che viene “mangiato” dal terreno assumendo quote diverse in vari punti. Il basamento schinkeliano ha la funzione di nobilitare il grande terrazzamento in pietra ma, soprattutto, di elevare la sua attività interna, esso infatti ospita la funzione più importante e più delicata del processo di lavorazione del vino della Valpolicella: l’appassimento delle uve dentro le arele. All’interno di questo spazio l’uva raccolta viene fatta essiccare dentro una struttura appositamente studiata sulle misure dei pancali in legno utilizzati dall’azienda per trasportare e contenere le scatole con gli acini. La pietra locale, di diverse dimensioni, lasciata al naturale, così come viene cavata, va a riempire i gabbioni di rete metallica autoportanti, senza ulteriori malte o aggreganti tra le pietre che quindi lasciano penetrare la luce e l’aria. Quest’ultima è una componente molto importante per la ventilazione dell’uva al fine di evitare che gli acini marciscano nel periodo di appassimento; l’areazione naturale permette un grande risparmio di energia per i

macchinari di condizionamento e permette di usufruire della caratteristica ventosità della collina. Nella galleria delle arele si crea così, oltre a un buon ricircolo d’aria, un gioco di luci e ombre che ricordano una cattedrale gotica, creando la suggestione di trovarsi effettivamente in un luogo sacro, nel tempio dell’uva. La misura che origina la sezione della galleria delle arele dà la dimensione a tutto il progetto della cantina. In questo spazio si uniscono funzionalità, tradizione e memoria, esso è disegnato e pensato sulla misura del tesoro che deve contenere: il chicco d’uva. Gli spazi produttivi della cantina si sviluppano su due livelli, uno a quota zero e uno ipogeo alto sei metri. Sul primo livello sono collocate le funzioni iniziali del processo di vinificazione che prevedono, oltre alla galleria delle arele, la zona di vendemmia con le macchine diraspo-pigiatrici. Questi spazi hanno la necessità di interagire continuamente, soprattutto durante i mesi dell’appassimento; è inoltre essenziale una certa rapidità nei passaggi tra il locale di vendemmia e quello delle arele, per questo essi hanno posizioni limitrofe. Allo stesso piano trovano collocazione gli spazi di immagazzinamento del prodotto finito che, do-

po aver ultimato tutta la lavorazione al piano ipogeo, viene riportato a questo livello pronto per la spedizione; oltre agli uffici amministrativi e ai laboratori enologici a cui viene così assicurato un buon confort termo-igrometrico e un buon rapporto aero-illuminante. Il livello inferiore della cantina si sviluppa longitudinalmente seguendo i passaggi di lavorazione che subisce il vino. Il primo locale è quello che ospita i tini di fermentazione che, tramite appositi bocchettoni, sono in diretta comunicazione con lo spazio delle vendemmia al piano superiore; questa disposizione permette di avere un processo di vinificazione “per gravità”, requisito imprescindibile in una buona lavorazione del vino ed elemento essenziale per il risparmio energetico. In questa area si pone particolare attenzione al ricircolo d’aria, data la grande quantità di anidride carbonica rilasciata dai processi fermentativi all’interno dei tini; una scala di emergenza è posizionata accanto a questo locale per facilitare l’eventuale via di fuga. Seguono poi gli spazi adibiti all’invecchiamento del vino in botti di varie dimensioni e in barrique. Questi spazi sono concepiti come delle sale museali, che rispettano la denominazione e il tipo di etichetta che il vino diventerà, così da semplificare il lavoro di controllo dell’e-


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in basso Pianta della Galleria di Visita con affacci sulla produzione Piano -1 pagina precedente Sezione longitudinale della Galleria delle Arele

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a destra Intravedere

nologo e lo stoccaggio dei recipienti. Le sale delle barrique sono state calcolate sulla base del numero, delle dimensioni di queste e degli spazi di manovra attorno. In coda al processo di lavorazione vi è lo spazio di imbottigliamento e di stoccaggio del materiale semi lavorato, in comunicazione diretta tramite scale e montacarichi al deposito del prodotto finito al piano superiore. Il locale dell’imbottigliamento rispetta dei requisiti molto rigidi di pulizia e di ordine al fine di non compromettere il prodotto nel passaggio dalla botte alla bottiglia, per questo esso è un ambiente ben isolato, con due vie di uscita rapide per eventuali problemi di esalazioni di anidride carbonica. A questo livello gli spazi principali della lavorazione sono sempre intervallati da zone di servizio per il deposito e l’immagazzinamento, in modo da facilitare ogni processo e da ridurre al minimo gli spazi di percorrenza. Una rampa carrabile di accesso e di uscita corre parallela a tutti i luoghi della cantina permettendo così il trasporto di macchinari, delle bottiglie e l’eventuale cambio dei tini e barrique.

