W DIPARTIMENTO DI ARCHITETTURA FIRENZE
didaworkshop
OPLÀ 2016
Ongoing Projects on Landscape Architecture a cura di Ludovica Marinaro
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La serie di pubblicazioni scientifiche DIDAWorkshop ha l’obiettivo di diffondere i risultati di una specifica attività del Dipartimento di Architettura DIDA: i workshop ed i seminari nazionali ed internazionali condotti sulle tematiche del progetto dell'architettura, del territorio, del paesaggio e del design. Ogni volume è soggetto ad una procedura di accettazione e valutazione qualitativa basata sul giudizio tra pari affidata ad un apposito Comitato Scientifico del Dipartimento. Tutte le pubblicazioni sono inoltre open access sul Web, favorendo una valutazione effettiva aperta a tutta la comunità scientifica internazionale. Nella diversità dei temi, della durata, dei luoghi, i workshop sviluppano la continua sperimentazione che unisce ricerca, formazione e progetto nella Scuola e nel Dipartimento di Architettura dell’Università di Firenze. Nei workshop si esprimono inoltre le intense relazioni del Dipartimento sia con altre Università che con i territori, con le loro Associazioni, ONG, Amministrazioni, Enti ed imprese. DIDAWorkshop series of scientific publications has the purpose of divulging the results of a specific activity of the Department of Architecture (DIDA): the national and international workshops and seminaries that are undertaken on the various themes related to architecture, territory, landscape and design projects. Every volume is subject to a qualitative process of acceptance and evaluation based on peer review, which is entrusted to a specialized Scientific Committee from the Department of Architecture (DIDA). Furthermore, all publications are available on an open-access basis on the Internet, which favors an effective evaluation tfrom the entire international scientific community. Within their diversity of subject matter, duration, and location, the workshops develop a continuous process of experimentation which blends research, education and specific projects within the School and in the Department of Architecture of the University of Florence. The workshops also reflect the intense relationships the Department maintains with other Universities, as well as with the territories and their associations, NGOs, agencies, governmental authorities and enterprises.
OPLĂ€ 2016
Ongoing Projects on Landscape Architecture a cura di Ludovica Marinaro
Oplà 2016 raccoglie i contributi, le riflessioni e i progetti più significativi presentati alla terza edizione di OPEN SESSION ON LANDSCAPE, il ciclo di seminari internazionali promosso dal curriculum in Architettura del Paesaggio del Dottorato di ricerca in Architettura che è stato realizzato con il patrocinio dell’Ordine e della Fondazione degli Architetti di Firenze e con il sostegno dell’Istitut Francais e del Consolato Cinese di Firenze. I seminari internazionali vedono una collaborazione attiva con le sedi universitarie di Roma Tre, Barcellona (Universitat Autònoma De Barcelona Escola Tècnica Superior d’Arquitectura de Barcellona — ETSAB, Universitat Politècnica De Catalunya — UPC), della Virginia (U. S), Versailles (École Nationale Supérieure du Paysage — ENSP), Lisbona (Universdade Autonoma de Lisboa), Pechino (Peking University), Reggio Calabria (Università degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria), Trento (Università di Trento).
OPEN SESSION ON LANDSCAPE 2016 DIDA Dipartimento di Architettura, Università degli Studi di Firenze Dottorato di ricerca in Architettura | Curriculum di Architettura del paesaggio
Referenti Gabriele Paolinelli | Enrico Falqui | Ludovica Marinaro Nicoletta Cristiani | Marta Buoro | Flavia Veronesi | Elisa Baisi
Fotografia Laboratorio Fotografico di Architettura DIDA LABS
Traduzioni dall'inglese, dallo spagnolo e dal francese Ludovica Marinaro
In collaborazione con
Laboratorio Comunicazione Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze
didapress Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze via della Mattonaia, 8 Firenze 50121 © 2017
ISBN 978-88-3338-001-8
con il patrocinio di
OPLĂ€ 2016
Ongoing Projects on Landscape Architecture a cura di Ludovica Marinaro
Indice
Prefazione | Esquisses. Tra immaginario e realtà Ludovica Marinaro LE TEORIE, LE RIFLESSIONI Progetto di paesaggio? Si, grazie! Emanuela Morelli Giardini da migliaia di ettari. Criteri e metodi per dare un futuro ai paesaggi Guido Ferrara Dall’autostrada, paradigma moderno, all’infrastruttura e paesaggio, paradigma futuro nell’era del 2.0 Pino Scaglione Giardini urbani. Caleidoscopi sul mondo Antonella Valentini Invenzione e evoluzione dell’idea di giardino pubblico Franco Panzini Progettare nella complessità del territorio della Città globale Marta Buoro LA CULTURA DEL PROGETTO Gli alberi nelle Smart Cities Francesco Ferrini Creating Deep Forms in Urban Nature Kongjan Yu L’etica del paesaggio di Teresa Galì-Izard Fabio Manfredi Dinamiche e processo nell’architettura del paesaggio. Un nuovo linguaggio formale basato sulle relazioni Teresa Galì-Izard Costruire Paesaggi Joao Ferreira Nunes Landscape Urbanism e spazio pubblico Lorenza Fortuna
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I MAESTRI Ricordando Jaques Simon Enrico Falqui Dialoghi sul Progetto di Paesaggio Mediterraneo. Teresa Galì e ‘il lusso della povertà Daniela Colafranceschi Dal giardino alla Land Art. Percorsi attraverso l’arte e l’architettura del paesaggio Nicoletta Cristiani I PROGETTI 20160216, Firenze Gabriele Paolinelli Arte e creatività nello spazio verde e nella città costruita Lynn Kinnear La Pazienza del paesaggista Tessa Matteini L’acqua risorsa del progetto Urbano Anne Sylvie Bruel, Christophe Delmar Nutrire il possibile. Learning from Making Space in Dalston Anna Lambertini Urban Ecological Patchiness Jhoanna Gibbons Landscape Layers Neil Davidson Reverse Design Process: an experimentation in the understanding of Landscape Architecture’s Theory and Practice Claudia Mezzapesa
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Bibliografia generale
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Gli autori
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Prefazione Esquisses. Tra immaginario e realtà. Ludovica Marinaro
Se OPEN SESSION ON LANDSCAPE è metaforicamente il viaggio che intraprendiamo intorno al mondo alla scoperta di nuovi paesaggi sostenibili e nuovi occhi e mani che li plasmano, Oplà è il suo diario di bordo, un taccuino su cui rimane impressa l’emozione generata da quegli ‘sguardi angolari’, come li definì Franco Zagari alla primissima conferenza del 2014, ovvero dalla capacità visionaria e anticonformista di trasformare il paesaggio di alcuni tra i progettisti più attenti e raffinati che operano oggi sul panorama internazionale. Qui trovano spazio i loro pensieri che insieme al tratto deciso dei loro lapis e formano un racconto, più come schizzi che come atti di convegno. L’articolazione del libro in quattro capitoli, o meglio in quattro movimenti, non ricalca la successione delle conferenze e consente diverse modalità di lettura non lineari ma che anzi pongono l’accento sulla circolarità come strategia che lo stesso ciclo di seminari ha proposto e propone per affrontare il Progetto di Paesaggio. Leggerete dunque un libro che non ha intenti cronachistici o pretese didascaliche ma che anzi esalta la complessità del paesaggio contemporaneo senza edulcorarla ed usa la pratica immersiva, esplorativa, l’affresco come strumenti per formare una rinnovata e piena coscienza di paesaggio nei progettisti di oggi e di domani. Questa è la grande ambizione di OPEN SESSION ON LANDSCAPE. Un programma di alta formazione in architettura del paesaggio, curato dal curriculum di Architettura del Paesaggio del Dottorato di Ricerca in Architettura (DIDA) e coerente con il processo di internazionalizzazione della didattica e della ricerca del programma Horizon 2020. Un ciclo che in tre edizioni è stato capace di catalizzare l’attenzione su un tema, il Paesaggio così come lo definisce la Convenzione Europea, che per troppo tempo ha avuto un spazio marginale sia nel mondo accademico che nella pratica professionale del Bel Paese. Sembra paradossale ma è proprio quanto è accaduto. Come architetti, sia da studenti che da professionisti, dimenticandoci del Paesaggio, della sua dimensione di progetto collettivo, della sua importanza per il nostro benessere e per lo sviluppo di un’economia sostenibile abbiamo prodotto le periferie di cui oggi si tenta il rammendo. Ma non è forse nel concetto promosso da Piano, che, come afferma Renato Bocchi, è un concetto debole perché “accredita l’ipotesi della mitigazione […], dell’aggiustamento, della semplice ricucitura […] e trascura il loro legame con le strategie”, che va cercata la risposta. Certo, il recupero di una cultura del riciclo e del riuso è uno dei primi passi per osservare i luoghi con rinnovata attenzione al loro funzionamento ecologico e alla loro storia, sia culturale che naturale, ma per ‘saper vedere’ le potenzialità che ancora possono offrire come scenari di nuove forme di abitare, per ‘saper vedere il paesaggio futuro’ bisogna utilizzare un nuovo approccio fondato piuttosto sull’innesto. Nelle teorie, nelle riflessioni così come nei progetti degli autori qui coinvolti ritroviamo questo approccio innato. La Big Foot Revolution di Kongjang Yu, le sperimentazioni d’Articulture di Jaques Simon e della sua allieva Galì-Izard, i lavori per la London Green Grid dello studio Gibbons e i parchi di Lynn Kinnear, ad esempio, sottendono uno stesso esprit, quella particolare attitudine, che negli studenti deve essere coltivata e corroborata, a creare connessioni, innescare processi che generano a loro volta forme, atmosfere e situazioni che si autosostengono e si autodeterminano nel tempo. In nessuno dei progetti che Oplà vi presenterà troverete forme imposte, giustapposte, esercizi formali fine a se stessi o esposizioni. Incontrerete invece meccanismi, intere parti di territorio indivisibili dalle persone e dai processi naturali che li animano. Dentro Oplà riecheggiano problemi comuni, dal dissesto idrogeologico al risanamento di quartieri degradati, dal ruolo della natura nella città a quello dell’arte, cui vengono date risposte diverse, al variare dei contesti e delle sensibilità in gioco, ma comunque tutte accomunate da una stessa tensione. Dentro Oplà vi sono tanti esquisses, volti a tratteggiare una nuova coscienza del paesaggio, visioni che catapultano il lettore nei luoghi narrati senza intermediazioni perché suscitino nel lettore, appunto, un’emozione che infondo “est une certaine manière d’appréhender le monde” (Sartre, 19 p. 39) e, ancor più radicalmente, di trasformarlo.
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Le teorie, le riflessioni
Capitolo 1 Le teorie, le riflessioni
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Progetto di paesaggio? Si, grazie! Emanuela Morelli
“Landscape architecture combines environment and design, art and science. It is about everything outside the front door, both urban and rural, at the interface between people and natural systems. The range of ways in which landscape architects work is staggering. From master-planning Olympic sites to planning and managing landscapes like national parks and areas of outstanding natural beauty to designing the public squares and parks that we all use, landscape architecture nurtures communities and makes their environment human and liveable” (About Landscape Architecture, IFLA). Negli ultimi decenni, anche in Italia la progettazione del paesaggio ha acquisito finalmente un ruolo significativo all’interno degli strumenti di governo del territorio e nelle pratiche quotidiane di trasformazione dei luoghi. Ne sono un esempio la redazione di numerosi piani e progetti per il paesaggio e l’attivazione di corsi di insegnamento universitari che, anche se con modalità e approcci anche molto diversi fra loro, cercano di diffondere una consapevolezza progettuale, creativa e responsabile, tra tutela, valorizzazione e trasformazione. Incentivare la progettazione del paesaggio significa mettere in evidenza le plurime dimensioni del percorso progettuale e uscire da quella visione passiva tipica del secolo scorso, dove il paesaggio era visto come soggetto passivo, da conservare, ma mai da progettare. Difatti nel corso del XX secolo, in nome di una sfrenata, talvolta arrogante ma sicuramente quasi sempre miope e settoriale urbanizzazione e infrastrutturazione del paese, alla quale faceva da contraltare una attenzione quasi morbosa e protettiva verso il paesaggio e il suo carattere storico, si era creata una discrasia tale in cui generalmente il paesaggio non era reputato come soggetto di riferimento di un processo progettuale intenzionale.
Era difatti opinione sufficientemente condivisa che fosse possibile progettare il pieno ma non il vuoto, e che la trasformazione contemplasse solo alterazioni in termini negativi: molto meglio aspirare a mettere il paesaggio “sotto una campana di vetro” sperando che tutto rimanesse immutato, mentre il territorio poteva essere più facilmente trasformato. Tra dibattiti e scontri sul fare e non fare, ma quasi mai poi sul come fare, il paesaggio durante questo periodo ha comunque continuato a trasformarsi e ad accogliere suo malgrado tutte le trasformazioni che gli sono state riversate addosso. Tra le diverse dimensioni del progetto di paesaggio vi sono quella sociale e culturale, relativa alla qualità dell’abitare, alla identità, all’inclusione sociale, al riconoscimento degli assetti storici e al rapporto uomo-natura. Quella ecologico e ambientale, in un’ottica anche di servizi ecosistemici, indirizzata al mantenimento della biodiversità, al rispetto della natura, all’utilizzo consapevole delle risorse e alla gestione dei problemi ambientali quali ad esempio quelli legati ai cambiamenti climatici. Quella temporale che vede il progetto come un processo continuo e variabile che si fonda sulle regole esistenti, recupera il passato, la storia, la stratificazione avvenuta nel corso del tempo con fare attivo per trasmetterla al futuro. Quella transcalare perché molto semplicemente il paesaggio funziona alle diverse scale, da quella globale, di area vasta a quella locale e di dettaglio, in un flusso continuo di connessioni e relazioni diverse. Quella transdisciplinare che vede il progetto di paesaggio come una modalità per far confluire i contributi di discipline diverse, non come sommatoria di competenze e informazioni e indicazioni, ma come insieme sinergico, intimamente relazionato secondo una unica visione sistemica. L’importanza strategica del progetto di paesaggio per uno sviluppo
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condiviso, equo e sostenibile è stata ribadita anche dal Manifesto per il progetto di paesaggio, redatto in occasione del 53°congresso mondiale di IFLA organizzato da AIAPP e tenuto nel 2016 a Torino (www. aiapp.net). Qui il progetto di paesaggio diviene uno strumento per diffondere la cultura delle trasformazioni possibili, rendere attuative le indicazioni della COP21 (Parigi 2015) e della Convenzione Europea del Paesaggio (Firenze 2000). Progettare il paesaggio quindi per tutelare, valorizzare, riqualificare, trasformare il paesaggio stesso e per
poter dare risposte ad una serie di aspettative che in esso ricadono. Diverse sono le modalità di approcciarsi al paesaggio, poiché non solo perché sono molteplici le interpretazioni del paesaggio, ma anche perché i paesaggi sono fra loro molto diversi. Non esistono certezze precostituite e né un metodo universale, ma piuttosto, principi, strumenti, saperi, culture e sensibilità che di volta in volta si adattano alla realtà indagata, unica e irrepetibile: un progetto di qualità non scaturisce dal paesaggio che si piega al metodo, ma piuttosto dal fatto
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Fig. 1 Central Park, New York. Fig. 2 Highline, New York. Figg. 3a-3b Teardrop Park, New York.
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Fig. 4 Brooklyn Bridge Park, New York. Figg. 5a-5b Gantry Plaza State Park, Long Island City. Tutte le immagini sono di Emanuela Morelli (archivio 2016).
che il metodo si adatta, si declina e si forma attraverso la conoscenza della complessità del paesaggio contemplando inoltre la necessità di mantenere margini per i cambiamenti futuri. La progettazione paesaggistica non è pertanto caratterizzata da un iter standardizzato e omologato ma un processo complesso, variabile e continuo, affascinante e creativo, dove far confluire un universo di competenze, conoscenze, informazioni, ma anche richieste e aspettative. Dove sensibilizzare, coinvolgere e responsabilizzare i vari attori facendo comprendere loro anche i benefici del superamento di una visione individuale e talvolta miope o egoistica: progettare nel paesaggio non è mai una questione privata perché alla pioggia, al sole, agli uccellini o al polline poco importa se lo spazio che viene attraversato è di proprietà pubblica o privata. Dove infine non considerare un solo aspetto tecnico e funzionale per volta, ma dove mettere a sistema le diverse relazioni, tangibili e intangibili presenti, considerando la complessità non come un’impasse ma piuttosto come ricchezza. Significa quindi che il disegno dello spazio fisico che scaturisce da tutto ciò è frutto delle conoscenze e delle regole di costruzione e di funzionamento del paesaggio e non portatore di una banale imitazione di immagini prelevate da altre luoghi o di una organizzazione spaziale autoreferenziale. Il progetto di paesaggio necessita di cura e attenzione, ascolto passione e pazienza, ma anche professionalità e competenza, perché questo stabilisce le basi del paesaggio di domani. Perché ci permette anche di essere “resilienti”, cioè aperti, flessibili e disponibili alle diverse variabili e ai cambiamenti siano essi sociali o climatici, ipotizzando scenari futuri a partire dal passato, valutando benefici economici tradizionali a lungo termine e gli interessi della comunità pur rispettando l’aspetto dinamico e vivo della natura.
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Capitolo 1 Le teorie, le riflessioni
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Giardini da migliaia di ettari. Criteri e metodi per dare un futuro ai paesaggi Guido Ferrara
Dopo un secolo intero dedicato alle salvaguardie1, la Convenzione Europea approvata a Firenze il 20 ottobre del 2000 ha fornito argomenti per approfondire la modalità e la logica del progetto dei paesaggi, tenendo conto delle forme di equilibrio e dell’armonia dei rapporti fra ambiente naturale e società umana nonché delle reti di relazioni tra le componenti spaziali, storiche ed ecosistemiche. L’attualità e la validità di questo indirizzo, rispetto a quello della sola salvazione dello status quo, è infatti asseverata in modo univoco dalla Convenzione, che fa presente che i paesaggi di ogni tipo e dimensione — in quanto luoghi di esperienza, specchio identitario delle comunità, eredità culturale, percezione sensibile nonché risorsa economica — sono suscettibili di politiche di intervento e gestione diversificate facenti capo a concetti e regole di natura oggettiva. Riteniamo che un approfondimento di questo approccio, peraltro nel nostro paese ancora non del tutto condiviso né sufficientemente testato, possa essere fornito dalla considerazione dei dieci concetti di seguito elencati e commentati in sintesi, che sembrano potenzialmente idonei a guidare una progettualità paesaggistica diffusa a grande scala e a trarre qualità, varietà e bellezza dall’armonica contrapposizione tra il dominio della natura e la creatività dell’uomo. 1. Sostenibilità del paesaggio 2. Complessità del paesaggio 3. Centralità del paesaggio 4. Selezione dei possibili modelli di scelta 5. Garanzia di compatibilità delle trasformazioni 6. Promozione della cooperazione e della partecipazione 7. Transizione dal piano alla gestione e al progetto 8. Accordo tra sviluppo e conservazione 9. Identificazione di nuove opportunità compatibili 10. Innovazione e disegno di paesaggio
Il primo concetto, posto a fondamento dell’intero percorso, riguarda i criteri di sostenibilità del paesaggio. Queste proposizioni, fondamentalmente intese ad orientare i relativi interventi verso un futuro di compatibilità e durata, hanno altresì il ruolo aggiuntivo di riferimenti per assicurare il controllo dell’uso del suolo e preservare gli elementi di qualità della natura e delle continue e mutevoli modalità di gestione ambientale che sono richieste negli anni avvenire. Considerata la natura intrinseca del paesaggio come soggetto multifunzionale, deve essere dedicata una specifica attenzione alle forme dinamiche di riproduzione delle risorse, sia quelle naturali che antropiche. Il secondo concetto suggerisce un approccio globale alla complessità dei paesaggi, in modo da interpretarli ad uno ad uno come sistemi che si relazionano alle trasformazioni della(e) società e ai suoi (loro) bisogni e ai dinamismi naturali. In particolare dovrà essere perseguita l’integrazione fra gli aspetti pratici di tipo professionale relativi alla progettazione e gestione delle componenti paesaggistiche e quelli teorici di natura scientifica relazionati al perseguimento dei grandi obiettivi della ricerca, in modo da stabilire una connessione stabile fra le aspettative, obiettivo a lungo termine, e le politiche operative immediate. I contenuti del terzo concetto riguardano le specificità del metodo di studio e di intervento da adottare nelle diverse situazioni tenendo conto del fatto che la conoscenza operativa acquisita mediante i processi di analisi ed interpretazione delle caratteristiche del paesaggio e delle relazioni incrociate fra le sue varie componenti costituiscano il mezzo per rendere compatibili le esigenze della pianificazione e del controllo dell’uso del suolo con quelli della conservazione-evoluzione dinamica del paesaggio. Il futuro di un dato paesaggio non è uno solo, ma sempre e comunque multiplo e questa caratteristica propone inevitabilmente una se-
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Capitolo 1 Le teorie, le riflessioni
criteri di sostenibilità del paesaggio
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USO E GESTIONE
QUALITÀ DELLA NATURA E DEL PAESAGGIO
Utilizzo parsimonioso • Crescita compatibile
Valori naturali • Valori culturali
Uso ponderato del paesaggio Integrazione alle strategie territoriali e alle politiche di settore
Contenere le forme di sfruttamento delle risorse non rinnovabili Promuovere la capacità di rigenerazione delle risorse rinnovabili Ridurre il consumo di paesaggio con modi d’uso plurimi e integrati Preservare e privilegiare forme d’uso del suolo differenziate Recuperare e rivalutare gli spazi interstiziali e di frangia agli insediamenti
Valorizzazione del paesaggio in quanto ambiente di vita, bene culturale e economico
Preservare le forme e gli elementi naturali nella loro diversità e singolarità Riservare spazi per la dinamica naturale e la libera evoluzione delle componenti biotiche Assicurare lo sviluppo armonico dei paesaggi tradizionali conservandone l’identità e i manufatti di importanza culturale in un contesto adeguato Preservare e privilegiare forme d’uso del suolo differenziate Rafforzare il rapporto di identificazione della collettività con il paesaggio e i beni culturali
Guido Ferrara Giardini da migliaia di ettari. Criteri e metodi per dare un futuro ai paesaggi
lezione delle diverse alternative2. In accordo con le raccomandazioni della Convenzione Europea, il quarto concetto individua nel processo valutativo la premessa per attuare una selezione dei modelli per le scelte future. Sulla base dell’analisi del paesaggio e della valutazione dei risultati conseguenti, e specialmente dei parametri del valore e della sensibilità, possono essere identificate precise sub aree, suscettibili di essere indirizzate verso una o più tipi di politiche, comprese tra i casi estremi della conservazione assoluta e della assoluta innovazione. Il quinto concetto rinvia ad un’opportuna assicurazione della compatibilità delle trasformazioni. La redazione di un “Abaco dei paesaggi” può servire allo scopo di facilitare la mitigazione delle forme intensive di sfruttamento delle risorse territoriali e di mettere in risalto possibili previsioni errate. In particolare la disponibilità di un Abaco consentirà di esaminare nel dettaglio le macro-tessere del mosaico paesistico entro tabulati, ciascuno dei quali contiene i dati riguardanti gli aspetti di ‘Caratterizzazione’ e di ‘Valutazione’ e si completa con la “Matrice comparativa con apprezzamento degli effetti delle trasformazioni previste” e con i “Criteri e indirizzi per la gestione del paesaggio”. Dato che è ormai appurato che le qualità (estetiche, storiche, ecologiche e percettive) dei paesaggi possono rappresentare una delle chiavi più significative dello sviluppo locale, è diretto interesse e responsabilità delle comunità insediate che i caratteri originali di loro competenza, anziché venire depressi o sprecati, siano mantenute vitali e produttive. Il contenuto del sesto concetto ribadisce pertanto l’opportunità di instaurare sinergie positive permanenti fra azioni pubbliche e private, in modo da promuovere la cooperazione e la partecipazione sulle future decisioni sul paesaggio. Si tratta con tutta
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evidenza di un obiettivo che può essere raggiunto attraverso un processo a lungo termine che agisca entro ambiti distinti e fra di loro integrati quali: l’Ambito operativo tecnico, per individuare i passaggi praticabili per transitare dal ‘paesaggio presente’ al ‘paesaggio possibile’, e un Ambito operativo sociale ed istituzionale, per passare — attraverso decisioni negoziate — dalle proposizioni avanzate in sede tecnica al paesaggio praticabile. Dato che una delle caratteristiche principali dell’Architettura del Paesaggio consiste nel rispondere in modo positivo agli interrogativi e ai problemi a cui di volta in volta siamo messi di fronte, il contenuto del settimo concetto riguarda la responsabilità tecnica di approdare, ove necessario, a soluzioni operative anche con l’aiuto di un’enfasi emotiva e creativa. Ci riferiamo al processo, di cui al settimo concetto di transizione del piano al progetto di paesaggio attraverso esperienze indirizzate non soltanto a programmare un assetto per il futuro ma ad arricchirne l’efficienza. L’ottavo concetto ha come tema l’aggiornamento e adeguamento dei paesaggi alla ricerca di un accordo fra lo sviluppo economico locale e la conservazione ambientale. La conservazione dell’ambiente
Capitolo 1 Le teorie, le riflessioni
ambito di competenza tecnica
paesaggio attuale Caratteri costitutivi Sistema degli Obiettivi paesaggio fondativo Elementi di rilevanza Valutazione del valore intrinseco paesaggio in tensione Fattori di criticità Valutazione della vulnerabilità
OPPORTUNITÀ DI INTERVENTO CRITERI DI SOSTENIBILITÀ
POLITICHE AZIONI Decisioni negoziate tra i diversi attori
Concertazione istituzionale e consultazione pubblica
paesaggio praticabile
paesaggio possibile
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ambito di competenza della comunità e degli enti di governo
e del paesaggio sono frequentemente concepite come una dannosa limitazione all’economia, ma, al contrario, in un periodo storico in cui la società urbana si rivolge verso contesti alternativi in termini di rinnovato apprezzamento, le tessere del mosaico paesistico (per es. dai grandiosi scenari del paesaggio altomontano a quelli dei paesaggi bio-culturali) possono essere valutate come opportunità assolute per convertire reali o potenziali svantaggi in sinergie positive. Ecco quindi come l’identificazione di nuove opportunità, in relazione ai bisogni della società contemporanea, costituisce il nono concetto inteso a richiamare l’apprezzamento del paesaggio come valore, in quanto soggetto produttore dello spazio di qualità, aperto ad una ampia gamma di opportunità, compreso, prima di tutto, un turismo durevole ed integrato all’ambiente, ampiamente capace di promuovere l’economia locale. Il decimo ed ultimo concetto parte dalla considerazione che progettare nuovi paesaggi guardando al futuro non è un mero adempimento tecnico, conseguenza di un’intuizione di tipo formale, ma è il risultato di una valutazione complessiva, socialmente condivisa, di scelte alternative collocate entro uno scenario di diverse proposte alternative, come condizione per delineare un’analisi paesaggistica bilanciata fra la valorizzazione delle risorse ecologiche e culturali e le aspettative socio-economiche. In questo caso, il progetto di paesaggio opera e propone politiche d’intervento coordinate e sinergiche su almeno 4 sistemi integrati: il sistema del paesaggio naturale, il sistema delle permanenze storiche e archeologiche, il sistema del paesaggio culturale, della campagna e dell’insediamento, il sistema della rete delle infrastrutture e del trasporto pubblico. Questo allo scopo di recuperare e migliorare l’integrità e l’identità del paesaggio nonché di promuovere la produttività e l’efficienza del territorio, offrendo pro-
Guido Ferrara Giardini da migliaia di ettari. Criteri e metodi per dare un futuro ai paesaggi
dotti genuini e residenzialità di tipo tradizionale, come alternativa all’offerta standardizzata delle vacanze di massa e tutto incluso. Infine, dato che lo sviluppo produce ‘il nuovo’ e il nuovo non è sempre negativo, al progetto compete proprio la responsabilità di definire i molteplici aspetti del paesaggio che abbiamo di fronte, come specchio avanzato della società del futuro. Ecco perché la ricerca attualmente in corso può assumere i paesaggi in evoluzione come ‘giardini da migliaia di ettari’. Non si tratta di un obiettivo utopico e impossibile da raggiungere, se connesso ad una prospettiva avanzata di una rinnovata armonia fra gli autonomi processi di evoluzione naturale, il potenziale creativo della civiltà umana e lo sfruttamento del suolo per esigenze economiche e sociali. Per merito del suo carattere sperimentale e flessibile, proprio il progetto di ‘giardini di migliaia di ettari’ può essere il risultato finale della ricerca dei processi di sviluppo sostenibile e quindi quale immagine concreta di un raggiunto livello di alta qualità, nella formazione del reddito, nella qualità di vita dei residenti, nella possibilità di partenariato alle decisioni e finalmente nell’integrazione fra territorio e politiche del paesaggio. Che appare obiettivamente un po’ diverso dal riprodurre i paesaggi come fotocopia di quello che sono stati nel passato, frutto evidente, a loro volta, di quell’opera storica, sociale e sapiente di giardinaggio territoriale per cui l’Italia è famosa nel mondo. NOTE 1 La prima legge italiana per la tutela delle bellezze naturali è — com’è noto — la n. 778 dell’11 giugno 1922 e fu autorevolmente tenuta a battesimo da Benedetto Croce. 2 L’immagine qui riportata è di Carl Steinitz, docente di Landscape Planning alla School of Design di Harvard, Cambridge (Mass., USA).
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Capitolo 1 Le teorie, le riflessioni
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Dall’autostrada, paradigma moderno, all’infrastruttura e paesaggio, paradigma futuro nell’era del 2.0* Pino Scaglione
“Natura ed autostrada non sono contrapposte… l’autostrada è un raccordo tra desiderio e realizzazione, tra il luogo della nostalgia e il luogo in cui la nostalgia viene colmata. In società come la nostra, in cui lavoro e abitazione, quotidianità e tempo libero sono spazialmente divisi, l’autostrada nella sua qualità di raccordo è evidente” (Rainer Zulauf, architetto paesaggista) Premessa Autostrada e paesaggio sono, nel caso dell’A22, forse più che altrove, fortemente in relazione l’uno con l’altro. La percezione del paesaggio attraverso il suo attraversamento è importante e significativa ma spesso questo elemento non viene assunto nella progettazione delle opere infrastrutturali, se non attraverso accorgimenti postumi o non risolutivi. Nel corso di una importante ricerca interuniversitaria (Infrascape, 2006) condivisa da numerose università italiane e straniere (e della quale gli autori hanno fatto parte come componenti) e partecipata dalla Direzione per le opere pubbliche del Ministero LLPP, sono emersi alcuni elementi fondamentali di innovazione che riguardano il rapporto tra infrastrutture e paesaggio, riassunti in dieci punti fondamentali: Importanza del paesaggio; Contestualità delle reti; Sostenibilità paesaggistica delle reti; Progettazione sensibile al paesaggio; Arte e nuova estetica delle reti; Transiti ed esperienze dell’attraversamento; Nodi e nuove spazialità; Regole contro la proliferazione normativa; Politiche nuove per una programmazione efficace; Innovazioni: urgenza della sperimentazione. Proprio da questi dieci punti e dagli esiti della ricerca, con l’invito esplicito dell’ultimo punto che spinge enti e università ad una più stretta collaborazione, nasce l’idea di un insieme di ricerche che la Facoltà di Ingegneria di Trento, tramite l’Osservatorio-laboratorio
TALL (Trentino AltoAdige advanced Landscape design Lab) mira a rendere efficaci e attuabili con l’obiettivo di ricadute importanti sul territorio del Trentino e del Sud Tirolo. Si aggiunge a questo insieme di tematiche il contributo di altre prestigiose ricerche che in questi anni si sono mosse all’indirizzo di un rinnovato rapporto tra autostrada e paesaggio, sistema ambientale nel suo insieme, opportunità energetiche alternative e nuove visioni e strategie per un ruolo delle infrastrutture intese anche come motore di sviluppo territoriale. Il tema L’A22 costituisce una delle principali dorsali infrastrutturali dell’asse del Brennero. I volumi di traffico (circa 9 milioni di transiti da e per l’Austria, 52 milioni di accessi totali dei quali il 65% in area alpina) restituiscono la dimensione di un impianto fortemente significativo nella funzionalità multi scalare del territorio, dalla soglia europea a quella locale del sistema Trentino e Sudtirolese, che si spinge a sud fino alla pianura padana con la sua connessione a Modena e l’incrocio con l’autostrada del Sole. Il nastro autostradale, nella sua parte alpina, costituisce un’interfaccia che innerva organicamente l’ossatura del fondovalle dell’Adige e dell’Isarco e interseca una sequenza complessa di habitat caratterizzati da forti specificità paesaggistiche e da interessanti e progressive dinamiche insediative. L’autostrada stessa ne diventa elemento configurante in termini di qualità degli spazi, soprattutto in considerazione di una morfologia che trasforma il fondovalle in un proscenio continuo rispetto al sistema dei versanti, in un rapporto asimmetrico: allo stesso tempo infatti la lettura della topografia, condizionata dalla velocità, restituisce all’utente dell’infrastruttura uno sguardo parziale. Gli elementi strutturali dell’A22,
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Capitolo 1 Le teorie, le riflessioni
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quelli che ne connotano ‘l’attacco’ e lo snodo con i contesti serviti, come i viadotti, i sovrappassi, gli snodi, le stazioni di servizio ma anche le scarpate, le aiuole degli svincoli, i paracarri e le barriere, sono le componenti di linguaggio dell’infrastruttura che contraddistinguono il rapporto con il territorio e soprattutto una relazione — instaurata o meno — con il paesaggio. E sono proprio questi elementi che contribuiscono a definire le qualità paesaggistiche dell’infrastruttura, dalla scala complessiva fino a quella puntuale, come è possibile vedere in alcune felici esperienze di autostrade francesi o anglosassoni o
ancora olandesi e di recente, spagnole. Questi elementi producono quinte, aree, scansioni spaziali lungo il sistema di fondovalle dell’Adige e dell’Isarco che restituiscono un’ampia articolazione di configurazioni. La consapevolezza del quadro delle azioni di ricaduta locale nella costruzione di qualità dei sistemi territoriali, paesaggistici ed ecologici è già elemento virtuoso della mission di A22, la società che gestisce il tratto autostradale oggetto della ricerca. La maggiore sfida che oggi va posta consiste, dunque, non solo nella qualità ritrovata o da ritrovare ma anche nell’integrazione di funzio-
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Fig. 1 Fase di Analisi. I numeri dell’autostrada A22.
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Figg. 2-3 Vista della A22.
ni nuove e multiformi, di usi differenziati e atteggiamenti fortemente sostenibili, di elementi in grado di costituirsi come esempi significativi di buoni e attenti percorsi progettuali, di innovazioni e sperimentazioni capaci di incrementare in senso ambientale ed identitario le singole parti dei luoghi di un sistema di relazione territoriale vasto, quale quello dell’infrastruttura autostradale. La ricerca — che si è sviluppata con quadri conoscitivi e simulazioni progettuali, e ha avuto una durata triennale, nel corso della quale diversi e numerosi sono stati gli aspetti presi in considerazione e altrettanti i prodotti emersi — è da utilizzare, alla fine del lavoro, come Linee di Indirizzo nella Progettazione Paesaggistica e degli interventi per l’A22. Un manuale di regole ed esempi progettuali, un percorso di comunicazione e divulgazione, un insieme di eventi e iniziative tese anche a cambiare il rapporto e la percezione tra autostrada e paesaggio in questo importante tratto che è il segmento alpino del Brennero. La ricerca e le sue relazioni con azioni e attività in corso Alla ricerca sono collegate alcune attività in essere e in corso di produzione da TALL, tra queste, ALPS la Biennale del Paesaggio Alpino, la Summer School “Brennero Ecocity 2030”, le relazioni e le collaborazioni di TALL con altre università dell’asse del Brennero, tra cui soprattutto, Bolzano, Innsbruck e Monaco di Baviera (che contribuiscono ai risultati della ricerca con sperimentazioni di allievi) e le diverse ricerche che si muovono, in più direzioni sul tema del paesaggio alpino (Interreg Alpine Space, etc.), le ricerche in corso sul paesaggio alpino e la mobilità sostenibile, in particolare nel segmento trentino/ sudtirolese. Pertanto la proposta di ricerca si è mossa, oltre che in virtù delle esperienze maturate, anche in direzione delle relazioni e connessioni con le attività in corso di svolgimento.
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Articolazionedelprogettodiricercaedellesperimentazioniprogettuali: 1. Ricognizione fotografica e video dei luoghi dell’A22 — in diversi momenti e stagioni — potenzialmente interessanti per l’obiettivo proposto (Paolo Riolzi, collaborazione di Arianna Scaglione); 2. Costruzione di un sistema cartografico in grado di monitorare i flussi e la diversa natura di questi per stabilire le modalità di fruizione e le relazioni tra i diversi contesti;
Capitolo 1 Le teorie, le riflessioni
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Fig. 4 Paesaggi dall’autostrada al sistema alpino.
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3. Indagine sugli effetti locali del sistema autostradale e sue relazioni con i sistemi insediativi e paesaggistici; 4. Scenari di progetto e visions, rivolte all’individuazione di aree campione per ipotesi progettuali e all’individuazione di scenari progettuali riferibili a funzioni integrative capaci di ampliare il quadro dei servizi offerti da A22 e verificarne la compatibilità territoriale. Una seconda parte della ricerca ha riguardato le innovazioni, ossia l’autostrada come sistema lineare ad elevato livello di integrazione territoriale, in grado, in futuro, di consentire di innervare sul suo ap-
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G. Pino Scaglione Dall’autostrada, paradigma moderno, all’infrastruttura e paesaggio, paradigma futuro nell’era del 2.0
Fig. 5 Nuovi dispositivi per infrastrutture osmotiche.
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parato una rete multifunzionale di innesti prestazionali sperimentali, tra questi: 5. Svincoli produttori di energia, parchi di produzione bio-topica specifica e definizione paesaggistica delle aree marginali; piattaforme interattive e di comunicazione integrata su paesaggio-turismocultura, localizzazione di installazioni artistiche. 6. Localizzazione e abaco formale-paesaggistico di nuovi autogrill (corporate architecture, anche come supporto di base per l’istruzione di bandi di concorso mirati e strumenti pre-progettuali). 7. Conclusione della ricerca con visions di progetto, in grado di esplicitare le rinnovate capacità dell’infrastrutture di produrre qualità territoriale, paesaggistica e valorizzazione delle identità locali.
Dall’autostrada alla tecnologia: spostamenti intelligenti nei paesaggi ecologici Ma la sfida degli anni che verranno, per i luoghi, per le infrastrutture, per chi abita e si muove sul pianeta, sarà ancora più sorprendente e densa di innovazioni. L’autostrada sarà un ricordo dell’epoca moderna, la prima modernità italiana. Il tema degli spostamenti, del muoversi, del collegare, del progettare e ripensare infrastrutture, strade, ferrovie, linee metropolitane e funivie, sarà fortemente orientato alla tecnologia, dalla smartness, ovvero dalla capacità di sfruttare le intelligenze artificiali e i dispositivi per usare al meglio e in tempi più rapidi i nostri modi di spostamento, e non solo. Tutto questo ci obbliga — oggi per il futuro — ad una serie di rifles-
Capitolo 1 Le teorie, le riflessioni
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sioni ancora più articolate, che riguardano il ruolo che avranno nei prossimi anni i progettisti, gli urbanisti, tecnologi e ingegneri, i designers, quella estesa schiera di protagonisti del mondo della riflessione e progettazione, della ricerca e innovazione, intorno allo spazio che cambia, si dilata e si estende nelle sue forme virtuali, piuttosto che fisiche, e che rimandano ad una immagine di infinito, di qualcosa che non ha soluzione di continuità. L’idea del ricercatore, di chi sperimenta e guarda oltre il presente, la mia idea di futuro tra paesaggi e infrastrutture, sarà soprattutto di osservare con attenzione i segni — già evidenti — della fisionomia, forma e futura struttura dei paesaggi urbani e di quelli infrastrutturali, del loro mutamento, che sarà sempre più marcato, oggi e domani soprattutto, e che sarà legato alla sempre maggiore necessità di tecnologia intelligente, la quale a sua volta richiede progetti interdisciplinari che sappiano muoversi sia sul binario della soluzione dei problemi, legati ad esigenze quotidiane, ma al contempo sulla nascita o rinascita di una nuova estetica di ciò che all’apparenza oggi rischia di apparire solo una questione tecnologica. Il medesimo ragionamento che si applica, in questi ultimi anni, ai processi di costruzione edilizia attraverso le certificazioni, e che rischia di spostare il problema tutto sugli aspetti energetico-edilizi, si può applicare alla tecnologia per la città e la mobilità: non è solo un problema di efficacia dei servizi ma anche una questione che riguarda la qualità urbana e paesaggistica dei singoli manufatti e di sistemi e relazioni complesse. I trasporti e l’urbanistica sono stati concepiti (e seguono ancora oggi) come processi e progetti separati, e i guasti di questa miopia sono evidenti nelle città che abitiamo e attraversiamo. L’abitare, il commercio, il muoversi, il produrre, le reti, energetiche e di trasporto, dovranno essere parte di sistemi integrati, capaci di offrire agli uten-
ti scelta, connettività, flessibilità. Sarà dunque importante iniziare a pensare di ‘superare l’automobile’, e avere il coraggio di abbandonare il concetto degli spostamenti di massa che per tutto il XX secolo hanno fatto perno su questo mezzo e sulla sua dipendenza da carburanti inquinanti. Soprattutto sarà importante pensare di sostituire l’automobile, il più possibile, ossia integrare il mezzo privato con mezzi avanzati, collettivi, ma soprattutto capaci di abbattere le emissioni, altissime e dannose (vedi tabella alle pagine seguenti) preoccupanti secondo il rapporto Ecosistema Urbano (2014/15), che con indicatori più significativi dei tre indici legati all’inquinamento atmosferico, restituisce dati allarmanti. La rilevazione della concentrazione di polveri sottili (PM10) se da un lato — in alcuni casi — conferma il lieve miglioramento medio del precedente rapporto, dall’altra, con i superamenti an-
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Fig. 6 Dalla barriera come separazione alla barriera osmotica.
nui del limite dei 50 g/mc, presenta ancora 33 capoluoghi che superano i 35 giorni consentiti dalla normativa nell’arco dell’anno ed evidenzia che cinque di questi arrivano a oltre 75 giorni di superamenti della soglia (Frosinone, 110 superamenti, Torino 94 e Alessandria 86). Nei prossimi anni, pertanto, la domanda di spostamenti e mobilità intelligenti, a basso impatto inquinante e in grado di offrire servizi realmente efficaci, sarà sempre più emergente e sempre più pressante. Lo spostamento porta a porta, il car sharing, la disponibilità di un
mezzo, piuttosto che il possesso, trovano sempre più spazio concreto anche nella applicazione di progetti in corso ad Amsterdam o Copenaghen (WeGo, Car2Go, Amsterdam Smart City, etc.) e in altre città. Ma il modello ideale, già da ora, prevede di poter disporre di alternative di mobilità molteplici, dal mezzo elettrico a noleggio, alla bicicletta, immaginando che gli spostamenti medi in città non superino i cinque chilometri e su distanze come questa la bici (si veda il modello Copenaghen Wheel) sia il mezzo più rapido e meno inquinante, oltre che il più salutare. Le città del futuro, e la loro riqualificazione, non passano pertanto solo da aspetti energetico-ambientali, o solo edilizi, ma anche dal ripensamento, nella forma e organizzazione, dei sistemi e delle reti di mobilità, della necessaria coerenza tra tessuti e reti, abitanti, sistemi e luoghi. Per questa ragione non bastano generiche dichiarazioni di aspirazioni a diventare/essere Smart City, inutili slogan (troppo facilmente di moda e solo tali) ma è importante avviare percorsi progettuali nei quali integrazione dei problemi, visioni unitarie e strategiche si fondano per dare risposte importanti e concrete. “Meno asfalto e più silicio” ha ribadito Carlo Ratti, nel corso di una sua recente intervista, a proposito del rapporto tra città e mobilità, alludendo al fatto che le nuove intelligenze artificiali ci aiutano e aiuteranno sempre più a migliorare i nostri modi di abitare spazi e luoghi del muoversi, del condividere e dell’agire contemporaneo, superando il concetto di tradizionale ‘materialità’ della città moderna-odierna. In Italia, in particolare — il paese europeo forse con maggiore ritardo rispetto ad altri, sul fronte dell’applicazione delle tecnologie ICT a città e sistemi urbani — non si tratta di fare un salto nel vuoto dalla precaria, attuale modernità verso un improbabile futuro visionario e ipertecnologico, ma già di riorganizzare e ripensare le città di oggi, ri-
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Capitolo 1 Le teorie, le riflessioni
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progettandole con maggiore sensibilità ai luoghi, alle risorse, alle reti sarà un salto in avanti consistente. In questo senso i programmi di organizzazione e riorganizzazione degli spazi e dei luoghi urbani, verso una dimensione smart, potrebbero essere l’occasione per agganciare le esperienze di altre realtà avanzate, avviando processi virtuosi, come il progetto Amsterdam Smart City, tra tutti, che prevede quattro fondamentali aree di intervento, adattabili alle nostre realtà urbane: • sustainable living • sustainable working • sustainable public space • sustainable mobility Dunque sarà importante e prioritario, nelle realtà italiane, fare ricorso al recupero di quanto consumato, introducendo l’impronta di riciclo, piuttosto che di altro consumo, ed elementi di innovazione attraverso il riconoscimento delle tecnologie che aiutano a rendere più semplice l’uso e il movimento negli spazi urbani. Così assumerà an-
Fig. 7 ALPS Smart Pole. Design Pino Scaglione, Michele Reich, Sabina Maccabelli, Fuorisalone Milano 2011.
che un senso la valorizzazione del consistente patrimonio esistente, dal ripensare i parametri urbanistici per porre fine alla cultura del progetto per la città costruito su una lunga stagione in cui crescita e numeri sono stati unici parametri di riferimento. Usando le nuove tecnologie per il traffico, per ridurre le distanze tra centro e periferia anche solo virtualmente, per abitare in maniera più intelligente, potremmo in pochi anni modificare le nostre abitudini e lo stato dei luoghi, gli spostamenti, oggi già disponibili in forme evolute di auto che si guidano da sole o di reti che ci permettono di non sprecare tempo e benzina alla ricerca di un parcheggio. Razionalizzando e riprogettando le infrastrutture, che già esistono, potremo diminuire anche parte dei conflitti sociali che generano disagio per la perversa dinamica urbana di marginalizzazione di ampie parti di brani di città e territori.
G. Pino Scaglione Dall’autostrada, paradigma moderno, all’infrastruttura e paesaggio, paradigma futuro nell’era del 2.0
L’assunto di partenza — del non separare la pianificazione dai trasporti e dall’ICT — può generare città più funzionali, più accoglienti e anche di nuovo esteticamente riavvicinate alla nostra cultura rinascimentale, quella in cui forse le nostre città e i territori sono stati davvero smart. Ripensare i nostri distorti modelli urbanistici significa anche pensare ad un domani migliore, aiutare il pianeta e le persone che lo abitano. Del resto se il consolidarsi del ruolo attrattore delle città è ormai un dato acquisito con cui misurarsi, perché è qui che si concentrano oggi quasi il 50% della popolazione mondiale, e si suppone saranno il 75% nei prossimi trenta anni, la città resta, anche per il futuro, il soggetto privilegiato di studi e ricerche urbane. Percentuali che ci forniscono anche un risultato, in tutto il mondo, del 75% per consumo di energia, al quale fa da corollario almeno un 80% di emissioni di CO2. Dati allarmanti che devono far riflettere sulla necessità di invertire la rotta. Ci sono del resto esempi importanti ad oggi che fanno sperare che ciò sia possibile: su tutti quello di Copenaghen, città Green d’Europa 2014, che si è fissata l’obiettivo di avere, già nel 2012, il 40% dei cittadini che usano la bicicletta per andare al lavoro, obiettivo quasi raggiunto, anche perché in città ogni giorno vengono percorsi in bicicletta 1, 1 milioni di km. A questo si aggiunge una rete di trasporti pubblici sostenibili, ben sviluppata e diffusa, in tal modo le automobili sono sempre meno e l’aria del centro è tornata pulita. Sono in costruzione altre linee metropolitane e nel frattempo in città ci si muove in autobus, metropolitana e S-train usufruendo di un servizio ottimale. Tutto questo, grazie anche all’uso della tecnologia, che fa sì che la città sia considerata una delle più importanti per l’investimento in nuove tecnologie, le imprese pulite, e che l’urbanistica ed edilizia sostenibili, siano uno dei valori fondamentali della qualità dei luoghi di Copenaghen.