Durante la visita l’ospite fa lo stesso percorso che fa l’uva per trasformarsi in vino. Egli viene introdotto nella cantina percorrendo i primi metri della galleria delle arele, dove ha modo di percepire i profumi dell’uva e i giochi di luce. Questa prima parte ospita i graticci tradizionali ed è pensata come un allestimento museale, non rientrando quindi nella parte produttiva dell’appassimento che si concentra nella restante galleria. La divisione tra la parte produttiva e quella espositiva avviene tramite una grande rampa di discesa che porta il visitatore all’interno del basamento, alla scoperta degli altri spazi della cantina. Al termine della rampa il viaggio prosegue in un lungo percorso museale che narra la storia della Valpolicella e della famiglia Fornaser tramite una parete allestita con bottiglie d’epoca, manifesti, poesie sul vino e foto antiche. A questa parete, sull’altro lato, si contrappongono una serie di aperture sulle fasi produttive del livello ipogeo, di rimando alle feritoie dei forti ottocenteschi. Qui il visitatore ha modo di affacciarsi, di osservare con spirito voyeuristico tutta la lavorazione dell’azienda, e in particolare le sale “museali” delle botti di invecchiamento, non mancando di poter sbirciare nemmeno una “museali” delle botti di invecchia-

mento, non mancando di poter sbirciare nemmeno una fase, dato che questo percorso vuole essere come una lezione scolastica del maestro Fornaser: si termina la passeggiata arricchiti e desiderosi di imparare ancora. Il visitatore arriva quindi al punto di snodo del progetto, in cui si ha l’unico momento di incontro tra il flusso produttivo e quello pubblico. Questo avviene tramite una scala di discesa al piano ipogeo all’interno di una delle barricaie della cantina. In questo luogo alcune barrique, adibite agli appassimenti di più lunga durata, formano una torre che si eleva a tutta altezza: è qui che l’ospite ha modo di odorare i profumi del vino che invecchia e matura. Questa esperienza sensoriale conduce infine alla riscoperta del paesaggio della Valpolicella, tramite l’ingresso alla sala di degustazione che si rivolge al lago di Garda. Adesso finalmente, dopo tanto apprendere, osservare e odorare, l’ospite può degustare il nettare qui prodotto, all’interno di un luogo che unisce visivamente la pietra della cava, la barrique della torre, il vino nel bicchiere e il paesaggio al di fuori.

Così è avvenuto il passaggio dal corpo di fabbrica più grande della produzione e della visita a quello inferiore per la degustazione e il piacere dello stare in cantina. In questo edificio si trovano la sala dei vini, l’enoteca per la vendita, una loggia per le degustazioni estive, qualche camera per la foresteria e il ristorante; oltre agli spazi di servizio per queste funzioni. Esso vuole essere un luogo dove sostare per lungo tempo, per meditare e trascorrere momenti di riposo e di ritiro; un rappacificamento con la terra e i suoi prodotti, un piacevole incontro con l’azienda Fornaser e la loro filosofia di fare vino.




in basso Pianta dei locali della produzione e degli spazi di enoteca, ristorante, degustazione Piano -2 pagina precedente Sezione longitudinale dei locali della produzione

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Il Tempio al Paesaggio

Il padiglione circolare prende vita dallo scavo della stessa forma su cui si posiziona. Esso è pensato per ospitare i momenti di raccoglimento solitari, o con pochi amici scelti, per mettersi in comunicazione con la natura e riconciliarsi con il paesaggio tramite i tramonti estivi che si ammirano da questo punto del lotto e una buona bottiglia di vino.

La struttura in acciaio abbraccia la cava più a nord del lotto, con un diametro di 21,6 metri e uno sviluppo praticabile di 3,6 metri perimetrali, è pensata per essere esile ed effimera in modo da non creare massa solida tra lo spazio abitabile del padiglione e la natura attorno. All’interno della struttura sono presenti un piano bar e un piano di appoggio rivolto al paesaggio, oltre a due spazi di servizio per i bagni e i depositi.

a destra Esploso assonometrico del Padiglione delle Degustazioni

Il centro del cerchio è la cava stessa da cui l’edifico si origina, insieme a tutto il complesso della cantina. Questo centro è individuato da un albero esistente che viene portato a nuova vita, così come tutta la cava attorno. Il padiglione rimanda alla mente il tempietto a pianta centrale di Sanmicheli nella villa della Torre a Fumane, sul colle limitrofo della Valpolicella. Come nella villa, anche qui esso è concepito per essere il momento culminante della visita, di purificazione e di ascensione verso il divino. Il momento in cui l’uomo, solo con i rumori della terra, in armonia con i sapori della natura, dialoga con la propria anima e con il paesaggio, cullato dal canto leggero del Peler.


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in basso Pianta e sezione del Padiglione delle Degustazioni pagina successiva Un Tempio al Paesaggio


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La casa di Bacco

Il progetto della casa per gli ospiti si situa nel punto più alto e panoramico del lotto e, andando a chiudere le geometrie planivolumetriche, si immedesima nel forte difensivo della tenuta, dialogando così con i forti ottocenteschi più a nord. La sua superficie deriva dal padiglione delle degustazioni e quindi dalla cava che lo ha originato; l’abitazione ha forma quadrata perfetta circoscritta all’elemento circolare. Il richiamo tipologico riprende le case veronesi antiche fatte di pietra locale con muri molto spessi e prevalenza dei pieni sui vuoti. Analogamente si sviluppano tre dei prospetti dell’edificio, che aprono dei tagli in determinati punti scelti del paesaggio per inquadrarlo e nobilitarlo. In particolare sono due gli assi visivi che traversano la casa, da nord a sud e da est a ovest, definendo un cardo e un decumano di sguardi che l’uomo si trova ad ammirare dopo aver percorso pochi passi all’interno della casa. Una loggia, di rimando ai loggiati tipici veronesi, primeggia sul lato esposto ad est dove si gode la visuale sulla cantina e sul Garda.

La pietra locale domina su tutte le superfici murarie, esterne ed interne, dialogando con il terreno sottostante e con il tempio del vino più ad est. L’abitazione si sviluppa su due livelli, un piano a quota zero ed uno ipogeo e segreto. Il livello zero ospita la casa vera e propria, in cui primeggia centrale un camino in pietra, simbolo del focolare domestico e della tradizione contadina della zona. Il quadrato si divide in due “elle”: una che ospita la zona giorno con una conformazione a “open space” antistante la loggia, e l’altra in cui si sviluppa la zona notte con due camere e due bagni.

a destra Esploso assonometrico del Padiglione Abitativo

Tramite una scala nascosta, incassata nel possente muro perimetrale della casa, si arriva al piano ipogeo dove è contenuto il segreto della casa, una cella circolare, di rimando alle ghiacciaie d’epoca e alle tholos etrusche, contenente il tesoro dell’abitazione: la cantina dei vini pregiati. Un foro circolare nel solaio della zona giorno è l’unico indizio che permette di intuire l’esistenza dello spazio sotterraneo al quale hanno accesso solo il proprietario e pochi eletti.


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in basso Pianta e sezione del Padiglione Abitativo pagina successiva Abitare la Fortezza


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“Dà stà tèra se tira i’angeli dai piè”

Da sempre, l’architetto ha cercato di perseguire nella sua architettura qualcosa che andasse al di là della semplice edilizia, della pura tecnica del costruire. Non come sfida, ma come necessità. Nell’atto del generare, l’architetto cerca sempre una sorta di dialogo tra lui e la sua architettura, una specie di intimo affezionamento, di scambio. Uno scopo. Quasi come se la bellezza del fare architettura stesse in quella magica attesa che precede la realizzazione, dove tutto ciò che rientra nell’ordine del possibile prende forma. Depurata l’architettura dalla fisicità della statica e dalla sua funzione, mattone dopo mattone il costruire diviene un atto del dare finalizzato a vivere quel momento finale in cui l’architettura, come un bambino ormai privo del cordone ombelicale, deve proseguire sola, non solo nella sua mera missione funzionale ma, soprattutto, nella sua missione più nobile. Comunicare. L’architetto, in questo, ha il privilegio di esserne il primo fruitore in quanto è da questa necessità di ricevere che egli stesso genere l’architettura. Per lui, per tutti. Progettare una cantina in Valpolicella non vuol dire solo progettare un luogo della produzione, significa raccontare l’esperienza sacra del fare vino in quella terra, dalla raccolta dell’acino al momento in cui viene versato nel bicchiere. Vuol dire raccontare un atto d’amore dell’uomo verso il prodotto generato dalle proprie mani. Attraverso elementi tipologici e materiali appartenenti ad un forte genius loci, pochi segni disegnano uno spazio che si carica di questa potenza percettiva e didattica, dove luce e massa divengono gli elementi eterni che fanno di questa architettura una vera e propria cattedrale dell’uva: nella sacralità della lunga navata in superficie l’uva viene svelata ma resa inaccessibile all’uomo poiché costretto ad un percorso ipogeo di verità e scoperta di quest’arte atavica. Sottoterra, come in una cripta, si custodisce gelosamente il segreto del buon vino, fase dopo fase, in un lento percorso di conoscenza che, sul finire, restituirà poi l’uomo a quel paesaggio da cui tutto ha avuto inizio. Con qualche risposta in più o, forse, con nuove domande. L’architettura riesce, dunque, a compiersi nella sua funzione tecnica senza rinunciare a quella componente didattica e comunicativa che deve necessariamente sottendere, caricandosi di una complessità emotiva che caratterizza ogni spazialità del progetto. Quest’architettura non intende perdersi nell’anonimato e nella vuotezza di un semplice contenitore della produzione, ma intende imporsi sul territorio e sul paesaggio del Garda con la pretese di mostrarsi all’uomo per quello che rappresenta veramente per questa terra: un monumento al vino. Arch. Davide Lucia