Sembra evidente che un futuro migliore sia possibile già oggi; non essere schiavi della tecnologia ma saperla usare ci proietta in una dimensione di intelligent habitat: la città e gli edifici si smaterializzano, per lasciare posto a membrane, superfici interattive, in cui lo spazio aperto si fa piazza della conoscenza, dell’innovazione e delle relazioni aperte; le infrastrutture si alleggeriscono, si trasformano in una sorta di sistema nervoso che gestito con software avanzati consentirà di evitare code, inquinamenti, ritardi e problemi. Tutto questo servirà, senza dubbio, a rendere più efficiente quanto già esiste e a predisporre al meglio quanto ad oggi costruito. La sfida è aperta, dunque, sta a noi raccoglierla, e il ruolo della ricerca e del progetto come luogo di decisioni e scelte strategiche, saranno sempre più fondamentali. NOTE
* il testo è la rielaborazione di alcuni saggi già pubblicati dall’autore su medesimi argomenti.
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Capitolo 1 Le teorie, le riflessioni
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Giardini urbani. Caleidoscopi sul mondo Antonella Valentini
Il giardino è parte dell’immaginario dell’abitante urbano. Se ci interroghiamo sul suo ruolo nella città contemporanea possiamo scoprire una molteplicità di significati. Come ci spiega Panzini, il giardino pubblico come tipologia di spazio collettivo è abbastanza recente ma la sua comparsa sulla scena urbana sotto forma di giardino privato aperto al pubblico è precedente. Per i piaceri del popolo è un racconto avvincente sulla nascita ed evoluzione in Europa del giardino in parco pubblico, di cui è presentato un articolato panorama a partire dal ‘700 fino alla fine del ‘900, indagandone però anche le origini storiche nell’antichità, nei periodi rinascimentale e barocco, nel XVII secolo. Questo testo, a cui sono affettivamente legata perché mi riporta alla memoria il tempo delle mie prime letture ed esplorazioni sull’argomento, ha messo in luce la forza straordinaria del giardino quale tema progettuale con implicazioni profonde sul progetto della città e dei suoi spazi pubblici. Panzini ci ricorda come nella storia affondi le sue radici il progetto contemporaneo degli spazi urbani, per intervenire sui quali mi piace richiamare l’insegnamento di un maestro come Michel Corajoud che ci ha lasciato scritti densi di significato — le sue 9 azioni chiave sintetizzano in modo chiaro il pensiero e l’azione paesaggistica — al pari dei suoi straordinari progetti, come la sistemazione del lungo fiume di Bordeaux ed in particolare Place de la Bourse e Le Miroir d’eau, una grande piazza-fontana che coglie pienamente, sostiene Franco Zagari, i temi dello spazio pubblico di nuova generazione1. Tra questi c’è sicuramente il valore sociale del giardino, concetto in realtà profondamente radicato nella idea stessa di luogo pubblico, sia che esso si presenti nella forma di un ombroso parco che di una piazza pavimentata: spazi collettivi urbani, entrambi, dove può tro-
vare espressione la sociabilità degli abitanti. Nella città contemporanea lo spazio urbano come punto di incontro, sia fisico che metaforico, talvolta viene negato in nome della sicurezza (delimitando ad esempio le aree verdi con recinzioni necessarie per la chiusura notturna) o della conservazione del patrimonio storico (per esempio impedendo la fruizione di luoghi un tempo accessibili come i portici di ex complessi conventuali o ospedalieri dei centri storici2). Tuttavia vi sono progetti dove il giardino urbano assurge addirittura a manifesto di questa dimensione sociale. Il Superkilen Park3 è sicuramente uno dei più noti: area pubblica eterogena che, attraverso l’installazione di oggetti di arredo provenienti dalle diverse parti del mondo, rappresenta le varie comunità etniche di Nørrebro, il quartiere multiculturale di Copenaghen in cui è inserito. Negli ultimi anni si nota una maggior attenzione di amministratori e progettisti nel trattare i temi del recupero urbano attraverso la partecipazione attiva degli abitanti e sono realizzati giardini, parchi, piazze il cui progetto è visto come un ‘percorso di natura inclusiva’ finalizzato ad instaurare un rapporto affettivo tra la popolazione e gli spazi comuni di cui essi avranno sicuramente maggior cura. Tra i progetti che si distinguono per questa forte carica sociale, unita a esiti spaziali di notevole qualità, vi è Normand Park a Londra realizzato dallo studio della paesaggista Lynn Kinnear (2008) coinvolgendo gli abitanti nel processo di ideazione e costruzione del proprio spazio pubblico di quartiere, nell’ambito di un programma di rigenerazione urbanistica e sociale promosso da una amministrazione locale dell’area metropolitana londinese. Talvolta il giardino trova la propria configurazione grazie alle azioni spontanee dei cittadini stessi che si prendono in carico la cura di territori abbandonati e marginali creando una nuova tipologia di ‘verde
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Capitolo 1 Le teorie, le riflessioni
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Fig. 1 Parc Gerland Lion. M. Corajoud (Foto di Antonella Valentini). pagina a fronte Fig. 2 Quais de la Garonne, Bordeaux. M. Corajoud (Foto di Antonella Valentini).
pubblico’. Vi sono poi pratiche di autocostruzione dello spazio comune iniziate negli anni Settanta con i community gardens di New York e che generalmente hanno carattere sovversivo (pensiamo alle incursioni degli attivisti del Guerrilla gardening), ma che negli ultimi anni vedono una sempre maggiore legittimazione, come nel caso della recente esperienza milanese dei ‘giardini condivisi’, a gestione collettiva e concertata su aree abbandonate di proprietà comunale4. Così, attraverso l’intervento dal basso, i progetti relativi si distinguono per la capacità di generare cambiamenti nelle comunità locali, assolvendo addirittura una funzione ‘terapeutica’5. Il giardino è, quindi, un’importante componente del multiforme tessuto della città contemporanea in quanto espressione di una tensione (leggasi aspirazione) sociale, ma è anche progetto di valore etico, quale spazio necessario ad innalzare la qualità del vivere in città. Non solo perché, si sa, parchi e giardini contribuiscono ad apportare molti benefici ambientali, ma perché lo spazio pubblico è sempre più considerato un vero e proprio ‘bene comune’. La sua rilevanza per la qualità
della vita umana è ormai affermata e condivisa sia in ambito nazionale6, che a livello mondiale7. Il giardino si presta a essere letto come metafora del rapporto tra uomo e ambiente, tema ampiamente indagato dai cultori della storia del giardino e del paesaggio. La costante oscillazione tra naturalezza e artificio, scriveva Pierre Grimal nel suo breve ma intenso saggio sulla storia dell’arte dei giardini8, pervade il giardino nelle sue diverse declinazioni. Il Jardin de la Biblioteque nationale de France Francois Mitterand a Parigi9 è un progetto esemplare per esprimere la multiforme interpretazione del binomio: un bosco di pini silvestri della Normandia evoca la vegetazione tipica delle foreste dell’Ile de France e restituisce un’immagine di natura selvaggia quasi fosse stata preesistente alla costruzione dell’edificio10. Ma, sebbene fatto di alberi e componenti vegetali, il giardino non è un’oasi naturale in città; è una struttura culturale, è “il recinto meraviglioso in cui si impara a ‘barare’ con le leggi della natura”11, è una ‘Terza Natura’ in cui si combinano arte (artificio) e natura12. Il giardino
Antonella Valentini Giardini urbani. Caleidoscopi sul mondo
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Fig. 3 Biblioteque Nationale de France Parigi. Perrault e Prevost (Foto di Antonella Valentini).
è un episodio di un più complesso racconto poetico, espressione della visione del mondo del suo progettista, modellato poi dal variegato uso dei suoi fruitori. I paesaggisti, come ha scritto Diana Balmori, “possono rivelare le forze della natura sottostanti le città, e partendo da queste, creare nuove identità urbane”13. Il giardino dunque si distingue per la sua capacità evocativa e l’attitudine a definire dentro la trama dell’insediamento nuove centralità. È inoltre un terreno fertile per la sperimentazione e l’innovazione sia sul piano concettuale che nelle realizzazioni, si pensi al ‘giardino in movimento’ e agli altri fortunati concetti di Gilles Clément (tradotti poi in tutti i suoi progetti dal Parc Citroën di Parigi al parco Henri Matisse di Lille) che mettono in luce l’importanza della biodiversità
pagina a fronte Fig. 4 Jardin de Grands Moulins Parigi. Ah-ah paysagistes (Foto di Antonella Valentini).
urbana e degli spazi ‘indecisi’, o al movimento New Perennial il cui più noto esponente è il paesaggista olandese Piet Oudolf che utilizza, con competenza tecnica e scientifica, gli elementi vegetali in composizioni artistiche (dalla famosissima High Line di New York al Lurie Garden di Chicago) o, ancora, alle modalità innovative di gestione delle acque in ambito urbano con la creazione di giardini water sensitive (come il Bishan Park di Singapore progettato dall’Atelier Dreiseitl). I giardini urbani, dunque, si configurano in una multiforme e variegata pluralità di significati. Come i caleidoscopi, oggetti che, al di là dell’essere semplici giocattoli, mostrano un accurato studio scientifico (sui fenomeni dell’ottica) e ‘permettono di vedere belle forme’, i giardini sono i nostri strumenti per osservare e rappresentare il mondo.
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NOTE Zagari F. 2015, Michel Corajoud, esplorare i limiti, oltrepassarli, «Architettura del Paesaggio» n. 30, 1/2015, p. 17. 2 Luoghi che, trasformati per nuove funzioni, perdono la loro storica vocazione all’accoglienza come, a Firenze, l’ex Ospedale di San Matteo, sede della Accademia delle Belle Arti, o l’antico ospedale di San Paolo ora sede del Museo del Novecento in piazza Santa M. Novella, i cui porticati sono chiusi da cancellate in ferro. 3 Il progetto (2012) è frutto del connubio tra diversità, di discipline e nazionalità: Architettura (lo studio danese BIG), Arte (i danesi Superflex) e Architettura del paesaggio (lo studio tedesco Topotek1). 4 Il Comune di Milano ha approvato un atto (Del. n. 1143/2012) che promuove la pratica dei giardini condivisi, grazie alla quale dal 2012 ad oggi sono stati realizzati dai cittadini, e poi gestiti, una decina di spazi pubblici. 5 “La riqualificazione degli spazi degradati si rivela uno spazio terapeutico, che permette di avviare un processo di recupero della persona disagiata” (E.A. Viviani 2011, Cura dei luoghi, in A. Lambertini, M. Corradi (a cura di), Centouno voci per i paesaggi quotidiani, Editrice compositori, Bologna, p. 80. 6 “Lo spazio pubblico va considerato un bene comune […] Gli spazi pubblici sono elemento chiave del benessere individuale e sociale, luoghi della vita collettiva delle comunità…” (Carta dello Spazio pubblico, Biennale dello Spazio pubblico, Roma 18 maggio 2013). 1
Nella New Urban Agenda della Conferenza mondiale Habitat III sul tema dell’housing e dello sviluppo urbano sostenibile (Quito, 2016) il Principle 100 recita: “We will support the provision of well-designed networks of safe, inclusive for all inhabitants, accessible, green, and quality public spaces and streets […] promoting walkability and cycling towards improving health and well-being” (Habitat III, The New Urban Agenda explainer, p. 4). 8 Grimal P. 2002, L’arte dei giardini. Una breve storia, Donzelli Ed., Roma (ed. orig. 1974). 9 Del giardino se ne ha una fruizione mediata attraverso lo sguardo: accedendo in continuità del livello strada allo spazio interno definito dalle 4 torri delle biblioteca, infatti, ci si affaccia sulla foresta piantata nella corte sottostante. Progetto di Dominique Perrault — Gaelle Lauriot Prévost, 1995. 10 Quello della foresta in città è un tema suggestivo che troviamo trattato ad esempio da Michel Desvigne nella forma di griglia regolare ‘democratica’ che si dispiega senza differenziazione tipologica tra boschi, parcheggi, viali alberati, nel Parc aux angéliques in costruzione lungo la riva destra della Garonne a Bordeaux o nel Millennium Park di Greenwich a Londra realizzato con Christine Dalnoky (1997-2000). 11 Grimal P., op. cit., p. 4. 12 Dixon Hunt J. 2000, Greater Perfections: The Practice of Garden Theory, University of Pennsylvania Press, Philadelphia. La teoria, di matrice rinascimentale, dell’arte del giardino come una terza natura, è esposta dall’autore anche in: Dixon Hunt J. 1993, Nel concetto delle tre nature, «Casabella» n. 597/598, pp. 98-101. 13 Balmori D. 2010, A landscape Manifesto, Yale University Press, tradotto da A. Lambertini, «Architettura del paesaggio» n. 33/2017, pp. 24-25. 7
Capitolo 1 Le teorie, le riflessioni
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Invenzione e evoluzione dell’idea di giardino pubblico Franco Panzini
Siamo così abituati a considerare i giardini pubblici come parte integrante delle città in cui viviamo che li consideriamo un elemento da sempre presente nel contesto urbano. Ma non è così: se belle strade, piazze, edifici rappresentativi segnano la città sin dall’epoca antica, il giardino pubblico è invece un’introduzione relativamente recente, un segno di modernizzazione della città storica tradizionale. Dello stesso termine di ‘giardino pubblico’ non si trova traccia, prima della seconda metà del XVIII secolo, quando guide per viaggiatori e trattati sui giardini, iniziarono ad utilizzare, per descrivere alcuni particolari giardini urbani, un appellativo che ne segna un uso relativamente collettivo: giardino pubblico. Un termine che non si riferisce ad alcuna connotazione compositiva; enfatizza piuttosto la speciale qualità di questi spazi verdi: di essere aperti ai residenti della città, di offrire un nuovo modo di vivere la vita urbana civile e associata. Nell’epoca antica, Roma presentava una grande varietà di spazi verdi organizzati intorno e all’interno dei grandi edifici pubblici: templi, anfiteatri, terme furono alberati e decorati con giardini. Con il decadere della città antica cadde però nell’oblio anche quel modello urbano in cui a tipologie specifiche di spazi verdi erano assegnati ruoli di decoro cittadino, di ricreazione, di memoria. Le ragioni non furono solo funzionali, vale a dire la riduzione dimensionale delle città e la mancanza di spazio nelle città murate, ma altresì ideologiche. La relazione fra la città e il circostante paesaggio naturale divenne caratterizzata da una sorta di antagonismo. Se analizziamo la ricca eredità iconografica di vedute di città del periodo medievale e del primo rinascimento, percepiamo con evidenza una netta separazione fra gli orgogliosi ambienti urbani, le città ben costruite, e l’inquietante insicurezza del paesaggio naturale (fig. 1). Chiara era la consapevolezza dei pianificatori che la città fosse il più
complesso e artificiale dei prodotti della cultura; e l’enfasi nel dare consistenza artistica allo spazio della città attraverso, palazzi, portici, monumenti, lo ribadiva. Gli alberi non erano riconosciuti come materiale pienamente adatto alla costruzione della scena urbana. Andrea Palladio, nel suo celebre trattato del 1550, I quattro libri dell’architettura, lo affermava chiaramente. E si come nelle Città si aggiogne bellezza alle vie con le belle fabriche; così di fuori si accresce ornamento a quelle con gli arbori, i quali, essendo piantati dall’una, e dall’altra parte loro, con la verdura allegrano gli animi nostri, e con l’ombra ne fanno commodo grandissimo.
La trattatistica rinascimentale ribadì insistentemente questa distinzione di trattamento fra l’ambiente interno alla città e quello ad essa esterno nel perseguire un fine tutto sommato analogo: il pubblico decoro. L’apparizione degli spazi verdi nelle città europee fu assai timida e originata da fattori diversi. Una sollecitazione giunse dalla possibilità offerta ai residenti delle città di frequentare alcuni grandi giardini aristocratici; nella seconda metà del XVI secolo a Roma si aprirono alla visita la villa Medici e successivamente la Villa Borghese. In seguito molte capitali europee seguirono quell’esempio nel secolo successivo: a Londra vennero rese accessibili le riserve di caccia di Hyde Park e St James Park; a Berlino lo stesse avvenne per il Tiergarten; a Parigi il giardino reale delle Tuileries fu trasformato da André Le Nôtre, per migliorarne la visitabilità (fig. 2). L’apertura al pubblico cittadino andò consolidando un modello culturale: l’incontrarsi, il passeggiare secondo una ritualità codificata, l’esibire la pompa e gli abiti, furono usi che dal giardino aristocratico si trasmisero ai primi parchi pubblici; nei quali la nuova utenza, composta dai ceti urbani emergenti, era ansiosa di imitare i modi sociali della élite.
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Capitolo 1 Le teorie, le riflessioni
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Fig. 1 Particolare del dipinto di Andrea Mantegna, l’Orazione nell’orto, 1455 ca. La relazione fra la città murata e l’ambiente naturale è di completa contrapposizione. Fig. 2 Pierre Aveline, vista prospettica del giardino e del palazzo delle Tuileries, fine del XVII sec. L’immagine mostra i giardini dopo i lavori di rimodellazione condotti da Le Notre per favorire la frequentazione del pubblico urbano.
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Un ulteriore evento destinato ad avere un ruolo incisivo, come nel caso dei prati originatosi lungo il limite fra città e campagna, fu il rinverdimento delle cinte murate. Fu questo delle piantagioni al di sopra dei bastioni il frutto, del tutto imprevisto, del mutamento che subirono i metodi della difesa urbana. Per contrastare lo sviluppo delle artiglierie, verso cui fragili si rivelavano le vecchie mura sin lì esclusivamente in pietra e mattone, ci si affidò a fortificazioni costituite da terrapieni contenuti da cortine poligonali. La terra aveva la funzione di frenare gli urti dei proiettili, ma costituì ovviamente anche il supporto di impianti verdi. Risultato quindi secondario, ma diffuso, dell’ammodernamento delle opere difensive, fu la possibilità di rinverdire e alberare i circuiti murari, anche quando questi mantennero intatta la loro funzione militare. Dalla metà del XVI secolo due città, Antwerpen nelle Fiandre e Lucca in Italia trasformarono le loro cinte murarie ponendo piantagioni di alberature sui terrapieni dei bastioni (figg. 3-4). Anche la grande capitale, Parigi, adottò quell’esempio, trasformando la cinta dei suoi militari boulevards, ‘baluardi’, in viali alberati, e rivoluzionando sia il significato di quel termine, che il costume delle città civili. Fu Luigi XIV, ad avviare, nel 1670, il rimpiazzo della cerchia muraria della capitale con un sistema di bastioni verdi che sorreggevano una passeggiata larga più di trenta metri e divisa dalle alberature in tre parti: le carrozze viaggiavano nel viale centrale, mentre i pedoni usavano i controviali ombreggiati laterali (fig. 5). L’abitudine al passeggio elegante, in quei fronzosi percorsi lineari al di sopra delle mura, influenzò la connotazione compositiva anche dei primi giardini pubblici situati all’interno delle città che mantennero un carattere aperto, lineare e fortemente geometrico, ben adatto peraltro all’uso sociale tutto mondano che si era andato consolidando.
Franco Panzini Invenzione e evoluzione dell’idea di giardino pubblico
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Fig. 3 Veduta aerea di Lucca con la cinta muraria alberata.
Un esempio di questi spazi fu a Napoli il Real Passeggio sulla Riviera di Chiaia, costruito a partire dal 1778, e noto oggi come Villa comunale. Venne realizzato su progetto di Carlo Vanvitelli il quale concepì un giardino tutto pensato in funzione dello svolgimento del rito del camminare in compagnia (fig. 6). Era infatti costituito da tre viali paralleli: il centrale, molto ampio e aperto, aveva ai lati due percorsi all’ombra, riparati da alberature e pergole su cui salivano viti maritate a olmi e tigli. I primi spazi verdi pubblici nacquero con una caratterizzazione legata alla tradizione del giardino formale, seppure quel gusto fosse ormai in declino; fu in Germania che per la prima volta avvenne la coniugazione con il gusto paesaggistico, nel giardino che l’elettore Karl Theodor fece realizzare a Monaco a partire dal 1789 e che ebbe, proprio per la sua ispirazione compositiva, la denominazione di Englischer Garten, ‘Giardino inglese’. Venne proposto e avviato da Benjamin Thompson, poliedrico personaggio statunitense di nascita, e fu poi portato a compimento, dal 1804, dall’architetto paesaggista Friedrich
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Fig. 4 Lucca, dettaglio di un tratto dei passeggi sopra le mura.
Ludwig von Sckell. Si trattò di un giardino sin dall’inizio privo di recinzioni e destinato all’uso pubblico, situato immediatamente all’esterno della città, alle spalle del palazzo reale: era costituito da un’area incuneata nella bella campagna, dove una sequenza di boschetti, radure ed un laghetto, congiunti da una maglia di percorsi serpeggianti piuttosto intricata, venne composta in forme naturalistiche in un ambiente in cui trovano posto anche una pagoda cinese, un tempio di Apollo, un anfiteatro. La coniugazione del parco all’inglese con il paesaggio urbano e l’impiego di risorse tecniche avanzate costituirono la cifra, a Parigi, di quello che fu il primo straordinario intervento volto a dotare una grande capitale del primo sistema di spazi verdi. A volerlo fu Napoleone III. Aveva vissuto la sua giovinezza in esilio a Londra, derivandone una decisa consuetudine con i parchi di quel paese; quando venne richiamato in Francia, trovò i giardini parigini troppo rigidi, non idonei a esprimere, attraverso la naturalità dell’assetto, quella interclassista filosofia sociale che l’imperatore ama-
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Fig. 5 Anonimo, Boulevard Saint-Antoine a Parigi, metà del XVIII sec.
va mostrare. Ebbe al suo fianco il tenace prefetto Georges Eugène Haussmann, il quale diresse il colossale piano di rinnovamento urbano che investì Parigi negli anni fra il 1853 e il 1870. Fra i vari interventi di riqualificazione della capitale, attuati attraverso le iniziative concertate fra i due personaggi, vi fu anche una gerarchica rete di spazi verdi, tipologicamente definiti per dimensione e prestazioni, in relazione al raggio d’influenza. Due grandi parchi rivolti all’intera metropoli vennero istituiti in quadranti opposti, all’esterno della periferia parigina; giardini di dimensione minore furono inseriti nei quartieri in costruzione; piccoli spazi verdi, gli square trovarono posto nel centro storico già edificato; ed
infine furono generalizzate le alberature stradali. Il giardino pubblico divenne a Parigi unità di costruzione della città, capace anzi di adattarsi a tutte le sue circostanze topografiche. Il programma si avviò con la creazione della coppia di parchi di più vasta superficie, risultato della conversione di tenute reali di caccia. Il Bois de Boulogne, situato ad ovest della città, fu il primo ad attirare l’interesse dell’imperatore: si trattava di un bosco di oltre settecento ettari attraversato da una serie di percorsi rettilinei, i cui lavori trasformazione iniziarono nel 1852 (fig. 7). Vennero diretti da un giovane ingegnere, Jean-Charles-Adolphe Alphand, destinato a dirigere la nuova struttura municipale creata per curare il verde urbano: il Service des Promenades et Plantations de Paris. Furono tracciati viali e sentieri che attraversavano il bosco descrivendo ampie curve, scavati due laghi con isole e creato un sistema di ru-
Franco Panzini Invenzione e evoluzione dell’idea di giardino pubblico
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Fig. 6 Antonio Zaballi, il Real Passeggio nella riviera di Chiaia a Napoli, 1785 ca.
scelli e cascate intorno a cui vennero collocate rocce artificiali. Il parco divenne il luogo di incontro del bel mondo; era però assai lontano dalle zone orientali della città dove vivevano i ceti operai. L’imperatore, che si piccava di proteggere le classi laboriose, doveva loro una compensazione, che venne con la realizzazione della seconda grande area verde, il Bois de Vincennes. Situato al limite orientale della città, fu iniziato nel 1860; vi furono scavati vari laghi corredati di isolette ed ebbe un ippodromo al suo interno. Tre parchi vennero realizzati nei quartieri più esterni della città, all’epoca ancora in costruzione; due spazi verdi erano integralmente nuovi, mentre uno fu ricavato, nel 1861, dall’esistente Parc Monce-
au, che fu fortemente ridotto come dimensione, ma ebbe salvaguardate molte delle finte rovine create da Carmontelle nel secolo precedente, le quali, insieme a nuovi specchi d’acqua, grandi prati lievemente ondulati e una splendida cancellata, contribuirono a formare uno dei più eleganti giardini della capitale. Del tutto nuovo era invece il parco delle Buttes-Chaumont, realizzato intorno ad un’alta rupe rocciosa, in un’area dall’andamento altimetrico molto tormentato, situata alla periferia nord-orientale della città (fig. 8). I lavori si avviarono nel 1864, per concludersi nel 1867, l’anno in cui Parigi ospitò un’esposizione universale: fu allora che il giardino apparve in tutta la sua selvaggia e singolare bellezza, con le sue rocce scoscese, il lago anulare, i ponti audaci. Lo spazio verde era impostato intorno all’imponente sperone calcareo, reso ancora più pittoresco da un minuto lavoro di cesellamento
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del suo profilo; alla sommità fu posto un tempietto-belvedere, mentre intorno alla roccia trasformata in isola si distendeva un laghetto, bordato da un percorso per carrozze. Alimentava il lago un torrente, che fuoriusciva da una stupefacente grotta artificiale, adorna di stalattiti e orride protuberanze doviziosamente profuse, nella quale, da un foro nella volta, cadeva vorticosa una cascata. L’acqua era sin lì condotta da un impianto di sollevamento idraulico, per essere distribuita ai diversi torrenti che scendevano dai rilievi, come all’impianto di irrigazione. Due arditi ponti, uno dei quali sospeso a lunghi tiranti di acciaio, davano accesso all’isola e contribuivano ad arricchire lo scenario fortemente pittoresco. Lo stesso Haussmann fu costretto ad ammettere che il suo protetto Alphand vi aveva forse esagerato nella ricerca di effetti romantici; ma il parco delle Buttes-Chaumont rappresentò una delle più alte creazioni dell’arte dei giardini nel XIX secolo, dove virtuosismo tecnico e fantasia si mescolarono dando vita ad un giardino paesaggistico urbano di mirabile efficacia. Ebbe una replica a sud fra i nuovi quartieri meridionali, dove, a partire dal 1867, si costruì il parco di Montsouris alla pendice di una dolce collina. Nel tessuto urbano compatto della città storica vennero introdotti piccoli giardini, chiamati square, con un termine derivato dall’inglese: fornivano un momento di dilatazione allo spazio serrato dell’edificato. Ne vennero realizzati diciassette nella città vecchia e sette
nelle zone suburbane; paesaggi in miniatura con l’ambizione di svolgere il ruolo di freschi salotti buoni per la città. Ultimo punto del programma di creazione del verde urbano furono gli arbres d’alignement, le alberate poste lungo i viali e a contorno delle piazze della città. Haussmann teneva molto a che le strade fossero provviste di questo corredo verde; anche in opposizione al parere degli ingegneri municipali che ritenevano al contrario che gli alberi, mantenendo umido il terreno, deteriorassero le nuove strade nelle quali, per la prima volta, si faceva uso di copertura in asfalto. Per sostenere quel programma di rinverdimento di Parigi, Alphand organizzò un vero esercito di operai e giardinieri che ebbe il compito della messa a dimora delle essenze vegetali e della loro manutenzione. Vennero utilizzate alberature di rapida crescita, che dovevano offrire ombra abbondante e grande resistenza alle malattie; dominavano perciò olmi, ippocastani, platani e tigli. Nelle strade più strette, laddove si richiedeva un minore sviluppo della chioma, vennero usati acacie, aceri, ailanti ed anche catalpe e paulonie; gli square furono invece decorati con vegetazione esotica, come banani, lantane, palme. Un altro motivo di interesse di questi giardini venne dall’inserimento di una gamma completa di manufatti funzionali, standardizzati, di grande qualità: gazebi, chioschi, cancellate, panchine, bacheche per manifesti, fontanelle, protezioni per tronchi. Nella loro ricorrenza rafforzavano il senso di unitarietà, e quindi di sistema urbano
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Fig. 7 Parigi, Bois de Boulogne; dettaglio dell’isola su cui sorge il padiglione realizzato per Napoleone III. Fig. 8 Parigi, Parc des Buttes-Chaumont; dettaglio del ponte sospeso in ferro.
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Fig. 9 New York, Central Park.
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dei giardini ed insieme acuivano il senso di modernizzazione che gli spazi verdi portavano alla città, rispecchiando così il senso della vita urbana, dove alla contemplazione della natura si stava sostituendo il suo consumo. Ed i parchi si adeguavano: tecniche orticole, effetti compositivi, applicazioni tecnologiche, confluivano a costruire uno scenario idoneo ad accogliere la sempre più frettolosa e distratta popolazione metropolitana. Alphand legò anche il suo nome a una iniziativa editoriale di grande risonanza: fra il 1867 e il 1873, uscirono in fascicoli i due volumi Les Promenades de Paris, opera che presentava l’epopea della creazione dei parchi parigini. Le magnifiche illustrazioni, predisposte da una moltitudine di artisti i quali realizzarono tavole di mirabile qualità grafica e tecnica, ne fecero insieme un prodotto d’arte ed un manuale per gli uffici delle grandi municipalità e portarono l’opera ad una vastissima diffusione. Nella seconda metà del XIX secolo, la questione della formazione di parchi pubblici investì anche alcune grandi città del Nord America. A New York, nel 1853, una legge statale autorizzò la municipalità ad ac-
quisire il terreno per realizzare la prima area di verde pubblico; fu l’atto iniziale della creazione del Central Park (fig. 9). Il suo progetto fu opera di Calvert Vaux e Frederick Law Olmsted i quali sfruttarono l’irregolarità del sito, la presenza di stagni e affioramenti di granito, per proporre un paesaggio costituito da una collezione di ambiti fortemente pittoreschi: quadri pastorali ma anche laghi e corsi d’acqua, boschi, valli incise, rocce irregolari. Il successo che il parco ebbe sin dall’inizio servì a consolidare la presenza della figura professionale dell’architetto paesaggista nel disegno degli spazi urbani pubblici. Negli anni seguenti Olmsted, proseguì la sua attività professionale con una miriade di lavori fra cui il sistema di parchi per Boston, una lunga sequenza di spazi aperti di varia dimensione, fra loro uniti da strade inserite nella vegetazione. Con la creazione del sistema di parchi a Parigi e Boston, nella seconda metà del XIX secolo l’esperienza paesaggistica si andò sempre più coniugando con la scienza della costruzione urbana, contribuendo a dare origine all’urbanistica moderna.
Capitolo 1 Le teorie, le riflessioni
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Progettare nella complessità del territorio della città globale Marta Buoro
All’inizio del XIX secolo non esistevano più di una dozzina di città del mondo con più di un milione di abitanti, ed erano tutte situate nei Paesi con economie capitaliste avanzate; Londra era di gran lunga la più grande di tutte, con poco meno di sette milioni di abitanti. Agli albori dell’anno 2000, erano circa 500, le città con più di un milione di abitanti e le più grandi di loro, Tokyo, Bombay, Shangai contano popolazioni che superano anche i 20 milioni di persone, seguite dalle capitali dei così detti Paesi in via di sviluppo, con popolazioni in forte crescita che contano più di 10 milioni di abitanti. Osservando i dati dei Prospetti Mondiali sull’Urbanizzazione si osserva che la popolazione urbana globale è aumentata da 0,7 miliardi nel 1950 a 3,9 miliardi nel 2014. Si prevede un aumento ulteriore del 60% entro il 2050, quando circa 6,3 miliardi di persone vivranno in città. Si può dunque affermare che il XX secolo sia stato il secolo per eccellenza dell’urbanizzazione, se prima del 1800, le dimensioni e il numero delle concentrazioni urbane, in tutte le formazioni sociali, sembrano essere state strettamente limitate, il XIX secolo ha visto frantumarsi queste barriere, prima in alcuni Paesi con economie avanzate, trasformandosi gradualmente in una inondazione universale di urbanizzazione massiccia, il futuro della maggior parte dell’umanità ora è, per la prima volta nella storia, fondamentalmente nelle aree urbanizzate. (Harvey, 2014, p. 53)
Le città odierne sono, senza ombra di dubbio, veri e propri motori economici: circa l’80% del Prodotto Interno Lordo globale è prodotto nelle città, allo stesso tempo rappresentano una enorme quota del consumo globale di risorse, tra il 60 e l’80% del consumo energetico e più del 75% del consumo di risorse naturali, producendo il 75% delle emissioni di carbonio del mondo, il modello insediativo contempora-
neo è al 95% responsabile per il cambiamento climatico in atto (IPCC, 2013). Sarà dunque la qualità della vita urbana nel XXI secolo che definirà la qualità della civiltà stessa […] Ma a giudicare dai trend attuali di urbanizzazione nel mondo, le generazioni future non troveranno questo tipo di civiltà particolarmente congeniale. (Harvey, 2014, p. 54)
Il PIL come indicatore non fa distinzione tra attività che apportano benessere o quelle che lo diminuiscono, riducendo l’identità dei cittadini di un Paese, al ruolo di consumatori, misurandone il valore solo in base al potere d’acquisto e produzione; Ciò che non è minimamente considerato sono i legami sociali, il senso di comunità e identità, che costituisce l’infrastruttura sociale di ogni territorio. Ogni città, a livelli differenti, ha i suoi tassi di impoverimento, mal nutrimenti e malattie croniche, di infrastrutture sgretolate o stressate dal consumismo intenso, di degrado ecologico e di inquinamento eccessivo, di congestione, di iniquità sociali ed economiche, talvolta diventando scenario di aspri conflitti sociali, che variano dalla violenza individuale nelle strade alla criminalità organizzata (spesso alternativa alla governance urbana), mentre le autorità di polizia esercitano il controllo sociale delle grandi proteste civiche, che richiedono cambiamenti politico-economici. I processi demografici, economici, socio-tecnologici, metabolici e socio-culturali combinati dell’urbanizzazione, hanno portato alla formazione di una rete globalizzata di insediamenti umani spazialmente concentrati e di configurazioni infrastrutturali in cui si materializzano, riproducono e contestano le principali dimensioni del moderno capitalismo: la città globale. Questo modello di urbanizzazione sempre più diffuso, si contraddistingue chiaramente dalle preceden-
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ti previsioni, nelle decadi del primo decennio del XX secolo, secondo le quali l’era della urbanizzazione si stava avvicinando al suo esaurimento a causa della diffusione di nuove tecnologie dell’informazione, dei costi di trasporto in declino e di modelli sempre più dispersi degli insediamenti umani. Oltre quarant’anni fa, il filosofo francese Henri Lefebvre anticipò la risultante ‘generalizzazione’ dell’urbanizzazione capitalista attraverso il concetto di una ‘rete planetaria’ di spazi urbanizzati (Lefebvre, 1970); Planetary Mesh è il termine da lui coniato per descrivere il continuo assorbimento del capitalismo globale delle terre rurali e agricole in aree urbane, in atto nella seconda meta del XX secolo. Lefebvre spiega la sua teoria di cominciando con la seguente ipotesi: “La società sarà completamente urbanizzata”, un processo che egli definisce ‘virtuale’, ma che è destinato a compiersi in futuro. La concentrazione della popolazione andando di pari passo con quella del modo di produzione, fa sì che il tessuto urbano (termine utilizzato non per definire il mondo costruito delle città, ma tutte le manifestazioni del predominio della città oltre il paese, comprese le infrastrutture) crescendo, si estende oltre i suoi confini, corrodendo il residuo di vita agricola, dissolvendo la distinzione tra urbano e rurale. Le previsioni di Lefebvre, oggi non sono più una speculazione futuristica, ma costituiscono un punto di partenza rea-
listico di indagine sulla realtà urbana globale contemporanea, questo non significa che l’intero mondo sia diventato una unica città: i modelli e i percorsi dell’urbanizzazione sono fortemente variegati in tutto il mondo, anche se lo sviluppo spaziale irregolare, la polarizzazione socio-spaziale e la disuguaglianza territoriale rimangono elementi pervasivi, endemici della società moderna; Piuttosto le sua previsione indicava che il processo di urbanizzazione avrebbe sempre più condizionato tutti gli aspetti più importanti dell’esistenza sociale a livello globale e, a sua volta, che il volto della vita sociale umana, anzi, quello della Terra stessa, sarebbe successivamente dipeso dalle traiettorie discontinue e irregolari delle dinamiche dell’urbanizzazione (Sassen, 2004, Keil, 2017, et al.). Il pianeta è infatti vivo a molte scale, non solo la Terra e i suoi sistemi organici viventi, ma anche i diversi sistemi meccanici che la ricoprono, possono essere considerati ‘vivi’ all’interno delle economie e delle società umane. La catena di distribuzione e produzione dei prodotti, i collegamenti dei gasdotti, le griglie elettriche, le condutture del gas, le fibre ottiche, le impronte wireless e le linee di trasporto, sono in costante evoluzione, alcune ancora non ancora mappate, altre in costruzione, sono proprio queste reti di infrastrutture, che sempre più, segnano il destino ecologico di tutta la vita naturale e artificiale del
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Fig. 1 Rapporto della prospettiva delle urbanizzazioni urbane dell’ONU — metà del mondo vive nelle aree urbane — Infografica con annotazioni (E&T, Aprile 2014, Engineering and Technology Magazine). Fig. 2 Proteste anti-governative in Venezuela, Aprile 2017 (Francisco Toro, 8 Aprile 2017, Caracas Chronicles).
Pianeta, finché le ultime riserve di energia consumabili non verranno ingerite, metabolizzate ed espulse. Un mix complesso di de-industrializzazione e re-industrializzazione, nonché il decentramento e la ri-centralizzazione, hanno favorito la riorganizzazione della struttura sociale e spaziale di quasi ogni metropoli moderna, creando le basi della comparsa di una modalità globalizzata di capitalismo industriale urbano, per la quale la forma può essere sostanza, dando vita a un’ampia varietà di forme e configurazioni spaziali, il cui fattore comune è la rete infrastrutturale, costruita adottando una serie di criteri di selezione irrilevanti per la vita urbana, e distruttivi per il tessuto urbano; visibili e invisibili ossature dell’esistenza urbana, cornici invisibili di architetture anonime, le infrastrutture sono state progettate esclusivamente per rispondere a standard di velocità e ritmo, attraverso il movimento. La società odierna, basata sull’economia globale, è organizzata attorno a centri di comando e di controllo, in grado di coordinare innovare e gestire le attività interconnesse di reti di aziende. Servizi avanzati come finanza, assicurazioni, mercato immobiliare, servizi legali, consulenze, pubblicità, design, marketing, sicurezza, raccolta dati, gestione dei sistemi informativi e innovazione scientifica, sono tutti settori che rappresentano il cuore dei processi economici e che insieme costituiscono generazione di conoscenza e flussi di informazioni. Ciò pone l’attenzione su quel che molti sociologi e teorici della città-globale avevano già osservato alla fine degli anni ’70, dopo l’invenzione di ARPANET, agli albori della nascita di Internet: La privatizzazione (e il collasso) dell’infrastruttura, la liquidità delle frontiere, la ridefinizione del termine regionalismo oltre i confini politici e geografici, la graduale scomparsa dell’organizzazione sociospaziale dello stato-nazione moderno a favore delle città (Harvey,
Lefebvre, Castells et al.). La connettività offerta dal modello di trasporto point-to-point, tipico dalle linee aree low-cost, combinato alle trasformazioni politiche ed economiche, in Europa, ad esempio, ha eroso il continente da una serie di grandi stati-nazione a favore di una matrice di punti-città che non vengono identificati in associazione con la loro ubicazione geografica o del loro Paese di appartenenza, ma attraverso gli assi di comunicazione resi possibili dalla rete in cui si trovano; Non stupisce dunque che gli attrattori socioeconomici primari, siano oggi le reti transnazionali, non più i capitali simbolici dell’era industriale. Questo processo, scaturisce da ciò che il sociologo spagnolo Manuel Castells chiama ‘Spazio dei Flussi’: L’organizzazione materiali che consente la simultaneità delle pratiche sociali senza contiguità territoriale: non è puramente spazio elettronico… è costituito innanzitutto di un’infrastruttura tecnologica di sistemi informativi, telecomunicazioni e linee di trasporto.(Castells, 1989)
in altre parole quando un luogo perde la sua associazione con il suo contesto geofisico locale, e viene invece definito da una relazione più astratta con un altro punto, in un contesto più grande. Lo spazio dei flussi crea dei processi simultanei di dispersione e concentrazione, si sovrappone allo spazio dei luoghi, ma non lo annulla completamente (Castells, 1989). Inevitabilmente la concentrazione di servizi avanzati o la loro dispersione sul territorio determinano un differente pattern spaziale (Graham 1994, Sassen 1991), le funzioni che devono essere soddisfatte da ogni rete definiscono le caratteristiche dei luoghi che diventano i loro nodi privilegiati. Quando i sistemi logistici, cominciando a penetrare nella routine quotidiana, fanno sì che le tendenze a-geografiche dei flussi di produzione dell’economia neoliberale, rimodellino la percezione della città (e quindi il senso dei luoghi), interrompendo definitivamente la relazione tra le città
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e il territorio. Siano essi flussi di capitali, flussi di informazioni, flussi di tecnologia, flussi di interazione organizzativa, flussi di immagini, suoni; e simboli; essi non sono solo un elemento di organizzazione sociale: sono le espressioni dei processi che dominano la nostra vita economica, politica e simbolica, ripetitive sequenze programmabili di scambio e di interazione tra le posizioni fisicamente disgiunte detenute da attori sociali nelle strutture economiche, politiche e simboliche della società. (Castells, 1996)
La produzione dello spazio è quindi una componente fondamentale della conservazione di equilibri di potere, di cui la città è la manifestazione più estrema e più ambigua al tempo stesso. Nel mondo globalizzato il potere che influenza la produzione dello spazio è sempre più distante, autoreferenziale e pervasivo; le evoluzioni dei sistemi di produzione e dei processi sociali sono sempre più rapide ed hanno effetti inediti: interi sistemi produttivi e sociali vengono abbandonati nell’arco di pochi anni e, con essi, gli ordini spaziali che hanno costru-
ito ed ai quali il territorio si è conformato divengono obsoleti (Soja, 1987). Quando l’economia globale si espande e incorpora nuovi mercati, allo stesso tempo organizza la produzione di servizi avanzati necessari per poter gestire le nuove unità che si uniscono alla rete e le condizioni delle loro connessioni in costante cambiamento (Sassen, 2004). Quanto più rigida e specializzata è la struttura spaziale, più il mancato adattamento delle strutture sociali e produttive innesca crisi territoriali. Solo recentemente si è iniziato a comprendere come il modello fordista dei principi di produzione e quello di efficienza tayloristico, abbiano semplificato l’ecologia delle economie urbane e minimizzato il ruolo sociale delle infrastrutture urbane, marginalizzando e sopprimendo la vita dei sistemi biofisici (Belanger, 2016). La sovrapposizione dello spazio dei flussi sull’ambiente costruito ereditato dalle strutture socio-spaziali precedenti, ha causato la perdita di significato sociale, storico e funzionale dello spazio dei luoghi, risultando nella perdita del Genius Loci, ciò che Christian Norberg-Schulz
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Fig. 4 Questa mappa del 2011 dal designer Nicolas Rapp mostra i cavi in fibra ottica che attraversano gli oceani (Nicolas Rapp, 2011, per Fortune Magazine). pagina a fronte Fig. 3 Visione notturna della Terra dallo Spazio, 2014 (Craig Mayhew e Robert Simmon, NASA GSFC).
identificava nel 1991, come il fenomeno intangibile di un luogo che va al di là delle sue caratteristiche fisiche, includendo le ‘caratteristiche ambientali’ e l’‘essenza del luogo’, un attributo geografico che non può essere ridotto a qualità fisiche quantificabili ma piuttosto racchiude una dimensione esistenziale in forma di spirito, che può essere trovata in un luogo dove l’identità naturale del paesaggio e predominante. Dopo trentacinque anni dalla pubblicazione del libro, la rete e diventata il contesto pervasivo della citta, le infrastrutture della città non sono più semplicemente i condotti di servizio, ma il contesto sociale, fisico e culturale dell’area metropolitana (Jacob, 2014); Se la citta compatta europea era storicamente impostata su sequenze di spazi pubblici, la citta diffusa contemporanea e divenuta una continua sequenza di recinti privati, interrotta raramente da qualche grande distretto mono-funzionale. La portata di questi fenomeni e dei loro effetti pone il problema della ridefinizione degli obiettivi che le discipline spaziali si devono porre, e quindi le forme ed i temi che la progettazione urbana deve affrontare, mettendo al centro della costruzione del progetto una nuova attenzione per le questioni ambientali e della mobilità come modi pertinenti e rilevanti per la ricerca della giustizia sociale. (Secchi, 2011)
Per definizione, le infrastrutture sono lo strumento materiale necessario per sostenere una condizione di flussi continui, la loro presenza sul territorio genera la dinamica urbana e stimola il movimento, fino ai limiti della loro stessa capacità. La tendenza a progettare infrastrutture monofunzionali, anche se generalmente efficaci in termini geopolitici ed economici, spesso porta alla creazione di paesaggi interrotti; Pur stabilendo una connessione, la loro presenza fisica produce isolamento, diventando barriere di permeabilità dello spazio, che inducono la cancellazione dei valori culturali e naturali del territorio. Come osservato da Franco Zagari, nel più recente dei suoi scritti: Il declino del paesaggio il sintomo più eloquente del generale fallimento di una capacità di capire, difendere, innovare la bellezza del nostro habitat, che richiede una nuova e diversa attenzione per dimensioni e velocità prima sconosciute. È il modo di essere di una città globale/locale che si annuncia nel nuovo millennio, una potenza spaventosa di risorse umane e materiali, una grande energia magmatica che dobbiamo cercare di interpretare, con la società di massa ha preso spesso l’aspetto di una catastrofe. (Zagari, 2017, p. 6)
La molteplicità dinamica dell’insieme dei processi urbani, dunque, non può essere contenuta o regolata attraverso la progettazione di strutture fisse e rigide. Oggetti statici, quali le infrastrutture, devono incessantemente rinnovarsi per poter costituire l’ossatura dei flussi, facendo sì che il consumo di suolo aumenti indipendentemente dalle oscillazioni del capitale economico e umano delle città. L’architettura del Paesaggio affronta la complessità di queste problematiche ponendo l’accento sulle nuove e complesse relazioni innescate tra città e natura, tale approccio è proprio del movimento culturale del Landscape Urbanism (Waldheim, 2006). Complessità e relazioni vengono portate al centro del progetto paesaggistico, in
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Fig. 5 Uomo della Tribù dei Masai, Kenya (Svin Torfinn, 2015). Fig. 6 Ragazza di 12 anni, cammina su un tubo del Sistema fognario di Bombay, per raggiungere la sua baracca. Fonte: buzzfeed.com, 2014.