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Bibliografia

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Letteratura tematica

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Sitografia

Filmografia

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www.consorziovalpolicella.it

Henry King, La mia terra, 1959.

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Cantine del Sud Africa

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Luchino Visconti, La terra trema, 1948.

www.dornier.co.za

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www.tokarestate.com.

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Indice

Di vite e di pietra 7 Michelangelo Pivetta Paesaggio dell’uomo 9 “Vallis Polis Cellae” 11 Fare Vino 19 “Un maestro sa” 33 Paesaggio, pietra, memoria 37 Memorie di Pietra 39 La Cantina 42 Il Tempio al Pesaggio 50 La casa di Bacco 54 “Dà stà tèra se tira i’angeli dai piè” Davide Lucia

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Bibliografia 60


Finito di stampare per conto di DIDAPRESS Dipartimendo di Architettura UniversitĂ degli Studi di Firenze Marzo 2017



Sul lago di Garda, fin dalle prime ore del mattino, soffia una brezza leggera proveniente da settentrione, più precisamente da Nord-Nord-Est. Peler è il nome con cui viene chiamato questo canto di Eolo, equivalente a un canonico maestrale, che rinfresca le zone limitrofe al lago, arrivando fino in Valpolicella. Apparentemente invisibile, il Peler è il protagonista di queste colline della Valpolicella, soffiando con decisione, manifesta i suoi effetti sulla Natura e sui suoi frutti; l’impianto generale del progetto segue quindi l’inclinazione di 22,5 gradi Nord-Est per onorarlo. Emanazione dello spirito del luogo in cui si trova, la cantina, come un terrazzamento, prende posto al di sopra di una delle cinque cave dimenticate, generandosi mediante la pietra stessa. Muri in gabbioni si innalzano su un basamento in calcestruzzo: il tempio dell’uva si erge come un terrazzamento come fosse smpre esistito. Due flussi principali interessano il progetto: il produttivo, con il fruttaio e la cantina in gravità, originata per sottrazione di terreno, e quello pubblico, con il percorso di visita e i luoghi destinati alla degustazione. Due elementi eccezionali completano le geometrie del progetto e segnano il territorio attraverso una calligrafia più puntuale: il padiglione delle degustazioni estive e la residenza per gli ospiti, luoghi di delizie, concludono il disegno territoriale che dalla cantina si è originato. Il padiglione delle degustazioni estive, si imposta su una piccola cava circolare più a Nord, dalla quale prende forma e alla quale restituisce nuova vita. Il terzo frammento del luogo è la residenza per pochi ospiti eletti, che sorge sul limite Ovest del sito, nel punto in cui si ha un cambio di registro della vegetazione che restituisce un nuovo sguardo sul paesaggio. Nascosto ad un piano ipogeo e raccolto in una cella a pianta circolare, eco delle antiche ghiacciaie d’epoca, il segreto della casa: la collezione privata dei vini più pregiati, tesoro a cui l’intero progetto è devoto.

Elisa Monaci, Bagno a Ripoli (Firenze), 1991, architetto. Si forma presso la Scuola di Architettura dell’Università degli Studi di Firenze laureandosi nel 2016 con Michelangelo Pivetta. Dallo stesso anno collabora presso il Laboratorio di Progettazione dell’Architettura II presso la stessa Scuola. Luisa Palermo, Bagno a Ripoli (Firenze), 1991, architetto. Si forma presso la Scuola di Architettura dell’Università degli Studi di Firenze laureandosi nel 2016 con Michelangelo Pivetta. Dallo stesso anno collabora presso il Laboratorio di Progettazione dell’Architettura II presso la stessa Scuola.

ISBN 978-88-9608-075-7

9 788896 080757


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