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forme simili a quanto anticipato da Bernardo Secchi nel ‘progetto di suolo’ (Secchi, 1986), i landscape urbanists vedono nel suolo il principale oggetto di intervento del progettista urbano. James Corner, nel suo saggio Terra Fluxus, integra le considerazioni sulla inter-scalarità e sulla qualità ordinatrice del suolo, con riflessioni più prettamente scientifiche sulla dimensione performativa di questo supporto, dove performance assume un duplice significato: organizzare le diverse attività dell’uomo in continuo divenire lasciando aperto il maggior numero di opzioni possibili e la capacità di svolgere funzioni, performance, utili alla vita urbana. Questa inversione di attenzione verso il paesaggio, emerge simultaneamente insieme alle preoccupazioni legate alla sostenibilità, la consapevolezza dei rischi di una possibile crisi ecologica planetaria, dagli esiti imprevedibili ed ancora oggi non sufficientemente compresi dai Paesi più industrializzati, apre la strada alle discipline paesaggistiche per poter affrontare nuove sfide poste dagli ambienti urbani, come la pulizia e il ripristino di siti post-industriali e una visione legata all’ecologia sul funzionamento della città. Ciò ha dato a grandi progetti pubblici, precedentemente considerati sotto la pura visione dell’ingegneria civile, un nuovo ruolo culturale e sociale in città, basandosi su un rinnovato interesse per lo spazio pubblico urbano emerso nei primi anni ‘90. Il Parco del Nus de la Trinidad, progettato dallo studio Batlle I Roig, in concomitanza con le Olimpiadi di Barcellona del ’92, è un caso particolarmente illustrativo: in un momento in cui “si pensava che la sola infrastruttura potesse strutturare il territorio, che le destinazioni d’uso e l’edificato fossero la cosa più importante e che evidentemente il destino dello spazio aperto potesse essere trascurato” (Batlle, 2016, p. 38), propone un’inversione di approccio, cominciando a progettare non a partire dai grandi tracciati infrastrutturali, ma a partire dallo spazio aperto,
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Fig. 7 Parco del Nus de la Trinidad, Barcellona (Batlle i Roig, 1996).
disegnandolo pensando in primis a quali elementi geografici, morfologici e naturali siano essenziali nella ri-configurazione del luogo. Ecco che allora, all’interscambio Nus de la Trinitat, che indirizza l’intersezione e la connessione intorno alla città di Barcellona e delle autostrade che si dirigono verso nord-est, nasce un parco pubblico che corregge e convive con l’infrastruttura viaria, un parco di passaggio, uno degli ultimi spazi che si allontana allo sguardo quando si lascia Barcellona, uno dei primi che si incontra quando si arriva da nord; Uno spazio che si o che si può sfiorare per anni in macchina senza mai entrarci, ma che allo stesso tempo ricopre un ruolo di forte identità urbana oltre che di infrastruttura sociale per gli abitanti del quartiere. Questa tipologia di progetti paesaggistici, hanno innescato una reazione a catena, sia nel mondo accademico che nella pratica, dimostrando che è possibile adottare un design innovativo nelle vicinanze di un’infrastruttura su larga scala, creando il contesto culturale che ha dato vita alla “Convenzione Europea del Paesaggio” (Firenze, 2000). È a partire da questo cambio di paradigma, che alcuni ricercatori hanno recentemente proposto di estendere l’ecologia del paesaggio (la disciplina che studia le interazioni tra popolazione e l’ambiente nel quale sono insediate) allo studio delle città contemporanee (Alberti et al., 2003), constatando che uno schema di organizzazione generale di un sistema urbano può essere osservato attraverso una visione di insieme delle attività della popolazione, in relazione all’uso che fanno dello spazio della città. La teoria dei sistemi, si traduce nella definizione di Paesaggio come insieme di sistemi dinamici interconnessi ed inter-scalari, che delinea un vasto sistema di relazioni antropiche ed ecologiche, quasi del tutto inesplorate. In quest’ottica anche l’infrastruttura può essere considerata Paesaggio e la sua trasformazione può essere caratterizzata da un
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approccio in cui l’infrastruttura è l’oggetto, che viene trattato come un paesaggio interdisciplinare e multifunzionale. Proponendo l’integrazione di ecologia ed economia, nonché attraverso il disegno di un progetto trans-disciplinare, Pierre Belanger, in Redefining Infrastructure, suggerisce la necessità di comprendere il paesaggio, ed i processi e i sistemi che lo abitano (come l’ecologia) come un terreno infrastrutturale operativo, proponendo l’integrazione dell’infrastruttura contemporanea con i sistemi biofisici, al fine di sviluppare una proposta infrastrutturale che utilizzi il paesaggio come campo operativo. Landscape Infrastructure, o infrastruttura paesaggistica, è un termine introdotto dallo stesso Bélanger (2009, 2010, 2013, 2015, 2016) per ridefinire le infrastrutture come alternativa integrata per migliorare il trasporto di massa, migliorando accessibilità e qualità dello spazio pubblico e prestazioni ecologiche. Il Paesaggio in
Fig. 8 Riqualificazione Paesaggistica della Vall d’En Joan, Biennale di Venezia 2016 (foto di Marta Buoro).
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quanto tale diventa il mezzo attraverso il quale formulare e soluzioni articolate per l’integrazione delle infrastrutture con una programmazione valida che possa risolvere gran parte dei pressanti e sempre più urgenti problemi di molte città in tutto il mondo. Sebbene, non si possa affermare che esistano, ad oggi, vere e proprie città resilienti, sono sempre più numerosi gli esempi di progettazione che considerano lo spazio e il progetto delle infrastrutture in chiave multi-funzionale (Waldheim 2011, 2013, et al.), facendo sì che queste possano svolgere il ruolo di spazio pubblico, essendo tra loro interconnesse ad altri sistemi urbani, funzionanti, di trasporto pubblico, passaggi pedonali, gestione dell’acqua, sviluppo economico, strutture pubbliche e sistemi ecologici. Molte città hanno prodotto e pubblicato, negli ultimi anni, le proprie visioni di città sostenibile come il Sustainable Singapore Blueprint (2015), la Rotterdam Climate Change Adaptation Strategy (2012), Copenhagen Climate Adaptation Plan (2011) e molte dichiarazioni europee fino alla più recente “Dichiarazione Basca” del 2016; dalla comparazione tra queste strategie emergono i principi chiave che vengono affrontati in ognuno dei documenti sopra-citati: la conservazione e incremento di spazi verdi in ambiente urbano; l’adozione di una governance di tipo partecipativo; uno sviluppo improntato sulle necessita degli abitanti; modelli di sviluppo compatti ma che favoriscano la connessione; lo sviluppo di una ‘economia circolare’ che aumenti sostanzialmente i tassi di riciclaggio e riutilizzo dei materiali minimizzando la produzione di rifiuti e favorendo la produzione di energia; la progettazione di sistemi di mobilita alternativi. Le esperienze e i progetti paesaggistici realizzati dagli ospiti della terza edizione di Open Session On Landscape, costituiscono una rassegna di trasformazioni dei luoghi della città e del territorio, che scaturiscono da un dialogo attivo tra discipline e professio-
ni a lungo mantenute separate nel corso del secolo scorso. Quando Architettura, Urbanistica e Scienze del Paesaggio ritrovano una prospettiva simbiotica nello svolgimento del processo progettuale di trasformazione dei luoghi, allora nascono nuovi modelli e strumenti di rappresentazione di una realtà geografica e sociale pervasa da reti e flussi che ci disorientano, e nuove dimensioni progettuali dello spazio pubblico urbano, che permette non soltanto all’uomo di attraversare lo spazio urbano ma che è capace di accogliere il movimento dolce della fauna, della flora e dell’acqua, come nei progetti di Anne Sylvie Bruel e Cristophe Delmar, o di Michel Desvigne che attraverso i suoi interventi si fa portavoce di una rinnovata forma di del rapporto tra urbano e naturale, lavorando su ‘bordi spessi’ che configura come un luogo di scambio tra periferie e sistemi rurali. Gli spazi aperti, se connessi in una rete produttiva, quindi attraverso l’integrazione di funzioni diverse utili al cittadino, dall’agricoltura urbana alla possibilità di creare sistemi di raccolta e riciclo dell’acqua o spazi per la produzione di energia rinnovabile, possono diventare il terreno per creare nuovi paesaggi e ritrovare identità perdute, come per i progetti di J&L Gibbons Landscape Architects e Kinnear Landscape Architecture, che attraverso il processo di comunicazione e ricerca-azione, prima di creare paesaggi costruiscono visioni comuni tra residenti, stakeholders e amministrazioni pubbliche. Kongjian Yu, a più grande scala, sta conducendo una vera e propria rivoluzione, attraverso centinaia di incontri con Sindaci e membri delle amministrazioni pubbliche di tutta la Cina, per recuperare i territori cinesi dai devastanti effetti dall’industrializzazione e dell’urbanizzazione degli ultimi 50 anni; Con il suo studio professionale, Turenscape, sta ‘curando’ il paesaggio della Cina attraverso la creazione di Infrastrutture Ecologiche. In Europa, la Riqualificazione Paesaggistica della Vall d’En Joan rea-
Marta Buoro Progettare nella complessità del territorio della città globale
lizzata dall’Agronomo Ingegnere Tereza Galì Izard e dallo studio di Architettura del Paesaggio Battle i Roig, progetto iniziato nel 2002, continua ad essere vincitore di svariati premi come il Premio per il miglior spazio urbano europeo pubblico 2004, il WAF2008 Energia, Rifiuti e Riciclo e più recentemente The International Architecture Award 2014. Category “Landscape Architecture”. Si tratta di una vera e propria Landscape Infrastructure in quanto il progetto non si limita a soddisfare le esigenze di bonifica del territorio, ma ridà identità a un Drosscape, attuando una ridefinizione spaziale e strutturale del rapporto Città e Natura, sfruttando ogni possibile occasione di riuso, di riciclo di immensi capitali di energia, di adattamento e ripristino paesaggistico ed ecologico. Ciò che emerge chiaramente da questa breve rassegna, è che le infrastrutture paesaggistiche sono uno strumento valido per poter gestire in maniera più cosciente i processi di trasformazione territoriale, facilitando relazioni funzionali, sociali ed ecologiche tra sistemi naturali e umani. Mettendo in relazione sistemi naturali e l’infrastruttura pubblica del-
le città, l’Infrastruttura Paesaggistica diventa un mezzo per sviluppare strategie urbane. Questo binomio apre infinite opportunità e possibilità sia per la progettazione strategica regionale, sia per interventi locali. Interventi flessibili e sinergici, che privilegiano i sistemi ecologici come i nuovi servizi economici primari delle città del futuro, possono creare le condizioni per una nuova forma di sviluppo territoriale, aprendo nuove prospettive di intervento spaziale, interdisciplinare e inter-scalare, assecondando le necessità di una società in trasformazione perpetua. Pensare globalmente e agire localmente è possibile, solo attraverso una progettazione di nuova generazione, includendo le persone e la salute dell’intero pianeta alla base dell’azione progettuale, intervenendo nelle comunità e città stimolando le discipline della progettazione a cooperare e trasformare i canonici metodi di progettazione che danno forma all’ambiente costruito, per raggiungere una comprensione sistemica della realtà che ci circonda, e forse un giorno, imparare ad abitare il nostro pianeta.
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La cultura del progetto
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Gli alberi nelle Smart Cities Francesco Ferrini
È ormai acclarato che le città che hanno visioni di lungo termine e che stanno prosperando dal punto di vista sociale, economico e ambientale hanno non solo una buona dotazione di verde urbano, ma esso si presenta ben pianificato, progettato gestito e mantenuto rispetto a città che, invece, evidenziano problematiche a vario livello nei settori suddetti. Se facciamo una breve analisi della situazione mondiale emerge chiaramente l’enorme divario che separa l’Italia dagli altri paesi cosiddetti ‘sviluppati’ e le nostre città dalle città straniere (soprattutto inglesi, francesi, tedesche e scandinave), nelle quali non solo s’investe sulla gestione della ‘cosa pubblica’, ma dove è anche evidente come lo sforzo delle società coscienti dei problemi del nostro tempo sia tutto teso a rendere sempre migliore la vita urbana, reintroducendo quel contatto con la natura che le sconvolgenti trasformazioni cui esse sono state sottoposte da oltre un secolo, rischiavano di eliminare. Quello che balza all’attenzione è che mancano, nel nostro Paese, delle reali strategie pianificatorie per quanto riguarda le aree verdi (non solo come quantità) e, anche quando esse sono presenti, sono lontane anni luce dai concetti, oramai largamente condivisi e applicati, che stanno alla base della progettazione delle cosiddette Smart Cities, cioè città progettate in considerazione dell’impatto ambientale, abitate da persone dedicate alla minimizzazione degli input energetici, di acqua e cibo, e di output di calore, inquinamento dell’aria e dell’acqua, CO2 e metano (fig. 1). Alcuni esempi in fase di realizzazione in Cina, Malesia e anche negli Emirati Arabi (Alusi et al., 2011), dovrebbero essere assunti a modello di quella che dovrà essere la città del futuro: sostenibile, intelligente, inclusiva. Categorie ispirate alle linee guida proposte dal documento europeo Europa 2020. Una strategia per una crescita intelligente che
vede la realizzazione di progetti in contesti socio-economico e culturali anche molto diversi tra loro, che si caratterizzeranno per l’essere costruzioni aperte e condivise, intrinsecamente connesse al paesaggio e al territorio circostante. Di conseguenza nei programmi urbanistici delle maggiori città straniere il verde è accuratamente proporzionato e distribuito in base a norme precise, messe a punto da studi di igienisti, sociologi e urbanisti, insieme a ecologi, agronomi e forestali: non si tratta di creare delle aree verdi isolate, senza un reale fil rouge, ma di realizzare una maglia di spazi che penetri profondamente nell’abitato, in modo da servire il maggior numero di cittadini e progettati per le più svariate attività creative. Questo è fondamentale poiché, già oggi, più della metà degli abitanti del pianeta vive in ambienti urbanizzati con punte, in Europa, dell’80% e negli Stati Uniti dell’83, 7% e questa tendenza si accentuerà nel prossimo futuro, tanto che si prevede che nel giro di pochi anni, oltre il 70% della popolazione mondiale vivrà in contesti urbani e che, entro il 2050, oltre 6 miliardi di persone abiteranno in città (McCarthy et al. 2010). L’urbanizzazione si è praticamente ‘mangiata’ il territorio del nostro Paese per decenni, non solo attraverso attività dirette di edilizia residenziale e industriale ma anche attraverso l’estensione delle rete delle comunicazioni, quali nuove strade, ampliamento delle rete stradale preesistente e tutte le infrastrutture connesse, nuove ferrovie, etc., con il risultato che l’influenza dei valori urbani è aumentata in tutti noi facendoci progressivamente perdere il nostro contatto diretto con la natura. Si pensi che nel nostro Paese il territorio urbanizzato è pari al 7. 6% (circa 23. 000 km2, una superficie grande quasi come la Toscana, più grande dell‘Emilia Romagna) e che Milano e la Brianza hanno la percentuale più elevata di suolo edificato e/o sigillato: 42%.
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Detto questo, come ci spostiamo più a fondo nel XXI secolo, ci rendiamo conto come la natura delle nostre città sarà costretta a cambiare molto più radicalmente di quanto lo stia già facendo. E se vogliamo che in esse si sviluppi e venga mantenuto un ambiente sano per le persone, per i luoghi e per gli investimenti, ciò potrà avvenire solo se essi conserveranno il loro ruolo legittimo di nucleo della cultura umana. Le città europee sono, infatti, soggette a continui cambiamenti e nessuna area urbana sarà immune dalle forze che li muovono. Infatti, come il XXI secolo progredirà, è probabile che il ritmo del cambiamento sarà anche accelerato. Luoghi che un tempo prosperava-
no potrebbero fisicamente e/o economicamente degenerare, mentre altre aree, che sono attualmente ritenute povere o depresse, potrebbero beneficiare di una rigenerazione o di una rinascita. Ignorare il cambiamento che stiamo vivendo è, da parte dei nostri politici, degli investitori o degli opinion makers, deleterio, né questa può essere considerata un’opzione di lungo termine per il nostro futuro. Dobbiamo aver ben chiaro il concetto che le aree verdi del futuro si devono realizzare adesso per ‘costruire’ la città sostenibile del 2050. La mancanza di un reale impegno politico su questo porterà a un peggioramento dei problemi urbani, anche perché alcuni settori delle nostre comunità stanno sviluppando un crescente disincanto
Francesco Ferrini Gli alberi nelle Smart Cities
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Fig. 1 Palava City — India esempio di Smart city.
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Fig. 2 Shanghai tipico esemoio di città mercato. Fig. 3 Gestione delle acque in eccesso col sistema dei raingardens.
verso di esso. La nuova retorica urbana del politico, dei media e, purtroppo, anche di alcune riviste specializzate, non riesce a capire pienamente la realtà della nuova ‘urbanistica’ e ciò è piuttosto grave, poiché non si percepisce appieno il fatto che molte delle nostre città sono in un punto nel ciclo urbano di vita del sistema in cui c’è un veloce spostamento da un’economia industriale a un’economia post-industriale e, quindi, sono al di là della fase di maturità stabile e stanno entrando in un ciclo di declino. Nel tentativo di invertire questa tendenza è evidente nelle nostre città una frenesia verso le cosiddette ‘città mercato’ (fig. 2), spesso prive di opere a verde, e il proliferare di attività promozionali come il fattore ‘chiave’ nel tentativo di creare un’immagine positiva per la città post-industriale e/o della regione metropolitana collegata. Ecco perché abbiamo bisogno delle ‘infrastrutture verdi’, per aiutare a ripensare la progettazione, la pianificazione e forse l’immagine delle nostre città. Infrastrutture verdi è un termine che ormai è entrato nel lessico comune delle discussioni relative alla conservazione del paesaggio e allo sviluppo in tutto il paese. Questo termine assume, però, significati diversi a seconda del contesto in cui è utilizzato e del soggetto coinvolto. Ad esempio, alcune persone si riferiscono agli alberi in aree urbane come infrastruttura verde in relazione ai benefici che essi forniscono, mentre altri utilizzano il termine per fare riferimento a realizzazioni di diverse tipo (ad esempio i sistemi di gestione delle acque meteoriche o i tetti verdi) (figg. 3-4) che sono progettati per essere eco-compatibili (Benedict e McMahon, 2001). Le città europee si trovano poi di fronte all’invecchiamento e alla contrazione della popolazione e lotteranno, in un futuro non troppo lontano, per fornire servizi decenti, finanziariamente sostenibili e una buona qualità della vita dei residenti. Il verde pubblico deve
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Fig. 4 New York Bryant Park.
Francesco Ferrini Gli alberi nelle Smart Cities
perciò assumere aspetti e funzioni sempre più precisi e differenziati ed essere organizzato in un vero e proprio ‘sistema’ continuo: dal verde sotto casa per i più piccoli, al parco-giochi a distanza pedonale, al verde di quartiere con impianti sportivi elementari, al verde di settore urbano con attrezzature più complesse e specializzate, fino alla grande area naturale al servizio dell’intera città e del territorio circostante, il tutto magari con una copertura Wi-Fi per una vivibilità contemporanea (fig. 5). A questo proposito sono già state sviluppate delle applications per i vari sistemi operativi degli smartphones in grado di aumentare notevolmente l’interazione con le varie componenti di uno spazio verde in modo che i fruitori possano geolocalizzarsi, interloquire con i servizi pubblici e privati ottimizzando l’uso delle risorse naturali. Tutte le cose e gli oggetti (naturalmente, anche le abitazioni) saranno muniti di sensori (RFID, QRcode, ecc.), avranno un indirizzo IP per poter trasmettere informazioni in rete, creando una ‘internet delle cose’. L’insieme di questi dialoghi tra persone, tra oggetti, tra persone e oggetti costituisce una fonte infinita di ricchezza per ottimizzare e rendere più democratico e trasparente il governo di una città, perché le città del futuro saranno abitate da cittadini, e non genericamente da persone, che in virtù dell’uso di tablets e smartphones saranno costantemente connessi e in un contesto di realtà aumentata si riveleranno elementi attivi nella governance della città (Benanti, 2011). In relazione a questo è imperativo che siano pienamente compresi il ruolo ‘trasformativo’ delle infrastrutture verdi nel rendere le città più salubri e più vivaci, e l’importanza di cambiare le politiche locali che non riflettono il beneficio globale e non tendono a massimizzare l’efficienza delle infrastrutture verdi. Ci sono diverse azioni che toccano i processi ambientali, economici e socio-sanitari che sicuramente pla-
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Fig. 5 Metabolismo urbano. pagina a fronte Fig. 6 Una scelta sbagliata delle specie può compromettere la sostenibilità di un progetto.
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smeranno la vita nei prossimi decenni e oltre. Indubbiamente queste azioni vedono l’arboricoltura (cioè la materia riguardante la piantagione e le attività di gestione del singolo albero e degli alberi in piccoli gruppi, posti nei parchi, nelle aree verdi private o, comunque, all’interno di aree urbane e nelle zone di frangia) e la selvicoltura urbana (intesa come la gestione delle aree boscate all’interno di aree urbane e nelle zone di frangia, incluse le foreste naturali e le piantagioni) come protagoniste nella realizzazione di città quanto più sostenibili. In conclusione occorre sottolineare che una riorganizzazione del nostro modo di vivere in termini di pianificazione urbanistica, logistica, comunicazioni, etc. appare imprescindibile. Nel 2050 le nostre città non somiglieranno a quelle di oggi. Il minimo comune denominatore di questo non può che essere il cambiamento del nostro modo di pensare e dal nostro stile di vita. Questi cambiamenti sono sempre accaduti dalla comparsa dalle prime civiltà. Questa volta sarà sicuramente più complicato perché tutto sta accadendo in un tempo molto breve, compatibile con la vita di una generazione. La pianificazione, progettazione e realizzazione di aree verdi più sostenibile a livello sia ambientale, sia socioeconomico, in combinazione con un cambiamento nel nostro modo di vivere, potrebbe essere la strategia vincente anche per contenere il consumo energetico e salvaguardare l’ambiente e la crescita sociale. Tuttavia, è fondamentale che tali iniziative siano supportate tecnicamente e possiedano una coerenza interna con le altre politiche gestionali e con gli obiettivi e le strategie di pianificazione urbana nel suo complesso, poiché in uno scenario nazionale e internazionale sempre più articolato, con tagli di bilancio in aumento, l’uso di strumenti avanzati per la pianificazione strategica e l’allocazione ottimale delle risorse diventa essenziale per implementare quantitati-
vamente e, soprattutto, qualitativamente il verde nelle aree urbane. Solo una governance attenta e mirata potrà, infatti, evitare il collasso delle attuali città e guidare la trasformazione degli attuali agglomerati urbani in smart cities. È tuttavia chiaro che se vogliamo realmente cambiare qualcosa dovrà accadere una specie di rivoluzione. Non possiamo pensare di uscire fuori da questa crisi ambientale con la stessa mentalità che l’ha creata. Infatti, mentre pensiamo a quello che bisogna fare per creare un’economia ecologicamente sostenibile, ci rendiamo conto che si dovranno fare un numero elevato di cambiamenti in un periodo di tempo breve — per questo è giustificata la parola ‘rivoluzione’. Cito Lester Brown, agronomo, scrittore e ambientalista statunitense che dice: questa è una rivoluzione ambientale, un’economia globale che si adatta all’ecosistema terrestre e per la quale non abbiamo a disposizione generazioni o secoli. Ci vorrà uno sforzo enorme. Molti di noi ne saranno coinvolti. Negli ultimi venti anni abbiamo visto una notevole crescita di partecipanti a gruppi ambientalisti e la formazione di nuovi gruppi
È vero che ci sono molte persone impegnate per causare questi cambiamenti, ma non sono ancora sufficienti e, talvolta, non sufficientemente preparate o informate tanto da determinare derive integraliste. Non abbiamo ancora invertito neppure una delle maggiori tendenze del degrado ambientale. Ci vorrà un enorme sforzo a partire dal singolo individuo fino a coloro che decidono le politiche ambientali a livello sovranazionale per far comprendere che:
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• La protezione del verde urbano e il suo potenziamento sono strumenti essenziali per la creazione di città sostenibili perché è indubbio che gli alberi e le foreste urbane sono al centro dei processi di metabolismo urbano: sono l’unica possibilità che abbiamo di ridurre l’entropia del ‘sistema città’. A differenza degli ecosistemi naturali, quello urbano è essenzialmente privo di meccanismi di autocontrollo (feedback) in grado di apportare correzioni atte a limitare gli sprechi; solo l’azione dell’uomo, tramite la pianificazione sostenibile che preveda l’incremento quantitativo delle aree verdi
ma anche una loro oculata distribuzione all’interno del tessuto urbano e una gestione quanto più corretta e di limitato impatto, può contrastare la tendenza dissipativa (entropìa) della città (fig. 6). • Occorre piantare alberi in maniera realmente sostenibile in modo che il loro numero aumenti realmente e non che si presenti come scoperta la semplice constatazione della loro reale consistenza. “La Terra su cui viviamo non l’abbiamo ereditata dai nostri padri, l’abbiamo presa in prestito dai nostri figli”. Non dimentichiamolo mai.
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Creare forme profonde nella Natura urbana Kongjian Yu
‘Forme profonde’: configurative e trasformative Riguardo ai differenti tipi di natura nelle città, dalle rimanenze selvagge e i campi agricoli fino agli spazi aperti urbani ed ai paesaggi post-industriali (Kowarik, 2005) la natura urbana deve essere progettata in modo che integri le attività umane ed i processi naturali in un intero armonioso, in ciò che Lyle definì ‘ecosistema umano’ che impersona un “ordine ecologico includendo l’intera sfera fisica, emozionale e culturale dell’umanità, in termini umani”. Secondo Lyle, “un ecosistema umano ha forma profonda quando scavando la superficie e raggiungendo una sostanza più profonda si rintraccia un fondamentale ordine coesivo. Così la forma profonda si configura dall’interazione di processi ecologici interni e dalla visione umana, che rende l’ordine sottostante visibile e significativo in termini umani. Tale forma profonda si contrappone alla forma superficiale, che detiene solo un ordine superficiale percettivo e invece non gode della solidità di un processo coerente sotto la superficie” (Lyle, 1985). Nel senso dell’estetica dell’ecologia e della sostenibilità, una forma profonda ha una ‘bellezza sostenibile’ (Meyer, 2008), ed è ciò che Ann Spirn descrisse come la nuova estetica “che comprende sia la natura e cultura, che incorpora la funzione, di percezione sensoriale e significato simbolico, e che abbraccia sia la realizzazione di cose e luoghi e il rilevamento, l’utilizzo e la contemplazione di essi”. (Spirn, 1988) Nel mio discorso, io chiamo questo nuovo tipo di estetica ‘estetica dei piedi grandi’ (Yu, 2009). L’autore vorrebbe tracciare una distinzione tra i ruoli configurativo e trasformativo di una forma profonda. Alle diverse scale ma soprattutto a scala regionale o ad una macro scala, la forma profonda configurativa è in uso sin da quando gli esseri umani cominciarono a stabilirsi sulla terra. La caratteristica comune a queste forme profonde
è che esse si giustappongono a sistemi naturali e culturali, ma raramente si sovrappongono e li integrano. Alla scala del sito o alla micro scala, modelli e processi naturali e culturali non sono separati. La trasformazione della terra è allo stesso tempo un atto culturale e un atto ecologico. Le forme profonde trasformative assumono molti aspetti da quelli delle risaie terrazzate drappeggiate su un ripido pendio a quelli di giardini galleggianti costruiti su un’area paludosa. Quando le persone intervengono nel loro ambiente per il loro bene, creano ciò che J. B. Jackson chiama, “uno spazio volutamente creato per accelerare o rallentare il processo della natura”. Secondo Jackson, questo “rappresenta l’uomo che assume il ruolo del tempo” (Jackson, 1984). C’è così una condizione di reciprocità, come nelle rovine di una città che si contrae o di un edificio decadente, dove la natura erode e trasforma le funzioni e le strutture fatte dall’uomo e sovrasta la topografia urbana e la forma costruita. La forma profonda trasformativa deve essere creata attraverso un processo progettuale creativo mentre la forma profonda configurativa è invece più comunemente determinata dagli strumenti scientifici della pianificazione e dello zoning. La scienza dell’ecologia è stata assimilata spesso alla pianificazione del paesaggio a scala regionale come si vede nelle opere di Geddes, McHarg (1969), Forman (1995) e molti altri. L’integrazione dell’ecologia nella progettazione, tuttavia, è stato un compito più difficile ed è diventato un obiettivo primario dell’architettura del paesaggio contemporaneo. Le forme profonde trasformative possono essere uno strumento per superare la dicotomia tra ecologia, intesa come campo scientifico, e design creativo inteso come azione culturale.
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Fig. 1 L’approccio del contadino di scavo e rinterro, usando la forza umana e gli animali domestici, offre ispirazione per il progetto urbano. Foto dell’autore.
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Creare ‘Forme profonde trasformative’: Imparare dai contadini L’interdipendenza senza tempo tra la cultura umana e la natura è più visibile nel legame tra i contadini e i loro terreni agricoli. In questo articolo si considera ‘l’approccio del contadino’ e si distillano da esso quattro strategie per la creazione di forme profonde: scavo e rinterro, irrigazione e fertilizzazione, cornice ed accesso e crescita e raccolto. Si presenta una serie di progetti per dimostrare come l’approccio del contadino alla progettazione della natura urbana possa fornire agli architetti del paesaggio strumenti efficaci per creare forme profonde che potrebbero, ancora una volta, armonizzare umanità e natura. Scavo e rinterro Un funzionale scavo bilanciato con un giusto rinterro crea forme profonde. Questa è in genere considerata una tecnica di calibrazione in ingegneria civile e di modellazione della terra in architettura del paesaggio e dei giardini. Ma l’approccio del contadino allo scavo e rinterro va inteso più a fondo. In primo luogo, è propositivo, ovvero volto a creare un habitat produttivo per le colture e le specie e non a creare forme ornamentali ‘superficiali’. In secondo luogo, scavare e riempire dovrebbe essere considerata come un’azione integrata, non due distinte (n. d. t.), il che significherebbe che i movimenti di terra creati per l’agricoltura avvengano in loco, con il minimo costo di manodopera e con un minimo trasporto di materiale da o verso il sito. Pertanto, esso ha il minimo impatto sui processi e sui pattern naturali regionali. In terzo luogo, può essere fatto alla scala umana, ovvero è un’azione alla portata della forza umana e animale e non di quella meccanica. Questa tattica è stata attuata dai contadini che coltivano in quasi tutte le parti del mondo, come modalità per trasformare i loro intorni altrimenti inadatti in paesaggi produttivi e vivibili (fig. 1).
Cornice ed accesso Le forme profonde aiutano ad incorniciare la natura e a consentire l’accesso ad una scala umana. Tanto metaforicamente quanto realisticamente, Nassauer (1995, 2001) usa il termine ‘cornice’ come linguaggio culturale per trasformare ‘ecosistemi disordinati’ in paesaggi perfettamente ordinati che diventano attraenti per le persone. Nassauer ha osservato che, quando gli ecosistemi disordinati vengono incorniciati dal linguaggio culturale, la loro qualità funzionale “non verrà cancellata o coperta o compromessa”. E continua “il paesaggio” (n.d.t.) “è creato per la visione, in modo che la gente possa vederlo in un modo nuovo” e gli ecosistemi funzionali vengano trasformati in paesaggi belli e apprezzati. “Spunti per la cura umana, espressioni della pulizia e di una natura curata, sono simboli inclusivi attraverso i quali paesaggi ecologicamente ricchi possono essere presentati alla gente ed entrare nella cultura vernacolare”. Nell’approccio del contadino all’agricoltura, incorniciare fisicamente è una delle azioni più importanti. Le cornici possono essere modeste, come semplici strutture in legno per supportare le colture ed evitare che cadano o crescano disordinatamente (fig. 2). Una siepe ai bordi dei campi è in genere tagliata per difendere un raccolto dalle forze naturali del vento, dall’acqua, dagli esseri umani e dagli animali. Questo bordo incorniciato distingue la natura disordinata dai raccolti ordinatamente disposti. Sulla macro scala, frangivento di alberi e arbusti sono piantati per proteggere le colture dai danni del vento e recinzioni e fossati di vario genere per tener separati gli animali domestici e quelli selvatici. Le cornici sono strutture fisiche difensive che mantengono le forze ostili fuori dal processo di coltivazione e costituiscono delle frontiere tra l’intervento umano e la natura. Alla scala del paesaggio, sono i confini visibili, descritti da J. B. Jackson del pae-
Kongjian Yu Creare forme profonde nella Natura urbana
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saggio politico. Nell’agricoltura meccanizzata, tali linee di definizione sono sfocate e invisibili alla scala umana data la grande scala del campo agricolo e l’intensità operativa alle estremità dei campi. L’accessibilità umana è necessaria per la routine agricola. I percorsi stretti che dividono le aree del campo, il fosso e le linee di cresta dei campi agricoli, gli spazi tra gli alberi da frutto e lo spazio tra le piante di riso sono tutte misurate per consentire l’accesso e le operazioni agricole a scala umana. Questo è un approccio completamente diverso da quello dell’agricoltura meccanica, in cui non v’è accesso visibile per l’essere umano e la distanza tra gli accessi operativi va ben oltre la scala umana.
Sia la cornice che l’accesso per le operazioni agricole creano dunque forme profonde visibili che conferiscono intimità di scala e di attività umana riflettendo un chiaro (n. d. t) equilibrio tra uomo e natura. Irrigare e fertilizzare L’irrigazione che segue le forze della natura e la fertilizzazione che sfrutta i flussi naturali ed i cicli dei materiali creano forme profonde. Il moderno metodo di irrigazione sia nell’agricoltura che nella progettazione del paesaggio è rappresentato da un sistema di tubi e pompe ed è quasi invisibile, tranne quando appaiono gli spruzzi. Esso non dipende dal terreno circostante o dalle risorse idriche disponibili. Una
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Fig. 2 Le cornice possono essere modeste come semplici strutture di legno per evitare che le colture cadano o crescano disordinatamente.
progettazione basata su questo tipo di irrigazione produce forme poco profonde. Nell’agricoltura tradizionale, l’approccio del contadino all’irrigazione è profondamente radicato nei processi e modelli naturali. Migliaia di anni di esperienza di coltivazione ha fatto dell’irrigazione una delle tecniche più sofisticate in tutte le società agricole. L’uso sapiente della gravità per irrigare il campo richiede una precisa conoscenza ed armonia con la natura, così il sottile intervento umano può trasformare una scienza seria in una forma d’arte, in un mez-
zo interattivo di costruzione di comunità, e, per alcuni, anche in una forza spirituale. Un grande esempio è il sistema Subak, per l’approvvigionamento idrico, a Bali (fig. 3), che coinvolge le foreste nella protezione delle riserve d’acqua, i paesaggi terrazzati, le risaie collegate da un sistema di canali, gallerie e dighe, villaggi, templi di varie dimensioni e importanza che indicano sia la fonte d’acqua o il suo passaggio attraverso tempi lungo il tracciato per irrigare la terra Subak (Lansing, 1987). Fertilizzare è una componente magica dell’agricoltura tradizionale. Il modo in cui i contadini fertilizzano i campi li differenzia dalla primitiva agricoltura taglia-e-brucia e dall’agricoltura moderna, meccanica. Nella prima, la concimazione dipende totalmente da una ‘diminuzio-
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Fig. 3 Il Sistema di irrigazione di Subak (approvvigionamento idrico) a Bali sono forme trasformative profonde. Foto dell’autore. Fig. 4 La diversità di vegetazione che può essere raccolta per vari usi, circonda un villaggio in nella provincia di Yunnan in Cina. Foto dell’autore. Fig. 5 Università di Shenyang Jianzhu: l’acqua piovana viene raccolta per irrigare le risaie, che vengono create da un minimo scavo e riempimento e poi incorniciate e rese accessibili attraverso percorsi alberati. Foto dell’autore.
73 ne della natura’, mentre, nella seconda, il concime è costituito da sostanze chimiche artificiali. L’approccio del contadino alla concimazione dei campi è un atto fondamentale che chiude il cerchio biologico e riutilizza i materiali della vita umana. Tutti i rifiuti provenienti dagli umani e dagli animali domestici in aggiunta ai materiali vegetali vengono riciclati come fertilizzanti. Tale ciclo di nutrienti è rotto dai nostri insediamenti urbani e industriali. Quelli che erano i fertilizzanti per i contadini sono, oggi, definiti come ‘inquinanti’ nei nostri laghi e fiumi. Quella che per i cittadini è una triste realtà urbana sarebbe per i contadini una benedizione ‘ricca di nutrienti’. Nelle città moderne, la vegetazione lussureggiante chimicamente fertilizzata in parchi e giardini è, in questo senso, una forma artificiale e poco profonda, semplicemente perché è creata interrompendo i processi naturali invece di connettere il ciclo naturale dei nutrienti. In altre parole, una forma profonda di natura urbana può essere creata riparando il ciclo dei nutrienti oggi interrotto. Crescita e Raccolto Far crescere per raccogliere crea forme profonde. Così come lo scavo ed il rinterro, crescita e raccolto dovrebbero essere intese come un’unica azione integrata. A differenza di semina e potatura per creare una forma ornamentale piacevole nel giardinaggio, l’approccio del contadino alla semina è focalizzato sulla produttività. In caso contrario, lui (lei) avrebbe semplicemente lasciato sola la natura o avrebbe ridotto al minimo l’investimento di energia necessario per creare un ambiente abitabile.
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Fig. 6 Shanghai Houtan Park: lo scavo e rinterro crea zone umide su terrazzamenti, l’acqua del fiume ricca di nutrienti viene utilizzata per irrigare e fertilizzare le piante delle zone umide e delle colture. Vari tipi di vegetazione sono coltivati per tutti i tipi di servizi ecosistemici quali la produzione agricola (coltivazioni di vario genere sono cresciute in il parco), la regolamentazione ambientale (compresa la gestione delle inondazioni e la pulizia delle acque inquinate), gli habitat per la biodiversità e la ricreazione, una passerella, isolata dai letti di crescita, funziona come una cornice e accesso che, insieme, trasformano una zona umida disordinata in una ordinata forma profonda. Foto dell’autore. Fig. 7 Tianjin Qiaoyuan Park di Turenscape: L’approccio scavo e rinterro crea bolle umide che raccolgono l’acqua piovana e correggono il terreno alcalino stimolando una vegetazione adattiva, e una rete di percorsi e piattaforme pavimentate funziona sia come struttura che come accesso alla scala umana. Foto dell’autore.
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Fig. 8 Qunli Stormwater Park: Lo scavo ed il rinterro creano una spugna verde per conservare e acqua piovana e filtrarla creando complessivamente diversi habitat per le comunità vegetali e la fauna selvatica. Una rete di passerelle è integrata nel sistema di stagni, consentendo ai visitatori di osservare la zona umida. Piattaforme e torri di osservazione offrono vedute panoramiche sui dintorni. Questi dispositivi funzionano come fotogrammi che trasformano la natura disordinata in un paesaggio ben ordinato che permette al visitatore di procedere al suo ritmo preferito. Foto dell’autore.
La piantagione inizia con la semina e il processo di gestione segue il ritmo della natura come strategia di adattamento al clima e alle condizioni circostanti. Anche in questo caso, la natura auto-sufficiente di un’economia contadina richiede che ogni famiglia coltivi diverse colture tra cui cereali, verdura, fibre, medicinali, frutta, legname, carburante e anche fertilizzanti, in proporzione alle esigenze stagionali della famiglia ancora nei limiti imposti (n.d.t.) dalla natura e delle capacità umane. Le forme profonde sono, quindi, create come un compromesso tra i desideri umani e le forze naturali e riflettono un’unificazione dei ritmi naturali e delle attività culturali. C’è una bellezza profonda nelle forme profonde di diverse colture che circondano villaggi agricoli tradizionali (fig. 4). Nella vita dei contadini, il significato del raccolto va ben oltre la produzione di alimenti e prodotti. Essi sono produttivi in termini di capacità di arricchire il terreno, purificare l’acqua e render sana la terra. In altre parole, i campi dei contadini sono produttori netti al posto di consumatori netti di energia e di risorse. Non sto sostenendo che si debba rinunciare alla vita urbana e tornare alla vita contadina, ma queste caratteristiche essenziali dei modi di vita dei contadini costituiscono la base fondamentale per le forme profonde come espressione del compromesso tra natura e desideri umani che bilanciano processi naturali e interventi culturali e ci aiutanto a recuperare e riscoprire forme profonde nella natura urbana.
Kongjian Yu Creare forme profonde nella Natura urbana
Progetti Shenyang Jianzhu University Campus 2 ettari, clima temperato (fig. 5)
Shanghai Houtan Park 10 ettari, clima temperato sub tropicale (fig. 6)
Tianjin Qiaoyuan Park 22 ettari, clima temperato caldo (fig. 7)
Qunli Stormwater Park 33 ettari, clima temperato freddo (fig. 8)
Scavo e rinterro Pianura, interventi di movimentazione del terreno molto lievi.
Cornice ed accesso Le cornici sono create da limpidi tagli ai bordi dei campi. Filari con andamento nord-sud vengono integrati con percorsi a misura d’uomo che dividono l’area in cinque parti. Stretti percorsi paralleli connettono le diagonali e piattaforme per lo studi si adagiano sul campo creando la rete di accesso. Gli angoli retti delle I terrazzamenti vengono create per terrazze incorniciano mediate la differenza varie colture, linee nitide di altezza di 16. 4 piedi formate dall’alternanza tra vegetazione naturale (5 metri) per la diga. spontanea e vegetazione piantata, e una rete di sentieri, passerelle e piattaforme è sovrapposta alla matrice della zona umida. Sono stati costruiti Una rete di percorsi 21 stagni di varie pavimentati con dimensioni e calcestruzzo rossa profondità e i rifiuti incornicia le palette vengono usati per adattive delle piattaforme creare movimenti di si adagiano nel mezzo degli terra per schermare stagni consentendo alle il rumore sul bordo persone di entrare a diretto nord-occidentale del contatto con la natura. parco. Vengono create Una rete di skywalks sopra numerose colline e ed attraverso le collinette depression di varie e le ‘bolle umide’ così come dimensioni sul sito. delle piattaforme, dei padiglioni e delle torri di osservazione, inquadrano la vegetazione disordinata e forniscono accesso alla periferia del parco.
Creare forme profonde nella natura urbana: qualche progetto recente di Turenscape Alcuni recenti progetti del mio studio, Turenscape, vengono qui presentati come esempi di applicazione dell’approccio del contadino nella creazione di forme profonde nella natura urbana. Questi pro-
Irrigazione e fertilizzazione L’acqua piovana vene raccolta in uno stagno che diventa poi la fonte per irrigare il le risaie utilizzando la gravità tramite una serie di fossati. I composti organici vengono utilizzati come fertilizzante nei campi.
Crescita e raccolto Il riso è coltivato e raccolto; in aggiunta, pesci e granchi sono allevati nei campi di riso; tutte e quattro le categorie di servizi ecosistemici sono qui riunite e sono la produzione agricola, compresa la captazione delle acque piovane, habitat per gli uccelli e la fauna selvatica, l’attività di ricreazione, l’apprendimento, per l’identità e la bellezza ha guadagnato il Premio d’Onore ASLA.
L’acqua del fiume viene pompata 16, 4 piedi (cinque metri) a cascata e viene aerata su un lungo muro di roccia; l’acqua scorre per gravità poi attraverso le terrazze umide fino ad un torrente; l’acqua ricca di sostanze nutritive fertilizza le varie piante autoctone ed è poi purificata per ottenere stato riutilizzabile nel processo.
Oltre alla raccolta di acqua pulita, tutte e quattro le categorie di servizi ecosistemici sono qui riunite tra cui la raccolta di cereali, verdure, fagioli, mais, semi di girasole, patate dolci e frutta, la creazione di habitat per la fauna selvatica, la protezione dalle inondazioni e la creazione di bellezza. questo progetto ha vinto l’Excellence Award ASLA.
l’Acqua piovana viene raccolta per irrigare i vari tipi di vegetazione, che evolvono come palette adattative in risposta alle diverse condizioni di secca ed unidità del suolo; la vegetazione arricchisce e bonifica il suolo e nessun fertilizzante aggiuntivo viene applicato.
I vantaggi sono la bonifica di suoli e la raccolta dell’acqua piovana, la creazione di un habitat naturale per la biodiversità, spazi per la ricreazione, la conoscenza e la bellezza. Il progetto ha vinto un Honor Award ASLA.
L’acqua piovana urbana irriga la vegetazione negli stagni, che si adatta alle condizioni ed alle variazioni stagionali; gli inquinanti (la maggior parte sostanze nutritive) sono filtrati prima che l’acqua piovana scorra nella parte centrale del parco e si ricarichi la falda acquifera.
I vantaggi sono la bonifica delle acque piovane urbane e la ricarica delle falde acquifere, la creazione di un habitat naturale per la biodiversità, la ricreazione, la conoscenza e la bellezza. Il progetto ha vinto un Excellence Award ASLA.
getti si sono rivelati attraenti per i residenti nonché ecologicamente funzionali. Essi sono stati ampiamente accettati, frequentemente visitati dai residenti locali e riconosciuti con importanti premi di design. Questi progetti di natura urbana riflettono anche una diversità di condizioni climatiche e di dimensioni.
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L’etica del paesaggio di Teresa Galì-Izard Fabio Manfredi
Negli ultimi decenni si è registrata, per l’architettura del paesaggio, una fase di maturazione, nella pratica come nella ricerca. La sperimentazione espressiva e i virtuosismi linguistici, che negli scorsi decenni hanno avuto enorme influenza come avanguardie a livello internazionale, hanno recentemente ceduto il passo a una nuova fase di ‘etica del paesaggio’ mirata a raggiungere obiettivi più complessi e ambiziosi. L’architettura del paesaggio più recente, infatti, sviluppa progetti meno ‘estetici’ e più ‘etici’ promuovendo un futuro alternativo, più sostenibile e credibile. La disciplina ‘paesaggio’, raggiunta la consapevolezza che l’ambiente non è una risorsa rinnovabile e che si consuma ogni qual volta si attui una trasformazione incurante o indifferente alle ‘regole’ sottese che ne hanno guidato l’evoluzione — regole scritte (leggi, norme) e non scritte (processi fisici-biologici-sociali) — si è investita della leadership per ridurre l‘impatto delle pratiche umane che ha portato alla perdita, a volte anche sostanziale, della capacità di autorigenerazione del territorio, aumentandone, spesso in modo incontrollato, la sua vulnerabilità. Le ultime esposizioni internazionali di architettura evidenziano in maniera chiara questa inversione di tendenza. La VI Biennale di Architettura di Rotterdam (2014) è fortemente indirizzata sui temi della sostenibilità ponendo l’accento su tutti quei progetti e quelle politiche che hanno tenuto in debito conto le complessità multidimensionali della città e le reciproche dipendenze tra infrastrutture urbane, produzione alimentare e trattamento dei rifiuti, produzione e distribuzione di energia, isole di calore e flussi di dati. Si leggeva sul manifesto dell’evento:
Se vogliamo affrontare le questioni reali e oppressive del pianeta urbano del XXI secolo, un messaggio moralistico equivale a dire che noi esseri umani siamo andati troppo lontano e quindi invertire la rotta è di scarsa utilità. Non si torna indietro. Benvenuti nell’Antropocene!
ovvero l’era geologica nella quale all’uomo e alla sua attività sono attribuite le cause principali delle modifiche territoriali, strutturali e climatiche. Walking Up in the Anthropocene è lo slogan, Urban By Nature il titolo che sottende gli interessi e le pertinenze della più recente architettura del paesaggio europea. “Guardare alla città attraverso la lente dell’architettura del paesaggio ci consente una visione chiara della situazione. C’è solo una linea d’azione a nostra disposizione: se vogliamo risolvere il mondo dei problemi ecologici, abbiamo prima bisogno di risolvere i problemi delle nostre città e l’unico modo in cui possiamo raggiungere delle soluzioni è studiare in termini di metabolismo della città”. Così il paesaggista Dirk Sijmons, quale curatore della biennale, introduce l’esposizione internazionale. Questa dichiarazione d’intenti, se da un lato sancisce il nuovo approccio progettuale che interessa una scala diversa da quella del parco, del giardino o della piazza, ovvero la città, dall’altro pone come rilevante la questione dell’ecologia, della sostenibilità, della resilienza; registra il desiderio di discutere ed esplorare i confini di nuovi e diversi approcci alla pianificazione e del progetto di paesaggio auspicando il lavoro con i processi naturali e le loro idiosincrasie. I temi sottendono, infatti, specifici e affini ambiti di ricerca: un pianeta coltivato, esplorazione del sottosuolo, paesaggio urbano e cambiamento climatico, metabolismo urbano, strategie per il paesaggio urbano.
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Analogamente la XV Biennale di Architettura di Venezia (2016) chiede alle discipline spaziali di fornire risposte, non solo a tematiche artistiche e culturali, ma anche sociali, politiche, economiche e ambientali, affrontando più di una dimensione al contempo e integrando settori e approcci. L’architettura si occupa di dare forma ai luoghi in cui viviamo. […] La forma di questi luoghi, però, non è definita soltanto dalla tendenza estetica del momento o dal talento di un particolare architetto. Essi sono la conseguenza di regole, interessi, economie e politiche, o forse anche della mancanza di coordinamento, dell’indifferenza e della semplice casualità. Le forme che assumono possono migliorare o rovinare la vita delle persone.
Il curatore Alejandro Aravena rileva nel manifesto che “il concetto di qualità della vita si estende dai bisogni fisici primari alle dimensioni più astratte della condizione umana. Ne consegue che migliorare la qualità dell’ambiente edificato è una sfida che va combattuta su molti fronti, dal garantire standard di vita pratici e concreti all’interpretare e realizzare desideri umani, dal rispettare il singolo individuo al prendersi cura del bene comune, dall’accogliere lo svolgimento delle attività quotidiane al favorire l’espansione delle frontiere della civilizzazione”. Disuguaglianza, sostenibilità, insicurezza, segregazione, traffico, inquinamento, spreco, migrazione, calamità naturali, casualità, periferie e carenza di alloggi sono state così le tematiche salienti affrontate dalla Biennale di Venezia. Le recenti esposizioni universali registrano dunque uno stato dell’arte di strategie volte ad avanzare in campi complessi e inesplorati, di progetti innovativi che tengono conto dell’ambiente costruito, così come del contesto più ampio di un paesaggio sostenibile al di fuori di esso. Evidenziano gli interventi che hanno tenuto in considerazio-
ne le complessità del compito da assolvere, esprimendo conoscenza e saggezza nell’intervento, creatività e sensibilità nell’interpretazione delle problematiche attuali. Di questa fase ‘etica del paesaggio’ che si va diffondendo, Teresa Galì è stata indiscutibilmente precorritrice. Già nelle prime pagine del suo portfolio si ritrova quell’approccio che ora diventa modus operandi e metodo condiviso da più parti. Il progetto paesaggistico di Garraf del 2002 è un complesso lavoro di rinaturalizzazione di una discarica di rifiuti solidi urbani, frutto di conoscenze multidisciplinari che spaziano dal paesaggismo all’ingegneria ambientale, dall’agronomia alla geologia. Il progetto definisce (già nel 2002) il modello di paesaggio oggi auspicato, in grado di garantire sostenibilità, resilienza e valore ecologico, senza sacrificare formalizzazione e valore estetico. Il Parco naturale del Garraf, realizzato con Battle i Roig, è uno dei suoi progetti più noti, ha ricevuto premi per il suo valore architettonico, “Premio per il miglior spazio urbano europeo pubblico 2004”, così come per l’approccio a problematiche prettamente ambientali, WAF2008 Energia, Rifiuti e Riciclo. Al sostanziale contributo alla ricerca architettonica offerta da opere diventate iconografiche nel panorama europeo, Teresa Galì aggiunge un approccio innovativo e certamente precursore dei tempi cui oggi andiamo incontro. Ha alle spalle un lungo periodo di attività progettuale e di ricerca iniziata nel periodo fiorente della Barcellona degli anni ‘80, l’era delle grandi trasformazioni che hanno cambiato il volto di una città diventata così punto di riferimento assoluto sui temi inerenti alle strategie di riqualificazione urbana e paesaggistica. A dispetto della varietà e della quantità degli interpreti e degli autori che questa trasformazione l’hanno attuata, Teresa Galì si è rivelata
Fabio Manfredi L’etica del paesaggio di Teresa Galì Izard
protagonista originale: ha sperimentato differenti scale d’intervento, dalla pianificazione urbana alle grandi infrastrutture, dal progetto della piazza al giardino, evidenziando costantemente una personalità innovatrice e fuori dagli schemi. Nel libro di Daniela Colafranceschi edito da Gustavo Gili (GG) Landscape + 100 words to inhabit it, Teresa Galì sceglie la parola ‘tempo’ per definirlo. “La differenza tra i paesaggi non umanizzati, estrinsecamente naturali, e quelli che, in misura maggiore o minore, sono gestiti dall’uomo, è precisamente il tempo”. Nei paesaggi naturali, esigui e reconditi, espressione di libertà e naturalezza, il tempo diventa privo di significato, scompare. Nei secondi, certamente più numerosi e prossimi, l’uomo interviene insistentemente a cambiare il corso naturale del tempo e adattarli alle proprie esigenze. Il futuro tuttavia esige oasi nella quali sia possibile ignorare il tempo, nelle quali poter essere osservatori interessati di un processo naturale infinito. I paesaggi del XXI secolo sono perciò “Paesaggi liberi. Paesaggi necessari. Paesaggi che ci permettano di dimenticare che il tempo esiste e, anche per pochi minuti, lasciarci credere che il tempo non ci interessi”. In una lezione tenuta alla Princeton University dove, da alcuni anni, svolge attività didattica, Teresa Galì elegge Parc Güell il progetto di paesaggio più importante del suo paese definendolo “un dispositivo per cambiare per sempre il luogo e interagire con il metabolismo della città”, un’infrastruttura, un complesso sistema idrico che ha consentito la crescita di un lussureggiante parco in un’area arida come la montagna Carmel. Teresa Galì, non solo per la propria formazione d’ingegnere agro-
nomo con la quale affronta il progetto di paesaggio, è in definitiva una figura anomala nel panorama catalano; occupa una dimensione internazionale e trasversale confermata dalla sua rilevante attività professionale, d’insegnamento e ricerca oltre i confini della Catalogna. Le sue opere sono efficienti macchine per produrre natura in contesti antropizzati, sfruttano i processi naturali, garantiscono duttilità, predisposizione al cambiamento e all’adeguamento, quindi sostenibilità e resilienza. Attraverso un’estetica che asseconda la contaminazione della natura e l’eterogeneità ecologica, le sue opere assicurano, da sempre, il grado di ‘naturalità’ auspicato oggi dalla Biennale di Rotterdam e lo spirito innovatore proposto all’esposizione di Venezia, la capacità di dare risposte alle problematiche attuali e future ed entrare in sinergia con le popolazioni. I suoi progetti costruiscono spazi nei quali condividere la bellezza e il fascino di una natura che è così sperimentata come esperienza vissuta, percepita, condivisa. Il valore di queste opere non è quantificato in meri dati analitici relativi alla superficie di verde o alla quantità di alberi ma nella risposta a una condizione difficile del nostro habitat. Una condizione che richiede oggi conoscenza e saggezza, creatività e sensibilità. Richiede la virtù di saper intervenire negli spazi instabili, rendendoli terreno fertile per la ricerca e la progettazione di paesaggi del futuro, pratica non solo estetica, ma anche di osservazione e d’interpretazione, di propensione verso i luoghi e le loro qualità, nevralgie, potenzialità, presenti e future.
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Dinamiche e processo nell’architettura del paesaggio. Un nuovo linguaggio formale basato sulle relazioni Teresa Galì-Izard
Un approccio contemporaneo all’architettura del paesaggio non può dimenticare quanto il processo e sistemi siano un pezzo importante del cuore della nostra professione. Abbiamo visto nell’ultimo decennio una nuova interpretazione dei processi ecologici e l’uso di diagrammi, illustrazioni visive ed un interesse crescente nel dare voce al processo ecologico con nuove lingue. Siamo come designer sempre pronti a rappresentare visivamente l’importanza del tempo, dinamica, evoluzione, cicli, prestazioni, successione, rigenerazione, imprevedibilità e l’impatto dei cambiamenti climatici in ognuna di esse. La domanda cui sto cercando di rispondere in questo momento è come integrare tutto ciò in una nuova tipologia di architettura, una nuova tipologia di ambiente che è diverso dal precedente che invece ha ignorato tutti quei fattori di costruzione. Come funziona una nuova architettura, basata su relazioni che includono tempo, processo e dinamiche naturali? Vi illustrerò la mia ricerca ed esplorazione sul campo attraverso il racconto di diversi progetti a cui ho lavorato nel corso degli anni. Restauro paesaggistico della discarica di Sant Joan La discarica della Vall d’en Joan fu inaugurata nel 1974 in una valle del massiccio carsico del Garraf, 20 km a sud di Barcellona. Mesi prima, la foresta della valle era stata tagliata, il sito era stato impermeabilizzato con argilla e vi era stato istallato un sistema di drenaggio per la futura evacuazione dei percolati. Dopo aver provveduto a tali infrastrutture, la valle ha cominciato a colmarsi di rifiuti e spazzatura provenienti dalla città e la periferia di Barcellona. Per più di 30 anni un ‘panino’ di 2m di rifiuti, 20cm di terreno e 2m di rifiuti ha riempito progressivamente il sito originale. Quando le pendici della montagna vennero occupate per intero, venne esteso un altro strato di argilla.
Alla fine dello sfruttamento, la discarica divenne un’enorme superficie inclinata di 70 Ha, con una profondità di materia dei rifiuti di oltre 80m nel centro. Il processo di recupero iniziò nel 2000 nella parte inferiore di questa nuova superficie vuota, mentre lo sfruttamento era ancora attivo nella zona più alta. I due processi convissero per un po’, fino alla chiusura definitiva della discarica nel 2006. Se guardiamo a questo progetto dal punto di vista del processo e della dinamica naturale definiremmo il nostro intervento solo come un ‘tappo’, perché il processo di decomposizione dei rifiuti all’interno della discarica è ancora in corso e lo sarà per 20 anni. Il progetto quindi consta nella costruzione di un nuovo ordine sulla superficie di questa massa chiusa di rifiuti che, in parallelo, sta attraversando un’enorme trasformazione biologica la quale crea sottoprodotti come il metano e il percolato che inquinano l’idrologia del sistema carsico e l’atmosfera. Il progetto della discarica è la costruzione di una nuova pelle e l’implementazione di un nuovo ordine della superficie che consenta ai processi naturali di avvenire in modo efficiente. Mi accingo a definire tre architetture che sono state fondamentali per conseguire il successo del sistema naturale proposto: la topografia, le trame e la griglia modulare delle piantagioni. Topografia La costruzione di terrazzamenti è stata determinata dalla necessità di contenere la spazzatura. Questo criterio è stato imposto dallo sfruttamento dei rifiuti, per garantire la stabilità della massa di rifiuti accumulata. Poiché noi stavamo costruendo un ennesimo livello in cima al ‘Cestino’, non era possibile scavare in esso e tutti i movimenti di terra dovevano essere fatto con l’aggiunta di materiale. Successivamente abbiamo appreso che la configurazione finale del
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sistema topografico basato su terrazze, non era ottimale poiché vi era un insediamento nel centro della discarica che era stato inserito in un secondo momento. La funzione di questo importante insediamento era la diminuzione del volume della massa di rifiuti dovuta all’estrazione del gas e del percolato. Il drenaggio e lo smaltimento delle acque vennero influenzati da questo aggiustamento della topografia e abbiamo pertanto dovuto riadattare ancora una volta le piattaforme e le dighe al fine di risolvere il problema. La topografia è l’architettura della superficie del terreno che definisce lo smaltimento e il drenaggio dell’acqua piovana. Al contempo la progettazione è fondamentale per capire l’importanza della forma superficiale della terra, al fine di realizzare un sistema efficiente, intelligente e resiliente per la dinamica dell’acqua. Personalmente, penso che per la Vall d’en Joan non vi sarebbero state configurazioni topografiche che avrebbero potuto raggiungere meglio questo obiettivo. Trame La distribuzione in superficie e la suddivisione delle terrazze in appezzamenti di terreni. Ogni appezzamento è stato seminato con un’erba di legumi per promuovere il fissaggio dell’azoto nel terreno grazie alla presenza di Mycorrhizae nelle radici di questa famiglia di erbe. È stata distribuita una selezione di diverse specie, privilegiando le erbe di legumi autoctoni ai confini delle terrazze al fine di prevenire l’espansione verso la comunità vegetale del parco naturale. Si trattava di una misura preventiva per proteggere le specie native dei dintorni dall’invasione di specie esotiche che sarebbero state piantato nell’interno degli appezzamenti. La direzione e la dimensione di ogni trama erano legate alla griglia di pozzi per l’estrazione del gas, che aveva una direzione specifica ed una pendenza di estrazione che
dipendeva dal tubo principale che serviva per condurre il metano alla trasformazione. La griglia modulare La distribuzione degli impianti si è ispirata a una strategia molto spesso attuata nel restauro di ruscelli, basato sul concetto di distribuzione uniforme delle piante, lasciando che ogni pianta possa adattarsi e occupare il posto migliore sulla base di caratteristiche micro ambientali. Il risultato di questa strategia è difficile da prevedere, ma il valore della strategia è l’atteggiamento di apertura, che ha consentito che processi naturali molto complessi prendessero parte nell’implementazione e nella distribuzione finale delle specie. Il design della griglia, la definizione delle specie, le dimensioni di attuazione, il momento dell’anno e la combinazione-ripetizione di moduli permettono di lavorare con le densità e di progettare l’implementazione seguendo il concetto di struttura, limite, densità, gradiente, stagionalità e velocità di crescita… Studio per una foresta urbana e Passeig de Sant Joan Barcelona Il due esempi hanno avuto come risultato una nuova forma di architettura urbana: sia il progetto di ricerca presso il corso di laurea in architettura del paesaggio alla UVA, che consistette nel progetto di una foresta urbana a Barcellona, basato sulla comprensione dei modelli architettonici e delle fasi di sviluppo degli alberi, che il progetto della strada Passeig de Sant Joan a Barcellona. Entrambe le proposte hanno a che fare con la storia del tessuto urbano, con i nuovi obiettivi di diminuire la presenza di veicoli motorizzati nel centro della città e con la nuova sensibilità della città verso l’integrazione di processi naturali nel contesto urbano.
Teresa Gali-Izard Dinamiche e processo nell’architettura del paesaggio. Un nuovo linguaggio formale basato sulle relazioni
La comprensione dell’architettura di un albero è un aspetto fondamentale per prevedere l’impatto potenziale della sua chioma nell’architettura della città. Se capiamo la trasformazione dinamica della forma della chioma nel corso del tempo, saremo in grado di trattare la biomassa, la volumetria e gli effetti sulle questioni ambientali e spaziali nel contesto urbano (Isola di calore, contaminazione, microclima, luce, umidità). Le fasi di sviluppo degli alberi e delle (loro ndt) architetture sono i processi principali che abbiamo individuato, disegnato e con i quali abbiamo progettato. L’introduzione di strumenti di progettazione parametrica ci ha permesso di inserire visualizzazioni dinamiche della potenziale chioma nel corso del tempo. Il risultato finale è stato una diversa distribuzione degli alberi, basata sulla logica di crescita, la definizione di modelli di pavimentazioni in base a differenti gradienti di infiltrazione e infine, come conseguenza di tutto ciò, un nuovo rapporto tra gli abitanti della città e il tessuto urbano che ospitava la foresta. In Passeig de Sant Joan, abbiamo focalizzato la nostra proposta sul progetto del terreno per l’implementazione di nuove specie di alberi sotto la chioma esistente dei sicomori. In questo caso l’orientamento e la topografia della strada, era un indizio per comprendere le condizioni precedenti e il potenziale della nostra proposta di progettazione. Abbiamo avuto a che fare con un tessuto urbano consolidato, la superficie pavimentata della strada e delle condizioni climatiche estreme quali la distribuzione irregolare della pioggia nel corso dell’anno. L’obiettivo principale da raggiungere era la necessità di un migliore terreno poroso e la ritenzione di acqua sotterranea per un migliore utilizzo nella stagione secca. Una proporzione aumentata di terreno permeabile, l’introduzione di arbusti e di una pavimentazione mista di erba hanno determinato il nuovo ritmo della strada. La
definizione di questa proporzione e distribuzione lungo il marciapiede nuovo, rappresenta il compromesso tra le esigenze degli utenti e la nuova condizione di terreno degli alberi. Un giardino nei Pirenei Questo giardino molto piccolo è il risultato della trasformazione di una superficie di erba e pietre in una composizione mista di pietre, erba e piante perenni. Basandoci sul principio dell’aggiunta e dell’estrazione, abbiamo riciclato la pavimentazione esistente ridistribuendo le singole pietre nel campo di erbe. Abbiamo estratto alcuni pezzi dalla superficie pavimentata ricavando fori vuoti per le piante perenni, e abbiamo aggiunto piccoli sentieri nell’erba. Il processo di progettazione si è basato su un sistema di regole tra noi e il cliente. Abbiamo progettato un gioco in forma di puzzle, permettendo al cliente di giocare con delle regole specifiche. Ognuno ha prodotto come risultato una diversa composizione di pietre, erba e piante perenni. Abbiamo scelto di comune accordo quello che ci ha sorpreso di più. E questa sorpresa, questo rischio, questa incertezza e apertura mentale è diventata la chiave per il successo del giardino. Il parco centrale di Valencia Il progetto del parco centrale di Valencia è programmato per cambiare ogni giorno dell’anno. È stato progettato e piantato assecondando il tempo, e il suo potenziale primario risiede nella capacità di trasformazione della sua vegetazione. Il progetto riconsidera il ruolo del parco pubblico nella città in un momento storico in cui più di metà della popolazione mondiale vive in un ambiente urbano. I Parchi in questo contesto possono assumere
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Fig. 1 Restauro paesaggistico della discarica Vall d’en Joan nel parco naturale del Garraf, Barcelona. Progetto di Teresa Galì Izard, Battle i Roig Arquitectes.
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una funzione diversa da quella che avevano in origine, o una più ampia, incorporando cioè quanto appreso dall’esperienza di questo secolo in termini di gestione e sviluppo di una struttura vivente. La nuova funzione del Parco nella città è quella di un’isola dalla natura complessa, ricca, mutevole, viva e con tutti gli attributi, intensamente esposta in ambiente urbano che è altrettanto ricco, intenso e denso di cultura. Non può essere che così. Questo parco è definito da una struttura/ infrastruttura (hardware), che consentirà a tutti gli eventi vegetali di prendere posto, e da un programma per la sua gestione nel corso del tempo (software). Gode di una strategia di comunicazione e uno scopo educativo e culturale che lo rende uno spazio quasi simile ad un museo. Il parco è pertanto un’istituzione, come altre che sono esistiti in passato a Valencia, per la gestione di altre risorse naturali. Per questo motivo è essenziale che vi sia un team di persone addestrato ed entusiasta, che lavori per la gente di Valencia che utilizzerà il parco. Il parco è un’entità viva, comunicativa, aggiornata quotidianamente tramite un sito web dinamico, che agisce come un’estensione del parco nei salotti degli abitanti di Valencia. L’architettura del parco tiene conto della produttività e della necessità di una gestione estensiva, facilmente meccanizzata e a basso costo per la città. Viene così creata una rete invisibile, che deriva dalla logica di questa gestione estensiva e incorpora i percorsi ideali per macchinari, i sistemi di irrigazione e gli elementi architettonici. Una topografia ondulata, che consenta il riutilizzo dell’acqua piovana, una grande area a prato e diversi filari di alberi lungo i percorsi principali, sono lo scheletro e il tessuto sul quale quei processi naturali chiamati eventi, verranno ricamati nel corso di tutto l’anno.
Teresa Gali-Izard Dinamiche e processo nell’architettura del paesaggio. Un nuovo linguaggio formale basato sulle relazioni
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Costruire il Paesaggio Joao Nunes
Prima di proporre un disegno concreto, di fronte alla presa di coscienza che il lavoro nel e sul paesaggio non corrisponderà mai ad un’immagine statica e immutabile, ciò che cerchiamo di rivelare è una dinamica fondata su una strategia chiara e oggettiva. In ciascuno dei momenti dello sviluppo di un progetto, il formalismo deve cedere il passo alla capacità di pensare ad un complesso metabolismo di funzionamento. Non c’è intenzione di incidere un’immagine sul terreno, quanto piuttosto quella di comprendere le caratteristiche del luogo, capire le energie che determinano il suo funzionamento, suscitando il desiderio di trasformarlo d’accordo con il flusso definito da queste stesse energie. È un po’ come andare in barca a vela: le energie che modificano lo stato (movimento e trasformazione) non sono introdotte da noi dentro il sistema ma sono intrinseche al sistema. Siamo noi che abbiamo la responsabilità di osservare e trasformare soltanto il minimo necessario affinché queste forze siano capaci di costruire il sistema che vogliamo. Sarebbe impensabile sviluppare qualsiasi tipo di trasformazione che andasse contro le forze naturali del sistema stesso, poiché esso risulterebbe sottoposto ad uno scontro di forze completamente insostenibile che si rivelerebbe un enorme e costante spreco di energia per il suo sostentamento. Pertanto deve emergere un’immagine di funzionamento dinamico ma sereno. Così ciò che ricerchiamo con un progetto è una dichiarazione di funzionamento, l’introduzione di un principio attivo che conduca, con il tempo, ad una successione continua di differenti immagini che il paesaggio costruisce, modifica in accordo con le sue necessità e condizionamenti. La linea di ricerca mira a trovare una dinamica del progetto in cui emergano le immagini, o più precisamente, l’infinita successione di immagini. Costruire il paesaggio attraverso il progetto di architettura del paesaggio significa
manipolare positivamente i fattori metabolici naturali conferendogli un senso poetico, ideologico e artistico e, chiaramente, mettendoli in relazione ad un obiettivo funzionale. Significa trasmettere fertilità, produttività e diversità, coscienti dell’importanza culturale di questo gesto. Intervenire sul paesaggio non significa giustapporvi un agglomerato di oggetti ma reinventarne la base di partenza per arrivare ad un gioco di elementi e proporzioni. La manipolazione topografica ha sempre costituito un parametro essenziale per la trasformazione del paesaggio. È stata tradizionalmente associata alla conservazione del suolo e dell’acqua per fini agricoli ma è stata anche associata ai processi di urbanizzazione per realizzare infrastrutture e accessi. Il progetto conduce effettivamente ad una sintesi che integra le logiche di appropriazione e trasformazione: quelle agricole per mezzo dell’imperativo della gestione razionale delle risorse e quelle urbane per mezzo dell’accessibilità per tutti volta al raggiungimento del benessere in primo luogo e in secondo luogo per necessità di razionalizzazione dei processi. Un parco, o un’altra costruzione del paesaggio, è sempre il ridisegno di qualcosa che già esiste. I motivi principali del lavoro nascono dalle caratteristiche del programma, da un’intenzione o da un insieme di intenzioni funzionali al sito e dalle caratteristiche proprie del sito stesso. La rappresentazione grafica è uno dei tanti momenti di comunicazione di un progetto. Durante un processo progettuale, le forme di comunicazione sono diverse poiché diversi sono i punti iniziali di un progetto. Si parla di concetti di intervento ed immagini che non sono ancora compromesse dalle circostanze della realizzazione. È il momento nel quale siamo più liberi da tutti i condizionamenti che, immediatamente dopo, imperano su ciò che si comunica e sul modo di farlo. In questo momento di libertà di comunicazione, l’inter-
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Fig. 1 Tracce. Fig. 2 Le tracce ed il tempo. Segni di un cavalletto sull’asfalto durante l’estate.
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locutore deve sentirsi intimamente attratto in un mondo che tuttavia non esiste, da un universo che scaturisce dalla relazione che cerchiamo di costruire con un luogo, con un programma e con una nuova rete di relazioni che dichiariamo con la proposta progettuale e, soprattutto, con le emozioni che sentiamo e che ci condurranno ad affermare ciò che desideriamo fare, grazie al supporto delle convinzioni che siamo riusciti a costruire. Nella rappresentazione grafica cerchiamo soprattutto di trovare formule di comunicazione molto semplici. Cerchiamo di costruire un linguaggio coerente con la proposta, che la renda chiara ed esplicita, non soltanto nei suoi contenuti ma
anche nella costruzione, ancora una volta, di una relazione con l’interlocutore. Non mi sorprende che siano i vizi del linguaggio, piuttosto che la sua essenza, a far in modo che questo processo corra il rischio di confondersi con la costruzione di un linguaggio fine a sé stesso, invece, di fatto, quello che succede e che cerchiamo di fare sempre è comunicare in consonanza con ciò che proponiamo. Lo sforzo stesso di rendere chiaro ciò che affermiamo ci aiuta nell’arduo compito di comprendere noi stessi, di decifrare, rendere chiaro ed obiettivo ciò che nasce molte volte in modo intuitivo ed emotivo. Credo anche che questo sia confermato dall’immagine grafica che produciamo, oltre al fatto che siamo sempre le stesse persone, con gli stessi criteri di riferimento. Noi non pretendiamo mai l’originalità, né il valore o la costruzione di un’identità che scaturisca dalla sola rappresentazione grafica. Se si ottiene una certa particolarità o se accade che la rappresentazione grafica costituisca un segnale di identità di ciò che facciamo, credo che sia la conseguenza di un processo che si fonda soprattutto nel coinvolgimento, razionale ed emotivo, di tutti quelli che contribuiscono alla proposta. Nell’oceano di informazioni in cui viviamo, dove un fiume di idee, di conoscenza e di immagini circola con più fluidità possibile senza frontiere e senza la più piccola possibilità di appropriarsi di spazi propri tanto nazionali, quanto regionali e scolastici, ognuno di noi si sente ogni volta più solo, però, d’altro canto, è ogni volta più libero di trovare consonanze remote sia in termini geografici che in termini disciplinari. Tuttavia credo che, poiché le correnti di informazioni sono fluide, le caratteristiche dei problemi che cerchiamo di risolvere (e per questo le caratteristiche degli ambienti nei quali si interviene) e le caratteristiche dei programmi e dei tipi di interventi, finiscono per diventare determinanti nel progetto.
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Fig. 3 Parque Do Tejo E Trancão — il tempo costruttore. PROAPP.
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Ciò consente di leggere una certa consistenza fra attitudini o metodologie di intervento che, probabilmente, nella loro motivazione, mostrano più differenze che somiglianze. Nelle proposte di PROAP, la morfologia del terreno diventa determinante per l’immagine perché di fatto, nella logica di funzionamento dei processi di paesaggio, lo è di per sé. Quando manipoliamo la topografia, alteriamo le condizioni idriche e quindi le condizioni di vegetazione. Nel manipolare le pendenze e l’orientamento dei versanti del suolo, alteriamo anche le condizioni idriche, le condizioni microclimatiche, sia per le piante che per le condizioni di vivibilità dello spazio. Nei nostri lavori qualsiasi sia il tema via, qualsiasi sia il contesto, qualsiasi sia la costruzione poetica resa possibile dalle circostanze, ricerchiamo sempre la costruzione di un sistema che sostituisca il sistema precedente. È pertanto ineludibile che parliamo di un intervento che si fonda nella comprensione nella proposta di nuove relazioni di funzionamento del paesaggio, dove il rimodellamento del terreno assume maggiore importanza per la creazione di un nuovo sistema. Un sistema che funziona, evidentemente, sulla base di prestazioni di funzionamento in termini di autonomia e stabilità. Il nostro lavoro consiste nel risolvere questioni relative alla compati-
bilità di questi due sistemi: il sistema antico e quello oggetto di proposta. E in questo processo di ricerca di compatibilità, sempre accompagnato dalla scoperta o dall’investigazione e ricerca di segreti e meccanismi non sempre evidenti, che si sviluppa il nostro legame con il luogo, da un lato perché impariamo a conoscerlo e comprenderlo meglio e dall’altro perché stabiliamo compatibilità o incompatibilità tra programma e luogo. È da questo tessuto complesso di relazioni che sorge il progetto ed è per questo che è esso stesso un processo, allo stesso modo complesso, che ha momenti di enorme obiettività e chiarezza e momenti di incertezza e emotività. Il progetto deve fare in modo che i risultati della ricerca fatta siano cogenti cioè che portino alla lettura e interpretazione dei meccanismi presenti e decifrino il complesso codice del paesaggio condividendo dunque con il pubblico i dubbi, le incertezze, le intuizioni e i presentimenti. Nel parco del Tejo, per esempio, il progetto cerca di tracciare una linea diffusa tra l’enorme artificio della costruzione del paesaggio e l’ammirazione per il funzionamento della natura che nasce di fronte alla sua perfezione e autonomia. Una linea che separi, che distingua però anche che unisca. Il discorso si trasforma in un discorso sul paesag-
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Figg. 4-5 Riqualificazione e sviluppo del sito minerario di Balangero e Corio. PROAPP. pagina a fronte Fig. 6 HERINNERINGSPARK — Memoria E Dimenticanza 2014/2018. Westhoek, Belgio. Site Analysis. PROAPP.
gio, una risposta contemporanea all’opera dell’uomo e alla sua capacità costruttiva, alla possibilità di intervenire. Il paesaggio si rivela fatto di relazioni, proposte e trovate tra le caratteristiche del luogo, caratteristiche che stabiliscono relazioni percettive nella comprensione più lenta della parola pertanto includendo quelle visuali, uditive e tattili grazie alla tessitura e al benessere e il costruito. Il paesaggio è un artefatto ed è questo che si cerca di render chiaro attraverso l’assunzione di una geometria chiara, che ci aiuti a interpretare, a stabilire relazioni con aspetti della realtà che rendano più evi-
denti o più espressivi i meccanismi preesistenti delle immagini corrispondenti, che parli di un ordine preesistente, di un ordine ricreato, di un ordine proposto e di un funzionamento armonioso tra tutti questi. Questo discorso si sviluppa attraverso l’esperienza percettiva poiché la nostra forma di comunicazione è un progetto di architettura paesaggista. Cerchiamo di stabilire con gli utilizzatori una relazione costante in cui raccontiamo le nostre scoperte, il nostro incantamento, i nostri dubbi e le nostre emozioni, comunichiamo attraverso le emozioni, i dubbi, gli incanti e le scoperte che lo spazio eventualmente fa rivivere. Qui parliamo del vento, del sole, dell’ombra e dell’intensità dei contrasti tra i valori della radiazione ricevuta da un
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Fig. 7 Masterplan For The Antwerp River Front — Il tempo alla pianificazione. Antwerp, Belgio. PROAPP. Fig. 8 Centro Di Depurazione Delle Acque Di Alcântara — Palinsesto Sull’immaginario Lisbona, Portogallo. PROAPP. pagina a fronte Figg. 9-10 El Hierro — Studio Del Paesaggio. Tempo strategico, tempo scenografico. Meridian Island, Canary Islands. Joao Nunes.
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versante orientato a sud ed un altro orientato a nord e lo facciamo attraverso un insieme di sensazioni che si sperimentano nel parco, relazioni sempre visuali ma che riguardano anche la sensazione di benessere. Parliamo della presenza di un fiume immenso che determina una scala straordinaria del paesaggio ma che anche genera situazioni ecologiche uniche che vogliamo mostrare e che rendiamo comprensibili attraverso una prossimità fisica che è rara sulle sue sponde e che invece il progetto crea. Parliamo di alto e di basso perché ci riferiamo all’introduzione di relazioni visive nuove in una superficie di lavoro che era perlopiù piana, introduciamo il rifugio e l’intimità nello spazio, la possibile frammentazione di un panorama del fiume, costantemente presente e per questo poco misterioso ma abbiamo anche reso più evidenti relazioni di carattere non visuale o relazioni la cui immagine risultante è chiaramente un aspetto secondario. Un progetto è l’enunciato dei principi di trasformazione di un luogo, fondamentalmente nel senso che è la sostituzione di un sistema esi-
stente con un altro che reagisce meglio alle nuove funzioni che vi sono applicate o alle nuove prestazioni che saranno richieste. Questa trasformazione è una ridefinizione, anche materiale, di un sistema, di un meccanismo di funzionamento, di un metabolismo. Tutto il discorso precedente che riguarda le relazioni emotive che siamo in grado di stabilire con il luogo e la volontà di condividerle, non avrebbe alcun senso se il sistema di sostituzione non fosse sicuro. Naturalmente una volta che la sostituzione mira a trovare le risposte ai requisiti più esigenti rispetto a quelli cui il sistema attuale è sottoposto, la trasformazione implica il cambiamento degli input ora esistenti e la proposta di alimentare il nuovo sistema con nuovi input. Questo è un dato di fatto sia rispetto al funzionamento basilare dei sistemi (ad esempio quello che succede con l’acqua e la necessità di irrigazione) sia rispetto alla materialità stessa della trasformazione. Nei nostri progetti si cerca di minimizzare l’intervento in modo da riuscire a raggiungere gli obiettivi enunciati con il minimo dei costi, con il minimo delle perturbazioni e con la minimizzazione dello sforzo di addizione. In questo senso la trasformazione deve mirare alla riorganizzazione dei materiali presenti. L’obiettivo prima di costruire una direzione di lavoro in senso plastico, questione che evidentemente è anch’essa presa in considerazione, ha un vettore di ricerca molto pragmatico. La differenza concettuale tra un operazione di sostituzione di un sistema con un altro con o senza addizione di elementi estranei è fondamentale. L’interpretazione non mi sembra molto sorprendente, anzi abbastanza banale per chiunque abbia riflettuto un po’ su questo concetto e abbia concluso che, per esempio, anche in un universo di riferimento singolare come l’Europa, nel quale la presenza dell’uomo è relativamente recente (se la paragoniamo ad esempio con l’Africa) sono scarsi gli spazi liberi da interven-
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ti umani. In effetti sono rarissimi i momenti speciali in cui l’immagine corrispondente non sia quella risultante da uno sforzo ancestrale di sopravvivenza, nello sforzo, a volte gigantesco, di manipolazione del territorio per riuscire a sopravvivere, per riuscire a crescere come popolazione (che equivale a dire riuscire ad alimentare i propri figli) e riuscire a resistere a situazioni estremamente aggressive di partenza. Ciò che garantisce il successo della specie umana e precisamente la sua capacità di trasformare l’ambiente e tale trasformazione ha soprattutto a che vedere con l’alimentazione, con la capacità di aver trovato un modo di ottimizzare le risorse presenti. La riflessione non ha a che vedere con una lettura del mondo incentrata sull’Uomo. Molte altre specie fanno esattamente lo stesso, come le formiche e le termiti, le api e i castori, solo per citare alcuni esempi più noti. Ma le trasformazioni corrispondenti ai loro artefatti si combinano con le nostre nella configurazione dei paesaggi. Sono addirittura utilizzate a volte nel senso più pragmatico del termine, dalle nostre trasformazioni, o incluse all’interno dei nostri processi di trasformazione sia attraverso l’interpretazione dei meccanismi presenti, che attraverso l’instaurazione di analogie e ancora attraverso l’utilizzazione diretta di tali meccanismi. In questi casi, la nostra possibilità di sopravvivenza si allarga grazie alla conservazione e gestione delle riserve caloriche e proteiche, accumulando eccesso durante i periodi di maggiore produttività, per assicurarne la disponibilità nei periodi di scarsità. In tali periodi, questa capacità di
applicare all’ambiente una risorsa fisica che in quanto risorsa fisica del nostro corpo ha una portata di per sé ridotta, si ottiene attraverso l’interpretazione del funzionamento delle relazioni delle altre comunità con il rispettivo ambiente (comunità che, per giunta, nel momento in cui questi processi sono stati scoperti, erano invisibili o si rivelavano soltanto attraverso i loro meccanismi di funzionamento, attraverso i rispettivi segnali). La nostra lettura del paesaggio non corrisponde necessariamente ad uno spazio antropizzato, quanto piuttosto ad uno spazio trasformato dalle comunità che in esso sopravvivono e che in modo più o meno intenso, più o meno espressivo, più o meno evidente su di esso imprimono i loro segni. Coinvolge inoltre i meccanismi stessi di funzionamento a cui queste popolazioni, animali o vegetali, sono estranee. Il paesaggio secondo la nostra interpretazione, che è condivisa da molte altre persone, corrisponde al complesso tessuto di relazioni che si stabiliscono su di un territorio tra i diversi universi del supporto fisico e tra questi ultimi e le comunità che vi si sono stabilite. Ciò che può far confondere questa lettura con la restrizione concettuale a cui corrisponde lo spazio antropizzato è il fatto che, perlomeno nello spazio in cui ci muoviamo e che ci regge culturalmente, il grado di espressione delle trasformazioni corrispondenti alla presenza della specie umana, è chiaramente più evidente rispetto alle altre e esteso territorialmente, appunto perché è più intenso.
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Landscape Urbanism e spazio pubblico Lorenza Fortuna
Progettare lo spazio pubblico significa interpretare l’identità dei luoghi, la storia delle relazioni di un contesto, i bisogni della collettività e darvi risposta con una trasformazione. L’esercizio analitico e progettuale non è mai uguale a sé stesso; segue schemi sempre nuovi, richiede competenze diverse, si sviluppa secondo ritmi e modi imprevedibili. Da sempre i progettisti mettono in campo la loro creatività e le loro competenze per adattare il processo ideativo a situazioni specifiche, sviluppando nuovi metodi progettuali. Nel momento in cui la città del mondo globalizzato ha avviato un processo di deidentificazione, di espansione, di interconnessione, queste pratiche di adeguamento hanno dovuto assumere contenuti più radicali per far fronte ad una nuova complessità. Lo spazio pubblico della città contemporanea infatti ha subito e continua a subire una costante e progressiva spinta alla disgregazione e all’anonimato, regredendo in estensione e qualità, bloccato in una forma che non è in grado di accompagnare l’accelerazione delle dinamiche evolutive urbane. Per tale motivo si sente il bisogno di uno stravolgimento della pratica progettuale, come quello teorizzato dal Landscape Urbanism1, il cui approccio è volto alla massimizzazione della flessibilità e dell’adattamento ai contesti, nel tentativo di interpretare le necessità della città in era post-industriale. Accostare il concetto di spazio pubblico al vasto campo disciplinare del Landscape Urbanism è quindi opportuno e forse inevitabile ma comunque non sufficiente a definirne l’oggetto di studio e di sperimentazione progettuale. La prospettiva multidisciplinare e il profilo metodologico non tradizionale che esso fa propri infatti aumentano la complessità e la quantità delle informazioni e delle interpretazioni necessarie alla comprensione e quindi alla trasformazione dei luoghi.
Il motivo di tale complessità viene spiegato da alcuni autori (Corner 2006, Lyster 2006, Mossop 2006, Waldheim 2006) con la necessità di adeguare il progetto urbano ad un preciso periodo storico, quello attuale, in cui la labilità dei confini geografici, l’interconnessione globale e la rapidità di trasmissione delle informazioni definiscono la città contemporanea come un sistema dinamico di relazioni variabili nel tempo e nello spazio, in continua ricerca di provvisori momenti di stabilità e adattamento alle forze economiche, sociali e culturali cui è soggetta, sia interne che esterne. L’oggetto della ricerca diventa cioè un metodo di indagine che sia in grado di interpretare le tematiche organizzative, le interazioni dinamiche e le relazioni ecologiche dell’organismo urbano, insomma di afferrarne la complessità, rappresentando una reale alternativa ai rigidi meccanismi della pianificazione urbana tradizionale. Opinione condivisa è quella secondo la quale “Per concettualizzare l’urbanistica fluida è utile l’ecologia, che da sempre spiega come tutta la vita sul pianeta sia in rapporto dinamico” (Corner, 2006) e che quindi è possibile gestire le dinamiche dei processi urbani con gli stessi principi adottabili per i sistemi naturali, poiché sono entrambi organismi vivi in continua evoluzione. Ecco quindi che appare necessario sostituire le nozioni di pubblico e privato con categorie di natura relazionale come ad esempio quelle di vicinanza, connessione, condivisione, dipendenza o percezione, alla ricerca della comprensione del fatto urbano come processo più che come sistema statico. C’è una tipologia di spazi collettivi o spazi condivisi, che più delle altre si adatta a questo scopo: sono gli spazi residuali, interstiziali, condivisi da più sistemi urbani ma non appartenenti a nessuno di essi, quelli che Alan Berger definisce drosscapes2 (2006), Charles Waldheim ‘fragments of the traditional urban fabric’3 (2006), Rem
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Koolhaas junkspace4 (2006), che si collocano dove lo sviluppo urbano ha prodotto scarti in termini di manufatti obsoleti, luoghi senza identità, relitti lasciati da un’organizzazione del territorio superata o dove si è costruito senza regola progettando singoli elementi con noncuranza dell’insieme. Essi sono quindi immagine dell’immediato, naturale e inevitabile ef-
fetto dei processi industriali: lo spreco, poiché “come un organismo vivente la città è un sistema aperto, la cui programmata complessità entra di continuo in contatto con residui non programmati” (Berger, 2006). Questi luoghi sono dominati dalla pressione di forze economiche e sociali talvolta contrastanti ma capita che siano in grado di configu-
Lorenza Fortuna Landscape Urbanism e spazio pubblico
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Fig. 1 Yanweizhou Park a Jinhua City, Cina.
rare equilibri nuovi, per cui alla dinamica dell’abbandono può corrispondere un istinto di sopravvivenza che regala sorprese sotto il profilo ecologico, generando dinamiche ed episodi quali quelli che Gilles Clément descrive come Terzo Paesaggio5 (Clément, 2005). Si tratta di spazi che accolgono fenomeni di intersezione e sovrapposizione, di coincidenze, privi di caratteri di riconoscibilità, portatori di
un palinsesto di segni e tracce del passato, più o meno evidenti, che ne compromettono la percezione. Vivono, o meglio sopravvivono, in uno stato di attesa e sospensione, e per questo il loro potenziale di trasformazione è massimo: non essendo niente possono diventare tutto, e questa loro condizione di — essere tra — altre cose rappresenta nella maggior parte dei casi un’imperdibile occasione di rigenerazione di ambiti strategici interni al tessuto urbano in grado di tessere relazioni tra parti di città, ristabilire equilibri, percorrenze, connessioni, nuove infrastrutture di supporto alla mobilità urbana. Questo spiega perché Waldheim parla di Landscape Urbanism come ‘pratica del rimedio’6, con strategie di ricolonizzazione animale e vegetale a lungo termine, sviluppati per fasi successive di intervento anche della durata di diversi decenni. Si pensi, per esempio ai grandi parchi americani realizzati in aree impoverite e degradate da grandi impianti industriali o discariche, come il progetto del gruppo Field Operation per la Fresh Kills Landfill di Staten Island, a New York, o al progetto Landschaftspark di Peter Latz per il recupero dell’ex area industriale del bacino della Ruhr a Duisburg, spazi urbani o extra urbani il cui recupero ecologico non può avvenire che in tempi lunghi e secondo precise strategie d’intervento che gradualmente reinseriscano la vita al loro interno. Ecologia e spazio pubblico assumono quindi un rapporto nuovo nel progetto di Landscape Urbanism, funzionano insieme, come un’unità indissociabile: il progetto dello spazio pubblico non esiste che grazie alla sua strategia ecologica, la sola capace di restituire alle attività umane aree per lungo tempo sottratte alla fruizione collettiva e di accordare tutti i fattori interagenti sul luogo per un funzionamento integrato che si rinnovi a lungo termine. La sostenibilità di un progetto dunque non va misurata in base al modo in cui esso risponde
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all’imposizione di vincoli, bensì alla sua capacità di farsi dispositivo per future configurazioni. In questa ottica il progetto di paesaggio emerge come fenomeno in divenire le cui dinamiche di trasformazione devono essere per quanto possibile previste e accompagnate con un approccio trans-scalare nello spazio e nel tempo, con la rappresentazione di scenari di adattamento dei sistemi. Esso è quindi inteso come un processo con il giusto equilibrio tra stabilità e adattabilità, quella che Koolhaas definisce instabilità programmatica7, concetto che travalica le scale della progettazione alla ricerca di un elemento ordinatore della complessità, sia esso una griglia, una scatola tridimensionale, un insieme di livelli programmatici stratificati o qualsiasi altra possibile formalizzazione delle forze immateriali che governano le trasformazioni dei luoghi. Il metodo di rappresentazione del progetto trova in quest’ottica un ruolo chiave anche in fase ideativa, rendendo obsoleti i disegni tradizionali, nei quali il fattore tempo non può essere rappresentato. Il campo di sperimentazione in questo senso è ampissimo e certamente aperto a un grande numero di soluzioni già adottate o ancora da inventare. I video, le rappresentazioni diagrammatiche, le scomposizioni per livelli, le matrici, sono tutti mezzi adatti e ampiamente utilizzati a questo scopo in quanto campi di osservazione delle interazioni dinamiche tra sistemi, capaci di coniugare la visione zenitale planimetrica a quella soggettiva sequenziale con un linguaggio sintetico. La comprensione di queste nuove esigenze comunicative non influisce solamente sulla creatività del processo progettuale, ma sull’intera catena decisionale che porta all’approvazione dei singoli progetti, come sostiene Christophe Girot (2006)8, contribuendo in maniera significativa alla nascita di nuove politiche di trasformazione de-
gli spazi collettivi che privilegino la capacità trasformativa, la flessibilità, la possibilità di ospitare eventi non programmati. Lo scopo della rappresentazione dunque non è descrivere efficacemente vari aspetti di un progetto ma piuttosto influenzare le scelte progettuali e comprenderne gli effetti sul fare paesaggio in termini di forma, di significato, di processo ideativo e realizzativo. La superficie urbana viene così pensata come una scena in cui si muovono gli attori sociali — Corner parla infatti di staging of surfaces9 (Corner, 2006), piano orizzontale continuo in cui osservare le interazioni dinamiche fra i sistemi urbani, campo rigido di organizzazione spaziale che, proprio in virtù del suo rigore, consente massima autonomia ad ogni sua parte, favorendo la configurazione di paesaggi sempre nuovi. Questa infrastruttura urbana, preparata all’incertezza di future appropriazioni, è concepita per enfatizzare il significato delle azioni e delle relazioni che ospita; essa quindi non è un oggetto disegnato secondo predeterminati criteri stilistici ma un ambiente continuamente tracciato e riorganizzato dai processi sociali. Connettività, elevato livello di efficienza tecnica e multifunzionalità sono qualità inseparabili dal concetto di infrastruttura, la quale non va più considerata come elemento di connessione tra due luoghi significanti, poiché essa stessa diventa luogo. Il funzionamento dell’infrastruttura come luogo di vita dipende principalmente dalla sua capacità di accordarsi con la rete dei sistemi ecologici urbani e, in particolare con quelle strutture permanenti che giacciono sotto la superficie del paesaggio umano progettato, ad esempio la geologia, il clima, la topografia o l’idrogeologia, come ricorda Elizabeth Mossop (2006)10, sinergia tanto ovvia quanto ignorata, come dimostrano le frane, le esondazioni e tutti gli altri problemi
Lorenza Fortuna Landscape Urbanism e spazio pubblico
frequentemente trasformatisi in tragedie derivati dalla cattiva gestione di tali processi ambientali. L’approccio del Landscape Urbanism al progetto dello spazio pubblico è volto dunque all’individuazione del potenziale trasformativo dei luoghi; le qualità proprie del sito non sono viste cioè come un limite imposto alla creatività della composizione bensì come la guida progettuale ad una trasformazione idonea a gestire la complessità dei luoghi per convertire gli elementi critici in opportunità. Esso si dota così di strategie che esplorano il potenziale dello spazio condiviso come luogo fluido e sensibile, capace di dare forma alle esigenze della collettività autorganizzata, di comporre gli elementi paesaggistici in un meccanismo dinamico e coordinato, di interpretare e rappresentare i processi della città contemporanea. La disciplina sembra così offrire ai progettisti strumenti idonei di interpretazione di questa modernità liquida11, promettendo capacità di adattamento a contesti diversi e flessibilità di metodo, con un’impalcatura teorica orientata alla ricerca e l’ambizione di pensare lo spazio pubblico come dispositivo di comprensione olistica del paesaggio, per dare forma all’identità dei luoghi con interventi profondi e strutturali e riconciliare le attività umane con le dinamiche della natura.
NOTE La disciplina del Landscape Urbanism nasce nel mondo accademico statunitense alla fine degli anni ‘90 del Novecento in risposta al declino funzionale ed ecologico delle città in era post-industriale promuovendo un nuovo approccio al progetto sostenibile, capace di adattarsi alla rapidità delle trasformazioni dei contesti urbani contemporanei. The Landscape Urbanism Reader, New York, Princeton Architectural Press, 2006. 2 L’ espressione drosscapes, letteralmente ‘paesaggio di scarto’, dà titolo ad un libro del 2007 e viene spiegata dall’autore come il prodotto di due processi principali: la rapida urbanizzazione orizzontale, e l’accumulo di residui di terreno e di materiale dopo la dismissione delle attività economiche. Per approfondimenti: Berger A. 2007, Drosscapes: wasting land in urban America, Princeton Architectural Press, New York. 3 Con questa espressione, comparsa nel 2006 nel saggio Landscape as urbanism l’autore sembra porre l’accento sulla perdita dell’identità urbana, ormai ridotta in frammenti. Per approfondimenti: Waldheim C. 2006, Landscape as Urbanism, in The Landscape Urbanism Reader, Princeton Architectural Press, New York. 4 “Il junkspace è ciò che resta dopo che la modernizzazione ha fatto il suo corso o, più precisamente, ciò che si coagula mentre la modernizzazione è in corso, le sue ricadute”. Per approfondimenti: Koolhaas R. 2006, Junkspace, Quodlibet, Macerata. 5 Il Manifesto del terzo paesaggio affronta il tema dei paesaggi residuali della città contemporanea, riconoscendo ad essi un ruolo di primo piano nel processo di rigenerazione funzionale ed ecologica della realtà urbana, come luoghi in cui osservare l’imprevedibilità e la resistenza degli elementi naturali in condizioni di crescita ostili, accompagnando il cambiamento piuttosto che inducendolo. Clément G. 2005, Manifesto del Terzo Paesaggio, Quodlibet, Macerata. 6 Per ‘pratica del rimedio’ l’autore intende un metodo progettuale volto al recupero funzionale ed ecologico dei paesaggi degradati prodotti dallo sviluppo urbano aggressivo e sconsiderato e dalle attività industriali dismesse dopo l’uso. 7 L’espressione compare nel libro Delirious New York in relazione alla griglia dell’impianto urbanistico di Manhattan e alla struttura del grattacielo, il cui rigore modulare consente massima libertà d’uso ad ogni parte, dando una regola all’impredicibilità degli eventi urbani. Koolhaas R. 2001, Delirious New York, Electa, Milano. 8 Girot C. 2006, Vision in motion: representing landscape in time, in The Landscape Urbanism Reader, Princeton Architectural Press, New York. 9 L’espressione, usata da Corner nel saggio Terra Fluxus, descrive per l’autore uno dei quattro temi portanti dell’apparato teorico del Landscape Urbanism. Il richiamo alla scena suggerisce l’idea di paesaggio come sfondo neutro pronto ad ospitare qualsiasi rappresentazione. Corner J. 2006, Terra Fluxus, in The Landscape Urbanism Reader, Princeton Architectural Press, New York. 10 Mossop E. 2006, Landscape of infrastructure, in The Landscape Urbanism Reader, Princeton Architectural Press, New York. 11 Il concetto di modernità liquida è introdotto dal sociologo Zygmunt Bauman per spiegare l’assenza di valori solidi e certezze della società contemporanea, in stato di costante precarietà. Bauman Z. 2008, Modernità liquida, Laterza, Bari. 1
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I Maestri
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Ricordando Jacques Simon Enrico Falqui
Paesaggisti Urbani Non ho mai avuto la fortuna di conoscere personalmente Jacques Simon; tuttavia, è sorprendente quanto numerose siano state le occasioni nelle quali ho avuto l’opportunità e il piacere di ‘scoprire’, attraverso fonti indirette, la sua dimensione artistica e la poliedrica multiformità del suo modo di ‘essere paesaggista’ e di non rinunciare mai alla frenetica attività di ‘inventore’ di paesaggi. Una di queste occasioni si è verificata nel giugno scorso, quando mi sono recato al Parc de Sausset per partecipare all’incontro che Claire Corajoud e Alexandre Chemetoff avevano organizzato, per celebrare il ricordo della recente scomparsa di Michel Corajoud, allievo prediletto di Simon, in un vasto prato ai bordi della splendida Foret che Michel aveva ‘disegnato’. In quel luogo, pervaso da un’accecante luce estiva, mi è capitato di ascoltare da molti dei più autorevoli paesaggisti francesi convenuti in quel luogo, molti episodi delle vite di Simon e Corajoud che li avevano visti protagonisti, insieme. Quel sodalizio, iniziato nel 1964 e durato fino al 1967, aveva ripreso vigore quando Corajoud, lasciato quell’Atelier d’Urbanisme et Architecture (AUA) nel quale, insieme a Ciriani e Huidobro, si erano attribuiti il titolo di ‘paesaggisti urbani’, aveva deciso, insieme al suo maestro, Jacques Simon, di costituire una coppia indissolubile e indistruttibile, fondatrice di una progettualità moderna nell’Architettura del Paesaggio del dopoguerra in Francia. Simon e Corajoud si erano attribuiti il titolo di ‘paesaggisti urbani’, essendo assolutamente convinti, come spesso manifestavano con passione in pubblico, che
la conoscenza del paesaggio e la pratica quotidiana sul territorio rurale possono essere utili nei processi progettuali che riguardano la trasformazione del territorio della città contemporanea e, in particolare, delle zone periferiche urbane (sub-urbanità). (Corajoud, 2006)
Anche attraverso questa visione, Simon e Corajoud dimostravano di essere dei precursori di un cambiamento culturale che avvertivano essere, all’epoca, già maturo per la cultura del paesaggio europeo; in realtà tale cambiamento strutturale avrebbe dovuto attendere fino al 2000, quando, la scrittura della Carta di Firenze per una Convenzione europea sul Paesaggio, avrebbe portato alla luce la necessità di adottare una nuova definizione di ‘paesaggio’, introducendo la condizione irrinunciabile della ‘percezione’ (individuale e collettiva) del paesaggio affinché ‘esso esista’. Sia quando lo si osserva per trarne un godimento estetico e spirituale, sia quando lo si trasforma attraverso un Progetto, il cui ruolo, dal momento della ratifica della CEP (2006) cambia radicalmente nel rapporto con il Piano urbanistico e con il Progetto di Architettura (site specific). Quel periodo di ‘separazione’ dall’AUA rafforzò in entrambi la convinzione che il progetto di paesaggio potesse svolgere un ‘ruolo assolutamente nuovo’ nell’azione necessaria di una nuova pratica dell’Architettura e dell’Urbanistica. Franco Zagari, in un suo recente saggio scritto per la rivista dell’Istituto nazionale di Urbanistica afferma: “il progetto del paesaggio nasce da un approccio del tutto originale che prende atto di problemi trascurati, di una generale condizione instabile della nostra cultura del territorio, e cerca di stabilire relazioni, nuove affinità, armonie, consequenzialità, (che non si producono più spontaneamente, come avveniva una volta) un equilibrio fra tradizioni e visioni di sviluppo, una tensione, un senso, una continuità, in contesti di scala anche molto diversi”.
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Attraverso questa nuova visione, il progetto del paesaggio favorisce il confronto tra diversi apporti disciplinari, promuove politiche di concertazione e partecipazione, agisce con sistemi spazio-temporali definiti in modo meno deterministico, dal generale al particolare, più ‘a-scalare’. Sapore e Saperi del Paesaggio Nel lungo sodalizio con Corajoud, Simon aveva sicuramente esercitato su di lui un’influenza profonda nella passione verso lo studio dei luoghi e della loro topografia, anche se Michel si rammaricava di aver ricevuto “una formazione frettolosa, pur gratificata da una passione e da un entusiasmo esuberanti” (Corajoud, 1995) da parte di Simon, ma in un tempo troppo corto (1964-1967) per poter assimilare la ‘lezione sulla Natura’ che caratterizzava l’originalità dell’insegnamento del Maestro. Simon era dotato di una personalità poliedrica che, all’inizio della sua carriera, risentiva dell’influenza dei ‘paesaggisti naturalisti’ tedeschi che, negli anni ‘60 e ‘70 pubblicavano i loro lavori sulla rivista Garten und Landschaft, ma che prefigurava già in quegli anni la cultura moderna del progetto paesaggistico. Ma ciò che rendeva innova-
tivo il suo approccio progettuale, era costituito dal suo impegno verso l’indipendenza del paesaggio dentro il Progetto, che veniva assicurato dall’Autore attraverso un vocabolario ed un’estetica del Progetto, specifica e caratterizzante. Questa sua qualità gli permetteva di avere un dibattito culturale non subalterno alle altre discipline concorrenti nella gestione del territorio, geografi, architetti, urbanisti, artisti, etc. Jacques Simon era assolutamente convinto che l’ispirazione progettuale non potesse nascere per nessun paesaggista, senza una perfetta conoscenza dei luoghi oggetto della trasformazione e senza un rapporto ‘sensoriale’, quasi fisico con il territorio e la sua topografia. Suo padre era un esperto forestale ed aveva trasmesso a Jacques l’amore per l’eccezionale varietà del patrimonio naturale, dotandolo anche di una profonda conoscenza dell’ambiente, degli alberi e delle piante dei quali era divenuto, col tempo, un formidabile riproduttore attraverso il Disegno (fig. 1). L’immersione continua che Simon aveva con le diverse caratterizzazioni naturalistiche, geologiche e paesaggistiche del territorio, lo spingeva verso una preparazione quasi maniacale del concept progettuale. Attraverso una costante e minuziosa ‘radiografia’ dei luo-
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Fig. 1 Disegno a mano di J. Simon. Fig. 2 Disegno a mano di J. Simon: comporre e ricomporre.
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Fig. 3 Figure al vento, installazione di J. Simon.
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ghi, egli spendeva gran parte del tempo di osservazione del sistema territoriale nel disegnare una sequenza imponente di bozzetti, di schizzi, di rappresentazioni grafiche dei luoghi, degli scorci, dei dettagli nelle varie prospettive di percezione del paesaggio, sui quali esercitava una continua riflessione critica con i suoi collaboratori, in un gioco di scomposizione e ricomposizione di tutti quegli elementi e dettagli che, poi, avrebbero potuto diventare determinanti nella composizione del quadro finale (fig. 2). In una delle sue opere più conosciute, Amenegement des espaces libres (Simon, 1976), Simon ricordava che: il disegno, essendo al tempo stesso ‘lettura e sintesi’ della realtà consente di memorizzare e cogliere aspetti che la semplice osservazione non permette: […] per disegnare occorre individuare non solo le linee e i punti caratterizzanti, ma anche valutare i rapporti, le proporzioni, le cromie che sono contenuti nella percezione del paesaggio (Simon, 1976).
Quando nel 2007 mi recai al Festival internazionale dei giardini al Castello di Chaumont sur Seine, ebbi un ulteriore contatto con la genialità artistica di Simon che rappresentava, all’interno di quella annuale rassegna sull’arte di giardini a livello mondiale, uno dei giardini
presenti nell’Espace Naturel di Lille Métropole, “Foglie Morte”, riferito al tema delle migrazioni umane. Dopo un tunnel evocativo dei milioni di uomini e donne che lasciano i loro Paesi (diremmo oggi, per fuggire oltre che dalla fame e dalla sete, dalle guerre e dai genocidi che insanguinano oggi le terre di decine e decine di Paesi a livello globale), il percorso sboccava in una piazza simbolica, evocatrice del centro di Lille, piena di bagagli abbandonati, mattoni spezzati, con al centro un albero con le foto delle persone e specchi che riportavano ai percorsi, agli incontri, alle radici lontane. Mi ricordo perfettamente la forte percezione emotiva di quel ‘nuovo paesaggio’, che, oggi, pare a me aver assunto il significato di un mo-
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Figg. 5-6 Jacques Simon e Michel Corajoud.
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Figg. 7-8 Disegnare, falciando l’erba dei campi, Bourgogne, J. Simon.
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Fig. 4 Copertina del libro Dessiner les arbres.
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nito premonitore del grande Exodus di popolazioni provenienti dai Paesi poveri del Sud del mondo che si mettono in marcia verso i Paesi più ricchi e industrializzati del mondo occidentale. In questo progetto dell’Espace Naturel, ciò che colpisce, oggi, non è soltanto la capacità evocativa nel tempo del tema dominante dell’immigrazione, quanto la capacità di Jacques Simon di ‘fare paesaggio’ attraverso una concezione coreografica dei luoghi, affinché la percezione del ‘nuovo paesaggio’ esercitasse un’azione indelebile nelle Mente degli abitanti dei quartieri limitrofi, rendendo identificabile e riconoscibile quel luogo tra mille altri.
Articulture Questa sua concezione coreografica del paesaggio, a mio avviso, suggerisce degli straordinari elementi di contatto con l’opera paesaggistica di Lawrence Halprin (Halprin, 2011); l’approccio creativo ed entusiastico di Simon al design e alla soluzione dei problemi, fa anche pensare a quella teoria della creatività e dell’intelligenza, secondo la quale l’antropologo americano Loren Eiseley affermava che “in una mente creativa risiedono molteplici universi dei propri interessi e dei propri entusiasmi che strutturano l’azione artistica” (fig. 3). Così che accade che questi interessi ed entusiasmi si nutrano a vicenda di conflitti consci ed inconsci, provocando nell’artista la gioia della scoperta e il dolore della frustrazione. Halprin come Simon spingevano ai limiti estremi il confronto tra il progetto e la Comunità, la Natura e il contesto sociale e culturale, così come il rapporto tra Autore e Committente. Ed era proprio questo ‘rapporto’ ruvido e provocatorio a creare sorpresa e, al tempo stesso, ad affascinare, sedurre e incantare chiunque venisse a contatto con
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Enrico Falqui Ricordando Jacques Simon
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queste due personalità così esuberanti e carismatiche, anche se profondamente diverse negli aspetti umani e individuali. Jacques Simon sarà giustamente ricordato per essere stato un precursore della Land Art, in tempi ben antecedenti alle opere realizzate dai primi artisti americani, quali De Maria e Oppenheim e Smithson (1967-69), quali l’olandese J. Dibbets (1969) e l’inglese B. Flanagan (1977). Il suo primo lavoro di Land Art fu realizzato nel 1950 a Chicoutimi, nel Quebec francese, dove Simon dipinse, con 50 chili di vernice bleu, 320 tronchi di pioppi bianchi; e questo gesto costò a Simon il licenziamento dalla società canadese per cui lavorava. Simon era convinto che se la Natura è il nostro granaio, perché non dovremmo sfruttarla per fini estetici e culturali al fine di conciliare ‘l’arte ambientale’ per uno scopo sociale? (Simon, 2006).
Egli non aveva una concezione ‘barocca’ del progetto di paesaggio ma perseguiva un processo progettuale ‘per sottrazione’, di tipo minimalista, come ha dimostrato mirabilmente nel progetto del Parc de la Deule. I dieci giardini contemporanei disegnati da Simon, insieme a J. Capart e Y. Hubert, nel cuore del parco, sono l’esempio più limpido di questa sua capacità artistica. L’approccio verso la Land Art è stato per Simon il risultato di un processo interiore di dialogo costante con l’ambiente, che, come accade a tutti gli esponenti di un’Arte minimalista, finisce per avvolgere in un’aureola di mistero le sue opere più significative (fig. 4). Il progetto [diceva Simon] trasforma il paesaggio in un’opera d’arte figurativa da abitare… la Pittura che rappresenta l’apparenza sensibile congiunta con le idee, la dividerei nell’arte di ritrarre bellamente la Natura e quella di comporre con altrettanta perizia i suoi prodotti; la prima sarebbe la pittura propriamente detta, la seconda l’arte del giardinaggio; […] il Paesaggio è fabulazione, ovvero metafora del sogno (Simon, 1991).
In questa chiave il progetto di paesaggio rappresenta un dispositivo di simulazione di idee e riferimenti fuori della percezione ordinaria dello spazio e del tempo. Quando gli architetti paesaggisti lavorano nel progetto a stretto contatto di una Comunità, essi vengono, spesso, in relazione con una duplice domanda da parte di essa: quella della concretezza e del pragmatismo, da un lato, e quella della creazione di nuove immaginarie realtà, dall’altro. J. Dixon Hunt chiama la prima ‘prosa’ e la seconda, ‘poesia’ del paesaggio (Dixon Hunt, 2012). Ebbene, Simon aveva la rara capacità di scoprire in ogni luogo che osservava a lungo prima della sua trasformazione, una straordinaria simbiosi tra pragmatismo e poesia. Infatti il grande paesaggista francese usava dire ai suoi allievi che: ‘introdurre sculture naturali’, artifizi realizzati dal contadino-artista equivale ad introdurre un flusso di energia nel Paesaggio… e quel flusso di energia è l’introduzione ad una realtà immaginaria e simbolica, estranea al luogo, che si struttura attraverso un linguaggio poetico diretto nei confronti del visitatore o degli abitanti della Comunità, dove tale progetto veniva a realizzarsi. In Articulture Simon usa tutti i ‘materiali’ e tutte le componenti strutturanti il paesaggio ‘pittorico’ (artistico) per comporre i tableaux della sua Land Art, i quali hanno un tempo di vita assai breve, come quando disegna sulla neve o progetta installazioni in movimento per azione del vento o quando realizza simbologie di un’iconografia moderna, falciando i campi coltivati dai contadini, francesi, spagnoli o portoghesi che siano (figg. 5-6). Questo splendido libro, vero e proprio cult della sua genialità e creatività artistica frenetica, ci espone un racconto in movimento, quasi che l’artista ci avesse invitato al suo seguito, durante le lunghe fasi di
Enrico Falqui Ricordando Jacques Simon
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Fig. 9 Oltrepassare i limiti, Michel Corajoud.
preparazione dei luoghi la lui prescelti, per le sue installazioni o per le sue performances temporanee, che subito dopo fotografa da un elicottero che sorvola come un moderno drone la tela naturale su cui ha impresso un segno non indelebile del suo genio artistico, ma sicuramente indimenticabile nella memoria di tutti coloro che erano presenti al momento della realizzazione dell’opera o che le hanno conosciute attraverso le splendide gallerie di foto che ne hanno riprodotto l’immagine. Per realizzare queste splendide opere di Arte Paesaggistica (termine che mi pare più idoneo alla descrizione dell’enorme lavoro svolto da Simon, in piena sintonia con i contadini di tanti territori francesi, spagnoli e americani) Simon raggiungeva l’obiettivo più importante e durevole per un paesaggista anticipatore della grande rivoluzione culturale introdotta nel 2006 dalla CEP: quello di far percepire alle popolazioni dei territori dove l’artista lasciava il suo ‘segno’, la nuova identità di quel luogo che, attraverso l’Arte, diventava un paesaggio iconemico universale. Quando abbiamo appreso la scomparsa del grande paesaggista francese, ho pensato che vi fosse qualcosa di simbolico e misterioso nella rapida successione con la quale Michel Corajoud e Jacques Simon hanno preso congedo dalla Terra dalla quale traevano ispirazione profonda tutti i loro progetti. Il loro ricordo si riassume in un incitamento da parte dell’Allievo e del Maestro verso tutti noi che li rimpiangiamo con passione e con rispetto: Guardate il Paesaggio con lo stesso amore con il quale pensate a una persona cara, in esso cercate ogni ispirazione per la sua trasformazione, siate umili ma non cessate mai di oltrepassare i limiti. (Corajoud, 2010)
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Dialoghi sul Progetto di Paesaggio Mediterraneo. Teresa Galì e ‘il lusso della povertà’ Daniela Colafranceschi
L’occasione di accompagnare Teresa Galì ad Open Session on Landscape, mi permette contribuire a questo incontro con un nostro dialogo inedito, certamente datato, ma non superato. Il pensiero che di lei si presenta, lo considero ancora un’importante lezione, molto originale e attuale sul fare paesaggio. Per contestualizzare meglio l’intervista che segue, devo premettere che nel 1998-99, sono stata a Barcellona a svolgere la mia Ricerca CNR-NATO1 sullo Spazio Pubblico e, per le opere e gli autori che andavo conoscendo, decisi cogliere questo momento e fotografare una condizione sull’evoluzione urbana che vivevano la città e la Catalogna di allora, relativa l’attitudine nel progetto di paesaggio, legato a queste geografie, a questa realtà mediterranea. Così, mentre lavoravo al Comune, nel Dipartimento Progetti Urbani, e ai molti video prodotti sulle nuove realizzazioni di allora, ho redatto insieme alla Ricerca, cinque
interviste, cinque ‘dialoghi’ insieme a quelle che consideravo personalità chiave, nella registrazione di un momento di passaggio così importante: dal punto di vista dell’opera di paesaggio (Teresa Galì ed Imma Jansana), della formazione sul progetto (Eduard Bru era allora il Preside della ETSAB/UPC), della gestione e della promozione di una politica urbana (Ignaci de Lecea era il direttore del Dipartimento di Progetti Urbani del Comune di Barcellona), di un processo del fenomeno culturale in forte cambiamento (il filosofo e scrittore Pep Subiròs) per incontrare punti di vista trasversali e pluridisciplinari che ne potessero delineare un quadro complessivo. Interviste che non ho mai pubblicato e che spero un giorno raccogliere nei miei ‘diari di viaggio’ perché molto hanno significato per la mia formazione e il mio interesse disciplinare verso queste latitudini. L’intervista a Teresa Galì, sul progetto di paesaggio mediterraneo è del 3 dicembre del 1998.
DC: Riferendoci alla scala del territorio, potresti delineare in sintesi qual è il ‘patrimonio del Mediterraneo’? Quali sono cioè dal punto di vista di un ingegnere agronomo (in termini naturalistici, fenomenologici, etc.) le caratteristiche del paesaggio mediterraneo? TG: Innanzi tutto direi che è contraddistinto dal fatto che le situazioni siano ‘estreme’, cioè la geologia, l’erosione, la presenza di un paesaggio ‘rotto’, duro, dai cambiamenti drastici, dove nello spazio di soli pochi chilometri si possono trovare molte ferite nella terra, dove la roccia e il suolo sono una presenza continua. Ad esempio l’erosione, come fenomeno, è caratteristica del paesaggio mediterraneo; il suolo nudo, il problema di intere parti che franano. Inoltre penso anche che un’altra caratteristica fondamentale sia la presenza del lavoro dell’uomo in questo paesaggio, ossia il suo ‘passaggio’, le tracce dell’uomo individuabili perfino nei boschi, nei boschi di pino per quanto siano verdi e densi. Credo poi che in questo tipo di paesaggio, così duro, esista la presenza di un elemento dominante: l’acqua. Essa è motivo di contrasto e di piccoli microclimi, piccole situazioni differenti che danno complessità al paesaggio. Se sai che l’acqua ha un determinato comporta-
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mento, che percorre determinati ambiti, oppure conosci il tipo di vegetazione associata ai punti di acqua, quando sei in un paesaggio mediterraneo potrai interpretare di conseguenza molte cose in più. lo penso che quello mediterraneo sia proprio un paesaggio di interpretazioni. Voglio dire che è un po’ intellettuale, che ti porta a pensare, a fare considerazioni legate alla climatologia, alle condizioni di calore, a quando deve aver piovuto, a come deve defluire l’acqua da un terreno, a come devono raccoglierla gli alberi, ossia è un tipo di paesaggio che dà luogo a riflessioni. Non è affatto selvaggio, è molto lavorato e lavorato in distinte epoche, per cui esiste tutta una sovrapposizione di cose e di eventi da leggere attraverso il paesaggio e ancora poi, soprattutto, la presenza del clima. Aggiungo che un altro elemento tipico del paesaggio mediterraneo è l’abbandono. Per quanto l’uomo intervenga più o meno, in tempi successivi, il territorio ti spiega tutti questi passaggi. Se viene abbandonato un campo, si succedono delle manifestazioni per cui sei in grado di interpretare perfettamente questa sua condizione. Se sai interpretarlo, puoi leggere e scoprire moltissime cose dalla sua lettura, anche solo da una sua im-
magine. Questo è l’aspetto che più mi piace approfondire nel mio lavoro. A volte Io sperimento con gli studenti: prendo una fotografia di un paesaggio e vado man mano tirando fuori insieme a loro dei dati e ne ricavo tutti gli elementi possibili che vi si trovano dentro: la presenza dell’uomo, il passaggio del tempo, la climatologia, il tipo di suolo, la scala geologica e anche la scala del tempo. In uno stesso paesaggio infatti si sovrappongono differenti scale, quella geologica è solo una di queste: una parete di pietra per esempio ti spiega come si stia muovendo ad una velocità determinata. Quando poi piove, questo stesso paesaggio si può modificare in un altro e alle informazioni se ne sovrappongono di nuove che cambiano le precedenti; o ancora, quando il sole secca la terra il cambiamento di colore del paesaggio si produce ad un’altra velocità. In tutti questi aspetti, in questo senso, credo che il paesaggio mediterraneo sia molto ricco. Pensiamo a quello che succede con i fiumi in secca. Si considerano generalmente come una cosa negativa, ma credo che un torrente secco, un punto di scolo dell’ambito mediterraneo in relazione ad uno del centro Europa, ti sta spiegando molte più cose, gli stanno succedendo molte più cose: biologicamente per
esempio, conterrà uova di pesce in un qualche suo angolo o dal punto di vista del microclima, del microambiente che si genera tra due pietre, questo insieme all’ombra, dà vita a qualcosa di molto differente da altri ambienti, anche a soli due metri di distanza. È un ambito geografico molto più ricco il nostro. Naturalmente bisogna saperlo leggere e vedere. Quando la gente di qui chiede i tappeti erbosi io dico sempre “ma che vogliamo di più delle gramigne, di piante che in estate cambiano colore!” Questo i nord europei lo vedono sotto un altro punto di vista; loro non possono permetterselo perché non dispongono di queste piante. È un lusso il cambio del colore nel paesaggio, il seccarsi delle piante, e poterci lavorare con questo valore è un privilegio solo nostro. Che i campi in estate siano gialli per la presenza del sole forte e che poi cambino, è semplicemente incantevole. DC: Questi dati, quali regole impongono alla progettazione? TG: Per me le regole dovrebbero essere quelle di lavorare con la logica e il senso comune. Non ho un’altra idea in merito. Di fatto nello stesso senso di come lavora il paesaggio il contadino.
Daniela Colafranceschi Dialoghi sul Progetto di Paesaggio Mediterraneo. Teresa Galì e ‘il lusso della povertà’
L’altro giorno per esempio discutevamo insieme proprio di questo mi sembra: personalmente, dopo l’ultimo viaggio che ho fatto in Francia, non ho idea di come si potrebbe impostare una scuola di paesaggismo qui, nel mediterraneo; perché il paesaggio mediterraneo è il paesaggio che ha costruito il contadino. Come vai a spiegarlo agli studenti? Che vai ad insegnare a persone che vivono nella città? Che è il ‘Paesaggio’ alla fine? Se immaginiamo di fare un confronto e pensiamo a che cosa potranno essere tra cinquanta anni le opere che fanno oggi i paesaggisti in relazione al paesaggio che ha costruito il contadino, mi domando come si incontrano queste due realtà? In che punto? Io non Io vedo affatto chiaro, a meno che non si spieghi e si insegni lo stesso comportamento, la stessa attitudine che ha il contadino per il paesaggio, che è quella di lavorare con pochissimi mezzi, con risorse minime, con la povertà, del luogo come una risorsa da cui trarre profitto. Quando lavoravo in Francia ad esempio e questo credo abbia a che vedere con quello che mi chiediin primo luogo mi resi conto veramente di quanto io fossi una persona di qui, che la mia cultura, la mia educazione erano assolutamente fortissime e mi prese
un desiderio incontenibile di tornare e di lavorare con quello che succedeva qui, con questa realtà. Mi ricordo che scrissi una lettera ad una mia amica dicendole per spiegarle quello che andavo maturandoche noi qui abbiamo il ‘lusso della povertà’. In Francia avevo la sensazione di un’ostentazione del denaro: interventi impegnativi, materiali costosi, opere cioè fatte più con i mezzi che con la testa, pensando. Qui invece, il fatto che normalmente i progetti abbiano poche disponibilità economiche, che si debbano realizzare per fasi, che possano anche non arrivare ad essere belli, ma il fatto di pensare il progetto, di darti ad esso, la sfida, l’impegno a farlo con poco, di dare, dare e dare, questo era una cosa molto importante. Andai in Francia pensando quanto sarebbe stato interessante lavorare con un paesaggista e tornai invece abbastanza delusa, e mi resi conto che senz’altro questo aveva a che vedere con il mediterraneo. DC: La tua definizione del ‘lusso della povertà’ mi sembra molto bella. Mi fa pensare a quello che lmma Jansana mi ha detto qualche giorno fa: io non ho un atteggiamento definito di fronte al progetto, semplicemen-
te so che di un luogo userò i suoi materiali facendo la cosa più semplice e minima possibile. È senz’altro un atteggiamento molto concreto per il progetto e di ricchezza straordinaria per le potenzialità che implica a fronte di attitudini differenti come quelle francesi appuntodove il progetto è più l’immagine di un potere istituzionale, è rappresentativo di una identità che è nazionale. TG: Quando ero in Francia, lì appunto, pensavo quanto mi piacesse il fatto di essere ‘poveri’ l’idea era un po’ questaproprio per i vantaggi che ha: ti puoi arricchire con quello che tu decidi. Dopo questa esperienza pensai che sarei dovuta andare negli Stati Uniti dove si sono realizzate cose ben fatte e cose orribili, ma che io sarei andata a ‘prendere’ esattamente quello che mi interessava per realizzare cose moderne, contemporanee, non per continuare a fare muri di pietra tutta la vita, ma magari per imparare a tessere i muri in un’altra maniera, poter concettualmente trovare nuove soluzioni. E anche questo c’entra con il paesaggio mediterraneo: il paesaggio mediterraneo ti dà in fondo un’attitudine, un criterio per operare, o per inventare soluzioni differenti, come un’altra maniera di raccogliere l’acqua per esempio, utilizzando materiali molto più mo-
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derni, ma il fatto the il leitmotiv del progetto possa essere il raccogliere l’acqua, questa è una cosa semplice, un gesto umile. DC: Sei stata poi negli Stati Uniti? TG: No. Non ci sono più andata perché direi che l’ultimo viaggio che ho fatto a Parigi mi ha fatto riflettere molto. Io volevo essere paesaggista, il mio ideale era la scuola di Versailles e di fatto tra le personalità di quella scuola chi mi attrasse molto fu Jacques Simon. DC: Come è stato il tuo incontro con Jacques Simon? TG: Desideravo conoscerlo, presi la macchina, insieme ad una mia amica e così da un giorno all’altro partimmo per andare a trovarlo nella sua casa di campagna. Attraversammo tutta la Borgogna e quando arrivammo lui non c’era e ci inviarono alla sua casa di Parigi. Rimanemmo lì, sue ospiti per tre giorni e fu incredibile. È una persona che crede davvero a quello che fa. Vive come un hippy moderno. Credo debba avere un carattere insopportabile, sicuramente, però aveva una cosa molto positiva: mi insegnò a vedere le cose in un modo molto più ampio, polivalente e mai unidirezionale. Così come penso che Corajoud sia molto più ‘incasellato’ nel fondo, più serio,
Simon è molto più libero, disinibito, non gli interessa se le cose vengano bene o vengano male. Mi ricordo che una volta mi ha detto: “Che succederebbe se piantassimo un Ficus a nord di Parigi? Perché non proviamo?” Ossia, da una cosa malfatta c ome quella di piantare un ficus in una zona così inadatta per una pianta che certamente andrà a moriretraeva l’implicazione a provarlo. “E se non muore?” Come dire: vediamo fino a dove possiamo spingerci, a che punto possiamo arrivare con la natura, quanto la natura è in grado di offrirci. Da lì mi arrivò l’idea di un ‘patto con la natura’ che di fatto è quello che ho realizzato in un giardino di Púbol. In quel caso l’idea è lasciare al giardino che produca quello che produca e che solo di conseguenza io risponda con un intervento. Senza che mi ‘preoccupi’, cioè senza una determinazione previa del suo impianto; io gioco di conseguenza a quello che esce da lì. In relazione per esempio a quello che fa Gilles Clément, che ti spiega la questione del giardino mostrando le piante sempre quando sono più vistose, quando sono nel loro miglior momento. La domanda che in questo caso mi viene da fare è: Quale momento è ‘il migliore’? Nel mio giardino della Casa Cantarell, l’idea è
appunto che il cliente lasci che lo spazio evolva; in un dato momento interveniamo e poi torniamo a lasciarlo fare. È come una domanda e risposta continua tra quello che fa la natura e quello che faccio io. La preoccupazione non è che il giardino sia ‘bello’; per me naturalmente è un giardino meraviglioso, perché è quello che vive il cliente e quello che vivo io. Lì niente è previsto e prevedibile. Sono per esempio sbocciati dei fiori bianchi, abbiamo allora pensato di levare tutti gli altri e lasciare solo fiori bianchi; poi successivamente abbiamo pensato di integrare altre piante in un’altra parte… è come un work in progress ma senza un di più. Io ne faccio foto di volta in volta perché questo giardino mi interessa spiegarlo: non è scientifico, non mi dedico alla sua osservazione come fenomeno, rappresenta semplicemente il piacere di vivere il processo di questo domandare e rispondere continuo. L’idea del giardino sta nell’intervento, non sta semplicemente nel lasciarlo fare, ma lasciarlo e intervenire, lasciarlo crescere molto tempo e intervenire meno, lasciarlo poco tempo e intervenire di più, così per come va sviluppando. Questo te Io spiego in relazione a quello che fa Gilles Clément perché nel suo caso tutto è ‘finito’, direi che lui vende quasi un prodot-
Daniela Colafranceschi Dialoghi sul Progetto di Paesaggio Mediterraneo. Teresa Galì e ‘il lusso della povertà’
to raggiunto, già hai l’immagine del giardino durante le quattro stagioni, il pronto effetto. A me non interessano le quattro stagioni, voglio dire che per me il tema importante e questo l’ho imparato da Simonè tirare fuori il peso, estrarre l’importanza di un processo. Non è importante quello che facciamo alla fine cosa che diceva anche lmma Jansana è semplicemente il farlo. II giardino sta veramente nel piacere di realizzarlo. Non è ottenere il miglior giardino o il giardino dove non hai nessuna zona che non sia controllata con il progetto. È in questo senso che citavo ancora Simon: lui ha questo punto di distinzione, di passione o di un coinvolgimento totale, di disordine anche, ma il ‘suo’ paesaggio è lì. Gli dà un punto molto dolce. Credo che l’ultima realizzazione che ho visto di Parigi sia stata la copertura dello Stadio di Francia, dove hanno costruito una recinzione di metallo per impedire che la gente entri nel parco. Questo non è paesaggio. Certamente il vandalismo è un problema, ma queste soluzioni mi hanno depresso, mi hanno lasciato male. Pensai tra me: perché non cercare un altro tipo di compromesso con la città? Perché non tentare un’altra cosa? Perché il paesaggio è un’altra cosa!
DC: Quanto stai raccontando mi sembra si relazioni bene con un’altra domanda che volevo farti e cioè se ci sono atteggiamenti ed impostazioni che rimproveri o raccomandi agli architetti dello spazio pubblico, dei parchi e dei giardini. Esistono per esempio opere dove, dal tuo punto di vista ritieni siano state adottate soluzioni sbagliate? E nel caso, perché? TG: Io credo che il caso di Barcellona sia emblematico. Ora si aprirà una nuova scuola di paesaggio (Corso di Laurea in Architettura del Paesaggio alla ETSAB, ndr) e quindi si comincerà una cosa differente; si inizia e non si sa ancora come sarà. Eppure in Francia c he rimane un mio riferimentoalla scuola di Versailles, quello che iniziò a fare Simon nessuno è stato più in grado di continuarlo. Corajoud ha proseguito, ma in un’altra direzione; in una intervista che gli feci, domandai: “Il paesaggismo è una ricerca continua; perché non si evolve e cambia la maniera di presentare i progetti per esempio? Perché non inventiamo come debba essere una ‘consegna’ di un progetto di paesaggio? Perché non alleghiamo ad essa dei documenti in cui spieghiamo come debba evolvere un progetto nel tempo?” Una cosa tanto
stupida ma che nel fondo è importantissima. Se sei paesaggista e presenti una pianta disegnata, hai bisogno di spiegare che un primo anno le cose saranno in un modo, poi si trasformeranno in un altro, il terzo anno saranno ancora differenti… C’è bisogno di cambiare la professione, che si possano distinguere le specificità, il paesaggio, dall’architettura, la loro evoluzione in uno stesso momento, in un unico disegno per esempio; il paesaggio è qualcosa che si modifica continuamente, per cui se vogliamo controllarlo dobbiamo fornire dei documenti che controllino questa evoluzione dello spazio. Oppure trovare i meccanismi perché evolva in un dato modo, dove si renda leggibile il fattore ‘tempo’. Dico questo perché nell’intervista a Corajoud, lui mi diceva: “Certamente quando io presento una planimetria nulla di quanto progetto già esiste. Non c’è niente che abbia già la forma di quello che un giardino o un parco sarà. Gli alberi nel progetto sono rappresentati grandi, ma al momento di una consegna non lo sono affatto”. Allora io pensavo: perché non consegnare un’altra cosa? È chiarissimo che il meccanismo di funzionamento non può essere questo. Penso che in Francia la scuola di Versailles
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non abbia saputo sfruttare l’occasione di creare un’altra cosa che non fosse il sistema di funzionare che è proprio degli architetti, cioè quello di progettare una cosa, realizzarla, consegnarla e andarsene. Magari possiamo anche decidere che il paesaggista funzioni allo stesso modo ma credo che sia una decisione che debba essere messa a confronto con l’alternativa, cioè con quella che vede il paesaggio come entità in continua evoluzione. E l’evoluzione degli spazi pubblici, del parco, del giardino, fino all’impianto di alberature lungo le strade è in una fase di crisi, perché ci troviamo di fronte a problemi di alberi vecchi, alberi malati che hanno alla base una eccessiva compattazione del terreno, alla costruzione di parcheggi sotterranei, di strade che hanno schiacciato le radici delle piante, per cui dobbiamo pensare a rigenerare tutto questo patrimonio. Questa per me è una condizione fondamentale nell’idea del paesaggio e se non sappiamo lavorare in questo senso, se non troviamo la maniera di convincere i politici, i tecnici, la società che a Barcellona per mantenere la qualità di vita necessitiamo di infrastrutture che permettano l’esistenza di alberature mantenute in un certo modo o che ci permettano di rigenerare le piante, se non pro-
seguiamo, non lottiamo, non ci responsabilizziamo in questo senso, penso che la professione del paesaggista non andrà avanti. Il contadino è figlio di un contadino e suo figlio sarà contadino; perlomeno nel paesaggio che abbiamo avuto fino a questo momento, i contadini hanno sempre pensato in termini di ‘tempo’ molto ampi. Chi fa boschi, impianta boschi, pensa in termini di cinquanta anni, è una cosa normale; è assurdo che il paesaggista guadagni dei soldi senza pensare a questo. Quello che per me sarebbe ideale per il paesaggista credo vada di fatto contro la società, nel senso che funziona al contrario di quello che essa richiede: stabilità, sicurezza…, ci vogliamo assicurare i soldi fino alla fine dei nostri giorni e non ci interessa cambiare le cose perché funzionino diversamente, perché altrimenti conterrebbero punti di instabilità. Ora per esempio è in atto una polemica qui a Barcellona sul tema dei platani. Hanno malattie. Li piantarono al principio del secolo (scorso, ndr) e in quel momento Barcellona era una pianura fertile coltivata dalla gente e quindi il terreno, il suolo erano ricchi. Gli alberi sono cresciuti, sono stati via via costretti dagli interventi che si sono succeduti nella città, ora sono vecchi e stanno morendo di
malattie. Il Servizio ‘Parchi e Giardini’ dice che il platano è un albero che non funziona. Ma non è così; dobbiamo stare attenti prima di dire questo. Se questo albero è un albero vecchio e andiamo a piantarne un altro, è chiaro che le condizioni non saranno le stesse: il terreno è troppo compattato, pieno, la città è andata densificandosi di servizi, depositi, canalizzazioni, abbiamo posato marciapiedi di granito calcolando la distanza di dove le macchine salgono, dove scendono, però non abbiamo pensato ad una infrastruttura dove la vegetazione, il ‘vivente’ potesse mantenersi. Tutto questo è un problema legato a una idea di gestione ed evoluzione. L’uomo gestisce, il contadino ha gestito il paesaggio nell’arco di mille anni e questo paesaggio così bello che abbiamo è opera del contadino. Noi possiamo studiare la parcellizzazione, la pendente, tutto, ma è paesaggio. È come se ora ci fossimo sganciati da questa dimensione e fossimo su un’altra; eppure è dal contadino che dobbiamo apprendere e pensare perché facesse determinate cose e come le realizzasse. Quando faccio lezione dico delle cose che sono semplici, ovvie, potrebbero sembrare stupidaggini, eppure gli studenti non le hanno mai sentite e rimangono incantati da quello che dico. Se le ascoltasse un contadino pen-
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serebbe che sono semplicemente logiche, come due più due fa quattro. Ma in classe mi rendo conto di quanto confusi e lontani siano quelli che lavorano soprattutto nella cittàsu questa disciplina. Gli uomini vivono in città e la città è un’mezzo’ molto artificiale, è terribilmente artificiale. Nel paesaggio, chi è capace di captare tutta la ricchissima serie di informazioni, sarà capace di progettare in una determinata maniera. Pasqual Maragall per esempio (Sindaco di Barcellona e poi Presidente della Generalitat de Catalunya, ndr) credo sia una persona che capisce perfettamente. Non perché sia lui, ma perché è una persona che ha saputo lavorare nella gestione politica, con una sensibilità verso alcuni valori, verso alcune cose molto concrete qui a Barcellona ed è stata una figura molto importante; eppure non ha progettato alcun parco; è la sua capacità di vivere e tradurre questa altra dimensione in qualcosa di importante. Il nonno di Maragall è stato un grande poeta, parlava della Fajedra, di un bosco di faggi molto famoso, perché l’unico che abbiamo qui in Catalogna. In contrasto quasi con un paesaggio abbastanza duro e arido, esiste un piccolo bosco che se ne distingue come un’oasi. È per dire quindi che que-
sto poeta parlava di un tipo di valori, di un tipo di cose e non di altre. Questo ha senz’altro relazione con la dimensione di un paesaggio e di un tipo di natura. Lo stesso ‘abbandono’ che citavo prima come elemento caratterizzante, è visto da un punto di vista positivo, forma anch’esso una parte del paesaggio mediterraneo, di una evoluzione che non si sa bene dove ci porti. A me non dispiace, non mi deprime vedere come un bosco per esempio invada i bancali e che i bancali si rompano. È come un dato che andiamo a cogliere, ad assumere, a far nostro: si è esaurita la stagione sopra la montagna e ora è al bosco che tocca recuperare il tempo perduto. Non mi preoccupa questo perché sono molto cosciente di quanto stia succedendo; a me non interessa un tipo di paesaggio come fanno gli svizzeriche è falso. II punto del ‘abbandono’ per me, ha in sé il messaggio che siamo a un certo momento della vita, né migliore né peggiore, ma un punto determinato di un ciclo. DC: Tu stai lavorando ad un libro che tratta in un certo senso del ‘oltre il progetto del paesaggio’, cioè della problematica legata alla manutenzione e l’evoluzione dei progetti di paesaggio vero? Esiste in questo una ve-
lata critica di ‘superficialità’ per l’operato di chi arriva all’effetto realizzazione senza considerare invece lo scorrere del tempo (crescita delle piante, deterioramento e manutenzione dei materiali, cambiamento generale di un assetto…) come dato anch’esso invece insito nel progetto? TG: Nel libro2 fornisco molti punti di vista, ma in quasi tutti spiego come interpreto l’idea di questa evoluzione. Mi interessa molto ricondurre quello che spiego a una scala più grande. Se parlo di vasche d’acqua, di piscine per esempio, mi interessa spiegare il ciclo idrologico; il comportamento dell’acqua e in che punto di questo ciclo arriva il mio intervento; è cioè l’invito ad essere coscienti in ogni momento di quello che sta succedendo. Non mi interessa dare ricette, ma dico che quando raccolgo l’acqua so quello che sto facendo perché lo riconduco al ciclo idrologico per poi tornare al caso specifico. Sembra una sciocchezza ma non lo è affatto. Nel progetto come quello che abbiamo realizzato a Cerdanyola del Vallès, mi interessava spiegare al politico e in quel caso lo feci perché ci credevo moltoche il parco doveva evolvere in una maniera concreta e che una parte del parco sarebbe appartenuta alla montagna e un’altra parte al paese. Io avevo infatti
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progettato un intervento che era ‘unico’, ma che si sarebbe poi evoluto in due maniere distinte. Mi interessava spiegare cioè che io intervenivo in un momento specifico pensando però a due evoluzioni distinte. Nel libro spiego tutto questo; così come racconto anche la storia di un antico filare di alberi in Francia che la Compagnia Elettrica p er permettere il passaggio dei caviaveva tagliato, per un intervallo di sei metri di distanza, producendo quindi un effetto barbarico nell’assetto di queste piante, rimaste come colonne mozzate. Chiamarono allora un signore perché potesse risistemare questo allineamento e quello che lui fece fu terminare di tagliarlo e a ritmo di due o tre alberi sostituirli progressivamente con altri piccoli nuovi. Per un periodo quindi sono rimaste le colonne senza vita delle vecchie alberature mentre venivano man mano crescendo le nuove piante. Lui mi spiegò una cosa molto bella dicendomi che questo intervento apparteneva ad un dato momento dell’evoluzione di questa linea alberata; cioè, l’antico filare ha subito un incidente e noi ora lo andavamo a risolvere. Non ci si doveva scandalizzare per questo. Questa linea un tempo non esisteva; qualcuno evidentemente la ha piantata ad un certo punto
e ne sono cresciuti alberi meravigliosi, poi sono stati tagliati accidentalmente e ora sono stati sostituiti, per cui nell’arco di alcuni anni ne esisterà una nuova. È questo modo di sganciarsi da un’immagine e vedere le cose dal punto di vista del loro funzionamento e della loro evoluzione quello che mi interessa di più. Saper dare valore a quello che è l’evoluzione delle cose, a questo processo: io credo che si possa intervenire in questo processo. L’ultimo progetto su cui ho lavorato, un parco a Granollers, è costruito da masse vegetali che vanno crescendo e sulle loro testate terminali vi si inseriscono alcuni portali di acciaio-corten. All’inizio non si percepivano bene le siepi quanto invece, questi grandi elementi di corten, e già così risultava molto suggestivo. Ora, con il passare degli anni, la vegetazione è cresciuta e le testate di metallo sono quasi scomparse alla vista; i setti vegetali sono diventati fitti e alti. Con questo intendo dire che i paesaggisti e coloro che intervengono nel paesaggio dovrebbero cercare un meccanismo per intervenire; controllare il processo fin dal principio: so che pianto piante giovani ma ne vado a controllare anche il loro assetto progressivo futuro. Io credo che il libro che sto scrivendo, sia so-
prattutto una riflessione da molti punti di vista e su differenti paesaggi. Prendo molti esempi, ma li ‘visito’ e li spiego per come io voglio vederli. Una riflessione che cerco di fare sui progetti secondo un’altra maniera di leggerli. Può capitare che ci veda cose che il suo stesso autore non voleva esprimere, o disconosce, ma anche questo mi sta bene. È la mia interpretazione del paesaggio. Parlo delle infrastrutture, di tutti gli attori coinvolti nel paesaggio che sono anche per esempio i signori della Compagnia del Gas. Loro hanno delle linee che marcano il paesaggio, canalizzazioni che sono importantissime, interrate, ma con cui bisogna fare i conti sempre. Invece di pensarla come una condizione negativa diventa quasi un indirizzo per intervenire, esattamente come lo sono i fenomeni di erosione, il vento, l’acqua, un tipo di coltivazione. Io credo che il buon paesaggista sia chi sa risolvere tutti questi problemi, per quanto non siano questi i più complicati. II tema è il prevalere di alcuni problemi su altri: Corajoud, per tornare al progetto che citavo prima, credo che risolva un problema, poi un altro, poi un altro ancora come se tutti fossero allo stesso livello e avessero uguale importan-
Daniela Colafranceschi Dialoghi sul Progetto di Paesaggio Mediterraneo. Teresa Galì e ‘il lusso della povertà’
za. È un buon tecnico in questo senso, perché risolve un tema di circolazione o perché trova una soluzione ai problemi di vandalismo ponendo una barriera, ma penso che il valore che invece mette in campo Simon, quello della scommessa, che magari implica anche di non riuscire alla sua soluzione, sia più indagata, più messa a ‘rischio’ con il progetto. Inoltre, per tornare a questa città, penso che ora a Barcellona il Dipartimento di Parchi e Giardini stia facendo un’operazione che potremmo definire ‘umanitaria’ sugli spazi pubblici avanzando l’esigenza che i bambini abbiano l’opportunità di giocare nelle piazze e che quindi vengano collocati i giochi per i bambini, utilizzando una pavimentazione adatta a che non si facciano male quando cadono, e tutta la città si va evolvendo in questo senso; così, gli anziani hanno bisogno di giocare a bocce e quindi si installano i campi da bocce, e mentre tutto questo viene allestito, lo spazio pubblico perde il suo valore e la sua identità. Io credo che viviamo un momento di cambiamento, anche perché la forza, il peso politico che aveva prima il Dipartimento di progetti Urbani del Comune non è più lo stesso, e stiamo via via convertendo la città in un’altra cosa. Eppure i bambini hanno da sempre giocato a ‘campana’, a
giochi dove era sufficiente disegnare a terra delle linee; si potrebbe continuare ad insegnare ai bambini come con niente, si possa raggiungere un valore nel gioco. A Barcellona, è una questione di spazio e di convivenza. Siamo qui ad un bivio: o si insegna ai figli ad interpretare il paesaggio tornando a quello che dicevo di una conoscenza di cicli più ampi che ci appartengono, come arte di insegnareo prevarrà una dimensione differente e sempre più lontana. Questo distanziamento esiste. Siamo stati ad interpretare il paesaggio fino ad ora e adesso c’è la tendenza a posporlo al valore di una città più ‘umana’ nel senso che si diceva prima. Sono le discussioni che si stanno facendo adesso: a me, che una signora mi dica che un bambino di cinque, sette anni necessiti di giochi colorati e di colori che non siano molto violenti, mi spaventa. Non si gioca più a campana o con la corda, eppure c’erano tantissimi giochi di questo tipo che facevamo e che si sono dimenticati. È quello che dicevo prima, di dover stare attenti altrimenti ti isoli e ti metti in un altro mondo, un’altra dimensione.
DC: Tu hai studiato ingegneria agronoma e poi come hai continuato i tuoi studi? TG: Ho fatto una specializzazione in paesaggio alla scuola di agronomia che ora non esiste più. Poi sono stata a lavorare in Francia con Chemetoff e al ritorno mi iscrissi al quarto anno di Ingegneria Forestale a Lerida e ho lavorato con architetti per tutta la mia vita. Sto quindi sempre su due dimensioni: quella dell’architettura, degli architetti che indubbiamente pensano in un modo, e quella degli agronomi, o dei forestali che pensano in un altro. Tra loro ci sono anni luce di distanza. DC: La tua professionalità ti permette ti permette un atteggiamento di avanzamento e sperimentazione sul tema del progetto di paesaggio. Quanto ti spingi avanti nell’innovazione dell’uso delle essenze botaniche, dell’uso dei materiali tradizionali, nell’adozione di materiali altri nei tuoi progetti e quanto è importante questo per la tua ricerca? TG: Per me è molto importante questo aspetto, la prova, la sperimentazione e in particolare, proprio per il momento che viviamo ora. Perché probabilmente ho l’impressione, la vocazione di far pensare le persone, di far ri-
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flettere sul perché facciamo una data cosa e non un’altra. Perché mi dicono che devo piantare gli alberi a quattro metri? E se li pianto a due, che succede? È un lavoro veramente difficile perché hai una pressione tanto forte da parte dei politici, dei tecnici, di temi e problematiche che non sono alla tua portata, che non puoi controllare. Io credo che innovare sia scommettere su qualcosa. Per esempio a Barcellona si è innovato molto. Dall’alto q uesto Io diceva anche Corajoudsi è avuta molta ‘generosità’ in questo senso; presero ad un certo momento gente giovane che facesse prove, che sperimentasse; è chiaro che tra queste prove di spazio pubblico che si sono fatte nei primi dieci anni, ci sono molti disastri, molti errori, però poi si è fatta una selezione e si è preso il meglio di questa esperienza e, sono passati già venti anni. Il tema del giardino per esempio mi interessa moltissimo. II giardino di questo cliente che citavo prima è l’evoluzione e l’innovazione di qualcosa che bisogna sempre spiegare, su cui sempre intervenire e il cliente a volte si innervosisce, ma è un tema che mi ha fatto molto pensare. Penso che il mondo più sia vario più sia migliore. Perché a volte chiudiamo le porte a tentativi nuovi? E con questo giardi-
no ho cominciato a riflettere su come potesse essere il giardino che io desideravo, e pensavo molto che questo è per me domandarmi e realizzare come possa essere un giardino di fine secolo. Come cioè può essere oggi l’oasi del deserto. Io ho molto chiaro che tornare a recuperare o ad imparare dalla natura, tornare a vivere ad un certo ritmo del tempo è importantissimo. Corriamo tutto il giorno come pazzi, ma se ci fermiamo a vedere un giardino, verifichiamo che le piante vivono e crescono ad un altro ritmo; il ritmo che sempre hanno avuto. È come un riferimento questo, una misura delle cose; anche attraverso questo giardino, ogni volta lo vedo più chiaramente: è un giardino dove il ritmo delle cose, il tempo hanno un’altra dimensione. II paesaggio, lo spazio pubblico hanno insiti questi valori. Perché li chiamiamo ‘abbandonati’? Perché diciamo ‘male erbe’, ‘erbacce’ quelle che vi crescono? Sono le prime che nascono avranno pure un valore! Nel mio libro c’è un capitolo in cui spiego come in quattro o cinque zone differenti, di mare, di montagna, etc. quando abbandoni un tipo di spazio, vi cresce un determinato tipo di pianta. Io trovo meraviglioso che abbandoni un campo nell’Empordà e vi inizia a cre-
scere la stessa pianta che cresce dal lato opposto della regione. Perché, ogni abbandono ha le su regole e te Io dimostra, lo manifesta, senza sbagliare mai. L’ortica per esempio cresce in presenza di molta materia organica; una tale presenza di materiale organico può verificarsi a Tarragona o a Lerida. Ebbene, crescerà Io stesso tipo di ortica. Questo ti fa rendere conto di quanto il paesaggio ti vada continuamente informando; ha le sue leggi proprie e, se te ne rendi conto e gli sai dare un valore, e le sai vedere con altri occhi, questi valori possono far parte di un progetto. Potrebbero sembrare sciocchezze ma non è così. DC: Se dovessi scegliere tre parole per esprimere il paesaggio mediterraneo, quali sceglieresti? TG: Sembra uno scherzo ma credo che sceglierei: bueno, bonito y barato (buono, bello ed economico); questa è una espressione analoga ad un’altra (maschilista) che si usa qui quando all’uomo si chiede come vorrebbe fosse la sua donna: rubia, rica y rucca (bionda, ricca e tonta).
Daniela Colafranceschi Dialoghi sul Progetto di Paesaggio Mediterraneo. Teresa Galì e ‘il lusso della povertà’
DC: Tu credi che abbia senso parlare di progetto di un paesaggio mediterraneo? Esistono cioè specificità particolari nostre, di questo ambito che contraddistinguono i nostri spazi e i nostri progetti? TG: Si, almeno qui senz’altro. Ad Alicante, o a Malaga non saprei. Penso che il clima per esempio ci condiziona molto. La città del Mediterraneo è sempre stata nel Mediterraneo e per quanti Burger King, Ikea o Autostrade possano aprire, la gente sempre si muoverà in un altro modo; cioè la gente passeggia, va in spiaggia, vive la strada, questo determina che lo spazio pubblico sia in una maniera e non in un’altra. DC: Qual è un parco o un giardino secondo te che bene interpreta questo carattere? TG: Per me, un esempio chiaro di una interpretazione di paesaggio mediterraneo è il Parc Güell. II Parc Güell è il percorso di un cammino in un luogo che ha una pendenza, ne raccoglie l’acqua, costruisce una piazza al sole, che a sua volta ripara il mercato ospitato all’ombra; all’interno delle colonne l’acqua viene raccolta e convogliata all’elemento centrale che diventa fontana; e, ancora, è il belvedere della città. Tutte componenti che per me parlano di una attitudine, di un
comportamento. Quello che ti sta insegnando questa opera è di una ricchezza straordinaria. Del Parc Güell mi incantano una serie di cose che trovo interpretazione diretta del Mediterraneo. Tra quello che si fa oggi non saprei scegliere un progetto. Io penso che gli architetti hanno sempre il problema che iniziano le cose a partire dalla forma. E quindi interpretare solo con la forma non è sufficiente. Se tu sei capace di capire come si può raccogliere l’acqua — senza il bisogno di farlo come lo fa il contadino — puoi realizzare una cosa anche molto moderna, ma l’attitudine è importante che rimanga questa, che è quella del Mediterraneo. È come dire: dal momento che siamo poveri, facciamo il meglio con quello che abbiamo! Questo atteggiamento, questo modo di progettare non credo ci sia nessuno che Io adotti, oppure si fa, ma aggiungendo anche dell’altro; d’altra parte esiste sempre l’influenza della Scuola in questo senso. II Paseo Maritimo della Barceloneta per esempio mi piace molto è ben fatto, una superfice di pietra, i suoi bordi realizzati perfettamente e si capisce che Jordi Henrich e Olga Tarrasò (architetti autori del progetto ndr) non vogliano spiegare più cose di quanto non serva. Lo fanno bene e la città glielo riconosce.
NOTE Daniela Colafranceschi, Ricerca CNR-NATO (Advanced Fellowships Programme) presso la UPC — Universtat Politecnica de Catalunya, ETSAB Barcellona: Un Mediterraneo. Il progetto del paesaggio contemporaneo: Barcellona e la Catalogna. Responsabile Prof. Eduard Bru i Bistuer (1998-99). In questo stesso periodo, conduce stage presso il Comune di Barcellona, nel Dipartimento Progettazione Urbana e Spazi Pubblici. 2 Il libro a cui si riferisce, sarebbe poi stato pubblicato nella collana Land&Scapes: Galì T. 2013, Los mismos paisajes/ The Same Landscapes, Gustavo Gili ed., Barcellona. 1
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Dal giardino alla Land Art. Percorsi attraverso l’arte e l’architettura del paesaggio Nicoletta Cristiani
L’interesse dell’arte al giardino e al paesaggio è storia antica: il giardino infatti è luogo per eccellenza, spesso simbolico e antichissimo, del rapporto atavico dell’Uomo con la Natura, conflittuale, amoroso, profondissimo; è il primo luogo conosciuto dall’uomo come propria emanazione, il recinto nel quale esprimere, nello spazio immediatamente al di fuori della caverna, la propria visione del mondo, e di cui può avere diretta gestione: come tale, dai tempi più antichi, oggetto di speculazione dell’arte. (Pizzoni, 2010)
La pittura è sicuramente quella che, tra tutte le arti, ha avuto una maggiore influenza e un rapporto solidale con il giardino, costituendo inizialmente una rappresentazione concreta di esso. È infatti la prima e più importante fonte di documentazione e di studio dei giardini del passato, anche di quelli che nei secoli sono scomparsi. Il rapporto tra arte e giardino, però, non si limita solo alla loro reciproca influenza, ma in quanto rappresentazione della realtà diventa un veicolo di comunicazione che consente di comprendere le diverse percezioni che si avevano del giardino, e da questo potere comunicativo emergono due aspetti fondamentali e contraddittori allo stesso tempo: l’aspetto effimero o temporaneo del giardino che come luogo di dimora delle piante è simbolo di caducità, infatti se abbandonato scompare velocemente o almeno ne scompare la sua composizione, e il suo essere allo tempo stesso luogo di delizia e forma d’arte riconoscendo a quest’ultima il ruolo d’interpretazione e di denuncia critica della realtà. L’aspetto effimero dei giardini è stato un tema fondamentale nel dibattito internazionale fin dai primi anni del Novecento, favorendone la realizzazione, prima nell’Esposizioni Universali poi nei più recenti Festival internazionali. Il giardino effimero ha costituito un importantissimo veicolo di divulgazione e sviluppo della cultura paesag-
gistica, portando questo tema all’attenzione di un numero sempre maggiore di persone, divenendo spesso ispirazione per l’espressione artistica, ma soprattutto contribuendo in maniera fondamentale alla notevole commistione tra disciplina artistica e disciplina paesaggistica alla quale si va assistendo negli ultimi anni. (Pizzoni, 2010)
Considerare il giardino come forma artistica significa riconsegnargli, come è stato nei secoli passati, la possibilità di essere espressione anticonvenzionale e alternativa della realtà. Volendo tracciare l’evoluzione del rapporto tra arte e giardino, appare evidente come questo si sia modificato a seconda delle arti che con il giardino hanno stretto legami e dei ruoli svolti dall’una o dall’altro all’interno del panorama culturale. Ad esempio, in epoca romana tale rapporto si esplica in particolare attraverso la pittura, infatti nei giardini e nelle stanze interne della domus essa era mezzo attraverso il quale si rappresentava il reale, mentre la scultura concorreva nei giardini delle ville imperiali a rappresentare realtà mitologiche o narrazioni omeriche con un ruolo esclusivamente estetico e iconografico. Nel Medioevo, invece, il giardino, al pari di altre arti, si evolve divenendo esso stesso veicolo simbolico e testo di un racconto che, attraverso simboli ed allegorie, rappresenta e descrive il mondo reale o immaginario. Da hortus conclusus, simbolo religioso della forza generatrice di Dio e luogo di contemplazione, il giardino si evolve in seguito per diventare luogo di delizia e piaceri terreni: nasce così l’arte dei giardini in epoca rinascimentale. Nel Seicento in Francia, il giardino acquisisce il valore rappresentati-
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vo del potere dei suoi proprietari, attraverso il suo aspetto scenografico e le dimensioni sconfinate. Si viene a creare in questi secoli un diverso rapporto tra il giardino e il paesaggio circostante. Nel XVIII secolo una nuova sensibilità nei confronti del paesaggio e della natura, propria della cultura illuministica, inizia ad affacciarsi sulla scena internazionale e i giardini troveranno nuovamente nella pittura la maggiore fonte d’ispirazione. A cavallo tra XVIII e XIX secolo la pittura prende definitivamente il sopravvento sulla scultura, l’architettura e il teatro nella costruzione di giardini che non sono più paesaggi disseminati di templi, rovi-
ne e statue, con un preciso intento narrativo, ma si costruiscono come quadri da apprezzare. La pittura non è più riferimento e ispirazione, ma criterio di progettazione e il giardino viene ad avere un valore estetico che si sostituisce completamente a quello simbolico. Il giardino diventa ‘pittoresco’: la pittura è ormai la prima, se non l’unica, arte connessa al giardino in un rapporto di influenza reciproca (Pizzoni, 2010). Il Novecento, invece, sembra segnare una battuta di arresto nel dibattito sull’idea del giardino, anche a causa dei grandi sconvolgimenti sociali portati dai conflitti mondiali, mentre nel XX secolo è la fo-
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Nicoletta Cristiani Dal giardino alla Land Art. Percorsi attraverso l’arte e l’architettura del paesaggio
Fig. 1 Gabriel Guévrékian, Jardin deau et de lumiere.
tografia a prende ben presto il posto della pittura, come strumento principe della rappresentazione della realtà con la conseguenza che l’arte figurativa, non potendo più rappresentare questo aspetto, si spinge oltre fino ad interpretarla attraverso una sintesi di astrazione. Da questo nuovo corso preso dalle arti, nasce un nuovo rapporto tra arte e giardino, diventando luogo di sperimentazione e interpretazione della realtà. È in questo preciso momento, in particolare negli anni a cavallo della Seconda Guerra Mondiale fino ai primi anni Cinquanta, che l’arte contemporanea, intesa come arte del XX secolo, ha influenzato la struttura e la forma del giardino ed è anche il momento in cui l’architettura moderna comincia a prender in considerazione il problema del giardino e ad avvertire la necessità di creare una tipologia di giardino conforme ai principi della nuova architettura. Gli architetti moderni cercarono di affrontare il problema del giardino sostanzialmente in tre modi: in primo luogo estendendo al giardino i principi e le forme dell’arte e dell’architettura moderna, prendendo come riferimento la tradizione del giardino formale e aggiungendo le innovazioni proprie delle loro discipline; in secondo luogo accogliendo alcuni elementi del giardino informale, come il landscape garden, che potevano essere compatibili con una concezione architettonica, e infine cercando ispirazione in altre tradizioni e culture, soprattutto quelle orientali. La prima via era apparentemente la più semplice, ma in realtà la più difficile da percorrere perché il funzionalismo contraddiceva il carattere ornamentale del giardino. Più fruttuoso fu il confronto con il giardino informale e il suo assortimento di prati e alberi, il cui carattere libero e naturale crea un contrasto stimolante con le linee rigide dell’architettura. Nello stesso modo, funzionano ben anche alcuni elementi del giardino giapponese, composto da elementi organici e inorganici posti a contrasto con gli elementi formali. Più
che l’architettura fu la pittura a offrire elementi di ispirazione al giardino moderno, e in particolare l’Astrazione organica e il Surrealismo astratto, con le loro linee sinuose. Elementi del Surrealismo astratto si trovano in tutti i giardini moderni, da quelli di Christopher Tunnard, Thomas Church, Richard Neutra a Sørensen, Maria Stephard e Pietro Porcinai. Nella pratica, tutte queste opzioni verranno combinate tra loro in proporzioni variabili e sono ancora oggi alla base del ‘giardino degli architetti’. (Giubbini, 2013)
Il Novecento è stato anche il secolo da alcune significative novità: la prima, derivata dalla scienze botaniche dei primi decenni del secolo, è l’attenzione per il carattere ecologico delle associazioni vegetali, contro la tendenza del secolo precedente di associare le specie in base alla loro colorazione e al loro effetto estetico; la seconda ha le sue origini non nella scienza ma nell’arte contemporanea e in particolare nella Land Art, la quale si rivolge non più alla scala architettonica ma, a quella monumentale e più ampia del paesaggio. Per questi motivi il giardino con la sua dimensione fisica ridotta rimane estraneo alla scala grandiosa degli interventi sul paesaggio della Land Art americana, ma non a quella più minuta della Land Art inglese. Il movimento nasce verso la fine degli anni Sessanta, in un’epoca di grande fermento che segna un forte cambiamento in tutta la cultura occidentale. Un gruppo di artisti, dapprima negli Stati Uniti e quasi contemporaneamente in Inghilterra, avvertendo la crisi dell’arte figurativa inizia ad esplorare nuove modalità di espressione alla ricerca di una dimensione che permetta di uscire dallo spazio della tela. Il carattere distintivo della Land Art è che non è il paesaggio a essere informatore dell’arte, ma viceversa è l’arte ad interrogarsi per prima sul ruolo e il significato della natura nel mondo con-
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temporaneo, riprendendo l’antico rapporto antitetico tra Uomo e Natura. I primi interventi di Land Art non erano affatto improntati all’effimero, anzi, spesso erano portati ad assumere un carattere definitivo e particolarmente d’impatto nei confronti del paesaggio, nel senso che ne modificavano profondamente la morfologia e la percezione di esso; sono invece i britannici a spostarsi su aspetti più effimeri delle proprie opere. Il movimento della Land Art in Inghilterra assume caratteri assai diversi da quelli proposti dagli artisti statunitensi, distinguendosi per un approccio molto più fisico allo spazio esterno: da un confronto con il paesaggio a grande scala si passa dunque a un’interrelazione profonda e diretta con gli aspetti più minuti della natura, l’opera diviene di piccola scala e temporanea. Facendo riferimento proprio a quello che avviene in Europa e in particolar modo in Inghilterra, l’intreccio tra ricerca artistica di avanguardia e arte del giardino ha offerto le soluzioni più diversificate e stimolanti anche nell’ambito più ristretto e confinato del giardino. Il rapporto con il paesaggio che si sviluppa da queste correnti artistiche, sia su grande scala che su piccola, arriva poi a influire con grande forza anche su progetti di architettura del paesaggio che ne sono direttamente influenzati per la tipologia di materiale con cui anch’essi utilizzano e per i paesaggi che trasformano. L’Architettura del paesaggio intesa sia come disciplina che come figura professionale, che nasce proprio in quegli anni, ha inizialmente delle difficoltà a prendere ispirazioni dal Movimento Moderno e dal-
la avanguardie artistiche del secolo, perché il suo linguaggio è ancora profondamente legato al naturalismo dei giardini inglesi. Nella letteratura possiamo, infatti, riscontare un silenzio legato a questi temi, che può spiegarsi con il fatto che la disciplina ha preso negli anni successivi strade diverse, più legate ad aspetti ecologici conseguenti anche alla pubblicazione del libro Design with Nature di Ian McHarg, il quale ha indirizzato la ricerca e gli interventi progettuali su tematiche lontane da valutazioni di carattere estetico. Ancora oggi, gli architetti del paesaggio sono esitanti nell’associare se stessi agli artisti. L’idea generale è che se associata ad un’arte il valore e la professionalità dell’Architettura del paesaggio viene messa in discussione e, inoltre, ancor peggio se pensata solo ed esclusivamente come una forma d’arte, può essere considerata come qualcosa di non necessaria. L’Architettura del paesaggio è senz’altro di più di questo ma allo stesso tempo è una professione che combatte con la propria identità e con la capacità di definirsi esattamente. A tal proposito John Dixon Hunt (1996, 6) afferma che contemporary landscape architecture is very diverse […] spreading itself across a wonderfully wide range of human territories, seems doomed to lose its sense of coherence(s), of shared energies because of the failure to attend to any conceptual concerns.
Queste opinioni, a volte contrastanti, su ciò che è l’Architettura del paesaggio e su dove le arti si inseriscono nella professione, creano un senso di disagio a livello professionale, rappresentato dalla paura
Nicoletta Cristiani Dal giardino alla Land Art. Percorsi attraverso l’arte e l’architettura del paesaggio
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Fig. 2 Double negative, Michael Heizer. Fig. 3 Cimitero Militare germanico della Futa, Firenzuola. Foto di Nicoletta Cristiani.
dell’arte e dalla preoccupazione che l’ingegno umano possa mettere in pericolo la terra e i suoi equilibri, riprendendo così la vecchia opposizione tra scienza e arte. (HUNT, 1996). La ricerca di nuovi linguaggi per l’interpretazione e la trasformazione del paesaggio è invece fondamentale poiché viviamo in un’epoca in cui, come sostiene Hans Belting, l’interesse delle scienze naturali nei confronti di linguaggi comunicativi non verbali è attualmente crescente tanto da porre il linguaggio dell’arte come uno strumento di comunicazione verso la società e come uno strumento che incrementa la possibilità di un dialogo interdisciplinare.
Questa citazione ha origine dal fatto che le principali questioni della nostra epoca riguardano le relazioni critiche tra Uomo e Natura e poiché l’Architettura del paesaggio contemporanea svolge il suo ruolo proprio all’interno di questo rapporto, è evidente che anch’essa è alla ricerca di nuovi linguaggi di comunicazione non verbale per uscire dalla crisi di cui essa stessa fa parte. Lo scopo di un tale linguaggio contemporaneo non sarebbe solo quello di ottenere un bel progetto, ma anche di contribuire ad aumentare la percezione sociale del paesaggio. Negli ultimi anni, queste considerazioni hanno portato a richiedere un linguaggio adeguato anche e soprattutto nei progetti di spazio pubblico, tema assai caro all’Architettura del paesaggio contemporanea, che come diretta discendente dell’Arte dei giardini è considerata una delle forme d’arte più importanti ed influenti, ed è chiamata a partecipare alla ricerca di una nuova forma d’espressione. La preminenza, durata quasi cento anni, della qualità estetica nell’Architettura del paesaggio è stata abbandonata a favore di funzionalità, aspetti sociologici e considerazioni ecologiche. La perdita di forza espressiva e di stimoli da parte della società attuale hanno
avuto gravi implicazioni e hanno segnato l’inizio di uno sviluppo che è risultato essere carico di inespressività. Né la ripetizione costante del vocabolario classico del giardino barocco o del giardino paesaggistico, né il ritiro ai mezzi puramente funzionali possono essere accettati come forme contemporanee di dialogo tra l’uomo e la natura. La ricerca di una via d’uscita da questa crisi e il crescente rigetto di un puro approccio tecnologico hanno portato ad una maggiore reintroduzione dell’arte come unica strumento di comunicazione non verbale (Weilacher, 2015). Alla luce di queste affermazioni, appare evidente che la ricerca dovrà dirigersi verso l’individuazione di linguaggi non verbali artistici contemporanei che possano influenzare e intervenire attivamente nei progetti di trasformazione del paesaggio e in particolar modo dello spazio pubblico e verificare se e in che modo questo approccio alla progettazione può facilitare i processi percettivi e di riconoscibilità da parte della popolazione.
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20160216, Firenze Gabriele Paolinelli
Questa mia introduzione, alla conferenza di Lynn Kinnear, non ha i toni ed i contenuti tipici della discussione scientifica. La ragione è semplice e va detta, nonostante possa risultare ovvia ed evidente. Open Session ON LANDSCAPE è un ciclo che nasce in una sede scientifica, quella del dottorato di Architettura, nello specifico del curriculum di Architettura del paesaggio. La ricerca, la discussione e la critica che nutrono la cura del programma di ogni edizione fanno sì che le conferenze siano tenute da esponenti dell’Architettura del paesaggio portatori di peculiari elementi di interesse scientifico, tecnico, culturale. Un lavoro scientifico si compie dunque con la programmazione. Ma sapete che le Sessions sono Open. Questo senso di apertura, necessario ed interessante, è sostanziato dal fatto che la discussione può continuare in diretta, con gli ospiti. Con questa premessa, vengo a proporvi una breve lettura personale dell’opera di Lynn Kinnear e dello studio che ha fondato e coordina.
Nei nostri corsi universitari di Architettura del paesaggio si studia il lavoro di Lynn Kinnear. 20 premi e riconoscimenti in 20 anni. Sono dati semplici che non hanno bisogno di commenti e che potrebbero essere sufficienti a motivare la cosa, fornendo autorevoli garanzie di qualità. Voglio invece proporvi alcuni altri ‘perché’ tra i molti motivi di interesse per i quali abbiamo invitato Lynn Kinnear a tenere una conferenza. Lo faccio attraverso tre coppie di parole che ritengo significative e che a mio avviso indicano Una esperienza esemplare di architettura del paesaggio. Queste parole sono: paesaggi & persone scale & dimensioni materie & segni I paesaggi e le persone sono soggetti inscindibili nella concezione progettuale, con cui Lynn Kinnear interagisce, nutrendo il processo interpretativo e creativo. Penso che lo faccia ben prima di addentrarsi nelle scelte compositive. I paesaggi e le persone agiscono infatti nell’affascinante stato di tensione da cui si viene investiti quando si tenta di dare risposte alle esigenze di interpretazione della realtà. Questa è sempre complessa, sfuggente, mutevole. Il confronto con la realtà è necessario per evitare l’astrazione progettuale, per ‘stressare’ le idee con la ricerca di profondi fondamenti per il loro sviluppo. Nelle interpretazioni della realtà, la partecipazione è una leva potente per la generazione di processi di trasformazione di luoghi e paesaggi anche attraverso fattori endogeni, che questi presentano attivi o quiescenti. Lynn Kinnear ci mostra come può essere proficuamen-
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te utilizzata nel progetto di architettura del paesaggio, sia esso per la riqualificazione di un piccolo spazio pubblico, come per lo sviluppo di una strategia di ampio respiro. Dalle Downlands di Londra al campo giochi di una scuola primaria di Hackney si osserva un esteso spettro di variazione delle scale dei problemi. Per questo, vengono utilizzate tecniche diverse per trattarli. Non tanto le dimensioni spaziali, quanto le complessità relazionali, sono variabili determinanti per il processo progettuale. La ricerca della semplicità, intesa come essenzialità, è un denominatore comune a tutte le scale, tanto più evidente quanto più i problemi progettuali divengono complessi. Ciò vale per la concezione di una strategia di scala vasta, quanto per la composizione morfologica e materica finale di un piccolo spazio. Trovo che un altro denominatore importante sia evidente nella ricerca di relazioni forti tra le capacità funzionali e le capacità espressive dei luoghi progettati e dei paesaggi a cui essi appartengono. Penso che nei suoi progetti Lynn Kinnear tragga importanti lezioni dai paesaggi, dai quali è possibile imparare a trattare l’espressività come ricerca dell’essenziale e ad usare la multifunzionalità come potente fattore prestazionale. Dico spesso che non esistono materiali ricchi e materiali poveri, ma usi ricchi ed usi poveri dei materiali. A questa evidenza se ne può aggiungere un’altra: l’architettura del paesaggio ha nelle piante importanti partners per la generazione di spazi, ma un buon progetto di architettura del paesaggio può anche non prevederne. I paesaggi infatti non sono costituiti solo dalle formazioni vegetali, dunque si deve riconoscere che il progetto di uno spazio possa raggiungere eccel-
lenti qualità di congruenza ed efficacia esprimendosi come ottima interpretazione del paesaggio anche senza che un solo albero venga piantato. La scuola appena citata, la Walsall Art Gallery ed il Normand Park sono a mio avviso dimostrazioni efficaci di questi principi. Tanto essi sono ovvi, quanto alle volte risultano banalmente ignorati o trascurati. Una composizione di segni, anche solo realizzata per tinteggiatura o fiammatura di superfici mascherate, può assumere valenza strutturale nella misura in cui è pensata per mutare il senso comune di uno spazio e di un materiale, sovvertendone i significati convenzionali. Il progetto può conferire peculiarità ai luoghi anche attraverso l’uso creativo ed accorto delle anomalie, delle eccezioni alle regole ed alle convenzioni. In tal modo possono essere innescati processi di identificazione che transitano dai luoghi alle persone e generano evoluzioni dei paesaggi dei quali entrambi questi soggetti sono parti essenziali. In altre e poche parole, vedo l’opera di Lynn Kinnear come espressione contemporanea di un modo pieno di pensare e fare Architettura del paesaggio. In Italia, tre anni fa, Anna Lambertini ha inserito Lynn fra gli autori di un testo che consiglio di praticare, sfogliandolo, leggendolo, anche per parti, purché riprendendolo per interrogarlo ripetutamente: si intola Urban Beauty. Il titolo stesso a mio avviso si attaglia al lavoro di Lynn Kinnear. Penso che la stessa autrice sia d’accordo, dal momento che ha messo una foto del Normand Park in copertina.
Gabriele Paolinelli 20160216, Firenze
È importante la ricerca della bellezza che troviamo nei lavori di Lynn Kinnear ed in quelli di numerosi altri autori della scena internazionale. Penso che sia in corso un cammino verso un senso nuovo di bellezza. Si tratta di una tensione culturale con un baricentro di cui la contemporaneità rende sempre più chiara l’esigenza. La sua posizione è condizionata da una distanza variabile ma persistente da quattro polarità: etica, estetica, ecologia, economia. La bellezza non può essere esclusiva dell’estetica, considerati i molti fattori che su di essa possono incidere. Al tempo stesso, la sostenibilità non può trascurare la bellezza. Ricordo spesso che Enzo Tiezzi ha rilasciato una delle sue ultime interviste nel 2010 ad Euronews, tracciando un quadro preoccupato del comportamento umano ma anche uno scenario positivo delle possibilità di recupero. Concluse passandoci il testimone di un bisogno essenziale. “We need to be good and to be beautifull as much as possible”. Luigi Zoja nel 2007 aveva già scritto dell’unione perduta di giustizia e bellezza, un carattere profondo della cultura classica dell’antichità greca, che l’occidente moderno ha dissolto un secolo dopo l’altro in tante e profonde separazioni. Non so se la filosofia e altre espressioni del pensiero ci condurranno ad una nuova unione di giustizia e bellezza, di etica ed estetica, trascinando ecologia ed economia o assecondando un loro buon trascinamento. Penso però che molti nel mondo stiano contribuendo e che fra questi vi siano anche architetti del paesaggio, poiché la loro opera è espressione di un pensiero che ricerca legami e unioni, in luogo di rotture e separazioni.
Forse non sarà abbastanza, ma sta accadendo. Forse non ci porterà dove vorremmo, ma pensare, comunicare, agire, provoca tensione in una direzione. Abbiamo raggiunto una tangibile esigenza di un nuovo Umanesimo, profondamente diverso da quello di cinque secoli fa. Oggi l’esperienza e la scienza ci hanno resi consapevoli di cose che ci indirizzano per lo più in una direzione opposta. Fa però eccezione un bisogno interiore della nostra specie, quello della Bellezza, che accomuna la contemporaneità alla storia che in Italia ha avuto le proprie celebri origini. Quello della bellezza è un bisogno essenziale che possiamo reprimere, lo abbiamo fatto e lo facciamo spesso, conducendo la vita nel buio ma, almeno per adesso è evidente, non possiamo cancellarlo.
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Arte e creatività nello spazio aperto e nella città costruita Lynn Kinnear
La pratica progettuale dello studio KLA (Kinnear Landscape Architects) è punteggiata da idee che sono andate evolvendosi nel nostro lavoro negli ultimi 25 anni. Ho scelto un numero di progetti chiave perché forniscano una panoramica di come queste idee vengano applicate nel nostro lavoro. Questo saggio attualmente raccoglie una grande percentuale dei nostri lavori realizzati a Londra e delle riflessioni mirate a ricucire insieme alcune questioni strategiche della città. ‘Curated Urban Realm’ Curated Urban Realm non è un semplice programma di interventi ed istallazioni artistiche all’aria aperta, è un processo tramite cui arte e progettazione possono essere usati come catalizzatori per la trasformazione nell’ambiente urbano. Questo processo di cura urbana così come KLA lo attua, è flessibile, collaborativo e ci permette di invitare artisti ed altri facilitatori a lavorare con lo spazio e con la comunità man mano che il progetto si sviluppa. La nozione di cura è cambiata rispetto al nostro originario modo di lavorare con la comunità. La nostra pratica progettuale era fondata su una stretta collaborazione con i membri della comunità volta a produrre una visione condivisa e dei progetti atti a garantire un futuro sostenibile dello spazio aperto. Questo processo oggi è condiviso con gruppi più ampi di collaboratori, alcuni locali, altri che vengono da fuori perché portino delle prospettive fresche su questioni vecchie. Queste collaborazioni nutrono il processo progettuale stimolandolo attraverso l’opinione pubblica genuina, gli imput artistici e, una alla volta, le sperimentazioni spaziali e di idee. Ne risultano innovativi interventi urbani che rispondono realmente alle sfide complesse del contesto di un luogo. Attraverso il filo conduttore della curatela, i progetti seguenti riflettono alcuni dei temi chiave del nostro lavoro,
come: la capacità degli edifici di stimolare la trasformazione delle comunità attraverso un coinvolgimento pubblico innovativo e l’inclusione nel processo progettuale, il passaggio dall’automobile alla bicicletta e lo stesso ruolo di stimolo al cambiamento fisico e sociale che la bicicletta ha nella città, un approccio al gioco che esplori la giocosità urbana nel suo senso più ampio, per tutte le età ed in tutti i luoghi della città, l’attenzione per la storia, la memoria e l’identità passata dei luoghi. ‘Blue Green network’ Nel 2040, Londra gestirà le sue acque meteoriche in maniera sostenibile per ridurre il rischio di inondazione e migliorare la sicurezza idrologica, massimizzando i benefici per le persone, l’ambiente e l’economia. London Sustainable Drainage Action Plan, GLA (2015)
La Greater London Authority (GLA) ha avvertito che alcuni dei sobborghi di Londra potrebbero fronteggiare un serio incremento del rischio idraulico persino con precipitazioni leggere di qui al 2050 se non vengono prese drastiche misure per migliorare il drenaggio delle acque in città. Londra si è espansa notevolmente da quando Joseph Bazalgette ha costruito il sistema fognario combinato più di 150 anni fa e la pressione sull’acquedotto della città non è mai stata così alta. Il 17% del suolo permeabile a Londra è andato perso negli ultimi 40 anni, perché i proprietari degli immobili hanno pavimentato i giardini di fronte ai loro edifici. I parcheggi, le strade ed i tetti aumentano la velocità del flusso delle acque piovane ed incrementano il rischio di inondazioni lampo. L’urbanizzazione ha inoltre causato un aumento della percentuale di copertura del terreno impervio che conduce a maggiori volumi di deflusso. Dei sistemi di drenaggio urbano sostenibile (SUDS) ben progettati
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Lynn Kinnear Arte e creatività nello spazio aperto e nella città costruita
Fig. 1 Progetto della Brentford High street. il progetto attraversa il regno urbano per ‘attivare la connessione’ tra la tranquilla High Street e il commerciale Golden Mile. Fig. 2 Tricicli da carico testano alternative di trasporto. Fig. 3 Il mercato mette in gioco funzioni simili a quelle di un salotto urbano per Brentford.
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Fig. 4 Il progetto per le paludi Walthamstow e il Ferry Lane, propone una migliorata ciclabilità attraverso la rimozione di una corsia bus per consentire piste ciclabili separate e un sistema di drenaggio urbano sostenibile, fatti che avvicineranno le zone umide alla strada e faranno vivere ai visitatori l’esperienza di arrivo nella Valle del Lea sin dal momento in cui mettono piede fuori dalle stazioni della metropolitana. Un approccio graduale a questa visione è necessario per portare le parti interessate dalla nostra parte.
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mimano i corsi d’acqua naturali attenuando il flusso d’acqua prima che entri nei canali, nei fiumi e negli altri corsi d’acqua, forniscono aree per raccogliere l’acqua e permettono ad essa di infiltrarsi nel terreno o di evaporare dalle superfici o ancora di traspirare attraverso la vegetazione. Trovare nuove strade per combinare acqua e paesaggio non significa solo pensare al drenaggio, l’acqua può essere usata nei giochi, per essere bevuta e per la creazione di habitat. L’acqua possiede una qualità speciale come elemento nel paesaggio e, quando le viene data priorità nell’ambiente urbano, può creare identità ed opportunità. KLA crede fermamente che sia positivo portare l’acqua con il suo sistema ecologico ed il suo conseguente habitat nel contesto urbano e, attraverso il progetto, creare una rete di spazi straordinari che riconoscano il valore del gioco, dell’ecologia e della gestione del ciclo delle acque. Bici in città: dal grigio al verde Il trasporto ciclabile si è confermato come un Sistema di trasporto di massa a Londra così come mostrano le ultime immagini del TFL che fanno vedere che nel centro di Londra i ciclisti rappresentano il 24% degli utilizzatori della strada nell’ora di punta e fino al 64% in alcune strade. Nel complesso il 16% del numero totale degli spostamenti su strada a Londra sono ora effettuati in bici il che significa 570. 000 spostamenti quotidiani, cifra che è quasi raddoppiata dai 290. 000 nel 2001.
Siccome è la forma più ecosostenibile di trasporto di massa, la sistemazione di questo numero crescente di ciclisti, è una parte fondamentale della trasformazione di Londra in una città verde. Gli investimenti per le piste ciclabili, che prima erano rimaste indietro rispetto al crescere del numero dei ciclisti, è stata affrontata con la GLA che
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ha stanziato 913m di sterline per le infrastrutture ciclabili nei prossimi dieci anni. Il lavoro di KLA esplora alcune questioni chiave quali un ruolo maggiore della bicicletta in un regno urbano che lavora di più e su come possa contribuire ad una ‘Città Verde’ nel suo senso più ampio. L’infrastruttura ciclabile come può rispondere sia al contesto che al carattere di un luogo e alle sinergie dei sistemi esistenti e potenziali all’interno del luogo stesso? La cultura della bicicletta può essere usata come un catalizzatore per spazi culturali/eventi ed inclusione? Qual è il ruolo del ciclismo nell’aumentare la salute e il benessere degli abitanti di Londra?
Alberi della foresta in città Londra ha beneficiato di estensiva piantumazione durante il periodo vittoriano, ma entro il 2100 molti degli alberi della foresta maturi scompariranno dalle nostre strade, parchi e spazi aperti e verranno sostituiti da alberi di piccole ed inadeguate dimensioni. Ciò avrà un devastante impatto negativo sulla nostra città. Gli alberi della foresta sono di vitale importanza per il futuro economico, ambientale, sociale e culturale delle nostre città. Essi hanno un ruolo fondamentale nell’attenuazione delle tempeste, nell’offrire riparo e ombreggiatura, nello screening paesaggistico, nella stabilizzazione del suolo, nello stoccaggio e sequestro del carbonio per l’aria pulita, oltre ad avere un ruolo insostituibile nel definire il caratte-
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Fig. 5 I magnifici alberi di Normand Park celebrati nel progetto. Fig. 6 Gli alberi sono illuminati di notte per aumentare la percezione di sicurezza.
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Figg. 7-8 Lavorare con i giovani e la loro identità per scoprire il motivo per cui i residenti più anziani li trovano intimidatori. Figg. 9-11 I bambini delle scuole che imparano a valorizzare ciò che già esiste nel parco e usano l’ambiente naturale per giocare.
re dei luoghi urbani. Il loro ruolo di alti e imponenti elementi verdi nella città, capaci di dominare la forma costruita è in crisi così come lo è la qualità dinamica di questi alberi che agiscono in città come promemoria del passare del tempo e delle stagioni. Il fatto che gli alberi siano rassicuranti elementi senza tempo la cui longevità testimonia il cambiamento nella città, è la chiave per l’integrazione degli alberi della foresta nella vita quotidiana delle persone. Gli alberi della foresta hanno anche un’influenza ruralizzante nella città. L’ecosistema e l’ecologia di un albero è fondamentale per il mantenimento di una città verde, vivace, piena di vita naturale. Rigenerare i boschi storici in città come “La grande foresta del Nord” nel sud di Londra è imprescindibile. Il valore di valutazione CAVAT (valutazione del capitale per servizi) degli alberi di Londra è 43,4 miliardi di sterline. Tale valutazione eleva necessariamente il valore degli alberi in un contesto di sviluppo intensivo. Fare spazio ai grandi alberi della foresta nel nostro regno urbano e nelle aree verdi è un operazione fondamentale che gli architetti del paesaggio devono caldeggiare a Londra per aumentare ancora di più il valore del terreno e produrre uno sviluppo intensivo. Normand Park Lynn Kinnear ha scelto di operare a fondo nel milieu della consultazione pubblica, poiché in quale altro modo è altrimenti possibile creare un paesaggio che interessi alle persone? (Paul Shepheard)
Normand Park è un parco locale iconico per la variegata comunità nella zona ovest di Londra. Dal suo rinnovamento il parco è diventato un punto di riferimento per l’orgoglio della comunità. Uno spazio innovativo, flessibile e di alta qualità, il parco offre agli utenti un’ampia scelta di attività quali il relax, le attività sportive e i giochi per tutti.
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Figg. 12-14 Degustazione di mele per provare l’ampia varietà di mele e discutere la nozione di intrigo al piatto. Questo workshop legò inoltre le future proposte all’uso antico del sito come meleto.
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Fig. 15 L’area di gioco è stato progettato per incoraggiare il gioco transgenerazionale. Fig. 16 Il focus di questo progetto è stato quello di far avvicinare i bambini allo sport accessibile e allo sport su ruote, incoraggiando il gioco energico.
142 Al centro del parco vi è la principale area di gioco con una zona per le bmx, un campo da baseball, un ping pong, delle aree verdi per il gioco e delle pareti per l’arrampicata. Un impianto di illuminazione celebra le meravigliose qualità degli alberi esistenti in loco utilizzando la luce per trasformare gli alberi e renderli più visibili. Un orto comunitario è collocato nel parco pubblico, un luogo in cui tutti possono far crescere i propri prodotti. È un parco fantastico e davvero curato… progettato per consentire il gioco, non imporlo. C’è una indeterminatezza nella progettazione del parco che si presta perfettamente ai modi in cui i bambini in realtà utilizzano gli spazi per il gioco.
Tre progetti artistici hanno visto la partecipazione della comunità: Gayle Chong Kwan ha lavorato con i bambini delle scuole locali, lo scrittore Paul Shepherd ha esplorato la memoria della zona con i residenti più anziani e Faisal Abdhul Allah ha condotto un progetto di fotografia e video con ragazzi difficili. I giovani vennero condotti nel cuore del nuovo parco e coinvolti in questo progetto artistico che si è concentrato sulla percezione dell’identità. Sempre loro sono stati poi parte del gruppo direttivo per il progetto artistico di illuminazione lavorando con lo studio Jason Bruges. The Broadwalk è una piazza lineare con una superficie ornamentale incisa nel cemento. La giocosità è integrata nel tessuto delle panchine del parco che fungono anche da blocchi per l’arrampicata, nelle fontanelle d’acqua potabile che sono anche elementi per giocare con l’acqua, nei ponti di legno e nelle collinette erbose che diventano terreno di gioco.
‘Drapers Field’, Il campo dei commercianti di tessuti: cucire insieme le comunità della Londra Olimpica attraverso il gioco vivace e lo sport Lo studio KLA è stato incaricato di rivitalizzare tre parchi a Leyton. Uno di questi, ‘il campo dei commercianti di tessuti’ svolge un ruolo molto importante nel cucire insieme il quartiere olimpico con le sue comunità marginali. L’obiettivo di progetto era quello di rinnovare i parchi per dare a questi quartieri nuovi spazi di cui essere orgogliosi e per aumentare i giochi e le attrezzature sportive all’interno dell’area, sostenendo l’eredità etica olimpica di un migliore accesso allo sport. Drapers Field Park comprende un percorso pubblico nel Villaggio Olimpico e il collegamento con la nuova multigenerazionale Chobham Academy, anch’essa progettata da KLA. L’obiettivo progettuale di questo intervento è stato quello di avvicinare i bambi-
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ni allo sport accessibile e allo sport su ruote, incoraggiando il gioco energico, così come la creazione di un collegamento fisico tra le comunità vecchie e nuove per contribuire a colmare il divario tra entrambi i lati del recinto olimpico. L’area di gioco è inoltre progettata per incoraggiare il gioco transgenerazionale.
Le Paludi Walthamstow La riserve Walthamstow sono di evidente pregio. Ricche di valore culturale e naturale, la loro importanza come potenziale riserva naturale è stata riconosciuta all’inizio degli anni ‘40 dal Professor Abercrombie:
Lynn Kinnear Arte e creatività nello spazio aperto e nella città costruita
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Fig. 17 Una nuova via per le zone umide: il fulcro del nucleo verde è un nuovo centro visitatori situato nel rinnovata stazione di pompaggio Marine Engine House che si trova al centro della rete di percorsi e passeggiate.
Una serie di grandi bacini infila su per la valle che si estende da Walthamstow a Enfield e nonostante ciò che ha fatto l’uomo stanno acquisendo un fascino proprio grazie agli alberi stanno crescendo intorno a loro e sulle loro piccole isole — stanno diventando riserve naturali per un gran numero di uccelli e una località di pescatori privilegiati. Queste aree sono un grande polmone a cielo aperto per l’affollato East End — la loro conservazione è essenziale… Ogni pezzo di terra aperta deve essere saldato in una grande riserva regionale (Abercrombie, 1945)
Il progetto si concentra su l’apertura di questo sito di 200 ha all’accesso di un pubblico più vasto, permettendo ai visitatori di godere e conoscere il patrimonio costruito e naturale caratteristico del sito, che è unico a Londra. Questa natura peculiare deriva dalla rilevanza del sito come un paesaggio storico produttivo che forniva acqua potabile a Londra, e dalla sua ricca biodiversità, che è di importanza internazionale per gli uccelli acquatici con SSSI e Ramsar status. Il nome del progetto suggerisce che questo sito è una zona umida, ma il processo di industrializzazione del sito ha sradicato la memoria della palude sostituendola con grandi distese d’acqua che attirano stormi di uccelli. I serbatoi furono costruiti per un intervallo di anni che va dall’epoca vittoriana al 1950 con un progetto che effettivamente riflette l’evoluzione della progettazione ingegneristica in quel periodo, laddove i serbatoi degli anni ‘50 hanno una capacità più grande e sono costruiti fuori terra con bordi in cemento, i serbatoi vittoriani invece hanno una capacità inferiore e sono interrati. Il concetto del nuovo accesso è quello di creare un ‘nucleo verde’ di paesaggio naturalizzato nel cuore del complesso dei serbatoi. I nuovi ingressi si propongono di connettere questo nucleo verde alle comunità esistenti, molti delle quali sono attualmente carenti di accesso alla natura. Un chiaro, generoso e condiviso percorso pedonale
e ciclabile per il tempo libero correrà attraverso il centro del sito collegando questi ingressi e connettendoli ai percorsi pedonali e ciclabili strategici già esistenti nella Valle del Lea. Il nucleo verde sarà in grado di assorbire un gran numero di visitatori, consentendo alle aree esterne più ecologicamente sensibili di essere protette da alti numeri di visitatori. Il focus del nucleo verde è un nuovo centro visitatori che trova spazio nella rinnovata stazione di pompaggio Marine Engine House, al centro della rete di percorsi ciclabili e pedonali. Gli habitat esistenti saranno potenziati ed estesi, per un ulteriore arricchimento e diversificazione, tramite l’aumento degli habitat per le specie protette e l’inclusione di una vasta gamma di nuove specie nel sito. La Marine Engine House e la piattaforma panoramica Coppermill godranno di viste di alto livello su questo ricco paesaggio, consentendo ai visitatori di immergersi loro stessi in questo peculiare paesaggio urbano. Il nostro approccio a questo progetto è quello di integrare con attenzione l’infrastruttura esistente per aiutare a trovare una via e riparare con cura l’ecologia del sito. Per esempio una delle più ambiziose visioni a lungo termine per il sito è quello di creare 22 ettari di canneto nei serbatoi che consentiranno di sostenere le popolazioni nidificanti di Tarabuso. Questa sarebbe una vittoria senza precedenti in un settore urbano di Londra come questo. Questi canneti potrebbero inoltre ricollegare l’immaginario dei serbatoi al passato paludoso del terreno sul quale risiedono. ‘Brentford’ Attivare la connessione Brentford ha una posizione unica in cui la ferrovia, la rete di canali e il fiume Tamigi si incontrano. Questo punto di scambio, in particolare il
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Fig. 18 «Sto cercando Brentford High Street, dove si trova?».
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Fig. 19 Un nuovo salotto urbano per Brentford. Fig. 20 I capannoni vengono trasformati da questi spazi industriali oscuri essendo ri-vestiti. Fig. 21 Le nuove facciate di legno traforato permettono alla luce di penetrare nello spazio durante il giorno e lo fanno diventare un faro di notte.
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rapporto con l’acqua, storicamente ha contraddistinto il carattere del mercato storico di Brentford. I progetti dello studio KLA hanno cercato di rifare della Brentford High Street un fulcro cittadino vivibile e di successo della città e di riaffermare la sua identità e senso del luogo. Definire Brentford High Street diventò una priorità sin dal momento in cui, durante la prima fase del progetto, un automobilista in High Street ci chiese: «Dov’è Brentford High Street?»; la High Street era diventata indistinguibile dal resto della massa urbana e questo sottolineò la necessità di riaffermare una nuova ed unica identità. Attualmente Brentford High Street deve affrontare sfide enormi: la piena riqualificazione del lato sud della strada principale e le proposte per allargare la strada principale per fornire piste ciclabili mettono la High Street in uno stato di flusso e di incertezza che sta inficiando la vitalità della strada nel breve termine. Appaiono i primi negozi vuoti e la tradizionale ampia offerta della strada sta cambiando verso un luogo dominato da fast food. Vista questa situazione sul-
la strada principale, sono stati proposti dei progetti in parallelo al nostro progetto per sostenere una nuova economia diversificata per la strada oltre a dare supporto a nuove attività nei primi anni con affitti bassi o sovvenzionati. Il progetto è stato curato dal team di KLA con l’intento di presentare una risposta diversa da un certo numero di artisti e designer come ad esempio KLA, i decoratori, gli artisti Simon Periton e Sue Ball della MAAP. Abbiamo usato le illustrazioni delle proposte per mettere in evidenza il potenziale che avrebbe l’attivazione di spazi attualmente sottoutilizzati e le possibilità di connettività all’interno dell’area. Questo processo ha consentito alle parti interessate di acquisire idee che sono state usate per guidare i termini contrattuali iniziali. Il processo di coinvolgimento della comunità locale cominciò con la produzione di un giornale e sito web chiamato The Brentford Connection. Questo raggiunse un pubblico molto ampio e vario, tra cui grandi aziende come la Glaxo Smith Klein per stimolare il loro coinvolgimento e garantire il loro impegno per il miglioramento del nucleo di vendita al dettaglio di Brentford. Il nostro approccio riconosce un cambiamento di enfasi per il ruolo locale della High Street da un semplice scambio monetario ad un maggiore scambio sociale. Fu l’occasione per formulare proposte per la valorizzazione attraverso attività ricreative e servizi locali e soddisfare la crescente domanda che Brentford High Street diventasse un luogo di incontro, di soggiorno durante tutta la settimana e una meta appetibile per molte fasce d’età. I fattori sociali come una popolazione anziana che ha più tempo a disposizione o anche la responsabilità di custodia dei bambini forniranno animazione anche durante la settimana lavorativa e non solo nei fine settimana.
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La pazienza del paesaggista Atelier Bruel-Delmar, Paris Tessa Matteini
Surimpression, superpositions, processus, transformations, révélations réécriture permanente, dans une volonté toujours progressive, jamais nostalgique, mais inscrite dans une démarche spatio-temporelle révélatrice de la complexité des territoires1 (Bruel, Delmar, 2010) Un paziente lavoro di indagine ‘archeologica’ sulle sedimentazioni territoriali (storiche, poetiche, funzionali, morfologiche, idrografiche) e il progetto paesaggistico dei luoghi stratificati costituiscono ambiti di intervento preferenziali nel percorso professionale dell’Atelier des Paysages Bruel Delmar, fondato a Parigi nel 1989. Diplomati entrambi alla Ecole Nationale Supérieure de Versailles (rispettivamente nel 1986 e nel 1989) Anne-Sylvie Bruel e Christophe Delmar, hanno convogliato all’interno del comune percorso professionale due preparazioni diverse e complementari: biologia per l’una, formazione di giardiniere alla Scuola di Breuil e primo ciclo di Architettura per l’altro. I due giovani paesaggisti si formano alla scuola di Versailles, negli anni generosi che hanno dato vita alla più interessante generazione di progettisti contemporanei, raccogliendo il testimone dai celebri insegnanti di cui seguono gli ateliers de projets e assumendone differenti ed essenziali attitudini professionali2: da Alexandre Chemetoff, l’attenzione alla scala territoriale e il rigore nel trattamento dei dettagli progettuali; da Michel Corajoud il lavoro sul piano, il disegno e le modalità di reinterpretare le criticità di un sito per concepire il progetto; da Gilles Clément, infine, la attenzione per il mondo vegetale nelle sue diverse forme e la vocazione artigianale del ‘giardiniere’ con ‘lo spirito libero e le mani occupate’3. Quello che, sin dagli esordi, caratterizza il modo di lavorare dell’Atelier Bruel-Delmar è la capacità di leggere, interpretare e svelare le
trame nascoste dei paesaggi stratificati, attraverso progetti efficaci e narrativi, che incidono il suolo con l’obiettivo di riattivare relazioni territoriali perdute o dimenticate, per riscoprire e rendere nuovamente fruibili le vocazioni di ciascun luogo, a partire dal suo spessore storico e temporale. L’indagine sulle qualità paesaggistiche specifiche del sito da progettare e l’interpretazione delle sue profondità storiche e d’uso costituiscono quindi la base essenziale per reinventare una nuova visione sistemica, costruita essenzialmente sul rafforzamento della struttura delle connessioni naturali (linee d’acqua, sistemi vegetali) e degli spazi aperti, come avviene ad esempio per il sito post-produttivo sulle rive della Haute Deûle, a Lille (2008-2015)4 o nel progetto per il parco e per la trama degli spazi pubblici per l’area Bottière Chênaie a Nantes (2008-2015)5. Due progetti di sistema che attraversano le scale, nel tentativo di riscoprire e recuperare le tracce di relazioni storiche, ecologiche e funzionali sedimentate, di riportare alla luce i corsi d’acqua prigionieri o addomesticati e, al tempo stesso, di curare il disegno del dettaglio architettonico e vegetale, per consentire ad abitanti e visitatori una nuova confidenza nell’uso dei luoghi. Accanto ai molti progetti territoriali (tra cui, oltre ai due già citati, segnaliamo quello per il quartiere della Morinais a Saint Jacques de la Lande, Rennes, Premio Progetto per le Zone umide 2013) possiamo ricordare il lavoro sviluppato attraverso gli anni dall’Atelier nell’ambito dell’arte dei giardini, dove vengono applicate, su scale differenti, ma con la stessa coerenza etica, una visione sistemica ed inclusiva ed una profonda conoscenza delle dinamiche ecologiche e relazionali. Definiti all’interno della sezione paesaggi nel volume che raccoglie le opere dello studio6, i giardini disegnati da Bruel e Delmar contengono
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Fig. 1 Domaine di Charance (Gap, Hautes Alpes). Il giardino delle graminacee con il percorso d’acqua (Atelier Bruel-Delmar 1998 — 2000). Foto T. Matteini 2014.
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Fig. 2 Domaine di Charance (Gap, Hautes Alpes). La vasca circolare della conserva d’acqua (Atelier Bruel-Delmar 19982000). Foto T. Matteini 2014.
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in effetti al loro interno i semi della complessità, oltre ad una capacità compositiva e gestionale, sperimentate e consolidate nell’ambito di una progettazione di scala più vasta7. Ma bisogna sottolineare come quello che interessa i due progettisti sia anche il portato poetico delle numerose eterotopie8 che popolano ogni giardino e degli infiniti paesaggi che è possibile scoprire all’interno della sua apparente finitezza: Lo sguardo non si è mai spinto al di là dei propri limiti, come nel giardino […]. Il giardino, se da un lato, ha la capacità di formare un paesaggio a sé, dall’altro s’inscrive all’interno di una sequenza logica che è propria dei paesaggi più complessi. Spazio eminentemente domestico, concentra al suo interno le regole che l’uomo stabilisce nel duello tra natura e artificio9.
Un tratto distintivo nel percorso professionale di Bruel e Delmar è l’attenzione per le dinamiche idrauliche10: la cura e la competenza con cui i due paesaggisti lavorano con l’acqua appartiene ad una attitudine antica, profondamente radicata nella cultura mediterranea. Non è un caso infatti, se l’interesse per queste tematiche si sviluppa a partire dal 1989, durante un viaggio in Marocco che permette ad Anne-Sylvie e a Christophe di avvicinarsi alle modalità sapienti e integrate di uso della risorsa idrica nel Nord Africa, studiando in dettaglio (e riportando in un carnet di schizzi) le forme d’acque dell’Agdal di Marrakesh, delle oasi e dei giardini delle città imperiali. Che si tratti di riportare in luce l’assetto idraulico originale, come negli spazi aperti degli eco-quartieri citati in precedenza, oppure di creare una catena d’acqua in forma contemporanea, come nei due giardini provenzali di Charance (Gap) o Salagon (Mane) la base culturale ed etica che sottende al progetto è sempre legata al rispetto delle geografie originarie dei luoghi, alla gestione intelligente della
Tessa Matteini La pazienza del paesaggista. Atelier Bruel-Delmar, Paris
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Fig. 3 Priorato di Salagon (Mane, Alpes de Haute-Provence). Le coltivazioni nel giardino etno-botanico (Atelier BruelDelmar — 1995). Foto T. Matteini 2014.
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Fig. 4 Priorato di Salagon (Mane, Alpes de Haute-Provence). Le coltivazioni nel giardino etno-botanico (Atelier BruelDelmar — 1995). Foto T. Matteini 2014.
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risorsa idrica e alla profonda comprensione delle logiche territoriali. Seguendo queste direzioni, i progetti di Bruel e Delmar s’inscrivono sulle tracce esistenti, rinnovando le forme dell’acqua per riportarla al centro dello spazio pubblico, attraverso canali alimentati da acque piovane, sistemi di raccolta zero tuyaux, fossati e noues11 che divengono connessioni ecologiche, jardins d’eaux che assicurano la gestione delle risorse idriche, ma anche la loro depurazione, grazie a una palette vegetale opportunamente selezionata12. Ed è così che, da quasi trent’anni, il lavoro dei due paesaggisti non cessa di interrogarsi sulle relazioni tra l’uomo e il suo territorio, mentre i progetti che escono dallo studio parigino propongono da un lato la rivelazione delle tracce patrimoniali che ci sono state tramandate dalle generazioni precedenti, e dall’altro la loro reinterpretazione come nuovo contesto di vita13.
NOTE Bruel A.S., Delmar C. 2010, Le territoire comme patrimoine, the territory as heritage, ICIInterface, Paris, p. 100. 2 Vedi la scheda di M. Hucliez sullo studio Bruel-Delmar, in Racine M. (sous la direction de) 2002, Créateurs de jardins et paysages, Actes sud, Arles, vol. II, pp. 339-340. 3 Clément G. 2008, Il giardiniere planetario, 22 publishing, Milano, p. 67. 4 Matteini T., Rives de la Haute Deûle. Rinaturalizzare la trama degli spazi aperti pubblici, in A. Lambertini, Urban Beauty! Luoghi prossimi e pratiche di resistenza estetica, Editrice Compositori, Bologna, pp. 224-227. 5 Matteini T. 2016, Trame resistenti/Resisting patterns, «Architettura del Paesaggio» n. 32, numero speciale in italiano e inglese per il 53° convegno internazionale IFLA, aprile 2016, pp. 86-89. 6 Bruel A.S., Delmar C. 2010, op. cit., pp. 79-98. 7 Matteini T. 2014, Atelier des paysages Bruel-Delmar. Dal paesaggio al giardino, in NIP. Network in progress, Settembre-Ottobre 2014, pp. 40-46. 8 La definizione è di Foucault, che la propone nel 1967, ma la pubblica per la prima volta solo nel 1984. Foucault M., Des espaces autres, in D. Defert, F. Ewald (a cura di) 2004, Dits et écrits, I, Gallimard, Paris. 9 Bruel A.S., Delmar C. 2010, op. cit., p. 119. Bruel A.S. 2017, Governare le acque in L. Latini, T. Matteini (a cura di), Manuale di coltivazione pratica e poetica per la cura dei luoghi storici ed archeologici nel Mediterraneo, Poligrafo, Padova (in corso di stampa). 11 Simile ai raingarden, si tratta di un fossato poco profondo e coperto di vegetazione, per captare le acque superficiali, generalmente in ambito urbano. 12 Bruel A.S. 2017, op. cit. 13 Ibidem. 1
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L’acqua, risorsa del progetto urbano Anne Sylvie Bruel, Christophe Delmar
Gli strumenti di irrigazione L’acqua come risorsa Fu in occasione del nostro primo progetto, il giardino etno-botanico di Salagon, e di un viaggio in Marocco che questo tema dell’acqua, così presente nei giardini del Mediterraneo, ci apparve come uno strumento indispensabile per il paesaggista. L’intelligenza dei giardini della Menara a Marrakech, che immagazzinano l’acqua in questo magnifico serbatoio e la distribuiscono verso gli oliveti, il dettaglio dei movimenti di terra, riflettono il carattere prezioso di questa sorgente di vita e hanno creato un paesaggio d’alleanza tra l’uomo e il suo ambiente. Si tratta allo stesso tempo di irrigazione ma anche della celebrazione di quest’acqua, tanto presente nei giardini d’Oriente che la storia ci ha trasmesso sotto molteplici forme. Il Marocco ci ha confermato quindi l’attualità di queste pratiche nelle oasi della valle del Draa, attraverso la modellazione del suolo da parte degli uomini, in molteplici canali verso i palmeti e i fertili orti. Questo binomio acqua-suolo qui è Ieggibile in riferimento alle forme ed ai valori ancestrali della nostra civiltà nata dalla Mezzaluna Fertile del Tigri e dell’Eufrate. Se noi qui trattiamo il tema dell’acqua, non possiamo non pensare alle sue molteplici forme, che suggeriscono quindi molteplici comportamenti e risposte da parte del paesaggista e perché no anche dell’urbanista e dell’architetto. Dobbiamo parlare di fonti, di quest’acqua preziosa che ha la capacità di irrigare, ma altrettanto dei corsi d’acqua, ruscelli, torrenti, fiumi presso cui l’uomo ha impiantato i primi focolai e dai quali si è progressivamente distaccato. Infine, le meteore “Delle Meteore, come la neve, la grandine, la pioggia, i tuoni, gli uragani, le trombe marine o terrestri” (Voy. La Pérouse, t. 1, 1797, p. 186) attese o temute che agitano la nostra atmosfera all’indomani della recente Cop 21 parigina sull’attualità del riscaldamento globale. Ed è co-
sì che del giardino e della sua acqua nutriente, rappresentata nei canali del giardino del Priorato di Salagon nelle Alpi dell’alta Provenza, passando per il parco della cava di Biville, sulla cima della Hague in Normandia e delle sue micro terrazze che trattengono le acque per fertilizzare questo suolo sterile, abbiamo sviluppato un’attenzione all’acqua come strumento della forma e della sostanza, strumento di progetto, espressione delle qualità intrinseche dei territori che rappresentano i fondamenti del progetto di paesaggio. L’irrigazione esce dal solo ambito del giardino per entrare in città, ed è a St Jacques de la Lande che nel 1995 proponemmo un giardino sul tetto del centro commerciale, a favore degli alloggi circostanti, dove sono piantati degli alberi da frutta a fiore. La loro irrigazione mediante un piccolo canale fa diretto riferimento alla tradizione dei giardini ed esprime volontariamente l’artificio. Questi alberi non crescerebbero senza un apporto artificiale d’acqua poiché sono piantati sul tetto di un edificio; di contro, il cuore dell’isolato che si trova sotto, vede gli stessi alberi in leggera sopraelevazione, facendo riferimento qui ancora al buon senso e alle pratiche rurali in una sorta di dimostrazione della relazione che il mondo vegetale intrattiene con l’acqua e creando così due giardini specchiati nel cuore del nuovo quartiere. La relazione acqua-suolo si ritrova tramite l’espressione di situazioni singolari e complementari della città, il giardino fuori terra ed il giardino in campo aperto, sono la traduzione spaziale apportata dal paesaggista della sua conoscenza dei meccanismi degli esseri viventi.
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Fig. 1 Disegno del giardino della Ménara, Marrakech, 1989.
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Figg. 2-3 Tetto giardino di un centro commerciale, St Jacques de la Lande.
Gestione del rischio e paesaggio urbano Se le grandi città hanno riguardo per l’acqua, Parigi, Firenze, Londra… alcune fanno eccezione alla regola, o almeno hanno sviluppato un altro comportamento con questo elemento fondatore del territorio. Le fluttuazioni del letto dei fiumi, le deviazioni dello stesso, gli innalzamenti dell’acqua dei fiumi a regime torrentizio hanno dunque reso necessarie delle misure di prevenzione e delle distanze di sicurezza tra gli insediamenti umani, lo sviluppo delle città e questi torrenti o fiumi. Numerose sono le città in cui una certa distanza, che si può denominare distanza di sicurezza, è stata stabilita sia per il trattamento ed il miglioramento delle sponde, il Tevere a Roma è uno degli esempi più conosciuti, sia per avere un’area libera come zona di espansione per le inondazioni a lato del fiume. La crescita urbana spesso non ha tenuto conto di questa distanza. Il secolo industriale, dalla metà del XIX alla metà del XX, ha occupato questi spazi svilendo i corsi d’acqua in favore della produzione oppure confermando il ruolo di fogne dei fiumi minori. La storia della Bièvre parigina, tanto cara a molti paesaggisti francesi non ne è che la triste dimostrazione. L’acqua è sparita dalla maggior parte delle nostre città, inquinata per lungo tempo ed infine ricoperta o dimenticata in fondo alle industrie. Così negli anni ‘90, siamo stati chiamati a contribuire alla concezione di questa famosa prevenzione dei rischi a fianco di colleghi idraulici ed ingegneri ed abbiamo sfruttato questa occasione per sviluppare una strategia di valorizzazione del corso d’acqua. I fiumi dovevano ritrovare il loro antico splendore, la città girarsi e guardarli. Tra i numerosi progetti che così sono fioriti in Francia, la nostra partecipa-
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Anne Sylvie Bruel, Christophe Delmar L’acqua, risorsa del progetto urbano
Fig. 4 Diga sulla Meurthe, Nancy. Fig. 5 Nuovo ponte tra i quartieri di Rives e di de la Haute Deûle, Lille.
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zione alla ricostruzione della diga sulla Meurthe a Nancy e alla sistemazione dei suoi argini è uno degli esempi per cui noi consideriamo che l’opera, come macchina tecnica e idraulica, rappresenti una risposta urbana che mette in relazione i quartieri periferici ed il centro città, qui così vicino eppure così lontano dato che bisogna andare a cercare il ponte successivo. Noi abbiamo voluto rispondere senza volontà di monumentalità gratuita, con un vocabolario semplice e giusto dove ogni cosa è progettata e dimostrare come un’opera innanzitutto utile debba inoltre avere la sua rilevanza nella città. Sebbene sia una ‘macchina idraulica’ la diga di Nancy è diventata un anello dell’organizzazione del territorio urbano, della riconciliazione tra Nancy, i quartieri e la Meurthe. È così per la progettazione di ponti e dighe nei contesti urbani che l’Atelier ha sviluppato un certo savoir-faire e condivide il suo interesse sul ruolo dell’acqua in città. Questa esperienza si è rinnovata a Lille nel contesto del quartiere di Rives de la Haute Deûle, in cui un nuovo ponte, attraversando il piccolo canale, segna la riunificazione dei quartieri ed un orientamento urbano verso quello che fu un fiume,
poi un canale di trasporto delle mercanzie e che oggi non solo consente lo sviluppo di sport nautici per il divertimento ma aggiunge anche carattere e qualità di vita al nuovo eco-quartiere. A proposito dell’acqua per le città — Dall’irrigazione al recupero Con la legge sull’acqua, che in Francia è stata varata dalla metà degli anni 90, nasce la volontà di ripristinare gli equilibri perduti intorno ai corsi d’acqua e la loro qualità ecologica, di limitare i rischi di inondazione ma anche di occuparsi di questioni di sanità pubblica e di gestione della risorsa di acqua potabile. Le prime applicazioni in materia di sistemazione urbana hanno visto nascere un buon numero di bacini, pseudo stagni trascurati, fori di plastica telonati negli scambiatori… Il nostro coinvolgimento in materia di valorizzazione di questa risorsa e di questa forma d’espressione del territorio non poteva sprecare questa opportunità per ritrovare delle scritture urbane in relazione con i siti nei quali si inscrivono. L’Atelier di Paesaggio BruelDelmar ha proseguito il suo lavoro sul tema dell’acqua come potenzialmente su quello dell’espressione del territorio nelle sue compo-
Anne Sylvie Bruel, Christophe Delmar L’acqua, risorsa del progetto urbano
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Fig. 6 Sketch per un Parc médiathèque.
nenti geomorfologiche. La topografia, la relazione con il suolo, la relazione con il sottosuolo offrono l’opportunità di costruire regole urbane per lo sviluppo dei nuovi quartieri. Inoltre il progetto di St Jacques de la Lande e il partenariato di 20 anni con questa città al sud di Rennes, ci ha permesso di sviluppare un vocabolario urbano, talora sperimentale, che utilizza l’acqua come risorsa del progetto con delle variazioni tipologiche. Noi consideriamo questo attaccamento ai valori del territorio come portatore di qualità di vita per costituire delle porzioni di città in cui lo spazio pubblico stimoli la riappropriazione e il benessere. L’acqua diviene così la chiave di lettura del territorio e il filo conduttore delle pratiche urbane. La sua messa in risalto nel quadro delle sistemazioni degli spazi pubblici, consente una (ri)scrittura rivelata e appropriata. Per il promotore la soddisfazione di vedere il denaro pubblico a vantaggio del maggior numero di persone ha rapidamente comportato l’adesione dei più reticenti. Il nostro primo argomento dapprima è stato “mettez au-dessus ce qu’autrefois vous payiez en dessous”. Allo stesso prezzo, noi difendiamo l’idea di un investimento di superficie e l’orientamento verso una strategia ‘zero tubature’ per la raccolta e il trasporto dell’acqua pluviale. Questo coinvolgimento non è senza conseguenze sul lavoro di progettazione che deve essere molto preciso e deve gestire le pendenze di scolo per favorire i movimenti per gravità. È però un piacere perché tramite il disegno di ogni dettaglio, scivolo di scarico, delfino, grondaia, muratura che assicuri lo scarico delle acque, noi fabbrichiamo un vero vocabolario che parla di questa attenzione ed esprime il riconoscimento del suo valore. Questo vocabolario originale e messo in pratica con dei materiali semplici, contemporanei, il cemento prefabbricato, la pietra locale che apporta una bella qualità e mostra le sue
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Figg. 7-8 Dettagli progettuali.
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modanature. Così noi difendiamo l’idea che non ci sia un modello per questa forma di presenza dell’acqua in città. Ciascuno dei siti in cui ci sforziamo di convincere dei meriti dell’uso di questa risorsa del progetto, che è l’acqua piovana, conduce ad una riposta su misura. Il progetto su misura, senza stereotipi Il progetto di St Jacques de la Lande, così come in seguito quello di Nantes e dopo quello di Lille, sono delle risposte uniche, scaturite dalla medesima attenzione senza l’affannosa ricerca della ‘firma’. In modo più o meno esplicito l’acqua gioca un ruolo importante nella formazione dei nuovi quartieri, partecipando al disegno degli spazi pubblici e dunque alla forma urbana. A seconda del caso, la forma che prenderà l’acqua sarà differente e consona alla storia dei luoghi, passata e da venire. Così la memoria di quest’acqua a Lille è stata cancellata nel quartiere delle antiche filande del Nord, dove non persiste che qualche reminiscenza grazie al toponimo di un quartiere chiamato le marais, di un canale allargato Freyssinet, largo solo 30 metri ma sufficiente per separare due quartieri, di un antico rivolo di bonifica che scorreva così lentamente da essere chiamato ‘la tartaruga’, tombato ma che ancora favorisce la crescita di qualche albero su un terreno fresco. È per questa ricerca di espressione dell’antico sito industriale, affinché la memoria degli uomini non sia cancellata e che
perduri nei cuori e nelle vite dei nuovi abitanti che convivono con i figli dei vecchi operai, che abbiamo proposto di fare dell’acqua il cuore e l’identità forte e ritrovata di questo nuovo centro urbano. Canali larghi 4 metri occupano l’asse delle vie, il giardino d’acqua diviene il cuore del quartiere mentre le banchine del canale della Haute Deûle sono ripavimentate in gres per permettere il passeggio. La piazza della Stazione d’acqua si confronta di nuovo con le chiatte e già favorisce nuovi usi e l’incontro degli abitanti della penisola di Bois Blancs. L’acqua delle prime case alimenta i raingardens dei sentieri pedonali con un vocabolario riservato a questi vicoli. Il quartiere Bottière Chênaie ha sviluppato un’altra forma di recupero dell’acqua urbana. Il fatto principale è stato quello di riscoprire il ruscello che era stato interrato in una tubatura negli anni 70. Ritrovare il ruscello di Gohards ha richiesto molta persuasione nei confronti dell’amministrazione che credeva di favorire le inondazioni e l’inquinamento. Oggi costituisce il cuore del nuovo quartiere. Qui l’acqua urbana è inoltre legata alla memoria dei luoghi e delle persone in questi antichi orti alimentati da dei pozzi che abbiamo riutilizzato e integrato con degli impianti eolici per spingere l’acqua di irrigazione dei giardini coltivati. A proposito del coinvolgimento degli architetti al nostro fianco: poiché la presenza dell’acqua in città necessita il recupero dell’acqua
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Figg. 9-12 Dettagli costruttivi, St Jacques de la Lande.
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Fig. 13 La Ri-scoperta del ruscello di Gohards nell’ecoquartiere di Bottière Chênaie, Nantes. Fig. 14 I Raingardens dell’ecoquartiere di Bottière Chênaie, Nantes.
piovana, il solo spazio pubblico non costituiva ai nostri occhi una risposta soddisfacente. Era necessario far aderire i costruttori, gli architetti, i promotori perché partecipassero a questo impegno virtuoso. Molti altri l’hanno fatto prima di noi, l’architettura di Louis Khan, di Roland Simounet, testimoniano la capacità che hanno gli architetti di utilizzare questa risorsa che è l’acqua piovana come strumento della concezione architettonica. Così il percorso dell’acqua, dalla grondaia al fiume, ha impegnato l’energia del nostro gruppo di lavoro per fare partecipare a questo lavoro i committenti a titolo di responsabili ma anche di gestori e gli architetti, perché le loro costruzioni dialogassero con lo spazio pubblico non più unicamente in termini di allineamenti e di facciata ma anche in termini di funzionamento, di approvvigionamento, come una sorta di bioenergia. L’eco-quartiere di Rives de la Haute Deûle recupera così il 100% dell’acqua di deflusso degli isolati privati, senza trattenerla nei lotti, per alimentare i canali che animano lo spazio pubblico e il giardino d’acqua che assume il ruolo di regolatore e depuratore. A St Jacques, il comune ha facilitato il nostro intervento nel cuore dell’isolato per aiutare gli architetti a mantenere queste acque di deflusso in superficie negli spazi privati collettivi creando dei paesaggi aperti e conviviali. A Nantes, le case dell’eco-quartiere Bottière Chênaie sono arricchite da raingardens che rendono le vie dei veri giardini lineari. Questi tre quartieri hanno in comune la scelta di una densità urbana chiaramente dichiarata che non è per nulla incompatibile con la presenza dell’acqua in città. Con 2864 appartamenti per il suo quartiere della Morinas, che copre 40 ettari e preserva 40 ettari di parco ecologico che abbiamo sistemato, la città di St Jacques ha vinto il premio Zone Humide en Milieu Urbanisé del Ministero dell’Ecologia. A Nantes ci sono 2400 appartamenti sistemati lungo il parco
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Fig. 15 La biodiversità delle zone umide, Nantes.
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Fig. 16 La biodiversità delle zone umide, Nantes. Figg. 17-18 Parco dell’ecoquartiere di Bottière Chênaie, Nantes.
e il suo torrente, a Lille ce ne sono 1000 che convivono insieme a uffici e attività intorno al giardino d’acqua e questi due eco-quartieri sono oggi un riferimento. Natura in città, l’acqua come supporto della biodiversità Va da sé che questi nuovi quartieri in cui l’acqua ritrovata permette uno sviluppo della vegetazione ci interroghino sulle questioni dell’ecologia e dello sviluppo sostenibile. È innegabile che malgrado la densità e l’artificializzazione del suolo, la parte dello spazio pubblico concessa all’acqua favorisca una nuova forma di natura, che non è la sola ma che propone una risposta sostenibile alla vita urbana. Gli argomenti in favore di questa scelta sono numerosi: permette di procurare delle isole di freschezza, dei filtri al riscaldamento delle facciate, l’uso naturale dell’acqua di irrigazione e stimola una certa vita animale che a volte inquieta il rivo poco abituato a questa presenza tuttavia inoffensiva. Un’appropriazione, una qualità di vita Questi intensi impegni per una vera qualità di vita ricevono l’incoraggiamento dei nuovi residenti. Una reale appropriazione di questi spazi è favorita dalla presenza dell’acqua, dalla personalizzazione del costruito, alla possibilità di una certa forma di natura in città. I bambini sono i primi a cambiare abitudini e ci sorprendono ogni momento con dei bagni improvvisati. I luoghi di convivialità diventano il supporto del ‘vivere insieme’ e creano legami con i quartieri vicini.
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Nutrire il possibile Learning from Making Space in Dalston Anna Lambertini
“Nutrire il possibile” è una promettente espressione utilizzata per definire una delle tre fasi del percorso di metodo di Making Space in Dalston, il piano-progetto di rigenerazione urbana per un quartiere dell’East London, elaborato in collaborazione dai due studi londinesi J & L Gibbons Landscape Architects e muf architecture/art, nell’arco di circa tre anni, dal 2009 al 2011. Come suggerisce il nome, Making Space in Dalston è stato ideato con l’obiettivo principale di individuare soluzioni possibili per incrementare il network di spazi pubblici a Dalston, quartiere conosciuto per la sua dimensione multietnica, multiculturale e di attivismo sociale. Il progetto, che ha ricevuto numerosi riconoscimenti ed è stato selezionato come uno dei dieci finalisti dell’ottava Biennale del Paesaggio di Barcellona del 2014, costituisce un esempio non comune di capacità d’innesco e di gestione di percorsi condivisi di progettazione dello spazio pubblico, che ha portato alla realizzazione di una sequenza differenziata di interventi di reinvenzione di luoghi e vuoti urbani. Come spiega Johanna Gibbons Making Space in Dalston presenta un approccio alternativo alla rigenerazione, ispirato dalla diversa e creativa comunità di Dalston. Il progetto tiene conto degli interessi locali in un’ottica strategica più ampia, attraverso un processo di comunicazione e di ricerca-azione sviluppato per contribuire a creare una visione condivisa con residenti, imprese ed enti1.
Un piano-progetto di paesaggio urbano elaborato come una ricerca-azione multidisciplinare, dunque, da cui possiamo imparare molte cose: sul piano metodologico, su quello della capacità inventiva e di elaborazione di scenari di trasformazione urbana, sull’uso di strumenti e temi propri dell’Architettura del paesaggio e sul piano della comunicazione del progetto stesso. I tre criteri guida che caratterizzano il lavoro di Making Space in
Dalston — valuing what’s there, nurturing the possible and defining what’s missing2 — e in particolare il secondo, ci invitano, ad esempio, a riconoscere il processo progettuale come un dispositivo critico e inventivo, aperto e flessibile, pensato per orientare le trasformazioni dello spazio pubblico e dei paesaggi urbani a partire dal confronto con coloro che li abitano. Prima di arrivare a definire delle proposte di trasformazione di luoghi e spazi urbani, il team di progetto ha esplorato attentamente il quartiere per comporre un atlante di luoghi e architetture riconosciute di interesse collettivo. Sono stati organizzati tavoli di confronto con cittadini e associazioni, per conoscere aspettative e desiderata dei residenti e dei piccoli imprenditori locali e verificare così come creare più spazio pubblico, migliorando la qualità urbana senza perdere il carattere specifico del quartiere stesso o la ricchezza esistente di risorse socio-culturali e di forme di interazione tra i residenti e i loro paesaggi quotidiani. I tre principi chiave di Making Space in Dalston hanno poi il valore di ricomporre in una sequenza di metodo semplice e immediata quell’articolato e complesso processo creativo e di sintesi interpretativa (oltre che di raccolta, elaborazione e restituzione di dati e informazioni) che definiamo come piano-progetto di paesaggio. Valuing what’s there, nurturing the possible and defining what’s missing corrispondono a tre fasi metodologiche che rimodulano quelle di un tradizionale percorso di progettazione (analisi, diagnosi, progetto), adottando una chiave narrativa per precisare il significato di un insieme di necessarie operazioni tecniche, scientifiche e inventive. Operazioni che andrebbero condotte, come ci suggerisce ancora Making Space in Dalston, seguendo un processo coerente, in maniera finalizzata ed evitando asettici approcci deterministici o indagini analitiche fini a se stesse, che troppo spesso risultano sganciate dal-
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la scala e dagli obiettivi specifici del progetto stesso. Se ogni progetto necessita l’applicazione di un metodo, inteso “come insieme dei principi, delle regole e dei criteri per orientare una ricerca, per la soluzione di un problema o il raggiungimento di un obiettivo”, Making Space in Dalston ci invita a riconoscere la necessità di esplorare strumenti e percorsi alternativi e innovativi per orientare le trasformazioni dei paesaggi urbani attuali. Esperienza paradigmatica certamente nutritiva per la cultura del progetto di paesaggio urbano contemporaneo dal punto di vista metodologico e di capacità d’innesco di processi bottom up, Making Space in Dalston ha molto da insegnarci anche in merito alla sperimentazione di soluzioni progettuali e di esiti realizzativi. I dieci differenti progetti attuati, scelti tra i 76 possibili identificati nella fase di valutazione e confronto con i vari gruppi di stakeholder consultati, hanno prodotto variazioni sensibili sulla percezione e sull’assetto dei luoghi del quotidiano intervenendo prevalentemente sulla piccola scala, procedendo anche con la sperimentazione di soluzioni temporanee e con la realizzazione di progetti ad interim e a temporalità limitata. Making Space in Dalston ha lavorato vantaggiosamente in maniera ricorsiva su più scale, spaziali e temporali, di intervento, adottando differenti gradienti di intensità della trasformazione e reinventando un sistema di spazi pubblici di prossimità configurati in riferimento a diverse categorie di progetto: community garden, strada-giardino, pop-up play ground, installazioni. Un modus operandi che ha permesso di rendere visibili o disponibili alla fruizione pubblica — anche in chiave multifunzionale — risorse spaziali sottoutilizzate o vuoti in disuso, come nel caso del Dalston Eastern Curve Garden.
Uno spazio residuale generato dalla dismissione di una linea ferroviaria, lasciato in stato di abbandono per circa 30 anni, utilizzato in parte come discarica abusiva e colonizzato nel tempo dalla vegetazione spontanea, è stato trasformato grazie al progetto in un vitale e attrattivo giardino condiviso. Nato come spazio pubblico a temporalità limitata, il Dalston Eastern Curve Garden ha saputo produrre immediatamente molteplici benefici sul piano sociale, culturale, ambientale e delle micro-economie di quartiere, tanto che ci si interroga sulla possibilità di cambiarne il destino come spazio ad interim, cioè come luogo intermedio in senso cronologico (letteralmente, che sta nel mezzo, non tanto tra due ambiti spaziali, ma tra due diversi assetti, due fasi temporali). Nonostante la sua popolarità e il suo successo come spazio attrattivo del quartiere, il giardino condiviso potrebbe essere presto sostituito dalla nuova strada, fiancheggiata da ristoranti e caffetterie, pensata e disegnata come parte del previsto progetto per un nuovo centro commerciale3. Nutrire il possibile nel progetto di paesaggio urbano vuol dire anche questo: lasciar gioco alla sperimentazione di assetti inaspettati di luoghi (e delle relative modalità di fruizione e gestione) alternativi e/o integrativi rispetto a quelli previsti dagli strumenti della pianificazione, per alimentare interpretazioni altre dei significati e delle forme di spazio pubblico. NOTE 1 Cfr. <http: //www.landezine.com/index.php/2012/01/making-space-in-dalston-by-jl-gibbons-landscape-architects/>. 2 A ogni fase del percorso di metodo corrisponde un insieme complesso di differenti attività e di materiali. 3 Per maggiori informazioni e aggiornamenti sulle sorti di questo popolare Community Garden londinese si rinvia alla ricca documentazione presente sul sito di riferimento: http: //dalstongarden. org (consultato dall’autrice il 30 aprile 2017).
Anna Lambertini Nutrire il possibile. Learning from Making Space in Dalston
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Urban ecological patchiness Johanna Gibbons
Il nostro lavoro spazia dall’interessarsi alla scomparsa veloce dell’ecologia ruderale nel centro di Londra, sino alla selvatichezza di Capability Brown al St Johns College di Cambridge. Per noi pratica e ricerca sono sinergiche. Questo ci dà più prospettive per apprezzare il processo naturale, per interagire con le dinamiche della comunità e per sviluppare risposte di gestione, progettazione e conservazione. Potreste incontrarmi in quei frammenti incontaminati della città ad esplorare la natura selvaggia o ad osservare attentamente i modelli e i processi della natura. Sono altrettanto felice nei boschi semi naturali della città, così come lo sono in una piantagione urbana1, o nelle ecologie spontanee degli habitat urbani periferici e marginali2. In effetti, vedo la città come un paesaggio. I suoi terreni e le sue foreste urbane esprimono una sorta di irregolarità ecologica, una dinamica in cui prevale ‘il flusso, piuttosto che l’equilibrio’ e la scala è ambigua. Nella nostra pratica progettuale, osserviamo da vicino ciò che è micro, spontaneo, il cosiddetto ‘negletto’, i luoghi in cui la natura è stata opportunistica e del comprendere ed articolare la sua particolare bellezza, in termini ecologici o in valore comunitario, localmente e strategicamente, facciamo il nostro mestiere. Ci sono tre aspetti dell’irregolarità ecologica della città legate al nostro lavoro: percezione; progettazione; benessere. Percezione La percezione della bellezza naturale è stata una preoccupazione pratica ed intellettuale di figure chiave nell’arte del paesaggio per secoli e l’estetica dominante nella progettazione del paesaggio britannico, non da ultimo, attraverso il lavoro del XVIII e XIX secolo di William Kent, Lancelot Brown, Humphrey Repton e William Gilpin,
un leader teorico del movimento pittoresco. Questo definì una relazione con la natura, con il paesaggio naturale, diede forma ad un nuovo vocabolario influente nella scenografia, con robusti elementi, luce e ombra e ‘boschi appesi’, completato poi con l’elemento umano di contemplazione. La più nota delle innovazioni di Lancelot Brown al College di St John, Cambridge, è una zona comunemente conosciuta come ‘la landa selvaggia’3. Qui Brown pulì e trasformò l’impianto angolare del XVII secolo, prodotto di un’epoca che credeva che la “bellezza naturale provenisse dalla geometria”, in qualcosa di espressivo, una “più organica concezione della natura e della bellezza”. Capability Brown mette in scena elementi contrastanti come un prato aperto con una grande area piantata con specie forestali, come se lo avesse fatto la natura stessa, con un sistema semplificato di passeggiate lungo il quale apprezzare la scena ‘naturale’. Oggi, la maggior parte dei paesaggi, che siano urbani o rurali, sono altamente modificati, alterati in qualche modo, pensati per una funzione estetica o per il piacere, o una combinazione delle due cose. In città soprattutto, qualsiasi piccolo, trascurato frammento di selvatichezza sembra particolarmente prezioso. Così come è visionario, per esempio, garantire la ‘selvatichezza’ dei paesaggi di Hampstead Heath a Londra o di Arthur’s Seat a Edimburgo. Si tratta di paesaggi multistratificati. Arthur’s Seat non è solo di particolare interesse scientifico, noto per la sua geologia ed interesse botanico, ma è anche un antico, selvaggio paesaggio vulcanico fatto di affioramenti di roccia e pascoli non concimati nel cuore di Edimburgo che fornisce una visuale ampia e un vitale rifugio dalle domande della vita urbana. Tali isole di ‘paesaggio urbano’ sono di importanza nazionale e, se attentamente gestite per proteggere la diversità delle specie di pascolo in equilibrio con l’amenità del luogo, perpetuano i boschi conso-
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Fig. 1 Vitrine installation: Below Ground Soils (Image credit: J & L Gibbons). Fig. 2 Ricerca sul campo e ripresa della crescita dei licheni (Foto di Orlando Gibbons). Fig. 3 Simmetria frattale, Rhizocarpon geographicum. J & L Gibbons.
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lidati che hanno una struttura eccezionale di alberi veterani e maturi e forniscono un mosaico di habitat per la fauna selvatica e di ricreazione della città. I gradienti di naturalità, catturando le qualità più effimere di un paesaggio e mettendo in luce le dinamiche del selvaggio — il gioco di luci e ombre, le texture di vegetazione, la biodiversità del suolo — diventano particolarmente potenti quando sono incorniciati nel contesto urbano. Comprendere i sistemi naturali, il ciclo idrologico4, il processo di decomposizione, la foresta decidua, i ricchi campi delle aree industriali urbane dismesse, la deposizione delle uova dei pesci nel fiume, fornisce tutto ciò di cui abbiamo bisogno per valutare e coltivare correttamente i beni naturali. La reinterpretazione dell’equilibrio (n.d.t.) tra la rigenerazione naturale e la riqualificazione urbana che soddisfa le esigenze delle comunità urbana e lo sviluppo sostenibile in un modo che si fonde ed esplora sia la natura laboriosa dell’attività umana sia la resilienza dell’ecologia nel relativo quadro estetico, è la parte che giochiamo come ambientalisti e progettisti. Design Quando una pianta infestante diventa un fiore selvatico? È una questione controversa, soprattutto quando si parla con un ingegnere dei trasporti. Per noi, una pavimentazione ultra seminata, ghiaiosa, permeabile è una cosa meravigliosa, piena di potenziale per la fioritura del ginestrino5 e il foraggiamento dei bombi. Per un ‘asset manager’ invece è un incubo, è un marciapiede pieno di erbacce, è un rischio incontrollabile. Il rapporto del paesaggio e dell’uomo con la natura ha sfumature psicologiche profonde, spesso legate alle esperienze dell’infan-
Johanna Gibbons Urban ecological patchiness
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Fig. 4 Natura umana: Arte, Orticoltura e Geografia. Siobhan Davies Dance per il Festival d’Architettura 2014: “Planting Steps Walk” (Foto di Siobhan Davies Dance).
zia. Spesso è solo attraverso la reciprocità e la ricerca o l’evoluzione delle esperienze comuni attraverso il processo di progettazione, che si possono trovare valori condivisi e possono essere articolati in un modo che sia significativo per una comunità, rispettando gli obblighi delle autorità locali, gli obiettivi politici e strategici. In una città ciò è complicato. Come studio di progettazione, noi abbiamo combattuto la causa per la de-pavimentazione dei marciapiedi per esempio e a volte si vince, a volte (non spesso) si perde. Di solito dipende dagli individui e se, uno per uno, possiamo usare i nostri poteri di persuasione. L’autorità che amministra le autostrade reppresenta spesso la sfida più grande, con il maggiore potenziale. Certamente, oggi è necessario un cambiamento culturale per consentire ad esempio, lo scavo di un marciapiede, la predisposizione di un drenaggio urbano sostenibile, la piantumazione degli alberi intorno e la possibilità per le imprese locali di diventare proprietari. Il resoconto del Comitato intergovernativo sul Cambio Climatico (IPCC) del 2014 ha dato chiara e inequivocabile prova che il cambiamento climatico infliggerà un “impatto grave, diffuso e irreversibile” sulle persone e il mondo naturale, se non si interviene. L’accordo sul clima di Parigi del dicembre 2015 fissò, per la prima volta, il pieno accordo di 195 nazioni, sulla scienza del cambiamento climatico, riconobbe la responsabilità collettiva di affrontare il problema e anche accettò di incrementare le disposizioni, rivedere e rafforzare idealmente il loro impegno ogni cinque anni con relazioni periodiche dei progressi compiuti da ogni nazione per incentivare il miglioramento dei risultati. La gestione delle risorse idriche rappresenta il cuore dell’adattamento al mutare delle condizioni. Il cambiamento climatico combina le pressioni sulle risorse idriche e la qualità dell’acqua, insieme all’au-
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mento della popolazione e della vulnerabilità all’inquinamento, e più frequenti eventi di inondazioni e siccità. La capacità di adattamento riguarda il potenziale grado al quale un sistema è suscettibile risultante dal cambiamento climatico, misurato in termini di precipitazioni estreme, portata di piena dei fiumi, aumento di livello del mare e onda di piena, vista la recente frequenza di inondazioni e le sue conseguenze sulle persone e gli animali selvatici. Londra è particolarmente vulnerabile a causa della sua densità, della sua posizione e complessità e vede una proiezione dell’aumento delle precipitazioni invernali del 6% entro il 2020 e del 15% entro il 2050 e un aumento della popolazione da 8, 6 milioni fino a 11 milioni entro il 2050. Quasi un quinto di Londra si trova in una pianura alluvionale protetta da tradizionali sistemi di difesa ingegnerizzati contro le inondazioni fluviali. Tuttavia, questo sistema non tiene conto dei problemi di deflusso urbano, dei tempi di ritorno sempre più frequenti di pioggie pesanti che rendono la città vulnerabile alle acque superficiali e inondano il sistema fognario, a ciò si aggiunge l’eredità vittoriana della capitale di un sistema fognario combinato di oltre 150 anni fa, progettato per una città con meno della metà della sua popolazione attuale. È necessario un piano a lungo termine che rein-
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troduca ‘rugosità idraulica’, che rallenti il flusso, che riconosca maggior valore all’acqua piovana, che cerchi di catturare, detenere e assorbire, piuttosto che accelerare e sommare l’impatto. Londra mira ad una riduzione del 25% dei flussi di acque superficiali entro il 2040. Il nostro compito è quello di comunicare l’intento progettuale, colti-
vare idee dalla messa in rete degli interessi ed aspirazioni locali, tradurre regolamenti e rischi in opportunità e valori. In altre parole, fare in modo che la strada si rivitalizzi come un habitat urbano irregolare, che unisce le persone per un guadagno ecologico strategico. C’è un crescente apprezzamento che fa sì che, a fianco ai progetti di grandi
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Johanna Gibbons Urban ecological patchiness
Fig. 5 Parco canale al Queen Elizabeth Olympic Park, London. J & L Gibbons.
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Fig. 6 Making Space in Dalston: Potenziale ecologico. J & L Gibbons. Fig. 7 Cross River Park: Studio per una rete di parchi di 350 ettari per East London. J & L Gibbons.
infrastrutture grigie, molte, molte azioni localizzate e incrementali possano essere più efficaci, più economiche e più resistenti. Questo approccio coinvolge anche i cittadini in un rapido cambiamento culturale di cui la comunità globale deve essere parte, per sottolineare il fatto che siamo tutti parte dell’ecosistema ed è nostro compito influenzare il risultato. C’è ora la pressante necessità di un innovativo ed ispirato approccio alla pianificazione delle infrastrutture urbane che riconosca il potenziale della città naturale e valorizzi gli ecosistemi liberi e adattivi che la natura fornisce, per adottare un approccio alla gestione dell’acqua basato sulla captazione e per sfruttare i molteplici benefici per il benessere umano e dell’ambiente. Benessere Non c’è dubbio che il beneficio cumulativo del contatto con la natura sia positivo per il nostro stato d’animo. Ci troviamo in un periodo di rapida crescita urbana, come mai è stato prima, e le città hanno bisogno di natura e luoghi selvaggi. Come specie, gli esseri umani sono intimamente connessi alla natura. La privazione dell’accesso alla natura e il mancato contatto con i processi naturali sono direttamente collegati agli indici di salute. La scelta naturale: proteggere il valore della natura6 è stato il primo white paper sull’ambiente naturale pubblicato dal governo in Gran Bretagna in oltre 20 anni. Si sottolinea l’importanza del contatto con la natura per la nostra fondamentale salute e felicità. Capitale naturale7 un rapporto pubblicato da GLA è stato recentemente un’ulteriore conferma della necessità di disporre di infrastrutture verdi per la città futura e sottolinea il valore economico di coinvolgere il pubblico e fornire una visione integrata dell’infrastruttura dove il paesaggio
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Fig. 8 Spazio pubblico e foresta urbana dell’Angel Building. J & L Gibbons/Sarah Blee.
della città “sia parte integrante dell metabolismo della capitale così come lo sono le strade, le linee ferroviarie o tubi dell’acqua”8. C’è un gradiente di naturalezza: dai luoghi inalterati dall’uomo fino all’estremo opposto di altri interamente artificiali. Anche i suoli antropogenici hanno un potenziale. Il brado paesaggio di mattoni rotti e cemento forma un buon substrato per la vegetazione pioniera e ruderale che, attraverso la comprensione della scienza del suolo e cat-
turando l’interesse delle radici delle piante con un tocco leggero può evolvere in luoghi che siano significativi, che forniscano rifugio agli abitanti delle città e alla fauna urbana allo stesso modo. L’arte e la scienza di questo processo di consegna è nel DNA di architetto paesaggista. Ridefinire l’agenda di ‘crescita’ al densificarsi dei quartieri è sempre più vitale. La crescente resilienza, descrive nel modo migliore il compito che abbiamo. Coloro che vivono e lavorano a Londra comprendono l’entità del cambiamento che si verifica a causa di cambiamenti e
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Fig. 9 Dalston Eastern Curve Garden. J & L Gibbons/Sarah Blee.
delle intensificazioni climatiche e la necessità di godere i sudati benefici di infrastrutture più verdi come spazi multifunzionali. La Task Force per il trasporto delle strade di Londra, per esempio, ora riconosce che le strade non servano soltanto per il movimento ma contribuiranno anche ad una equa qualità della vita e a creare luoghi che naturalmente includono i co-benefici della biodiversità e dell’amenità. L’attuale e continuo cambiamento culturale di cosa ci aspettiamo dalle nostre città e soprattutto da Londra, testimonia quanto la natura e la riconnessione con i sistemi naturali, manifesti negli alberi, nell’acqua e nella fauna selvatica, abbiano un ruolo fondamentale non solo nella creazione di eco-sistemi resilienti e nella risposta al cambiamento climatico ma anche nel sostenere positivamente il benessere mentale della popolazione. Urban Mind9, la nostra ricerca pilota condotta con il Kings College di Londra e Nomad Projects10 cerca di valutare scientificamente come l’ambiente influenzi il nostro umore e senso di vulnerabilità e benessere attraverso una semplice app, che registra: dove siamo nella città, quello che possiamo vedere, percepire e come ci sentiamo. Vedremo ciò che ne emerge ma non c’è dubbio che, se le città intensificano i loro frammenti di paesaggi selvaggi, con le loro irregolarità ecologiche urbane, le loro qualità dinamiche ed effimere, allora acquisiranno un nuovo significato e un nuovo valore.
Fig. 10 Urban Mind: Progetto di ricerca che indaga la sanità mentale e l’ambiente urbano, in collaborazione con il Kings College London e Nomad Projects. J & L Gibbons.
NOTE Alnarp landscape Laboratory. Bethnal Green Nature Reserve. 3 “The Wilderness” (n.d.t.). 4 Bogs at Studlands Dorset. 5 Lotus corniculatus. 6 <https: //www.gov.uk/government/uploads/system/uploads/attachment_data/file/228842/8082.pdf>. 7 Natural Capital: GLA 2015: <https://www.london.gov.uk/what-we-do/environment/ environment-publications/green-infrastructure-task-force-report>. 8 Natural Capital: GLA 2015: <https://www.london.gov.uk/what-we-do/environment/ environment-publications/green-infrastructure-task-force-report>. 9 <http://urbanmind.info>. 10 Nomad Projects is an independent commissioning foundation that provides support for contemporary artists to develop socially relevant work within the public realm. <http://nomadprojects.org/>. 1
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Origini Sono cresciuto vicino a Edimburgo in Scozia, dove dovevo andare per studiare architettura del paesaggio presso l’Edinburgh College of Art. Il tempo che ho trascorso ad esplorare i paesaggi della Scozia ed Edimburgo in particolare, ebbe poi una profonda influenza sul mio approccio all’architettura del paesaggio. Sono sempre stato incuriosito dalla giustapposizione fra città e natura. Questo è messo chiaramente a fuoco, a scala geologica, dal rapporto tra i paesaggi selvaggi di Holyrood Park, della Castle Rock e di Arthur Seat con il pluristratificato paesaggio urbano della città vecchia di Edimburgo, il cui carattere è definito da chiuse, ponti e scale che collegano lo spazio pubblico a vari livelli, creando una scena urbana complessa ricca di ‘angolini e anfratti’ da esplorare. Il lavoro dei tre visionari scozzesi ha contribuito a definire la professione dell’architetto del paesaggio come la conosciamo oggi e hanno anche avuto un impatto significativo sulla strada che si pratica oggi1. John Muir (1838-1914) è stato un filosofo ambientale e uno dei primi sostenitori della conservazione della natura negli Stati Uniti e ora è spesso definito come il ‘padre dei parchi nazionali’. Muir è stato appassionato di luoghi selvaggi e fece molte campagne per la loro protezione, per migliorare il benessere di persone e della vita selvatica. La sua eredità è più notevole nel modo in cui noi ora consideriamo il selvaggio ed è tanto più notevole che egli abbia fatto queste affermazioni in un momento in cui sembrava che l’espansione urbana e la rivoluzione industriale fossero un percorso inesorabile. Fresca bellezza apre gli occhi, ovunque viene davvero percepita, ma la grande abbondanza e la completezza della bellezza comune che affligge i nostri passi impedisce che essa venga assorbita e apprezzata. È una buona cosa, quindi, fare brevi escursioni ora e poi sul fondo del mare tra dulse e corallo, o su tra le nuvole sulle cime, o nei fumetti, o anche
a strisciare come vermi in buchi scuri e caverne sotterranee, non solo per imparare qualcosa di quello che sta succedendo in quei luoghi fuori mano, ma per vedere meglio che cosa vede il sole al nostro ritorno alla comune bellezza quotidiana2.
Patrick Geddes (1854-1932) è stato il primo progettista britannico ad usare il titolo ‘Architetto del paesaggio’. Geddes è rinomato per la sua influenza sulla pianificazione urbana e regionale nel Regno Unito e per le sue teorie sulla città, ecologia tramite cui ha introdotto il concetto di ‘regione’ nella pratica dell’architettura. Fu uno dei primi progettisti a riconoscere l’importanza dei centri storici e in particolare la città vecchia di Edimburgo. È anche conosciuto per la sua triade analitica; ‘luogo, lavoro e popolo’ sostenendo che l’analisi di una città debba includere l’aspetto geografico, storico e spirituale e l’interazione tra ciascuno di essi. Siamo, in verità, all’apertura di una di quelle fasi dell’evoluzione umana, quando gli individui casualmente affollati, vagamente raggruppati, cominciano ad accedere a una nuova fase dell’esistenza — più sociale, più ordinata e in generale più bella. (Geddes)3
Ian McHarg (1920-2001) fondò il dipartimento di architettura del paesaggio presso l’Università della Pennsylvania ed è meglio conosciuto per il libro del 1969, ‘progettare con la natura’, che ha introdotto il concetto di pianificazione ecologica. L’approccio filosofico di McHarg riconobbe l’influenza del pittoresco inglese, celebrando l’intreccio tra l’ambiente umano e naturale, tenendo debitamente conto di ambiente, clima ed ecologia. Abbiamo bisogno di natura tanto nella città come nella campagna. Per sopportare dobbiamo mantenere l’abbondanza di quella grande cornucopia che è la nostra eredità. Il punto di vista degli economisti sulla natura — come una merce generalmente uniforme — è valutata in termini di distanza di tempo, co-
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Fig. 2 Studi per la connessione della Fairlop Plain. J & L Gibbons.
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Fig. 3 Ingrebourne Valley wayfinding kit of parts. J & L Gibbons.
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Fig. 1 Mappatura degli spazi aperti della “The All London Green Grid” e politica alla scala urbana. J & L Gibbons/ Mayor of London.
sto della terra e sviluppo e assegnata in termini di acri per unità di popolazione. La Natura, naturalmente, non è uniforme ma varia in funzione della geologia storica, del clima, della fisiografia, dei suoli, delle piante, degli animali e — di conseguenza — delle risorse intrinseche e degli usi del suolo. Laghi, fiumi, oceani e montagne diventano denaro laddove l’economista potrebbe desiderare che lo fossero, ma sono dove sono per ragioni chiare e comprensibili. La natura è intrinsecamente variabile. 4
La scena londinese Come molte città, quando la popolazione crebbe e la rivoluzione industriale prese piede, Londra si ampliò concentricamente. I paesaggi produttivi necessari per sostenere la città vennero spostati ad est con una serie di orti, banchine, pontili e corridoi di trasporto per servirli. La campagna è stata consumata dalla città con una tale rapidità che spesso frammenti della campagna sono sopravvissuti e rimangono ancora oggi, isolati, a volte creando una rete discontinua di spazi aperti che si trova lungo la Green Belt, oggi interconnessa e protetta. Le opportunità di accedere a paesaggi selvaggi e alla natura in una
città come Londra possono sembrare meno frequenti; ma la realtà è che tutto quello che si deve fare è guardare un po’ più di attenzione. Guardando oltre le scene da cartolina dei parchi urbani quali Green Park, Hyde Park e Kensington Gardens e anche il paesaggio più selvaggio di Hampstead Heath e Richmond Park dentro il meno bucolico degli entroterra, ci sono paesaggi profondamente interessanti che hanno conservato la loro selvatichezza nonostante l’influenza umana circostante. I paesaggi della foresta di Epping e del fiume Roding nel nord-est di Londra sono vari e complessi. Questo è un paesaggio in cui i corridoi della cintura verde raggiungono a sud ampie zone del centro città rigenerate. Gran parte del paesaggio potrebbe essere considerato periferico, come una frammentata rete di spazi aperti sul bordo delle strutture o come un insieme disconnesso di luoghi marginali reciso da ferrovie, autostrade o infrastrutture energetiche. Molti di questi spazi o ambienti sono stati accantonati nel dare una risposta al bisogno di corridoi di trasporto sempre più grandiosi e più veloci, dove il pedone e il residente locale non sono una priorità. In queste situazioni il termine ‘paesaggio’ sembra meno appropriato in senso classico e ‘spazio aperto infrastrutturale’ più rappresentativo della condizio-
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ne. Spesso i progetti in questi settori devono porre rimedio a questa situazione, rispondendo direttamente al senso dell’accelerazione e della frammentazione per definire uno slow-scapes (un paesaggio dal ritmo più dolce — n.d.t.) spazi aperti coerenti e dinamici che forniscano accesso e connettività dove attualmente non ve ne sono. Fairlop Plain ai margini della foresta di Epping è un esempio di questi tipi di paesaggi dinamici multifunzionali che ha anche una storia incredibilmente ricca. Un tempo foresta di caccia reale recintata in pietra nel 1641, divenne poi sede la fiera Fairlop, inaugurata nel XVIII se-
colo da Daniel Day, che avveniva sotto la famosa quercia Fairlop vissuta fino all’inizio del XIX secolo. Nel 1940 iniziarono i lavori sull’aerodromo di RAF Fairlop e durante la seconda guerra mondiale l’aerodromo fu usato come un centro per i ‘palloni di sbarramento’ (Barrage balloons). La funzione di cava di ghiaia seguita dal suo uso come una discarica, lasciarono il passo alla creazione dei laghi Fairlop per la vela e per la pesca. Nel 1987 vennero costruiti i Fairlop Waters Country Park e il campo da golf e l’area venne convertita in un parco aperto. Oggi questi tipi di paesaggi richiedono visioni di paesaggio orientate alla resilien-
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Fig. 4 Mappatura della Ingrebourne Valley. J & L Gibbons/ Objectif. Fig. 5 Reinterpretazione del lago Serpentine di Walpole Park. J & L Gibbons/ Sarah Blee. Fig. 6 Walpole Park e il ponte di Soane. J & L Gibbons/ Sarah Blee.
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za che possono essere implementate in modo incrementale quando vi siano finanziamenti disponibili. Tali visioni devono celebrare l’unicità del luogo e sostenere un approccio di progettazione bottom up. Questi progetti devono integrare tutti i vari e significativi livelli del paesaggio, devono lavorare sottilmente con l’archeologia del sito o della regione, con i suoi terreni, con la geologia, il clima, l’ecologia, la cultura locale e regionale, rispondendo direttamente alle agende sociali, culturali e di salute che sono fondamentali per il benessere degli abitanti della città. Questi paesaggi hanno creato una nuova generazione di Flaneur urbani che hanno registrato i resoconti delle loro passeggiate in libri come; Scarp di Nick Papdimitriou, This other London — Adventures in the overlooked city da John Rogers e A London Country Diary di Tim Bradford. Scala Di prassi, amiamo lavorare attraverso un’ampia gamma di scale, il nostro lavoro per il sindaco di Londra, in particolare, mira a definire delle strategie sub-regionali attraverso la All London Green Grid. La ‘griglia verde’ di Londra promuove l’uso di sistemi naturali per dar forma e sostenere la crescita. Essa propone un paesaggio variegato e migliori collegamenti tra le zone dove la gente vive e lavora, migliori connessioni con i trasporti pubblici, con la Green Belt e il fiume Tamigi. Assorbendo in modo significativo la pioggia, riducendo le temperature e migliorando la qualità dell’aria la All London Green Grid aiuterà le comunità di Londra ad adeguarsi alle sfide del cambiamento climatico. Questi paesaggi unici e variegati di Londra sono riconosciuti come un bene che può rafforzare il carattere, l’identità e la resilienza ambientale. Una rete potenziata di spazi aperti e infrastrutture verdi, insieme alle infrastrutture esistenti quali i trasporti, i
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Fig. 7 Walpole Park con le alligator branch del Cedro del Libano. J & L Gibbons/ Sarah Blee.
servizi e le scuole, possono servire a dare nuova forma e supporto alle comunità esistenti, a rispondere alle sfide del cambiamento climatico, a sostenere lo sviluppo economico e fornire una migliore qualità della vita. Strati di narrazione di paesaggio La All London Green Grid richiede un’analisi rigorosa dei dati che forniscono informazioni relative agli spazi aperti di Londra, al patrimonio naturale e alla sottostante formazione geologica. Attraverso un processo di collage urbano queste mappe possono essere sovrapposte, analizzate e, alla scala della città, possono dunque informare le scelte di progetto. Si tratta di un approccio scalabile che usiamo in tutti i nostri progetti. Spesso il nostro lavoro richiede la valutazione di una vasta gamma di valori intrinseci da: elementi del paesaggio progettato di diversi periodi storici, associazioni con figure ed eventi storici, collegamenti a siti e altri paesaggi, valori degli utenti di ieri e di oggi. Consideriamo l’importanza del sito nel suo complesso nel contesto della storia del paesaggio così come le singole fasi e le caratteristiche del sito e la lo-
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Fig. 8 Alexandra Road Park e la nuova ‘Birch Bank’. J & L Gibbons/ Sarah Blee.
ro importanza relativa. Attraverso un approccio di progettazione collaborativa, possiamo rivelare potenziali sinergie tra l’ambiente naturale e quello costruito, esaminando narrazioni storiche e rappresentandoli in una maniera che è rilevante e interessante per gli utenti attuali. Pensiamo che guardando da vicino, attraverso un processo di analisi del sito, interrogando mappe e disegni, sia spesso possibile arricchire il processo di progettazione e scoprire un racconto dell’evoluzione del paesaggio che rivela la necessità di avere lungimiranza per creare paesaggi che nella maturità possano essere goduti dalle generazioni future, utilizzando uno strumento di progettazione aggiuntivo che fa da fulcro del lavoro dell’architetto paesaggista: il tempo. A Walpole Park, un parco pubblico situato nel cuore di Ealing l’analisi del sito attraverso il tempo e la proiezione del tempo su nuovi interventi era particolarmente rilevante. Il parco consisteva precedentemente nei giardini e annessi del parco della villa di Sir John Soane Regency creata nel 1810. Soane ha avuto un coinvolgimento attivo nella progettazione e nell’uso del parco e dei giardini. John Haverfield di Kew, che ha lavo-
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Fig. 9 Alexandra Road Park guardando verso il ‘Woodland Walk’. J & L Gibbons/ Sarah Blee.
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rato frequentemente con Soane, diede dei suggerimenti per la configurazione dei suoli e il paesaggio risultante fu una miniatura di paesaggio adatto a una villa regale di campagna, con prati, aiuole, alberi esotici, fiori da giardino, un orto, un lago sinuoso con ponticello rustico e un pergolato sopra, un viale di arbusti ornamentali e un gran numero di reperti classici, tutti situati all’interno di un piccolo parco. Concepito come un idillio di campagna, era una vetrina architettonica per Soane, che sperava di ispirare i suoi figli e gli acculturati visitatori
allo studio dell’architettura. Si raggiungeva l’architettura studiando sia la casa che le rovine romane artificiali, costruite a nord della villa padronale. Progettata come una pubblicità per il proprio stile architettonico idiosincratico con i suoi particolari classici, le radicali combinazioni di colori e uso inventivo di spazio e luce, Egli avrebbe voluto che fosse una residenza adatta a suo figlio maggiore quando sarebbe diventato un architetto. Il nostro lavoro ha cercato di reinterpretare sensibilmente il disegno
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Fig. 10 Alexandra Road Park e la nuova area gioco. J & L Gibbons/ Sarah Blee.
originale, gran parte del quale era stato perso, e valorizzare al massimo il patrimonio residuo. Il parco è stato riprogettato per considerare modelli di utilizzo contemporanei all’interno di un quadro storico, che definisce strategie paesaggistiche calibrate su intervalli di tempo di 50-100 anni. Oltre al masterplan del parco venne sviluppato un programma di attività per incoraggiare una maggiore partecipazione di volontari, gruppi scolastici e organizzazioni del terzo settore nella gestione quotidiana del parco. Molte di queste attività hanno promosso una vita sana e un legame tangibile con la natura. In una città densa e trafficata come Londra la capacità di impegnarsi con la natura può essere un’abitudine facilmente dimenticata o in
casi estremi un’abitudine mai appresa. Attraverso tutti i nostri progetti e ricerche abbiamo esplorato l’opportunità di coinvolgere un pubblico più ampio con la natura e la città intorno a sé. Chiedendo alle persone di guardare da vicino l’ambiente, l’aspetto apparentemente insignificante e incidentale della natura può essere riformulato come una componente vitale dell’ambiente cittadino, della sua vivibilità ed economia. NOTE Turner T.H.D. 1982, Scottish Origins of ‘Landscape Architecture’, «Landscape Architecture», May 1982. Muir J. 1894, The Mountains of California. 2 Turner T.H.D. 1982, Scottish Origins of ‘Landscape Architecture’, «Landscape Architecture», May 1982. Muir J. 1894, The Mountains of California. 3 Geddes P. 1908, Town Planning and City Design, London Sociological Society. 4 Mcharg I. 1969, Design with Nature, Doubleday. 1
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Reverse Design Process: an experimentation in the understanding of Landscape Architecture’s Theory and Practice Claudia Mezzapesa
Non ci può essere un tutto dato, attuale, presente, ma solo un pulviscolo di possibilità che si aggregano e si disgregano. L’universo si disfa in una nube di calore, precipita senza scampo in un vortice d’entropia, ma l’interno di questo processo irreversibile possono darsi zone d’ordine, porzioni di esistente che tendono verso una forma, punti privilegiati da cui sembra di scorgere un disegno, una prospettiva. L’opera letteraria è una di queste minime porzioni in cui l’universo si cristallizza in una forma, in cui acquista un senso, non fisso, non definitivo, non irrigidito in un’immobilità mortale, ma vivente come un organismo. (Calvino, Lezioni americane)
Può il processo progettuale essere considerato la struttura del terreno che nutre teoria e pratica del progetto di paesaggio? I dibattiti più discussi nel campo della progettazione ruotano attorno a questa domanda. Il consistente numero di studi e ricerche sul tema alimenta le Scienze del paesaggio1 con strumenti originali e metodi innovativi in grado far progredire teoria e pratica. Nel testo Theory in Landscape Architecture, a Reader (2002), Simon Swaffield osserva che esiste un particolare legame tra teoria e contesto socio-politico nel quale il pensiero progettuale si sviluppa e arriva a sostenere una visione inclusiva delle teorie strumentali, critiche e interpretative al fine di comprendere meglio il progetto di paesaggio. Nel XX secolo, con il passaggio dal movimento moderno al post-modernismo, il pensiero progettuale ha subito un radicale cambiamento. In quel momento storico anche l’architettura del paesaggio è stata chiamata a dare nuove risposte tecniche e progettuali ai nascenti bisogni e problemi sociali. Il movimento moderno incoraggiava un approccio più individuale che vedeva il progettista interpretare il ruolo dell’artista creatore onnipotente. Le teorie si basavano sul principio che la forma segue la funzione. Il post-modernismo, invece, ha spostato l’attenzione su temi
quali la responsabilità, la sostenibilità, la tutela ambientale e la salute dell’uomo (Swiffield, 2002). La complessità di tali fattori ha incoraggiato a riconoscere il ruolo chiave del processo in qualsiasi attività progettuale. A partire dagli anni ’50 Hideo Sasaki inizia ad indagare sul processo mentale utilizzato per arrivare a un determinato risultato progettuale come un mezzo per risolvere problemi simili legati a situazioni e progetti diversi. Successivamente la rivoluzione ambientale stimola Ian McHarg a riformulare questo approccio teorizzando ‘The Ecological Method’ (1969). L’ecologia interpreta la natura come un processo. L’architettura del paesaggio, occupandosi anche della dimensione naturale, spiega la natura come processo casuale permettendo anche di predire usi del suolo compatibilmente allo sviluppo e alle richieste sociali. All’inizio degli anni ’70, Lawrence Halprin rivoluziona l’idea del processo come percorso lineare definendo un nuovo modello ciclico per la progettazione: RSVP Cycles. L’intento dell’RSVP Cycle non è quello di categorizzare o organizzare, ma piuttosto quello di garantire più gradi di libertà possibili al processo creativo rendendolo però visibile2. Negli anni ‘80 Lynch e Hack (1986) sottolineano come ogni progettista conforma il processo progettuale adattandolo alla propria esperienza e alle personali attitudini implicando una incremental adaptation3. Parallelamente l’analisi inventiva (1998) di Bernard Lassus presuppone da un lato la forza dell’immaginazione del progettista come motore dell’intero processo progettuale, dall’altro il dovere di indagare i luoghi e conoscere i suoi abitanti. Con il decostruttivismo si diffonde l’idea che, anche nel progetto di paesaggio i processi possano creare prodotti (Turner, 2014) e i parchi realizzati in quel periodo iniziano a prendere le distanze dal contesto
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Fig. 1 Tom Turner, il processo progettuale PAKILDA illustrato nel 1996.
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urbano e ecologico. La risposta a tale scollamento si ha anni dopo, quando il Landscape Urbanism4 si pone come obiettivo quello di mediare tra design with nature e design with culture. La soluzione è fare del paesaggio lo strumento strutturante le città (Turner, 2014). Nel 2001 Tom Turner prova a riformulare questo metodo progettuale dandogli il nome di PAKILDA5 e declinando il concetto di planning by layers in natural process layers e cultural layers. I layers vengono descritti come pattern del processo progettuale che a sua volta viene rappresentato come il volo apparentemente casuale di un’ape6 (fig. 1). Il dibattito tutt’ora acceso mette in evidenza che, così come non esiste un modello universale di processo progettuale, esistono invece principi di progettazione universalmente condivisi che aiutano il progettista a porsi i giusti quesiti e a scegliere tra le numerose risposte (Steinitz, 1995). Lo studio del processo progettuale ha, tra le altre finalità, l’obiettivo condiviso di nutrire e far avanzare teoria e pratica del progetto di paesaggio e la sperimentazione della lettura inversa del processo progettuale, al fine di intercettare principi condivisi e avanzamenti singolari, si colloca in questo settore di ricerca. Discipline vicine all’architettura del paesaggio, come l’ingegneria, l’architettura, l’ecologia, l’informatica, hanno più volte testato questo metodo ottenendo spesso risultati inattesi. L’attività di ingegneria inversa (Reverse Engineering) convenzionalmente viene definita come il processo di comprensione e scomposizione del processo progettuale al fine di individuare regole o eccezioni funzionali all’astrazione del processo stesso. L’obiettivo è quello di migliorare il funzionamento del dispositivo da produrre e quindi, indirettamente, arricchire di nuovi contenuti e metodi la teoria e pratica del progetto. Il grande limite della trasposizione di applicazioni simili al nostro cam-
po d’intervento sta nella considerevole distanza che separa discipline il cui processo progettuale è più facilmente monitorabile e l’architettura del paesaggio dove le variabili e i gradi di libertà progettuali rendono tale approccio di difficile e complessa applicazione7. Come sperimentare la lettura inversa del processo nel progetto di paesaggio? A metà degli anni ’60 Richard Serra scrive una lista di verbi8 che dichiara essere una lista di azioni riferite a sé stesse, al materiale, al luogo e al processo. L’elenco degli 84 verbi scritti a matita su due fogli di carta è ora esposto al MOMA di New York e rappresenta una sorta di manifesto della sua poetica e del suo processo progettuale. Lo stesso artista afferma: “when I first started, what was very, very important to me was dealing with the nature of process. So, what I had done is I’d written a verb list: to roll, to fold, to cut, to dangle, to twist… and I really just worked out pieces in relation to the verb list physically in a space” (fig. 2). Una possibile sperimentazione della lettura inversa del processo progettuale è quella di individuare le azioni ovvero i verbi che più caratterizzano le fasi comuni del processo progettuale e in seconda battuta utilizzarle come pattern9 di riferimento per la narrazione sperimentale della lettura inversa. Osservare, immaginare, disegnare, sperimentare, negoziare, prevedere, programmare e riprogrammare sono alcune chiavi di lettura, azioni e principi condivisi del processo progettuale che scandiscono come ricerca e progetto dialogano costruttivamente prima, durante e dopo la progettazione. James Corner afferma che il miglior modo per leggere l’architettura del paesaggio è partire dalla lettura del progetto10. È possibile infatti ipotizzare un parallelo tra la struttura ramificata del progetto e la struttura altrettanto ramificata dell’ipertesto.
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Fig. 2 Richard Serra, Verb List. 1967–68, The Museum of Modern Art, New York.
NOTE Pierre Donadieu definisce le scienze del paesaggio nel libro Scienze del paesaggio. Tra teorie e pratiche: “le scienze dell’ideazione dei progetti di paesaggio si realizzano avendo la possibilità di mobilitare conoscenze filosofiche (fenomenologia, ermeneutica), letterarie, artistiche, scientifiche e tecnologiche”. 2 “RSVP Cycle è uno schema bilanciato dove le parti sono collegate e interagiscono continuamente. Funziona meglio quando tutte le fasi vengono attivate. Il suo scopo è rendere visibili procedure e processi, per apportare una comunicazione costante per assicurare la diversità e il pluralismo necessari per il cambiamento e la crescita”. (Metta, Di Donato, 2014) 3 Secondo Lynch e Hack, le soluzioni progettuali iniziano con una metafora, poi la fattibilità tecnica e economica testano l’idea iniziale. Il fallimento di questa porta a tornare indietro e a pensare ad un nuovo approccio al problema. Per questo la progettazione è un processo dialettico tra invenzione e creazione. Questo processo ciclico di progettazione e controllo aggiunge e sottrae ispirazioni all’idea progettuale in una propensione incrementale al miglioramento. 4 Il termine viene coniato da Charles Waldheim nel 2006 in The Landscape Urbanism Reader. 5 PAKILDA è l’acronimo di Pattern-Assisted-Knowledge-Intensive-Landscape-DesignApproach. 6 “One difference between doctors and stagecoach drivers is that the later have a clearer view of where they are going… Bees also have clearer goals than doctors: to collect nectar and make honey. Yet they do not fly in straight lines. They proceed in a spiralling and apparently chaotic manner. The process of the environmental design is closer to the flight of a honey-bee than to the path or a stagecoach. It passes between four types of pattern, before settling on a proposed course of action. Each analogy indicates that the planning process must begin with an idea, or a vision, of some future state, not with a survey”. (Turner, City as landscape, p. 38) 7 “Design on an environmental backcloth differs from other types of design, in two crucial respects. First, it compares with drawing on sand or on the bark of a tree, rather than with drawing on white paper. Second, it differs because ‘the environment’ is not one thing or a thousand things: it is interpreted and used by each species and each individual in different ways, depending on their niche in society and in the ecosystem. You may think of your garden as a rectangle; babies, birds, worms and spiders will have different conceptions of the same space. Ideas about what the environment is lie at the heart of the design process”. (Turner, City as landscape, p. 38) 8 Richard Serra. Verb List. 1967–68. Graphite on paper, 2 sheets, each 10 x 8” (25.4 x 20.3 cm). The Museum of Modern Art, New York. 9 Pattern intesi come entità atemporali che entrano in relazione per definire un ‘pattern language ‘ progettuale. Questa idea è stata sviluppata nel saggio di architettura e urbanistica pubblicato nel 1977 da Christopher Alexander: A Pattern Language: Towns, Buildings, Construction. Come loro scrivono a pagina xxxv dell’introduzione: “Tutti i 253 pattern insieme formano un linguaggio”. I pattern descrivono un problema e poi offrono una soluzione. In questo modo gli autori intendono dare alle persone comuni, non solo ai professionisti, un modo di lavorare con i loro vicini per migliorare una città o un quartiere, progettare una casa per sé o lavorare con colleghi per progettare un ufficio, un’officina o un edificio pubblico come una scuola. 10 “Thus, the most effective form of critical thinking in landscape architecture occurs through working in landscape architecture. Similarly, the best readings of landscape architecture are the specific works themselves, the reception of which is only enhanced and enriched through subsequent representations (paintings, photographs, texts, etc.). plotting is therefore an active critical process, enacted and embodied in built form and subsequently enriched through representation and discourse. It is a mode of work. The critical thinker is simultaneously critic, strategist, communicator and maker”. (Corner J., Bick Hirsch A. 2014, The landscape imagination: collected essays of James Corner 1990-2010, Princeton architectural press, New York, pp. 44-45) 1
Ipertesto come scrittura non sequenziale, serie di brani di testo tra loro collegati, testo che si dirama e consente al lettore di scegliere e intraprendere differenti cammini, proprio come avviene nel processo progettuale. Calvino afferma che “la nostra civiltà si basa sulla molteplicità dei libri; la verità si trova solo inseguendola dalle pagine di un volume a quelle di un altro volume, come una farfalla dalle ali variegate che si nutre di linguaggi diversi, di confronti, di contraddizioni” (2015). Già negli anni ‘80 in una conferenza tenuta a Buenos Aires si chiede se “il libro assoluto non sarebbe dunque altro che un modello di cervello elettronico”. Il finale anticipa discussioni che diventeranno attuali dieci anni dopo: “Forse in futuro ci saranno altri modi di leggere che noi non sospettiamo. Mi sembra sbagliato deprecare ogni novità tecnologica in nome dei valori umanistici in pericolo; una società più avanzata tecnologicamente potrà essere più ricca di stimoli, di scelte, di possibilità, di strumenti diversi, e avrà sempre più bisogno di leggere, di cose da leggere e di persone che leggano” (Calvino, 2015). Quindi il progetto di paesaggio come testo aperto e non sequenziale: il paesaggio come ipertesto visto nella sua unicità di bene non riproducibile e strettamente legato alle specificità locali, alla realtà fisica e percepita. La sperimentazione del Reverse Design Process applicata al progetto-ipertesto rappresenta un nuovo modo di leggere e capire il processo progettuale che si cela e si manifesta nel progetto di paesaggio.
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Capitolo 4 I Progetti
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Gli Autori
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Enrico Falqui Professore Associato di paesaggio e pianificazione ambientale presso l'Università di Firenze, è il curatore scientifico del ciclo di seminari internazionali Open Session on Landscape. Membro di numerose organizzazioni internazionali, come UNISCAPE, ICOMOS e IAIA, è autore di numerose pubblicazioni e libri di istruzione scientifica, direttore di una serie di libri denominata “Terre e Paesaggi di confine” dal redattore ETS, Pisa, e direttore responsabile della rivista di architettura del paesaggio NIPmagazine (www.nipmagazine.it).
Guido Ferrara Urbanista e architetto del paesaggio, già docente di pianificazione territoriale e Architettura del Paesaggio presso l’Università di Firenze. Dal 1994 al 2000 è stato Presidente dell’Associazione Italiana di Architettura del Paesaggio (AIAPP), responsabile del 33° Congresso Mondiale della Federazione Internazionale di Architettura del Paesaggio (IFLA). Autore di numerosi libri e saggi, ha ottenuto i più alti riconoscimenti in vari concorsi nazionali ed internazionali sulla progettazione e pianificazione del paesaggio e dei sistemi urbani.
Ludovica Marinaro Architetto, PhD candidate in Architettura del paesaggio presso l’Università di Firenze, dal 2013 collabora all’attività didattica nei corsi di progettazione del paesaggio come cultore della materia e dal 2014 collabora con l'Osservatorio del Paesaggio della Catalogna. Coordinatrice esecutiva del ciclo di seminari internazionali Open Session on Landscape 2014-2016 dell’Università di Firenze, da Novembre 2015 è caporedattore della rivista scientifica NIPmagazine, (www.nipmagazine.it).
Emanuela Morelli Architetto, specializzata in “Architettura dei Giardini e Progettazione del Paesaggio”, dottore di Ricerca in Progettazione Paesistica, è Ricercatore in “Architettura del paesaggio”. Ha pubblicato vari contributi nell’ambito dell’Architettura del paesaggio. In ambito professionale si è occupata di progettazione del paesaggio alle varie scale sia per privati sia per Enti pubblici. Ha partecipato inoltre con successo a concorsi di progettazione nazionali e internazionali.
Gli Autori
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Antonella Valentini Architetto, con specializzazione post-laurea e PhD in Progettazione Paesistica. Svolge dal 1996 attività di ricerca presso il Dipartimento di Architettura di Firenze, dove è docente a contratto di Urban Landscape Design. È membro della redazione di «Ri-Vista». Ricerche per la progettazione paesistica e di Architettura del Paesaggio. Cofondatrice dello studio Paesaggio2000 di Firenze, esercita attività professionale nel campo della pianificazione e progettazione del paesaggio.
G. Pino Scaglione Architetto-urbanista, professore di Progettazione Urbana e del Paesaggio, presso l’Università di Trento e docente invitato in università italiane e straniere. Fonda lo studio associato Scaglione&Leone, nel 1984, nel 1996 espone alla VI Biennale di Architettura di Venezia. Ha fondato e diretto la Rivista Italiana d’Architettura, ed è direttore delle riviste monograph. it e ALPS. Ideatore e coordinatore di TALL/ FULLDesign TrentinoAltoAdige Advanced Landscape design Lab (Università di Trento), e le attività editoriali ed espositive collegate.
Franco Panzini Architetto e paesaggista ha pubblicato numerosi libri sulla storia dei giardini, fra cui i volumi: Per i piaceri del popolo. L’evoluzione del giardino pubblico in Europa dalle origini al XX secolo, Zanichelli 1993; Progettare la natura, Zanichelli 2005, edizione in lingua portoghese Projetar a natureza, Senac — São Paulo 2013. È membro dei consigli di redazione delle riviste «Studies in the History of Gardens & Designed Landscapes» e «Architettura del Paesaggio». Insegna presso il presso il Master IUAV in architettura del paesaggio e del giardino e il Master OPEN — Architettura del paesaggio dell’Università Roma Tre.
Marta Buoro Architetto paesaggista, si laurea prima a Genova in Tecniche per la Progettazione del Paesaggio, per poi proseguire gli studi a Firenze e Lisbona. Dopo l'esperienza a Tenerife presso lo Studio PalTab (http://paltab.com/), frequenta il Dottorato di Ricerca in Architettura del Paesaggio presso l'Università di Firenze. È coordinatrice di Open Session on Landscape 2015-2016, redattrice della rivista NIPmagazine (http://www.nipmagazine.it/) e assistente del Laboratorio dei Sistemi Verdi Territoriali del CdL in Architettura del Paesaggio dell'Università di Firenze.
Open Session on Landscape 2016
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Francesco Ferrini Professore Ordinario di Arboricoltura presso il Dipartimento di Scienze delle Produzioni Agroalimentari e dell’Ambiente di Firenze e, dal 1 novembre 2015, Presidente della Scuola di Agraria. Da oltre 20 anni conduce un’intensa attività di ricerca e sperimentazione che gli ha consentito il raggiungimento di positivi risultati nei settori dell’arboricoltura urbana e del vivaismo ornamentale pubblicati in oltre 260 lavori su riviste nazionali e internazionali di carattere scientifico, tecnico e divulgativo, e presentati in oltre 120 convegni italiani ed esteri.
Fabio Manfredi Architetto, PhD in Architettura del Paesaggio. Attualmente docente presso Quasar Design University ha svolto attività di ricerca e didattica presso l’Università Mediterranea di Reggio Calabria, la TU-Delft (Olanda), KU-Leuven (Belgio). È stato consulente del Dipartimento di Urbanista della Regione Calabria e dell’Observatori del Paisatge de Catalunya (Spagna).
Kongjian Yu Professore di Design di Harvard GSD, insegna dal 1997 pianificazione urbana, regionale e architettura del paesaggio alla Peking University, di cui è fondatore e decano del Collegio di architettura e paesaggio. Fonda Turenscape nel 1998 la cui attività di progettazione è diventata in pochi anni un marchio di eccellenza a livello internazionale. Ha vinto tre primi premi al World Landscape Architecture Festival 2009-2010-2011 e 12 premi ASLA (American Society of Landscape Architects).
Teresa Galì-Izard Fondatrice dello studio ARQUITECTURA AGRONOMIA, Professore associato ed ex presidente del Dipartimento di Architettura del Paesaggio presso UVA. Negli ultimi 20 anni il suo studio è stato coinvolto in alcuni dei più importanti progetti di architettura del paesaggio contemporaneo in Europa, tra cui la nuova urbanizzazione di Passeig de Sant Joan e il restauro della discarica di Sant Joan a Barcellona. Galí-Izard è autrice di Gli stessi paesaggi. Idee e interpretazioni, GG 2005 e co-editrice di Jacques Simon.
Gli Autori
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Joao Nunes Architetto del paesaggio e direttore internazionale dello studio PROAP delle tre sedi di Lisbona, Luanda e Treviso di cui coordina l’attività progettuale, concettuale e creativa, João Ferreira Nunes insegna presso l’Università Tecnica di Lisbona e l’Università degli Studi di Sassari, Facoltà di Alghero.
Daniela Colafranceschi Architetto e professore ordinario, ha insegnato in molte università internazionali (Barcellona, Girona, Malaga, Las Palmas, Còrdoba-Argentina, Montevideo, Punta del Este, Maldonado-Uruguay, Rabat e Addis Abeba). Nel 2003 vince il premio “FAD, arcquitectura efimera” con il progetto del giardino del Museo di Storia della Città a Girona. Svolge attività di ricerca soprattutto nell’ambito dei paesi mediterranei, studiando i caratteri che ne identificano la complessità.
Lorenza Fortuna Architetto paesaggista, studia prima Scienze dell’Architettura a Roma e poi Architettura del Paesaggio a Firenze, focalizzando il suo interesse sull’interpretazione e la progettazione degli spazi aperti. Svolge l’attività professionale attraverso progetti, ricerche, workshop e attività di trasformazione diretta del paesaggio, praticando e promuovendo l’agricoltura urbana. Collabora da due anni con la rivista NIPmagazine (www.nipmagazine.it) e con il programma formativo Open Session On Landscape.
Nicoletta Cristiani Architetto, laureata presso la Scuola di Architettura dell'Università degli Studi di Firenze. Cultore della Materia in Progettazione e gestione degli spazi verdi presso il corso di laurea magistrale di Architettura del Paesaggio a Firenze. Collabora con lo studio di Architettura del Paesaggio di Franco Zagari a Roma. È coordinatrice del ciclo di seminari internazionali Open Session On Landscape fin dalla prima edizione del 2014. Redattrice e Responsabile Blog della rivista scientifica online Network in Progress (www.nipmagazine.it).
Open Session on Landscape 2016
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Gabriele Paolinelli Professore di progettazione paesaggistica al corso di laurea magistrale in Architettura del paesaggio dell’Università di Firenze, dirige il Landscape Design Lab e la rivista scientifica Ri-Vista del Dipartimento di Architettura, dove coordina anche il curriculum di dottorato di ricerca in Architettura del paesaggio. È revisore per riviste scientifiche nazionali ed internazionali e consulente per enti pubblici e privati.
Tessa Matteini Architetto, paesaggista e Phd in Progettazione Paesistica, lavora come progettista e ricercatrice nel campo dell’architettura del paesaggio. Con Anna Lambertini è titolare a Firenze dello studio professionale limes. Insegna presso le Università di Firenze (DIDA), Venezia (IUAV, dCP) e Bologna (dA).
Lynn Kinnear Architetto paesaggista, fondatrice dello studio Kinnear Landscape Architects (KLA), vanta una comprovata esperienza in progetti innovativi che combinano Arte, Architettura e Paesaggio. Attualmente dirige un vasto gruppo interdisciplinare come capo progetto del “Walthamstow Wetlands” ed è consulente presso la All London Green Grid (ALGG) per l’area delle Pianure Londinesi, presso CABE, Design for London e il Lewisham Design Review Panel.
Anne Sylvie Bruel Architetto paesaggista, laureata presso la Scuola Nazionale di Paesaggio di Versailles, lavora dal 1989 con Christophe Delmar. Insegna in molte scuole di architettura e alla scuola di paesaggio di Versailles, dal 2014 è Paesaggista del Consiglio di Stato. authorities.
Gli Autori
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Christophe Delmar Architetto paesaggista laureato presso la Scuola Nazionale di Paesaggio di Versailles. Divide il suo tempo tra il Laboratorio del paesaggio, il suo ruolo di consulenza paesaggistica per la città di Rennes e la Facoltà di Architettura della Città e del Territorio a Marne la Vallée affrontando questioni territoriali per i grandi enti locali.
Neil Davidson architetto paesaggista e partner di J & L Gibbons, si è formato presso il College of Art di Edimburgo dove è stato poi docente così come all’Università di Cambridge ed ha inoltre insegnato alla Architectural Association di Londra. I suoi progetti comprendono piani strategici subregionali, spazi pubblici, il restauro di un parco pubblico finanziato dalla Heritage Lottery e piani urbani di uso misto. Neil è consulente del Design Council/CABE, come esperto del Built Environment.
Anna Lambertini Architetto e paesaggista, è professoressa associata di Architettura del paesaggio presso l’Università degli Studi di Firenze e insegna presso l’Ecole Euro — méditerranéenne d’Architecture, Design et Urbanisme di Fés. Co-fondatrice dello studio limes architettura del paesaggio, è membro del comitato scientifico della Fondazione Benetton Studi e Ricerche per il Paesaggio. Tra le sue pubblicazioni: Urban Beauty. Luoghi prossimi e pratiche di resistenza estetica e Margini e spazi aperti delle città in trasformazione. Dal 2016 è direttore responsabile e scientifico della rivista di AIAPP Architettura del Paesaggio.
Johanna Gibbons Membro del Landscape Institut è partner fondatore di J & L Gibbons fondata nel 1986. È consulente del English Heritage, della Commissione forestale, del sindaco di Londra e del College of Art di Edimburgo dove si è formata in Architettura del Paesaggio. La sua premiata attività di progettazione concerne il patrimonio, l’infrastruttura verde e la rigenerazione urbana promuovendo un processo di pianificazione deliberativa ed nn approccio collaborativo alla progettazione.
Open Session on Landscape 2016
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Claudia Mezzapesa Architetto e PhD candidate in architettura del paesaggio presso lâ&#x20AC;&#x2122;UniversitĂ di Firenze. Nomade tra Puglia e Toscana, ha collaborato alla progettazione e realizzazione di giardini pubblici e privati in Italia e allâ&#x20AC;&#x2122; estero. La sua ricerca di dottorato sperimenta la lettura del processo progettuale attraverso lo studio dei paesaggisti J&L Gibbons.
Finito di stampare per conto di
didapress Dipartimendo di Architettura UniversitĂ degli Studi di Firenze Novembre 2017
Ideato e curato dal curriculum in Architettura del paesaggio del dottorato di ricerca in Architettura dell’Università degli Studi di Firenze, il programma è promosso dal Dipartimento di Architettura, in collaborazione con il Corso di laurea magistrale in Architettura del paesaggio e il Master in Paesaggistica.
ISBN 9788833380018
didaworkshop
OPLÀ 2016 Open Session on Landscape 2016.